Archeo n. 428, Ottobre 2020

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SALVATAGGIO DEI TEMPLI DI FILE

OMERO A BABILONIA

EREDITÀ DI VERCINGETORIGE

SPECIALE RITORNO A PERSEPOLI

IL SALVATAGGIO DEI TEMPLI DI FILE

SPECIALE

RITORNO A

PERSEPOLI

RESTAURATORI ITALIANI NEL GRANDE SITO UNESCO

L’EREDITÀ DI VERCINGETORIGE

ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI

OMERO A BABILONIA

ORALITÀ E SCRITTURA

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 14 OTTOBRE 2020

o. i t

FIL E E: G PE IT RL T AD O ww EL w. NI a rc LO he

2020

Mens. Anno XXXV n. 428 ottobre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 428 OTTOBRE

MISSIONE IN EGITTO

€ 5,90



EDITORIALE

VALORI UNIVERSALI Nel 1954 il governo egiziano decise la costruzione di una grande diga sul Nilo in grado di arginare le periodiche inondazioni causate del grande fiume africano. Un primo sbarramento, completato nel 1902 nei pressi della città di Assuan – all’altezza della Prima Cataratta –, aveva già compromesso le vestigia di un sito archeologico celebre, situato sull’isola di File e noto sin dall’Ottocento come «la perla del Nilo»: un complesso sacro, dedicato alla dea Iside, composto da un grande tempio principale accompagnato da una serie di edifici minori. In quei primi decenni del Novecento era consuetudine che i visitatori si aggirassero in barca tra le colonne e i capitelli parzialmente sommersi dai flutti… La nascita della nuova diga, invece, avrebbe comportato la completa scomparsa di File, insieme all’inondazione di tutti i monumenti dell’antica Nubia, tra cui, nell’estremo Sud della regione, i famosi templi rupestri di Abu Simbel. Nel 1960, l’UNESCO lanciò un appello alle nazioni per il salvataggio di quelle straordinarie vestigia della civiltà faraonica. Fu cosí che, attraverso un’impresa di dimensioni titaniche, i monumenti della Nubia vennero tratti in salvo: prima, tra il 1963 e il 1968, quelli di Abu Simbel, poco piú tardi quelli di File. A distanza di quarant’anni (l’inaugurazione del «nuovo» sito di File risale al marzo del 1980), Italia ed Egitto celebrano l’evento, ricordando un’avventura culturale e civile che, se vista con gli occhi di oggi, sembra quasi impossibile (vedi alle pp. 32-55). In questi ultimi decenni il mondo è cambiato anche per i monumenti, ormai protagonisti involontari

Visitatori a File ai primi del Novecento.

di conflitti e interessi ancora inimmaginabili ai tempi del salvataggio di Abu Simbel e File. Proteggere, conservare, restaurare. Come, e perché? Una risposta, molte risposte, i lettori le troveranno nello speciale di questo numero. Vi riportiamo, in anteprima assoluta, i risultati di un’esperienza che, sebbene di dimensioni «fisiche» ridotte, possiede molti punti in comune con il salvataggio dei monumenti di File: la consapevolezza, soprattutto, del valore universale del patrimonio archeologico. Un valore che – come ricorda Paolo Pastorello, presidente di Restauratori Senza Frontiere – «va al di là dei conflitti tra persone, popoli o gruppi di potere». Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Valori universali

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

A TUTTO CAMPO La ricerca archeologica può essere un alleato prezioso nella lotta, attualissima, per salvare la biodiversità 18

Omero a Babilonia

58

di Louis Godart

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE

SCOPERTE A Roma, fra la via Ostiense e la via di Malafede è venuta alla luce una vasca monumentale, unica nel suo genere. E, per il momento, misteriosa... 6

Messaggi senza tempo

ALL’OMBRA DEL VULCANO Una mostra nella Palestra Grande di Pompei racconta in che modo i Romani intendessero la bellezza, la grazia, il decoro e l’eleganza 14

di Giuseppina Capriotti Vittozzi

IN DIRETTA DA VULCI Dagli scavi nella necropoli di Poggetto Mengarelli è venuta la conferma di come anche gli Etruschi fossero ben consapevoli delle proprietà salutari dell’elettro e dell’argento 16

LETTERATURA

26

di Louis Godart

RESTAURI

La perla del Nilo, salvata dalle acque

32

58 ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/4

Quando un’identità non basta

68

di Umberto Livadiotti

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32 In copertina Persepoli (Iran). La porta Est del Tripylon.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVI, n. 428 - ottobre 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Giuseppina Capriotti Vittozzi è Manager del Centro Archeologico Italiano, Istituto Italiano di Cultura, Ambasciata d’Italia al Cairo. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche all’Università degli Studi di Siena.


Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO Sulle tracce dei crociati

110

di Andrea Augenti

110 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Una famiglia tutta d’oro

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di Francesca Ceci

84 SPECIALE Persepoli

Quei Persiani dalla barba blu

112 LIBRI

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84

a cura di Flavia Marimpietri, con interventi di Paolo Pastorello, Pierfrancesco Callieri, Alireza Askari Chaverdi, Marisa Laurenzi Tabasso e Bertrand du Vignaud

Illustrazioni e immagini: Cortesia Araldo De Luca/RSF: copertina e pp. 85, 86/87, 88/89, 90-91, 94/95, 96/97, 99, 102-109 – Doc. red.: pp. 3, 18, 26-27, 82 (alto), 110 – Cortesia Ufficio Stampa Soprintendenza Speciale di Roma: pp. 6-10 – Cortesia SABAP del FriuliVenezia Giulia: pp. 12-13 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 16-17 – da: A.M. Esposito (a cura di), Principi guerrieri. La necropoli etrusca di Casale Marittimo, Milano 1999: p. 19 – Bridgeman Images: pp. 32/33, 55 – Cortesia Biblioteca e Archivi di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano: pp. 34/35, 35 – Cortesia Archivio Società Italiana per Condotte d’Acqua: pp. 38, 41, 42-49 – Cortesia Olaf Tausch/Wikipedia: pp. 52/53 – Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: p. 58; Album/Fine Art Images: p. 59: CM Dixon/Heritage Images: pp. 60-61, 62; AKG Images: pp. 63, 64-65;Erich Lessing/Album: pp. 66-67; © Pathé Films/Cortesia Everett Collection: 70/71; © Mary Evans/AF Archive/Cinetext B: p. 73 – Shutterstock: pp. 36/37, 38/39, 40/41, 50/51, 54, 68/69, 72/73, 74/75, 76-81, 82 (alto), 111 – Cortesia Paolo Pastorello/RSF: pp. 84/85, 88, 97 (alto) – K. Afhami & W. Gambke/ www.persepolis3D: pp. 92/93 – Cortesia Pierfrancesco Callieri: pp. 100-101 – Cortesia dell’autore: pp. 112-113 – Cippigraphix: cartine alle pp. 34, 92. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCAVI Roma

MISTERI DAL SUBURBIO

N

el quadrante sud-occidentale del suburbio di Roma scorre il fosso di Malafede, un affluente di sinistra del Tevere, la cui valle, già da tempo, si è imposta all’attenzione degli archeologi. Una nuova e spettacolare conferma della ricchezza di questo territorio è venuta dagli scavi condotti fra la via Ostiense, la via di Malafede e la linea ferroviaria Roma-Lido, nel quadro di un intervento di archeologia preventiva diretto dalla Soprintendenza Speciale di Roma. Le indagini si sono sviluppate in

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una porzione di territorio molto vasta, che dalla via Ostiense arriva a via Cristoforo Colombo e che, per il suo valore ambientale e le sue testimonianze storiche, è sottoposta a tutela dal 1997. Lo scavo ha interessato oltre 20 000 mq (2 ettari), riportando alla luce una complessa stratificazione di edifici e costruzioni, che si sono sovrapposti anche a breve distanza di tempo, ma per oltre otto secoli. La forte presenza di acqua di falda e di risalita dal Tevere, ha reso le indagini archeologiche difficili e

necessario l’impiego di sofisticate tecniche di scavo con dispositivi per prosciugare vaste porzioni di terreno. Per qualità, quantità e per il lungo arco temporale che attraversano, i ritrovamenti testimoniano l’importanza delle attività che lí si svolgevano. L’area di scavo si dimostra un rilevante nodo di viabilità, di terra e d’acqua, per il collegamento di Roma al mare, a Ostia, alla zona di Castel Porziano fino a Trigoria, anche grazie al fosso di Malafede, per secoli rimasto navigabile verso


A sinistra, sulle due pagine: Roma. Veduta generale dell’area indagata, che si trova fra la via Ostiense, via di Malafede e la linea ferroviaria Roma-Lido. È ben riconoscibile la grande vasca, che misura 12 x 48 m. In alto, a sinistra: un’anforetta con decorazione sovradipinta rinvenuta nel corso degli scavi. In alto, a destra: i resti di un piccolo sacello che ha restituito materiali databili dall’età augustea al IV sec. d.C.

l’interno, e, soprattutto, confine tra i territori dell’Urbe e quelli della colonia ostiense. I resti piú antichi risalgono all’inizio del V secolo a.C., con un successivo insediamento che si sviluppa in un monumentale edificio in blocchi di tufo (alcuni con segni delle cave di provenienza), di cui sono state scoperte le fondamenta. La presenza di numerosi frammenti in terracotta dipinti, tra cui uno che ritrae una vittoria alata reggente una corona, indica una probabile area sacra. Connesso con questo primo edificio si dispiega il ritrovamento piú importante della campagna di scavi. Si tratta di una struttura di imponenti dimensioni risalente al IV secolo a.C. e ancora in corso di scavo: una vasca larga 12 m circa, che si snoda per 48 m di lunghezza in direzione dell’attuale via Ostiense. I muri di contenimento sono realizzati in possenti blocchi di tufo e terminano in una rampa che connette al piano di calpestio.

La funzione di questa monumentale costruzione, che doveva far parte di un sistema per lo sfruttamento delle acque, è ancora in fase di studio. La struttura potrebbe ricordare vasche di decantazione, recinti rituali, contenitori di concime animale, raccolta di acqua per uso agricolo, per allevamenti o per impianti produttivi e altro ancora. Tuttavia, la grande vasca di Malafede ha pochi termini di confronto per l’epoca di costruzione, le grandi dimensioni,

Errata corrige con riferimento alla notizia Torcello al tempo di Carlo Magno (vedi «Archeo» n. 427, settembre 2020), ringraziamo un nostro attento lettore per averci giustamente segnalato che, nella foto alle pp. 6-7, il borgo sullo sfondo è Burano, vista da Torcello, le cui lingue di terra sono invece in primo piano.

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la presenza di uno scivolo, i possenti blocchi di tufo che la delimitano abbinati alla mancanza di una pavimentazione di fondo, in apparenza realizzata con un battuto di terra. Sul finire del III secolo a.C. l’area attraversa una prima importante modifica: la costruzione piú antica venne completamente spoliata, colmata e rasata con spessi strati di terra di riporto per un radicale cambio di destinazione d’uso. Sopra il luogo di culto venne infatti costruito un complesso con funzione produttiva o commerciale, mentre la grande vasca rimase ancora attiva. Sarà l’analisi dei materiali a poter offrire indicazioni preziose per definire le diverse funzioni di questa grande infrastruttura e degli edifici a essa connessi nelle loro varie fasi. In particolare, i legni depositati sul fondale potrebbero fornire la soluzione all’enigma della vasca di Malafede: tra i primi reperti recuperati spicca un frammento ligneo con una scritta in alfabeto etrusco, all’epoca in uso non solo dagli stessi Etruschi, ma da diverse popolazioni latine tra cui i Romani.

Qui sopra: frammento di legno sul quale corre un’iscrizione. In alto: frammento di terracotta dipinta raffigurante una vittoria alata che regge una corona. Nella pagina accanto, in alto: un’altra immagine della vasca monumentale.

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Nella pagina accanto, in basso, a sinistra: utensile in metallo. Nella pagina accanto, in basso, a destra: un particolare dell’impianto produttivo realizzato sul finire del III sec. a.C., obliterando un piú antico edificio di culto.

Il complesso formato dalla vasca e dagli edifici venne abbandonato nel I secolo a.C., per motivi ancora non chiari, ma la frequentazione dell’area è comunque continuata. All’età augustea risale la costruzione del vicino acquedotto Ostiense, di poco successivo lo sviluppo di un nuovo quartiere sempre con finalità produttive. Queste costruzioni, emerse durante lo scavo, si articolano all’incrocio tra due strade glareate, cioè realizzate con ghiaia e ciottoli di piccole e medie dimensioni pressati nel terreno, che procedono con andamento ortogonale.


Tra queste strutture si segnala la presenza di un piccolo sacello con un altare interno, dove sono stati rinvenuti materiali databili fino al IV secolo d.C., (ovvero i reperti piú recenti emersi dallo scavo, che segnano l’epoca del probabile abbandono dell’area), e la presenza di un probabile portico che si doveva sviluppare a cavallo della strada glareata piú piccola,

creando forse una sorta di monumentalizzazione. Questi edifici sono chiusi a sud dalla strada glareata piú grande, che doveva rivestire una notevole importanza, visti i numerosi rifacimenti e rialzamenti a cui fu sottoposta. Sono presenti almeno tre fasi: probabilmente la piú antica è coeva alla costruzione della grande vasca e ai primi

complessi a essa connessi, e la strada era delimitata da un lungo muro fatto di tegole. Una particolarità che contraddistingue l’intera area di scavo è infatti la tecnica costruttiva della maggior parte delle murature, realizzate piuttosto che con mattoni, con tegole impilate specularmente, in modo da ottenere uno spazio vuoto tra l’una

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A sinistra e in alto: due immagini della rampa che assicurava il collegamento della vasca monumentale al piano di campagna. In basso: veduta dall’alto delle strutture adiacenti la vasca. e l’altra. Un procedimento che si ritrova spesso in zone con una forte presenza di acqua di falda o di risalita dal mare. Lo scavo ha portato alla luce un insediamento che, fin dalla sua nascita nel V secolo a.C., era collocato all’interno della colonia di Ostia fondata e dipendente da Roma seppur amministrativamente staccata dall’Urbs, ma a poche decine di metri dal confine tra le due città, contrassegnato dal fosso di Malafede. Una posizione rilevante, forse non casuale, che si inserisce in un contesto piú vasto, ricco di testimonianze storiche, e che mantiene pressoché inalterate le sue particolari condizioni ambientali dalla vicina Tenuta di Castel Porziano all’area naturalistica del Parco di Decima di Malafede. Il territorio era abitato fin dall’età preistorica, come testimoniano gli abbondanti rinvenimenti, emersi fin dagli anni Cinquanta del Novecento, di oggetti lavorati in pietra del periodo neolitico. Di epoca protostorica è la necropoli risalente tra l’VIII e il VII secolo a.C., individuata all’interno della Tenuta di Castel Porziano. In età romana, invece, l’area è

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nota grazie alle fonti: in particolare Plinio racconta della sua villa Laurentina in un territorio vocato a ville e pascoli grazie alla presenza di acqua, garantita dal vicino fosso di Malafede e dal passaggio di una importante rete idrica, testimoniata dal rinvenimento in tempi recenti di numerosi tratti di acquedotti. Proprio l’area dell’attuale scavo era già nota archeologicamente per il ritrovamento e l’approfondito studio di una di queste infrastrutture idriche, identificata

con il primo tratto dell’acquedotto Ostiense, avvenuto sul finire degli anni Novanta del secolo scorso. Nel comprensorio di Malafede sono state inoltre individuate due ville di età imperiale: quella all’interno di un camping e quella attribuita alla proprietà di Fabio Cilone, senatore e Præfectus Urbi di epoca severiana che, sempre secondo le fonti antiche, inoltre possedeva una sontuosa dimora urbana sull’Aventino, colle dove si trova anche il suo mausoleo. (red.)


MARIO TORELLI (1937-2020)

CONTAMINARE PER FARE STORIA

Q

uando ho appreso la notizia della morte di Mario Torelli, mi sono tornate alla mente alcune righe del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Siamo quasi al termine del romanzo, Fabrizio Corbera, principe di Salina è a colloquio con il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, inviato dal governo di Torino per proporgli la nomina a Senatore del nuovo Regno d’Italia. Pur lusingato, don Fabrizio rifiuta l’offerta, dato che si considera un esponente della vecchia classe dirigente e di una generazione a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi. Qualche pagina dopo c’è la riflessione che mi sono rammentato: il principe, all’alba di un nuovo giorno, sta accompagnando il funzionario piemontese alla stazione di posta, e riflette: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra». Mario Torelli era un principe di Salina, intendo dire uno dei protagonisti maggiori di una stagione straordinaria dell’antichistica italiana, che si sta chiudendo. Quando era ricercata e apprezzata una visione d’insieme della realtà spesso legata all’adesione a una ideologia di stampo cattolico, o liberale, o marxista, come nel caso di Torelli. In un suo scritto composto in occasione della consegna del prestigioso Premio Balzan affermava: «Solo contaminando – sempre come sistemi e mai come nozioni frammentarie e staccate – evidenze fra loro a volte lontanissime, dagli specialisti tanto gelosamente quanto infruttuosamente sorvegliate», si può fare storia antica e provare a

incidere nel nostro presente. D’altronde, nello stesso intervento, proprio in apertura, osservava: «Per la mia persona, vita politica e vita culturale, professione di archeologo e intellettuale engagé sono stati per oltre tre decenni una sola cosa, secondo un modello che mi è stato offerto da Ranuccio Bianchi Bandinelli». Il ricordo di Bianchi Bandinelli – il suo maestro per eccellenza – consente di ripercorrere la sua vita di studio e d’impegno civile. Nato a Roma nel 1937, Mario Torelli si laurea in Lettere (indirizzo

classico) nell’Università degli Studi di Roma nel 1960, avendo come relatore Massimo Pallottino. È prima assistente nel Centro per le Antichità e la Storia dell’Arte del Vicino Oriente (1960-1962) e poi Ispettore archeologo presso l’allora Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria meridionale (1963-1969). Nel 1969 viene nominato professore di archeologia e storia dell’arte greca e romana presso l’Università degli Studi di Cagliari, piú tardi, nel 1975, fu chiamato dall’Università degli Studi di Perugia, dove nel

1976 divenne professore ordinario. Nella stessa Università ha diretto l’Istituto di Archeologia (1976-1987) e l’Istituto di Studi Comparati sulle Società Antiche (1994-1997); è stato inoltre coordinatore della Sezione per gli Studi Comparati sulle Società Antiche (1999-2010) e presidente del Centro di Eccellenza per la Diagnostica dei Beni Culturali. Ha insegnato – come Visiting Professor – in diverse Università europee e statunitensi. Accademico dei Lincei, oltre che socio di vari Istituti culturali italiani e stranieri, nel 2014 ha vinto, come già detto, il Premio Balzan per l’Archeologia Classica. Tra gli scavi che ha diretto, va ricordato almeno quello del santuario di Gravisca, nell’antico porto di Tarquinia: una scoperta che ha consentito di comprendere le relazioni tra Etruschi e Greci su basi nuove. Ha curato diverse esposizioni: si possono rammentare, almeno, «Gli Etruschi» (Venezia, Palazzo Grassi, novembre 2000-luglio 2001) ed «Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio» (Roma, Palazzo delle Esposizioni, ottobre 2008-gennaio 2009). Aveva in preparazione una grande mostra su Pompei e Roma. Le sue pubblicazioni sono numerosissime e spaziano dal mondo etrusco, a quello greco e a quello romano: ci si limita a segnalare tre libri di sintesi che hanno avuto un successo notevole e numerose edizioni: Storia degli Etruschi (1981), L’arte degli Etruschi (1985), Dei e artigiani. Archeologia delle colonie greche d’Occidente (2011), tutti pubblicati da Laterza, e due raccolte di suoi contributi Significare. Scritti vari di ermeneutica archeologica (2012) e Opuscola etrusca (2019). Giuseppe M. Della Fina

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n otiz iario

SCAVI Friuli-Venezia Giulia

USO E RIUSO DI UN ACQUEDOTTO

A

l rifornimento idrico della romana Tergeste (l’odierna Trieste) contribuiva l’acquedotto che convogliava le acque del torrente Rosandra-Glinšcica dalla fonte Oppia-Zvirk. Grazie a indagini di archeologia preventiva condotte nella frazione di Bagnoli Superiore, nel comune di San Dorligo della Valle-Dolina (Trieste), è ora venuto alla luce un lungo tratto – quasi 100 m – della canalizzazione, che si presenta in ottimo stato di conservazione. È la prima volta che un segmento

cosí lungo dell’acquedotto viene indagato scientificamente, anche se le precedenti ricerche, condotte a piú riprese, ne avevano già riportato in luce diversi settori, alcuni dei quali lasciati a vista: all’interno della Riserva della Val Rosandra-Dolina Glinšcice, in una struttura ricettiva nel centro di Bagnoli e quello presso l’Antiquarium di Borgo San Sergio, a Trieste. Gli scavi a Bagnoli Superiore hanno inoltre restituito dati utili alla conoscenza tecnica dell’antico manufatto

Un tratto dell’acquedotto romano che riforniva la città di Tergeste, restaurato e oggi visitabile. L’opera fu realizzata entro la metà del I sec. d.C.

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idraulico, realizzato entro la metà del I secolo d.C., e alla sua storia sino all’epoca medievale, quando, ormai privo della sua funzione originaria e della volta di copertura, fu qui riutilizzato come fondazione per la costruzione di un edificio soprastante. «Sono state analizzate e comprese – spiega Paola Ventura, funzionario archeologo SABAP FVG – tutte le fasi di messa in opera della struttura, dalla preparazione del substrato roccioso alla realizzazione della volta di copertura, rilevando gli espedienti tecnologici impiegati dai costruttori. Di particolare interesse risulta un deposito di calcare spesso 40 cm, interno alla struttura, contemporaneo all’epoca in cui era ancora in uso, che verrà sottoposto a ulteriori analisi. A esso si sovrapponevano gli accumuli terrosi che hanno ostruito l’acquedotto dopo la sua definitiva defunzionalizzazione, prima del crollo e dello spoglio della volta di copertura. Una novità importante riguarda il riutilizzo della struttura antica: qui, infatti, non sono emersi altri casi di inumazioni di epoca tardo-antica o medievale, già rilevati in altri punti, ma si è scoperto un vero e proprio edificio, che inseritosi trasversalmente rispetto alla canalizzazione, ne ha parzialmente demolito le spallette e sfruttato il fondo. È riconoscibile un unico vano (dimensioni conservate 5 x 4,50 m, ma esso si estendeva ulteriormente sia a valle che a monte), con muratura in grossi ciottoli arrotondati privi di legante e una pavimentazione anch’essa in pietrame, collocata a un livello piú basso rispetto al piano di calpestio esterno: l’ingresso avveniva quindi attraverso un gradino, mentre all’esterno si è individuato il


In questa pagina: il tratto di acquedotto, lungo 100 m circa, riportato alla luce presso San Dorligo. La foto in basso mostra il consistente deposito di calcare formatosi quando la struttura era ancora in uso.

probabile percorso di accesso da sud-ovest, accanto al quale resta traccia di una base di focolare. La cronologia dell’edificio è fornita dai frammenti di ceramica da fuoco,

maiolica e graffita arcaica, databili all’ultimo quarto del Trecento. Piú incerta rimane la sua destinazione d’uso. La sequenza stratigrafica individuata ha permesso di

escluderne l’utilizzo residenziale, supportando piuttosto l’idea di una funzione come posto di controllo della viabilità di fondovalle, in contatto acustico e visivo col soprastante castello di Moccò. Una seconda ipotesi vede la struttura medievale utilizzata come fabbrica in relazione all’attività dei numerosi mulini distribuiti nel Medioevo lungo il corso del torrente Rosandra-Glinšcica». L’intervento di scavo, a cura della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia, è stato effettuato da ArcheoTest Srl, su commissione del Comune di San Dorligo della Valle-Obcina Dolina e con fondi della Protezione Civile regionale. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

PER LA GRAZIA E PER LA BELLEZZA LA PALESTRA GRANDE DI POMPEI ACCOGLIE UNA MOSTRA ATTRAVERSO LA QUALE SI SCOPRE QUANTO ANTICA SIA LA CURA PER IL PROPRIO ASPETTO FISICO. UN’INCLINAZIONE CAPACE DI STIMOLARE FIORENTI IMPRESE DEDITE ALLA PRODUZIONE DI PROFUMI, GIOIELLI E ACCESSORI D’OGNI TIPO

C

on Venustas gli antichi Romani intendevano la bellezza, la grazia, l’eleganza, il decoro, ma anche la gioia: e questo è l’eloquente titolo della mostra in corso alla Palestra Grande di Pompei, dedicata all’attenzione che l’essere umano ha sempre prestato, sin dai tempi piú lontani, al proprio fisico, all’abbigliamento, all’aspetto. L’intento espositivo è, in particolare, quello di far conoscere al pubblico come nel corso dei secoli, dall’età del Ferro al periodo romano, la popolazione dell’area

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vesuviana avesse sviluppato queste aspirazioni, tradotte archeologicamente in una ricercata serie di strumenti e ornamenti personali rinvenuti in siti rappresentativi del territorio di competenza del Parco archeologico di Pompei.

LE PRIME ATTESTAZIONI Il percorso espositivo alla scoperta della vanità e dell’esteriorità, muove i primi passi nel villaggio protostorico di Longola, presso Poggiomarino, articolato su isolotti artificiali in corrispondenza di

un’ansa del fiume Sarno e frequentato fino all’età arcaica, al momento della formazione urbana di Pompei; da qui provengono diversi oggetti in osso, bronzo e ambra dell’VIII-VII secolo a.C., fra cui spilloni (aghi crinali) e fibule per sollevare i capelli e fissare le vesti, realizzati da abili artigiani aggiornati alle mode del tempo. La presenza dell’ambra e le decorazioni con forme animali degli ornamenti testimoniano, nello specifico, la credenza del potere magico degli amuleti contro le negatività della vita. Dalle contemporanee tombe di Striano (presso Castellammare di Stabia) provengono invece gli scarabei in steatite, veri e propri amuleti d’importazione trovati nelle tombe di donne e di bambini, elementi che attestano il legame commerciale con le coste del Mediterraneo orientale. Gli scarabei venivano spesso inseriti nelle collane come vaghi o come pendenti, e talvolta riportano sul retro invocazioni alle divinità in geroglifico. Gioielli e profumi erano riservati specialmente agli dèi; per la prima volta viene esposta la testina in avorio di una dea, che conserva tracce d’oro e di colore rosso, rinvenuta nel Tempio di Venere di


A sinistra: particolare della decorazione di un bracciale in oro. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento della mostra «Venustas», realizzata negli spazi della Palestra Grande di Pompei. In basso, a sinistra: pisside in vetro per trucchi e creme. In basso, a destra: diadema in oro e grandi perle. Augustali si profila come una vera e propria strada commerciale dedicata alla cura della persona, con numerose botteghe dedicate alla produzione di profumi tra il I secolo a.C. e il 79 d.C. Infine, l’attenzione riservata dalle Pompei. Da due santuari del territorio pompeiano provengono ex voto di terracotta come le statuette di donna con bambino dedicate dalle fedeli per chiedere la protezione della divinità, assieme a gioielli e contenitori preziosi per profumi, mentre l’immagine in argento di Mercurio, probabilmente condotta con sé da un abitante in fuga, era ornata da singolari gioielli in oro.

