2020 VITTORIA ALATA DONNE NELL’ANTICHITÀ
LA DONNA NEL MONDO ANTICO
IL POTERE DEL SILENZIO BRESCIA
ETRUSCHI IN GIAPPONE BARBARI SPECIALE I MISTERI DI ZHOB
Mens. Anno XXXV n. 429 novembre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
NUOVA VITA PER LA
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ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI
DALLA PARTE DEI BARBARI GIAPPONE
QUELLA STRANA PASSIONE PER GLI ETRUSCHI SPECIALE
I MISTERI DELLA VALLE DI ZHOB
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IN EDICOLA IL 10 NOVEMBRE 2020
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EDITORIALE
IL RITORNO DI ATTILA Se non altro per il silenzio stampa imposto per due settimane, la notizia di una serie di attentati «iconoclasti» avvenuti il 3 ottobre scorso in tre dei piú importanti musei di Berlino merita attenzione. Ma vediamo i fatti: il celebre Pergamon Museum, situato al centro dell’Isola dei Musei della capitale tedesca, era stato appena riaperto (dopo mesi di chiusura dovuti all’emergenza sanitaria), quando una o piú mani ignote ne hanno percorso le sale, imbrattando una settantina di oggetti esposti con un non meglio identificato liquido oleoso. Il tutto in pieno giorno e senza che nessuno, tra visitatori e personale di sorveglianza, se ne sia accorto. Tra le vittime piú illustri cosparse delle micidiali macchie figurano la grande statua in basalto di un rapace da Tell Halaf (I millennio a.C) e il sarcofago in pietra calcarea cosiddetto «del profeta Amose», di epoca tolemaica (seconda metà del IV secolo a.C.). Ora, anche se il danno arrecato ai reperti non è gravissimo e neanche irreversibile, il misfatto ha suscitato forte preoccupazione tra i responsabili scientifici (i musei colpiti – il Pergamon Museum, il Neues Museum e la Alte Nationalgalerie – sono gestiti dalla Fondazione del patrimonio culturale prussiano, un’istituzione dipendente dal Ministero della Cultura della Germania) e tra le stesse autorità comunali. Sia per le modalità con cui si è svolto, sia per la sua entità (si tratta di «uno dei maggiori attentati iconoclastici nella Germania del dopoguerra», recita un articolo dell’autorevole settimanale Die Zeit), ma anche per un altro aspetto inquietante: l’aggressione ai musei berlinesi si è svolta nel giorno in cui si celebra l’unità tedesca, una ricorrenza dal forte valore simbolico. Fino a oggi, nessuno ha rivendicato l’azione e altrettanto misteriose rimangono le motivazioni che possono averla indotta. Eppure qualche sospetto si fa strada e nel mirino delle indagini sono finite le deliranti esternazioni in rete di un noto teorico complottista di estrema destra (e negazionista del Coronavirus) che, nella scorsa estate, avevano avuto come oggetto proprio il Pergamon Museum. In esse, il piú celebre monumento conservato nel Museo che da esso prende il nome – il Grande Altare di Pergamo – viene definito come «trono di Satana e centro della scena satanista globale e dei criminali del Coronavirus». E, in un post del 23 agosto, invoca la distruzione del capolavoro ellenistico, «fonte di ogni male sulla terra». Chissà quale nefasto cortocircuito mentale ha portato alle astruse (e pericolose) associazioni espresse dal sinistro personaggio. Il cui nome, forse non del tutto a caso, è «Attila» Hildmann (vedi anche a p. 82). Infine, un avviso ai lettori: l’emergenza Covid che tanto accende la fantasia di complottisti e negazionisti ha, purtroppo, colpito anche la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. La manifestazione, che da 22 anni si tiene a Paestum e di cui «Archeo» è media partner, non potrà svolgersi nel periodo previsto (19-22 novembre). Verrà, invece, posticipata, lasciando immutato il programma, alla primavera del 2021, dall’8 all’11 aprile. Andreas M. Steiner Il Grande Altare di Pergamo ricostruito all’interno del Pergamon Museum di Berlino.
SOMMARIO EDITORIALE
Il ritorno di Attila
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
6
SCAVI Torna alla luce, ad Aquileia, un tratto della strada che un tempo conduceva alle regioni del Nord, offrendo nuovi dati sull’assetto topografico della città 6
PAROLA D’ARCHEOLOGO L’Italia ha ratificato la Convenzione di Faro: un passo importante per il coinvolgimento dei cittadini nella tutela del patrimonio 18
Poche parole e molti sguardi...
42
intervista a Corrado Petrocelli, a cura di Silvia Camisasca
LA DEMOCRAZIA NEL CUORE L’evoluzione del diritto
26
di Louis Godart
RESTAURI
La piú bella di tutte
30
di Cristina Ferrari
IN DIRETTA DA VULCI Le indagini condotte sulle tombe etrusche di Vulci vedono coinvolti, oltre agli archeologi, anche gli antropologi. Il cui contributo è decisivo per ricostruire l’identità e lo stile di vita dei defunti 12 A TUTTO CAMPO Sulle tavole di Etruschi e Romani si gustava frutta a volontà, come confermano le indagini condotte da archeologi e paleobotanici 14
L’INTERVISTA
42 ESCLUSIVA
Troppo etruschi per essere veri...
56
di Stephan Steingräber
56
30
In copertina la Vittoria Alata di Brescia, statua bronzea databile alla metà del I sec. d.C.
Presidente
Federico Curti Anno XXXVI, n. 429 - novembre 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Comitato Scientifico Internazionale
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Italiano
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Silvia Camisasca è giornalista. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Stephan Steingräber è professore associato di etruscologia e antichità italiche all’Università degli Studi Roma Tre. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche all’Università degli Studi di Siena.
72 ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/5 Dalla parte dei barbari
72
di Umberto Livadiotti
SPECIALE
MOSTRE
Quando Raffaello prese carta e penna... di Giuseppe M. Della Fina
96 I misteri della valle di Zhob
96
di Massimo Vidale
86
Rubriche
LIBRI
114
SCAVARE IL MEDIOEVO
Mediatori di civiltà 110 di Andrea Augenti
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
86
Dalla peste ci scampi il Cavaliere! 112 di Francesca Ceci
Illustrazioni e immagini: Archivio fotografico Musei Brescia: copertina (e p. 30) – Doc. red.: pp. 3, 18-20, 44, 49, 50, 52-53, 73, 74, 81, 82, 84, 94-95, 112 (alto), 113 – Cortesia SABAP del Friuli-Venezia Giulia: pp. 6-7 – Cortesia SABAP Ravenna: p. 8 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 12-13 – Archivio UniSiena: Andrea Zifferero: pp. 14, 15 (alto) – da: A.M. Esposito (a cura di), Principi guerrieri. La necropoli etrusca di Casale Marittimo, Milano 1999: p. 15 (centro) – Cortesia Collezione Archeologica Faldetta, Brindisi: pp. 16-17 – Mondadori Portfolio: Electa/Paolo e Federico Manusardi: pp. 26/27; Album/Oronoz: p. 28; Album: pp. 46/47; AKG Images: p. 72; Album/Fine Art Images: p. 76 (alto); Erich Lessing/Album: p. 83 – Archivio fotografico dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze: pp. 31, 33, 34-39 – Cortesia Renato Corsini-Ma.Co.F. Brescia: p. 32 – Bridgeman Images: p. 43 – Shutterstock: pp. 54/55, 76 (basso), 77, 78, 112 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 56-57, 59, 61, 62-63, 66/67, 70 (alto), 110-111 – Archivio Miho Museum, Shigaraki: p. 58 (alto) – Archivio Matsuoka Museum, Tokyo: p. 58 (basso) – Archivio Bridgestone Museum, Tokyo: p. 60/61 – Archivio Ancient Mediterranean Museum, Tokyo: pp. 64-65 – Archivio Silk Road Museum, Hokuto (Yamanashi): pp. 68-69 – Archivio Kyoto Kitazonocho Greek and Roman Museum, Kyoto: p. 70 (basso) – Musée national suisse, Zurigo: p. 79 – Cortesia Ufficio Stampa Electa: pp. 86-93 – Cortesia Federica Aghadian: pp. 96-97, 98, 98/99, 99, 102-109 – Cortesia Edoardo Loliva: pp. 100/101 – Cippigraphix: cartine alle pp. 74/75, 99. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCAVI Friuli-Venezia Giulia
SULLA STRADA PER L’AUSTRIA
U
n nuovo tratto della viabilità principale di epoca romana è stato messo in luce ad Aquileia (Udine), in via Giulia Augusta, all’estremità settentrionale della città romana. In seguito all’individuazione di alcuni basoli in pietra calcarea di varie dimensioni e forma, appartenenti a un tratto della strada romana convenzionalmente denominata «Iulia Augusta» – asse portante di un sistema viario che attraversava le Alpi nel settore orientale – si è deciso di ampliare e approfondire l’indagine archeologica, cogliendo l’occasione per rilevare e posizionare nella topografia della colonia romana di Aquileia, con maggiore
6 archeo
In questa pagina: un’immagine di dettaglio e una veduta generale del tratto della cosiddetta via Iulia Augusta riportato alla luce ad Aquileia. Nella pagina accanto: frammenti di anfore adriatiche recanti bolli sui quali si possono leggere i nomi di Alex e Philip.
certezza rispetto al passato, il margine orientale della strada che attraversava l’impianto urbano con le funzioni di cardine massimo. Finora, infatti, il tracciato stradale che da Aquileia conduceva verso nord, nella provincia del Noricum (attuale Austria) e, attraverso il Passo di Monte Croce Carnico, raggiungeva a ovest la città di Aguntum (Lienz) e a est Virunum (Klagenfurt), era stato intercettato in piú punti, ma senza mai poterne definire almeno uno dei limiti e quindi l’effettiva larghezza, considerato anche che il margine occidentale corre al di sotto dell’attuale strada regionale 52. Il nuovo ritrovamento riveste
quindi particolare importanza nella ricostruzione della viabilità generale del territorio nell’antichità. «In una seconda fase, le indagini si sono concentrate su una fascia immediatamente a est dello scavo – spiega Paola Ventura, funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP Friuli – dove le strutture antiche di canalizzazione, forse interpretabili come tratti di fognatura o acquedotto, risultano compromesse da una fossa di spoliazione, scavata in antico per ricavare materiale edilizio. Il consistente strato di riporto qui messo in luce è riconducibile a una massiccia opera di bonifica finalizzata all’urbanizzazione del settore settentrionale di Aquileia, già individuata in occasione di precedenti indagini e datata a una fase precoce della colonia (inizi del I secolo a.C.): lo provano i materiali ceramici di età repubblicana, simili ad altri rinvenuti, per esempio, nei livelli piú antichi del macellum a nord del Foro, fra cui spiccano due bolli di anfore adriatiche sui quali si leggono i nomi Alex e Philip. In un tratto di trincea ancora piú a oriente sono invece emersi i resti di alcuni spazi abitativi o botteghe, riferibili all’epoca tardoimperiale. Interessante è la presenza di un piano di malta, interpretabile come preparazione del pavimento vero e proprio. Anche in questo caso le strutture risultano compromesse da una
manomissione avvenuta ancora in età tardo-antica o altomedievale, come suggerisce l’abbondante materiale ceramico presente nel riempimento della fossa». Per tutto il periodo delle indagini, il cantiere di scavo si è trasformato anche in un’attrazione per i molti turisti che percorrono il collegamento ciclabile piú suggestivo d’Europa, evitando il disagio dovuto al rallentamento della viabilità sull’asse dell’Alpen Adria, grazie alla collaborazione fra Soprintendenza, Enel e Comune di Aquileia. Lo scavo è stato condotto nel quadro dell’ordinaria sorveglianza archeologica svolta dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia in occasione dei lavori effettuati da E-Distribuzione. Giampiero Galasso
archeo 7
n otiz iario
SCAVI Emilia-Romagna
SUL FIUME DEL DADO
S
cavi sistematici ultimati di recente a Gatteo (ForlíCesena) hanno rivelato la presenza di un sito complesso e articolato, frequentato tra la protostoria e l’età romana imperiale, caratterizzato da un importante patrimonio archeologico. «Il sito – spiega Annalisa Pozzi, funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Ravenna e responsabile scientifico del progetto di scavo – pare porsi in stretta connessione con la rete itineraria, in cui probabilmente costituiva un punto di superamento del fiume Rubicone, e in relazione alla quale lo scavo ha documentato un asse viario, che collegava la costa verso l’interno. Tali percorsi, che costituivano elementi di attrazione e poli aggreganti in funzione della circolazione di beni e persone, dovevano essere attivi fin dall’epoca pre-protostorica, per essere poi ripresi in epoca romana. Durante le indagini, è emerso un piccolo nucleo di sei tombe a cremazione, databili tra la fine dell’VIII e la prima metà del VII secolo a.C., probabilmente riferibile a un gruppo familiare di alto rango, che detenne il controllo di questo settore almeno per tre generazioni. I corredi mostrano strette analogie
con la documentazione archeologica di Verucchio, celebre centro egemonico etrusco che, durante tutta la prima età del Ferro, controllava un ampio comprensorio territoriale imperniato sulla valle del Marecchia, ma che si estendeva anche alle vallate vicine. In prossimità delle tombe è stato poi individuato un esteso abitato, che ha restituito tracce di attività economico-produttive, legate alla filatura, alla realizzazione di vasellame ceramico e alla lavorazione delle pelli. Quest’ultima, a cui sono riferibili pozzi, vasche per l’immersione e dispositivi per l’affumicatura, sembrerebbe costituire una specializzazione dell’intero insediamento. Con il passaggio all’età romana, la strada protostorica viene riorganizzata e, in corrispondenza del punto in cui era attraversata da una viabilità minore, è emerso un presidio a carattere militare composto da due caserme affiancate da una torretta lignea. L’inserimento del tracciato viario nel contesto topografico di età romana ha permesso di constatare che questo asse collegava Rubico flumen, sulla via Popilia, alla stazione di Ad Confluentes/ Competu (odierna San Giovanni in Compito) sulla via Emilia, Gatteo (ForlíCesena). Foto aerea di un settore dell’abitato con le strutture produttive.
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definendo cosí un vero e proprio limes tra i due siti, posti alla distanza di 12 miglia da Ariminum. Sulla stessa direttrice, ma circa 450 m piú a sud-ovest, a partire dall’età augustea prende forma un acquartieramento di edifici, compreso entro due poderose palizzate che si congiungono tra loro, e organizzato attorno a una corte centrale che si sviluppa oltre i limiti dell’area di scavo». «I confronti planimetrici – conclude Cristian Tassinari, archeologo responsabile di scavo per la Tecne srl – rimandano all’area balcanica, soprattutto ai forti del limes danubiano, ma si possono rintracciare corrispondenze dal punto di vista strutturale e costruttivo in numerosi insediamenti militari in cui siano stati condotti sondaggi e approfondimenti nei livelli di età giulio-claudia. Dalla fine del I secolo d.C., infatti, quasi tutti gli accampamenti romani stabili si riorganizzano in forme architettoniche piú solide, cosa che invece non avviene nel nostro caso, in cui il legno continua a essere utilizzato come materiale costruttivo fino alle ultime fasi di vita del sito, nel VI secolo d.C. L’area ha restituito anche abbondanti testimonianze materiali delle attività economiche connesse alla stazione militare, soprattutto in relazione all’approvvigionamento di vino e grano, ma non mancano gli oggetti in metallo relativi all’abbigliamento dei soldati». L’intervento è stato condotto nell’ambito della realizzazione di un Polo Logistico all’interno di un Piano Particolareggiato di Iniziativa Privata e in prossimità del casello autostradale A14 «Valle del Rubicone». G. G.
