Archeo n. 425, Luglio 2020

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FORO ROMANO

ARCHEOLOGIA E NAZIONI

OPITERGIUM

ETRUSCHI A NAPOLI

SPECIALE FARAONI A MILANO

PARLA FILIPPO COARELLI w. ar

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VENETO

I SECOLI DI OPITERGIUM

NAPOLI

RIVELAZIONE ETRUSCA

L’INTERVISTA

IL PASSATO INVENTATO

ARCHEOLOGIA E POLITICA

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IN EDICOLA IL 9 LUGLIO 2020

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2020

Mens. Anno XXXV n. 425 luglio 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 425 LUGLIO

FORO ROMANO

€ 5,90



EDITORIALE

LA CADUTA DEGLI DÈI Le proteste esplose a livello mondiale lo scorso giugno in seguito all’uccisione di George Floyd – il cittadino afroamericano morto per le violenze che hanno accompagnato il suo arresto da parte della polizia di Minneapolis – hanno riacceso i riflettori su una questione che, in apparenza, poco sembra avere a che fare con quei drammatici fatti di cronaca: la polemica intorno all’opportunità di rimuovere dalla facciata dell’Oriel College di Oxford la statua che rappresenta il suo mecenate massimo, Cecil Rhodes (1853-1902), politico e uomo d’affari, simbolo per eccellenza della spregiudicatezza coloniale britannica. Rhodes non è certo una figura a favore della quale, oggi, spezzeremmo volentieri una lancia. Convinto della supremazia della «razza anglofona» che considerava la «prima del mondo», riuscí nell’impresa di portare due regni africani indipendenti sotto il diretto controllo britannico, imprimendovi il proprio nome: Rhodesia settentrionale, l’odierno Zambia, e Rhodesia meridionale, oggi Zimbabwe. Da decenni il movimento d’opinione Rhodes Must Fall («Rhodes deve cadere») preme per «decolonizzare l’Università di Oxford» e per rimuovere le statue inneggianti all’uomo che aveva accumulato un patrimonio immenso attraverso lo sfruttamento delle miniere di diamanti dell’Africa australe… Il caso Rhodes non è l’unico, però. In Europa e anche oltreoceano, voci si sono levate contro le effigi di altri personaggi storici ritenuti malfattori dell’umanità, tra cui Leopoldo II, re del Belgio (reo di aver perpetrato, sempre a fini di lucro, atrocità innegabili nei suoi allora possedimenti africani, l’odierna Repubblica Democratica del Congo) e… lo stesso Cristoforo Colombo. Viviamo in un’epoca in cui le statue cadono, vengono abbattute, distrutte: ricordiamo quelle di Stalin e, piú di recente,

del dittatore iracheno Saddam Hussein. Prevale l’accanimento, motivato o meno che sia, contro i segnacoli della memoria. Diversamente da quanto accadde nel lasso di tempo compreso tra gli inizi dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, quando l’Occidente si riempí di statue e targhe in memoria di fondatori e costruttori dei nascenti Stati nazione. Ne sono ancora piene le nostre città. Era l’epoca in cui, per consolidare il nuovo presente, venne chiamato a raccolta anche il passato («un passato eroico, di grandi uomini, di gloria» sono – secondo la celebre definizione di Ernest Renan del 1882 – gli ingredienti del «capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale») e, insieme a esso, la disciplina che ne indaga «scientificamente» le pieghe, l’archeologia. A questa affascinante – e straordinariamente attuale – pagina della nostra storia recente è dedicata la nuova serie, a firma di Umberto Livadiotti, che inauguriamo in questo numero (vedi alle pp. 44-59). E che farne della statua di Rhodes (e dei tanti altri)? Personalmente le trovo brutte (nessun Cellini, nessun Canova vi ha mai infuso alcuna genialità d’arte) e sgradevoli nel loro messaggio di boriosa tracotanza (mi verrebbe la voglia, insomma, di…staccare loro il naso!). Preferisco, però, rimettermi al giudizio di un uomo davvero saggio, il compianto presidente del Sudafrica, Nelson Mandela. Interrogato sulla questione della rimozione, aveva risposto che la storia andava vista da tutte le angolature e, pertanto, era necessario conservare la memoria di quello che la gente aveva pensato un tempo, anche se oggi siamo di opinioni contrarie. E che dalla storia si possono trarre insegnamenti solo se «portiamo con noi anche il ricordo degli errori».

Il busto «vandalizzato» di Cecil Rhodes al Rhodes Memorial di Città del Capo, Sudafrica.

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE La caduta degli dèi

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

PASSEGGIATE NEL PArCo Prima d’essere scelta come sede dei palazzi imperiali, l’area del Palatino era fra le piú ambite di Roma e tra i suoi illustri residenti annoverò anche Cicerone 10 ALL’OMBRA DEL VULCANO Il Parco archeologico di Pompei ha riaperto i battenti e ha aggiunto nuove e inedite tappe ai suoi percorsi di visita 12 A TUTTO CAMPO Oltre un secolo fa, lungo i binari che videro passare sferragliando il leggendario Orient Express, l’allora capitale ottomana fu teatro di un autentico

esperimento di «archeologia pubblica» ante litteram 16

PAROLA D’ARCHEOLOGO Mosaici che raffigurano ananas, affreschi sui quali si riconoscono pappagali sudamericani: se questi due (e altri) indizi fanno una prova, Cristoforo Colombo non fu il primo a raggiungere il continente americano 18

ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/1

Uniti da un passato comune 44 di Umberto Livadiotti

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE

44

di Louis Godart

SCAVI

I padroni del fuoco

28

I secoli di Opitergium 60

L’INTERVISTA

Quelle rovine cosí belle, cosí difficili

32

intervista a Filippo Coarelli, a cura di Giuseppe M. Della Fina

32

testi di Margherita Tirelli, Elisa Possenti, Marta Mascardi e Maria Cristina Vallicelli

60 In copertina ricostruzione ipotetica del settore nord-occidentale del Foro Romano in un acquerello del 1893.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVI, n. 425 - luglio 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Fulvio Coletti è assistente tecnico archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Maria Grazia Filetici è architetto del Parco archeologico del Colosseo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giulia Giovanetti è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Marta Mascardi è conservatore del Museo archeologico Eno Bellis di Oderzo Cultura. Elisa Possenti è professore associato di archeologia cristiana e medievale all’Università degli Studi di Trento. Francesco Tiradritti è direttore della Missione Archeologica Italiana a Luxor. Margherita Tirelli è stata direttore archeologo della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Veneto. Maria Cristina Vallicelli è funzionario archeologo della Soprintendenza


MOSTRE

L’oro di Napoli

78

di Giuseppe M. Della Fina, con un’intervista a Paolo Giulierini

78

92

Rubriche

SPECIALE

SCAVARE IL MEDIOEVO

Vedere l’invisibile

Doppio salto mortale 108 di Andrea Augenti

Egitto

92

a cura della Redazione, con un contributo di Francesco Tiradritti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Quell’immagine dai poteri sovrumani 110

108

di Francesca Ceci

LIBRI

112

110

Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso. Enrico Zanini è professore ordinario di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Siena.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 36/37) e pp. 3, 17, 18 (basso), 20, 34/35, 40, 46, 50 (basso), 50/51, 52-53 – Cortesia SABAP Friuli-Venezia Giulia: pp. 6-7 – Cortesia SABAP Marche: p. 8 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 14-15 – Cortesia David Hendrix/The Byzantine Legacy: p. 16 – Cortesia degli autori: pp. 19, 21, 110-111 – Mondadori Portfolio: p. 109 Album/Oronoz: pp. 29, 30; Ashmolean Museum, University of Oxford/Heritage Images: p. 31; AKG Images: pp. 38/39, 49, 56-57, 84/85, 108; SIPA-USA: p. 50 (centro) – Shutterstock: pp. 32/33, 44-45, 46/47, 48/49, 54/55. 58/59 – da: Filippo Coarelli, Il Foro Romano III. Da Augusto al tardo impero (Edizioni Quasar, Roma 2019): p. 38 – Carole Raddato: pp. 40/41 – National Portrait Gallery, Londra: Walter Stoneman: p. 58 – Bridgeman Images: pp. 60/61 – Archivio fotografico Oderzo Cultura: Gianni Benedetti: p. 62; Museo archeologico Eno Bellis: pp. 67, 76, 76/77; Veronica Tondato: illustrazione a p. 74 – Archivio fotografico SABAP-VE-MET: pp. 63, 64-65, 66, 68-69, 72-73, 77; Maddalena Santi: pp. 70-71, 74 (basso), 75 – Cortesia Uffici Stampa mostra «Gli Etruschi e il MANN»: pp. 78, 79 (basso), 80-81, 82, 82/83, 85, 86/87 (alto), 87, 88, 89 (destra), 90-91; Giorgio Albano: pp. 83 (alto), 86/87 (basso), 89 (alto) – Cortesia Uffici Stampa mostra «Viaggio oltre le tenebre. Tutankhamon RealExperience»: pp. 92-95, 100-104, 106-107 – Cortesia Civico Museo Archeologico, Milano: pp. 96-99 – Cortesia Taschen GmbH/Sandro Vannini: p. 105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 62, 79

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n otiz iari o SCAVI Friuli-Venezia Giulia

GORIZIA SI SCOPRE PIÚ ANTICA

I

ndagini archeologiche condotte nell’ambito dei lavori di riqualificazione di Corte S. Ilario hanno restituito nuovi dati per la conoscenza della storia di Gorizia. Nell’area a sud del Duomo è stata riportata in luce una zona cimiteriale, di cui sono state individuate oltre un’ottantina di

In questa pagina: Gorizia, Corte S. Ilario. Due immagini della struttura ottagonale interpretata come ossuario.

tombe, ma i dati piú innovativi riguardano la datazione del deposito archeologico sul quale insistono il sepolcreto e le strutture a esso legate. «Le inumazioni, orientate estovest, e relative a individui di entrambi i generi e di tutte le fasce di età – spiega Paola Ventura, funzionario archeologo della Soprintendenza – recavano scarsi elementi di corredo (rosari, croci e medagliette in bronzo, alcuni anelli, bottoni), e appaiono inquadrabili in un arco cronologico di almeno quattrocento anni: sulla base delle fonti storiche l’inizio dell’uso del cimitero viene ipotizzato già nel Quattrocento (la presenza del Duomo è accertata infatti dalla fine del Duecento, forse sul luogo di una piccola cappella precedente), mentre il termine viene posto nella seconda metà del Settecento. Lo scavo ha consentito di rimettere in luce una struttura di forma ottagonale (dimensioni interne 5 x 5 m), raffigurata su una planimetria del 1583 e già interpretata come battistero. Una lettura che non è stata però confermata dai dati di scavo: l’edificio, con un piano di calpestio interno seminterrato, a cui si

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accedeva mediante alcuni gradini in pietra, è stato invece certamente utilizzato, forse fin da principio, come ossuario, inserendosi in una fase già avanzata del cimitero. Infatti nella fascia compresa fra l’ottagono e il lato sud del Duomo, sono state rinvenute e scavate alcune sepolture sicuramente riferibili a un’epoca antecedente, a causa della maggiore profondità e della tecnica di esecuzione delle fosse. Sono stati perciò prelevati campioni ossei da inumazioni delle diverse fasi, per future analisi al radiocarbonio che potrebbero fornire indicazioni sulla durata d’uso del cimitero. Novità ancor piú inaspettate sono giunte dall’indagine nello strato argilloso/sabbioso in cui si inserivano la struttura e le tombe, formatosi probabilmente in seguito all’accumulo di fango e di detriti provenienti dalle pendici del colle del Castello che sovrasta il sito: in

A destra: un settore dello scavo in cui l’indagine ha messo in luce gli strati con materiali protostorici che giacciono sotto i livelli interessati dalla presenza delle sepolture di epoca medievale e moderna. In basso: alcune delle sepolture intercettate nei livelli piú alti del deposito.

una sorta di fosso, è stata individuata una concentrazione di pezzi di arenaria scottata frammisti a frammenti ceramici riferibili ad almeno una mezza dozzina di vasi, in parte ricomponibili, databili al momento di passaggio tra l’età del Bronzo Medio e quella del Bronzo Recente, attorno al 1400-1300 a.C., che rappresentano quindi la prima attestazione localizzata di presenze cosí antiche a Gorizia. Non è al momento possibile accertare se anche questi materiali siano giunti in questa zona pianeggiante della città in seguito a dilavamento da un insediamento

collocato sull’altura, analogamente a numerosi esempi nel territorio circostante il capoluogo. Una preesistenza protostorica nella città (la cui prima citazione nelle fonti risale al 1001) era stata postulata in passato solo sulla base di materiali sporadici, ma finora mai dimostrata». L’intervento archeologico è stato eseguito da Arxé s.n.c., incaricata dal Comune di Gorizia, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia. Giampiero Galasso

archeo 7


n otiz iario

SCAVI Marche

I PICENI A MORROVALLE

N

uovi siti archeologici sono emersi durante recenti controlli di archeologia preventiva eseguiti in occasione dei lavori di realizzazione del metanodotto San Marco-Recanati. Tra i rinvenimenti piú estesi finora rilevati, spicca l’area archeologica intercettata in località contrada Burella, nel territorio del comune di Morrovalle (Macerata), dove è stata scoperta una necropoli riferibile all’età tardo-orientalizzante. «Sulla sommità del pianoro di contrada Burella, alla sinistra idrografica del fiume Chienti – spiega il direttore scientifico dello scavo Stefano Finocchi, funzionario archeologo della Soprintendenza – è stata intercettata un’area di circa 400 m lineari, che ha restituito dati che colmano significative lacune storiche per il territorio, coprendo un arco cronologico compreso tra l’età del Bronzo Antico all’epoca romana. Per l’età del Ferro, le testimonianze archeologiche sono rappresentate da sepolture pertinenti a una piú vasta necropoli del VII-VI secolo a.C., indagata e scoperta per la prima volta grazie ai lavori del metanodotto. La necropoli è caratterizzata da tombe che dovevano essere monumentalizzate da tumuli, circondati da grandi fossati anulari con fosse di deposito centrali, nelle quali veniva collocato il corredo funerario. La totale assenza di resti scheletrici e del corredo personale dell’inumato, a eccezione di sporadici elementi trovati in superficie, rimandano a una tipologia di sepolture a tumulo riscontrabile in altre necropoli del Piceno. La mancanza degli scheletri va riferita a fattori di cattiva conservazione, causata spesso, come in questo

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caso, dal modesto spessore del terreno arativo e dall’intensa attività agricola moderna che, nel tempo, ha provocato il disfacimento dei tumuli. I dati di scavo permettono in ogni modo una ricostruzione e interpretazione scientifica, che vede la deposizione del defunto al di sopra della fossa, ove veniva disposto il corredo vascolare, simbolo della sua identità sociale. Nelle sepolture il rito del simposio è ben sottolineato dalla presenza di elementi come kantharoi, grandi e piccole olle globulari, calici e ciotole su piede a tromba, nonché spiedi in ferro, che sottolineano il consumo delle carni, ribadendo l’alto lignaggio dei defunti. Materiali che suggeriscono la presenza di un vero e proprio set per il consumo del vino. A un primo esame, le tipologie dei vasi, oltre che con l’ambiente piceno, trovano confronti con l’Etruria e la Sabina, testimoniando e confermando anche per la comunità locale un inserimento nei circuiti economici e culturali già ben noti per altri insediamenti del Piceno in epoca tardo-orientalizzante. La scoperta della necropoli picena di Morrovalle aggiunge dunque un nuovo tassello nel quadro delle necropoli tardo-orientalizzanti del

Piceno, in un territorio nel quale fino a ora non erano noti ritrovamenti ascrivibili all’età del Ferro. Malgrado l’area di scavo abbia probabilmente intercettato il margine di un sepolcreto ben più esteso, le tombe indagate hanno fornito preziose informazioni sul rito funerario e sulla tipologia tombale in uso nel territorio della bassa valle del Chienti». Alle indagini, condotte sotto la direzione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche hanno partecipato gli archeologi Isabella Piermarini, Fabio Fazzini, Daniele Russo (Società Cooperativa Archeologia). G. G. In alto: Morrovalle (Macerata). Veduta a volo d’uccello dell’area in cui è stata scoperta la necropoli. A sinistra: kyathos (tazza a un manico) in impasto, dalla tomba 10.



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

I SIGNORI DEL PALATINO UN VASTO PIANO DI STUDIO, RESTAURO E VALORIZZAZIONE GETTERÀ NUOVA LUCE SULLA STORIA DELLA SONTUOSA DOMUS TIBERIANA E SULLE VICENDE DELLE RICCHE DIMORE TARDO-REPUBBLICANE DI CUI PRESE IL POSTO

L

a Domus Tiberiana è oggetto di un progetto di restauro, studio e valorizzazione, «Domus Tiberiana, Imago Imperii», che permetterà la prossima riapertura al pubblico delle sostruzioni adrianee. Il piano prevede interventi che, nel tempo, consentiranno di restituire alla visita le tre vie che attraversano il Palatino su altrettanti diversi livelli: itinerari sui quali si affacciavano gli ambienti monumentali con differenti funzioni. Scrigno di ricchezze uniche per bellezza, monumentalità e incanto, la Domus Tiberiana racchiude angoli sconosciuti che, se da una parte raccontano le vicende della vita quotidiana della Roma imperiale, dall’altra svelano i sontuosi spazi frequentati dalle corti che fruirono del palazzo per oltre sei secoli. In prospettiva, si percepiscono le trasformazioni che, in duemila anni, hanno cambiato gli edifici e lo stesso colle: l’antica magione fu lentamente destrutturata dalla fine dell’età antica e diversamente articolata e fruita nelle epoche successive, come nella fase in cui, entrando a far parte della proprietà farnesiana dal 1550, fu trasformata nel primo fastoso giardino all’italiana, gli Horti Farnesiani. Questa iniziale digressione ci

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introduce alla problematica inerente le case tardo-repubblicane del versante occidentale del Palatino, in quanto le vicende costruttive della Domus Tiberiana sono intimamente connesse alle loro vicende topografiche e architettoniche.

UN PALAZZO SMISURATO Con la sua enorme mole, il palazzo prese infatti il posto dell’antico distretto di domus abitate

dall’aristocrazia senatoria, seppellendole sotto potenti colmate, la cui rimozione ha consentito di definire le dimensioni e le caratteristiche in termini di ricchezza e articolazione architettonica del quartiere residenziale fino al primo impero. La grande quantità di dati sulle strutture riferibili a quella fase edilizia riguarda essenzialmente le case del versante ovest, per le quali vi è la straordinaria convergenza di


una ricca messe di informazioni desunte dalle fonti letterarie che, dialogando con i dati archeologici, permettono di proporne l’identificazione. Le indagini hanno consentito di identificare quattro isolati costituiti da domus che si sviluppavano su terrazze lungo la pendice occidentale, dal livello del vicus huiusce diei, l’antica viabilità che costeggiava in discesa da mezza costa il Palatino in collegamento dalle Scalae Anularie o Grecae alla bassa valle del Velabro, fino alla sommità del colle.

A destra: Roma, Palatino, Domus Tiberiana, angolo sud-ovestCasa tardorepubblicana. Pitture della parete est del vano centrale in tardo III stile. Nella pagina accanto: Roma, Palatino. Planimetria della Domus Tiberiana.

LA CASA DI CICERONE? Il complesso architettonico piú ricco per attestazioni materiali e notizie riportate dalle fonti è l’isolato in prossimità dell’angolo nord-occidentale del Palatino. Si tratta di una residenza sulla quale la letteratura scientifica ha voluto identificare la casa in cui Cicerone visse tra il 69 e il 58 a.C., anno del suo esilio a Laodicea, della confisca dei beni dell’oratore, della demolizione della sua abitazione e in suo luogo della costruzione dell’Ara Libertatis per effetto di un decreto dell’agosto 58 a.C. voluto dal tribuno C. Clodio, suo acerrimo nemico. Gli scavi hanno permesso di definire lo spazio di occupazione di questa residenza che si sviluppava su piú livelli, con una parte pubblica al piano terreno, mentre i cubicula privati potevano avere luogo nei piani alti. L’edificio presenta diverse fasi di ricostruzione e ristrutturazione, succedutesi fra la prima metà del I secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C.: una fase originaria, con muri in opera reticolata; una successiva riedificazione, caratterizzata da un grande basamento di blocchi di travertino nel quale si sono voluti identificare i resti del sacello dedicato a Libertas del 58 a.C.; infine, una nuova costruzione del fabbricato in opera laterizia, con pareti in

laterizio e ricche decorazioni in stucco in III stile. Grazie alle indagini archeologiche per la messa in sicurezza del tratto del bastione Farnesiano in corrispondenza di S. Teodoro, crollato nel 1818, sono state rinvenute una domus e altre straordinarie testimonianze monumentali, che coprono oltre un millennio di storia, dal VI secolo a.C. al VII secolo d.C. Questo patrimonio è stato il centro del progetto di studio, scavo archeologico e restauro curato dalla Soprintendenza fin dal 1979 e dal Parco archeologico del Colosseo dal 2016. Tra le criticità da affrontare emergevano la delicatissima situazione geotecnica e strutturale sui fronti della Domus Tiberiana, gli scivolamenti fondali registrati dai monitoraggi fin dagli anni Novanta del Novecento, diffusi stati di instabilità del masso roccioso e delle strutture murarie, enfatizzate dalle sottrazioni di materiali edili, di tufo dal masso roccioso e dei blocchi lapidei di fondazione operate dai cavatori nei secoli per il riuso dei materiali da costruzione in altre fabbriche. Abbiamo potuto

disegnare il quadro diagnostico dei pericoli esistenti e intervenire al fine di ripristinare condizioni di sicurezza adeguate.

FINTI MARMI, FIORI E UCCELLI Dell’edificio tardo-repubblicano si sono riconosciute diverse fasi costruttive tra la fine del II secolo a.C. e la metà del I secolo a.C. Di straordinario valore estetico e documentario sono le pitture in primo stile avanzato del piano ipogeo, che presentano specchiature in finti marmi policromi tra i quali si riconosce il finto giallo antico e il portasanta. Al piano terreno, invece, tre vani si affacciano sul lato nord dell’atrio, di cui quello centrale presenta le pareti decorate in terzo stile, con scene di caccia tra animali, intervallati da festoni ai quali sono appesi maschere e oggetti liturgici. La volta a botte, rinvenuta in crollo, è invece vivacemente dipinta con tralci di fiori e racemi di varie piante ornamentali, tra i quali spiccano diverse tipologie di uccelli inscritti entro spazi rettangolari. Maria Grazia Filetici e Fulvio Coletti

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

TUTTI A CASA DEI CORNELII TRA LE PRIME ABITAZIONI POMPEIANE A ESSERE SCOPERTE, QUELLA DEI CORNELII DIVENNE BEN PRESTO – GRAZIE AL SUO AFFASCINANTE APPARATO DECORATIVO – OGGETTO DELL’ATTENZIONE DI VEDUTISTI E FOTOGRAFI OTTOCENTESCHI. OGGI, A RESTAURO COMPLETATO, LA DIMORA SI PRESENTA COME FULCRO DI UN NUOVO PERCORSO DI VISITA

I

l Parco archeologico di Pompei riapre e molte sono le novità. L’itinerario di visita è stato concepito all’aperto e di passaggio in alcuni edifici che consentono un agevole fluire delle persone. Pertanto, in tutta sicurezza, le nostre attenzioni si possono soffermare su tre contesti visitabili rimasti inediti al pubblico. Appena restaurata, l’elegante Casa dei Cornelii, che si apre quasi di fronte a una delle piú frequentate terme cittadine, le Stabiane, sul quadrivio degli Olconii, è fra le prime residenze scoperte a Pompei (1766), e fu poi estesamente indagata da Giuseppe Fiorelli a partire dal 1861. Sul finire dell’Ottocento, la domus era divenuta tappa fissa di ogni visita alla città, perché impreziosita nell’atrio tuscanico da un ricco arredo di sculture, ora in parte esposto nei Granai del Foro. Presso il tablino, si trovava il busto-ritratto in marmo di un antenato illustre della famiglia, Caius Cornelius Rufus, conservato nell’Antiquarium degli Scavi. L’abbellimento della domus, all’inizio dell’età imperiale, rispondeva al desiderio di nobilitazione dei suoi proprietari

12 a r c h e o


che, a tal fine, vollero conferire un aspetto signorile all’asse atrioperistilio, curando, in particolare, l’apparato idrico e gli arredi decorativi, fra cui spiccavano pregevoli trapezofori (tavoli ornati) di fabbrica orientale.

GIOCHI D’ACQUA Il ricco apparato ornamentale dell’atrio, con i marmi lunensi e i mosaici in bianco e nero, e i nuovi intonaci, dipinti in IV stile pompeiano dopo il terremoto del 62 d.C., dovettero colpire notevolmente se diverse vedute ottocentesche di disegnatori e fotografi sono arrivate fino a noi, testimonianze molto preziose per

determinata dall’introduzione a Pompei dell’acquedotto di età augustea, attraverso il grande collettore di Porta Vesuvio. L’intera domus è infatti attraversata da un’articolata rete di tubature che alimentavano lo zampillo al centro dell’impluvium marmoreo, trasformato in una fontana regolata da una valvola posta sul bordo della vasca. Giochi d’acqua animavano invece il giardino interno, sia il bacino situato presso il viridario che il peristilio attraverso una decina di fontanelle ricavate nei fusti delle colonne; di queste rimangono i solchi che ospitavano le tubature e, in qualche caso, anche la fistula. Questi zampilli In alto: il peristilio della Casa dei Cornelii, scandito da colonne in stile dorico. A sinistra: uno scorcio della Domus della Nave Europa. Nella pagina accanto: il cisium, un carro per il trasporto delle merci, che si può vedere nella Casa del Menandro.

via del deperimento che la struttura ha subito nel tempo, circostanza che ha purtroppo comportato un progressivo oblio dell’edificio. La specificità della casa si ritrova nella sua parte posteriore, dove un bel peristilio è scandito da colonne in stile dorico che incorniciano un giardino con fontana. Lo sfruttamento idrico a scopi di abbellimento architettonico fu certamente un effetto della notevole disponibilità di acqua

facevano quindi pendant con la fontana del giardino, e richiamavano anche lo sprizzo dell’atrio, in un suggestivo studio prospettico con l’armonica sequenza impluvio-peristilio.

LA VIGNA NEL GIARDINO La Domus della Nave Europa, invece, apre il rigoglioso vigneto situato sul retro del complesso. L’edificio ha la particolarità di essere un’elegante abitazione

trasformata in una sorta di «azienda agricola» urbana. Infatti, nel suo ampio giardino erano state avviate diverse coltivazioni orticole, e soprattutto era stato impiantato un accurato vigneto, oggi ripristinato sulla base di fonti storiche e indagini botaniche, secondo il sistema della vite maritata, una tecnica che prevede la coltivazione della vite su un tutore ligneo, utilizzata fino ai primi del Novecento nel territorio vesuviano. La terza novità è il carro per il trasporto delle merci, conservato negli ambienti servili della Casa del Menandro. Si tratta del cisium, tipico carro usato per spostarsi nelle vie urbane, oltrepassando facilmente gli alti passaggi pedonali grazie alle sue grandi ruote, nel nostro caso con alcune parti originali ben conservate che sono state oggetto di restauro, e che grazie alla ricostruzione del veicolo, proposta negli anni Trenta del Novecento da Amedeo Maiuri, restituisce un’idea precisa della struttura originale. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: www.pompeiisites.org; pagina Facebook: Pompeii-Parco Archeologico.