LA CURA DEL CORPO Nella mostra trovano spazio approfondimenti sull’igiene e sulla cura del corpo, specialmente dopo un bagno caldo, quando la pelle veniva nutrita con sostanze emollienti per essere pronta alla rasatura e alla depilazione con creme, cerette e pinzette; poi ci sono le creme e i trucchi, e i tanti oggetti da toletta femminile, come il piccolo contenitore in osso che conserva ancora polvere rosa, probabilmente utilizzata per dare colore agli zigomi delle donne, come raccomandato da Ovidio tra i metodi per migliorare l’aspetto del viso. Non manca ovviamente il profumo usato come cosmetico, per impreziosire il corpo, un costume che si diffonde nel mondo romano a partire dal II secolo a.C.

con la conquista del Mediterraneo orientale, in particolare della Grecia orientale e dell’Egitto tolemaico, luoghi da cui provenivano rinomate fragranze. All’epoca l’uso del profumo era legato soprattutto alla funzione religiosa, come suggerisce l’etimo della parola stessa – per fumum, ossia attraverso il fumo –, mezzo privilegiato per mettersi in contatto con gli dèi. Roma apre cosí i suoi confini alla cultura vicino-orientale e al dilagare del lusso personale, che vede come protagonista, accanto a gioielli e stoffe preziose, proprio il profumo. Anche Pompei inizia a realizzare essenze e relativi contenitori in vetro, e la Via degli

donne alla propria bellezza è dimostrata dagli specchi d’argento o di bronzo, che talvolta recano elaborate lavorazioni sulla faccia non riflettente e sui manici, come quelli a forma di clava e pelle di leone in ricordo di Ercole che aveva ceduto gli attributi piú cari alla padrona e amante, la regina di Lidia Onfale. La seconda parte della mostra si sofferma su singolari situazioni archeologiche legate alla bellezza pompeiana: ma queste storie le rimandiamo al prossimo appuntamento.

DOVE E QUANDO «Venustas. Grazia e bellezza a Pompei» Palestra Grande, Parco Archeologico di Pompei fino al 31 gennaio 2021 Orario lunedí-venerdí 9,00-19,00 Info tel. 081 8575347; www.pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

QUELLA LEGA CHE SCONFIGGE IL VELENO UNA DELLE PIÚ RECENTI SCOPERTE COMPIUTE A VULCI RIVELA COME GIÀ IN ANTICO FOSSERO STATE ACCERTATE LE PROPRIETÀ SALUTARI DELL’ELETTRO E DELL’ARGENTO. RESE DI NUOVO ATTUALI DALLA LOTTA AL CORONAVIRUS...

L’

elettro (èlektron in greco) è una lega molto preziosa d’oro e d’argento – dove il secondo è in quantità mai inferiore al 20% – e prende il nome dal suo colore leggermente ambrato, piú chiaro dell’oro ma piú giallo dell’argento. Si trovava anche in natura, soprattutto in Asia Minore, dove alcune città lo usarono anche per la produzione monetale (Cizico, Focea, Mileto, Mitilene, Cartagine, ecc.). A

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Sofocle, nell’Antigone, viene attribuita la prima citazione di questo nome, quando oppone l’electrum di Sardi all’oro puro dell’India, mentre Plinio descrive la lega che secondo lui si può produrre artificialmente con un contenuto d’argento pari a 1/5 dell’oro. All’elettro e all’argento si attribuivano proprietà salutari per curare le ferite ed entrambi venivano usati per la produzione di

vasi potori e alimentari, poiché si pensava che avessero la capacità di eliminare tutti i veleni con cui venivano in contatto. Egizi e Fenici utilizzavano contenitori d’argento per conservare l’acqua e purificarla. E, in seguito, anche l’uso di posate in argento serviva a esporre le persone a un minor numero di infezioni. La conoscenza delle proprietà antibatteriche e antivirali dell’argento erano quindi ben note


sin dall’antica Grecia, ma solo di recente in funzione anti-Covid 19, proprio al fine di controllarne la diffusione, sono state riprese da numerosi centri di ricerca, che hanno brevettato tecniche di produzione specifiche di materiali che derivano da questo metallo. L’esplorazione della Tomba dei Fermatrecce d’Elettro (Tomba 122) nella necropoli di Poggetto Mengarelli è iniziata lo scorso 5 agosto, con la rimozione del riempimento piú superficiale all’interno di un ampio taglio di forma rettangolare, con orientamento E-W, localizzato a poca distanza dalla Tomba 1 o dello «Scarabeo dorato». Nell’angolo nord-est della fossa, risultata del tipo «profondo con risega», sono stati messi in luce, a una quota molto alta, numerosi frammenti pertinenti a una ciotola in impasto e a un’olletta in ceramica ingobbiata e dipinta a motivi geometrici. Sebbene non si possa escludere un’azione di disturbo antica, considerando che il lato meridionale del contesto è stato distrutto dall’escavazione di sepolture successive, la modalità di giacitura dei due reperti potrebbe indicare una presunta azione rituale, forse connessa alla chiusura della sepoltura. Rimosso lo strato di obliterazione è stata messa in luce, il giorno seguente, la copertura della fossa, realizzata con grosse lastre calcaree, parzialmente giustapposte tra loro. Una volta

Sulle due pagine: una veduta d’insieme e alcuni particolari del corredo della Tomba dei Fermatrecce d’Elettro, scoperta nello scorso agosto nella necropoli vulcente di Poggetto Mengarelli. La sepoltura, femminile, è databile agli inizi del VII sec. a.C.

spostate e asportato lo strato di infiltrazione naturale creatosi al di sotto, lo scavo ha messo in luce gli scarsi resti di un’inumazione, deposta supina con orientamento est-ovest – con testa sul lato orientale – e il relativo corredo funebre, disposto tutto intorno.

UNA RICCA ARISTOCRATICA Insieme al classico set ceramico per contenere e consumare bevande e cibi – una ciotola conteneva abbondanti ossa animali –, sono stati rinvenuti numerosi ornamenti in bronzo (tre fibule, un affibbiaglio, un anello, un anellino e delle cuppelle) e in argento (due vaghi di collana), oltre a una lama in ferro. In un’altra ciotola una serie di

borchiette di bronzo sono le probabili tracce della decorazione di una cintura in cuoio che il tempo ha disgregato. La presenza di una fuseruola in impasto e di due fermatrecce in elettro, recuperati all’altezza del cranio, conferma senza ombra di dubbio il genere femminile della defunta. La storia che ci racconta la Tomba dei Fermatrecce di Elettro è quella di una ricca donna dell’aristocrazia etrusca vulcente degli inizi del VII secolo a.C., alta 1 metro e 55 centimetri e morta dopo i cinquant’anni. Sepolta con la sua ricca veste tenuta ferma dalle fibule e chiusa dal gancio inanellato, la donna era cinta ai fianchi da una fascia in cuoio borchiata in bronzo e i preziosi manufatti in elettro raccoglievano le sue trecce. Ai piedi i vasi con le offerte alimentari che dovevano accompagnarla durante l’ultimo viaggio. Lo scavo è realizzato grazie al contributo della Regione Lazio e del Comune di Montalto di Castro e all’accordo di collaborazione tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale con la Fondazione Vulci.

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A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero

FRUTTI DA SALVARE LA RICERCA ARCHEOLOGICA PUÒ OFFRIRE UN CONTRIBUTO DECISIVO ALLA DIFESA DELLA BIODIVERSITÀ: STUDIARE LA SOPRAVVIVENZA DELLE VARIETÀ ANTICHE NEL PAESAGGIO CONTEMPORANEO SIGNIFICA, INFATTI, CONTRASTARE L’EROSIONE GENETICA DELLE PIANTE DA FRUTTO

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ei mesi scorsi abbiamo provato a ricostruire le tappe della domesticazione e della circolazione varietale della vite (vedi «Archeo» nn. 422 e 423, aprile e maggio 2020; anche on line su issuu.com), con il confronto tra il profilo genetico della forma selvatica che cresce spontanea intorno ai siti archeologici (Vitis vinifera sylvestris) e le varietà oggi coltivate nei vigneti (Vitis vinifera sativa). Abbiamo accertato, inoltre, il contributo essenziale dell’archeologo al lavoro dei botanici e dei genetisti che studiano la storia, la circolazione e l’ibridazione delle specie: questa volta, invece, ci occuperemo del contributo potenziale dell’archeologia alla riscoperta e alla conservazione della biodiversità vegetale, con particolare riferimento alla circolazione varietale dei fruttiferi, cioè delle piante che producono frutta, un alimento ricco di principi nutritivi, essenziali per la dieta umana. Con biodiversità vegetale si indica la variabilità morfologica e genetica delle piante che vivono in equilibrio in uno specifico

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ambiente geografico: di solito, piú alto è il numero di varietà presenti, minore è il numero di piante pertinenti a ciascuna varietà, un fattore che fa crescere l’indice di biodiversità locale.

UN PATRIMONIO PERDUTO L’erosione genetica è perciò la diminuzione degli indici di biodiversità che, nelle specie coltivate, è causata da fenomeni concomitanti, quasi sempre indotti

dall’uomo. Primo fra tutti, l’affermarsi della frutticoltura industriale che, a partire dall’ultimo dopoguerra, ha in sostanza azzerato (in Italia e in Europa), secoli di coltivazioni


tradizionali con varietà selezionate nel tempo su parametri quali l’adattabilità all’ambiente, la resistenza ai parassiti, i tempi diversi di maturazione dei frutti (tali da garantire, per esempio, raccolti di pere e di mele in varie stagioni dell’anno), l’intensità dei sapori e dei profumi. Il tutto con l’apporto di saperi consolidati da generazioni di agricoltori, applicati in orti dove le monocolture erano ignote e le modalità di raccolta rispettavano i tempi di maturazione, garantendo un sufficiente equilibrio biologico con l’ambiente. I frutteti dell’epoca prebellica erano, di conseguenza, una sorta di concentrati di biodiversità, con numerose specie autoctone che fornivano il supporto necessario a comunità sparse per le campagne: il poco sovrappiú, dotato di scarso appeal per la piccola taglia dei frutti, ma ricco di sapore e capace di garantire la sopravvivenza di varietà distinte e molto diversificate a livello regionale, era destinato ai mercati locali. Quanto la frutticoltura industriale, sotto la pressione del mercato globale e della meccanizzazione, abbia eroso in brevissimo tempo la biodiversità vegetale si vede bene sui banchi del supermercato: se intorno al 1900 le varietà di frutta in Europa erano circa 5000, oggi non superano le 1800 e il numero è in continuo decremento. Soltanto in Italia, quasi l’80% delle mele prodotte appartiene a quattro gruppi varietali, di cui due di origine statunitense (golden e red delicious), una australiana (granny smith) e una neozelandese (gala).

RALLENTARE LA PRESSIONE Esiste, tuttavia, una via di uscita praticabile per fermare l’erosione: il recupero dei cosiddetti frutti antichi, cioè delle varietà a rischio di scomparsa, è iniziato da diversi

A destra: una mela (Malus sp.) dal corredo della Tomba A della necropoli di Casa Nocera a Casale Marittimo (Pisa). Ultimo quarto dell’VIII sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto: Pompei, Casa del Frutteto. Affresco raffigurante una pianta di limone. I sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: Oplontis (Torre Annunziata), Villa di Poppea. Affresco raffigurante una coppa in vetro con mele cotogne, susine e fichi. I sec. d.C.

decenni nel nostro Paese e, come vedremo, viene affrontato in modo consapevole e responsabile da amministrazioni pubbliche, associazioni e aziende, con lo scopo di rallentare la pressione sui terreni coltivabili e di stimolare forme di agricoltura sostenibile, che tutelino le biodiversità locali. Questa lunga premessa serve per introdurre la ricerca archeologica su frutta e frutteti, proponendo qualche idea per progetti possibili. Di solito i fruttiferi emergono dagli scavi sotto forma di nòccioli e semi (cioè di carporesti), utili a riconoscere la specie raccolta nei boschi o coltivata nei campi, ma non le varietà: per queste serve il DNA antico, che però si conserva con grande difficoltà nei carporesti. Tuttavia, per connotare in modo piú preciso le varietà, le fonti migliori sono quelle letterarie e, soprattutto, l’iconografia parietale di età

romana. Uno dei primi e piú antichi frutteti, pianificato nello spazio e nelle specie (peri, meli, melograni e fichi, che crescono rigogliosi tra gli olivi e le viti), dove le varietà sono diversificate per garantire una produzione prolungata nel corso dell’anno, è descritto nell’Odissea (VII, 81-132), quando Ulisse è ospite nella reggia di Alcinoo, re dei Feaci. Dal testo omerico traiamo spunti essenziali per approfondire le tecniche di coltivazione: nell’antichità greca e romana la frutta è un alimento prezioso, delicato da conservare e trasportare, da consumarsi il piú possibile fresco; per questo i fruttiferi sono sempre coltivati nelle campagne in prossimità di case e ville, ma anche in città, nei giardini delle abitazioni e ovunque vi fosse uno spazio verde a disposizione. (1 – continua) (andrea.zifferero@unisi.it)

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

LA BORSA ASSEGNA I SUOI «OSCAR»

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• quale riconoscimento alla carriera, a iunto alla 6ª edizione, Xavier Nieto Prieto, vice presidente del l’International Archaeological Consejo Consultivo Científico yTécnico de Discovery Award «Khaled al-Asaad», il la UNESCO para la Convención 2001 Premio in collaborazione con «Archeo» sobre el Patrimonio Cultural Subacuático; intitolato all’archeologo di Palmira • per la migliore mostra per la valenza che ha pagato con la vita la difesa del scientifica internazionale, a Paolo patrimonio culturale, sarà conferito Giulierini, direttore del Museo Archeologico a Daniele Morandi Bonacossi, direttore della Nazionale di Napoli, per l’ideazione, promozione e Missione Archeologica Italiana in Assiria-Progetto realizzazione della mostra «Thalassa. Meraviglie Archeologico Regionale Terra di Ninive e ordinario sommerse dal Mediterraneo»; di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente • per il progetto piú innovativo a cura di istituzioni, Antico dell’Università di Udine, per la scoperta in Iraq, nel Kurdistan, presso il sito di Faida, a 50 km da musei e parchi archeologici, a Franco Marzatico, Soprintendente per i Beni Culturali della Provincia Mosul, di dieci rilievi rupestri assiri raffiguranti gli Autonoma di Trento, per la progettazione e dèi dell’antica Mesopotamia. realizzazione del Parco Archeo Natura di Fiavé; Il Premio «Paestum Archeologia», istituito nel 2005 e • per il miglior contributo giornalistico in termini di intitolato a Mario Napoli dal 2018, viene assegnato per divulgazione, a Donatella Bianchi, Giornalista RAI aver contribuito alla valorizzazione del patrimonio conduttrice di «Lineablu» per la sua culturale, alla promozione del pluridecennale attività di giornalista turismo archeologico e al dialogo dedita alla diffusione della interculturale; per il 2020 sarà conoscenza del Mar Mediterraneo. consegnato: Inoltre, nell’ambito della 1ª • a Gabriella Battaini-Dragoni, Vice Conferenza Mediterranea del Segretario Generale del Consiglio Turismo Archeologico Subacqueo, d’Europa, artefice dello sviluppo sarà conferita una Targa alla del «Programma degli Itinerari memoria di «Claudio Mocchegiani Culturali Europei», oggi ben 38, e Carpano», riservata agli studenti della costituzione dell’Istituto universitari che hanno svolto la Europeo degli Itinerari Culturali, migliore tesi di laurea insediato a Lussemburgo nel 1998; sull’archeologia subacquea o sul • all’ICOM Italia, l’organizzazione turismo archeologico subacqueo. Il internazionale, associata UNESCO, riconoscimento vuole ricordare dei musei e dei professionisti Claudio Mocchegiani Carpano, museali impegnata a preservare, decano dell’archeologia subacquea ad assicurare la continuità e a e artefice nel 1986 della creazione comunicare il valore del patrimonio dello STAS, Servizio Tecnico culturale e naturale mondiale, Archeologia Subacquea. attuale e futuro, materiale e Infine, il Premio «Antonella immateriale; Fiammenghi» sarà riconosciuto al • all’ICOMOS Italia, l’organizzazione laureato che ha svolto la migliore internazionale non-governativa, organo consultivo dell’UNESCO, dedicata Daniele Morandi tesi sul «Turismo Archeologico» o sulla «Borsa Mediterranea del Turismo alla conservazione e alla tutela dei Bonacossi è Archeologico». Il Premio istituito nel 2007 nel monumenti, degli edifici e dei siti del il vincitore della ricordo di Antonella Fiammenghi, Direttore patrimonio culturale; 6ª edizione • a Enrico Ducrot, Willy Fassio e Maurizio dell’International del Parco Archeologico di Velia, vuole essere un riconoscimento per quanti divulgano il Levi, titolari dei Tour Operator specializzati Archaeological nel turismo archeologico. Discovery Award Turismo Archeologico e la Borsa attraverso l’impegno universitario. Il Premio di Archeologia Subacquea «Khaled Per informazioni: www.bmta.it «Sebastiano Tusa» sarà invece assegnato: al-Asaad».

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

IL MIRACOLO DI FILE Quanto straordinaria sia storia di File si può ben comprenderlo leggendo l’articolo di Giuseppina Capriotti Vittozzi (vedi alle pp. 32-55), con l’aiuto delle fotografie e delle immagini che hanno documentato il prima e il dopo del «miracolo» che ci permette ancora di godere di tanta bellezza! Anche la filatelia, soprattutto l’Egitto ovviamente, ha contribuito a tenere desta l’attenzione mondiale su quanto stava avvenendo presso Assuan. Non si può non cominciare con il lavoro del pittore scozzese David Roberts che cosí «fotografò» File nel suo viaggio in Egitto nel 1938-39 (1), quando nulla era ancora cominciato e come l’avevano vista altri illustri viaggiatori e storici di un remoto passato. Ma nel 1902 cominciò il dramma, a seguito della costruzione della diga di Assuan (2), che 5 sommerse gran parte dell’isola di File, cosicché molti templi erano visibili solo quando le «chiuse» erano aperte. E questo era lo spettacolo che si offriva ai turisti fino al 1960 e oltre (3), quando si 12 decise di costruire una seconda e piú grande diga (4), che avrebbe definitivamente inghiottito tutto ciò che restava di File; l’UNESCO lanciò allora, ufficialmente, il programma di salvataggio per smontare i templi e 13 ricostruirli sull’isola di Agilkia, a soli 550 m di distanza. Si formò un fortissimo movimento d’opinione per salvare File e si ricorse a tutti i mezzi di propaganda possibili, inclusi i francobolli; l’Egitto e altri Paesi mostrarono l’intero complesso di File o i templi come erano all’epoca, semisommersi. Fra i tanti emessi eccone alcuni egiziani (5, 6, 7, 18 8) e altri di Indonesia (9), Pakistan (10) e perfino Città del Vaticano (11). Oggi tutti i templi sono ancora lí e possono essere ammirati (12, 13, 14) anche di notte (15), insieme a tanti particolari di rilievi e sculture che altrimenti sarebbero andati persi per sempre (16, 17, 18). E ci fa piacere sottolineare come tutto sia stato possibile grazie alla cooperazione e alla generosità internazionale e al valore e alla professionalità dell’impresa italiana Condotte-Mazzi (19), che gestí la complessa opera di smontaggio e rimontaggio di uno dei massimi tesori archeologici dell’antichità realizzando cosí il «miracolo» di File che è ad Agilkia (20), che è ridiventata... File!

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Italia

Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 20.12.20

ROMA Civis, Civitas, Civilitas

Roma antica modello di città Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 18.10.20

NAPOLI Gli Etruschi e il MANN

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21

Aspettando l’Imperatore

ODERZO L’anima delle cose

Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone, 1809-1814 Museo Napoleonico fino al 25.10.20

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 14.02.21

Colori degli Etruschi Tesori di terracotta alla Centrale Montemartini Centrale Montemartini fino all’01.11.20

TORINO Lo sguardo dell’antropologo

Connessioni tra egittologia e antropologia Museo Egizio fino al 15.11.20

La lezione di Raffaello

Le antichità romane Complesso di Capo di Bove fino al 29.11.20 (dal 18.09.20)

Incensum

BASSANO DEL GRAPPA Giambattista Piranesi Architetto senza tempo Palazzo Sturm fino al 19.10.2020

La Fornarina visita Raffaello, olio su tela di Filippo Bigioli. 1855.

BOLOGNA Etruschi

Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 29.11.20

CLASSE Tesori ritrovati

Il banchetto da Bisanzio a Ravenna Museo Classis Ravenna fino al 20.12.20 (prorogata)

FORLÍ Ulisse

L’arte il mito Musei San Domenico fino al 31.10.20

MILANO L’esercito di Terracotta

e il Primo Imperatore della Cina Fabbrica del Vapore fino al 18.10.20 (prorogata)

Viaggio oltre le tenebre

Tutankhamon Real Experience Palazzo Reale fino al 18.10.20 (prorogata) 22 a r c h e o

Suggestioni dalla terra dell’Oman Musei Reali, Spazio Passerella del Museo di Antichità fino al 10.01.21

Francia PARIGI Pompei

Passeggiata immersiva, tesori archeologici, nuove scoperte Grand Palais fino al 02.11.20 (prorogata)

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da Alesia a Roma L’avventura archeologica di Napoleone III Musée d’Archéologie nationale fino al 03.01.21

Paesi Bassi LEIDA I Romani lungo il Reno Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21

Vetro

Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21



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VA GU LL ID E D AA ’ RC AO HE S OL TA O UN A

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

VALLE D’AOSTA IL TERRITORIO • LA STORIA • L’ARCHEOLOGIA

Una suggestiva veduta invernale del ponte-acquedotto romano di Pont d’Aël, costruito a cavallo del torrente Grand-Eyvia. 3 a.C.


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a Valle d’Aosta è la sola regione d’Italia che conservi, nel nome stesso, una memoria imperiale. Qui, nella valle della Dora Baltea, tra le montagne piú alte del continente europeo, nel 25 a.C. le legioni di Roma sconfissero i Galli Salassi e fondarono una città fortificata, costruita sul modello del tipico accampamento romano. In onore di Ottaviano Augusto, la chiamarono Augusta Prætoria Salassorum. La conquista romana della Valle d’Aosta è dunque l’argomento centrale della nuova Monografia di «Archeo», ma non il solo. Nei vari capitoli, infatti, realizzati grazie alla collaborazione dei principali studiosi della materia, i lettori scopriranno l’esistenza di altre conquiste, prima fra tutte quella archeologica, iniziata nel Cinquecento proprio per l’emergere della curiosità intorno alle monumentali vestigia imperiali, e che, in seguito, ha avuto tra i suoi protagonisti alcuni dei piú autorevoli studiosi italiani. Una conquista rinnovata, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, dalla scoperta, inaspettata, dell’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans, che ha permesso di gettare luce su un fenomeno rimasto, fino ad allora, in ombra: quello della preistoria e protostoria della Valle. Un quadro, insomma, a tutto tondo, per una storia plurimillenaria.

GLI ARGOMENTI

IN EDICOLA

• PRESENTAZIONE • Valle d’Aosta. Dove la Montagna stessa è cultura • IL TERRITORIO • Una regione e il suo territorio • LA PREISTORIA • I primi valligiani • L’ETÀ ROMANA • Alle origini di un mito •L ’ETÀ TARDO-ANTICA E IL MEDIOEVO • Nel nome di Augusto • STORIA DELLE RICERCHE • Dalla passione al metodo • I MUSEI ARCHEOLOGICI IN VALLE

D’AOSTA

• Il Museo Archeologico Regionale • L ’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans • GLI ITINERARI • Un patrimonio da scoprire

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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart

MESSAGGI SENZA TEMPO ICONA DELL’ARTE ANTICA, LA TOMBA DEL TUFFATORE DI PAESTUM PROPONE LA SUA SUGGESTIVA INTERPRETAZIONE DEL PASSAGGIO ALLA VITA ULTRATERRENA. ISPIRATA DA UN SENTIMENTO CHE RITROVIAMO, DOPO 2500 ANNI, NEI VERSI DEL CELEBRE POETA «MALEDETTO» CHARLES BAUDELAIRE

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l 3 giugno 1968, vicino a Paestum, Mario Napoli scopriva in una necropoli sita in località Tempa del prete, la famosa Tomba del Tuffatore. Il sepolcro, del tipo a cassa, si compone di cinque lastre in travertino dipinte e poggiava sullo stesso piano roccioso sul quale era costruita. Dai pochi resti dello scheletro si ipotizzò che la sepoltura fosse di un giovane e, sulla base degli oggetti del modesto corredo, la tomba fu datata tra il 480 e il 470 a.C. Le lastre che compongono le quattro pareti dellaTomba delTuffatore rappresentano momenti di gioia,

legati a un grande banchetto. Una decina di personaggi raffigurati sulle lastre piú grandi (cinque sulla lastra nord e cinque su quella sud) sono allungati sui letti triclinari, che accoglievano i partecipanti ai banchetti. Sulle due lastre piú piccole vediamo invece scene che coinvolgono pochi individui. Sulla lastra est, un giovane attinge vino da un grosso cratere, coperto di ghirlande e poggiato su un tavolo imbandito; sulla lastra ovest un giovane suonatore di doppio flauto, dalla veste trasparente, guida un corteo composto da un ragazzo nudo con le spalle coperte da una sorta di sciarpa azzurra, e da un anziano barbato che cammina poggiato su un bastone.