METTI UNA PRIMAVERA A PAESTUM
I
l Sindaco di Capaccio Paestum, il Direttore del Parco Archeologico di Paestum e il Direttore della Borsa, avendo constatato che non c’erano le condizioni per svolgere la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico dal 19 al 22 novembre 2020, per assicurare a tutti i protagonisti sicurezza e soddisfazione, hanno ritenuto di non annullare la XXIII edizione, ma di posticiparla da giovedí 8 a domenica 11 aprile 2021, lasciando immutato il programma anche negli orari, come già da tempo pubblicato. La decisione è stata presa nel rispetto dei 100 espositori che con il loro investimento qualificano il Salone, dei 250 relatori che con la loro partecipazione contribuiscono al programma scientifico, dei buyer e degli operatori turistici che danno vita all’incontro tra la domanda e l’offerta, dei giornalisti e dei media partner che ne assicurano il riscontro mediatico, dei partner istituzionali e delle prestigiose realtà che collaborano e patrocinano, consentendo la migliore realizzazione della BMTA. La nuova data consentirà anche ai tanti visitatori e addetti ai lavori di vivere Paestum e la bellezza del Parco Archeologico, sito UNESCO, con i colori della primavera, che siamo certi sancirà la definitiva ripartenza del nostro Bel Paese e del turismo in chiave piú esperienziale e sostenibile, oltre che rivolto alla domanda di prossimità, tematiche tutte a cui la Borsa si è ispirata in questa edizione. Infatti, protagonista sarà il turismo culturale all’insegna dell’esperienza unica e autentica, nonostante l’aspetto esperienziale sia già di per sé alla base dell’offerta. Oggi piú che mai, infatti, qualsiasi offerta deve avere i caratteri della sostenibilità, che come si evince dal ricco programma, è l’altro tema importante di questa edizione. Dunque, un nuovo modo di proporre e vivere il turismo, oltre all’invito ad aumentare gli standard di qualità, al rinnovamento e all’adeguamento delle strutture. «In quest’anno da dimenticare Paestum con la sua BMTA rappresenta la ripartenza del turismo archeologico», ha dichiarato il Fondatore e Direttore della BMTA Ugo Picarelli. Oltre alla presenza di new entry come Roma Capitale, Provincia di Trento, Visit Brescia, Visit Emilia e Fondazione Vulci, registriamo le conferme del MiBACT, del Parco Archeologico del Colosseo, di Automobile Club d’Italia, della Regione Siciliana, di Visit Romagna. Nella Conferenza «I parchi per la valorizzazione del patrimonio archeologico in chiave piú esperienziale
e sostenibile» si discuterà sulla valorizzazione dei territori, che deve essere improntata da una governance sostenibile. In questo contesto Federparchi, Automobile Club d’Italia, Confagricoltura, Legambiente, Touring Club Italiano condividono la necessità di pensare anche una mobilità contemporanea, che guardi al prossimo futuro e che integri l’automobile con i nuovi mezzi di trasporto e con l’innovazione sostenibile. Avendo ACI già sperimentato progetti che trovano il miglior equilibrio possibile tra auto e natura, proprio in quest’ottica, le vetture citycar 100% elettriche all’interno dei Parchi Nazionali, partendo con un progetto proprio nel nostro Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni potrebbero rappresentare un progetto itinerante di educazione alla eco-sostenibilità. Nella Conferenza «Il treno storico per la connessione territoriale delle destinazioni archeologiche» viene presentata una nuova forma di turismo, che permetta al viaggiatore di percorrere il nostro Paese in modo sostenibile e lungo le tratte storiche delle ferrovie, ammirando paesaggi magnifici e toccando località di struggente bellezza. Esistono 800 chilometri di tratte ferroviarie in disuso e abbandonate, che attraversano parchi nazionali, aree protette e territori densi di storia e cultura. I treni rappresentano l’antico progresso, la produttività e la connessione tra tutti i piccoli territori che attraversano e puntando i riflettori sulle ferrovie turistiche, in particolare quelle storiche, i viaggiatori possono riscoprire un patrimonio immenso, fatto di antichi tracciati, gallerie e vecchi convogli che rievocano il passato del nostro Paese. Per info: www.bmta.it
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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
INCONTRI Paestum
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
IN FUGA CON I GIOIELLI NEL SEGNO DELLA BELLEZZA E DELL’ELEGANZA, MOLTI SONO I TEMI AFFRONTATI DALLA MOSTRA «VENUSTAS». FRA QUESTI, UNO DEI PIÚ STRUGGENTI È SENZ’ALTRO LA TRISTE SORTE DI CHI, INCALZATO DALL’ERUZIONE, CERCÒ DI SALVARE I SUOI BENI PIÚ PREZIOSI
T
orniamo a parlare della mostra «Venustas», in corso nella Palestra Grande di Pompei, che offre uno spaccato sulla gioia che la bellezza e l’eleganza hanno trasmesso alle antiche popolazioni dell’area vesuviana. Felicità tradotta in un’eloquente serie di oggetti personali e strumenti ritrovati nei maggiori siti archeologici del territorio pompeiano, fino a quando il Vesuvio non scatenò la sua furia. Pompei, in particolare, restituisce alcuni contesti estremamente rappresentativi del tema toccato dall’esposizione. Dall’armadio posto nell’atrio della Casa di Helvius Severus (I 13,2) proviene una delle piú nutrite collezioni pompeiane di strumenti femminili. Aghi crinali e pettini per la cura dei capelli, specchi ed elementi per preparare e maneggiare sostanze medicocosmetiche, come unguentari in vetro e cucchiai in osso. Il gran numero di unguentari rispetto ad altri contesti cittadini fa pensare addirittura a una vera e propria
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In alto: frammento di affresco con volto femminile. Nella pagina accanto, in alto: un particolare dell’allestimento della mostra: in secondo piano, la statua raffigurante la Musa Polimnia. Nella pagina accanto, in basso: coppia di armille in oro in forma di corpo di serpente.
attività professionale svolta nella residenza. La Casa della Venere in bikini (I 11,6) prende invece il nome dall’omonima statua in marmo (ora al Museo Archeologico di Napoli), custodita al momento dell’eruzione in un armadio dell’atrio; questo conteneva anche uno specchio e vari oggetti per la cura del corpo. Nella domus sono stati rinvenuti anche due sigilli in bronzo attribuiti al suo proprietario: Cissius Pithius o C. Poppaeus Idrus. Un pregevole nucleo di oggetti femminili era stato depositato anche nel sottoscala dell’atrio della Casa di L. Caelius Ianuarius (I 11,17); la ricchezza del corredo, con esemplari di eccezionale qualità e unicità, contrasta con la modestia della dimora. Lo specchio in argento, uno dei pochi esempi pompeiani con il coperchio, è associato a contenitori per unguenti e cosmetici, pinzette e uno strigile, oltre a un bel bacile utilizzato per i lavaggi. Un unicum,
per Pompei, è la pisside in calcite con decorazioni in oro. Spostandoci nelle necropoli cittadine, la tomba di Pithia Rufilla era posizionata al centro del recinto familiare dei Barbidii, nel sepolcreto di Porta Nocera. Pithia era la moglie di Lucius Barbidius, promotore del monumento funebre costruito per sé, per sua moglie e per i due figli, come indica la lapide all’ingresso del recinto. Il corredo del I secolo d.C. comprende oggetti molto cari all’anziana defunta: una bottiglietta in vetro con all’interno una spatolina d’argento, conchiglie usate come amuleti contro la sterilità, piccoli monili, oggetti
miniaturistici in osso, ambra e ceramica, e infine giocattoli della sua infanzia e portafortuna.
MONILI DELLA SPERANZA Un drammatico aspetto illustrato dall’esposizione è rappresentato dai «gioielli in fuga», ovvero dai monili della speranza che gli abitanti di Pompei tentarono di salvare durante l’eruzione. Tre sono i casi esposti: la preziosa armilla d’oro rinvenuta al braccio di una delle vittime della Casa del Bracciale d’oro; il gruppo di gioielli in oro, argento e ferro e una statuetta della dea Fortuna, portati da una ragazza uccisa poco fuori
Porta Nola; i gioielli trovati con alcune vittime in una taverna (caupona) di Moregine, alla periferia meridionale della città, tra cui un’armilla con l’iscrizione dedicatoria Dominus ancillae suae, il «padrone» alla sua schiava. Meritano infine attenzione gli ori da Oplontis e Terzigno. Nella Villa B di Oplontis, probabilmente un luogo di commercio del vino e di derrate alimentari, avevano trovato rifugio, durante l’eruzione, numerosi fuggiaschi; alcuni portavano i loro gioielli, indossati o riposti in tasche o borse di tessuto o di cuoio. Nella Villa 2 di Terzigno, un’azienda agricola dedita alla produzione di vino, spicca lo scheletro di una giovane donna che conservava, nella fuga, i suoi gioielli d’oro e d’argento, fra cui lo specchio da lei tanto amato.
DOVE E QUANDO «Venustas. Grazia e bellezza a Pompei» Palestra Grande, Parco Archeologico di Pompei fino al 31 gennaio 2021 Orario lunedí-venerdí 9,00-19,00 Info tel. 081 8575347; www.pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico
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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
INSIEME PER LA STORIA NEGLI SCAVI DI VULCI, ARCHEOLOGI E ANTROPOLOGI, SEGUENDO UNA PRASSI ORMAI CONSOLIDATA, OPERANO FIANCO A FIANCO. CON RISULTATI DI ESTREMO INTERESSE
I
resti scheletrici umani restituiti dagli scavi rivestono grande importanza in archeologia. Infatti, oltre a informazioni sull’età e sul sesso, le ossa conservano talvolta tracce di eventi che hanno condizionato la vita del defunto, come le malattie o il grado di attività fisica, apportando un aiuto spesso essenziale alla comprensione degli elementi occorrenti alla ricostruzione storica. Ecco perché, da alcuni anni, anche le ricerche condotte a Vulci vedono la partecipazione attiva di alcuni antropologi sul campo che affiancano, insieme ad altri tecnici, gli archeologi impegnati nello scavo. Un esempio significativo dei frutti che questa collaborazione può dare è il recente scavo della Tomba 116/A nella necropoli Poggetto
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Mengarelli. Esplorato nello scorso mese di luglio, il contesto funerario è relativo a una sepoltura a loculo di età ellenistica realizzata sulla parete settentrionale del dromos di accesso a una piú grande camera ipogea, successivamente rinominata 116/B. Insieme a un’ulteriore inumazione piú superficiale, sempre del tipo a loculo (Tomba 114), le due tombe erano probabilmente pertinenti a un unico complesso familiare, come suggerisce l’ingresso comune a tutti e tre i vani funerari.
TEGOLE COME SIGILLO Sebbene rinvenuta, purtroppo, completamente crollata e ricolma di terra di infiltrazione, al momento dello scavo la piccola nicchia che accoglieva la sepoltura è risultata ancora parzialmente sigillata da
grandi tegole in impasto giallo posizionate a coltello, con orientamento est-ovest. All’interno del piccolo ambiente lo scavo ha successivamente messo in luce un’inumazione piuttosto ben conservata, deposta supina sul piano del loculo, anch’essa orientata est-ovest. Nei pressi del cranio, sul margine orientale, erano state deposte un’olletta in ceramica depurata e dipinta a motivi lineari e due unguentari, uno acromo e l’altro decorato a bande. All’altezza delle ginocchia giaceva il resto del corredo ceramico, di livello piuttosto modesto e di forma miniaturizzata, composto da due olpai, una a vernice nera e una in ceramica acroma, e due ciotole, anch’esse a vernice nera. Durante le operazioni di recupero dei resti scheletrici è emersa, sui due lati del
cranio, una coppia di orecchini in argento, che permettono di definire con sicurezza il genere femminile dell’individuo, un dato successivamente confermato dallo studio antropologico dei resti. A un esame preliminare la sepoltura è databile alla metà del III secolo a.C. Durante lo scavo e il recupero delle sepolture, le analisi antropologiche sono state inizialmente volte alla determinazione delle modalità di deposizione dei defunti. Nel caso specifico si è potuto notare che l’inumato è stato deposto supino, con orientamento NE-SW e il cranio ruotato a sinistra; degli arti superiori sono presenti solo gli omeri, per cui non è stato possibile determinarne la posizione; gli arti inferiori, completi, si presentano distesi. I resti scheletrici, una volta recuperati, sono stati trasferiti in
laboratorio per essere sottoposti a ulteriori analisi. Come lavoro preliminare si sono eseguiti un’accurata pulizia e il restauro, ove necessario, di ogni elemento osseo e dentario. Gli esami di laboratorio sono fondamentali per determinare in maniera piú puntuale il sesso, stimare l’età alla morte e per rilevare tutti quegli indicatori scheletrici che ci possono fornire elementi relativi alle condizioni di vita e di salute del soggetto in questione.
UNA VITA GRAMA I resti scheletrici dell’inumato oggetto di studio sono pertinenti a un individuo di sesso femminile e di età alla morte superiore ai 50 anni. Le analisi delle principali patologie orali hanno rilevato la presenza diffusa di carie di severa entità; inoltre sui denti anteriori sono presenti linee ipoplasiche molto profonde dello smalto dentario, ascrivibili a episodi di stress fisico (carenze nutrizionali e/o malattie) avvenuti nei primi anni di vita; infine sono presenti
fenomeni di degenerazione ossea in corrispondenza delle principali articolazioni dovuti all’età avanzata. I dati raccolti indicano quindi condizioni di vita e di salute piuttosto mediocri e l’appartenenza a una classe sociale probabilmente medio-bassa. Lo scavo è finanziato dalla Regione Lazio e dal Comune di Montalto di Castro ed è diretto da Simona Carosi per conto della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale e da chi scrive per Fondazione Vulci. I lavori sul campo sono stati seguiti da Carlo Regoli per la parte archeologica, da Teresa Carta per il restauro e dagli antropologi Andrea Battistini e Stefania Di Giannantonio.
Sulle due pagine: immagini della Tomba 116/B della necropoli di Poggetto Mengarelli riprese in varie fasi dello scavo e, qui sopra, la coppia di orecchini in argento trovata ai lati del cranio: una circostanza che ha confermato il genere femminile dell’individuo sepolto. Metà del III sec. a.C.
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A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero
ARCHEOLOGIA NEL FRUTTETO LE FONTI LETTERARIE E ICONOGRAFICHE TESTIMONIANO L’ALTO LIVELLO RAGGIUNTO DALLA FRUTTICOLTURA IN ETÀ ROMANA. A CONFERMARE QUESTO PANORAMA VARIEGATO SONO I RESTI PROVENIENTI DAGLI SCAVI
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el numero scorso abbiamo spiegato in che modo la globalizzazione dei mercati e le monoculture abbiano ridotto in pochissimo tempo la biodiversità delle piante da frutto, la cui coltivazione e conseguente diversificazione varietale ha origini molto antiche (vedi «Archeo» n. 428, ottobre 2020; anche on line su issuu.com). Per i fruttiferi valgono le stesse dinamiche ipotizzate per la circolazione della vite: già nell’età del Ferro, le varietà viaggiano verosimilmente sotto forma di marze o di talee, o anche di frutti resistenti alle trasferte per mare come la melagrana (Punica granatum), che vettori fenici hanno distribuito nel Mediterraneo occidentale tra la seconda metà dell’VIII e la metà del VII secolo a.C. Un contesto di eccezionale interesse per imbastire una storia delle varietà è la necropoli etrusca di Casa Nocera a Casale Marittimo (Pisa), ai margini dell’area di espansione volterrana, in uso fra l’ultimo quarto dell’VIII e gli inizi del VI secolo a.C. Insieme al vasellame da banchetto, il corredo della Tomba A (la piú antica del gruppo aristocratico qui sepolto, pertinente al capostipite deposto con le armi e le insegne del rango) includeva una trentina di mele, acini d’uva e una ventina di nocciole, accompagnate
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A destra: pero selvatico (Pyrus pyraster) (?) in prossimità della villa romana del Monte Seccareccio (Tolfa, Roma). Nella pagina accanto, in alto: resti dei pomi sferoidali del pero selvatico (?) in prossimità della villa romana del Monte Seccareccio (Tolfa, Roma). Nella pagina accanto, in basso: melagrana (Punica granatum) dal corredo della Tomba A della necropoli di Casa Nocera a Casale Marittimo (Pisa). Ultimo quarto dell’VIII sec. a.C.
da vino resinato conservato in una fiasca; completavano le offerte una melagrana e un favo di api contenente miele. Il numero e le dimensioni dei carporesti (termine che indica appunto i resti di frutti e semi, n.d.r.) trovati a Casa Nocera confermano che la domesticazione dei fruttiferi (in particolare delle Rosaceae, cioè soprattutto peri e meli), avviata nella protostoria, era ormai compiuta alla fine dell’VIII secolo a.C.