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

INCIDENTE CON SORPRESA UN TRATTORE PERCORRE I VASTI CAMPI PIANEGGIANTI INTORNO ALL’ANTICA CITTÀ ETRUSCA. D’IMPROVVISO, IL TERRENO CEDE E IL MEZZO AGRICOLO SPROFONDA… ECCO LA CRONACA DI UN’AVVENTUROSA SCOPERTA, AVVENUTA LO SCORSO FEBBRAIO NELLA GRANDE NECROPOLI DI VULCI

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l rapporto fra agricoltura e archeologia può risultare complicato, soprattutto in un’area cosí ricca di vestigia quale è Vulci. Se i monumenti sepolti possono essere messi a rischio di conservazione, è altrettanto vero che chi coltiva i terreni mette a rischio la propria incolumità. Se ne è avuta la riprova nello scorso febbraio, nella vasta necropoli dell’Osteria, che si sviluppa a nord dell’antica città. Qui, durante alcune operazioni di aratura, un mezzo agricolo è parzialmente sprofondato all’interno di una cavità apertasi accidentalmente, creando una situazione di alto rischio per il suo operatore. La parziale lesione del soffitto di una tomba causata da precedenti lavori agricoli e il peso del mezzo hanno fatto sí che si aprisse la voragine. Il tempestivo intervento del Parco, in collaborazione con la Soprintendenza, ha consentito di recuperare il trattore in tutta sicurezza e ha permesso di esplorare la tomba crollata. Si tratta di una struttura funeraria del tipo detto «a cassone vulcente», cioè composto da un lungo dromos (corridoio d’accesso) di forma rettangolare e orientamento N-S

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con un piano «a scivolo» fortemente inclinato verso S che, per mezzo di un modesto salto di quota o gradino, si raccorda al piano di calpestio del vestibolo. Quest’ultimo, del tipo «a cielo aperto», è di forma rettangolare con orientamento E-W, e conserva le Sulle due pagine: la tomba «a cassone vulcente» esplorata nella necropoli dell’Osteria nello scorso febbraio. La struttura comprendeva tre camere sepolcrali (ben visibili nella foto alla pagina accanto) e, sulla base dell’esame preliminare dei reperti trovati al suo interno, sembra attribuibile a un clan gentilizio della facies etrusca tardo-arcaica.

pareti dal profilo rettilineo. Sul suo lato meridionale si aprono tre camere funerarie, disposte parallelamente tra loro e tutte profondamente intaccate da una o piú violazioni antiche che, insieme ai reiterati lavori agricoli, hanno ridisegnato la conformazione dei


dello stesso tipo e dimensione della precedente, sempre con il fondo piano e un leggero salto di quota tra l’ingresso e il resto dell’ambiente. Era riempita da un unico e spesso livello di manomissione, di forma ovale, composto da una matrice terrosa che ha restituito sporadici frammenti ceramici.

UN CLAN GENTILIZIO DI LIVELLO MEDIO-ALTO

loro margini superiori, determinando la completa distruzione delle volte ricavate nel banco tufaceo.

I REPERTI SFUGGITI AL SACCHEGGIO La camera di sinistra, quella piú orientale, è di forma rettangolare. Ha pareti dal profilo rettilineo e stacco netto, con fondo piano e un lieve gradino tra l’accesso e il resto dell’ambiente, ricavato a una quota leggermente piú bassa. Il vano era superficialmente riempito da un accumulo di notevole spessore a matrice terrosa, di formazione recente, contenente frammenti ceramici scampati alla violazione (tra questi, un piattello in ceramica a bande di età tardo-arcaica). Questo strato copriva un livello di infiltrazione naturale di forma allungata, conservato solo per qualche centimetro, con un grado

di definizione abbastanza netto e una matrice limo-terrosa priva di reperti antropici. Tale apprestamento sigillava in origine un compatto livello di bruciato, di forma allungata, localizzato in quasi tutta la camera funeraria (a partire dal suo margine occidentale). Spesso pochi centimetri, presentava un grado di definizione netto e una matrice carboniosa, al cui interno sono stati recuperati numerosi frammenti ceramici pertinenti al corredo funebre, frammisti a ossa combuste e piccoli lacerti di elementi in bronzo e ferro. Tra i reperti ceramici si possono distinguere, a un primo esame, forme potorie di produzione attica a vernice nera, piattelli in ceramica acroma di produzione locale e bucchero, che permettono di datare la deposizione all’ultimo quarto del VI secolo a.C. La camera centrale è pressoché

Anche l’ultima camera funeraria, disposta sul lato destro del complesso, è di forma rettangolare, con orientamento N-S. A differenza delle precedenti, presenta il fondo piano e privo del lieve gradino dietro l’accesso. Sulla parete orientale vi era un foro di violazione, che aveva parzialmente distrutto il tramezzo di separazione dalla camera centrale. Anche il riempimento di questo vano era costituito da un livello di spessore considerevole, a matrice terrosa, contenente pietre di medie dimensioni e sporadici frammenti di ceramica (si segnalano bucchero, acroma e impasto) e un piccolo elemento in ferro. I tre ambienti erano ancora parzialmente sigillati da blocchi in siltite di forma parallelepipeda deposti all’interno del vestibolo, davanti all’accesso delle singole camere, e, in tutti e tre i casi, rimaneva solamente la porzione inferiore della tamponatura, profondamente intaccata dall’azione di disturbo clandestina. Dai pochi elementi di corredo superstiti, databili alla facies tardo-arcaica, è possibile riferire il sepolcro a un clan gentilizio di livello medio-alto. Di particolare interesse risulta la deposizione della camera A, dove lo spesso livello di terra carboniosa insieme alle abbondanti tracce di bruciato sui resti ceramici e le pareti dell’ipogeo suggerirebbero l’utilizzo del fuoco direttamente all’interno del vano.

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A TUTTO CAMPO Enrico Zanini

ARCHEOLOGIA SULL’ORIENT EXPRESS ATMOSFERE FIN DE SIÈCLE, REMINISCENZE LETTERARIE E I CONVULSI AVVENIMENTI CHE HANNO SEGNATO LA STORIA DEL MEDITERRANEO ORIENTALE AI PRIMI DEL NOVECENTO FANNO DA CORNICE A UNA SINGOLARE SCOPERTA. COMPLICE UNA PARTITA DI VINO A RISCHIO…

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l 4 ottobre 1883 è una data epocale nella storia del trasporto ferroviario: quella sera, infatti, partí da Parigi il primo convoglio dell’Orient Express, con destinazione Costantinopoli. In realtà, solo i passeggeri raggiungevano la capitale dell’impero ottomano, perché il treno si fermava ben prima, a Giurgiu, in Romania, per poi proseguire su un battello lungo il Danubio fino in Bulgaria; da lí, un altro treno portava i ricchi viaggiatori a Varna, sul Mar Nero, da dove un secondo battello li

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conduceva, attraverso il Bosforo, fino al porto di Costantinopoli. Un viaggio lunghissimo e per molti versi avventuroso, ma che sanciva la nascita dell’esigenza di un collegamento «diretto» tra la capitale culturale del mondo occidentale e la Porta d’Oriente: un punto di svolta nel processo di modernizzazione dell’impero ottomano, anche sotto il profilo della creazione di nuove infrastrutture. In questa cornice si colloca, già dieci anni prima della nostra data epocale, l’inizio dei lavori per la costruzione del tratto

urbano della rete ferroviaria ottomana, che, a partire dal 1889, doveva consentire ai viaggiatori provenienti dall’Occidente di arrivare nel cuore di Costantinopoli, alla stazione di Sirkeçi, a poche centinaia di metri dal palazzo imperiale della Sublime Porta. Per arrivare fin lí, all’estremità della penisola su cui da oltre quindici secoli sorgeva Costantinopoli, era necessario che i binari si aprissero una strada nel tessuto fittissimo del centro storico. La scelta dei progettisti cadde su un percorso periferico, che correva lungo la


parte meridionale della penisola, immediatamente all’interno delle mura marittime che risalivano alla metà del V secolo d.C., ma che per qualche tratto reimpiegavano probabilmente resti della piú antica cinta della Bisanzio preromana. Fu cosí inevitabile sacrificare le costruzioni addossate a quelle mura e che spesso erano resti semiabbandonati di edifici di varia natura, perlopiú di epoca bizantina. Di questi lavori, delle demolizioni che comportarono e dei resti che rimasero esposti non abbiamo una precisa documentazione dell’epoca, ma, quasi cinquant’anni dopo, l’intervento fu alla base di uno sviluppo del tutto inatteso.

Nella pagina accanto: resti delle sostruzioni del monastero di S. Giorgio dei Mangani a lato della ferrovia. In basso: locandina che reclamizzava l’Orient Express, il collegamento ferroviario tra Parigi e Costantinopoli.

UNA «PICCOLA PIAZZA»

MUTAMENTI EPOCALI Nel frattempo, il mondo mediterraneo era radicalmente cambiato: c’erano state la prima guerra mondiale e, nel 1918, la caduta dell’impero ottomano, la cui antica capitale fu posta sotto il controllo di un protettorato franco-inglese fino al 1923, quando, con la nascita della Repubblica di Turchia, la sede del governo venne trasferita ad Ankara. Gli anni del protettorato e quelli immediatamente successivi furono decisivi per la nascita dell’archeologia urbana di Costantinopoli e, ancora una volta, i Francesi ne furono i primi protagonisti. Come spesso accade in archeologia, tutto cominciò per caso. Nel giugno del 1921 l’intendenza militare francese dovette fronteggiare un problema logistico: nei magazzini erano state accumulate ingenti quantità di vino destinato all’approvvigionamento delle truppe di stanza a Costantinopoli, ma un’eccezionale ondata di calore rischiava di trasformarlo in aceto e fu quindi necessario trovare un luogo fresco in cui spostarlo. Due ufficiali, arrivando

basamenti e le cisterne del monastero di S. Giorgio dei Mangani, fondato dall’imperatore Costantino IX Monomaco alla metà dell’XI secolo e che visse poi fino alla fine dell’epoca bizantina. La cosa è interessante in sé, perché marca, come dicevamo, uno degli esordi dell’archeologia bizantina; ma è ancor piú interessante perché si tratta di un esperimento di qualcosa di molto simile a quello che oggi chiamiamo «archeologia pubblica».

in treno, avevano notato che nell’area attraversata dalla ferrovia all’estremità della penisola si aprivano sotterranei che si prestavano benissimo a essere trasformati in cantine. Mandarono un piccolo gruppo di militari sterratori a ripulirli ed esplorarli e ben presto ci si rese conto che si trattava delle sostruzioni di grandi edifici di epoca bizantina. La notizia dei primi ritrovamenti si diffuse rapidamente; le autorità turche cercarono di bloccare i lavori, ma, in pochi mesi, fu trovato un accordo e partí un vero e proprio scavo archeologico urbano. Era la primavera del 1922 e nel resto d’Europa un’esperienza di questo genere era ancora assai rara. In meno di un anno – ma si trattava di uno scavo «facile», perché era solo questione di liberare degli spazi dai detriti – vennero scavati i

Gli archeologi francesi, infatti, non si limitarono a scavare gli ambienti, ma li organizzarono anche per accogliere gruppi relativamente numerosi di visitatori. Vennero predisposte scale, rampe e passerelle di legno; venne allestito un sistema di illuminazione e la cisterna centrale, detta «il battistero», divenne «una piacevole piccola piazza», particolarmente adatta alla gestione delle visite guidate, che si tenevano regolarmente. Un piccolo esperimento di archeologia pubblica ante litteram, dunque, che fu purtroppo di breve durata. Le ragioni della politica prevalsero su quelle dell’archeologia: al seguito di accordi internazionali, nel 1923 le truppe francesi lasciarono Costantinopoli e il permesso di scavo venne revocato. Il piccolo parco archeologico del monastero dei Mangani non sopravvisse molto, perché gli spazi non custoditi vennero rapidamente depredati di tutti i loro allestimenti e il luogo riprese il suo aspetto precedente di totale abbandono. Ma un seme era stato gettato e molti anni piú tardi, nel 2004, lungo quella stessa linea ferroviaria, avrebbe dato i suoi frutti con gli straordinari scavi del porto di Teodosio I. (enrico.zanini@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

ROMA-AMERICA, ANDATA E RITORNO MENTRE NEGLI STATI UNITI C’È CHI VORREBBE CANCELLARE IL RICORDO DI CRISTOFORO COLOMBO, L’IPOTESI SOSTENUTA DA ELIO CADELO, SECONDO IL QUALE IL NAVIGATORE GENOVESE SAREBBE STATO PRECEDUTO DAI ROMANI, SI ARRICCHISCE DI NUOVE PROVE

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«scoprire» l’America, ben prima di Cristoforo Colombo, sarebbero stati i popoli antichi, e, tra questi, i Romani. Un’ipotesi a dir poco «rivoluzionaria», della quale ci siamo occupati di recente (vedi «Archeo» n. 421, marzo 2020; anche on line su issuu.com), e che era stata già approfondita

da Elio Cadelo, divulgatore scientifico e scrittore, nel volume L’oceano degli antichi. I viaggi dei Romani in America (LEG Edizioni, Gorizia 2018), concepito come aggiornamento di una precedente pubblicazione Quando i romani andavano in America. Scoperte geografiche e conoscenze A sinistra: affresco che mostra una coppia di uccelli identificati come ara giallo-blu, da Londinium (Londra). Età imperiale. Nella pagina accanto: mosaico policromo con cesto di frutta: sulla destra, evidenziato dalla cornice di colore rosso, l’ananas. Roma, Museo Nazionale Romano.

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scientifiche degli antichi navigatori (Palombi Editore, Roma 2009). Ma ci sono prove della frequentazione precolombiana dell’America da parte degli antichi popoli del Mediterraneo, dottor Cadelo? «Sí, molte. La prima prova dei contatti tra “nuovo” e “vecchio” continente è il trasferimento in epoca antica di alcune piante dall’America verso l’Asia e l’Europa. Se le piante si trovano lontano dal luogo di origine, devono esservi state portate da qualcuno. Tra quelle “emigrate” dall’America verso il Pacifico ci sono la patata dolce, il fagiolo, il cotone, la zucca a forma di bottiglia, ecc. Tra le piante trasferite in Europa ci sono il mais e l’ananas, sicuramente arrivati in tempi precolombiani». L’ananas potrebbe essere arrivato in Europa già al tempo dei Romani? «Ne sono convinto. Ho trovato prove nell’arte figurativa antica: in un mosaico romano conservato a Roma al Museo di Palazzo Massimo alle Terme, all’interno di un cesto di frutta, è raffigurato un ananas. E non è l’unico. In Svizzera, al Museo di Storia e delle Arti di Ginevra è conservata la statua di un ragazzo con in mano un ananas. Nel Museo Archeologico di Sassari,


è esposto un bruciaprofumi a forma di ananas. Molti ananas sono dipinti a Pompei! Dove potevano aver visto questa pianta? Solo in America, dove è originaria. Un’altra pianta importata dall’America dai Romani è sicuramente la Datura stramonium, erba velenosa usata come allucinogeno in America da Inca e Maya e che forse ha trovato lo stesso uso in Italia. I Romani prestavano molta attenzione alla flora tanto che portavano a Roma esemplari di piante dai territori che conquistavano o visitavano: nel tempo hanno importato centinaia di varietà tra cui il cipresso

(importato dal Nord Europa al tempo di Catone), il cedro dalla Cina, il ciliegio importato da Lucullo dal Ponto, il mandorlo dall’Asia Centrale, il cedro e l’arancio dalla Cina, ecc. Era abitudine dei Romani esibire, durante i trionfi, non solo gli schiavi e le ricchezze sottratte al nemico, ma anche alberi e frutti dei luoghi conquistati». Ma esistono anche prove «archeologiche» della frequentazione romana dell’America? «Non ci sono reperti romani superstiti in America, ma ci sono insospettabili fonti letterarie che aprono nuove ipotesi. Giovanni

Lorenzo d’Anania scrisse nel 1600 un testo in due volumi di geografia, intitolato L’Universal Fabrica del Mondo, overo Cosmografia (riedito da Rubbettino nel 2005), nel quale riporta un particolare curioso: un giorno un contadino portò il viceré spagnolo in Messico a vedere l’antica tomba di un soldato romano. La sepoltura è raccontata nei minimi particolari, come le armi e le monete romane trovate all’interno, che permettono di datarla al I secolo. Della tomba oggi non rimane piú nulla, dopo decenni di depredazioni e guerre civili. Ma quel rapporto è una prova letteraria importante, perché

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PAROLA D’ARCHEOLOGO A sinistra: capolettera miniato raffigurante Claudio Tolomeo, dall’edizione di Ulm della Cosmografia dello stesso Tolomeo. 1482. Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania. Nella pagina accanto, in alto: statuetta raffigurante un ragazzo che tiene in mano un ananas. Ginevra, Musée d’art et d’histoire. Nella pagina accanto, in basso: bruciaprofumi in terracotta in forma di ananas. Sassari, Museo nazionale archeologico ed etnografico «Giovanni Antonio Sanna». Giovanni d’Anania non aveva certo interesse a “prendere in giro i posteri”! Altri “indizi” archeologici della presenza romana in America si possono rintracciare nell’antica città maya di Comalcalco, dove gli edifici sono costruiti in mattoni cotti (alcuni anche firmati), gli acquedotti con tubi di terracotta, e sono state trovate alcune alcune sepolture in giara e anche statuette dalle forme mediterranee classiche. Insomma, un unicum nel mondo maya, che richiede risposte coerenti». Quali rotte avrebbero seguito i Romani per arrivare in America? «Nella Naturalis Historia, Plinio afferma che al di là dell’oceano,

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dopo le “isole fortunate”, cioè le Canarie, c’è un grande continente, distante 30 giorni di navigazione. Esattamente quanti ce ne vogliono dalle Canarie all’America! Le Canarie conservano tracce archeologiche del passaggio di Romani, Cartaginesi, Fenici, Etruschi e Greci: esisteva una rotta per l’America che passava per queste isole. C’era poi una rotta a Nord, attraverso il Mare del Nord, come spiega Plutarco, simile a quella usata dai Vichinghi». Dopo le piante, lei si è messo a cercare gli animali… ha trovato specie americane nell’arte dell’antica Roma?

«Eccome! Sull’affresco di una villa romana scavata nel centro di Londra, si vedono pappagalli che sono stati frettolosamente identificati come “parrocchetti”. Con la consulenza del direttore del Bioparco di Roma e di altri ornitologi, sono stati invece identificati come ara, tipici pappagalli variopinti originari del Centro America. Secondo gli archeologi inglesi che hanno fatto la scoperta quei pappagalli sono stati dipinti a Londra da un pittore italiano che qui li ha visti e riprodotti. Nel mio libro, comunque, ci sono un gran numero di prove a sostegno della


tesi di contatti tra il Vecchio e il Nuovo Mondo». Perché non sono rimaste tracce archeologiche del passaggio in America dei Romani? «A differenza della conquista di Cristoforo Colombo, che fu una “scoperta” politica, organizzata dalla corte di Spagna, quella romana fu una frequentazione a carattere commerciale. Gli Spagnoli andarono in America per conquistare, i Romani per commerciare e scambiare, quindi avevano un approccio piú flessibile. Non dimentichiamo che l’economia romana fu un’economia di mercato e, quindi, fondata sugli scambi. Per cui scoprire nuovi popoli, nuove terre era alla base del commercio. I Romani costruirono porti ovunque: in Inghilterra, lungo la costa francese, portoghese e africana. Ci sono porti romani in tutto il Mediterraneo, nel Mar Rosso, sul Tigri e sull’Eufrate, persino in Vietnam, nel sito di Óc Eo. E anche in India: qui i Romani avevano un porto, Arikamedu, dove ogni anno, in età imperiale, approdavano 150 mercantili scortati da navi militari romane. Sulla tomba di Augusto, a Roma, si legge che l’imperatore “incrementò i traffici con l’India”. San Tommaso andò in Cina a

predicare il cristianesimo e sono state trovate iscrizioni cristiane in aramaico; a Canton sono state trovate monete romane e cinesi in un’agenzia di cambio del II secolo distrutta da un terremoto. Navi romane arrivarono in Indonesia per procurarsi pepe e spezie. Tracce della presenza romana sono state trovate in Corea e Nuova Zelanda. I Romani avevano grandissime capacità tecnologiche, ingegneristiche e di navigazione, cosa che permise loro di costruire le piú grandi flotte della storia». I Romani, poi, erano pienamente consapevoli del fatto che la terra fosse tonda, non è vero? «Nel mio libro dedico un capitolo a questo tema. Nessuna delle fonti antiche ha mai detto che la terra era piatta. Cicerone la descrive come un globo, con poli alle estremità, zone torride e temperate. Plinio il Vecchio – che era ammiraglio della flotta romana – afferma che c’è un giudizio concorde sul fatto che la terra sia tonda. E anzi allude, nel merito, alla “battaglia tra scienza e opinione popolare” circa lo stupore della gente comune sul fatto che gli abitanti dell’altro emisfero non cadano giú! La geografia non si inventa». Esistono carte geografiche dell’epoca? «Non abbiamo carte geografiche di età romana, poiché sono scomparse. C’è il planisfero del geografo alessandrino Claudio Tolomeo, copia di un originale romano del II secolo d.C. nella quale possiamo constatare che a est dell’Indocina sorge una terra su cui sono indicati fiumi, montagne e città, tra cui Cattigara. Il geografo racconta che un greco di nome Alexandros andava a Cattigara a prendere l’oro e ci metteva un numero di giorni cosí grande da non poter essere contato. In pratica, sei mesi per andare e sei per tornare».

E dove si troverebbe oggi l’antica città di Cattigara, dove il greco Alexandros andava a caccia di oro, impiegando oltre un anno tra andata e ritorno? «In Sud America, ma sul versante del Pacifico. La costa descritta da Tolomeo, dove sorge Cattigara, è stata confrontata con la costa dell’ America meridionale ed è sovrapponibile. La tesi che sostengo è che l’antica Cattigara fosse in America. Perché l’America era ben nota agli antichi, sia da lato est che da quello ovest, tanto che anche i Polinesiani andavano e tornavano periodicamente dalle coste americane».

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

MEMORIE DEL PASSATO I gruppi umani con una certa comunanza di tradizioni, lingua, religioni, usi e costumi guardano alle proprie radici per trovare, oggi, una sempre maggiore legittimazione e affermare una certa identità di nazione, o di popolo o di comunità. È questo, in estrema sintesi, il concetto di base del «nazionalismo», analizzato da Umberto Livadiotti (vedi l’articolo alle pp. 44-59). Elemento determinante è la continua ispirazione a una «memoria comune», che valga a rafforzare, anche inconsciamente, la convinzione di far parte di una tradizione o di una storia millenaria. 3 Basti pensare alla sensazione che si può provare vivendo quotidianamente a contatto con monumenti e ruderi inseriti nel tessuto urbano: il Romano che attraversa i Fori Imperiali (1), l’Ateniese che vive nella Plaka (2), dominata dal Partenone (3), l’Egiziano che transita vicino alla Sfinge (4): tutti hanno netta la sensazione che quei monumenti siano 6 parte di loro. Impressionante, al riguardo, fu il comportamento delle migliaia di Egiziani che fecero ala al passaggio delle spoglie del faraone Ramesse II (5), che andavano a Parigi per esami scientifici, come se il «loro» sovrano fosse morto pochi giorni prima! E ci si misero anche i 8 Francesi che pretesero un documento identificativo per la «salma» che entrava nel Paese: il governo egiziano rilasciò un passaporto alla mummia di Ramesse II, di professione RE (6)! Il passato di riferimento non è uguale per tutti: per i Paesi del Nord e dell’Est europeo esso rimonta al Medioevo, mentre per i popoli mediterranei risale a migliaia di anni prima. La condizione per una civiltà per essere considerata «antenata» di una nazione è che, nel passato, quella civiltà avesse vissuto un periodo di «splendore», di supremazia politica e/o culturale rispetto alle altre della stessa epoca, come fu per la Grecia di Pericle (7). In questa ricerca di «richiamo» agli antenati, l’archeologia svolge un ruolo importante: ruderi, monumenti, singoli reperti e anche tradizioni culturali e sociali sono stati e sono tuttora il collegamento con i propri avi. Fuori dall’Europa questa tendenza è di epoca piú moderna ed è tesa a valorizzare le culture locali e a smitizzare origini «inventate», come è accaduto per il sito archeologico di Great Zimbabwe (8) attribuito addirittura ai Fenici e alla regina di Saba, fino a quando non se ne è accertata la sua datazione, collocabile nella prima metà dal II millennio d.C. In America, le élite di origine europea cercavano legittimazioni classicheggianti guardando al vecchio continente: Simón Bolívar che giura a Monte Sacro a Roma (150° anniversario del giuramento, 9) o la costruzione del Campidoglio a Washington (10). Emblematico è quanto accadde in Messico: per valorizzare le proprie origini precolombiane, si è dovuto attendere i primi del Novecento, grazie alle campagne di scavo a Teotihuacán (11). In quest’ottica, hanno un ruolo sempre piú importante i «luoghi della memoria», come Alesia, in Francia (12), Masada, in Israele (13) o Babilonia, in Iraq (14).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it


RIPENSARE IL FUTURO

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a XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà a Paestum da giovedí 19 a domenica 22 novembre, in regime di sicurezza e nel rispetto dei protocolli sanitari. Obiettivo dell’iniziativa è promuovere i siti e le destinazioni di richiamo archeologico, favorire la commercializzazione, contribuire alla destagionalizzazione e incrementare le opportunità economiche, approfondire e divulgare i temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio, essere occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori, appassionati. Da sottolineare lo sviluppo della cooperazione tra i popoli che l’evento persegue con la presenza annuale di Paesi non solo del Mediterraneo e attraverso il confronto e lo scambio di esperienze con la partecipazione di 300 relatori, 100 giornalisti accreditati, 120 operatori dell’offerta e lo svolgimento di 60 tra conferenze e incontri. Prestigiose le collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO e UNWTO e la partecipazione del MiBACT (Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo con 300 mq di area espositiva). Ma quale futuro potrà avere il turismo culturale a seguito dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19? Ecco, in proposito, il pensiero di Ugo Picarelli, Fondatore e Direttore della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico: «Le recenti dichiarazioni del ministro Franceschini di mettere in atto un piano in tre mosse per rilanciare il turismo nel Mezzogiorno devono far ben sperare. Il piano di aiuti europei è un’opportunità unica per rilanciare il Bel Paese. Occorre riqualificare la nostra offerta, in quanto la

consapevolezza dei rischi e del non rispetto del pianeta, a cui ci ha riportato l’attuale pandemia, è motivo per intraprendere da subito l’unica strada possibile, un turismo sostenibile nel segno della unicità, dell’accessibilità, della destagionalizzazione e rispettoso dell’ambiente. Il viaggiatore della società contemporanea, una volta definito turista, è sempre piú alla ricerca di emozioni e di soddisfare bisogni di conoscenza, ossia di fare turismo esperienziale. Per i grandi attrattori archeologici è fondamentale ragionare sui flussi turistici: l’approccio sostenibile in questo caso deve essere una modalità per visitare i luoghi nel rispetto del bene culturale. Ma turismo sostenibile significa soprattutto valorizzazione del territorio, riscoperta delle aree interne e conoscenza del patrimonio minore. Attraverso il racconto delle destinazioni archeologiche minori si favorirà la scoperta del territorio, puntando su un’economia anche circolare. Parlare di turismo culturale e sostenibile significa soprattutto affrontare tante sfaccettature, non solo ambientali, ma anche sociali e politiche: è un discorso ampio e importante per il futuro dei nostri territori e della nostra madre terra. Naturalmente sia il programma, come avviene annualmente, che soprattutto la prevenzione sanitaria da attuare nei giorni di svolgimento della Borsa saranno condivisi con il Comune di Capaccio Paestum, il Parco Archeologico di Paestum e Velia, la Regione Campania che l’ha inserita nel calendario ufficiale 2020 delle fiere del turismo». Per informazioni e aggiornamenti sul programma ufficiale: www.borsaturismoarcheologico.it

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

INCONTRI Paestum


CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Italia ROMA Civis, Civitas, Civilitas

Roma antica modello di città Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 18.10.20 (prorogata)

Aspettando l’Imperatore

Gli Etruschi e il MANN

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21

ODERZO L’anima delle cose

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 14.02.21 (prorogata)

Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone, 1809-1814 Museo Napoleonico fino al 25.10.20 (prorogata)

PADOVA L’Egitto di Belzoni

Colori degli Etruschi

TORINO Lo sguardo dell’antropologo

Tesori di terracotta alla Centrale Montemartini Centrale Montemartini fino all’01.11.20 (prorogata)

BASSANO DEL GRAPPA Giambattista Piranesi Architetto senza tempo Palazzo Sturm fino al 19.10.2020

BOLOGNA Etruschi

Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 29.11.20 (prorogata)

CLASSE Tesori ritrovati

Il banchetto da Bisanzio a Ravenna Museo Classis Ravenna fino al 20.09.20

FORLÍ Ulisse

L’arte il mito Musei San Domenico fino al 31.10.20 (prorogata)

MILANO Viaggio oltre le tenebre

Tutankhamon Real Experience Palazzo Reale fino al 30.08.20 (prorogata)

Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 20.12.20

NAPOLI Thalassa

Meraviglie sommerse dal Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 31.08.20 (prorogata) 24 a r c h e o

Un gigante nella terra delle piramidi Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 26.07.20 (prorogata)

Connessioni tra egittologia e antropologia Museo Egizio fino al 15.11.20

Francia PARIGI Pompei

Passeggiata immersiva, tesori archeologici, nuove scoperte Grand Palais fino al 27.09.20

Paesi Bassi LEIDA Tessuti dall’Egitto

Rijksmuseum van Oudheden fino al 27.09.20

I Romani lungo il Reno Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21



NE L’A LL LIM ’A EN NT T IC AZIO A N RO E M A

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

L’impero del gusto COSTUMI ALIMENTARI NEL MONDO ROMANO TRA ECOLOGIA, PRODUZIONE E STILI DI VITA di Umberto

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el mondo contemporaneo, il cibo vive una sorta di schizofrenia: continua a essere per molti, forse per troppi, un bene difficile da conquistare, mentre per altri è entrato a pieno titolo fra gli aspetti della vita quotidiana a cui dedicare attenzioni quasi parossistiche. Al di là dei giudizi di merito, in epoca romana la situazione era assai diversa, se solo pensiamo che non esisteva, di fatto, la figura dello chef, almeno nell’accezione che gli viene oggi attribuita. Per la nuova Monografia di «Archeo» abbiamo chiamato a tratteggiare il profilo «alimentare» di Roma e del suo impero Umberto Livadiotti, che propone uno spaccato ampio e articolato, non limitandosi a descrivere quali fossero gli usi e i costumi dei Romani al momento di sedersi, o, meglio, sdraiarsi a tavola, ma esplorando le implicazioni politiche, sociali ed economiche della produzione, della gestione e della trasformazione dei beni forniti dalla terra, dal mare e dall’allevamento. Pane, vino e il celeberrimo garum, la salsa a base di pesce, sono dunque fra i protagonisti di una storia a tutto tondo e confermano come, da sempre, il cibo sia anche cultura.