MOMENTI DI FELICITÀ I dieci personaggi rappresentati sulle due lastre lunghe appaiono felici. Le mani sono impegnate a sorreggere strumenti musicali o coppe riempite di vino. Un commensale incantato dalla musica suonata dal suo vicino porta la mano alla fronte, estasiato; un altro lancia verso un amico una coppa (il famoso gioco del cottabos), cercando di colpirlo e sperando di ricevere in premio un bacio; altri due commensali, un efebo e un adulto barbuto, si scambiano gesti affettuosi. In tutte le scene si respirano gioia e serenità. Il pittore ha voluto rappresentare un simposio simile

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ai tanti banchetti che la pittura greca su vasi e la letteratura (ricordiamo il Simposio di Platone, in cui i massimi intellettuali ateniesi, tra cui Socrate e Alcibiade, dissertano su Eros, l’Amore) ci hanno tramandato. Piú complessa è invece la raffigurazione della lastra che copriva la tomba e che restituisce un messaggio altamente simbolico. Vediamo una sorta di torre o di colonna costruita con pietre squadrate o grossi mattoni. Dall’alto di questa costruzione un giovane nudo si tuffa in uno specchio di acqua rappresentato in modo curvo e ondulato. Giustamente Mario Napoli ha visto nello specchio di acqua la raffigurazione del mare ondoso nella sua immensità. La piattaforma dalla quale si lancia il tuffatore potrebbe evocare le colonne mitiche poste da Ercole per significare la fine del mondo e la porta aperta sull’ignoto, ovvero l’aldilà. Il salto del giovane che si getta dall’alto della torre per sprofondare nel mare rappresenterebbe quindi il passaggio dalla gioia e serenità di un simposio – che era fonte di conoscenza artistica, filosofica e sessuale – alla morte. Per gli antichi Greci il regno di Ade era tutt’altro che attraente. Nell’Odissea, Omero descrive la discesa di Ulisse negli Inferi. Mandato dalla maga Circe nell’Ade


per consultare l’indovino Tiresia e sapere da lui come raggiungere finalmente Itaca (Odissea XI, 477479), l’eroe incontra i vecchi compagni che hanno combattuto insieme a lui sotto le mura di Troia. Tra loro vi è Achille, che sembra regnare sulle anime dei morti. Ulisse gli dice: «Nessuno piú di te beato, o Achille, in passato e in futuro: prima infatti, da vivo, ti rendevamo onori di dei, noi Argivi, ed ora hai grande potere tra i morti qui dimorando: non t’angusti, Achille, la morte». Achille, sconsolato, gli risponde: «Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Vorrei da bracciante servire

In questa pagina: fotomosaico delle pitture della Tomba del Tuffatore e, in basso, la scena che ha dato nome al sepolcro. 480-470 a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: il poeta Charles Baudelaire in una foto di Étienne Carjat. 1863 circa. Se il cielo e la terra sono neri come la pece, I nostri cuori che conosci sono pieni di luce! Versaci il tuo veleno affinché ci conforti! Vogliamo, poiché questo fuoco ci brucia il cervello, Tuffarci in fondo al baratro, Inferno o Cielo, che importa? In fondo all’Ignoto per trovare il nuovo!

un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti» (Odissea XI, 488-490). Per Achille, come per la stragrande maggioranza dei Greci, qualsiasi cosa è preferibile alla morte. Il mondo dei trapassati è fatto di ombre simili alla sagoma della madre di Ulisse, che gli volava dalle mani come un’ombra o un sogno, mentre lui, per tre volte, tentava di abbracciarla (Odissea XI, 204-213). Il pittore che ha realizzato il capolavoro che oggi ammiriamo al museo di Paestum, sembra avere una concezione molto piú elaborata e diversa dell’Ade. Non è il mondo rarefatto che la vulgata antica

rappresentava, ma un mondo misterioso raffigurato dal mare immenso nel quale precipita il giovane di Paestum.

VERSI STRUGGENTI Contemplando un giorno questo capolavoro della grande pittura greca del V secolo a.C., mi tornavano in mente i versi di Charles Baudelaire che chiudono Il viaggio, uno dei componimenti riuniti nella raccolta i Fiori del male, pubblicata nel 1857: O Morte, vecchio capitano, è ora! Alziamo l’ancora! Questo paese ci annoia, o Morte! Salpiamo!

Baudelaire, il poeta maledetto, che tutto sperimentò nella vita, dai paradisi artificiali (i Paradisi artificiali fatti di oppio, hashish e vino furono pubblicati nel 1851) agli amori travolgenti e contrastati con Jeanne Duval, cercava nella preghiera rivolta alla Morte nuovi orizzonti capaci di aprirgli le porte dell’Ignoto nella speranza di trovare qualcosa di nuovo. Mi piace immaginare che un sentimento simile, raffigurato dal geniale pittore della Tomba del Tuffatore, albergasse nel cuore dell’uomo sepolto nella tomba di Paestum: dopo aver condiviso i piaceri del simposio e non aver null’altro da scoprire nella vita, egli sceglieva di tuffarsi a sua volta «In fondo all’Ignoto per trovare il nuovo».

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

LA PERLA DEL NILO, SALVATA DALLE ACQUE L’isola di File, oggi sommersa, si trovava a sud di Assuan, all’estremità meridionale della prima cataratta del Nilo. Sull’isola si ergevano magnifici templi, il maggiore dei quali dedicato alla dea Iside. Per la sua posizione e la sua importanza, il complesso templare di File fu anche l’ultimo tempio di tipo faraonico a restare in funzione. Agli inizi del Novecento, con la costruzione della prima diga di Assuan, l’isola iniziò ad essere, seppur parzialmente, inondata dall’acqua e, negli anni Cinquanta, con la costruzione della seconda diga, l’intero complesso monumentale rischiava di essere sommerso. I magnifici templi, però, furono messi in salvo e, oggi, accolgono i visitatori da tutto il mondo. Ecco la storia di una straordinaria operazione che vide fianco a fianco l’Italia e l’Egitto. E di cui, quest’anno, ricorre il 40esimo anniversario… di Giuseppina Capriotti Vittozzi

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L’isola di File in una incisione tratta da Picturesque Palestine, Sinai and Egypt, di Charles William Wilson. 1880 circa.


RESTAURI • ANTICO EGITTO

«N

qui era rimasta ad aspettare Giovanni durante il suo viaggio ad Abu Simbel dove aveva, nell’agosto 1817, liberato il grande tempio dalla sabbia che lo sommergeva, per penetrarvi per primo.

Mar Mediterraneo

Cairo

N ilo

on c’è nulla sul Nilo cosí bello come l’isola di File, con i suoi templi e gli alberi, quando appare al centro della selvaggia desolazione nell’ampio paesaggio roccioso che circonda il Nilo a monte della prima cataratta. Da qualsiasi lato si arrivi all’isola, nulla può superare la sua bellezza. La forma pittoresca dei suoi templi, l’ambiente romantico, la sua fertilità, impressionano ogni viaggiatore»: cosí David Roberts, celebre pittore scozzese che viaggiò in Egitto tra il 1838 e il 1839, lasciando mirabili vedute del Paese e della stessa File. L’isola a sud di Assuan, già citata da autori antichi quali Diodoro Siculo, Strabone e Plinio il Vecchio, aveva impressionato i Savants, studiosi e disegnatori che avevano seguito Napoleone in Egitto alla fine del Settecento e che ne hanno lasciato descrizioni e im-

E g i t t o

Mar Rosso

File Lago Nasser

magini nella Description de l’Égypte. Nella prima metà dell’Ottocento, dunque, rinasce presso il grande pubblico il mito di File – la Perla del Nilo – e della sua bellezza, celebre nell’antichità: già Giovanni Battista Belzoni, il famoso «gigante del Nilo» padovano, vi aveva soggiornato e lavorato, e il tetto del tempio aveva ospitato sua moglie Sara, che

«L’ACQUA SALE COME UNA MAREA» Ai primi del Novecento, lo stesso paesaggio drammaticamente affascinante descritto da Roberts assume le tinte di una tragedia senza ritorno nelle pagine di Pierre Loti, ne La morte di File: «Siamo in una scena tragica, sulle acque di un lago circondato da un anfiteatro terribile nella sua scarna grandiosità. (…) L’acqua è salita, salita come una marea che non scenderà mai piú (…) Improvvisamente, il tonfo sordo di una caduta: si è staccata una grande pietra scolpita, che sprofonda nel caos buio a raggiungere le altre già cadute».

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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I templi di File in un acquerello di David Roberts. 1838. In basso, sulle due pagine: Veduta dei monumenti dell’isola di File e delle montagne che la circondano, da Description de l’Egypte. 1809-22. Milano, Biblioteca e Archivi di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano.

Da quel buio informe e distruttivo, le pietre di File sono invece uscite, riesumate dalla tenacia e dall’impegno di uomini e istituzioni che hanno sfidato la storia

ed eventi rovinosi sembrati irreparabili, in un miracolo che ha riportato File a nuova vita. Nel 1902 era stata inaugurata la diga di Assuan, a valle di File, che aveva

creato un primo invaso, il quale aveva inghiottito l’isola e, parzialmente, il suo complesso monumentale. Per i turisti che si avventurava(segue a p. 38)

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

FILE, LUOGO DI INCONTRO I Greci diedero nome Philae alla Perla del Nilo, ricalcando il termine su uno piú antico in lingua egiziana, allo stesso tempo donandole una preziosa connotazione nell’identità: Philae, cioè amicizia, un incontro improntato a solidarietà e comprensione. Un destino nel nome. La campagna UNESCO per il salvataggio dei monumenti della Nubia, che realizzò a File la sua ultima «missione impossibile» e una delle piú straordinarie, rappresenta un momento altissimo nella storia contemporanea: la dimostrazione che la collaborazione tra i popoli può realizzare imprese incredibili. Ma il destino di File come punto di incontro era già iniziato nell’antichità: luogo di confine e di scontro, ma anche di contatto, una sorta di zona franca al di là dei conflitti. L’isola si trovava nell’area sud della prima cataratta del Nilo, un tratto del fiume dove numerosi scogli di granito affioranti rendono difficoltosa la navigazione. Gli Egizi ritennero questo il confine meridionale della Terra Amata, come chiamavano l’Egitto. Oltre, nella Nubia terra dell’oro, viaggiarono, combatterono, conquistarono, stabilirono fortezze, ma consideravano patria ciò che si estendeva dal

Una veduta del santuario di Iside, ricollocato sull’isola di Agilkia, situata a circa mezzo chilometro dall’isola di File, sommersa dalle acque del lago Nasser. 36 a r c h e o

Mediterraneo fino ad Assuan e alla prima cataratta, fino a File. L’Isola si trovava esattamente in un’area di confine: l’ultimo avamposto dell’Egitto verso sud. Essa, che il passato ci aveva consegnato irta di templi, databili soprattutto al periodo tolemaico e romano, ospitò certamente anche uomini armati e strutture difensive. Lungo la costa orientale del Nilo, non lontana dall’isola, correva un muro di fortificazione a proteggere il percorso di ingresso in Egitto. La storia piú antica dell’isola era invisibile fino ai lavori di salvataggio, nell’ambito della campagna UNESCO. Smontati i monumenti, furono effettuati scavi sotto la supervisione del Servizio delle Antichità del Ministero della Cultura egiziano. Essi restituirono elementi di edifici piú antichi: sappiamo dunque che, su questo avamposto meridionale, che doveva aver avuto un ruolo strategico sul confine, esistevano strutture templari certamente dalla XXV dinastia, forse fin dal Nuovo Regno. La XXV dinastia (VIII-VII secolo a.C.), detta nubiana, portò in Egitto dei conquistatori dal Sud: faraoni che arrivavano da terre africane imbevute di cultura egiziana, attraverso secoli di contatti e dominazioni. File fu per loro, probabilmente, un luogo


fortemente simbolico, in bilico tra le loro origini meridionali e la loro proiezione verso nord. Altrettanto simbolico, dunque, il luogo dovette essere per i faraoni egiziani della XXVI dinastia, che riconquistarono l’Egitto, portando forse, per la prima volta, il culto specifico di Iside a File. La dea, particolarmente venerata nel Delta a Behbeit el-Haggar, doveva essere cara a questi faraoni provenienti dal Nord del Paese. Con i faraoni di origine macedone, i Tolemei successori di Alessandro Magno, File si arricchí di magnifiche strutture templari, cui si aggiunsero poi quelle volute da imperatori romani. Mentre da un lato il culto faraonico ufficiale trovava a File una delle sue ultime espressioni, e la piú duratura, l’isola divenne un luogo di pellegrinaggio importante anche per le popolazioni oltre il confine, Nubiani e nomadi del deserto. A File si trovano dediche e templi eretti da questi, come quello di Aresnufi e l’altro di Manduli, che si affacciano sulla grande piazza porticata, antistante il tempio, allestita per accogliere i pellegrini. I sovrani di Meroe, regno sorto nell’attuale Sudan e mai sottomesso da Roma, furono attivi a File e la loro presenza vi è ampiamente testimoniata. Santuario di confine, File fu dunque luogo

di incontro e di scambio, un baluardo di convivenza in un territorio di conflitti. La figura materna di Iside, attrattiva e benevola, creò a File un luogo di diversificazione e allo stesso tempo di resilienza: fu l’ultimo dei templi pagani ad essere chiuso, con l’espulsione degli ultimi sacerdoti nel 535 d.C., ben oltre i decreti di Teodosio (391-392 d.C.) che avevano messo al bando il paganesimo. Fu anche l’ultimo luogo conosciuto dove siano stati iscritti i geroglifici, alla fine del IV secolo d.C. La posizione appartata, all’estremo sud dell’Egitto, eppure su una sorta di crocevia, favorí l’estendersi nel tempo di una cultura millenaria e di antiche competenze, tuttavia integrate da novità allogene proprie di un santuario di confine. Un singolare destino sembra legare, in epoca ellenistica, due isole sacre: Delo nel Mediterraneo e File sul Nilo. In quest’ultima, la faraonica dea Iside appare nella sua forma piú tradizionale come oggetto di pellegrinaggi eterogenei, mentre la stessa dea, ormai in abiti e caratteri ellenistici, protagonista di una diffusione ben oltre i confini dell’Egitto, attira a Delo mercanti e naviganti da ogni parte del Mediterraneo.

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

la supervisione dell’UNESCO e del Ministero della Cultura egiziano. La posizione di File, non lontana dalla sponda orientale del fiume, aveva pure un suo senso in rapporto all’isola maggiore di Bigah, immediatamente a ovest, dove si riteneva collocata la tomba del dio Osiride. Un legame strettissimo

In alto: il secondo Pilone del tempio di Iside, semi-sommerso dalle acque del Nilo, in una foto degli inizi del Novecento. A destra: il monumento come appare oggi, ricollocato sull’isola di Agilkia.

no fino a File, era possibile circolare in barca tra i capitelli che emergevano dall’acqua, il maestoso chiosco di Traiano, simbolo dell’isola, ridotto a una sorta di balaustra, come aveva predetto il grande egittologo Gaston Maspero in un disperato grido di allarme, alla prospettiva della costruzione della diga. Alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, un nuovo allarme si levò dalla comunità degli archeologi e non solo: la costruzione di una diga ancora maggiore ad Assuan avrebbe completamente e definitivamente sommerso l’isola. Nell’am38 a r c h e o

bito della campagna UNESCO, avviata nel 1960 e durata vent’anni (vedi box alle pp. 42-43), per il salvataggio dei monumenti della Nubia, File è l’ultima sfida. Dopo tante valutazioni, si decise di «smontare» i monumenti e «rimontarli» su un’altra isola. I fondi raccolti furono 30 000 000 di dollari, dei quali la metà a carico dell’Egitto. Il concorso internazionale per lo spostamento dei templi fu vinto da una società italiana, costituita per l’occasione dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua e Mazzi Estero. Tutte le operazioni furono compiute sotto


avvolgeva le due isole: da Oriente, la sposa Iside, portatrice di vita, vegliava sullo sposo Osiride, morto e risorto, Signore dell’Occidente, regno dei morti e della rigenerazione. Questo paesaggio mitico, parte di una geografia del sacro tanto cara agli Egizi, modellata sul ciclo del sole che apparentemente

nasce a est e muore quotidianamente a ovest, andava il piú possibile preservato, anzi replicato. Fu scelta dunque l’isola di Agilkia, piú alta sull’acqua di circa 13 m, e situata un po’ piú a nord di File. Bisognava rimodellarla fino a creare un’isola gemella di File. La High Dam Authority, istituzione egiziana

che gestisce la grande diga di Assuan, si impegnò in questa impresa: Agilkia, irta di massi di granito alti sull’acqua, fu spianata con l’esplosivo. Con i materiali di risulta si riprofilò l’isola, ampliandola a nordest con circa 300 000 metri cubi, e circa 100 000 a sud-est. La stessa High Dam Authority, nel 1972, mise

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

mano alla costruzione di una diga circolare intorno a File del perimetro di circa 800 m: un doppio palancolato d’acciaio, alto 15 m, spesso 12, all’interno del quale fu riversata sabbia attraverso una grossa tubazione lunga circa 5 km. Cosí isolata, File fu portata in secco grazie al lavoro di instancabili pompe, che continuarono a pulsare per tutto il tempo delle operazioni di smontaggio. Fuori dal palancolato restarono la porta di Diocleziano e il tempio di Augusto, smontati direttamente in acqua da sommozzatori della Marina Militare egiziana e della Royal Navy inglese. Nel 1974, gli Italiani cominciarono a lavorare a File, in collaborazione con tecnici e operai egiziani. Le preziose immagini dell’archivio della Società per Condotte d’Acqua, insieme ad altre conservate nell’Archivio

di Stato di Torino, restituiscono frammenti di storia e l’atmosfera di quei momenti. Italiani con berrettucci e pantaloni a «zampa d’elefante», talvolta a torso nudo, a cuocersi sotto il sole inclemente di Assuan, insieme ad Egiziani nelle piú utili e fresche galabeye, i turbanti svolazzanti. Talvolta nelle posizioni piú improbabili: in equilibrio sulle tubature delle impalcature, con le gambe nel fango a spalare i depositi lasciati dal fiume nei decenni di immersione dell’isola.

CON LE GAMBE NEL FANGO Campeggiano, tra gli Italiani, l’ingegner Massimo Grappelli, responsabile in Egitto per Condotte Mazzi Estero, il geometra Carlo Zenini, che gestiva i rapporti con la direzione dei lavori, e in parti-

Nel 1974 gli Italiani iniziarono i lavori con una serie di meticolosi rilievi topografici

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colare il geometra Comincio Ritonnale, che coordinava sul campo con fare cordiale e giocoso: nelle foto distribuisce pacche amichevoli a connazionali e non. Piú defilato nelle foto, ma importante, l’architetto Giovanni Ioppolo, dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, che dirigeva i lavori nell’ambito strettamente relativo ai monumenti, nel quale aveva ampia e lunga esperienza. Il Ministero degli Affari Esteri italiano, attraverso il Dipartimento per la Cooperazione allo Sviluppo, contribuí all’impresa inviando specialisti: tra questi l’architetto


Antonio Giammarusti e l’egittologo Alessandro Roccati, dal Museo Egizio di Torino. Una delle prime operazioni, e tra le piú importanti, fu il rilievo topografico, coordinato dal topografo Giovanni Battista Lomuto. Il complesso dei monumenti fu rilevato meticolosamente: come ingabbiato in una rete virtuale di punti che, trasferita poi su Agilkia, avrebbe permesso di riposizionare gli edifici con millimetrica precisione. Ciascun monumento fu poi segnato da righe or izzontali e verticali, che (segue a p. 44)

Sulle due pagine: l’elegante chiosco di Traiano, sulla riva orientale di Agilkia. Attribuito all’imperatore sulla base di due rilievi che lo raffigurano nell’atto di recare offerte sacrificali alla dea Iside, il monumento, in verità,

fu iniziato sotto l’imperatore Augusto. Nell’immagine in alto, il monumento semisommerso dalle acque in una foto dei primi del Novecento. Nella foto grande, il monumento come appare oggi, alle prime luci dell’alba.

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

LA CAMPAGNA UNESCO PER IL SALVATAGGIO DEI MONUMENTI DELLA NUBIA Nel 1902, fu inaugurata la prima diga di Assuan: il lago che ne derivò sommerse l’isola di File e buona parte dei suoi monumenti. Nel 1954, si decise di costruire la nuova diga di Assuan, che avrebbe creato il grande lago Nasser, sommergendo completamente i monumenti a sud di Assuan. L’8 marzo 1960, il Direttore Generale dell’UNESCO Vittorino Veronese lanciò un appello alle nazioni, per un impegno collettivo che potesse salvare i monumenti faraonici della Nubia, dopo che, nel 1959, 42 a r c h e o

l’Egitto e il Sudan avevano chiesto aiuto all’UNESCO. Numerosi Paesi e molti privati avviarono una gara di solidarietà, grazie alla quale furono salvati numerosi monumenti considerati patrimonio dell’umanità, eretti dai faraoni nell’area a sud di Assuan, chiamata Nubia. Il contributo dell’Italia fu tra i maggiori. Il salvataggio dei monumenti egiziani avvenne in collaborazione con il Ministero della Cultura della Repubblica Araba d’Egitto: in una corsa contro il tempo, l’UNESCO creò dei

comitati, quale quello esecutivo per la campagna internazionale per il salvataggio della Nubia, e il comitato degli archeologi e degli architetti paesaggisti. In quest’ultimo, dette il suo contributo l’egittologo italiano Sergio Donadoni. A questo impegno colossale, parteciparono circa quaranta missioni archeologiche da vari Paesi del mondo, per documentare un’area lunga circa 500 km a sud di Assuan. Furono salvati 22 complessi monumentali, smontati e ricostruiti in ambienti dove le acque del

lago Nasser non sarebbero arrivate. In una vasta area vicino alla grande diga di Assuan, furono collocati diversi dei monumenti salvati. Altri furono donati dalla Repubblica Araba d’Egitto a Paesi che avevano collaborato al salvataggio: oggi, si può visitare il tempio di Ellesiya all’interno del Museo Egizio di Torino, mentre quello di Debod è a Madrid, in un parco vicino al palazzo reale; inoltre, il tempio di Dendur si erge oggi all’interno del Metropolitan Museum of Art di New York e il tempio di Taffeh è nel


Rijksmuseum van Oudheden di Leida in Olanda. Le operazioni di salvataggio dei templi di Abu Simbel e quelli di File furono le piú complesse e memorabili della campagna UNESCO per la Nubia. I celebri templi di Abu Simbel erano stati scavati e scolpiti nella roccia davanti al Nilo, in un’area oggi non lontano dal confine con il Sudan. Il piú grande è caratterizzato dai quattro colossi di Ramesse II seduto. Grazie al corretto riposizionamento del monumento, ancora oggi, il

22 ottobre e il 22 febbraio, si verifica il famoso fenomeno dell’allineamento solare: un raggio di sole, all’alba, entra nel naos a illuminare le statue divine. L’altro tempio, di minori proporzioni, è dedicato alla sposa regale Nefertari. Diversi Paesi si impegnarono nel salvataggio di Abu Simbel, sotto l’egida dell’UNESCO. I templi furono salvati da un progetto internazionale cui concorsero varie nazioni. Dopo la valutazione di diverse proposte, si decise di

tagliare la falesia rocciosa in enormi blocchi di circa 30 tonnellate ciascuno, che furono ricomposti circa 60 m piú in alto, dove l’altura fu artificialmente elevata, con l’aiuto di una cupola in cemento armato, opportunamente mimetizzata. Anche in questo caso, l’Italia ebbe un ruolo importante e diversificato: i lavori furono realizzati dalla società italiana Impregilo (oggi nel gruppo We Build); si possono ricordare i tagliatori delle cave di Carrara, che materialmente affettarono la collina rocciosa,

portando in Egitto la loro millenaria tradizione; si ricordi, inoltre, il topografo Angelo Pericoli dell’Istituto Geografico Militare di Firenze, che lavorò al riposizionamento dei monumenti. File. L’area del portico d’Augusto con le colonne sommerse per oltre la metà dal fango. Sullo sfondo si riconosce il palancolato d’acciaio della diga artificiale, costruita nel 1972 per portare a secco l’isola e poter cosí procedere ai lavori di smontaggio dei monumenti. a r c h e o 43


RESTAURI • ANTICO EGITTO

avrebbero consentito di replicare l’esatta posizione dei blocchi, l’uno in rapporto agli altri; ogni blocco segnato da sigle che ne avrebbero individuato precisamente la posizione nel complesso sterminato di circa 45 000 elementi. Le gru si misero al lavoro: quelle mobili, capaci di spostarsi anche in spazi molto limitati, il grande braccio del Derrick a coprire 500 mq. Molti blocchi furono consolidati e restaurati. Possiamo solo immaginare la sconfinata «biblioteca» di pietra che fu apparecchiata sulla riva orientale del fiume: ogni monumento ebbe la sua area – potremmo dire un’ordinata «sala lettura» – dove ogni blocco-libro era immediatamente individuabile

A sinistra: le colonne del Mammisi (in primo piano) e, sullo sfondo, le esplosioni messe in atto sull’isola di Agilkia per spianarla cosí da renderla adatta ad accogliere i monumenti di File.

grazie alle segnature. E straordinari volumi iscritti e decorati erano i templi di File, con le loro colonne di geroglifici e i rilievi mostranti dèi e sovrani. Ma non solo, la pietà di migliaia di pellegrini, che nel passato si erano recati fiduciosi a pregare Iside, aveva lasciato talvolta 44 a r c h e o

graffiti in un caleidoscopio di scritture e lingue diverse. Il 29 marzo del 1977, con una grande festa collettiva, si pose la prima pietra per la ricostruzione dei templi su Agilkia: riti popolari egiziani, festeggiamenti all’italiana, i cerimoniali delle alte personalità istituzio-

nali. E si cominciò a ricomporre l’enorme puzzle sulla nuova File. Ogni blocco tornò millimetricamente al suo posto. Furono ricollocati anche blocchi caduti durante l’immersione, accoratamente citati da Pierre Loti. Intanto, si erano fermate le pompe a File: nell’agosto


A sinistra: i lavori di smontaggio dei monumenti sull’isola di File, liberata dalle acque grazie alla diga costruita intorno al perimetro dell’isola. In questa pagina: alcuni documenti, parte dell’archivio della società Condotte Mazzi Estero, che documentano i lavori per il salvataggio dei monumenti di File a partire dal 1974.

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

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Sulle due pagine: i lavori di smontaggio dei monumenti di File, preceduti dalla meticolosa registrazione di ogni singolo blocco, tale da permetterne l’esatto riposizionamento sull’isola di Agilkia. I singoli elementi rilevati furono circa 45 000.

del 1977, gradualmente e inesorabilmente, l’isola, ormai spoglia della sua selva di torri e colonne, fu sommersa per sempre, mentre la stessa selva cresceva velocemente su Agilkia. Il 10 marzo 1980 la nuova File fu inaugurata, completata la campagna UNESCO di salvataggio dei monumenti della Nubia. Il tempio maggiore di File è dedicato a Iside, frutto di un ampio programma costruttivo iniziato da Tolemeo II, che inglobò strutture preesistenti, protratto dai suoi successori e ampliato ancora da imperatori romani fino a Diocleziano, che stabilí qui il confine meridionale dell’impero di Roma.