UNA SVOLTA DECISIVA Tuttavia, solo nel periodo romano i fenomeni di selezione, di ibridazione e, soprattutto, di circolazione delle varietà raggiungono una dimensione rilevante, grazie alla progressiva acquisizione di territori e alla conseguente apertura di nuovi mercati e rotte commerciali. La nostra conoscenza di orti e frutteti della fase repubblicana deve molto al De agri cultura di Marco Porcio Catone: l’autore sottolinea infatti l’abbondanza di varietà, in particolare di peri e meli, che trovano largo spazio negli horti di Roma e dell’Italia romana; la feracità dei suoli della Penisola è rimarcata da Marco Terenzio Varrone nel De re rustica (seconda metà del I secolo a.C.), in cui l’Italia
è descritta come un frutteto per l’opulenza delle piantagioni e la varietà dei frutti. Sono comunque il De re rustica di Columella e, soprattutto, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio – che dedica l’intero libro XV alla frutticoltura, descrivendo decine di varietà (tra cui 35 di pero, 17 di melo, 3 di sorbo, 9 di albicocco, 5 di pesco, 10 di ciliegio e 29 di fico) – a documentare il quadro complessivo della frutticoltura romana del I secolo d.C. Questi trattati hanno trovato una straordinaria corrispondenza negli scavi di Pompei, Ercolano e delle
ville dell’area vesuviana. Qui l’evidenza è costituita soprattutto da carporesti, da resti lignei dell’apparato radicale ancora mantenuti nel terreno, da pitture che illustrano le specie coltivate: si può cosí verificare la diffusione di varietà (e quindi la specializzazione delle tecniche di ibridazione) di specie locali come i fichi (5 varietà) e delle Rosaceae in generale, tra cui pere (8 varietà), mele (3 varietà) e prugne (2 varietà), confermando in molti casi le informazioni fornite da Columella e Plinio. Come per la vite, anche per i fruttiferi ci si interroga sul rapporto tra le antiche varietà dell’area vesuviana e le varietà autoctone ancora presenti in Campania e nell’Italia centrale: l’archeologia può contribuire in modo determinante alla ricerca, con l’applicazione dei metodi di analisi che abbiamo già descritto sulla sopravvivenza della vite selvatica in prossimità dei siti archeologici e, naturalmente, lavorando in senso multidisciplinare con botanici e genetisti per il confronto morfologico e genetico tra piante selvatiche e piante coltivate. I risultati sono promettenti, anche se un paesaggio archeologico con fruttiferi selvatici è piú difficile, ma non impossibile, da individuare: un primo approccio mirato ai Monti dellaTolfa (Roma), nell’areale compreso tra i Comuni di Allumiere, Tolfa e Civitavecchia, oltre ad accertare un’eccezionale diffusione di viti selvatiche e di olivastri (la forma rinselvatichita dell’olivo), ha condotto anche alla scoperta di Rosaceae selvatiche in prossimità di siti di età romana. La presenza di tali specie è sensibile e persistente in prossimità di ville romane di grandi dimensioni, sotto forma di pero selvatico (Pyrus pyraster), da interpretarsi come residuo di colture a frutteto contemporanee alle ville. (2 – continua) (andrea.zifferero@unisi.it)
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n otiz iario
MUSEI Puglia
TESORI CON VISTA MARE
S
ul lungomare di viale Regina Margherita, a Brindisi, nella Palazzina del Belvedere, a pochi metri dalle colonne romane simbolo della città, è allestita una delle raccolte piú importanti del patrimonio museale pugliese, la Collezione Archeologica Faldetta. Costituita grazie alla passione del presidente dell’omonima Fondazione, la collezione conta 360 reperti archeologici, esposti tra il piano terra e il primo piano dell’edificio novecentesco e, dal 2013, è gestita dall’associazione «Le Colonne», presieduta da Anna Cinti e composta da un gruppo di archeologi, che operano in sinergia con il Comune e la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Brindisi. I materiali coprono un arco cronologico compreso tra la fine dell’età del Bronzo Recente e l’epoca romana. L’esposizione si apre con la ceramica di importazione: una rara giara a staffa del Miceneo IIIB (1300-1230 a.C.) mostra sulla spalla una decorazione a motivi vegetali resa da linea e punti, mentre il corpo è decorato da fasce alternate a linee parallele di colore bruno. Nella stessa vetrina si trovano una oinochoe trilobata del Protocorinzio Medio (680-665 a.C.), con sulla spalla, in vernice rosso-bruna, un serpente alternato a rosette e sul corpo linee e fasce parallele con una serie di sigma, e un aryballos del Protocorinzio Tardo (630 a.C.), con una teoria di animali pascenti alternati a fiere, mentre un alabastron del Corinzio Antico (620-590 a.C.) mostra una Sirena di
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profilo, con ali falcate e polos sul capo. Al Corinzio Tardo (570-550 a.C.) appartengono un amphoriskos, contenitore di oli profumati e balsami decorato con motivo a linee e fasce parallele con punti disposti a scacchiera in vernice bruna, e un aryballos con Sfinge di profilo ad ali spiegate. Databili fra il VII e il VI secolo a.C. e provenienti anch’esse dal bacino mediterraneo sono altre ceramiche corinzie (aryballoi globulari e piriformi, alabastra, pissidi, skyphoi e kotylai), con motivi decorativi tipici (fregi zoomorfi con animali reali o fantastici, scene di Cratere protoapulo con maschere teatrali femminili attribuito alla cerchia del Pittore di Tarporley. Secondo venticinquennio del IV sec. a.C.
combattimento e raffigurazioni mitologiche). Allo stesso periodo si data una statuetta femminile stante, a placchetta squadrata, che riproduce un tipo comune nella plastica dedalica: sul capo ha un altissimo polos semicilindrico, ai lati del quale scendono le due tipiche bande di capelli con ondulazioni orizzontali che lasciano scoperte le orecchie allungate. L’esposizione prosegue con esemplari di ceramica attica a figure nere importate dalla Grecia, tra cui alcune lekythoi con scene di combattimento e cortei dionisiaci riferibili all’Officina del Pittore della Megera e una kylix attribuita al Gruppo del Pittore di Haimon (480 a.C.), raffigurante Dioniso seduto di su un diphros. Tipiche dei contesti magno-greci arcaici sono poi le coppe di tipo ionico, diffuse con l’affermarsi della consuetudine del simposio, che favorí il fiorire e la diffusione di questa tipologia vascolare, cosí da essere realizzata anche in ambito coloniale, fino a competere, per qualità, con i modelli originali greci. Fulcro della collezione resta però la ceramica italiota a figure rosse: tra le diverse forme vascolari (oinochoai trilobate, anfore, pelikai, lekanai) si possono ammirare preziosi crateri a campana. Di rilievo è un cratere di produzione protoapula del secondo venticinquennio del IV secolo a.C. attribuito alla cerchia del Pittore di Tarporley con la raffigurazione di due maschere teatrali femminili nella stessa scena. Collegata al mondo del teatro è anche la raffigurazione di
una scena dell’Orestea di Eschilo su un altro cratere a campana di produzione protoapula (380-360 a.C.) attribuito al «Long Overfalls Group»: nella rappresentazione è presente Oreste inseguito da una delle Erinni e Apollo. Quest’ultimo, forse per un ripensamento del ceramista, è rappresentato con una lancia, anziché con il tipico ramo di alloro, perdendo cosí gli attributi tipici del dio e risultando una semplice figura stante. Notevole è anche una hydria a figure rosse del terzo venticinquennio del IV secolo a.C., con scena d’offerta legata al culto di Dioniso: una menade con timpano e corona fiorita tra le mani è rivolta verso Dioniso, seduto su uno scranno drappeggiato. Trovandosi in un’area nella quale sono attestati importanti centri messapici, abbondante è la presenza nella collezione di ceramica indigena acroma, geometrica e subgeometrica, che permette di seguire, fra l’altro, l’evoluzione, tra il VII e il III secolo a.C., della forma caratteristica di questa classe, la trozzella, il cui nome deriva dall’elemento cilindrico posizionato sulle anse, chiamato «trozza» in dialetto apulo. Non mancano forme vascolari a vernice nera di fine V-IV secolo a.C.
(lekythoi, kylikes, olpai e skyphoi) e a vernice nera sovradipinta nello stile di Gnathia, prodotte nella Puglia di fine IV-inizi III secolo a.C. (anfore, oinochoai, epychisis, hydriai, kantharoi, lekythoi, skyphoi, kotylai, bacini emisferici) e decorate con motivi vegetali e zoomorfi ed elementi plastici, quali baccellature e anse con nodo erculeo, a imitazione di modelli vascolari metallici. In un’altra sezione, accanto a un gruppo di lucerne di varie tipologie (dal tipo apulo a vernice nera al tipo africano di produzione In alto: pisside con coperchio. Corinzio Medio, 590-570 a.C. A sinistra: la Palazzina del Belvedere, nei cui spazi è allestita la Collezione Archeologica Faldetta.
industriale), sono presenti esemplari di coroplastica di produzione tarantina, tra cui una statuetta di divinità femminile seduta in trono della seconda metà del VI secolo a.C. Un’ultima sezione è dedicata alle fibule in bronzo, databili tra il VI e il IV secolo a.C., e altri oggetti in metallo di età romana, come uno specchio in bronzo, pinzette chirurgiche, anelli digitali, una stadera e un ceppo di àncora in piombo a due bracci proveniente dai fondali brindisini. L’esposizione si chiude con contenitori in vetro soffiato e in pasta vitrea, fra i quali spicca un amphoriskos di produzione orientale databile al V secolo a.C. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Collezione Archeologica Faldetta Brindisi, Palazzina del Belvedere, viale Regina Margherita Info tel. 0831 562800 oppure 333 7605452; e-mail: associazionelecolonne@gmail.com
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
(ANCHE) L’ARCHEOLOGIA È PARTECIPAZIONE A QUINDICI ANNI DALL’EMANAZIONE, L’ITALIA HA RATIFICATO LA CONVENZIONE DI FARO. UN PASSO DECISIVO, COME SPIEGA GIULIANO VOLPE, PER AFFERMARE UN CONCETTO ESSENZIALE NELLA TUTELA DEL PATRIMONIO: LA SUA APPARTENENZA ALLA COLLETTIVITÀ
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l 23 settembre scorso l’Italia ha ratificato la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, meglio nota come «Convenzione di Faro». Il documento fu infatti approvato nel 2005 a Faro, in Portogallo, e sancisce il valore dei beni culturali come strumento di dialogo e pace tra le culture, con l’obiettivo di rendere i cittadini partecipi della tutela e gestione del patrimonio storico-artistico. Ne parliamo con Giuliano Volpe, professore di
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archeologia presso l’Università «Aldo Moro» di Bari e Consigliere del Ministro dei Beni Culturali. Professore, perché la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione di Faro rappresenta un passaggio importante per i nostri beni archeologici? «La ratifica italiana dà un peso piú rilevante alla Convenzione di Faro stessa, perché il nostro Paese è da sempre leader mondiale nel campo della tutela del patrimonio culturale, anche dal punto di vista normativo. Mi auspico che altri
Paesi di rilievo del Consiglio d’Europa, che ancora non hanno ratificato questo documento – come Grecia, Francia e Germania – lo facciano presto. L’adesione italiana è importante, inoltre, perché la Convenzione di Faro è in perfetta sintonia con lo spirito che ha animato i nostri padri costituenti, quando, con l’articolo 9 della carta costituzionale, hanno assegnato il dovere della tutela del paesaggio e del patrimonio storicoartistico, come la promozione della cultura e della ricerca, alla
Repubblica. Che viene intesa come insieme delle istituzioni pubbliche, ma anche come res publica, cioè comunità dei cittadini. Nel tempo, la legislazione italiana ha ristretto sempre piú il campo della tutela, assegnando questa responsabilità alle istituzioni e al ministero in primis. La Convenzione di Faro recupera lo spirito dell’articolo 9 della Costituzione ed estende il compito della tutela alla base della cittadinanza, invitando a considerare i cittadini alleati consapevoli e partecipi, protagonisti e non spettatori della gestione dei propri beni culturali.
E chiede un coinvolgimento pieno, non solo formale, delle “comunità di patrimonio”, ovvero gruppi di persone che danno valore al patrimonio culturale, sulla base delle proprie tradizioni. La Convenzione di Faro non esclude affatto gli specialisti della cultura, come archeologi, professori e funzionari, ma assegna loro un ruolo ancor piú significativo: dare vita, insieme alla società civile, a queste comunità di patrimonio». Tra i principi che ispirano la Convenzione di Faro, c’è l’idea dell’archeologia come strumento di pace e dialogo tra i popoli: un
In alto: l’allestimento della mostra «Ritratti di famiglia», realizzata dal Museo Civico Archeologico di Bologna, uno degli istituti piú attivi nel proporre iniziative fruibili digitalmente. A sinistra: un’immagine in realtà aumentata e virtuale di Circo Maximo Experience.
obiettivo realmente possibile? E in che modo? «La Convenzione nasce nel 2005, all’indomani delle tragiche guerre dei Balcani, che, oltre a migliaia di morti, causarono ingenti danni al patrimonio archeologico e artistico. Il documento mirava a creare un ponte tra le diversità, facendo dei beni culturali uno strumento di dialogo, di conoscenza reciproca e di pace. E questo non vuol dire, per esempio, nascondere l’arte e coprire i nudi delle statue, come è accaduto a Roma nel 2016, in occasione della visita del premier iraniano Hassan Rohani». A suo avviso, quella scelta fu quindi un errore?
«Certo. Si pensò di coprire la nudità delle statue classiche in Campidoglio coprendole con pannelli bianchi. Ma la Convenzione di Faro non afferma questo: nessun articolo invita a coprire l’arte per non urtare la sensibilità delle altre religioni. La conoscenza degli altri si fa manifestando la propria cultura, non nascondendola. La cultura non va certo usata come una clava per colpire le tradizioni altrui, ma non va nemmeno occultata». Se promuove valori cosí importanti, perché in Italia ci sono voluti ben 15 anni affinché la Convenzione di Faro diventasse legge? «Un insieme di cause ha portato a un’attesa cosí lunga, anche rispetto alla sottoscrizione del governo italiano, avvenuta già nel 2013. Hanno contribuito a rallentare i tempi i timori di certi ambienti burocratici, resistenze culturali dovute a un fraintendimento del significato della Convenzione». Di quali timori si tratta? «Di una concezione proprietaria dei beni culturali, che ha portato gli specialisti della cultura a considerarsi appunto proprietari del patrimonio stesso, a vederlo come un qualcosa che deve essere difeso dagli altri, temendo eventuali aperture normative. Questo timore ha avuto effetti anche sulla traduzione italiana del testo della Convenzione di Faro: nella prima versione, infatti, il termine inglese cultural heritage e quello francese patrimonie culturelle vennero tradotti in “eredità culturale”, e non “patrimonio”, affinché quest’ultimo rimanesse appannaggio delle norme italiane. All’epoca ero Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e mi battei perché, invece, venisse adottata la traduzione “patrimonio”. Non si tratta di un fatto linguistico: la Convenzione di Faro deve incidere anche sugli aspetti
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Roma. Uno scorcio del Foro Romano. Si riconoscono la Colonna di Foca, l’arco di Settimio Severo e la Curia: beni di un patrimonio che, secondo i principi della Convenzione di Faro, deve essere tutelato anche grazie al coinvolgimento dei cittadini.
normativi che riguardano il patrimonio. È un documento che pone al centro le persone, non le cose, creando occupazione e sviluppo sostenibile. La considero un fatto rivoluzionario, oggi piú che mai, nel pieno della crisi che stiamo vivendo». In tempo di pandemia e crisi economica, la Convenzione di Faro potrebbe essere uno strumento utile alla ripresa? «Senza alcun dubbio. La Convenzione di Faro invita a un maggiore coinvolgimento dei cittadini, chiede di sprigionare energie dal patrimonio culturale. Dovremmo uscire da una logica restrittiva e sperimentare nuove forme di gestione dei nostri beni archeologici, anche attraverso il partenariato pubblico privato, ma anche aprire l’accesso ai dati, liberalizzare le immagini dei reperti, sfruttare le occasioni di imprenditoria creativa. Una comunità di patrimonio già esistente è quella del Rione Sanità di Napoli: un esempio eclatante, perché ha creato occupazione e un’economia pulita in un quartiere molto difficile, con problemi di ordine pubblico, delinquenza e alta densità demografica. Nel rione
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sono arrivati i turisti, mai visti prima. Nel 2019, le catacombe di San Gennaro hanno accolto piú di 150mila visitatori e il patrimonio culturale ha dato lavoro a 70-80 ragazzi del quartiere. La Fondazione San Gennaro raccoglie centinaia di soci tra artigiani, pizzaioli, baristi e cittadini comuni. Sono nate cooperative, una compagnia teatrale, due Bed & Breakfast. La popolazione residente, che spesso vive in condizioni difficili, ha visto nel patrimonio archeologico una possibilità di vita migliore per i propri figli, un’occasione di rinascita. Tanto che, adesso, il modello è stato esportato nel Parco Archeologico dei Campi Flegrei, dove si sta coinvolgendo l’imprenditoria locale nella gestione di due monumenti, la piscina mirabilis e il tempio di Serapide a Pozzuoli. Nello spirito della Convenzione di Faro, iniziative come queste andrebbero moltiplicate in tutta Italia. Le istituzioni, come scuola, università e ministero, dovrebbero accompagnare le esperienze di crescita culturale in aree che, altrimenti, conoscerebbero solo degrado, delinquenza e emarginazione».
