2020 CANFORA URVINUM HORTENSE
ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI
L’ELLADE ETERNA
COLLEZIONE MINISCALCHI-ERIZZO SPECIALE GERMANICO
Mens. Anno XXXV n. 427 settembre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ELLADE ETERNA
RITORNO A SCUOLA CON GLI ANTICHI
VERONA
NELLA CAMERA DELLE MERAVIGLIE
PARLA LUCIANO CANFORA
URVINUM HORTENSE LA RINASCITA DI UN ANTICO MUNICIPIO
BOLZANO
QUANDO ÖTZI VA IN RETE
SPECIALE
RICORDANDO GERMANICO
www.archeo.it
IN EDICOLA L’ 8 SETTEMBRE 2020
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ARCHEO 427 SETTEMBRE
€ 5,90
EDITORIALE
AI PIEDI DEL SANTO MONTE Dedichiamo questo spazio a una notizia scelta, soprattutto, per le immagini che l’accompagnano. Osserviamole con attenzione, poiché il loro messaggio va ben oltre la mera funzione documentaria. Siamo nella Bassa Galilea, nei pressi della moderna cittadina di Kfar Kama («il villaggio dei tartufi»). Da un terreno incolto, destinato ad accogliere un parco giochi, emerge evidente la «pianta» di una chiesa: la navata centrale e le due laterali, tutte dotate di abside, un’ampia corte, il nartece. Indagato dagli archeologi della Soprintendenza alle Antichità di Israele e del Collegio Universitario Kinneret, l’edificio risale al VI secolo. Oltre ai resti delle mura, gli scavi hanno portato alla luce mosaici policromi e un piccolo reliquiario in pietra. Una chiesa, dunque, forse parte di un monastero, ma non solo. Nella foto si nota l’inconfondibile sagoma di un’altura il cui nome è conosciuto a tutta la cristianità: è quella del Tabor, il monte che si innalza a 588 m sulla piana di Esdrelon, il «santo monte» (2 Pietro 1, 18), luogo della Trasfigurazione di Gesú e quello in cui apparve ai suoi discepoli dopo la Resurrezione (Matteo, 28,16). Cosí, l’immagine ottenuta grazie a uno strumento modernissimo (l’onnipresente drone) abbraccia secoli di storia, riportandoci indietro di 1300 anni, ai tempi della Terra Santa bizantina. Inconfutabilmente contemporanea è, invece, la scena qui accanto: ritrae gli archeologi di Kfar Kama in compagnia dell’arcivescovo greco-cattolico di Akko, Youssef Matta, in visita sul sito. Tutti rigorosamente muniti di «mascherina»… Andreas M. Steiner
SOMMARIO
NOTIZIARIO
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SCOPERTE I restauri in corso nella basilica di S. Maria Assunta di Torcello svelano preziosi affreschi dell’epoca carolingia 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Grazie all’intervento di restauro che li sta interessando, i magnifici Horti Farnesiani torneranno presto a farsi ammirare come mirabile esempio di giardino rinascimentale 8 A TUTTO CAMPO Scoperto dai marinai di Colombo sull’isola di Cuba, il mais si diffuse velocemente in tutto il mondo. Un successo che ha
di Louis Godart
L’INTERVISTA
L’autunno della scuola ...e della democrazia? 30 incontro con Luciano Canfora, a cura di Silvia Camisasca
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CANFORA
€ 5,90
Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
RITORNO A SCUOLA CON GLI ANTICHI Mens. Anno XXXV n. 427 settembre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE GERMANICO
Impaginazione Davide Tesei
COLLEZIONE MINISCALCHI-ERIZZO
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/3 Ellade eterna
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VERONA
NELLA CAMERA DELLE MERAVIGLIE
PARLA LUCIANO CANFORA
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URVINUM HORTENSE LA RINASCITA DI UN ANTICO MUNICIPIO
In copertina Veduta ideale dell’Acropoli e dell’Areopago di Atene, olio su tela di Leo von Klenze. 1846. Monaco di Baviera, Neue Pinakothek.
Presidente
L’ELLADE ETERNA
ELLADE ETERNA
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
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56 ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI
URVINUM HORTENSE
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
di Gian Luca Grassigli
di Umberto Livadiotti
2020
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
La rinascita di Urvinum Hortense 38
La paura, pessima consigliera 26
ARCHEO 427 SETTEMBRE
Anno XXXVI, n. 427 - settembre 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
SCAVI
LA DEMOCRAZIA NEL CUORE
www.archeo.it
Attualità
IN EDICOLA L’ 8 SETTEMBRE 2020
di Andreas M. Steiner
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o. it
Ai piedi del santo monte
avuto importanti effetti non solo sulle diete alimentari, ma anche sugli equilibri sociali ed economici di molti Paesi 12
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EDITORIALE
BOLZANO
QUANDO ÖTZI VA IN RETE
SPECIALE
Federico Curti
Comitato Scientifico Internazionale
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis
RICORDANDO GERMANICO 05/08/20 15:47
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Roberta Alteri è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Marcello Barbanera è professore associato di archeologia classica presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandra Bravi è ricercatrice presso l’Università degli Studi della Tuscia. Elena Calandra è dirigente al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Silvia Camisasca è giornalista. Raffaele Carlani è architetto. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Niccolò Cecconi è dottore di ricerca in storia e civiltà del mondo antico. Enrico Ciafardini è dottore di ricerca in storia e civiltà del mondo antico. Francesco Colotta è giornalista. Edoardo D’Angelo è professore ordinario di filologia e letteratura medievale all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Gian Luca Grassigli è professore ordinario di archeologia classica all’Università degli Studi di Perugia. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Giancarlo Macchi Janica è ricercatore di geografia presso l’Università degli Studi di Siena. Daniele Manacorda è stato professore ordinario di metodologie della ricerca
STORIA
Pescatori per sempre 70 di Carlo Casi
Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Essere Alessandro
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di Francesca Ceci
70 MUSEI
Nella camera delle meraviglie
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SPECIALE
di Cristina Ferrari
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Germanico, Amelia e il bimillenario 92
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archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Marica Mercalli è Direttore Generale per la Sicurezza del Patrimonio Culturale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo. Elena Roscini è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP dell’Umbria. Antonella Pinna è dirigente del Servizio Valorizzazione risorse culturali, Musei, archivi e biblioteche della Regione Umbria. Benedetta Sciaramenti è dottore di ricerca in storia e civiltà del mondo antico. Pablo Varona Rubio è dottore di ricerca in storia e civiltà del mondo antico.
Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 28; AKG Images: copertina (e pp. 60/61) e pp. 26-27, 32-33, 62, 67, 74-77, 92, 108/109; Electa/Sergio Anelli: pp. 30, 31 (alto), 93; Album/Metropolitan Museum of Art, NY: p. 34; Ashmolean Museum, University of Oxford/ Heritage Images: pp. 35, 71 (centro); Erich Lessing/Album: pp. 37, 58, 71 (alto), 73; Fine Art Images/Heritage Images: p. 63; Album/Prisma: p. 65; Zuma Press: pp. 70/71; Album/Oronoz: p. 72; Cortesia Everett Collection: p. 95 – Israel Antiquities Authority: Anya Kleiner: p. 3 (alto); Alex Wiegmann: p. 3 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa Università Ca’ Foscari Venezia: pp. 6-7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14-15, 112-113 – Museo Archeologico dell’Alto Adige, Bolzano: Eurac/Samadelli/Staschitz: pp. 16 (basso); Harald Wisthaler: p. 17 (centro e basso), 18, 19 (basso); Augustin Ochsenreiter: pp. 17 (destra), 19 (alto) – Bridgeman Images: pp. 36, 59 – Shutterstock: pp. 30/31, 64, 68, 106/107 (primo piano), 107 – Elena Fastellini: pp. 38/39, 39, 40/41, 46 (alto), 52/53 – Cortesia Università degli Studi di Perugia: pp. 40 (alto), 41 (alto), 42-45, 46 (centro e basso), 47, 48-51, 52, 53 – Shutterstock: pp. 56/57, 96/97 – Doc. red.: pp. 60, 74, 78/79, 94, 100-101 – Cortesia Fondazione Museo Miniscalchi-Erizzo: p. 89 (alto e centro); Francesco Sorbini: pp. 80-88, 89 (sinistra e basso), 90-91 – Museo Civico Archeologico di Amelia: pp. 98-99, 109 – Cortesia Bimillenario Germanico, Comune di Amelia: pp. 102-104, 110 – Cortesia Fondazione Sorgente Group, Roma: p. 105 – Angelika Leik: pp. 106/107 (sfondo). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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a cura di Daniele Manacorda, con testi di Alessandra Bravi, Marica Mercalli, Elena Roscini, Marcello Barbanera, Raffaele Carlani, Elena Calandra, Edoardo D’Angelo e Antonella Pinna
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCOPERTE Veneto
TORCELLO AL TEMPO DI CARLO MAGNO
C’
è la Vergine Maria con un’ancella e ci sono poi figure di Santi, tutti mirabilmente affrescati tra il IX e il X secolo: è questa la straordinaria sorpresa rivelata dagli interventi di restauro conservativo delle murature e dei mosaici delle absidi della basilica di S. Maria Assunta di Torcello. Conservatesi nelle parti alte delle murature, verso il tetto, le delicate pitture furono stese sulle pareti
prima della decorazione a mosaico, al di sopra delle volte, ma fin dal Medioevo furono coperte da uno strato di macerie e non erano mai stati viste né studiate prima d’ora. La loro scoperta rappresenta un tassello fondamentale per la ricostruzione della storia artistica non solo della chiesa di Torcello, ma di tutto l’Alto Medioevo veneziano e adriatico. Come accennato, sono ora riemersi un toccante pannello
pittorico con storie della Vergine, che comprende la rappresentazione straordinariamente vivida di Maria e insieme a un’ancella, mentre il secondo pannello pittorico, probabilmente relativo a un ciclo parallelo, narra una delle vicende agiografiche di san Martino. Le immagini dei santi sono accompagnate da didascalie dipinte, con caratteri altomedievali e, secondo gli archeologi e gli epigrafisti dell’Università Ca’ Foscari Venezia che hanno collaborato alle attività, affreschi e didascalie permettono di ricostruire l’aspetto decorativo della chiesa prima che venisse ricoperta dai mosaici dell’XI secolo. Il restauro conservativo dei paramenti murari (cosí come già avvenuto per gli interventi sulla facciata principale condotti negli scorsi anni con la rimessa in luce della muratura dell’antico battistero) permette di ridefinire l’intera storia architettonica della chiesa. Grazie a un saggio di scavo eseguito presso l’altare barocco del A sinistra e nella pagina accanto: particolari degli affreschi venuti alla luce nel corso dell’intervento di restauro condotto nella basilica di S. Maria Assunta a Torcello. Le pitture si datano fra il IX e il X sec. In basso, sulle due pagine: la laguna veneta, con Torcello sullo sfondo.
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diaconicon, è stato infatti possibile raccogliere importanti informazioni stratigrafiche sulla cronologia delle fasi edilizie del complesso basilicale. Nello stesso intervento sono stati individuati due eccezionali frammenti scolpiti, pertinenti a una decorazione architettonica databile al IX secolo. La lettura integrata dei dati raccolti durante i restauri, i nuovi affreschi, le analisi sulle murature e le letture archeologiche, sembrano suggerire
che la forma e il volume della chiesa attuale siano da attribuire al IX secolo. In quegli anni, che coincidono con la costruzione a Venezia del Palazzo Ducale e della prima chiesa di S. Marco, a Torcello sarebbe stato (quasi) raddoppiato un antico edificio ecclesiastico del VII secolo, di cui finalmente oggi è possibile comprendere quale sia l’originale catino absidale. Questa nuova grande chiesa inglobava la precedente, aggiungendo un
percorso martiriale e processionale che passava dietro l’altare. Le absidi di tale edificio erano decorate ad affresco, il pavimento a mosaico bianco e nero, ed erano presenti molte sculture (nel ciborio, nei cancelli, nei plutei, nel recinto presbiteriale): sembra leggersi un arredo liturgico di grande valore artistico, che ben si inserisce nella tradizione artistica adriatica di età carolingia. (red.)
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio
NEL GIARDINO DEL CARDINALE ALLA METÀ DEL CINQUECENTO, ALESSANDRO FARNESE, NIPOTE DI PAPA PAOLO III, DECIDE DI NOBILITARE LA SUA GIÀ ILLUSTRE CASATA LEGANDOLA AI FASTI DELLA ROMA ANTICA. E FA REALIZZARE SUL PALATINO GLI HORTI FARNESIANI, UN GIARDINO RINASCIMENTALE DI STRAORDINARIA BELLEZZA
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li Horti Palatini Farnesiorum occuparono dalla metà del XVI secolo il Palatino, colle legato alle origini leggendarie di Roma e sede dei palazzi imperiali. Del grandioso giardino e delle sue costruzioni, si conservano oggi pochi lacerti, che ne suggeriscono appena l’antico splendore. I Farnese scelsero il Palatino per collegare il proprio nome alla tradizione e alla grandezza di Roma. Fu, in particolare, il cardinale Alessandro Farnese (1520-1589), nipote di papa Paolo III, a impegnarsi nell’acquisizione delle cosiddette «vigne», poste tra le pendici del Palatino verso il Foro e la sommità della collina, per avviare la realizzazione degli Horti, articolati in un vasto giardino provvisto di viali, aiuole, alberi, fontane ed edifici ornati da statue, pitture e altre opere d’arte. Gli acquisti proseguirono negli anni seguenti con l’acquisizione, fra le altre, della Villa Palosci e di quella dei Frangipane verso il Velabro. Gli Horti Farnesiani erano strutturati con un complesso di architetture che proponevano l’orientamento legato all’affaccio sul Foro Romano – al tempo Campo Vaccino – e al dialogo con il complesso costituito dalla Basilica
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di Massenzio e dal Tempio della Pace. Il fronte principale, proprio nel lato rivolto al Foro, presentava un prospetto con bastioni ed era provvisto di un muro di cinta, al centro del quale si apriva in origine un portale a edicola, comunemente attribuito al Vignola. La struttura fu demolita durante i grandi scavi post-unitari e il portale, smontato e ricollocato in via di San Gregorio nel 1957, costituisce ancora oggi uno degli accessi monumentali al Parco archeologico del Colosseo.
Varcato il portale, dopo il vestibolo e il Teatro d’ingresso, iniziava la salita alle terrazze superiori, per tre ordini di scale, cordonate e passaggi, assecondando sapientemente l’orografia del colle. Una rampa conduce al Ninfeo della Pioggia, preceduto da un criptoportico con funzione di vestibolo, attualmente in restauro. Si tratta di un grande ambiente rettangolare semi-sotterraneo, provvisto di una fontana inserita in una nicchia dal profilo a cuspide, nello stile rustico cinquecentesco e
Nella pagina accanto: veduta degli Horti Farnesiani, attualmente oggetto di un vasto intervento di restauro. In alto: il Teatro del Fontanone, in una
incisione realizzata da Giovanni Francesco Venturini per un’edizione dell’opera Le Fontane ne’ Palazzi e ne’ Giardini di Roma... 1863.
sul modello degli antichi ninfei. Questa sorta di grotta presenta una decorazione a fresco sulle pareti e sulla volta, ornata con tralci di vite a formare un pergolato e da musici che si affacciano da una balaustra. Sulle pareti sono piedistalli e in alto nicchie per busti e statue. Tramite rampe si saliva alla terrazza sovrapposta al Ninfeo, con un prospetto monumentale dominato dal grande Teatro del Fontanone. Da qui si sale ancora al livello superiore, occupato da due Uccelliere, padiglioni destinati originariamente a voliere e con coperture di foggia vagamente esotica. Esse rappresentano il culmine della composizione e l’elemento di maggiore spicco dei giardini. A caratterizzare gli Horti erano anche le «catene d’acqua», tra cui la Fontana dei Platani e il Ninfeo degli Specchi, attribuito a Pirro Ligorio. Sui resti della Domus Augustana sorgeva invece il Casino del Belvedere, noto come Casina Farnese, una loggia a due ordini,
sovrapposta a un piú basso edificio preesistente, provvisto di un giardino segreto (ovvero privato) racchiuso da un muro. Il piccolo edificio era provvisto di un portico a tre archi con volte riccamente decorate. Le pitture, recentemente restaurate, sono attribuite ad artisti della bottega degli Zuccari, noti pittori rinascimentali, con motivi araldici e soggetti mitologici, fra cui quello di Ercole e Caco.
LUOGO DI DELIZIE Gli Horti Farnesiani costituiscono un’eccezionale testimonianza di giardino rinascimentale, concepito come luogo riservato e segreto, destinato alle cacce, ai banchetti e alle feste, e quindi alla meditazione e all’intrattenimento. Essi ospitarono una ricca collezione di statue antiche, disperse poi nelle grandi regge farnesiane di Parma e soprattutto nei palazzi napoletani (oggi conservate perlopiú al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), e furono sede, per volontà del duca
di Parma Ranuccio, dell’Accademia dell’Arcadia, i cui membri celebravano i giochi olimpici dell’intelletto con un concerto di strumenti musicali. Nel corso del Seicento i Farnese lasciarono le sedi romane e in seguito si estinsero, fondendosi con i Borbone, grazie al matrimonio fra Elisabetta Farnese e Filippo V. I giardini, concessi in enfiteusi, furono progressivamente abbandonati e interessati da ricerche archeologiche. Le Uccelliere, private delle coperture metalliche, divennero invece un ricovero per galline e altri animali da cortile, come documentano gli acquerelli e i disegni di vari artisti. Nel 1861 Napoleone III acquistò gli Horti per condurvi scavi archeologici, segnando la completa distruzione delle coltivazioni. Le Uccelliere, ormai divenute un unico edificio con l’aggiunta di un corpo di fabbrica centrale, ospitarono la sede del Direttore degli Scavi, Pietro Rosa. Nel 1870 il governo italiano entrò in possesso degli Horti e si sostituí a Napoleone III nella ricerca archeologica, affidandola a Rodolfo Lanciani (1876). Nel 1907 Giacomo Boni, al quale era stata affidata la Direzione del Palatino, proseguí gli scavi e introdusse nel giardino essenze esotiche, allestendo il vivaio delle specie classiche, di cui si serví nel restauro e nella sistemazione delle aree e dei monumenti antichi. Boni pose il suo studio privato nelle Uccelliere e proprio nella cornice degli Horti volle essere sepolto. Nel 1960 il Soprintendente Pietro Romanelli demolí il corpo centrale e restituí la volumetria originaria dei padiglioni gemelli. Queste strutture e il grande piazzale a est di esse sono attualmente oggetto di un intervento di restauro che ne consentirà la valorizzazione e la restituzione al pubblico. Roberta Alteri
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n otiz iario
INCONTRI Paestum
TUTELA E VALORIZZAZIONE: UN IMPEGNO SENZA FRONTIERE
I
l ricco programma della XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum comprende le Assemblee Annuali 2020 dei Soci di ICOMOS (International Council on Monuments and Sites) Italia (21 novembre) e di ICOM (International Council of Museums) Italia (22 novembre). Per l’occasione, ne abbiamo incontrato i Presidenti, Maurizio Di Stefano (ICOMOS) e Adele Maresca Compagna (ICOM). Presidente Di Stefano, quali sono le attività salienti svolte da ICOMOS? «ICOMOS (International Council on Monuments and Sites), organo consultivo dell’UNESCO, si dedica alla conservazione e alla tutela dei monumenti, degli edifici e dei siti del patrimonio culturale, operando attraverso i Comitati Nazionali, che, nel caso dell’Italia, è uno dei Comitati fondatori dell’ente, sin dal 1965. Negli ultimi anni, ICOMOS Italia ha sviluppato la ricerca scientifica dei testi dottrinali, fondando i primi Comitati Scientifici Internazionali, a cui l’Italia continua a offrire contributi innovativi. ICOMOS è l’unica ONG internazionale nel suo genere per la promozione di teoria, metodologia e tecnologia applicata alla conservazione, tutela e valorizzazione dei monumenti, dei siti e dei paesaggi. A Paestum, oltre all’Assemblea, si svolgerà la 1a Conferenza Nazionale dei Comitati Scientifici Italiani». Qual è il ruolo di ICOMOS nel campo specifico dell’archeologia?
10 a r c h e o
«Nell’ambito dei testi dottrinali, ICOMOS ha promulgato le linee guida per la protezione e la gestione del patrimonio archeologico nel 1990, oltre alle Linee guida Salalah per la Gestione dei siti archeologici pubblici nel 2017, in occasione della 19ª Assemblea Generale. I Comitati Scientifici Internazionali di ICOMOS sono tra loro fortemente connessi nei programmi di ricerca teorica e applicata in ambito archeologico, oltre al costante riferimento al Comitato Theophilos (Theory and Philosophy of Conservation and Restoration), che approfondisce i principi guida di tutte le discipline della Conservazione del patrimonio culturale; l’ICAHM (International Scientific Committee on Archaeological Heritage Management) promuove l’istituzione di percorsi formativi per figure professionali esperte in tali settori, attività di ricerca nei due ambiti, pubblicazioni e dibattiti, utilizzando nel migliore dei modi i social network. Quest’anno alla XXIII BMTA per l’ICAHM saranno presenti il Presidente Internazionale, John A. Peterson, la Vicepresidente, Nelly Robles Garcia, il Segretario Generale, Adrian Olivier, e il Segretario Amministrativo, Matthew Whincop». La Borsa dedicherà una sessione a Sebastiano Tusa, alla quale ICOMOS è stata chiamata a partecipare... «Tusa è stato un uomo di straordinario valore culturale, scientifico e soprattutto umano. La sua attività nel campo dell’archeologia subacquea ha rappresentato un contributo scientifico e di conoscenza di assoluto valore. Nel 1996, nell’11ª Assemblea Generale, l’ICOMOS ha ratificato la Carta sulla Tutela e Gestione di Patrimonio Culturale Subacqueo e, attraverso il Comitato ICUCH (Underwater Cultural Heritage), è stato promotore della Convenzione dell’UNESCO sulla protezione del Patrimonio Culturale subacqueo del 2001, che definisce l’ambito di applicazione riferito a qualsiasi traccia di vita umana avente carattere culturale, storico o archeologico che sia stata sott’acqua parzialmente o completamente, periodicamente o continuativamente, per almeno 100 anni. Tusa è stato tra i principali artefici, ma anche di azioni internazionali soprattutto nel Mediterraneo, tra cui, nel 2018, di una ricerca dedicata all’Hidden Cultural Heritage: protection, valorization and management, proposta insieme a CICOP (Centro Internazionale per la Conservazione del Patrimonio Architettonico). ICOMOS Italia ha elaborato il progetto I-ATOM, Innovation’s Antiquity TOday in Mediterranean, finalizzato proprio
alla realizzazione di un itinerario dei siti archeologici del Mediterraneo, in linea con la strategia Europa 2020 per la crescita e l’occupazione, sia un modo consapevole di viaggiare, vivere e conoscere i luoghi, evitando un turismo consumistico inconsapevole. Il Comitato ICUCH, che ho il piacere di coordinare per l’Italia, è tra i promotori della 1ª Conferenza Mediterranea sul Turismo Archeologico Subacqueo in memoria di Sebastiano Tusa, promossa dalla BMTA». Presidente Maresca Compagna, quali sono il senso e il segnale della presenza di ICOM Italia a Paestum? «Abbiamo accettato con entusiasmo l’invito, perché riteniamo che la Borsa costituisca un’occasione importante di informazione e di scambio sulle potenzialità di sviluppo dei musei e siti archeologici dell’area mediterranea, nonché una sede di dibattito su nuovi strumenti utili per migliorare l’attrattività dei siti e la partecipazione dei cittadini italiani e del mondo alla loro conoscenza e interpretazione».
Sebbene la platea dei musei e dei professionisti museali di ICOM sia molto ampia, ci sembra che negli ultimi anni il Comitato italiano di ICOM abbia dedicato maggiore attenzione ai musei archeologici... «Questo è vero, nel maggio 2017 abbiamo organizzato a Napoli, in collaborazione con il Museo Archeologico e altri musei statali, il Convegno “Musei archeologici e paesaggi culturali”, che riprendeva la riflessione sui rapporti tra musei-territorio-patrimonio diffuso portata avanti dall’Italia nella Conferenza generale di ICOM a Milano nel 2016 e declinava in piú sessioni le problematiche legate alla ricerca, documentazione e gestione dei depositi, alla comunicazione, alle forme di gestione di musei e parchi archeologici, alle professionalità. Nel 2018, a Matera, in una giornata di studi internazionale si è ripreso il tema dei depositi, che non riguarda solo i beni archeologici, ma che assume per essi particolare importanza ed è scaturita una proposta di Risoluzione internazionale che, con il concorso di altri Comitati nazionali e internazionali, è stata poi approvata da ICOM nell’Assemblea generale di Kyoto 2019». Che cosa avete programmato in occasione della BMTA? «Oltre all’Assemblea annuale dei soci, terremo il convegno “Musei e parchi archeologici, nuove prospettive di partenariato pubblico-privato: responsabilità, professionalità, competenze”.Alla luce della crisi nei musei per la pandemia, è opportuno ripensare le collaborazioni tra gli enti pubblici e i privati, che interagiscono a diverso titolo con le istituzioni museali. ICOM Italia discuterà delle numerose esperienze degli ultimi decenni e delle prospettive future (anche in considerazione delle riforme delTerzo settore e del Codice degli appalti)». a r c h e o 11
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Qual è l’impegno internazionale di ICOM per l’archeologia? «L’ICOM (International Council of Museums) è la piú grande organizzazione mondiale dei musei, creata nel secondo dopoguerra per ricostruire non solo le ferite materiali, ma anche le lacerazioni politiche e le disuguaglianze culturali e umane, che purtroppo persistono ancora oggi. Lo testimoniano il suo impegno, al fianco e in collaborazione con l’UNESCO e altre organizzazioni internazionali, per combattere il traffico illecito di beni culturali e la tutela del patrimonio identitario dei popoli, molti dei quali ancora dilaniati da guerre, rivoluzioni interne e distruzioni naturali. Gran parte di questo patrimonio, come ben sappiamo, è di natura etnografica e archeologica. La nostra organizzazione, autonoma rispetto ai governi, rappresenta istituzioni e professionisti museali che lavorano in istituzioni di differente proprietà, organizzazione e tipologia, dall’etnografia alle scienze naturali, dalla storia dell’arte all’archeologia, alla storia. L’attenzione è focalizzata soprattutto su ciò che li accomuna sul piano istituzionale, organizzativo, programmatico, e quindi le visioni generali, le politiche di documentazione, comunicazione, mediazione ed educazione, le relazioni con le autorità di governo, con le istituzioni culturali e gli altri soggetti del territorio, con i pubblici e le comunità. Tuttavia, alcuni Comitati internazionali, tra i quali quello dei Musei di archeologia
e di Storia (ICMAH), favoriscono il confronto museologico fra specialisti delle rispettive materie».
IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
SCOPERTE IN DUE ATTI SI SCAVA SUL CAMPO, MA SI PUÒ SCAVARE ANCHE IN LABORATORIO. COME CONFERMA L’INDAGINE SU UNA DELLE TOMBE RITROVATE DI RECENTE NELLA NECROPOLI DI POGGETTO MENGARELLI
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na nuova struttura funeraria, classificata come Tomba 109, è stata scoperta nello scorso luglio nell’area di Poggetto Mengarelli. Si tratta di una sepoltura del tipo a fossa profonda, rettangolare e con risega, che presentava al suo interno un solo individuo inumato, deposto in posizione supina, di genere femminile, e che può essere datata tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C. Il ricco corredo comprende reperti d’impasto (un’olla con coperchio, due ciotole, una brocchetta, quattro fuseruole), di ceramica etrusco-geometrica (un attingitoio e due kylix ad anse pizzicate), di bronzo (due bracciali di cui uno con tracce di ferro, sei fibule, uno spillone, due anellini), in argento (un vago a botticella e due ferma trecce), in ferro (una fibula e un anellino), in faïence (otto vaghi di collana), in ambra (3 vaghi di collana di cui due quadrati). Sul lato nord-est del sepolcro (in corrispondenza della testa dell’inumata), sono inoltre affiorati una pinzetta in lega di rame e alcuni vaghi in pasta vitrea, molto
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A destra: la Tomba 109 della necropoli di Poggetto Mengarelli in corso di scavo. Fine dell’VIII-inizi del VII sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: la pinzetta in lega di rame e i vaghi in pasta vitrea ancora in situ. Nella pagina accanto, in alto: il pane di terra prelevato dalla tomba, per essere poi sottoposto a microscavo nel laboratorio di restauro del Parco di Vulci, a Montalto di Castro.
degradati: si è perciò deciso di staccare in blocco la porzione di terreno, per effettuarne il microscavo in laboratorio. È stato quindi prelevato un blocco di terra spesso circa 5 cm, lungo 17 e largo 13, contenendolo con un «guscio» realizzato con bende gessate e utilizzando come supporto una lastra metallica semirigida. Il pane di terra è stato poi trasportato nel laboratorio di restauro del Parco, a Montalto di Castro, per il microscavo, del quale sono state documentate fotograficamente e graficamente tutte le fasi.