STORIE DI UNA NASCITA DIVINA Iside appartiene all’Enneade, gruppo di divinità originarie di Eliopoli, importante e antichissimo centro religioso in prossimità dell’attuale Cairo: sorella-sposa di Osiride, sovrano benevolo, resta vedova per un tranello teso da Seth al fratello Osiride. Iside è la sposa e la vedova che non cessa di essere sposa. Ricerca il corpo di Osiride per ricomporlo e dargli degna sepoltura. Lo veglia e lo piange, miracolosamente concepisce un figlio postumo, Horo, che sarà il nuovo re: di questo custodisce e tutela la crescita in luoghi appartati, per difenderlo dalle insidie di Seth. In questo modo, con l’aiuto di altre divinità, garantisce all’Egitto la continuità di vita grazie al perpetuarsi della regalità: ogni re che muore è Osiride, ogni nuovo re è Horo. Nel complesso templare dedicato a Iside, sorge a File il cosiddetto Mammisi, il tempio dedicato alla nascita divina: quella di Horo e, dunque, quella del re. In Egitto, la funzione regale non è semplicemente politica e amministrativa, ma cosmica: il buon funzionamento del mondo, l’armonia cosmica (Maat) è garantita dal re. Iside e Osiride, dunque, hanno un importante ruolo nel meccanismo dell’ua r c h e o 47


RESTAURI • ANTICO EGITTO A sinistra: il geometra Comincio Ritonnale, tra i protagonisti italiani dei lavori di File, in compagnia degli operai egiziani e italiani. In basso e nella pagina accanto: due momenti dei lavori di rilievo e smontaggio dei monumenti di File.

niverso e nei cicli naturali. Quello del sole, che nel suo apparente viaggio da est a ovest si rinnova ogni giorno. Quello della piena del Nilo, che annualmente torna da sud. Osiride partecipa al ciclo di quotidiana rigenerazione del sole. Plutarco, al quale dobbiamo un compendio coerente dei complessi miti egizi su Iside e Osiride, scrive che Osiride è nascosto tra le braccia del sole (De Iside et Osiride 52) e la sua veste è fatta di luce (De Iside et Osiride 77), riprendendo le complesse creazioni teologiche rappresentate e descritte nelle tombe della Valle dei Re, dove la massima divinità solare Ra e Osiride si incontrano e si uniscono nel corso della notte. A File, si descrive in particolare il ruolo di Iside e Osiride nel rinnovamento della natura e della fertilità della terra, in relazione dunque al ritorno della piena del Nilo, che ogni anno, puntualmente, in luglio

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arrivava da sud e, proprio a File, entrava in Egitto. Iside si identifica dunque con la stella Sothis, che annuncia il ritorno della piena, ma rappresenta la piena stessa. La posizione di File, all’estremo sud del Paese, giocava in tal senso un ruolo fondamentale. Qui un nilometro misurava la portata del fiume, qui la dea rientrava, generosa di vita, in Egitto. Nel mito egizio, la figlia del Sole si era allontanata dal Paese trasformandosi in una leonessa selvaggia e aggressiva che vagava nelle terre del Sud. Convinta da Thot, inviato di Ra, a tornare in Egitto, la dea viene trasformandosi in divinità

benevola, generatrice di vita. A File rientra in Egitto, con un corteggio di nani e scimmie musicanti e danzanti. Essa è la Dea Lontana che torna, è Hathor dea dell’amore, ed è Iside. A File, un tempietto dedicato a Hathor al tempo di Tolemeo VI e Tolemeo VIII, mostra, scolpite sulle colonne del pronao, queste fantastiche figure festanti.

LA TOMBA DI OSIRIDE Durante l’impero di Adriano, a File si aggiunse un passaggio monumentale che conduceva dal tempio di Iside all’imbarcadero per Bigah. Quest’isola, dove si venerava la tom-

ba di Osiride, era un luogo interdetto, al quale solo i sacerdoti potevano accedere per i riti misterici della morte e della resurrezione del dio. Nella cosiddetta Porta di Adriano, testi e immagini scolpiti ci riportano alcuni aspetti di questo mondo proibito e ci rivelano tratti della topografia mitologica di File e Bigah, sospese tra quotidianità e mito. In un rilievo, che esula da ogni tradizione, vediamo la pietrosa isola di Bigah: sotto gli scogli granitici, un antro definito dalle spire di un serpente ospita una figura divina tradizionalmente legata alla piena, (segue a p. 53) a r c h e o 49


RESTAURI • ANTICO EGITTO

ISIDE, MADRE DIVINA E PROTETTRICE DELL’INDIVIDUO Fin dall’antichità, chi si avvicinava a File veniva catturato dalla visione monumentale del complesso, esaltata dal magnifico chiosco di Traiano, che accoglieva le processioni della dea. Ai monumenti, a cui l’arenaria attribuisce un caldo colore dorato, il verde degli alberi creava un contrappunto suggestivo, allusivo alla fecondità della terra rinnovata dal ciclo governato da Iside e Osiride. A questa visione cosmica e alla funzione regale nell’ambito della religione ufficiale, che il semplice pellegrino intuiva, si aggiungeva il richiamo alla pietà personale da parte di Iside, quale dea materna e soccorritrice, a cui ci si rivolgeva per chiedere aiuto. Fino a File si avventuravano Egiziani e stranieri, che qui lasciarono epigrafi in vari idiomi a registrare l’emozione dell’arrivo: «Eccoci arrivati all’isola che è al confine dell’Egitto, splendida, santa, di Iside». Altri, giungendo dal Sud e avendo valicato il tremendo deserto, come nella traversata mortale di un mare ostile: «Sono arrivato in Egitto, cantando trionfante per aver attraversato il deserto grazie all’aiuto di Iside, la grande dea, che ha ascoltato la nostra preghiera e ci ha condotti in salvo in Egitto». Dopo la partenza degli ultimi sacerdoti egizi, File divenne un luogo di culto cristiano: dove c’erano templi nacquero chiese e si apposero croci.

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Il primo Pilone del tempio di Iside, iniziato durante il regno del faraone Nectanebo I (XXX dinastia) e ricostruito sull’isola di Agilkia.

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

Mammisi

Primo Pilone

3 1

4

Portico di Augusto

6. Sulla riva meridionale dell’isola si trovano il padiglione di Nectanebo (a sinistra), decorato con 14 colonne con capitelli hathorici e il piccolo tempio di Nefer (a destra). Tempio di Imhotep

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5

6

Chiosco di Traiano


I PRINCIPALI MONUMENTI DEL SANTUARIO DI ISIDE SULL’ISOLA DI AGILKIA 1. Le sette colonne con capitelli hathorici antistanti il Mammisi (letteralmente «la casa della nascita»), costruito in onore del dio Horo nel cortile del tempio di Iside in età tolemaica.

2. La cappella di Augusto preceduta dall’arco di trionfo.

2 3. Il pronao, un atrio ipostilo («con il tetto sostenuto da colonne») sorretto da 10 colonne un tempo dipinte con colori vivaci, precede il santuario vero e proprio, composto da dodici ambienti decorati posti intorno a una cripta sotterranea.

4. Il piccolo tempio di Hathor, situato a est del secondo Pilone del santuario di Iside, fu iniziato da Tolomeo VI, ampliato da Tolomeo VIII e ulteriormente arricchito sotto gli imperatori Augusto e Tiberio.

nell’atto di libare acqua: sono le fonti mitiche del Nilo, che si trovano sotto l’isola di Bigah. Qui, dunque, c’è un punto di contatto tra la storia e il mito: l’oceano primordiale, l’universo acquatico delle origini, tremendo e fecondo, proprio qui irrompe nel quotidiano degli uomini, portando novità e rigenerazione. Nella stessa Porta di Adriano, Iside a testa di vacca versa acqua su una ricca vegetazione sulla quale si posa il ba di Osiride, forma mobile della personalità che sopravvive alla morte, rappresentato in forma di uccello dalla testa umana: un’immagine allusiva della tomba di Osiride. Sempre nella Porta di Adriano, all’interno del disco solare posto sul segno dell’orizzonte, luogo di contatto tra cielo e terra e di manifestazione della divinità, vediamo la figura di Osiride legarsi a quella del fanciullo solare, a perpetuare il ciclo di rinnovamento, del cosmo e della regalità.

ARRIVANDO AD ASSUAN… Il viaggiatore che oggi giunge ad Assuan, transitando sulla carreggiata che sovrasta la vecchia diga, se esperto o guidato, o casualmente se ignaro, volgendo lo sguardo a sud

Tempio di Hathor

5. Il chiosco di Traiano, composto da 14 colonne con capitelli a forma di papiro.

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

GLI EVENTI PER IL 40° ANNIVERSARIO DEL SALVATAGGIO DI FILE Nel 2020, a quarant’anni dall’inaugurazione della nuova File, evento che rappresentò anche la conclusione della campagna UNESCO di salvataggio dei templi della Nubia, l’Ambasciata d’Italia al Cairo, in collaborazione con il Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano, ha organizzato degli eventi commemorativi di quell’impresa straordinaria, nella quale l’Italia fu protagonista. Nel novembre 2020, sono stati programmati diversi eventi sia ad Assuan, sia al Cairo. L’Ambasciatore d’Italia in Egitto, Giampaolo Cantini, inaugurerà pannelli didattici e commemorativi, che verranno apposti sull’isola di Agilkia, e due mostre documentarie. Una di queste sarà realizzata ad Assuan nel Museo della Nubia, l’altra al Cairo presso l’Istituto Italiano di Cultura. Ad Assuan verrà esposta della documentazione tratta dagli archivi egiziani del Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano, mentre in mostra al Cairo saranno visibili documenti

dagli archivi della Società Italiana per Condotte d’Acqua SpA, che ha concesso una splendida documentazione fotografica dei lavori condotti a File, insieme a disegni tecnici. Ad Assuan, si terrà un workshop sulla gestione dei siti archeologici, nella preparazione del quale sono impegnate anche le missioni archeologiche italiane operanti nell’area. Nella zona del Mausoleo dell’Aga Khan scava la missione dall’Università Statale di Milano, diretta da Patrizia Piacentini, che lo scorso anno ha scoperto una tomba con numerose mummie e pregevoli elementi di corredo funerario. In un ampio territorio tra Kom Ombo e Assuan lavora invece la missione dell’Università degli Studi di Bologna, diretta da Maria Carmela Gatto e Antonio Curci, documentando presenze e monumenti preistorici e protostorici, anche in questo caso con brillanti risultati. Nella zona di Assuan, la presenza italiana in ambito archeologico è sempre stata notevole: si può A sinistra: ancora un’immagine del chiosco di Traiano, la cui immagine si specchia nelle acque del Nilo. Nella pagina accanto: i monumenti di File oggi, ricostruiti sull’isola di Agilkia.

intravede le forme eleganti dei templi e del chiosco di Traiano, come emergenti magicamente da vapori mattutini o brillante di colori dorati nella luce obliqua del pomeriggio. È Agilkia, è File. Con il verde della sua vegetazione al centro delle acque scure che sono del Nilo e che sono oggi il lago, sullo scenario arido del deserto circostante. Nulla è piú come prima, ma nulla è cambiato, in un miracolo creato da un impegno collettivo.

PER SAPERNE DI PIÚ Antonio Giammarusti, Alessandro Roccati, File. Storia e vita di un santuario egizio, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1980 Alessandro Roccati, I templi di File, Aracne Edizioni, Roma 2003 Holger Kockelmann, Philae, in Willeke Wendrich (a cura di), UCLA Encyclopedia of Egyptology, Los Angeles 2012 (http://digital2. library.ucla.edu/viewItem. do?ark=21198/zz002bwv5j) 54 a r c h e o


ricordare come la famosa tomba di Harkhuf, viaggiatore in Africa al tempo dell’Antico Regno per conto del faraone, sia stata pubblicata per la prima volta da Ernesto Schiaparelli nelle Memorie dell’Accademia dei Lincei. Il workshop organizzato dall’Ambasciata d’Italia per il prossimo novembre, che si terrà ad Assuan, e al quale parteciperanno personalità italiane ed egiziane, avrà come tema la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico. Inoltre, si terrà un incontro tra archeologi e operatori turistici, con la finalità di valorizzare aree poco conosciute o marginali, in forme turistiche diversificate. Al Cairo, nella prima metà di dicembre, si svolgerà infine una giornata di studi nella sala conferenze del Ministero del Turismo e delle Antichità, per ricordare e far conoscere l’impresa dello spostamento dei monumenti di File, avvenuta grazie alla collaborazione tra Italia ed Egitto.

PROGRAMMA DEGLI EVENTI 11-12 novembre 2020 in occasione delle Giornate Italiane dell’Alto Egitto 11 novembre incontro tra operatori turistici e archeologi, per la valorizzazione dell’area di Assuan. 12 novembre File, inaugurazione di pannelli didattici e commemorativi. Assuan, Museo della Nubia: Workshop sulla gestione dei siti archeologici, inaugurazione della mostra documentaria. Metà dicembre 2020 (data da stabilire) Il Cairo, Ministero del Turismo e delle Antichità, Giornata di studi italo-egiziana. Il Cairo, Istituto Italiano di Cultura, inaugurazione della mostra documentaria sullo spostamento dei monumenti di File.

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LETTERATURA • EPOPEE A CONFRONTO

OMERO A BABILONIA COME SONO NATI E COME SI SONO TRASMESSI, LUNGO I MILLENNI, I GRANDI RACCONTI EPICI DELL’ANTICHITÀ? E POSSIAMO ANCORA SOSTENERE CHE SIANO IL PRODOTTO DI UNA CREATIVITÀ ESCLUSIVAMENTE ORALE? RIPERCORRENDO L’AVVENTUROSA RISCOPERTA DI UN CELEBRE POEMA EPICO DI ETÀ SUMERICA, LO STUDIOSO DELLA CIVILTÀ MICENEA LOUIS GODART SUGGERISCE UNA NUOVA, AFFASCINANTE, IPOTESI. CHE CHIAMA IN CAUSA LO STESSO AEDO DELLA IONIA… di Louis Godart 58 a r c h e o


L

e grandi novità nel campo della filologia omerica sono legate al lavoro svolto sulla poesia orale da uno studioso statunitense alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Nel 1928, Milman Parry (1902-1935) ha dimostrato che gli epiteti omerici «Achille pièveloce», «Odisseo divino che molto sopporta», ecc., rappresentano un sistema rigoroso e coerente, strettamente legato alla metrica: a una posizione metrica e a un caso grammaticale corrisponde in generale un epiteto e uno solo. Un tale insieme di formule, utilizzato in maniera cosí economica, non è stato creato in un solo giorno. E su queste basi Par ry ha concluso che le epopee omeriche erano il retaggio di una lunga tradizione d’improvvisazione orale. Una conclusione confermata dalle indagini che lo studioso stesso e il suo discepolo Albert B. Lord (19121991) hanno condotto negli anni Venti e Trenta del Novecento sulla poesia orale iugoslava. I bardi erano capaci di innovare, inserendo nel loro discorso formule antichissime, con straordinario virtuosismo. Molti altri esempi di poesia epica orale sono stati censiti, specialmente in Africa. Io stesso ho conosciuto, tra il 1970 e il 1990, alcuni «aedi» nell’ovest di Creta, nel cuore delle Montagne Bianche e sulle pendici occidentali del monte Ida. Erano semplici pastori (alcuni non sapevano né leggere né scrivere) che cantavano, accompagnandosi con la lira, le gesta dei Palikaria (moderni eroi cre-

tesi senza macchia e senza paura) che si erano opposti ai Turchi durante i secoli di dominio ottomano al quale l’isola era stata sottoposta (dal 1669 al 1899). Oltre la lotta contro i Turchi, cantavano anche la lotta dei partigiani cretesi contro i Tedeschi durante l’occupazione di Creta nella seconda guerra mondiale (dal 1942 al 1945). Questi pastori erano anche capaci di narrare, usando sempre formule antiche, tragedie che avevano colpito l’isola in un

recente passato come, per esempio, il naufragio della nave Iraklion al largo delle coste cretesi nel 1964, o il disastro aereo che era costato la vita a tutti i passeggeri del volo La Canea Atene nel 1967. Era straordinario notare come gli epiteti si ripetevano costantemente e si applicavano allo stesso modo ai Palikaria del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento, ai partigiani del 1942-45 e alle vittime delle moderne tragedie appena evocate.

In alto: tavoletta in caratteri cuneiformi con un capitolo dell’Epopea di Gilgameš. La redazione viene variamente datata, fra il periodo paleobabilonese (secondo quarto del II mill. a.C.) e quello neobabilonese (626-539 a.C.). Suleymanya, Museo. Nella pagina accanto: rilievo raffigurante Gilgameš fra due Tori celesti, da Tell Halaf. IX sec. a.C. Aleppo, Museo Archeologico.

NEI PALAZZI DI MICENE La trasmissione orale delle gesta degli eroi del passato è stata certamente determinante nella costituzione dell’epos omerico. Tuttavia, poiché è incontestabile che si scriveva in Grecia sin dall’inizio del XVII secolo a.C., e poiché è assodato che gli scribi attivi nei palazzi micenei utilizzavano diversi tipi di supporto per redigere testi che non erano esclusivamente economici e contabili, come dimostrano le iscrizioni su pietra rinvenute a Kaukania e a Dimini, presso Volos, non possiamo sottovalutare l’apporto che la documentazione scritta avrebbe potuto fornire alla trasmissione dell’epos. Quando un popolo varca la soglia che separa il mondo illetterato dal mondo letterato, è inevitabile che la scrittura invada rapidamente tutte le altre sfere dello scibile e che sia utilizzata come supporto per qualunque tipo di operazione, comprese quelle di memorizzazione dei poemi epici. Ritengo perciò possibile che alcuni a r c h e o 59


LETTERATURA • EPOPEE A CONFRONTO

brani epici siano stati trascritti al tempo dell’acmè dei palazzi micenei e abbiano potuto servire da punto di riferimento per quegli aedi che, sapendo leggere, avevano un ruolo essenziale nel trasmettere l’epos. Da questo punto di vista un confronto tra l’Epopea di Gilgameš (il piú antico poema epico r icordato dalla storia della letteratura universale) e l’epopea omerica può fornire alcuni spunti utili per una migliore valutazione del problema della trasmissione dell’epos.

RE DI URUK Il nome Gilgameš è sumerico e composto da elementi diffusi nell’onomastica locale alla metà del III millennio; Gilgameš era re di Uruk (ogg i Warka, tra Baghdad e Bassora, dove dal 1912 una missione archeologica tedesca ha in corso una missione di scavo). La lista sumerica dei sovrani fornisce un certo numero di dati circa Gilgameš. Sarebbe il quinto re della I dinastia, e avrebbe gestito la città-stato di Uruk dopo il Diluvio. Viveva a Uruk, intorno al 2650 a.C. In un documento databile al 2600, Gilgameš appare divinizzato. I popoli della Mesopotamia conferivano quasi automaticamente il carattere divino ai loro sovrani piú celebri. Quindi, poco dopo la sua morte, Gilgameš – divinizzato – si trovò immerso in un’atmosfera di leggenda che lo accompagnò fino al momento in cui nacque la sua epopea. I tratti caratteristici dell’epos furono definiti prestissimo, tutti 60 a r c h e o

legati a qualche evento storico piú o meno ampliato del suo regno e della sua esistenza. Non possediamo dati che consentano di verificare come si sviluppò la sua leggenda prima della fine del III millennio; vediamo però – all’epoca della III dinastia di Ur (che aveva sottoposto alla propria autorità tutte le città-stato del Paese dopo il crollo dell’impero di Sargon di Akkad, il Grande) – che i sovrani, for se per consolidare la loro legittimità, tendevano a sublimare la figura di Gilgameš. L’antico re di Uruk, diventato un modello e protettore, era chiamato «fratello» e «amico». Shulgi (20942047), re di Ur, ricorda in una sorta di inno i successi militari di Gilgameš, la sua guerra contro la città di Kiš e il suo re Mebaragesi, la spedizione alla Foresta dei cedri e la lotta contro il suo guardiano, Huwawa. Nello stesso periodo, un poema che narra la morte e la discesa agli Inferi di Ur-Nammu (2112-2095), fondatore della dinastia, descrive il re defun-

to nel triste regno dei morti, di fronte al divino Gilgameš, promosso reggente e giudice supremo dei trapassati. È probabile che i trionfi politici, economici e militari dei re di Ur abbiano rilanciato la letteratura quasi esclusivamente sumerica e abbiano visto prosperare un’accademia di corte. Ben poco si è conservato della produzione di questi letterati ufficiali: soltanto nei primi due o tre secoli del millennio successivo le testimonianze si moltiplicano, in lingua sumerica, trascritte da scribi che volevano a tutti i costi conservare il massimo numero possibile di ricordi e di produzioni di un’epoca ritenuta gloriosa. Tra queste testimonianze, tutte su tavolette d’argilla, che rappresentano – come ha scritto elegantemente Jean Bottéro (19142007) – la preistoria dell’epopea, alcune hanno Gilgameš per protagonista ed eroe.

IL MISTERIOSO ENKIDU La prima testimonianza completa (in 105 versi) racconta il conflitto tra Gilgameš e Akka, re di Kiš. Uruk e il suo sovrano si sono rifiutati di scavare un pozzo destinato alla città di Kiš. Come risposta, Akka assedia Uruk, ma viene sconfitto.


Ricordando i favori ricevuti in passato, Gilgameš perdona Akka e lo rimanda libero alla sua città. Qui appare per la prima volta Enkidu, un personaggio la cui importanza non smetterà di crescere. La seconda testimonianza (di 200 versi) narra la spedizione di Gilgameš e Enkidu, nella Foresta dei cedri, per procurarsi il prezioso legname, ma la foresta è sorvegliata da un essere mostruoso, Huwawa, protetto dalle Sette luci abbaglianti: Gilgameš riesce a sconfiggerlo. Il poema allude ovviamente alle spedizioni che gli abitanti della Mesopotamia dovevano compiere per procurarsi le risorse (tra cui il legname) che la loro terra non forniva. Erano sempre imprese pericolose, sia a causa del viaggio stesso sia per il rischio di essere spogliati dei propri beni. Nonostante i pericoli, Gilgameš affronta l’impresa per farsi un nome (un concetto che ritroveremo spesso nell’Iliade).

Nella pagina accanto: cilindro raffigurante Utnapishtim, l’eroe del Diluvio Universale, su una barca, e Gilgameš con un toro; in basso, lo

svolgimento della scena. In basso: placca in terracotta di produzione babilonese raffigurante Gilgameš. Londra, British Museum.

INANNA E IL TORO CELESTE La terza testimonianza (molto mutila) dipinge lo scontro tra Gilgameš e il Toro celeste. La dea Inanna (Ishtar in accadico) è in rotta di collisione con Gilgameš (per motivi a noi ignoti) e gli vieta di amministrare la giustizia nel suo tempio, l’Éana di Uruk. Gilgameš non può accettare: amministrare la giustizia è prerogativa del sovrano! Lo scontro con la dea diventa piú forte e Inanna manda il Toro celeste a uccidere Gilgameš e devastare Uruk. In definitiva, sarà il re, insieme a Enkidu, a far fuori l’animale, di cui getta la pelle e le viscere, distribuisce la carne alle donne povere e offre alla dea le corna, trasformate in vasi per libagioni. È a r c h e o 61


LETTERATURA • EPOPEE A CONFRONTO

probabile che il poema evochi e una Bacchetta, simboli del dizione dei morti. A differenza una catastrofe avvenuta a potere. Forte del suo potere, il dei documenti precedenti, la Uruk e attribuita all’ira della re di Uruk terrorizza i sudditi i tavoletta non si riferisce piú a dea. Gilgameš, trionfando sul quali, pregando gli dèi, fanno eventi «storici», ma illustra le Toro celeste, dimostra di sa- sprofondare il Cerchio e la Bac- preoccupazioni di Gilgameš di per vincere persino una delle chetta negli Inferi. Enkidu scen- fronte alla morte. divinità piú importanti del de nel mondo dei trapassati per L’ultimo documento tratta delrecuperare i simboli del potere la morte di Gilgameš: in circa pantheon sumerico. 300 versi si racconta il La quarta tavoletta destino promesso a (circa 300 versi) si rifeDopo la morte, Gilgameš Gilgameš dal consesso risce a Gilgameš, a degli dèi. Il re di Uruk Enkidu e agli Inferi. diventa «Reggente» è a letto, gravemente Inanna pianta un albemalato. Forse in sogno ro, una specie di quere «Supremo giudice s’immagina al cospetto cia, nel suo giardino; dei trapassati» degli dèi che gli ricorpurtroppo un serpente dano le sue avventure: feroce si annida nelle radici, un’aquila gigante cala dell’amico, ma vi rimane im- la spedizione alla Foresta dei sulla cima e tra i due si installa prigionato. Gilgameš cerca di cedri, l’uccisione di Huwawa, il una creatura malvagia. Inanna farlo tornare tra i vivi, ma ottie- viaggio fino all’isola in cui vive chiede l’intervento di Gilgameš, ne soltanto, grazie all’interven- Utnapishtim, l’eroe sopravvische uccide il serpente, caccia to di Enki, di far aprire da Ner- suto al Diluvio. Secondo gli dèi, l’aquila sulle montagne e la cre- gal, il dio degli Inferi, un picco- Gilgameš merita una ricomatura malvagia nel deserto, ab- lo orifizio attraverso cui il fan- pensa e dopo la morte diventebatte l’albero e consegna il le- tasma di Enkidu possa, per un rà «Reggente» e «Supremo giugname alla dea. Per ricompen- breve momento, raggiungere dice dei trapassati». Ciò dosarlo, Inanna gli dà un Cerchio Gilgameš e descrivergli la con- vrebbe consolarlo quando sarà 62 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Nella pagina accanto: sviluppo di un sigillo di produzione accadica raffigurante un albero sacro, al quale si aggrappano due tori, l’uno (a sinistra) trattenuto da un uomo-toro e l’altro da un eroe barbato. 2250 a.C. Londra, British Museum. In questa pagina: rilievo raffigurante Gilgameš che uccide il Toro celeste. a r c h e o 63


LETTERATURA • EPOPEE A CONFRONTO

il momento di lasciare il mondo dei vivi. Il XVIII secolo a.C. segna grandi cambiamenti in Mesopotamia. Intorno al 1750 a.C., con Hammurabi, l’antico regime della città-stato – già interrotto dall’impero di Sargon di Akkad e dal regno della III dinastia di Ur – scompare per sempre. Intorno alla sua capitale Hammurabi ha unificato tutto il Paese e, nonostante le varie vicissitudini politiche che si verificheranno nel tempo, Babilonia è destinata a diventare la metropoli e il centro culturale della Mesopotamia. I poeti conoscono ancora la lingua sumerica ma traducono anche nella propria lingua, l’accadico, antichi testi e leggende sumeriche. Fu allora che un autore sconosciuto si impadroní dei frammenti sparsi della storia di Gilgameš per rimodellarla e farne una presentazione letteraria grandiosa, penetrante e affascinante, dando cosí vita alla prima versione completa dell’epopea che ancora oggi ammiriamo.