A suo avviso, quali sono i limiti o i rischi che potrebbero invece scaturire dalla ratifica della Convenzione di Faro? «Il primo rischio è che gli impegni assunti con la ratifica della Convenzione di Faro rimangano sulla carta. Ovvero che il documento venga festeggiato ma poi messo in un cassetto, senza tradursi in azione e progetti concreti. E mi auguro che questo non accada. Altro limite della Convenzione di Faro è che si tratta di un documento nato nel 2005, in un contesto “proto-digitale”, quando non esistevano smartphone e social network. Adesso siamo nel pieno della rivoluzione digitale: la vicenda del Covid ha mostrato quanto sia utile avere questi strumenti per vivere e lavorare anche in isolamento. Esiste anche una “comunità digitale di patrimonio”: i grandi musei italiani stanno costruendo, attraverso i social network, comunità digitali internazionali estese, che escono dalla dimensione fisica del museo. E invece la Convenzione di Faro non fa riferimento agli aspetti digitali, per cui va aggiornata. Un rischio ulteriore, poi, è che il coinvolgimento delle comunità locali nella valorizzazione del patrimonio, se non viene ben accompagnato dagli specialisti e dalla stampa, possa trasformarsi in una manifestazione di iper-localismo o iper-nazionalismo. Mi ha meravigliato l’opposizione alla ratifica della Convenzione di Faro di alcune forze sovraniste. Se c’è un uso improprio di questa Convenzione è, piuttosto, proprio la strumentalizzazione del valore locale delle culture, che può generare isolamento e chiusura. L’identità culturale è un concetto che non va lasciato a visioni sovraniste: bisogna promuovere, invece, inclusione, apertura e curiosità verso gli altri».
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
A ME GLI OCCHI... Nell’intervista che ci ha rilasciato, lo storico Corrado Petrocelli esamina il ruolo e la visibilità della donna nella Grecia classica e a Roma e la considerazione che di lei ne aveva la società maschilista dell’epoca 1 2 3 (vedi alle pp. 42-55). E dalle numerose testimonianze, soprattutto letterarie e nella quasi totalità maschili, si traggono giudizi e pensieri che, pur non riflettendo pienamente quella realtà, hanno influenzato la condizione della donna fino alla metà del secolo scorso. È il caso del «silenzio» a cui erano condannate le donne in tutte le loro apparizioni pubbliche e private. Sofocle (1) nell’Aiace afferma che «Il silenzio delle donne arreca decoro» e cosí Eschilo (2, vignetta), nei Sette contro Tebe, fa dire a un personaggio «Quanto avviene fuori è 5 cura dell’uomo, non certo della donna: sta’ dentro e non crearci danni». E ancora Euripide (3), negli Eraclidi, presenta Macaria, che si scusa per la sua improvvisa apparizione, facendole dire 4 «Non c’è cosa piú bella per una donna che il silenzio, la riservatezza assennata e il rimanere tranquilla a casa». Anche Aspasia (4, raffigurata con Pericle in una litografia del 1864), compagna di Pericle (5) e sua consigliera – che oltre 7 all’avvenenza aveva un’abilità oratoria tale da tener testa perfino a Socrate (6) – fu duramente attaccata dai contemporanei. Nella tradizione latina, Plauto (7) afferma piú di una volta che «una donna silenziosa è sempre preferibile a una che parla». Insomma il timore è sempre stato che le donne dotate di fascino e abilità oratoria potessero sedurre e 6 convincere, per cui era meglio confinarle entro le mura domestiche. Infatti, già in Omero, Telemaco si rivolge alla madre invitandola a non interloquire e a ritirarsi: «Su, torna nelle tue stanze e accudisci alle tue attività, telaio e fuso; la parola spetta 8 qui agli uomini…». La tessitura (8), il principale tra i lavori femminili, era sempre citata ma la trama, oltre quella dei tessuti, poteva significare anche inganni, vedi la tela di Penelope, o seduzione, come Circe (9), o artifici: Euripide dice nell’Ifigenia in 9 Tauride che le donne «Sono insuperabili nell’escogitare artifici». Seduzione tramite lo sguardo e questo spiega come, fin dall’antichità, si facesse ricorso a elementi femminili in caso di congiure o spionaggio. 10 11 Una pratica è continuata nei secoli, tanto che una delle piú famose spie della prima guerra IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Itamondiale fu l’olandese Margaretha Geertruida Zelle, piú liano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o innota come Mata Hari, che in lingua malese vuol dire «occhio formazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: dell’aurora». La sua città natale, Leeuwarden, usò una affrancatura meccanica nel centenario della nascita (10), Segreteria c/o Alviero oppure Batistini Luciano Calenda, mentre la Sierra Leone l’ha ricordata, nel centenario della Via Tavanti, 8 C.P. 17037 sua morte, avvenuta per fucilazione il 15 ottobre del 1917 sui 50134 Firenze Grottarossa bastioni della fortezza di Vincennes, con un significativo info@cift.it, 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it blocco foglietto, molto cinematografico (11).
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CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Italia
ODERZO L’anima delle cose
ROMA Civis, Civitas, Civilitas
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo FoscoloMuseo Archeologico Eno Bellis fino al 14.02.21
Roma antica modello di città Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 22.11.20 (prorogata)
TORINO Lo sguardo dell’antropologo
La lezione di Raffaello Le antichità romane Complesso di Capo di Bove fino al 29.11.20
Connessioni tra egittologia e antropologia Museo Egizio fino al 15.11.20
79 d.C. Roma e Pompei
Incensum
Fine di una storia Colosseo fino al 31.01.2021
Suggestioni dalla terra dell’Oman Musei Reali, Spazio Passerella del Museo di Antichità fino al 10.01.21
Piranesi
Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica fino al 31.01.21
Francia
I marmi Torlonia
SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da Alesia a Roma
BOLOGNA Etruschi
Paesi Bassi
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.06.21
L’avventura archeologica di Napoleone III Musée d’Archéologie nationale fino al 03.01.21
Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 29.11.20
LEIDA I Romani lungo il Reno Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21
CLASSE Tesori ritrovati
Il banchetto da Bisanzio a Ravenna Museo Classis Ravenna fino al 20.12.20
FIRENZE Imperatrici, matrone, liberte
Volti e segreti delle donne romane Galleria degli Uffizi fino al 14.02.21
MILANO Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 20.12.20
NAPOLI Gli Etruschi e il MANN
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21 22 a r c h e o
Ritratto di matrona romana.
Vetro
Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21
GI CA
VA GU LL ID E D AA ’ RC AO HE S OL TA O UN A
LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
VALLE D’AOSTA IL TERRITORIO • LA STORIA • L’ARCHEOLOGIA
Una suggestiva veduta invernale del ponte-acquedotto romano di Pont d’Aël, costruito a cavallo del torrente Grand-Eyvia. 3 a.C.
L
a Valle d’Aosta è la sola regione d’Italia che conservi, nel nome stesso, una memoria imperiale. Qui, nella valle della Dora Baltea, tra le montagne piú alte del continente europeo, nel 25 a.C. le legioni di Roma sconfissero i Galli Salassi e fondarono una città fortificata, costruita sul modello del tipico accampamento romano. In onore di Ottaviano Augusto, la chiamarono Augusta Prætoria Salassorum. La conquista romana della Valle d’Aosta è dunque l’argomento centrale della nuova Monografia di «Archeo», ma non il solo. Nei vari capitoli, infatti, realizzati grazie alla collaborazione dei principali studiosi della materia, i lettori scopriranno l’esistenza di altre conquiste, prima fra tutte quella archeologica, iniziata nel Cinquecento proprio per l’emergere della curiosità intorno alle monumentali vestigia imperiali, e che, in seguito, ha avuto tra i suoi protagonisti alcuni dei piú autorevoli studiosi italiani. Una conquista rinnovata, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, dalla scoperta, inaspettata, dell’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans, che ha permesso di gettare luce su un fenomeno rimasto, fino ad allora, in ombra: quello della preistoria e protostoria della Valle. Un quadro, insomma, a tutto tondo, per una storia plurimillenaria.
GLI ARGOMENTI
IN EDICOLA
• PRESENTAZIONE • Valle d’Aosta. Dove la Montagna stessa è cultura • IL TERRITORIO • Una regione e il suo territorio • LA PREISTORIA • I primi valligiani • L’ETÀ ROMANA • Alle origini di un mito •L ’ETÀ TARDO-ANTICA E IL MEDIOEVO • Nel nome di Augusto • STORIA DELLE RICERCHE • Dalla passione al metodo • I MUSEI ARCHEOLOGICI IN VALLE
D’AOSTA
• Il Museo Archeologico Regionale • L ’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans • GLI ITINERARI • Un patrimonio da scoprire
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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart
L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO IL CONFRONTO TRA VECCHIO E NUOVO TESTAMENTO DIMOSTRA COME L’ANTICO POPOLO DI ISRAELE ABBIA, NEL TEMPO, MODIFICATO IL PROPRIO APPROCCIO VERSO I DIRITTI E I DOVERI DELL’INDIVIDUO. ASSUMENDO, COMUNQUE, UNA PROSPETTIVA DIVERSA DA QUELLA CONTEMPORANEA
I
diritti umani sono un prodotto della modernità, ma non dobbiamo dimenticare che la nostra civiltà è, a sua volta, il prodotto delle infinite esperienze che i millenni hanno accumulato nel corso della storia. Milioni di donne e uomini hanno cercato di rendere l’umana avventura meno precaria, tentando di dimostrare che tolleranza, pietas, accoglienza all’altro e rispetto della persona erano valori da difendere strenuamente. Anche se, come ha scritto Antonio Tabucchi, «i progressi dell’umanità viaggiano a una velocità inferiore rispetto ai regressi», l’affermazione di questi valori fa ormai parte del nostro patrimonio comune. Confrontando i messaggi trasmessi dall’Antico e dal Nuovo Testamento, è possibile ritrovare – in seno ai testi sacri del popolo ebraico che crede nelle radici dell’anima, come scriveva André Malraux – tracce di questa evoluzione verso una maggiore condivisione dei valori della humanitas. Il monoteismo propone una concezione dell’uomo e dell’umanità diversa da quella del mondo classico. Il fatto che Dio abbia creato l’uomo a propria immagine e somiglianza conferisce alla persona una dignità che la contraddistingue dal regno animale. La concezione del diritto che appare nell’Antico Testamento
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si allontana dalla precedente concezione del diritto oggettivo, per tendere a quella moderna dei diritti soggettivi: il diritto è inteso come l’espressione di una volontà divina, che impone doveri e conferisce diritti ai soggetti. Per esempio, il divieto del furto e dell’omicidio implica il riconoscimento del diritto di proprietà e del diritto alla vita.
PARTE DI UN INSIEME Nonostante le tutele accordate a ogni individuo in quanto essere umano (gli Ebrei, per esempio, non hanno piú diritto di vita e di morte sui loro schiavi) e nonostante la proclamazione dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge e alla giustizia, nella Bibbia siamo ancora ben lontani dall’idea moderna di diritti dell’uomo. La concezione della società proposta rimane olistica, in quanto l’individuo continua a essere considerato parte di un insieme, il corpo sociale, alla cui armonia deve contribuire. Lo attestano, del resto, la rigida regolamentazione di tutti gli aspetti dell’esistenza, la presa in carico collettiva della punizione di chi delinque, nonché la densità degli obblighi nei confronti di Dio e del prossimo, che lascia ben poco spazio all’esercizio della libertà individuale. L’Antico Testamento narra che fu Dio a consegnare a Mosè sul monte
Sinai le tavole della legge che regoleranno i destini del popolo di Israele. Si legge nell’Esodo (32,1516): «Mosè ritornò e scese dalla montagna con in mano le tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole». Ma, giungendo ai piedi del monte dove il popolo preoccupato dalla lunga assenza del Profeta aveva perso la speranza di rivedere la sua
guida, Mosè vide una scena che lo fece inorridire. Gli Israeliti avevano costruito una statua d’oro a forma di vitello, simile ai simulacri delle divinità teriomorfe adorate dagli Egizi, e ballavano intorno all’idolo: «Quando si fu avvicinato all’accampamento, vide il vitello e le danze. Allora l’ira di Mosè si accese, egli scagliò via le tavole spezzandole ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in
polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece trangugiare agli Israeliti» (Esodo 32,19-20). Nonostante il popolo israelita avesse rotto il patto con Dio, il Signore gli diede una seconda chance: «Il Signore disse a Mosè: “Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzate. Tieniti pronto per domani mattina: domani mattina salirai sul monte Sinai e rimarrai lassú con me in cima al
Mosè fa distruggere il vitello d’oro, olio su tela di Andrea Celesti. 1681 circa. Venezia, Palazzo Ducale.
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monte. Nessuno salga con te, nessuno si trovi sulla cima del monte e lungo tutto il monte; neppure armenti o greggi vengano a pascolare davanti a questo monte”» (Esodo 34,1-3). Cosí Dio rinnovò l’Alleanza con il suo popolo e le tavole della Testimonianza diventarono la legge d’Israele.
DA IMPLACABILE A MISERICORDIOSO È incontestabile che il concetto di giustizia evolve notevolmente tra Antico e Nuovo Testamento. L’immagine del Dio implacabile pronto a punire i colpevoli scompare, per cedere il passo alla visione di un Dio di misericordia. Basti confrontare due episodi narrati, rispettivamente, nel Libro dei Numeri e nel Vangelo di Matteo. Il Libro dei Numeri (15,32-36) dice: «Mentre gli Israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato. Quelli che l’avevano trovato a raccogliere legna, lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza, perché non era stato ancora stabilito cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: “Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento”. Tutta la comunità lo condusse fuori dell’accampamento e lo lapidò; quegli morí secondo il comando che il Signore aveva dato a Mosè». In Matteo (12,1-14) leggiamo invece: «In quel tempo Gesú passò tra le messi in giorno di sabato, e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere spighe e le mangiavano. Ciò vedendo, i farisei gli dissero: “Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare in giorno di sabato”. Ed egli rispose: “Non avete letto quello che fece Davide quando ebbe fame insieme ai suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che
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Miniatura raffigurante i discepoli di Gesú che, affamati, raccolgono spighe e le mangiano, dalla Bibbia di San Luigi. XIII sec. Toledo, Tesoro della Cattedrale. non era lecito mangiare né a lui né ai suoi compagni, ma solo ai sacerdoti? O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora vi dico che qui c’è qualcosa piú grande del tempio. Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato”. Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga. Ed ecco, c’era un uomo
che aveva una mano inaridita, ed essi chiesero a Gesú: “È permesso curare di sabato?”. Dicevano ciò per accusarlo. Ed egli disse loro: “Chi tra voi, avendo una pecora, se questa gli cade di sabato in una fossa, non l’afferra e la tira fuori? Ora, quanto è piú prezioso un uomo di una pecora! Perciò è permesso fare del bene anche di sabato”. E rivolto all’uomo, gli disse: “Stendi la mano”. Egli la stese, e quella ritornò sana come l’altra. I farisei però, usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo».
presenta
IL MILLENNIO DELL’AMORE Passione e poesia nell’età di Mezzo «Qualcuno mi dice che cos’è l’amore?», scrive il poeta Walther von der Vogelweide (1170-1230), celebre cantore della lirica cortese tedesca. A dispetto degli stereotipi, gli uomini dell’età di Mezzo vissero le pulsioni sentimentali in modo intenso e disinibito. Lo riferiscono molti testi bassomedievali sull’argomento, trattando con una certa spregiudicatezza temi ritenuti scabrosi: il sesso come bisogno naturale, i rimedi per la contraccezione, la tolleranza verso le relazioni omosessuali e il maggior rilievo assegnato alla donna nella dinamica dei rapporti di coppia... E proprio l’emergere della figura femminile assume un ruolo dominante in un periodo che segna un nuovo inizio nella raffigurazione delle passioni. Con la rivoluzione cortese, il Medioevo concepisce una sua «arte di amare», immortalandola nei versi dei poeti provenzali, dei Minnesänger tedeschi e poi degli stilnovisti italiani. Ancor prima nel tempo, era invalsa la pratica delle «lettere d’amore», sotto forma di messaggi affettuosi che le giovani nobili inviavano ai propri spasimanti dai banchi delle aule monastiche.