LA STRATIGRAFIA ROVESCIATA Il pane di terra è stato ribaltato e dunque lo scavo stratigrafico è stato eseguito al contrario, cosicché si è presentato come primo strato quello che in origine era a contatto con il piano della tomba. Nel secondo strato, a quota -2 cm, sono stati individuati i primi
vaghi di collana e alcuni elementi in lega di rame, come una piccola lastrina che avvolgeva l’ago di una fibula ad arco rivestito. Fibula della quale, sotto l’ago, sono stati rinvenuti anche l’arco, con un vago d’ambra ancora inserito e altri due vaghi in ambra non in connessione. I vaghi di collana sono in pasta vitrea di dimensioni, forma e colore differenti e alcuni sono in pessimo stato di conservazione, perché interessati da un evidente fenomeno di disgregazione, con perdita di materiale che può arrivare anche alla completa polverizzazione. Una situazione che ha obbligato a procedere molto lentamente in fase di messa in luce degli elementi, alternando la leggera pulitura dai depositi terrosi con il preconsolidamento. I vaghi sono stati numerati e quelli che vanno da 1 a 11 appaiono in connessione: un dato molto importante per studiarne la sequenza originaria. Gli altri, fino al
26, sono purtroppo distaccati. Da notare che i numeri 17 e 24 si riferiscono a vaghi di ambra di cui sopra e, molto probabilmente, appartengono alla fibula. Durante lo smontaggio, non si sono evidenziate tracce del filo che legava insieme tutti gli elementi, e si attende il restauro per poter effettuare la pulitura e l’osservazione piú accurata dell’interno del foro centrale di ciascun elemento. Nel terzo e ultimo strato, a quota -5 cm, sono emersi gli altri elementi metallici come la pinzetta in lega di rame, frammentata in due parti e un anello sempre in lega di rame del diametro di 2,7 cm. Coordinate dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, in collaborazione con la Fondazione Vulci e con il contributo della Regione Lazio e del Comune di Montalto di Castro, le indagini sono state seguite sul campo da Carlo Regoli e in laboratorio per il microscavo da Teresa Carta, entrambi dello staff scientifico di Fondazione Vulci.
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A TUTTO CAMPO Giancarlo Macchi Janica
UN SUPER-CEREALE DI SUCCESSO DAL MESSICO MERIDIONALE, IL MAIS SI È DIFFUSO DAPPRIMA NELLE AMERICHE E POI IN TUTTO IL MONDO. CON EFFETTI SIGNIFICATIVI SULLA DEMOGRAFIA E SULL’ASSETTO SOCIALE DI PIÚ D’UNA REGIONE
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a «storia» equivale per molti alla formazione di regni, a guerre o a trasformazioni delle istituzioni e può risultare difficile immaginare che a incidere sul corso degli eventi, in maniera significativa, siano stati semi, piante e frutti. Elemento centrale di questo intervento è il «contatto» tra Vecchio e Nuovo Mondo. In particolare, la circumnavigazione dell’Africa e la scoperta dell’America hanno dato vita a processi che hanno influito sulla circolazione delle piante e rimescolato le differenze genetiche fra i continenti. È un fenomeno che lo storico e geografo statunitense
Alfred W. Crosby ha definito nel 1972 «Columbian Exchange», descrivendolo come un processo di interferenze culturali e biologiche avviato dalle scoperte di nuove terre, avvenute a partire dal 1492. Piú che un baratto volontario di risorse offerte dall’ambiente, lo scambio è stato un processo naturale di transizione verso nuovi schemi globali, nel cui ambito alcune specie – come il vaiolo, il cavallo o le patate – hanno trasformato in modo sostanziale i paesaggi antropici del pianeta. Jared M. Diamond, biologo e ornitologo, nel saggio Armi, acciaio A sinistra: le direttrici della diffusione del mais nel continente americano, a partire dalla Depresión del Balsas (Messico meridionale). Nella pagina accanto, in basso: La diffusione del mais nei diversi continenti.
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e malattie (1998), ha messo in evidenza come il Vecchio Mondo abbia donato al resto del pianeta quasi tutti i mammiferi erbivori addomesticabili, cioè ovicaprini, bovini, suini, camelidi e cavalli, a eccezione del lama delle Ande.
MISSIONE A CUBA Il Nuovo Mondo, invece, ha contribuito con un gruppo molto importante di specie vegetali, destinate a cambiare il volto della Terra. Non mi riferisco solo al cacao o al tabacco (originari dell’America centrale), oppure alle banane (provenienti dal Sud-Est asiatico) o al caffè (importato dall’Africa orientale): parliamo invece di quelle piante essenziali per le diete, perché contribuiscono in modo determinante all’apporto energetico. Il caso piú evidente è il mais, sconosciuto agli Europei prima del 1492: alcuni marinai di ritorno da una missione di perlustrazione nell’isola di Cuba riferirono a Cristoforo Colombo, il 5 novembre 1492, di questa «specie di grano dal nome mais». Dalla Depresión de las Balsas nel Messico meridionale, il cereale si era diffuso in gran parte del continente americano e in quasi tutto l’arcipelago dei Caraibi. Si trattava di una specie addomesticata già dal 6000 a.C.
Gli Europei introdussero il mais nel resto del mondo, anche grazie alle sue capacità di adattamento. E proprio la diffusione a livello planetario portò alla conversione di un’ampia porzione del pianeta a nuovi sistemi di nutrizione. Paesi africani come Zambia, Malawi, Lesotho o Kenya hanno superato Messico o Guatemala per percentuale media di calorie provenienti dal mais. Che è oggi la specie vegetale piú ampiamente coltivata, poiché si tratta, a tutti gli effetti, di un super-cereale; oltre a essere naturale fonte di carboidrati, dal mais si estraggono zuccheri, olii commestibili, biocombustibili e altri derivati chimici fondamentali per l’industria. Ciò che qui interessa è mettere in risalto i cambiamenti causati dall’arrivo nel continente africano del cereale mesoamericano, insieme alla manioca (nota altrimenti come yucca); prima dell’arrivo di queste piante, infatti, l’Africa poteva contare su specie vegetali e su fonti piú limitate per la produzione di carboidrati.
L’introduzione di tali colture ha portato a una trasformazione della dieta di molte nazioni dell’Africa equatoriale, causando una significativa crescita demografica. Se si considera come oggi il futuro del pianeta sia largamente determinato dalle dinamiche demografiche dell’Africa, si può capire meglio la portata storica che ha avuto l’arrivo di nuove colture in queste terre.
UN LEGAME PERDUTO Nell’età contemporanea siamo entrati e stiamo attraversando un periodo ancora diverso: con la fine dell’agricoltura di sussistenza, avvenuta in modo differente e discontinuo nei diversi continenti, abbiamo perso il legame ancestrale con le piante, abbiamo dimenticato la loro storia e quella parte di passato che abbiamo percorso insieme. Oggi, nell’era post-industriale, abbiamo perso anche tutto quel patrimonio storico, composto da improvvise adozioni di specie, da viaggi e rimescolamenti di
È tuttora difficile ricostruire il processo di domesticazione del mais. Potrebbe essere derivato dal teosinte, una cui infiorescenza (prima a sinistra) è qui messa a confronto con vari tipi di pannocchie. patrimoni genetici. Si tratta di una perdita identitaria ancora piú significativa nell’era della globalizzazione, dove gli iperluoghi (determinati dalle nuove necessità di aggregazione create dalla crescente concentrazione di persone nelle città) e la compressione spazio-temporale riducono ogni tradizione alla condizione di prodotto e ogni individuo a quella di consumatore. (giancarlo.macchi@unisi.it)
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
ÖTZI ON LINE SONO PASSATI QUASI TRENT’ANNI, MA QUELL’«UOMO VENUTO DAL GHIACCIO» CONTINUA A FAR PARLARE DI SÉ. OGGI, COME CI SPIEGA ANGELIKA FLECKINGER, DIRETTRICE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO DELL’ALTO ADIGE, A BOLZANO, I SUOI SEGRETI SONO LIBERAMENTE ACCESSIBILI IN RETE...
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tzi, l’«Uomo venuto dal ghiaccio», è considerato un reperto unico al mondo per le circostanze straordinarie della sua conservazione: si tratta, infatti, della sola mummia risalente all’età del Rame giunta fino a noi intatta, con tanto di indumenti, calzari, cappello, arco, frecce, ascia, zaino ed equipaggiamento personale completo. Ma è anche una delle testimonianze del passato piú studiate dagli scienziati. Da quando, il 19 settembre 1991, venne scoperta casualmente da una coppia di escursionisti in Alto Adige, al Giogo di Tisa, sulle Alpi Venoste (che sul versante austriaco assumono la donominazione di Ötztaler Alpen, da cui deriva il suo soprannome), è stata analizzata a 360 gradi, come forse pochi reperti al mondo, e oggi rappresenta un prezioso scrigno di conoscenze. Tutto il sapere finora acquisito sull’«Uomo venuto dal ghiaccio» è stato raccolto in un database, reso ora liberamente accessibile sul sito www.iceman.it. Una raccolta dati messa in rete durante il lockdown e che, in poche settimane, ha conquistato migliaia di click, come ci racconta Angelika Fleckinger, direttrice del Museo Archeologico dell’Alto Adige, a Bolzano, dove dal 1998
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– in una cella frigorifera appositamente progettata – è ospitata la mummia di Ötzi... «Abbiamo raccolto in un unico database informazioni, curiosità, bibliografia e ricerche scientifiche sull’“Uomo venuto dal ghiaccio”: basta inserire una parola chiave e il gioco è fatto! Si può scegliere di visualizzare una breve sintesi del tema, oppure informazioni piú approfondite. Ci sono, infatti, due livelli di ricerca: uno dedicato agli specialisti, con studi dettagliati, che raccoglie tutti gli articoli e le
pubblicazioni scientifiche sull’argomento, e un altro dedicato al grande pubblico, con testi piú sintetici e divulgativi. Sono disponibili piú di 5mila termini di ricerca. Abbiamo impiegato ben 15 anni, come Museo Archeologico dell’Alto Adige, per elaborare questo database e farvi confluire l’enorme lavoro prodotto negli ultimi tre decenni, anche quello che si è svolto dietro le quinte». Il database su Ötzi è stato messo on line nelle settimane in cui la
pandemia aveva imposto la quarantena: quale è stata la risposta del pubblico? «Nella settimana successiva alla diffusione on line del database, alla metà di marzo, il sito del Museo Archeolgico dell’Alto Adige ha registrato un numero di accessi pari al doppio del normale. In coincidenza con l’emergenza sanitaria, il database ha permesso di condividere in tempo reale tutto il sapere sull’“Uomo venuto dal ghiaccio”, rispondendo alle esigenze di studio degli scienziati e,
Qui sopra: l’ascia con lama in rame, rinvenuta con il manico originale. In alto: la sopravveste di Ötzi, fatta con pelle di capra e pelle di pecora. Nella pagina accanto, in basso: un ricercatore impegnato nell’esame della mummia di Ötzi.
Tutti i reperti illustrati sono esposti nel Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano. A destra: ricostruzione a grandezza naturale di Ötzi.
al tempo stesso, alla curiosità del grande pubblico rimasto a casa». Per esempio, come risulta dal database, le ultime ricerche hanno evidenziato che Ötzi soffriva di mal di stomaco… «Sí, aveva il mal di pancia. Nel suo intestino abbiamo trovato batteri e parassiti che provocano dolori allo stomaco. Siamo sicuri che ne soffrisse. Nel suo corpo abbiamo inoltre individuato i batteri che provocavano la borelliosi, una malattia trasmessa dalle zecche». Sappiamo anche quale fu il suo ultimo pasto, non è vero? «Sí, e con precisione. L’Istituto di Bolzano ha esaminato il contenuto dello stomaco e dell’intestino della
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PAROLA D’ARCHEOLOGO
mummia, individuando ciò che aveva ingerito negli ultimi giorni di vita: cereali (forse in forma di pane), felce aquilina, altre piante, carne di stambecco e di cervo rosso». Su quali aspetti si concentreranno i prossimi progetti di ricerca sull’«Uomo venuto dal ghiaccio»? «Abbiamo avviato un progetto molto importante: l’analisi di tutte le immagini radiologiche della mummia scattate dal 1991 (anno in cui venne ritrovata) fino a oggi, che verranno elaborate digitalmente e trasferite in un archivio comune. Le radiografie eseguite 20-30 anni fa non hanno la stessa qualità di quelle attuali, ma vogliamo avviare un confronto tra le immagini piú vecchie e le ultime, soprattutto per controllare lo stato di conservazione della mummia. Le ultime metodologie scientifiche permettono di monitorare con maggior precisione la situazione.
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Poiché in tutto il mondo non esistono mummie che siano state oggetto di indagini radiologiche a cadenza altrettanto regolare (radiografie e tomografie computerizzate), questa documentazione a lungo termine fornisce importanti parametri di confronto relativi, in generale, allo stato di conservazione di questo particolare genere di reperti». Tra i futuri progetti del Museo Archeologico dell’Alto Adige, c’è anche quello di spostarsi per trovare una «casa» piú grande per Ötzi. Ci vuole raccontare? «Proprio per le esigenze di conservazione della mummia, stiamo cercando una sede piú grande per il museo. A oggi abbiamo 300mila visitatori l’anno e l’edificio attuale si è rivelato troppo piccolo. Nel nuovo museo metteremo a punto anche nuove tecniche di conservazione della mummia: stiamo elaborando il progetto per la conservazione sia del corpo, che dei reperti organici che compongono il suo equipaggiamento. Sono gli unici reperti del genere in tutto il mondo e risalgono a oltre 5mila anni fa: abbiamo il compito di preservarli per le future generazioni. Per questo abbiamo condotto studi microbiologici sulla superfice della mummia e controllato con apparecchi diagnostici ogni particolare dei reperti, cosí da acquisire le conoscenze necessarie a conservarli al meglio nel futuro». In tutto il mondo non ci sono altre testimonianze archeologiche come Ötzi, rimasto sotto al ghiaccio per oltre 5mila anni, vestito e armato di tutto punto… «Esatto. Incredibilmente, insieme alla mummia si è conservato il set completo dei vestiti. Si può vedere, cosí, l’abbigliamento di un uomo che viveva tra il 3300 e il 3100 a.C. fa in mezzo alle Alpi. Ötzi indossava una sopravveste piuttosto lunga, fatta con strisce di pelliccia di capra
e di pecora cucite tra loro, e “calzoni” o gambali in pelle, lunghi 65 cm e rinforzati con stringhe. Sia la mantella che i gambali rivelano un utilizzo prolungato nel tempo e presentano tracce di sporcizia e riparazioni. L’uomo indossava, inoltre, un cappello di pelliccia d’orso, a forma di calotta, tenuto sotto la gola con lacci in pelle, nonché scarpe con suola e tomaia in pelle di cervo, rese piú calde da un’imbottitura di erba secca. Per le cuciture venivano utilizzati tendini animali, fili d’erba e rafia». Piú antico delle piramidi egiziane e di Stonehenge, l’«Uomo venuto dal ghiaccio» è il risultato di una serie di incredibili coincidenze. Tanto che, oggi, si conserva addirittura la sua «biancheria»… «Ötzi indossava un perizoma, realizzato con sottili strisce di pelle di pecora. L’indumento, che misura 100 x 33 cm, veniva fatto passare tra le gambe e poi stretto in vita con la cintura». Sappiamo anche quali furono le cause della morte di questo antico cacciatore? «Certo, basta inserire la parola “morte” nel database, per ottenere un elenco di tutte le ricerche a oggi disponibili. Come mostrano le radiografie del torace, Ötzi venne ucciso da una freccia, nel corso di un’aggressione da parte di essere umani dello stesso gruppo o di etnie diverse, mentre stava attraversando il Giogo di Tisa, in Val Senales, 5mila anni fa». Ötzi aveva anche uno zaino e un ricco equipaggiamento da caccia, composto da arco, faretra, frecce, coltello, ascia di rame… «L’equipaggiamento di Ötzi è unico al mondo. Per la sua varietà e per l’eccellente stato di conservazione, offre una prospettiva completamente nuova sulla vita nell’età del Rame. Non esistono al mondo altre testimonianze come la sua ascia: lama e manico sono in
Nella pagina accanto: il berretto in pelliccia d’orso che Ötzi indossava quando, attraversando il GIogo di Tisa, fu vittima di un’aggressione e ferito mortalmente da una freccia. A sinistra: la finestra attraverso la quale è possibile vedere la mummia dell’«Uomo venuto dal ghiaccio», per la cui conservazione è stata realizzata un’apposita cella frigorifera. In basso: le scarpe di Ötzi. La mummia aveva ancora al piede la destra, poi rimossa per essere restaurata; della sinistra rimane solo la parte in rete.
condizioni perfette e rivelano nel dettaglio com’era fatta un’arma di questo tipo. La lama trapezoidale, ottenuta per fusione e costituita quasi al 99,7 per cento da rame puro, è incuneata nella forcella con catrame di betulla e legata con strisce di pelle. Il rame non viene dalle Alpi, ma da giacimenti situati nella Toscana meridionale. A partire dal 3000 a.C. circa, alcuni personaggi di rango elevato possedevano un’ascia di rame, che spesso li accompagnava nel corredo funebre. Questo utensile serviva per lavorare il legno e abbattere gli alberi, ma anche come arma di difesa nei combattimenti corpo a corpo». Ötzi era dunque un capo? E perché, quando venne aggredito a morte, in cima a quel ghiacciaio, non sfoderò la sua preziosa ascia? «Sono domande alle quali stiamo ancora cercando di dare una
risposta. Quel che sappiamo è che, con l’ausilio dell’ascia, l’“Uomo venuto dal ghiaccio” stava fabbricando un nuovo arco, che aveva quasi ultimato, con cui avrebbe potuto colpire a morte senza alcuna difficoltà animali e uomini fino a una distanza di 30-50 m. Per trasportare le frecce, si serviva di una faretra in pelliccia di capriolo, che conteneva 12 frecce
non finite e due pronte per l’uso. Ötzi possedeva, poi, un pugnale lungo circa 13 cm, con lama in selce e manico in legno di frassino: si tratta dell’unico pugnale dell’età del Rame giunto integro fino a noi. L’arma era riposta in un fodero lungo 12 cm, realizzato intrecciando cordini di libro di tiglio, con tanto di asola in pelle per agganciarlo alla cintura. Per rifare il filo agli utensili in selce, Ötzi staccava minuscole schegge di pietra (selce del Trentino) con l’ausilio di un apposito utensile, il “ritoccatore”. Questo strumento, simile a una matita (poiché costituito da un ramo di tiglio, con dentro una “mina” nera di corno), è unico: sconosciuto prima del ritrovamento della mummia, ha fornito all’archeologia nuove e preziose informazioni sugli utensili e i metodi di lavorazione nell’età del Rame».
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
L’EROE DEGLI EROI In Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno (vedi «Archeo» n. 424, giugno 2020; anche on line su issuu.com), Matteo Nucci ha messo a confronto due personaggi fondamentali dell’epopea omerica, Achille e Ulisse. Il secondo è stato piú volte protagonista di questa rubrica (l’ultima in «Archeo» n. 421, marzo 2020; anche on line su issuu.com), anche perché sono molti i francobolli che lo raffigurano, al contrario di Achille che ha finora goduto di una minore visibilità filatelica. Cerchiamo allora di rimediare. Esiste un unico francobollo che raffigura il Pelide da solo: è greco, del 1983, e mostra l’eroe cosí come è ritratto su un’anfora attica dei Musei Vaticani (1). Ma la prima assoluta risale al 1959, ancora dalla Grecia: il francobollo raffigura Andromeda tra Ettore, alla sua destra, e Achille alla sua sinistra, in una scena dell’omonima tragedia Andromeda di Euripide (2). Dello stesso anno è un altro valore ellenico, che riproduce l’interno di una kylix attica che mostra l’amorevole gesto di Achille mentre si prende cura delle ferite dell’amico Patroclo (3). Un altro episodio famoso è l’agguato di Achille a Troilo, il leggendario figlio di Priamo ucciso proprio da Achille, ripreso in un francobollo di San Marino del 1975 (4), che riproduce una delle pitture murali della Tomba dei Tori di Tarquinia. Il francobollo greco del 1983 che raffigura Achille e Aiace che giocano ai dadi (5) è stato lasciato per ultimo, perché permette una divagazione sul tema. Nel suo libro, Nucci osserva come le dita dei due eroi non sembrino agitare o lanciare i dadi, ma piuttosto poggiare su pedine da spostare secondo il responso dei dadi. Si può perciò dedurne che Achille e Aiace stiano cimentandosi nel «gioco reale», un passatempo antichissimo, che si è trasformato nel tempo fino a diventare il britannico Backgammon (6-7). L’episodio della restituzione di Briseide ad Achille da parte di Agamennone (per placare l’«ira funesta») è in questo particolare del celebre quadro di Rubens (8). A proposito della vita di Achille, si può citare la città di Lamia (9), in Tessaglia, che prende nome dall’antica Ftia, sede del regno dei Mirmidoni, retto da Peleo e dal figlio Achille. Si può fare anche un cenno alla dea marina madre di Achille, e moglie del re Peleo, la nereide Teti con un francobollo sul quale compare un mosaico con tritoni e nereidi (10). Un ultimo episodio della vita di Achille, che ci riconduce in qualche modo al titolo del libro, è riprodotto nel quadro di Frans Franck il Giovane: Ulisse, con l’inganno, scopre Achille che si era travestito da donna per evitare di partire per Troia (11).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Italia
NAPOLI Thalassa
ROMA Civis, Civitas, Civilitas
Meraviglie sommerse dal Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 31.08.20
Roma antica modello di città Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 18.10.20
Gli Etruschi e il MANN
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21
Aspettando l’Imperatore Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone, 1809-1814 Museo Napoleonico fino al 25.10.20
Colori degli Etruschi Tesori di terracotta alla Centrale Montemartini Centrale Montemartini fino all’01.11.20
ODERZO L’anima delle cose
La Fornarina visita Raffaello, olio su tela di Filippo Bigioli. 1855.
La lezione di Raffaello
Le antichità romane Complesso di Capo di Bove fino al 29.11.20 (dal 18.09.20)
BASSANO DEL GRAPPA Giambattista Piranesi Architetto senza tempo Palazzo Sturm fino al 19.10.2020
BOLOGNA Etruschi
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo FoscoloMuseo Archeologico Eno Bellis fino al 14.02.21
TORINO Lo sguardo dell’antropologo
Connessioni tra egittologia e antropologia Museo Egizio fino al 15.11.20
Francia PARIGI Pompei
Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 29.11.20
Passeggiata immersiva, tesori archeologici, nuove scoperte Grand Palais fino al 27.09.20
CLASSE Tesori ritrovati
Germania
Il banchetto da Bisanzio a Ravenna Museo Classis Ravenna fino al 20.09.20
FORLÍ Ulisse
L’arte il mito Musei San Domenico fino al 31.10.20
MILANO Viaggio oltre le tenebre
Tutankhamon Real Experience Palazzo Reale fino al 18.10.20 (prorogata)
Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 20.12.20 22 a r c h e o
WÜRZBURG Mus-ic-on
Suoni del mondo antico Martin von Wagner Museum fino al 04.10.20
Paesi Bassi LEIDA Tessuti dall’Egitto
Rijksmuseum van Oudheden fino al 27.09.20
I Romani lungo il Reno
Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21
VI AG AG GI RI O G NE EN LP T AS O SA TO
LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
AGRIGENTO 2600 ANNI DI STORIA
Agrigento. Veduta del tempio D, detto di Giunone, ma del quale, in realtà, non si conosce la divinità titolare. Metà del V sec. a.C.
IN EDICOLA
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el 580 a.C., coloni greci giunti dalla madrepatria (o forse dalla piú vicina Gela) fondano una colonia in prossimità della foce dell’Akragas, lungo la costa meridionale della Sicilia, e scelgono di battezzarla con lo stesso nome del fiume. È l’inizio, 2600 anni fa, della storia di una delle piú illustri città dell’antichità, Agrigento, la cui vicenda plurisecolare è ora raccontata dalla nuova Monografia di «Archeo». Grazie alla ricchezza delle risorse offerte dal territorio e alla felice posizione, Akragas prospera e ben presto si dota dei monumenti che, in età moderna, ne hanno fatto quasi un mito. I grandi templi innalzati fra il VI e il V secolo a.C. sono infatti realizzazioni fra le piú insigni mai compiute da mano umana e, dopo essere stati una tappa irrinunciabile del Grand Tour sette-ottocentesco, costituiscono oggi il cuore del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi. Un luogo incantato, che vi invitiamo a conoscere e che conserva evidenti le ragioni che spinsero il poeta Pindaro a dire di Akragas che era «la città piú bella» di tutte: uno spettacolo magnifico di potenza e di monumentalità.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • In nome di Empedocle • INTRODUZIONE • Le età di Agrigento • LA NASCITA DELLA CITTÀ • Magnificamente diversa • STORIA DELLE RICERCHE • Alle origini di un mito • IL GRAND TOUR • La «chiave di tutto» • ALLA SCOPERTA DEL PARCO • Un inno alla bellezza • LE ATTIVITÀ PRODUTTIVE • Una terra generosa • LA PRODUZIONE ARTISTICA • Tutte le stagioni di un’arte sublime
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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart
LA PAURA, PESSIMA CONSIGLIERA IL CONTENZIOSO FRA I RE DI KISH E URUK, DOCUMENTATO DA UN TESTO SUMERICO DI TREMILA ANNI FA, SEMBRA PRECONIZZARE LO SCIAGURATO ACCORDO DI MONACO DI BAVIERA DEL 1938, DESTINATO A INNESCARE LO SCOPPIO DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
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ome ricordava il grande orientalista Samuel Noah Kramer (1897-1990) ne L’histoire commence à Sumer, intorno al 3000 a.C. troviamo un testo (che fa riferimento alla riunione nel paese di Sumer) di un’assemblea che può a buon titolo essere considerata «il primo Parlamento» menzionato nella storia. Nel III millennio a.C. il paese sumerico era suddiviso in varie «città-stato». Fra queste, una
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delle piú importanti era Kish, che, secondo la leggenda aveva ricevuto dal Cielo il dono della «regalità» all’indomani del Diluvio. Un’altra città, Uruk, molto piú a sud, stava espandendosi e cominciava a minacciare la supremazia di Kish. Il re di Kish, di nome Agga, si rese conto del pericolo e minacciò gli abitanti di Uruk: qualora questi non lo avessero riconosciuto come loro
sovrano, sarebbe scoppiata la guerra. Al che, il re di Uruk, Gilgamesh, convocò le due assemblee della città-stato: quella degli Anziani e quella dei cittadini in grado di combattere. L’esistenza di queste due assemblee potrebbe essere paragonata a quelle dei nostri Parlamenti, composti da due Camere: un Senato o Assemblea degli Anziani e una Camera bassa,
formata da tutti i cittadini. Agga mandò ambasciatori a Uruk, latori dell’ultimatum che esigeva la sottomissione di Uruk a Kish. Prima di rispondere, Gilgamesh consultò l’Assemblea degli Anziani, pregandoli con insistenza di non sottomettersi a Kish. I «Senatori» si dichiararono sordi ai consigli del sovrano. Avrebbero preferito la sottomissione a Kish pur di salvare la pace. Nel poema si legge: «Gli inviati di Agga, figlio di Enmebaraggesi lasciarono Kish per recarsi da Gilgamesh a Uruk. Il signor Gilgamesh, davanti all’Assemblea degli Anziani della sua città espose le richieste di Agga e chiese consigli. “Non sottomettiamoci a Kish – disse – colpiamo la città con le nostre armi”. L’Assemblea degli Anziani della sua città rispose a Gilgamesh: “Sottomettiamoci alla città di Kish, non colpiamola con le nostre armi”».
L’ESORTAZIONE DEL RE Preoccupato e per nulla soddisfatto di quel parere, Gilgamesh si recò davanti all’Assemblea degli uomini della Città e implorò quelli in grado di combattere: «Gilgamesh, il signore di Kullab, che compí prodezze eroiche per la dea Inanna, non accettò in cuor suo le parole degli Anziani della sua città. Una seconda volta Gilgamesh, il signore di Kullab, davanti ai combattenti della sua città espose le richieste di Agga e chiese consigli: “Non sottomettetevi alla città di Kish, colpiamola con le nostre armi”. L’Assemblea riunita dei combattenti della sua città rispose a Gilgamesh: “Non sottomettetevi alla città di Kish, colpiamola con le nostre armi”. Allora Gilgamesh, il signore di Kullab, di fronte a questo parere dei combattenti della sua città, si rallegrò nel cuore e la sua anima si illuminò». Leggendo delle discussioni di cui
furono teatro le assemblee di Uruk piú di 5000 anni fa, non posso non ricordare ciò che avvenne a Monaco di Baviera tra il 29 e il 30 settembre del 1938. Si riunirono nella città bavarese Adolf Hitler, Benito Mussolini, i capi dei governi di Francia, Édouard Daladier, e di Gran Bretagna, Neville Chamberlain per discutere delle rivendicazioni tedesche sulla regione dei Monti Sudeti in territorio cecoslovacco, dove viveva In alto: Neville Chamberlain e Adolf Hitler a Berchtesgaden (Germania), 15 settembre 1938. Nella pagina accanto: i resti della città di Kish in una foto del 1932. In basso: statua di Gilgamesh, re di Uruk, che doma un leone stringendolo con il braccio. III mill. a.C.
una maggioranza di popolazione di etnia tedesca. Terrorizzati all’idea di suscitare l’ira del dittatore nazista e del suo alleato fascista italiano e di provocare lo scoppio di una seconda guerra mondiale ad appena vent’anni dalla fine del primo conflitto del genere, Daladier e Chamberlain accettarono di assecondare le rivendicazioni naziste e tradirono il popolo cecoslovacco, i cui rappresentanti non erano stati neanche invitati a partecipare alla conferenza.
