Archeo n. 426, Agosto 2020

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SANTA SOFIA TUSCANIA BANCHETTO A RAVENNA SPECIALE ANTICHI SUBACQUEI

Mens. Anno XXXV n. 426 agosto 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ROMA E GLI ITALIANI

ITALIANI DISCENDENTI DI ROMA? LA DIFFICILE RICERCA DI UN PASSATO COMUNE

RISCOPRIRE TUSCANIA DAGLI ETRUSCHI AGLI SPLENDORI MEDIEVALI

ISTANBUL

I MILLENNI DI SANTA SOFIA SCRITTURA E POTERE

LA MATITA DELL’UOMO BIANCO

SPECIALE

VENTIMILA ANNI SOTTO I MARI

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 AGOSTO 2020

2020

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RI O CO

RA VE TE C N OD HE NA O TT CO A B N AN

ARCHEO 426 AGOSTO

€ 5,90



EDITORIALE

SONO OVUNQUE QUESTI ROMANI... Da romano d’adozione – vivo nella Città Eterna da piú di quarant’anni – e incuriosito osservatore di volti e costumi dei miei concittadini, posso garantire, per molti di loro, la diretta e irrefutabile discendenza dai grandi protagonisti dell’epopea romano-repubblicana e imperiale. Quante volte, entrando in un negozio, cercando un meccanico o semplicemente salendo su un autobus, mi sono imbattuto nel profilo scavato e imperscrutabile del Divo Giulio, nel faccione grosso e dalle guance cadenti del grande Cicerone, nello sguardo sicuro di sé del cinematografico Caracalla, nel rustico volto quadrato di Vespasiano, perfino nella sagoma filosoficamente riccioluta di un Marco Aurelio. Inutile negarlo, quegli antichi Romani sono ancora tra noi! E possiamo affermarlo grazie, e soltanto, a una singolare, fortunata, circostanza: l’esistenza, cioè, di una ricchissima produzione ritrattistica antica, idealizzata quanto si vuole, ma tuttora esistente, perché scolpita in un materiale che ambisce all’eternità. Un privilegio, a pensarci bene, unico nel panorama europeo (la teoria di volti che anima la Gliptoteca di Monaco di Baviera, tanto per fare un esempio, è composta da… ritratti marmorei romani). Un privilegio condiviso, sebbene in misura minore, da altre regioni dell’italica Penisola: se non avessimo le magnifiche pitture funerarie etrusche, come potremmo attribuire ad alcune nostre contemporanee e contemporanei un «profilo»

etrusco o umbro? O, ancora, cogliere nei volti delle donne del Sud una «evidente» eredità italiota o canosina, con riferimento alle omonime classi ceramiche? Ma fermiamoci qui, anche perché la questione della fisionomia ha molto a che vedere con la genetica e un po’ meno con la storia. Quando però, in virtú di un’opportunità ritenuta ineluttabile, l’Italia si avviò sulla via del nazionalismo scegliendo di guardare – come ci ricorda Umberto Livadiotti (vedi alle pp. 64-77) – alla grandeur di Roma antica per darsi una paternità, quella vivace molteplicità di volti, tuttora componente essenziale della nostra popolazione, si spense, sublimandosi nell’astratta teoria dei 64 superuomini scolpiti in marmo di Carrara che ancora oggi decorano il celebre Stadio dei Marmi a Roma. Sono corpi marmorei senza un volto, senza personalità… Ridurre la complessità della storia a un unico denominatore può portare a esiti incalcolabili, ammonisce Louis Godart (vedi alle pp. 32-43). Meglio, allora, immergersi nelle impagabili atmosfere della Maremma laziale per visitare Tuscania, dove gli archeologi stanno lavorando per restituirci un patrimonio archeologico e naturalistico davvero senza tempo. Accompagnati (vedi foto a p. 47) dallo sguardo vigile di un bellissimo, umanissimo, volto in terracotta…

Testa della statua nota come Togato Barberini. Tarda età augustea. Roma, Centrale Montemartini (fotografia di Luigi Spina).

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Sono ovunque questi Romani...

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Stabia offrono una delle testimonianze piú spettacolari di questa moda 12

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

TEMI E PROBLEMI

Santa Sofia e la sfida alla civiltà

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di Louis Godart

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RECUPERI I Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale sono riusciti a fermare il martelletto del banditore che, a New York, stava per aggiudicare un pregevole ritratto di Settimio Severo 8

MUSEI Dal cranio di un Uomo di Neandertal di 150 000 anni fa a preziosi monili medievali: sono questi l’alfa e l’omega del ricco Museo Archeologico Nazionale di Altamura 14

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE La matita dell’uomo bianco

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32 SCAVI

Riscoprire Tuscania

di Louis Godart

di Alessandro Tizi

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PASSEGGIATE NEL PArCo L’estate 2020 è l’occasione per scoprire i graffiti del Colosseo: testimoni di storie di maghi, cavasassi e di curiosi «dialoghi» tra sacro e profano 10 ALL’OMBRA DEL VULCANO Per i Romani piú facoltosi, avere una villa sul golfo di Napoli era quasi un obbligo e quelle di

In copertina Roma, Stadio dei Marmi. Particolare di una delle statue che coronano le gradinate raffiguranti le diverse discipline sportive, offerte dalle province d’Italia.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVI, n. 426 - agosto 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Citter è professore aggregato di archeologia medievale all’Università di Siena. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Maria Rosa Lucidi è archeologa. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Stefania Nicolosi è Presidente del Consiglio Comunale di Tuscania, Delegata alla Cultura e Turismo. Giovanna Pizziolo è ricercatore di preistoria e protostoria presso l’Università di Siena. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Alessandro Tizi è direttore del Gruppo Archeologico Città di Tuscania. Chiara Valdambrini è direttore scientifico del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma. Nicoletta Volante è ricercatore di preistoria e protostoria presso l’Università di Siena.


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/2 Sotto l’elmo di Scipio

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di Umberto Livadiotti

64

88 SPECIALE

MOSTRE

A banchetto con Teodorico

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di Giuseppe M. Della Fina, con un’intervista a Giuseppe Sassatelli

Ventimila anni sotto i mari

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di Flavio Russo

Rubriche

LIBRI

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

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La regina senza volto

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di Francesca Ceci

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 32/33, 34/35, 36/37, 42/43, 64/65, 88/89 (sfondo), 90/91, 94, 95 (basso), 97 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia: pp. 6-7 – Cortesia Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: p. 8 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia Direzione regionale Musei Puglia, Museo Archeologico Nazionale di Altamura: pp. 14-15 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 16-17 – Cortesia degli autori: pp. 18-21, 95 (alto), 110-111 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/Album: p. 28; The Print Collector/Heritage Images: p. 29; AKG Images: pp. 30, 35, 68, 91, 98-99, 101, 106/107; Album/Prisma: p. 71; Electa/Sergio Anelli: p. 72; Werner Forman Archive/British Museum, London/Heritage Images: pp. 92/93; Album/Metropolitan Museum of Art, NY: p. 96; Werner Forman Archive/Scavi di Ostia/Heritage Images: p. 105; Kurt Amsler/ardea.com: pp. 108/109 – Flavia Farina: pp. 38-41 – Cortesia Gruppo Archeologico Città di Tuscania: pp. 46/47, 48 (basso), 48/49, 50-52, 53 (alto), 54-55, 58-59, 61, 62 (alto) – Cortesia Anna Maria Staccini: pp. 47, 56, 57, 60 – Marka: Nico Tondini: p. 53 (basso) – Doc. red.: pp. 56/57, 62 (basso), 66-67, 70, 73, 75, 81 (alto), 88/89 (primo piano), 102-103, 107 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 69, 74, 77 – Cortesia Ufficio Stampa Fondazione RavennAntica: pp. 78-79, 80, 81 (basso), 82-83, 85, 86; Giorgio Albertini: pp. 86/87 – Bridgeman Images: pp. 100, 104 – Cippigraphix: cartine alle pp. 48, 84. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCAVI Calabria

I ROMANI A LOCRI

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a necropoli di epoca romana di Locri (Reggio Calabria), scoperta fuori dal circuito murario, presso l’antico asse viario del Dromo, in località S. Cono, è nota fin dalla prima metà dell’Ottocento, ma ora indagini di archeologia preventiva eseguite in occasione della ristrutturazione dell’ex edificio scolastico Moschetta, ne hanno localizzato un nuovo settore.

«Le ricerche – spiega Alfredo Ruga, funzionario archeologo SABAP di Reggio Calabria –, concentrate nei consistenti lembi di stratificazioni risparmiati al momento dello scavo delle trincee di fondazione dei sette ambienti A-G della scuola, hanno permesso di verificare sia lo stato di conservazione dei resti di almeno una trentina di tombe, sia la loro organizzazione e varietà tipologica. Per piú di un motivo, esse rivestono un interesse archeologico, storico e monumentale di particolare rilievo, non solo per la ricostruzione della storia della Locri romana tra I e V secolo d.C., ma nel piú generale ambito della romanizzazione dell’attuale Calabria. La densità di sepolture indagate, pluristratificate, a partire dall’età imperiale, fino alla quota prossima a quella pavimentale delle aule, è tale da costituire un complesso che verrà preservato e valorizzato, mediante idonei strumenti conservativi ed espositivi, che ben si possono coniugare con i lavori di messa in sicurezza e riqualificazione dell’edificio. Lo scavo quasi integrale degli ambienti A e C ha portato alla luce 28 tombe tardo-romane, con tre fasi di impianto delle sepolture e due livelli di sovrapposizione, sotto le quali si trovano quelle delle età precedenti. Le tombe, che A sinistra: Locri (Reggio Calabria). località San Cono. La Tomba 15 della necropoli di età romana della quale è stato scoperto un nuovo settore. È una delle sepolture in cui lo scheletro del defunto si è meglio conservato.

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presentano un orientamento NW-SE, costituiscono formae rettangolari, tutte in muratura con rivestimento a intonaco e con tecniche edilizie differenti per le spallette e le coperture. All’interno di quelle che non sono state trovate vuote i resti scheletrici appaiono in generale sconvolti e rimescolati, a causa di attività successive all’abbandono dell’area cimiteriale


a partire dal VII secolo d.C. (lavori agricoli, scavi clandestini). Tuttavia, qualche sepoltura ha restituito gli scheletri ben conservati dei defunti, come nel caso delle tombe 14, 15, 16, 23 nell’ambiente C e, nell’ambiente A, della tomba 10. Quest’ultima è stata l’unica a restituire parte del corredo costituito da una brocchetta a orlo trilobato con tracce di bande rossoIn alto e in basso: due immagini delle tombe di epoca romana rinvenute nel corso delle recenti indagini. Tutte le sepolture, realizzate in muratura e rivestite con intonaco, presentano il medesimo orientamento (NW-SE) e sono riferibili a varie fasi di utilizzo del sepolcreto, comprese fra l’età imperiale e il V sec. d.C. brune e un’anforetta acroma, purtroppo lacunosa, che forniscono importanti elementi per la datazione del complesso sepolcrale e il suo sviluppo. Lo studio dei resti di questi antichi Locresi (fra i quali si contano almeno due bambini e quattro adolescenti), permetterà di acquisire informazioni importanti, compresi dati paleonutrizionali e su eventuali paleopatologie, utili per una ricostruzione globale della storia della città sullo Ionio». Diretto da Alfredo Ruga per la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, lo scavo archeologico è stato condotto sul campo dall’archeologa Roberta Eliodoro, con l’assistenza di Domenica Vivace. Giampiero Galasso

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n otiz iario

RECUPERI USA

NESSUNO SE LO POTRÀ AGGIUDICARE

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ei vent’anni scarsi in cui fu imperatore, dal 193 d.C. alla morte, nel 211, Settimio Severo rivoluzionò la sua carica, trasformando una reggenza per conto del Senato in un comando vero e proprio, fondato sull’investitura militare ricevuta dalle legioni. Originario di Leptis Magna, nell’odierna Libia, mutuò dall’Oriente ellenistico la sacralità della propria figura, imponendosi come dominus, ma anche come deus. Possiamo dunque presumere che un personaggio del genere sarebbe felice di sapere che a un suo ritratto, a distanza di tanti secoli, era stato attribuito un valore commercialie pari a mezzo milione di dollari.

Il ritratto di Settimio Severo recuperato negli USA dal Reparto Operativo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, a confronto con la foto segnaletica del reperto conservata nell’archivio dell’Arma.

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È stato il Reparto Operativo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale a scoprirlo, individuando negli Stati Uniti d’America il prestigioso reperto archeologico trafugato dall’Italia. La testa in marmo dell’imperatore, risalente al suo periodo, era stata asportata nel corso di una rapina a mano armata commessa nel 1985 presso l’Antiquarium dell’Anfiteatro Campano in Santa Maria Capua Vetere (Caserta), che coincide con l’antica Capua, ove si trova anche un interessante Museo dei Gladiatori. La scultura era stata messa in vendita presso una nota casa d’aste di New York, con una stima tra i 400 000 e i 600 000 dollari. In seguito alla segnalazione e alle inconfutabili evidenze fornite dal Reparto Operativo TPC attraverso il canale Interpol, è stata posta sotto sequestro dall’Autorità Giudiziaria statunitense, il New York County District Attorney’s Office, dove con il capo della Antiquities Trafficking Unit, Matthew Bogdanos, è in vita da molto tempo una proficua collaborazione. Le restrizioni imposte dall’emergenza innescata dall’epidemia di COVID-19 hanno al momento impedito il rimpatrio del bene, che sarà comunque restituito all’Italia e riportato a casa non appena possibile. (red.)



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

STORIE AL CHIARO DI LUNA FRA LE TESTIMONIANZE «MINORI» CUSTODITE DAL COLOSSEO, I GRAFFITI TUTTORA LEGGIBILI LUNGO I SUOI AMBULACRI COMPONGONO UNA VERA E PROPRIA MINIERA DI FRAMMENTI DI VITA. SVELANDO ANCHE UN INTRIGANTE CONFRONTO TRA SIMBOLI DELLA FEDE E IMMAGINI PIÚ CHE LICENZIOSE...

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i è normalmente abituati a pensare al Colosseo come al luogo che, per antonomasia, ospitava gli spettacoli sull’arena, quali cacce e combattimenti gladiatori, intervallati a sanguinose damnationes ad bestias. Ma l’Anfiteatro Flavio racconta molte altre storie, che derivano da secoli di frequentazioni, immortalate nelle stampe e nei quadri di grandi pittori e incisori. Oltre a quanto gli scavi archeologici continuano a restituirci, molte tracce di queste storie sono riconoscibili nei numerosi graffiti con nomi di persone, date e simboli che si ritrovano sui pilastri del I e II ambulacro del I ordine, lungo il prospetto nord del monumento. Mappati, disegnati e fotografati agli inizi degli anni Duemila da Rossella Rea, questi graffiti sono tornati alla luce, anche con alcune evidenze inedite, a seguito dei recenti lavori sponsorizzati da Tod’s che hanno provveduto alla pulizia dei pilastri della facciata nord. Verosimilmente databili fra il tardo Medioevo e il XVII secolo, questi graffiti raccontano storie di gente comune, che ha vissuto, lavorato e frequentato il Colosseo quando il monumento era isolato dal resto della città: immerso nella

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A destra: graffito con l’immagine di una croce, su uno dei blocchi del Fornice XLIV. Nella pagina accanto: vari nomi incisi sul Fornice Nord, forse identificabili con altrettanti cavasassi impegnati nell’opera di recupero di materiale da costruzione per conto delle autorità pontificie, svolta fra il Quattrocento e il Seicento. campagna, oggetto di spoliazione e riuso dei travertini, ma anche sede di ricoveri di pastori e mendicanti, l’anfiteatro era circondato da fitti aloni di mistero, risalenti alle testimonianze di Padri della Chiesa come Tertulliano che, sin dal II-III secolo d.C., avevano tuonato contro il monumento, definendolo un «tempio» consacrato a tutti i

demoni. La fantasia popolare era giunta persino a identificare nel poeta Virgilio, trasformato in mago nel Medioevo, l’architetto che aveva progettato il Colosseo, costruito per studiare «in arte di negromanzia». Ma quali sono, dunque, questi «segni», che restituiscono un’immagine del Colosseo diversa e inaspettata e che oggi tornano a


invocazione di protezione da parte di chi intendeva tenere lontano «da domus e cryptae» quegli spiriti maligni da cui, come si è detto, si raccontava che il Colosseo fosse abitato; non è quindi un caso che questi simboli siano quasi tutti rivolti verso nord e verso l’esterno, ovvero verso il nuovo asse viario che univa l’Anfiteatro Flavio con S. Giovanni in Laterano, l’unico elemento di collegamento dell’edificio con la città, per il resto completamente isolato.

TRAVISAMENTI E LEGGENDE essere parte del percorso di visita dell’evento serale «La Luna sul Colosseo», in programma fino al prossimo 29 agosto (tutti i sabato sera, dalle 20,00 alle 24,00)? Chiunque può ritrovarli, aguzzando la vista verso i punti piú alti dei pilastri del I ambulacro, subito dopo l’attuale ingresso dei visitatori dallo sperone Valadier, là dove si camminava quando il Colosseo era completamente interrato a seguito dei crolli causati dai terremoti.

CAVASASSI O PAPI? Spiccano i nomi di persone in lettere capitali (fornici XXXVI, XLI, Nord). «Nicolò fece», «Luduvico», «Romolo» sono forse i cavasassi che, al servizio dei papi, lavorarono tra il XV e il XVII secolo nel Colosseo per recuperare materiale da costruzione per la nuova Roma, «Gerusalemme celeste»? O questi nomi nascondono anche un preciso riferimento al piú attivo tra i «riutilizzatori» delle pietre dell’Anfiteatro Flavio, papa Nicolò V (1447-1455)? Non è dato saperlo, ma la suggestione è forte in entrambi i casi. Piú precise e ben ricollegabili a fatti e avvenimenti sono invece le date, di cui se ne conservano almeno tre: una sul fornice Nord, due sulla fronte Sud del Colosseo (fornici I e

LXXIV). 1534, 1538 e, soprattutto, 1675: rappresentano l’altra faccia della medaglia dell’ambiguità dei pontefici, interessati ad avviare la cristianizzazione del Colosseo, senza abbatterlo, ma convertendolo in luogo di culto, in opposizione al paganesimo. Un obiettivo perseguito attraverso l’istituzione delle sacre rappresentazioni della Passione di Cristo (l’ultima fu quella del 1539), l’apertura dell’anno giubilare, l’innalzamento di una grande croce di legno sulla sommità del monumento e la realizzazione dello splendido affresco con veduta di Gerusalemme (1675, durante il pontificato di Clemente X) oggetto di un recentissimo restauro e oggi tornato a completa fruizione. Su tutti, però, spicca il vero antagonismo tra sacro e profano, ovvero quello che accosta a 13 croci di 5 diversi tipi, almeno 20 simboli fallici di forme e dimensioni eterogenee, tutti collocati a una notevole altezza dall’attuale piano di camminamento (in media +4 m circa); in un solo caso – inedito – al simbolo fallico è accostato quello che sembra a tutti gli effetti un sesso femminile a forma di rombo (fornice LVII). È verosimile credere che tali simboli avessero funzioni apotropaiche o comunque di

Rimane da spiegare la presenza del simbolo fallico accanto al sesso femminile (fornice LVII): persistendo nella sfera del «profano», si rimane ancorati al Medioevo, epoca in cui il Colosseo, identificato in un Tempio rotondo-Templum Solis (e confuso con il Colosso trasformato in statua di Helios), diventa teatro di molte leggende, non solo quella di Virgilio deluso dall’amore di una principessa e deciso a lasciare al buio la città, confinando l’unica fonte di luce nel sesso di una donna; ma anche di Rosana, una regina sterile, il cui marito perseguitava crudelmente i cristiani. Desiderosa di maternità e di un erede, la regina si reca al Colosseo, sede del demone Astaroth, a cui tutti i Romani erano devoti, pregandolo di renderla madre e perpetuando cosí, in un continuo gioco di specchi, il potere del paganesimo contro il cristianesimo. Federica Rinaldi

PER SAPERNE DI PIÚ Rossella Rea (a cura di), Rota Colisei. La valle del Colosseo attraverso i secoli, Electa, Milano 2002 Michela Di Macco, Il Colosseo. Funzione simbolica, storica, urbana, SAGEP, Roma 2019 (1ª ed. 1971)

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

DELIZIE STABIANE L’AREA DEL GOLFO DI NAPOLI FU PER SECOLI PREDILETTA DAI ROMANI DESIDEROSI DI FARE SFOGGIO DELLA PROPRIA RICCHEZZA. UN FENOMENO DEL QUALE STABIA CONSERVA TESTIMONIANZE STRAORDINARIE, CON UN PATRIMONIO DI VILLE GRANDI COME PALAZZI E RICCAMENTE DECORATE

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ra il I secolo a.C. e il I d.C., la facoltosa élite romana, presto imitata da quella locale campana, scoprí il piacere di vivere in grandi e lussuose ville costruite nei punti piú panoramici del golfo di Napoli. Possedere una villa in questo straordinario contesto era certamente il modo migliore per manifestare la propria ricchezza, tra famiglie spesso in competizione politica ed economica, e, soprattutto, per inserirsi in un ambito di villeggiatura comune a

quello imperiale. Un vero e proprio privilegio sociale, quindi, che, oltre al piacere dell’otium, offriva importanti opportunità relazionali sia pubbliche che private per chi aspirava a grandi traguardi. Cicerone racconta di una vita, quella svolta attorno al golfo, intervallata da frequenti momenti di mondanità, libidini, amori, adulteri, banchetti, festini, canti, musiche, gite in barca. E Strabone (Geografia, 5,48), in piena età augustea, afferma che

«tutto il golfo è trapunto da città, edifici, piantagioni, cosí uniti fra loro, da sembrare (dal mare) un’unica metropoli». Con le sue ville d’ozio, Stabiae si inserisce perfettamente in questa atmosfera. Nel suo territorio si contano una decina di fastose ville lungo la fascia litoranea e una sessantina di tipo rustico nelle immediate retrovie, sul corso del Sarno e nell’area pedemontana, dedite alla produzione di vino, olio e formaggio. Le ville affacciate sul pianoro di Varano avevano senza dubbio un posto di primo piano e somigliavano a palazzetti articolati in quartieri composti da decine di stanze, da terme, da peristili e da giardini lussureggianti.

20 000 MQ DI RAFFINATA ELEGANZA Alcuni complessi sorprendono per le impressionanti dimensioni e per l’accuratezza architettonica e decorativa: Villa Arianna e Villa San Marco arrivano a 14-15 000 mq, e Villa del Pastore sfiora i 20 000 mq, misure che trovano riscontri solo in pochi complessi vesuviani, come la Villa di Poppea di Oplontis o la Villa dei Papiri di Ercolano. La raffinatezza e l’originalità degli apparati decorativi, tradotta nelle

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megalografie e nelle composizioni dei soffitti, hanno invece confronti perfino con la pittura di committenza imperiale. È possibile che alcuni decoratori provenissero direttamente da Roma e dai cantieri imperiali campani, chiamati dalla

ricca committenza stabiana in grado di emulare i gusti del grande potere, servendosi di maestranze rimaste del tutto anonime. Né conosciamo i nomi dei proprietari di queste residenze, anche se dalle fonti trapelano rare

informazioni: per esempio, Marco Mario, amico di Cicerone, aveva una villa proprio a Stabia, situata in una magnifica posizione panoramica; e qui viveva anche Pomponiano, l’amico di Plinio il Vecchio, nella cui villa il naturalista trascorse probabilmente le sue ultime ore di vita, prima di cercare scampo via mare dalle fatali esalazioni del Vesuvio.

VEDUTE MOZZAFIATO

In alto: un tratto del peristilio di Villa San Marco, con pareti decorate in Quarto Stile e pavimento a mosaico con motivi geometrici bianco-neri. Nella pagina accanto e a sinistra: l’esterno di Villa Arianna e un particolare delle raffinate pitture che ornano gli ambienti della sontuosa residenza, scavata quasi interamente tra il 1757 e il 1762, sotto la direzione dell’ingegnere svizzero Karl Weber.

Le ville di Varano si integrano perfettamente al ciglio naturale della collina: dall’orientamento analogo, si articolano su piú livelli con terrazzamenti, rampe e ninfei sospesi sui ripidi pendii; gli ambienti di soggiorno si aprono con ampie finestre, che offrono vedute mozzafiato sul panoramico golfo e sul Vesuvio, e i giardini si integrano armoniosamente con le basse e lineari architetture. Le tre grandi ville visitabili (San Marco, Arianna e Secondo complesso), ancora da completare negli scavi, sono pressoché prive di ambienti destinati alla produzione, aspetto che evidenzia in pieno la loro destinazione quasi esclusivamente residenziale. Al momento della distruzione del 79 d.C., tutti i complessi erano interessati da lavori di ristrutturazione e ampliamento, e di ammodernamento di alcune decorazioni. I complessi si estendono ora verso le propriertà adiacenti, a volte con raccordi e passaggi fra i diversi corpi di fabbrica; si tratta forse di interventi dovuti a cambiamenti di proprietà – avvenuti all’indomani del terremoto del 62 d.C. e per la crisi dell’aristocrazia –, da parte di un nuovo ceto imprenditoriale locale, che resta comunque altrettanto smanioso di dimostrare la propria posizione sociale. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: www.pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

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n otiz iario

MUSEI Puglia

NELLA TERRA DEI PEUCEZI

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l Museo Archeologico Nazionale di Altamura (Bari) espone le testimonianze restituite dall’area urbana ed extraurbana della città pugliese. Al primo piano, il percorso espositivo si articola in ordine cronologico con reperti che abbracciano la storia delle colline dell’Alta Murgia dalla preistoria all’età medievale. Al Neolitico (Antico, Medio e Recente) appartengono reperti fittili e litici (strumenti in selce e ossidiana) recuperati dai numerosi insediamenti presenti nella zona datati al V millennio a.C.: un’accetta in pietra verde levigata e scodelle emisferiche graffite (Malerba), vasi d’impasto e in argilla depurata (Masseria San Giovanni), tazze in stile Serra d’Alto (Fragennaro), lame in selce grigia e marrone (Montedoro). Dall’insediamento di Lesce, proviene una statuetta fittile apotropaica, in argilla depurata rosata, a corpo cilindrico concluso alla base e la cui testa ripropone caratteri antropomorfi o zoomorfi (6000-5500 a.C.). L’Eneolitico è rappresentato dai reperti dei ricchi corredi funerari del III millennio a.C. scoperti in gran numero nella zona: una patera radiale d’impasto, boccali, pendenti e grani di collana in calcare, steatite e diaspro (Laterza), ceramiche d’impasto e pugnali di rame (Grotta Nisco), scodelloni, brocche e boccali d’impasto (Pisciulo). Spicca un osso a globuli da una tomba di Casal Sabini (2350-1700 a.C.): si tratta di un osso di pecora, a sezione concavo-convessa, con il dorso decorato da sei globuli a rilievo da fascette e trattini trasversali incisi, interpretato come decorazione dell’elsa di una spada, ma anche come idoletto. L’oggetto

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In alto: pendente a croce in oro (enkolpion), pietre preziose e pasta vitrea, da Belmonte. IV-VI sec. d.C. A destra: il cranio dell’Uomo di Altamura. 150 000 anni fa circa. proviene dall’ambiente egeo e trova confronti con alcuni esemplari scoperti a Troia IIg (2450-2350 a.C.), a testimonianza dei contatti tra la Puglia e l’Oriente premiceneo già a partire tra la fine del III millennio a.C. La sezione arcaica è dedicata alla formazione e al consolidamento della civiltà del popolo italico dei Peucezi, che coinvolge diversi aspetti della vita sociale, economica e culturale del tempo: dai rapporti con l’ambiente ellenico e le città della Magna Grecia alla formazione

di importanti insediamenti indigeni. Colpiscono, dalle sepolture scoperte in via Sant’Agostino e via Vecchia Buoncammino, le grandi olle subgeometriche peucezie a decorazione monocroma e bicroma del VI secolo a.C., gli attingitoi biansati del Subgeometrico daunio, una coppa in bronzo di produzione etrusco-campana e un elmo corinzio di bronzo dello stesso periodo. Nella sezione classica si possono ammirare vasi a figure nere e rosse, tra cui alcuni autentici capolavori della ceramografia apula, provenienti da sepolture monumentali rinvenute ad Altamura e nel suo territorio, a conferma dell’elevato grado di assimilazione della cultura ellenica da parte dei Peucezi, soprattutto durante la seconda metà del IV secolo a.C., periodo al quale si data la maggior parte dei reperti esposti: una loutrophoros apula a figure rosse del Pittore di Dario, con scena tratta da una tragedia di Euripide; un’anfora a figure rosse del Pittore della Patera, con scena d’oltretomba nella quale si riconoscono Ermes, Eracle che trattiene Cerbero, Orfeo, Plutone e


Persefone; una hydria realizzata nell’officina del Pittore della Patera con quadriga condotta da una Nike mentre Eos rapisce Kephalos; un kantharos plastico a figure rosse con un Ermes seduto che regge un petaso e un caduceo; un rython configurato a testa di montone con la figura di Eros sul collo; un cratere a volute apulo a figure rosse con guerriero armato e cavallo entro un tempietto funerario. S’impone all’attenzione, infine, il coperchio di una pisside apula a figure rosse del Pittore di Dario con scena ripresa dalla tragedia Ippolito di Euripide, che vede protagonisti Fedra e Teseo. La sezione ellenistica è caratterizzata dalla Tomba degli Ori di via Genova (fine del II secolo

A sinistra: una sala del Museo Archeologico Nazionale di Altamura. A destra: collana in oro, dalla Tomba degli Ori di via Genova. Fine del II sec. a.C. In basso: coperchio di una pisside apula a figure rosse del Pittore di Dario con Fedra e Teseo. IV sec. a.C. a.C.), della quale è esposta una parure di gioielli in oro e pietre preziose con una coppia di orecchini con Eroti alati, una collana con terminali a protomi di antilopi ottenute a stampo, un pendente conformato ad anforetta con catena a maglia doppia, tre anelli con castone. L’esposizione si chiude con la sezione altomedievale dedicata al sito paleocristiano di Belmonte, dal quale proviene un prezioso pendente a croce in oro (enkolpion) decorato da pietre preziose e pasta vitrea del IV-VI secolo d.C. Il secondo livello del Museo è dedicato interamente al Paleolitico, dopo la scoperta, nelle vicine grotte di Lamalunga, dei resti dello scheletro di un Homo Neanderthalensis vissuto circa 150 000 anni fa, integro nella struttura scheletrica e in ottimo stato di conservazione.