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Con il nuovo Dossier, «Medioevo» presenta insomma la storia di una grande «scoperta» che incise profondamente nel destino della cultura occidentale: l’invenzione dell’amore, che ebbe i suoi eroi simbolo in coppie perlopiú sventurate: Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, Abelardo ed Eloisa…
RESTAURI • BRESCIA
LA PIÚ BELLA DI
TUTTE
LA VITTORIA ALATA, SIMBOLO DELLA CITTÀ DI BRESCIA, HA LASCIATO I LABORATORI DELL’OPIFICIO DELLE PIETRE DURE DI FIRENZE PER TORNARE NEL RINNOVATO CAPITOLIUM. E L’INTERVENTO DI RESTAURO, DURATO PIÚ DI DUE ANNI, HA SVELATO IMPORTANTI NOVITÀ SULLA MAGNIFICA STATUA BRONZEA, APRENDO IL CAMPO A NUOVE IPOTESI, IN GRADO DI RISCRIVERNE LA STORIA… di Cristina Ferrari 30 a r c h e o
D
opo un’assenza di oltre due anni, piú che giustificata dall’importante intervento di restauro che l’ha interessata, la Vittoria Alata torna finalmente a Brescia. La storia moderna della straordinaria statua bronzea – divenuta uno dei simboli della città lombarda e ritenuta uno dei capolavori della statuaria di epoca romana – ebbe inizio la sera del 20 luglio 1826, quando gli scavatori e i membri dell’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Brescia impegnati negli scavi archeologici nell’area del Capi-
tolium (il tempio dedicato alla triade capitolina, fatto erigere dall’imperatore Vespasiano nel 73 d.C.) dell’antica Brixia rinvennero un deposito di reperti bronzei, nascosto sotto uno strato di «carboni e terriccio», in un’intercapedine tra due muri del tempio stesso e il retrostante colle Cidneo. Tra i manufatti, che coprono un arco cronologico compreso fra l’età giulio-claudia e il III secolo d.C., si notava una statua femminile con le braccia staccate e ali riposte vicino alla testa, deposta con cura e atten-
zione, suggerendo che i reperti fossero stati nascosti per preservarli dalla distruzione, piú che appartenere a un deposito di un rifonditore. Realizzata con la tecnica della fusione a cera persa, la statua raffigura una divinità femminile alata, alta poco meno di due metri, vestita con un leggero chitone, che aderisce al corpo con un effetto di «stoffa bagnata», trattenuto in alto da due fermagli (forse perduti, se di materiale diverso dal bronzo), e che «scivola» sulla spalla destra scoprendo un seno.
Tutte le immagini si riferiscono alla Vittoria Alata, statua bronzea databile alla metà del I sec. d.C. e al suo restauro. Nella pagina accanto: la scultura prima del restauro. In basso: le fasi finali delle operazioni di restauro con la statua in posizione verticale.
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La parte inferiore del corpo (gambe e fianchi) è inoltre coperta con un pesante himation, che la avvolge da sinistra a destra. Le orbite degli occhi sono oggi chiuse da lamine metalliche – frutto di un restauro ottocentesco –, mentre i capelli sono trattenuti da una fascia con agemine in argento, ornate da un motivo originariamente interpretato come foglie di ulivo o di alloro con rosetta centrale. La figura è incompleta, come si può intuire dalla postura: in origine il piede sinistro poggiava su un supporto (interpretato come l’elmo di Marte), e il braccio sinistro doveva reggere uno scudo (sostenuto anche dalla gamba flessa), sul quale la dea scriveva con uno stilo il nome del vincitore. «La scoperta – racconta Francesca Morandini, archeologa della Fondazione Brescia Musei – attirò subito l’attenzione dei principali studiosi
italiani e di tutto il mondo che la riconobbero come una rappresentazione della Vittoria – la divinità romana preposta a concedere la vittoria, soprattutto militare –, nonché di importanti personalità del tempo, tra cui, nel 1827, lo scrittore francese Antoine-Claude Pasquin, noto come Valéry e autore dei Voyages historiques, littéraires et artistiques en Italie, che la definí “la piú grande e la piú bella di tutte le statue in bronzo”».
UN MUSEO AD HOC «La sua importanza portò inoltre alla costruzione, nel 1830, del Museo Patrio, collocato nelle rovine del Capitolium, organizzato con criteri considerati all’avanguardia per l’epoca, anche per la grande attenzione riservata alla disposizione e alle informazioni sui reperti esposti». La Vittoria venne inoltre
replicata in moltissime copie, ricavate da calchi della statua stessa, richiesti in tutto il mondo. La prima copia venne realizzata su richiesta di Napoleone III, che aveva potuto ammirare il bronzo pochi giorni prima della battaglia di Solferino del 1859, in cui gli eserciti francese e piemontese sconfissero gli Austriaci: dallo stesso calco venne ricavata anche una replica per Vittorio Emanuele II, oggi perduta, mentre da quella inviata a Parigi furono realizzati un sovracalco e un gesso, la cui fusione si trova ancora oggi al Museo del Louvre. Altri esemplari sono custoditi sia a Brescia che in varie città italiane (per esempio nel Museo Civico Archeologico di Bologna), mentre molti altri sono oggi purtroppo perduti, come quello del Museum of Fine Arts di Boston. Tra il 2017 e il 2018 sono stati si-
LE (POCHE) TRASFERTE DELLA VITTORIA ALATA La storia moderna e contemporanea della Vittoria Alata è legata a Brescia, città in cui è stata rinvenuta e di cui è diventata uno dei simboli. La sua importanza era ed è tale che Brescia non ne ha mai permesso il trasferimento, se non per motivi di massima urgenza, al punto che, prima del restauro del 2018, la statua ha lasciato la città solo verso quattro diverse destinazioni. Il primo viaggio avvenne nel novembre 1917, in occasione della prima guerra mondiale: dopo la disfatta di Caporetto, la Vittoria, inizialmente spostata dal Capitolium e ricoverata nei sotterranei del monastero di Santa Giulia (oggi Museo della Città) venne infatti «sfollata» su un treno per Roma, insieme ad altre preziose opere, in quanto ritenuta icona nazionale da Giovanni Patroni, Soprintendente delle Antichità della Lombardia.
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glati piú atti d’intesa tra la Fondazione Brescia Musei, il Comune di Brescia, l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze (istituto del MiBACT specializzato nel restauro delle opere d’arte) e la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Bergamo e Brescia, per favorire forme integrate di collaborazione per la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, con un focus dedicato alla Vittoria Alata. Parallelamente, i tecnici dell’Opificio hanno avviato i primi
A destra: il riempimento interno della statua e la struttura metallica inserita nell’Ottocento, visti dall’apertura di una delle braccia smontate.
Qui accanto: la struttura metallica ottocentesca a cui si agganciavano ali e braccia dopo la rimozione effettuata durante l’intervento di restauro. Nella pagina accanto: 12 luglio 2018. L’arrivo della Vittoria Alata presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.
Anche durante la seconda guerra mondiale fu necessario trasferire il bronzo in un luogo sicuro, per disposizione del Comitato provinciale di protezione antiaerea di Brescia, anche se questa volta si trattò di un viaggio piuttosto breve, fino a Villa Fenaroli a Seniga (Brescia), dove giunse il 13 giugno 1940, su un automezzo del Comitato stesso, proprio durante un allarme aereo. Pare che, per maggiore sicurezza, la cassa contenente la Vittoria sia stata addirittura sepolta nel parco della villa. Dopo il suo rientro in città, il 10 dicembre 1945, si iniziò a esaminarne lo stato di conservazione con metodi scientifici e, a seguito di un sopralluogo di
Cesare Brandi, direttore dell’allora ICR (Istituto Centrale per il Restauro) di Roma, il 20 luglio del 1947, si decise di trasferire la preziosa scultura presso l’Istituto stesso per un primo intervento conservativo. La Vittoria arrivò a Roma nel 1948, imballata in un’apposita cassa solo con le ali smontate, mentre le braccia vennero lasciate agganciate al supporto ottocentesco. Ultimato l’intervento di restauro, nello stesso 1948 la Vittoria Alata fu direttamente inviata a Zurigo per essere esposta nella mostra «Kunstschätze der Lombardei», su richiesta di Nevio De
Grassi (Soprintendente alle Antichità della Lombardia) e Antonio Frova (archeologo), che avevano curato le sezioni archeologiche dell’esposizione. Tale mostra, l’unica a cui l’opera abbia mai preso parte, era necessaria, in quanto i proventi erano destinati ai lavori di ripristino dei musei lombardi danneggiati dalla guerra. Rientrata a Brescia nel 1949, la Vittoria venne inizialmente ospitata nella Pinacoteca Tosio Martinengo, per essere poi collocata nei nuovi locali del Museo Romano, costruiti sopra il Capitolium, dove è rimasta fino al 1998, anno del suo trasferimento al Museo di Santa Giulia. E nel Capitolium si accinge ora a rientrare definitivamente, per essere nuovamente offerta all’ammirazione del pubblico.
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sopralluoghi a Brescia con ispezioni effettuate attraverso le aperture delle braccia smontate.
L’AVVIO DEI LAVORI «Il tutto è nato – spiega Anna Patera, direttrice del Servizio trasversale materiali archeologici dell’Opificio delle Pietre Dure – dall’attenzione e dalla cura che Brescia e la Fondazione Brescia Musei riservano al proprio patrimonio storico e archeologico. E le indagini, svolte in modo assolutamente non invasivo con la tecnologia dell’emissione acustica, hanno confermato una microsofferenza strutturale nella statua, soprattutto a causa dello sbilanciamento di carico creato dalle ali, che ha reso necessario l’intervento di restauro, avviato all’indomani del trasferimento della Vittoria a Firenze, il 12 luglio 2018». «Si tratta – continua Patera – di un progetto complesso, caratterizzato da un approccio multidisciplinare che, all’intervento conservativo vero e proprio, ha affiancato indagini a 360°, per approfondire la conoscenza dell’opera dal punto di vista tecnologico, storico, artistico, culturale. Per realizzarlo, la Fondazione Brescia Musei ha coinvolto, oltre al personale
tecnico-scientifico dell’Opificio, professionisti e specialistici esterni, anche dell’Università “Sapienza” di Roma, del Politecnico di Milano e del CNR, dando vita a un team di studio che ha incluso piú di trenta specialisti tra archeologi, restauratori, storici d’arte, studiosi di tecnologia antica, esperti scientifici (chimici e fisici), addetti di laboratorio, tecnici, ingegneri, ecc.». L’intervento ha potuto avvalersi di
un precedente studio effettuato nel 2003, che aveva già evidenziato lo stato di sofferenza della Vittoria. «Una delle prime attività intraprese, che ha richiesto piú di 6 mesi di lavoro, è stata l’asportazione dei materiali collocati all’interno della statua, ovvero la struttura metallica e il r iempimento inser iti già nell’Ottocento, forse nel 1838, opera di un anonimo restauratore. Nello stesso periodo la Vittoria Ala-
La testa della Vittoria Alata durante una delle prime fasi del restauro, svolte con la statua in posizione supina. 34 a r c h e o
ta venne integrata anche con i suoi elementi mancanti, ovvero l’elmo di Marte e lo scudo, appositamente realizzati, di cui oggi resta solo testimonianza fotografica». Nell’Ottocento era stata infatti creata una struttura metallica interna, che fissava la scultura al suo piedistallo e a cui si agganciavano sia le ali e le braccia, sia il riempimento (100 kg circa), che rendeva solidale il supporto con la statua stessa; il riempimento era costituito principalmente da pezzi di legno e frammenti di terracotta inglobati in un composto a base di una resina naturale (colofonia).
UNA SOLUZIONE INGEGNOSA «Tale struttura, molto ingegnosa, e il riempimento, all’epoca considerato appropriato, si presentavano – riprende Morandini – in parte deteriorati e potenzialmente dannosi, anche a causa degli effetti dovuti all’interazione con il bronzo antico. Questo ha reso necessario progettare un nuovo dispositivo interno che prendesse il posto di quello ottocentesco nella sua funzione originaria, ovvero sostenere le ali e le braccia. Lo studio, svolto con il supporto costante dell’Opificio, è stato affidato al Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale dell’Università “Sapienza” di Roma, mentre la realizzazione è opera dell’azienda Capoferri, cha ha ingegnerizzato il modello, traducendolo in una struttura simile a uno scheletro, grazie a un “lavoro corale” tra restauratori, tecnici e ingegneri. Il momento piú delicato è stato indubbiamente il posizionamento del supporto all’interno della Vittoria Alata, per via dello scarso spazio di accesso e di manovra». «La rimozione del riempimento – conferma Patera –, oltre a rappresentare un ulteriore elemento di
L’ala destra della statua prima (in basso) e durante le operazioni di pulitura (a destra).
La storia moderna della Vittoria ebbe inizio la sera del 20 luglio 1826 a r c h e o 35
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garanzia per il futuro benessere della statua, ha permesso per la prima volta di indagarne le superfici interne e ciò ha consentito uno studio approfondito della tecnica esecutiva, oltre che del suo stato di conservazione». L’intervento si è poi concentrato sulle operazioni di pulitura e protezione delle superfici. «Le indagini scientifiche svolte prima dell’avvio delle attività hanno permesso di evidenziare una vera e propria stratigrafia di materiali e prodotti depositati sulla statua, principalmente residui terrosi e materiali incoerenti, resti dei vari calchi effettuati negli anni e dei precedenti interventi di restauro a cui la Vittoria Alata era stata sottoposta, la cui rimozione ha dovuto tener conto anche delle esigenze del bronzo archeologico. In particolare, le ali avevano subito vari interventi invasivi, che ne celavano quasi del tutto il modellato e i particolari costruttivi». A sinistra: il braccio destro della statua: sulla mano sono visibili i resti di doratura. Nella pagina accanto: il corpo della Vittoria Alata durante la rimozione dei vecchi protettivi. Risultano evidenti le differenze tra la parte superiore, non ancora trattata, e la parte inferiore già sottoposta a parziale pulitura.
Le indagini appena concluse provano che la Vittoria Alata fu il frutto di un progetto unitario
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L’intervento conservativo ha permesso di raccogliere una notevole mole di dati e di informazioni, ancora in corso di elaborazione, che in parte hanno confermato quanto già precedentemente acquisito e in parte hanno portato a nuove scoperte. «Attuata in maniera graduale e selettiva, la pulitura ha permesso di meglio evidenziare alcuni particolari, ovvero una fascia che correva sul bordo dell’himation – definita da due sottili linee –, ma anche nuove tracce di doratura sulla mano destra e sul piede destro. Anche la decorazione del diadema, precedentemente ipotizzata a foglie di ulivo o di alloro, si è ora rivelata in realtà come costituita da rami di mirto, con foglie e bacche, ai lati della rosetta centrale».
L’ETÀ DELLA STATUA Uno dei dati di maggior interesse scientifico riguarda l’ambito cronologico in cui è stata realizzata la Vittoria Alata. «Fino a oggi – continua Morandini – la statua era identificata come un’Afrodite a cui erano state successivamente aggiunte ali a essa non pertinenti, trasformandola in una Vittoria. Ma ora è stato dimostrato che corpo, braccia e ali vennero realizzati nello stesso momento, e quindi la statua è stata concepita fin dall’origine proprio come una Vittoria Alata, frutto di un progetto unitario, con parti create separatamente e poi assemblate insieme, secondo una prassi consueta per i bronzi monumentali. La datazione è intorno alla metà del I secolo d.C., come confermano anche elementi iconografici, e resta valida l’ipotesi che si tratti di un’opera ispirata a vari esemplari ellenistici, dei quali sono stati combinati differenti elementi in un capolavoro di grande originalità, forse addirittura realizzato in un atelier del Nord Italia. Si è anche ipotizzato che la statua possa essere un dono dell’imperatore Vespasiano a Brixia, città che lo sostenne e a cui
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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IDENTIKIT DI UN PROGETTO L’intervento di restauro sulla Vittoria Alata fa parte di un piú ampio progetto di valorizzazione della preziosa scultura bronzea ed è stato costantemente seguito, in tutte le sue fasi, da un comitato tecnico-scientifico. In esso sono state coinvolte le varie istituzioni interessate, attualmente rappresentate da: Marco Ciatti, Opificio delle Pietre Dure di Firenze (OPD); Stefano Karadjov, Fondazione Brescia Musei (FBM); Luca Rinaldi (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Bergamo e Brescia); Marco Trentini (Comune di Brescia). Il coordinamento generale delle attività è stato affidato a Francesca Morandini (FBM) e Anna Patera (OPD). Il restauro, condotto nel Laboratorio del Settore bronzi e armi antiche dell’OPD, è stato curato da Annalena Brini con Stefano Casu, Svèta Gennai e Elisa Pucci. Le indagini scientifiche, eseguite presso il Laboratorio scientifico dell’OPD, sono state seguite da Andrea Cagnini, Francesco Cantini, Monica Galeotti, Simone Porcinai, Isetta Tosini, Alessandra Santagostino Barbone. Il supporto interno alla statua è stato progettato da Francesca Campana e Michele Bici dell’Università degli Studi «Sapienza» di Roma; l’ingegnerizzazione e la realizzazione si devono a Capoferri Serramenti S.p.a. Per gli altri ambiti operativi, parte integrante del progetto, hanno partecipato numerosi specialisti ed esperti che per brevità non è possibile citare in modo specifico.
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era molto legato e che contribuí ad arricchire, per celebrare la vittoria del 69 d.C. contro gli eserciti di Ottone e Vitellio nella battaglia di Bedriacum, a pochi chilometri da Brescia stessa. Non è comunque possibile stabilire se si tratti di un ex voto fatto appositamente realizzare da Vespasiano o se la Vittoria sia stata realizzata per altre celebrazioni e donata poi a Brescia».