PATTI SCELLERATI Mussolini, che godeva ancora di una certa considerazione presso gli Inglesi, spinse fortemente perché si giungesse all’accordo, devastante per la Cecoslovacchia: l’area dei Sudeti sarebbe divenuta tedesca a partire dal 10 ottobre successivo (!). La Cecoslovacchia perdeva oltre 25 000 kmq del proprio territorio e doveva abbandonare una regione ricca di risorse minerarie e di fondamentale importanza strategica, perché vero e proprio avamposto nei confronti della Germania. Né l’accordo teneva in alcun conto un fatto storico incontestabile: nella regione dei Monti Sudeti, popolazioni di matrice tedesca e di matrice ceca avevano convissuto pacificamente per secoli. Il 30 settembre Hitler e Chamberlain firmarono un ulteriore accordo: s’impegnavano solennemente a
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A sinistra: Cecoslovacchia, settembre 1938. Civili lasciano il territorio dei Sudeti minacciato di invasione dalle truppe tedesche. In basso a sinistra: truppe tedesche oltrepassano il confine tra Ebersbach (Germania) e Georgswalde (Cecoslovacchia) occupando il territorio dei Sudeti, in una fotografia del 1° ottobre 1938.
risolvere tramite mezzi pacifici qualsiasi eventuale disputa futura tra Tedeschi e Inglesi! Al loro ritorno in patria, sia in Francia, sia in Inghilterra, Daladier e Chamberlain furono accolti da folle entusiastiche. Il ricordo delle sofferenze subite durante la prima guerra mondiale (1914-1918) era tale che, pur di salvare una pace fragile, i popoli «liberi» erano pronti a qualsiasi compromesso
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con le forze del male. In Inghilterra, alla Camera dei Comuni, il solo Winston Churchill in un discorso storico, apostrofò Neville Chamberlain con queste parole: «You had to choose between war and dishonour. You chose dishonour and you will have war» («Dovevate scegliere tra la guerra e il disonore: Avete scelto il disonore e avrete la guerra»). Churchill aveva capito tutto.
Sappiamo quello che avvenne dopo. Convinto che la Francia e la Gran Bretagna, pur di salvare la pace, avrebbero accettato qualsiasi rivendicazione nazista, Hitler continuò a sfidare l’Europa democratica. Nel marzo del 1939 la Boemia e la Moravia furono dichiarate «protettorato del Reich» e in Slovacchia fu istituito un governo fantoccio agli ordini dei nazisti. Hitler reclamò poi la restituzione della città di Danzica cancellando il trattato del 1919 che aveva separato dal resto della Germania la regione della Prussia orientale. Il 1° settembre 1939 le armate tedesche si lanciarono alla conquista della Polonia. Scoppiava la seconda guerra mondiale, destinata a causare la morte di oltre 60 milioni di esseri umani e a fare dell’Europa un immenso campo di macerie. Se a Monaco, nel 1938, Daladier e Chamberlain avessero avuto lo stesso coraggio di Gilgamesh, che osò opporsi allo strapotere del re di Kish, la storia d’Europa sarebbe stata ben diversa.
L’INTERVISTA • ROMA
In alto: il celebre matematico e filosofo greco Pitagora, particolare della Scuola di Atene, affresco di Raffaello Sanzio. 1509-1511. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura.
L’AUTUNNO DELLA SCUOLA ...E DELLA DEMOCRAZIA?
incontro con Luciano Canfora, a cura di Silvia Camisasca
Filologo, storico, membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto della Enciclopedia italiana, della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, dell’Institute for Classical Tradition di Boston, voce autorevole e nobile della cultura italiana: Luciano Canfora è tra i classicisti italiani piú apprezzati e tradotti al mondo. Ascoltarlo in merito alle sfide che ci attendono, rileggere con lui la contingenza di questa fase, rapportandola all’interno del grande disegno della storia è, soprattutto, un modo per gettare uno sguardo al futuro e rilanciare una visione di piú ampio respiro, traendo lezioni dall’esperienza dell’antichità. La conoscenza enciclopedica della storia, però, non rende Luciano Canfora un erudito arroccato alla nostalgica rievocazione del passato; al contrario, ne fa un intellettuale illuminato, dallo spirito profondamente innovatore, preparato a cogliere le sfide della contemporaneità. Le sue considerazioni, alla vigilia dell’autunno piú difficile e incerto dell’ultimo secolo nella storia della scuola e dell’università italiane, e, probabilmente, il piú difficile per milioni di bambini e giovani di tutto il mondo, non possono che partire dallo spinosissimo capitolo della formazione e dell’educazione, della necessità dell’«alfabetizzazione di massa». 30 a r c h e o
In alto: un altro particolare della Scuola di Atene di Raffaello raffigurante il compasso con cui il matematico greco Euclide insegna geometria agli allievi. 1509-1511. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura.
♦ Professor Canfora, la sospensione delle attività scolastiche in aula e la riduzione dell’insegnamento alla esclusiva modalità digitale incideranno sulla già compromessa qualità dell’offerta formativa? «È inevitabile che accada, e particolarmente grave è il rischio che non si supplisca solo provvisoriamente alla presenza in aula di insegnanti e allievi, ma che si prosegua nella direzione di una progressiva sostituzione delle lezioni da remoto. Sarebbe un colpo irreversibile, una cancrena per il nostro sistema scolastico, perché, quando ci si abitua a lavorare poco e male, è molto difficile invertire la tendenza e risalire la china, seguendo una piú rigorosa disciplina nella metodologia di apprendimento».
trascurato quanto necessario, a cominciare da un’adeguata edilizia scolastica: da qualche tempo, si ricorre all’espressione brutale “classi pollaio”, che ben traduce la condizione fisica di sovraffollamento degli spazi. Una condizione inadeguata, non solo per la necessità di distanziamento sociale, che ora si impone, ma anche per la pratica stessa della didattica. È banale sottolinearlo, ma, aumentando il numero di allievi e assottigliandosi contemporaneamente il corpo docente, la possibilità di costruire relazioni piú profonde è ampiamente ridotta. Un colpo, in questo senso, è stato inferto dalla riforma Gelmini, che prevedeva, tra l’altro, anche l’accorpamento tra due materie importantissime come la storia e la geografia, con la sostanziale scomparsa di quest’ultima».
♦ La perdita di valore e contenuti della scuola affonda probabilmente le radici in un’impostazione ♦ Saper individuare la posizione di una città sul vecchia di alcuni decenni, poi estremizzata dall’emappamondo, collocare un porto, riconoscere mergenza sanitaria... una catena montuosa è fondamentale per la «Certo. Il modello educativo e culturale proposto è comprensione di un conflitto, di alleanze geopofiglio di precise scelte strutturali e strategiche, in cui litiche, di strategie commerciali o, addirittura, ai le voci scuola, formazione, educazione sono margifini di un contenimento epidemico… nali all’interno del bilancio statale. È stato del tutto «Infatti, in quello stesso periodo si attuarono pesantissia r c h e o 31
L’INTERVISTA • ROMA
mi tagli sul comparto scolastico, scegliendo di risparmiare nel settore piú vitale per una società. Ora, si aggiunge un ulteriore fattore di patimento, che è l’insegnamento a distanza: questo mai può sostituire la presenza e l’interazione in aula, senza considerare che si tratta di una modalità che implica un prerequisito fondamentale, ovvero la possibilità e la capacità di reperire strumenti e materiale necessari a partecipare alle lezioni. È evidente che tutto ciò si ripercuote sulle famiglie in maggiore sofferenza, determinando uno svantaggio aggiuntivo. E, d’altra parte, costringe insegnanti, anche qualificati e competenti, a familiarizzarsi con linguaggi e dispositivi per i quali non sono stati formati e che, a questo punto, risulterebbero del tutto inefficaci».
ridotto alla fornitura di manuali e testi. Mi sorprende e preoccupa che, in questo frangente di profonda emergenza, dall’ambiente ministeriale giunga un assordante silenzio. Non sono state dettate linee guida, non si è sentita l’esigenza di indicare una rotta, o almeno una prospettiva, di fornire indicazioni che evitassero la mortificazione di docenti e studenti. Per le conseguenze che tutto ciò reca con sé è un segnale di notevole gravità».
♦ La vera rivoluzione socio-culturale consisterebbe, dunque, nel restituire all’istituzione scolastica quel primato che le spetta? «Rimettere in cima alle priorità del bilancio dello Stato la scuola, significa aumentare gli investimenti nel reclutamento e nella preparazione del personale, nell’e♦ Questo vale anche a livello accademico? dilizia scolastica e nel funzionamento dei dipartimenti «Ancora di piú, perché la formazione universitaria, col- universitari. È pacifico che dal comparto scolastico lo locandosi su di un piano specialistico, si presuppone sia Stato non può attendersi un ritorno economico immecritica; la partecipazione dialogica e seminariale è l’archi- diato, ma, come premessa, potrebbe recuperare ingenti trave dell’insegnamento, che non può essere svilito e fondi sul fronte dell’evasione fiscale. Questo dimostra quanto sia rivoluzionario anteporre la formazione a tutti gli altri capitoli del bilancio: perché significa riforNella pagina accanto: il poeta latino Lucrezio in una mare man mano tutto il resto. Gli esempi in tal senso incisione della seconda metà del Seicento. In basso: ritratto del filosofo greco Epicuro. II sec. d.C. Città non mancano». del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino.
♦ Uno di questi riguarda l’edilizia scolastica a cui ha precedentemente fatto riferimento... «Anche le università soffrono della carenza di strutture adeguate e, anche nei casi in cui, per l’incremento dell’utenza, si è deciso di costruire ex novo, la speculazione edilizia ha svolto il tradizionale ruolo negativo (infierendo quando il committente è lo Stato). La mia proposta, espressa molti anni fa in Senato Accademico, di riadeguare parte del Demanio Militare – rimasto sottoutilizzato dopo l’abrogazione della coscrizione obbligatoria – destinandolo al Ministero dell’Università attraverso un cambio di proprietà (che sarebbe stato comunque interno all’Amministrazione Pubblica!) non ebbe alcun esito, probabilmente per incrostazioni culturali o per incomprensibili retaggi». ♦ Chi potrebbe compiere la rivoluzione gentile che lei auspica? «La domanda è tanto bella quanto utopistica. Una voce che esprima queste istanze, per essere ascoltata, deve partire da organismi politici o da enti corporativi.Tuttavia, il mio principio è che sia meglio parlare che tacere: ritengo che, a medio termine, non sia improduttivo insistere su questo punto. Alla luce della gravissima pagina sanitaria che abbiamo vissuto e che potremmo rivivere, c’è la speranza che si faccia strada la consapevolezza che, intestardendosi sulle politiche del PIL e del punto di spread, si finisce in un vicolo cieco: si decidano a investire massicciamente su salute ed educazione».
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♦ Ha citato l’informazione: quali responsabilità hanno i mezzi di comunicazione? «La macchina informativa tende alla demolizione della coscienza civica e alla costruzione del “consumatore”: infatti, la produzione televisiva tocca il suo apice nella valanga pubblicitaria, ovvero, nella proposizione di modelli in cui tutti sono beati, le case confortevoli, i cibi di prima qualità e tutto funziona meravigliosamente. È propaganda ingannevole tesa a indirizzare al desiderio di consumo e a trasformare il cittadino in consumatore. Perlopiú, di beni inutili. L’assioma è che all’aumento continuo di merci corrisponda un maggior benessere sociale. Nulla di piú falso, perché resta il nodo irrisolto della distribuzione della ricchezza e delle diseguaglianze. Inoltre si alimentano e creano bisogni aberranti». ♦ Disuguaglianze alimentate, in parte, anche dal modello culturale dei cosiddetti media generalisti... «Il notiziario è diventato una sorta di varietà, in cui i protagonisti recitano le notizie, sorvolando a gran velocità su aspetti che andrebbero ben chiariti, accanendosi su particolari di cronaca nera che richiederebbero maggiore delicatezza, annunciando in apertura titoli con sottofondo tambureggiante da incitamento bellico. Mi chiedo a che scopo. Il tutto a uso e consumo dell’industria pubblicitaria e del ben preciso disegno di asservimento del consumatore. La “volontà popolare” allo stato puro non esiste: ogni individuo subisce, ed è il frutto di condizionamenti che, soprattutto in passaggi particolarmente critici, sono molto efficaci, tanto piú se contengono messaggi gretti, grossolani. Si mira a confezionare individui pronti a farsi sedurre da una demagogia semplificatoria. Occorre ricordare che la democrazia non è una struttura stabile, è un prodotto chimico instabile: va alimentata, nutrita e mantenuta viva dalla macchina educativa, colpita la quale, la degenerazione oligarchica è alle porte». ♦ Un’operazione demagogica talvolta erroneamente indicata come populista... «Definire “populisti” taluni aspiranti governanti, ancora protagonisti dell’attualità, è fuorviante e, soprattutto, nobilitante per costoro. Il populismo è un movimento culturale e politico della Russia dell’Ottocento, caratterizzato da un modello di comunità agricola molto originale, in cui forte era il valore 34 a r c h e o
della fratellanza e, piú in generale, la componente religiosa. Dunque, nulla a che fare con chi cavalca paure e incertezze collettive, per indicare facili bersagli da colpire nelle fasce piú in sofferenza, come gli immigrati, e imputare loro le cause del malessere sociale». ♦ A proposito di formazione, come valuta la presentazione del mondo antico ai nostri giovani? «Del mondo antico tanto si è perso e se ne ha una visione deformata, causata anche dal fatto che sono stati privilegiati alcuni autori rispetto ad altri, in omaggio a un prestabilito “canone”. Non giova la noia con cui tradizionalmente si viene avvicinati a questo mondo, come fosse solo funzionale a sostene-
re gli esami di maturità. Nulla di piú deleterio per una realtà estremamente ricca, varia e dinamica, a cui si devono i pilastri del diritto. In Seneca e Lucrezio, solo per citarne alcuni, troviamo gli incunaboli di uno dei cardini morali, ovvero, il principio dell’unità del genere umano, che possiamo, a ragione, dire essere stata già una scoperta della Sofistica. Analogamente possiamo citare l’idea della divinità immanente in ogni essere umano, da cui dipende l’uguaglianza di tutti gli uomini, alla base dello stoicismo e proseguire con il valore sapienziale di figure quali Epicuro e Lucrezio, esponente originale della scuola epicurea. Un pensatore moderno e innovatore come Leibniz (Gottfried Wilhelm von Leibniz, 1646-1716, n.d.r.) In questa pagina: piccola scultura in terracotta raffigurante un giovane afro-ellenico, forse uno schiavo, accanto a un’anfora. IV sec. a.C. Oxford, Ashmolean Museum.
Nella pagina accanto: stele funeraria di produzione greca raffigurante una giovane donna a cui una serva porge una scatola di gioielli. 400-390 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
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L’INTERVISTA • ROMA
In alto: placchetta raffigurante operai al lavoro in una cava d’argilla. 575-550 a.C. Berlino, Pergamon Museum. Nella pagina accanto: particolare del sarcofago romano detto «Grande Ludovisi», con scena di battaglia tra Romani e barbari. III sec. d.C., Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.
soleva dire di non aver elaborato nulla di originale, ma di aver “letto gli antichi”. Il contributo dell’antichità confluisce abbondantemente anche nella cristianità. È una componente della civiltà contemporanea».
durevole, consiglio il libro ottavo di Tucidide, in particolare quella cinquantina di pagine memorabili dal capitolo 48 al 98, che offrono un racconto analitico di come si suicida una democrazia».
♦ In vista di un autunno incerto, certamente difficile, ci suggerisca qualche autore per approfondire i classici dell’antichità e dei secoli piú recenti... «Le radici del populismo: disuguaglianze e consenso elettorale in Italia di Pier Giorgio Ardeni (Editori Laterza) è un testo di grande attualità e molto ben documentato. Poi suggerirei Il fantasma dei fatti (Guanda) di Bruno Arpaia: un’opera narrativa che ripercorre alcuni misteri del secolo scorso ancora da svelare. Ritornando a pagine della letteratura antica contenenti un insegnamento
♦ A proposito, professore, la democrazia si uccide o si suicida? «Perlopiú, si suicida. Cito solo il caso emblematico dell’ascesa di Hitler al potere in Germania: essa fu favorita, principalmente, da una profonda complicità, da una rete di connivenze. La domanda che Lei mi pone, sui modi in cui una democrazia finisce, mi porta ad affrontare il tema piú generale dello stato di salute degli ordinamenti democratici, non soltanto nel nostro Paese».
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♦ Si può ancora parlare di «democrazie» in senso proprio? «Direi che non si può piú propriamente parlare di “democrazia” ora che, in forme diverse, in quasi tutti i Paesi industrializzati, e che da un paio di secoli sono dotati di meccanismi parlamentari-elettivi, è riapparsa la pratica della schiavitú. Una ricomparsa che sfida le leggi, confidando nell’impunità, e che ha a che fare col fenomeno planetario della grande ondata migratoria (dall’Australia all’Asia, dall’Europa al Nord America). Masse umane di “invisibili” che vivono in condizioni inaccettabili o con salari vergognosi». ♦ Questo inevitabilmente crea una frattura sociale devastante... «Ormai dobbiamo riconoscere due società parallele e potenzialmente conflittuali: i “garantiti” guardano con sospetto e crescente ostilità ai nuovi arrivati (alle cui pesanti mansioni i garantiti mai si piegherebbero). Questo stato di cose costituisce una ferita quasi mortale per la democrazia, la cui sostanza, frutto delle lotte di due secoli, era e resta lo “stato sociale”. Nelle metropoli le classi sociali si diversificano. Si è creata, come nel mondo dell’antica Sparta, una doppia realtà: quella dei privilegiati “Spartiati”, convinti anche di essere razzialmente superiori, e quella degli “Iloti”, senza diritti e sotto ricatto. Negli anni Sessanta del Novecento, lo storico Moses Finley pose – tra i primi – l’accento sulle varie, e tra loro diverse, forme di schiavitú vigenti nel mondo antico (greco in particolare). Dalla schiavitú-merce del mondo gravitante intorno ad Atene alla schiavitú “feudale” di tipo ilotico, alle forme di dipendenza
brutali (pensiamo alle miniere) ovvero “paternalistiche” degli schiavi domestici». ♦ Come si arriva alle odierne forme di schiavitú? «Oggi che le forme di dipendenza sottratte alle garanzie di legge sono tornate a imporsi in molti luoghi del pianeta (anche in alcune aree dei Paesi progrediti), lo studio della stratificazione sociale delle civiltà antiche è di grande attualità ed è andato acquisendo validità ermeneutica per leggere il nostro presente. Ci sono aspetti psicologici e culturali della condizione schiavile, che gli antichi hanno conosciuto e talvolta descritto. E c’è tutta una letteratura antica di critica della schiavitú. E poi c’è il monumento giuridico del diritto romano che “codifica” questo stato di cose, e, però, introduce garanzie che, per esempio, nel “caporalato” oggi dominante, in aree “fuori legge” del mercato del lavoro, sono del tutto assenti». ♦ Questa problematica, che viene dal cuore stesso delle società antiche, ne trascina altre... «Certo. Per esempio, comporta un’altra questione, anch’essa presente di continuo nel pensiero filosofico, storiografico e giuridico del mondo greco, ellenistico, romano e tardo antico: il “diritto naturale”, cioè l’insieme di quelli che noi chiamiamo “diritti non negoziabili”. La corrente di pensiero definita “realistica”, della “realpolitica”, li mette in discussione – oggi come allora – e, nondimeno, si ripropone costantemente la rivendicazione (e definizione) di tali diritti. È uno dei conflitti mai placati delle culture antiche, passati a noi come eredità aporetica, di continuo messa alla prova della realtà effettuale». ♦ Un aspetto specifico di tale «aporia» (se esistano e, se sí, se possano o debbano prevalere i «diritti naturali») è il diritto di grande potenza, in forza del quale l’imperialismo romano giustificò sè stesso, come oggi, forse, l’imperialismo statunitense… «…il mondo antico, però, ci ha lasciato anche la lettera di Mitridate ad Arsace, riportata nelle Historiae di Sallustio, che smaschera le motivazioni (“guerra giusta”) con cui i Romani diedero l’assalto al mondo. Perciò una filosofa francese della prima metà del Novecento, Simone Weil, poté scrivere efficacemente, mentre Hitler scatenava la guerra in Europa, che “i Romani lodavano la loro buona fede con una convinzione contagiosa e mettevano una cura estrema nel dare l’impressione di difendersi e non di attaccare, di rispettare i trattati: salvo quando potevano colpire impunemente e talvolta persino in quei casi”. Simone Weil fondava questa ricostruzione efficace e veridica sulle fonti greche e romane. Basta saperle leggere senza paraocchi e si vede senza sforzo che esse parlano ancora di noi». a r c h e o 37
SCAVI • UMBRIA
LA RINASCITA DI
URVINUM HORTENSE
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ACCANTO AL BORGO MEDIEVALE DI COLLEMANCIO DI CANNARA, NEL CUORE DELL’UMBRIA, SCAVI RECENTI ESPLORANO I RESTI DI UN ANTICO MUNICIPIO ROMANO. POSTO A UNA QUOTA DI 526 METRI DI ALTITUDINE, IN UN CONTESTO PAESAGGISTICO DI GRANDE BELLEZZA, IL SITO DOMINA L’AMPIA DISTESA, UN TEMPO OCCUPATA DALLE PLACIDE ACQUE DI UN LAGO… di Gian Luca Grassigli
Due immagini del pianoro su cui si estendeva l’abitato di Urvinum Hortense, che esprimono bene la posizione dominante del sito e la bellezza del paesaggio.
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on fosse per il boschetto cresciuto selvaggio in questi ultimi anni, non servirebbe alcuna spiegazione per capire il senso dell’abitato di Urvinum Hortense: a nord-ovest lo sguardo correrebbe libero fino alla congiunzione della Valle Umbra con la lenta ansa del Tevere, mentre dalla parte opposta può ancora seguire il solco della vallata dalle pendici morbide verso
Spoleto, poggiando lo sguardo sulle città di Assisium (Assisi) e Hispellum (Spello), adagiate piú in basso sul versante opposto. Basta un poco di fantasia per immaginare verso est la distesa delle acque placide, certo piú limpide di quel che non sarebbero oggi, del Lacus Umber, solcato magari da qualche imbarcazione, che attraversa la valle o che s’allontana in direzione dell’Urbe. a r c h e o 39
SCAVI • UMBRIA
La vista non è piú la stessa: però colpisce il senso di dominio che si gode dalla cima e la bellezza ancora intatta nelle parti piú interne e nella natura addomesticata dalle morbide distese di uliveti e vitigni o, piú in alto, nelle silenziose porzioni di pascolo. In questo la percezione del paesaggio non pare troppo cambiata. Gli antichi abitanti di Urvinum Hortense, un centro occupato dal III secolo a.C., divenuto florido municipium verosimilmente durante il I
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secolo a.C., dominavano l’intera zona e di questo – possiamo immaginare – andavano fieri. Avevano potuto scegliere la cima del colle piú alto, e non la mezza costa o le vette inferiori come altre città della
valle, per la ricca presenza d’acqua, una falda che dobbiamo pensare alta e potente, come mostrano i numerosi pozzi, una grande doppia cisterna nei pressi della cosiddetta acropoli e un fitto sistema di cana-
I primi scavi Nel 1932 e nel 1938 si svolsero a Urvinum Hortense due prime campagne di scavo dirette da Giovanni Canelli Bizzozzero. Nella foto a sinistra, i resti dell’antica Pieve e, qui sotto, il grande Tempio e la Pieve, separati dalla strada lastricata di età romana.
Cartina che mostra la dislocazione delle città romane lungo la Valle Umbra e la presunta area del Lacus Umber.
lizzazioni sotterranee di cui l’archeologia, con gli imponenti segni rinvenuti finora, ci suggerisce la diffusione. Quella stessa acqua che, per questioni che possiamo solo supporre, decretò anche, secoli piú tardi, la fine dell’abitato.
Il sito fu interessato da alcuni scavi per iniziativa dell’abate Di Costanzo in anni a cavaliere tra il XVIII e il XIX secolo, soprattutto al fine di trovare la conferma epigrafica all’ipotesi che nell’abitato si potesse riconoscere quell’Urvinum Hortense
citato da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (III 114). Solo alcuni decenni piú tardi lo storico e archeologo tedesco Heinrich Nissen individuò un’iscrizione, oggi nota da un disegno, che accertava la denominazione del sito. Era il
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SCAVI • UMBRIA
LA STRADA Sul punto sommitale dell’area de La Pieve è stata rinvenuta una via lastricata, che corre lungo il lato occidentale del tempio e prosegue poi in direzione nord per almeno 75 m. Con molta probabilità, la strada individuata costituisce il cardo maximus del municipio romano, asse viario principale che dall’area pubblica doveva condurre sino al pianoro che ospita il complesso termale, per poi continuare fino all’uscita dalla città. La via è larga
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le due aree che ancora oggi costituiscono il fulcro visitabile del sito, vale a dire la zona dell’acropoli con il tempio romano e la pieve altomedievale, nonché l’area cosiddetta delle terme. Peraltro il Bizzozzero documentò tali lavori con uno scrupolo e una cura insolita per l’epoca, offrendo una mole di informazioni ancora utilissime. A sinistra: archeologi al lavoro sugli edifici ai lati della via lastricata. Sulla sinistra ci si dedica allo scavo della fontana, sulla destra a quello della necropoli altomedievale.
4 m circa ed è caratterizzata da una pavimentazione in lastre di arenaria locale, messe in opera in modo da formare un disegno «a spina di pesce». L’andamento convesso della superficie stradale favoriva il deflusso delle acque piovane, che in questo modo non ristagnavano sulla sede stradale. La costruzione dell’asse viario si inserisce nel programma di monumentalizzazione della città, realizzato a partire dall’età augustea, dopo che Urvinum Hortense era stata elevata al rango di municipium. Enrico Ciafardini
1864: Urvinum Hortense cominciava una sua nuova vita. Nel 1931 nacque a Cannara (Perugia), il comune nel cui territorio si trova l’antico centro, un Comitato per la difesa dei monumenti e del paesaggio, su iniziativa in particolare di Giovanni Canelli Bizzozzero. Fu dunque per impulso locale e per il bisogno di fissare nella memoria cittadina il senso di forte identità che deriva dalla conoscenza delle origini, che vennero intraprese le prime due grandi campagne di scavo del sito, svoltesi nel 1932 e nel 1938, sotto l’accurata guida dello stesso Bizzozzero. Gli imponenti lavori portarono alla luce parte del-
UNA MATRONA RICCA E INFLUENTE Risale al 1568 la scoperta della lapide dedicata a Varia Gestiana, una ricca e influente matrona romana vissuta a Urvinum Hortense all’inizio del II secolo d.C., figlia di Lucio Vario Quintiano, un vecchio condottiero temprato dalle guerre in Germania e Dacia, dove serví come ufficiale (tribunus militum), nelle legioni II Adiutrix e nella X Gemina. Anni piú tardi, sebbene, in quanto donna, non avesse accesso alla maggior parte delle cariche pubbliche piú prestigiose, Varia Gestiana divenne un personaggio centrale di Urvinum: l’iscrizione
trovata a Collemancio faceva parte del basamento di un monumento fatto erigere dai suoi concittadini e posto probabilmente nel Foro cittadino. Su di esso, tre statue di marmo o bronzo ritraevano Varia e i suoi due figli. L’iscrizione che la menziona è andata purtroppo perduta, ma è sopravvissuta abbastanza a lungo da essere stata trascritta da eruditi rinascimentali. Questi documenti oggi ci permettono di ricostruire non solo il monumento, ma anche la vita e vicende di questa Urvinate illustre. Pablo Varona Rubio
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SCAVI • UMBRIA
Tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e i primi di questo millennio, l’Università degli Studi di Perugia insieme alla Soprintendenza Archeologica dell’Umbria hanno compiuto una serie di ulteriori campagne, sotto la guida di
Maurizio Matteini Chiari, che hanno ulteriormente ampliato le aree indagate. Si ricorda in particolare lo scavo parziale di una grande domus, prossima all’area pubblica, caratterizzata tra l’altro da una ricca e bella decorazione
IL MISTERO DELLA PIATTAFORMA Alla ricerca di elementi archeologici che accertassero la cronologia del tempio di Urvinum Hortense, nel 2018 è stato effettuato un sondaggio a ovest del medesimo e, sotto uno strato di ciottoli e pietre di media pezzatura, realizzato come preparazione di un piano pavimentale, è stata rinvenuta, a 1,50 m circa di profondità, una piattaforma circolare del diametro di poco piú di 2 m, perfettamente conservata e precisamente iscritta nel perimetro quadrangolare dell’ambiente che vi sorgeva al di sopra. Lo straordinario manufatto fu finemente realizzato giustapponendo lastroni di pietra calcarenitica, tagliati, lisciati e messi in opera, poi collegati da
listelli di cocciopesto, e ulteriormente rifinito da un cordolo rialzato lungo tutta la circonferenza. Lo stato intatto del monumento e l’assenza di canalizzazione escludono che possa trattarsi di una fontana; piuttosto la piattaforma, in fase con la strada che le corre accanto a una quota piú alta, fu costruita per essere immediatamente interrata, vista l’assenza di segni di usura, probabilmente a seguito di un rito di dismissione cultuale, in concomitanza con l’edificazione del nuovo tempio. Una piccola ara spezzata è stata rinvenuta al di sotto del piano pavimentale in evidente relazione con la funzione sacra della piattaforma. Benedetta Sciaramenti
pittorica parietale, la cosiddetta Domus delle Stagioni.