IN EDICOLA

GLI ARGOMENTI • ECOLOGIA • Governare la natura • ECONOMIA • Antiche filiere • VITA QUOTIDIANA • Tutti i modi del mangiare • MENTALITÀ • Le regole del gusto • GASTRONOMIA • Cucinare alla romana Particolare di una stele funeraria ornata da un rilievo policromo raffigurante un banchetto funebre. II-III sec. d.C.

• SALUTE • Caldi, freschi, secchi e umidi... • POLITICA • Pane in cambio di consenso • SOCIETÀ • Ma il cibo non era uguale per tutti...

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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart

I PADRONI DEL FUOCO NEL MITO DI PROMETEO, RESO IMMORTALE DA ESCHILO, LEGGIAMO IN CONTROLUCE UNO DEI CAMBIAMENTI EPOCALI OCCORSI NELLA STORIA DELL’ANTICA GRECIA: IL TRAMONTO DELLA REGALITÀ MICENEA E L’AFFERMARSI DELLE POLEIS E DELLA FIGURA DEL BASILEUS

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el Prometeo incatenato, Eschilo affronta una tema centrale nella civiltà occidentale: il sempre difficile rapporto tra il sacro, l’uomo e la conoscenza. Ritroviamo tracce di questa tematica nella Genesi (2, 15-16): «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male, non devi mangiare perché quando ne mangiassi, certamente moriresti”». Il serpente invece, nel tentativo poi riuscito di portare Eva a infrangere il comando di Dio dice: «Non morirete affatto! Anzi Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Genesi 3, 1-12). La Bibbia sembra voler dire, apparentemente, che la conoscenza è privilegio di Dio e che l’uomo creato da Dio non può accedervi, pena la morte. L’uomo invece, sfidando il precetto divino, pretende di penetrare nel mondo del sapere, nel tentativo di diventare simile a Dio.

NELL’ABISSO DEL TARTARO Dopo la feroce lotta che lo oppose al padre, Zeus, con l’aiuto e la complicità di Prometeo e di sua madre, la Terra, precipitò Crono e

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quanti erano suoi alleati nell’abisso profondo del Tartaro (Prometeo, 214-221). Installato sul trono del padre, Zeus dopo aver spartito fra gli dèi tutti i privilegi, pensò di annientare la stirpe dei mortali per seminarne una nuova (Prometeo, 228-133). Solo Prometeo ebbe pietà degli uomini (Prometeo, 235-238). Ma è davvero questa la sola colpa del Titano? Sensibili ai lamenti di Prometeo e venute a trovarlo crocefisso su uno dei monti del Caucaso, le Oceanidi si domandano se, per caso, non sia andato oltre (Prometeo, 246). E Prometeo confessa: «Ai mortali che avevano sempre davanti agli occhi la morte (Prometeo, 248), ho dato la speranza cieca (Prometeo, 250)». E prosegue dicendo di aver procurato loro anche il fuoco grazie al quale potranno imparare molte arti (Prometeo, 252-254). Il coro delle Oceanidi risponde: «Questa allora è la colpa che t’imputa Zeus!» (Prometeo, 255). Riassumendo a Io, l’amante tradita dal re degli dèi e perseguitata dalla gelosia di Era, tutto quello che fece per gli uomini, Prometeo aggiunge: «Non sapevano costruire edifici, case all’aperto, non sapevano lavorare il legno; abitavano sottoterra, in caverne profonde, senza la luce del sole. Non sapevano riconoscere i segnali dell’inverno, la primavera e i suoi fiori, l’estate e i suoi frutti. Facevano tutto senza coscienza finché

insegnai loro a distinguere il sorgere e il tramontare degli astri. Poi inventai, per loro il numero, principio di ogni sapere, le lettere e la scrittura, memoria di tutto, madre feconda della poesia» (Prometeo, 450-461). Dopo aver completato l’elenco infinito dei regali fatti agli uomini (Prometeo, 462- 504), il Titano conclude: «In poche parole, sappilo: i mortali possiedono tutte le arti grazie a Prometeo» (Prometeo, 505).

LE RAGIONI DELL’IRA Dal dialogo fra Prometeo e le Oceanidi e dalla confessione fatta a lo appare chiaramente che non è tanto l’essersi opposto a Zeus per impedire che la razza umana fosse precipitata nell’Ade, oppure l’aver seminato nel cuore degli uomini le «speranze cieche», quanto il dono dell’arma del fuoco ad aver provocato la collera del padrone dell’Olimpo e scatenato la tremenda punizione che affligge il Titano. L’atteggiamento di Prometeo, la sua ribellione contro «il nuovo tiranno che regna sugli dèi» sono dettati dall’indignazione che egli prova di fronte allo scandalo del male inflitto a mortali innocenti da divinità indegne che Prometeo ruba il fuoco, olio su tela di Jan Cossiers. 1638. Madrid, Museo del Prado. L’artista ritrae il Titano in fuga, che si volge indietro per sincerarsi che nessuno si sia accorto del furto.


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fanno il male e consentono che sia perpetrato in nome di un ordine cosmico che genera solo orrori. Aver dato agli uomini la chiave che permette di aprire le porte del mondo della conoscenza ha scatenato l’ira irrefrenabile del re degli dèi, cosí come l’aver mangiato il frutto dell’albero della scienza del bene e del male ha provocato la

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collera di Dio e la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. Questo mito prodigioso che mette a confronto il potere divino, depositario della scienza e della conoscenza, e gli uomini che aspirano a penetrare nell’universo del sapere, ha, come ogni mito, radici storiche. Esso è probabilmente legato alla mentalità

primitiva che vedeva nei «padroni del fuoco» i maestri per eccellenza della conoscenza e del sapere. La storia greca ne serba il ricordo.

UNA SCOPERTA EPOCALE Dal 1952 la nostra conoscenza del mondo greco è cambiata e ha acquisito uno spessore cronologico inaspettato. Il filologo inglese


Nella pagina accanto: l’interno di una kylix laconica a figure nere con Prometeo e Atlante, da Cerveteri. 560-550 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco.

In alto: tavoletta con iscrizione in lineare B che elenca un gruppo di donne al servizio del palazzo di Cnosso. Tardo Minoico IIIA1 (1400-1375 a.C.). Oxford, Ashmolean Museum.

Michael Ventris (1922-1956), decifrando la lineare B e dimostrando che la scrittura attestata nelle tavolette di argilla e su altri documenti provenienti dai palazzi micenei di Creta e della Grecia continentale notava un dialetto greco – il miceneo apparentato alla famiglia dialettale arcado-cipriota –, ha spostato di molti secoli addietro le origini della letteratura greca. Un’iscrizione in lineare B rinvenuta vicino a Olimpia in Elide e databile al XVII secolo a.C. dimostra che si parlava e si scriveva il greco almeno otto secoli prima di Omero. Le tavolette in lineare B forniscono informazioni preziose sull’economia e la società della Grecia del II millennio a.C. Nei testi

sono menzionati i nomi e i titoli dei principali personaggi dello Stato. Il «re miceneo», dotato di tutte le prerogative connesse con la «regalità», era designato con il nome wa-na-ka, greco anax. In seno all’amministrazione a lui sottoposta, alcuni artigiani, principalmente i fabbri, erano chiamati qa-si-re-u, greco basileus.

CAMBIAMENTO SEMANTICO Tra la fine del mondo miceneo (XIII secolo a.C.) e l’epopea omerica (IX secolo) il valore semantico dei termini anax e basileus è cambiato radicalmente. Mentre negli stati micenei anax indicava il capo dello Stato, nell’Iliade il termine è diventato un appellativo applicato

a qualsiasi cosa: un semplice capo locale, una necessità fisica come il sonno, il padrone di uno schiavo, il responsabile di due cavalli. Il termine anax è oramai svuotato da ogni prerogativa politica. Per indicare il vero capo dello Stato, Omero utilizza il termine basileus. Le ragioni del cambiamento semantico radicale che riguarda anax e basileus sono indubbiamente legate alle trasformazioni politiche avvenute in Grecia dopo il crollo dei palazzi. Una volta scomparsi gli Stati micenei, le popolazioni si sono organizzate in piccole comunità locali che diventeranno le poleis. Il qa-si-re-u miceneo, semplice responsabile di una bottega di fabbri, è diventato il basileus investito di tutte le prerogative che erano quelle dell’anax miceneo perché era diventato il «padrone del fuoco». Sono infatti i fabbri, i «padroni del fuoco», i nuovi demiurghi che impongono la loro legge alle popolazioni greche dell’età arcaica. Essi diventano i veri «re» con tutte le prerogative legate a questa funzione nelle «poleis» dopo il collasso dei palazzi micenei. Dando il fuoco agli uomini, Prometeo ha fornito loro la chiave per accedere a tutti i segreti della scienza e cessare di vivere come bestie. Il fuoco strappato agli dèi consente all’uomo di penetrare nel mondo del sapere, di migliorare, grazie alle arti nuove che una tale conoscenza consente di sperimentare, la propria condizione e di avvicinarsi ai «beati». Il basileus, «padrone del fuoco», ha conquistato il potere grazie alla sua scienza. Come Prometeo, fa beneficiare i propri concittadini di questa sua scienza, assicurando la loro difesa grazie alla fabbricazione delle armi indispensabili alla sopravvivenza della comunità. Da semplice fabbro ai tempi delle monarchie micenee è diventato «re» a tuti gli effetti.

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QUELLE ROVINE COSÍ BELLE, COSÍ DIFFICILI… È STATO APPENA PUBBLICATO IL TERZO – E CONCLUSIVO – VOLUME DEDICATO DALL’ARCHEOLOGO FILIPPO COARELLI A UNO DEI COMPLESSI ARCHEOLOGICI PIÚ CELEBRI AL MONDO, IL FORO ROMANO. NE ABBIAMO PARLATO CON LO STUDIOSO a cura di Giuseppe M. Della Fina 32 a r c h e o


Roma. Una veduta dell’area centrale del Foro Romano, sullo sfondo della quale si riconosce il colle del Campidoglio, con il Palazzo Senatorio edificato sui resti del Tabularium.

Chi è Filippo Coarelli Laureatosi nel 1961 presso l’Università degli Studi di Roma con Ranuccio Bianchi Bandinelli, Filippo Coarelli, uno dei maggiori archeologi italiani, ha insegnato prima presso l’Università degli Studi di Siena e poi presso quella di Perugia, di cui è professore emerito. Nel 2003 è stato insignito della Medaglia d’Oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Dal 2004 è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Numerosissime sono le sue pubblicazioni (libri, articoli, voci di enciclopedie, contributi in atti di convegni e in cataloghi di mostre) incentrate sul mondo classico. A lui si deve l’autorevole Guida archeologica di Roma (pubblicata da Arnoldo Mondadori Editore nel 1974 e piú volte ristampata) e per «Archeo», ha curato la Monografia Roma. Guida all’area archeologica centrale (n. 3/2013; anche on line su issuu.com).

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ra le aree archeologiche piú importanti d’Italia riaperte al pubblico in queste ultime settimane, vi è sicuramente il Foro Romano, un luogo privilegiato per analizzare la storia di Roma antica e capace di suggerire le trasformazioni profonde della società romana durante i secoli per i suoi mutati assetti istituzionali. A quest’area di particolare interesse, Filippo Coarelli è tornato a dedicare la sua attenzione nel libro Il Foro romano. Da Augusto al tardo Impero, appena pubblicato per i tipi delle Edizioni Quasar di Roma. Altri due suoi volumi sul tema, dedicati al periodo arcaico e a quello repubblicano e augusteo, erano usciti in precedenza, rispettivamente nel 1983 e nel 1985, sempre presso lo stesso editore. Un’opera quindi, giunta ora a conclusione, che prese avvio durante una stagione intensa di ricerche promosse su impulso di Adriano La Regina, allora alla guida della Soprintendenza archeologica di Roma. Riprendendo in mano i volumi precedenti e soffermandosi su quello appena pubblicato, si nota subito che c’è un filo conduttore ed è rappresentato dal metodo di lavoro dell’autore, basato sulla conoscenza approfondita delle fonti letterarie antiche, della documentazione epigrafica, dei risultati della ricerca archeologica, dei resti monumentali ancora conservati, dei dati di archivio. Un metodo complesso, ma che costituisce la chiave per provare a interpretare il passato. A ciò va aggiunta l’intuizione interpretativa, capace di risolvere un problema, o, almeno, di prospettarne una soluzione possibile. Abbiamo dunque incontrato Filippo Coarelli, per parlare con lui di quest’area archeologica unica. ♦ Professor Coarelli, lei ha dedicato la sua attenzione al Foro Romano in piú occasioni. Si tratta di un luogo privilegiato per analizzare la storia di Roma. Può indicarne i motivi? «Che il Foro Romano sia un luogo privilegiato per la storia di Roma è di per sé evidente, poiché qui si concentra gran parte della vita pubblica romana: politica, amministrazione, giurisdizione, economia, religione. Attività che hanno lasciato tracce – perlopiú monumentali – in tutte le fasi, dalla protostoria al tardo antico (per non parlare del Medioevo). Inoltre, a partire dal Rinascimento, su questo sito si è concentrato l’interesse non solo degli studiosi di antichità, ma anche (e forse soprattutto) di architetti e artisti, che venivano a cercarvi i modelli per il rinnovamento culturale da essi auspicato. La storia della repubblica e dell’impero romano, che qui aveva la sua scena privilegiata, ha inoltre costituito un modello sia per il rinnovamento politico (dalla Rivoa r c h e o 33


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luzione francese a quella americana) sia per gli Stati monarchici, piú o meno illuminati, dell’Europa moderna, per non parlare dei regimi dittatoriali del XX secolo. La conoscenza del Foro Romano, quindi, riguarda tutti noi. Per quanto concerne il mio lavoro, ho sempre tentato, senza rinunciare alla minuta ricerca erudita (che rappresenta l’inevitabile base filologica di ogni procedimento scientifico), di far emergere i grandi temi di fondo che qualificano (e in ultima istanza giustificano) il nostro operare, sempre a rischio di rinchiudersi in una sterile torre d’avorio». ♦ Il libro che ha appena dato alle stampe s’incentra sulla fase che da Augusto giunge al tardo impero. Può indicare quali siano state le trasformazioni piú significative e profonde rispetto alle fasi precedenti? «Il transito dalla repubblica all’impero è naturalmente caratterizzato da un progressivo passaggio da luogo della politica a luogo di autorappresentazione del potere imperiale. Inizialmente permangono anche le funzioni giurisdizionali, amministrative e finanziarie, che però, con il prevalere dell’amministrazione del principe rispetto a quella di tradizione repubblicana, tendono a dislocarsi in altre sedi, cedendo il posto alle grandi celebrazioni del potere dinastico, sempre piú accentrato. Cosí, ancora una volta, il Foro permette di seguire i grandi eventi e le trasformazioni, che si susseguono lungo piú di cinque secoli, costituendo nel suo complesso un documento fondamentale per l’interpretazione storica non solo di Roma ma, per il ruolo universale della città, dell’intero mondo antico». ♦ Individua un filo conduttore fra i tre volumi? «In un certo, senso, la risposta è implicita nell’affermazione precedente. Il filo conduttore si esprime nella continuità ininterrotta del luogo, che, nonostante le sue trasformazioni, conserva il suo ruolo di “centro” universale, simboleggiato dalla presenza dell’Umbilicus urbis (il centro della città) accanto al Miliarium aureum (il centro dell’impero). Continuità e trasformazione si intrecciano indissolubilmente nella storia, forse in tutte la storie, e il Foro Romano non fa eccezione». ♦ Il Foro Romano è una delle aree archeologiche piú famose al mondo e, al contempo, una delle piú difficili da «decifrare» per gli stessi studiosi, ma soprattutto per i visitatori. Come si potrebbero indirizzare questi ultimi a una sua piena comprensione? «Il problema è enorme, forse insolubile, e al tempo stesso ineludibile: niente di meno che la questione della complessità, e della possibilità per un pubblico ampio 34 a r c h e o

Il Foro Romano in un dipinto di Giovanni Paolo Pannini. 1730-1750. L’area appare ancora parzialmente nascosta da un consistente interro, destinato a essere rimosso solo con l’avvio degli scavi.

di accedere a essa. La soluzione che in genere viene proposta è la “volgarizzazione”, la semplificazione normalizzante, che però, nel momento stesso in cui lo banalizza, inevitabilmente tradisce e mistifica il significato reale delle cose: che non sopravvive se viene separato dal suo contesto storico. L’operazione dovrebbe essere l’opposto di quanto normalmente fanno le (cattive) guide turistiche, cioé l’attualizzazione a tutti i costi, che implica l’anacronismo. Mentre sarebbe molto piú interessante per tutti


spiegare che il mondo antico ci interessa proprio in quanto è diverso dal nostro. La risposta possibile è la “divulgazione”, cioé il tentativo di enucleare il nocciolo fondamentale dei fatti portandolo, per quanto è possibile, al livello di un pubblico di media cultura (ammesso che esso ancora esista). In questi termini, il tema riguarda qualsiasi argomento culturale: non si tratta di abbassare i contenuti a livello “basso”, ma di portare per quanto possibile a un livello “alto” quella che un tempo si

chiamava la “cultura generale”. Come si vede, siamo nel pieno dell’inattualità!». ♦ Ritiene necessaria un’integrazione maggiore dei monumenti del Foro nel contesto della città moderna? E quali interventi urbanistici potrebbero, a suo giudizio, essere piú idonei a questo scopo? «La risposta si trova nel progetto avviato negli anni Ottanta del Novecento dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, sotto l’impulso di Adriano La Regina: a r c h e o 35


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l’integrazione si può realizzare solo nel rispetto reciproco tra antico e moderno, non certo “modernizzando” l’antico (per esempio, autorizzando il traffico veicolare nell’area archeologica). Oggi si è finalmente compreso che quest’ultima è proprio la soluzione “vecchia”, mentre il “nuovo” si esprime precisamente nel rispetto dell’ecologia e della sostenibilità: i monumenti antichi (anche a non considerarne il valore culturale) non sono i nemici di questa modernità benintesa, ma gli alleati: per esempio, creare un grande parco archeologico al centro di Roma (ancora oggi solo parzialmente realizzato) non è il sogno di vecchi retori ammuffiti, ma quanto di piú attuale si possa pensare per il rispetto della natura, della qualità della vita, e al limite della salute». ♦ Ha dedicato il libro ai suoi studenti di Perugia. Quanto ha contato l’attività didattica per Lei? «È stata la principale delle mie occupazioni, la piú fruttuosa (almeno per me) e la piú gratificante. Anche l’altra mia principale occupazione, la ricerca, è stata essenzialmente il supporto della didattica: tutti i miei libri sono nient’altro che il risultato dell’insegnamento, e senza l’insegnamento non sarebbero forse esistiti, e comunque sarebbero stati diversi e, se posso dirlo, certamente meno validi. Per questo, il debito che ho verso i miei studenti è stato e resta grandissimo».

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In alto: ricostruzione ipotetica del settore settentrionale del Foro Romano in un acquerello del 1893. Da sinistra si riconoscono, in primo piano, la basilica Giulia, il tempio di Saturno, il tempio della Concordia e l’arco di Settimio Severo. A sinistra, sulle due pagine: planimetria del Foro Romano: 1. Portico degli Dèi Consenti; 2. Tempio di Vespasiano; 3. Tempio della Concordia; 4. Carcere; 5. Chiesa dei Ss. Luca e Martina; 6. Arco di Settimio Severo; 7. Ara di Saturno e Umbilicus Urbis; 8. Rostra di epoca cesariano-augustea; 9. Tempio di Saturno; 10. Lapis Niger; 11. Plutei traianei; 12. Colonna di Foca; 13. Basilica Giulia; 14. Lacus Curtius; 15. Curia Iulia; 16. Equus Domitiani (monumento equestre di Domiziano); 17. Colonna domizianea; 18. Equus Constantini; 19. Rostra del tempio del Divo Giulio; 20. Porticus Iulia; 21. Basilica Emilia; 22. Tempio dei Castori; 23. Fonte Giuturna; 24. Tempio di Vesta; 25. Tempio del Divo Giulio; 26. Regia; 27. Tempio di Antonino e Faustina; 28. Casa delle Vestali; 29. Domus Publica; 30. Edificio repubblicano; 31. Tempio di Romolo; 32. Basilica dei Ss. Cosma e Damiano; 33. Basilica di Massenzio; 34. Edifici imperiali; 35. Arco di Tito; 36. S. Francesca Romana; 37. Tempio di Venere e Roma.

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resentiamo uno stralcio del capitolo I «luoghi di memoria» nel Foro Romano, tratto dal terzo volume dedicato da Filippo Coarelli al Foro Romano. La diffusa tendenza romana a «storicizzare» il mito si coglie anche nella creazione di una serie di monumenti figurati (soprattutto statue) intesi a commemorare eventi fondativi, in particolare della pseudostoria delle origini, negli stessi siti dove la tradizione li collocava: si tratta cioè di tipici «lieux de mémoire». La pratica si estese anche ad avvenimenti storici reali, che a loro volta assumevano cosí una connotazione «mitica», ma rivolta perlopiú a fini politici: è il caso delle statue dei Gracchi, ai quali «(il popolo Romano) innalzò delle statue in pubblico, consacrando i luoghi dove erano stati uccisi». Sede privilegiata di questo particolare genere di monumenti è il Foro, e piú particolarmente il Comizio, dove si concentravano immagini destinate a evocare gli eventi relativi alle origini della città, come la lupa con i gemelli, eretta nel 296 a.C. dai fratelli Ogulnii (quell’anno edili curuli) ad ficum Ruminalem, con la quale, come si è giustamente proposto, si intendeva celebrare l’uguaglianza tra patrizi e plebei (simboleggiati dai due gemelli): uguaglianza ormai pienamente raggiunta in seguito alla promulgazione della lex Ogulnia del 300 a.C., che aveva aperto ai plebei l’accesso ai piú importanti sacerdozi, il pontificato e l’augurato. Si tratta talvolta di identificazioni fittizie, come nel caso della statua di Romolo nel Volcanal (dove, secondo una diffusa tradizione, il fondatore era stato ucciso). Molto antica era certamente la statua di

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Atto Navio nel Comizio, che sarebbe stata collocata da Tarquinio Prisco nel luogo dove il primo augure aveva realizzato il «miracolo» di tagliare una cote con un rasoio. Il Comizio (insieme al Campidoglio) è anche uno dei principali luoghi di elezione, oltre che per statue onorarie e per immagini destinate a commemorare la storia delle origini della città, anche per particolari rappresentazioni di carattere allegorico, legate a eventi contemporanei: come la statua di Marsia, simbolo della libertas plebea, collegata all’approvazione della legge contro i feneratores e contro la schiavitú per debiti, dovuta probabilmente a C. Marcius Censorinus, tribuno della plebe nel 311. Oppure le statue di Pitagora e Alcibiade che, secondo Plinio il Vecchio, erano state collocate nella parte settentrionale del Comizio: «Invenio et Pythagorae et Alcibiadi in cornibus comitii positas, cum bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo Graiae gentis et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari. Eae

A destra: Tarquinio Prisco consulta l’augure Atto Navio, olio su tela di Sebastiano Ricci. 1690 circa. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum. In basso: pianta del Comizio di età mediorepubblicana, con la posizione presunta dei vari monumenti: 1. statua di Atto Navio; 2. Fico Ruminale; 3. lupa; 4. statua di Marsia; 5. puteale; 6. columna Maenia; 7. statua di Pitagora; 8. statua di Alcibiade; 9. Tabula Valeria; 10. subsellia tribunicia.


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stetere donec Sulla dictator ibi curiam faceret». La collocazione di queste statue nel Comizio nel corso di una guerra sannitica, a seguito di una consultazione dell’oracolo di Delfi, difficilmente potrebbe essere messa in dubbio, se non altro per la singolarità della scelta dei due personaggi, in luogo dei quali ci aspetteremmo piuttosto Socrate e Alessandro. D’altra parte, è da escludere che un evento di tale rilevanza non fosse menzionato da Livio: si tratta di una regola verificabile, particolarmente nel caso di monumenti esposti nel Comizio. Livio ricorda infatti la columna Maenia, l’aedicula Concordiae, la lupa degli Ogulnii, tutte opere anteriori al 294 (data finale del X libro, quando inizia la lacuna della seconda decade) ma non il Marsia e la tabula Valeria, il primo realizzato certamente dopo questa

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data, la seconda nel 263. L’attribuzione delle statue di Pitagora e Alcibiade a una data posteriore al 294 è cosí inevitabile; ma poiché questo momento cade bello Samniti, l’ambito cronologico risulta limitato a un periodo brevissimo, compreso tra il 292 e il

In questa pagina: i cosiddetti plutei di Traiano, balaustre marmoree rinvenute tra il Comizio e la Colonna di Foca sulle quali è raffigurato l’imperatore nell’atto di istituire aiuti a beneficio dei fanciulli poveri (in alto) e di annullare i debiti dei Romani (qui sopra).