UN EPISODIO INEDITO La versione antica dell’Epopea di Gilgameš, in lingua accadica, risale quindi al periodo paleobabilonese, ovvero al secondo quarto del II millennio a.C. Dopo la scomparsa, verso il 1600 a.C., degli ultimi successori di Hammurabi, nella stessa Mesopotamia troviamo poche tracce dell’Epopea. Soltanto una tavoletta di 67 versi della fine del II millennio propone un episodio finora sconosciuto del racconto: la malattia e la morte di Enkidu. A questo punto, nel corso dei secoli, nuovi frammenti dell’Epopea emergeranno fuori dalla 64 a r c h e o

Rilievo raffigurante la dea Inanna, da Nippur. 2250 a.C.

Mesopotamia. A Emar, sull’Eufrate, a 250 km da Aleppo, sono venute alla luce due tavolette che facevano parte d’una ricca biblioteca del XIII secolo a.C. La prima è una preghiera rivolta a Enkidu durante la spedizione alla Foresta dei cedri; la seconda racconta la «lite» tra Gilgameš e la dea (qui è Ishtar, corrispettivo della Inanna sumerica) e l’uccisione del Toro celeste. A ovest di Emar, a Megiddo, in Israele, 30 km a sud di Haifa, un fram-

mento di tavoletta databile al XIV secolo racconta la malattia mortale di Enkidu. Presso gli Ittiti (di lingua indoeuropea) l’Epopea ha avuto grande successo. Tra le rovine della capitale Hattuša (l’odierna Boghazköy) ne sono attestate due versioni. La prima è in lingua accadica. Si tratta di una dozzina di frammenti di tavolette che sembrano scritte nello stile locale intorno al 1400 a.C. e non importate dalla Mesopotamia. Nella seconda, gli scribi


ittiti hanno tradotto anche nella loro lingua l’Epopea che hanno intitolato Poema di Gilgameš. Negli archivi ittiti due frammenti dell’Epopea in lingua hurrita, databili al 1500 a.C., sono rivelatori dell’immenso interesse suscitato nel mondo dell’epoca dalle avventure del re di Uruk. Bottéro scrive: «Una cosí straordinaria diffusione dell’Epopea, durante tutta la seconda metà del II millennio, poco tempo dopo la sua creazione in Babilonia, n o n s i è ve r i f i c a t a c o n nessun’altra opera letteraria di un cosí lontano passato».

UN RACCONTO SCRITTO E RISCRITTO Naturalmente questa vasta diffusione dell’opera presuppone un immenso lavoro lungo i secoli da parte di generazioni di scribi che hanno ricopiato, trascritto, tradotto, ripubblicato incessantemente l’Epopea, ne hanno r imaneggiato l’uno o l’altro episodio secondo i gusti del tempo e il loro stile e, eventualmente, arricchito il tutto con nuove peripezie chieste in prestito sia a opere scritte oggi scomparse, sia al largo fiume delle tradizioni orali. Intorno alla cerniera tra II e I millennio a.C. l’opera assume la sua forma definitiva; se ne r itrovano tracce a Uruk, Nimrud, Babilonia, Assur, Sultantepe e, soprattutto, Ninive. Dalla biblioteca di Assurbanipal a Ninive (VII secolo a.C.) provengono circa 150 tavolette che narrano l’Epopea di Gilgameš. Perciò, l’ultima presentazione del testo dell’Epopea è chiamata

la «Versione di Ninive» per distinguerla dalla «Versione antica e babilonese». Questa Versione di Ninive di circa 2500-3000 versi doveva coprire 11 tavolette. È rimasta immutata, dal piú antico documento scoperto ad Assur e databile al IX-VIII secolo, fino al piú recente, di poco posteriore al 250 a.C. Per Bottéro non ci sono dubbi:

L’Epopea di Gilgameš e l’Iliade amalgamano racconti che affondano le radici in un lontano passato

Frammento di una tavoletta con un brano dell’Epopea di Gilgameš nella versione babilonese, da Megiddo. XIV sec. a.C. Gerusalemme, The Israel Museum.

questo fenomeno è difficile da spiegare senza un nuovo fattore di unificazione intervenuto nella storia quasi millenaria dell’Epopea. Come non pensare a una personalità, una sorta di editore capace di radunare e uniformare i frammenti sparsi del poema dando all’insieme una veste coerente?

IL POETA ESORCISTA Un catalogo bibliografico del primo terzo del I millennio a.C., in cui sono registrate grandi quantità di opere scritte, ognuna assegnata a un autore particolare, attesta che «la serie di Gilgameš è opera di Sînleqe’unnennî, esorcista». Il nome di questo personaggio, totalmente sconosciuto, significa in accadico «O-dio-Sîn-ricevi-lamia-preghiera». In quanto «uomo dotto» ed «esorcista», l’autore doveva essere un personaggio eminente. Fu lui a dare la sua forma definitiva alla piú antica epopea della storia? Nella loro Didascalia da versione fare Ibusdaedefinitiva, l’Epopea diofficte Gilgameš, evendipsam, erupit come antesto anche l’Iliade amalgamano taturi cum ilita aut quatiur restrumracconti che affondano le radici eicaectur, testo blaborenes ium in un lontano I primi quasped quos non passato. etur reius nonem e l e mexpercipsunt e n t i d equos l l ’ Erest p o pmagni ea di quam Gilgameš alla seautatur apic risalgono teces enditibus teces. conda metà del III millennio, mentre l’Iliade, in particolare, può evocare situazioni di oltre sette secoli anteriori a Omero. Gli episodi narrati nell’Epopea di Gilgameš sono stati trasmessi per iscritto e per via orale; ritengo probabile che altrettanto si sia verificato con l’epos omerico. Dopo oltre mille e cento anni, un poeta della corte di Assur o di Ninive, di nome Sînleqe’unnennî, esorcista, diede una forma definitiva all’epopea di a r c h e o 65


SCOPERTE • XXXX XXXXXX

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Sulle due pagine: particolari della decorazione del cosiddetto Vaso di Mykonos, un’anfora sul cui corpo sono rappresentati i momenti salienti della guerra di Troia. VII sec. a.C. Mykonos, Museo.

Gilgameš; settecento anni piú tardi, un poeta della Ionia compí un’operazione analoga con un’altra epopea: gli antichi Greci lo chiamarono Omero. L’Oriente ha restituito altre epopee oltre quella di Gilgameš. Esisteva un poema epico luvio su Troia; nel mio libro Da Minosse a Omero (vedi «Archeo» n. 420, febbraio 2020; anche on line su issuu.com), ho citato l’Epopea della liberazione, che presenta numerosi punti in comune con l’Iliade. Queste opere letterarie circolavano in forma scritta, ma anche orale, nella Mesopotamia del III, del II e del I millennio e nell’Anatolia del XIII secolo a.C. L’autore dell’Iliade e dell’Odissea, poeta della Ionia, che radunò in un insieme coerente i due capolavori, fu certamente in contatto con aedi anatolici nel IX secolo e, come loro, con molta probabilità attinse a racconti elaborati in forma scritta

e in seguito trasmessi oralmente. Nel mondo miceneo – come in Anatolia, nel Vicino Oriente e in Mesopotamia – alcuni scribi elaborarono poemi epici poi trasmessi per iscritto e per via orale finché quelle civiltà rimasero legate alla scrittura. Con la fine del mondo palaziale, queste epopee riuscirono probabilmente a sopravvivere grazie agli aedi che, aiutati dalla memoria, accompagnandosi con la lira, hanno trasmesso fino alla Grecia delle «poleis» le gesta degli eroi dell’età del Bronzo. PER SAPERNE DI PIÚ Jean Bottéro, L’Épopée de Gilgameš. Le grand homme qui ne voulait pas mourir, Gallimard, Parigi 1997 Louis Godart, Da Minosse a Omero. Genesi della prima civiltà europea, Einaudi, Torino 2020 a r c h e o 67


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/4

QUANDO UN’IDENTITÀ NON BASTA

I FRANCESI, COME GLI SPAGNOLI E I RUMENI, PARLANO LINGUE DI EVIDENTE DERIVAZIONE LATINA. EPPURE, IN UN’EPOCA NON LONTANISSIMA, QUELLA DELLA COSTITUZIONE DEGLI STATI NAZIONALI, TALE PALESE ASCENDENZA LINGUISTICA E CULTURALE NON ERA SUFFICIENTE: L’IDEOLOGIA NAZIONALISTA, INFATTI, PRETENDEVA DI ANDARE ALLA RICERCA DI «RADICI» CHE SUPERASSERO QUEL DATO COMUNE, ADDENTRANDOSI NEI MEANDRI DELL’ETÀ PREROMANA. NE È SCATURITA LA VISIONE DI UNA DOPPIA ORIGINE DELLE NAZIONI, AL CONTEMPO ROMANA E BARBARICA, SOLO IN APPARENZA CONTRADDITTORIA… di Umberto Livadiotti Alise-Sainte-Reine (Borgogna, Francia). Particolare della statua di Vercingetorige scolpita da Aimé Millet e posta a coronamento del monumento in onore del capo gallico, inaugurato nel 1865.

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«L

a Gallia unita, formando una unica nazione, animata da uno spirito comune, può sfidare l’universo». Questa frase, incisa in francese sulla base della gigantesca statua di Vercingetorige eretta nel 1865 ad Alise-Sainte-Reine, è presa in realtà da un discorso scritto e immaginato dall’uomo che del capo gallico fu l’acerrimo e mortale nemico: Giulio Cesare. Il de Bello Gallico, cioè la narrazione, da parte del suo protagonista, della strabiliante conquista della Gallia Transalpina negli anni Cinquanta del I secolo a.C., ha rappresentato del resto per una lunga stagione, in parte ancora non superata, la pietra angolare dell’identità moderna dei Francesi. Una identità intesa come risultato dell’innesto della civiltà romana su radici celtiche. Come vedremo, però, si tratta di «radici» che hanno una data di nascita. Per secoli, infatti, fino al Settecento, gli aristocratici francesi amavano dichiararsi discendenti dei barbari, cioè dei «liberi Germani» (nella fattispecie i Franchi) che nel V secolo d.C. erano subentrati ai Romani nella gestione del potere (determinando cosí anche il successivo cambio di nome del Paese). Il battesimo di Clodoveo, il primo re franco convertito al cattolicesimo, era considerato il punto d’inizio della storia patria. L’identità «franca», però, era gelosamente riservata alla nobiltà, per la quale il richiamo al mondo dei «liberi Germani» rappresentava un modo per rivendicare uno spazio di libertà nei confronti dell’assolutismo della corte e per marcare la differenza sociale (che diventava cosí persino «razziale») rispetto al popolo, il terzo stato, considerato invece discendente della plebaglia gallo-romana. Negli anni della Rivoluzione, alla fine del Settecento, si assistette a un rovesciamento delle posizioni, ripreso ed enfatizzato dalla grande storiografia francese ottocentesca: agli aristocratici, discendenti degli invasori 70 a r c h e o

stranieri, venne cosí contrapposta la genuina e autoctona origine gallica, o meglio gallo-romana, del popolo, cioè della nazione francese. In precedenza i Galli non avevano esercitato una grande attrazione sulla cultura transalpina. In quegli anni, però, all’inizio dell’Ottocento, gli spiriti romantici avevano diffuso in tutta Europa una ondata di vera celtofilia. L’interesse archeologico degli eruditi francesi, prima concentrati solo sull’Alto Medioevo (cioè sull’età merovingia), subí uno slittamento verso l’età preromana, tanto che nel 1805 vide la luce l’Académie Celtique. Cosí, a partire dalla fine degli anni Venti dell’Ottocento, Vercingetorige, un capo gallico fino ad allora sconosciuto al grande pubblico e vituperato dai pochi studiosi che se ne erano occupati per la sua ottusa e sanguinosa resistenza armata, venne ad affiancare Giovanna d’Arco nei panni di eroe nazionale.

CELTI SÍ, MA... Per tutto il secolo, videro la luce centinaia di saggi, romanzi, poemi, opere teatrali e liriche di argomento celtico; analogamente i Galli divennero il soggetto di una quantità infinita di dipinti, illustrazioni, cartoline, statue, gioielli, soprammobili. Al contempo, tuttavia, anche il richiamo alla matrice latina della nazione non venne abbandonato. La retorica classicistica che aveva permeato l’autorappresentazione dei rivoluzionari francesi prima e di Napoleone imperatore poi, insisteva infatti sul legame con la romanità: un legame a cui alludevano i simboli, le titolature e anche i nuovi monumenti chiamati a celebrare il potere della nazione. Una tendenza ripresa alla metà dell’Ottocento da Napoleone III (1852-1870) che, come lo zio, fece ampiamente ricorso all’urbanistica e all’archeologia per la costruzione di un «paesaggio» tale da marcare la presenza sul territorio dell’eredità romana.

Napoleone III era, in sostanza, un golpista. Non è un caso che si sentisse molto affine a Giulio Cesare, di cui studiò a fondo la vita e scrisse una biografia. Nel 1858 istituí una «Commissione di Topografia Gallica» con l’obiettivo di identificare i centri celtici ricordati nel de Bello Gallico. Si puntava all’individuazione di Gergovia e Alesia; i ritrovamenti piú clamorosi ebbero però luogo a Bibracte, un oppidum della tribú degli Edui.


Fra mille polemiche il sito di Alesia venne identificato ufficialmente con il villaggio di Alise-SainteReine, in Borgogna. Piú che sull’abitato celtico, però, gli scavi si concentrarono nell’esplorazione dei resti delle fortificazioni romane che avevano stretto d’assedio i Galli ribelli. Qui, su una collinetta nei pressi del sito, nel

1865 Napoleone III fece erigere, in buona parte a sue spese, la statua in rame battuto di Vercingetorige di cui abbiamo parlato all’inizio. Alta 6 m, su un basamento di altri 7, ispirata alla gigantesca statua che in quegli stessi anni si cercava di costruire in Germania in memoria di Arminio, il vincitore dei Romani nella battaglia di Teutoburgo.

Pochi anni dopo i Francesi subirono contro i Prussiani a Sedan l’umiliante disfatta militare che portò alla fine dell’impero. Una sconfitta epocale, proprio come quella patita dagli antichi Galli. Tutti ormai potevano riconoscersi in Vercingetorige, l’eroico antenato che pur vinto aveva mantenuto intatto il proprio onore.

Una scena di Asterix alle Olimpiadi (Astérix aux Jeux Olympiques), film del 2008 diretto da Frédéric Forestier e Thomas Langmann, ispirato alle storie a fumetti create da Goscinny e Uderzo (vedi box a p. 73).

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Nei decenni successivi (quelli della cosiddetta «terza repubblica») la figura dell’antico capo gallico raggiunse il vertice della popolarità, mentre l’esaltazione dei progenitori celti assunse una fortissima patina antitedesca. Anche la scelta del luogo in cui erigere il monumento commemorativo a Vercingetorige assunse un significato particolare: si sarebbe potuto optare per Gergovia, la località in cui le truppe cesariane avevano subito una clamorosa sconfitta, o Bibracte, dove Vercingetorige venne acclamato re. Napoleone III invece scelse Alesia come «luogo 72 a r c h e o

della memoria». E per un motivo preciso: oltre a ricordare l’eroismo indomito della resistenza gallica, infatti, quel sito evocava il successo dei Romani. La civiltà latina, di cui veniva riconosciuta la superiorità tecnologica e culturale (ben impressa nell’immaginario collettivo francese dalla presenza sul territorio di opere possenti, come il Pont du Gard), era troppo importante.

che era meglio imboccare la via del progresso piuttosto che restare nella barbarie, trasformandosi cosí in gallo-romani. Una lettura del proprio passato che i Francesi riproponevano nelle colonie, in Indocina e soprattutto in Nordafrica, dove le popolazioni indigene erano sollecitate a intraprendere il medesimo percorso compiuto da quelli che a scuola erano raffigurati come i «loro antenati Galli». Un’ideologia «civilizzaMISSIONE IN NORDAFRICA trice» che, soprattutto in Algeria, Secondo questa visione della storia Marocco e Tunisia, trasse ulteriore (trasmessa anche dai libri di scuola), alimento dalla possibilità offerta ai dopo Alesia, i Galli avrebbero capito colonizzatori francesi di presentarsi


SONO DAVVERO PAZZI QUESTI ROMANI? Nato nel 1959 dalla collaborazione di René Goscinny e Albert Uderzo, il fumetto Asterix ha avuto negli anni Sessanta e Settanta un grande successo in tutta Europa, diventando la pubblicazione francese piú tradotta all’estero. Fra i tanti motivi individuati per spiegare la fortuna delle avventure del piccolo e pacifico guerriero gallico e del suo gigantesco e bonario amico Obelix, si è spesso sottolineata la presenza di una pluralità di piani di lettura che ne rendono gradevole la fruizione anche a un pubblico adulto e colto (elementi di satira di costume; citazioni letterarie; allusioni a film, canzoni, pitture). Uno dei meccanismi fondanti l’umorismo di Asterix è quello dei voluti anacronismi. In questa chiave vanno interpretate le spassose rappresentazioni dei popoli con cui l’eroe gallico viene a contatto (Belgi, Britanni, Iberi, Goti, Elvezi, Greci, ecc.): rappresentazioni che giocano con la convinzione diffusa nel pubblico francese, e in generale europeo, dell’esistenza di identità nazionali di lunga, lunghissima durata. In particolare, gli abitanti del villaggio che resiste all’assedio dei Romani, cioè i «Galli irriducibili», incarnano le caratteristiche della francesità cosí come la immaginano (con ironia e orgoglio) i Francesi stessi: coraggiosi, fieri e permalosi, amanti della buona tavola, compagnoni. Il tono, spesso parodistico, sfuma in una bonaria atmosfera caricaturale, ma di fatto il fumetto contribuisce a radicare questa rappresentazione nell’immaginario collettivo. A questo proposito è interessante sottolineare come la dialettica fra Romani aggressori e Galli resistenti non si risolva in una contrapposizione netta e inconciliabile. Asterix non è un nuovo Vercingetorige, un ribelle antiromano; non sfrutta la sua pozione magica per liberare la Gallia dall’invasore, ma è anzi rassegnato alla sua latinizzazione. Il rapporto fra mondo romano (rappresentante di una civiltà piú progredita sotto il piano della complessità organizzativa, tecnologica, culturale) e mondo gallico (espressione di una naturale semplicità di rapporti) sembra piuttosto dissolversi in un quadro di coesistenza. La doppia anima, latina e celtica, del passato francese viene cosí tradotta in termini di dialettica fra progresso (rappresentato dalle città gallo-romane, con palazzi, vie intasate dal traffico, burocrazia asfissiante, ecc.) e tradizione (il villaggio e i suoi «ecologici» banchetti attorno al fuoco ancestrale). Sulle due pagine: il Pont du Gard, ponte-acquedotto situato nella Francia meridionale. È una delle testimonianze piú spettacolari della presenza romana nel Paese transalpino. A destra: un fotogramma del film d’animazione Asterix il Gallico (1967).

come eredi dei Romani che in quelle terre – come mostravano imponenti vestigia sopravvissute nelle sabbie del deserto – avevano portato, un tempo, la prosperità materiale, oltre a diffondervi la religione cristiana. Fra il 1840 e il 1914 quasi un quarto delle spedizioni scientifiche a r c h e o 73


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francesi in Nordafrica fu a carattere archeologico (molto piú numerose, per esempio, di quelle a carattere naturalistico): uno sforzo che si concentrava proprio sullo studio delle antichità romane e delle chiese paleocristiane del Maghreb.

IL CASO IBERICO L’identità moderna dei popoli iberici si è forgiata nei secoli della Riconquista (IX-XV). Simboli e miti di fondazione di

Spagna e Portogallo si riferiscono per lo piú a quel periodo. Anzi, per il Portogallo è invalsa la convinzione che lo Stato abbia preferito marginalizzare la ricerca archeologica rivolta all’età pre-medievale e pre-cristiana, proprio perché non produttiva sotto il profilo della costruzione di un’identità nazionale. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio Novecento, in realtà, la passione nazionalista ha suggestionato anche parte dell’ar-

Il sito di Numanzia, in Spagna. Sulla destra, svetta l’obelisco eretto nel 1904 alla memoria dei caduti celtiberici che, nel 133 a.C., piuttosto che arrendersi ai Romani avevano optato per un suicidio di massa.

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cheologia lusitana. Il passato preromano della regione è stato magnificato, creando improbabili connessioni fra le culture dell’età del Ferro e quelle megalitiche (molto piú antiche), di cui in Portogallo sono state via via individuate tracce spettacolari: si è trattato, tuttavia, di correnti d’opinione che non hanno mai ottenuto appoggio dalle istituzioni accademiche, né tantomeno riconoscimento a livello istituzionale.


Leggermente diverso è il caso spagnolo. Qui l’affinità di lingua, l’identità di confessione religiosa e l’aspirazione imperiale ha indotto il mondo culturale spagnolo moderno a sottolineare la sua matrice «latina». Un’origine evidenziata dalla presenza sul territorio di imponenti tracce architettoniche, nonché dall’origine ispanica, orgogliosamente rimarcata, di non pochi protagonisti della storia romana, da Seneca

a Traiano, da Adriano a Teodosio. Nel corso dell’Ottocento, tuttavia, il nazionalismo spagnolo, inizialmente sollecitato dall’invasione napoleonica e poi, soprattutto, dalla perdita, alla fine del secolo, degli ultimi residui dell’impero coloniale (Cuba e Filippine), finí per adottare il solito canovaccio romantico, secondo il quale le nazioni risorte nella

modernità non sarebbero altro che il risveglio di realtà antichissime, dimenticate in seguito a una lunga storia di oppressioni (rappresentata in questo caso dalla dominazione romana e poi dalla conquista araba). La storiografia spagnola, pertanto, accentuò la tendenza a riconoscere già nelle popolazioni ispaniche preromane le presun-

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Il busto noto come Dama di Elche. V-IV sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: l’opera in un francobollo emesso dalla Spagna nel 1969.

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LA DAMA DI ELCHE Ritrovata casualmente da un contadino intento a lavori di scasso di un muretto a secco nelle campagne di Elche (l’antica Ilici, vicino Alicante ) il 4 agosto 1897 e venduta due settimane dopo per la notevole somma di 4000 franchi al Louvre (dove avrebbe assunto la sua ambigua e seducente denominazione), la «dama di Elche» è una scultura in pietra calcarea, di natura funeraria, a forma di busto femminile. La statua, che conserva resti di pittura rossa, bianca e blu, rappresenta una figura femminile riccamente adornata con un diadema, una tiara, due grandi chignon e tre collane. Ancora oggi non si è sicuri della identità del personaggio rappresentato, né c’è accordo sulla datazione (anche se prevale la tendenza ad attribuire l’opera al V-IV secolo a.C.). Tuttavia, al di là degli enigmi irrisolti, questo busto è diventato nel secolo scorso una vera e propria icona dell’identità spagnola. Nei primi decenni del Novecento, quando alcuni studiosi cominciarono a riconoscere una originalità artistica alle popolazioni iberiche preromane, la dama cessò di essere valutata esclusivamente come semplice riflesso di impulsi artistici orientali (nella fattispecie greci). Divenne anzi l’emblema dell’ibericità. La solenne ieraticità della sua posa e del suo sguardo indussero a riconoscervi l’animo profondo ed eterno della donna iberica, progenitrice della popolazione spagnola attuale. Il suo abbigliamento pudico sembrò

addirittura rivelarne una specie di tratto precristiano. Come personificazione femminile della Spagna e come simbolo di atavica gravità venne utilizzata nella propaganda politica di tutti gli orientamenti politici, anche se per lo piú è stata associata a un messaggio patriottico e nazionalista. Negli anni Trenta del Novecento, il governo repubblicano spagnolo cominciò a richiedere al Museo del Louvre le opere d’arte depredate da Napoleone all’inizio dell’Ottocento; con l’occasione richiese anche la Dama. Inutilmente. Ma ci riuscí nel 1941 Franco, al tempo della Francia di Vichy. La Dama venne esposta al Prado. Era ormai popolarissima. Non a caso, per decenni finí riprodotta su cartoline, locandine, banconote, francobolli. Dal 1971 è passata al Museo Archeologico Nazionale, dove (pur avendo ormai perso parte della sua fascinazione simbolica) rappresenta comunque una delle attrazioni di punta.

te qualità e le specificità del popolo spagnolo e a celebrare gli episodi che meglio ne avrebbero rappresentato l’eroica tempra: tra questi, l’epopea di Viriato (vedi box a p. 78) o la strenua resistenza opposta dagli

iberici Saguntini all’infingardo barbaro cartaginese nel 219 a.C. Nella cultura di massa, però, a imporsi come vero e proprio «luogo della memoria» fu Numanzia, la roccaforte celtiberica (sulla cui identifi-

cazione si era avvitata una ormai secolare controversia fra gli eruditi locali) che per due decenni aveva tenuto vittoriosamente testa alle truppe romane; e i cui abitanti, nel 133 a.C., piuttosto che arrendersi avevano optato per un suicidio di massa. La vicenda di Numanzia, come simbolo di lotta per la libertà, era già stata glorificata, tra gli altri, da Miguel de Cervantes in una celebre opera teatrale alla fine del Cinquecento. Dipinti, rievocazioni e opere letterarie insistevano sul suo carattere «nazionale» (non senza una sottile forzatura della nozione di «celtiberico»). Nel 1882, ormai definitivamente identificato, il sito venne dichiarato monumento nazionale e nel 1904 vi fu eretto un obelisco alla memoria dei caduti. L’anno successivo, finalmente, si pose mano al piccone. Il clima di sovraeccitazione nazionalistica fu tale che si arrivò addirittura a estromettere dall’area di scavo della cittadella indigena tutti gli studiosi stranieri, compreso l’archeologo tedesco ideatore della campagna, Adolf Schulten (18701960), confinato allo studio dei soli accampamenti romani situati attorno alla roccaforte celtiberica. Numanzia, però, risultò essere un abitato modesto, privo di vestigia monumentali. Ma il suo mito sopravvisse almeno fino alla fine del franchismo, alla metà degli Anni Settanta del secolo scorso.