LE NUOVE RICERCHE Dal 2017 grazie all’impulso e al sostegno dell’Amministrazione Comunale di Cannara, il laboratorio di archeologia «Follow the wall!!!» del Dipartimento di Lettere dell’Università di Perugia ha dato inizio a un 44 a r c h e o
Il grande Tempio In alto: i resti del grande Tempio sul lato nord dell’acropoli di Urvinum Hortense. Nei disegni, ricostruzione e pianta del santuario nella sua fase finale, affiancato dalla fontana e dal vano scoperto costruito sulla piattaforma circolare.
nuovo progetto di indagine e valorizzazione del sito, con il sostegno e la concessione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria. Il progetto, che ha goduto di due finanziamenti del MiBACT, finalizzati al restauro del sito, è aperto anche a studenti di altre Università italiane e straniere, e ha l’ambizione di procedere all’indagi-
ne sistematica del sito, organizzata in modo tale da costituire nuclei immediatamente disponibili alla fruizione: in questo modo si possono collegare le esigenze fondamentali della ricerca a quelle altrettanto urgenti della valorizzazione. La strategia dell’intervento ha tenuto come riferimento la grande via lastricata sud-nord, che costituiva
una delle direttrici primarie della viabilità cittadina e che, allo stesso modo, oggi rappresenta l’asse principale di visita del sito. La strada attualmente è nota a partire dal grande pianoro che occupa la cima piú alta nella parte meridionale dell’area urbana, l’acropoli, sul cui lato settentrionale si apre il tempio di età romana, probabilmente il a r c h e o 45
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principale dell’intero abitato. Tenendo conto delle notizie del Di Costanzo, che vide la zona ricchissima di materiali affioranti, dell’affaccio del tempio, nonché di un breve tratto di lastricato portato alla luce nel 2017, possiamo ipotizzare che su tale pianoro si ergesse il Foro. Qui doveva trovarsi anche il basamento con le statue della matrona Varia Gestiana e dei suoi figli, esponenti di una eminente famiglia locale, posto direttamente sulla piazza o forse in un’esedra aperta su di essa (vedi box a p. 43). In particolare, grazie agli scavi sul fianco occidentale dell’edificio sacro, l’unico non interessato dalle attività precedenti, abbiamo potuto fissarne su base archeologica la cronologia, da collocarsi in età primo imperiale. Il
LE PITTURE DELLA DOMUS DELLE STAGIONI Le indagini archeologiche condotte nella zona occidentale del pianoro a ridosso dell’acropoli di Urvinum Hortense hanno permesso di scoprire i resti di una domus terrazzata, affacciata sulla panoramica valle del Sambro e protetta dai venti. Si tratta di una residenza privata estremamente lussuosa, dotata di peristilio e pozzo oltre che di una parte produttiva, collegata da una rampa di scale all’area pubblica della città. Gli ambienti hanno restituito numerosissimi resti dei ricchi decori pittorici che abbellivano le pareti e i soffitti della dimora. In particolare, un frammento raffigurante il busto di una figura femminile con il capo coperto da un himation verde-azzurro e che sorregge un esile rametto vegetale, quasi del tutto svanito. Un recente riesame iconografico ha permesso di individuare in questo lacerto dipinto un frammento di soffitto recante l’effigie della personificazione dell’Inverno. Il busto femminile, compreso in un poligono violaceo, occupava un angolo del decoro del soffitto, mentre nei tre restanti comparivano le allegorie della Primavera, dell’Estate e dell’Autunno. La datazione delle pitture alla tarda età adrianea è confermata dai numerosissimi lacerti di decori architettonici su pareti giallo ocra, che in alcuni casi conservano la cornice in calcestruzzo di attacco al soffitto. Benedetta Sciaramenti
In alto: l’affresco raffigurante la personificazione dell’Inverno, con il capo coperto e un ramoscello nella sinistra.
LE TERRECOTTE ARCHITETTONICHE Tra le decorazioni degli edifici di Urvinum Hortense è attestato l’uso di terrecotte architettoniche. Si tratta di oggetti in ceramica,
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modellati a stampo e decorati con rilievi raffiguranti soggetti eterogenei. Venivano perlopiú applicate sulla trabeazione degli edifici o sugli spioventi dei tetti. A Urvinum sono ben attestati sia esemplari di età ellenistica, verosimilmente appartenenti a un edificio sacro andato distrutto, sia di età proto-imperiale, ascrivibili agli edifici pubblici della città. Il repertorio è molto vasto e annovera
decorazioni geometriche, vegetali, scene di genere e tratte dal repertorio mitico. Sono infatti maggiormente raffigurati fiori, grifoni, gorgoni, nonché personaggi maschili e femminili. Un esemplare frammentario rappresenta un cavaliere con la sua cavalcatura.
ESOTISMO, CHE PASSIONE! Nel Municipio di Urvinum Hortense non mancano testimonianze musive di notevole qualità. In particolare ricordiamo due esemplari di grande importanza. Il primo è un emblema (un piccolo pannello che veniva inserito al centro del pavimento), di prima età imperiale, raffigurante l’amplesso tra un satiro dall’incarnato scuro e una ninfa dalla pelle nivea, da assegnare senza dubbio al cubiculum di una domus. I personaggi sono rappresentati in un paesaggio idillico-sacrale, caratterizzato da un ruscello, da un albero frondoso, da un serpente e dalla statuetta di Priapo, il dio itifallico della fertilità e della passione erotica. Il secondo esemplare è databile agli anni centrali del II secolo d.C. Si tratta del tappeto musivo che rivestiva il frigidarium di un complesso termale, forse parte di una sontuosa dimora aristocratica. Il mosaico si riconnette al tema di grande successo dei paesaggi nilotici, in cui sono raffigurati coccodrilli, ippopotami, serpenti, ibis e gru. Nel dettaglio, raffigura il combattimento tra questi animali e i pigmei, l’immaginaria popolazione di piccoli uomini che abitavano le zone piú remote In alto: il mosaico d’ispirazione nilotica raffigurante un combattimento fra pigmei e animali tipici della regione egiziana. In basso, sulle due pagine: frammenti di terrecotte architettoniche che decoravano i principali edifici pubblici di Urvinum Hortense.
dell’Egitto. Il soggetto intendeva dunque evocare, nello spazio domestico dedicato all’acqua, la dimensione esotica e mitica collegata la Nilo, che tanto affascinava i raffinati uomini del tempo. Niccolò Cecconi
tempio, dunque, dovette sostituirne uno precedente, verosimilmente di dimensioni minori e innalzato con una tecnica edilizia piú povera, di cui del resto offrono testimonianza alcune terrecotte votive databili al II secolo a.C. L’innalzamento del nuovo edificio sacro fu anche un
modo per celebrare lo statuto assunto da Urvinum, divenuto municipium durante il I secolo a.C. Insieme al tempio venne costruita una grande fontana aperta direttamente sulla via, forse utilizzata anche nell’ambito di attività cultuali. Di grande interesse è apparsa l’area
Sono ancora visibili le tracce del colore azzurro e bianco che veniva steso sulla superficie della terracotta. Spesso, infatti, questi prodotti artigianali erano dipinti con pigmenti vivaci e talvolta arricchiti da elementi plastici in metallo. Tale polimaterica composizione avrebbe dunque offerto al tetto dell’edificio un particolare effetto decorativo e coloristico. Niccolò Cecconi
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IL GRANAIO In corrispondenza di un pianoro artificiale realizzato immediatamente a nord-ovest dell’acropoli, è stata portata alla luce una struttura muraria imponente, lunga 100 piedi romani e caratterizzata da un alzato in opera incerta conservatosi per quasi 5 m. A sud del muro sono state rilevate due file parallele di pilastri quadrangolari equidistanti tra loro, a formare tre navate della larghezza di 4,20 m. Della struttura non è stato ancora individuato il muro laterale sul lato meridionale, mentre, per quanto riguarda la pavimentazione, le tracce di combusto rilevate lasciano supporre la posa di assi di legno. In considerazione del rilevante dislivello e della larghezza dell’alzato, è verosimile credere che
scoperta posta subito a nord della fontana. Definita da bassi muretti laterali e da un livello in ciottoli e pietrame, che costituiva la sottofondazione per un piano piú elegante, abbiamo pensato che potesse avere una funzione, per cosí dire, memoriale, segnalata probabilmente da un qualche elemento (iscrizione, altare, ecc.). In effetti, questo vano scoperto corrispondeva esattamente a una piattaforma circolare, dal diametro
l’edificio si sviluppasse su due piani e disponesse di un doppio accesso, con il primo che si apriva direttamente sull’asse stradale e il secondo che dava sulla terrazza inferiore. Per la sua articolazione spaziale, l’edificio è da riconoscere come un granaio pubblico. Questo magazzino veniva dunque utilizzato per accumulare le scorte cerealicole e le altre derrate alimentari del municipio, assicurandone la continuità nella distribuzione. Significativa risulta l’ubicazione del granaio, contiguo alla cisterna e con il cardo cittadino a separare, ma allo stesso tempo unire idealmente, il centro di approvvigionamento idrico e quello alimentare. Enrico Ciafardini
di poco superiore ai 2 m, costruita con grande cura e qualità al di sotto del livello di calpestio: è collocata infatti in uno scasso effettuato nel banco di roccia madre profondo 1,5 m circa. Su tale base circolare poggiava una piccola ara, di cui abbiamo trovato un’ampia porzione. Riteniamo che su di essa si sia celebrato il rito di espiazione che sancí sacralmente la distruzione del tempio piú antico e l’avvio della
costruzione del nuovo edificio sacro. Poi fu coperta per sempre. Ma la sua presenza venne ricordata attraverso il vano scoperto costruito esattamente al di sopra e dagli apprestamenti che esso accoglieva (vedi box a p. 44).
NASCE LA PIEVE La destinazione religiosa dell’area settentrionale dell’acropoli non mutò quando la città romana smise Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione grafica del granaio e della cisterna posta al di là della via lastricata. A sinistra e nella pagina accanto, in basso: giovani archeologi impegnati nel rilievo fotografico e planimetrico.
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di esistere. Sul lato opposto della via, nei pressi del tempio ormai abbandonato e usandone parte dei blocchi, venne infatti innalzata, nel VII secolo d.C., una piccola pieve, che rappresenta l’ultimo tentativo di occupazione del sito. L’aggiunta successiva di un’abside che occupava un’ampia porzione della sede stradale dimostra non solo come fosse ormai decaduta ogni forma di organizzazione urbana, ma anche come la ridotta attività economica non necessitasse piú di un’ampia via lastricata, mentre la direttrice principale si era spostata un poco piú a ovest, dinanzi all’ingresso della chiesetta. Abbiamo potuto scavare le prime tombe collegate alla pieve, tutte orientate est-ovest, allo stesso modo dell’edificio e tutte ugualmente prive di corredo. Tra queste, una, un poco isolata, ha costituito una grande sorpresa. Per la sua costruzione, infatti, vennero usate lastre di reimpiego, rivelatesi poi porzioni di una grande iscrizione, che riveste una rilevante importanza. Databile all’età augustea, oltre al nome di un illustre membro della classe dirigente di Urvinum, P. Octavius, connotato come quattuorviro e pontefice, l’iscrizione attesta che costui finanziò i lavori per la costruzione
del teatro! Si è cosí aperto un nuovo fronte di indagine, ossia la ricerca dell’edificio per spettacoli di cui fino ad allora non si supponeva l’esistenza. Resta da segnalare come nonostante il contesto rurale altomedievale fosse caratterizzato da rarissima pratica scrittoria, la scrittura in sé continuava evidentemente ad avere un alto valore connotante: per questo si sono adoperati frammenti iscritti per la costruzione della tomba di un personaggio eminente e si è scelta tra essi la porzione con il nome di un individuo antico e sconosciuto da usare come segnacolo per la tomba stessa.
l’elevato livello culturale ed economico della élite locale. Uno dei suoi vani presentava un soffitto ornato con i busti delle Stagioni, tra cui si è potuto riconoscere la personificazione dell’Inverno, mentre numerosi altri resti lasciano intravvedere decorazioni parietali che richiamano i modi delle pareti delle domus ostiensi. Alcune di queste pitture sono visibili nel Museo Civico di Cannara, mentre altre sono in corso di studio e di restauro (vedi box a p. 46). Proseguendo lungo la via, ci si trova presto all’altezza di un monumenta(segue a p. 52)
UNA RICCA DIMORA Oltre la necropoli, sempre all’altezza del tempio ma sul lato occidentale della strada, non abbiamo trovato traccia di altri edifici, ma solo la roccia madre, recante segni di cava e caratterizzata da una forte pendenza: la via lastricata marcava dunque il confine dell’acropoli, a ovest della quale il colle scendeva ripido, per cui l’abitato si sviluppava su una terrazza a una quota molto piú bassa. Proprio su tale livello inferiore è stata rinvenuta una grande domus, non ancora completamente portata alla luce, caratterizzata da una ricca decorazione pittorica, che mostra a r c h e o 49
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UN TEATRO SVELATO DAL REIMPIEGO Lo scavo del settore situato immediatamente a nord della chiesa ha portato alla luce la porzione di una piccola area cimiteriale connessa alla pieve di S. Maria. Le sette inumazioni scavate presentano la medesima modalità di deposizione dei defunti, orientati con il capo rivolto a est, con gli arti superiori allungati lungo i fianchi e le mani incrociate sul bacino. Quasi tutte le tombe rinvenute presentano una struttura litica realizzata con materiale di reimpiego; le sepolture sono inoltre segnalate da lastre frammentarie individuate in superficie. Due tombe occupavano un luogo privilegiato all’interno della necropoli: erano infatti poste lungo il perimetrale settentrionale della pieve, sotto le grondaie del tetto da cui cadevano le acque di scolo (substillicidium), che si consideravano purificate dal
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contatto con l’edificio. La sepoltura piú interessante era caratterizzata, nella copertura e nei perimetrali, da lastre in arenaria con lacerti di una iscrizione dedicatoria di epoca In alto: scavo di una delle tombe di epoca altomedievale. A destra: ricostruzione grafica della della pieve di S. Maria.
augustea. L’iscrizione fa riferimento a un personaggio di particolare prestigio della comunità urvinate, P. Octavius, che ebbe il merito di finanziare la costruzione del teatro
cittadino. Al di là della sua importanza specifica, il ritrovamento della dedica ha permesso di acquisire il dato relativo all’esistenza di un theatrum, sebbene non consenta un’attribuzione planimetrica certa dello stesso nello sviluppo topografico del sito romano. Enrico Ciafardini
A destra: la tomba per la cui costruzione venne riutilizzata la lastra con l’iscrizione relativa a P. Octavius. In basso: le varie fasi architettoniche della pieve.
I Fase (VI-VII sec. d.C.)
II-III Fase (VII-IX sec. d.C.)
IV Fase (XI-XII sec. d.C.) V Fase : costruzione annesso (post XII sec. d.C.)
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1. Aula di culto 2. Presbiterio 3. Navata 4. Anticamera 5. Tomba monumentale 6. Tomba 2 7. Tomba 3 8. Tomba 4 9. Tomba 7 10. Ingresso 11. T omba interna (scavo Bizzozzero) 12. Accesso all’aula di culto 13. Scala laterale 14. S cala tra aula di culto e presbiterio
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Dato archeologico Ricostruzione Fonti moderne
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co, sviluppato verosimilmente su due piani: dalla via lastricata si apriva l’accesso al piano superiore, mentre sul lato opposto, sviluppato su una terrazza posta a un livello decisamente inferiore, si accedeva al piano terreno (vedi box alle pp. 48-49).
IL NINFEO Sul lato occidentale della strada che scende dall’acropoli, costeggiando la grande cisterna, è stata intercettata una vasca pavimentata in cementizio a base fittile, alloggiata direttamente sul banco di roccia degradante verso nord. Sfruttando il declivio naturale del terreno, essa doveva essere alimentata dalle acque convogliate dalla grande cisterna cittadina. La terminazione absidata della parete di fondo della vasca suggerisce che qui doveva trovarsi
un ninfeo accessibile dalla strada, caratterizzato da pareti dipinte in azzurro, come provano i lacerti di intonaco conservatisi nell’angolo sud-est. Il ninfeo, tra le strutture acquee piú eleganti dell’architettura ellenisticoromana, doveva costituire una scenografica apertura affacciata sul cardo della città, a testimonianza del fasto monumentale raggiunto dal municipio in età imperiale. Benedetta Sciaramenti In alto: un momento dello scavo del ninfeo. Qui accanto: la ricostruzione grafica del monumento.
le complesso per la raccolta e la distribuzione delle acque, che si sviluppa parallelamente alla strada sul suo lato orientale. Si tratta di un apprestamento fondamentale per la qualità della vita di Urvinum, perché da qui partivano le grandi condutture che dovevano raggiungere ogni parte dell’abitato. Il pianoro sul lato opposto, invece, è 52 a r c h e o
stato al centro di una scoperta importante. Abbiamo portato parzialmente alla luce, infatti, un edificio di 30 m circa di lunghezza (pari a 100 piedi romani), conservato in alzato per quasi 5 m, diviso all’interno in almeno tre navate da imponenti pilastri. Le dimensioni, la planimetria e la tecnica costruttiva lo fanno riconoscere come un granaio pubbli-
AL PASSO CON LE MODE La via lastricata continua verso nord, perdendo di quota e declinando sensibilmente verso occidente. A qualche decina di metri dalla cisterna abbiamo di recente rinvenuto una struttura contenente una vasca, che terminava sul fondo con un’abside semicircolare, in cui ci è parso di poter riconoscere un ninfeo (vedi box in questa pagina). Aperta direttamente sulla strada, era da essa separata tramite un parapetto, di cui si conserva l’alloggiamento. All’interno si sono recuperate ampie porzioni di un intonaco azzurro, una traccia cospicua della decorazione delle pareti. Anche questo è un ulteriore segno della qualità urbana di Urvinum Hortense, una città che, tra la fine del I secolo a.C. e almeno tutto il II secolo d.C., dovette evidentemente godere di notevole prosperità oltre che accogliere una classe dirigente aggiornata sui modi di vita piú in voga. Nell’ampio pianoro a nord-ovest dell’acropoli il Bizzozzero portò alla luce un’ampia porzione di un impianto termale, caratterizzato, tra l’altro, dalla presenza, in uno dei suoi vani, di un grande mosaico a tema nilotico, attualmente esposto nel Museo Civico di Cannara. L’evocazione del mondo fantastico
A sinistra: un’immagine dei vecchi scavi delle «Terme» e la restituzione planimetrica del complesso. Al centro: l’approfondimento dell’indagine archeologica nello stesso settore. In basso, sulle due pagine: veduta dell’abitato attuale di Collemancio dall’area degli scavi.
risalenti almeno al I secolo a.C., un fatto molto importante per la ricostruzione dello sviluppo della città.
rappresentato dall’ambiente esotico e idealizzato della foce del Nilo si sposa bene, con eleganza e giocosità, all’uso edonistico dell’acqua nelle terme. Databile agli anni centrali del II secolo d.C., il mosaico
costituisce ulteriore testimonianza del livello di vita della città e, insieme agli altri ritrovamenti, induce a sperare in ulteriori importanti scoperte (vedi box a p. 47). L’allargamento dell’area di scavo ha mostrato come con ogni verosimiglianza le terme costituissero il quartiere di una ricca domus, di cui stiamo mettendo in luce la planimetria. Inoltre, l’approfondimento dell’indagine a livelli inferiori ci ha consentito di individuare almeno due distinti momenti di occupazione precedente della zona, mettendoci dunque in grado di cominciare a conoscere le fasi dell’insediamento
GLI OBIETTIVI FUTURI Proprio la comprensione dello sviluppo della città nel suo complesso, delle dinamiche sociali e culturali che si sono susseguite, è l’obiettivo primario della nostra ricerca, che ha il privilegio di occuparsi di un centro abitato abbandonato in antico e dunque di un giacimento archeologico di ricchezza potenzialmente inimmaginabile. Si tratta di un lavoro che ha naturalmente bisogno di tempo e di risorse, ma che costituisce un’opportunità di straordinaria rilevanza. Riconsegnare Urvinum Hortense e la conoscenza prodotta al territorio è il senso ultimo del nostro lavoro. Allo stesso modo consideriamo fondamentale proporlo in maniera efficace alla visita di coloro che desiderano immergersi pienamente in uno spazio ancora conformato dall’antico. Questa città, o meglio i suoi resti setacciati dal tempo, che emerge adagio dalla terra è il segno della continuità inesorabile che, al di là di ogni frattura, ci lega a un passato lontano eppure ancora vivo, vibrante: uno specchio prezioso, bello, e un poco deformante, in cui guardare anche noi stessi. a r c h e o 53
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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/2
ELLADE ETERNA
«NON DICO CHE SIAMO DELLO STESSO SANGUE, MA NOI VIVIAMO NEI LORO STESSI LUOGHI, VEDIAMO LE STESSE MONTAGNE TUFFARSI NEL MARE». COSÍ, NEL 1963, RICEVENDO IL PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA, IL POETA GIORGOS SEFERIS ILLUSTRAVA LA STRETTA RELAZIONE FRA I SUOI COMPATRIOTI E I PROTAGONISTI DELL’ETÀ CLASSICA. ANCORA OGGI, I GRECI COLTIVANO UN RAPPORTO MOLTO STRETTO CON IL LORO PASSATO. MA SI TRATTA, IN REALTÀ, DI UN LEGAME DALLE RADICI ASSAI POCO PROFONDE. PIANTATE, PER GIUNTA, DA PERSONAGGI VENUTI DAL NORDEUROPA… di Umberto Livadiotti Sparta. Particolare del monumento in onore di Leonida realizzato nel 1950 grazie a fondi raccolti da Greci emigrati negli Stati Uniti d’America.
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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/3
F
u per ringraziare gli Inglesi, intenti a ricacciare l’esercito napoleonico fuori dall’Egitto, che il sultano Selim III decise di accondiscendere all’insistente richiesta dell’ambasciatore britannico, il lord scozzese Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, di effettuare rilievi e calchi delle rovine dell’Acropoli ateniese. Come l’Egitto, anche la Grecia era allora sotto il dominio ottomano e Atene non era che una piccola e misera cittadina di provincia, i cui monumenti antichi venivano utilizzati come cave per materiale da costruzione. Ottenuta l’autorizzazione formale da parte del sultano, nel luglio 1801 gli uomini di Elgin (forzando il senso della concessione, che permetteva di prelevare «qualche pezzo di pietra con iscrizioni e figure») strapparono dagli edifici dell’Acropoli tutti i pezzi che riuscirono a staccare a picconate. In due anni vennero asportate dal Partenone quattordici metope, settantacinque metri del fregio continuo e diciassette statue frontonali, oltre a una colonna e una cariatide dall’Eretteo e alcuni frammenti del fregio del tempietto di Atena Nike. Qualche anno piú tardi, nel 1811, un altro gruppo di giovani nordeuropei appassionati di antichità, riuniti attorno a Carl Haller von Hallerstein, si recò sull’isola di Egina, dove raccolse e portò via i frammenti delle sculture frontonali del tempio di Aphaia, da tempo cadute a terra; con una spedizione avventurosa alcuni di loro arrivarono a Bassae, località impervia del Peloponneso infestata da banditi, e con il consenso dell’autorità locale asportarono i fregi del tempio di Apollo. Venduti all’asta, sculture e rilievi finirono rispettivamente a Monaco di Baviera (quelli provenienti da Egina) e a Londra (quelli di Bassae),
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dove nel frattempo erano arrivati anche i marmi di Elgin. Simili iniziative suscitarono già all’epoca qualche perplessità.Tuttavia esprimevano il viscerale filellenismo di cui, da ormai un paio di generazioni, erano imbevute le élite nordeuropee. Un filellenismo che non era vago amore per l’antichità, bensí un senso di profonda ammirazione per un periodo preciso della storia antica: l’epoca che già gli antichi percepivano come «classica», in cui Atene e la grecità sembravano avere raggiunto la perfezione in campo artistico, letterario, filosofico. Una stagione che tutte le
In alto: Thomas Bruce, settimo conte di Elgin (1766-1841). Nella pagina accanto: incisione della metà dell’Ottocento raffigurante la sala del British Museum nella quale furono esposti i marmi portati dalla Grecia da lord Elgin e fin da allora al centro di un duro contenzioso.
persone istruite, non solo quelle educate al neoclassicismo ma anche quelle di spiriti «romantici», poeti come Keats o Byron, consideravano all’origine della civiltà occidentale. E proprio in questo atteggiamento di reverenza e gratitudine si può rintracciare, direttamente e indirettamente, l’origine del sentimento nazionalista greco.
I «ROMANI» TORNANO GRECI Fino al tardo Settecento, infatti, all’interno dell’impero ottomano il senso di identità era dettato esclusivamente dall’affiliazione religiosa. Nei territori fra il Danubio e le sponde del Mar Egeo e del Mar Nero, essere greci (o per meglio dire «romani», poiché in questo modo continuavano a qualificarsi gli abitanti dell’ex impero d’Oriente anche dopo esser stati sottomessi dai Turchi nel Quattrocento) significava semplicemente appartenere alla Chiesa ortodossa. L’aggettivo «ellenico» (cioè quello utilizzato dai Greci antichi e da quelli di oggi per definire se stessi) non aveva alcuna connotazione etnica, ma veniva utilizzato sporadicamente soltanto da qualche studioso di antiquaria per indicare i Greci del tempo pagano. D’altra parte, benché la Chiesa ortodossa officiasse ovunque in greco antico, molte comunità cristiane utilizzavano nel quotidiano idiomi diversi, slavi o albanesi. Proprio il «filellenismo» e la devozione classicistica degli occidentali negli anni del tardo illuminismo, della rivoluzione francese e dell’età napoleonica fecero «scoprire» le proprie radici greche a una parte di quel ceto di mercanti e uomini d’affari insediato nelle città occidentali dell’impero ottomano (Costantinopoli, Smirne, Chio, Giannina), sui quali il mondo urbano europeo,
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con il suo stile di vita e le sue passioni, esercitavano un fascino potente. Si trattava di una borghesia abituata a usare il greco come lingua franca e come segno di distinzione sociale, ma che si era, fino ad allora, dimostrata piuttosto insensibile alle suggestioni dell’antica storia ellenica. Stimolata a rivendicare una supremazia giustificabile in termini di eredità storica, la borghesia di lingua greca seppe approfittare del filellenismo diffuso in Occidente. Il prestigio che investiva l’antica civiltà ellenica, infatti, si rifletteva direttamente anche su chi se ne presentava come discendente, come fu evidente all’inizio degli anni Venti dell’Ottocento, quando nei
Balcani cominciarono a divampare una serie di rivolte antiottomane. Erano gli anni della «Restaurazione». Nel resto d’Europa, qualsiasi moto di natura liberale o nazionale veniva stroncato con decisione dalle autorità, ma, nel caso della Grecia, i governi delle grandi potenze, pressati da un’opinione pubblica imbevuta di filellenismo, decisero di appoggiare i ribelli. Un simile atteggiamento, naturalmente funzionale anche all’indebolimento dell’impero ottomano, non fu del tutto gratuito: non a caso, per volontà delle potenze alleate, le istituzioni del nuovo Stato vennero messe nelle mani di un monarca d’origine germanica. Il nuovo re, il giovanissimo Otto, proveniva dalla
In basso: Atene, Acropoli. Fotografia scattata nel 1874 che mostra la Torre Franca, smantellata un anno piú tardi, all’epoca in cui la Grecia privilegiò la tutela e la conservazione dei soli monumenti di epoca classica. Sulle due pagine: Veduta ideale dell’Acropoli e dell’Areopago di
Atene, olio su tela di Leo von Klenze. 1846. Monaco di Baviera, Neue Pinakothek. Il pittore realizzò l’opera basandosi sulle conoscenze del tempo, ma non ambientò la sua ricostruzione all’epoca di Pericle, bensí a quella in cui la città era ormai romanizzata, nel I sec. d.C.
corte bavarese, probabilmente la piú filellena del continente: suo padre era quel Ludwig che aveva acquistato i marmi di Egina e che, a due passi dal Danubio, aveva fatto costruire un colossale monumento alla nazione tedesca, scrupolosamente ispirato al Partenone.