L’Uomo di Altamura era probabilmente un maschio adulto di 160-165 cm di altezza che, durante una battuta di caccia, cadde in uno dei tanti pozzi carsici presenti nella zona: le fratture e le ferite riportate gli impedirono di uscire dalla grotta, dove i suoi resti ossei sono stati ritrovati, a 8 m di profondità, inglobati nelle concrezioni calcaree. Nel 2017 è stata presentata al pubblico ed esposta in questa sala la replica perfetta dell’Uomo eseguita attraverso una riproduzione digitale del cranio con dati morfologici raccolti mediante l’utilizzo del laser scanner e della fotogrammetria. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale di Altamura Altamura, via Santeramo 88 Orario lu-ve, 8,30-19,30; sa-do e festivi, 8,30-13,30 Info tel. 080 3146409; e-mail: drm-pug.museoaltamura@ beniculturali.it; https://musei.puglia. beniculturali.it/

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

IL BAMBINO SUL POGGETTO CONTINUANO AD ARRICCHIRSI LE CONOSCENZE SUGLI ETRUSCHI DI VULCI. ULTIMA, MA SOLO IN ORDINE DI TEMPO, LA VICENDA RACCONTATA DAL CORREDO DI UNA TOMBA ATTRIBUIBILE, CON OGNI PROBABILITÀ, AL MEMBRO DI UNA NOBILE FAMIGLIA, MORTO PREMATURAMENTE

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ontemporaneamente alla riapertura del Parco, a Vulci sono riprese anche le ricerche archeologiche che da anni interessano la necropoli di Poggetto Mengarelli e non sono mancate nuove scoperte. È storia di queste settimane l’individuazione di una tomba sfuggita all’opera dei clandestini, il cui scavo si è da poco concluso. Le indagini nella necropoli di Poggetto Mengarelli sono iniziate nel gennaio 2016,

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quando il pronto intervento del personale del Parco salvò dal saccheggio un contesto ancora intatto: la Tomba dello Scarabeo Dorato (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016; anche on line su issuu.com). Da allora, si succedono ininterrotte le ricerche, che hanno consentito l’esplorazione in estensione della porzione orientale del poggetto, riportando alla luce, a oggi, ben 118 tombe ed evidenziando tre fasi di utilizzo della necropoli.

La piú antica, ben rappresentata da una serie di tombe a pozzetto, a pozzetto dentro fossa, a fossa e a fossa rivestita a volte con sarcofago, si colloca nell’Orientalizzante Antico, tra la fine del VIII e gli inizi del VII secolo a.C. (facies a cui si può ascrivere, fra le altre, anche la Tomba dello Scarabeo Dorato); la seconda, databile all’Orientalizzante Recente (seconda metà del VII secolo a.C.), è caratterizzata da modeste tombe a


camera; la piú recente, di età ellenistica (IV-II secolo a.C.) comprende sepolture a fossa, a fossa con loculo e a camera. La struttura funeraria appena scoperta è del tipo a fossa profonda e contiene un sarcofago in tufo rosso. Il coperchio, accuratamente ricavato da un unico blocco monolitico, presenta un profilo superiore testudinato, mentre sulla superficie inferiore sono ancora ben visibili gli incavi funzionali alla sua messa in opera. La tomba è stata manomessa in età ellenistica (IV-II secolo a.C.), momento in cui, sopra gli oggetti di corredo piú antichi, è stato deposto un

Sulle due pagine: immagini dello scavo della tomba a fossa profonda con sarcofago recentemente scoperta nella necropoli di Poggetto Mengarelli e attribuita a un individuo di sesso maschile, morto in età infantile. L’oggetto di corredo piú importante (vedi foto a destra) è questa anfora in argilla figulina dipinta con motivi geometrici, sulla cui spalla sono applicate oinochoai in miniatura. individuo adulto. All’interno del sarcofago è comunque emerso un ricco corredo funerario.

UNA VERA RARITÀ Il pezzo di maggiore rilievo è un’anfora etrusco-geometrica dipinta, con oinochoai (brocche da vino) miniaturistiche applicate sulla spalla. Una forma rara, che trova un interessante confronto, anche se di livello stilistico inferiore, con un esemplare proveniente dalla cosiddetta Tomba C di Mandrione di Cavalupo, oggi conservato presso il Museo della Badia di Vulci. L’unico altro confronto esistente per questo apparato decorativo è un cratere, proveniente anch’esso da Vulci ed esposto al Museo del Louvre. Molto interessante è anche una situla in ceramica figulina, questa volta completamente rivestita da uno strato di pittura rossa. Figurano poi altri manufatti tipici del panorama vulcente di questo

periodo, come le olle a rete o a costolature e apofisi applicate, provviste di coperchio, ovvero le ciotole monoansate in impasto. Spiccano alcuni piccoli oggetti personali, come vaghi d’avorio e anelli e catenelle in bronzo. Il corredo rimanda a un maschio, come testimonia la corta lancia in ferro, probabilmente un bambino, viste le esigue dimensioni di alcune ossa che risultano comunque combuste a causa del rito incineratorio al quale lo scheletro fu sottoposto circa 2700 anni fa. Il contesto è infatti databile all’Orientalizzante Antico, tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C. Lo scavo è condotto dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, in collaborazione con la Fondazione Vulci, il Comune di Montalto di Castro e la Regione Lazio.

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A TUTTO CAMPO Carlo Citter, Giovanna Pizziolo, Chiara Valdambrini e Nicoletta Volante

C’ERA UNA VOLTA UN CASTELLO... MA NON SOLO NUOVE RICERCHE SUL VERSANTE GROSSETANO DELL’AMIATA GETTANO LUCE SULL’USO DELLE RISORSE BOSCHIVE E DEI GIACIMENTI MINERARI: FULCRO DEL PROGETTO È LO SCAVO DEL CASTELLO DI SELVENA

I

l castello di Selvena si trova nel Comune di Castell’Azzara (Grosseto), in prossimità di una delle piú grandi miniere di mercurio in Europa, alle pendici del Monte Amiata. Attestato dal IX secolo quale possesso dell’abbazia di S. Salvatore, passa poi sotto gli Aldobrandeschi, nobile famiglia comitale che nel Medioevo controlla molti feudi in Maremma. Al centro di un’area densa di siti archeologici poco conosciuti, il castello mantiene tuttora un significativo carattere monumentale ed è stato scavato su iniziativa dell’Università di Siena dal 1996 al 2012, con l’elaborazione di un progetto finale di fruizione. Il complesso è formato da tre nuclei distinti, consistenti in un’area sommitale, interamente cinta da

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mura con diverse fasi costruttive; a essa sono addossati altri due nuclei, sempre cinti da mura, posti a nord-est e a sud-ovest del nucleo principale. Quest’ultimo gravita sull’area della miniera del Morone, dove il mercurio è stato estratto fino a pochi decenni orsono.

I PROSSIMI OBIETTIVI L’area sommitale è oggi visitabile in sicurezza, mentre gli altri nuclei sono ancora da portare in luce, anche se è stata messa a punto una nuova sentieristica, per consentire una migliore e piú completa visita del complesso. L’indagine è ripresa nel 2019 e gli scavi sono stati preceduti dalla ricognizione e dal rilevamento delle emergenze murarie, per poi passare all’esplorazione nel settore della chiesa, in posizione esterna rispetto

all’area sommitale. Fin da subito, è emersa la consistenza della fase post-medievale, visibile nelle tecniche costruttive e nelle architetture degli edifici, un fattore che tradisce il forte interesse a mantenere attivo un abitato nello stesso luogo del castello. Oltre allo scavo, sono state effettuate ricognizioni mirate a documentare soprattutto la frequentazione preistorica e protostorica dell’area, con l’esplorazione delle alture di Monte Penna e di Monte Civitella e dei terrazzi gravitanti sul sistema idrografico delle pendici amiatine. Gli obiettivi della nuova ricerca sono molteplici e, tra questi, la necessità di approfondire la struttura dell’insediamento sulla piú ampia diacronia, dalla preistoria all’età contemporanea, al


A sinistra e nella pagina accanto: due immagini del palazzo di Selvena (Grosseto) edificato agli inizi del XIV sec. con modifiche successive. In questa pagina: archeologi impegnati in una ricognizione di superficie del territorio circostante il Monte Penna.

fine di cogliere eventuali elementi di continuità nel tempo. Rispetto al progetto iniziale, centrato soltanto sul castello medievale, le nuove indagini sono finalizzate a valutare fattori diversi, in particolare la resilienza ai mutamenti ambientali, climatici, sociali e culturali delle comunità che hanno avuto a disposizione un ambiente potenzialmente ricco (giacimenti minerari e risorse silvo-pastorali), ma complesso da gestire. Tali obiettivi saranno perseguiti attraverso lo scavo e la ricerca di superficie, diretta in particolare all’esplorazione delle alture circostanti e all’individuazione dei sistemi di coltivazione dei campi e di uso dei pascoli, delle acque, delle aree estrattive e delle grotte, in una prospettiva diacronica, diretta a far emergere processi di lunga durata.

Nel «sistema Amiata» alcune peculiarità d’età preistorica sono in via di definizione, grazie al confronto con altre aree montane dellaToscana centro-meridionale, soprattutto i Monti dell’Uccellina (Grosseto) e il Monte Cetona (Siena): qui la coltivazione mineraria del cinabro, a partire dal Neolitico (Poggio di Spaccasasso), e la partizione della montagna con grandi opere murarie realizzate dall’età del Bronzo (Riparo del Capriolo) permettono di stabilire sensibili analogie con l’area di Selvena.

NUOVI APPROCCI La nascita e la crescita di abitati e frazioni, in genere di piccole dimensioni, registrata in età moderna fino agli anni Sessanta del secolo scorso verranno inoltre affrontate con un approccio di tipo etnoantropologico: è infatti una

storia di cooperazione e integrazione del lavoro tra attività estrattive (il mercurio prima e il vetriolo poi), attività silvo-pastorali (con boschi meno estesi di oggi) e una minore, ma non assente, attività agricola alle quote piú basse. La domanda alla base della ricerca è se questa organizzazione sociale e produttiva costituisca l’esito della fine del castello medievale oppure sia una costante nella lunga durata: rileggendo il primo documento sul castello di Selvena, che cita espressamente nel IX secolo due nuclei abitativi distinti, la domanda acquista un interesse del tutto particolare e ci orienta per le future ricerche. La ripresa delle indagini sul sito di Selvena è frutto dell’accordo quadro fra l’Università di Siena, l’Amministrazione Separata dei Beni di uso Civico di Selvena, e il Comune di Castell’Azzara. (carlo.citter@unisi.it, giovanna.pizziolo@unisi.it, chiara.valdambrini@ comune.grosseto.it, nicoletta.volante@unisi.it)

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n otiz iario

MUSEI Lazio

QUANDO PARCO FA RIMA CON MUSEO

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l Museo delle Necropoli Rupestri di Barbarano Romano (Viterbo) ha riaperto i battenti, proponendo un nuovo allestimento, arricchito dalle ultime scoperte provenienti dagli scavi condotti dalla Baylor University-Texas nel centro etrusco e medievale di San Giuliano. Il Museo rinnova la propria immagine, ma non tradisce le istanze originarie che, oltre vent’anni fa, condussero al primo allestimento scientifico della notevole messe di materiale archeologico proveniente dalle tombe di San Giuliano. Tema portante dell’allestimento è la necropoli a facciata rupestre contraddistinta da grandiose e suggestive architetture etrusche, un fenomeno unico in Occidente e caratteristico della Tuscia viterbese, dove questi monumenti si trasformano in elemento identitario del paesaggio del tufo, che

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oltrepassa il periodo etrusco fino ai nostri giorni. Le necropoli rupestri di San Giuliano rendono particolarmente suggestivo questo territorio, sede privilegiata per scoprire un patrimonio ambientale e storico-culturale ancora intatto, valorizzato e reso fruibile nel Parco Regionale Marturanum. La visita museale vuole infatti essere una passeggiata archeologica fra i luoghi che hanno segnato la storia antica di San Giuliano, dalla formazione villanoviana dell’insediamento alla fiorente fase etrusca, dalla conquista romana alla fortificazione medievale, raccontata attraverso i reperti piú significativi provenienti dagli scavi avviati all’inizio del Novecento. Tra i monumenti funerari di particolare rilevanza si ricordano il Tumulo Cima, la Tomba dell’Obelisco e la Tomba del Cervo, i cui corredi, riuniti per l’occasione, In alto: Barbarano Romano (VT). Le sale del Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri. A sinistra: veduta della necropoli del Caiolo. Nella pagina accanto, in alto: l’interno della Tomba 1 di Valle Cappellana. VII-VI sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: la facciata della Tomba della Regina, nella necropoli rupestre di San Giuliano. VI-V sec. a.C.

danno maggior forza all’unità del contesto, nonostante le violazioni dei saccheggiatori clandestini. Monumenti che oggi possono essere apprezzati nel Parco e all’interno del Museo. Il percorso museale è quindi complementare e in stretta relazione con le escursioni, in particolare con gli itinerari che attraversano le necropoli rupestri e le vie cave che tanto hanno suggestionato i visitatori d’ogni tempo. «Un luogo che gli appassionati di antichità etrusche dovrebbero conoscere»: cosí, circa duecento anni, fa lo studioso e viaggiatore inglese George Dennis commentava la scoperta delle necropoli rupestri dell’Etruria interna. Un racconto che oggi non può prescindere dalla visita al Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri.

Il riallestimento del Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri è frutto della collaborazione fra Parco Regionale Marturanum, Amministrazione comunale e Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Maria Rosa Lucidi

DOVE E QUANDO Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri Barbarano Romano (Viterbo), via Sant’Angelo, 4 Orario tutti i giorni, tranne i festivi infrasettimanali, 10,00-13,00 e 15,30-18,30 Info tel. 0761 414507; e-mail: parcomarturanum@regione.lazio.it; Facebook: Museo archeologico di Barbarano Romano

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

QUELL’«ITALICA ROMANITÀ»

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Dopo avere analizzato il «nazionalismo» estero (vedi «Archeo» n. 425, luglio 2020; anche on line su 2 issuu.com), Umberto Liviadotti affronta in questo numero il «nazionalismo» nostrano (vedi l’articolo alle pp. 64-77), che ebbe una connotazione diversa da 6 quello europeo e che poi sfociò nel fascismo. Due furono le ragioni fondamentali: la presa di coscienza che l’Italia era, ed è ancora, il Paese dei Comuni, con un radicato campanilismo, e la consapevolezza che gli 5 4 Italiani, nonostante le proprie memorie municipali, hanno sempre «sentito» la grandezza del passato di 8 Roma. E il richiamo alla «romanità italica», come ben la definisce Liviadotti, è stato un elemento base della propaganda fascista per cercare di tenere unito il Paese in quei difficili momenti della sua storia. 7 Fra gli strumenti adoperati dal regime, non mancò la filatelia: con i francobolli si raggiungevano milioni di 9 persone e, soprattutto, si esaltavano i siti archeologici anche coloniali, inneggiando a un presente «glorioso», con gran profusione di aquile e fasci littori. La breve carrellata che segue, offre un’idea, seppur sintetica, di questi sforzi propagandistici nel nome di un nazionalismo «italico-romano». Politica e propaganda, anche bellica. Primo 11 anniversario marcia su Roma; i fasci (1, 1922); Cinquantenario dell’unità d’Italia e «Dea Roma» 10 (2, 1911); X anniversario marcia su Roma, Ritornando dove già fummo (3, 1932); Decennale dell’annessione di Fiume-D’Annunzio (4, 1934); Proclamazione dell’Impero, Romolo che fonda Roma (5, 1938), Inneggiare al valor militare (6, 1934) e alla Vittoria 12 13 (7, 1942). Archeologia a Roma. Castel Sant’Angelo (8, 1926); Acquedotto Claudio (9, 1926), il Campidoglio (10, 1937); il dirigibile Zeppelin in volo sulla tomba di Cecilia Metella, sui Fori e sul Colosseo (11-12-13, 1933). Archeologia nelle colonie. Sabratha, Libia (14) e 14 15 Leptis Magna, Tripolitania (15). Grandezza di Roma eterna. Raffigurazione grafica dell’Impero (16, 1938) e IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di monumenti di Roma con i versi di Orazio: «Alme Sol, Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi possis nihil urbe Roma visere maius» (17, 1936). altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it


NEL RICORDO DI UN GRANDE ARCHEOLOGO

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el 2019, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico assegnò postumo il Premio «Paestum Mario Napoli» a Sebastiano Tusa, per onorare la memoria del grande archeologo, dello studioso, dell’amico della Borsa, ma, soprattutto, dell’uomo del Sud, che ha vissuto la sua vita al servizio delle istituzioni per contribuire allo sviluppo locale e alla tutela del Mare Nostrum. Nacque allora l’idea di creare un’iniziativa a carattere internazionale, volta a ricordare l’impegno e le progettualità di Tusa. Pertanto, la XXIII edizione della Borsa (19-22 novembre 2020) ospiterà la 1a Conferenza Mediterranea sul Turismo Archeologico Subacqueo in memoria di «Sebastiano Tusa», con la partecipazione delle piú note destinazioni archeologiche subacquee mediterranee, e assegnerà il «1° Premio di Archeologia Subacquea Sebastiano Tusa» alla scoperta archeologica dell’anno o quale riconoscimento alla carriera, alla migliore mostra in ambito scientifico internazionale, al progetto piú innovativo a cura di Istituzioni, Musei e Parchi Archeologici, al miglior contributo giornalistico in termini di divulgazione. Le iniziative si svolgeranno in collaborazione con Soprintendenza del Mare e Fondazione «Sebastiano Tusa» della Regione Siciliana, Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali di Ravello, ICOMOS Italia, NIAS Nucleo per gli Interventi Ugo Picarelli consegna il Premio «Paestum Mario Napoli» 2019, assegnato postumo a Sebastiano Tusa, a Valeria Li Vigni, vedova dell’archeologo siciliano.

di Archeologia Subacquea dell’ICR Istituto Centrale per il Restauro del MiBACT, Parco Archeologico dei Campi Flegrei, Accademia Internazionale di Scienze e Tecniche Subacquee, Istituto Italiano di Archeologia Subacquea, Gruppi Archeologici d’Italia, Archeoclub d’Italia. La presenza del Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali di Ravello, costituitosi nel 1983 proprio sotto gli auspici del Consiglio d’Europa, assume particolare valenza per richiedere con i soggetti promotori la certificazione di una rete dei siti sommersi nel «Programma degli Itinerari Culturali». Gli «Itinerari Culturali dei siti sommersi del Mediterraneo» (una rete che collegherà Campania, Puglia, Sicilia, Egitto, Grecia e Israele attraverso i siti di Baia Sommersa nel Parco Archeologico dei Campi Flegrei, delle Tremiti, di Ustica-Egadi-Pantelleria, di Alessandria d’Egitto, di Pavlopetri e di Cesarea Marittima) rappresentano una risorsa chiave per il turismo responsabile e lo sviluppo sostenibile, rispondendo alle attività e ai progetti innovativi richiesti dal Consiglio d’Europa nel quadro dei cinque settori d’azione prioritari, strategici per lo sviluppo locale e la valenza culturale dei territori: cooperazione in materia di ricerca e sviluppo; valorizzazione della memoria, della storia e del patrimonio europeo; scambi culturali e educativi per i giovani europei; pratiche artistiche e culturali contemporanee; turismo culturale e sviluppo culturale sostenibile. I siti sommersi sono meta di un numero crescente di turisti subacquei e il turismo archeologico, per esplicare appieno le proprie potenzialità, richiede la presenza di un sistema locale integrato ed efficiente, in cui attori diversi accettino di interagire, a parte la necessità di aree in cui sia già prevista una tutela giuridica del territorio di tipo ambientale. Cruciale è anche la relazione con la tecnologia: il turismo subacqueo è sí una pratica naturalistica, perché implica un contatto totale con l’ambiente, ma è anche, da subito, una pratica tecnologica, perché necessita di apparecchiature, conoscenze, e implica un rapporto con l’ambiente mediato dalla tecnica. La richiesta di certificazione al Consiglio d’Europa di un Itinerario Culturale Europeo ha l’obiettivo di mettere in luce le potenzialità del turismo archeologico subacqueo per lo sviluppo locale delle tante destinazioni, anche lontane dalle località piú note, che richiedono processi di nuove offerte turistiche, ma nel segno della tutela e della sostenibilità. Per informazioni: www.bmta.it a r c h e o 23

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

INCONTRI Paestum


CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Italia ROMA Civis, Civitas, Civilitas

Roma antica modello di città Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 18.10.20

Aspettando l’Imperatore Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone, 1809-1814 Museo Napoleonico fino al 25.10.20

Gli Etruschi e il MANN

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21

ODERZO L’anima delle cose

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 14.02.21

TORINO Lo sguardo dell’antropologo

Connessioni tra egittologia e antropologia Museo Egizio fino al 15.11.20

Colori degli Etruschi

Tesori di terracotta alla Centrale Montemartini Centrale Montemartini fino all’01.11.20

BASSANO DEL GRAPPA Giambattista Piranesi Architetto senza tempo Palazzo Sturm fino al 19.10.2020

BOLOGNA Etruschi

Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 29.11.20

CLASSE Tesori ritrovati

Il banchetto da Bisanzio a Ravenna Museo Classis Ravenna fino al 20.09.20

FORLÍ Ulisse

L’arte il mito Musei San Domenico fino al 31.10.20 (prorogata)

MILANO Viaggio oltre le tenebre

Tutankhamon Real Experience Palazzo Reale fino al 30.08.20

Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 20.12.20

NAPOLI Thalassa

Meraviglie sommerse dal Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 31.08.20 24 a r c h e o

Francia PARIGI Pompei

Passeggiata immersiva, tesori archeologici, nuove scoperte Grand Palais fino al 27.09.20

Paesi Bassi LEIDA Tessuti dall’Egitto

Rijksmuseum van Oudheden fino al 27.09.20

I Romani lungo il Reno Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21



NE L’A LL LIM ’A EN NT T IC AZIO A N RO E M A

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

L’impero del gusto COSTUMI ALIMENTARI NEL MONDO ROMANO TRA ECOLOGIA, PRODUZIONE E STILI DI VITA di Umberto

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Livadiotti


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el mondo contemporaneo, il cibo vive una sorta di schizofrenia: continua a essere per molti, forse per troppi, un bene difficile da conquistare, mentre per altri è entrato a pieno titolo fra gli aspetti della vita quotidiana a cui dedicare attenzioni quasi parossistiche. Al di là dei giudizi di merito, in epoca romana la situazione era assai diversa, se solo pensiamo che non esisteva, di fatto, la figura dello chef, almeno nell’accezione che gli viene oggi attribuita. Per la nuova Monografia di «Archeo» abbiamo chiamato a tratteggiare il profilo «alimentare» di Roma e del suo impero Umberto Livadiotti, che propone uno spaccato ampio e articolato, non limitandosi a descrivere quali fossero gli usi e i costumi dei Romani al momento di sedersi, o, meglio, sdraiarsi a tavola, ma esplorando le implicazioni politiche, sociali ed economiche della produzione, della gestione e della trasformazione dei beni forniti dalla terra, dal mare e dall’allevamento. Pane, vino e il celeberrimo garum, la salsa a base di pesce, sono dunque fra i protagonisti di una storia a tutto tondo e confermano come, da sempre, il cibo sia anche cultura.

IN EDICOLA

GLI ARGOMENTI • ECOLOGIA • Governare la natura • ECONOMIA • Antiche filiere • VITA QUOTIDIANA • Tutti i modi del mangiare • MENTALITÀ • Le regole del gusto • GASTRONOMIA • Cucinare alla romana Particolare di una stele funeraria ornata da un rilievo policromo raffigurante un banchetto funebre. II-III sec. d.C.

• SALUTE • Caldi, freschi, secchi e umidi... • POLITICA • Pane in cambio di consenso • SOCIETÀ • Ma il cibo non era uguale per tutti...

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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart

LA MATITA DELL’UOMO BIANCO SAPER LEGGERE, SCRIVERE E CONTARE: LA STORIA DI QUESTI STRUMENTI, COSÍ INDISPENSABILI ALLA PROPRIA EMANCIPAZIONE SOCIALE E INTELLETTUALE, HA UNA GENESI CONTROVERSA. PER SCOPRIRLA DOBBIAMO RECARCI, IN UN IMMAGINARIO VIAGGIO A RITROSO, NELL’ANTICA MESOPOTAMIA, PASSANDO PER L’EGITTO FARAONICO, LA GRECIA DI PLATONE E... IL BRASILE TROPICALE

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onoscere significa rendersi liberi e fra i sentieri che portano alla conoscenza, l’arma della scrittura ha recitato un ruolo fondamentale. Dall’alba della storia saper scrivere ha significato poter trasmettere nel tempo e nello spazio un messaggio univoco, esercitare un incontestabile ascendente su chi non possedeva questa scienza, A sinistra: statuetta di scriba ai piedi del dio Thot, da Amarna. XVIII dinastia, epoca di Tutankhamon, 1340 a.C. circa. Il Cairo, Museo Egizio. Nella pagina accanto: un gruppo di indiani Nambikwara, nella regione del Mato Grosso (Brasile), in una foto del 1914.

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capace di aprire la mente a nuovi e sterminati orizzonti. Secondo l’antica Grecia, è Prometeo ad aver insegnato agli uomini il calcolo e la scrittura, contribuendo in questo modo a cancellare la loro sudditanza nei confronti di Zeus e degli dèi: «Poi inventai per loro il numero, principio di ogni sapere, le lettere e la scrittura, memoria di tutto, madre feconda della poesia» (Prometeo incatenato, 450-461). Di solito, gli uomini entrano in possesso della scrittura dopo un lungo apprendistato, ma non sempre è cosí. Nel suo volume «Tristi tropici», Claude Lévi-Strauss (1908-2009) ha narrato un episodio che illustra mirabilmente il legame tra potere e scrittura. Il grande etnologo si trovava alle prese con la tribú amazzonica dei Nambikwara, una popolazione che ovviamente non conosceva la scrittura. Lévi Strauss distribuí agli indigeni fogli di carta e delle matite. All’inizio non successe nulla, poi, dopo qualche tempo, i Nambikwara iniziarono a tracciare linee orizzontali od ondulate sui fogli. Tentavano non tanto di scrivere, quanto di fare con la matita quello che l’uomo bianco

faceva costantemente. Il capo della tribú, invece, vedeva piú lontano e chiese a Lévi Strauss un quadernetto simile al suo sul quale cominciò a tracciare righi che presentò poi al suo interlocutore, come se quest’ultimo potesse capire quanto aveva scritto. Ovviamente era tacitamente convenuto tra il capo e l’esploratore che il manoscritto fosse intelligibile. Il capo allora convocò la sua gente e tirò fuori dal cestino la carta coperta da righe tracciate in precedenza. L’uomo faceva finta di leggere quello che aveva tracciato e da grande attore, intercalando il suo discorso con momenti di pausa, indicava quali erano gli oggetti da consegnare in cambio dei regali offerti dalla tribú.

LA FINZIONE DEL CAPO La commedia si protrasse per due ore. Il capo voleva stupire i suoi compagni, persuaderli che lo scambio delle merci dovesse essere gestito solo da lui, perché aveva ottenuto l’alleanza dell’uomo bianco e condivideva con lui i segreti della scrittura. La scrittura non aveva fatto la sua apparizione presso i Nambikwara al termine di

un apprendistato laborioso. Il capo si era impossessato del simbolo, ma la sua realtà intrinseca gli rimaneva estranea. Scriveva, però non sapeva leggere. L’uomo non aveva cercato di comprendere, ma, semplicemente, di accrescere il suo prestigio e la sua autorità a scapito degli altri membri della comunità, fingendo di avere assimilato il segreto dell’esploratore. Per lui la scrittura era solo uno strumento di potere, del quale si era impossessato al termine di un corto circuito spettacolare. Per Lévi Strauss, il solo fenomeno che ha accompagnato la nascita della scrittura è l’integrazione in un sistema politico di un numero elevato d’individui e la loro gerarchizzazione in caste e classi. E il grande etnologo non ha torto. Dalla Mesopotamia al Vicino Oriente, all’Egitto e all’Egeo, l’apparizione della scrittura è ovunque associata alla nascita di strutture architettoniche il cui responsabile controllava un territorio. Facendosi consegnare i prodotti da chi lavorava le sue terre, il padrone provvedeva allo stoccaggio dei beni in magazzini affidati a vari amministratori. Questi ultimi, per controllare i movimenti di entrate e uscite dai depositi, hanno inventato strumenti burocratici capaci di supplire alle lacune della memoria. Cosí sono nati i primi documenti scritti che, all’inizio, privilegiavano le annotazioni numeriche. Tale è l’evoluzione tipica alla quale si assiste nel momento in cui la scrittura fa la sua apparizione: assecondare lo sfruttamento degli uomini prima di diventare strumento di liberazione. Lo scriba è il pilastro delle prime città-stato apparse nella storia. Samuel Noah Kramer, nel suo bel libro L’histoire commence à Sumer (2015) cita in un testo di oltre 4000 anni fa, i cui frammenti sono stati radunati e tradotti nel 1949, le parole di un

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Tavoletta sumera con iscrizione in caratteri cuneiformi che riporta la registrazione di quantità di malto e di orzo, verosimilmente distribuite da un grande tempio. Argilla. 3100-2900 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

maestro di scrittura al suo alunno: «Giovanotto, poiché Voi non avete disdegnato la mia parola, possiate accedere al pinacolo dell’arte dello scriba, possiate essere la guida e il capo dei vostri amici. Avete adempito ai vostri compiti di scolaro, eccovi diventato un uomo del sapere. Di tutti i mestieri che esistono sulla terra e che sono stati designati da Enlil, non vi è alcuna professione che sia piú difficile di quella dello scriba». L’utilizzo della scrittura a fini disinteressati, per trarre soddisfazioni intellettuali ed estetiche, è un risultato secondario, che all’inizio può anche ridursi a rafforzare, giustificare e nascondere l’asservimento. Tuttavia, da strumento di coercizione, la scrittura, man mano che si «democratizza» e raggiunge strati sempre piú ampi di popolazione, diventa uno straordinario veicolo di liberazione. In un suo celebre testo, Platone prende apparentemente le distanze rispetto alla posizione appena esposta. Nel Fedro (274 c-275 b), Socrate narra una storia singolare: «Ho sentito dire che vicino a

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Naucratis in Egitto, vi era un dio, uno dei primi adorati in questo Paese, colui al quale è consacrato l’uccello chiamato ibis. In nome del dio è Thot. Si dice che è stato il primo ad aver inventato i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia, il gioco degli scacchi, dei dadi e infine la scrittura».