L’AMORE DEI CITTADINI «È invece certo che la statua dovesse essere collocata in un edificio o in uno spazio pubblico, magari proprio nel Capitolium, ed è qui, nell’aula orientale, che la Vittoria Alata potrà finalmente essere di nuovo ammirata, su un basamento cilindrico in pietra bianca di Botticino in posizione rialzata (come probabilmente poteva essere in epoca antica), con un nuovo allestimento innovativo, anche dal punto di vista tecnologico, appositamente concepito per garantirne una migliore fruizione e conservazione. Ci tengo inoltre a sottolineare che la campagna di indagini archeologiche svoltasi nell’Ottocento era stata sostenuta da una sottoscrizione pubblica, seguita con grande orgoglio dai cittadini, e anche oggi l’intero progetto di valorizzazione e restauro è stato reso possibile da risorse pubbliche, ma anche donazioni private, favorite dal dispositivo fiscale dell’Art Bonus, progetto che ha permesso di riportare la statua nel tempio in cui venne scoperta (e inizialmente esposta), quasi a chiudere in un cerchio ideale la storia della Vittoria stessa, ma anche l’amore dei Bresciani per la loro città». DOVE E QUANDO Parte del gruppo di lavoro che ha curato il restauro della Vittoria Alata presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.
Brixia. Parco archeologico di Brescia romana Brescia, via Musei 55 Info tel. 030 2977.833-834; e-mail: santagiulia@bresciamusei.com; www.bresciamusei.com a r c h e o 39
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L’INTERVISTA • LA CONDIZIONE FEMMINILE
POCHE PAROLE E
MOLTI SGUARDI...
COME È CAMBIATA, OGGI, LA PERCEZIONE DELLA DONNA NELL’ANTICHITÀ? E PERCHÉ È NECESSARIO RILEGGERE, ANCHE A QUESTO PROPOSITO, GLI AUTORI CLASSICI? NE ABBIAMO PARLATO CON CORRADO PETROCELLI, PROFESSORE DI FILOLOGIA CLASSICA ALL’UNIVERSITÀ DI BARI, AUTORE DI UN SAGGIO SULLA CONDIZIONE FEMMINILE NEL MONDO ROMANO (LA STOLA E IL SILENZIO, SELLERIO EDITORE, PALERMO) E UNO DEI MASSIMI STUDIOSI DELL’ARGOMENTO intervista a Corrado Petrocelli, a cura di Silvia Camisasca
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egli anni Ottanta gli studiosi che, da veri pionieri, iniziarono a dedicarsi alle indagini sulla condizione femminile nel mondo antico si trovavano non di rado a doversene giustificare. Fino ad allora, la sfera del femminile era relegata alla storia del costume - ascrivendo le singole figure, secondo una schematica catalogazione, a due modelli, quello canonico o trasgressivo. Maturò, poi, la consapevolezza dell’utilità di ricostruire una storia delle differenze e delle relazioni tra i sessi nella cultura occidentale al fine di comprendere come modi di pensare, sentimenti e comportamenti fossero evoluti nel tempo. Il nuovo approccio all’universo femminile dell’antichità esprimeva la necessità di ricordare che le donne di oggi sono, in fondo, il prodotto di un’immagine tramandata da un passato piú o meno remo-
to. Un’immagine composta, non di rado, da stereotipi codificati e prosperati nei secoli. Occorreva, tuttavia, anche superare l’opposizione binaria uomo/donna, segnata da una lettura tradizionale della storia in cui gli uomini fanno ruotare attorno alla loro centralità la realtà femminile. È curioso che, tra i primi a cogliere questa codificazione della subalternità sia stato proprio uno studioso «uomo»: «Come abbiamo conosciuto Era o Penelope, se non come moglie di Zeus e compagna di Ulisse?» si chiede Petrocelli, sottolineando quanto l’identità femminile fosse definita in rapporto al mondo maschile, mentre non si sarebbero mai invertite le parti (nessun re degli dei, nessun eroe omerico è mai definito in quanto «consorte» delle rispettive mogli!): le donne vengono pur sempre evocate come mogli, madri, figlie, sorelle…
♦ Professor Petrocelli, come dobbiamo leggere, dunque, gli autori classici? Quale dev’essere, secondo lei, la prospettiva «nuova» da adottare? «Soprattutto se letterarie, le testimonianze non sempre riflettono una piena aderenza alla realtà
sociale, ma piuttosto ne danno una rappresentazione simbolica e filtrata dall’orientamento di chi scrive: e chi scrive, nella stragrande maggioranza dei casi, non è donna. Le figure femminili vengono, cosí, presentate secondo l’ottica e la
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volontà maschili. Pensiamo al teatro o alla poesia drammatica e alle discrasie, in relazione all’opposizione maschile/femminile, tra vita quotidiana e organizzazione sociale e rappresentazione scenica, tra realtà e immaginario. Nella tragedia greca, per esempio, in cui la presenza femminile si rivela quasi preponderante (solo il Filottete tra i drammi tramandati non annovera personaggi femminili), le tante figure di donne sono, non di rado, usurpatrici di prerogative maschili, per cui accade che altre protagoniste di tali tragedie dispensino giudizi molto negativi sul genere femminile. Cosí l’Andromaca euripidea può dire: “Nessuno ha trovato un rimedio contro una donna cattiva, male peggiore della vipera e del fuoco, tanto è il male che siamo per gli uomini” (vv. 270-73). E, ancora, Medea: “Siamo donne, quanto mai incapaci di nobili azioni, ma espertissime tessitrici d’ogni male” (vv. 407-09). E potremmo addurre molti altri esempi».
che, nell’antichità, le donne – non solo quelle di categorie «speciali», che sfuggono alla norma – fossero piú temute che odiate, e che, sotto la crosta di negatività dei topoi misogini o delle categorie filosofiche che ne decretavano l’inferiorità naturale, come in Aristotele, ci fosse, invece, la consapevolezza della loro forza? «Partirei dalla parola femminile e da quella che è stata definita “congiura del silenzio”, dopo un’opportuna premessa in merito alle narrazioni sulla creazione della prima donna o, meglio, della razza delle donne. Non di rado si evoca, a tal proposito, la testimonianza dell’Antico Testamento: nella Genesi, si dice che Dio, “volendo dare un aiuto adatto all’uomo”, creò gli animali, ma poiché nessuno di questi risultava idoneo, tolse una costola ad Adamo e creò la donna. Adamo si rallegrò: “Questa sí, è ossa delle mie ossa, carne della mia carne, si chiamerà donna perché tratta dall’uomo” (i commentatori notano ♦ In anni di studi, lei ha maturato la convinzione che è irriproducibile l’effetto dell’ebraico ish/ishah= Giove e Pandora, olio su tavola di Francesco Albani. XVII sec. Bologna, Pinacoteca Nazionale.
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L’INTERVISTA • LA CONDIZIONE FEMMINILE
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uomo/donna). L’uomo si unirà alla sua donna e i due saranno una cosa sola. Dopo l’episodio della mela e del serpente Dio disse alla donna: “Moltiplicherò la sofferenza delle tue gravidanze e partorirai figli con dolore. Eppure, il tuo istinto ti spingerà verso il tuo uomo ma egli ti dominerà” e, in questo passo, si coglie la subalternità di un essere creato inizialmente uguale (nel Talmud “la donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché fosse pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ piú in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere amata”)».
«Infatti, nella versione fornita da Esiodo in Opere e giorni (42-89), la prima donna sarebbe stata Pandora. Su ordine di Zeus, gli dèi (soprattutto Atena, Afrodite ed Ermes), dopo che Efesto mescolò terra e acqua, infondendo soffio vitale, le donarono varie qualità: grazia, bellezza, persuasione, passione e abilità tecniche, realizzando cosí “l’inganno senza rimedio” che l’uomo, nel mito di Epimeteo, avrebbe accettato. Secondo questa versione, dunque, ella nasce come punizione del genere umano: punizione conseguente all’inganno di Prometeo, che aveva rubato il fuoco agli uomini. Da lei discenderà il genere “altro”, nefasto. Mi preme però ♦ E per il mondo greco? sottolineare il dono di Ermes: il dio, come dice Esiodo, «In un celebre componimento, definito dai moderni le infuse nel petto discorsi seducenti/ingannatori, menSatira contro le donne, il poeta Semonide di Amorgo (atti- zogne e un carattere scaltro e ambiguo. Solo in seguito, vo intorno alla metà del VII secolo a.C.), sfruttando il le infuse la parola: è chiaro, quindi, che l’eloquio femcarattere aggressivo della poesia giambica e, presumibil- minile, per natura, non avrebbe potuto che essere pormente, per compiacere l’uditorio maschile del simposio, tatore di inganno e doppiezza». offre un catalogo delle varie tipologie di donne, ricorrendo al parallelismo con il mondo animale. Del resto, la ♦ Tale aspetto giustifica la tradizione che insisteva cultura occidentale, e non solo, è ricca di miti, fiabe, nell’impedire alle donne il diritto di parola e il simbolismi che alludono al regno animale. Si susseguono suo uso pubblico, men che meno in occasioni cosí la donna-scrofa, che vive nella sporcizia, la femminaufficiali, esaltando la consegna del silenzio e il volpe, esperta di tutto e mistificatrice del vero, la cagna tacere come massima virtú? dall’eloquio impareggiabile, ecc… Compare, però, anche «Nell’ampia cornice in cui cose, animali, fenomeni fisila donna di terra, una delle due sole tipologie che esula- ci si manifestano come esito di una narrazione del mito, no dal parallelismo animale e rinviano agli elementi nella rielaborazione originale delle Metamorfosi di Ovicostitutivi – terra e acqua –, in rapporto immediato con dio, si intrecciano le vicende di Eco e Narciso. Narciso la natura bruta. Infine, compare la donna proveniente dal si consuma dietro l’illusione di un’immagine riflessa, mare, emblema di apparenza, doppiezza, volubilità, inaf- fino a diventare un fiore: egli è imago formae (III.416) ed fidabilità, come il mare che da calmo improvvisamente Eco era dotata inizialmente di autonomia, versata nel volge alla tempesta: già qui, e ancor piú nell’Eneide (IV, parlare, usava con abilità il suo eloquio per favorire gli 569), “varium et mutabile semper femina” è all’origine del amori di Zeus (garrula, longo sermone prudens tenebat). Per topos dell’essere femminile d’indole variabile e mutevole, punizione verrà privata della capacità di esprimersi, di ripreso con molta fortuna dal Boccaccio al Petrarca, dal manifestare il proprio pensiero, di comunicare i propri Tasso al Rigoletto, con la celebre aria La donna è mobile…. sentimenti, per esempio, a Narciso, e si consumerà sino C’è poi la donna-asina, che richiama la sottomissione e a diventare suono tra le rocce: un suono ripetitivo, peril rapporto animale con cibo e sesso; la donnola, strega lopiú, che non può acquisire la dimensione del discorso, incantatrice e libidinosa; la cavalla, refrattaria al lavoro, né può assumere iniziativa di risposta. Si riduce a un’eche unisce bellezza a varietà e doppiezza; la scimmia, sternazione passiva, obbligata a parlare solo riprendendo repellente d’aspetto, che, grazie a conoscenza ed espe- parzialmente termini non suoi, una facoltà espropriata rienza, sa compiere le maggiori nefandezze. E infine della comunicazione. Analogo, per certi versi, il mito l’ape, la sola da sposare, perché sta tra le mura domestiche, romano della dea Tacita, a cui si rivolgeva il culto dei produce e lavora obbediente». Lari, perché, invocata, intervenisse a frenare le parole altrui: in origine Lara, ciarliera ninfa dei boschi, rivelava ♦ Al di là dell’assunto, chiaro, sull’inferiorità ge- a Giunone le ambizioni amorose di Giove. Per punizionetica e sociale, l’idea del confinamento dome- ne le viene strappata la lingua e Mercurio, mentre l’acstico, di sottrarre la donna a ogni rapporto in compagna negli inferi dove sarà confinata, le usa violenquanto fonte di discredito o corruzione, conta za. Si noti che la divinità che richiama la parola è il dio l’esordio, l’incipit, che fornisce il taglio al com- Aius Locutius, ovviamente, maschile. ponimento: il dio creò l’indole della donna Troppo numerose sono le testimonianze di una tradi«separatamente» (chorís in greco) e la separatezza è anche diversità. La sua comparsa avviene Nella pagina accanto: Eco, olio su tela di Alexandre sotto il segno dell’alterità... Cabanel. 1874. New York, The Metropolitan Museum of Art. a r c h e o 45
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zione concorde sull’esigenza di disciplinare l’eloquio femminile e imporre silenzio e riservatezza. Celebre quella (ripresa anche da Aristotele, tra gli altri) dell’Aiace sofocleo: “Il silenzio alle donne arreca decoro”. Cosí Eteocle, adirato per il discorso del coro di donne, nei Sette contro Tebe di Eschilo: “Quanto avviene fuori è cura dell’uomo, non certo della donna: sta’ dentro e non crearci danni” (vv. 200-202). Negli Eraclidi di Euripide, Macaria si scusa per la sua apparizione improvvisa, consapevole che “non c’è cosa piú bella per una donna che il silenzio, la riservatezza assennata e il rimanere tranquilla in casa”. Cosí nelle Troiane (647),Andromaca rivendica la propria fama di sposa onesta, restia a mostrarsi all’esterno e silenziosa regina del focolare. Nell’Economico di Senofonte il protagonista Iscomaco loda le qualità della giovane moglie e cita, come primo titolo di merito, l’averla accolta in casa a 15 anni non ancora compiuti e vissuti in regime di stretta sorveglianza, perché vedesse e udisse e chiedesse il meno possibile. Stando a Plutarco, tra tutti i re di Roma, Numa era considerato il piú saggio, in quanto il solo ad aver fissato rigide norme per un ruolo decoroso delle donne: in particolare, per aver loro impedito l’accesso alla gestione degli affari pubblici, per aver imposto di astenersi dal vino e dal prendere la parola in assenza del marito, neppure in caso di necessità». ♦ Già in Omero, però, appaiono indicazioni esplicite in tal senso: nel primo libro dell’Odissea, sulla falsariga dell’analogo episodio con protagonisti Ettore e Andromaca, nel sesto canto dell’Iliade, Telemaco invita bruscamente la madre a non interloquire e a ritirarsi: «Su, torna nelle tue stanze e accudisci alle tue attività, telaio e fuso; la parola spetta qui agli uomini…»... «Non a caso, lo stesso Tucidide si pronuncia sull’opportunità che il silenzio, dalle donne e sulle donne, venga praticato e, in tal senso, si esprime nell’epitaffio che fa pronunciare a Pericle per i caduti in battaglia. Egli, infatti, dopo essersi rivolto a lungo a padri, figli e fratelli aggiunge: “Se devo parlare della virtú femminile, di quante ora saranno vedove, condenserò il tutto in una breve esortazione: grande il vostro onore se non vi dimostrate inferiori ai limiti naturali, e, se fra gli uomini si parli di voi, in lode o biasimo, il meno possibile” (II, 45). Proprio contro questa affermazione polemizzerà, secoli dopo, Plutarco che, nell’incipit dello scritto Sulle virtú delle donne, rivendicherà come si possa definire la stessa virtú sia nell’uomo che nella donna. È uno dei brani piú citati per chi vi vede la ripresa di un filone di pensiero che emerge, Il banchetto di Tereo, olio su tela di Pieter Paul Rubens. 1636-1638. Madrid, Museo del Prado. Per vendicare la sorella Filomela, abusata da Tereo, Procne ha decapitato il figlio del re di Tracia e ora gliene offre la testa. a r c h e o 47
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pur con diversi accenti, da Pitagora a Musonio Rufo, passando per Socrate, i cinici e, ovviamente, gli stoici. A sostegno di tali considerazioni si citano altre testimonianze plutarchee, come l’Amatorius, e, soprattutto, in relazione alla famiglia e al matrimonio, un trattato, un opuscolo scritto per due giovani amici, Polliano ed Euridice, che, accanto a una serie di consigli matrimoniali, contiene anche riflessioni di carattere filosofico».
femminile, perché vaniloquio, sconveniente o compromettente. In realtà, altre piú forti ragioni insistevano sull’imposizione del silenzio... «Sí: la pericolosità stava nella potenza e nell’efficacia del loro argomentare. Il rischio è che potessero sedurre, catturare, convincere. Diveniva allora essenziale il confinamento entro le mura domestiche delle donne, escludendole dalla dimensione pubblica. Cosí, tra le figure mitologiche alle quali sono attribuite, in parte o integralmente, fattezze femminili, gli unici personaggi che pronunciano un canto epico in Omero (a parte, ovviamente, Odisseo e gli aedi), che hanno facondia, dispensano conoscenze e avvincono con l’armonia dell’eloquio sono le Sirene, che, però, divorano chi ne segue il canto. E se un personaggio come Clitemnestra, nell’Agamennone di Eschilo, dà prova di capacità tecniche innovative e oratorie (“ti esprimi come un uomo di equilibrio” dice il coro), non si può dimenticare l’esito mortale e negativo del suo operato, che la macchia in modo indelebile. Ci furono, certo, personaggi femminili che sfuggirono a tale cliché. E, spesso, proprio l’eccezionalità del loro esempio ne rese difficile la collocazione».