ATENE CAPITALE Fu cosí che le autorità del nuovo Stato greco giocarono la carta di una radicale «ellenizzazione» della società e delle istituzioni, sia per offrire ai sudditi un fattore di identificazione chiaro, fascinoso e «gra60 a r c h e o
tificante», sia per corrispondere, in qualche modo, alle aspettative delle potenze alleate, dal cui aiuto la neonata nazione non poteva prescindere. Si assistette cosí a una vera e propria resurrezione della Grecia classica: dopo diciassette secoli, tornò a circolare la dracma e la neoistituita Corte di Cassazione venne denominata «Areopago». A scuola si insegnava con libri scritti in greco antico. Nei tribunali si usava una forma letteraria della lingua modellata su quella attica dei tempi di Pericle (la cosiddetta «katharevousa»; vedi box a p. 66). La topo-
nomastica tradizionale, ricca di termini di origine slava, albanese, turca o veneziana, fu cancellata dalle mappe e i luoghi vennero ribattezzati con i nomi che si leggevano nei testi classici. Ridenominazioni alle quali corrisposero spesso vere e proprie riconfigurazioni degli abitati. L’istituzione di un nuovo centro amministrativo nel minuscolo villaggio di Sparta, per esempio, determinò nell’arco di poco tempo l’abbandono della vicina Mistrà, destinata a trasformarsi in città fantasma. Del tutto ideologica fu, del resto, la stessa scelta di trasferire la capi-
tale dello stato da Nauplia ad Atene, allora, come già ricordato, un insignificante borghetto di un migliaio di case all’ombra della fortezza che gli Ottomani avevano installato sull’Acropoli.
RESTAURI SULL’ACROPOLI Sorse in breve una nuova città, contrassegnata da uno stile architettonico improntato a un rigido neoclassicismo. Sull’Acropoli presero il via le operazioni di restauro, per le quali il re Otto chiamò l’architetto della corte bavarese, Leo von Klenze: furono messi a nudo l’Eretteo (che a r c h e o 61
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UNA CORSA PATRIOTTICA A fissare nell’immaginario popolare (non solo greco, ma mondiale) una fortissima associazione tra la Grecia classica e quella contemporanea fu l’istituzione delle Olimpiadi moderne. Non a caso, la prima celebrazione dell’evento sportivo, nel 1896, fu organizzata in Grecia, per la precisione ad Atene, dove, per l’occasione, venne effettuato il costosissimo restauro dell’antico stadio «panatenaico» (riportato alla luce già una ventina d’anni prima per ospitare i giochi d’ispirazione olimpica voluti da Evangelos Zappas, ma ora ricostruito, interamente in marmo pentelico, a spese del ricco filantropo Georgios Averoff, nell’aspetto assunto in età imperiale romana). Proprio in previsione dello svolgimento delle prime Olimpiadi moderne, un affermato filologo francese, Michel Bréal, suggerí al barone Pierre De Coubertin (che del recupero dei giochi olimpici era stato il promotore) di organizzare la «maratona», cioè una corsa di una quarantina di chilometri che ricalcasse il tragitto percorso da Fidippide (o Filippide), l’emerodromo che, secondo una tarda leggenda, si sarebbe precipitato dalla piana di Maratona – teatro della battaglia combattuta nel 490 a.C. – ad Atene per avvertire i concittadini della vittoria sui Persiani, prima di esalare l’ultimo respiro. La proposta era piuttosto audace. Gare podistiche su distanze cosí impegnative non erano consuete, tanto meno alle calde latitudini mediterranee. Ma l’opinione pubblica greca accolse il suggerimento con entusiasmo. Si trattava, in fondo, di celebrare uno dei piú gloriosi esempi del patriottismo greco, che ricordava simultaneamente la vittoria ateniese e il sacrificio dell’eroico corridore. La proposta fu accettata
e la maratona finí, anzi, per rappresentare la gara clou delle Olimpiadi. In palio, oltre alla medaglia e alla corona d’olivo predisposte dal comitato olimpico, lo stesso Bréal offrí a sue spese una coppa d’argento. Altri premi furono messi a disposizione da singoli privati, fra cui una tazza a figure nere autentica, raffigurante atleti intenti nella corsa, donata da Ionnis Lambros, ricco collezionista di antichità. Alla gara, che si svolse nel primo pomeriggio del 10 aprile 1896, parteciparono in diciassette, tutti Greci a eccezione di un Ungherese, un Francese, uno Statunitense e un Australiano. Vinse il giovane Spyridon Louis, con il tempo di 2 ore, 58 minuti e 50 secondi. Le cronache descrissero con entusiasmo e ammirazione l’impressionante fragore di applausi che accompagnò il suo ingresso nello stadio, mentre dalla tribuna s’alzavano in volo colombe con attaccati alle zampe nastri con i colori della bandiera greca. La gente in lacrime agitava bandiere e fazzoletti, lanciava in aria fiori e cappelli. Coperto di gloria, Louis tornò al suo villaggio, dove venne arruolato nella polizia locale e morí nel 1940. La sua biografia è ormai avvolta nella leggenda. Sappiamo però con certezza che la tazza antica (riprodotta nel 1967 persino su un francobollo) finí nella collezione dell’archeologo tedesco Werner Peeck, attivo ad Atene negli anni Trenta, e fu poi acquistata nel 1986 dall’Università di Münster per essere poi restituita nel 2019 alle autorità museali greche. La coppa d’argento offerta da Bréal rimase invece in mano ai discendenti di Louis fino al 2012, quando fu messa all’asta da Christie’s e comprata dalla Fondazione Stavros Niarchos per oltre 600 000 euro.
era divenuto sede dell’harem del comandante della guarnigione turca), il tempio di Atena Nike (che era stato smontato per riutilizzarne i marmi nelle opere di fortificazione) e i Propilei (trasformati in residenza personale dal governatore turco). Il nuovo Stato greco manifestò una notevole intraprendenza proprio sul versante della tutela del patrimonio artistico e archeologico. Già negli anni della guerra d’indipendenza la retorica dei «sacri cimeli nazionali» s’era tradotta in provvedimenti legislativi fortemente innovativi, volti anche a tacitare le accuse (formulate da alcuni filelleni occidentali) di scarsa cura rivolta ai ruderi e alle opere d’arte. Nel 1827 erano state proibite la vendita e l’esportazione di antichità e, due anni piú tardi, era stato istituito, a Egina, il Museo Archeologico Nazionale. Negli anni Trenta, poi, il governo adottò un sistema legislativo decisamente pionieristico: la salvaguardia dei reperti, ai quali si riconosceva un sorta di sacralità ancestrale, venne codificata come dovere nazionale e ogni nuovo ritrovamento era da considerare, almeno in parte, proprietà inalienabile del popolo greco. Data la penuria di risorse finanziarie a disposizione dello Stato (che nel 1833 aveva già istituito una pur esile struttura pubblica di supporto alle attività archeologiche) le campagne di scavo, la pubblicazione dei loro risultati, le operazioni di restauro e tutela vennero promosse dalla Società Archeologica di Atene, un’associazione privata di studiosi, politici e mecenati nata nel 1837 e operante in linea con le direttive istituzionali, contribuendo a radicare in termini classicistici la percezione del passato da parte dei cittadini. Segnalati e valorizzati, i ruderi che punteggiavano il paesaggio acquisirono cosí nell’immaginario collettivo, la valenza di veri luoghi della memoria, simboli non solo di una ma-
Nella pagina accanto: Atene, 1896. La partenza dei 100 m piani durante le prime Olimpiadi dell’era moderna. In alto: Allegoria dello sport, olio su tela di Charles-Louis-Frédy de Coubertin. 1896. Losanna, Museo
Olimpico. L’autore del dipinto, padre di Pierre de Coubertin, immagina Atena che pone sul capo di un vincitore la corona d’alloro. La scena è ambientata in un paesaggio fantastico, nel quale si riconosce, sullo sfondo, l’Eretteo.
gnificenza passata da venerare, ma riale, acquisito nel corso di ricoanche emblemi di una civiltà a cui gnizioni e scavi e non proveniente tutto l’Occidente doveva qualcosa. (come spesso accadeva negli altri musei europei) dalle collezioni private, veniva esposto senza pannelli REPERTI «EMOTIVI» Significativo risulta anche il siste- e spiegazioni, come se i reperti ma di esposizione museale delle potessero parlare da soli, in virtú decine di raccolte archeologiche della profonda affinità che li avreb(un numero impressionante, se be legati alla grecità moderna. Si confrontato con quello quasi in- trattava, insomma, non tanto di consistente di pinacoteche o di istruire, quanto di incentivare un musei di storia naturale). Il mate- vincolo emotivo e affettivo. I visia r c h e o 63
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Atene, il Museo Archeologico Nazionale. L’istituto venne fondato nel 1829 ed ebbe inizialmente sede a Egina. Nel 1834 fu trasferito nella neoistituita capitale greca e la costruzione dell’edificio neoclassico che tuttora lo ospita fu avviata nel 1866.
tatori dovevano soprattutto vivere la sensazione di possedere un patrimonio culturale ricevuto in eredità dagli antenati. Le figure dei grandi uomini dell’antichità, gli eroi mitici, le divinità
olimpiche colonizzarono l’immaginario persino nell’onomastica individuale: lí dove, al tempo della dominazione ottomana, i nomi di battesimo erano esclusivamente quelli presenti nel calendario greco orto-
dosso, si contavano ormai in gran numero uomini chiamati Odisseo, Socrate, Euclide oppure, tra le donne, Penelope o Calliope. Ossessivamente presente nel linguaggio amministrativo, nell’ico-
CIPRO, FRA NAZIONALISMO E COLONIALISMO Sono mai esistiti degli eteociprioti (letteralmente «ciprioti autentici, originari»)? O, piú semplicemente: questa definizione convenzionale è corretta o è portatrice di un messaggio politico? La discussione è divampata fra gli studiosi negli ultimi decenni del secolo scorso. I termini della questione sono piuttosto chiari. La popolazione stanziata a Cipro fino al termine dell’età classica (IV secolo a.C.) ha prevalentemente utilizzato come sistema di scrittura, a prescindere dalla lingua adottata, non l’alfabeto, bensí un sistema sillabico, che è stato decifrato (nel senso che sappiamo leggerlo e dare valore fonetico ai suoi segni) grazie a una trentina di iscrizioni, databili fra il VII e il IV secolo a.C., provenienti tutte dall’area sud-occidentale dell’isola, che veicolano però una lingua sconosciuta e che non sappiamo tradurre. Una lingua sicuramente anellenica, verosimilmente indigena. Poiché anche nelle fonti letterarie sono presenti alcuni riferimenti
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all’esistenza di una popolazione locale pregreca, lo studioso tedesco Johannes Friedrich, nel 1932, pensò di dare corpo a questa realtà inventando un nome nuovo, ispirato per analogia all’autentico etnonimo «eteocretesi» («cretesi autoctoni»), che piacque all’amministrazione coloniale britannica. Abitata in prevalenza (ma non esclusivamente) da Greci, Cipro, dopo secoli di sottomissione al governo ottomano, era infatti passata, alla fine dell’Ottocento, sotto la corona britannica, che la amministrò cercando di soffocare il nazionalismo greco diffuso nell’isola (soprattutto quello che ne richiedeva la congiunzione con la «madrepatria Grecia») e di incentivare al contrario un sentimento di «cipriotismo». La narrativa nazionalista ellenica tendeva a marginalizzare o denigrare le tante «contaminazioni» che da sempre caratterizzavano la storia dell’isola (al contrario di quella micenea, per esempio, la presenza fenicia era descritta in termini di
nografia ufficiale e nell’architettura pubblica, questo classicismo si cristallizzò in una vera e propria devozione sacrale, definita «archaiolatreia» (adorazione dell’antichità). Si trattava, oltre tutto, di un classicismo radicale, che non riservava di fatto alcuna attenzione alle antichità risalenti ad altri periodi, indistintamente considerati età di decadenza. Non solo edifici d’epoca ottomana, ma anche quelli d’età medievale e bizantina vennero abbattuti con estrema disinvoltura per ripotare alla luce lo strato piú antico; ne è un esempio principe la demolizione di tutte le strutture post-classiche dell’Acropoli di Atene, compresa la «Torre franca», smantellata nel 1875. Solo negli ultimi decenni dell’Ottocento, la prospettiva rigidamente classicistica cominciò lentamente a sgretolarsi, per lasciare spazio alla valorizzazione anche di altri periodi storici del passato ellenico. Allo stesso modo, anche sul piano linguistico, cominciò ad aumentare il consenso verso gli intellettuali che privilegiavano la forma di greco letterario definita «demotica», piú
vicina a quella effettivamente utilizzata nella vita quotidiana, rispetto al greco antico o alla katharevousa.
LA GRANDE IDEA Lo Stato nato dalla guerra d’indipendenza era piccolo, costituito com’era solo dalla parte terminale della penisola balcanica. Fuori dai suoi confini, nelle montagne della Tessaglia e dell’Epiro, nelle isole dell’Egeo, a Costantinopoli e nelle altre città delle coste asiatiche, centinaia di migliaia di Greci continuavano a vivere sotto il governo ottomano. L’aspirazione alla creazione di una unità territoriale che li contenesse tutti assunse, nella seconda metà dell’Ottocento, una formulazione ideologica, la cosiddetta megali idea. Il richiamo alle glorie dell’Ellade diventò cosí uno strumento di rivendicazione irredentista. Non a caso, proprio in quei decenni si assistette nella narrativa nazionalista a un importantissimo slittamento di prospettiva, che reintegrava la millenar ia esperienza dell’impero bizantino nella gloriosa storia patria. Mentre prima si era sollecita-
to un risorgimento, cioè una riapparizione della civiltà classica (percepita come separata da millenni di decadenza), adesso si celebrava piuttosto l’inalterabilità di un popolo la cui natura si era dimostrata stabile, dai tempi di Omero a oggi. Un «perennialismo» ben rappresentato dall’opera storiografica di Kostantinos Paparrigopoulos, il quale per primo, negli anni Sessanta dell’Ottocento, raccontò la storia del popolo greco in termini di Tavoletta recante un’iscrizione redatta con il sistema sillabico, da Akanthou, nel distretto di Famagosta. 410-384 a.C. Londra, The British Museum.
invasione). Viceversa, la teorizzazione dell’esistenza di una popolazione indigena pregreca aiutava a delegittimare la richiesta di aggregazione alla madrepatria presentata dai nazionalisti greci. Nel 1960, gli Inglesi abbandonarono l’isola e, nel 1974, il fallito tentativo di ricongiungimento con la Grecia provocò l’intervento militare turco, cosicché, da allora, Cipro è divisa. I musei delle due parti raccontano storie diverse. E cosí, dopo un processo di revisione di natura «postcoloniale», gli eteociprioti sono diventati «eteociprioti»: può sembrare un gioco di parole, ma, in realtà, l’uso o il rifiuto delle virgolette esprimono il fatto che questo popolo continua a rappresentare un enigma, anche per la sua impalpabilità archeologica, poiché non si riesce ad associarlo ad alcun tratto della cultura materiale. Ma, virgolette a parte, la persistenza di un idioma locale in età classica rimane indiscutibile.
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continuità e permanenza, insistendo sul ruolo positivo svolto dalla cristianità bizantina. La tendenza a concepire lo spirito della grecità come una sorta di entità metafisica al di fuori del tempo affiorò anche in una disciplina, di nuova formazione: la «laografia». Questa scienza affrontava lo studio del folklore non tanto nell’ottica di una antropologia sociale (come si cominciava a fare in Occidente) ma piuttosto con l’obiettivo di ricostruirne le radici storiche. Un immenso numero di ballate, canti, leggende, racconti popolari, proverbi, ma anche rituali e feste, vennero raccolti, catalogati e interpretati come sopravvivenze dell’antica civiltà greca. Il classicismo, cioè la tendenza a valorizzare esclusivamente quanto rimandasse alla storia greca dai tempi omerici fino ad Alessandro Magno, subí un altro shock inaspettato quando, nel novembre del 1876, Heinrich Schliemann comunicò per telegrafo al re di Grecia di aver trovato la tomba di Agamennone. Gli scavi di Micene, come poi quelli nelle isole dell’Egeo (e ancor piú quelli di Cnosso, che Arthur Evans avrebbe cominciato nel 1900, due anni dopo lo sgombero delle autorità ottomane da Creta) svelarono l’esistenza di un antichissimo e suggestivo passato preclassico. Un passato che alcuni archeologi preferivano accostare al mondo orientale, ma che gli studiosi greci (su tutti Chr istos Tsountas, lo «scopritore» della civiltà cicladica) insistettero subito a qualificare come ellenico e «spiritualmente» occidentale.
LA MACEDONIA, UNA E... GRECA Nei primi decenni del Novecento la Grecia partecipò a una serie di conflitti militari che si conclusero con la «catastrofe» del 1922 (con l’espulsione dall’Asia Minore di piú di un milione di Greci), ma 66 a r c h e o
ADAMANTIOS KORAIS E IL CLASSICISMO LINGUISTICO Nato a Smirne nel 1748, Adamantios Korais potrebbe essere considerato, oltre che uno dei piú importanti rappresentanti dell’illuminismo greco, anche uno dei padri del risorgimento ellenico. Trasferitosi in Europa Occidentale per seguire gli affari di famiglia, Korais visse principalmente a Parigi, dove assistette alla rivoluzione. Studiò medicina, ma si occupò di filosofia, linguistica e soprattutto letteratura. Profuse grande impegno nella divulgazione dei classici antichi e sollecitò l’abbandono della definizione «romani» (romaioi) a favore di quella, classicistica, di «elleni». Come la maggior parte degli intellettuali greci dei suoi tempi, Korais evitò di utilizzare nelle sue opere uno dei dialetti ellenici parlati ai suoi tempi (e usati anche in forma scritta), che peraltro differivano molto fra loro da regione a regione. Tuttavia, preferí non ricorrere a una lingua eccessivamente arcaizzante ed elaborò a sua volta una forma letteraria, poi detta «katharevousa» («purificata»), che, pur cercando di modernizzarla, si riallacciava con riverenza alla lingua antica (in particolare al dialetto attico).
Si trattava di una lingua classicistica: nella sintassi, nell’ortografia, nel vocabolario (ripulito dai tanti termini di origine turca e latina). Non a caso, con la speranza di una sua progressiva diffusione popolare, al momento dell’instaurazione del nuovo Stato greco, nel 1830, la katharevousa venne di fatto, seppur non ufficialmente, adottata dalla burocrazia (i molti che avrebbero preferito addirittura ricorrere direttamente al greco antico dovettero accontentarsi della sua adozione nell’insegnamento scolastico). Col tempo, tuttavia, vennero privilegiati o addirittura introdotti nella katharevousa elementi sempre piú arcaizzanti, col risultato di un suo progressivo e inesorabile estraniamento dall’uso comune. Verso la fine dell’Ottocento, dapprima nella poesia e poi nella prosa, aumentarono pertanto le persone che preferivano utilizzare il cosiddetto «demotico» (cioè una forma standardizzata del linguaggio quotidiano). Solo nel 1976, tuttavia, la katharevousa ha cessato di essere utilizzata dallo Stato come lingua ufficiale.
che portarono comunque all’annessione di molti territori nuovi, in particolare l’Epiro, la Tessaglia, la Tracia occidentale e la Macedonia. Ciò comportò, insieme a una ellenizzazione piú o meno forzata di queste realtà, anche l’incorporazione del passato archeologico di questa realtà all’interno dell’immaginario (sempre piú inclusivo) della storia ellenica. Cinquant’anni piú tardi, il pomeriggio del 17 novembre 1977, in un’affollata conferenza stampa, Manolis Andronikos, direttore degli scavi di Verghina (una sessantina
di chilometri a nord di Salonicco) dichiarò di aver rinvenuto la tomba di Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno. Nel monarca macedone la tradizione classicistica aveva visto (e stigmatizzato) l’affossatore della libertà ellenica e cosí lo aveva raffigurato per tutto l’Ottocento. Ora invece, gli splendidi reperti del suo corredo funebre testimoniavano come il re e la sua corte potevano ben essere considerati parte del mondo ellenico. Ne scaturí un dibattito che, in un primo momento, si presentò come una semplice
Ellade e i suoi figli, olio su tela di Theodoros Vryzakis. 1858. Atene, Galleria Nazionale d’Arte. Nel dipinto si riconoscono alcuni dei personaggi che si batterono per l’indipendenza della Grecia: a sinistra, Ioannis Kapodistrias, Rigas Feraios, Alexandros Soutzos, Demetrio e Alessandro Ypsilanti e Lord Byron; a destra, Manto Mavrogenous, Adamantios Korais, Georgios Karaiskakis, Athanasios Diakos, Laskarina Bouboulina e il vescovo ortodosso Germanos. a r c h e o 67
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«VENITE A PRENDERLE!»... È la sera del 10 settembre 2013, alle Termopili. Secondo quanto riportato dalle cronache dei quotidiani locali, giovani militanti di Alba Dorata, formazione politica della destra radicale nazionalista, dopo essersi schierati e aver scandito slogan patriottici accendono torce e le alzano al cielo. Lo fanno per illuminare la statua bronzea di Leonida che sormonta il memoriale in marmo edificato proprio lí dove, poco piú di duemilacinquecento anni fa, trecento Spartani, agli ordini del loro re, dopo aver bloccato per tre giorni l’avanzata dello sterminato esercito persiano, si lasciarono massacrare pur di non subire l’onta della ritirata. I militanti, sempre secondo le cronache giornalistiche, intonano all’unisono l’inno del partito, in un tripudio di fumogeni rossi: «Noi, i giovani, noi siamo gli Spartani». Simbolo di grecità, di resistenza all’invasore, di coraggio e inflessibile fierezza, la figura di Leonida ha goduto negli ultimi anni anche del riverbero del successo del film 300 (a sua volta ispirato all’omonima graphic novel di Frank Miller), tanto che nelle boutique di tutta la Grecia i richiami alla pellicola si ritrovano in ogni tipo di souvenir. Ma Leonida e i suoi hanno cominciato a rappresentare un vero mito nella cultura nazionalista greca ben prima di queste riscoperte moderne. Non a caso, gli scavi alle Termopili, condotti alla fine degli anni Trenta da Spyridon Marinatos, furono ampiamente celebrati dalla stampa del regime «fascista» di Metaxas. Poco dopo, in piena guerra fredda, re Paolo commissionò la statua raffigurante Leonida con scudo e lancia tesa verso il nemico (quella attorno la quale si sono agitati i manifestanti di Alba Dorata). Alla sua base è stata incisa la citazione Molon labe («Venite a prenderle»), la celebre frase che, secondo Plutarco, l’eroe spartano avrebbe pronunciato all’inizio della battaglia, come risposta all’intimazione a gettare le armi formulata dal re persiano Serse. La stessa citazione è stata poi iscritta anche alla base di una seconda statua (questa volta raffigurante il guerriero con scudo e spada), eretta poco dopo, nel 1968, a Sparta. Ridotta a slogan di fierezza muscolare, la citazione ha incontrato del resto una particolare popolarità negli ambienti militari. Usata come motto da alcuni reparti dell’esercito greco, la frase sarebbe stata anche immortalata da Grigoris Afxentiou, uno dei leader della resistenza greca nella lotta di liberazione antibritannica a Cipro, che il 3 marzo 1957, asserragliatosi nei pressi del monastero di Machairas, l’avrebbe utilizzata per rispondere ai militari nemici che gli chiedevano di uscire e arrendersi (e che, di conseguenza, per eliminarlo decisero di dar direttamente fuoco al suo nascondiglio). 68 a r c h e o
Sparta. La statua in bronzo che domina il monumento a Leonida realizzato nel 1950, opera di Vasos Falireas.
controversia fra studiosi (molti infatti non accettarono, almeno all’inizio, né l’identificazione del defunto, né quella di Verghina con la sede della corte macedone) ma che presto acquistò una dimensione politica e persino diplomatica. All’inizio degli anni Novanta, infatti, la piú meridionale delle repubbliche che costituivano l’allora Jugoslavia si dichiarò indipendente col nome di Macedonia, adottando come simbolo il sole a sedici punte, un emblema presente su un cofanetto del corredo funebre scoperto a Verghina e che, secondo Andronikos, sarebbe stato lo stemma della dinastia di Filippo. Ma il «sole di Verghina», sebbene in diversi colori, sventolava già sulle bandiere della provincia greca di Macedonia e l’opinione pubblica ellenica non era affatto disposta a condividere simboli e memorie: la grecità della Macedonia antica non consentiva ad altre comunità di richiamarsi al glorioso passato di Alessandro Magno e della sua famiglia. Oceaniche dimostrazioni di piazza furono organizzate non solo in Grecia, ma anche all’estero, in particolare in Australia e Canada, Paesi che ospitano una nutrita diaspora greca. Il contenzioso, durato quasi trent’anni, si è concluso con la rinuncia del Paese slavo alla maggior parte delle sue pretese. Nel frattempo, a Verghina è stato costruito un sofisticato allestimento museale sotterraneo alle tobe scoperte da Anfronikos, capace di indurre i visitatori a un devoto raccoglimento, come se ci si trovasse in una tomba «di famiglia». Se, nella seconda metà dell’Ottocento, la mancanza di risorse finanziarie aveva indotto i governi greci a concedere agli istituti stranieri il permesso di intraprendere campagne di scavi (fra cui vale la pena di ricordare quelle dei Tedeschi a Olimpia e dei Francesi a Delfi, piú tardi quella degli Statunitensi ad Atene). Non vanno però dimenti-
cate le numerose richieste, formulate dalle autorità greche, volte alla restituzione di opere d’arte ellenica esportate fuori confine (un esempio emblematico è la campagna per la restituzione dei marmi Elgin sostenuta negli anni Novanta del secolo scorso dall’allora ministro della cultura Melina Mercouri). Nel corso del Novecento, del resto, il richiamo allo splendore dell’antica storia ellenica quale fondamento dell’identità nazionale greca non s’era minimamente attenuato. In alcuni casi aveva anzi assunto toni esasperati, come, per esempio, negli anni di governo di Ioannis Metaxas (1936-1941), con la magnificazione del passato classico e poi di quello bizantino in funzione della «terza civiltà ellenica» esaltata con le forme tipiche dei regimi reazionari di massa (celebrazione di agoni sportivi, cerimoniali in costume, visite guidate a siti archeologici, rappresentazioni teatrali all’aperto).
Cinquanta, come resistenza all’espansionismo turco-islamico, e infine come lotta allo strapotere eurotedesco. Una rilettura del passato, insomma, carica di empatia, ma priva del necessario distacco critico. Il richiamo all’antico, tuttavia, si dimostra utile non solo a cementare e indirizzare la coscienza collettiva dei membri della «nazione». Nel caso greco è servito – e serve – anche a solleticare l’interesse e la predilezione di quel pubblico occidentale, a sua volta erede del filellenismo ottocentesco, che da generazioni si riversa in massa a visitare il Paese, alla ricerca di suggestioni dal sapore antico. PER SAPERNE DI PIÚ Yannis Hamilakis, The nation and its ruins: antiquity, archaeology, and national imagination in Greece, Oxford University Press, Oxford 2007 Dimitris Damaskos e Dimitris Plantzos (a cura di), A singular antiquity : archaeology and Hellenic identity in twentiethcentury Greece, Benaki Museum, Atene 2008 Katerina Zacharia (a cura di), Hellenisms: Culture, Identity, and Ethnicity from Antiquity to Modernity, Routledge, Aldershot 2008 Roderick Beaton e David Ricks (a cura di), The Making of Modern Greece: Nationalism, Romanticism and the Uses of the Past (1797– 1896), Ashgate, Farnham (UK)Burlington (USA) 2009 Sofia Voutsaki e Paul Cartledge (a cura di), Ancient Monuments and Modern Identities. A critical history of archaeology in 19th and 20th century Greece, Routledge, Abingdon-New York 2017
DEMOCRAZIA E LIBERTÀ È assai indicativo, però, che anche la retorica democratica abbia utilizzato proprio il richiamo agli antenati storici come argomento per la lotta contro i governi autoritari succedutisi fino alla caduta dei colonnelli (1974) e alla definitiva proclamazione della repubblica. Alla Grecia spartana e marziale di Metaxas, che si era dichiarato ostile alla messa in scena dell’Antigone di Sofocle e alla presenza nei testi di scuola del brano tucidideo con l’esaltazione periclea di Atene, venne (e viene tuttora) contrapposta un’ellenicità raffigurata come la madrepatria della democrazia, della filosofia, delle libertà. Allo stesso modo, la vicenda evocata dalle guerre persiane, cioè la storia del piccolo popolo fieramente in lotta contro il dispotismo dei po- NELLA PROSSIMA PUNTATA tenti vicini, è stata piú volte e diversamente «riletta»: come opposizione • La doppia eredità. all’ingerenza sovietica negli anni L’ambivalente eredità latina
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STORIA • LA PESCA NELL’ANTICHITÀ
PESCATORI PER SEMPRE FIN DALLA PREISTORIA, LA PESCA È STATA UNA RISORSA ESSENZIALE PER L’UOMO. CHE GIÀ IN EPOCHE REMOTE MISE A PUNTO STRUMENTI E TECNICHE DI NOTEVOLE EFFICACIA, CAPACI DI RIPAGARE LE FATICHE RICHIESTE DA QUESTA ATTIVITÀ di Carlo Casi
I
laghi, i fiumi e soprattutto i mari hanno fornito sin dalla preistoria, un’importante risorsa primaria: il pesce. Già nel Paleolitico Superiore (XX millennio a.C.) troviamo rappresentazioni di pesci, come la realistica sogliola scolpita rinvenuta in una grotta dell’Alta Garonna o la trota maddaleniana presente su una parete di una grotta dell’Ardèche, ancora in Francia. È evidente, quindi, che, sin da un periodo cosí antico, la pesca ha ricoperto un ruolo a volte fondamentale nell’economia di sussistenza. Se prendiamo per esempio in esame le pescose acque del Nilo, possiamo
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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Qui sopra: frammento di rete. III mill. a.C. Oxford, Ashmolean Museum. In alto: arpioni in osso. 4000 a.C. circa. Gerusalemme, Israel Department of Antiquities and Museums. A sinistra, sulle due pagine: illustrazione nella quale si immagina un gruppo di pescatori preistorici, da L’Homme Primitif (Parigi, 1870).
notare che nell’area dello Wadi Kubbaniya (un paleoalveo del grande fiume) la disposizione degli abitati paleolitici era legata alla facile reperibilità di pesce nelle vicinanze. Gli insediamenti – frequentati tra il 17 000 e il 15 000 a.C. – erano posti su dune sabbiose prossime alle conche che venivano raggiunte dalla piena estiva, cosicché, al ritrarsi delle acque, era assai facile catturare i pesci rimasti intrappolati. Un po’ come hanno fatto, sino al secolo scorso, i Gorron dell’alta valle del Cauca (Colombia), anche se in questo caso le condizioni venivano create artificialmente, coa r c h e o 71
STORIA • LA PESCA NELL’ANTICHITÀ
struendo, nella stagione piovosa, laghetti in cui i pesci si moltiplicavano e che venivano poi prosciugati nella stagione secca. Anche l’Italia ha restituito tracce di pesca nel Paleolitico, come quelle della Grotta dell’Uzzo (Trapani), databili al X millennio a.C., consistenti in ami di osso di cervo ricurvi e, negli strati del VII millennio a.C., nei resti di grossi pesci come il dentice, l’orata, la murena, la cernia. La pesca con l’amo risulta quindi essere di antica data ed è stata praticata in ogni parte del mondo, utilizzando una grande varietà di materiali, che vanno dalla selce all’osso, al corno, agli artigli di rapace, alle lische di pesce, alle spine, al legno e successivamente ai metalli.