290, gli anni finali della terza e ultima guerra sannitica. La scelta di questi soggetti è apparsa a taluni incomprensibile, e viene talvolta spiegata come il risultato della preda proveniente da una città della Magna Grecia. Tuttavia, se stiamo alle indicazioni delle fonti (e in particolare di Plinio), appare chiaro che si tratta di sculture realizzate appositamente per Roma, certamente da scultori magnogreci. La contestuale presenza di Pitagora e di Alcibiade rimanda a un ambiente filoateniese, antitarentino e antisiracusano: si potrebbe pensare a Neapolis o a Thurii. Almeno per quanto riguarda l’attività di artisti turini, conosciamo due casi, di poco successivi, di dediche di statue a Roma: quella realizzata nel 285 a.C., in onore del tribuno della plebe C. Aelius, e quella del 282 per C. Fabius Luscinus.

Un’intuizione di Michel Humm permette forse di chiarire, almeno in parte, i motivi di una scelta cosí singolare: «du point de vue romain, la figure d’Alcibiade, synonime de jeunesse et clone de courage militaire, pouvait représenter symboliquement les vertus des iuvenes qui constituent la farce du populus, alors que la figure de Pythagore pouvait servir de modèle à la sagesse des seniores, siégeant au sénat, puisque le lieu choisi pour l’érection des statues, à la jonction du Comitium et de la Curie, associait symboliquement le Peuple et le Sénat». Un episodio contemporaneo potrebbe fornire una puntuale conferma di questa congettura. Nel 292 il console Q. Fabio Massimo Gurges, duramente sconfitto dai Sannití, rischia la radiazione da parte del Senato: lo salverà l’intervento del padre, il celebre Q. Fabio Massimo Rulliano che, fattosi nominare legato dal figlio, lo porterà a una decisiva vittoria. Nel trionfo, celebrato nel 291, il padre seguirà a cavallo la quadriga del figlio. L’episodio assunse nella diatriba moraleggiante romana il carattere di un exemplum, destinato a illustrare la necessità della sapientia accanto alla fortitudo nella condotta della guerra: non sembra un caso che, a questo proposito, Plutarco definisca Fabio Rulliano «rinomato tra i Romani per grande sapienza e forza». La prescrizione dell’oracolo mostra un parallelismo perfetto con l’episodio bellico contemporaneo: sarebbe dunque difficile non riconoscervi un intervento della propaganda politica dei Fabii, per i quali è noto il rapporto con Delfi. Un riflesso di questa vicenda potrebbe vedersi nel didrammo romanocampano con Apollo/cavallo, certamente contemporaneo, che si

inserisce mirabilmente nel contesto fin qui illustrato: mentre il dritto con l’immagine di Apollo si riferisce probabilmente all’oracolo delfico, il cavallo in corsa del rovescio potrebbe alludere all’intervento, cui si dovette la vittoria, della cavalleria al comando di Fabio Rulliano, che «in medium se agmen... equo vectus ingessit» e che forse per questo seguí a cavallo il trionfo del figlio. Sarebbe difficile pensare, a questo punto, che la consultazione dell’oracolo delfico, che portò alla realizzazione delle statue «del piú forte e del piú saggio dei Greci», sia diversa da quella contemporanea che, provocata da una grande pestilenza, portò nel 292 all’introduzione del culto di Asclepio (cioè del figlio di Apollo) a Roma.

DA LEGGERE Filippo Coarelli, Il Foro Romano I. Periodo arcaico, Edizioni Quasar, Roma 1983 Filippo Coarelli, Il Foro Romano II. Periodo repubblicano e augusteo, Edizioni Quasar, Roma 1985 Filippo Coarelli, Il Foro Romano III. Da Augusto al tardo impero, Edizioni Quasar, Roma 2019

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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/1

UNITI DA UN PASSATO COMUNE FRA L’OTTOCENTO E GLI INIZI DEL NOVECENTO, GLI STATI NAZIONALI FONDANO LA LORO AUTORAPPRESENTAZIONE SUL RICHIAMO A UN RETAGGIO CULTURALE COERENTE E UNITARIO. NASCE COSÍ UNA NUOVA RETORICA DEL SAPERE STORICO, IN GRADO DI SUSCITARE FASCINAZIONE ESTETICA ED EMOTIVA. E L’ARCHEOLOGIA, CHIAMATA A ESALTARE LE ANTICHE RADICI, DA VECCHIA SCIENZA «ANTIQUARIA» SI TRASFORMA IN UNO STRUMENTO DELLA POLITICA… di Umberto Livadiotti

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Sulle due pagine: Zimbabwe. Uno scorcio del sito di Great Zimbabwe. Prima metà del II mill. d.C. Nella pagina accanto, a sinistra: la bandiera dello Zimbabwe, nella quale è stata inserita l’immagine stilizzata di un rapace trovata su un reperto proveniente da Great Zimbabwe. Nella pagina accanto, a destra: l’immagine del Great Zimbabwe in un francobollo emesso quando l’odierno Zimbabwe era dominio coloniale britannico con il nome di Rhodesia. a r c h e o 45


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L

a costruzione di una qualsiasi identità di gruppo nasce attorno al riconoscimento di una comunanza di esperienze e sensibilità. Cosí, il senso di appartenenza a una «nazione» - sentimento radicatosi in Europa a partire dall’inizio dell’Ottocento e poi diffusosi anche negli altri continenti – si avvale di fattori trainanti quali la condivisione (o, almeno, la familiarità) di lingua e religione, rafforzati da una diffusa e comune accettazione di quelli che una volta venivano definiti «usi e costumi»: stili di vita, organizzazione sociale, cultura materiale.

Un ruolo particolare nel processo di affermazione di questo «senso di identità nazionale» è stato ricoperto, inoltre, dalla conservazione o, per meglio dire, dalla rielaborazione, mediante i diversi meccanismi costitutivi dell’immaginario collettivo, di una comune memoria storica: quella di un passato, cioè, in grado di suggerire una «consapevolezza di continuità», corroborata dal radicamento in un dato territorio o, anche, dall’antagonismo rispetto ad altri gruppi nazionali. Il «passato» cosí caricato di un forte valore emozionale, da un lato stimola la

curiosità intellettuale e l’attenzione alla conservazione della memoria, dall’altro, tuttavia, può aprirsi a veri e propri cortocircuiti fra ricostruzione e… immaginazione.

PASSATI IMMAGINATI O PASSATI IMMAGINARI? La storia ha offerto – e offre ancora – la materia prima atta ad alimentare, nella nostra immaginazione, il legame con il nostro passato, con il mondo dei nostri «progenitori». Da un punto di vista emozionale, percorrere quotidianamente una strada affiancata da rovine archeologiche (tal-

Vercingetorige al cospetto di Cesare (o Vercingetorige getta le sue armi ai piedi di Cesare), olio su tela di Lionel Noël Royer. 1899. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier.

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volta «monumentali» come, per esempio, le arcate di un acquedotto romano), oppure scoprire la sostanziale affinità fra la propria lingua e quella utilizzata in una tavoletta d’argilla risalente a migliaia di anni fa esposta nella teca di un museo, costituiscono esperienze capaci di suggerire questo senso di continuità col passato, insieme a una compiaciuta consapevolezza di appartenenza a una civiltà millenaria. D’altra parte, però, tale processo di identificazione può indurre – inavvertitamente – a rapportarsi al passato con uno sguardo già orientato

Alise-SainteReine (Borgogna, Francia). Il monumento in onore di Vercingetorige, realizzato su progetto di EmmanuelEugène Violletle-Duc e coronato dalla statua scolpita da Aimé Millet. 1865.

dalle ipotesi ricostruttive sollecitate dall’immaginario collettivo. Cosí il richiamo alle presunte radici antiche si diffonde nella comunicazione, e sfocia talvolta nel folklore: dal logo di una associazione, all’insegna di un albergo, all’etichetta di un vino e all’iconografia delle tifoserie calcistiche, l’evocazione del passato diventa pervasiva, al punto che finiamo per considerarla spontanea e ovvia, anziché valutarla come il riflesso di una percezione «socialmente accreditata» della storia comune. La discendenza (presunta o meno) di una collettività da un’ antica «ci-


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viltà» è stata sostenuta e formalizzata anche dalla memoria ufficiale. In questo caso, soprattutto, il lavoro di storici e archeologi si è dimostrato (e risulta tutt’oggi) piú delicato di quanto potrebbe apparire…

le nazioni non risalgono oltre il migliaio di anni. Non a caso, il periodo piú amato dalla cultura romantica, cioè quella nel cui seno è maturata originariamente l’ideologia nazionalista, corrisponde al Medioevo. E se, soprattutto in Europa settentrionale e orientale, i IL MITO DEL MEDIOEVO Spesso, le radici storiche richiama- richiami al passato piú remoto rite dai sostenitori dell’antichità del- sultano pertanto secondari e super-

ficiali, nel caso dei Paesi affacciati sul Mediterraneo, la storia antica si presenta invece come uno dei perni attorno al quale è stata riorganizzata la memoria culturale delle varie popolazioni. Affinché un popolo antico, un periodo storico, una «civiltà», potessero candidarsi come antenati di una nazione dovevano però soddisfare almeno uno

I LUOGHI DELLA MEMORIA Per «luoghi della memoria», espressione coniata dallo studioso francese Pierre Nora, si intendono quegli spazi che mantengono la testimonianza o, semplicemente, simboleggiano eventi, personaggi o esperienze storiche fissate nel ricordo collettivo. Può trattarsi di un semplice edificio, come di una intera città o persino di un elemento del paesaggio; di località che realmente hanno fatto da scenario alla storia o di posti che

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racchiudono solo idealmente un richiamo al passato. Si tratta comunque di ambienti ad altissimo impatto emotivo, capaci di sintetizzare un messaggio e trasmetterne il ricordo. Ogni gruppo sociale identifica i suoi «luoghi» e si applica a custodirli, fissandoli nella immaginazione collettiva. Com’è facile intendere, per quanto riguarda la memoria «antica» delle nazioni, che è soprattutto una memoria ricostruttiva e immaginaria,

si tratta generalmente di edifici o località ormai scomparsi o caduti in rovina. Proprio per questo l’attività e le modalità di restauro e apertura al pubblico cui questi luoghi vengono sottoposti assumono una centralità particolare: si pensi all’impatto sull’opinione pubblica nazionale degli scavi di Alesia, in Francia, ai tempi di Napoleone III o a quelli di Masada in Israele negli anni Sessanta del secolo scorso, o al restauro di Babilonia voluto da


A destra: Babilonia, 1990. Un murales realizzato sulle mura della città, nel quale Saddam Hussein veniva visto come l’ideale continuatore della regalità sumerica ed accadica. In basso, sulle due pagine: una veduta del sito di Babilonia, le cui strutture originali furono pesantemente restaurate durante il governo di Saddam Hussein.

Saddam Hussein. L’alternativa, praticata in Europa soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, ma mai del tutto sopita (come dimostra per esempio la ristrutturazione urbanistica di Skopije del decennio scorso) è stata la ri-costruzione di monumenti nuovi, che nel loro stile o impianto architettonico evocassero gli antenati: colonne, archi, fontane, palazzi, rilievi, affreschi e soprattutto statue.

di questi due requisiti e se possibile entrambi: supremazia e priorità rispetto agli altri. L’identificazione è dunque riuscita piú facile quando si è trattato di riallacciarsi a un periodo di «splendore» (da intendere non obbligatoriamente come egemonia politica sui popoli vicini, ma anche, semplicemente, come eccellenza in un determinato campo di attività) o quando si è trattato di evidenziare la propria autoctonia, sancendo in tal modo (in base a una sorta di privilegio da primogenitura) il diritto all’occupazione, se possibile in esclusiva, del territorio anticamente abitato.

LA TRADIZIONE INVENTATA L’epoca compresa fra l’inizio dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento può essere considerata il periodo classico del nazionalismo, quello in cui, dapprima negli ambienti borghesi, poi via via in tutti i settori sociali delle popolazioni europee, si radicò il senso di appartenenza a una collettività civica definita, come abbiamo detto, anche dal punto di vista di una lunga storia comune. Nella retorica nazionalista del tempo, l’esaltazione del proprio passato divenne un punto focale nell’autorappresentazione istituzionale di ogni Paese. Un repertorio di simboli utilizzati in bandiere, stemmi, monete si fissò nella coscienza collettiva. Cerimo-

niali, feste, tradizioni vennero rispolverate o inventate di sana pianta per alimentare il richiamo agli antenati. Erezioni di statue, intitolazioni di vie, di abitati, di istituti contribuirono a fissare nella memoria nomi e luoghi della storia patria. E, per instillare nella popolazione l’assunto della continuità di destini con i propri avi, si sfruttò tutta la potenzialità, di fascinazione estetica ed emotiva, offerta da monumenti, rovine archeologiche e singoli reperti, cosí come la suggestione esercitata da episodi o personaggi ricordati dalle fonti antiche. La produzione e la trasmissione del sapere storico vennero potenziate e inquadrate: l’archeologia, la vecchia scienza «antiquaria», fu istituzionalizzata e regolarizzata accademicamente; lo studio della storia patria venne inserito nella programmazione scolastica obbligatoria; per la conservazione ed esibizione del patrimonio storico-artistico furono progettati sistemi museali nazionali. A seconda delle situazioni questo richiamo nazionalistico all’antichità corrispose all’esaltazione del proprio passato «classico» (sfruttato anche in chiave di «missione civilizzatrice» nelle colonie) o, viceversa, alla riscoperta della storia delle popolazioni che alla romanità si erano opposte (Galli, Iberi, Germani, Belgi, Elvezi fino ai popoli delle steppe eurasiatiche). I disastri causati dalle politiche nazionalistiche nel corso del Noa r c h e o 49


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TUTTI I PADRI DI ANGKOR Costruito nel XII secolo per volontà del re khmer Suryavaman II, Angkor Vat è un enorme santuario (originariamente induista, poi buddista) situato all’interno di un ampio complesso urbano, chiamato per l’appunto Angkor, immerso nella foresta cambogiana e abbandonato dal XVI secolo, di cui l’opinione pubblica europea venne a conoscenza alla fine dell’Ottocento. Nei primi decenni del Novecento, i Francesi, che dal 1863 amministravano la regione come protettorato, organizzarono un intervento di valorizzazione dell’area archeologica, portando avanti una attività di restauro delle rovine, allora in buona parte ricoperte dalla foresta. Agli inizi si trattò sostanzialmente di una semplice ripulitura dalla vegetazione, che si dimostrò però infruttuosa e anzi dannosa per la stabilità delle strutture murarie. Poi, dal 1931, si passò all’anastilosi, cioè alla

riedificazione degli edifici crollati attraverso la ricomposizione, piú o meno ipotetica, dei ruderi a disposizione: insomma, piú che alla preservazione si badò a una restituzione di grandiosità e splendore al sito. I Francesi infatti avevano colto la potenzialità simbolica di queste rovine: appropriandosi della paternità della scoperta e del restauro del sito, comunicavano attraverso un implicito ma suggestivo parallelo di essere gli unici capaci di porre fine alla decadenza della civiltà cambogiana e di riportarla ai fasti dell’antico splendore. Anche dopo il ritiro della Francia, negli anni Sessanta, Angkor continuò però a rappresentare nella retorica politica cambogiana l’icona del passato glorioso, dell’impero caduto e bisognoso di un salvatore per tornare all’antico splendore. Una retorica di cui si fecero interpreti prima 50 a r c h e o


Veduta aerea del sito di Angkor Vat, in Cambogia, che l’UNESCO ha inserito nel 2001 nella Lista dei beni considerati Patrimonio dell’Umanità.

il principe Sihanouk e poi i rivoluzionari guidati da Pol Pot. Ma il viscerale nazionalismo e il feroce ruralismo del regime khmer portarono all’allontanamento dal sito degli archeologi francesi e allo sterminio di quelli cambogiani. L’area archeologica tornò in rovina, fino alla fine degli anni Ottanta, quando venne concesso un intervento restaurativo all’Archeological Survey of India. Tornata la pace, l’area archeologica si è trovata a dover conciliare il suo carattere di patrimonio storico nazionale con un interesse artistico piú universale, direttamente promosso dall’UNESCO, coinvolto nelle attività di restauro. Negli ultimi decenni, del resto, intorno all’area archeologica il giro d’affari legato al turismo è cresciuto in maniera esponenziale. I visitatori, perlopiú turisti stranieri, superano infatti i due milioni l’anno.

Nella pagina accanto, in alto: restauratori cinesi nel corso di un intervento eseguito nel 2018 ad Angkor Vat. Nella pagina accanto, in basso: prospetto di Angkor Vat, il complesso voluto da Suryavarman II (1113-1150) nella prima metà del XII sec.

vecento hanno tuttavia segnato il declino di questa retorica sciovinista e antiquaria. Ciononostante, il richiamo di stampo nazionalistico alla storia ha mantenuto la sua forza operativa. Nei Balcani, per esempio, dove questioni storiografiche che altrove sarebbero rimaste circoscritte in ambito accademico (come l’ascendenza illirica degli Albanesi, la grecità o meno degli antichi macedoni, l’origine latina dei Rumeni), si sono tradotte persino in argomento di negoziati internazionali. Per non parlare del Vicino Oriente, dove le a r c h e o 51


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dispute archeologiche relative alla cronologia e alla consistenza degli antichi insediamenti ebraici in Palestina sono parte integrante del dibattito politico.

UNA NUOVA MEMORIA Fuori dall’Europa, l’ideologia nazionalista si è diffusa a ricasco della creazione dei grandi imperi coloniali e in seguito all’alfabetizzazione politica di stampo europeo ricevuta dalle élite locali all’inizio del Novecento. Memorie collettive e «tradizioni» sono perciò state riscoperte o «inventate» con un certo ritardo rispetto a quelle europee, ma, in alcuni contesti, con altrettanta, se non maggiore, insistenza. Il bisogno di riconoscere una profondità storica anche alle popolazioni sottoposte al dominio coloniale – che nella rappresentazione data dagli occidentali erano invece relegate a uno stato di permanente primordialità – e la necessità di dotarle di una identità forte, capace di contrapporsi a quella fornita dalla cultura occidentale, si è fatta sentire un po’ ovunque. Il caso piú clamoroso è quello del piú importante e monumentale sito archeologico dell’Africa australe: il complesso di Great Zimbabwe, quasi 800 km a nord di Pretoria. Scoperte e indagate alla fine del XIX secolo, queste rovine, contraddistinte da una colossale fortificazione circolare, vennero inizialmente attribuite dagli studiosi europei ai Fenici o alla regina di Saba! La possibilità di assegnarne la costruzione a una popolazione indigena non era semplicemente considerata. Solo nel corso del Novecento, scavi con52 a r c h e o

dotti con maggior perizia portarono gli archeologi a riconoscere nel complesso (databile alla prima metà del II millennio d.C.) l’espressione di una cultura locale. Per la popolazione bantu, Great Zimbabwe divenne motivo di orgoglio e si trasformò immediatamente in un «luogo della memoria» (vedi box alle pp. 48-49). Uno dei piú noti reperti rinvenuti nel sito, raffigurante un rapace stiliz-

In alto: Il giuramento di Simón Bolívar sul Monte Sacro, dipinto realizzato dall’artista venezuelano Tito Salas per il Panteón Nacional di Caracas. Nella pagina accanto: busto eretto in onore di Simón Bolívar sulla sommità della collina di Monte Sacro, a Roma, dove il libertador venezuelano pronunciò il suo giuramento, il 15 agosto 1805. Il luogo fu scelto perché, nel 494 a.C., era stato teatro della prima secessione della plebe di Roma.

zato, divenne l’emblema ufficiale del Paese e venne inserito nella bandiera nazionale. Il Paese stesso, che al momento dell’indipendenza portava ancora la paternalistica denominazione di Rhodesia, assunse il nome di Zimbabwe.

SUL MONTE SACRO Un caso a parte è l’America. Le élite di origine europea che hanno governato sia nel Nord che nel Sud del continente e che, a cavallo fra Sette e Ottocento, hanno condotto le lotte per l’indipendenza dei loro Paesi da Inghilterra e Spagna erano state educate a un forte classicismo: per i loro membri, proprio come per i rivoluzionari francesi loro contemporanei, l’antichità e, soprattutto, la Roma repubblicana rappresentavano modelli di cultura civica. Basterebbe pensare al giuramento prestato da Simón Bolívar sul Monte Sacro a Roma o alla decisione di far costruire un Campidoglio a Washington per ospitare la sede del parlamento federale, o a quella di chiamare un neonato centro urbano dell’Ohio col nome del condottiero romano a cui era intitolata una associazione di ufficiali dell’esercito indipendentista statunitense (la Società dei Cincinnati). Viceversa, il disinteresse verso le antichità autoctone era talmente radicato che lo studio delle civiltà precolombiane, assolutamente trascurato da storici e archeologi locali, soprattutto in Nord America, finí per scivolare, sotto forma di etnologia, nell’ambito delle scienze naturali. Solo l’ascesa socio-politica dell’elemento indigeno, nei Paesi in cui ciò è avvenuto, ha portato poi a


una revisione dell’atteggiamento verso il passato piú remoto del territorio, in particolare lí dove le testimonianze di antiche civiltà fiorenti erano piú imponenti. È quanto accadde in Messico nei primi decenni del Novecento, quando, all’avvento del cosiddetto «indigenismo», si affiancò, per la prima volta, la tendenza a valorizzare ufficialmente, in chiave di esaltazione nazionale, il passato precolombiano del Paese, favorendo anche campagne di scavi. Le colossali rovine di Teotihuacán, che esercitavano il loro fascino sulla popolazione locale sin da prima dell’arrivo degli Spagnoli, si trovarono cosi al centro di rinnovate indagini archeologiche e, fra il 1905 e il 1910, in concomitanza con la celebrazione del primo centenario dell’indipendenza, la cosiddetta Piramide del Sole venne sottoposta a un radicale restauro, che la trasformò di fatto nel monumento celebrativo della millenaria storia messicana (si trattò peraltro di un intervento davvero incauto, che compromise per sempre la possibilità di ricostruire la fisionomia originaria del monumento).

RADICI E IDENTITÀ Se si escludono contesti geopolitici particolari, come i Balcani o il Vicino Oriente, negli ultimi decenni, soprattutto in Europa, la propaganda legata alla tradizionale retorica nazionalista sembra essersi dissolta. Parallelamente si è assistito alla diffusione nell’immaginario sociale di forme di memoria collettiva globalizzata, caratterizzata dalla interiorizzazione di esperienze vissute attraverso la comunicazione massmediatica a prescindere dalla loro prossimità fisica. D’altra parte, però, in opposta corrispondenza a questo fenomeno, si è verificata una riscoperta quasi ossessiva delle identità culturali da parte delle comunità locali, regionali o cantonali. Una riscoperta accompa-

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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gnata da una fioritura di iniziative, pubbliche e private, tese a valorizzare il patrimonio storico locale. Una fioritura tanto piú intensa in quanto favorita dallo sviluppo della Public History e dalla Public Archaeology. Ge-

neralmente, queste nuove narrazioni identitarie si limitano a contribuire alla costruzione di un’immagine del territorio e della sua popolazione che sia fattore di prestigio (nazionale o anche internazionale) e ancor piú

Teotihuacán (Messico). Nel sito si conservano i resti imponenti del primo e piú esteso centro urbano della Mesoamerica preispanica.

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che possa costituire un polo di attrazione turistica per scolaresche, escursionisti istruiti e visitatori interessati alla cultura (un target definito, non a caso, «consumatori di memoria»). Le radici storiche delle comunità attua-


li vengono proiettate in un ambito cronologico cosí remoto da farle risultare quasi incastonate nell’habitat naturale. In questo modo il richiamo al passato contribuisce a innescare nel fruitore della narrazione, che sia

un visitatore o un abitante locale, una percezione di autenticità. Non a caso, l’esaltazione del patrimonio storico e archeologico si accompagna generalmente alla valorizzazione delle risorse naturali,

soprattutto quelle di ordine paesaggistico e agroalimentare, e si manifesta attraverso l’offerta di festival, fiere con sfilate in costume, parchi a tema. E i prodotti tipici – gastrono(segue a p. 59)

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EREDITÀ O DISCENDENZA? Eredità e discendenza sono concetti ambigui, confusamente utilizzati per intendere due realtà affini ma diverse. Se da un lato, infatti, la discendenza biologica costituisce un legame di filiazione diretta, dall’altro l’eredità (quantomeno l’eredità culturale) rappresenta il patrimonio di conoscenze, atteggiamenti e comportamenti trasmessi da una generazione all’altra attraverso un apprendimento piú o meno consapevole mediato da regole sociali. In genere, però, nel guardare ai propri antenati, le comunità tendono a sovrapporre i due concetti: gli avi sono percepiti sia come i progenitori biologici, sia come i fondatori del proprio sistema culturale (della lingua, della religione, ma anche – per esempio – dell’arte, della musica o persino della gastronomia). Oggi le ricerche sul DNA mitocondriale contribuiscono a evidenziare la complessità dei legami genealogici che caratterizzano (talvolta nel segno della continuità, in altri casi denotando maggiori fratture e commistioni) i rapporti di filiazione genealogica fra le popolazioni moderne e quelle stanziate nel medesimo territorio nella piú remota antichità. Ma rimane tuttora diffusa l’inclinazione ad associare parentela genetica e parentela culturale. Del resto, si tratta di un orientamento che caratterizzava già quella ricerca delle «origini» tipica della cultura romantica, in seno alla quale maturò la convinzione dell’antichità delle nazioni. La connessione fra elementi «razziali» e culturali venne poi ulteriormente rafforzata negli ultimi decenni del XIX secolo dal generale clima di razzismo

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In alto: Germania, 1940. Un anziano viene sottoposto alla misurazione del naso per determinarne l’appartenenza alla razza ariana.

Nella pagina accanto: manifesto del Congresso per l’Igiene Biologica, Amburgo, 1912. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

colonialistico in cui maturarono la diffusione dell’evoluzionismo e i progressi della linguistica. Attraverso la metafora dell’albero genealogico, ogni gruppo umano era concepito come il risultato di un rapporto lineare di ramificazione, alla cui radice poteva, anzi doveva, essere identificato un antico popolo, che ne avrebbe perciò incarnato la piú pura e autentica essenza. Un particolare risalto, anche a livello mediatico, ebbe la discussione sulla individuazione delle origini degli «indoeuropei» (o, come piú spesso si diceva allora, con una parola poi tabuizzata, «ariani»). Le analisi linguistiche suggerivano l’esistenza di una popolazione dotata di un idioma originario, da cui poi sarebbero discese la maggior parte delle lingue parlate in Europa (quelle neolatine, germaniche, slave, il greco, l’albanese, ecc.). Ma non se ne conoscevano il nome, né la collocazione territoriale.

In base a considerazioni lessicali (che in seguito sarebbero risultate fallaci) si pensò che fosse una popolazione di guerrieri stanziata in riva al mare, all’ombra di faggeti. Il ramo piú antico (e quindi autentico) dell’indoeuropeo venne individuato da professori tedeschi nel protogermanico. Karl Penka (1847-1912) identificò nello spazio compreso fra Germania settentrionale e Scandinavia meridionale la Urheimat, la «patria ancestrale», da cui sarebbero poi discese tutte le civiltà europee. Gustaf Kossinna (1858-1931) sostenne di riconoscerne le tracce nella «cultura della ceramica cordata». Saldamente sostenuto dalla divulgazione storica, il mito di una razza ariana originaria, bionda, occhi azzurri e germanofona, poté cosí trovare rapidamente vasta e capillare diffusione, anche al di fuori della società tedesca, fino a diventare, nei decenni successivi, un cardine dell’ideologia del Terzo Reich.