DA VALACCHI A ROMANI Un caso a parte è quello della Romania. Furono nel Cinquecento gli umanisti italiani in viaggio nelle terre al di là del Danubio (che resistevano ostinatamente alla pressione ottomana) a notare l’affinità linguistica delle parlate locali con quelle dei popoli occidentali. Gli umanisti ne dedussero che queste genti, definite Valacchi da Ungheresi e Tedeschi (mentre loro stessi si autodefinivano «Romani»), dovessero essere gli eredi diretti degli abitanti della a r c h e o 77


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provincia romana di Dacia, conquistata all’inizio del II secolo d.C. da Traiano e abbandonata, centosettanta anni piú tardi, per decisione dell’imperatore Aureliano. Come evidenziato da secoli di successiva indagine linguistica, le cose stanno probabilmente in maniera un po’ diversa. Parlate neo-latine (affini al rumeno), ricche di elementi albanesi (forse riflesso di una comune radice preromana?) si ritrovavano sparse a macchia di leopardo un po’ ovunque nei Balcani, anche a sud del Danubio, e per secoli hanno costituito gli idiomi di comunità agro-pastorali prive di una particolare identità di stirpe e in continuo movimento all’interno del mondo bizantino. La spiegazione degli umanisti, però, si conciliava con le affermazioni dei cronisti bizantini e la ricostruzione che ne scaturiva permeava questa realtà di un incontrovertibile presti-

gio. Fu, pertanto, facilmente accolta dagli intellettuali e dai boiari rumeni che, a partire dalla metà dell’Ottocento, andavano reclamando l’unificazione di tutto il territorio abitato (intensamente sia pur non esclusivamente) da «Romani», e perciò battezzato col nome di Romania: la Valacchia, la Dobrugia e la Moldavia (sottoposte al dominio ottomano), nonché la Transilvania (sottomessa alla corona ungherese, cioè agli Asburgo). Nel 1859 le corone dei principati di Valacchia e Moldavia, autonomi per quanto ancora formalmente tributari di Istanbul, vennero riunite nelle mani di un unico monarca; nel 1878, al termine di una guerra contro gli Ottomani, venne

aggregata anche la Dobrugia (per la Transilvania bisognerà aspettare il 1918). Mentre il nuovo Stato rimaneva inviso alle ampie comunità di Slavi, Ungheresi, Tedeschi e Turchi stanziate al suo interno o sui suoi confini e stentava a ottenere legittimità internazionale, i boiari guardavano all’Europa occidentale e in particolare alla Francia, in virtú dell’affinità «latina». Insieme allo studio del francese e ai vestiti alla europea arrivò, nel 1860, la decisione di utilizzare i caratteri latini al posto di quelli cirillici per scrivere il rumeno. Insomma, il richiamo alla romanità consentiva alle istituzioni di ancorare le proprie pretese a un fondamento storico e contribuiva a dif-

In basso: Zamora (Spagna). Monumento in onore di Viriato realizzato dallo scultore Eduardo Barrón González. 1883.

Nella pagina accanto: Roma. Particolare del fregio elicoidale che orna la Colonna Traiana e narra le gesta dell’imperatore in Dacia.

VIRIATO: UN GARIBALDI IBERICO? C’è un personaggio della storia antica che tanto gli Spagnoli quanto i Portoghesi percepiscono come proprio antenato. Si tratta di Viriato, un leader della tribú dei Lusitani capace di tenere testa ai Romani invasori per un decennio, conducendo operazioni militari in un’ampia zona della penisola iberica (in particolare il centro e il sud-ovest) prima di morire a seguito di una congiura nel 138 a.C. Noi non abbiamo informazioni chiare e sicure dell’area di stanziamento dei Lusitani, che non doveva per forza combaciare precisamente con la provincia a cui poi i Romani diedero il nome Lusitania (che peraltro non coincideva, come spesso frettolosamente si afferma, con l’attuale Portogallo: un’ampia parte della provincia, compresa la «capitale» Augusta Emerita, si estendeva nell’Estremadura, cioè in Spagna, mentre il Portogallo settentrionale ne era tagliato fuori). Già dal XVI secolo l’eroica figura di Viriato ha esercitato su

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artisti, pittori, drammaturghi e infine anche sulla gente comune un fascino notevole, accentuato peraltro dalla circostanza della morte (avvenuta per tradimento di alcuni suoi luogotenenti). A Viriato, sia in Spagna che in Portogallo, sono intitolate piazze, vie, località; istituzioni, circoli e associazioni; manifestazioni, eventi e competizioni di ogni genere (per non dire degli alberghi e ristoranti!). I nazionalisti, sia portoghesi che spagnoli, ne hanno fatto un campione di dedizione patriottica; ma la sua figura è stata effigiata anche come il prototipo di ribelle guerrigliero. La sua inossidabile popolarità è testimoniata ancora negli ultimi decenni dal successo di un romanzo (17 edizioni in 10 anni) e di una serie televisiva incentrati sulle sue gesta. Non è strano, dunque, che siano tante le comunità e i villaggi, nel Portogallo centrale, in Estremadura e in Castiglia, che si contendano l’onore di avergli dato i natali e di custodirne le ceneri.


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IL TROPAEUM TRAIANI AD ADAMCLISI Quando si pensa alle guerre daciche l’immaginazione porta subito alla colonna coclide eretta da Traiano a Roma, alle pendici del Quirinale, per celebrare le sue vittoriose campagne di conquista (101-2 e 105-6 d.C.). E, infatti, nel 1967 una serie di calchi dei rilievi della colonna (appositamente approntati sin dagli anni Quaranta) sono stati portati a Bucarest, per essere esposti nel locale Museo Nazionale di Storia. Ma per i Rumeni un’altra fondamentale icona di questo conflitto è costituita dal gigantesco memorial di Adamclisi, il cosiddetto Tropaeum Traiani. Si tratta di un imponente monumento cilindrico a tetto troncoconico, sormontato da un trofeo, posto all’interno di un piú ampio complesso comprendente anche un altare e un cenotafio (probabilmente anteriori) innalzato da Traiano in Dobrugia alla memoria dei legionari caduti combattendo contro i Daci. Lo scontro in cui i soldati romani

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trovarono la morte dovrebbe risalire al tempo di Domiziano (quindi alla prima metà degli anni Novanta del I secolo d.C.), quando una campagna militare guidata da Cornelio Fusco (precedente quelle di Traiano) trovò un esito infelice. Ma non è affatto sicuro che il monumento, decorato da rilievi in cui è invece raffigurata la vittoria delle truppe di Traiano, intendesse commemorare una specifica battaglia. Il sito fu scavato non appena la regione entrò a far parte del regno di Romania (nel 1878) da Grigore Tocilescu, che riuscí a recuperare buona parte della decorazione del monumento, in particolare quasi tutte le metope. Subito i reperti furono spostati a Bucarest. Quasi un secolo dopo, negli anni del «comunismo nazionale», in ottemperanza alla nuova legislazione sui beni culturali, i rilievi tornarono in loco.

Sparta. La statua in bronzo che domina il monumento a Adamclisi (Romania). Leonida Il Tropaeum Traiani. realizzato nel 1950, opera di Vasos Falireas.


Per la loro esposizione venne appositamente costruito un museo. Contemporaneamente però, sul monumento vennero effettuati impegnativi lavori di restauro, conclusi nel 1977, in concomitanza con le celebrazioni per il centenario della «guerra d’Indipendenza rumena»: 1877-78. In tale occasione il rudere è stato quasi completamente ricoperto da un rifacimento moderno ispirato alla discussa ipotesi ricostruttiva proposta in quegli anni da Radu Florescu. La tendenza a lavorare con restauri integrativi, dal forte impatto scenografico, è ancora in atto: gli scavi di Ulpia Traiana Sarmizegetusa (vedi foto a p. 82, in alto) prevedono la ricostruzione dell’anfiteatro. In questo modo, da un lato si celebrano i fasti della civiltà romano/rumena, dall’altro si attirano anche folle di turisti.

fondere nella popolazione qualcosa di simile all’orgoglio patriottico. Cosí, già nel 1877, in occasione della prima emissione di moneta cartacea da parte del regno di Romania, sul biglietto da 20 lei campeggiava il ritratto di Traiano, effigiato accanto a un trofeo militare fra un soldato loricato e l’immagine femminile della Dacia.

DA ROMANI A DACI La retorica nazionalista romantica richiedeva, però, di enfatizzare anche altre radici celebrative, quelle cioè dell’autoctonia originaria, di un legame specifico fra «popolo e suolo». Cosí, gradualmente, fu la volta dei Daci, un popolo che non solo aveva dimostrato di essere libero e fiero, ma, a differenza di altri barbari, aveva dato vita anche a un regno centralizzato che, per organizzazione amministrativa, poteva essere assimilato a uno «Stato». In realtà, come oggi sappiamo, nell’età del Ferro l’ampio territorio corrispondente all’odierna Romania era abitato anche da altre comunità etniche. Tutt’altro che trascurabile era, per esempio, la presenza celtica. Secondo la logica semplificatoria intrinseca alla visione nazionalistica della storia, tutta l’area danubiana a nord della Grecia venne omogeneamente ritratta come terreno di sviluppo unitario della civiltà traco-getico-dacica (con una giustapposizione fra le tre componenti fondata su alcune scarne indicazioni letterarie e solo in parte corroborata dai dati archeologici). Fu cosí che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il re che aveva guidato i Daci nella resistenza contro i Romani, Decebalo, acquisí gli allori di eroe nazionale, celebrato in poesie e opere teatrali. Ma come già era accaduto in Francia con Vercingetorige e Cesare, anche in questo caso Decebalo e Traiano, ovvero vinti e vincitori, non furono contrapposti, ma evocati congiuntamente: tanto il richia-

mo ai Daci quanto quello ai Romani contribuiva, infatti, a legittimare le pretese politiche della «nazione rumena» (il primo sul piano dell’autoctonia, il secondo su quello della superiorità culturale). Una visione che troviamo riflessa, per restare nell’ambito della cartamoneta, in una banconota emessa nel 1948, in cui spiccano i ritratti affiancati di Decebalo e Traiano. In effetti, neppure il secondo dopoguerra e l’avvento, a livello ufficiale, dell’ideologia comunista comportarono un’inversione di rotta. Anzi, dopo un primo ventennio contraddistinto da una sostanziale assenza di propaganda nazionalista, dagli anni Settanta in poi la nuova linea politica dettata da Nicolae Ceausescu (il «comunismo nazionale») tese a intensificare nella popolazione rumena la convinzione di essere l’erede diretta degli unici abitatori autoctoni della regione («Dacia» fu il nome assegnato alla popolarissima vettura, fiore all’occhiello dell’industria automobilistica di Stato). Per puntellare l’ideologia isolazionista del Paese e fortificarne la convinzione di poter fare a meno del mondo esterno (e di essere semmai storicamente in credito con esso), vennero addirittura accolte e ufficialmente sostenute le ipotesi, già circolanti dagli anni Trenta ma non ancora assorbite a livello accademico, di un’antica priorità del mondo (traco) dacico su tutta la civiltà europea. Nel 1974, una specifica legislazione assicurò solennemente la tutela del patrimonio storico del Paese; poco dopo venne fondato l’«Istituto di Tracologia». La figura di Decebalo, immortalata a livello mass-mediatico da una serie di pellicole, venne riprodotta in busti e statue in tutta la Romania. Accanto a lui venne eroizzato anche Burebista, il re dei Daci che, prima di morire nel 44 a.C., era stato capace di estendere il suo potere su tutte le tribú della regione, fino alla costa del Mar Nero, intimorendo anche a r c h e o 81


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/4

In alto: i resti di Ulpia Traiana Sarmizegetusa, che fu capitale della provincia romana di Dacia. A destra: il colossale monumento a Decebalo realizzato presso le Porte di Ferro e ultimato nel 2004.

Roma. Burebista fu celebrato come il primo «unificatore» del Paese e l’anno 1980 (scelto dalle autorità romene con disinvolta arbitrarietà) venne solennemente commemorato dal governo come il «2050° anniversario dell’istituzione dello stato dacico» (fissata cosí al 70 a.C.!). Anche dopo la caduta di Ceausescu, all’inizio degli anni Novanta, questa visione «continuista» delle radici «traco-getiche-daciche» del mondo rumeno sembra permanere inossidabile, sia nel mondo accademico che nella pubblica opinione. Tutto l’antico appartenente a questa regione che non sia dacico (reperti, siti o altre testimonianze), viene marginalizzato (per esempio la presenza celtica, ampiamente riscontrata dalle ricerche archeologiche). Né si è appannato il legame con la romanità, motivo di prestigio internazionale e, oggi, anche di attrazione turistica. Un riflesso di questo contraddittorio e paradossale richiamo al passato è l’enorme ritratto di Decebalo, scolpito alla fine degli anni Novanta, su iniziativa e a spese del miliardario Constantin Dragan, su di Ferro. Corredato dalla scritta una parete rocciosa prospiciente il (Decebalus rex) incisa nella lingua Danubio, non lontano dalle Porte dei suoi... vincitori! 82 a r c h e o

NELLA PROSSIMA PUNTATA • Resistenze barbariche



SPECIALE • PERSEPOLI

QUEI PERSIANI DALLA BARBA BLU

NEL 2019 È STATO AVVIATO UN IMPORTANTE PROGETTO DI STUDIO E DI RESTAURO A PERSEPOLI – IL PIÚ CELEBRE SITO ARCHEOLOGICO DELL’IRAN – DICHIARATA DALL’UNESCO PATRIMONIO DELL’UMANITÀ. CONCENTRATISI SUL PALAZZO DI DARIO IL GRANDE E SUL COSIDDETTO TRIPYLON, I LAVORI SONO STATI SVOLTI DALL’ORGANIZZAZIONE ITALIANA RESTAURATORI SENZA FRONTIERE. NE PARLA, IN ANTEPRIMA PER I NOSTRI LETTORI, IL PRESIDENTE DI RSF, PAOLO PASTORELLO di Flavia Marimpietri Sulle due pagine: il sito di Persepoli, nell’odierno Iran. Nelle zone coperte dalle tettoie sono stati condotti gli interventi di restauro del Persepolis International Monuments Conservation Project, che hanno interessato il Palazzo di Dario il Grande, anche detto Tachara, e il Tripylon, o Palazzo Centrale, sulla grande terrazza cerimoniale dell’antica città. Nella pagina accanto: una fase delle operazioni di documentazione dei monumenti. 84 a r c h e o


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SPECIALE • PERSEPOLI

I

bassorilievi che decorano il grande Palazzo di Dario erano dipinti con una vivace policromia, che spaziava dal giallo, al rosso, al nero. Non solo. Alcuni guerrieri persiani avevano la barba di colore blu. È una delle «scoperte» fatte nel corso del progetto di studio e di restauro conservativo che Restauratori Senza Frontiere Italia ha da poco concluso in Iran nell’area archeologica dell’antica Persepoli, capitale dell’impero achemenide fondata da Dario nel 518 a.C., sito protetto dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità per l’importanza e la qualità dei suoi resti monumentali. Il progetto, denominato Persepolis International Monuments Conservation Project,

ha interessato le superfici lapidee di due monumenti dell’antica città persiana: il Palazzo di Dario il Grande, anche detto Tachara, e il Tripylon, o Palazzo Centrale, sulla grande Terrazza cerimoniale dell’antica città. Si tratta di fatto del primo progetto di conservazione del sito autorizzato dal governo iraniano a una organizzazione straniera privata, Restauratori Senza Frontiere Italia, come ci racconta il Presidente Paolo Pastorello... «Il progetto si fonda sul memorandum d’intesa da noi firmato con le istituzioni iraniane preposte alla salvaguardia e al restauro dei monumenti del sito archeologico: il Research Centre for Conservation and Restoration of Cultural Relics e

I resti del palazzo di Dario I, la cui costruzione, da lui stesso avviata, venne ultimata dal figlio, Serse. VI-V sec. a.C. I rilievi sulla gradinata di accesso mostrano i signori delle nazioni comprese nell’impero achemenide che si recano in processione dal sovrano, portando doni e tributi.


la direzione del Persepolis World Heritage Site UNESCO, sotto l’egida del Research Institute of Cultural Heritage and Tourism. Rappresenta perciò un modello di collaborazione virtuosa tra un istituto governativo iraniano e un’organizzazione internazionale non istituzionale, nel campo dei beni culturali, che può essere ripetibile. Grazie a un’assidua campagna di raccolta fondi condotta tra il 2015 e il 2018, Restauratori Senza Frontiere ha ottenuto i finanziamenti necessari all’esecuzione delle indagini preliminari e al restauro conservativo delle superfici lapidee degli stipiti della porta Est del Tripylon e dei celebri bassorilievi della scalinata del portico Sud del Palazzo di Dario (o Tachara). I la-

vori, costati 300mila euro, sono stati interamente finanziati dalla fondazione di diritto svizzero Fondation Evergète, che è sponsor unico (vedi box a p. 108). Mi auguro che questo sia solo l’inizio di una serie di campagne di conservazione da pianificare nella grande area archeologica di Persepoli». E cosí, lo scorso anno, ha preso il via il vostro primo cantiere di restauro nel sito dell’antica città persiana… «Dopo una missione preliminare di raccolta dati e studio, nel 2018, gli interventi di restauro si sono svolti nella primavera e nell’autunno del 2019, i due periodi climaticamente piú favorevoli. Abbiamo quindi consegnato la


SPECIALE • PERSEPOLI

relazione finale dei lavori alle autorità iraniane, che purtroppo non abbiamo potuto incontrare personalmente a causa dell’emergenza sanitaria Coronavirus. I gravi danni rilevati sulle superfici del Tripylon e del Tachara sono stati riparati in profondità e le condizioni generali delle superfici lapidee dei due monumenti migliorate attraverso una serie di trattamenti di consolidamento». Quale è l’aspetto piú innovativo della vostra missione di restauro nell’antica città fondata dal Re dei Re dei Persiani? «Obiettivi primari di Restauratori Senza Frontiere sono la conservazione e la condivisione delle conoscenze scientifiche piú avanzate nel campo del restauro, tramite scambi culturali e di formazione, in Italia e tra diverse nazioni. I nostri interventi sono rigorosamente di tutela e di restauro conservativo. In campo archeologico, rispetto al passato, piuttosto che ricorrere all’anastilosi – cioè alle attività finalizzate a rialzare monumenti archeologici crollati, riassemblandone parti e frammenti – oggi si considera determinante la conservazione dei monumenti attraverso la stabilizzazione dei suoi materiali lapidei costitutivi. A Persepoli sono numerosissimi gli esempi di restauro ricostruttivo. Gli interventi di anastilosi erano già iniziati alla fine

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dell’Ottocento, in seguito agli scavi dell’Istituto archeologico americano di Chicago, e si erano protratti fin quando l’architetto Giuseppe Morganti, funzionario della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, nel 2008, riuscí a stimolare un’inversione di tendenza che, oggi, grazie al progetto A destra: un momento dell’intervento sui rilievi del Palazzo di Dario. In basso: un’immagine che mostra i residui di colore blu scoperti sulle barbe dei guerrieri scolpiti a rilievo nel Palazzo di Dario. Le successive analisi hanno provato che si tratta del pigmento noto come «blu egiziano».


di Restauratori Senza Frontiere, Persepolis prio per l’approccio scientifico alla conoInternational Monuments Conservation Project, è scenza del monumento. La nostra impostazione progettuale, basata sullo studio prelimiun’importante e concreta realtà». nare, il monitoraggio e la futura manutenzioRestauratori Senza Frontiere punta quindi a ne preventiva, stimola una mentalità di innovazione e di approfondimento che ha trovato conservare e non a ricostruire… «È cosí. Il nostro progetto è innovativo pro- un forte riscontro presso le autorità iraniane.

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SPECIALE • PERSEPOLI Sulle due pagine: il cantiere di restauro allestito nel Tripylon. Nella pagina accanto: una fase delle operazioni di pulitura dei rilievi del Palazzo di Dario.

Le nostre metodologie prevedono il monitoraggio continuo delle condizioni del monumento e la sua manutenzione, oltre al restauro prettamente conservativo delle superfici lapidee, decorate o meno. Le malte speciali per il consolidamento, studiate per rispondere alle specifiche esigenze di conservazione dei monumenti, sono state importate dall’Italia, ma i materiali per comporre le stuccature e le sigillature sono sabbie e polveri di pietra che provengono dalle antiche cave


locali, le stesse utilizzate dagli antichi Persiani. Abbiamo avviato, inoltre, un progetto di ricerca in collaborazione con l’Istituto di restauro iraniano (il Research Centre for Con(segue a p. 95)

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La riscoperta di Persepoli da parte degli Occidentali comincia nel 1621, quando il nobile romano Pietro della Valle inviò a un amico un saggio di scrittura cuneiforme copiata da una struttura dell’antica città. I primi scavi ebbero inizio nel 1931, grazie all’Oriental Institute di Chicago. La ricostruzione che presentiamo mette in evidenza la struttura piatta dei tetti, realizzata con travature in legno di cedro, tipica dell’architettura palaziale achemenide. LEGENDA 1. Porta delle Nazioni; 2. Fortificazione nord; 3. Apadana; 4. Palazzo di Dario; 5. Palazzo H; 6. Palazzo di Serse; 7. Palazzo G; 8. Tripylon; 9. Harem; 10. Tesoro; 11. Sala delle 100 Colonne; 12. Sala delle 32 Colonne; 13. Porta non finita; 14. Piazza d’Armi; 15. Tomba di Artaserse III.

Turkmenistan

Mar Caspio Teheran

IRAN Iraq Kuwait Arabia Saudita

Afghanistan

QUEL CHE RESTA DI PERSEPOLI

Persepoli

Golfo Persico

15

12 11 porta delle nazioni e apadana

13

14

2

3 1

sala delle cento colonne

Le ricostruzioni di Persepoli sono state realizzate dallo studio K. Afhami & W. Gambke / www.persepolis3D.com. e sono visitabili sul sito. 92 a r c h e o


tripylon . portico settentrionale

10

9 8 9 7

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tesoro

4 5

n

piazza d ’ armi

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SPECIALE • PERSEPOLI

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servation and Restoration of Cultural Relics) per lo studio dei microrganismi che aggrediscono i monumenti, danneggiandoli profondamente. Il restauro conservativo è sempre un’occasione di studio imprescindibile: anche a Persepoli sono emersi importanti dati di interesse scientifico storico e critico».

Un’altra immagine dell’intervento condotto sui rilievi della scalinata del portico Sud del Palazzo di Dario (o Tachara).

Ci può dare qualche anticipazione delle «scoperte» piú interessanti scaturite dal restauro dei grandiosi rilievi del Palazzo di Dario e del Tripylon? «Una delle cose piú importanti è l’approfondimento della tecnica di esecuzione dei bassorilievi. Abbiamo studiato come vennero realizzati, potendo confermare che avevano una ricca decorazione policroma. Non solo. I rilievi venivano accuratamente preparati: la pellicola pittorica variopinta veniva stesa, infatti, su una base bianca ottenuta dalla calcinazione di ossa animali, la “fluoroapatite”. Un materiale di natura artificiale, cioè creato dall’uomo, che ricopriva le superfici, decorate e non. La fluoro-apatite veniva volutamente applicata come preparazione per rendere uniforme la superficie della pietra e stendere il colore. Attraverso lo studio dei rilievi del Tripylon e del Tachara (Palazzo di Dario), abbiamo rilevato una mappatura completa dei resti di questa preparazione sui due monumenti, risultata molto superiore a quanto si pensava». I bassorilievi di Persepoli erano dunque policromi: sono visibili ancora oggi le tracce di colore? «Sí, si conservano tracce della policromia in molti punti, per cui possiamo dire con certezza che i bassorilievi del Tachara e del Tripylon erano variopinti. In particolare, abbiamo trovato zone dipinte sulla barba di due guerrieri persiani che si vedono sfilare in processione sui rilievi e, con un certo stupore, abbiamo scoperto che avevano la barba blu. Sul Tripylon abbiamo trovato anche tracce di colore rosso, nelle figure che sostengono il trono di Serse, di giallo e di rosa, sulle mani dei piccoli personaggi raffigurati». Se dunque alcuni guerrieri avevano la barba di colore blu, potrebbe essere questa l’origine della figura del leggendario «Barbablú» narrata dalla tradizione fiabesca francese del XVII secolo? «È una suggestione affascinante. Forse, coa r c h e o 95


SPECIALE • PERSEPOLI

me spesso accade per le leggende, alcuni particolari affondano le radici nella verità storica… Chi può saperlo? I nomi dei personaggi leggendari hanno spesso discendenze di tipo antropologico culturale molto antiche. Barbablú è un personaggio terrifico (legato peraltro alla figura mediorientale del re Shariyar delle Mille e una Notte), come molti personaggi della mitologia e della religione iraniana che incarnano il male o il bene. La cultura persiana era fortemente basata sugli aspetti dicotomici: chissà che, per contaminazione, alcuni elementi di questa tradizione non siano finiti nelle nostre tradizioni orali e nelle leggende scritte. Abbiamo fatto indagini al microscopio ottico digitale, documentando ogni traccia di colore blu».

confronti dell’Iran: non è stato possibile, in- Sulle due pagine: fatti, importare le attrezzature necessarie a fotoelaborazioni proseguire il lavoro nel secondo cantiere». che mostrano i

Come producevano questi colori i Persiani? Quali materiali utilizzavano, cioè, per dipingere le figure dei bassorilievi? «Per i rossi e i gialli utilizzavano ossidi di ferro. Il blu delle barbe è “blu egiziano”, ovvero un pigmento artificiale ottenuto dalla cottura di una miscela di sostanze agglomerate tra di loro: sabbia silicea, polvere di rame, argilla, che, cotte insieme ad alta temperatura, producevano la cosiddetta “fritta” egizia, di un colore blu intenso, grazie al rame. Anche il blu dei dipinti romani era blu egiziano. Ma i Romani erano riusciti a produrre il blu egiziano da soli. Gli altri popoli, invece, lo importavano dall’Egitto. Quel che ancora non Quali altri colori avete rintracciato sui basso- abbiamo individuato è il legante con cui rilievi di Persepoli? questi colori, a Persepoli, venivano applicati: «Sui rilievi del Tachara, negli occhi del leone lo stiamo studiando». raffigurato mentre attacca un toro, abbiamo trovato tracce di nero. Per “scoprirlo” abbia- Quali altre novità sono emerse dalla vostra mo utilizzato una sofisticata tecnologia laser, indagine di restauro a Persepoli? asportando le incrostazioni che nascondevano «Altra cosa molto importante che abbiamo il colore. Gli interventi di pulitura con appa- scoperto studiando i microrganismi presenti recchiature laser sono rimasti purtroppo al sui monumenti è che l’interazione fra lichelivello di saggi a causa dell’embargo USA nei (segue a p. 103)

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rilievi del portico Sud del Palazzo di Dario prima e dopo l’intervento di restauro.