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L’uso dell’amo prevede per quest’ultimo una funzione passiva, in quanto è il pesce che lo addenta, attirato da un’esca commestibile o fittizia, quale per esempio lo scintillio della madreperla di cui sono composti alcuni ami polinesiani. Gli ami possono essere montati anche all’estremità di un’asta o legati a una corda, trasformandosi in vere e proprie armi da pesca, come fanno ancora oggi alcune popolazioni siberiane per catturare i pesci nei fiumi gelati.
CACCIA AL COCCODRILLO Il principio dell’amo viene comunque sfruttato dando all’arnese proporzioni convenienti alla cattura delle prede prescelte. Si pensi al caso degli ami utilizzati per i coccodrilli,
come ricorda Erodoto (II, 70) a proposito degli Egizi: «Cacce di coccodrilli ce ne hanno di molte e diverse specie; ma io non descriverò se non quella che mi pare piú degna di ricordo. Il cacciatore getta al fiume, come esca, una schiena di porco attaccata ad un uncino, ed esso medesimo in sulla riva, tenendo afferrato un porcellino vivo, sí lo ferisce. Ora il coccodrillo, udendo i gridi del porcellino, accorre subito a questo suono; e imbattendosi intanto nella schiena di porco che gli gettarono, se la divora: allora è che lo traggono a terra». In età neolitica, con l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento, l’importanza della pesca dovette diminuire, pur mantenendo un certo rilievo in aree come l’Egitto. Anche in Italia sono stati effettuati ritrova-
menti rappresentativi, come quello della Grotta delle Arene Candide (Savona), dove, negli strati del Neolitico Inferiore, è stato rinvenuto un amo ricavato da una zanna di cinghiale, oppure quello dei significativi pesi in terracotta per reti da pesca, recuperati soprattutto in località lacustri alpine e padane, ma anche piú a sud, in zone di mare, come a Cilento (Isola di Ischia) e che denotano un esercizio sviluppato della tecnica di pesca con le insidie. Anche questo sistema deriva certamente da orizzonti ancora piú antichi, come sembra testimoniare, per esempio, la rete rinvenuta nel 1914 presso Korpilahti in Antrea (provincia di Carelia, Finlandia) datata al VII millennio a.C., ed è stato anch’esso utilizzato in ogni parte del mondo e con una variegata moltitudine di applicazioni. Si pensi a quelle usate per sollevamento (le bilance o i particolari coppi fatti a forma di rete da farfalle), quelle per trascinamento orizzontale (reti di circuizione e da strascico) o quelle a postazione fissa.
MOLTEPLICI INSIDIE Alla rete vengono spesso aggiunte altre insidie, in modo che se le prede riescono a sfuggire alla prima, cadono inevitabilmente nell’altra. È questo il caso delle reti ancora utilizzate da alcune tribú australiane come «sbarramenti mobili», accompagnate dalle donne del villaggio che avanzano in fila sospingendo i pesci con i rami verso la riva e stordendoli poi a bastonate, con un metodo, se vogliamo, non molto dissimile da quello utilizzato per la pesca del tonno nel Mediterraneo. In Egitto esempi di reti per la pesca si conoscono a partire almeno dal IV millennio a.C. e trovano soprattutto nelle tombe di Saqqara una lunga tradizione iconografica, testimoniata in primis dalla tomba di Akhethotep (funzionario reale vissuto al tempo della V dinastia, alla metà del III millennio a.C.) nella
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Nella pagina accanto: Saqqara, Egitto. Rilievo raffigurante una scena di pesca nella mastaba di Sesheshet Idut, principessa vissuta al tempo della VI dinastia, 2350 a.C. circa.
In alto: particolare dell’affresco detto dei «Giovani pescatori», da Akrotiri, Casa Occidentale, stanza 5. Tarda Età del Bronzo I. Santorini, Museo di Thera Preistorica. a r c h e o 73
STORIA • LA PESCA NELL’ANTICHITÀ
quale si vedono pescatori che ritirano per l’appunto una rete contenente molti pesci, tra i quali si riconoscono un pesce gatto, un persico e un’anguilla, e alcune fasi del trattamento riservato al pescato. Erodoto (II, 95) racconta che, ai suoi tempi, la pesca era l’attività prediletta degli antichi Egizi nelle zone paludose e che gli stessi si servivano di una rete che di notte si trasformava in una efficace zanzariera.
PER LO SVEZZAMENTO DEI PIÚ PICCOLI E proprio sulle rive del Nilo, durante l’Antico Regno (2700-2200 a.C.), l’importanza della pesca risulta maggiormente tangibile, grazie alla frequenza con cui tale attività è riprodotta nelle tombe: immagini dalle quali si ricavano numerose informazioni sui sistemi utilizzati sia per la cattura, sia per la lavorazione e l’utilizzo dei pesci. Si pensi, per esempio, che il primo cibo dato ai bambini dopo lo svezzamento era il pesce oppure le sue prelibate uova, che gli Egizi consumavano fresche o essiccate, presenti ancora oggi nella cucina di quel Paese con il nome di batarakh, termine da cui deriva l’italiano «bottarga». In ogni caso, nell’antico Egitto la Sulle due pagine: Palazzo di Cnosso (Creta). Affresco con delfini nel Megaron della regina. 1700-1400 a.C. A sinistra: il cratere detto «del naufragio», dalla necropoli di San Montano (Ischia). Fine dell’VIII sec. a.C. Lacco Ameno, Museo Archeologico di Pithecusae. 74 a r c h e o
pesca era già vissuta anche come un piacevole e distensivo passatempo, come mostra la scena dipinta nella tomba di Nebwenef (1250 a.C.), in cui l’alto dignitario tebano è comodamente seduto su un trono posto sulla riva di un canale e tiene in mano una canna dalla quale pendono 3 fili che s’immergono nell’acqua e una farfalla in volo sintetizza l’atmosfera rilassata insita nell’ambientazione. Una tranquillità che si ritrova in alcuni affreschi minoici risalenti al XVI secolo a.C., nei quali sono rappresentati soggetti marini, come quello di Melo, dove è descritto un paesaggio con rocce e spugne carat-
ni sigilli rinvenuti a Creta. Sembra che apprezzassero in particolar modo la carne del polpo ed erano soliti pescarlo con l’arpione, anche se ne avevano un profondo rispetto, in quanto era considerato l’essere che accompagnava agli inferi gli sfortunati scomparsi in mare; inoltre, proseguendo una tradizione di origine minoica, decoravano con rappresentazioni del cefalopode i vasi e altri oggetti di prestigio (esemplare è il fodero di pugnale in bronzo ageminato con oro, argento e niello ritrovato a Pilo, nel quale sono raffigurati polpi, coralli e pesci). Esercitavano anche la pesca subacquea, soprattutto alla ricerca di molluschi e di spugne, che erano già molto apprezzate, come ben descritto in un celebre brano dell’Iliade (XVIII, 414), nel quale il dio Efesto si deterge con una spugna aspettando la bellissima dea del mare Teti.
terizzato da pesci volanti, o quello della Stanza 5 della Casa Occidentale di Thera (isola di Santorini), che mostra due pescatori che, tornando dalla pesca, portano, appesi a cordicelle, alcuni grossi pesci, probabilmente lampughe. Sgombri sembrano quelli dipinti in un altro famoso ambiente decorato, il cosiddetto «Megaron della Regina» del Palazzo di Cnosso: qui la scena, contornata da ricci di mare, presenta una serie di pesci, tra i quali si riconoscono forse alcune triglie e del novellame, quasi a ricordare un ambiente di scoglio, se non fosse per alcuni delfini, che potrebbero però avere una funzione meramente decorativa.
I delfini e i cetacei in genere sono stati sempre piuttosto rari e ricercati nel Mediterraneo. Già presenti, probabilmente, tra le pitture rupestri neolitiche della Grotta del Genovese di Levanzo (Trapani) come in quelle etrusche di Tarquinia (per esempio nella Tomba delle Leonesse, VI secolo a. C.), sappiamo, da un’iscrizione del IX secolo a.C., che furono usati anche in qualità di originali doni, come il balenottero che i sovrani della costa fenicia inviarono al re assiro Assurnasirpal II, insieme a ori argenti e avori. Anche i Micenei conoscevano l’uso della lenza, delle nasse e della pesca a strascico, come testimoniano alcu-
LE PRIME TONNARE Svilupparono anche le prime forme di pesca organizzata ai tonni, il «maiale di mare» come lo chiama Strabone (III, 2-7), specie questa particolarmente abitudinaria e le cui rotte migratorie dovevano risultare già ben note. In questa selettiva attività venatoria, si distinsero soprattutto i Fenici, costruendo tonnare e seguendo i branchi fin sulle coste dell’Oceano Atlantico. L’importanza del tonno per questo popolo si evince sia dalla scelta di rappresentarlo sui conii monetali di molte città (Solunto in Sicilia, Cadice e Abdera in Spagna, ecc.), sia dall’elevata tecnologia impiegata nella pesca: nel suo Halieutica (La pesca) poema didascalico in 5 libri, Oppiano di Corico (attivo nel II secolo d.C.) scrive appunto che i Fenici si servono di «recinti di forma circolare, costruiti con reti ancorate sul fondo e sostenute in alto da galleggianti, dotati di vere e proprie porte di accesso attraverso le quali i tonni venivano fatti entrare, atterriti dal battito dei remi dei pescatori, o anche dai delfini, a r c h e o 75
STORIA • LA PESCA NELL’ANTICHITÀ
che fungevano da ausiliari dei pescatori, specie nella pesca notturna con la lampara, ed erano utilizzati un po’ come i cani per la caccia». Il paragone tra i delfini e i cani da caccia c’introduce a un’altra tipologia di pesca: quella con gli animali ausiliari. Per i delfini sono noti anche altri esempi, a cominciare da quello dei pescatori eubei, che utilizzavano i delfini nella pesca notturna per radunare e spingere il pesce verso le loro barche illuminate da bracieri o quelli di Caria, che avevano «fidelizzato» un delfino a ogni barca, anche qui per una attività di pesca notturna, arrivando all’impiego di questi
cetacei nella zona di Nîmes per la dove viene allevato ancora oggi dai cattura dei cefali. pescatori che, tenendolo legato con un lungo guinzaglio, lo fanno GLI ALLEATI DELL’UOMO dapprima pescare e poi gli fanno Le specie alleate dell’uomo in que- rigurgitare i pesci ingeriti. Nel caso sto esercizio sono comunque dav- della lontra si può forse parlare di vero poche: oltre ai delfini, si cono- un vero e proprio addestramento scono solamente due uccelli (l’ai- svolto in alcune parti dell’India e rone e il cormorano), un mammi- della Cina. La lontra riporta al pefero (la lontra) e un pesce (la remo- scatore il pesce da lei azzannato ra). I Vezo del Madagascar usano portare alcuni aironi legati sulle loro imbarcazioni che, una volta liberati, indicano la presenza dei pesci, guadagnandosi, al ritorno sulla barca, un’ abbondante razione di cibo. L’utilizzo del cormorano è invece ben documentato in Cina,
Tarquinia, Necropoli dei Monterozzi, Tomba della Caccia e della Pesca. Particolare della pittura parietale che dà il nome alla tomba. 530 a.C.
UN APPORTO DIETETICO IMPORTANTE Se il consumo di pesce è attestato sin dalla preistoria, è piú difficile dire come fosse trattato. Possiamo supporre che pesci, molluschi e crostacei venissero mangiati crudi, arrostiti o essicati, quindi con sistemi di cucina molto semplici. Sappiamo comunque che il pescato ha rappresentato una base importante nell’alimentazione delle antiche civiltà. Esemplare è il caso del «maiale di mare» (Strabone, III, 2-7), o tonno, nel cui utilizzo si specializzarono popoli come i Cartaginesi e i Troiani. Solamente in epoca storica, però, soprattutto grazie ad Archestrato di Gela, che scrive, nel IV secolo a.C., uno specifico libro di cucina – che sarà successivamente tradotto da Ennio in età repubblicana –, viene sancita l’importanza del pesce sulla tavola. Molto apprezzati erano la murena, la sogliola, l’orata, il sarago, la triglia, la sarda, le alici, ma anche scampi, seppie, polpi, astici, aragoste e ostriche, che venivano insaporiti
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con ogni sorta di salse e accompagnati da verdure bollite e a volte da fegato, da carni varie e da uova di anitra, pernice e piccione. Del pesce non si buttava via nulla e tutte le parti che non venivano consumate fresche o essiccate si utilizzavano per la preparazione di varie salse, la piú famosa delle quali è sicuramente il garum. Ad alcuni pesci vennero attribuite proprietà particolari come quella afrodisiaca. Secondo Plinio erano in particolare le triglie, le anguille e le murene a garantire questi «effetti collaterali», mentre nel Medioevo si attribuivano alla trota la virtú di accrescere lo sperma e qualità rinvigorenti generiche a storione, ombrina, dentice, cernia, carpione, orata, merluzzo, rombo, sgombro e razza. La religione cristiana, viceversa, inserí il pescato come alimento privilegiato da consumare nei giorni di magro, per via della credenza secondo la quale i pesci si riproducono senza accoppiarsi.
sott’acqua e, piú spesso, spinge i pesci verso le reti posizionate dal suo «amico» umano. La remora, invece, è un piccolo pesce dotato di un apparato adesivo del quale si serve per attaccarsi ad altri pesci e a tutto ciò che galleggia in mare; viene utilizzata per la pesca delle tartarughe, alle quali si incolla dopo essere stata fissata a una lenza,
cosicché, seppur con una certa cautela, esse possono, essere tirate a riva, come rilevato nelle isole dello stretto di Torres (fra Australia e Nuova Zelanda), ma anche alle Comore, a Zanzibar e a Cuba. La fama della remora deriva però dalla leggenda popolare secondo la quale essa ha il potere di arrestare le navi, attaccandosi alla loro chiglia, come
accadde all’ammiraglia di Antonio durante la battaglia di Azio, consentendo cosí a Ottaviano di poter organizzare la propria flotta per l’attacco conclusivo. Ma non furono certamente le remore a causare il naufragio raffigurato su di un cratere (attribuito alla fine dell’VIII secolo a.C.) proveniente da Pithecussai (Ischia), nel quale la nave è
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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STORIA • LA PESCA NELL’ANTICHITÀ
DA STATUS SYMBOL A RILEVATORI DELL’INNALZAMENTO DEI MARI Furono numerosissime le peschiere costruite dai Romani per poter disporre di pesce fresco. Consistevano in vasche scavate nella roccia, che spesso riproducevano al loro interno piccole cavità, simili a quelle scelte naturalmente dai pesci per rifugiarsi. Le aperture verso il mare erano chiuse da piccole reti, cosí da impedire al pesce di uscire, ma lasciando invece che potesse entrare l’acqua, in modo da garantirne il rinnovo continuo ed evitarne il surriscaldamento. Per lo stesso motivo, le vasche dovevano essere scavate a una certa profondità ed essere ben collegate al mare. Vi si allevavano varie specie – murene, orate, triglie, anguille e anche il pesce pappagallo – e sembra che tale pratica fosse molto redditizia, tanto che Columella (I secolo d.C.) incoraggia tutti i proprietari di terreni affacciati sul mare a svolgere quest’attività. Il possesso di una peschiera consentiva inoltre ai buongustai di avere sempre una riserva invidiabile di pesce fresco. Macrobio filosofo, scrittore e funzionario romano del IV-V secolo d.C., scrive: «I Licinii furono chiamati
Murena allo stesso modo che Sergio Orata ebbe tale soprannome perché era ghiottissimo del pesce che ha nome orata. Si tratta di colui che fu il primo a fare allevamenti di ostriche a Baia». Tuttavia, per l’aristocrazia romana, le peschiere, essendo costose da costruire, mantenere e gestire, erano perlopiú uno status symbol e non erano utilizzate per ricavarne un guadagno. Un certo Lucio Locullo, riferisce Varrone (II-I secolo a.C.), fece addirittura perforare un’altura affinché l’acqua di mare fluisse nelle sue piscine da due diversi lati. Non contento, fece progettare anche un tunnel sotto il livello del mare, con tanto di diga. Le peschiere romane sono utilizzate ancora oggi, sebbene per scopi del tutto diversi, ma altrettanto importanti. Ben descritte dagli autori latini e diffuse lungo tutte le coste del Mediterraneo, sono state scelte dagli oceanografi quali indicatori per determinare le variazioni del livello del mare. Grazie a loro sappiamo quindi che il livello del Mare Nostrum è cresciuto in duemila anni di 1,35 m circa.
capovolta e tutta la drammaticità dell’evento è resa dai rigidi corpi dei naufraghi, che sono alla mercé dei pesci che nuotano attorno. In questo periodo i pesci sono tra i soggetti piú spesso utilizzati nella decorazione dei vasi, soprattutto in Etruria, e a Cerveteri, in particolare, è stata identificata un’officina chiamata «Bottega dei Pesci di Stoccolma» (da un vaso lí conservato), attiva nella prima metà del VII secolo a.C. Anche gli Etruschi di Tarquinia adottarono temi decorativi legati all’attività venatoria come dimostra in maniera esemplare la famosa Tomba della Caccia e della Pesca, nella quale si vedono pesci catturati con reti, fiocine e lenze. In età etrusca, comunque, lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento ridusse progressivamente l’importanza economica della pesca, che finí col trasformarsi in un’atti-
vità prestigiosa, al pari della caccia, (vedi box a p. 78).Varrone ci racconlegata alla rappresentazione del ruo- ta che tal Lucio Albuccio guadalo sociale delle élite preromane. gnava da questo commercio circa 20 000 sesterzi, esattamente il doppio di quanto gli rendeva la sua LA PISCICOLTURA Nell’antichità era molto praticata bella proprietà di Albano. anche la piscicoltura e sappiamo Con l’avvento della religione criche già Gelone, tiranno di Agrigen- stiana, la pesca, e piú in particolare to, fece costruire nel V secolo a.C. il pescato, ma anche il pescatore, un’enorme peschiera, nella quale assumono un valore simbolico ben l’acqua di mare era convogliata gra- preciso, evidenziato nei testi sacri, zie a condutture sotterranee. Ma fu nelle iconografie, nelle iscrizioni. con Roma che questa pratica si Erano significativamente pescatori sviluppò: dapprima come moda tra infatti i primi apostoli, abituati a i ricchi, tanto che tutte le ville sul usare gli ami e le reti per la pesca, mare degne di questo nome non mentre il pesce, come ben descritto potevano fare a meno di piscine per in un passo del Nuovo Testamento l’allevamento dei pesci; in seguito dove Gesú dice ai suoi discepoli: grazie alla trasformazione degli al- «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini» levamenti per il fabbisogno dome- (Mc 4, 19), rappresenta l’uomo. Anstico in veri e propri vivai, che an- cora oggi il pontefice possiede l’adarono sempre piú prosperando, nulus piscatoris (anello del pescatore), vendendo il pesce, spesso molto sul quale è incisa la rappresentaziopregiato, che vi era stato allevato ne della pesca miracolosa. Lapithos (Cipro). Resti delle vasche per l’acquacoltura, parte dell’antica città romana di Lambousa, localizzata sulla costa settentrionale dell’isola.
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NELLA CAMERA DELLE
MERAVIGLIE
UN PALAZZO NOBILIARE NEL CENTRO STORICO DI VERONA OSPITA LA STRAORDINARIA RACCOLTA DI OGGETTI D’ARTE ANTICA APPARTENUTA A LODOVICO MOSCARDO, ERUDITO DEL SEICENTO CON LA PASSIONE PER QUANTO «AVESSE DEL PELLEGRINO SIA NELL’ARTE CHE NELLA NATURA». ECCO LA STORIA DELLA FONDAZIONE MUSEO MINISCALCHI-ERIZZO, UN’ISTITUZIONE APERTA AL PUBBLICO E PRONTA A RIPRENDERE, A PARTIRE DA QUESTO MESE, LE SUE ATTIVITÀ FORMATIVE DEDICATE ALLE SCUOLE di Cristina Ferrari
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I
Qui sopra: un astrolabio proveniente dalla Wunderkammer del conte Lodovico Moscardo. In alto, a destra: lo scalone d’onore di Palazzo Miniscalchi.
l 22 luglio 1955, il conte veronese Mario Miniscalchi-Erizzo, privo di discendenza diretta, nominava con testamento pubblico sua erede universale l’unica nipote Emiliana, figlia di suo fratello Emilio, e la vincolava alla creazione di una Fondazione «a scopo educativo e culturale», ovvero la Fondazione «Museo Miniscalchi-Erizzo». Alla Fondazione venivano assegnati lo splendido palazzo quattrocentesco di via San Mamaso, da sempre dimora della famiglia (vedi box a p. 82), e il palazzo classicheggiante di via Giuseppe Garibaldi, oltre a parte degli arredi e delle collezioni storiche, artistiche e archeologiche in essi contenute, il cui nucleo originale proveniva dalla Wunderkammer del conte Lodovico Moscardo. Tutti i lasciti erano subordinati all’usufrutto della contessa Anna Marca dei marchesi di Villahermosa e Santa Croce, moglie del conte Miniscalchi-Erizzo, che continuò ad abitare nel palazzo. A parlarci della storia della Fondazione è Giovanna Residori, attuale direttrice del Museo: «La Fondazione, costituita il 30 aprile 1964, ot-
tenne quindi i beni e divenne giuridicamente operativa alla morte della contessa, il 25 marzo 1977. Il suo primo impegno è stato la catalogazione delle collezioni ospitate nei palazzi, oltre alla ristrutturazione del complesso immobiliare stesso. Il Museo, che si articola attraverso le sale del palazzo del XV secolo e del successivo edificio del 1880, è stato inaugurato ufficialmente il 30 marzo 1990, e le sue collezioni si sono progressivamente arricchite, grazie a donazioni e acquisizioni». È importante ricordare che alla Fondazione sono state lasciate le opere d’arte, non le suppellettili domestiche e i mobili che normalmente arredano gli ambienti di un’abitazione, e di conseguenza non si può parlare di una vera e propria casa-museo.
L’ASCESA DI ZANINO «Le prime notizie certe della famiglia Miniscalchi risalgono al 1409 – spiega Giovanna Residori –, quando Zanino, capostipite del ramo veronese, ottenne la cittadinanza. Mercante intraprendente, Zanino riuscí ad aumentare consia r c h e o 81
MUSEI • VERONA
derevolmente il proprio patrimonio, oltre ad affermarsi socialmente, fino a ottenere, nel 1425, l’aggregazione al nobile Consiglio di Verona». Nel corso dei secoli la famiglia continuò una sapiente politica matrimoniale, imparentandosi con prestigiose famiglie della nobiltà veneta. «In particolare, si data al 1785 il matrimonio tra Marcantonio Miniscalchi e Teresa Moscardo, figlia della principessa Alfonsa D’Este ed erede della maggior parte delle raccolte d’arte, scientifiche e naturalistiche dell’erudito veronese Lodovico Moscardo (1611-1681), la Wunderkammer che ancora oggi costituisce il primo e principale nucleo delle collezioni del Museo. Il figlio di Marcantonio e Teresa, Luigi, sposò nel 1808 la principessa Marianna Erizzo, ultima discendente dell’illustre casato veneziano che,
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PITTURE PER STUPIRE E PER AMMONIRE La costruzione del palazzo di via San Mamaso iniziò intorno all’ultimo quarto del XV secolo, quando Zanino Miniscalchi, divenuto nobile, decise di farsi costruire una dimora consona al suo nuovo status sociale. Dal 1500 fino al 1880, l’edificio, che inglobò una preesistente abitazione trecentesca con loggiato, fu interessato da ripetuti interventi, con l’aggiunta di nuovi corpi di fabbrica che si aggiunsero a quello originale. Concepita come una quinta scenica aperta da un portale in marmi colorati e da finestre rivestite in marmo rosso di Verona con elementi decorativi di gusto tardo-gotico, la facciata è arricchita da una monumentale decorazione pittorica datata a
partire dal 1590 (nei medesimi anni vennero affrescate anche le facciate interne che si affacciavano sul primo cortile) secondo una moda molto diffusa a Verona, commissionata da Pier Francesco Miniscalchi. Attribuita a Michelangelo Aliprandi, imitatore di Paolo Veronese, e alla sua bottega, la decorazione è divisa in tre registri (corrispondenti ai tre piani del palazzo) e offre un messaggio «moraleggiante», con il topos biblico del Giudizio di Salomone (campo centrale del registro superiore) e il mito di Damocle (secondo registro, che corrisponde al piano nobile), ed è uno dei principali esempi della pittura tardo-cinquecentesca a oggi conservati in città.
A sinistra: Lodovico Moscardo, in un ritratto eseguito da Andrea Voltolini. 1681. Nella pagina accanto: la facciata di Palazzo Miniscalchi, impreziosita da una decorazione dipinta, realizzata a partire dal 1590. In basso: la Sala degli Antenati, oggi prima stanza del Museo, corrispondeva all’ambiente adibito ad anticamera dei conti MiniscalchiErizzo.
oltre al proprio cognome, portò in dote altri oggetti preziosi, che arricchirono ulteriormente le collezioni della famiglia, in particolare dipinti e splendidi vetri di Murano del XVI e del XVII secolo».
IL PERCORSO DI VISITA La visita comincia dall’edificio stesso, dai due atri, in origine privi di soffitto, intorno ai quali si sviluppava il palazzo quattrocentesco, con la facciata monumentale che avanzava su fronte strada e appariva come una sorta di «quinta scenica», secondo l’architettura tipica del periodo, ricordando le domus romane; solo nel 1880 la struttura viene in parte modificata, con la costruzione di un secondo palazzo a r c h e o 83
MUSEI • VERONA
in stile classicheggiante. Il visitatore entra quindi nella prima sala, detta degli Antenati, in cui si può ammirare uno dei capolavori del Museo, il dipinto su tavola di Madonna con Bambino e San Giovannino, colto nell’atto di passare la croce a Gesú, eseguito da Francesco e Giacomo Francia (inizi del XVI secolo), frutto di un’acquisizione. «Dalla collezione di Lodovico Moscardo provengono invece gli splendidi e preziosi oggetti in avorio e osso (datati tra il primo quarto del XV e fine XVII secolo), da area italiana, tedesca e francese: da
segnalare sei placchette in osso, A destra: la Sala avorio ed ebano, in origine parti di delle Bifore, nella un cofanetto, intarsiate a rappre- parte centrale del sentare scene mitologiche o episopalazzo. di della vita di santi e realizzate A sinistra, in dalla «Bottega degli Embriachi», basso: formelle, fondata a Firenze e poi trasferita a in osso, avorio ed Venezia dopo il 1393, e l’impugna- ebano, in origine tura di un coltellino rappresentante parti di un due amanti abbracciati, di manifatcofanetto tura francese (XV secolo)». esagonale,
GUSTO TARDO-GOTICO Uno degli ambienti piú suggestivi è la quattrocentesca Sala delle Bifore, con due grandi finestre in stile tardo
realizzate dalla Bottega degli Embriachi. Primo quarto del XV sec. Nella pagina accanto, in basso: a sinistra, vaso in vetro del tipo Stangenglas con il mito di Apollo e Marsia (Venezia, 1550-1580); a destra, osso intagliato con il Ratto di Europa (fine del XVI sec.).
gotico, in origine aperte come loggiato su un cavedio affrescato chiuso verso la strada dalla facciata, in cui i conti Miniscalchi-Erizzo esponevano gli oggetti piú significativi delle collezioni. «La sala conserva lacerti di affreschi cinquecenteschi, riscoperti durante lavori di restauro, che in origine proseguivano sotto il pavimento e dovevano arrivare fino al primo vano dell’atrio in un continuum scenografico con la facciata; gli affreschi sono poi stati ricoperti da 4 strati di intonachi, forse a partire dalla pestilenza del 1630». Oggi sono esposti cinque piatti istoriati di manifattura urbinate. «Il piú prezioso è il piatto da “parata” (tagliere istoriato) appartenuto a Isabella d’Este-Gonzaga (realizzato tra il 1519 e il 1525 da Nicola da Urbino), portato in dote da Teresa Moscardo, con raffigurato l’episo84 a r c h e o
dio mitologico di Latona con i figli Apollo e Artemide e i contadini della Licia». Ai lati della sala, simmetricamente alle bifore, si aprono due salette che ospitano le raccolte di bronzi e placchette rinascimentali, arredi, dipinti e mappe.