IL «RIMEDIO» DI THOT «L’Egitto intero allora era sotto il dominio di Thamus che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe. Thot venne a trovare il re, gli fece vedere le arti che aveva inventato e disse che voleva condividerle con tutti gli Egiziani. Il re chiese quale fosse l’utilità di ognuna di queste invenzioni e in base alle risposte di Thot, approvava o biasimava l’operato del dio. Quando si trattò di illustrare la scrittura, Thot disse: ”Questa scienza, o re, renderà gli Egiziani piú sapienti e aiuterà la loro memoria. È il rimedio che ho trovato per assecondare il sapere“. Il re rispose: ”Laborioso Thot, l’uomo a volte è capace di inventare le arti, mentre un altro sa apprezzare i vantaggi o gli

svantaggi che derivano dal loro utilizzo e tu, padre della scrittura, benevolo per la tua invenzione, la giudichi diversa da quella che è in realtà. La scrittura genererà l’oblio nella mente di coloro che imparano, perché trascureranno la memoria. Infatti lasceranno a caratteri strani il compito di ricordare quello che avranno affidato alla scrittura e dimenticheranno tutto. Quindi non hai trovato un rimedio per aiutare la memoria ma la semplice reminiscenza e offri soltanto ai tuoi discepoli il nome ma non la realtà della scienza. Quando avranno letto molte cose senza l’aiuto del maestro, penseranno di essere sapienti mentre per la maggior parte rimarranno ignoranti e l’opinione sbagliata che avranno del loro sapere li renderà insopportabili agli altri uomini“». È difficile non ammettere che ai nostri giorni, di fronte alla massa infinita dei giornali, riviste, libri che ingombrano edicole e biblioteche, l’aiuto di un «maestro» capace di guidare nella scelta delle cose da leggere per offrire ai discepoli «la realtà della scienza» è piú che mai indispensabile.



TEMI E PROBLEMI • TURCHIA

SANTA SOFIA E LA SFIDA ALLA CIVILTÀ LA GRANDIOSA BASILICA, RICOSTRUITA DALL’IMPERATORE GIUSTINIANO SULLE ROVINE DI UN EDIFICIO COSTANTINIANO, È IL SIMBOLO STESSO DELLA CITTÀ DI ISTANBUL. NEL 1934, IL PADRE DELLA MODERNA TURCHIA, KEMAL ATATÜRK, DECIDE DI TRASFORMARE IL CONTESO MONUMENTO IN UN MUSEO, CONFERENDOGLI COSÍ UN CARATTERE UNIVERSALE. CHE, OGGI, SEMBRA DESTINATO A ESSERE CANCELLATO, FORSE PER SEMPRE… di Louis Godart

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Istanbul, Santa Sofia. Ricostruito in epoca giustinianea dagli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto, l’edificio sostituí la basilica consacrata nel IV sec. dall’imperatore Costanzo Il, devastata da due incendi. Dopo la conquista ottomana, Santa Sofia fu trasformata in moschea e vi furono aggiunti i quattro minareti.

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l suo splendore conquistò gli Slavi e li convinse da pagani a diventare ortodossi. Mandati a Costantinopoli e a Santa Sofia per indagare sul Cristianesimo, gli ambasciatori di Vladimiro, gran principe di Kiev (958-1015), rimasero incantati. «Ci portarono laddove celebrano il loro Dio e non capivamo piú se eravamo in cielo o in terra perché sulla terra non vi è nulla che goda di tanta bellezza. In quel luogo, Dio vive in mezzo agli uomini». Soggiogato dalla descrizione che gli fecero i suoi emissari parlando della finezza dei mosaici, dell’oro delle icone, dello splendore dei marmi, Vladimiro – che sarà consacrato come il fondatore della «Santa Madre Russia» – si convertí al Cristianesimo, portando dietro di sé la stragrande maggioranza del popolo slavo. Costruito su una collina che domina il mar di Marmara, il monumento fu edificato nel VI secolo sui resti di una chiesa piú antica eretta intorno al 325 da Costantino, il primo imperatore romano ad avere ricevuto il battesimo. L’edificio fu distrutto nel 532 durante i violenti scontri tra fazioni che avevano devastato Costantinopoli, la grande capitale che allora contava circa 400 000 abitanti. L’imperatore Giustiniano (483-565) decise di far ricostruire subito la basilica. Nello spazio di cinque brevi anni, i maggiori architetti dell’epoca (Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle), aiutati da oltre 10 000 operai, costruirono la chiesa della Santa Sapienza (Aghia Sophia in greco), che diventò il monumento piú spettacolare della cristianità.

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TEMI E PROBLEMI • TURCHIA

Con i suoi 55 m di altezza e i 30 di diametro, la cupola rimase per piú di 1000 anni la piú grande del mondo, fino al momento in cui fu eretta nel Cinquecento quella di S. Pietro, in Vaticano, l’unica in grado di superarla. La basilica venne inaugurata nel 537 e la leggenda narra che Giustiniano esclamò, pensando al sovrano che aveva costruito il grande Tempio di Gerusalemme: «Ti ho vinto o Salomone». Il contrasto fra la massa imponente dell’esterno e la

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straordinaria leggerezza dell’interno fece dire allo storico Procopio di Cesarea che la basilica era «come appesa al cielo da una catena d’oro».

BELLISSIMA, MA FRAGILE L’edificio era splendido ma anche fragile. I terremoti provocarono regolarmente danni importanti e la cupola crollò a piú riprese. Alle catastrofi naturali si aggiunsero le vicissitudini politiche legate alla rivalità tra il papato romano e il patriar-

cato di Costantinopoli, in rotta di collisione dall’epoca del grande Scisma del 1054. Durante la IV crociata (1204), i Latini saccheggiarono barbaramente Costantinopoli. Santa Sofia fu implacabilmente spogliata dei suoi tesori, l’altare distrutto per recuperarne i materiali preziosi, le reliquie portate via. La meraviglia dell’ortodossia venne riconsacrata in chiesa cattolica e ospitò il patriarcato latino di Costantinopoli, fino al mo-


mento della riconquista della città da parte dei Bizantini, nel 1261. Due secoli piú tardi, nel 1453, la «nuova Gerusalemme» cadde di nuovo, questa volta sotto i colpi degli Ottomani, che segnarono il definitivo tramonto dell’impero romano d’Oriente. I conquistatori musulmani distrussero la maggior parte degli edifici cristiani, ma il sultano Mehmet II risparmiò Santa Sofia. La basilica decaduta diventò la moschea Aya Sofya (in

turco), rappresentando cosí il simbolo incontestabile della vittoria dell’Islam sulla cristianità. Si narra che, immediatamente dopo la conquista della basilica, il sultano

Mehmet II si recò ad Aya Sofya per la preghiera del venerdí. Poco a poco, Aya Sofya si islamizzò. Croci e campane scomparvero, mosaici e pitture murali furono coper-

A sinistra, sulle due pagine: l’interno di Santa Sofia. Il vasto spazio vuoto sovrastato dalla cupola fu ricavato cimentandosi con soluzioni mai prima d’allora sperimentate e la cupola stessa fu per oltre mille anni la piú grande mai realizzata, prima che si

mettesse mano alla costruzione della nuova basilica vaticana di S. Pietro. In basso: cartolina postale degli inizi del Novecento, raffigurante un imam in preghiera in quella che, dopo la conquista ottomana, era divenuta la moschea di Aya Sofya.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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TEMI E PROBLEMI • TURCHIA

ti dalla calce (l’Islam vieta le raffigurazioni umane) e l’imponente sagoma della basilica fu affiancata da quattro minareti. Paradossalmente, l’antico luogo di culto cristiano diventò il modello delle moschee ottomane. Nel XVI secolo, Solimano il Magnifico – che voleva emulare Giustiniano – chiese al suo architetto Sinan di costruire, sempre a Costantinopoli, una moschea ispirata al modello di Santa Sofia. Nacque cosí la famosa Moschea Blu. Rimasta per secoli un’icona dell’architettura universale, l’antica basilica fu di nuovo strumentalizzata all’indomani della prima guerra mondiale. Dopo la sconfitta, gli Ottomani minacciarono di far saltare Santa Sofia. Ben diversa fu la politica di Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), il padre della Turchia moderna. Il 24 novembre 1934 il primo Presidente della Repubblica di Turchia decise di «offrire la basilica all’umanità» trasformandola in museo. Il gesto rifletteva la sua volontà di modernizzare e laicizzare il Paese, espressa anche attraverso l’adozione dell’alfabeto latino e l’abolizione del califfato.

LA TOLLERANZA PERDUTA Questa politica lungimirante, fatta di apertura al mondo e di amore della tolleranza, è tramontata lentamente lasciando spazio alla volontà di strumentalizzare un monumento di tanta potenza simbolica. Gli imponenti pannelli con i nomi di Allah, di Maometto, dei quattro califfi e dei nipoti del Profeta che Atatürk aveva fatto togliere, furono riproposti negli anni Cinquanta del secolo scorso. Nel 2012 i militanti di un partito islamista e nazionalista organizzarono una preghiera musulmana sotto la cupola bizantina. Lo scorso 10 luglio, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha deciso di restituire il gioiello di Istanbul al culto musulmano suscitando in questo modo l’entusiasmo delle frange religiose intransigenti 36 a r c h e o

del suo elettorato e dei suoi alleati di estrema destra. Rispondendo a un’associazione che da una quindicina d’anni conduce una battaglia implacabile per restituire all’Islam tutti i luoghi di culto musulmani sconsacrati durante le ultime decadi, il Consiglio di Stato turco ha annunciato l’abrogazione del decreto emesso da Atatürk, adducendo il semplice motivo che Santa Sofia – diventata moschea dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453 – non poteva essere utilizzata per altri fini se non quelli stabiliti dal sultano Mehmet II. Un’ora dopo il Giornale Ufficiale della Repubblica turca ha pubblicato la decisione presa da Erdogan di trasferire Santa Sofia, fino allora gestita dal Ministero della cultura e del turismo, alla direzione degli affari religiosi e di riaprire l’edificio alla preghiera. La sera stessa, in un infuocato discorso televisivo, il Capo dello Stato ha difeso il ritorno all’Islam del millenario monumento: «Oggi la Turchia si è sbarazzata di una vergogna. Santa Sofia vive di nuovo una delle sue resurrezioni come tante volte nel passato. La resurrezione di Santa Sofia precede quella che sarà la liberazione della moschea Al Aqsa a Gerusalemme. Significa che il popolo turco e i musulmani hanno cose nuove da proporre e dire al mondo». E, citando uno dei suoi autori preferiti, lo scrittore conservatore Yüksel Serdengeçti, che invoca l’avvento di un «Secondo Conquistatore dopo Mehmet II», ha annunciato: «Oggi questo giorno è arrivato!». Il presidente turco ha anche dichiarato che la prima preghiera sotto la cupola dell’edificio avrebbe avuto luogo venerdí 24 luglio. Ha assicurato che i turisti potranno continuare a visitare il sito, ma è rimasto muto circa la sorte riservata ai mosaici di Santa Sofia ricoperti da uno strato di gesso. Chi nel mondo sente di dover lot(segue a p. 43)

L’abside di Santa Sofia che accoglieva in origine l’altare, rimpiazzato dal mihrab (la nicchia che indica la direzione della Mecca), dopo la trasformazione dell’edificio in moschea.


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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TEMI E PROBLEMI • TURCHIA

IL VOLO DELL’ANGELO di Flavia Farina

Nel 2010, Istanbul fu Capitale Europea della Cultura e, grazie ai fondi stanziati per l’occasione, le celebrazioni del riconoscimento furono precedute da numerosi interventi sulla città e sul suo patrimonio culturale. Fra gli altri, fu condotto il restauro di uno dei pennacchi sottostanti la cupola di Santa Sofia, dove, alla metà dell’Ottocento, era stata rilevata la presenza di una pittura murale raffigurante il volto di un Serafino. Dell’operazione pubblicammo un ampio reportage (vedi «Archeo» n. 308, ottobre 2010), a firma di Flavia Farina, di cui ci è sembrato particolarmente significativo, alla luce degli eventi di queste ultime settimane, riproporre un ampio stralcio.

È

tornato alla luce. La stella dorata che campeggiava al centro delle tre coppie di ali sul pennacchio nord-est di Santa Sofia, a Istanbul, è stata rimossa, rivelando il volto di un Serafìno, rimasto nascosto da oltre un secolo e mezzo. Nel 1849 gli architetti Gaspare e Giuseppe Fossati, incaricati di importanti interventi di restauro, avevano scoperto che sotto la stella c’era un volto (peraltro già testimoniato da illustrazioni dei secoli precedenti); ma dopo il restauro avevano ripristinato la copertura, affidandone la memoria a schizzi e acquarelli. 38 a r c h e o

Lo scorso anno l’angelo (2009, n.d.r.) è stato finalmente restaurato e presentato al pubblico ed è ora visibile anche dalla navata, 50 m piú in basso: un volto severo circondato da sei ali, delle quali due si incrociano sopra la testa e due nascondono il corpo. Sono quattro – in realtà – gli angeli sui pennacchi sotto la cupola. Forse quattro Serafini, creature celesti che Dionigi l’Aeropagita pone tra le piú vicine a Dio e che la Bibbia descrive proprio cosí: «Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato (...). Attorno a lui stavano dei Serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva la

faccia, con due si copriva i piedi e con due volava» (Isaia 6, 1-2). (...) Paolo Silenziario, dignitario di corte e poeta greco del VI secolo, raccontava che tutte le pareti (della basilica, n.d.r.) erano rivestite di mosaico, con tessere dorate che riflettevano la luce, diffusa da ampie finestre (ora murare) o dal lampadario centrale sui marmi pregiati, sui bronzi e sui rivestimenti d’argento degli arredi.Va ricordato, tuttavia, che la prima decorazione di Santa Sofia era aniconica, forse perché l’imperatrice


Teodora era di fede monofisita: questa dottrina negava la natura umana di Cristo, e, considerando il divino non rappresentabile in assenza di reincarnazione, si opponeva alla rappresentazione figurativa. Molte erano quindi le croci, accompagnate unicamente da motivi geometrici, girali e altre decorazioni, comunque splendide.

Le prime immagini figurative nella basilica vanno datate probabilmente alla fine della crisi iconoclasta: la Vergine con il Bambino, ancora oggi visibile nell’abside, risale all’867 circa e si pensa che, non molto tempo dopo, il grande mosaico con la croce che ornava il centro della cupola, conosciuto grazie alla descrizione del Silenziario, fu

Nella pagina accanto: particolare della cupola di Santa Sofia, nei cui pennacchi si riconoscono le immagini dei quattro Serafini.

In basso: l’angelo restaurato nel 2009. Solo due delle quattro figure, realizzate a mosaico policromo, si sono conservate completamente.

sostituito con una immagine del Cristo, forse già accompagnata dai quattro angeli nei pennacchi sottostanti. Tra il 1343 e il 1344 Costantinopoli fu scossa da violenti terremoti. Il risultato fu il crollo, nel 1346, di parte della cupola, dell’arcone orientale, di parte dei pennacchi di sud-est e nord-est e della semicupola. La ricostruzione cominciò quasi subito e venne completata, con il ripristino dei mosaici, sotto il giovane imperatore Giovanni Paleologo, poco dopo il 1355: la datazione del Serafino rivelato è quindi questa, anche se qualche frammento potrebbe essere del IX secolo, e nello stesso periodo si pensa sia stato realizzato il Cristo Pantocratore della cupola, del quale oggi non resta traccia. Non si ceda alla tentazione di addossare al dominio ottomano la responsabilità della decadenza strutturale di Santa Sofia, né della scomparsa di molti mosaici ancora descr itti all’epoca dei fratelli Fossati: anche se la conquista fu seguita dalla distruzione e dispersione, in tutta Costantinopoli, di beni di grande valore, l’opera di manutenzione di alcuni sultani fu fondamentale. Dopo la conquista (1453) Mehmet II diede l’ordine di trasformare la basilica in moschea, ma fece conservare i mosaici, probabihnente occultandoli alla vista con grandi veli. (...) I viaggiatori del XVI e del XVII secolo descrivono ancora molti mosaici, segno che non erano stati coperti né distrutti, anche se alcuni risultavano parzialmente danneggiati, come scrive Pietro della Valle (15861652) nel 1614: «Nella cupola, e a r c h e o 39


TEMI E PROBLEMI • TURCHIA

nelle volte, appariscono ancora i musaichi, e le reliquie delle figure che vi erano; guastate in parte da i Turchi, massimamente i volti, per essere a loro vietato il tener figure, che rappresentino corpi humani». La Vergine con il Bambino dell’abside era visibile fino agli inizi del Settecento, cosí come l’imperatore che si prostra di fronte al Cristo sopra la porta imperiale del nartece, e tutte le figure dell’arcone orientale, nei pressi del Serafino: è probabile che la copertura della maggior parte dei mosaici venisse effettuata solo in questo secolo. Nel 1847 fu ancora un sultano, Abdülmecid I, a incaricare i fratelli Fossati di un’operazione di restauro (consolidamento e ridecorazione) della ex chiesa cristiana, senza precedenti. All’inizio dei lavori gli unici mosaici ancora visibili erano proprio le creature alate dei pennacchi, che avevano il volto coperto: un documento del 1851 riferisce che i Turchi non ritenevano necessario nasconderli alla vista, pensando che

rappresentassero pipistrelli. Quando i fratelli ticinesi scoprirono i preziosissimi mosaici nascosti sotto le decorazioni di tutta la moschea, la reazione del sultano fu di grande entusiasmo: criticando chi li aveva coperti, chiese ai Fossati di restaurarli, consolidarli e coprirli di intonaco per proteggerli da eventuali future distruzioni, utilizzando una tecnica tale da consentirne il recupero in un domani ipotetico. Sembra ad-

In basso: un’altra immagine della cupola della basilica. Nella pagina accanto: un particolare del volto dell’angelo realizzato nel

pennacchio nord-est, dopo il restauro. La figura venne realizzata a mosaico, probabilmente nel XIV sec., sulla base di una composizione piú antica.

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QUESTIONI DI OCCHI E DI ALI Gli angeli dei pennacchi di Santa Sofia sono davvero Serafini? L’iconografia bizantina, secondo lo studioso Cyril Mango, ha spesso trascurato le distinzioni bibliche tra Cherubini (polyommata, dai molti occhi) e Serafini (esapterigi, a sei ali), rendendo regola piú che eccezione la rappresentazione contraria, dei primi con sei ali o dei secondi con molti occhi. Non possiamo quindi essere certi che

chi ha decorato i pennacchi volesse rappresentare quattro Serafini e non, piuttosto due Cherubini e due Serafini. Nel Duomo di Cefalú, per esempio, i quattro angeli della volta del presbiterio sono tutti con occhi multipli e sei ali: Cherubini e Serafini si distinguono solo dalle iscrizioni in greco e daI fatto che i primi sono rappresentati con le ali incrociate, mentre i secondi no.

dirittura che Abdülmecid desiderasse lasciarne scoperti alcuni che non erano nel lugo deputato alla preghiera, ma, a quanto pare, prevalsero alla fine idee piú conservatrici. Dei quattro angeli originali, solo quelli dei pennacchi orientali si erano conservati integralmente; dopo averili restaurati e riprodotti nei loro album, i Fossati ne coprirono nuovamente il volto con due stelle dorate. Gli angeli del lato ovest, dei quali sopravviveva forse ancora qualche frammento, furono eseguiti in pittura, coprendo con altri due dischi stellati il punto in cui in origine avrebbe dovuto essere il volto. Gli altri mosaici figurativi furono restaurati e coperti. La cerimonia che segnò la fine dei lavori, il 13 luglio 1849, fu seguita e descritta da molti giornalisti europei. La storia di oggi è nota. Dagli anni Trenta del Novecento (soprattutto dopo il 1934, quando Atatürk fece convertire Santa Sofia in museo) la maggior parte dei mosaici sono stati riportati alla luce: il volto dell’«Angelo di Costantinopoli», restaurato grazie ai fondi stanziati per «Istanbul, Capitale della Cultura 2010», non è che l’ultimo arrivato.


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TEMI E PROBLEMI • TURCHIA

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Il mosaico raffigurante la Vergine e il Bambino tra Giustiniano e Costantino, probabilmente fatto realizzare da Basilio II fra il 986 e il 1017. Ai lati di Maria in trono compaiono i due imperatori: a sinistra, Giustiniano le offre il modellino di Santa Sofia; a destra, Costantino regge il modellino di Costantinopoli. Entrambi i sovrani sono figure significative per la città sul Bosforo, in quanto l’imperatore «cristiano» ne fu il fondatore, mentre Giustiniano promosse la ricostruzione della basilica intitolata alla Sapienza.

tare per difendere i principi di apertura e tolleranza non può che rimanere sconvolto dalla decisione del presidente turco. Professando costantemente un Islam aggressivo e retrogrado, egli non si rende conto che sta rinnegando l’immenso lavoro di modernizzazione del Paese compiuto dal padre della moderna Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, allontanando la Turchia dal consesso delle nazioni civili. Il primate dell’ortodossia, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, del quale conosco l’immensa saggezza e la costante volontà di dialogare con chiunque in uno spirito di tolleranza che non avrebbe sconfessato Voltaire, ha dichiarato il mese scorso che «Santa Sofia era il simbolo dell’incontro della solidarietà e della comprensione reciproca tra Cristianesimo e Islam». E alle parole di Bartolomeo I fanno eco quelle di Lina Mendoni, Ministro della Cultura di Grecia, quando afferma che «La decisione di convertire Santa Sofia in moschea è una provocazione nei confronti delle nazioni civili». Entrambe traducono i sentimenti di chi, affannosamente, cerca di fermare la deriva nazionalista che oggi, disgraziatamente, abbonda sulla scena mondiale. E ricordo il presidente François Mitterrand, il quale nel suo ultimo discorso da Capo dello Stato francese al Parlamento europeo disse: «Il nazionalismo significa guerra». a r c h e o 43


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STORIA • TUSCANIA

RISCOPRIRE TUSCANIA NOTA SOPRATTUTTO PER I SUOI MAGNIFICI MONUMENTI DI ETÀ MEDIEVALE, LA CITTÀ DELL’ALTO LAZIO, SITUATA NELL’INCANTEVOLE VALLATA DEL FIUME MARTA, RACCHIUDE UNA STORIA MILLENARIA. E IL SUO STRAORDINARIO PATRIMONIO STORICO-ARTISTICO È, OGGI, AL CENTRO DI UN VASTO PROGETTO DI RESTAURO E DI VALORIZZAZIONE di Alessandro Tizi

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A

rrivare a Tuscania attraversando il paesaggio della Maremma è come tornare indietro nel tempo. Percorrere le strade che conducono alla cittadina, incastonata nella valle del fiume Marta, significa viaggiare in una storia millenaria, fatta di eventi, monumenti, saccheggi e distruzioni, ma soprattutto di uomini e donne. Una storia legata a doppio filo alla natura agricola, nel panorama di una campagna rimasta pressoché immutata dal tempo degli Etruschi. E oggi una nuova stagione di interventi di recupero e valorizzazione della città e del suo straordinario patrimonio archeologico sta riconsegnando a cittadini e a turisti l’essenza piú vera e autentica di un luogo senza tempo. Nuovi percorsi naturalistici e archeologici all’interno della Riserva Naturale Regio-

A sinistra, sulle due pagine: la valle del fiume Marta, emissario del lago di Bolsena, a sud di Tuscania. Lungo i fianchi della vallata è distribuita gran parte delle necropoli meridionali e degli insediamenti agricoli, sulla via per Tarquinia e il mare.

In alto: particolare di un sarcofago in terracotta, appartenente alla gens dei Treptie, dalla Tomba detta «della TV», scavata nel 1961 nella necropoli di Pian di Mola. Fine del III-prima metà del II sec. a.C. Tuscania, Museo Archeologico Nazionale Tuscanese.

nale di Tuscania – istituita nel 1997 – permetteranno di raggiungere i siti archeologici disseminati nelle campagne che circondano il centro abitato, collegando le testimonianze dell’epoca medievale alle emergenze dell’età antica in un percorso unico tra natura e archeologia. Vuole la leggenda che Tuscania sia nata per mano di Ascanio, figlio di Enea, che avrebbe fondato la città

nel luogo in cui trovò una cagna con dodici cuccioli, da cui il nome di Tuscana, che le fonti tramandano in uso in epoca romana e altomedievale, mentre nell’età etrusca, secondo la ricostruzione di Giovanni Colonna, il centro avrebbe assunto la denominazione di Tuskna. Sebbene il mito di un’ascendenza divina non costituisca un dato storico, fin dal Medioevo le descrizioni della a r c h e o 47


STORIA • TUSCANIA

città ricordano una storia molto antica e sfuggente nella sua complessità. «E poiché di là su per noi si scese, vedemmo Toscanella tanto antica, quanto alcun’altra di questo paese»: cosí Fazio degli Uberti, poeta fiorentino del XIV secolo, la descrive nel suo Dittamondo, utilizzando la denominazione medievale, erroneamente considerata in senso dispregiativo, in uso dal XIII secolo fino al 1911.

UNA POSIZIONE IDEALE Il sito di Tuscania ha da sempre rappresentato un punto di riferimento geografico. Collocata a 15 chilometri dal lago di Bolsena, al centro di una fertile valle fluviale e a soli 25 chilometri dal mare, la città gode di una posizione privilegiata, che ne ha fatto la fortuna nei secoli. L’archeologia ha confermato che l’area in cui in età etrusca si formò l’abitato era frequentata fin dal Paleolitico. Reperti risalenti al periodo preistorico sono stati rinvenuti lungo la valle del fiume Marta e dei suoi affluenti. Tuttavia, le prime tracce di insediamenti stabili, rinvenute sul colle di San Pietro, sede dell’acropoli etrusco-romana, sono riferibili a un abitato villanoviano

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Viterbo

Tuscania

Rieti

Tarquinia Civitavecchia

Roma

Tivoli

Ostia Anzio Latina

Frosinone

Mar Tirreno

non molto esteso, databile al X-IX secolo a.C. Altri insediamenti sparsi in tutto il territorio circostante persisteranno per tutta l’antichità, a simboleggiare la forte vocazione agricola e pastorale della regione, i cui esiti sono tuttora apprezzabili. Nell’età orientalizzante e arcaica i dati provenienti dal colle di San Pietro si fanno sempre piú consistenti, accompagnati, nella campagna circostante, dalla nascita di necropoli sempre piú estese e organizzate, dal lungo sviluppo diacronico. In questa fase i speolcreti cingono l’abitato, disponendosi lungo le vie di comunicazione che collegano Tuscania con gli altri centri dell’Etruria meridionale.

Già caratterizzato da una solida struttura politica, economica e sociale, il sito diviene uno snodo commerciale di particolare importanza, crocevia di traffici economici e influenze culturali sorprendenti, che fanno di Tuscania un centro dinamico e relativamente ricco. Infatti, pur non avendo conosciuto una trasformazione in senso urbano, come nel caso delle metropoli etrusche meridionali (Caere,Veio,Tarquinia,Vulci), esso assume un ruolo di rilevanza cruciale nel panorama dei siti dell’Etruria meridionale interna, quella «delle necropoli rupestri», dalle caratteristiche geomorfologiche cosí peculiari, costellata di ripidi costoni tufacei, naturalmente protetti. A destra: sarcofago in nenfro con figura recumbente maschile di Larth Flenchrinas. IV-III sec. a.C. Tuscania, basilica di S. Pietro. La cassa è decorata da una coppia di cavalli marini. A sinistra: una tomba a dado nella necropoli della Peschiera, VI sec. a.C. Completamente scavata nel banco tufaceo, richiama la tipologia costruttiva della casa etrusca.


Le scoscese valli fluviali si arricchiscono di necropoli monumentali, traccia della notevole prosperità economica del centro etrusco fra il VII e la prima metà del V secolo a.C., nelle quali si sperimentano molteplici tipologie architettoniche, in una commistione culturale che fa di Tuscania un centro sincretico di orizzonti artistici differenti e di alto livello. L’ascendenza è soprattutto ceretana, punto di riferimento culturale innegabile fino all’età classica. A questa fase, secondo le ipotesi piú recenti, risale la prima edificazione di un edificio sacro sull’acropoli, nel luogo oggi occupato dalla basilica romanica, di cui pur-

troppo si hanno dati estremamen- attica, e le decorazioni scultoree te frammentari, a causa della man- dimostrano il dinamismo delle aricanza di scavi sistematici. stocrazie locali e le loro consistenti possibilità economiche, grazie all’intenso sfruttamento agricolo NUOVI SCENARI Segnato da una generale modifica- delle fertili campagne tuscanesi. zione della struttura insediativa ed È però nel corso dell’ellenismo che economica, il passaggio cruciale del Tuscania sembra svolgere un ruolo V secolo a.C. è stato per molti de- nuovo, sulla spinta del rinnovato cenni il grande assente nella lunga interesse della metropoli Tarquinia stagione archeologica tuscanese. per il proprio entroterra. La città Tuttavia, nel 2005, la scoperta dei assume un carattere piú organizzamaestosi tumuli della necropoli di to e, probabilmente nel corso del Guado Cinto, a poca distanza dal IV secolo a.C., l’acropoli si dota di centro abitato, ha condotto a una una possente cerchia murar ia. radicale rilettura delle ipotesi sto- Nuovi edifici pubblici e privati si riografiche. Gli opulenti corredi addensano oltre i limiti imposti funerari, in cui spiccano vasellame dalla conformazione naturale del bronzeo e ceramica di produzione colle, disponendosi anche nella

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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STORIA • TUSCANIA

sottostante valle fluviale, dove scavi non sistematici hanno localizzato edifici, dotati di una discreta connotazione monumentale, dalla funzione non chiara. Grazie ai dati epigrafici noti dai contesti funerari, sappiamo che la comunità si fondava su istituzioni politiche e religiose ben strutturate. Sono note le figure dello zilath e quello del collegio sacerdotale dei maroni, appannaggio delle grandi famiglie aristocratiche cittadine, tra i quali merita citare i Curunas, i Vipinana, i Neaznas, gli Statlane, i Treptie, ecc. Queste ultime guidano lo sviluppo del centro, testimoniato dalla ricchezza dei corredi funerari provenienti dalle necropoli urbane e rurali e dalla produzione dei sarcofagi, espressione eccezionale dell’ellenismo di Tuscania. La realizzazione dei sarcofagi – dapprima in nenfro, tenera pietra vulcanica locale, e poi in terracotta –, tra il IV il II secolo a.C., stimolata dalla crescente richiesta da parte delle classi aristocratiche, segna un

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momento di grande rilevanza artigianale e artistica del centro, a contatto con i flussi culturali provenienti dal mondo italico, ellenico e orientale. Esemplare in tal senso è la necropoli di Madonna dell’Olivo con le tre tombe dell’aristocratica famiglia dei Curunas.