A destra: ancora un’immagine che mette a confronto i rilievi del Palazzo di Dario prima e dopo il restauro, integrata dalla mappatura degli interventi di rimozione dalle superfici del Tachara di precedenti stuccature dannose, di sali, microrganismi, licheni e piante nocive per i preziosi materiali lapidei del Palazzo di Dario.

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SPECIALE • PERSEPOLI

LE ULTIME NOVITÀ SU PERSEPOLI Incontro con Pierfrancesco Callieri Il progetto di Restauratori Senza Frontiere a Persepoli affonda le radici nell’attività e nell’esperienza acquisita sul campo dalla Missione Archeologica Congiunta ItaloIraniana, che negli ultimi dodici anni ha dedicato ampi studi al sito archeologico, conducendo analisi diagnostiche e campagne di scavo in punti nevralgici del sito. Dalla collaborazione tra l’Università di Bologna, l’ISMEO-Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente, il Research Institute for Cultural Heritage and Tourism della Repubblica Islamica dell’Iran e l’Università di Shiraz, nel 2008 è nato il progetto italo-iraniano From Palace to Town, che ha gettato nuova luce sull’antica città persiana. Ne parliamo con Pierfrancesco Callieri, professore ordinario di archeologia dell’Iran preislamico all’Università di Bologna e condirettore della Missione Archeologica Congiunta Italo-Iraniana, insieme ad Alireza Askari Chaverdi. Partiamo dai guerrieri «Barbablú»: quale significato potrebbe avere il colore della barba di questi personaggi? «Stiamo cercando di capirlo. Il colore blu ha una forte valenza simbolica. A Persepoli, come spesso accade anche in Grecia, i colori sono distribuiti con parametri che ci sfuggono, non corrispondenti a una logica naturalistica. Tra il VI e il IV millennio a.C., il blu soppianta l’ocra come colore simbolico legato ai riti di passaggio dalla vita alla morte, concentrandosi sugli occhi e sui capelli delle immagini. Quanto al blu sulle barbe dei soldati rappresentati nel Palazzo di Dario, già Ernst Herzfeld, il primo scavatore di Persepoli per conto dell’Università di Chicago, ne aveva individuate le tracce. La scoperta di Restauratori 98 a r c h e o

Senza Frontiere, dunque, conferma questo dato sul quale, invece, erano state sollevate delle perplessità. Le tracce di pigmento blu ancora oggi conservate sulle sculture in pietra, come per esempio sulla barba di alcuni personaggi, sono pochissime e non piú visibili a occhio nudo. Ma i mattoni invetriati utilizzati nelle coeve costruzioni di Dario I a Susa, oggi visibili al Louvre, ci aiutano a ricostruire l’aspetto cromatico che avevano anche i rilievi in pietra di Persepoli: le vesti degli arcieri di Susa erano variopinte e avevano due differenti decorazioni alternate. Anche a Susa compare la barba blu. È singolare il fatto che anche nei siti archeologici buddhisti in Afghanistan, molto piú tardi (VI-VII secolo d.C.), ci siano figure dipinte con i capelli blu: si tratta sempre di un uso simbolico del colore». Che cosa rappresenta Persepoli dal punto di vista storico-archeologico? «Senza timore di esagerare, possiamo dire che Persepoli è uno dei piú importanti monumenti della lista UNESCO Patrimonio mondiale dell’Umanità. Non è solo il sito piú rilevante dell’Iran, ma ha un’importanza universale. Il sito archeologico è di una bellezza che lascia senza fiato. Il perché della popolarità di Persepoli è che colpisce fortemente il visitatore per il colore caldo della pietra, le sue colonne slanciate, l’imponenza del grande muro che sostiene la Terrazza (lungo 350 m), la monumentalità delle costruzioni dove avvenivano funzioni e cerimonie sontuose. Per noi Italiani, inoltre, il sito ha un valore particolare, poiché l’Italia è coinvolta nelle attività di restauro a Persepoli dal 1964 grazie all’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), che, per la lungimiranza di Giuseppe Tucci, creò

un centro di restauro impegnato a studiare e quindi riassemblare e ricollocare nella posizione originaria la quantità impressionante di frammenti di materiali architettonici in pietra accumulati con le campagne di scavo condotte a Persepoli da Ernst Herzfeld e Erich Schmidt, tra il 1931 e il 1939, e poi tra gli anni Cinquanta e Settanta dagli archeologi iraniani. Una parte notevole delle architetture, come porte, finestre, stipiti, colonne, muri di sostruzione e architravi, erano crollati a terra e vennero rimessi in piedi blocco per blocco dai restauratori italiani guidati da Giuseppe Tilia». Come e quando nasce l’antica Persepoli? E che cosa è visibile, oggi, delle sue vestigia? «La Persepoli che oggi possiamo visitare è una grande cittadella imperiale costruita sopra un’enorme terrazza, dalla superficie totale di ben 12 ettari, creata artificialmente con l’aiuto di un muro di sostruzione alto in media 15 m. Su questa grande spianata vennero costruiti monumenti che avevano la funzione di celebrare l’impero rifondato da Dario I, dopo le prime conquiste da parte di Ciro il Grande. Dario prese il potere con un probabile colpo di Stato, nel 522 a.C., e la costruzione della Terrazza risale al 518 a.C. circa, dopo che vennero sedate le rivolte divampate in tutto l’impero. Spesso si tende a dimenticare che a Persepoli c’era anche una città, nella quale vivevano tutti coloro che lavoravano nella Terrazza imperiale. La sua esistenza, tuttavia, è stata trascurata dalla ricerca archeologica, affascinata dalla sua splendida cittadella. Le altre capitali dell’impero persiano – Babilonia, Ecbatana e Susa – avevano una finalità amministrativa, la Terrazza di


Persepoli, invece, era funzionale alla celebrazione del potere. L’impero achemenide è stato il piú grande impero dell’antichità: si estendeva dalla Libia ai Balcani, fino all’Asia centrale, all’India, al Golfo Persico e comprendeva l’intero Vicino Oriente (ovvero Anatolia, Egitto, Palestina, Iran, Afghanistan). Un sistema politico amministrativo eccezionale, perfetto, gestito unitariamente per due secoli, di fronte al quale Alessandro Magno rimase folgorato, tanto da avviare una personale “persianizzazione” che lo fece diventare un “Re dei Re” (scelta che fu forse causa della sua morte, se, come ritengo, venne avvelenato dai

Macedoni che non condividevano questa politica)». La Terrazza di Persepoli ha dunque una funzione celebrativa... «Persepoli rappresenta il centro ideologico dell’impero persiano. Per il presente e per il futuro. Non a caso, nel costruire la Terrazza, Dario pensò anche ai suoi successori: lo dimostra il fatto che, dei 12 ettari di superficie, il sovrano riuscí a edificarne solo circa il dieci per cento. La costruzione della Terrazza, infatti, durò per circa 15 anni, poi Dario fece in tempo a edificare solo una Tesoreria e il suo Palazzo privato, mentre la grande Sala delle

Udienze pubbliche o Apadana, che Dario progettò e iniziò a costruire, fu completata da Serse, che salí al trono nel 486 a.C. Il Palazzo di Dario, che nell’iscrizione scolpita sulla facciata viene definito con il termine antico persiano di Tachara, era usato per le udienze private. La funzione del Palazzo non doveva essere residenziale: non vi è infatti alcuna traccia di ambienti abitativi analoghi a quelli del Palazzo di Dario a Susa. Dove abitasse Dario con le sue mogli è ancora oggetto di discussione. Un’ipotesi interessante è quella della corte itinerante, che viveva in tende per spostarsi piú facilmente tra le province dell’impero.

Pierfrancesco Callieri (sulla destra nella foto) in visita a Persepoli.

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SPECIALE • NOME

Che gli Achemenidi avessero tende lussuose è ribadito tra l’altro dallo storico greco di età romana Arriano di Nicomedia che, nella sua Anabasi di Alessandro, racconta che il Macedone, quando entrò nella tenda del campo persiano abbandonata da Dario, in fuga dopo la sconfitta di Isso (333 a.C.), rimase a bocca aperta (lui che proveniva da una stirpe ben piú rozza dei raffinatissimi Persiani). E nel descrivere il lusso e lo sfarzo della tenda disse: “Questo si, che è essere re!”. L’idea della corte itinerante è molto suggestiva...». Quindi Persepoli è una citta, che però dalla Terrazza non si vede: come è possibile? «L’esistenza della città è sicura, poiché ne parlano le fonti greche e le tavolette d’archivio in lingua elamita rinvenute in un deposito delle fortificazioni e nella Tesoreria. 100 a r c h e o

In alto: un muro dell’ambiente interno della Porta di Tol-e Ajori con i mattoni invetriati in situ. A destra: ricostruzione grafica dello schema decorativo.

Per questo io e il collega Alireza Askari Chaverdi, condirettore dalla Missione Archeologica ItaloIraniana a Persepoli, abbiamo dato vita al nostro progetto dedicato alla ricerca sulla città, in accordo con i colleghi geofisici francesi e iraniani. Questi, attraverso una serie di prospezioni geofisiche, hanno confermato che vi sono

testimonianze archeologiche (palazzi con elementi in pietra, materiale ceramico, fornaci) su un’estensione di 600 ettari ai piedi della Terrazza. Il tessuto urbano che emerge da queste ricerche è caratterizzato da un’alternanza di pieni e di vuoti, ovvero di zone costruite e non, dove erano di certo giardini lussureggianti.


Indicazioni di montaggio scoperte sui mattoni della Porta di Tol-e Ajori, identiche a quelle note per la Porta di Ishtar.

Si tratta di una concezione urbanistica completamente diversa da quella per noi usuale. Noi archeologi iraniani e italiani abbiamo fatto saggi mirati di scavo, che hanno permesso di capire la natura di molte delle anomalie geofisiche: finora tuttavia non abbiamo individuato nessun quartiere abitativo». In compenso, però, avete fatto una scoperta davvero eccezionale. Ci vuole raccontare dell’incredibile copia della Porta di Babilonia trovata a Persepoli, anch’essa blu? «Nel 2011, nel sito di Tol-e Ajori (ovvero “la collina dei mattoni”), abbiamo scoperto una copia esatta della Porta di Ishtar di Babilonia che gli archeologi tedeschi ricostruirono nel Pergamon Museum di Berlino. Si tratta di una copia perfetta del monumento babilonese, ma in dimensioni maggiori. La cosa eccezionale è che anche l’apparato decorativo è identico a quello della porta di Babilonia. Abbiamo portato alla luce metà di questo monumento unico, tra il 2011 e il 2018, scoprendo che deve risalire a un’epoca anteriore a Dario, quindi all’età di Ciro il Grande (che conquista Babilonia nel 539 a.C. e muore nel 530 a.C.) o di Cambise (che governa dal 530 al 522 a.C.). Siamo sicuri – per motivi archeologici – che il

monumento è precedente alla Terrazza di Dario». E chi può avere costruito, nella «Persepoli prima di Persepoli», questa incredibile replica? «Se Ciro conquista Babilonia e questa è una copia della porta di Babilonia, potrebbe essere proprio Ciro il Grande ad averla ordinata. Bisogna pensare che Babilonia, all’epoca, era la metropoli piú grande del mondo antico, una New York di oggi. La replica della sua porta poteva essere un modo per celebrarne la conquista. Ma ancor piú sensazionale è il fatto che anche le decorazioni di mattoni invetriati sono le stesse della Porta di Ishtar conservata a Berlino. La Porta di Tol-e Ajori è costruita alla babilonese: con le stesse matrici, le stesse indicazioni di montaggio sui mattoni, gli stessi motivi decorativi e gli stessi pannelli con processioni di animali, come il toro o il drago-serpente». La porta potrebbe essere stata costruita da maestranze babilonesi? «Questa è la nostra idea. Alcuni documenti babilonesi dicono che sotto il successore di Ciro, nella zona di Persepoli, c’erano i Babilonesi: forse erano quelli deportati in Persia con la conquista di Babilonia. Ma questo monumento

è importante anche per capire che la città, a Persepoli, esisteva. E c’era già in epoca anteriore a Dario: esisteva una città precedente e la porta che abbiamo trovato ne è una testimonianza. Il blu, tuttavia, non è oggi brillante come quello della Porta di Ishtar a Berlino: le piccole tracce di blu della porta che abbiamo scoperto a Tol-e Ajori presso Persepoli, che le analisi chimico-fisiche ci hanno confermato essere in origine il colore prevalente grazie alle tracce di cobalto e rame individuate con grande frequenza, sono scomparse quasi del tutto non appena portate alla luce. Con Dario la tecnica di cottura dei mattoni cambierà, permettendo di conservare meglio il colore blu e rendendolo brillante, come accade nei mattoni invetriati del Palazzo di Dario a Susa, oggi conservati al Louvre». Che cosa rappresenta invece l’altro monumento su cui si è concentrato l’ultimo restauro, il Tripylon? «Si tratta di un edificio a pianta quadrata con tre porte monumentali: ha una funzione di raccordo tra due livelli diversi, funge cioè da cerniera tra la zona della Sala delle udienze pubbliche e la zona dei palazzi privati. Venne costruito da Artaserse I, il secondo successore di Dario, intorno alla metà del V secolo a.C.». a r c h e o 101


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ni e cianobatteri provoca un danno ben superiore a quanto si immaginava. La diffusione di questi microrganismi è ubiquitaria: sono ovunque, anche dove non si vedono. Lo studio da noi condotto rivela l’importanza di continuare a monitorare e tenere sotto controllo questi microrganismi, poiché sono molto invasivi e provocano un forte deterioramento dei monumenti». In quali condizioni avete trovato i bassorilievi di Persepoli? Erano fortemente degradati? E quali interventi avete messo in campo per «salvarli»? «Abbiamo lavorato su circa 150 metri quadrati di superfici, tra il Tachara e il Tripylon, con lo specifico scopo di stabilizzare una situazione di degrado molto avanzato. Sul materiale lapideo del Tripylon abbiamo eseguito interventi di tipo prevalentemente strutturale: la pietra calcarea presentava molti e importanti fenomeni di degrado, che avevano generato una situazione di gravissima instabilità. Gli stipiti della porta Est cadevano in pezzi e i rilievi erano in uno stato di deterioramento cosí avanzato da essere quasi illeggibili. Siamo perciò intervenuti sul fronte specifico del consolidamento del materiale lapideo, con l’obiettivo di stabilizzarlo nel tempo. Sulla scalinata di accesso del Tachara siamo intervenuti, invece, anche sul fronte estetico, rimuovendo le stuccature dei restauri precedenti, realizzate con materiali inappropriati dal punto di vista cromatico ed estetico, oltre che dannosi per la conservazione, come il cemento. I danni, molto evidenti nel Tripylon, erano presenti anche nel Tachara, sebbene su scala minore. Abbiamo dimostrato alle autorità iraniane che era importante agire dal punto di vista microstrutturale prima che le dinamiche deteriorative generassero danni irreparabili. In futuro, un’attenta manutenzione programmata sarà fondamentale per evitare ulteriori gravi danni ai monumenti. In quest’ottica la formazione di maestranze locali, che Restauratori Senza Frontiere persegue in tutti i sui progetti, risulta fondamentale per consentire di mettere in campo attività conservative coerenti e protratte nel tempo. Materiali e attrezzature di consistente valore sono state donate da Restauratori Senza Frontiere al sito archeologico di Persepoli proprio con questo preciso intento».

In alto: una fase delle operazioni di documentazione del Tripylon. Nella pagina accanto: la porta Est del Tripylon.

Altre curiosità su Persepoli «scoperte» con il vostro lavoro di restauro? «Abbiamo tentato di verificare la leggenda che ruota attorno alla “fine” di Persepoli per mano di Alessandro Magno. Si narra che, dopo avere conquistato e saccheggiato la città, il condottiero macedone vi fosse rimasto per qualche tempo, con la cortigiana ateniese Taide. Le fonti antiche raccontano che una notte la concubina, per vendetta, suggerí ad Alessandro di dare fuoco alla città. E lui, stordito dai fumi dell’alcool, cosí fece: iniziando per primo ad appiccare il fuoco, incendiò la città e se ne andò. Abbiamo tentato di verificare la veridicità della leggenda analizzando il rinvenimento di tracce di polvere nera, apparentemente di carbone, presenti in una spaccatura della pietra che compone i blocchi del Tripylon, ma, al contrario di quanto ipotizzato, non si trattava di carbone, bensí di polvere di una pietra scura degradata. Quindi non abbiamo alcuna conferma dell’incendio riportato dalle fonti storiche». Il vostro progetto di restauro si basa, inoltre, sull’esperienza acquisita a Persepoli nel corso degli anni passati dalla Missione Archeologica Congiunta Italo-Iraniana, i cui studi diagnoa r c h e o 103


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UN SIMBOLO DEL DIALOGO FRA CULTURE DIVERSE Incontro con Alireza Askari Chaverdi Uno degli studiosi piú impegnati a Persepoli è l’archeologo iraniano Alireza Askari Chaverdi, professore di archeologia presso l’Università di Shiraz e condirettore della Missione Archeologica Congiunta Italo-Iraniana a Persepoli, insieme a Pierfrancesco Callieri. Avendo dedicato gli ultimi 15 anni all’indagine archeologica del periodo achemenide in Iran, il professor Askari Chaverdi conosce da vicino le problematiche dell’antica città persiana... «Sapevo bene quali fossero i problemi di conservazione dei monumenti in pietra di Persepoli e che l’area archeologica avesse bisogno di un moderno progetto di restauro. Per questo abbiamo scelto di cooperare con Restauratori Senza Frontiere Italia: per proteggere Persepoli. Il sito è Patrimonio mondiale dell’Umanità e rappresenta un valore per ognuno di noi. Abbiamo il dovere di preservare Persepoli per il suo significato culturale universale. L’antica città è un esempio

concreto delle relazioni tra Oriente e Occidente, in epoca antica. È un luogo simbolo del dialogo fra Paesi e culture diverse». Che cosa significa, per un archeologo iraniano, essere impegnato nella conservazione di uno dei piú importanti siti UNESCO? «Persepoli è un sito estremamente importante per gli Iraniani, per vari motivi. Nel VI secolo a.C. gli Achemenidi studiarono e raccolsero le tradizioni artistiche e culturali dei millenni precedenti, facendole confluire in una fondazione dal forte valore simbolico, ovvero Persepoli. Vedere Persepoli vuol dire conoscere tutte le principali manifestazioni artistiche dell’Oriente nei tempi antichi. Possiamo dire che questo sito archeologico rappresenti l’arte di tutto il Medio Oriente, in un momento storico in cui questa regione era la culla delle civiltà antiche. Come sito Patrimonio dell’Umanità, è come se Persepoli fosse un libro che racconta la storia dell’arte e della cultura

stici hanno evidenziato un forte degrado dei rilievi in pietra del sito: ci vuole raccontare? «Il nostro lavoro è stato sviluppato in linea con il progetto italo-iraniano From Palace to Town, avviato nel 2008 a Persepoli e frutto della collaborazione tra le Università di Bologna e quella di Shiraz, il Research Institute for Cultural Heritage and Tourism, l’Iranian Centre for Archaeological Research, il Parsa-Pasargade Research Foundation e l’Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo (IsIAOISMEO). Gli studi diagnostici effettuati dalla Missione Archeologica Congiunta ItaloIraniana avevano evidenziato il precario stato di conservazione di alcuni monumenti, mettendo in luce il forte degrado dei rilievi in pietra. Perciò le autorità iraniane, dopo la lunga serie di interventi di restauro ricostrut104 a r c h e o

dell’Antico Oriente nel corso dei diversi millenni. Molte delle conoscenze acquisite sulle antichità dell’Iran appartengono al periodo achemenide. Possiamo dire che Persepoli, come espressione di tutte le 32-34 satrapie dell’impero persiano, rappresenti l’intera storia dell’Iran, dell’antica Mesopotamia e dell’Asia centrale. Persino oggi gli Iraniani si riconoscono in Persepoli. Attualmente, infatti, in Iran vivono differenti gruppi etnici, ma tutti riconoscono un’unità nazionale condivisa, rappresentata da Persepoli. Questo sito, dunque, rappresenta la centralità e l’unitarietà della cultura di un Paese, come l’Iran, molto vasto e con piú gruppi etnici. Perciò Persepoli è importantissima per il popolo iraniano. La sua costruzione, inoltre, avvenne in un periodo di pace, in cui prosperavano il rispetto dei diritti umani – anche per le donne – e la tolleranza religiosa. Ancora oggi, il popolo iraniano visita il sito archeologico di Persepoli come luogo mitico e sacro per l’Iran».

tivo effettuati dal 1964 al 2008 a Persepoli, hanno deciso di porre un freno al deterioramento dei bassorilievi. Nel novembre 2011 fu realizzato un ciclo di lezioni e un primo cantiere didattico su di una finestra dell’Hadish (con la professoressa Marisa Laurenzi Tabasso, Carla Karima Gianturco e il sottoscritto), in cui sono state utilizzate nuove metodologie e materiali speciali, messi a disposizione del personale operativo del sito archeologico di Persepoli. Da allora questa attività è stata monitorata annualmente per verificare le prestazioni dei materiali utilizzati: i risultati di questo monitoraggio sono alla base dell’attuale intervento di restauro». Proprio Persepoli, i suoi palazzi, il Tachara stesso, sono in cima alla lista dei monumenti

Nella pagina accanto: visita al cantiere di restauro del Palazzo di Dario. Fra gli altri, sono presenti Pierfrancesco Callieri (primo a sinistra) e Alireza Askari Chaverdi (ultimo a destra).


dell’Europa, che viene insegnata nelle nostre Università. L’Iran ha una grande potenzialità e un grande interesse nel campo della cultura, della storia dell’arte, ma anche in quello dei valori umani, intellettuali e religiosi».

Il Progetto di restauro dell’antica città persiana è frutto della sinergia fra istituzioni italiane e iraniane. Quale importanza rivestono, oggi, per l’Iran, queste collaborazioni? Agli occhi degli Europei, spesso, l’Iran appare come un Paese molto chiuso in se stesso… «L’Iran e l’Italia hanno una lunga tradizione di scambi e di relazioni, sia verso Est che verso Ovest, in epoca antica. Per noi Iraniani conoscere la cultura italiana significa capire la storia, la cultura, la civiltà dell’antica Roma e dell’Occidente. Comprendere la cultura italiana dal punto di vista scientifico e storico, per un archeologo iraniano, vuol dire cogliere un significato universale. Negli oltre 15 anni in cui ho

collaborato con l’Università di Bologna, come archeologo, il governo iraniano non ha mai sollevato alcun problema. Abbiamo ospitato in Iran centinaia di studenti e specialisti italiani, per collaborare al nostro progetto: non ricordo una nota negativa nelle relazioni tra i professionisti dei due Paesi, c’è stata solo amicizia e armonia. I rapporti scientifici non sono un problema per il nostro Paese, se organizzati e pianificati nell’ambito di un progetto di ricerca comune. Ovviamente dobbiamo muoverci all’interno del quadro legislativo dell’Iran, ma ci siamo sempre riusciti. Il popolo iraniano ha grande rispetto degli Europei e degli Italiani in particolare. In Iran abbiamo studiato la storia

finiti sotto la minaccia di Donald Trump, che nello scorso gennaio ha dichiarato di voler bombardare i siti culturali iraniani, se necessario. Una minaccia reale? «Assolutamente si. Nella lista dei beni da bombardare stilata dal presidente degli USA e comparsa sull’Huffington Post lo scorso gennaio, al primo posto c’è non solo Persepoli, ma esattamente il nostro cantiere. Il tycoon newyorkese, tramite Twitter, ha dichiarato che “qualora l’Iran dovesse colpire qualsiasi persona o bersaglio americano, gli USA reagiranno rapidamente e in modo assoluto, forse in modo sproporzionato”. Nelle intenzioni di Trump, con la delicata situazione generatasi in seguito all’uccisione del comandante Qassem Soleimani, la minaccia per i siti archeologici iraniani patrimonio mon-

In che modo vengono viste, oggi, in Iran le testimonianze della storia preislamica? «Nel passato il popolo iraniano era piú interessato agli aspetti nazionalisti che alle testimonianze della storia preislamica. Negli ultimi cinquant’anni, invece, con lo sviluppo degli studi e delle Università, il popolo iraniano ha potuto accedere alle conoscenze scientifiche e studiare la storia dell’Iran. Con lo sviluppo degli studi universitari e con gli interventi di protezione del patrimonio e dei siti UNESCO, gli Iraniani hanno iniziato a considerare le testimonianze archeologiche come patrimonio dell’umanità e, oggi, il popolo iraniano ha una visione piú globale delle sue antichità e dei monumenti al di fuori dell’Iran».

diale è concreta. Per questo gli Stati aderenti al Secondo Protocollo della Convenzione dell’Aja (1954) dovrebbero far sentire la propria voce in modo chiaro e diretto. Secondo i principi e le regole sottoscritte e ratificate dai firmatari della Convenzione (37 Stati tra cui Italia e Stati Uniti), infatti, i Paesi aderenti sono tenuti a impegnarsi per la salvaguardia dei beni culturali dalle conseguenze di eventuali conflitti armati, predisponendo misure protettive anche in tempo di pace. C’è anche uno specifico Comitato per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, composto da 12 Stati eletti per quattro anni, che ha il compito di supervisionare l’attuazione del Protocollo, di indicare i siti che necessitano di una protezione rafforzata e di (segue a p. 109) a r c h e o 105


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LA CONOSCENZA INNANZITUTTO Incontro con Marisa Laurenzi Tabasso Uno degli aspetti piú innovativi del restauro di Persepoli è che l’intervento conservativo effettuato sui monumenti è stato preceduto da un’approfondita indagine diagnostica dei materiali. Ne parliano con Marisa Laurenzi Tabasso, chimico e Presidente del Comitato Scientifico di Restauratori Senza Frontiere... «Una malattia non si può curare, se prima non la si comprende. Per questo, nel 2008, nell’ambito del progetto From Palace to Town, abbiamo condotto indagini diagnostiche finalizzate alla conservazione e alla conoscenza dei materiali. L’attenzione, infatti, si era spostata dall’anastilosi alla conservazione delle superfici lapidee, evidenziandone in molti casi il forte degrado. Con il Persepolis International Monuments Conservation Project, le indagini sono state approfondite sulla scalinata del Tachara e sui due pilastri del Tripylon. Sono stati riconfermati anche i risultati delle indagini archeometriche riguardanti la tecnica di finitura delle superfici e il colore dei monumenti. A prima vista, si ha infatti l’impressione che Persepoli sia una città interamente