FIGURE MITICHE E DELLA BIBBIA «I bronzetti, parte della Wunderkammer, costituiscono la tipica raccolta rinascimentale, collezionati per il gusto estetico piú che per il loro effettivo valore: rappresentano personaggi mitici o biblici, ma anche oggetti d’uso quotidiano, e sono quasi tutti opera di Andrea Briosco, detto il Riccio (1470-1532), ma anche di Jacopo Sansovino (14861570) e di Tiziano Aspetti (15651607). Da segnalare il busto-autoritratto di Giulio Della Torre, patrizio veronese e artista medagliere allievo a r c h e o 85
MUSEI • VERONA
FRA PIETRE DEL FULMINE E BASILISCHI
In alto: la Sala del Camino, che prende nome dal grande camino rivestito da maioliche faentine (XVII-XVIII sec.). A sinistra: il Mobile del Diavolo, che, dietro una tavoletta dipinta, cela appunto la testa di un diavolo. Nella pagina accanto: vaso canopo egiziano, già nella Wunderkammer del conte Lodovico Moscardo.
del Riccio, unica sua opera a tutto tondo, datato 1515-1530 circa. Pregevoli sono anche le mappe catastali, di cui una del 1663, dono della famiglia Canossa». Il percorso prosegue negli ambienti del palazzo ottocentesco, nella Sala del Camino, un grande ambiente in cui lo sguardo è subito catturato dal magnifico camino novecentesco rivestito da formelle in maiolica faentina (XVII-XVIII secolo), in origine parte di una stufa collocata nella Villa Pullè di Chievo (Verona), ceduta nel 1919 all’Amministrazione Provinciale di Verona. «La Sala del Camino nella dimora dei conti ospitava anche armi e armature (oggi nella Sala delle Armi) sempre provenienti da Villa Pullè, datate tra XV e XVII secolo, che comprendono sia armi effettivamente utilizzate in battaglia (per esempio un semplice elmet86 a r c h e o
Nucleo originario del Museo sono le testimonianze di ciò che resta della Wunderkammer, la «camera delle meraviglie», dell’erudito veronese Lodovico Moscardo (1611-1681). Questi, dagli anni Trenta del XVII secolo, si dedicò alla raccolta di tutto ciò che «avesse del pellegrino sia nell’Arte che nella Natura», dando vita a un vero e proprio museo domestico, visitato e celebrato da illustri studiosi e gentiluomini europei durante il loro Grand Tour e del quale egli stesso pubblicò due cataloghi illustrati con stampe, nel 1656 e nel 1672 (un anno prima dell’acquisizione della collezione Calzolari), dedicati a Francesco I D’Este, duca di Modena e Reggio (che lo ricompensò con il titolo di conte). La collezione, che occupava 6 stanze del palazzo del Moscardo, era stata creata soprattutto con lo scopo di stupire, non per finalità scientifiche, e comprendeva bronzetti rinascimentali, reperti archeologici e strumenti scientifici, reperti fossili, denti di squalo (considerati «lingue di pietra»), punte di freccia in selce esposte come «pietre del fulmine», mani mummificate e vasi canopi provenienti dalla necropoli di Tebe (Egitto), disegni, lapidi, strumenti musicali e molto altro. Immancabili, in conformità con il gusto per gli esemplari curiosi tipico del Cinquecento e del Seicento, erano il corno dell’unicorno (un dente di narvalo) e gli «scherzi» della natura, ovvero creature mostruose (in realtà artifici abilmente creati da mani umane) quali un feto mummificato di capretto con tre teste e il «basilisco», che il Moscardo riconosce come animale fittizio, salvo poi credere che da un particolare tipo di conchiglie potessero nascere le anatre.
Buona parte della collezione proviene dall’acquisizione della raccolta dello speziale veronese Francesco Calzolari, inaugurata nel 1571 e considerata uno tra i primi musei naturalistici del mondo, che il Moscardo in parte descrive nel catalogo del 1672, anche se in realtà ufficialmente la acquistò da un nipote del Calzolari solo nel 1673. Pur comprendendo il maggior numero possibile di rari «esemplari curiosi», la collezione Calzolari era comunque organizzata secondo un criterio che può essere definito «scientifico», soprattutto per quanto riguarda le collezioni naturalistiche e botaniche, anche per scopi di studio (e non solo per stupire), ed era aperta a eruditi e scienziati, nonché a studenti. Negli anni, infatti, Calzolari era entrato in contatto con numerosi naturalisti italiani e stranieri, con i quali aveva organizzato una fitta rete di scambi di esemplari, e soprattutto con il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605), con cui partecipò nel 1554 alla spedizione sul monte Baldo, durante la quale raccolsero campioni botanici, geologici e fossili, soprattutto di pesci. Tra il 1800 e il 1804 le ultime discendenti della famiglia Moscardo, Marianna, Isabella e Teresa (moglie di Marcantonio Miniscalchi), vendettero parte della Wunderkammer e delle collezioni di famiglia, soprattutto dipinti, parti della biblioteca, monete e medaglie in metallo prezioso, stampe e disegni, per poi dividere tra loro quanto rimasto, tranne la raccolta di epigrafi antiche, donata nel 1817 alla città di Verona e confluita nel Museo Lapidario Maffeiano. Nel 1912, infine, la contessa Elvira Miniscalchi-Erizzo donò al Museo Civico di Verona la sezione naturalistica della collezione Calzolari-Moscardo, che costituí il primo nucleo del Museo di Storia Naturale della città scaligera. a r c h e o 87
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to), sia armi da parata». Notevole è lo splendido morione decorato con scene di trionfo, riconducibili a un componente di casa Farnese, datato 1587. Il nucleo originario del Museo è però rappresentato da ciò che resta della Wunderkammer, oggi nell’o-
monima Sala, in cui sono conservati alcuni degli oggetti piú significativi e curiosi della collezione di Lodovico Moscardo, che nel 1673 aveva acquistato anche la straordinaria collezione raccolta da Francesco Calzolari (1522-1609), farmacista e botanico veronese che
organizzò quello che può essere definito uno tra i primi musei di storia naturale del mondo. «La Wunderkammer – prosegue la direttrice – comprende anche vasi canopi egizi, strumenti scientifici (orologi solari e un astrolabio, ovvero uno strumento astronomico per localizzare o calcolare la posizione di corpi celesti come il Sole, la Luna, i pianeti e le stelle), un’acquasantiera in marmo pentelico del VI secolo e mobili e arredi con elementi rispondenti al gusto gotico e grottesco tipico della fine del Cinquecento, molto probabilmente in origine parte della collezione Calzolari». Tra questi ultimi, il piú curioso è il «Mobile del Diavolo», della seconda metà XVI secolo in cui, tirando il pomello del finto cassetto supeA sinistra, in alto: esemplari di lucerne decorate a stampo, dall’Italia settentrionale. I-II sec. d.C. Qui accanto: bronzetti di offerenti. Arte italica, III sec. a.C.
In alto: spiedo rituale in bronzo, da Ca’ dei Cavri (Verona). IV sec. a.C. L’oggetto reca un’iscrizione incisa del gruppo retico orientale, come si vede anche nel disegno riprodotto qui a destra, pubblicato nel 1672 A sinistra: bronzetto in forma di kouros. Seconda metà del VI sec. a.C. In basso: la Sala Archeologica del Museo.
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ATTIVITA’ E LABORATORI PER LE SCUOLE In questo mese di settembre il Museo intende riprendere l’attività formativa dedicata alle scuole. Sono previsti percorsi sia interni che esterni al Museo (con link alla chiesa di S. Anastasia, in cui si trova la cappella dell famiglia Miniscalchi). «La didattica – spiega Federica Candelato – sarà frontale, all’interno del Museo, con lo scopo di “incontrare” gli oggetti qui contenuti. Il Museo offre infatti molteplici spunti e connessioni tra argomenti diversi e, grazie ai suoi ampi spazi, è in grado di sostenere le attività formative in completa sicurezza, nonostante l’emergenza sanitaria ancora in atto. Le attività coinvolgono scuole di tutti i livelli, da quella dell’infanzia fino alla secondaria di II grado, fino a un progetto di alternanza scuola-lavoro, con percorsi e attività differenti, appositamente progettati a seconda dell’età di bambini e ragazzi. Sono previsti percorsi storici, artistici e archeologici che, a partire dalla storia e dall’evoluzione del palazzo si spostano poi all’interno per visitare e “toccare con mano” le collezioni, ma anche conoscere i personaggi storici e conoscere le vicende della famiglia, oltre a partecipare a giochi e laboratori creativi, particolarmente apprezzati. Una novità sarà la possibilità di assistere alle attività di restauro del Museo. Abbiamo notato come la stessa visita al Museo sia molto apprezzata, in particolare dai piú piccoli che restano impressionati dalla magnificenza dello Scalone e delle sale del palazzo e dalle curiosità esposte». In alto: la biblioteca storica di casa Miniscalchi-Erizzo. Nella pagina accanto, a sinistra: pendagli ornamentali in bronzo. Arte paleoveneta, IV-III sec. a.C. Nella pagina accanto, a destra: bottiglia mercuriale in vetro traslucido, dalla Gallia. III sec. d.C.
riore, scende una tavoletta e appare la testa scolpita e dipinta del diavolo. Di particolare interesse è anche la collezione della Sala Archeologica, che comprende reperti raccolti da Lodovico Moscardo direttamente da scavi archeologici o acquistati. «Si tratta – spiega Federica Candelato, collaboratrice archeologa e per i servizi didattici – di una collezione molto eterogenea, con reperti provenienti da contesti differenti, realizzati con materiali diversi (bronzetti etrusco-italici, romani e dei Veneti antichi, vetri romani e ceramica prevalentemente di uso domestico), databili a partire dal VI secolo a.C. e fino al III secolo d.C., in quanto il
Moscardo voleva principalmente acquisire e documentare le testimonianze piú significative dei molteplici aspetti delle civiltà antiche. Si possono tuttavia rilevare alcune costanti, quali, per esempio, i numerosi bronzetti raffiguranti Ercole».
UNA RACCOLTA ETEROGENEA «La collezione comprende anche ceramiche romane, italiche e d’importazione, vetri romani del I-II secolo d.C. (bottiglie mercuriali, bottiglie, brocchette, unguentari, coppe e una grande olla), lucerne romane soprattutto del I e II secolo d.C. con scene erotiche, pendagli e ornamenti vari di fattura veneta antica (dal IV secolo a.C. fino all’età romana), asce dell’età del Ferro e una situla bronzea semplice, quasi integra, del IVIII secolo a.C. I reperti piú interessanti sono però un bronzetto di kouros e, soprattutto, un raro spiedo rituale in bronzo con impugnatura ad anello su losanga del IV secolo a.C.
proveniente da Ca’ dei Cavri (Verona), con incisa un’iscrizione in alfabeto retico orientale, che trova confronti con esempi provenienti dall’abitato dell’ex Storione di Padova, da Lagole di Calalzo, da Waisenberg in Carinzia e da Magdalenska Gora e Sticna in Slovenia. Del reperto, erroneamente descritto dal Moscardo come una spada quadrangolare rotta nell’edizione del 1672 del catalogo del Museo, si erano perse le tracce per oltre un secolo, fino alla sua riscoperta nel 1984». DOVE E QUANDO Fondazione Museo Miniscalchi-Erizzo Verona, via San Mamaso 2/a Orario lunedí-venerdí, 11,00-13,00 e 15,30-18,30; chiuso sabato, domenica e giorni festivi Info tel. 045 8032484; e.mail: info@museominiscalchi.it; www.museominiscalchi.it; Facebook @miniscalchierizzo a r c h e o 91
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GERMANICO, AMELIA E IL BIMILLENARIO IN UN SABATO D’AGOSTO DI OLTRE CINQUANT’ANNI FA AFFIORANO, DEL TUTTO INASPETTATAMENTE, A RIDOSSO DELLE MURA DELLA CITTADINA UMBRA, I FRAMMENTI IN BRONZO DI UNA SCULTURA SUBITO GIUDICATA ECCEZIONALE. GRAZIE A UN LUNGO E COMPLESSO RESTAURO, PRENDE FORMA QUESTO MAGNIFICO RITRATTO DEL NIPOTE DI AUGUSTO, MORTO MISTERIOSAMENTE NELLA LONTANA SIRIA... a cura di Daniele Manacorda, con testi di Alessandra Bravi, Marica Mercalli, Elena Roscini, Marcello Barbanera, Raffaele Carlani, Elena Calandra, Edoardo D’Angelo e Antonella Pinna A sinistra: Vista di Amelia, olio su tela di Hendrik Frans van Lint 1730. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Nella pagina accanto: statua in bronzo di Germanico. I sec. d.C. Amelia, Museo Civico Archeologico.
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I
l 13 ottobre del 19 d.C., nella lontana Siria, moriva nel pieno vigore dell’età Caio Giulio Cesare Germanico, nato da Druso, figlio di primo letto di Livia, e da Antonia, figlia di Ottavia sorella di Augusto. Non si seppe mai se quella morte, probabilmente provocata da un veleno, fosse stata ordita in una congiura di palazzo, forse ispirata dallo stesso imperatore Tiberio, suo padre adottivo. Al grande generale furono decretati straordinari onori postumi: archi e statue furono erette in diverse parti dell’impero. Quella magnifica in bronzo, esposta ad Amelia di fronte alle sue mura ciclopiche, ha avuto la ventura di essere stata riportata alla luce nel secolo scorso. Oggi è uno dei gioielli del Museo della cittadina umbra. Nel 2019, un Comitato costituito per iniziativa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (MiBACT) ha gestito, con il Comune di Amelia e la Regione Umbria, le celebrazioni del bimillenario della morte di Germanico. Ma se ancora parliamo di lui è forse perché in quest’uomo, di cui, in fondo, sappiamo solo quel che i posteri ci hanno voluto tramandare, riconosciamo uno di quei casi della storia in cui le vicende personali di un individuo hanno avuto un riflesso profondo sul corso degli eventi. Certo, la storia non si fa con i «se», ma se, invece di finire i suoi giorni in Oriente vittima di una trama che arrivava ai vertici del potere imperiale, Germanico avesse assunto le redini di quello stesso impero, quali sarebbero stati gli sviluppi della storia romana e quale la sua immagine nei secoli a venire? Nel figlio del grande Druso confluivano il sangue dei Claudii e quello della madre Antonia, figlia di Marco Antonio, il nemico di Augusto, eppure vagheggiato dalla fronda politica che si era andata clandestinamente formando nella Roma del tempo. Per volontà dello stesso
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Augusto, erede della famiglia dei Giulii, rivale dei Claudii, l’adozione di Germanico, imposta allo zio Tiberio, fratello di Druso, permetteva di riunire nella sua persona le due linee familiari. La speranza era di costruire una compagine di potere solida, che non fosse minata da quei conflitti interni, che invece, nel giro di mezzo secolo, portarono alle crudeltà di Tiberio, alle perversioni di Caligola, agli ondeggiamenti di Claudio, alle follie di Nerone e al crollo della dinastia. Per ironia della sorte, colui che, amato dal popolo, avrebbe potuto aprire all’impero le prospettive migliori, gli lasciò in eredità, con il figlio Caligola, una delle figure piú grottesche tra quelle salite al potere in quegli anni tumultuosi.
Nella pagina accanto: Agrippina e Germanico, olio su tavola di Peter Paul Rubens. 1614 circa. Washington, National Gallery of Art. In basso: ritratto in basanite di Livia Drusilla, moglie di Augusto e dunque nonna di Germanico. Post 31 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Nato nel 15 a.C., Germanico condusse campagne militari, prima in Dalmazia e in Pannonia, poi in Germania, infine in Oriente. I suoi successi fecero guadagnare al giovane condottiero crescenti simpatie sia nell’esercito, sia presso il popolo, e invidia e sospetto in Tiberio e nella sua corte. L’annuncio della sua tragica morte, ricordata dagli storici Suetonio e Tacito, gettò un’ombra di lutto e tristezza, accompagnata da grandi celebrazioni, di cui la splendida statua bronzea di Amelia è un’eccezionale conferma. Il bronzo lo rappresenta in veste trionfale come generale vittorioso, con un braccio appoggiato a una lancia, mentre l’altro è sollevato nel gesto oratorio della adlocutio. La decorazione della corazza, di grande pregio artistico, rappresenta la scena dell’agguato di Achille a Troilo, forse per trasferire il ricordo delle operazioni militari di Germanico in Oriente e l’episodio della sua tragica fine nella sfera piú elevata del mito e del mondo degli eroi. Chissà se Germanico mise mai piede ad Amelia? Forse sí, forse no; eppure questa affascinante cittadina umbra, gioiello di monumenti e di storia, è ormai indissolubilmente associata al nome di quel grande generale. Germanico non vinse la scommessa della sua vita, ma Amelia può continuare a scommettere su di lui per vivere con sempre maggiore partecipazione la profondità della sua storia millenaria. (D.M.)
Augusto
(C. Giulio Cesare Ottaviano) sp. Clodia, poi Scribonia poi
UNA DINASTIA ILLUSTRE
Livia
già sp. a Tiberio Claudio Nerone
Tiberio
GERMANICO
Livilla
sp. Agrippina Maggiore
Nerone
Druso
Drusilla
C. Caligola
Lucio Domizio Enobarbo Nerone
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Druso
sp. Antonia Minore
Claudio
Agrippina Minore sp. Cn. Domizio Enobarbo
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In alto: il tracciato della via Amerina, importante arteria che si staccava dalla Cassia all’altezza della valle del Baccano (ad Vacanas) e, attraverso l’agro falisco, metteva Roma in comunicazione con l’Umbria. Sulle due pagine: un tratto della via Amerina, fiancheggiato da resti di monumenti funerari. a r c h e o 97
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AMERIA, NOBILE E ANTICA di Alessandra Bravi
S
e durante il I secolo d.C. un viaggiatore, percorrendo la via Amerina, fosse giunto in prossimità del suburbio meridionale di Ameria, l’antica Amelia, avrebbe potuto immaginare di trovarsi a calcare il selciato di una delle piú famose strade consolari che conducevano a Roma. Imponenti monumenti funerari si ergevano infatti ai lati della strada. Alla distanza di un miglio apparivano le forme regolari delle mura imponenti, costruite con blocchi poligonali perfettamente incastonati. Ameria era una città di antica fondazione umbra. Secondo Catone, era nata 963 anni prima della guerra contro Perseo (171-168 a.C.) e i frammenti ceramici relativi all’età del Bronzo rinvenu-
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ti all’interno del perimetro urbano avvalorebbero questa datazione. Sembra che gli Amerini siano stati l’unico popolo umbro a poter vantare nobili origini mitiche: secondo Festo, sarebbero discesi dall’eroe fondatore Amiro. La ricchezza dell’abitato preromano si rifletteva ancora nel IV secolo a.C. nei corredi delle tombe della vasta necropoli esterna alle mura, proprio lungo il tratto della via Amerina destinato a ospitare monumenti pubblici caratteristici della romanità imperiale: un anfiteatro e un campus, dove poteva accadere di assistere ai riti tipici delle nuove leve dell’esercito romano in onore della Vittoria e della Felicità degli imperatori. Tra la cittadinanza figurava
Elemento architettonico con decorazione a tralci vegetali. Amelia, Museo Civico Archeologico.
una nutrita schiera di seviri augustales preposti al culto imperiale, nominati in molte iscrizioni, assieme a magistrati, sacerdoti, cavalieri e veterani. Alcune famiglie aristocratiche, come quella dei Sesti Avieni, avevano cofinanziato la costruzione del teatro su un pendio terrazzato della città, sontuoso per la fattura dei suoi capitelli e delle colonne di marmi pregiati. La moltitudine di iscrizioni e di urne di travertino con coperchio a spioventi, rinvenute in località Cinque Fonti, in prossimità di Porta Romana, e dedicate a liberti di origine greca e ad artigiani, testimonia della consistenza del ceto medio in città e nel territorio.
UNA RETE PRODUTTIVA CAPILLARE Artigiani provenienti da Roma erano molto attivi tra il I secolo a.C. e il I d.C. nel creare decorazioni raffinate per i monumenti pubblici e prodotti di pregio, come rilievi, altari e statue onorarie, a uso e consumo delle élites, che abitavano ricche case pavimentate a mosaico all’interno delle mura cittadine. L’economia di Ameria era sostenuta da una capillare rete produttiva distribuita sul territorio. L’ager Amerinus, che comprendeva uno spazio pari almeno al doppio dell’attuale territorio comunale, era disseminato di ville rustiche e di piccole imprese agricole e artigianali, particolarmente concentrate in prossimità di fiumi e strade. Nelle fornaci (figlinae) si produceva una grande quantità di laterizi destinati al mercato di Roma. Nei decenni che seguono la morte di Germanico questo stato di equilibrato sviluppo, fondato sulle strette relazioni economiche e culturali tra le produzioni locali e i consumi delle aristocrazie urbane, si mantiene costante. La città è in grado di far fronte a imprese evergetiche impegnative, come la dedica in uno spazio pubblico di una statua di bronzo di rango imperiale, che assume le fattezze del principe piú amato dagli abitanti di municipi e colonie d’Italia: Germanico Giulio Cesare.
RICERCA E TUTELA di Marica Mercalli ed Elena Roscini
L’
attività svolta dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggi dell’Umbria nell’area amerina testimonia quanto l’azione di tutela dei beni del patrimonio culturale sia importante per approfondire la conoscenza dei luoghi. L’archeologia preventiva ha condotto spessissimo al ritrovamento di importanti preesistenze romane ed etrusche che connotano il territorio umbro pressoché nella sua interezza. Si pensi alla villa romana presso Spello, con i suoi mosaici rinvenuti durante lo sbancamento per la realizzazione di un parcheggio urbano, oggi valorizzati in uno dei piú interessanti spazi espositivi dell’Umbria (vedi «Archeo» n. 400, giugno 2018; anche on line su issuu.com).
In basso: ara funeraria rinvenuta nella stessa area dalla quale proviene la statua bronzea di Germanico, presso via delle Rimembranze. Seconda metà del I sec. d.C. Amelia, Museo Civico Archeologico.
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Scavi diretti dalla Soprintendenza fra il 2018 e il 2019 hanno rimesso in luce un tratto importante della via Amerina, nel suburbio meridionale della città. Il ritrovamento, molto significativo per la ricostruzione del tracciato della via, ha prodotto da parte della Soprintendenza una sospensione dei lavori di costruzione di un poliambulatorio, che rispondeva a un’esigenza di primaria importanza per la collettività, ma ha permesso di riformulare il progetto originario nel rispetto di quanto ritrovato, che sarà anche oggetto di una specifica valorizzazione. Una nuova campagna di scavo e ricerche topografiche nella parte del territorio comunale che guarda verso la valle del Tevere ha permesso di proseguire l’indagine di un insediamento produttivo di epoca romana imperiale, che si caratterizza per le rilevanti testimonianze cultuali, tra cui un altare di elegante fattura consacrato a Iside (ora nel Museo di Amelia), che è una delle rare testimonianze sulla presenza dei culti egizi nell’Umbria antica.
GOVERNARE IL TERRITORIO Un importante progetto curato dalla Soprintendenza riguarda anche il restauro delle mura ciclopiche di Amelia, a seguito di un crollo avvenuto nel 2006. Dalla convergenza fra tutela e ricerca si può dunque pervenire al governo intelligente dei territori, dove, nella maggior parte dei casi, la salvaguardia delle preesistenze e delle aree su cui insistono è stata giudicata di intralcio all’espansione edilizia, vista spesso come unico o quanto meno principale motore di sviluppo. Il «paesaggio archeologico» è una delle manifestazioni piú chiare e suggestive della fusione tra storia e natura, che fa dei nostri luoghi un’espressione peculiare del paesaggio come bene culturale tout court, difeso dalla Costituzione e dal Codice dei Beni culturali e del Paesaggio. Il territorio, infatti, non è solo il grande contenitore del nostro patrimonio culturale, ma il suo tessuto connettivo e non possiamo piú pensare alla sua tutela se non in maniera «integrata», proteggendo il paesaggio e tutte le testimonianze storiche che lo connotano, soprattutto quelle archeologiche. I musei archeologici infine, come quello, bellissimo, di Amelia, non sono di conseguenza semplici contenitori, ma diventano luoghi della storia e della memoria di un territorio e di una collettività. 100 a r c h e o
SCRITTORE D’ASTRONOMIA di Edoardo D’Angelo
O
ltre che uomo d’arme e politico, Caio Giulio Cesare Germanico è stato anche raffinato uomo di cultura e (assai probabilmente) scrittore. Cassio Dione lo definisce di cultura straordinaria, Ovidio, nel dedicargli i Fasti, lo appella principe doctus e lo paragona al dio Apollo. Tiberio, nel rifiutarsi di tributare al figlio adottivo l’onore di essere annoverato tra i grandi oratori, si giustificò dicendo che per Germa-
In basso: particolare della decorazione frontale della lorica della statua bronzea di Germanico, con l’agguato di Achille a Troilo.
mo e Lattanzio fanno infatti riferimento al figlio di Druso quale autore di astronomia in versi, ma l’assenza di attribuzione diretta nei manoscritti lascia aperto il campo a una pluralità di ipotesi (Germanico, Tiberio, Caio Giulio Cesare, Domiziano...). Per quanto riguarda la datazione dell’opera, molti studiosi si schierano comunque per l’età augustea. Nei Phaenomena, Germanico mostra di seguire abbastanza fedelmente il modello ellenistico di partenza, pur modificandolo in vari punti, soprattutto sulla base delle correzioni apportate da Ipparco (II secolo a.C.), che aveva criticato l’opera di Arato, perché imperfetta dal punto di vista astronomico. Per quanto riguarda i frammenti dei Prognostica, viceversa, questi, che espongono in prospettiva rigorosamente astronomica gli influssi dei segni zodiacali e dei pianeti sul tempo atmosferico e sul clima, non sembrano corrispondere per contenuto ai Prognostica aratei, che illustrano i segni del buono e del cattivo tempo.
In alto: pagina da un manoscritto degli Aratea di Germanico. 1028 circa. Berna, Burgerbibliothek.
nico sarebbe stato sufficiente essere ricordato tra gli scrittori antichi come autore di commedie in greco: testi per noi perduti, cosí come perduto è un epigramma sul cavallo di Augusto ricordato da Plinio il Vecchio. La tradizione attribuisce a Germanico una traduzione in latino dei Phaenomena di Arato (poeta greco forse originario di Tarso, in Cilicia; 315 circa-dopo il 240 a.C., n.d.r.) e dei Prognostica, 4 epigrammi in greco e 2 in latino. L’opera di Arato aveva riscosso notevole fortuna nella cultura latina come modello di raffinatezza stilistica, usato da Virgilio come una delle fonti principali delle Georgiche. L’attribuzione del testo a Germanico è fondata tuttavia (oltre che sulla dedica a un padre imperatore) su una tradizione indiretta; Girola-
FRA ASTROLOGIA E MITO Nel comporre i suoi versi, Germanico si avvale anche di una vasta documentazione figurata con le immagini delle costellazioni: la mitologia celeste occupa nella sua redazione uno spazio molto piú ampio che nell’originale di Arato, e questo nonostante l’estensione del poema rimanga all’incirca la stessa grazie a uno stile sintetico e denso, che non va tuttavia a detrimento della qualità della descrizione astronomica. È dunque possibile che Germanico abbia voluto offrire ai suoi lettori un Arato rivisto e aggiornato secondo le visioni della scienza astrologica, in omaggio alla passione per la mitologia greca manifestata dalla classe dirigente romana del suo tempo (Germanico dedica un largo spazio alle dodici costellazioni dello Zodiaco, laddove Arato ne elencava a stento i nomi). Anche per gli epigrammi l’attribuzione a Germanico non è unanime, sebbene l’ipotesi piú largamente accettata lo voglia autore unico di tutti e sei gli epigrammi a noi pervenuti. Si tratta, a r c h e o 101
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nel complesso, di carmi a contenuto e ispirazione funebre, nei quali Germanico ostenta la padronanza di entrambe le lingue. In una coppia di epigrammi sul sepolcro di Ettore in Troade, il poeta rincuora l’eroe defunto con l’idea che ora la Grecia di Achille è sotto il dominio dei discendenti di Enea. Spostando l’attenzione su Ettore, Germanico, che nel 18 d.C. aveva fatto una tappa in Troade, vuole cosí superare Alessandro Magno, che vi si era recato per rendere omaggio alla tomba di Achille (il mito di Achille che uccide Troilo comparirà in seguito sulla corazza della statua di Amelia).