♦ Questi non risentono dell’idea plutarchea, forse influenzata dall’esperienza del suo rapporto con la moglie Timossena, di dover coltivare una dimensione culturale della moglie, educandola alla filosofia attraverso il dialogo, in modo da essere una buona moglie, una compagna che si rivolge al marito come sua guida, pigmalione e maestro? «In effetti è un aspetto significativo della concezione di amore coniugale come philía, ovvero, “reciprocità di affetti, intesa di intenti, desiderio amoroso e familiare intimità” (Plutarco, Filosofia del matrimonio, a cura di Ludmilla Bianco, Sellerio), in cui ci sarebbe armonia tra ragione (maschile) e inclinazione (femminile). Giacché il marito deve esercitare il dominio su di lei come l’anima sul corpo, il padrone sullo schiavo: la ♦ Per esempio, Aspasia? Una straniera di Mileto: donna è benaccetta ed elogiata, se sottomessa: “Se le dall’Asia Minore portava l’avvenenza, ma era donne non ricevono i semi di nobili pensieri e non partecidotata di un fascino conseguente all’abilità e pano alla cultura degli uomini, da sole concepiscono molte alla perizia nell’arte oratoria. Argomentava, stranezze, progettano idee e passioni meschine” afferma con cognizione e dottrina, di retorica e filosoPlutarco. Tuttavia, tali considerazioni valgono perlofia, a tal punto da tenere testa a Socrate, con piú quando Plutarco discute in astratto del rapporto cui dialogava e si confrontava... matrimoniale e, soprattutto, in relazione a quanto si «Sí, eppure questa donna, sophè kai politikè, “sapiente e svolge all’interno delle mura domestiche». versata nella politica”, accorta consigliera di Pericle, oltre che sua compagna e madre di suo figlio, stimatis♦ Al contrario, quando passa, piú genericamente, ai sima amica di Socrate, legata da stretti rapporti agli precetti relativi ai comportamenti cui deve esponenti piú in vista della polis, fu bollata da ogni tipo ispirarsi la buona moglie, specie nell’approccio di epiteti, a cominciare, ma non solo, dagli avversari di con gli estranei e al mondo esterno, l’imposta- Pericle, fino a essere trascinata in processo. Soprattutto zione muta, arrivando a raccomandare che la nella commedia è, di volta in volta, definita concubina, donna si mostri il meno possibile e sia riserva- etera, cortigiana, mezzana e prostituta. Antistene ed ta nei discorsi, fino a interloquire solo con il Eschine le dedicarono due scritti di cui purtroppo restano solo pochi frammenti. Le maggiori notizie le consorte o per suo tramite... «È proprio cosí. Ed è forse superfluo sottolineare che ricaviamo dalla biografia plutarchea di Pericle, in cui si l’elemento topico del silenzio sia ben presente anche apprezza l’anomalia, essendo chiamata “maestra”, o nella tradizione latina. Limitandoci alla commedia, meglio,“maestro” (didaskalòs), preceduto dall’articolo al ricordo l’Aulularia e lo Stichus di Plauto, in cui “una femminile,“la maestro”, dal momento che il greco non donna silenziosa è sempre preferibile a una che parla”. annoverava una forma femminile per una professione Nel prologo del Poenulus, in riferimento al compor- da sempre appannaggio degli uomini, cosí come, pur tamento delle donne a teatro, dopo aver sottolineato provenendo l’ispirazione poetica dalle Muse, non era il fastidio dovuto al tono e al contenuto del loro previsto un femminile per aedo o rapsodo». “ciarlare”, le si invita ad assistere tacitae allo spetta♦ A lungo, in verità, anche per poeta: il termine colo, e persino a ridere in silenzio». ♦ È come se la maggioranza delle testimonianze rivelasse il bisogno di controllare il linguaggio 48 a r c h e o
Medea, olio su tela di Henri Klagmann. 1868. Nancy, Musée des Beaux-Arts.
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L’INTERVISTA • LA CONDIZIONE FEMMINILE
poietria è tardo. Ancora oggi, del resto, si dibatte sul genere femminile di professioni o alte cariche dello Stato storicamente riservate agli uomini... «Certo: per dirla con Nicole Loraux, “Tanti discorsi intorno ad Aspasia, su Aspasia, ma che resta di quello che diceva, pensava e viveva?”. Tucidide poi, che dedica a Pericle l’ampio spazio che sappiamo, forse in osservanza della regola del silenzio prima enunciata, si guarda bene perfino dal nominarla. Infatti, non lo fa nemmeno una volta. E pensare che sono stati tramandati episodi in cui
la parola femminile è risuonata come un vincente moto di ribellione, per esempio, verso una violenza subíta». ♦ Può dunque essere utile ricordare che proprio il 25 di questo mese si celebra la Giornata Mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, indetta dalle Nazioni Unite... «Ricordiamolo: nel racconto di Livio, nel capitolo dedicato all’età regia, si trova il celebre episodio in cui Lucrezia decide di rivelare la violenza subíta da Sesto,
Penelope e Telemaco ritratti su un vaso attico a figure rosse. V sec. a.C. Chiusi, Museo Archeologico Nazionale. Dietro la coppia, si riconosce il telaio al quale la regina lavora ogni giorno in attesa del ritorno di Ulisse.
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figlio di Tarquinio il Superbo, rompendo appunto il rigidissimo codice del silenzio. Farà la sua denuncia all’interno delle mura di casa, davanti a marito e congiunti, e sacrificherà la vita, ma, con il suo atto rivoluzionario, determinerà la caduta dei Tarquinii e l’avvento della repubblica».
tra al telaio, ed Elena, addirittura, ricama le gesta cui assiste dalle mura di Troia... «In particolare, nel IV libro dell’Odissea, si narra dell’arrivo di Telemaco, in cerca di notizie sul padre, alla corte di Menelao, cui giunge accompagnato da Pisistrato, figlio di Nestore. Appena fa il suo ingresso Elena, Telemaco, che pure non aveva ancora rivelato la sua identità, viene subito riconosciuto dalla regina. Segue la rievocazione delle drammatiche vicende di Troia, per la quale cala un velo di tristezza sul re e i suoi ospiti. A questo punto, Elena, esperta di magie e pozioni, serve un phàrmakon, tale da sciogliere i dolorosi ricordi nel vino: è significativo che già gli antichi – penso a Plutarco e Macrobio – suggerissero una spiegazione allegorica, secondo cui il phàrmakon, in realtà, altro non era che la parola seducente di Elena capace di rimuovere ogni angoscia».
♦ Potremmo dire che ha tracciato il corso della storia di Roma... «Beh, la conclusione è piuttosto immediata. Poi, in uno dei racconti delle Metamorfosi, Ovidio illustra la vicenda di Tereo, tirannico re di Tracia che, inviato dalla moglie Procne a prelevare la sorella Filomela, se ne invaghisce e le usa violenza. Filomela si ribella e, contro ogni aspettativa, giura di raccontare e rendere pubblico l’accaduto: Tereo le taglia la lingua e la fa imprigionare in un casolare isolato. Ma Procne ricama su di una stoffa la sua vicenda e trova il modo di farla pervenire alla sorella che, srotolando la tela come un papiro, scor- ♦ Tralasciando il rapporto tra donne e magia, filtri, re e ben interpreta la vicenda raffigurata. La vendetta incantesimi, volti a dominare o sovvertire eventi delle due donne sarà terribile e l’esito tragico per tutti anche naturali, torniamo sul riconosciuto posses(vedi il dipinto di Rubens alle pp. 46/47)». so del sapere tecnico, unito a una particolare ed efficace ingegnosità nell’ideare espedienti vin♦ Del racconto di Ovidio importa rilevare la pocenti. Tali qualità – unite a una metis particolare, che avevano indotto Esiodo a definire Pandora tenza della parola femminile, che supera ogni un dòlos amèchanos, ovvero «un inganno senza condizionamento, cosí come la capacità di eluderimedio» – trovano testimonianza? re il limite della costrizione fisica, ricorrendo «Sono ampiamente testimoniate. Nel dialogo tra Feall’espediente della filatura... «Proprio cosí: è il sapere tecnico, cosí come definito da dra e la nutrice, nella tragedia euripidea dell’Ippolito, Esiodo nel mito di Pandora, a cui si ricorre, con scal- si afferma che le donne sono piú inclini degli uomini trezza e acume, come soluzione alternativa. In greco si a ideare rimedi ed espedienti e, nell’Ifigenia in Tauride, direbbe una mechanè. E d’altronde tessere, in particolare al cospetto di Ifigenia che dà prova di saper produrre una trama, rimanda a molteplici significati interpretati- abili ritrovati, Oreste ammette che le donne sono vi.Trama, infatti, è di un tessuto, una stoffa che si ottie- “insuperabili nell’escogitare artifici”. Chi, dunque, ne intrecciando i fili, ma trama è anche di un racconto, detiene una simile abilità, sarà altrettanto imbattibile che si snoda intrecciando le parole. Spesso allude a nello smascherare intrighi e inganni: nelle Ecclesiazuse, un’azione segreta: tramare intesa come “macchinare”. Aristofane fa dire alla protagonista Prassagora che le Cosí l’attività del filare e del tessere che, sia nel mondo donne al potere farebbero bene, perché abilissime nel greco che in quello latino, era distintiva della “brava procurarsi e gestire servigi, e, abituate a ingannare, consorte” assume un valore che rimanda a Pandora, non si farebbero irretire». alle sue abilità manuali, ai suoi discorsi ingannevoli, alla sua scaltrezza. L’espediente con cui Arianna mette ♦ Tornando all’episodio dell’Odissea… Teseo in condizione di superare, ai limiti del possibile, «Elena racconta di quando Ulisse, irriconoscibile la prova del labirinto è un filo. E un filo, tò línon, deter- travestito da mendicante, riuscí a entrare a Troia: fu mina lo scorrere del tempo della vita e segna il destino lei la sola a riconoscerlo, a smascherarne l’identità e nelle mani delle Parche (le divinità che, nella mitologia persino a carpirgli delle informazioni. Analogamenromana presiedevano al destino dell’uomo, n.d.r.)». te Menelao rammenta di quando ancora Elena si aggirava attorno al cavallo di legno, chiamando i ♦ Quasi superfluo, a questo punto, ricordare l’in- Greci nascosti all’interno e imitando persino le voci ganno della tela di Penelope. E non è la sola: al delle loro consorti. Elena, nel detenere in modo telaio nell’Odissea ritroviamo sia Calipso che spiccato tipiche qualità femminili, incarna, certo, una Circe, intente non solo a filare, ma a diffondere figura “speciale”. In questa circostanza va sottolineun canto che seduce e conquista. Anche nell’Ilia- ata la capacità di cogliere quel che a tutti sfugge: de, quando Ettore si reca da Andromaca, la incon- soltanto un’altra persona, infatti, sarà in grado di ria r c h e o 51
L’INTERVISTA • LA CONDIZIONE FEMMINILE
conoscere Ulisse travestito a Itaca, un’altra donna, guarda caso, la vecchia nutrice Euriclea. Nell’episodio narrato da Menelao c’è dunque la capacità di individuare l’inganno, la mechanè, laddove nessun altro riesce, vedendo al di là, in senso metaforico e fisico: infatti, i guerrieri erano nascosti all’interno. E anche il tentativo di farli parlare sarebbe riuscito, se non ci fosse stato l’intervento di Ulisse a tappare la bocca ai commilitoni: a Ulisse, d’altra parte, è stata donata da Atena proprio la metis, in lui versatile e utile in ogni circostanza (è definito polymetis), dote che gli permette di sfuggire a Polifemo e, analogamente, a Circe e alle Sirene. Questa abilità femminile di escogitare e svelare mechanai, se sfugge ai rigidi limiti imposti e si fa incontrollabile, può sortire effetti terribili e, spesso, vincenti. Una qualità che si aggiunge all’innata inclinazione all’ascolto, teso a indagare e carpire informazioni, non confinabile alla superficiale definizione di “incontenibile curiosità”». ♦ A proposito di questa capacità di penetrare la realtà, al di là delle barriere dell’apparenza, esiste una chreia o chria (ovvero un detto icastico e conciso, dal valore ed effetto proverbiali, tipico delle scuole socratiche e ciniche) attribuita a Diogene Cinico, per cui una donna a un solo occhio può definirsi un «male a metà». Affermazione sorprendente in un mondo in cui, invece, la monocolia per gli uomini è simbolo di eccellenza: distingue guerrieri della statura di Annibale, Antigono Monoftalmo, Orazio Coclite e legislatori come Licurgo o Zaleuco. C’è forse il riferimento ad arti magiche e occulte come la temuta abilità di «fare il malocchio», secondo una credenza diffusa nel mondo antico e anche nel Vicino Oriente, attribuita in genere a donne anziane o giovani spose? O forse nasce dall’individuare nello sguardo una potenzialità dirompente, e talora distruttrice, propria del genere femminile? «Si pensi all’effetto mortale della Gorgone Medusa che trasforma in pietra con l’intreccio di sguardi. Già nell’epos omerico, se Elena merita l’epiteto di occhi (o viso) di cagna, boopis (occhio di bue) è attributo di Era, ma Atena soprattutto è optillètis (protettrice dell’occhio), oxyderkès (dallo sguardo penetrante), glaukòpis, dall’occhio splendente che abbaglia dèi ed eroi, in grado di accecare, riconosciuta dal terribile lampeggiare degli occhi. In realtà, l’occhio era considerato ianua cordis, elemento rivelatore della persona, la parte per il tutto, lo specchio dell’anima. Come afferma Platone nel Timeo, prima di ogni altro organo, gli dèi 52 a r c h e o
crearono gli occhi, che portano la luce, e, secondo Empedocle, nella composizione delle membra, prima c’era quella degli occhi ed era opera di Afrodite: la dea creò la rotonda pupilla. E la pupilla è la parte dell’occhio dell’altro in cui ciascuno riflette in miniatura la propria immagine: è chiamata in greco kore e in latino pupa, termini con cui venivano definite la fanciulla, la
In alto: quadretto ad affresco con figura femminile intenta a versare profumo da un askรณs, dal Cubicolo E della Villa della Farnesina, Roma. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. Nella pagina accanto: Oinochoe (brocca utilizzata durante i banchetti per versare il vino attingendolo dai crateri) attica a figure rosse raffigurante la maga Circe, con una bacchetta e una pozione in mano. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. a r c h e o 53
L’INTERVISTA • LA CONDIZIONE FEMMINILE
donna in miniatura, o la bambola. Cosa che si ritrova in altre lingue, non solo nell’egiziano antico e nel copto, ma in spagnolo con nina del ojo, in portoghese con nina do ôlho e persino nei dialetti veneto (putina de l’oco) e genovese (fantinetta de l’euggio). Sulle capacità indagatrici e rivelatrici dello sguardo femminile, che travalica l’immediatamente visibile ed è indice di un’intelligenza brillante e non comune, esistono molti esempi. Mi limito a riportare quello narrato da Erodoto nel libro settimo delle Storie. Venuto a conoscenza dell’intenzione di Serse di condurre una spedizione contro la Grecia, Demarato invia una tavoletta agli Spartani per avvisarli del pericolo imminente: per eludere la sorveglianza, pensa di scrivere sul legno e coprire il messaggio con uno strato di cera. Il re Leonida e gli Spartani si chiedono increduli quale significato possa mai avere quella tavoletta muta: solo Gorgo, figlia del re Cleomene e moglie di Leonida, intuisce l’astuta trovata e, fatta raschiare la cera, disvela l’espediente». ♦ Sguardo femminile, dunque, fonte di forza straordinaria, e vettore, al pari della voce, di seduzione. Ciò spiega anche perché si facesse spesso ricorso a elementi femminili in occasione di congiure (sia per ordirle che per smascherarle) e, piú in generale, di attività come lo spionaggio. Molti gli esempi, a cominciare da chi, come Alessandro o, a Roma, Augusto, si rivolgevano a donne per acquisire informazioni riservate. Abitudine, per altro, continuata nei secoli… «Una delle spie piú attive della prima guerra mondiale, che lavorò contemporaneamente al servizio di Francia e Germania in operazioni di spionaggio e controspionaggio, fece dello sguardo il privilegiato strumento del mestiere, fu attenta indagatrice e, al tempo stesso, abile seduttrice, solita nell’ammaliare i nemici con gli occhi: occhi cosí irresistibili che un aneddoto sulla sua morte riferisce che sarebbe stato necessario bendare i soldati del plotone di esecuzione perché la carica seduttiva del suo sguardo non li soggiogasse. Il suo nome era Margaretha Geertruida Zelle, conosciuta come Mata Hari. In lingua malese: occhio (o pupilla) dell’aurora». PER SAPERNE DI PIÚ Corrado Petrocelli, La stola e il silenzio. Sulla condizione femminile nel mondo romano, Sellerio Editore, Palermo 2019 54 a r c h e o
Il volto della Medusa in un rilievo che ornava uno dei monumenti dell’antica Dydima, città greca della Ionia, oggi in Turchia.