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CULTURE ARCHEOLOGICHE E IDENTITÀ ETNICHE Quando, in un contesto archeologico, si ritrovano accostati in maniera ricorrente elementi uguali (vasi, attrezzi, ornamenti, armi, ma anche modalità di sepoltura o tipologie planimetriche), si tende a spiegare questa associazione di tratti come espressione di una specifica «cultura», cioè di un particolare sistema di vita e valori. Nato in Europa dallo studio dei corredi funerari (con l’ambigua definizione di «archeologia degli insediamenti») e perlopiú rivolto all’analisi dei resti archeologici delle società preletterarie, questo approccio si è rivelato fondamentale non solo per la

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conoscenza del mondo preistorico e protostorico, ma anche per quello altomedievale. Tuttavia, sin dall’inizio, tale metodo ha manifestato i suoi limiti, in particolare per responsabilità degli archeologi tedeschi che per primi lo misero a punto, suggestionati dalla possibilità di poter proiettare su queste «culture» individuate archeologicamente l’esistenza delle tribú germaniche, conosciute attraverso le fonti letterarie o ipotizzate attraverso le ricostruzioni storico-linguistiche, e dimostrarne cosí la preminenza. Utilizzato in maniera piú asettica, il concetto di «cultura archeologica» si è comunque affermato nella

seconda metà del Novecento, soprattutto grazie all’opera di Vere Gordon Childe (1892-1957). Ma i limiti restano. L’inclinazione ad associare popoli definiti storicamente alle specifiche culture archeologiche (che


A sinistra: veduta dall’alto di Great Zimbabwe. Dopo essere stato fantasiosamente e variamente interpretato, il complesso venne finalmente riconosciuto come opera di genti indigene solo all’indomani delle prime indagini archeologiche, condotte nel 1929 dall’archeologa inglese Gertrude Caton Thompson. Nella pagina accanto, in basso: Vere Gordon Childe, uno dei maestri della moderna paletnologia, in una foto del 1945.

solitamente prendono il nome da uno dei primi siti in cui sia stata rilevata la presenza degli elementi che le caratterizzano) continua infatti a offrire la sponda a strumentalizzazioni nazionalistiche, anche a prescindere dalla volontà degli studiosi che ne abbiano suggerito la connessione. Inoltre, è risultato sempre piú inadeguato leggere la presenza dei differenti tratti culturali individuati archeologicamente come sicuro riflesso di gruppi etnici particolari. Questi, infatti, sono gruppi umani che oltre a condividere alcuni strumenti culturali, simbolici e materiali, categorizzano se stessi

come popoli (o come tribú) distinti dal resto del mondo: una percezione difficilmente osservabile dal punto di vista archeologico. Per questo motivo, negli ultimi decenni, la categoria di «cultura archeologica» è stata sottoposta a forti critiche. Oggi si preferisce pertanto parlare di facies; e, nel caso di una correlazione a particolari gruppi umani, si ricorre prevalentemente a espressioni centrate sul termine identità, un concetto piú sfumato ed elastico, che (a dispetto della sua origine etimologica) suggerisce l’esistenza di realtà piú dinamiche e variegate di quelle richiamate da categorie standardizzanti come «popoli» o «nazioni».

mici o di artigianato – finiscono per essere veicolo e testimonianza di questo rapporto speciale col passato, testificandone qualità e originalità. Dal punto di vista piú strettamente politico, solo sporadicamente questi entusiasmi locali per il proprio passato contribuiscono ad alimentare direttamente ideologie di stampo autonomistico o etnicistico (dato che, per realtà demograficamente circoscritte, non si parla di nazionalismo). Tuttavia, il rischio di una deriva è sempre presente e lo si può intravedere nella dialettica spesso vivace che si innesca con le istituzioni nazionali o persino internazionali (in particolare con l’UNESCO) in merito alla gestione, tanto concreta quanto simbolica, del patrimonio storico-archeologico, inteso talvolta come eredità culturale locale piú che come bene comune dell’intera umanità. PER SAPERNE DI PIÚ Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge, 1984 (tr. it. L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 2002) Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso Books, London-New York 1991 (tr.it. Comunità immaginate: origini e fortuna dei nazionalismi, ManifestoLibri, 2009) Philip L. Kohl e Clare Fawcett (a cura di) Nationalism, Politics and the Practice of Archaeology, Cambridge University Press, Cambridge 1996 Margarita Diaz-Andreu e Timothy Champion (a cura di ), Nationalism and Archaeology in Europe, UCL Press, Londra 1996

NELLA PROSSIMA PUNTATA • L’elmo di Scipio. Il nazionalismo italiano e il mito di Roma a r c h e o 59


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I SECOLI DI

OPITERGIUM DIVENUTO MUNICIPIO E OTTENUTA LA CITTADINANZA ROMANA, UN ANTICO INSEDIAMENTO VENETO SI TRASFORMA PER ADEGUARSI AL MODELLO PROPAGANDATO DALLA CAPITALE. ECCO LA STORIA DI VENT’ANNI DI ESEMPLARI INDAGINI ARCHEOLOGICHE, OFFERTI ALL’ATTENZIONE DEL PUBBLICO CON PERCORSI DI VISITA, ALLESTIMENTI MUSEALI E UNA MOSTRA MOLTO PARTICOLARE… testi di Margherita Tirelli, Elisa Possenti, Marta Mascardi e Maria Cristina Vallicelli 60 a r c h e o


I reperti illustrati sono esposti a Palazzo Foscolo e nel Museo archeologico Eno Bellis di Oderzo. Sulle due pagine: scena di caccia al cinghiale, particolare del grande mosaico rinvenuto alla fine dell’Ottocento nell’area dell’ex Foro Boario. Fine del III-inizi del IV sec. d.C. a r c h e o 61


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L

a storia di Oderzo (l’antica Opitergium), cittadina situata poco meno di 30 km a nordest di Treviso, si sviluppò alla sommità di un dosso, tuttora percepibile, del fiume Navisego. Qui, infatti, si sviluppò il primo insediamento opitergino, strutturato secondo uno schema regolare e organico già dalla fine del X secolo a.C. I confini del centro abitato appaiono chiaramente definiti lungo i versanti orientale e occidentale da corsi fluviali, di cui l’occidentale dotato di un’arginatura possente, un’opera di carattere evidentemente pubblico, realizzata nella primissima età del Ferro. Il limite meridionale era invece marcato da almeno tre cippi confinari che recano incisa la medesima iscrizione, TE, in alfabeto venetico, interpretabile come abbreviazione del termine «comunità»

o, in alternativa, «cippo confinario». I numerosi interventi di scavo condotti negli anni hanno messo in luce, a piú riprese, un vero e proprio impianto protourbano, costituito da una maglia regolare di strade, viottoli e canalette che suddividevano spazi modulari per le abitazioni, organizzate in differenti settori abitativi. Anche i molteplici resti di strutture riferibili a impianti produttivi risultano articolati in assetti coerenti e isorientati. Le aree di necropoli erano separate dal centro urbano dai corsi fluviali, secondo un modello non solo topografico ma anche ideologico e rituale, documentato nei principali abitati veneti. A oggi, mancano rinvenimenti funerari attribuibili al periodo piú antico. Le prime testimonianze sono infatti databili agli inizi del VI secolo a.C. e provengo-

Cortina d’Ampezzo Trentino Alto Adige

Belluno

Friuli Venezia Giulia

Oderzo Lago di Garda

Vicenza

Treviso Padova

Venezia

Verona Rovigo Emilia Romagna

no da sepolture a inumazione localizzate nel sepolcreto meridionale. Al medesimo sepolcreto appartengono alcune strutture a tumulo, realizzate e successivamente ampliate tra il V e il IV secolo a.C., nonché due sepolture equine, una delle quali riccamente bardata con fini-

Anche a Oderzo è attestato l’uso, tipico degli antichi Veneti, di dare sepoltura ai propri cavalli

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menti in ferro e in bronzo. Una terza sepoltura di cavallo è stata messa in luce nel settore occidentale della necropoli, venendo cosí a documentare anche per Oderzo la tradizione degli antichi Veneti, rilevata nei maggiori centri indigeni, di dare sepoltura ai propri destrieri.

L’ETÀ ROMANA Divenuta municipio e ottenuta la cittadinanza romana negli anni compresi tra il 49 e il 42 a.C., Opitergium, analogamente agli altri centri veneti, andò completando la trasformazione della propria immagine urbanistica, intrapresa da oltre un secolo, per adeguarsi al modello romano propagandato dalla capitale. Un ventennio di intensa attività archeologica consente oggi di ricostruire l’articolato impianto urbanistico della città augustea, sviluppatosi senza soluzione di continuità sul precedente impianto preromano, nonché l’estensione della sua necropoli, che la circondava quasi interamente. La città era dotata, forse non su tutti i versanti, di mura, di cui è stato rinvenuto un segmento del settore nord-orientale nel quale si apriva una delle porte; su altri due lati era delimitata, come in precedenza, probabilmente solo da corsi d’acqua, il Monticano a est e il Navisego Vecchio-Piavon a ovest. Nel settore urbano orientale era ubicato il Foro: la piazza misurava oltre 98 m di lunghezza e 40 di larghezza ed era verosimilmente dominata dal Capitolium, come suggerisce la presenza di un’alta gradinata, individuata in corrispondenza del lato breve sud-occidentale. I lati lunghi della piazza erano chiusi, rispettivamente, da due porticati sopraelevati, di cui è stato esplorato interamente quello sud-occidentale, confinante con il cardo maximus, sul quale prospettavano la basilica civile e una duplice fila di botteghe. Nei pressi del Foro erano ubicate le terme, di cui venne messa in luce una

In questa pagina: cippi confinari che recano incisa l’iscrizione TE, in alfabeto venetico, interpretabile come abbreviazione del termine «comunità» o «cippo confinario». Nella pagina accanto: bronzetto di cavallo. V-IV sec. a.C.

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sequenza di quattro ipocausti, menA destra: tre piú oltre si ergeva un monuplanimetria di mentale tempio a tre celle, affacciaOderzo romana. to su una piazza racchiusa all’interIn basso, no di uno scenografico triportico. a sinistra: A questi significativi esempi, allineplanimetria del ati alla piú tradizionale architettura Foro augusteo. romana di carattere pubblico, fanno In basso, a destra: riscontro molteplici testimonianze un tratto delle riferibili all’edilizia privata, anch’esfondazioni della se di stampo canonico, tra cui, in cinta muraria. particolare, la prestigiosa domus edificata in prossimità del Foro, estesa per oltre 1500 mq e dotata di un peristilio, di una monumentale sala di rappresentanza, di un impianto termale e di ben tre triclini, le cui preziose pavimentazioni sono uniche nel panorama veneto.

A occidente della città è stato individuato il porto fluviale, dotato di banchine in opera lapidea, a cui si collegava un complesso sistema di strutture lignee, finalizzate alla captazione dei flussi all’interno dell’alveo.

L’ARRIVO DEI BARBARI Secondo quanto tramandato dallo storico Ammiano Marcellino, Opitergium venne assalita nel 167 d.C. (segue a p. 72) 64 a r c h e o


A sinistra: particolare della pavimentazione di uno dei triclini di cui era dotata la prestigiosa domus edificata in prossimità del Foro, estesa per oltre 1500 mq. La soluzione adottata costituisce un unicum nel panorama veneto. A destra: Necropoli di via Spiné (ex deposito Merlo): intervento di bonifica realizzato con anfore poste orizzontalmente.

ANFORE DAI MOLTI USI La presenza di corsi d’acqua segna la storia di Opitergium: da confini naturali del dosso cittadino a collegamento con il mare, i fiumi ne definiscono la posizione strategica e la vocazione commerciale già in età antica. Il ritrovamento di migliaia di anfore negli scavi archeologici offre la possibilità di analizzare alcuni interessanti aspetti della vita di questa classe di materiali, cosí ben rappresentata a Oderzo. Destinate al trasporto di liquidi – come per esempio olio, vino, garum –, olive, frutta e allume, le anfore costituiscono infatti un indicatore dell’importazione di determinati prodotti e, di conseguenza, possono fornire informazioni sui consumi della popolazione. Nel I secolo d.C., per esempio, Oderzo importava olio e vino dall’Italia, dall’Oriente e dalle province occidentali mentre, stando ai dati quantitativi delle tipologie di anfore attestate, il consumo di salse e conserve di pesce era piuttosto scarso. Terminata la funzione primaria di contenitore, l’anfora poteva essere riutilizzata: la sua forma cava e affusolata e la resistenza dell’argilla ne facevano un utile strumento per interventi edilizi di diverso tipo. Le anfore potevano infatti essere utilizzate per bonifiche idrauliche, per convogliare, sotto forma di drenaggi, le acque sotterranee o per la bonifica dei terreni,

finalizzata a renderli piú compatti e solidi. Gli scavi della necropoli di Oderzo hanno rivelato la presenza, soprattutto nei sepolcreti orientale e meridionale, localizzati ai piedi del dosso, di bonifiche con anfore, realizzate prima della destinazione funeraria dell’area. I terreni interessati dalle bonifiche, caratterizzati da una tipologia argillo-sabbiosa, erano infatti facilmente oggetto di ristagni d’acqua, che venivano fronteggiati con le mirabili competenze dell’ingegneria antica. Alle diverse tipologie di anfore e alle differenti strutture di deposizione attestate a Oderzo è dedicata una sala del Museo archeologico, utile strumento didattico per comprendere i diversi usi di questo versatile contenitore. Marta Mascardi

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LE AREE ARCHEOLOGICHE Nel centro di Oderzo, tra via Roma e via Mazzini, un’ampia area archeologica integrata negli spazi del complesso edilizio e della piazza odierni, offre uno spaccato della città romana, con importanti resti del complesso forense e di una grande domus, databili tra la fine del I secolo a.C. e la metà del I secolo d.C., godibili sia dall’alto, a livello stradale, sia in quota, grazie a un percorso sotterraneo che ne raccorda i diversi settori. Del monumentale complesso forense rimangono a vista ampi tratti della grande piazza di 40 m di larghezza per una lunghezza di quasi 100, lastricata di trachite euganea e fiancheggiata sui lati lunghi da gradinate di accesso a un portico sopraelevato. Sul lato occidentale si incontrano i resti della Basilica civile a pianta rettangolare con i plinti di fondazione del doppio colonnato interno, mentre sul lato meridionale si conservano le tracce dell’imponente gradinata che doveva condurre al Capitolium. Una via ampia 6 m, identificabile con il cardine massimo della città e di cui rimane la sola condotta fognaria in mattoni che correva sotto l’originario piano stradale, divide la piazza dalla grande domus, che si estendeva a sud-ovest su una superficie di oltre 1500 mq. Nella porzione lasciata a vista, la lussuosa abitazione si articola

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In questa pagina: immagini delle aree archeologiche di via Roma-via Mazzini e delle ex Carceri (al centro). In particolare, qui accanto e in basso, a sinistra, sono visibili i triclini della grande domus che si estendeva, per oltre 1500 mq, a sud-ovest della piazza del Foro.

intorno a due cortili e conserva pregevoli pavimentazioni in mosaico bianco e nero e in battuto cementizio con ricco repertorio decorativo in tessere musive e frammenti di marmi variopinti, pertinenti a una grande sala di rappresentanza e a tre triclini per il convivio. È invece riferibile al settore termale della residenza un quarto ambiente, che conserva i pilastrini del riscaldamento a ipocausto. Dalla piazza del Foro, il percorso archeologico nella città romana prosegue alla scoperta di altre preziose testimonianze pertinenti ad abitazioni private con pavimentazioni musive e pozzi in laterizio per la captazione dell’acqua, a tratti stradali con basolato perfettamente conservato, fino a raggiungere l’unico tratto noto delle mura cittadine con una delle porte urbiche, visibili all’interno dell’edificio delle ex Carceri (vedi box alle pp. 72-73), che offre un suggestivo colpo d’occhio su una complessa stratificazione di strutture dall’età romana al Medioevo. Maria Cristina Vallicelli


IL MUSEO ARCHEOLOGICO ENO BELLIS La pubblicazione, nel 1874, del volume di Gaetano Mantovani Museo Opitergino segna l’inizio della storia del Museo Archeologico di Oderzo, aperto al pubblico il 31 dicembre 1881. La barchessa (termine che, in area veneta ed emiliano-romagnola, designava la tettoia annessa alla casa colonica per riporvi il grano in covoni, n.d.r.) del cinquecentesco Palazzo Foscolo accoglie oggi le ricche collezioni archeologiche cittadine, raccolte in un percorso che dall’età preromana giunge fino alla tarda antichità. Insieme alla Biblioteca Civica, alla Pinacoteca Alberto Martini e alla GAMCO, il Museo Archeologico Eno Bellis è parte del Polo culturale opitergino di Oderzo Cultura. L’insediamento di Oderzo si colloca nella bassa pianura trevigiana, su un dosso naturale cinto da corsi d’acqua: la felice posizione geografica del centro determina il suo precoce sviluppo e, intorno al IV secolo a.C., l’abitato veneto si estende per oltre 50 ettari, occupando quasi totalmente la piattaforma del dosso. I reperti esposti sono testimonianza della cultura materiale dell’insediamento e degli importanti scambi commerciali che interessavano la città in età antica, evocati dal significato del toponimo Opitergium, «al mercato», con una presenza significativa di merci d’importazione (ceramica attica, ceramica daunia e, per le epoche piú recenti, anfore). L’itinerario espositivo alla scoperta dell’abitato veneto affronta il tema della scrittura, con testimonianze epigrafiche in lingua venetica (ceramiche graffite, ciottoli inscritti), e del culto, con i bronzetti a carattere votivo, raffiguranti offerenti o cavalieri, e un cavallino bronzeo, realizzato a fusione. Di notevole importanza è la tomba 49 di una necropoli attiva tra la fine del VI e

il IV secolo a.C., che accoglieva un cavallo, deposto in perfetta connessione anatomica, insieme al corredo di una ricca bardatura in ferro e bronzo che, per la singolarità degli elementi che la compongono, costituisce un esemplare unico. L’evoluzione urbanistica della città romana accompagna il visitatore alla scoperta dei reperti provenienti dallo scavo di alcuni pozzi, che offrono uno spaccato della vita quotidiana di Opitergium attraverso i secoli. La riproposizione in scala reale di alcuni tipi di drenaggi di anfore riproduce scenograficamente alcune delle strutture di bonifica con anfore attestate negli scavi cittadini (vedi box a p. 65): la grande sala accoglie inoltre il video con la ricostruzione digitale dell’area forense e della domus dei Triclini, che consente di immaginare la grandezza della città e prepara alla visita delle aree archeologiche. Le sale al piano terra ospitano reperti provenienti da Oderzo e dal suo territorio, in un percorso che procede per nuclei tematici: la sezione dedicata alla necropoli, con una grande presenza di monumenti funerari quali stele e iscrizioni, e poi la sala dedicata al commercio, al culto e alla sfera privata, che accoglie monete e bronzetti, elementi architettonici, oggetti di ornamento (fibule, anelli, gemme incise, bracciali) e materiali legati alla vita domestica (aghi, lucerne, pedine da gioco, campanelli bronzei, pesi da stadera). La visita si conclude con i mosaici di età tardo-antica rinvenuti alla fine dell’Ottocento (vedi box a p. 76), che facevano probabilmente parte della decorazione di una ricca domus, ubicata nelle vicinanze dell’area forense. Per informazioni e prenotazioni: www.oderzocultura.it Marta Mascardi

La grande sala delle anfore, al primo piano del Museo Archeologico Eno Bellis, Oderzo Cultura.

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LA NECROPOLI E I CORREDI Alla periferia di Opitergium, lungo il perimetro sud-orientale e sud-occidentale, si articolava la necropoli, distinta in settori che si impostavano lungo le vie in uscita dal centro cittadino, come di consueto nel mondo romano. Già parzialmente noti da rinvenimenti ottocenteschi di monumenti e corredi funerari, i sepolcreti sono stati delineati nella loro topografia e organizzazione soprattutto grazie alle indagini archeologiche condotte dalla Soprintendenza negli ultimi quarant’anni. Necropoli sud-orientale di via Spiné. Grande recinto funerario attribuibile all’ultimo periodo di utilizzo del sepolcreto. Sono visibili i resti delle fondazioni in elementi laterizi e litici su palificata lignea, che ne delimitavano la pianta rettangolare (9,50 x 8,30 m, corrispondenti a 32 x 28 pedes circa), con la fronte allineata alla via glareata che attraversava l’area.

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In tutta la necropoli, a partire dall’età augustea, l’uso funerario risulta preceduto da sistematici interventi di bonifica mediante drenaggi di anfore a controllo della falda freatica. E sulle bonifiche si impostano i diversi settori funerari. Il sepolcreto sud-orientale, indagato per ampi tratti presso le attuali via Spiné e via degli Alpini, si sviluppava ai lati di un asse stradale che usciva dalla città verso est, in direzione della via Postumia. A esso può essere riferito un ulteriore nucleo rinvenuto piú a sud,

lungo l’asse viario extraurbano che costeggiava la sponda sinistra del Navisego Vecchio-Piavon, il corso d’acqua che delimitava a sud-sud/ ovest la città. Lungo un altro percorso stradale con orientamento nord-sud, di raccordo alla Postumia, si impostava il settore di necropoli piú meridionale, individuato a ridosso dell’attuale via Garibaldi. Eccezionale, in questo sepolcreto, è il rinvenimento di una fitta palificata, con una superficie di ben 80 mq, che doveva costituire la fondazione di un imponente monumento funebre.


In alto: tomba a incinerazione indiretta del sepolcreto meridionale. Prima metà del I sec. d.C. All’esterno dell’anfora segata e capovolta sopra una tegola a protezione del cinerario, sono deposti i balsamari in vetro che compongono il corredo funerario.

A ovest, due diverse aree funerarie, una piú prossima alla città, rinvenuta in località San Martino, e una piú occidentale, in località le Mutere, si allineavano lungo la sponda sinistra del Navisego Vecchio, fiancheggiata da una strada che ne seguiva l’andamento. Insieme a piú di 400 sepolture, a incinerazione diretta e indiretta alla quale, a partire dall’inizio del II secolo d.C., si affianca l’inumazione, gli scavi hanno restituito alcuni esempi di recinti funerari e altri numerosi monumenti minori che evocano la monumentalità della necropoli opitergina nei primi due secoli: ne è un esempio la stele della schiava Phoebe (I secolo d.C.), ornata da tre ritratti a rilievo e da una iscrizione di saluto rivolta al viandante. Fatta eccezione per il settore piú meridionale che sembra esaurirsi nel II secolo d.C., la necropoli rimane in uso dal I al V secolo d.C., pur con un periodo di abbandono intermedio dovuto con ogni probabilità all’invasione di Quadi e Marcomanni subita da Opitergium nel 167 d.C. Dopo il V secolo d.C. il A sinistra: tomba a incinerazione diretta del sepolcreto meridionale, collocata all’interno di un recinto funerario. Prima metà del I sec. d.C. Entro i limiti della fossa rettangolare nella quale è stata cremata la salma, si distingue la presenza di uno specchio circolare in bronzo, parte del corredo funerario. In questo ambito, lo specchio, oggetto da toilette tipico delle sepolture femminili, assume probabilmente anche significati simbolici di tipo divinatorio. Sullo sfondo è visibile parte di una strutturazione con anfore disposte in orizzontale.

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Corredo di una tomba a incinerazione diretta del sepolcreto meridionale. Prima metà del I sec. d.C. Insieme alla lucerna con disco decorato dalla figura di un gladiatore, ne fanno parte un gruppo di balsamari vitrei, alcuni deposti sul rogo e deformati dal fuoco, due rari bastoncini in vetro con bacchetta a tortiglione e una ventina di chiodini in ferro da calzatura.

periodo di instabilità politica cambia il volto della città, che contrae i suoi confini: compaiono allora, presso l’isolato del Foro, in aree urbane divenute ora periferiche, nuovi settori di sepolture, che rimangono in uso fino al VII secolo. Molteplici e vari sono gli oggetti di corredo restituiti dalle oltre 400 sepolture rinvenute nella necropoli opitergina: oggetti che rimandano al rituale funerario insieme ad altri d’uso personale e quotidiano che, in taluni casi, ci aiutano a far luce sulla vita del defunto. Nelle sepolture a cremazione, la funzione di ossuario è svolta principalmente da olle con coperchio in ceramica, solo in un caso nella piú pregiata variante in vetro. Nel corredo d’accompagno sono quasi onnipresenti i piccoli balsamari in vetro per unguenti profumati, talvolta in gran numero (anche piú di venti); diffusa è anche la lucerna,

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simbolo di luce che rischiara e protegge nell’aldilà. È invece rara, e concentrata nella prima metà del I secolo d.C., la deposizione di monete, presenti sia singolarmente come «obolo di Caronte», sia in numero plurimo, una sorta di piccolo gruzzolo da interpretare piuttosto come parte integrante del corredo, funzionale alla vita ultraterrena. Circa il vasellame da mensa, spesso presente, in uno o piú esemplari, sono attestate soprattutto le forme per la libagione, in ceramica o piú raramente in vetro soffiato, come una bella brocca blu a macchie bianche e una coppia di eleganti bicchieri color ametista. Particolarmente numerosi, e testimonianza della vestizione del defunto, sono gli oggetti relativi all’abbigliamento, come fibbie, fibule e chiodini per calzature, nonché i monili: armille, anelli, orecchini in bronzo e in ferro, raramente in oro o

argento, e collane con elementi in vetro, bronzo e osso. Di particolare pregio sono due pendenti a brocchetta in pasta vitrea scura con motivi a zig-zag in giallo e azzurro – produzione orientale del IV secolo d.C. –, deposte in tombe infantili con funzione di amuleti legati all’acqua o di contenitori di profumi e medicinali. Preziosi esemplari intagliati in ambra sono invece tre pendenti dal forte valore magico e scaramantico (I-inizi del II secolo d.C.), parte di una collana rinvenuta sul petto di un infante deposto in una cassetta laterizia. Al mondo infantile e del gioco è possibile associare anche due esemplari di cavallini fittili dotati di ruote per il traino, uno sporadico e uno da una tomba bisoma a inumazione, che trovano confronti in tutto il mondo romano tra il I e il V secolo d.C. Nelle tombe femminili, insieme ai monili è frequente la presenza di


Corredo di una tomba a cremazione diretta del sepolcreto sud-orientale, probabilmente riferibile a un individuo femminile per la presenza degli spilloni in osso interpretabili come aghi crinali o conocchie. Seconda metà del I-inizi del II sec. d.C. Tra il vasellame da mensa, che completa il corredo insieme a una conchiglia (murex) e a due monete in bronzo, spicca il bel piatto in vetro soffiato verde-azzurro.

oggetti per la cura personale e la cosmesi, come gli specchi e le pinzette in bronzo, i pettini e gli spilloni in osso, ma anche di strumenti per la filatura e, in un solo caso, per la tessitura. All’attività o allo status sociale e culturale del defunto è forse possibile riferire la rara presenza di strumenti per la scrittura: uno

stilo in ferro e un calamaio in vetro da due tombe a incinerazione del I secolo d.C., oltre a un corredo scrittorio con calamaio in bronzo e

spatola per cancellare sulle tavolette di cera da una tomba a inumazione del II-III secolo d.C. Maria Cristina Vallicelli

Corredo di una tomba infantile a inumazione del sepolcreto sud-orientale. Seconda metà del I-inizi del II sec. d.C. Di particolare pregio sono la brocca in vetro soffiato blu decorata a spruzzo, un pendente-amuleto di forma fallica in ambra e uno in lamina d’oro con decorazione a granulazione; i grandi chiodi appartengono alla cassa lignea che conteneva la sepoltura.

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generale dell’area, tra cui una serie di interventi di ristrutturazione e rinforzo della porta stessa. Anche la ricostruzione del complesso forense, puntualmente inquadrabile in età severiana – come testimoniano un pluteo marmoreo con la testa di Giove Ammone e un frammento di capitello corinzio –, sembra logica conseguenza della distruzione operata dai Quadi e Marcomanni. In questo riassetto globale è plausibile rientrasse anche la monumentalizzazione del settore

dalle orde dei Quadi e dei Marcomanni. Messa a ferro e fuoco, la città subí profonde ferite, che l’indagine archeologica ha portato in luce. A questo tragico evento sembrano infatti dovute le tracce di incendio rilevate a ridosso della cinta muraria augustea e della postierla che in essa si apriva, mentre all’inizio del III secolo d.C. risalgono alcuni chiari indizi di risistemazione

occidentale dell’area, precedentemente occupato dalla duplice sequenza di botteghe. Sui resti di quest’ultime venne infatti edificata una teoria di almeno quattro imponenti aule, separate da stretti passaggi e caratterizzate da differenti soluzioni planimetriche. Tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C., nell’ambito del fervente rinnovamento edilizio che dovette investire l’intera città dopo l’invasione barbarica, si data anche la costruzione di un grandioso edi-

A sinistra: pluteo del Foro con testa di Giove Ammone. Età severiana (inizi del III sec. d.C.). A destra: planimetria del triportico monumentale. Fine del II-inizi del III sec. d.C. In basso: la musealizzazione nel ristorante Gellius.