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di colore rosato. Ma in origine non doveva essere cosí». Vuol dire che, in epoca antica, i monumenti di Persepoli non erano rosa come appaiono oggi? «No, la patina rosata che li ricopre è dovuta al deposito, nel tempo, della polvere dell’ambiente circostante. Questa polvere è, infatti, costituita da quarzo e silicati di origine terrigena, con tracce di ossidi di ferro che le conferiscono il colore rosato. Ma l’aspetto esterno dei monumenti, in antico, era diverso». Quale colore dobbiamo allora immaginare per l’antica Persepoli? «Il calcare compatto impiegato a Persepoli è di un grigio piú o meno scuro e, forse, per celare questo colore le superfici venivano ricoperte da uno strato bianco, almeno nei monumenti piú importanti. Su questo strato bianco venivano, poi, applicati i pigmenti per ottenere le decorazioni policrome, come era comune in molti monumenti di quel periodo. Studiando da vicino le superfici lapidee, abbiamo scoperto, al di sotto del deposito rosa, uno strato preparatorio bianco. Questo strato è stato studiato prima con diverse tecniche analitiche (su piccolissimi campioni), poi, successivamente, su un numero molto maggiore di punti, mediante una tecnica non distruttiva – cioè che non richiede il prelievo di campioni – ovvero la fluorescenza dei raggi X. I risultati analitici ottenuti ci hanno indicato che nei monumenti attribuiti a Dario, e in parte in quelli attribuiti al figlio Serse (cioè i piú antichi di Persepoli), lo strato bianco era ottenuto con gesso, probabilmente applicato con legante a calce. Nei

Marisa Laurenzi Tabasso e Alessandra Morelli al lavoro sulle superfici lapidee del Palazzo di Dario.

monumenti successivi, invece, il gesso venne sostituito da un materiale bianco con la struttura e le caratteristiche chimiche del minerale “fluoro-apatite”, un fosfato di calcio che gli Achemenidi potevano ottenere dalla calcinazione delle ossa animali. Quest’ipotesi è confermata dal ritrovamento, nel corso degli scavi condotti in alcune zone dell’area archeologica che si trova nelle vicinanze della Terrazza di Persepoli, di forni particolari, diversi da quelli utilizzati per la cottura dei mattoni, vicino ai quali si trovavano numerosi frammenti di ossa… ecco a cosa servivano!». Esistevano quindi forni per la calcinazione delle ossa e la produzione di questa base bianca... «Proprio cosí. Quello che viene


comunemente chiamato “bianco d’ossa” è un tipo di pigmento entrato in uso in Europa a partire dal Medioevo. A oggi, non ci sono riscontri dell’uso di questo bianco nei monumenti antichi, né abbiamo elementi per capire le ragioni di questo cambiamento nella tecnologia degli Achemenidi. La fluorescenza dei raggi X ha anche permesso di individuare alcune tracce di pigmenti ancora esistenti, tra cui un blu a base di rame che, molto probabilmente, è un “blu egiziano”. Attraverso un’approfondita pulitura con il laser di parti limitate del Tachara, abbiamo potuto individuare anche altre piccole tracce di policromia. Questa tecnica si è rivelata ottimale per le superfici scolpite, ma, purtroppo, per ragioni contingenti e non dipendenti dalla

nostra organizzazione, non abbiamo potuto applicarla in maniera piú estesa, come inizialmente programmato». Che cosa danneggia maggiormente i monumenti di Persepoli? «La minaccia piú grande per gli antichi edifici della città non è l’inquinamento – come si ipotizzava inizialmente –, ma sono gli sbalzi termici: c’è una fortissima differenza di temperatura tra l’estate (molto calda) e l’inverno (molto freddo e spesso con neve e ghiaccio), ma anche tra le zone esposte al sole e quelle in ombra dello stesso monumento. Gli stress termici si possono dunque ripetere piú volte, anche nella stessa giornata, oltre che nel passaggio da una stagione all’altra. Un altro problema importante è l’attacco dei

microrganismi, in particolare di licheni e cianobatteri: questi ultimi, in particolare, provocano il cosiddetto pitting, un insieme di minuscoli fori che danneggiano la superficie lapidea. Per scegliere il prodotto biocida piú adatto alle pietre e alle caratteristiche ambientali di Persepoli, abbiamo effettuato una sperimentazione su una zona non scolpita del Tachara, confrontando quattro diversi prodotti: tre biocidi chimici e un composto a base di oli essenziali già sperimentato dal Laboratorio di Restauro dei Musei Vaticani. All’esperimento hanno collaborato anche un lichenologo iraniano, studioso della flora microbica di Persepoli, e un biologo del dipartimento di Botanica Ambientale e Applicata dell’Università di Torino».

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UN BENEFICIO SPIRITUALE E INTELLETTUALE Incontro con Bertrand du Vignaud L’elvetica Fondation Evergète è sponsor unico del progetto di restauro di Restauratori Senza Frontiere a Persepoli. Come onlus senza scopo di lucro, ha finanziato interamente e gratuitamente l’intervento sul Tachara e sul Tripylon per un totale di 300mila euro, utilizzati per sostenere la spedizione e fornire i materiali necessari alla conservazione dei monumenti, peraltro donati agli Iraniani per proseguire il lavoro di consolidamento, pulitura e protezione dei resti archeologici di Persepoli e consentire il monitoraggio dei monumenti. A questo proposito abbiamo intervistato Bertrand du Vignaud, fondatore e consigliere esecutivo della Fondation Evergète, membro del comitato scientifico di Restauratori Senza Frontiere. Perché Fondation Evergète ha scelto di finanziare il progetto di restauro di Persepoli? «Intanto poiché apprezzo molto come professionista Paolo Pastorello, che ho conosciuto in occasione del restauro degli affreschi della galleria dei Carracci in Palazzo Farnese a Roma. Inoltre, ho pensato che il progetto per Persepoli fosse un intervento molto importante dal punto di vista storico e culturale. Per questo l’ho presentato alla Fondation Evergète, che ho creato a Ginevra tre anni fa, e abbiamo deciso di finanziare interamente, in qualità di sponsor unico, il restauro del Tachara e del Tripylon. Sono molto soddisfatto dei risultati, poiché la problematica della conservazione dei resti archeologici, che ho seguito da vicino come membro del comitato scientifico di Restauratori Senza Frontiere, era di difficile risoluzione. Sono state necessarie lunghe indagini e ricerche approfondite. Inoltre, ho molto apprezzato il fatto che il progetto preveda anche la formazione e l’educazione del personale persiano che si occupa del sito, per manutenerlo anche nel futuro». Che cosa rappresenta, per la vostra fondazione, sostenere economicamente progetti di conservazione e tutela del patrimonio culturale mondiale? «Ha un grande significato, poiché siamo fra i pochi ad aver compreso il dovere di salvare i capolavori dell’umanità. Italia e Francia hanno progetti importanti, ma non è abbastanza. Per noi è importante lavorare a questi capolavori in Iran, anche perché siamo l’unico esempio di mecenatismo privato nel Paese. La

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Fondation Evergète viene dal greco Euergétes, cioè “benefattore”, proprio come Tolomeo III, zio di Cleopatra, detto appunto l’Evergete. Ho scelto questo termine perché è molto significante e meno inflazionato di “mecenate”. Noi non siamo sponsor in senso stretto: non facciamo alcuna pubblicità sul monumento. Siamo una onlus interamente no profit. Molti finanziamenti, oggi, vanno all’arte contemporanea, noi invece riteniamo importante impiegarli nella conservazione dei prodotti di alta qualità dell’arte del passato. Scegliamo i progetti piú importanti dal punto di vista del prestigio storico, artistico e architettonico». Quali altri progetti di intervento su opere d’arte avete finanziato in questi anni? «Nello scorso dicembre abbiamo inaugurato il restauro degli stucchi del I secolo d.C. che si trovano nella Basilica sotterranea di Porta Maggiore a Roma, a 9 m di profondità: un esempio unico dell’arte romana, ma poco conosciuto. Si tratta di un monumento scoperto per caso nel 1917: gli archeologi ne attribuiscono la costruzione a un senatore romano, Tito Statilio Toro, messo a morte sotto l’imperatore Claudio nel 53, poiché accusato, tra l’altro, di “credenze magiche”. Gli affreschi restituiscono un complesso programma iconografico, sviluppato nelle tre navate, nella volta e nell’atrio di questo edificio sotterraneo, il primo che presenti lo schema adottato successivamente per le basiliche cristiane. La struttura intatta, la raffinatezza del pavimento a mosaico bianco e nero e la ricchezza della decorazione a stucco bianco e policromo rendono la Basilica di Porta Maggiore il piú grandioso corpus decorativo di stucchi risalente al periodo imperiale. Ma abbiamo finanziato anche monumenti lontani nel tempo e nello spazio, come il monumento della secessione a Vienna, costruito dell’architetto Joseph Maria Olbricht e ispirato a Otto Wagner e Gustav Klimt, una delle opere piú importanti del Novecento viennese». In che modo si viene «ripagati» dall’investire nella cultura? «Finanziare la cultura vuol dire aiutare l’umanità: è un beneficio spirituale e intellettuale, non economico. Il nostro, infatti, non è un “investimento”, ma un sostegno all’arte. Il ritorno è unicamente a livello morale».


gestire i fondi internazionali per la protezione dei beni in caso di conflitto armato. I firmatari dovrebbero agire immediatamente contro ogni atto contrario agli accordi, ma la mobilitazione deve precedere ogni azione minacciata, perché condannarle dopo non servirebbe a nulla. Tutti gli Stati firmatari della Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, tra cui gli stessi USA, in forza di tale sottoscrizione, sono tenuti al rispetto dei principi in essa contenuti. Perciò devono battersi collegialmente per la salvaguardia di monumenti che sono parte dell’essenza dell’umanità. I beni archeologici sono un patrimonio sovraindividuale e sovranazionale che, per il suo contenuto universale, travalica la storia e le nazioni. Agire per la distruzione di tali opere significa abdicare alla nostra stessa dignità culturale, disconoscere i traguardi intellettuali ereditati dall’illuminismo e la moderna concezione della storia, per tornare al livello di antichi barbari e metterci sullo stesso piano di coloro che oggi dichiariamo di combattere. Distruggere il patrimonio culturale è un crimine contro l’umanità. Dopo aver assistito alla distruzione di siti archeologici nello Yemen, in Siria, in Iraq, a Palmira, Mosul, Homs, Hatra, Tikrit, Bamyan e Nimrud, non possia-

Due immagini di un rilievo con il dio Ahura Mazda in forma di genio alato scolpito sulla porta Est del Tripylon.

mo aggiungere alla lista altri siti distrutti in Iran per mano nostra. È inimmaginabile che il popolo americano possa volere o semplicemente accettare questa prospettiva. Non tenere conto del valore universale del patrimonio culturale, che va al di là dei conflitti tra persone, popoli, nazioni o gruppi di potere, è un atto nichilistico, cieco e autolesionistico». Per informazioni: www.restauratorisenzafrontiere.com

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

SULLE TRACCE DEI CROCIATI UNIVERSALMENTE NOTO PER LE GESTA COMPIUTE AL FIANCO DEL POPOLO ARABO, THOMAS EDWARD LAWRENCE EBBE UN MENO CONOSCIUTO, MA BRILLANTE, PASSATO DA... ARCHEOLOGO MEDIEVALE

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homas Edward Lawrence nasce il 16 agosto del 1888, in Galles. Poi la sua famiglia si trasferisce a Oxford, dove Thomas si mostra da subito un ragazzo non comune, che coltiva un hobby molto raro. È particolarmente interessato al Medioevo, e uno dei suoi passatempi preferiti è il brass rubbing: ricalca su carta le sculture in ottone tipiche delle tombe medievali della Gran Bretagna, i bassorilievi che ritraggono il morto mentre giace sul coperchio della sepoltura. Questa, per lui, è una vera passione: andare per chiese a cercare sculture medievali da ricalcare. Nel 1908, al termine del primo anno di università, Lawrence si tuffa in una esperienza che si rivela esaltante, una vera sfida. Tra luglio e settembre, attraversa in bicicletta la Francia: un viaggio

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In alto: Thomas Edward Lawrence come «Lawrence d’Arabia». In basso: Siria. Il Krak dei Cavalieri, che, nel 1142, fu ceduto agli Ospitalieri dal conte Raimondo II di Tripoli.

lunghissimo, di quasi 4000 chilometri! Lo scopo è visitare il maggior numero possibile di monumenti medievali, in previsione della scrittura di una tesi sulla storia e le architetture militari del Medioevo. È un tour de force: Lawrence corre a perdifiato da un castello all’altro, e da una basilica all’altra, sembra impazzito. Ma se guardiamo da vicino il suo itinerario, ci accorgiamo che questo giovane studente molto entusiasta, apparentemente partito un po’ all’arrembaggio, a cavallo della sua bicicletta sta invece facendo qualcosa di molto sistematico. Le tappe sono: la città di Carcassonne, con le sue mura medievali quasi integre; Vézelay, con la sua basilica; Arles; Chartres. L’itinerario di Lawrence è molto orientato sulle tracce del Medioevo monumentale francese, e in


Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas

particolare di quello ottimamente studiato, disegnato e poi ripristinato dal grande architetto-restauratore Eugène Emmanuel Viollet-Le-Duc (1814-1879). Evidentemente Lawrence conosce bene il panorama degli studi sull’architettura medievale, e vuole documentarsi di persona, seguendo le orme di una guida illustre. Poi è la volta dell’Oriente. Nel luglio del 1909, Thomas sbarca a Beirut e inizia un viaggio sulle tracce dei crociati. Oltrepassa il confine del Libano ed entra in Palestina, dove inizia a documentare i castelli. Il viaggio si protrae nei mesi di agosto e settembre. Lawrence raggiunge presto la fortezza chiamata Kalaat el-Hosn, cioè il famoso Krak des Chevaliers, costruito dall’Ordine degli Ospedalieri verso la fine del XII secolo. Ne rimane incantato, e scrive: «È il miglior castello del mondo, il piú pittoresco che io abbia mai visto – veramente straordinario».

UN LAVORO MINUZIOSO Per ogni castello che visita, Lawrence prende appunti, fa una descrizione, scatta fotografie, ne disegna la pianta e schizzi molto dettagliati. Tutto il lavoro svolto in quel viaggio confluirà poi nella sua tesi, intitolata «L’influenza dei Crociati sull’architettura militare europea, fino alla fine del XII secolo». E anche quest’opera è una sfida: Lawrence, da solo, si oppone per tutto il testo alla visione dominante degli studiosi di allora, e cioè che gli architetti occidentali avessero copiato l’architettura crociata, importandola in Europa. A suo giudizio, infatti, accadde l’esatto contrario: i castelli crociati in Siria seguivano canoni prettamente occidentali. E dunque, per lui l’importazione dei modelli architettonici militari sarebbe avvenuta dall’Occidente all’Oriente, e non viceversa.

Un ritratto di Lawrence d’Arabia scolpito nella roccia nell’area del deserto dello Wadi Rum, in Giordania. Oggi sappiamo che il quadro è piú articolato rispetto a queste visioni contrapposte e molto schematiche. C’è del vero nell’una e nell’altra posizione, ma una cosa è certa: Lawrence ci ha fornito fotografie e disegni di monumenti che poi sono stati danneggiati, che sono in parte crollati o sono stati restaurati. E quindi la sua è una documentazione unica, che ci mostra lo stato di conservazione di quel patrimonio piú di cento anni fa. E poi, aggiungerei un’altra considerazione: Lawrence qui sta facendo qualcosa di tutt’altro che scontato. Sta praticando l’archeologia medievale, cioè una disciplina che ancora non esiste ufficialmente in alcun Paese d’Europa, e per di piú in lo fa in

Paesi non europei. E mentre la maggior parte degli archeologi del Vecchio Continente si dedica al mondo classico, o alle grandi civiltà dell’Egitto o della Mesopotamia, lui mette in gioco la sua passione per il Medioevo e la traduce in un approccio di tipo archeologico. Non è poco, ed è quasi isolato in questa sua idea. E qui si mostra molto lungimirante rispetto al suo tempo, non c’è che dire. L’esperienza dei castelli crociati lasciò sicuramente un segno molto forte in Lawrence, che poi dedicò all’Oriente la maggior parte della sua vita, in altre vesti. Lí guiderà la rivolta degli Arabi contro l’impero ottomano, e lí si guadagnerà il soprannome «Lawrence d’Arabia», con cui è passato alla storia.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

UNA FAMIGLIA TUTTA D’ORO DI ALESSANDRO, ESPONENTE PIÚ CELEBRE DELLA DINASTIA MACEDONE, POSSEDIAMO UN NUMERO INFINITO DI RITRATTI. MENTRE PIÚ SFUGGENTI SONO LE FISIONOMIE DEI SUOI PUR ILLUSTRI ANTENATI

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ilippo II di Macedonia dovette certamente eternare in ritratti e gruppi statuari la propria famiglia e la discendenza destinata a succedergli, ovvero Alessandro III, non avendo altri eredi legittimi che potessero concorrere al trono. Come già ricordato (vedi «Archeo» n. 426, agosto 2020; anche on line su issuu.com), Filippo fece innalzare nel santuario di Olimpia il suo monumento dinastico, il Philippeion, dedicato a Zeus dopo la vittoriosa battaglia di Cheronea nel 338 a.C. Il tempio dinastico, a tholos, con un diametro complessivo di 15 m, aveva un colonnato esterno formato da diciotto colonne ioniche e, all’interno, nove colonne corinzie; sulla sommità vi era un papavero di bronzo legato alle travi. All’interno si trovavano le statue crisoelefantine del re, della terza moglie Olimpiade e del figlio Alessandro, nonché di Aminta III e di Euridice I di Macedonia, genitori di Filippo, opere dello scultore ateniese Leocare (Pausania, Periegesi, V, 20, 4). Una breve parentesi sulla vita matrimoniale di Filippo II: grazie a un frammento della Vita di Filippo redatta nel III secolo a.C. dal biografo e filosofo Satiro di Callati, detto anche il Peripatetico, e giunta a noi tramite un altro piú tardo scrittore (Ateneo, 13, 557b-d), sappiamo che nei suoi 24 anni di

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antichi e da una piú che nutrita serie di riproduzioni su ogni tipo di supporto e materiale – dalle gemme alle statue –, quelle dei suoi genitori sono ignote e soltanto di ricostruzione antiquaria, realizzate in età antica come in quella moderna. Il massimo esempio di ritratto idealizzato antico della famiglia imperiale al completo si può ricostruire affiancando tra loro i volti apposti sui magnifici medaglioni d’oro ritrovati tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del successivo nei tesori di Tarso e Abukir, datati intorno al III secolo d.C. Questi medaglioni sono probabilmente Nikéteria, cioè premi offerti, alla presenza dell’imperatore, ai vincitori di giochi olimpici e di altre gare di eguale prestigio.

ALESSANDROMANIA

regno Filippo II ebbe sette donne (cinque mogli e due concubine) e generò vari figli, maschi e femmine, dei quali prevalse il solo Alessandro. Se il volto di quest’ultimo è ben noto dalla descrizione che ne fanno gli autori

Il tesoro di Tarso, in Cilicia, era formato, tra l’altro, da un medaglione di Severo Alessandro (222-235 d.C.) e da tre splendidi esemplari con i ritratti di Alessandro (due) e Filippo II (uno). Il tesoro di Abukir, ritrovato in Alto Egitto e la cui autenticità è tuttora discussa, si compone di 20 magnifici esemplari con i ritratti di Alessandro e della madre Olimpiade. Fra di essi vi è anche un esemplare con un aggressivo busto di Caracalla in armi al dritto e, al rovescio, Alessandro che combatte, nella


A sinistra: niketerion (medaglione in oro dato in premio a vincitori di gare o giochi) con la probabile immagine di Filippo II di Macedonia, dal tesoro di Tarso. III sec. d.C. circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto: niketerion con la testa di Alessandro cinta dalle corna di Ammone, dal Tesoro di Abukir. III sec. d.C. circa. Lisbona, Calouste Gulbenkian Museum.

consueta e impari caccia reale, con un leone. La presenza di Caracalla non sorprende, in quanto è ben nota la cosiddetta «alessandromania» dell’imperatore (come di molti potenti prima di lui), che lo portò a improntare molte sue scelte politiche, pubbliche, militari e perfino vestimentarie all’imitazione del Macedone, tanto da considerarsi una reincarnazione di Alessandro. Nelle campagne partiche propose al re Artabano V, prima di intraprendere la battaglia, di sposarne la figlia, cosí come Alessandro aveva sposato la figlia Dario III, Statira (Erodiano, Storia dell’impero dopo Marco Aurelio, IV, 10.1-3). Il matrimonio andò a vuoto, ne seguí una sanguinosa guerra che vide i Romani vittoriosi, e

Caracalla ottenne il titolo di Partichus, nel 216, per poi essere ucciso in una congiura a Carre l’anno seguente.

BARBA E CORAZZA Tra i volti sugli esemplari di Tarso e quelli sui pezzi di Abukir si possono scegliere i «ritratti» di Alessandro resi secondo tutte le tipologie note: elmato, patetico, di tre quarti, con le corna del dio Ammone. Filippo, del quale non esistono effigi attribuibili con assoluta certezza, è raffigurato con folta barba e corazza; a tal proposito va ricordato come le fonti letterarie raccontino che Alessandro fu il primo condottiero a imporre ai suoi uomini di radersi la barba, segno che prima era uso

lasciarsela crescere, come probabilmente faceva il padre (Plutarco, Teseo, 5,5). Infine compare il volto e/o il busto di Olimpiade, con un profilo affinato e ideale, la capigliatura fluente raccolta in un fazzoletto che le lascia scoperta la fronte e dal quale fuoriescono, sulla nuca, lunghe ciocche lisce. Alla base del collo si vede o una collana o l’attacco della veste, trattenuta da un bottone. Nulla ricorda, in questa immagine semidivina, la ribollente natura della regina e la sua familiarità con i serpenti che tanto timore incuteva anche al marito, e qui significativamente accennata dal piccolo scettro sul quale si avvolge, leggiadro, un delicato serpentello.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Federica Giacobello

MITO E SOCIETÀ Vasi apuli a figure rosse da Ruvo di Puglia al Museo Archeologico Nazionale di Napoli All’Insegna del Giglio, 342 pp., ill. b/n e col. 52,00 euro ISBN 978-88-7814-980-9 www.insegnadelgiglio.it

Docente di archeologia classica presso l’Università Statale degli Studi di Milano, Federica Giacobello è da anni impegnata nello studio della ceramica apula. Ora, nell’ambito di un progetto realizzato in sinergia con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (prefazione di Paolo Giulierini) e mirato a valorizzare la prestigiosa «Collezione Magna Grecia», presenta alla comunità scientifica una complessa indagine di lettura dei vasi apuli a figure rosse presenti nel museo e provenienti da Ruvo di Puglia, florido centro peuceta che, con i suoi ritrovamenti, fu tra i protagonisti del vivace mercato d’antichità ottocentesco. Le preziose forme ceramiche ruvesi furono infatti immesse nel Real Museo Borbonico tra la fine del Settecento e soprattutto nell’Ottocento, attraverso differenti acquisizioni, al fine di arricchirne le collezioni che portarono alla stessa istituzione del museo: 143 gli esemplari di ceramica 114 a r c h e o

italiota presentati nel catalogo, organizzato su base cronologica e per officine, alcuni dei quali già noti al pubblico, ma in molti altri casi parzialmente o del tutto inediti. Per ogni vaso, si è tracciato un quadro completo articolato attraverso singole voci, grazie alle quali il reperto è stato analizzato nelle sue caratteristiche tecniche, produttive, iconografiche e iconologiche, non trascurando importanti informazioni relative agli aspetti conservativi e di musealizzazione. Provenienti dai ricchi corredi funerari delle necropoli intercettate fin dal XIX secolo nel territorio comunale di Ruvo di Puglia, questi vasi costituivano forti simboli di status con cui l’élite ruvestina affermava il proprio ruolo all’interno della società: l’indagine dell’autrice si è pertanto focalizzata soprattutto sulle raffigurazioni e sulle scene dei miti rappresentati, che costituiscono un

linguaggio condiviso della società magno-greca, fatto di schemi in grado di veicolare valori capaci di trasmetterci diversi aspetti ideologici delle comunità apule vissute tra V e IV secolo a.C. Giampiero Galasso AA.VV:

STORIA DEI MEDITERRANEI Città, porti e scambi tra l’età antica e la modernità Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 288 pp.,ill. b/n 20,00 euro ISBN 978-88-99168-47-6 www.edizionidistoria.com

Il progetto editoriale Storia dei Mediterranei si arricchisce di un nuovo tassello, questa volta dedicato al tema dei porti e al ruolo che essi hanno avuto nella fitta rete di rapporti sviluppati dalle popolazioni orbitanti nell’area del mare nostrum. Occorre precisare che l’opera è di taglio diacronico e dunque spazia da situazioni antiche a realtà moderne e contemporanee.

I contributi ascrivibili all’ambito che risulterà dunque di maggior interesse per i lettori di «Archeo» sono quelli che aprono la raccolta e l’esordio è affidato a Stefano Medas. La sua trattazione si concentra su una delle grandi potenze del Mediterraneo antico, vale a dire Cartagine, alcuni dei cui scali piú importanti sono documentati anche archeologicamente, sebbene – come spiega l’autore – siano ancora da chiarire vari dettagli sull’organizzazione di tali infrastrutture. Strettamente legata ai porti era l’organizzazione della marineria, e, nel caso specifico, delle flotte militari, che costituiscono il secondo argomento portante del saggio. Quasi come un naturale complemento, il successivo contributo di Carlo Ruta ripercorre la lunga vicenda della rivalità che oppose Cartagine a Roma, ma che viene giustamente definita «imperfetta», dal momento che, nel tempo, le due grandi città non furono soltanto rivali. Flavio Enei si fa invece carico di tratteggiare un quadro geografico dell’antico Mediterraneo: un’operazione che, vista la sede, è naturalmente proposta nei suoi aspetti piú importanti ed essenziali, rimandando ulteriori approfondimenti alla vasta e aggiornata bibliografia. Stefano Mammini




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