TRACIA, TERRA FREDDISSIMA E INOSPITALE Due epigrammi sono dedicati a un ragazzo annegato in Tracia, giocando sul fiume Evro gelato: la sua testa mozzata da una lastra di ghiaccio viene recuperata dalla madre disperata, mentre il corpo resta inghiottito dalle acque gelide. È difficile individuare motivi ideologici alla base di questa coppia di epigrammi «macabri». Si tratta di un drammatico episodio reale o di una sorta di omaggio letterario fatto a Ovidio, esule a Tomi sul Mar Nero? Sembrerebbe confermarlo l’espressione lubrica testa (lastra scivolosa) presente solo nell’epigramma e nei Tristia di Ovidio (3.10.38), dove indica il gelo terribile che in Tracia attanaglia tutto, anche le acque dei fiumi e del mare. Due epigrammi in greco parlano di una lepre che, per sfuggire a un cane, cade in mare, finendo nella bocca di un pescecane, e di una sua riflessione sul destino: tra terra e mare non ci sarebbe scampo nemmeno fuggendo nel cielo, perché anche lí, tra le stelle, c’è un Cane. I due epigrammi riflettono dunque con una triste ironia sull’ineluttabilità del fato. Ma il secondo testo introduce un tema tutto germaniciano: il cielo e le costellazioni, in particolare, proprio quelle del Cane e della Lepre, puntualmente presenti nella traduzione latina dei Phaenomena (341-342). 102 a r c h e o
RITRATTO DI UN PRINCIPE di Elena Roscini
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on un telegramma del 5 agosto 1963 l’Ispettorato alle Antichità dell’Umbria comunicava alla Direzione Generale Antichità e Belle Arti di Roma che, nel pomeriggio di sabato 3 agosto, era stata rinvenuta ad Amelia «un’importante statua bronzea di principe Giulio-Claudio». Come spesso accade, si trattò di un ritrovamento fortuito, durante sterri per l’ampliamento di un mulino lungo via delle Rimembranze, a un centinaio di metri dalle maestose mura poligonali, in quello che era l’immediato suburbio meri-
In alto: la testa della statua in bronzo di Germanico, subito dopo il ritrovamento, il 5 agosto 1963.
dionale della città romana. Nei giorni precedenti erano già stati recuperati nell’area notevoli reperti archeologici, tra cui la base in pietra, con ancora infisso un piede. Purtroppo, lo spostamento dei materiali prima dell’arrivo delle autorità competenti causò la perdita di dati di scavo utili a stabilire il luogo di originaria collocazione della scultura. Un complesso lavoro di restauro e ricomposizione dell’opera impegnò a lungo la Soprintendenza alle Antichità per l’Umbria. Della statua, infatti, solo la testa era sostanzialmente integra, mentre le parti restanti erano ridotte in molteplici frammenti, anche assai minuti, deformati e corrosi. I numerosi segni di colpi, come quello visibile sulla gamba destra, testimoniavano di una distruzione subita.
UN INTERVENTO DELICATO Una prima tappa è stata raggiunta nel 1987, con il completamento del restauro della testa, presentata ad Amelia in una mostra illustrativa dello stato dei lavori: venne allora confermata l’identificazione con Germanico, nel suo ritratto postumo ascrivibile al cosiddetto tipo Gabii (dal luogo di provenienza di uno degli esemplari, situato al XII miglio della via Prenestina, n.d.r.), elaborato sotto il regno di Tiberio, o meglio del successore Caligola. Una volta restaurati tutti i frammenti, poi assemblati in circa 60 pezzi maggiori, è stato affrontato il delicato intervento di ricostruzione. Si è proceduto innanzitutto al rilievo grafico, partendo dall’unico dato certo, la posizione dei piedi sulla base, e affiancando ai dati tecnici l’osservazione dei tratti stilistici e lo stu-
Qui sotto: la statua di Germanico cosí come si presenta oggi, grazie all’intervento di restauro che ha permesso il rimontaggio quasi completo dei frammenti rinvenuti nel 1963.
In basso: un’altra foto scattata dopo il ritrovamento dei frammenti della statua. Il recupero venne effettuato senza rilevarne la posizione e risulta perciò impossibile stabilire quale fosse l’ubicazione originaria della scultura.
dio iconografico. Sulla base della ricomposizione in disegno, è stata quindi progettata una struttura di sostegno in acciaio e legno regolabile, alla quale le lamine bronzee sono state agganciate meccanicamente, in modo da evitare fori e saldature.Tale soluzione presenta il duplice vantaggio di essere reversibile e perfezionabile nel tempo. I frammenti che non è
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gramma figurativo. La parte anteriore è occupata dalla scena dell’agguato di Achille a Troilo, inquadrata da una Scilla, in alto, e da una Vittoria in volo su entrambi i lati, mentre meno affollata è la composizione sulla schiena, con due danzatrici ai lati di un monumentale candelabro. Sotto il profilo tecnico, alcune decorazioni sono ottenute nello stesso getto della lamina, come la scena principale, mentre altre sono fuse separatamente e applicate (per esempio le figure di danzatrici). Alcune sproporzioni e incongruenze formali, in particolare le dimensioni contenute della testa rispetto al torso, hanno indotto la maggior parte degli studiosi a concludere che il ritratto di Germanico sia stato inserito in una statua dedicata in origine a un altro personaggio. Alcuni datano la corazza al periodo giulio-claudio, pensando alla modifica di una statua di Caligola, condannato alla damnatio stato possibile riposizionare, perché troppo deformati, come la parte superiore della gamba sinistra con la tunica, o perché troppo pesanti da ancorare, come la spada, ma indispensabili per la completezza dell’immagine, sono stati sostituiti da copie in resina. La statua del Germanico, ricostituita quasi integralmente, è stata quindi ricollocata sulla sua base in travertino e posizionata su di una pedana antisismica. Nel 1998 è stata esposta nel Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria di Perugia, per essere poi trasferita ad Amelia, con l’inaugurazione del Museo Civico Archeologico nel 2001. Veniva cosí restituito alla collettività uno dei rari esempi di statue loricate in bronzo che si siano conser- In questa pagina: vate sino ai nostri giorni. frammenti della
IL GESTO DELL’ORATORE Di dimensioni maggiori del vero (h. 2,09 m), la statua è realizzata mediante la tecnica della fusione «a cera persa», con procedimento indiretto, fondendo separatamente le diverse parti, poi unite fra loro. Germanico è in piedi, con il peso sulla gamba destra e la sinistra incedente, il braccio destro proteso in un gesto oratorio (adlocutio), il sinistro piegato al fianco, da cui pende la spada nel fodero, e con in mano una lancia rivolta verso terra. Si presenta come generale vittorioso: sopra la tunica indossa una corazza (lorica) anatomica, con spallacci e doppia fila di lambrecchini (pteryges) decorati, che si caratterizza per il ricco pro104 a r c h e o
statua di Germanico che non sono stati rimontati perché troppo deformati o perché troppo pesanti. Per completare la ricostruzione dell’immagine, sono stati sostituiti da copie in resina.
memoriae dopo la morte (41 d.C.); altri individuano una serie di fasi, con il riutilizzo di una corazza tardo-ellenistica di produzione microasiatica per una statua di generale romano dei primi decenni del I secolo a.C., la cui testa sarebbe stata infine sostituita sotto Caligola. Non manca tuttavia chi, anche di recente, ha riproposto l’idea di una statua concepita fin dall’inizio per Germanico, spiegando le difformità con l’uso di diversi modelli per le singole parti che la compongono. A distanza di tempo dalla sua ricostruzione, il Germanico di Amelia offre ancora spunti di ricerca. Fra le ultime attività riguardanti il bronzo, sono stati riordinati i frammenti piú piccoli e deformati, non utilizzati nel rimontaggio, che sono stati messi a disposizione per nuove analisi scientifiche sulla lega metallica.
GLI EROI SON TUTTI GIOVANI E BELLI
Né si può trascurare, senza voler forzare il parallelismo, che alla stessa età muore anche Cristo: un’età che rappresenta un punto di riferimento e un banco di prova. Dall’imitazione del Macedone, peraltro, Germanico non era lontano, tanto che Tacito (Annali, 2. 73) invoca il paragone fra i due per l’avvenenza, per l’età e per la vicinanza dei luoghi della morte, sottolineando la mitezza di carattere del Romano. Il tema dell’età della morte, dunque, si impone. Ne era ben consapevole Giulio Cesare, il quale, secondo il racconto di Suetonio (Cesare, 7), quando era questore a Cadice, pianse davanti alla statua di Alessandro, rammaricandosi di non aver ancora compiuto azioni memorabili all’età in cui il re dei Macedoni aveva già conquistato il mondo intero.
di Elena Calandra
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l titolo, citazione di un verso de La Locomotiva, una delle piú note canzoni di Francesco Guccini, riprende un topos caro già alla letteratura classica, che nella giovinezza spezzata individua l’incipit per la glorificazione eroica di una vita virtuosamente vissuta. È questo il caso di Germanico, che gli studi anche recenti, condotti in occasione del Bimillenario, hanno collocato in una posizione di rilievo nella famiglia dei Giulio-Claudii, inquadrandone la figura di uomo di alti principi, di autorevole generale, di dotto letterato. La morte a 34 anni ad Antiochia, prontamente soffusa dell’ambiguo mistero dell’avvelenamento di cui egli stesso temeva di essere vittima, proietta immediatamente Germanico nel mito. La sua costruzione prende le mosse dallo scenografico e lacrimoso ritorno a Roma della sposa, Agrippina Maggiore, che, seguita dai figli in tenera età, riporta le ceneri del defunto in patria, sollecitando giustizia e provocando un’ondata di onori a lui prontamente decretati. A ben vedere, ci sono età della vita che nell’immaginario collettivo rappresentano il punto di svolta: gli eroi di Omero muoiono nella giovinezza indefinita del mito senza tempo, da Ettore a Achille, mentre Alessandro, che su Achille esempla la propria figura, muore a 33 anni non compiuti, seguendo di poco il compagno e coetaneo Efestione.
Dall’alto: repliche in gesso degli originali in marmo pario (fine del I sec. a.C.) dei ritratti di Lucio Cesare e Gaio Cesare. Roma, Fondazione Sorgente Group. Potenziali successori di Augusto, i due giovani morirono a 19 e 24 anni, nel 2 e nel 4 d.C.
UNA LUNGA SCIA DI LUTTI PREMATURI I Giulio-Claudii, peraltro, non sono nuovi alle morti di giovani virtuosi e predestinati: se ne registrano una, se non due, per generazione, ma non tutte lasciano dietro di sé la stessa scia di rimpianto, perché non tutte hanno un adeguato sostenitore: Lucio e Gaio Cesari, successori potenziali del nonno Augusto e a lui premorti rispettivamente a 19 e a 24 anni (nel 2 e nel 4 d.C.), pur avendo riscosso apprezzamenti e onori, restano nell’ombra dell’azione di governo di Augusto, e non sono circondati dall’aura romantica che anni prima aveva avvolto Marcello, figlio di Ottavia, sorella di Augusto. Morto a soli 19 anni (nel 23 a.C.), Marcello fu cantato da Virgilio, che nell’Eneide (VI, 883) ne prefigura con versi dolenti il ruolo e il destino, facendo chiedere ad Anchise nei Campi Elisi gigli candidi e fiori purpurei da spargere per lui in un’atmosfera romantica, che una generazione dopo caratterizzerà anche la scomparsa di Germanico. a r c h e o 105
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OLTRE LA STATUA di Antonella Pinna
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rima ancora di avvicinarsi al Museo Archeologico, il visitatore sarà stato già colpito dalla presenza dell’antico ad Amelia: non solo le imponenti mura poligonali all’ingresso principale del centro storico, ma anche gli elementi architettonici di reimpiego, i frammenti di sculture ed epigrafi d’età romana e altomedievale murati sugli edifici, le porzioni di pavimentazioni che si scorgono lungo le vie. Altre memorie sono meno evidenti, trovandosi nelle cantine dei palazzi o sotto le piazze, ma non per questo meno significative. Le stesse vestigia che sono ancora nell’atrio del Palazzo Comunale predispongono a una visita che non delude le aspettative. Chi pensi a un piccolo antiquarium civico troverà invece un museo su tre piani, allestito nell’ex collegio Boccarini, già convento francescano, dotato di chiostro a doppio loggiato realizzato nel XVI secolo, nel quale il
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materiale archeologico rinvenuto nella città e nel territorio ha trovato esposizione definitiva dal 2001. Nell’ideare l’allestimento, il progettista ebbe anche l’incarico di studiare lo spazio per accogliere la statua di Germani-
co, di cui era previsto il ritorno nel luogo di rinvenimento. Ma non da solo: nel museo, le collezioni forniscono infatti una testimonianza completa della storia di Amelia, dal periodo preromano fino alla fase altomedievale.
Qui accanto: un tratto delle mura di Amelia, oggetto di restauri dopo il crollo che le aveva interessate nel 2006. Sulle due pagine: una veduta di Amelia. In basso, a destra: il chiostro a doppio loggiato (XVI sec.) dell’ex collegio Boccarini, già convento francescano e oggi sede del Museo Civico Archeologico e della Pinacoteca «Edilberto Rosa» di Amelia.
Al piano terra sono ospitati i reperti piú antichi, compresi i corredi di una ricca necropoli di età ellenistica; al primo piano, oltre alla statua bronzea, si trovano le testimonianze della Ameria romana, con statue, iscrizioni ed elementi architettonici che coprono il periodo compreso fra il I secolo a.C. e il II d.C. Né mancano elementi provenienti dal contesto di rinvenimento della statua, tra cui i frammenti bronzei non utilizzati nel rimontaggio e un grandioso capitello figurato con trofei. Al secondo piano, si trovano infine la sezione archeologica altomedievale e la pinacoteca, con opere databili dal XV al XVIII secolo. Con il tempo, la grande statua bronzea è stata resa «parlante», grazie a un’installazione (curata dalla Mizar) con immagini, video e sonoro che rimandano alla storia di Germanico e a quella di Amelia. La città è, invece, protagonista di un nuovo video realizzato in occasione della mostra del 2019.
NUOVO SLANCIO Il museo si inserisce non solo in una città cosí caratterizzata dall’antico, ma in un territorio – l’Umbria meridionale – nel quale i siti archeologici sono un elemento fondamentale per la valorizzazione territoriale. Negli anni, grazie a investimenti realizzati anche con i
fondi strutturali europei, hanno avuto nuovo slancio i parchi archeologici di Carsulae e di Ocriculum e nuovi musei hanno aperto le porte: dagli antiquaria delle due città sulla via Flaminia al grande museo archeologico nel complesso Ex Siri di Terni, da Narni a Lugnano in Teverina, da Montecchio a Baschi, tra vie di terra e d’acqua che collegavano questo territorio a Roma e che sono ancora oggi la migliore introduzione all’Umbria. a r c h e o 107
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DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico e la Pinacoteca «Edilberto Rosa» Amelia, Complesso ex convento di San Francesco, piazza A. Vera Info tel. 0744 978120; e-mail: amelia@sistemamuseo.it; www.sistemamuseo.it
La morte di Germanico, copia ottocentesca di un originale realizzato da Nicolas Poussin nel 1627 (e oggi conservato presso il Minneapolis Institute of Arts). Collezione privata. 108 a r c h e o
IL MUSEO Particolari dell’allestimento del Museo Civico Archeologico di Amelia, che documenta tutte le fasi di vita dell’antica città.
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A UN PASSO DALL’IMPERO di Marcello Barbanera e Raffaelle Carlani
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n occasione del bimillenario della morte di Germanico, nell’ambito delle iniziative del Comitato scientifico nazionale, il Comune di Amelia mi ha incaricato di organizzare un convegno e una mostra. Il primo («Germanico Cesare… a un passo dall’impero», 24-25 maggio 2019) ha riunito studiosi di discipline diverse, al fine di inquadrare questa figura non solo nel contesto in cui visse, ma anche nell’ambito della sua «fortuna». Partendo da un ampio quadro storico-politico ricostruito da Yann Rivière, è stato approfondito l’aspetto delle testimonianze epigrafiche (Gian Luca Gregori, Francesco Camia, Mafalda Cipollone, Daniele Manacorda), basilare per ricostruire una figura su cui le fonti sono limitate. Numerosi contributi sono stati dedicati alla rappresentazione del generale romano (Massimiliano Papini, Dietrich Boschung, Matteo Cadario, Annalisa Polosa), altri alla ricostruzione degli archi monumentali a lui dedicati (Stefano Tortorella). Germanico, ci viene narrato, fu anche autore di componimenti poetici (Emanuele Berti). Né potevano mancare interventi specifici sulla statua: dall’analisi delle leghe metalliche (Alessandra Giumlia Mair) al suo contesto di rinvenimento (Alessandra Bravi). La figura di Germanico, che conosciamo soprattutto dagli Annali di Tacito, fu riscoperta nel XVII secolo: cosí molti pittori ne fecero il protagonista di quadri a carattere storico, tra cui il piú celebre è quello di Nicolas Poussin, oggi a Minneapolis (Stefan Albl). Anche la musica se ne appropriò e fiorirono opere liriche su Germanico come principe e come abile condottiero (Michele Napolitano). Gli atti del convegno sono in corso di stampa per i tipi di Aguaplano. (M.B.)
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Con lo stesso titolo del convegno è stata concepita una mostra-installazione presso il Museo Civico di Amelia. Il finanziamento limitato e il breve tempo a disposizione non consentivano di organizzare un’esposizione di materiali archeologici reali, e cosí, dagli scambi di idee con i giovani di Katatexilux, ha preso forma il progetto di una narrazione visiva immersiva, che trasportasse il pubblico nel mondo di Germanico. All’inizio Germanico è sul letto di morte circondato dagli amici e dalla famiglia, cosí come lo immaginò Nicolas Poussin nel dipinto di Minneapolis.Volevamo rendere il visitatore partecipe di quel momento, farne un membro del gruppo di persone che attornia il generale morente. Il percorso continua con le tappe principali della vita di Germanico e le sue maggiori conquiste. In fondo sono collocati due busti: Ottaviano Augusto e la sua moglie Livia, i capostipiti della gens giulio-claudia. Tra di essi è stata collocata la ricostruzione animata dell’albero genealogico della dinastia. Per la narrazione ci si è ispirati a opere che hanno per soggetto le imprese di Germanico, la sua morte, e la moglie Agrippina che sbarca a Brindisi con le ceneri del marito: sono presentati con ironia, sotto forma di video entro cornici, come quadri in una mostra tradizionale. Katatexilux ha legato la narrazione realizzando i contenuti multimediali che consistono in un mix di videoanimazioni, suoni e controllo dell’illuminazione ambientale in un contesto teatrale. Pensavamo fosse un genere di comunicazione, accattivante e diretto, adatto a un contesto sociale come quello di Amelia: la risposta è stata positiva, tanto che il Comune ha deciso di trasformare la mostra-installazione da temporanea a permanente. (M.B., R.C.)
La statua in bronzo di Germanico nell’allestimento della mostra «Germanico Cesare... a un passo dall’impero», trasformatasi in esposizione permanente.
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
ESSERE ALESSANDRO IN UNA CLASSIFICA IMMAGINARIA DEI PERSONAGGI MODELLO A CUI ISPIRARSI, IL MACEDONE SAREBBE, CON ENORME DISTACCO SU TUTTI, IL PRIMO. LO CONFERMANO, FRA LE TANTE, ANCHE LE SCELTE DI UN ALTRO «GRANDE», L’IMPERATORE AUGUSTO...
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er le concessioni, i documenti ufficiali e le lettere, da principio usò un sigillo con la figura di una sfinge, piú tardi un altro con quella di Alessandro Magno, da ultimo uno con la sua effigie, scolpita da Dioscuride, e continuarono a servirsene anche gli imperatori successivi». Cosí Svetonio (Divo Augusto, L) dà conto delle immagini scelte da Augusto, e usate poi dai suoi successori, per essere apposte su documenti e lettere destinati a circolare in tutto l’impero e per garantirne, visto il richiamo all’ideologia imperiale, l’ufficialità. La Sfinge, simbolo dell’Egitto (ma che riportava anche a Edipo e al mondo funerario), il volto del Macedone, e quindi il suo stesso profilo: a ben vedere, tutti i soggetti selezionati dal primo imperatore erano in qualche modo legati al mondo del conquistatore inarrestabile e invincibile per eccellenza, che ogni regnante o generale volle emulare o nel quale volle immedesimarsi. Basti pensare a Caracalla e alla sua
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Il Cammeo Gonzaga, gemma in sardonica con i ritratti di Tolomeo II Filadelfo e Arsinoe II. III sec. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Nella pagina accanto: disegno del Cammeo Gonzaga in cui i profili sono identificati con Alessandro Magno e sua madre Olimpiade. 1675.
«alessandromania», testimoniata, tra gli altri, dai medaglioni d’oro provenienti da Abukir, sui quali campeggiano i volti dell’imperatore e del Macedone. La Sfinge, che ricorre anche sulle monete augustee battute all’indomani della vittoria di Azio, (31 a.C.) è quella della conquista su un Egitto creato dagli epigoni di Alessandro Magno, la dinastia tolemaica fondata dal generale Tolomeo Sotere, che fu prima satrapo e poi faraone; Alessandro stesso, come detto, è il modello per antonomasia; infine, Augusto raffigura se stesso e diviene cosí il sigillo vivente delle azioni imperiali. Recandosi nell’Egitto appena conquistato, volle anch’egli visitare la tomba e omaggiare la mummia del Macedone ad Alessandria, a oggi mai ritrovata, e dell’episodio parlano Svetonio (XVIII): «Fece tirar fuori dalla tomba la bara con il corpo di Alessandro Magno e lo contemplò e gli rese omaggio posando presso la testa una corona d’oro spargendo fiori», e Cassio Dione, che racconta il fatto in una
Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas
versione piú dissacrante: «Piú tardi Ottaviano osservò il corpo di Alessandro e si dice che lo toccò, rompendo un pezzetto del suo naso» (Storia romana, LI, 16.).
UN CONDOTTIERO IN MEZZO AI SANTI Abbiamo già ricordato che la famiglia imperiale dei Macriani, del III secolo d.C., usava portare il ritratto del Macedone come talismano (vedi «Archeo» n. 425, luglio 2020; anche on line su issuu. com), e ancora un secolo dopo gli abitanti di Antiochia avevano al collo e alle caviglie monete di Alessandro come amuleti (Giovanni Crisostomo, Homelia XXVI, 4-5). Nell’impero bizantino esistevano medagliette/monete – con Costantino e sant’Elena da un lato e, dall’altro, immagini sacre – detti Constantinata e in uso sino al XX secolo; su uno di questi esemplari compare, insieme ai due «santi» imperatori, Alessandro Magno in volo, trasportato dai grifoni, secondo quanto narrato nei vari Romanzi di Alessandro medievali, che tanta e duratura fortuna ebbero nel mondo occidentale e orientale. Nel mondo antico dovevano dunque essere numerosissimi i supporti con il volto del Macedone, come monete, medaglioni, sigilli, cretule, ma anche gioielli di vario genere; tra questi ultimi rientrano gemme e cammei, molto in voga per effigiare non soltanto divinità o scenette, ma anche i regnanti. La glittica antica raggiunse vette eccelse, assumendo in alcuni esemplari un vero e proprio carattere celebrativo e propagandistico: basti pensare alla celebre Gemma Augustea tiberiana oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. In età ellenistica, e in particolare nell’Egitto dei Tolomei, si produssero numerose gemme veramente regali destinate a
esaltare la coppia regnante, spesso fratello e sorella uniti in matrimonio secondo l’usanza faraonica, un modello che ricorre anche nelle monete a partire dall’unione tra Tolomeo II, secondo sovrano della dinastia, e la sorella Arsinoe II. Le teste della coppia regale sono di regola effigiate di profilo e affiancate (capite iugata), molto simili, ma comunque distinguibili dagli attributi decorativi e dalle pettinature. Tra queste preziose opere dell’arte
glittica risalta il Cammeo Gonzaga, intagliato nella sardonica in età ellenistica, con i profili, probabilmente, di Tolomeo II e Arsione II, volontariamente ricalcati sulle convenzioni stilistiche ispirate ai ritratti di Alessandro e Olimpiade, nell’ambito di una programmatica imitatio Alexandri messa in atto dai Tolomei e dai sovrani ellenistici che nei secoli scorsi ha portato a riconoscere in questi volti la viscerale (e un poco freudiana!) coppia macedone madre/figlio.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Sabino De Nisco
CERVETERI, PYRGI E LE ORIGINI DEGLI ETRUSCHI a cura di Vincenzo Bellelli e Folco Biagi, Johan & Levi Editore-Fondazione Luigi Rovati, Milano, 128 pp., ill. b/n + 3 tavv. f.t. 20,00 euro ISBN 978-88-6010-231-7 www.johanandlevi.com
Il volume racchiude due studi di Sabino De Nisco dal titolo Origini di Caere. Monografia storicoarcheologica-geografica e La divinità del tempio di Pyrgi nella mitologia e nella storia, pubblicati originariamente a Napoli, nel 1909, dalla Tipografia della R. Università Achille Cimmaruta. Il recupero dei due contributi, il loro inquadramento critico e alcune essenziali notizie biografiche si devono a Vincenzo Bellelli e Folco Biagi, autori dei saggi che aprono il volume: il primo di una collana di reprint di pubblicazioni, dedicate agli Etruschi, promossa dalla Fondazione Luigi Rovati e dalla casa editrice Johan & Levi. I due studi vanno ritenuti come frutto della rielaborazione della tesi di laurea di De Nisco, che ricorda il grande latinista Enrico Cocchia come suo «stimato maestro». Essa venne discussa presso l’Università di Napoli, con commissari di esame Giulio De Petra, Filippo Porena e Alberto Pirro. Questo, almeno, sembra potersi dedurre 114 a r c h e o
da una copia manoscritta della tesi trovata sul banco di un rigattiere nella periferia romana e analizzata da Folco Biagi. A quest’ultimo si devono alcune informazioni sulla vita dell’autore: di origine irpina, forse di Pietradefusi, studiò in seminario; trascorse quattro anni tra Roma, Orvieto e Bolsena; divenne sacerdote nel 1906 e fu cappellano di una confraternita incardinata nella chiesa di S. Maria Maggiore a Cerveteri tra l’aprile e l’agosto dello stesso anno; alcuni anni piú tardi, probabilmente proprio nel 1909, lasciò il sacerdozio (sulle copertine di entrambi i volumetti l’abbreviazione Sac. fu cancellata accuratamente e sostituita dal titolo Prof.). Negli anni successivi dovrebbe avere insegnato a Napoli, o nei dintorni. I due studi, ora riproposti, s’inseriscono bene in una fase del dibattito intorno all’origine degli Etruschi, quando si ritenevano provenienti
da nord, attraverso le Alpi, e si negava una loro provenienza dal bacino orientale del Mediterraneo. Il concetto di formazione, in luogo di quello di origine, venne elaborato solo alcuni decenni dopo. Di particolare interesse – come nota Bellelli – risulta il taglio topografico dei due contributi, che scaturisce da una sensibilità archeologica e da una conoscenza diretta e approfondita del territorio esaminato. Il volume si avvale anche di un’introduzione di Rossella Zaccagnini. Giuseppe M. Della Fina
all’indomani della quale aveva potuto recuperare dalle mani dell’«infedele» persiano la Vera Croce, restituendola al Santo Sepolcro, e ciò gli aveva fatto guadagnare presso i posteri, compresi i Barlettani, una santa fama. Di conseguenza, il ritratto, la cui presenza è attestata nella città pugliese almeno dal
Luisa Derosa e Giambattista De Tommasi
LE DUE VITE DEL COLOSSO Storia, arte, conservazione e restauro del bronzo di Barletta Edipuglia, Bari, 184 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-7228-915-0 www.edipuglia.it
Solitamente ricordata per essere stata teatro, nel 1503, della disfida fra cavalieri italiani e francesi, Barletta possiede un’icona forse non altrettanto celebre, ma assai amata dalla popolazione locale: si tratta della statua bronzea nota come Colosso e nella quale la tradizione riconosce, da sempre, l’imperatore Eraclio. Questi, nel 628, si era reso protagonista della vittoriosa campagna contro Cosroe II,
1309, è sempre stato amato e onorato, ma, a fronte di un sentimento popolare cosí forte, piú deboli furono i tentativi di ricostruirne la vera storia. È quanto hanno adesso cercato di fare gli studiosi coinvolti in questo volume, che, prendendo le mosse dalle recenti verifiche sullo stato di conservazione del Colosso, hanno compiuto una ricognizione di tutti i dati a oggi disponibili. Ne scaturisce un quadro, che, pur lasciando insoluto il dilemma chiave, ovvero l’effettiva identità della statua, si rivela di estremo interesse. Stefano Mammini