LA ROMANIZZAZIONE Come per tutta l’Etruria meridionale, la fase medio- e tardo-ellenistica coincide per Tuscania con la romanizzazione, che in questa regione è accompagnata da atti di violenza e da sconvolgimenti della struttura sociale ed economica. Fenomeni che tuttavia non sembrano coinvolgere direttamente Tuscania: forse favorita da un corpo aristocratico se non filoromano, non del tutto contrapposto alla nascente potenza capitolina, e dalla costruzione della via Clodia, strada consolare che univa i centri interni a Roma, la città supera indenne la guerra e viene definitivamente romanizzata nell’89 a.C. Al termine

della guerra sociale,Tuscania diviene municipium romano, ascritto alla tribú Stellatina e retto da un collegio di quattuorviri, di cui ci rimane il nome di qualche esponente (Sesto Scanzio, Lucio Numisio, Lucio Scribonio, Caio Vetilio, Caio Copone Crescenzio). In epoca tardo-repubblicana e imperiale l’economia è fortemente imperniata sul ruolo delle campagne: il territorio viene densamente sfruttato a fini agricoli e disseminato di ville e fattorie rustiche, i cui prodotti (olio, vino e cereali) potevano essere agevolmente commercializzati attraverso la via Clodia e, tramite i sistemi fluviali, lungo le rotte mercantili marittime. Le testimonianze di età romana, ancora non ben indagate e in attesa di un generale progetto di ricerca, si addensano sul colle di San Pietro, con la presenza di domus con pavimenti in mosaico, e, nell’area urbana, con l’edificazione delle terme nella sella che congiunge il colle di S. Pietro e quello del Rivellino. Una testimo-


A destra: la Fontana delle Sette Cannelle, nel terziere di Valle. 1309. Fu la principale fontana pubblica di Tuscania per tutto il Medioevo. In basso: veduta del centro storico di Tuscania. In primo piano, i coperchi dei sarcofagi etruschi posizionati nel corso del Novecento ai limiti della piazza e, sullo sfondo, il Palazzetto Baronale, parte del sistema difensivo della piazzaforte Tartaglia (XV sec.).

nianza della fase tardo-imperiale proviene dalla chiesa di S. Pietro: si tratta di un’iscrizione su frammento lapideo di reimpiego, in cui è ricordato l’imperatore Diocleziano.

IL MEDIOEVO Scarse sono le fonti e labili le tracce archeologiche riferibili alle fasi basso-imperiali. È certo, invece, che nell’area il cristianesimo si diffuse rapidamente e precocemente, accettando la lezione dello storico Giuseppe Giontella circa la nascita dell’episcopato a Tuscania almeno sin dal VI secolo d.C. La presenza della cattedra vescovile – i cui episcopi (il piú antico dei quali è Virbono) sono piú volte citati nei sinodi dell’epoca – è testimonianza di una vita ancora urbana e della presenza di infrastrutture attive e funzionanti. Da questo momento e fino almeno all’XI secolo, Tuscania assume il

ruolo di perno della Tuscia, sede di una delle giurisdizioni civili e religiose piú importanti e vaste della regione. In questi anni si avvia la costruzione di una serie di edifici religiosi di grande importanza, come la primitiva chiesa di S. Maria Maggiore, prima sede vescovile tuscanese. Al momento della conquista longobarda (574) la diocesi tuscanese è molto estesa, abbracciando il territorio compreso tra il corso del fiume Mignone a sud, i monti Cimini e il lago di Vico a est, il lago di Bolsena a nord e il mare a ovest. Pur causando una forte interruzione nei commerci e nei contatti con Roma, l’occupazione provoca un riassetto territoriale che fa della città la frontiera meridionale del ducato di Tuscia e vede l’insediamento del gastaldo, un funzionario regio. E proprio l’allora gastaldo di Tuscania, Ramningo, viene inviato a r c h e o 51


STORIA • TUSCANIA

nel 742 da Liutprando a scortare papa Zaccaria da Roma a Terni. Oltre a lasciare tracce nella toponomastica locale, la fase longobarda costituisce un periodo di relativo sviluppo dell’abitato, con la costruzione di chiese e abbazie. È da collocare nel corso del VII-VIII secolo la prima edificazione della chiesa di S. Pietro, in relazione a una generale rifondazione religiosa di Tuscania, accompagnata dall’affermazione del culto dei martiri patroni Secondiano,Veriano e Marcelliano. Nel 774 la città e il suo territorio passano sotto il controllo papale in seguito al repentino colpo di mano di Carlo Magno e il nuovo status durerà sino al 1870. La prosperità e il potere politico della città si esplicano nelle sue architetture civili, militari e religiose, sebbene profondamente modificate nel corso dei secoli successivi. Delle fasi centrali del Medioevo è l’impianto urbano attuale, strutturato in tre terzieri (Poggio Fiorentino,Valle e Castelli),

ai quali si aggiungeva, almeno fino al XV secolo, il quartiere della Civita, sede dell’acropoli antica e delle principali autorità religiose, abbandonato per motivi strategici e per un generale declino demografico. Le basiliche, le chiese, le mura urbiche e gli altri edifici cittadini costituiscono segni tangibili della lunga e travagliata storia di Tuscania, caratterizzata da momenti di espansione civile e artistica e da fasi di regressione. La nascita del libero Comune delle arti e l’affermazione di un ceto nobile dinamico e prospero portano all’avvio di cantieri edilizi di livello eccezionale, come le basiliche romaniche di S. Pietro e S. Maria Maggiore, con le loro decorazioni scultoree e pittoriche di assoluto prestigio. Ma il Medioevo segna anche l’inizio di una lunga fase di arretramento politico ed economico, che fa regredire Tuscania, relegandola a un ruolo del tutto subalterno. Diventa un placido e multiforme borgo

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contadino e pastorale, la cui storia millenaria viene scossa dal terribile terremoto del 6 febbraio 1971.

LE AREE ARCHEOLOGICHE Il progetto di valorizzazione delle aree archeologiche di Tuscania, promosso dalla Riserva Naturale Regionale, ha come scopo la fruizione di un ampio ventaglio di siti di grande interesse, ubicati nel centro abitato o nel territorio circostante attraverso percorsi di grande pregio. Nella zona urbana si trova l’ampia area archeologica del colle di San Pietro, scavata negli anni Settanta all’indomani del sisma. In questo settore della Civita vennero alla luce le tracce del lungo periodo di frequentazione del sito di Tuscania, dal X secolo a.C. fino alle ultime testimonianze del XIV-XV secolo. L’a-

La città e le necropoli 1. Colle San Pietro 2. Necropoli della Castelluzza 3. Necropoli della Peschiera 4. Necropoli di Pian di Mola 5. Necropoli delle Scalette 6. Necropoli di Sasso Pinzuto 7. Necropoli di Madonna dell’Olivo 8. Necropoli di Guado Cinto 9. Necropoli di Ara del Tufo 10. Necropoli del Bosco Riserva 11. Necropoli di Valvidone


rea presenta ampie tracce delle fasi insediative etrusche, romane e medievali, articolate in una complessa stratificazione edilizia, nella quale si sovrappongono strutture civili e di infrastrutture pubbliche e private. Una strada romana basolata corre attraverso un quartiere composto da domus private con pavimenti in mosaico, in parte ancora conservati in situ, secondo uno schema planimetrico non ben ordinato, tipico dei siti di antica fondazione. Sulle strutture di età romana, frequentate con certezza almeno sino al V secolo d.C., si installano labili edifici lignei altomedievali, ascrivibili alla fase longobarda e carolingia, prodromi dell’ampia attività costruttiva altomedievale. Durante l’XI-XII secolo l’area viene intensamente occupata da un laborioso e dinamico quartiere medievale, di In alto: veduta aerea della necropoli di Ara del Tufo (VII-VI sec. a.C.), con tumuli e tombe a fenditura superiore e a camera. In basso: la camera centrale della «Grotta della Regina», nella necropoli di Madonna dell’Olivo. In primo piano, le tozze colonne in pietra che sorreggono la volta.

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STORIA • TUSCANIA

LA NECROPOLI DELLA PESCHIERA Il progetto di recupero e valorizzazione della necropoli etrusca della Peschiera, promosso dal Gruppo Archeologico Città di Tuscania dal 2018, intende restituire l’area archeologica alla fruizione pubblica e coordinare una nuova stagione di ricerca e di studio. D’intesa con il Comune di Tuscania e con la Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, gli interventi, in accordo con i proprietari Massimo e Luciano Dore, hanno riguardato negli anni 2018-2020 il ripristino delle strutture di accesso e di visita al

sito e la ripulitura di due nuovi settori della necropoli. L’attività è stata premiata da scoperte di notevole rilievo, che permetteranno di comprendere al meglio le fasi orientalizzante e arcaica, oltre ad accertare la presenza di una vasta area di cava di blocchi lapidei che in età ellenistica venne sfruttata per l’attività edilizia pubblica e privata nel centro di Tuscania. Le ricerche hanno permesso di cogliere una notevole e assidua frequentazione nel periodo medievale e moderno, da collegare al fenomeno della transumanza appenninica.

In alto: necropoli della Peschiera, settore B. Una tomba a camera rimaneggiata a seguito di una prolungata attività di estrazione di pietra. Metà del VI sec. a.C. Nella pagina accanto: necropoli della Peschiera, settore A. La Tomba 1 durante il recupero (2018).

Qui sopra: l’area di estrazione di blocchi tufacei dopo la ripulitura. L’attività di cava è riconducibile alla sostenuta attività edilizia condotta nel centro urbano nel corso dell’età ellenistica. 54 a r c h e o


cui sono traccia le fondamenta di case torri e di botteghe artigiane, la cui attività si arresta con l’abbandono della zona, utilizzata come cava. Altri edifici di età tardo-repubblicana e imperiale furono rinvenuti anche a meridione della basilica di S. Pietro e conservano alzati ed elementi architettonici, tra cui pareti in opus reticulatum e lacerti di pavimenti in mosaico. Nell’area urbana sono da ricordare le

sezioni di una strada basolata romana, rinvenute durante la ricostruzione post sisma, sul pendio meridionale del colle di San Pietro e nell’area tra il colle del Rivellino e il municipio moderno. Si tratta di frammenti della viabilità urbana che innervava il centro abitato innestandosi sulla consolare via Clodia, il cui tracciato doveva toccare la città per poi proseguire il suo cammino verso nordovest in direzione della Toscana.

lizzo successivo (medievale e postmedievale) con diversa funzione. Iniziando dai sepolcreti settentrionali, lungo il sistema fluviale del Marta-Maschiolo, inseriti nella Riserva Naturale Regionale di Tuscania, vi sono varie aree archeologiche di grande interesse: la necropoli della Castelluzza (VII-III secolo a.C.), in cui spicca una tomba a camera recante la tipica decorazione della falsa porta, ideale punto di

Sono infine da ricordare le terme, situate tra il colle di San Pietro e quello del Rivellino, rinvenute nel 1917 e parzialmente distrutte dalla costruzione della strada moderna. Tutto attorno all’insediamento si irradiano le necropoli urbane, che qui descriveremo secondo un criterio geografico, sottolineando come si tratti il piú delle volte di nuclei funerari in uso per tutta l’età antica e in molti casi oggetto di un riuti-

contatto tra mondo terreno e mondo infero; la necropoli della Peschiera (VIII secolo a.C.-I secolo d.C.), con la monumentale tomba a dado della metà del VI secolo a.C., rinvenuta nel 1967, di cui Giovanni Colonna disse «fa rivivere ai nostri occhi, nella sua piena tridimensionalità una casa etrusca, impreziosita di modanature che sono tra le piú belle che si conoscano in Etruria»; la necropoli di Pian di Mola (VIII-I a r c h e o 55


STORIA • TUSCANIA In basso: il chiostro del monastero di S. Maria del Riposo, sede del Museo Archeologico Nazionale Tuscanese, inaugurato nel 1988.

Nella pagina accanto, in alto: cippo a casetta in tufo, dalla necropoli di Pian di Mola. VI sec. a.C. Tuscania, Museo Archeologico Nazionale Tuscanese.

secolo a.C.), dove è stata scavata negli anni Ottanta la tomba a dado con portico tetrastilo, capolavoro dell’architettura funeraria etrusca arcaica; la Necropoli delle Scalette, di complessa definizione, in uso tra l’VIII e il I secolo a.C. A meridione, lungo i piú lievi fianchi della vallata del fiume Marta, si succede una serie ininterrotta di contesti sepolcrali, lungo la via verso Tarquinia e il mare: la necropoli di Sasso Pinzuto-Casale Galeotti, oggetto di un progetto di scavo e di ricerca, caratterizzata da tombe di diversa tipologia (a fossa, a camera, a fenditura superiore, a pozzetto, ecc.) dal lungo sviluppo cronologico (VII secolo a.C. – I secolo d.C.); il grande complesso della

necropoli di Madonna dell’Olivo (IV-I secolo a.C.), con le tre tombe Curunas e la Grotta della Regina, un ipogeo di difficile lettura e per ora scevro di confronti attendibili in ambito etrusco. Conosciuto sin dal XVIII secolo, quest’ultimo fu reso famoso dai resoconti dei viaggiatori inglesi fra cui George Dennis (1842) e dalle descrizioni di Secondiano Campanari, storico locale, che riportò la leggenda della presenza nella camera principale di un dipinto muliebre poi scomparso. Dalla camera centrale si dirama un sistema complesso di cunicoli di incerta funzione, per il quale è stato ipotizzato un utilizzo religioso, connesso al culto miste(segue a p. 60)

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IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE


Il Museo Archeologico Nazionale Tuscanese, inaugurato nel 1988 nel convento cinquecentesco dei Minori francescani presso la chiesa di S. Maria del Riposo, poco fuori le mura urbane, raccoglie e conserva i reperti rinvenuti nelle necropoli e nell’area urbana di Tuscania nel corso di oltre due secoli di scavi e ricerche. Il percorso espositivo si articola al pianoterra in quattro sale, disposte attorno al chiostro, e, al piano superiore, in sale che si dipartono da un grande salone centrale. Al pianoterra sono esposti i corredi funerari e i sarcofagi rinvenuti nelle tre tombe Curunas, oltre a una collezione di sarcofagi in nenfro e reperti scultorei frutto delle

attività di scavo ottocentesche, tra cui un gruppo di quelli provenienti dalla tomba Vipinana. Al piano superiore il percorso copre un lungo periodo cronologico attraverso la fase etrusca e quella romana (VIII secolo a.C.-II secolo d.C.), analizzando le necropoli tuscanesi e ponendo attenzione alla vasta produzione di sarcofagi in terracotta di età ellenistica, tipica del centro di Tuscania. Alla collezione si aggiunge la sezione dedicata alla ceramica medievale e rinascimentale che proprio a Tuscania ha conosciuto la sua affermazione archeologica.

Uno dei sarcofagi dei Curunas, recuperato nella loro tomba gentilizia nella necropoli di Madonna dell’Olivo. III sec. a.C. Tuscania, Museo Archeologico Nazionale.

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STORIA • TUSCANIA

I MONUMENTI MEDIEVALI Non si può parlare della storia di Tuscania prescindendo dai suoi monumenti medievali. Meraviglie concepite per esprimere al meglio la potenza economica e politica della città e per affermarne il valore. Già la sola vista del panorama che spazia dal parco cittadino di Torre di Lavello verso le due basiliche cristiane è sufficiente a descrivere il lungo percorso storico di questa comunità. Vere e proprie pietre miliari dell’architettura romanica, le basiliche di S. Pietro e S. Maria Maggiore racchiudono lo splendore del Medioevo tuscanese, nella forma e nelle decorazioni oggi visibili e

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ascrivibili alle fasi costruttive del XII-XIV secolo. La primitiva cattedrale di Tuscania fu la basilica di S. Maria Maggiore, oggi in stile romanico lombardo, ma conosciuta sin dall’852. La pianta basilicale a tre navate è preceduta da una facciata sobria, in cui si inserisce il portale strombato con decorazione marmorea e sculture raffiguranti, tra gli altri, la Madonna in trono con il Bambino e le figure dei santi Pietro e Paolo. L’interno conserva buona parte della decorazione pittorica originaria. Spicca nella parete di fondo sull’abside centrale il Giudizio

Universale di scuola giottesca, realizzato nei primi del Trecento dai fratelli Gregorio e Donato d’Arezzo. A dominare la vallata e la città è la basilica di S. Pietro, che si eleva nel punto piú alto dell’acropoli antica, nel luogo dove doveva sorgere un tempio preesistente. Della chiesa, a pianta basilicale con tre navate, spiccano la facciata, splendidamente decorata con sculture e bassorilievi marmorei e inserti musivi e il pavimento interno cosmatesco. Al centro della facciata, inquadrato dai simboli dei quattro evangelisti, è il grande rosone marmoreo, simbolo stesso


dell’abilità creativa e artistica medievale. Le decorazioni pittoriche che impreziosivano l’interno sono conservate in minima parte e il grande affresco raffigurante il Cristo Pantocratore che si trovava nell’abside crollò a causa del terremoto del 1971 ed è tuttora in corso di restauro. Di grande fascino è la cripta sottostante il presbiterio, composta da una selva di colonne di reimpiego, provenienti da edifici pubblici e privati di età romana. Anche il centro storico, che conserva appieno la sua forma e il suo carattere, cinto da una possente e intatta cerchia muraria, A sinistra: veduta panoramica del Colle di San Pietro, fulcro dell’insediamento storico di Tuscania. In età etrusca e romana accolse l’acropoli cittadina, mentre nel corso del Medioevo vi si stabilí la sede vescovile. In primo piano, la basilica di S. Pietro e l’episcopio. A destra, in alto: i volontari dei Gruppi Archeologici d’Italia impegnati nel recupero del rosone di S. Pietro all’indomani del sisma del 6 febbraio 1971.

nasconde preziosi capolavori dell’arte e dell’architettura medievale e rinascimentale, sapientemente restaurati dopo il sisma del 1971. Fra gli altri, possiamo ricordare il palazzo comunale trecentesco del Rivellino, le chiese e i monasteri simbolo del forte spirito religioso (S. Francesco, S. Paolo, S. Giacomo, Santa Croce, ecc.), le case torri private di età medievale (tra cui la Torre Ciglioni, dove nel 1222 san Francesco operò uno dei suoi

miracoli) e i palazzi nobiliari rinascimentali, fra cui Palazzo Fani (metà XVI secolo). La storia medievale permea anche le campagne circostanti, dove sorgono castelli, chiese e abbazie. L’abbazia di S. Giusto, posta a sud lungo il fiume Marta, posseduta dall’Ordine benedettino e da quello cistercense, rappresenta un vero e proprio gioiello architettonico, completamente restaurato da privati nel corso degli anni Duemila e oggi visitabile.

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STORIA • TUSCANIA

rico o ctonio. Ancora a sud sono le necropoli di Guado Cinto (VI-IV secolo a.C.) e di Ara del Tufo (VIIV secolo a.C.), che hanno restituito corredi di indiscusso prestigio, oltre a terrecotte architettoniche e frammenti di apparati scultorei lapidei, ora conservati al Museo Archeologico Nazionale Tuscanese. Il novero delle necropoli sarebbe ancora molto lungo: basti citare i siti meglio conosciuti e oggetto di ricerche sistematiche, come l’area funeraria di Pian delle Rusciare e quella di Bosco Riserva, all’interno della macchia comunale. La necropoli viene al momento indagata dall’istituto di ricerca Camnes, diretto da Stefano Giuntoli, e offre dati fondamentali per la conoscenza delle fasi ellenistiche della città.

Infine, la necropoli di Valvidone (attualmente non visibile), ubicata a sud-ovest di Tuscania ed estesa per molti ettari, dove nel 18591860 fu rinvenuta la splendida statua funeraria medio-ellenistica del cosiddetto Leone di Valvidone, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (vedi box a p. 62). Gli autori desiderano desiderano ringraziare la Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale – in particolare nella persona di Maria Letizia Arancio –, l’Amministrazione Comunale di Tuscania e il sindaco Fabio Bartolacci, nonché i soci del Gruppo Archeologico Città di Tuscania, in particolare Franco Livi e Anna Maria Staccini per le foto.

NEL SEGNO DELLA SINERGIA Parlare di Tuscania e ripercorrere la sua storia dal momento in cui fu fondata a oggi è sicuramente un compito arduo e ricco di sfumature, visto l’immenso patrimonio storico-artistico in quello che per molti è solo un borgo medievale dell’Alta Tuscia viterbese e che invece nasconde percorsi temporali sicuramente diversi da ciò che ci si aspetta. Una linea temporale che parte dagli Etruschi e si rincorre in periodi come quello romano, al Medioevo e infine a quello rinascimentale che hanno dato vita e solidità a strutture che rappresentano e distinguono la cittadina di Tuscania per la sua unicità. Tuscania ha vissuto anche periodi non felici, come il terremoto del febbraio 1971, che l’ha vista distrutta nel cuore del suo abitato, ma l’ha anche vista rinascere dopo una ricostruzione e riqualificazione gestita dal Genio Civile, dalla Soprintendenza alle Belle Arti e dal Comune in maniera egregia, facendo sí che le bellezze storico-artistiche tornassero a essere patrimonio di tutti coloro che spesso visitano la cittadina. Nel tempo la sinergia tra Comune, Soprintendenza e vari soggetti privati, come il Gruppo Archeologico Città di Tuscania, ha dato vita a diversi progetti di recupero, studio e sistemazione e valorizzazione delle necropoli. Questo nell’ottica di una sviluppo del territorio e nella contezza di avere un patrimonio da poter rendere fruibile e accessibile a tutti. È doveroso supportare la progettualità legata alla necessità di una maggiore conoscenza del proprio territorio e della memoria storica, spesso dimenticata o abbandonata a se stessa, con la consapevolezza che la sinergia tra enti e privati può dare vita a una riqualificazione turistica adeguata al periodo storico che si sta vivendo e alle richieste dei fruitori e amanti di percorsi storico-naturalistici. Tuscania è tutto questo e anche molto di piú… Stefania Nicolosi

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L’IMPEGNO DEI VOLONTARI I volontari hanno avuto un ruolo di primo piano nella riscoperta, nella tutela, nello studio e nella valorizzazione del patrimonio archeologico di Tuscania e rappresentano da decenni un aiuto insostituibile per gli enti pubblici, quale ponte fra le istituzioni e la comunità locale. La storia del volontariato archeologico a Tuscania è di lungo corso: i Gruppi Archeologici d’Italia iniziarono le loro attività nei primi anni Sessanta. Il loro intervento tempestivo e la loro opera conobbero una fase di estrema importanza in occasione del terremoto che il 6 febbraio 1971 distrusse Tuscania. I volontari, provenienti da tutta Italia e guidati da Ludovico Magrini, oltre a portare soccorso alla popolazione colpita dalla tragedia, si prodigarono nella salvaguardia e nella protezione del patrimonio culturale. Da rimarcare l’intervento presso la basilica di S. Pietro nel recupero dei frammenti del rosone crollato, ricomposti in pochi giorni e ricollocato in situ e il salvataggio dei reperti conservati nell’Antiquarium comunale. Negli anni del post sisma le diverse organizzazioni volontaristiche si succedettero nelle attività sul


A sinistra: intervento di ripulitura nel sito di Civitella ad Arlena di Castro. In basso: le conferenze sono fra le attività regolarmente promosse dal Gruppo Archeologico. Nella pagina accanto: rilievo delle tombe nella necropoli della Peschiera.

campo e nella sensibilizzazione della comunità. A loro si deve l’avvio degli scavi nella necropoli di Pian di Mola e la scoperta della tomba tetrastila, in collaborazione con l’allora Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale. Negli anni Novanta i campi nazionali e internazionali portarono allo scavo di molte necropoli nelle campagne tuscanesi (Scalette, Pian di Mola, Sasso Pinzuto, ecc.), i cui reperti sono parte fondamentale del Museo Archeologico Nazionale Tuscanese. La stagione è proseguita con le attività nel vicino comune di Arlena di Castro (Viterbo), con il recupero e la valorizzazione delle aree archeologiche della necropoli ellenistico-romana de La Chiusa dei Mulini e del sito fortificato medievale di Civitella, splendido esempio di insediamento militare. Nel 2017, decisi a proseguire nelle attività moltiplicando gli sforzi e perfezionando la struttura, i volontari hanno dato vita al Gruppo Archeologico Città di Tuscania, aderente ai Gruppi Archeologici d’Italia. La volontà di dare slancio alle iniziative ha dato fin dai primi mesi risultati eccezionali, che hanno

portato Tuscania di nuovo al centro di progetti di valorizzazione e di studio. Tra il 2018 e il 2020 sono stati organizzati, sotto la direzione di archeologi e professionisti dei beni culturali, progetti, manifestazioni ed eventi (Giochiamo con l’archeologia, Giornate Europee del Patrimonio, Giornate Europee dell’Archeologia, Giornate Nazionali di Archeologia Ritrovata), con la partecipazione di un numero crescente di visitatori e il coinvolgimento della comunità e delle scuole. Fra i principali progetti in corso, quello che ha per obiettivo il recupero, la valorizzazione e la gestione della necropoli etrusca della Peschiera (vedi box a p. 54) e il progetto di ricerca mirato alla ricostruzione del patrimonio archeologico tuscanese «Oltre lo Scavo», che si avvale del patrocinio del Comune di Tuscania e della Provincia di Viterbo (vedi box a p. 62). Le attività non si fermano al solo territorio di Tuscania, ma coinvolgono l’intera Tuscia viterbese, grazie all’intraprendenza di varie associazioni improntate al dinamismo culturale. Tra queste merita attenzione l’attività del

Gruppo Archeologico Piansano, impegnato nella valorizzazione e nella promozione delle emergenze archeologiche presenti nel territorio di Piansano (Viterbo) e nella ricostituzione dell’Antiquarium comunale. L’attività si concentra nella località di Poggio del Cerro, al confine con il territorio di Tuscania, dove i volontari e gli archeologi, coordinati da Aura Colelli e Germano De Simoni, stanno lavorando per rendere accessibile il sito, composto da tre aree interessate dalla presenza di tombe ellenisticoromane già saccheggiate in passato e di strutture pertinenti a un insediamento abitativo di probabile funzione produttiva. Riccardo Fioretti

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STORIA • TUSCANIA

IL PROGETTO «OLTRE LO SCAVO» Diretto da Alessandro Tizi con chi scrive e con Riccardo Fioretti, il progetto «Oltre lo Scavo» vuole aprire i cassetti della memoria, riscoprirne il contenuto per trarne informazioni e dati archeologici. La lunga storia dell’archeologia a Tuscania ha lasciato dietro di sé una mole immensa di reperti, spesso dispersi nelle collezioni museali di tutto il mondo e in quelle private, senza contare i danni causati dagli scavi clandestini. Il progetto «Oltre lo Scavo» prevede proprio il riordino sistematico di tutti i dati esistenti negli archivi pubblici e privati degli scavi effettuati a Tuscania tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, al fine di ricostruire i contesti archeologici e, ove possibile, determinarne consistenza, ubicazione e significato storico. Un lavoro lungo e meticoloso, che sta facendo luce su una storia fatta di personaggi, scoperte e reperti di valore straordinario.

Tuscania, infatti, è stata una delle patrie dell’archeologia moderna. Nella prima metà dell’Ottocento l’attività della famiglia Campanari ha lasciato testimonianze e ha dato vita al gusto etruscologico in Europa con la famosa esposizione di Pall Mall a Londra nel 1838. Conosciuti per i loro scavi a Vulci per conto del governo pontificio, a Tuscania si resero protagonisti di scoperte eccezionali, che arricchirono le collezioni di tutta Europa (British Museum, Louvre, Museo Gregoriano Etrusco, ecc.), tra cui i dadi con i numerali etruschi, erroneamente identificati come vulcenti. La stagione degli scavi proseguí, scatenando l’interesse di Luigi Adriano Milani, che dedicò ai reperti tuscanesi un’intera sala del Museo Archeologico di Firenze. Una storia fatta di scoperte sconosciute o dimenticate almeno sino al secondo dopoguerra e grazie all’azione dello Stato italiano con più organiche leggi di tutela. Dalle

Il Leone di Valvidone, statua funeraria di epoca medio-ellenistica. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

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I coordinatori del progetto «Oltre lo Scavo»: Stefano Bocci, Alessandro Tizi e Riccardo Fioretti.

attività di ricerca sono scaturite pubblicazioni che ricostruiscono i contesti il piú possibile in forma integrale, come i volumi sulla Tomba degli Statlane (2002) e sull’attività a Tuscania dell’American Exploration Society nel XIX secolo (2014). Ultimo, in ordine di tempo, è il volume (2018), frutto di un lavoro ventennale, dedicato allo splendido Leone di Valvidone, scultura funeraria etrusca cosí chiamata dal nome della località nella quale fu rinvenuta, di cui è stata identificata per la prima volta la localizzazione e di cui è stato rimarcato il valore storico e artistico. Stefano Bocci



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Roma. Scorcio dello Stadio dei Marmi, struttura sportiva compresa nel complesso del Foro Mussolini (oggi Foro Italico), realizzato su progetto di Enrico del Debbio e inaugurato nel 1932. Le gradinate dello stadio sono sormontate da statue raffiguranti le diverse discipline sportive, offerte dalle province d’Italia.