LO SCAVO DELLE VECCHIE CARCERI L’intervento di scavo condotto all’interno del perimetro delle vecchie Carceri di Oderzo ha permesso di «sfogliare», strato dopo strato, l’evoluzione urbanistica del settore forse piú strategico della città e contemporaneamente di focalizzare le principali tappe dello sviluppo storico opitergino.

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Le piú antiche strutture messe in luce risalgono all’età augustea e consistono in un segmento delle fondazioni della cinta muraria, di una porta secondaria che in essa si apriva e in alcuni lacerti della pavimentazione della strada, uno dei cardini, che conduceva alla porta stessa. Dopo alterne vicende di distruzioni e conseguenti ricostruzioni, in età tardo-antica (V-VI secolo d.C.), in fase di evidente recessione urbanistica, l’area venne occupata da un sepolcreto, di cui sono state rinvenute una ventina di tombe. Quindi, nell’arco del VII secolo, prese avvio la costruzione di una nuova cinta muraria che sembra logico mettere in relazione ai noti episodi di lotta tra Bizantini e Longobardi, culminanti in due successive conquiste di Oderzo da parte di quest’ultimi, rispettivamente nel 639 e nel 667. Il perimetro di questa cinta, costruita in fondazione con materiale lapideo proveniente dallo spoglio dei monumenti civili e sepolcrali opitergini di età romana,


ficio a forma di triportico, dotato di fronte monumentale della lunghezza di ben 80 m. Una fontana, il cui bacino era adorno di gruppi statuari, era scenograficamente addossata al lato interno della fronte,

mentre al centro possiamo ipotizzare si elevasse un tempio o forse anche un edificio termale. Ma anche in alcuni settori dell’ampia necropoli è stato possibile rilevare tracce di devastazione, puntualA sinistra: planimetria del Foro di Oderzo in età severiana. In basso: stele funeraria reimpiegata nel torrione innalzato a ridosso di uno degli angoli della cinta muraria fra l’VIII e il IX sec.

insiste parzialmente sulle fondazioni delle mura augustee e sembra riconducibile al primo nucleo del castellum opitergino. Successivamente, tra l’VIII e il IX secolo, venne costruito, ancora una volta con materiale di spoglio, un imponente torrione a ridosso di uno degli angoli della cinta e all’interno della roccaforte trovarono posto due grandi capanne. Tra il IX e il X secolo, un violento incendio segnò la fine di questo complesso fortificato, che tuttavia riprese nuova vita nel XIII secolo con la costruzione di una casa-torre, racchiusa ancora una volta all’interno di una cinta muraria, le cui fondazioni si sovrapponevano nuovamente sulle precedenti. È questo il castello medievale opitergino che fu teatro delle lotte tra Ezzelino da Romano e i Da Camino, signori di Treviso, finché, quando nel XIV secolo Oderzo passò sotto il dominio della Serenissima, divenne definitivamente sede dei podestà veneziani, che vi

mente inquadrabile in quest’arco cronologico. All’interno del sepolcreto occidentale sono stati infatti documentati la distruzione di una sequenza di recinti funerari, dei relativi piani di frequentazione, e l’abbandono della strada che l’attraversava, mentre il sepolcreto orientale risulta sottoposto a una ristrutturazione complessiva in epoca severiana, quando sui resti dei precedenti recinti altri ne vennero costruiti Margherita Tirelli

FRA TARDO ANTICO E ALTO MEDIOEVO Nel corso del IV e soprattutto del V secolo, Opitergium vide importanti trasformazioni del suo assetto urba(segue a p. 77)

ricavarono anche le prigioni della città. Questi straordinari spazi, in cui sono stati mantenuti in vista i piú prestigiosi resti messi in luce dallo scavo, sono attualmente occupati dal ristorante Gellius, che prende significativamente il nome dal testo di un’iscrizione latina ivi rinvenuta. Margherita Tirelli

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STORIE DI UNA COMUNITÀ di Marta Mascardi

Promossa e organizzata da Oderzo Cultura in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso e il Polo museale del Veneto, la mostra «L’anima delle cose. Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium» presenta alcuni tra i corredi piú belli restituiti dalle indagini archeologiche che hanno interessato il centro storico cittadino, facendo emergere importanti testimonianze dell’antica città romana. Gli scavi

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In questa pagina: cavallino giocattolo in terracotta, dalla tomba 4 della necropoli di via Spiné (scavi 2013). La sepoltura è databile tra la fine del II e il III sec. d.C. A destra: una delle illustrazioni in mostra (grafica di Veronica Tondato).


Volto fittile, dalla tomba 33 della necropoli del sottopasso SS53 (scavi 19992000). Prima metà del I sec. d.C. Fanno parte del corredo un’olpe, una coppetta, un volto fittile raffigurante un giovane e una statuina di cavallo e cavaliere.

della necropoli, effettuati tra il 1986 e il 2013, hanno portato alla luce oltre 400 tombe e, per il percorso espositivo, sono stati selezionati cinquanta corredi, rappresentativi per tipologia di rituale, arco cronologico, distribuzione topografica e materiali rinvenuti. Vetri pregiati (piatti, bottiglie, piccoli balsamari), giocattoli, materiale ceramico, fibule bronzee, monete sono accolti nelle otto sale di Palazzo Foscolo e del Museo Archeologico, in un itinerario che li svela per la prima volta al pubblico. Lo studio approfondito degli elementi del corredo, preliminare al progetto espositivo e alla pubblicazione, ha consentito la lettura sistematica dei diversi settori di necropoli, messi in rapporto con il centro urbano e le principali direttrici di traffico, e un piú ampio discorso sulla ritualità funeraria

opitergina, completando la documentazione sino a oggi edita. Il percorso espositivo si sviluppa intorno alle diverse modalità di sepoltura, l’incinerazione diretta e indiretta, l’inumazione, passando attraverso i cambiamenti che interessano la città in età tardo antica, per raccontare infine il «lungo viaggio dei reperti» dallo scavo al museo. La seconda sezione, che prosegue nel Museo Archeologico, invita a «tornare in superficie» e a percorrere una delle strade che portavano all’ingresso della città romana, dove di norma era collocata la necropoli. Filo conduttore della mostra è l’idea che, al di là del necessario confronto con il tema della morte, al quale il mondo romano si accostava in modo pragmatico, in una precisa scansione di rituali, gli oggetti del corredo siano

strumenti per dare voce alle persone alle quali appartenevano. Grazie a grandi illustrazioni, il pubblico incontra gli uomini e le donne che popolavano l’antica Opitergium, che danno voce e vita ai corredi, all’anima delle cose appunto: una donna che regge nella mano uno specchio, un bambino con il suo giocattolo, gli strumenti di uno scriba, in un racconto per oggetti che consente di fare nuova luce sulle pratiche funerarie in uso a Oderzo in età romana e di approfondire alcune questioni relative allo status economico e sociale dei suoi cittadini.

DOVE E QUANDO «L’anima delle cose. Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium» Oderzo, Palazzo Foscolo e Museo Archeologico Eno Bellis, Oderzo Cultura fino al 14 febbraio 2021 (chiuso dal 10 al 23 agosto) Info e orari tel. 0422 718013; Facebook e Instagram: Oderzo Cultura; www.oderzocultura.it Catalogo Edizioni Ca’ Foscari a r c h e o 75


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I MOSAICI TARDO-ANTICHI Il mosaico con scene di caccia e di vita rustica fu scoperto alla fine dell’Ottocento nell’area dell’ex Foro Boario: alcuni anni piú tardi i frammenti che componevano la pavimentazione vennero staccati e trasferiti nel Museo cittadino. Le scarse informazioni sul contesto di scavo non hanno impedito agli studiosi di ipotizzare la ricostruzione oggi presentata al piano terra della grande sala dei mosaici: l’insieme musivo presenta una scena di caccia alla lepre con levrieri, una scena di aucupio – il canto della civetta richiamava gli uccelli che rimanevano invischiati nella sostanza collosa cosparsa su un bastone –, una scena di caccia al cinghiale (vedi foto in apertura alle pp. 60/61) e il pascolo delle pecore. Al centro

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campeggia una villa rustica fortificata, al cui interno una donna dà da mangiare agli animali nell’aia, mentre alle sue spalle due galletti sono intenti alla lotta (vedi foto alla pagina accanto). Gli schemi iconografici dei mosaici opitergini trovano confronti puntuali con alcuni mosaici africani, tunisini in particolare, e dell’Italia meridionale, come quelli di Piazza Armerina, in Sicilia. Le maestranze che vi lavorarono furono inoltre capaci di rielaborare i modelli dei cartoni, i disegni preparatori dei mosaici che circolavano nell’impero, e di inserire elementi della tradizione italica e della realtà locale, come la scena di caccia con la civetta. A parete sono presentati due mosaici delimitati da una fascia quadrangolare in tessere nere, che raffigurano, rispettivamente, una scena di caccia alla lepre e due personaggi che tengono in mano un’anfora e una sorta di calice. La caccia alla lepre, ritrovata secondo i documenti di archivio a 50 m circa dal mosaico della caccia, si anima a partire da un battitore che incita due levrieri mossi all’inseguimento di una lepre in fuga. L’altro mosaico raffigura un giovane che regge con la mano sinistra un’anfora, mentre sulla destra si intravede una mano che regge un recipiente: alcune immagini del mosaico realizzate prima dello stacco consentono di ricostruire con maggiore precisione la scena. Al servitore di sinistra si affianca un altro personaggio, abbigliato con una tunica lunga sino alle ginocchia, raffigurato nell’atto di sollevare un calice; tra i due personaggi, a terra, appare infine un contenitore a due anse. Le scene ben si riconducono all’ambito del cerimoniale del

A sinistra e in alto: particolari del grande mosaico rinvenuto alla fine dell’Ottocento nell’area dell’ex Foro Boario raffiguranti, rispettivamente, una scena di aucupio, cioè di caccia agli uccelli (in questo caso sfruttando il canto della civetta) e una donna che dà da mangiare agli animali nell’aia. Fine del III-inizi del IV sec. d.C.

banchetto e si raccordano alle scene di caccia e di vita in villa del grande mosaico: le attività tricliniari e venatorie sono lo strumento utilizzato dal ricco proprietario della domus per autocelebrarsi e rappresentare alcuni momenti legati all’otium del suo latifondo. La datazione proposta per i tre mosaici li colloca verso la fine del III secolo e l’inizio del IV secolo d.C. Marta Mascardi


no almeno in parte conseguenti al fatto che l’Italia settentrionale divenne, in quell’epoca, la grande retrovia del limes, ovvero della frontiera che separava il mondo romano da quello dei barbari. Lo stanziamento, nei primi decenni del V secolo, di una «Prefettura Sarmatarum» (un gruppo di soldati di origine barbarica al servizio dell’esercito romano) testimonia l’importanza strategico-militare della città. La stagione tardo-antica si chiuse alla fine del V secolo, quando ebbe inizio un nuovo periodo, ormai proiettato nel primo Medioevo. Una fase iniziale coincise con il regno degli Ostrogoti e della guerra tra questi ultimi e i Bizantini (prima metà del VI secolo); una seconda con la presenza di un caposaldo militare bizantino, che, nel corso del VII secolo, venne conquistato dai Longobardi, prima di Ro-

tari (639) e poi, definitivamente, di Grimoaldo (667). Tra il III e il V secolo la necropoli di Opitergium rispettò le scelte topografiche dei secoli precedenti. Le aree piú lontane dal centro urbano, probabilmente in seguito all’incursione dei Quadi e dei Marcomanni, furono tuttavia abbandonate, mentre altre, piú vicino alla città, furono Coppa in vetro murrino a millefiori. I sec. d.C.

occupate ex novo. Significativa appare la comparsa di elementi di abbigliamento e corredo funerario riferibili a popolazioni provinciali romane provenienti dalla zona del limes e forse anche ai barbari della già citata «Prefettura Sarmatarum». L’utilizzo delle necropoli extraurbane cessò intorno alla metà del V secolo o poco dopo, probabilmente in seguito a profonde trasformazioni paleoambientali e, contestualmente, al clima di instabilità di quei decenni, segnati dalle incursioni degli Unni. Coeva fu la presenza, almeno in alcuni settori della città (Foro, area dell’ex stadio di via Roma) di un’edilizia povera in legno e materiali di recupero, mentre si registra in parallelo l’abbandono dell’edilizia residenziale dei primi secoli dell’impero. Tra il VI e gli inizi del VII secolo, l’area deputata a necropoli occupò la fascia meridionale della città dove già in età augustea era stata eretta una porta urbica, oggetto di complesse trasformazioni in età tardoantica (area delle ex carceri). Le sepolture erano perlopiú prive di corredo. In alcuni casi era tuttavia presente un pettine, talora associato a un coltello ed eccezionalmente ad altri manufatti. Potevano essere presenti anche una o piú monete bronzee, interpretabili come obolo di Caronte, rivenute nella terra di riempimento della sepoltura o in prossimità di una delle mani del defunto. Le informazioni sulle strutture insediative della città appaiono in questa fase molto limitate. Tracce certe di frequentazione altomedievale sono state individuate nella parte nord dell’abitato (area dell’ex stadio di via Roma, area di via dei Mosaici). Nell’area delle ex carceri, all’indomani dell’abbandono della necropoli, fu realizzato, nei primi decenni del VII secolo, un ridotto difensivo, nel cui spazio interno furono inseriti due edifici in legno complessivamente databili tra il VII e il IX secolo d.C. Elisa Possenti a r c h e o 77


MOSTRE • NAPOLI

Gli oggetti illustrati sono attualmente esposti nella mostra «Gli Etruschi e il MANN», in corso al Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 31 maggio 2021.

L’ORO DI NAPOLI

GLI ETRUSCHI IN CAMPANIA? LA LORO PRESENZA/INFLUENZA NELLA REGIONE CENTRO-MERIDIONALE EBBE INIZIO GIÀ NEL X SECOLO A.C. E GIUNSE ALLE SOGLIE DELLA ROMANIZZAZIONE. UN DATO STORICO, CORROBORATO DA NUMEROSE E IMPORTANTI SCOPERTE ARCHEOLOGICHE, CURIOSAMENTE «LIQUIDATO» DA ALCUNI ILLUSTRISSIMI STUDIOSI DELL’OTTOCENTO. OGGI, UNA MAGNIFICA MOSTRA ALLESTITA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DELLA METROPOLI CAMPANA RIEVOCA PROTAGONISTI ED ESITI DI QUESTA CURIOSA «SCELTA DI CAMPO»… di Giuseppe M. Della Fina, con un’intervista dell’autore a Paolo Giulierini 78 a r c h e o


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alla presenza degli Etruschi in Campania e dalle vicende collezionistiche legate all’acquisizione di reperti etruschi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli è nata la mostra «Gli Etruschi e il MANN», curata da Paolo Giulierini e Valentino Nizzo e allestita nel museo partenopeo. L’iniziativa prelude all’esposizione di un nucleo di antichità etrusche al terzo piano del MANN, in ciò ricollegandosi idealmente a un progetto sostenuto negli anni Venti dell’Ottocento dall’allora direttore, Michele Arditi (1746-1838), che previde l’allestimento di un «Gabinetto degli Oggetti Etruschi, Oschi, Volschi e Greco Antichi» collocato subito dopo il «Portico dei Monumenti Egiziani», nell’ottica di creare un percorso cronologico dall’età faraonica a quella moderna. L’esposizione, quindi, non è un evento episodico, ma rientra in un progetto di valorizzazione delle raccolte del museo, che negli ultimi mesi ha visto la riapertura delle sale della Magna Grecia e di quelle dedicate alla preistoria. Il percorso espositivo, costituito da seicento reperti, di cui almeno duecento presentati al pubblico per la prima volta dopo un attento studio e restauro, si articola in due sezioni. Nella prima viene dato conto della presenza etrusca nella regione, attraverso una selezione di reperti di antico e nuovo ritrovamento, con confronti significativi come – eccezionalmente – il corredo funerario della Tomba Bernardini (675-650 a.C.) rinvenuta a Palestrina (l’antica Praeneste), vale a dire uno dei piú ricchi tra quelli rinvenuti in Italia. Nella seconda sezione ci si concentra sulle antichità etrusche presenti nel MANN e giunte attraverso l’acquisizione di collezioni importanti,

Arenosola Poseidonia

In alto: carta dell’Etruria campana, con le principali località. Nella pagina accanto: coppa «fenicia» in argento dorato, decorata a sbalzo e bulino, dalla Tomba Bernardini di Praeneste (Palestrina). Secondo quarto del VII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In basso: pendente in oro, forse facente parte di un orecchino. IV sec. a.C. Napoli, MANN.

come quella riunita dal cardinale Stefano Borgia. Quest’ultima venne fatta acquistare dal re Ferdinando I di Borbone con l’intento di colmare le «lacune» del museo ed è significativo notare che le trattative erano iniziate già con Gioacchino Murat nel 1814 (vedi box a p. 86).

I TEMI PORTANTI Sulla scia della mostra, proviamo allora a illustrare le due tematiche affrontate, a partire dalla riscoperta della presenza etrusca in Campania. Uno snodo significativo è l’opera Campanien dello storico Julius Beloch (1854-1929), pubblicata in prima edizione a Berlino nel 1879. In un passo del libro, l’autore affermava: «Ci fu un tempo, non molto lontano, nel quale la notizia di una dominazione etrusca della Campania fu liquidata sommariamente come una favola». Con ancora maggior forza, alcuni decenni piú tardi, nel 1912, a r c h e o 79


MOSTRE • NAPOLI

Gli oppositori di quelle teorie avevano ridimensionato l’espansione territoriale degli Etruschi e la loro influenza, schiacciandoli di fatto tra la civiltà greca e quella romana. I maggiori esponenti di questa temperie culturale furono illustri storici e archeologi tedeschi quali Barthold Georg Niebuhr(1776-1831), Karl Otfried Müller (1797-1840) – al quale pure si deve il primo manuale di etruscologia, Die Etrusker (1828) – Theodor Mommsen (1817-1903), Friedrich von Duhn (1851-1930) e altri. Il loro prestigio e peso accademico arrivò ad avere un’influenza cosí profonda, in quei decenni, da causare la situazione descritta da Beloch e Patroni. Un’atmosfera che portò, nel 1898, al mancato acquisto della Tegola di Capua, vale a dire una delle piú lunghe e interessanti iscrizioni etrusche, rinvenuta l’archeologo Giovanni Patroni (1869-1951), scriveva: «Chi, fra il 1880 e il 1900, a Napoli, avesse attributo agli Etruschi un monumento campano, sarebbe stato trattato come se l’avesse attribuito non dico agli Egizi, ma agl’Incas o agli Aztechi». Il rifiuto era nato come reazione a una stagione di studi – l’etruscheria – che aveva attraversato il Settecento ed era arrivata a influenzare i primi decenni dell’Ottocento. In quella fase gli Etruschi erano stati visti come i civilizzatori della Penisola italiana. Personaggi legati a un ambito culturale diverso e di grande profilo, come per esempioVincenzo Cuoco (1770-1823) nel romanzo Platone in Italia (1804-1806), avevano continuato a riconoscere tale ruolo di civilizzazione: «[nei] tempi antichissimi (…) tutti gli italiani formavano un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi etrusco». Posizioni teoriche, queste ultime, che arrivarono a influenzare il pensiero politico che portò al Risorgimento italiano e all’unificazione della Penisola. 80 a r c h e o

In alto: pendaglio pettorale in bronzo, dalla necropoli di Suessula (località situata fra Capua e Nola). VIII sec. a.C. Napoli, MANN. A destra: piccolo gruppo plastico raffigurante un uomo che guida un carro trainato da una coppia di cavalli aggiogati e vasetto miniaturistico, dalla Tomba LXII di Gricignano di Aversa (Caserta). Fine del IX-inizi dell’VIII sec. a.C. Succivo, Museo Archeologico dell’Agro Atellano.

UN PRECEDENTE ILLUSTRE Una mostra allestita nell’ottobre del 1879 ha avuto un ruolo importante nella riscoperta della protostoria della Campania. In concomitanza con un «Concorso Agrario Regionale», presso la Reggia di Caserta, venne realizzata la «Mostra archeologica campana», che previde l’esposizione di piú di duemila reperti rinvenuti nella regione. Uno dei curatori, l’archeologo Giulio Minervini (1891-1919), al quale era stato affidato il compito di redigere l’agile guida, scrisse che lo scopo dell’iniziativa era di «rimuovere un lembo di quel velo che ricopre la vita de’popoli antichi». Uno scopo che venne raggiunto.


Carrellino cultuale in bronzo. Fine dell’VIII-inizi del VII sec. a.C. Napoli, MANN.

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MOSTRE • NAPOLI

GLI ORI DI PRAENESTE Il corredo funerario della Tomba Bernardini è uno dei piú ricchi rinvenuti in Italia. Esso venne scoperto a Palestrina (l’antica Praeneste; località situata una quarantina di chilometri a sud-est di Roma) nel febbraio del 1876 durante uno scavo finanziato dai fratelli Bernardini, da cui il monumento funerario ha preso il nome. Gli oggetti rinvenuti vennero descritti dal celebre archeologo tedesco Wolfgang Helbig (1839-1915), dopo un sopralluogo effettuato nell’immediatezza della scoperta e raccogliendo le

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informazioni da alcuni testimoni diretti. Essi vennero esposti, per la prima volta, nel 1877, a Roma, e poi confluirono nel Museo Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini». Nel 1960 furono trasferiti presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Caratterizzata dalla presenza di oggetti in oro di grande raffinatezza, la tomba può essere datata intorno al 675 a.C., sebbene accolga reperti piú antichi, che risalgono alla fine dell’VIII secolo a.C.


nella città campana. Essa venne valutata un falso in considerazione anche del luogo di ritrovamento e il reperto – un calendario rituale inciso su terracotta – fu acquistato dall’Altes Museum di Berlino (vedi box alle pp. 84-85).

NUOVI DATI DAGLI SCAVI A partire dagli anni iniziali del Novecento, la situazione mutò nuovamente e – soprattutto negli ultimi decenni – la presenza etrusca in Campania è stata riaffermata e puntualizzata, soprattutto grazie a una serie di fortunate campagne di scavo, tra le quali vanno almeno ricordate quelle condotte a Capua e a Pontecagnano. Oggi è divenuto chiaro che la regione è stato il luogo privilegiato d’incontro/scontro tra gli Etruschi e i Greci, in una interazione con le genti italiche ricercata da entrambi, seppure con forme e modalità diverse. Piú tardi, prima della romanizzazione dell’area, queste ultime arrivarono, sorprendentemente, a controllare la regione.

La mostra – come si è accennato – ha un taglio di storia della cultura nella seconda sezione, mentre nella prima ne presenta uno storico e teso a esaminare i luoghi, i tempi e i modi della presenza etrusca nella regione. Proviamo a ripercorrerli

In alto: la vetrina che accoglie parte dei materiali della Tomba Bernardini. Nella pagina accanto: piccolo calderone in argento dorato, dalla Tomba Bernardini. Prima metà del VII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Affibbiaglio a spranghe in oro con sfingi alate e protomi terminali a testina femminile, dalla Tomba Bernardini di Palestrina. Prima metà del VII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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NOME MOSTRA MOSTRE • NAPOLI

UN CALENDARIO RITUALE Tra le iscrizioni etrusche piú significative giunte sino a noi figura la Tegola di Capua. L’eccezionale reperto venne scoperto nella città campana nel 1898, ma il Regno d’Italia decise di non acquistarlo,

dopo il diniego espresso dalla «Commissione de’ Monumenti», che lo aveva considerato un falso, realizzato da commercianti d’arte esperti nella contraffazione di opere d’arte. L’errore venne riconosciuto

nel giro di breve tempo, ma era ormai tardi, perché la Tegola aveva già raggiunto l’Altes Museum di Berlino. Incisa a crudo su un supporto in terracotta (la cosiddetta tegola), l’iscrizione consta di 190 vocaboli


scritti in ductus bustrofedico e su oltre 60 righe. Viene ora interpretata correttamente come la trascrizione di un calendario rituale e datata tra la fine del VI e il primo quarto del V secolo a.C.

A sinistra, sulle due pagine: la Tegola di Capua. Fine del VI-primo quarto del V sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen, Altes Museum. A destra: plastico in sughero e legno di un «sepolcro rinvenuto nelle vicinanze di S. Agata de’ Goti» (?), località indagata sin dalla fine del Settecento da Domenico Venuti. Prima metà del XIX sec. Napoli, MANN.

seguendo la sintesi storica offerta da Maria Bonghi Jovino in apertura del catalogo edito da Electa. Gli Etruschi risultano stanziati nella Campania settentrionale, nella Campania meridionale e nell’area del Vallo di Diano. La loro incidenza va valutata su un arco di tempo che, dal X secolo a.C., giunse alle soglie della romanizzazione, con Capua e Pontecagnano come poli principali. Le testimonianze sono assicurate soprattutto dagli oggetti recuperati nelle necropoli, dagli ex voto legati

ai santuari – testimonianza di una fede popolare profonda e diffusa – e dalle strutture e dai reperti rinvenuti in aree di abitato. Nei due centri piú importanti (e piú indagati), lo studio dei corredi funerari ha consentito di osservare i (segue a p. 90) a r c h e o 85


I TESORI DEL CARDINALE La collezione riunita dal cardinale Stefano Borgia (1731-1804) nella sua casa-museo di Velletri (Roma), venne acquistata per il Real Museo Borbonico di Napoli (oggi Museo Archeologico Nazionale) al fine d’incrementare le collezioni con antichità egizie ed etrusche e di colmare quindi due lacune ritenute importanti. Le trattative furono concluse (1815-1821) da Ferdinando I di Borbone, ma erano state iniziate significativamente già da Gioacchino Murat nel 1814. Il Museum Borgianum era considerato come una delle raccolte di antichità e d’arte piú significative dell’età dell’Illuminismo. Il religioso, Segretario e poi Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, l’aveva costituita cercando di testimoniare le produzioni e le abitudini dei popoli di ogni epoca e di ogni parte del mondo. L’interesse di Stefano Borgia per il mondo etrusco è testimoniato, tra l’altro, dall’essere stato Lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona tra il 1796 e il 1802 e membro autorevole dell’Accademia Colombaria di Firenze.

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A sinistra, sulle due pagine: lastra di rivestimento in terracotta raffigurante l’apoteosi di Eracle, introdotto da Atena al cospetto degli dèi dell’Olimpo. Terzo quarto del VI sec. a.C. Napoli, MANN.

A sinistra: una vetrina in cui sono riuniti bronzetti, armi e utensili in bronzo. Napoli, MANN. A destra: cista in bronzo, con coperchio decorato da un gruppo raffigurante una menade e un satiro, dal territorio di Palestrina. Fine del IV-inizi del III sec. a.C. Napoli, MANN.