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SOTTO L’ELMO DI SCIPIO ITALIANI DISCENDENTI DI ROMA? ALLA RICERCA DI UN PASSATO COMUNE, DA CONDIVIDERE IN FUNZIONE DI UNA NUOVA IDENTITÀ NAZIONALE, L’ITALIA RISORGIMENTALE E POI QUELLA FASCISTA SI APPELLANO ALLE GLORIE REPUBBLICANE E IMPERIALI, «CELEBRATE» DA MOSTRE E SCOPERTE ARCHEOLOGICHE. MA, CONTRARIAMENTE A QUANTO AVVIENE IN ALTRE NAZIONI EUROPEE, QUALCOSA NON QUADRA E IL COSTRUTTO SI SGRETOLA PRESTO. E LA POLITICA – MA ANCHE LA STORIA – MOSTRANO IL LORO VERO VOLTO… di Umberto Livadiotti


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/2

I

n Occidente, il richiamo al passato di Roma ha rappresentato, a livello istituzionale e ideologico, una costante della politica, a partire dal Medioevo fino all’età rinascimentale e oltre. Si è trattato, sostanzialmente, di un richiamo a titolo di prestigio. Si incastonavano in bella vista sulla parete di una chiesa o di un palazzo frammenti architettonici antichi, iscrizioni o sarcofagi trafugati da Roma stessa o da qualche altra località caduta in rovina; oppure capitava che personaggi del calibro di Scipione – per esempio – o del mitico Ercole, venissero inseriti nell’albero genealogico di una famiglia nobile o fossero riconosciuti come fondatori di una città. A differenza di quanto, poi, sarebbe accaduto nell’Ottocento, non venne mai reclamato un filo genealogico diretto ed esclusivo con Roma e con i Romani, tale da sancire una sorta di «identità di stirpe» con quei presunti antenati. Questo per il semplice motivo che Roma (e poi anche lo stesso soglio pontificio di san Pietro) veniva percepita non tanto come il cuore dell’Italia, ma piuttosto come il centro di un impero, come forza tendenzialmente universalistica: ovvero come modello di riferimento per chiunque si identificasse con la sua eredità spirituale. Il mito dei valori civici repubblicani, spesso confusamente sovrapposto a quello delle virtú greche, fu, per esempio, ampiamente coltivato dai rivoluzionari francesi (è a loro, non a caso, che si deve il radicamento nella iconografia e nella simbologia politica moderna di immagini che avrebbero segnato la scenografia della lotta politica contemporanea, come 66 a r c h e o

l’aquila romana o i fasci littori). Per secoli, dunque, l’eredità di Roma non costituiva un patrimonio di memorie al quale gli abitanti della Penisola, gli Italiani, potessero richiamarsi in maniera esclusiva. Nel marzo del 1861, la Camera dei Nella pagina accanto: Tabula Clesiana, lastra in bronzo contenente un editto dell’imperatore Claudio. 46 d.C. Trento. Museo del Castello del Buonconsiglio. In basso: busto di Druso Maggiore, da Roselle. I sec d.C. Grosseto, Museo archeologico e d’arte della Maremma.

Deputati dibatté sull’opportunità o meno di reclamare come capitale del neonato Regno d’Italia la Città Eterna (allora ancora capitale dello Stato Pontificio). In quell’occasione, Camillo Benso di Cavour sottolineò, in un famoso discorso, come Roma fosse la sola città della Penisola a non avere memorie esclusivamente municipali.

UN DIFFUSO CAMPANILISMO Ovunque, nelle altre regioni, un radicato campanilismo inibiva, infatti, la possibilità di riconoscersi in un passato comune. Lí le diverse memorie storiche mantenevano un marcato carattere localistico e anche volendo risalire alle origini piú remote – come tendenzialmente facevano gli ideologi dei nazionalismi europei –, si approdava a un mosaico di situazioni composite ed eterogenee (tendenze particolaristiche erano diffuse anche fra gli studiosi, spesso legati al loro contesto locale, come dimostra per esempio il caso dell’interesse per le «etruscherie», alimentato dai granduchi di Toscana). C’era stato, però, un momento in cui le legioni romane avevano unificato la Penisola e le avevano dato un idioma comune, il latino, da cui poi sarebbe discesa la «bella lingua»: l’italiano. Poi, unificata e potente, sotto Roma l’Italia avrebbe oltretutto abbracciato il cristianesimo. Il contrasto con la successiva frammentazione territoriale, la debolezza politica e l’incapacità di contenere l’intromissione straniera avevano poi suscitato, sin dai tempi di Dante e Petrarca, negli uomini di lettere parole di rimpianto e commozione. Ma questa nostalgia dei tempi di Roma rimase a lungo confinata nella poesia e nella cultura letteraria. Solo nell’epoca che, non a caso, definí se stessa età del Risorgimen-


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to (come a dire del ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato) nella cultura dei ceti borghesi si diffuse la tendenza a immaginare che la conquista romana dell’Italia avesse rappresentato un irreversibile processo di unificazione della Penisola, non solo dal punto di vista politico ma anche culturale e... sentimentale. E che il conseguente senso di comune appartenenza italica sarebbe poi sopravvissuto, per quanto sotto traccia, al crollo delle strutture imperiali, alla penetrazione di barbari nella Penisola e alla frammentazione medievale in attesa di una futura ricomposizione. Questa convinzione venne a radicarsi nell’immaginario patriottico. L’Italia, insomma, veniva concepita come una realtà che aveva già assunto i suoi connotati definitivi in età romana. Non a caso, nel 68 a r c h e o

celeberrimo verso di Goffredo Mameli composto nel 1847, l’Italia indossava l’elmo di Scipio per affrontare la lotta contro lo straniero invasore; e non altrettanto a caso la si vedeva raffigurata in cartoline, illustrazioni e pitture come giovane donna avvolta in un peplo, sulla testa la corona turrita, in una iconografia densa di rimandi al mondo classico.

CONTINUITÀ IDEALE Il processo di osmosi fra l’idea di romanità e quella di italianità conobbe un ulteriore incremento con l’annessione, nel settembre del 1870, della Città Eterna allo Stato unitario. Si intervenne allora, dal punto di vista urbanistico, archeologico e architettonico, su Roma stessa per imprimerle un aspetto che sottolineasse la continuità ide-

ale fra l’antica caput mundi e la nuova capitale del Paese. Le indagini archeologiche, in particolare quelle sul Palatino e nella zona del Foro, vennero incrementate e sistematizzate (anche se la preconizzata passeggiata archeologica non venne mai realizzata). L’enorme mole di reperti provenienti dalle zone della città sottoposte a una frenetica attività edilizia (Esquilino,Villa Ludovisi, ecc.) venne raccolta in collezioni museali in grado di competere con quelle vaticane. Alcuni dei ruderi piú maestosi (per esempio il Pantheon, o le Terme di Caracalla) vennero sottoposti a restauri che ne sottolineavano la maestosità, marcandone l’isolamento dal circostante tessuto urbano. Mentre i nuovi palazzi istituzionali e i nuovi complessi monumentali dedicati alla celebrazione


del Risorgimento (il piú noto dei quali è senz’altro il gigantesco Altare della Patria) esprimevano architettonicamente e stilisticamente la commistione fra la classicità romana e la nuova «italianità». In maniera analoga, nei decenni finali del secolo, si assistette in tutta Italia a una nuova e capillare marcatura del territorio attraverso affissione di lapidi, erezione di statue, costruzione di monumenti, intitolazione di vie. Dove la storia locale lo consentiva, accanto alla celebrazione di Garibaldi e dei Savoia si rievocava la memoria di quei personaggi che avevano contribuito a quell’età luminosa in cui l’Italia già era stata unita, libera e forte: dal nord al sud della Penisola comitati locali si affaccendavano a ottenere permessi e a raccogliere fondi per la costruzione di statue dei grandi del-

Nella pagina accanto: Roma, Foro Romano. Il cippo del Lapis Niger, sul quale corre un’iscrizione in alfabeto latino arcaico (databile nel secondo quarto del VI sec. a.C.), rinvenuto da Giacomo Boni nel 1899.

In alto: illustrazione d’epoca raffigurante il lato nord-est del Foro Romano, da Restauri della Roma Imperiale con gli stati attuali ed il testo spiegativo in quattro lingue di Giuseppe Gatteschi. 1900.

la latinità, che fossero Ovidio o Sal- mo – dal tempo in cui i Romani si lustio o Virgilio, da collocare nelle erano dovuti difendere dalle orde piazze centrali delle città. cimbriche fino all’oppressione austriaca, passando per il dominio longobardo e per la lotta dei liberi LA POLEMICA comuni contro l’impero – veniva ANTITEDESCA In chiave nazionalistica il mito di proposto come fattore determinanRoma venne sfruttato soprattutto te della storia d’Italia. Lo sostenevasu tre piani: in prospettiva antiger- no romanzi, poesie e opere storiche manica, in dimensione coloniale e di successo; lo suggerivano vignette, poi anche sul piano della politica pitture, opere liriche. agraria. La polemica antitedesca in- Tuttavia, negli ultimi decenni del sisteva su un tema battuto già per secolo le vicissitudini politiche intutto l’Ottocento da una parte della dussero il Regno d’Italia a una pocultura italiana, soprattutto cattolica. litica di distensione con gli imperi Lo scontro fra latinità e germanesi- di Germania e Austria-Ungheria. a r c h e o 69


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UN’ITALIA SENZA ITALIANI Le guerre civili dell’età tardo-repubblicana si conclusero con la vittoria del comandante a cui l’Italia intera (tota Italia, secondo le parole dello stesso Augusto) aveva conferito l’incarico di combattere Cleopatra, la regina d’Egitto. Forse il giuramento di fedeltà non fu cosí spontaneo e totale come lascia intendere il testo augusteo, ma certo in quegli anni la propaganda politica e culturale insistette nella celebrazione dell’Italia, salutata nei versi dei poeti e raffigurata nei rilievi degli altari, come Saturnia tellus (cioè la terra dell’età dell’oro). I suoi abitatori erano presentati come una una stirpe caratterizzata da virtú bellica, dedizione religiosa e laboriosità contadina. In effetti, dal tempo delle guerre annibaliche, l’Italia giocava un ruolo centrale nell’immaginario geopolitico dei Romani. E continuò a giocarlo a lungo. Fino alla fine del III secolo d.C., per esempio, la Penisola (a cui comunque non erano associate le isole maggiori) mantenne un ordinamento amministrativo distinto dalle province. Non sarebbe tuttavia corretto pensare che a una concezione unitaria dal punto di vista geografico corrispondesse una percezione unitaria del tessuto etnico. Era stata l’egemonia romana a conferire una patina di uniformità a un mosaico di popolazioni differenti. Ma ciò era avvenuto nel momento stesso in cui Roma si strutturava come impero, aprendosi assai precocemente all’integrazione di territori e popolazioni anche al di fuori della Penisola. Perciò, nonostante alcuni sporadici richiami alla consanguineità e all’affinità etnica, non emerge dalle nostre fonti l’esistenza di una forma radicata di «italianità». Gli abitanti delle tante colonie e municipi, come anche i contadini alloggiati nelle fattorie sparse nella Penisola, che fossero discendenti diretti di antichi romani, o membri di famiglie italiche (o etrusche o magari celtiche) romanizzate, pur sentimentalmente accomunati dalla percezione di essere parte di un unico mondo non si consideravano membri di una «nazione italica» specifica, distinta – per cultura e storia – dal resto del mondo romanizzato. Ci si sentiva romani, cittadini di una res publica tendenzialmente universale. Il vero patriottismo era la difesa dell’impero. Non dell’Italia. Anche se poi, in genere, ciascun individuo coltivava pure un campanilistico spirito di appartenenza alla propria, piccola, comunità locale. 70 a r c h e o


Anzi il successo militare, industriale, organizzativo del mondo prussiano suscitava una certa germanofilia, cui non era affatto esente il mondo accademico. Il divario fra le due comunità scientifiche sotto il profilo della metodologia e della qualità del lavoro era netto ed evidente; tanto piú nella ricerca antichistica, che proprio allora si andava ramificando in nuove discipline. Non a caso, nelle cattedre universitarie venivano spesso chiamati a insegnare proprio studiosi tedeschi: per esempio, Julius Beloch (storico dell’antichità, 18541929) o Emanuel Löwy (archeologo, 1857-1938). Ma il fatto che lo studio dell’antica storia d’Italia finisse per essere quasi monopolizzata da eruditi stranieri, fossero anche giganti del calibro di Theodor Mommsen, (giurista filologo, storico ed epigrafista tedesco, 1817-1903) acuiva in alcuni un

senso di insofferenza. A molti filologi e archeologi italiani rincresceva soprattutto la supponenza con cui, a loro giudizio, i colleghi tedeschi minimizzavano l’apporto romano e in genere italico alla storia della civiltà. Nelle ricostruzioni tedesche, infatti, il fulcro dell’antichità risultava soprattutto la Grecia, da cui il mondo italico e romano in sostanza avrebbe importato o copiato tutto. Per decenni, annose querelle sull’originalità della letteratura latina e sul valore dell’arte romana si trascinarono caricando l’ambiente di animosità. Agli studiosi stranieri, di fatto, venne spesso preclusa persino la possibilità di accedere alle aree di scavo, nella cui gestione si impose una certa gelosia nazionalistica. Nelle regioni «irredente» (in Trentino e nella Venezia-Giulia) presero corpo vivaci diatribe sulla presunta italianità o germani-

Nella pagina accanto: l’Augusto di Prima Porta. Inizi del I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. In basso: statua di un personaggio togato integrata da un ritratto di Druso, dal teatro di Emerita Augusta (Mérida). I sec. a.C. Mérida, Museo Nazionale d’Arte Romana.

ASPETTANDO DRUSO Ettore Tolomei (1865-1952), geografo e politico, fu uno dei piú attivi sostenitori dell’ampliamento del confine italiano fino al Brennero. Per contrassegnare l’italianità del Tirolo Meridionale (per indicare il quale fu proprio lui a riesumare, ritoccandola, la denominazione napoleonica «Alto Adige»), Tolomei, all’indomani dell’annessione all’Italia della regione, richiese insistentemente l’erezione di una statua di Druso, da collocare nella piazza centrale di Bolzano al posto di quella del poeta medievale tedesco Walther von der Vogelweide. Druso era stato un personaggio importante della prima generazione della famiglia giulio-claudia: secondogenito di Livia, prima della morte (avvenuta nel 9 a.C., a soli 28 anni, a seguito di una caduta da cavallo) era divenuto l’erede designato di Augusto. Nel 15 a.C., con il fratello Tiberio, aveva condotto una spietata campagna di sottomissione delle genti alpine, attraversando la Valle dell’Adige e quella dell’Isarco. Nonostante la titubanza delle autorità fasciste, che volevano evitare di esacerbare le rimostranze della popolazione locale di lingua tedesca, molto innervosita dall’italianizzazione forzata a cui era sottoposta, Tolomei ottenne il consenso all’operazione. Per raccogliere i fondi necessari alla realizzazione della statua fu organizzata una sottoscrizione e, alla fine degli anni Trenta, l’opera, in bronzo, venne finalmente approntata in un laboratorio di Roma. Tentennamenti ed esitazioni da parte delle autorità ne dilazionarono però ulteriormente l’invio a Bolzano, nonostante gli incessanti reclami e appelli di Tolomei. Poi gli sviluppi della guerra stravolsero ogni piano. La statua non arrivò mai a Bolzano e svaní nel nulla. Ne restano solo piccole copie, in mano a privati.

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cità delle antiche popolazioni indigene, le cui tracce stavano emergendo dagli scavi archeologici. La casuale scoperta, nel 1869, della cosiddetta Tabula Clesiana, venne accolta con fanatico entusiasmo da molti accademici italiani, che, attraverso il testo contenuto in questa iscrizione, potevano dimostrare l’antica latinità (cioè, ai loro occhi, italianità) della Val di Non. Trent’anni dopo uno scalpore ancora maggiore si creò attorno a un altro rinvenimento epocale, questa volta a Roma, nel cuore del Foro. Sotto il Lapis Niger venne infatti alla luce un cippo coperto da una antichissima iscrizione. Il glottologo italiano che ne curò la pubblicazione, Luigi Ceci (1859-1927), lo considerò un testo di età regia e accusò apertamente il mondo accademico tedesco di aver avvilito, con una ipercritica delegittimazione delle tradizioni letterarie relative all’età monarchica, l’importanza dell’antichissima storia italica. La polemica subí una improvvisa accelerazione con lo scoppio della prima guerra mondiale, quando la

In alto: la locandina di Cabiria, il kolossal diretto da Giovanni Pastrone fra il 1913 e il 1914 e la cui ideazione fu attribuita a Gabriele D’Annunzio. Nella pagina accanto: la Lupa Capitolina, bronzo sulla cui datazione è da tempo in corso un vivace dibattito. Roma, Musei Capitolini.

maggior parte degli antichisti italiani offrí il proprio apporto intellettuale alla causa interventista. In conferenze, sui giornali, nei corsi tenuti all’università, tutti non parlavano che della romanità delle terre irredente. In concomitanza poi con l’intervento militare, nel maggio del 1915, si assistette, fra ripicche accademiche e astiosità personali, a un vero e proprio tentativo di linciaggio mediatico degli studiosi non disposti a imbracciare il gladio romano, accusati in blocco di «tedeschismo». Un illustre grecista, Ettore Romagnoli (1871-1938), arrivò a dare alle stampe un pamphlet intitolato Minerva e lo scimmione, in cui sosteneva che gli studiosi tedeschi non fossero in grado di studiare e apprezzare il mondo classico. Nel corso della guerra, e ancor piú negli anni immediatamente successivi, durante l’occupazione di Fiume (1919-1920), il mito della romanità riuscí ad abbinarsi senza frizioni al nazionalismo futurista, tutto sport e motori, visceralmente ostile al polveroso studio dell’antichità, ai musei, agli archeologi e ai

LUPA ROMANA O LUPA ITALIANA? Della Lupa Capitolina si sa per certo solo che arrivò in Campidoglio nel 1471, dono di papa Sisto IV; ma sulla sua datazione restano ancora forti incertezze (vedi «Archeo» n. 348, febbraio 2014; anche on line su issuu.com). Analisi stilistiche ed esami di laboratorio hanno offerto elementi sia per i sostenitori di una cronologia alta (fino al V secolo a.C.), sia per coloro che la ritengono prodotto d’una bottega medievale. Di fatto, comunque, questo bronzo

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rappresenta da secoli una delle piú suggestive e radicate icone della romanità. Proprio per questo, finí con il ricoprire un ruolo essenziale anche nella simbologia dello Stato unitario, che nell’antica Roma cercava giustificazione e identità. Come simbolo di italianità, copie della Lupa Capitolina vennero cosí offerte in dono a molte autorità straniere, in particolare a quelle città o a quei Paesi che vantavano un supposto legame di affinità

storica (come per esempio la Romania) o quelli che ospitavano nutrite colonie di emigranti italiani (soprattutto nelle Americhe). Nelle terre d’oltremare, riproduzioni della statua furono collocate in bella vista, per esempio sul lungomare di Bengasi o all’ingresso del porto di Rodi. In patria, la lupa divenne un soggetto classico dell’iconografia istituzionale: la ritroviamo raffigurata ossessivamente su monete,


filologi. Artefice di questo connubio può essere considerato Gabriele D’Annunzio, cui si deve attribuire la paternità di molti di quegli elementi, lessicali e coreografici, legati alla retorica della romanità che sarebbero confluiti poi nelle liturgie politiche fasciste. Esaltatore della «guerra latina», D’Annunzio era anche stato lo sceneggiatore di Cabiria, il kolossal che pochi anni prima aveva raffigurato lo scontro epocale fra Romani e Cartaginesi nel III secolo a.C., con evidenti e suggestive allusioni alla recentissima campagna coloniale italiana in Libia.

TORNANDO DOVE GIÀ FUMMO Accanto al tema «antigermanico», il nazionalismo romano-italiano dall’inizio del Novecento aveva infatti cominciato a svilupparsi in un’altra direzione, cioè quella del sostegno all’espansione coloniale. I Francesi nei decenni precedenti

avevano preso possesso dell’Africa settentrionale, da Tunisi a Orano, in nome di una missione civilizzatrice imperniata sull’idea che gli abitanti indigeni della regione non sarebbero stati in grado da soli di resuscitare la prosperità che in quelle provincie avevano invece creato, un tempo, i Romani. Stimolato da questo esempio, anche in Italia l’argomento del «ritorno» iniziò a far presa sull’opinione pubblica. Si cominciò a guardare ai ruderi delle antiche città romane in termini di sigilli patrimoniali, che, in qualche modo, attestavano un diritto di proprietà sul territorio, cosí maltrattato dagli abitanti locali. La Tripolitania, in particolare, assunse i caratteri di una vera e propria terra da riscattare. La retorica del diritto del «posto al sole» evocava un colonialismo proletario e migratorio: una aspirazione cui ben si adattava l’immagine diffusa dell’antico romano, per un verso valoroso

legionario, per un altro infaticabile colono con l’aratro fra le mani. La guerra per la Libia scoppiò nel 1911, lo stesso anno in cui nella capitale apriva i battenti, sotto la direzione di Rodolfo Lanciani, la grande Mostra Archeologica alle Terme di Diocleziano: una esposizione tesa a esaltare, nell’ambito delle manifestazioni celebrative del cinquantenario dell’Unità d’Italia, attraverso l’innovativo uso di riproduzioni in gesso di opere d’arte collocate in musei sparsi in tutto il bacino del Mediterraneo, il mito di Roma come portatrice di civiltà. Nel 1912, il conflitto con l’impero ottomano portò, fra l’altro, all’occupazione italiana di alcune isole dell’Egeo: da allora, sempre piú pressante divenne il richiamo propagandistico ai tempi in cui le acque mediterranee potevano essere chiamate Mare Nostrum. Tipico di questi anni fu l’uso delle missioni archeologiche come strumento di

banconote, marche da bollo, francobolli. Solo nel secondo dopoguerra la progressiva «declassicizzazione» dell’immaginario nazionale ne ha determinato un indebolimento semantico: utilizzata nel 1960 come logo per le Olimpiadi svoltesi a Roma, la Lupa Capitolina sembra ormai aver assunto una valenza esclusivamente «municipale».

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penetrazione pacifica nei territori oggetto di mire coloniali. In sostanza succedeva che i membri delle spedizioni, o almeno alcuni di loro, sotto la copertura delle ricerche scientifiche si preoccupassero di visionare il territorio, intrecciare relazioni commerciali, sondare gli umori rispetto alla presenza italiana. Del resto, i successi delle ricerche archeologiche costituivano motivi di

Il Natale di Roma Il Natale di Roma venne istituito come festa nazionale poco dopo la presa del potere da parte di Mussolini, il 19 aprile 1923. La ricorrenza, celebrata secondo la tradizione il 21 aprile, non si limitava a commemorare la fondazione della città e il rinnovamento della civiltà romana, ma si proponeva come alternativa di regime alla vecchia festa del lavoro, celebrata il 1° maggio, considerata «di parte» e perciò abolita. Durante questa festività, Roma diventava il palcoscenico stesso della sua rinascita: una rinascita incarnata, nell’ottica mussoliniana, dalla disciplinata compostezza con cui la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e alcuni reparti delle forze armate sfilavano in parata per le vie della città. In alto: Roma. L’area dei Fori Imperiali in una foto aerea scattata prima delle demolizioni operate per realizzare la via dell’Impero (oggi via dei Fori Imperiali). A sinistra: Benito Mussolini assiste a una sfilata dei granatieri dal Tempio di Venere e Roma. 1935.

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prestigio internazionale e rappresentavano, dunque, un campo di competizione molto vivace, tanto da accendere talvolta veri e propri contenziosi diplomatici. In particolare, era dalle missioni nei territori dell’ex impero ottomano (in cui gli Italiani speravano di subentrare alle missioni tedesche e austriache) che si attendevano i risultati piú spendibili sul piano della propaganda.Tuttavia, la tendenza a utilizzare la presenza di antichità come pretesti per reclamare il diritto a esercitare forme di tutela su territori d’oltremare suscitò l’ostilità o, quanto meno, il sospetto nelle popolazioni e nelle autorità locali. In Turchia gli scavi di Afrodisia, nel 1937, dovettero addirittura essere sospesi dopo che il ritrovamento dei rilievi del portico dell’agorà era stato salutato enfaticamente su alcuni giornali italiani come testimonianza della romanità dell’antica città. In Albania, invece, gli scavi di Butrinto, cominciati nel 1928 e in parte finalizzati a evidenziare l’appartenenza della regione al mondo romano, nonostante i momenti di frizione perdurarono oltre un decennio. Anche perché nel 1939 il Paese fu annesso all’Italia…

«NOI SOGNIAMO L’ITALIA ROMANA» Nel frattempo, l’avvento del fascismo aveva segnato un ulteriore salto di intensità nell’enfatizzazione del richiamo alla romanità italica. Tutto il bagaglio di simboli politici, già adoperati per giustificare l’espansione coloniale e la guerra an-


LA COMMEMORAZIONE DEI FIGLI DELLA PATRIA

La Vittoria alata rinvenuta nei pressi del Capitolium di Brescia nel 1826. Secondo quarto del I sec. d.C. Brescia, Museo di Santa Giulia.

tigermanica, era stato ripreso e sfruttato per enfatizzare l’idea di una rinascita della nazione. Gli Italiani, almeno nella retorica di regime, erano tornati a essere «italici». Ma non di un classicismo «nostalgico» si trattava: era, al contrario, un classicismo dinamico, tutt’altro che museale, centrato sul richiamo allo spirito agreste e guerriero dei progenitori, tutto proiettato nell’avve-

Nel corso degli anni Venti del Novecento, in Italia vennero commissionati centinaia e centinaia di monumenti commemorativi, destinati a costruire una memoria pubblica della Grande Guerra attraverso la glorificazione dei figli della patria caduti combattendo «romanamente». È stato calcolato che ben 476 di essi riproducano (in rilievi, statue, mosaici o incisioni) l’immagine classicistica della Vittoria alata: una figura già ampiamente adoperata nei monumenti celebrativi del Risorgimento. L’esemplare tenuto a modello dalla maggior parte degli artisti sembra esser stato quello della Vittoria sul globo del Museo Nazionale di Napoli (che, a sua volta, si ispirava all’opera in bronzo dorato sottratta dai Romani a Taranto nel 272 a.C., e in seguito collocata su un altare al centro della Curia). L’iconografia di questa statua si era infatti già diffusa nei decenni precedenti grazie alla produzione in serie di piccole copie da parte della napoletana Fonderia Chiurazzi. Per altre raffigurazioni celebrative (per esempio quelle filateliche) venne, invece, presa a modello un’altra celeberrima Vittoria alata, quella del Museo Civico di Brescia. Rinvenuto il 20 luglio del 1826 durante gli scavi attorno al Capitolium di Brescia nascosto in un’intercapedine del tempio, questo bronzo aveva assunto subito un forte valore simbolico. Oggi sappiamo che in realtà la statua, fusa in Oriente e risalente con ogni probabilità alla metà del III secolo a.C., rappresentava originariamente una «Afrodite che si specchia»; ma già in antico subí un riadattamento. Trasformata, in conformità a una tipologia iconografica nata in età giulio-claudia, in «Vittoria che incide sullo scudo» dovette essere poi collocata nel Foro di Brescia in età flavia. La statua, sottoposta dal 2017 a un raffinatissimo intervento di restauro, dovrebbe tornare in esposizione al Museo di Santa Giulia entro l’anno.

nire. Si evocava l’antico splendore della latinità per tracciare, in linea con essa, la direzione di una futura rigenerazione nazionale. Naturalmente questo aspetto costituiva solo uno dei motivi su cui, nel corso del Ventennio, si imperniò la propaganda nazionalista: ma certamente fu uno dei piú caratteristici e incise fortemente nella percezione popolare dell’antico passato.

L’obiettivo del regime non era del resto quello di istruire, di diffondere conoscenza, ma piuttosto quello di nutrire l’orgoglio nazionale nella popolazione cercando di ristabilire un contatto spirituale, o per meglio dire «emotivo» fra gli Italiani e quello che veniva considerato il capitolo piú glorioso del loro passato. Il tutto, ovviamente, allo scopo di rinsaldare il consenso politico. a r c h e o 75


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/2

L’evocazione della romanità procedeva attraverso vari canali. Quello piú tradizionale, legato alla lettura e allo studio, passava per l’indottrinamento scolastico. Latino e storia romana facevano capolino in ogni libro e in ogni disciplina. Aneddoti e citazioni sottolineavano la venerabilità degli antichi personaggi, che fossero poeti o generali, e del loro operato. Poi c’era il canale che potremmo chiamare performativo, legato alla teatralità delle liturgie politiche cui tutti erano chiamati a partecipare: dalle coreografie di massa ispirate a presunti cerimoniali antichi al semplice saluto col braccio teso (il «saluto romano»).