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MOSTRE • NAPOLI

UN ETRUSCOLOGO A NAPOLI Incontro con Paolo Giulierini Formatosi a Firenze, alla scuola del grande etruscologo Giovannangelo Camporeale, Paolo Giulierini ha assunto la direzione del Museo Archeologico Nazionale nel 2015, dopo avere a lungo lavorato presso il MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

◆ Direttore, la mostra «Gli

Etruschi e il MANN», che ha curato insieme a Valentino Nizzo, non è solo un evento, ma anche un ulteriore passo in avanti nel progetto di riallestimento del Museo Archeologico Nazionale. Può ricordare le ultime iniziative realizzate? «Ci siamo posti come obiettivo di doppio mandato la riapertura totale, aggiornata, dell’Archeologico. Nel 2015 abbiamo riaperto al pubblico la Collezione egizia, nel 2017 quella Epigrafica, nel 2019 la Magna Grecia e, a febbraio 2020, la Preistoria. La collezione della Magna Grecia ha dato un grande impulso all’attrattività del museo, in quanto vi si possono apprezzare capolavori come le pitture con le danzatrici della tomba di Ruvo di Puglia, o l’hydria Vivenzio, passeggiando sopra antichi mosaici provenienti da ville romane dell’area vesuviana, ivi collocati nell’Ottocento. Nasce con l’idea di costituire una sorta di portale per la visita a tutti i musei e aree archeologiche del Meridione, dovendosi la sua formazione all’appartenenza delle regioni del Sud al Regno delle Due Sicile. La Preistoria presenta oltre tremila oggetti, inquadrati tra il Paleolitico e gli inizi dell’età del Ferro, che danno un quadro

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Forte di questa solida esperienza, sta coordinando il totale rinnovamento e il rilancio del museo partenopeo, un percorso di cui la mostra «Gli Etruschi e il MANN», come spiega nell’intervista, rappresenta adesso un passaggio fondamentale. della storia della Campania prima della colonizzazione greca».

◆ Quali progetti intende sviluppare

nei prossimi mesi? «Proseguire senza sosta nel

completamento del Museo. Entro il prossimo 31 luglio consegneremo il Braccio Nuovo, l’ala che ospita un auditorium da 300 posti, la sezione tecnologica di Pompei, laboratori didattici e un ristorante che diventerà una Accademia della Cucina storica. A settembre apriremo il terzo giardino. Entro il 30 giugno 2021 sarà pronta la sezione della statuaria campana e l’atrio trasformato in una grande hall di accoglienza per il pubblico. A ottobre 2021 raddoppieremo le collezioni pompeiane. Il 2022 vedrà l’apertura della sezione cumana e il riallestimento di quella dedicata a Neapolis e della numismatica con i depositi visitabili. Sarà veramente il piú grande museo di archeologia classica al mondo».

◆ Come è nata l’idea della mostra?

Con quali collaborazioni è stata possibile la sua realizzazione? «L’idea nasce da una collaborazione ormai storicizzata con Pompei e con il Soprintendente Massimo Osanna. Ci siamo concentrati prima sugli Egizi in Campania, poi sui Greci e ora sugli Etruschi. Una prima mostra è stata realizzata a Pompei nel 2019 (“Pompei e gli Etruschi”) e la seconda tappa è ora al MANN. Fondamentale è stato il coordinamento di Valentino Nizzo,


In alto: la sezione della mostra nella quale sono esposti alcuni coperchi e una cassa di sarcofago in terracotta. II sec. a.C. Napoli, MANN. Nella pagina accanto: oinochoe in bucchero, da una tomba in località

Torre dei Beccati (Castiglion del Lago, Val di Sasso, Perugia). 590-570 a.C. Napoli, MANN. A destra: bronzetto di offerente, dall’isola d’Elba. Fine del VI-inizi del V sec. a.C. Napoli, MANN.

Direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, che non solo ha messo in risalto il tema del gusto antiquario per la civiltà etrusca nella Campania e nel Museo Archeologico nell’Ottocento, ma è riuscito a fornire un quadro esaustivo di confronto tra le élite etrusche meridionali e quelle stanziate a settentrione, concedendo in prestito lo straordinario corredo della Tomba Bernardini».

l’uomo. Quello che durante gli scavi dell’abitato minerario etrusco dell’Accesa, a Massa Marittima, ci chiedeva se avevamo mangiato, scherzava con noi sui primi flirt che nascevano, aveva un atteggiamento da vero padre di famiglia. Mi diceva di continuo che, nelle occasioni importanti, dovevo avere barba e capelli a posto e apprezzava il fatto che insieme a un altro mio amico, Paolo, avessimo cura di lavare il pulmino che partiva per lo scavo tutte le mattine di quelle fresche e spensierate estati. Divenne anche Lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona e grazie a lui riuscimmo a realizzare, con il MAEC, due mostre memorabili: “Le collezioni del Louvre a Cortona. Gli Etruschi dall’Arno al Tevere” e “Seduzione etrusca: dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum”. Nei nostri viaggi europei, ovunque andasse, era ricevuto con rispetto e ammirazione. Il mio sogno sarebbe stato curare questa mostra con lui, ma ho potuto solo dedicargli il catalogo».

◆ Nell’introduzione che apre il

catalogo, dedica questa mostra a Giovannangelo Camporeale, un maestro dell’etruscologia. Lei che ne è stato allievo, può tracciarne un ricordo? «Giovannangelo Camporeale (1933-2017) è stato un illustre studioso, tra l’altro con una formazione di alto spessore in glottologia, materia che oggi, ahimé, tanti corsi dell’antichità ritengono erroneamente accessoria. Parlare di quanto ha contribuito ai progressi scientifici nel campo dell’etruscologia attraverso le pubblicazioni, le grandi mostre (una per tutte “Gli Etruschi e l’Europa”) o gli scavi sarebbe parziale. Io voglio ricordare il maestro e

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MOSTRE • NAPOLI

processi che hanno portato alla strutturazione della società: le tombe piú antiche, risalenti alla prima metà del IX secolo a.C., offrono l’immagine di differenziazioni basate sul genere e non sull’accumulo di ricchezze, con gli uomini caratterizzati dalle armi (o da riferimenti a esse) e le donne legate alla filatura e alla tessitura. Piú tardi, s’inizia a notare la progressiva concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di un numero ridotto di personaggi e di clan familiari, che risultano inseriti nei circuiti di scambio del Mediterraneo prima occidentale e poi anche orientale. Intorno a Capua e a Pontecagnano si svilupparono nuovi insediamenti con la funzione di controllo del territorio e di sfruttamento delle potenzialità agricole della zona. Intensi risultano, da un lato, i contatti con zone dell’Etruria cosiddetta propria e, in particolare, con quella meridionale e tiberina, e, dall’altro,

Anello in oro con scarabeo in corniola, forse da Cuma. Inizi del IV sec. a.C. Napoli, MANN.

con i Greci e le popolazioni italiche presenti nella stessa area. Uno snodo particolarmente significativo è costituito dal tracollo che l’Etruria – non solo campana – subí dopo la battaglia navale di Cuma (474 a.C.), dove le flotte siracusana e cumana sconfissero quelle etrusche, portando alla perdita del controllo dei traffici commerciali che si svolgevano nel Mar Tirreno. Circa la presenza etrusca in Campa-

La presenza etrusca in Campania è un fiume sotterraneo che giunge fino ai nostri giorni

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nia, pesò molto anche la precedente sconfitta subíta nella battaglia campale di Ariccia (504 a.C.), con l’esercito etrusco guidato da Arunte, figlio del re Porsenna. In quel caso i Cumani, alleati con i Latini (mentre Roma era schierata con gli Etruschi), riuscirono a impedire la creazione di un corridoio terrestre tra l’Etruria propria e quella campana, evitando cosí una saldatura tra le due aree, che avrebbe reso il mondo etrusco piú forte.


Due vedute di una lekythos attica a figure nere con la lotta di Atena contro due giganti, da Cuma. Inizi del V sec. a.C. Napoli, MANN.

La seconda metà del V secolo a.C. è caratterizzata da un cambiamento profondo e destinato a durare sino alla romanizzazione: i Sanniti s’impadronirono della regione, conquistando prima Capua (423) e, due anni dopo, Cuma, avendo la meglio, quindi, sia sugli Etruschi, sia sulle città d’origine greca. Si ebbe di conseguenza la formazione dell’ethnos dei Campani. Le testimonianze archeologiche indicano, all’indomani di questi eventi, un cambiamento di orizzonti: s’intensificarono i rapporti con le comunità sannitiche dell’Appennino e con le società daunie e picene dell’Adriatico. Il quadro mutò di nuovo con l’affacciarsi prepotente di Roma. Ma che cosa è rimasto dei secoli etruschi in Campania? Vale la pena riportare le parole di chiusura del saggio di Maria Bonghi Jovino: gli Etruschi e «tutto il patrimonio precedente» hanno rappresentato (e continuano a rapprese n ta re ): «Un fiume sotterraneo che, con alter ne vicende, giunge fino ai giorni nostri in tutte le forme di conoscenza e nelle molteplici espressioni della letteratura e dell’arte». DOVE E QUANDO

Nella pagina accanto, in basso: balsamario plastico in terracotta dipinta in forma di cerbiatto accovacciato. Secondo quarto del VI sec. a.C. Napoli, MANN.

«Gli Etruschi e il MANN» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 31 maggio 2021 Info prenotazione obbligatoria sui seguenti siti web: www.museoarcheologiconapoli.it, www.coopculture.it Catalogo Electa (oltre al catalogo della mostra, è disponibile il volume Gli Etruschi in Campania. Storia di una (ri)scoperta dal XVI al XIX secolo) a r c h e o 91


SPECIALE • EGITTO

VEDERE L’INVISIBILE

DALL’ESPERIENZA VENTENNALE DI SANDRO VANNINI, «DOCUMENTARISTA» FOTOGRAFO E PROFONDO CONOSCITORE DELL’EGITTO E, IN PARTICOLARE, DELLA VALLE DEI RE, NASCE LA MOSTRA INAUGURATA A PALAZZO REALE DI MILANO. MATERIALI ARCHEOLOGICI E ISTALLAZIONI MULTIMEDIALI CONCORRONO A INDAGARE, IN QUESTO PROGETTO INNOVATIVO E DI GRANDE FASCINO, IL VIAGGIO ULTRATERRENO DEI FARAONI a cura della Redazione, con un contributo di Francesco Tiradritti 92 a r c h e o


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ancano poco piú di due anni al primo centenario della scoperta archeologica piú famosa di sempre, quella della tomba del faraone Tutankhamon – avvenuta, lo ricordiamo, il 4 novembre 1922 –, ma da tempo il giovane sovrano è tornato alla ribalta (dalla quale, in realtà, non è mai veramente sceso). E ora, nel suo nome, le sale di Palazzo Reale, a Milano, accolgono un progetto espositivo di particolare interesse, perché giocato su due diverse modalità di fruizione: la prima, d’impronta piú classica, propone una ricca selezione di materiali archeologici, mentre la seconda si avvale delle installazioni multimediali realizzate a partire dalla ventennale attività di fotografo svolta da Sandro Vannini in Egitto. Il tutto allo scopo di raccontare, come lascia intuire il titolo della mostra, «Viaggio oltre le tenebre», quale idea dell’aldilà fosse stata elaborata dagli Egiziani e, in particolare, quale percorso si credeva che ciascun faraone avrebbe compiuto all’indomani della morte, illustrandolo appunto attraverso la vicenda di Tutankhamon. Nelle pagine che seguono, le caratteristiche di «Viaggio oltre le tenebre» vengono dunque illustrate e meglio precisate dall’egittologo Francesco Tiradritti, che ha curato il catalogo della collezione archeologica presentata nell’esposizione.

A destra: particolare dell’«Ammone di Hannover», statua in calcare del dio sul cui volto alcuni studiosi hanno voluto riconoscere le sembianze del faraone Tutankhamon, da Deir el-Bahari. XVIII dinastia, 1325 a.C. circa. Hannover, Museum August Kestner (in prestito permanente dalla Fritz Behrens Stiftung). Nella pagina accanto: una delle proiezioni immersive realizzate per la seconda sezione di «Viaggio oltre le tenebre. Tutankhamon RealExperience». a r c h e o 93


SPECIALE • EGITTO

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ella mostra «Viaggio oltre le tenebre. Tutankhamon RealExperience», il giovane sovrano della XVIII dinastia (vedi box a p. 101) è la guida privilegiata che conduce il visitatore a esplorare lo straordinario universo delle credenze oltremondane egizie. Il progetto prevede un percorso che si avvale di reperti e di apparati multimediali. Le potenzialità dei secondi sono sfruttate nella loro pienezza e il visitatore si trova a vivere una «RealExperience» che neanche una visita della Valle dei Re (toponimo che designa la necropoli regale dell’antica Tebe, alla sinistra della Valle del Nilo, Biban el-Muluk in lingua araba, n.d.r.) sarebbe in grado di offrirgli. Le installazioni multimediali sono realizzate a partire dalle straordinarie fotografie di Sandro Vannini e sono studiate per creare un coinvolgimento totale del visitatore che nella seconda parte del percorso viene invitato da Tutankhamon a prendere idealmente posto sulla barca di Ra (la principale divinità solare dell’antico Egitto) e ad attraversare con questa il mondo oscuro e irto di pericoli della notte. Questo era il destino oltremondano riservato al sovrano. La mostra ne restituisce una «lettura» diversa

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In basso, a sinistra: un’altra immagine degli apparati multimediali attraverso i quali viene illustrato il viaggio ultraterreno del faraone.

da quella corrente, ricollocando il racconto del viaggio attraverso le tenebre nel piú ampio contesto della propaganda reale egizia. Il viaggio estende oltre la morte il compito del monarca di garantire l’ordine prestabilito e la sua scelta di salire sulla barca del sole implica la rinuncia alla possibilità di una resurrezione, che era invece prerogativa di ogni comune Egizio. Questo concetto assume pieno risalto attraverso il confronto con le credenze oltremondane dei suoi sudditi, documentate nella


mostra dall’esposizione di reperti provenienti dai corredi funerari di privati cittadini. L’idea alla base dell’evento espositivo risiede proprio nel tentativo di descrivere l’aldilà degli Egizi nelle sue innumerevoli sfaccettature e rappresenta un tentativo di superare l’idea preconcetta che essi immaginassero la vita oltre la morte come un’eternità trascorsa in una replica del mondo terreno. L’errata concezione, fortemente radicata nell’opinione popolare, ma anche nella ricerca egittologica contemporanea, deriva dall’idea, elaborata a proposito della cultura faraonica nel corso del Rinascimento, soprattutto in Italia.

UNA TERRA FAVOLOSA E MILLENARIA Preclusa loro la diretta conoscenza dei geroglifici, gli umanisti dell’epoca trassero le proprie deduzioni a proposito dell’Egitto antico su quanto riportato dagli autori classici e dalla Bibbia. In queste fonti la Valle del Nilo veniva rappresentata come una terra favolosa e millenaria, che destava meraviglia. A partire dalla fine del XV secolo, questa

In alto: particolare del Libro dei Morti noto come Papiro Busca. 1300 a.C. circa. Milano, Fondazione IRCCS, Ca’ Granda Ospedale Maggiore. Nella pagina accanto, a destra: l’esterno e l’interno della valva superiore del sarcofago antropoide di Pa-di-Khonsu. Terzo Periodo Intermedio (X-VIII sec. a.C.). Milano, Civico Museo Archeologico.

lettura fu utilizzata da artisti e studiosi per trasformare la cultura faraonica in un simbolo da opporre a Stato e Chiesa, la cui ingerenza era molto sentita dagli intellettuali dell’epoca. Nel creare quest’idea risultarono accentuate le caratteristiche che piú discostavano la civiltà egizia da quella occidentale. La cultura faraonica si trovò perciò ammantata di quei toni misteriosi che ancora oggi la contraddistinguono. Si asserí di essere in grado di tradurre il geroglifico, che fu assurto a lingua perfetta perché la sua lettura era possibile soltanto agli iniziati. Della religione egizia furono posti in particolare risalto gli aspetti misterici che già avevano affascinato il mondo greco e romano. In questo contesto fu operata una selezione concettuale, attraverso la quale venne elaborata la teoria secondo cui gli Egizi credevano in una vita oltremondana infinita, intesa come semplice prosecuzione (al meglio) di quella quotidiana. Ogni possibilità di una resurrezione in terra veniva esclusa a priori, sulla semplice base di una volontà di prendere (segue a p. 101) a r c h e o 95


SPECIALE • EGITTO

QUELLE INAFFERRABILI CREATURE... Il Comune di Milano ha voluto collegare «Viaggio oltre le tenebre. Tutankhamon RealExperience» a un’altra importante esposizione, allestita nel Civico Museo Archeologico: «Sotto il cielo di Nut. Egitto divino». La mostra indaga l’invisibile e inafferrabile natura degli dèi, entrando nell’universo spirituale e concettuale della civiltà egizia, che ha elaborato in modo originale una propria visione del cosmo e del ruolo che in esso è riservato tanto all’uomo quanto agli dèi. Per l’occasione sono state riunite piú di 150 opere, provenienti, oltre che dalla collezione egizia dello stesso Civico Museo Archeologico di Milano, da importanti istituzioni museali italiane (Museo Egizio di Torino, Museo Archeologico Nazionale di Firenze, Museo Civico Archeologico di Bologna, Civico Museo di Antichità « J.J.Winckelmann» di Trieste, Museo di Archeologia dell’Università di Pavia), e distribuite in quattro sezioni tematiche.

L’origine degli dèi e del cosmo La prima sezione affronta il tema dell’origine degli dèi e del mondo. In Egitto non esiste un unico mito della creazione, ma diverse tradizioni, sviluppatesi nel corso del tempo e in diverse località, che testimoniano una costante riflessione sul tema. Al di là dei diversi protagonisti divini e delle diverse modalità, tutte le «origini» sono comunque concepite come un processo che vede la figura di una divinità creatrice con forti connotazioni solari, che dopo aver generato se stessa emergendo da una preesistente entità primordiale, dà origine all’intero mondo creato, agli dèi stessi, al tempo e al cosmo. L’entità primordiale che precede la creazione è il Nun – un caos liquido, informe, indifferenziato e oscuro – che tuttavia non scompare con la nascita del cosmo, ma permane a circondare il mondo creato, minacciandone costantemente la sopravvivenza. La creazione è dunque concepita come

In questa pagina: raffigurazione della dea Nefti, particolare del sarcofago a cassa in legno stuccato e dipinto di Peftjauauyaset. XXV-XXVI dinastia (747-525 a.C.). Milano, Civico Museo Archeologico. Nella pagina accanto, in basso: statuetta in bronzo dorato con incrostazione d’argento del dio Osiride. XXV-XXVI dinastia (747-525 a.C.). Milano, Civico Museo Archeologico.

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A destra: stele votiva con orecchie. XIX dinastia (1295-1186 a.C. circa). Torino, Museo Egizio.

un processo generativo che si ripete continuamente, a fondamento del quale è il quotidiano ciclo del sole. Questi muore ogni sera per rinascere ogni mattina, partorito nuovamente dalla dea del cielo Nut, dopo aver compiuto, allo scopo di rigenerarsi, un percorso notturno nel mondo sotterraneo e oscuro, dominato da forze potenzialmente distruttrici. Mantenere l’equilibrio tra forze generatrici e distruttrici, fra il cosmo ordinato e il caos minaccioso spetta tanto agli dèi quanto agli uomini, chiamati a cooperare per questo scopo. Questo equilibrio, che è insieme ordine cosmico e sociale, ha una forma e un volto nella dea Maat. Compito del faraone è garantire equità e giustizia sociale e fare da intermediario tra mondo umano e divino. La sua persona viene scelta dagli dèi per occupare un ruolo sacro fra gli uomini, in quanto figlio del dio solare creatore. La sua divinizzazione si realizzerà compiutamente solo con la morte, quando si unirà agli dèi nell’aldilà. Le forme degli dèi La straordinaria varietà e complessità iconografica degli dèi egizi è il fulcro tematico della seconda sezione. Forme antropomorfe accanto a forme completamente animali (teriomorfe) e a forme ibride – caratterizzate da corpi umani e teste animali o viceversa – sono tutte possibili e intercambiabili modalità figurative che rispondono all’esigenza di esplicitare la natura e il potere di un’entità divina, la cui vera essenza e il cui «vero nome» restano in ultima analisi inconoscibili all’uomo. In questa sezione vengono illustrate alcune divinità del ricco pantheon egizio, nelle loro possibili forme iconografiche; una selezione di reperti e mummie animali consente di affrontare il tema del culto degli animali nell’antico Egitto. Tale culto è documentato soprattutto nell’Egitto faraonico piú tardo (I millennio a.C.) e nella successiva

epoca tolemaico-romana (IV secolo a.C.-II secolo d.C. circa). Comunicare con gli dèi: la devozione Invisibili, ma onnipresenti nella realtà, gli dèi erano considerati imprescindibili nella vita umana. Se il principale intermediario tra l’uomo e gli dèi nello svolgimento dei riti e dei culti era il faraone e, per sua delega, il corpo sacerdotale, esisteva nondimeno un rapporto personale fra la divinità e l’uomo comune. A questo rapporto di comunicazione è dedicata la terza sezione della mostra. La protezione divina è necessaria per superare tanto ogni fase della vita (la maternità e la nascita erano momenti particolarmente pericolosi) quanto le diverse insidie quotidiane. La magia, che ha agito anche nel momento della creazione permettendone di fatto lo svolgimento, è un’entità essa stessa divina – Heka – senza la quale perfino gli dèi sono inermi. Sia gli dèi, sia gli uomini ne hanno bisogno, i primi nello scontro contro a r c h e o 97


SPECIALE • EGITTO

Il mito del dio Osiride, che ha sperimentato la morte per rinascere, sotto una nuova forma, nell’aldilà, è l’esempio su cui si plasmano le aspettative di trasformazione del defunto. Non solo il faraone, ma, certamente a partire dall’inizio del II millennio a.C., qualsiasi defunto, attraverso il rituale dell’imbalsamazione e il culto funerario assicurato dai familiari, poteva aspirare alla propria A sinistra: stele funeraria in legno stuccato e dipinto con una rappresentazione legata all’aldilà. XXVI dinastia (664-525 a.C.). Milano, Civico Museo Archeologico. Nella pagina accanto: uno screenshot dell’applicazione 3D PERVIVAL realizzata dal Politecnico di Milano. Qui accanto: statuetta-reliquiario in bronzo a forma di gatto. Epoca tardaEpoca tolemaica (664-30 a.C.). Già Collezione Morando. Milano, Civico Museo Archeologico.

le forze del disordine, i secondi per indirizzare le entità divine a intervenire a proprio beneficio. In Egitto la magia è priva di quella connotazione negativa che il termine ha assunto nei secoli nella cultura occidentale, ed è invece parte integrante della pratica religiosa. Diventare esseri divini Agli dèi era chiesta la protezione nella vita quotidiana, ma erano anche affidate le piú profonde speranze post mortem. Nella concezione egizia, a conferire piena realizzazione alla vita terrena dell’uomo era la speranza di essere ammesso alla vita eterna fra gli dèi. Nella visione egizia del mondo non c’era differenza di sostanza fra dèi, uomini e animali, essendo tutti frutto della medesima creazione divina. In questa «logica» si inserisce la promozione, post mortem, a divinità (analoghe ai nostri santi) di uomini particolarmente meritevoli, come, per esempio, l’architetto Imhotep. 98 a r c h e o


trasformazione in un essere luminoso (akh) ammesso fra il consesso divino. L’ultima parte della mostra è dedicata quindi al defunto, al suo viaggio ultramondano e agli dèi che ne costellano il cammino. Filo conduttore dell’esposizione è dunque l’invisibile e inafferrabile natura degli dèi, la cui vera immagine e il cui vero nome – ci dicono i testi – erano sconosciuti all’uomo, ma sarebbero stati noti ai defunti divenuti spiriti luminosi (akhu) e quindi dèi (netjeru) loro stessi, ammessi cosí a vivere accanto agli dèi in eterno. All’interno della mostra l’applicazione 3D interattiva PERVIVAL accompagna il visitatore alla scoperta del rituale funerario dell’antico Egitto, caratterizzato da una molteplicità di oggetti e azioni sacre connessi tra loro e spesso di difficile comprensione per il pubblico. PERVIVAL é stata sviluppata dai gruppi di ricerca di Computer Vision & Reverse Engineering e Virtual Reality del Politecnico di Milano, che l’ha cofinanziata insieme a Fondazione CARIPLO. A margine dell’esposizione sono previste diverse iniziative: visite guidate a tema, laboratori didattici per famiglie e percorsi per le scuole; conferenze tenute da esperti approfondiranno i contenuti della mostra. Infine, verrà lanciato un concorso creativo, con il quale i visitatori saranno invitati a realizzare un

fumetto di poche vignette ispirato alle tematiche della mostra. Le creazioni piú belle saranno esposte durante gli ultimi mesi dell’esposizione e i vincitori saranno premiati con un Abbonamento Musei Lombardia. Presentando il biglietto del Civico Museo Archeologico presso le biglietterie di Palazzo Reale, e viceversa, si avrà diritto rispettivamente a uno sconto sul biglietto di accesso alla mostra.

DOVE E QUANDO «Sotto il cielo di Nut. Egitto divino» Milano, Civico Museo Archeologico fino al 20 dicembre Orario ma-do, 9,00-17,30 Catalogo Officina Libraria Info tel. 02 88445208; www.museoarcheologicomilano.it a r c h e o 99


SPECIALE • EGITTO Stele di falsa porta a nome di Nebi, personagio che ricoprí importanti cariche, tra cui quella di «Ispettore della sala da pranzo del Palazzo». Seconda metà della VI dinastia (XXIII-XXII sec. a.C.). Milano, Civico Museo Archeologico. Secondo le credenze egizie, simili manufatti permettevano ai defunti di comunicare con il mondo dei vivi e di beneficiare delle offerte che venivano loro recate. La porta si trova nella parte centrale della stele ed è costituita da una semplice incisione piú profonda nella pietra, da cui la definizione di «falsa» (o «simbolica»). Al centro si riconosce anche l’immagine del defunto, che è seduto di fronte a una tavola per offerte, coperta di pani stilizzati.


Frammento di rilievo. Nuovo Regno, XIX-XX dinastia (1292-1069 a.C.). Firenze, Polo Museale della Toscana, Museo Archeologico.

quanto piú possibile le distanze dal credo cattolico. L’idea che gli Egizi credessero in una vita eterna nell’oltretomba è talmente radicata, che trova ancora oggi spazio sia nelle opere generali, sia nel dibattito scientifico relativo a questi argomenti. Gli Egizi credevano nella prosecuzione della vita al di là della morte, ma ritenevano anche che, al termine di un imprecisato periodo di tempo, sarebbero tornati a vivere sulla terra nell’abbondanza di quanto di meglio si potesse desiderare. Il luogo dove avrebbero trascorso l’attesa del giorno della resurrezione era

immaginato come un mondo non dissimile da quello attuale. Tuttavia, poiché nessuno aveva mai fatto ritorno dall’aldilà, gli Egizi avevano un’idea soltanto molto vaga di come dovesse essere. Ognuno poteva immaginarlo a suo piacimento e aveva perciò la possibilità di conformare l’immagine di questa regione secondo i propri desideri e aspettative. La varietà dei corredi funerari testimonia questa credenza e, in taluni casi, riesce persino a riflettere le preoccupazioni degli individui. Ne sono chiara testimonianza, fra le tante, i modellini con le truppe di soldati e arcieri

LA BREVE PARABOLA DEL FARAONE CHE DIVENNE UN MITO Terzultimo faraone della XVIII dinastia, Tutankhamon (1328-1318 a.C.) deve la sua fama soprattutto alla scoperta della sua tomba, rinvenuta intatta, nel 1922, dall’egittologo inglese Howard Carter (1873-1939). Forse figlio di Akhenaton/Amenofi IV (1348-1331 a.C.), il faraone «eretico», e di una sposa secondaria di nome Kiia, ricevette alla nascita il nome di Tutankhaton («Immagine vivente di Aton» ); sposò la terzogenita di Akhenaton, Ankhnesenpaton (la quale mutò poi il suo nome in Ankesenamon ). Durante il suo regno venne affiancato da figure prestigiose, come Ay e il generale Horemheb, futuri faraoni. Due anni dopo essere salito al trono, trasferí la capitale da Akhetaton (Tell el-Amarna) a Menfi, segnando con ciò la fine della esperienza amarniana del culto unico di Aton. Sottolineò l’evento con il cambiamento del proprio nome in Tutankhamon, «Immagine vivente di Ammone» e con il restauro dei templi di Ammone caduti in rovina.