CON LA V AL POSTO DELLA U Un terzo canale era costituito dal semplice impatto visivo, collegato alla pervasiva invadenza di immagini piú o meno direttamente collegate alla romanità. Le pareti esterne e interne degli edifici (caserme, Case del Fascio, ma anche università, stazioni, ponti e persino caseggiati) si coprirono di bassorilievi, mosaici o pitture raffiguranti legionari in marcia e antichi coloni al lavoro e scritte in latino o a caratteri latineggianti (per esempio con la V al posto della U, o con i numeri romani). Monete, banconote, francobolli, marche da bollo furono inondati da fasci, lupi, aquile, gladi e statue romane. Una pervasività amplificata dalla politica urbanistica, tesa, da un lato, a potenziare la spettacolarità scenografica delle rovine (lí dove fossero presenti) e, dall’altra, a ristrutturare l’aspetto dei centri urbani puntando su connotati fortemente allusivi alla romanità.Tendenza che proprio a Roma produsse gli effetti piú dirompenti. Soprattutto nella capitale, infatti, l’architettura razionalista fascista si espresse in forme di tipo classicheggiante: dal complesso del Foro Mussolini (oggi Foro Italico, con 76 a r c h e o

IL BIMILLENARIO AUGUSTEO Il 23 settembre 1937 cadeva il bimillenario della nascita di Augusto. Il regime fascista, che già in occasione delle analoghe ricorrenze relative a Virgilio e Orazio aveva organizzato una serie di manifestazioni commemorative, non si lasciò sfuggire l’occasione per inscenare grandiose celebrazioni in cui magnificare, sovrapposti l’uno all’altro, l’antico impero romano e quello nuovo, che solo un anno prima, il 9 maggio 1936, con il discorso di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, all’indomani della conquista dell’Abissinia, era tornato sui colli fatali. Nella gran messe di scritti, discorsi e interventi celebrativi elaborati dagli antichisti italiani il tema piú ricorrente era il paragone fra i due fondatori dei due imperi: Augusto e Mussolini. Entrambi avevano preso il potere in una situazione di caos e donato

obelisco, mosaici e Stadio dei Marmi) a quello dell’EUR (col Palazzo della Civiltà e del Lavoro, il cosiddetto Colosseo Quadrato). Proprio mentre il piccone demolitore, con maggior lena ancora di quanta già era stata impiegata nei decenni precedenti, si abbatteva su alcune aree fatiscenti del tessuto urbano sei- e settecentesco per disseppellire antichi complessi monumentali: il Mausoleo di Augusto, le pendici del Campidoglio, il Teatro Marcello, i mercati e il Foro di Traiano, quello di Cesare e quello di Augusto (che peraltro vennero poi in parte asfaltati per dare spazio alla via dell’Impero, che collegava piazza Venezia al Colosseo, offrendo cosí alle parate di regime una quinta scenografica impareggiabile). Sottoposto alla pressione di tutti questi messaggi, il cittadino italiano era portato a provare una forte im-

all’Italia pace, stabilità, prestigio. Entrambi erano stati proclamati duce, spontaneamente e dall’intera popolazione della Penisola. Entrambi con le loro conquiste avevano ingrandito il territorio sotto il loro governo. Analogie superficiali, talvolta puntellate persino da lievi manipolazioni delle fonti, ma certamente suggestive. A Roma fu approntata una Mostra Augustea della Romanità. Centinaia di reperti vennero esposti in 80 sale all’interno del Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale, la cui facciata fu per l’occasione ricoperta da una colossale scenografia a forma di arco trionfale. All’ingresso, una grande epigrafe recitava una citazione mussoliniana: «Italiani, fate che le glorie del passato siano superate da quelle dell’avvenire». Fra le varie sezioni, a sottolineare la

medesimazione con i suoi «avi» romani, e questo gli infondeva l’orgoglio e la sicurezza necessari ad affrontare la concorrenza dei nazionalismi delle plutocrazie nemiche. Un atteggiamento ben esemplificato in una scena del film I due nemici, una pellicola girata nel 1961, ma scritta e interpretata da persone cresciute nell’atmosfera fascista di esaltazione della latinità. Nel film, ambientato nell’Africa Orientale durante la seconda guerra mondiale, l’ufficiale italiano interpretato da Alberto Sordi, rispondendo a un ufficiale britannico insoddisfatto dall’indolenza con cui i soldati italiani affrontano lo scavo delle latrine, gli ricorda con stizza che «i miei compatrioti costruivano le fognature quando i tuoi si coloravano ancora la faccia di blu!». A soli quindici anni dalla fine del conflitto, nell’anniversario del cen-


L’allestimento di un aratro primitivo, per ricordare il rito della fondazione di Roma, al Palazzo delle Esposizioni in occasione della Mostra Augustea della Romanità del 1938.

continuità fra storia italo-romano antica e recente, ve n’erano una dedicata ai primi secoli del cristianesimo, una all’immortalità dell’idea di Roma e un’altra ancora alla rinascita dell’impero nell’Italia fascista. Nella sala di Augusto, una stele di cristallo con croce rimarcava la

tenario dell’unità d’Italia, la retorica nazionalista di matrice romanizzante risultava quasi completamente evaporata. La catastrofica esperienza della guerra aveva indotto infatti gli Italiani a riscoprirsi troppo diversi da quel modello che avrebbero dovuto incarnare per risultare i veri eredi di Muzio Scevola e Scipione.

compenetrazione fra la Roma pagana e quella cristiana. La Mostra chiuse il 4 novembre 1938, dopo aver ricevuto il plauso della critica internazionale e la visita di quasi un milione di ospiti. Tutti gli altri dovettero accontentarsi dei trionfalistici resoconti proiettati dai cinegiornali.

be poi massicciamente contribuito, nella seconda metà del secolo, alla diffusione anche in Italia di una immagine della romanità orientata in maniera completamente diversa, del tutto inadatta a veicolare contenuti di stampo nazionalistico. Anche per questo, le evocazioni lessicali e le allusioni iconografiche alla romanità ancora oggi occasionalmente presenti nella retorica propagandistica di alcuni settori della destra neofascista, si limitano perlopiú a insistere sul richiamo ai valori marziali connessi alla latinità (disciplina, gerarchia, virilità) senza cercare di suscitare nei destinatari del messaggio identificazioni di tipo etnico o nazionale.

UNA NUOVA «ROMANITÀ» L’insofferenza per l’enfasi con cui la romanità era stata rappresentata e decantata durante il Ventennio non produsse, tuttavia, una disaffezione di massa per il passato piú antico. Ne determinò piuttosto un tipo diverso di ricezione, contrassegnata da una sorta di dissacrante familiarità: una percezione di cui può cogliersi una eco, a livello massmedia- NELLA PROSSIMA PUNTATA tico, dal successo del cosiddetto cinema peplum negli anni Sessanta. • L’Ellade eterna. Filellenismo Proprio il cinema, del resto, avrebeuropeo e riscoperta della grecità

PER SAPERNE DI PIÚ La bibliografia sul tema «romanità e nazionalismo italiano» (in particolare in epoca fascista) è ormai vastissima. Oltre ai contributi di Luciano Canfora, Mario Torelli, Paola Salvatori e Jan Nelis in riviste, opere collettanee e atti di convegni, mi limito qui a segnalare: Mariella Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Dedalo Bari, 1975 Lorenzo Braccesi, L’antichità aggredita. Memoria del passato e poesia del nazionalismo, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1989 Marta Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum, Valerio Levi Editore, Roma 1990 Andrea Giardina, André Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000 Massimiliano Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2001 Elvira Migliario, Leandro Polverini (a cura di), Gli antichisti italiani e la Grande Guerra, Le Monnier, Milano, 2017 Aldo Pardi, Pulchra imperatrix. Letteratura, identità nazionale e romanità imperiale nell’Italia del Risorgimento, L’Harmattan Italia, Torino 2018 a r c h e o 77


MOSTRE • CLASSE

A BANCHETTO CON

TEODORICO

SEGUENDO UN RIGIDO PROTOCOLLO, I COMMENSALI SI DISPONEVANO INTORNO A UN DESCO SEMICIRCOLARE: COSÍ AVEVANO INIZIO I CONVITI D’EPOCA TARDO-ANTICA E BIZANTINA. UNA TRADIZIONE RACCONTATA DA UNA NUOVA MOSTRA ALLESTITA NEL MUSEO CLASSIS RAVENNA. PROTAGONISTI SPETTACOLARI PIATTI IN ARGENTO, FRUTTO DI SCOPERTE TANTO FORTUNATE, QUANTO CASUALI di Giuseppe M. Della Fina

L

a storia dell’archeologia è costellata da ritrovamenti di oggetti preziosi che qualcuno aveva nascosto con cura per cercare di sottrarli al furto o alla distruzione e nella speranza di riuscire a recuperarli, in un secondo momento, quando la situazione di pericolo sarebbe stata auspicabilmente superata. Due scoperte del genere costituiscono il fulcro della mostra «Tesori ritrovati. Il banchetto da Bisanzio a Ravenna», curata da Isabella Baldini, Fabrizio Corbara e Giuseppe Sassatelli, e allestita sino al 20 settembre prossimo nel Museo Classis Ravenna.

Sulle due pagine: immagini di un piatto in argento dorato, rinvenuto a Cesena nel 1948. Seconda metà del IV sec. d.C. Cesena, Museo Civico Archeologico. Qui accanto, un particolare della decorazione del bordo, in cui si vede un clipeo con personificazione a mezzo busto molto caratterizzata, il cui significato è connesso alla ciclicità del tempo. 78 a r c h e o


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MOSTRE • CLASSE

In alto: particolare del medaglione centrale del piatto in argento dorato di Cesena, raffigurante una scena di banchetto all’aria aperta. Seconda metà del IV sec. d.C.Cesena, Museo Archeologico. In basso: ancora un particolare del bordo del piatto, in cui si distingue l’elaborata raffigurazione di un complesso architettonico. Seconda metà del IV sec. d.C. Cesena, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: mosaico raffigurante un banchetto all’aria aperta dopo una caccia. IV sec. d.C. Piazza Armerina, Villa romana del Casale. In basso: un particolare dell’allestimento della mostra «Tesori ritrovati. Il banchetto da Bisanzio a Ravenna».

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Uno dei tesori venne rinvenuto casualmente nel 1948 da alcuni operai, nel corso di lavori edilizi eseguiti a Cesena, appena a sudovest della città antica. Si trovava a 80 cm dal piano di campagna e comprendeva due piatti in argento dorato di notevole finezza.

razione del bordo purtroppo frammentaria: nelle zone conservate sono incisi due complessi architettonici, probabilmente di ambito urbano, collocati all’estremità alta e bassa della circonferenza che il bordo delimitava. Da essi si dipana-

no scene con pastori immersi in un ambito bucolico, o con imprese di cavalieri. È stato notato che si tratta di rappresentazioni derivanti dal repertorio ellenistico, evidentemente ancora vitale all’epoca in cui il piatto fu realizzato, cioè nella

CONVIVIO EN PLEIN AIR Uno, in particolare, presenta un ricco programma iconografico teso a esaltare la vita aristocratica del possessore. Nel medaglione centrale la scena è articolata su due registri, e in quello superiore compare la raffigurazione di un banchetto all’aperto: i cinque commensali, tra cui una donna, sono riparati dal sole grazie a una tenda e sono disposti attorno a una mensa semicircolare, sulla quale è posato un vassoio colmo di cacciagione; nel registro inferiore si vede invece uno stalliere che si prende cura di un cavallo. Altrettanto interessante è la decoa r c h e o 81


MOSTRE • CLASSE

I PIATTI «SPECIALI» DELLA CUOCA MARIE Piatti in argento, confrontabili con quelli rinvenuti casualmente a Cesena, sono stati trovati a Kaiseraugst in Svizzera. Anche in questo caso, si trattò di una scoperta fortuita, che ebbe luogo in occasione di lavori edilizi condotti presso un edificio scolastico.

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Singolare è che il recupero si deve alla signora Marie Schmidt, cuoca in una locanda locale. La donna li portò in salvo e li custodí nella rimessa del ristorante per alcuni giorni. Una foto la mostra mentre tiene in mano due dei piatti rinvenuti.


seconda metà del IV secolo d.C. Lungo la decorazione del bordo corre una sequenza di quattro clipei (in origine erano probabilmente otto) con personaggi a mezzo busto, che verosimilmente simboleggiavano la ciclicità del tempo. Il prezioso manufatto venne realizzato in un’unica lamina d’argento e rifinito al tornio; la decorazione è ottenuta con la tecnica dell’incisione a bulino per delineare il disegno delle figure, mentre il fondale è lavorato a niello. I dettagli sono resi con fitte cesellature tramite punzoni. Sul retro, sono visibili due bolli, forse riferibili al luogo di realizzazione, ancora discusso, e al controllo di produzione.

L’altro esemplare accoglie, nel medaglione centrale, un amorino in volo che tiene due ghirlande di fiori; all’interno del piede compare, per due volte, in caratteri latini, l’indicazione del peso, pari a circa 22 libbre, e si legge anche un monogramma, forse associabile a un nome proprio. Realizzato da un maestro meno raffinato del precedente, è databile anch’esso nella seconda metà del IV secolo d.C. e potrebbe essere opera di una bottega locale.

PRESSO L’ANTICO PORTO L’altro tesoro è stato rinvenuto presso un asse viario dell’antico porto di Classe, nel 2005. Si trovava all’interno di una buca, scavata intenzional-

mente, e ricoperta da macerie. Gli oggetti preziosi erano stati riposti probabilmente dentro una cassetta di legno nascosta dal possessore in un giorno tra l’VIII e il IX secolo d.C. Va evidenziato che gli oggetti – una patera/coppa e sette cucchiai in argento (per un peso totale di 561,95 grammi) – risalgono a un’epoca piú antica di quella del loro interramento. Inoltre, i cucchiai appartenevano a servizi da tavola differenti e dovevano quindi essere stati assemblati dal loro ultimo possessore (o da chi per lui). Uno, in particolare, potrebbe in origine essere stato compreso in un servizio da tavola appartenuto (segue a p. 86) Nella pagina accanto: la signora Marie Schmidt, ostessa del ristornate Löwen, che si occupò di portare al sicuro alcuni grandi piatti del tesoro di Kaiseraugst. A sinistra: piatto in argento dorato, realizzato a partire da un’unica lamina di argento. Seconda metà del IV sec. d.C. Cesena, Museo Civico Archeologico. Il motivo centrale accoglie un amorino in volo che tiene due ghirlande di fiori.

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MOSTRE • CLASSE

«EDUCARE» AL PATRIMONIO Incontro con Giuseppe Sassatelli L’archeologo Giuseppe Sassatelli, professore emerito dell’Università degli Studi di Bologna, è il Presidente della Fondazione RavennAntica. Lo abbiamo

incontrato per fare il punto sull’attività dell’Ente e per parlare della mostra «Tesori ritrovati. Il banchetto da Bisanzio a Ravenna» recentemente inaugurata. è aggiunta nel 2017, a seguito di un apposito accordo di valorizzazione tra MiBACT e Comune di Ravenna, la gestione di alcuni importanti siti statali (S. Apollinare in Classe, Battistero degli Ariani, Palazzo e Mausoleo di Teodorico, Museo Nazionale), ovviamente in collaborazione con il Polo Museale della Regione. E infine, nel 2018, è stato inaugurato Classis RavennaMuseo della Città e del Territorio, allestito nell’ex zuccherificio di

sono i luoghi della cultura gestiti dalla Fondazione RavennAntica? «La Fondazione RavennAntica gestisce da tempo, e direttamente, l’area archeologica dell’Antico Porto presso Classe, la Domus dei Tappeti di Pietra e il Museo Tamo Mosaico, restaurati e allestiti dalla stessa Fondazione, nel centro storico della città. A questi monumenti si

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◆ Professor Sassatelli, quali

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Mausoleo di Teodorico

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Nella pagina accanto, in alto: l’ingresso della mostra «Tesori ritrovati» a Classis Ravenna. In questa pagina: carta di Ravenna e Classe con i monumenti principali. Nella pagina accanto, in basso: l’edificio dell’ex zuccherificio di Classe, oggi sede di Classis Ravenna.

Classe, con una coraggiosa operazione di archeologia industriale che ha ridato alla città un edificio dismesso e degradato trasformandolo in un prezioso “archivio storico” della comunità. La grande novità e la grande forza di questa situazione (e in particolare dell’accordo di valorizzazione) sono la gestione unitaria di tutti i principali monumenti della città e della vicina Classe (compresi quelli civici, come il Museo d’Arte della città di Ravenna e la Tomba di Dante, che si stanno aggiungendo proprio in queste settimane), grazie al superamento di una “gestione proprietaria” (“questo è mio e questo tuo”...) e settoriale, che non interessa il cittadino e non consente quelle collaborazioni e quelle interazioni che risultano essenziali in un moderno assetto di valorizzazione del nostro patrimonio culturale. Senza contare il fatto che, cosí facendo, vengono affidate a una comunità la gestione e la valorizzazione del


proprio patrimonio culturale, che è parte importante della sua identità e della sua storia».

◆ Come diceva poc’anzi, il Museo

Classis Ravenna, allestito in uno spazio industriale recuperato, l’ex zuccherificio di Classe, è stato inaugurato nel dicembre del 2018. Qual è stata la sua attività sinora? Può tracciarne un primo bilancio? «Il museo ha poco piú di un anno di vita e in questo suo esordio ha dato risultati piú che soddisfacenti. Non soltanto per i 52 000 visitatori, che sono molti per un museo che si inserisce come novità assoluta e improvvisa in un circuito turistico molto tradizionale e consolidato, ma anche per le attività collaterali che ha saputo innescare. Prima di tutto i laboratori per la didattica dedicati alle scuole di ogni ordine e grado,

uno strumento straordinario di “educazione al patrimonio”. Poi le mostre tematiche (una delle quali è in corso) e le piccole innovazioni interne per rendere sempre piú appetibile l’assetto espositivo. E infine l’utilizzo degli spazi circostanti per spettacoli colti, ma anche leggeri e divertenti (la rassegna estiva di quest’anno è appena iniziata), che richiameranno molti spettatori e che ci fanno toccare con mano il fatto che il

museo non è solo un contenitore di materiali archeologici, ma anche uno spazio vivo e stimolante per tutta la comunità».

◆ Come è nata l’idea della mostra

«Tesori ritrovati. Il banchetto da Bisanzio a Ravenna»? «Il museo ha in programma di allestire ogni anno una piccola mostra che illustri e approfondisca temi e periodi storici che fanno parte dell’esposizione permanente. Lo scorso anno, l’argomento è stato quello dei mosaici a tema marino, sviluppato da “Tessere di mare”, realizzata in collaborazione con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che ci ha concesso in prestito opere molto preziose. Quest’anno, poiché in museo è esposto un “tesoretto” con utensili in argento per il banchetto, il tema è

appunto quello del banchetto in epoca tardo-antica e bizantina. Con il recupero e l’esposizione di due grandi piatti sempre in argento, poco noti, esposti al Museo Civico Archeologico di Cesena. Si è cosí creata l’occasione per sviluppare da un lato il tema del banchetto in tutti i suoi significati storici e ideologici e, dall’altro, quella di fare conoscere meglio documenti e monumenti del territorio in perfetta coerenza con l’impostazione (e la titolatura) del

museo che è “Museo della Città e del Territorio” e che ha quindi anche il compito di intrecciare e valorizzare le testimonianze storiche di una vasta area geografica circostante».

◆ Quali saranno le prossime

iniziative della Fondazione? «I progetti sono tanti. Mi limito a ricordarne due. Arricchire l’assetto espositivo con nuovi strumenti (come video e carte) che rimandino al patrimonio storico e archeologico del territorio, allo scopo di stimolare il visitatore ad andare negli altri musei per approfondire alcuni aspetti di questa lunga storia. Il museo non è nato per aggiungersi o addirittura contrapporsi agli altri musei, ma al contrario per esserne una sintesi che stimola altre visite e altri percorsi. E poi l’anno prossimo, in occasione della grande mostra sui Bizantini che sarà allestita prima al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e poi a Venezia, anche Ravenna e il Museo Classis saranno sede di una mostra tematica in termini e in modi che sono in corso di definizione. Del resto, Ravenna non poteva certo mancare in una mostra dedicata ai Bizantini».

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MOSTRE • CLASSE

In alto: particolare di uno dei cucchiai del tesoretto rinvenuto a Classe, sul quale si può distinguere il monogramma di Teodorico.

a Teodorico (454 circa-526 d.C.), re degli Ostrogoti e figura centrale del suo tempo. Risulta infatti impreziosito da un monogramma con le lettere TEODRC, molto simile a quello riportato sulle sue emissioni monetali. Un altro cuc-

chiaio reca inciso il nome d’origine germanica Ruta. La patera/coppa risulta piú recente dei cucchiai ed è decorata con motivi vegetali. Sul fondo sono impressi due marchi di forma rettangolare in greco: «Ioannou» e «Ioanniou», for-

se da identificare con un personaggio dallo stesso nome attestato a Ravenna attorno al 600 d.C. sulla base di fonti letterarie. Prendendo le mosse da questi recuperi, l’esposizione traccia una storia del significato del banchetto aristoA sinistra: il tesoretto di Classe, composto da una patera (inizi del VII sec.d.C.) e sette cucchiai in argento. In alto: il tesoretto nell’allestimento della mostra.

MANGIARE CON LE MANI Il banchetto aristocratico tardo-antico prevedeva l’uso dei cucchiai, ma non quello delle forchette e dei coltelli. Di conseguenza, numerosi cibi – tra cui la cacciagione – andavano mangiati con le mani. Il numero canonico dei cucchiai, spesso in argento

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dorato, era di dodici, o, almeno, come oggi erano commercializzati per dozzine. Potevano essere contrassegnati – come nei due casi del tesoretto di Classe – dal nome del proprietario scritto per esteso, o sotto forma di monogramma.


cratico in epoca tardo-antica. Per le aristocrazie del tempo, esso continuava a essere centrale nell’ambito della vita sociale, come testimonia la richiesta di coppe, boccali, posate e grandi piatti in metallo prezioso.

A CIASCUNO IL SUO POSTO Il banchetto costituiva un’occasione d’incontro e di condivisione degli stessi valori ideali e, contemporaneamente, consentiva di esibire lo status personale prevedendo il rispetto della condizione gerarchica dei commensali. Quest’ultimo aspetto condizionava l’arredo del triclinio e la disposizione degli invitati.

Un’innovazione del tempo è rappresentata dalla mensa, che assunse una forma semicircolare, attorno alla quale si disponevano radialmente i letti triclinari (stibadia), sui quali si accomodavano gli invitati. Il modello era stato elaborato nell’ambito della corte di Bisanzio e da lí si era diffuso, raggiungendo anche l’Italia. Rigido era anche il protocollo che sovrintendeva alla distribuzione dei posti assegnati: il personaggio di maggior spicco stava all’estremità destra della mensa, il secondo in ordine di rango occupava invece la stessa posizione all’estremità sinistra. Si arrivò al punto che tale distribu-

DOVE E QUANDO «Tesori ritrovati. Il banchetto da Bisanzio a Ravenna» Classis Ravenna, Museo della Città e del Territorio fino al 20 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info e prenotazioni tel. 0544 473717; www.classisravenna.it Catalogo breve Fondazione RavennAntica

zione dei posti veniva ricalcata persino nelle raffigurazioni dell’Ultima Cena, con Gesú Cristo collocato all’estremità destra della mensa. Disegno ricostruttivo di un banchetto, con la mensa semicircolare e i convitati disposti secondo un preciso criterio gerarchico.

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SPECIALE • ANTICHE IMMERSIONI

VENTIMILA ANNI SOTTO I MARI UN’IMPRESA AI LIMITI DELLE POSSIBILITÀ FISIOLOGICHE, EPPURE PRATICATA, VEROSIMILMENTE, SIN DALLA PREISTORIA: MOLTEPLICI FURONO LE RAGIONI PER LE QUALI L’UOMO SI ERA IMMERSO, TRATTENENDO IL RESPIRO, ANCHE SOLO PER POCO TEMPO, IN MARI, LAGHI E FIUMI. E NUMEROSI FURONO, IN ETÀ STORICA, GLI ACCORGIMENTI ATTUATI PER «PROLUNGARE» QUELLA INNATURALE PERMANENZA NELLE PROFONDITÀ DEL «SESTO CONTINENTE». CHE, TRA I SUOI PROTAGONISTI PIÚ ILLUSTRI, ANNOVERÒ NIENTEMENO CHE ALESSANDRO MAGNO... di Flavio Russo

L’

acqua copre i due terzi del pianeta e racchiude al suo interno risorse alimentari e minerarie di gran lunga superiori a quelle terrestri, ricchezze di cui l’uomo ebbe piena consapevolezza sin dall’antichità, ma che, non disponendo di mezzi adeguati, sfruttò solo in minima parte. La constatazione che fosse possibile nuotare anche sott’acqua, sia pure trattenendo il respiro per pochi minuti e restando a una profondità di pochi metri, dovette senza dubbio essere contemporanea alla pratica stessa del nuoto. Non si trattò però della naturale risposta a uno stimolo ludico, quanto piuttosto di un’esigenza connessa a vario titolo con la pesca, con la navigazione – a partire dalle piú rudimentali piroghe – e, soprattutto, con il recupero di funi impigliate o di qualche oggetto caduto sul fondo. In seguito l’uomo non si negò il piacere di gettarsi a capofitto da una piccola altura in quel liquido elemento, senza riportarne alcuna conseguenza, e ben presto

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quella pratica, nel salto dall’aria all’acqua, divenne metafora del passaggio dalla vita terrena a quella dell’aldilà. In un tempo relativamente breve, l’immergersi per le ragioni anzidette diede origine ad altrettante attività sistematiche e complementari, a partire dall’approvvigionamento di cibo con la raccolta dei molluschi. Furono cosí sviluppate e messe a frutto nuove capacità, acquisendo inedite strategie di rifornimento alimentare ed economico, vuoi con la pesca vuoi con il commercio di conchiglie, perle, ambra o corallo, fino a estrarre dai piú alti fondali – in epoche di gran lunga piú recenti – non soltanto il petrolio, ma anche pregiati minerali, sotto forma di noduli polimetallici.

AFFONDARE LE NAVI NEMICHE A partire dal II millennio a.C., inoltre, le fonti provano che l’attività subacquea entrò a buon diritto fra le procedure belliche, affiancando le operazioni navali, difensive e offensi-

Sulle due pagine: lastra di copertura della Tomba del Tuffatore. 480-470 a.C. Capaccio Paestum, Museo Archeologico Nazionale. La pittura mostra un giovane nudo che si tuffa nell’oceano, immagine metaforica del passaggio dalla vita alla morte.


ve. Peculiare di tale applicazione fu la sua connotazione insidiosa, protrattasi immutata nel corso della storia fino ai nostri giorni, insistendo ora come allora nel poter restare celati sotto la superficie dell’acqua, dolce o salata che fosse. E dal momento che, da sempre, la guerra sul mare si combatte contro i mezzi che la praticano, piú che contro gli uomini nemici, lo scopo degli scontri è quello di mandare a fondo il naviglio avversario, in qualsiasi modo. Non sorprende, quindi, che quel risultato fu spesso raggiunto agendo al di sotto dei flutti, magari col favore delle tenebre. Né stupisce che, altrettanto spesso, si cercò di recuperare quanto affondato, immergendosi ai limiti delle possibilità fisiologiche. Una vicenda che potrebbe avere avuto inizio già nella preistoria. Recenti studi hanno infatti rilevato la presenza di esostosi uditive, ovvero delle escrescenze ossee che si formano nel condotto uditivo in seguito a ripetute immersioni in acque fredde (una patologia

nota anche come «orecchio del nuotatore»), in crani di Uomini di Neandertal risalenti a 50 000 anni fa circa. Soltanto dall’età classica, però, si registrò una progressiva evoluzione tecnica, destinata a portare all’esplorazione del mondo azzurro, il «sesto continente».

LE PRIME «BOMBOLE» Per rintracciare nelle fonti scritte o iconografiche riferimenti indiscutibili ed espliciti ad attività subacquee, si deve attendere il IX-VII secolo a.C., quando vennero raffigurati su alcuni rilievi assiri uomini che nuotano immersi in un fiume, con in bocca un cannello collegato a un otre, posto sotto il torace e fissato al corpo con una robusta cinghia (vedi foto alle pp. 92-93). Che siano immersi e non tenuti a galla dall’otre – che in quel caso sarebbe un salvagente –, lo conferma la presenza di un pesce al loro fianco, per cui è ovvio interpretare quel cannello come un antesignano boccaglio, in grado di far respirare l’aria contenua r c h e o 89


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ta nell’otre. Va inoltre osservato che otri del genere, aventi una capacità che possiamo stimare in una ventina di litri, avrebbero fornito una spinta di galleggiamento pari ad altrettanti chilogrammi, rendendo impossibile l’immersione senza un’adeguata zavorra. Il nuotatore, completamente nudo, potrebbe perciò nascondere, tra il torace e l’otre, una barra di piombo, mantenendola fissa con il cinturone. Del tutto simile è un secondo bassorilievo, mentre in un terzo i nuotatori sono tre e indossano lunghe e pesanti palandrane; due soltanto hanno però l’otre, mentre il terzo, che nuota in superficie, proprio perché ben visibile appare colpito da due frecce. Ipotizzando dunque che gli uomini raffigurati siano senza dubbio subacquei, i suddetti rilievi danno conto di un progresso fondamentale: non si tratta piú della semplice nuotata in apnea, ma dell’adozione di un vero serbatoio d’aria compressa. Infatti, poiché la pressione dell’aria nell’otre viene compensata da quella dell’acqua esterna alla profondità d’immersione, il sommozzatore poteva respirare liberamente esattamente come avviene con l’attuale secondo stadio di un erogatore ARA (AutoRespiratore ad Aria), e senza alcuna sofisticata valvola.

DIECI RESPIRI PROFONDI Prelevando l’aria compressa contenuta nell’otre, si determinava la progressiva contrazione dell’otre, ma non della pressione dell’aria contenuta al suo interno, e, attingendo alla stessa senza contaminarla con l’anidride carbonica espirata in acqua, l’autonomia in tal modo garantita dipendeva soltanto del numero di atti respiratori compiuti e dalla profondità di immersione. Un otre avente una capacità di 20 litri avrebbe consentito 10 respirazioni profonde, ciascuna delle quali in grado di permettere un’apnea di almeno un minuto, garantendo perciò una permanenza subacquea di oltre 10 minuti. Una potenzialità che per l’epoca era tutt’altro che trascurabile, tanto che l’impiego dell’otre per sub perdura immutato ancora ottocento anni dopo, come testimonia una singolare vicenda rievocata da Plutarco e raffigurata su di un coevo papiro. Nell’immagine si distingue un sub che, respirando da un otre, si appresta a eseguire le istruzioni di Cleopatra, mentre Marco Antonio: «un giorno stava pescando senza fortuna e ne 90 a r c h e o

provava un sentito dispetto essendo presente Cleopatra. Diede ordine allora a dei pescatori di immergersi e nascostamente attaccare al suo amo qualche pesce di quelli che avevano già preso; due o tre volte sollevò cosí la lenza. Cleopatra che subito si accorse del trucco, finse di meravigliarsi dell’abilità del pescatore; lo disse perciò agli amici invitandoli per il giorno dopo ad assistere alla pesca. Molti di loro andarono con le barche: Antonio calò la lenza, e allora Cleopatra ordinò ai suoi sommozzatori di prevenire i pescatori di Antonio, e nuotando sott’acqua fino all’amo, di infilzargli un pesce affumicato del Ponto. Antonio, sentendo di aver preso qualcosa, tirò su la lenza. Scoppio una generale risata, come si può immaginare, e Cleopatra disse: “Mio grande duce, lascia a noi pescatori del Faro e Canopo (Alessandria d’Egitto) la canna, tu sei cacciatore di città, di regni, di continenti”» (Vite parallele, par. XXIX). I sommozzatori assiri respiravano dall’otre con un cannello, ma presto si intuí che una canna forata, o anche un osso lungo, tenuti ben aderenti alle labbra mentre si restava sott’acqua, consentivano di respirare attingendo all’aria in superficie. In pratica, li si trasformava in rudimentali aeratori o, con definizione oggi corrente, in snorkel.

Nella pagina accanto: miniatura raffigurante un corallo, da un’edizione del Carmen de viribus herbarum, da Costantinopoli. 512 d.C. Vienna, Biblioteca Nazionale austriaca. La pesca del corallo fu una delle attività che spinsero l’uomo a praticare le immersioni. In basso: esemplare di gorgonia rossa (Paramuricea clavata).