La sola impresa militare condotta durante il suo regno fu un’insignificante spedizione in Asia, guidata dal generale Horemheb. Tutankhamon morí appena diciottenne, nel suo nono anno di regno, forse per una caduta, rilevabile da una profonda incisione dietro un orecchio della salma. In assenza di eredi diretti, gli succedette l’anziano consigliere Ay, padre di Nefertiti, sposa principale di Akhenaton. A oggi, quella di Tutankhamon è l’unica tomba regale di Tebe che sia mai stata trovata inviolata, nella quale era custodito un vero e proprio tesoro. Tra i 3500 oggetti che ne fanno parte si possono ricordare: tre sarcofagi antropomorfi che racchiudevano la mummia, l’ultimo dei quali in oro massiccio (mentre i due precedenti erano in legno ricoperto d’oro), la famosa maschera funeraria, anch’essa in oro massiccio (del peso di oltre 10 kg), numerosi mobili e gioielli, splendidi usciabti, vasi in alabastro, letti funebri.

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SPECIALE • EGITTO

ritrovati nella Tomba del principe Mesehti, ad Assiut. La sepoltura risale all’inizio della XI dinastia (XXII-XXI secolo a.C.), quando la Valle del Nilo era divisa in piccoli Stati in guerra tra loro. L’incertezza dei tempi spinse Mesehti ad assicurarsi che nell’aldilà fosse protetto come doveva esserlo stato in vita.

IL GARANTE DELL’ORDINE PRESTABILITO A differenza delle grandi religioni del Libro dove l’idea dell’aldilà è condivisa da ogni fedele, gli Egizi avevano perciò la possibilità di plasmarlo, concretizzandone l’immagine attraverso testi e figurazioni. La prima silloge a carattere funerario è attestata sulle pareti degli ambienti sotterranei della piramide di Unas (ultimo sovrano della V dinastia; 2356-2323 a.C.) dove sono incisi i cosiddetti Testi delle Piramidi. Si tratta di una complessa descrizione del destino ultraterreno del sovrano, destinato ad ascendere al cielo e a trascorrere la propria eternità tra gli dèi, allo scopo di proseguire a esercitare la sua funzione terrestre, che è quella di garante dell’ordine prestabilito. 102 a r c h e o

A destra: un altro particolare del Papiro Busca, con il Capitolo 125 del Libro dei Morti, dedicato al giudizio al cospetto di Osiride. 1300 a.C. circa. Milano, Fondazione IRCCS, Ca’ Granda Ospedale Maggiore.


Nella pagina accanto, in alto: frammento dalla tomba del funzionario Montuemhat, nella necropoli tebana. Epoca Tarda (VII sec. a.C.). Firenze, Polo Museale della Toscana, Museo Archeologico. A destra: ancora un’immagine degli apparati multimediali, realizzati a partire dalla ventennale attività di fotografo di Sandro Vannini.

I funzionari dell’Antico Regno si facevano invece seppellire in monumenti che replicavano, prima in mattoni crudi e poi in pietra, i palazzi in cui avevano trascorso la loro vita. Queste riproduzioni (mastaba) delle abitazioni terrestri avevano il duplice scopo di fornire una dimora che avrebbe accolto il defunto nell’aldilà e nella quale sarebbe probabilmente tornato a vivere dopo la resurrezione in terra, ma anche un monumento che mostrasse la magnificenza del proprietario quando questi era ancora in vita. La differenza nella concezione del destino oltremondano tra sovrano e sudditi si mantenne nelle epoche successive. Quando l’Egitto tornò a essere unificato, alla fine del Primo Periodo Intermedio (2150-1994 a.C.), i re della XII dinastia (XX-XVIII secolo a.C.) scelsero di farsi seppellire in piramidi, cosí come avevano fatto i loro predecessori dell’Antico Regno. I privati cittadini si appropriarono invece dei Testi delle Piramidi e li ricopiarono sulle pareti delle bare all’interno delle quali fecero racchiudere i loro corpi.

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SPECIALE • EGITTO A destra: particolare di una delle proiezioni immersive. In basso: ancora un particolare del Libro dei Morti noto come Papiro Busca, con l’immagine in dettaglio del dio Osiride, che gli Egizi veneravano come signore dell’oltretomba. 1300 a.C. circa. Milano, Fondazione IRCCS, Ca’ Granda Ospedale Maggiore.

In questo periodo cominciò a formarsi l’idea di un aldilà inteso come una terra che, proprio come l’Egitto, poteva essere percorsa per via fluviale o terrestre. La descrizione del tragitto da compiere è descritta da Il Libro delle due vie, del quale innumerevoli copie si trovano dipinte sul fondo delle bare dell’epoca. Anche l’idea di una possibile resurrezione alla fine dei tempi assunse piena concretezza in questo periodo.

PRESCRIZIONI PER I DEFUNTI L’Egitto tornò a suddividersi. Il Nord passò in mano a genti asiatiche, il Sud ai Nubiani. Alla fine di quello che è noto come Secondo Periodo Intermedio (1650-1550 a.C.) fece la sua comparsa, trascritta prima su bende e poi su papiro, una nuova silloge di testi funerari. Nota oggi come Libro dei Morti, ma il cui vero titolo è Libro per uscire al giorno, la raccolta conobbe grandissima fortuna e, attraverso continue evoluzioni e rimaneggiamenti, risulta attestata fino in epoca romana. A partire della XVIII dinastia (1543-1292 a.C.), ogni privato cittadino con qualche mezzo a propria disposizione provvide a farsi seppellire con una copia del Libro per 104 a r c h e o

Uscire al Giorno. Il materiale testuale a cui poteva attingere prevedeva circa 200 capitoli, che trattavano i piú svariati argomenti relativi all’aldilà. Soltanto intorno al VII secolo a.C. fu compiuta una canonizzazione della raccolta, che condusse a selezionarne poco piú di 160. Ogni individuo aveva perciò la possibilità di operare una scelta all’interno di questo repertorio testuale e figurativo (ogni capitolo era corredato da una o


IL RE SENZA SEGRETI Come sottolineato nell’articolo, «Viaggio oltre le tenebre. Tutankhamon RealExperience» ha negli scatti di Sandro Vannini – che della mostra è curatore – uno dei suoi elementi portanti. Immagini che diventano protagoniste assolute dell’ultimo libro del fotografo, pensato anch’esso come un omaggio al faraone e al suo straordinario sepolcro. Anche il volume ha come tema conduttore la concezione egizia dell’aldilà, esaminata e descritta nei saggi degli studiosi che hanno contribuito all’opera. In poco meno di 400 pagine si susseguono dunque fotografie di eccezionale qualità estetica e documentaria, ma anche testi che potranno costituire un corollario ideale alla visita dell’esposizione allestita in Palazzo Reale. Sandro Vannini, Tutankhamon. Il viaggio nell’oltretomba, Taschen (www.libri.it)

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SPECIALE • EGITTO

piú illustrazioni) in modo da crearsi una tra i quali hanno posizione centrale il 110, descrizione dell’aldilà confacente alle pro- che descrive i lavori agricoli che il defunto era chiamato a svolgere nell’aldilà, e il 125, prie esigenze, aspettative e desideri. dedicato al giudizio al cospetto di Osiride. Di particolare interesse è il gruppo di testi IL GIUDIZIO DI OSIRIDE Un esempio mirabile di Libro per Uscire al finali che contengono le istruzioni per proGiorno è il cosiddetto «Papiro Busca» (oggi durre e rendere efficaci alcuni amuleti. conservato presso l’archivio del Policlinico Il Libro per Uscire al Giorno è un documento di Milano e che prende nome dal marchese concepito per i privati cittadini, ma ne è staCarlo Busca, che lo recuperò poco prima del ta ritrovata una copia fatta preparare da Ame1850 nel corso dei suoi scavi in Egitto), pre- nofi II (1428-1397 a.C.) per il padre Thutsente nella mostra in Palazzo Reale. Ha una mosi III (1479-1425 a.C.). È scritta su un lunghezza di quasi 7 metri e fu preparato per pezzo di tessuto i cui frammenti sono oggi il Coordinatore degli scribi Ptahmose, vissu- conservati al Museum of Fine Arts di Boston to all’inizio del XIII secolo a.C. Comprende e al Museo Egizio del Cairo. La raccolta di una selezione di poco piú di venti capitoli, testi ha per titolo «Libro per rendere perfetto lo

In alto, sulle due pagine: frammento di rotolo di papiro con testo relativo al Giornale della Necropoli. Fine del Nuovo Regno, XX dinastia, 1118 a.C. circa. Milano, Civico Museo Archeologico. Nella pagina accanto: fondo di sarcofago. Epoca tolemaica. Firenze, Polo Museale della Toscana, Museo Archeologico. A sinistra: particolare di una proiezione immersiva nella quale scorrono immagini rielaborate di pitture murali fotografate all’interno delle tombe.


spirito (akh) e fare in modo che salga sulla barca di Ra, abbia libertà di movimento e lo si lasci procedere verso l’uscire al giorno». Interessante è la presenza del Capitolo 125, perché, in teoria, il sovrano non avrebbe bisogno di sottoporsi al giudizio di Osiride. Il testo pone perciò Thutmosi III al livello dei propri sudditi assicurandogli però come contropartita la possibilità di tornare a vivere sulla terra alla fine dei tempi.

SUBLIMAZIONE DI UN SACRIFICIO Il Libro per Uscire al Giorno di Thutmosi III si contrappone alla decorazione della sua camera sepolcrale, sulle cui pareti è riportata una versione completa del Libro dell’Amduat, il testo che descrive il percorso oltremondano che condurrà il sole a sorgere il giorno successivo. Il sovrano è chiamato a salire sulla barca solare per facilitarne il procedere attraverso le regioni oscure e irte di pericoli della notte. Continua perciò a svolgere il suo ruolo di garante dell’ordine oltre la morte rinunciando alla speranza di una resurrezione. Il suo compito sarà infatti quello di assicurare che il sole torni a splendere per l’eternità. Da questo punto di vista il Libro dell’Amduat non è altro che la sublimazione di un sacrificio che il re compie per i propri sudditi. Che si tratti soltanto di un atto fittizio e propagandistico lo dimostra proprio la versione del Libro

per Uscire al Giorno trascritta sul tessuto a nome di Thutmosi III. Nella seconda sezione di «Viaggio oltre le tenebre. Tutankhamon RealExperience» le possibilità offerte dalla tecnologia virtuale consentono di seguire le tappe piú importanti di questo viaggio attraverso l’oltretomba che prende inizio proprio dalle pitture della tomba di Tutankhamon, dove è raffigurata la prima ora della notte. Circondato dalle immagini che rievocano i pericoli notturni, il visitatore si trova cosí a dover affrontare, a distanza di millenni, le angosce e le paure degli Egizi che, a ogni tramonto, convivevano con la preoccupazione che il sole non tornasse a splendere il giorno successivo. La moderna astronomia ci ha insegnato che il sorgere del sole è un fenomeno che si ripete ogni giorno e oggi solleviamo lo sguardo verso l’astro nascente con l’animo colmo soltanto della meraviglia che il quotidiano spettacolo dell’alba è in grado di suscitare. La scienza ci ha liberati da quelle paure che dovevano riempire il cuore di ogni Egizio al crepuscolo. La moderna tecnologia ci consente oggi di rivivere quelle emozioni che albergarono negli animi di individui vissuti secoli e secoli or sono e, in tale maniera, ce li rende piú vicini. Francesco Tiradritti DOVE E QUANDO «Viaggio oltre le tenebre Tutankhamon RealExperience» Milano, Palazzo Reale fino al 30 agosto Orario gio, 11,00-22,30; ve, sa e do, 11,00-19,30; chiuso lu, ma e me; accesso solo su prenotazione – anche per le categorie gratuite – e preacquisto del biglietto Info tel 199.15.11.21 (attivo lu-ve, 9,00-18,00; sa, 9,00-12,00); www.palazzorealemilano.it mostre@civita.it www.tutankhamonmilano.it Catalogo Laboratoriorosso Note prima di prenotare o raggiungere Palazzo Reale consultare le regole di accesso: www.palazzorealemilano.it/ nuove-regole-di-accesso a r c h e o 107


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

DOPPIO SALTO MORTALE ALLE SOGLIE DEL NOVECENTO, UN GIOVANE ARCHITETTO VIENE CHIAMATO A VERIFICARE IL PERICOLANTE CAMPANILE VENEZIANO DI S. MARCO: È GIACOMO BONI, IL CUI «RIVOLUZIONARIO» INTERVENTO ANTICIPÒ LA NASCITA DELL’ARCHEOLOGIA MEDIEVALE

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enezia, 1885. Il campanile della basilica di S. Marco, vanto cittadino, è considerato ad alto rischio: si teme possa crollare da un momento all’altro (come poi accadrà, fatalmente, nel luglio del 1902). Nasce un dibattito dai toni surreali sulla forma delle fondazioni: alcuni sostengono che siano quadrate, altri circolari, si arriva persino a ipotizzare che possano avere la forma di una stella… Compare sulla scena Giacomo Boni (1859-1925), giovane architetto, che ha già una lunga esperienza di aiutante nei cantieri veneziani. E che tira fuori l’uovo di Colombo: invece di perdersi in chiacchiere e in ipotesi piú o meno astruse, sarà il caso di scavare, se davvero si vuole vedere come sono fatte quelle fondazioni! Detto, fatto: l’architetto partecipa all’apertura di un saggio di scavo alla base del campanile, e può cosí indagare nel dettaglio la struttura delle fondazioni (finalmente si scoprirà che erano «quasi verticali», come dirà lui stesso) e la tipologia dei loro materiali di costruzione. All’epoca quasi nessuno se ne rende conto, ma, al cospetto del campanile di S. Marco, Giacomo Boni esegue una sorta di doppio

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La copertina della Domenica del Corriere del 27 luglio 1902, con la tavola di Achille Beltrame che raffigura le macerie del campanile veneziano di S. Marco, crollato pochi giorni prima (il 14 luglio). salto mortale: prima di tutto perché indaga un monumento mediante lo scavo, ma non per riportarlo in superficie, bensí per accertare la natura delle sue fondazioni. L’indagine, insomma, ha fini

conoscitivi e propedeutici al restauro, e non viene eseguita per giungere a una nuova scoperta. Il secondo salto mortale, però, è ancor piú sostanziale, poiché il campanile non è antico, ma risale al Medioevo. Boni adotta un approccio di tipo archeologico per indagare un monumento dell’età di Mezzo e dunque pratica l’archeologia medievale, ben prima che essa venga codificata come disciplina (la sua nascita, in Italia, viene oggi collocata nel 1974: l’anno in cui Riccardo Francovich fonda la rivista omonima). Ci sono molti motivi per cui Boni sviluppa ben presto un forte interesse per il Medioevo, e l’intuizione di avvicinarlo mediante lo scavo. E Myriam Pilutti Namer, nel suo bel libro Giacomo Boni. Storia memoria archeonomia («L’Erma» di Bretschneider, Roma 2019) ha tracciato un ampio e dettagliato ritratto dello studioso, anche grazie al ritrovamento di molti documenti inediti, permettendoci di andare ancora piú a fondo in questo suo essere un precursore degli archeologi medievisti. Innanzitutto, gioca un ruolo importante il suo essere veneziano, cioè cittadino di un luogo che trova la sua identità


A sinistra: Venezia, 1902. La folla circonda i resti del campanile di S. Marco. Nel 1885, Giacomo Boni aveva condotto un saggio di scavo per accertare la natura delle fondazioni della struttura. In basso: la copertina del volume di Myriam Pilutti Namer dedicato a Boni.

proprio nel Medioevo. Poi, contano alcune amicizie di Boni con intellettuali e architetti britannici, alcuni dei quali membri della cerchia dei preraffaelliti o a essa comunque connessi: basterà fare i nomi di John Ruskin e William Morris, entrambi molto attivi sul tema del restauro, e forti estimatori dell’architetto veneziano.

UN PROGETTO AMBIZIOSO Ma il Boni medievista non si ferma a Venezia. Nominato ispettore della Direzione Generale Antichità e Belle Arti, nel 1888 viene indirizzato nel Meridione: lavorerà in Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. E qui avvia un progetto di grande spessore, che ne dimostra la lungimiranza. L’idea – dichiarata in un articolo – è quella di produrre un catasto dei monumenti di quelle zone, anzi di tutta Italia. Sono anni intensi, quasi frenetici: Giacomo Boni avvia sopralluoghi, ricognizioni presso castelli, chiese, monasteri e molti altri edifici (gesti che lo avvicinano molto al grande architetto francese EugèneEmmanuel Viollet-le-Duc).

Di recente Andrea Paribeni ha pubblicato alcuni stralci dei suoi taccuini, e dai disegni e dagli appunti emergono l’attenzione, la cura per i dettagli che Boni metteva nelle sue indagini. Parliamo di monumenti di notevole portata storica, con i quali lo studioso si misura accettando sfide importanti: il castello di Lagopesole, il complesso della Trinità di Venosa, Castel del Monte, le cattedrali di Nardò e di Bitonto, e molti altri. E quando non sovrintende ai restauri, Boni viaggia alla ricerca di confronti, soffermandosi sui dettagli: la forma delle finestre, dei capitelli, delle mensole… Purtroppo Boni non portò mai a termine lo straordinario progetto del Catasto dei monumenti d’Italia (e se ne sente ancora oggi la mancanza). Dal 1898 la sua vita prese una direzione ben diversa. Trasferito a Roma, iniziò la sua lunga, intensa relazione con il Foro Romano e il Palatino, dove si dedicò sempre di piú alle fasi antiche, addirittura arcaiche e sempre meno al Medioevo (se si escludono la scoperta della basilica

di S. Maria Antiqua, e poco altro). Come per Paolo Orsi, la vicenda di Giacomo Boni dimostra che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si arrivò a un passo dalla nascita dell’archeologia medievale nel nostro Paese. Purtroppo, entrambi gli studiosi erano sí dei giganti, ma piuttosto isolati e poco ascoltati. I tempi non erano maturi, evidentemente; e cosí non se ne fece niente, per quasi cento anni.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUELL’IMMAGINE DAI POTERI SOVRUMANI UNA SERIE DI SPLENDIDI MEDAGLIONI IN ORO, RINVENUTI IN TURCHIA E IN EGITTO, TESTIMONIA IL PERDURARE DEL MITO DI ALESSANDRO MAGNO IN EPOCA SEVERIANA

«G

ran giovamento traggono in ogni loro azione quelli che portano medaglie di Alessandro in oro e argento» (Storia Augusta, Vita dei Trenta Tiranni, XIV, 4-6): cosí si commentava a Roma l’uso della famiglia dei Macriani – tre dei quali furono usurpatori del titolo imperiale durante il regno di Gallieno nel 260-261 d.C. – di portare su ogni tipo di monile l’immagine beneaugurante e apotropaica del Macedone. A 600 anni dalla sua morte, avvenuta a Babilonia il 13 giugno del 323 a.C., quando non aveva ancora compiuto i 33 anni, Alessandro Magno continuava dunque ad affascinare tanto l’élite, quanto il popolo minuto di Roma, forse parzialmente immemori delle sue oggettive – seppur eccezionali – vicende mortali, e, sulla scorta di racconti e leggende tramandate nei secoli, s’era trasformato anche in una figura talismanica. In effetti, l’immenso impero da lui creato in un tempo incredibilmente breve – esteso dalla Macedonia all’Egitto, dall’Asia fino al fiume Indo –, i legami culturali e

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interregionali cosí realizzati – che veicolarono l’influenza della civiltà greca a grandissima distanza dalla sua culla –, nonché la vicenda personale e la fama delle sue conquiste, fecero sí che al giovane eroe venissero attribuiti poteri sovrumani, nella vita cosí come nella morte. Circondato da letterati e poeti

deputati a esaltare le sue gesta in racconti poetici e letterari che conobbero un successo protrattosi ininterrotto sino all’età contemporanea, Alessandro, all’indomani della morte divenne il modello ispiratore di ogni regnante con ambizioni espansionistiche. Il Macedone era l’irraggiungibile protagonista di opere artistiche e


leggende scritte e orali fiorite nel mondo occidentale cosí come in quello orientale e bastava possedere la sua sola immagine per procacciarsi successo e fortuna. Sono infatti giunti sino a noi, insieme alle raffigurazioni su vasta scala, una ricca serie di gemme, intagli e cammei realizzati a partire dall’età ellenistica sino alla fine di quella imperiale, che confermano quanto accennato in apertura circa l’usanza scaramantica di possedere e indossare oggetti con l’immagine del re macedone.

leggenda in greco Basi-le-os – Ale-xandros (Re Alessandro), mentre al dritto si staglia il busto di Alessandro con corazza, lancia e scudo decorato con le immagini delle divinità Gaia, Selene ed Elios con 5 costellazioni, simbolo del dominio su terra e cielo, e ispirato al celebre scudo di Achille. Il volto del Macedone, raffigurato di tre

capigliatura mossa e quasi spettinata, rapito in un ineffabile colloquio con la divinità, a cui nessun altro uomo può prendere parte e che ispirerà poi la ritrattistica costantiniana.

PREMI O DONI Anche gli imperatori romani tributarono un culto semidivino alla figura di Alessandro Magno e ai suoi genitori, Olimpiade e Filippo II – o di Zeus Ammone, secondo la versione tramandata dallo stesso Alessandro in accordo con la madre… –, come ben testimoniano alcuni splendidi «medaglioni» in oro di grande formato (superiore ai 5 cm), ritrovati a Tarso in Cilicia (oggi Turchia), e ad Abukir in Egitto ed emessi sotto Caracalla e Severo Alessandro. Tralasciando la questione sull’autenticità e le modalità di ritrovamento di Abukir, si tratta di pezzi straordinari, che dovevano costituire premi per giochi atletici oppure essere elargiti in circostanze d’eccezione a personaggi parimenti eccellenti. La qualità artistica dei ritratti della famiglia reale macedone su questi medaglioni è altissima e attribuibile senza dubbio a maestri del conio, che dovevano avere ben presente i celebri volti e profili dei personaggi, ancora diffusi e noti per ogni dove. Il piú espressivo è certamente il medaglione di Abukir con, al rovescio, una Nike che incide uno scudo sorretto da un amorino e accanto un trofeo con prigionieri seduti e legati, con

Nella pagina accanto: tavola a colori di Walter Crane raffigurante la morte di Alessandro Magno, da The story of Greece: told to boys and girls. Secondo decennio del XX sec. In questa pagina: medaglione in oro con Alessandro Magno e Nike, da Abukir. Prima metà del III sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen, Münzkabinett. Al dritto, il Macedone; al rovescio, la dea che incide uno scudo, e, accanto, un trofeo con prigionieri seduti e legati.

IL PRIVILEGIO DI LISIPPO

quarti, ripropone il tipo celeberrimo di ritratti di Alessandro eseguiti da Lisippo, che costituí il modello, da allora a oggi, del «sovrano ispirato» che, con la testa leggermente inclinata, volge lo sguardo patetico (nel senso di ricco di pathos) verso l’alto, la bocca semiaperta e la ricca

Plutarco parla delle molteplici statue-ritratto eseguite da Lisippo, l’unico scultore ritenuto degno di ritrarre Alessandro e che fedelmente riproponevano all’ammirazione del mondo il volto e le caratteristiche fisiche del sovrano, secondo un modello di grande successo imitato fin da subito dai suoi amici e successori e cosí descritte: «La maniera di piegare il collo, leggermente inclinato verso sinistra, e i suoi occhi, che erano umidi (…), dalla sua pelle emanava una fragranza dolcissima e il suo alito era profumato come tutta la sua carne» (Vita di Alessandro, IV). Tali peculiarità, che ricorrono anche nel mondo cristiano nelle descrizioni dei corpi dei santi, equiparano il corpo del giovane re a quello di un dio: Plutarco, razionalmente, le attribuisce alla complessione e alla temperatura «infuocata» tipica di Alessandro, mentre chi leggeva poteva riconoscervi quei segni indubitabili che ben si addicevano a un magnifico figlio di Zeus.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Federica Chiesa

NEI LABORATORI DELL’ARCHEOLOGIA. TEMI PER IL TERZO MILLENNIO Conversazione in controluce con Maria Bonghi Jovino

Mimesis, Milano, 102 pp., ill. in b/n 10,00 euro ISBN 9788857542140 http://mimesisedizioni.it/

Dalla conversazione tra Maria Bonghi Jovino e una sua allieva, Federica Chiesa, è scaturito questo libro, che ripercorre una stagione dell’archeologia italiana e i suoi mutamenti. Va ricordato, innanzitutto, che l’intervistata è un’etruscologa di fama internazionale, nonché promotrice dei primi scavi sistematici nell’area urbana di un’importante città-stato etrusca quale fu Tarquinia, mentre l’intervistatrice insegna attualmente archeologia dell’Italia preromana e metodologia della ricerca archeologica presso l’Università degli Studi di Milano. Il filo conduttore della conversazione è rappresentato dalle tappe della formazione e dell’impegno professionale di Bonghi Jovino. I ricordi partono dagli anni della seconda guerra mondiale e spicca la figura di una zia, Franca Scaramellino Renzi, tornata dal campo di concentramento di Ravensbrück nell’autunno 112 a r c h e o

del 1945. Era stata catturata insieme al marito, Camillo Renzi, Commissario di Pubblica Sicurezza, che collaborava con la Resistenza in Valle d’Aosta. L’uomo era stato internato a Dachau, dove morí. Lei, maestra elementare, dopo la fine della guerra, non volle insegnare in scuole del centro di Napoli, ma nelle periferie, a Grumo Nevano, a Casoria, ad Afragola. Poi il ricordo va agli anni del liceo, in una Napoli in piena ricostruzione, e a quelli universitari, trascorsi sempre nella città partenopea, dove si laureò con Amedeo Maiuri. Quindi il tempo trascorso in Olanda presso l’Università di Leida, la frequenza alla Scuola Nazionale di Archeologia a Roma e l’incontro con Massimo Pallottino, uno dei suoi maestri insieme a Ettore Lepore: «Due studiosi assai differenti tra loro». Gli anni erano quelli di un rinnovamento profondo dell’archeologia e di una

grande vivacità culturale segnati dall’arrivo della New Archaeology e dall’esperienza della rivista Dialoghi di Archeologia. Si giunge quindi al conseguimento della cattedra presso l’Università degli Studi di Milano: «Arrivai con le atmosfere napoletane nel cuore, con i ricordi romani a tutto campo». Da quel momento hanno avuto inizio decenni intensi di attività, che hanno portato alla creazione di una scuola milanese nell’ambito degli studi sull’Italia preromana. Con l’attenzione concentrata soprattutto su Capua e Tarquinia. Nelle pagine del libro sono tratteggiate con vivacità le figure dei numerosi studiosi incontrati: ci si limita a menzionare Paola Zancani Montuoro («andavo spesso a trovarla»), Jacques Heurgon («aveva con il gentil sesso modi eleganti e discreti da vecchio gentiluomo»), David e Francesca Ridgway («conservo un loro dono con l’immagine di un esploratore»). Uno spazio ampio viene dato al metodo di lavoro caratterizzato da un approccio multidisciplinare e aperto alle innovazioni. In conclusione una sua riflessione: «L’insegnamento si combina con l’impegno civile, il docente umanista non può prescindere da

questa condizione». Giuseppe M. Della Fina Mauro Poletti

LA FRONTIERA PADANA L’avvincente storia della conquista e della colonizzazione romana del Po Consulta librieprogetti, Reggio Emilia, 324 pp. 18,00 euro ISBN 978-88-6988-047-6

Nelle note di copertina al volume si legge che il suo autore ha sempre coltivato la passione per la storia di Roma antica ed è proprio questa la carta vincente dell’opera: Mauro Poletti, infatti, ripercorre l’articolata storia della romanizzazione della regione padana con impeccabile rigore documentario, ma riesce a trasmettere la corposa mole di notizie e dati archeologici in maniera vivace e accessibile. Con l’occhio sempre attento alle fonti, La frontiera padana offre un modello esemplare di divulgazione. Stefano Mammini






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