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Celarsi sotto la superficie dei fiumi, respirando attraverso una cannuccia, era prassi corrente nell’antichità, ampiamente utilizzata anche nel Medioevo dalle popolazioni del Nord Europa e ancora adottata nel secondo conflitto mondiale dai soldati sovietici. Cosí è descritta nello Strategicon dello Pseudo-

Rilievo raffigurante soldati che attraversano un fiume nuotando sott’acqua e respirano mediante cannelli che fuoriescono da otri di pelle, dalla sala del trono di Assurnasirpal II a Nimrud. 865-860 a.C. circa. Londra, The British Museum. 92 a r c h e o

Maurizio (VIII secolo): «Quando si trovano nelle loro terre e vengono colti da un attacco a sorpresa, si immergono nel fondo di un corso d’acqua tenendo in bocca delle lunghe canne vuote al loro interno appositamente preparate, mantenendole sulla superficie dell’acqua; rimanendo sdraiati con la schiena sul fondo, respirano attraverso di


esse e resistono per molte ore, senza che nessuno sospetti dove si trovino» (da Edward N. Luttwak, La grande strategia dell’impero bizantino, Rizzoli, 2009; p. 339). Aristotele (384-322 a.C.) non mancò di menzionare l’esistenza di un simile aeratore, usato dai subacquei per respirare durante le immersioni a bassa profondità, e lo paragonò

alla proboscide dell’elefante: «I sommozzatori utilizzano alcune volte degli strumenti [canne] per respirare e poter restare lungo tempo sul fondo del mare, aspirando l’aria per loro tramite, nella stessa maniera che la natura ha dato in cosí grande dimensione al naso dell’elefante, per un impiego analogo» (De partibus animalium, lib. II, 16). Che l’impiego di antesignani aeratori fosse

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già diffuso intorno al V secolo a.C. tra i subacquei, e in particolare tra quelli che oggi definiremmo incursori, lo confermano i ripetuti riferimenti delle fonti ad azioni di sabotaggi sottomarini. Nel 480 a.C., per esempio, presso il promontorio dell’Artemisio, un certo Scilla di Scione, un uomo rana ateniese, riuscí a tranciare le corde delle ancore delle navi persiane – che in seguito saranno sostituite da catene –, lasciandole andare alla deriva. Un sabotaggio solo in apparenza insignificante, poiché, al primo lieve incresparsi del mare, poteva provocare gravi collisioni fra gli scafi. Tra le curiosità delle attività sottomarine del V secolo a.C. ricordate dalle fonti, una ha avuto una straordinaria reiterazione ai giorni nostri, innescando complesse dispute legali internazionali: il recupero dei noduli metallici, e in particolare di rame. Aristotele riferisce di quella singolare pesca, precisando però che ne scrive solo per sentito dire, mentre Plinio il Vecchio ce ne ha lasciato la seguente testimonianza: «C’é 94 a r c h e o

del rame sottomarino a due tese [3,60 m] di profondità nel mare. Ne sono stati tratti [i quantitativi necessari per la fusione della] statua che è a Scione [presso Corinto] nel tempio vecchio di Apollo, e i cosiddetti oricalchi di Fenco [in Arcadia], sui quali è scritto “Ercole di Anfitrione presa Elide dedicò...” Chi scava quel rame diventa di vista acutissima, e se non ha palpebre gli ricrescono» (Naturalis Historia, IX, 52-61). Le parole del grande naturalista trovarono esplicita conferma soltanto nel 1868, quando vennero riscoperti i cosiddetti noduli polimetallici disseminati in abbondanza sui fondali oceanici.

QUASI COME UNA PENTOLA Ad Aristotele dobbiamo anche la descrizione per uso subacqueo del lebete, termine in greco antico (lebes) che definiva la grossa pentola che noi chiamiamo calderone: generalmente di bronzo o di lamiera martellata di rame, si usava per riscaldare l’acqua, per conservarla, per le abluzioni rituali dei sacrifici, delle nozze e dei funerali (vedi foto a p. 96). Ma costitu-

In alto: un elefante ripreso in un momento di nuoto in immersione. I pachidermi sono ottimi nuotatori e possono percorrere anche lunghe distanze, utilizzando la proboscide come una sorta di snorkel per respirare.


iva anche un ambito premio, come le attuali coppe, per i vincitori di giochi atletici. Omero ne dà al riguardo ampia conferma, suggerendone il rilevante valore economico e, in alcuni casi, anche artistico, ma nei modelli piú semplici delle epoche posteriori tornò a essere una rozza caldaia di metallo. Il suo criterio informatore è elementare: immergendosi, l’aria al suo interno viene gradatamente compressa dall’acqua esterna, fino a raggiungere la medesima pressione e consentendo pertanto al sommozzatore che tenga o infili la sua testa nel vaso di inspirarla, come già dall’otre, senza alcuno sforzo imputabile alla pressione dell’acqua sul suo torace. L’idea del lebete da immersione fu probabilmente suggerita da uno curioso aracnide, il ragno palombaro (Argyroneta aquatica: vedi foto a p. 97), l’unico che risieda abitualmente sotto l’acqua. L’animale sopravvive grazie a una bolla d’aria che porta con sé, o, quando questa sia molto grande, riempita con apporti progressivi e fissata a piante subacquee, vi attinge di tanto in tanto, come da un vero serbatoio. Ovviamente, mentre il ragno non è molto piú grande della bolla d’aria e la quantità che ne utilizza per la respirazione è minima, nel caso dell’uomo la situazione è nettamente inversa. Il lebete citato da Aristotele era un grosso vaso

In alto: l’estremità della proboscide di un elefante, viene mantenuta sopra la superficie dell’acqua per funzionare come aeratore durante il nuoto in immersione. A sinistra: noduli polimetallici di manganese. Simili concrezioni minerali si possono trovare sui fondali marini.

di bronzo, che poteva essere prodotto in dimensioni variabili, ma comunque cospicue. Anche gli esemplari piú piccoli, nei quali la testa di un uomo poteva comunque entrare agevolmente poco prima dell’immersione, garantivano sott’acqua qualche boccata d’aria, incrementando di poco l’autonomia del subacqueo, a patto di mantenere il vaso con la bocca perfettamente orizzontale. Del tutto diverso era il comportamento dei lebeti maggiori, che andavano verosimilmente mantenuti immersi con la bocca verso il basso, tramite adeguate zavorre. In essi, invece di immergersi avendovi già infilata la testa, il sommozzatore la infilava a intervalli regolari per prelevarvi profonde boccate d’aria: una tecnica che consentiva immersioni assai piú prolungate, con una discreta visibilità circostante.

MINACCE NASCOSTE Il differenziarsi e perfezionarsi delle tecniche d’immersione trova un’esplicita conferma nelle attività militari sottomarine condotte nel corso della guerra del Peloponneso e, in maniera emblematica, in prossimità della sua conclusione, nel 413 a.C., come rievocò Tucidide: «Dopo, esplose anche una zuffa nel porto grande, intorno alla palizzata che i Siracusani avevano conficcato sul fondo della rada a protezio-

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ne dei cantieri vecchi per fornire alle proprie squadre un ormeggio sicuro, evitando le perdite inferte da un eventuale assalto delle unità ateniesi. Gli Ateniesi accostarono alla palizzata un bastimento di forte stazza, armato di torrette lignee e parapetti. Montati su scialuppe leggere assicuravano gomene all’estremità dei pali e con la trazione di un argano li sradicavano: intanto li segavano immergendosi. I Siracusani insistevano dagli arsenali con il tiro degli arcieri, cui dal bastimento si replicava: e alla fine gli Ateniesi misero fuori uso il maggior tratto dello sbarramento. Il settore piú micidiale della palizzata era tuttavia quello nascosto sotto il pelo dell’acqua: tronchi acuminati, confitti in modo che la punta superiore non fuoriuscisse dalla superficie. Rischio terribile a scivolarvi sopra con la chiglia: quasi scogli per chi incauto vi urtasse la nave. Ma tuffatori mercenari, nuotando sott’acqua riuscivano a segare anche quelli» (Storia della guerra del Peloponneso,VII, 25).

LO STRATAGEMMA DI ALESSANDRO Nell’estate del 332 a.C. Alessandro il Macedone intraprende l’assedio della città fenicia di Tiro. L’impresa si dimostra subito improba, sia per l’ubicazione della città, su un isolotto a mezzo miglio dalla terraferma, sia per le sue possenti fortificazioni, erette quasi lungo la spiaggia. L’unica possibilità prospettata al giovane condottiero è la costruzione di un lungo istmo artificiale, che trasformi l’isola in una penisola: una diga foranea sufficientemente larga da consentire di battere da distanza ravvicinata le mura nemiche. L’idea trova immediata attuazione, ma col progredire dei lavori, le difficoltà montano: il fondale sempre piú alto ingoia le gettate, mentre le artiglierie delle navi dei Tirii decimano i genieri, obbligando la flotta macedone a un’incessante crociera. Le acque, già infide per le forti correnti, sono rese ulteriormente temibili dagli uomini rana nemici, che vi affondano grossi macigni, capaci di squarciare le carene degli scafi che incautamente si accostano. Apposite navi-pontone, ben ancorate, consentono ai sub macedoni di imbracare quei massi: lentamente issati dalle gru di bordo dopo un breve spostamento finiscono affondati nella colmata. Nel 96 a r c h e o

Nella pagina accanto: un esemplare di ragno palombaro (Argyroneta aquatica) all’interno della sua tana subacquea. In basso: calderone etrusco in bronzo sorretto da un tripode, forse da Vulci. 525-475 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

frattempo, stando ad altre fonti, è Alessandro in persona a voler vagliare le ostruzioni sottomarine di Tiro, immergendosi in una rivoluzionaria campana subacquea, insieme a Nearco, suo ammiraglio in capo. Sempre dalle fonti, che almeno su questo punto sembrano concordi, apprendiamo che essa venne costruita come una grossa tinozza, con robusti e pesanti tavoloni di quercia, resi impermeabili da un rivestimento di piombo e munita di oblò con vetri trasparenti. Irrigidita da spesse cerchiature di ferro esterne e da massicci anelli di legno interno, venne minuziosamente calafatata. Proprio il suo spesso calafataggio viene immancabilmente ricordato dai vari autori, i quali non dicono, però – in quanto la materia esulava dalle proprie rispettive competenze –, che, a differenza delle navi coeve, non fu fatto all’esterno delle doghe, cioè tra il legno e il mare, ma all’interno, cioè tra l’aria rinchiusavi e il legno. Serviva, infatti, a impedirle di sfuggire anche dalle piú minuscole commessure delle doghe e, per ovvia conseguenza, impedendo all’aria di uscire, a maggior ragione, impediva all’acqua di entrare. Al suo interno vi erano una panca anulare, mensole per il deposito di abiti asciutti e viveri, nonché alcune lampade. I vetri degli oblò non costituivano un grave problema, poiché dovevano resistere a una pressione oscillante fra 1 e 2 kg/cmq, peraltro neutralizzata da quella dell’aria interna, e da poco vetri del genere erano stati inventati proprio a Tiro. Il dislocamento della campana doveva raggiungere la decina di tonnellate, per cui, con una stazza di 18 mc, subiva una spinta di galleggiamento pari a circa 6-7 tonnellate, che fu neutralizzata con una congrua zavorra, forse composta da blocchi di pietra in grado di farla immergere nel mare. Durante tale manovra si faceva in modo di farla restare stabilmente sollevata dal fondale, trattenuta in perfetto assetto orizzontale dalle relative funi. Il suo recupero avveniva alando dalla nave appoggio mediante una gru le spesse gomene che la sorreggevano, su richiesta del suo equipaggio, forse con il suono della campana di bordo azionata con una sottile sagola. Dal momento che, come illustrato poc’anzi, in immersione l’aria nella campana, comprimendosi, rag-


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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giungeva la stessa pressione dell’acqua all’esterno, un sommozzatore, respirandola mediante un tubo con un’estremità aperta al suo interno e l’altra munita di boccaglio, era in grado di allontanarsi di alcuni passi dalla campana stessa, operando sul fondo eventuali recuperi. Ovviamente, superata la ventina di metri di profondità, si sarebbe dovuta effettuare una decompressione, prima di tornare in superficie, ma raramente campane siffatte potevano scendere ulteriormente. E sempre stando alle fonti fu battezzata skaphe-andros o kolympha: il primo nome, «barca-uomo», etimologia del nostro scafandro, sembra ben attagliarsi a un dispositivo individuale per l’immersione quale il lebete; il secondo, invece, da kolymbetes, palombaro, o piú precisamente da kolymbao, mi immer98 a r c h e o

Miniatura raffigurante Alessandro Magno immerso sott’acqua all’interno di una campana da immersione, dall’edizione del Roman d’Alexandre en prose contenuta nel Talbot Shrewsbury Book. XV sec. Londra, The British Library.

go, suggerisce appunto una campana da immersione, tanto piú che kolymbethra significava anche tinozza e, non ultimo, colymbus, che è un uccello tuffatore.

L’OSSERVAZIONE DEI FONDALI Va inoltre osservato che uno scafo tanto capiente consentiva a due uomini la permanenza per circa 3-4 ore, anche se l’ossigeno all’interno ne avrebbe consentite molte di piú, senza però il letale accumularsi dell’anidride carbonica espirata. In quel lasso di tempo, straordinariamente lungo per l’epoca, era possibile osservare il fondale circostante dagli oblò laterali e, soprattutto, dal suo fondo aperto. Col tempo si perse nozione delle esatte caratteristiche della kolympha e delle sue effettive connotazioni, mentre,


sin dal II secolo della nostra era, fiorí una pletora di leggende e di assurde fantasie. Le notizie sulla campana di Alessandro ci sono state in parte tramandate dall’opera nota come Romanzo di Alessandro (una raccolta di racconti leggendari sulla vita del Macedone, composta a partire dall’età ellenistica e poi piú volte arricchita, non attribuibile con certezza a uno o piú autori noti, n.d.r.) e da una sorta di sua riduzione denominata Epistola Alexandri ad Aristotelem, uno scritto apocrifo del VII secolo. Per la loro impostazione fantastica entrambe conobbero una immensa notorietà nel Medioevo e in ogni parte del mondo, con varianti indiane, islamiche, persiane, arabe, cristiane: in tutte, Alessandro Magno assurge a protagonista di avventure mirabolanti in ambiti irreali, tra i quali quello degli abissi e dello spazio. Per trovare di nuovo una reale campana subacquea si deve attendere il 1446, con i tentativi compiuti da Leon Battista Alberti, per recuperare le navi di Nemi, e, soprattutto, il 1535, con quelli effettuati, senza maggior fortuna, da Francesco De Marchi. Da allora la campana subacquea non sarà piú abbandonata, trovando ancora oggi ampio utilizzo.

LE TECNICHE D’IMMERSIONE Quanto fin qui riportato riflette la significativa evoluzione dell’attività subacquea che possiamo idealmente seguire dal già ricordato rilievo dei sommozzatori assiri del IX secolo a.C. alla lapide degli urinatores romani di Ostia 25 del I-II secolo d.C. Fu un costante perfezionarsi e differenziarsi di tecniche e strumenti, tesi a consentire immersioni piú prolungate e a maggiori profondità, nonostante i ristretti ambiti consentiti all’epoca. Tuttavia, si impongono alcune osservazioni: dal momento che il blocco respiratorio va dall’istante della completa immersione in acqua fino a quello dell’uscita, è ovvio che, per aumentare il tempo disponibile per l’attività sul fondo, si debbano ridurre al massimo sia quello di discesa, sia quello di risalita. Risulta perciò indispensabile un’adeguata zavorra, della quale, una volta espletata la prestazione, l’operatore si liberava, determinando un’altrettanto rapida risalita. Allo scopo si utilizzava in genere una grossa pietra, spesso munita di una fune che la vincolava alla barca di appoggio: era perciò possibile usarla piú volte e avvalersi della stessa

Testa di una statua in bronzo dorato di Alessandro Magno. II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

fune sia per facilitare l’emersione che il sollevamento del pescato. Scendere velocemente trascinati da una zavorra impedisce però la compensazione della pressione tra l’aria contenuta nell’orecchio medio-interno e l’acqua esterna. Pertanto, già dopo i primi 5 m, l’incremento della pressione idrostatica – da 0,5 a 2 kg/cmq a 20 m di profondità – determina una compressione dell’aria nell’orecchio che causa un dolore crescente, il cui apice coincide, nei casi piú gravi, con la rottura della membrana del timpano. Con un minimo di esperienza e di conoscenza teorica, questo rischio si elimina operando una adeguata compensazione forzata, mediante la quale, chiudendo le narici e soffiando con energia, si costringe l’aria contenuta nella faringe a entrare nell’orecchio medio a r c h e o 99


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sotto pressione, equilibrando cosí la pressione dell’acqua. Ma questo elementare rimedio non era né praticato, né noto nell’antichità, se non casualmente, per cui risultavano frequenti sia le lacerazioni del timpano, sia le otiti baro-traumatiche. Da notare, infine, che tale dolorosa lesione può verificarsi sia nella discesa, per eccessiva introflessione, provocata dall’acqua penetrata attraverso il timpano, con fuoriuscita dall’orecchio di bolle d’aria mista a sangue, sia nella risalita, per eccessiva estroflessione, per l’aria contenuta nell’orecchio con conseguenti forti vertigini e impossibilità a conservare la posizione eretta. Circa gli effetti delle immersioni sull’organismo umano, è opportuno aggiungere qualche ulteriore considerazione circa l’inutilità della decompressione per la modestia delle profondità raggiunte e per la brevità dei tempi di permanenza. È certamente vero che non sembrano essere esistite, o almeno ricordate dalle fonti, conseguenze dovute alla mancata decompressione, ma è altrettanto vero che i danni ai timpani dei sommozzatori erano frequenti, ben noti e anche temuti. Ancora Aristotele tenta di fornirne una spiegazione razionale a riguardo e, pur con qualche inesattezza, ravvisa quale vera causa del trauma la differenza di pressione fra l’aria contenuta all’interno del timpano e quella dell’acqua agente al suo esterno. Circa la modalità d’immersione non in apnea che, come delineato, consentiva abitualmente discese di una ventina di metri e sporadicamente oltre la quarantina, se ne ravvisano cinque che cosí possono suddividersi in base alle profondità: I. fino a -1 m, con aspirazione dell’aria esterna prelevata tramite aeratore; II. fino a -2 m, con aspirazione 100 a r c h e o

dell’aria compressa contenuta in un otre; III. fino a -5 m, con aspirazione dell’aria compressa contenuta in un vaso di bronzo; IV. fino a -10 m, con aspirazione dell’aria compressa contenuta in un grosso calderone; V. fino a -20 m, con aspirazione dell’aria compressa contenuta in una campana.

LE CINQUE OPZIONI Ecco qui di seguito, i dettagli delle diverse soluzioni. I. Aeratore. Come accennato, l’aeratore non bilancia la pressione idrostatica e dunque non consente di scendere oltre un metro e mezzo al massimo, attestandosi mediamente su mezzo metro, per cui torna utile solo per una migliore visione dei fondali nelle acque limpide. Circa la natura del tubo, lo si deve ipotizzare di cuoio o di tela catramata, con spirale metallica interna di rinforzo, o piú verosimilmente di sottile canna forata, comunque abbastanza rigidi da non schiacciarsi per la pressione dell’acqua. Del resto, per strano che possa sembrare, nel vasto repertorio della tecnologia romana non risulta disponibile nulla di simile a un moderno tubo flessibile, di discreta lunghezza, né peraltro sembra che fosse realizzabile, a eccezione, forse, delle manichette di tela catramata. Ma queste, senza dubbio efficaci per il deflusso dell’acqua in pressione nelle lance antincendi, non lo erano per quello dell’aria sottoposta, invece, alla pressione dell’acqua. Certamente avrebbero potuto, sia pure con un ottimo rivestimento a tenuta ermetica, condurre l’aria a pressione maggiore dell’acqua circostante, ma altrettanto certamente non quella solo aspirata dalla superficie. Anche Leonardo da Vinci, disegnando un aeratore, lo collega al subacqueo mediante canne snodate, senza alcun lungo tubo di cui ancora mancava la concreta disponibilità. Quando lo si realizzerà, inserendo una spirale metallica in una manichetta di gomma o di tela


piú grandi, determinando perciò sensibili differenze sulla durata dell’immersione. Nel primo caso, calzati sulla testa del sub e avvedello scafandro in nendo necessariamente tanto l’ispirazione quanto l’espirazione al loro interno, non II. Otre. Nei piú volte citati rilievi assiri del pelle disegnato consentivano di oltrepassare un’autonomia IX secolo a.C. compaiono alcuni soldati che da Leonardo da di pochissimi minuti. Tuttavia, una cosí effinuotano sotto il pelo dell’acqua del fiume Vinci nel Codice Eufrate, respirando con una piccola cannula Atlantico. Milano, mera durata non derivava dall’esaurirsi l’aria contenuta in un otre e compressa Museo Nazionale dell’aria contenuta nel vaso, bensí dal suo rapido saturarsi di anidride carbonica espiradall’acqua. Grazie a quella sorta di zampogna- della Scienza e ta che la rendeva presto irrespirabile. Nei bombola, per la prima volta nella storia degli della Tecnologia lebeti piú grandi, invece, potendo avvenire uomini poterono respirare aria a una pressio- Leonardo da l’espirazione in acqua e non all’interno del ne maggiore di quella atmosferica, sia pure Vinci. vaso, i tempi di autonomia si allungavano per pochi minuti e a una profondità irrisoria. In basso: tavola considerevolmente, sia per il maggior voluottocentesca me del calderone, sia perché l’aria al suo III-IV. Lebete. Abbiamo visto come i lebe- raffigurante una interno restava incontaminata. ti di modesta dimensione fossero utilizzati in campana da Per fare un esempio, osservando che l’aria maniera nettamente diversa dagli esemplari immersione. contenuta in un vaso di 100 litri, di 60 cm circa di diametro per circa 40 di altezza, si riduce a un terzo, a 20 m di profondità – ovvero a 33 litri alla pressione di 2 kg/cmq –, se si aspira l’aria stessa dall’interno del lebete senza contaminarla con l’anidride carbonica espirata e considerando che un respiro profondo assorbe circa 2 litri d’aria, sarebbero stati possibili una quindicina di atti respiratori completi, ciascuno dei quali in grado di assicurare oltre un minuto di autonomia, portando cosí la permanenza in immersione a 20 minuti circa. Va inoltre osservato che la spinta di galleggiamento di un simile vaso, è pari a circa 100 kg, che solo in parte viene neutralizzata dal proprio peso, per cui era necessario vincolarlo a un’adeguata zavorra, fissandolo nella posizione ricordata ad alcuni metri dal fondale e mantenendolo in assetto verticale. Di lebeti propriamente detti ne sono stati ritrovati in gran numero, ma nessuno di robusta e rozza fattura con un’ampia bocca, ovvero con le caratteristiche che lo avrebbero reso idoneo alle attività subacquee. Si può però immaginare che, dal momento che il bronzo, come il rame, è sempre stato avidamente ricercato, difficilmente quei grossi calderoni, privi di valenza artistica e funzionale siano scampati alla rifusione, pervenendoci integri e riconoscibili per tali. A puro titolo di esempio, tuttavia, tra i reperti di Ercolano, vi è un grosso recipiente del genere, grezzo e svasato, realizzato con lamiere di bronzo rivettate fra loro, identificato come caldaia. Non avendo, però, supgommata, assumerà la connotazione di una Nella pagina trachea, quasi che la sua forma fosse obbli- accanto: gata dalla funzione. ricostruzione

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L’ATTREZZATURA DEGLI URINATORES automaticamente la parte emersa, consentendo la respirazione autonoma. Non piú una cannuccia dalle approssimate funzioni di aeratore, ma uno snorkel, identico, di fatto, a quelli usati dagli odierni apneisti. Di un casco siffatto riferiscono, sia pure confusamente, alcuni scrittori romani, precisando anche che, a causa della rudimentale chiusura intorno al collo, la sua impermeabilità era modesta. Non si può tuttavia escludere che i testi relativi a quelle descrizioni siano andati persi nel corso del Medioevo, ipotesi che spiegherebbe il ricomparire proprio di una muta e di un cappuccio del genere fra i disegni di Konrad Kyeser e di molti altri ingegneri militari del XV secolo.

Dalle scarne testimonianze di cui disponiamo, sembrerebbe che gli urinatores (i membri di una corporazione di nuotatori subacquei istituita forse già in età repubblicana, n.d.r.) indossassero, sopra una sorta di rozza muta, un cappuccio o, piú verosimilmente, un sacco, che fungeva da antesignano elmo da palombaro. La sua cuspide terminava con un lungo budello, la cui estremità superiore era tenuta fuori dall’acqua da un adeguato galleggiante, simile, in sostanza, a un moderno aeratore. La scarsa profondità, e, forse, la brevità del budello, avrebbero fatto in seguito evolvere quel rudimentale cappuccio in un casco vero e proprio, munito di un tubo dotato di un’apposita valvola che ne chiudeva

porti d’appoggio, ma solo resti di maniglie, appare ragionevole ipotizzare che possa trattarsi, se non di un vaso da immersione, almeno di quanto di piú somigliante a esso potesse esserci. Del resto, Ercolano era una florida cittadina marittima, con traffici e commerci, ed è perciò verosimile che di tanto in tanto si dovessero recuperare, grazie a qualche sommozzatore locale, oggetti caduti in mare durante il carico e lo scarico delle imbarcazioni. Di quest’ultima modalità d’immersione ipotizzata, Aristotele fornisce una conferma esplicita: «Affinché i pescatori di spugne possano respirare facilmente, si cala una caldaia, non piena d’acqua ma di aria, che aiuta costantemente l’uomo immerso; è necessario mantenere il recipiente dritto mentre scende per impedire all’aria di fuoriuscirne e all’acqua di entrarvi» (Problemata physica, XXXII, 5). Il lebete va quindi immaginato indipendente dal subacqueo, analogo di fatto a una sorta di piccola campana subacquea, piú o meno ancorata al fondo, nella quale, a brevi intervalli, il sub andava a rifornirsi d’aria. Per la sua indubbia efficienza, la facilità d’impiego e per la capacità di favorire immersioni prolungate, conobbe rapidamente un’ampia diffusione. 102 a r c h e o

Illustrazione raffigurante un subacqueo che respira attraverso una sorta di boccaglio, dal Bellifortis, trattato redatto dall’ingegnere tedesco Konrad Kyeser. XV sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

V. Campana. Ideatore del primo mezzo sottomarino collettivo sembra essere stato lo stesso Aristotele: alcune sue osservazioni sembrano avvalorare tale ipotesi. Ricordava, infatti, nei suoi Problemata, che una ragazza immergeva per gioco una clessidra di bronzo nell’acqua, superando la resistenza all’affondamento. La clessidra in questione non era ovviamente quella a sabbia – comparsa solo in epoca medievale –, ma quella costituita da un vaso tronco-conico, munito di un foro alla base, o di un tubicino, dal quale fuoriusciva con estrema lentezza l’acqua contenutavi, indicando col suo abbassarsi su una apposita graduazione, incisa all’interno della stessa, il tempo trascorso. La giovane, tenendone chiuso con un dito il foro di deflusso, immergeva il vaso con la bocca in basso, spingendolo con la mano verso il fondo del recipiente pieno d’acqua, constatando che però il liquido non entrava al suo interno per la resistenza dell’aria, fin quando, tolto il dito, non la faceva sfogare sibilando. E qui Aristotele si dilunga a spiegarne il perché con queste parole: «La causa di ciò che accade con la clessidra, nel suo insieme, sembra essere quella indicata da Anassagora: l’aria


te zavorrata, che in seguito avrebbe assunto il nome di campana da immersione.

in essa racchiusa impedisce all’acqua di entrare, quando il tubo è chiuso» (Problemata, XVI, 8). Al di là delle astruse, e spesso errate deduzioni, la dinamica di fondo dell’equilibrio isobarico stabilitosi fra acqua e aria all’interno della clessidra durante la sua immersione, quindi del lebete e infine della campana, risulta perciò perfettamente recepita. La precisa spiegazione è alla base della costruzione della campana di Alessandro, la prima del genere, se non cronologicamente, di certo tale per dimensioni, almeno stando a varie fonti. Non stupisce, dunque, che, dopo avere studiato l’impiego del lebete, proprio Aristotele ne abbia immaginato un modello gigante, all’interno del quale non solo la testa di un subacqueo, ma, addirittura, piú persone avrebbero potuto trovare posto prima d’immergersi. Non un vaso quindi, ma una grande tinozza, debitamen-

Un’altra illustrazione dal Bellifortis di Konrad Kyeser raffigurante un subacqueo con uno scafandro da immersione. XV sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

I SOMMOZZATORI ROMANI Per trovare chiara menzione della presenza di sommozzatori anche presso i Romani, bisogna attendere il II secolo d.C., come provano alcune epigrafi riferibili a un corpus urinatorum, una corporazione i cui membri erano tutti provetti nuotatori subacquei, che svolgevano compiti reputati basilari per il funzionamento del porto. Cosí recita la lastra di marmo rinvenuta a Roma presso il portus Tiberinus fatta risalire al 206 d.C., alludendo a una corporazione mista di pescatori e urinatores che operavano lungo l’intero corso urbano del fiume: «A Tito Claudio Severo della tribú Esquilina, littore decuriale, patrono delle corporazioni dei pescatori e degli urinatores, per la terza volta quinquennale della stessa corporazione, per i suoi meriti, perché per primo qui pose due statue, una di Antonino Augusto nostro signore, un’altra con Claudio Ponziano figlio suo cavaliere romano, e in piú donò allo stesso corpo dieci mila sesterzi perché dai loro interessi ogni anno nel giorno del suo natalizio il 16 gennaio siano divise sportule per ciascuno, tanto piú che la navigazione delle imbarcazioni per la sua diligenza è stata acquisita e confermata, per decreto dell’ordine e della corporazione dei pescatori e urinatores di tutto l’alveo del Tevere, ai quali è lecito il diritto di assemblea per senatoconsulto, a sue spese posto» (Corpus Inscriptionum Latinorum,VI 1872, Epigrafe di Ostia] Poco piú tarda è una seconda lapide risalente alla seconda metà dello stesso secolo, che però allude alla sola corporazione degli urinatores, in questi termini: «A Publio Aufidio Forti figlio di Publio della tribú Quirina, per decreto dei decurioni, decurione, duo viro, patrono della corporazione dei misuratori, dei fornitori di grano e dei sommozzatori, questore dell’erario ostiense, prefetto dei carpentieri per quattro volte, patrono delle corporazioni ostiensi dei misuratori, dei fornitori di grano, e degli urinatores, decurione scelto nella regio Ippona d’Africa, la corporazione dei misuratori e dei fornitori di grano, il quinquennale perpetuo [posero]» (Corpus Inscriptionum Latinorum, II, I, 1982-1916). Che gli urinatores non svolgessero solo compiti civili ma fossero spesso impiegati come incursori subacquei in operazioni militari e quale intraprendenza avessero già maturato lo conferma quest’altro brano di appena poa r c h e o 103


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da lunghe e ampie banchine, favorivano le operazioni di carico e scarico navali. Inevitabili le cadute sul fondo di derrate varie e l’intervento degli urinatores per recuperarle.

chi anni prima. Gli urinatores di Bisanzio, nel corso dell’assedio alla loro città condotto da Settimo Severo nel 194 d.C., stando a Cassio Dione: «in que’ tempi d’assai cose singolari oprarono, molti travagli ancora soffrirono mentre per lo spazio di tre anni interi da tutte le flotte del mondo furono assediati. Io poche di quelle cose riferirò, che destano qualche ammirazione. Prendevano essi veramente alcune navi al loro passaggio, che essi con insidie assalivano opportunamente; ma prendevano ancora le triremi nella stazione medesima de’ nemici, le quali ad essi traevano, tagliando le ancore per mezzo di nuotatori mandati sotto le acque, e i chiodi fissi nei fianchi delle navi, ai quali le funi sul lido erano accomodate; cosiché quelle spontaneamente sembravano dirigere verso di essi il coro loro, non agitate da remi, né da vento» (Storia Romana, LXXIV, 12; traduzione di Luigi Bossi, Milano 1823). È però indubbio che l’attività degli urinatores sia stata di gran lunga piú antica, forse risalente all’ultimo periodo della repubblica o, al piú tardi, al primo dell’impero. In entrambi i casi, tra le motivazioni devono ravvisarsi le rivoluzionarie costruzioni portuali realizzate con il calcestruzzo idraulico, come quella avviata da Claudio a partire dal 42 e ultimata da Nerone nel 64 d.C, che, servite 104 a r c h e o

Incisione raffiguante un apparato per la respirazione subacquea, dall’Utriusque Cosmi, maiores scilicet et minores... di Robert Fludd. 1617-1619.

POMPEO FORZA IL BLOCCO Del resto, le prime avvisaglie di questa specializzazione professionale si colgono già in un altro brano di Cassio Dione sulla guerra tra Cesare e Pompeo (49-45 a.C.), quando: «il comandante del posto [Oricum, presso Valona], Marco Acilio, aveva bloccato l’ingresso del porto affondando delle navi caricate con delle pietre e nei pressi dell’imboccatura aveva fatto alzare torri su entrambi i lati, sia sulla terraferma che su navi da carico. Pompeo tuttavia fece rimuovere queste pietre che erano nelle navi dai sommozzatori e una volta alleggerite fece trascinare via, liberando il passaggio, dopo aver sbarcato la fanteria pesante su ognuno dei due frangiflutti entrò nel porto» (Storia Romana XLII, 12; traduzione di Luigi Bossi, Milano 1823). Quanto al loro curioso nome di urinatores, esso derivava dall’arcaica voce verbale latina urinari, dal significato di immergersi, nuotare sott’acqua, tuffarsi, da cui urna per la brocca che, per prelevare l’acqua, vi si immergeva come... un sommozzatore. Plinio tramanda una loro curiosa modalità di operare sott’acqua, che pertanto avalla implicitamente la vasta diffusione dei sommozzatori già intorno alla metà del I secolo d.C. Consisteva nell’immergersi con la bocca piena di olio, che espulso dalle labbra in prossimità del fondale, attenuando il moto vorticoso dell’acqua la rendeva piú trasparente. A suo parere quindi il moto ondoso: «in generale viene placato dall’olio, e per questo i sommozzatori ne spargono con la bocca, infatti mitiga l’aspra natura del mare e ridà luce» (Naturalis Historia, lib. II, 234, 7). Che non si trattasse di una svista del grande naturalista, si può desumerlo dalla conferma che si legge nelle pagine di Aristotele, commentata anche da Plutarco. Venendo a epoche a noi piú vicine, l’espediente di gettare olio sul mare per attenuarne il moto ondoso è stato usato, fino a pochi anni fa, dai pescatori in Calabria, per la cattura dei molluschi. In pratica, nebulizzando una piccola quantità di olio sull’acqua se ne copre una discreta superficie, riuscendo cosí, sia pure per pochi istanti, a vedervi nitidamente al di sotto quando il vento e il sole lo impediscono, esattamente come già facevano gli urinatores romani.


RECUPERI E DIRITTI DI PROPRIETÀ

U

na serie concomitante di considerazioni suggerisce che, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, servendosi di un lebete si potessero attingere profondità dell’ordine dei 10-15 m, piú raramente di 20 e oltre, quote che, pur avendo respirato aria compressa, non richiedevano ancora alcuna decompressione. Prestazioni che trovano conforto in una precisa giurisprudenza relativa ai recuperi dei beni affondati e alla loro remunerazione. Per il diritto romano, infatti, ciò che per forza maggiore veniva gettato in mare, quasi sempre per l’infuriare di una tempesta che metteva a repentaglio la sicurezza della nave, non poteva equipararsi a un vero abbandono, mancando la libera volontarietà della rinuncia alla sua proprietà, per cui non apparteneva

Rilievo marmoreo dell’aruspice Fulvius Salvis raffigurante, sulla destra, una statua di Ercole ripescata dal mare con una rete, dal tempio di Ercole a Ostia. II-I sec. a.C. Ostia, Museo Ostiense.

automaticamente a chi se ne fosse in qualche modo impossessato. Pertanto, quando ciò avveniva, non si determinava alcuna perdita di possesso, e quanto gettato, o caduto, in mare restava pur sempre del suo legittimo proprietario, e la pratica dell’usucapione pro derelicto operata da terze persone restò sempre illegale, come con chiarezza recitava la norma del Digesto: «Alia causa est earum rerum, quae in tempestate maris levandae navis causa eiciuntur: hae enim dominorum permanent, quia non eo animo eiciuntur, quod quis eas habere non vult, sed quo magis cum ipsa nave periculum maris effugiat. Qua de causa si quis eas fluctibus expulsas vel etiam in ipso mari nanctus lucrandi animo abstulerit, furtum committit» («Altra causa è di quelle cose che durante una tempesta

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marina vengono gettate fuori dalla nave; infatti, di queste il possesso permane, poiché non vi era l’intenzione di gettarle, azione non voluta, ma [attuata] per far sfuggire alla nave un piú grave pericolo del mare. Pertanto se qualcuno col proposito di guadagnarci raccoglie queste cose abbandonate dai flutti o anche se ne impadronisce commette un furto»; Digesto 41.1.9.8). Volendo attualizzare, somigliava allo smarrimento di un oggetto, che non per questo diventa proprietà di chi lo trova. La mercanzia gettata in mare per alleggerire la nave durante una tempesta restava, quindi, di piena proprietà del padrone, che non la gettò per abbandonarla, ma per salvarsi, per cui chiunque se ne fosse appropriato con una qualsiasi modalità avrebbe commesso un furto. Con106 a r c h e o

notazione criminale che si estendeva anche al recupero di oggetti gettati a riva dalle onde e perciò di ignota provenienza.

LE DISPOSIZIONI DI ANTONINO Per il diritto romano gli unici a poterne avere la facoltà erano i legittimi proprietari, soltanto ai quali spettava tentare il recupero dei beni naufragati, facoltà ribadita da una legge promulgata da Antonino Pio (138-161) e riportata dal giureconsulto romano del III secolo Ulpiano: «Licere unicuique naufragium suum impune colligere constat: idque imperator Antoninus cum divo patre suo rescripsit» («È lecito unicamente a chi ne era padrone raccogliere da un naufragio ciò che era suo: cosí hanno stabilito l’imperatore Antonino con il divino suo padre»; Digesto 47.9.12). La norma scaturí


A sinistra, sulle due pagine: particolare della decorazione di un sarcofago raffigurante tre navi mercantili che affrontano un mare agitato, a causa del quale un uomo è stato sbalzato in acqua dalla sua barchetta. III sec. d.C. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. A destra: il relitto della nave romana affondata nei pressi del porto di Mandrague (Francia), rinvenuta nel 1967. In basso: rilievo del fondale con la distribuzione del carico.

dall’esigenza di porre fine ai conflitti giuridici determinati da un lato dalla indeterminazione sul possesso dei beni naufragati recuperati e, dall’altro, dal voler tutelare i proprietari da eventuali razziatori di mercanzie, solo in apparenza abbandonate. La Lex Rhodia de iactu (letteralmente, Legge di Rodi sulle merci gettate [dalla nave]) tentò, pertanto, di fissare chiare norme in materia, entrando in questioni di diritto molto sottili, che sembrano confermare la frequenza di tali eventi. In un testo pervenutoci, viene analizzato questo singolare esempio: «Se al fine di alleggerire una nave carica, perché non avrebbe potuto entrare nel fiume o nel porto con il carico, alcune merci sono state trasportate su un battello, perché [il carico stesso] non corresse pericolo, o al di fuori del fiume o nella stessa foce a r c h e o 107


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o nel porto, e quel battello è affondato, il calcolo si mare o trovate sommerse a un cubito, a chi le recudeve fare fra quelli che hanno avuto le merci salve pera spetta la decima parte di ciò che è trovato insulla nave, e quelli, che le hanno perse sul battello, tegro» (Basilio, LIII, Capita Rhodiorum). come se fosse stato fatto il getto. E ciò approva È verosimile che per profondità maggiori, anche Sabino nel libro secondo “Dei Responsi”. forse fino a 25 m, il compenso fosse contratPer contro se il battello con una parte delle merci tato di volta in volta. Intorno alla metà delsi è salvato [e la nave è affondata], non si deve l’VIII secolo quelle norme furono in qualche fare il calcolo di quelli, che hanno perso [le merci] modo riprese sotto Leone III a Bisanzio, risulla nave, perché il getto a mare porta alla ripar- entrando in alcune precise norme per la natizione solo quando la nave si è salvata. Ma Sa- vigazione, i Nomoi Nautixoí. Cosí in merito ai binio, parimenti diede il responso secondo cui, se compensi per i sommozzatori e i palombari una nave durante una tempesta è stata alleggerita in questi termini: «Se dal fondo del mare di otto con il getto di merci di un unico mercante ed [è] tese [15 m circa] vengano tratti oro, argento o affondata in un altro luogo, e le merci di alcuni quant’altro, chi lo recupera abbia la terza parte. Da un fondo di quindici tese [25 mercanti sono state tirate su m circa], chi lo recupera abmediante alcuni urinatores bia la metà per il rischio della dietro corresponsione di una Per le leggi profondità del fondale» (da Il mercede, da parte di questi, di Roma, la nómos Rodíon nautikós [lex che hanno poi salvato le proprie merci grazie agli urina- mercanzia gettata Rhodia], norme marinare: dal paragrafo 47). tores, si deve fare il calcolo [del danno] subito da colui, in mare in caso di Al di là del significato, peraltro abbastanza chiaro, le cui merci durante la navigazione sono state gettate per tempesta restava quel che resta piú interessante è appunto la normaalleggerire la nave. Nè si dedi proprietà tiva sui recuperi subacquei ve, poi, viceversa fare il calcoe sui relativi indennizzi lo [del danno] subito da del padrone, e come accennato, diquelli che hanno salvato in chi se ne fosse che, mostrano la relativa frequesto modo [le proprie quenza sia delle perdite merci] da parte di colui che appropriato che, appunto, dei recuperi. ha effettuato il getto durante In almeno un caso, quello la navigazione, se alcune delavrebbe inerente a una nave romale merci di quest’ultimo sono commesso na affondata nei pressi del state tirate su grazie agli uriporto di Mandrague, sulla natores, infatti non si può un furto costa nord-occidentale di considerare che le loro merci Giens (Francia), scoperta siano state per salvare una nave che è perita» (Callistratus, libro secundo que- nel 1967 su di un fondale compreso fra i 18 e i 20 m, fu possibile stabilire con certezza stionum, Questiones, lib. II, D.14.2.4.1). Appare significativo, pertanto, che una norma l’intervento degli urinatores. Le misurazioni della legge di Rodi in materia di naufragi e effettuate dai sub permisero di accertare che recuperi prescrivesse per il recupero dei pre- la nave era lunga circa 40 m, larga 9 m, con ziosi affondati, quale compenso per gli urina- un’altezza del ponte sulla chiglia di 4,5 m, per tores, una tariffa legata alla profondità degli un tonnellaggio complessivo di 400 t. interventi: dalla riva a 0,5 m di profondità gli spettava la decima parte del valore; fino a 4 m LE ANFORE SU TRE STRATI un terzo; fino a 8 m la metà. Cosí la norma: Le attività archeologiche permisero di ripor«Se ad una profondità di otto cubiti vengano ripe- tare in superficie una buona parte del carico, scati oro, argento, o un qualsiasi altro bene, il recu- 600 anfore circa, disposte in origine su tre peratore ha diritto alla terza parte [del valore]. Se strati, in una stiva lunga una quarantina di [i beni sono recuperati] da un fondo di quindi- metri e larga una decina, uno scafo molto ci cubiti, chi li recupera ha diritto alla metà degli robusto costruito con doppio fasciame e ristessi per il rischio [dato] dalla profondità. Per le vestimento di piombo. L’affondamento avcose invece che sono state restituite in terra dal venne intorno al 70 d.C., mentre trasportava 108 a r c h e o

Anfore romane adagiate su un fondale presso Le Dramont (Francia) indagate da una missione archeologica della DRASM (Direction Regionale de l’archeologie Marseille).


un cospicuo carico di vino. Gli scavi subacquei furono condotti tra il 1976 e il 1982 e accertarono che il relitto era stato oggetto di recupero poco tempo dopo l’affondamento. Le numerose pietre disseminate nelle sue immediate adiacenze, infatti, appartenevano agli urinatores locali, che riuscirono a portare in superficie almeno la metà del carico. Grazie alla regolarità dello stivaggio fu agevole stimare in circa 10 000 anfore simili l’entità del carico originario, del quale però fatte salve le 600 anzidette anfore, non vi era alcuna traccia. La presenza delle pietre nei pressi del relitto, del tipo di quelle usate come zavorra dagli urinatores, e l’osservazione che la flora marina, particolarmente abbon-

dante, era cresciuta dopo la scomparsa di gran parte delle anfore, erano la conferma dell’avvenuto recupero. Potrebbe, se mai, stupire il troppo ricorrente naufragio su fondali molto bassi, ma si deve ricordare che la navigazione, fin quasi al XIX secolo, avveniva soltanto a vista, di capo in capo, o di cabotaggio, non esistendo alcuna possibilità di calcolare con discreta precisione la posizione della nave. Quindi nessuna imbarcazione si allontanava piú di un miglio dalla terra, anche per la costante insidia dei pirati, e vi rientrava sistematicamente sul far della sera, per cui gli affondamenti inevitabilmente si concentravano proprio in questa ristretta fascia, dai fondali alquanto modesti.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

LA REGINA SENZA VOLTO BELLA DOVEVA ESSERLO SENZ’ALTRO. EPPURE L’AVVENENZA DI OLIMPIADE, MADRE D’ALESSANDRO, È TESTIMONIATA SOLO DA RITRATTI IDEALIZZATI

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ella fascinosa e pericolosa Olimpiade non ci sono giunte statue o immagini su altri supporti che la rappresentino secondo canoni aderenti – piú o meno – al vero. Venne giustiziata nella primavera del 316, a 59 anni d’età, e la sua morte fu conseguenza delle lotte tra i diadochi e i parenti di Alessandro Magno: la regina madre combatté senza esclusione di colpi, forte del suo carisma di genitrice del Macedone, per assicurare il regno alla nuora Rossane e al nipotino Alessandro IV, scatenando guerre feroci e dure repressioni, che causarono un gran numero di vittime fra le fazioni in lotta. Infine, si oppose a Cassandro, che aveva sposato la sorellastra di Alessandro, Tessalonica, e, dopo una battaglia a Pidna, Olimpiade fu vinta, processata e uccisa, lasciando il regno di Macedonia al generale vittorioso. Le fonti antiche hanno tramandato varie versioni della sua fine: per alcuni, la regina si sarebbe suicidata; per altri, sarebbe stata strangolata; per altri ancora, uccisa dai parenti delle sue vittime, che non erano poche. Diodoro (XIX, 35-35 e 49-51) e Giustino (XIV, 6), per esempio, raccontano che fu sottoposta a processo per avere ucciso i parenti regnanti Euridice e Filippo Arrideo (vedi «Archeo» n. 423, maggio 2020; anche on line su issuu.com). Unica certezza è che morí con grande dignità, rifiutando

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sdegnosamente le proposte di fuga di Cassandro. Infine, nulla sappiamo della sua sepoltura. Non si conoscono, come detto, veri e propri ritratti della regina, che pure dovette essere raffigurata anche nella statuaria o su altri supporti, basti pensare al Philippeion fatto edificare presso Olimpia da Filippo II, monumento dinastico a tholos con le statue crisoelefantine del re, della moglie Olimpiade e del figlio Alessandro, opera dello scultore Leocare, descritte da Pausania (Periegesi, V, 20, 10).

UN SOLCO PROFONDO

Contorniato in bronzo. IV-V sec. d.C. Londra, The British Museum. Al dritto, Alessandro come Ercole, con la spoglia del leone nemeo (leonté) sul capo; al rovescio, Olimpiade sdraiata mentre nutre un serpente.

Il profilo di Olimpiade compare però su monete e medaglioni e sui contorniati, un’interessante classe di materiali monetiformi in bronzo la cui funzione è ancora discussa. Realizzati a Roma dalla seconda metà del IV secolo d.C. fino alla metà del V secolo, sono contraddistinti da un profondo solco sul bordo, che ne esalta il contorno, non erano monetizzabili, ma venivano usati come doni cerimoniali o ricordi di giochi pubblici. Questi supporti presentano personaggi reali o mitici, alcuni imperatori, fra cui Traiano e Nerone, e, spesso, immagini intere o di profilo di Alessandro Magno e della madre Olimpiade. In particolare, le figurazioni legate al Macedone e ai suoi familiari dovevano assolvere a una funzione apotropaica,


considerate come veri e propri amuleti portafortuna, che proteggevano chi le possedeva. Una duplice valenza positiva poteva forse essere attribuita al contorniato con la testa di Alessandro coperta da una erculea leontea al dritto, mentre al rovescio si ravvisa Olimpiade distesa su un elegante letto tricliniare con cuscino, che accarezza il muso di un serpente, accompagnata dalla legenda Olympias Regina. Il riferimento alla tradizione, coeva ad Alessandro e a lui stesso cara, del concepimento divino di Olimpiade per mezzo di un serpente nel quale Zeus s’era trasformato, insieme alla familiarità della regina macedone con le serpi – animali che avevano una valenza estremamente positiva quali corteggio di varie divinità e legati all’eterno rigenerarsi della natura –, dovevano enfatizzare il valore beneaugurante della scena.

COME UNA DAMA VELATA Altri contorniati romani hanno invece al dritto il profilo velato di Olimpiade, in verità un po’ legnoso, con scettro e, al rovescio, Alessandro o alcune divinità femminili. Questi esemplari prendono ispirazione dalle coeve monetazioni di Macedonia, dai magnifici «medaglioni» d’oro ritrovati a Tarso e nel discusso «tesoro di Abukir» (III secolo d.C.), nel quale spicca lo splendido esemplare con ritratto di Olimpiade al dritto e una Nereide su centauro marino con tridente al rovescio. La regina è ritratta come una elegante dama velata, la cui morbida acconciatura è trattenuta da una fascia a diadema; indossa chitone e himation, che essa solleva con la mano sinistra nel tipico «gesto di Hera», che le donne facevano durante la cerimonia nuziale. L’immagine è idealizzata, ma dato il

Medaglione in oro da Abukir. III sec. d.C. Baltimora, The Walters Art Museum. Al dritto, Olimpiade; al rovescio, nereide su centauro marino. contesto e i tipi degli altri esemplari con Alessandro Magno, vuole senz’altro rievocare Olimpiade. Il rovescio potrebbe essere dedicato a Teti, la ninfa che, sposato Peleo, re di Ftia, generò Achille; Alessandro si considerava per parte di madre

suo discendente, ed è nota la sua ammirazione per Achille, del quale visitò il cenotafio a Troia: «Salito a Ilio fece un sacrificio ad Atena e libagioni agli eroi, poi cosparsosi d’olio con i compagni, nudo, girò attorno di corsa, come si usa, alla stele di Achille, che poi adornò di una corona, dichiarando fortunato quell’eroe che in vita aveva avuto un amico fidato e da morto un eccelso cantore della sua fama» (Plutarco, Alessandro, XV 8). Se cosí fosse, il rapporto dritto/ rovescio del medaglione rappresenta perfettamente e si inserisce appieno nel programma di autoesaltazione messo in atto dal Macedone e dalla madre riguardo la sua discendenza divina ed eroica, programma tanto ben articolato da raggiungere indenne il pieno Medioevo cristiano.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Angela Ciancio e Paola Palmentola (a cura di)

MONTE SANNACE. THURIAE. NUOVE RICERCHE E STUDI Edipuglia, Bari, 700 pp., ill. b/n e col. 80,00 euro ISBN 978-88-7228-893-1 www.edipuglia.it

L’antico insediamento di Monte Sannace, la probabile Thuriae delle fonti letterarie, costituisce oggi il centro in grado, piú di altri, di dare informazioni su come fosse strutturata un’antica città peucezia e su come essa si fosse evoluta sotto l’influsso del modello greco-italiota: uno dei rari esempi di sito archeologico in cui si realizza l’opportunità di far interagire i dati provenienti dall’abitato con quelli della necropoli. In questo volume, attraverso il contributo di professionalità diversificate provenienti da differenti istituzioni, sono presentati i risultati delle indagini sul campo e delle ricerche avvenute negli ultimi due decenni – grazie agli scavi condotti

dalla Soprintendenza competente e dalla Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università degli Studi di Bari –, relativi a piú aree dell’acropoli e insulae abitative della città bassa, nonché studi specifici di carattere topografico e di approfondimento su edilizia e materiale ceramico. Tra gli aspetti che vengono approfonditi, si rilevano soprattutto quelli relativi ai numerosi resti funerari rinvenuti all’interno dell’insediamento, ma anche quelli riguardanti i progetti di ricerca, fruizione e valorizzazione del sito, il rilievo e la ricostruzione virtuale dell’abitato indigeno, lo studio approfondito sul popolamento antico del territorio e l’analisi petrografica e chimica dei materiali ceramici finora recuperati e datati in un periodo compreso tra l’VIII e il VII secolo a.C. Grazie a un impegno condiviso fra istituzioni che qui hanno sempre lavorato integrando forze e competenze diverse è possibile ora offrire un doveroso e atteso quadro aggiornato di uno dei piú importanti e ampiamente indagati centri della Puglia del I millennio a.C. Giampiero Galasso Mauro Fiorentini

ARMAMENTI E TATTICHE MILITARI NELLA BATTAGLIA DEL SENTINO All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 78 pp., 112 a r c h e o

ill. b/n e col. 19,00 euro ISBN 978-88-7814-968-7 www.insegnadelgiglio.it

Nell’ottobre del 1813, Lipsia fu teatro di uno scontro decisivo nell’ambito delle guerre napoleoniche, che, per l’entità e la composizione delle forze in campo, viene ricordato come Battaglia delle Nazioni. Nella letteratura archeologica, ormai da tempo, la medesima denominazione viene però assegnata a un altro evento bellico, non meno cruciale: la battaglia combattuta a Sentino nel 295 a.C., nel quadro della terza guerra sannitica, che vide l’esercito romano e i suoi alleati latini – nonché, forse, piceni – opposti a una lega formata da Etruschi, Galli Senoni, Umbri e Sanniti. La vicenda viene ora ripercorsa da Mauro Fiorentini, il quale, nel solco delle esperienze di archeologo e sperimentatore alle quali si dedica da anni, si sofferma soprattutto sugli aspetti tecnici, e, in particolare, propone una ricostruzione degli equipaggiamenti di cui dovevano essere dotati i vari eserciti coinvolti nella battaglia. Come si legge nelle pagine introduttive, infatti, l’episodio fu narrato con dovizia di particolari da Tito Livio (nel X libro della sua monumentale ab Urbe condita), il quale,

tuttavia, scrisse a tre secoli di distanza dai fatti e dunque non si può essere certi che le indicazioni di carattere tecnico siano del tutto affidabili. Nella prima parte della trattazione, Fiorentini ricostruisce il contesto storico dell’evento e ricorda anche come tuttora permangano dubbi circa la sua reale ubicazione: si tende, in prevalenza, a fissarla nei dintorni di Sassoferrato (Ancona), ma, anche di recente, non sono mancate ipotesi alternative, come quella che ha collocato il fatto d’arme, in Etruria, fra Chiusi e Rapolano. Si entra quindi nel vivo della materia, con i capitoli che descrivono gli armamenti dei soldati impegnati nello scontro – offrendo un costante confronto tra la documentazione archeologica e i riscontri forniti dalle repliche sperimentali – e le tattiche adottate dai vari schieramenti, che si batterono per oltre due giorni. Né mancano


approfondimenti sulle macchine da guerra e su questioni tecniche legate alla produzione degli apparati bellici, ai quali seguono le conclusioni e un’ampia rassegna bibliografica. Stefano Mammini Giuseppe Nocca

GALENO. LE PROPRIETÀ DEGLI ALIMENTI Dal testo greco alla moderna dieta mediterranea edizione integrale con testo greco a fronte e traduzione in italiano, Arbor Sapientiae Editore, 402 pp., ill. b/n e col. 65,00 euro ISBN 978-88-94820-98-0 www.arborsapientiae.com

«Senza il cibo non siamo capaci di vivere, né quando siamo in buona salute né durante la malattia»: quest’affermazione, contenuta nella Premessa, può ben sintetizzare lo spirito che animò Galeno – uno dei grandi medici dell’antichità – nella stesura dell’opera Sulle proprietà degli

alimenti (Peri trophon dynameos), i cui tre libri vengono ora riproposti da Giuseppe Nocca in versione integrale, corredata da un ampio apparato di commenti e approfondimenti. Originario di Pergamo, Galeno fu a lungo attivo a Roma – dove divenne, fra l’altro, medico personale di vari imperatori – e il suo contributo alla storia della scienza medica è stato di assoluta rilevanza. La sua produzione fu vastissima e, fra quella superstite, quest’opera sugli alimenti acquista oggi un interesse particolare: la sempre piú diffusa attenzione per la qualità di ciò che si mangia e per il viaggio che i diversi prodotti compiono per giungere sulle nostre tavole può infatti trovare numerosi riscontri nelle considerazioni dell’archiatra pergameno. Il trattato contiene inoltre un gran numero di notazioni sui trattamenti riservati a specifici cibi non solo per la loro cottura (quando necessaria), ma anche per la loro conservazione, spesso accompagnate da notizie sulle consuetudini dettate dalla stagionalità dei prodotti. La raccolta delle Schede sugli alimenti, che Nocca presenta dopo il testo dell’opera, arricchisce ulteriormente il quadro e, grazie ai costanti riferimenti alla documentazione

archeologica conferma l’importanza del contributo che il Peri trophon dynameos può dare a una piú vasta ricostruzione storica dell’epoca nella quale venne redatto. S. M.

DALL’ESTERO Giovanni Mastronuzzi, Fabrizio Ghio e Valeria Melissano

CARTA ARCHEOLOGICA DI VASTE-TERRITORIO COMUNALE DI POGGIARDO (PUGLIA MERIDIONALE) BAR International Series 2939, BAR Publishing, Oxford, 218 pp, ill. col. e b/n 68,00 GBP ISBN 978-1407-35402-6 www.barpublishing.com

Questo volume, di taglio specialistico, viene da lontano: la sua pubblicazione, infatti, oltre a costituire il coronamento di un’attività di ricerca condotta nell’arco di un trentennio, riprende idealmente il testimone costituito dalla prima carta archeologica del territorio di Vaste – siamo nell’entroterra di Otranto – pubblicata nel 1981. I primi due capitoli sono rispettivamente dedicati alla storia delle ricerche e ai criteri metodologici che hanno guidato la realizzazione della nuova carta e già dal primo, in particolare, è facile cogliere la ricchezza del patrimonio custodito nei confini

dell’area indagata. Una ricchezza che si sostanzia nelle sezioni successive, che riuniscono le schede analitiche dei siti individuati, alle quali fanno da corollario le analisi delle testimonianze numismatiche e di quelle epigrafiche. I dati archeologici restituiti dalle ricerche svolte a Vaste e Poggiardo vengono quindi esaminati in una prospettiva diacronica, che dà conto della lunga frequentazione della zona, protrattasi dall’età del Bronzo (XIII secolo a.C.) fino al Medioevo (VII-XV secolo). Una vicenda, dunque, assai articolata, che si trasforma in caso emblematico delle vicende di cui questo lembo della Puglia fu teatro dalla protostoria fin quasi all’età moderna, passando per la fase messapica e poi per quella romana che ne costiturono altrettanti momenti salienti. S. M.

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presenta

VIVERE DA SIGNORI nell’età di Mezzo Un matrimonio ben combinato poteva risultare determinante per l’affermazione sociale di un individuo ed era addirittura un obbligo fra le classi aristocratiche: comincia cosí il viaggio proposto dal nuovo Dossier di «Medioevo», alla scoperta delle consuetudini, degli interessi culturali e degli svaghi che caratterizzavano le fasce piú elevate della popolazione. Ad accomunare molte delle attività piú apprezzate era il costante richiamo agli ideali della cavalleria, come prova, per esempio, la disputa di giostre e tornei, o la pratica della caccia e della falconeria, delle quali non è difficile cogliere le numerose e significative implicazioni simboliche. In particolare, a dare la misura della considerazione di cui godeva l’allevamento dei rapaci a scopo venatorio, basterà ricordare che esso ebbe il suo piú celebre interprete nell’imperatore Federico II di Svevia, autore di un monumentale trattato sull’argomento, il De arte venandi cum avibus.

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Non meno rilevante fu il mecenatismo di numerosi principi e duchi, che si fecero committenti di grandi opere d’arte, nonché di componimenti letterari e musicali. La vita dei signori, insomma, non si tradusse soltanto nello sfoggio di abiti ricercati o costosi gioielli, ma contribuí in maniera decisiva alla produzione culturale dell’epoca, della quale possiamo ancora oggi ammirare magnifiche testimonianze in tutte le principali città italiane.




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