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TROPPO ETRUSCHI PER ESSERE
VERI...
A destra: l’edificio che ospita il Parlamento giapponese, inaugurato nel 1936 e il cui stile tradisce il chiaro influsso dell’architettura antica, richiamando, in particolare, le forme del mausoleo di Alicarnasso. In basso: la replica della Nike di Samotracia collocata in una stazione ferroviaria di Nara.
LA PASSIONE DEI GIAPPONESI PER L’ARTE ANTICA È UN FENOMENO RELATIVAMENTE RECENTE. DALLA FINE DELL’OTTOCENTO, PERÒ, È CRESCIUTA COSTANTEMENTE E HA FAVORITO LA NASCITA DI NUMEROSI MUSEI, PUBBLICI E PRIVATI. ALIMENTANDO ANCHE UN FIORENTE TRAFFICO DI... REPERTI FALSI di Stephan Steingräber 56 a r c h e o
A sinistra: Stephan Steingräber, mostra una testa in terracotta di produzione etrusca facente parte della collezione del Silk Road Museum di Hokuto (Yamanashi). In basso: esposizione di haniwa, statue funerarie in terracotta. VI sec. d.C. Tokyo, National Museum.
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uando si pensa al Giappone, non vengono alla mente oggetti (e possibili falsi) archeologici di provenienza greca, etrusca, italica e romana, ma, piú probabilmente, paesaggi incantevoli, splendidi monumenti d’arte buddhista e scintoista, giardini meravigliosi o anche tumuli monumentali, tombe dipinte, statue funerarie in terracotta e preziosi oggetti in bronzo dell’archeologia nipponica. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, nel periodo Meji, l’apertura del Giappone, dopo secoli di isolamento quasi totale, ha avuto, tra i molti effetti della parziale ma rapida occidentalizzazione, anche l’adozione di modelli ed elementi architettonici soprattutto di tipo neoclassico, come facciate a tempio con colonne ioniche o corinzie. Modelli ripresi, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in
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parchi archeologici e nella fondazione o nel potenziamento di centri di ricerca e soprattutto di restauro e di conservazione in molte zone del Paese. Il «paesaggio museale» del Giappone è dunque in continua evoluzione. Mostre archeologiche sono state spesso dedicate a Pompei, ma anche ad altri aspetti e culture dell’antico Mediterraneo, come nel caso di «Space in European Art. Council of Europe Exhibition in Japan», organizzata nel 1987 presso il Western Art Museum a Tokyo – e che riuniva capolavori «da Fidia a Picasso» (includendo le lastre dipinte della Tomba vari edifici giapponesi, come banche o musei, ma anche per la sede del parlamento a Tokyo, della quale non sfugge la somiglianza con il Mausoleo di Alicarnasso. In età piú recente troviamo anche copie di famose statue antiche in edifici pubblici e privati – come la Nike di Samotracia in una stazione ferroviaria a Nara o l’Antinoo collocato all’ingresso del Matsuoka Museum of Art a Tokyo – e motivi dell’arte greco-romana – come le Tre Grazie o la mano della statua colossale dell’imperatore Costantino – utilizzati a scopo pubblicitario. Anche per prodotti che non abbiano nulla a che fare con l’antichità.
UN «PAESAGGIO» IN EVOLUZIONE Il notevole interesse per l’archeologia mediterranea e occidentale in Giappone si manifesta da alcuni decenni soprattutto nel crescente numero di musei archeologici – spesso a carattere locale, ma in parte con esposizioni molto istruttive e innovative –, in mostre archeologiche – allestite in musei pubblici e privati, ma anche in grandi magazzini –, nella creazione di nuovi 58 a r c h e o
In alto: l’edificio che ospita il Miho Museum, realizzato su progetto dell’architetto Ieoh Ming Pei. A destra: cratere a volute apulo a figure rosse attribuito al Pittore di Ade. Seconda metà del IV sec. a.C. Tokyo, Matsuoka Museum. Nella pagina accanto: Kyoto, il giardino tradizionale giapponese della Collezione Hashimoto.
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In alto: replica in ceramica della Tomba degli Auguri di Tarquinia. Naruto, Otsuka Museum. A sinistra: fregio architettonico etrusco in terracotta dipinta, identificato come falso. Tokyo, Bridgestone Museum.
etrusca delle Olimpiadi da Tarquinia) – la mostra sull’arte etrusca curata da Francesca Boitani e Masanori Aoyagi nel 1990 a Tokyo o «Investing in the Afterlife», esposizione organizzata da chi scrive nel 2000, presso il Museo della Tokyo University. Nonostante il particolare interesse dei Giapponesi per l’antico Egitto e le culture dell’antico Vicino Oriente (con numerosi scavi giapponesi), è cresciuto costantemente il numero di mostre, musei e collezioni private che includono reperti di arte e artigianato greco, romano e/o etruscoitalico, che hanno attirato anche l’in-
teresse di studiosi occidentali, fra i quali, oltre allo scrivente, Nancy De Grummond, Mario Del Chiaro, German Hafner, Erika Simon.
PASSIONE PER L’ANTICO Musei e collezioni giapponesi di arte antica mediterranea possiedono soprattutto un notevole numero di vasi dipinti greci (soprattutto attici) e italioti (in particolare apuli), che sono stati pubblicati in buona parte in due volumi del Corpus Vasorum Antiquorum da Akira Mizuta, fra il 1981 e il 1991. Questa evidente preferenza per i vasi antia r c h e o 61
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chi rispetto a reperti piú monumentali o altri materiali riflette anche la tradizionale predilezione dei Giapponesi per la ceramica. Altrettanto si può dire per i tessili antichi – perlopiú di origine copta – che costituiscono il fulcro di varie collezioni giapponesi private. Grandezza, carattere, posizione e qualità di questi musei e collezioni nipponici sono naturalmente molto differenti. Almeno tre dozzine di musei e collezioni – concentrati principalmente nelle aree urbane di Tokyo e di Kansai (Kyoto, Osaka, Nara) – contengono reperti greci, romani e/o etrusco-italici. Sono di tipo nazionale, provinciale, municipale, universitario e privato. Solo pochi, comunque, sono realmente specializzati in arte antica mediterranea ed è il caso dell’Ancient Mediterranean Museum a Tokyo e del Kyoto Kitazonocho Greek and Roman Museum nella vecchia capitale giapponese Kyoto, entrambi di proprietà privata. A Tokyo, il Bridgestone Museum of Art e il Matsuoka Museum of Art possiedono notevoli collezio62 a r c h e o
ni di arte antica mediterranea, ma normalmente espongono solo una piccola parte degli oggetti che ne fanno parte. Nel Matsuoka Museum spicca un monumentale cratere a volute apulo a figure rosse della seconda metà del IV secolo a.C., attribuito al Pittore di Ade. Altri musei dispongono di un nuIn alto: falsa kylix arcaica a figure nere. Tenri, Tenri Sankokan Museum. A destra: falsa antefissa etrusca con testa di satiro. Tenri, Tenri Sankokan Museum. Nella pagina accanto: l’urna «villanoviana» individuata come uno dei falsi piú smaccati conservati nel Tenri Sankokan Museum.
mero molto limitato di reperti, fra i quali non mancano, però, alcuni capolavori, come il cratere a volute monumentale apulo della seconda metà del IV secolo a.C. del Moa Museum of Art di Atami, situato in una splendida posizione panoramica verso la penisola di Izu, nei dintorni di Tokyo.
Piú d’uno, fra questi musei, si caratterizza per la straordinaria architettura moderna, spesso incastonata in paesaggi magnifici. È il caso del Miho Museum, fondato da un gruppo religioso nella cosiddetta Valle delle Pesche e circondato dalle boscose montagne di Shigaraki (Prefettura di Shiga). La sua particolare fisionomia, creata dall’architetto sino-americano Ieoh Ming Pei, i suoi giardini e le sue meravigliose collezioni con reperti di varie culture rappresentano una creazione museale veramente singolare: un gioco fra natura e arte, fra antico e moderno alla giapponese. Altri musei hanno un carattere piú familiare, come la Collezione Hashimoto, che risale alla fine dell’Ottocento e include prevalentemente vasi greci. Situata al centro di un giardino giapponese tradizionale, vi-
cino al cosiddetto Tempio d’Argento (Ginkakuji), a Kyoto, è un esempio di felice e armoniosa convivenza fra estetica orientale giapponese e antica cultura occidentale greca.
Nell’Otsuka Museum si può contemplare perfino il piú famoso tuffatore dell’antichità Una concezione e una filosofia totalmente diverse troviamo invece nell’Otsuka Museum a Naruto, sull’isola di Shikoku, fondato dalla ditta farmaceutica Otsuka. Questo
grande museo, parzialmente sotterraneo e con una splendida vista sullo stretto fra le isole di Honshu e Shikoku, conserva piú di mille repliche di famose pitture e dipinti europei dal II millennio a.C. fino al XX secolo, cioè da Cnosso fino alla Pop Art. Le copie sono state realizzate in ceramica e lavorate con una tecnica speciale, che le rende resistenti sia agli incendi sia ai terremoti. Offrono al pubblico giapponese uno straordinario riassunto della storia della pittura europea e includono anche varie pitture funerarie dell’Etruria, come la Tomba degli Auguri di Tarquinia – ricostruita in una struttura simile a una casa – e dell’Italia meridionale, come la Tomba del Tuffatore di Paestum e la Tomba delle Danzatrici di Ruvo in Puglia. Fra i reperti di arte e artigianato etrusco in Giappone si trovano
VILLANOVIANA A SUA INSAPUTA... Fra i reperti falsi del Tenri Museum, risulta particolarmente grottesca una grande urna a capanna di tipo villanoviano in impasto marrone, con provenienza Cerveteri, caratterizzata da una ricca decorazione incisa e plastica, che viene datata nel X secolo a.C., cioè addirittura nel periodo protovillanoviano. Urne a capanna di questo tipo erano caratteristiche delle culture villanoviana e laziale nella prima età del Ferro e sono realizzate a imitazione delle strutture, e forse in parte anche delle decorazioni, delle contemporanee capanne. La decorazione dell’urna presenta ornamenti lineari e ondulati incisi sia sulle pareti, sia sul tetto e semipilastri, travi ed elementi figurati sul tetto come antefisse con testa umana e acroteri in forma di uccello. In ogni caso non esistono confronti per una decorazione figurata cosi abbondante fra le urne a capanna villanoviane e laziali.
Curiosamente le teste delle antefisse sono modellate in stile arcaico. È un fatto ben noto che tegole e terrecotte architettoniche erano sconosciute nella prima età del Ferro e furono introdotte in
Etruria – probabilmente attraverso artigiani corinzi – non prima della metà del VII secolo a.C. L’urna, dunque, non può essere altro che un maldestro pasticcio, dovuto a qualche bottega etrusca moderna.
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soprattutto diversi tipi di ceramica come l’impasto, il bucchero, i vasi a figure nere, a figure rosse e a vernice nera, poi una serie di urne in pietra e in terracotta con rilievi di provenienza volterrana e chiusina (alcune con iscrizioni), un sarcofago in terracotta da Tuscania, teste votive e altre terrecotte votive anatomiche, terrecotte architettoniche come antefisse, fibule, cinturoni e armi in bronzo e almeno cinque specchi bronzei con decorazioni incise. È documentato anche il periodo villanoviano, grazie ad alcune urne biconiche. In Giappone troviamo anche reperti di altre culture dell’Italia preromana, come vasi a figure rosse e a vernice nera dall’Italia meridionale (prevalentemente dall’Apulia, ma anche dalla Campania e dalla Lucania), vasi apuli indigeni – soprattutto dauni – con decorazione geometrica e persino una stele daunia dall’area sipontina con decorazioni incise. Le migliori raccolte d’arte etrusca e italica appartengono al Kyoto Kitazonocho Greek and Roman Museum, all’Ancient Mediterranean Museum a Tokyo, all’Osaka Municipal Museum of Art e alla collezione privata Okuma, a Kawasaki.
IL FREGIO SOSPETTO Prescindendo da alcuni reperti straordinari e da un gran numero di oggetti di qualità mediocre, in varie collezioni giapponesi è possibile rilevare anche la presenza di una quantità considerevole di oggetti falsi. Si può citare, per esempio, un frammento di fregio architettonico in terracotta dipinta, con due cavalli e una fontana, nel Bridgestone Museum a Tokyo, catalogato come manufatto etrusco risalente al terzo quarto del VI secolo a.C. Per vari motivi, anche di carattere iconografico, il fregio risulta essere un falso, un’opinione confermata anche dallo studioso specialista italo-americano Mario 64 a r c h e o
Del Chiaro, che aveva visitato il Giappone nel 1996. I casi piú evidenti si concentrano però nel Tenri University Sankokan Museum a Tenri City, nella Prefettura di Nara. Questa piccola città è quasi completamente dominata da una setta religiosa molto particolare – la Tenrikyo – che possiede scuole, un’università, il museo e una galleria a Tokyo, raramente visitata da turisti e studiosi stranieri. Il Museum of Ethnography and Archaeology è situato nel campus dell’Università e venne fondato nel 1930 da Shozen Nakayama. Si tratta di una raccolta assai curiosa, articolata in sezioni su culture di regioni di tutto
Specchio etrusco in bronzo raffigurante la lotta fra Teti e Peleo. Inizi del V sec. a.C. Tokyo, Ancient Mediterranean Museum.
OLTRE TREMILA ANNI DI STORIA IN VETRINA La compagnia privata Unimat fondò nel 1994 l’Ancient Mediterranean Museum, nell’area centrale di Tokyo-Idabashi. Purtroppo chiuso da alcuni anni, questo museo possiede un notevole numero di oggetti egiziani, greci, etruschi e italici in gran parte di buona qualità. La collezione e il suo fondo storico sono descritti (in giapponese) nel catalogo curato da Masanori Aoyagi e in un programma video. I reperti risalgono a un lungo periodo: dalla
Nella pagina accanto: cratere a volute apulo a figure rosse attribuito al Pittore di Baltimora. 330-310 a.C. Tokyo, Ancient Mediterranean Museum.
cultura cicladica del III millennio a.C. fino all’epoca tardo-romana del IV secolo d.C. Includono soprattutto idoletti cicladici in marmo, statuette miniaturistiche egiziane, vetri di produzione fenicia e romana, gemme, statuette ellenistiche in bronzo, figure in terracotta dalla Beozia e dalla Magna Grecia, e poi vasi dipinti corinzi, ionici, attici e apuli, ceramiche indigene apule con decorazione geometrica, statue, teste e frammenti di sarcofagi romani in marmo, frammenti di affreschi parietali romani, rilievi romani in terracotta di tipo Campana e un gran numero di lucerne. Fra gli oggetti etruschi sono da menzionare in particolare un torso maschile di terracotta con resti di colore, di età ellenistica, e uno specchio in bronzo molto interessante e assai ben conservato (diametro 15,7 cm) decorato con una scena mitologica: la lotta fra Teti e Peleo. In base allo stile dell’incisione e dell’iscrizione che indica il nome della proprietaria, lo specchio può essere datato all’inizio del V secolo a.C. Tuttavia, l’oggetto di maggior rilievo dell’Ancient Mediterranean Museum è il monumentale cratere a volute apulo a figure rosse, attribuito al Pittore di Baltimora e databile ai decenni fra 330 e 310 a.C.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
La presenza di reperti falsi non oscura il valore delle collezioni giapponesi e dei loro numerosi capolavori a r c h e o 65
ESCLUSIVA • GIAPPONE
il mondo, fra cui Giappone, Cina, Taiwan, Corea, Asia meridionale, sud-orientale, settentrionale, occidentale e centrale, Melanesia, Micronesia, Polinesia, Australia, Africa, America settentrionale, centrale e meridionale ed Europa. Secondo la filosofia del fondatore queste collezioni dovevano aiutare a far conoscere, comprendere e apprezzare meglio le culture e il modus vivendi di altri popoli. Nel reparto archeologico una sezione è dedicata al Mediterraneo e include oggetti da Egitto, Siria, Cipro, Creta, Cicladi, Micene, Grecia, Etruria, Italia meridionale, Sicilia, Sardegna e dal mondo romano. La collezione etrusca comprende fibule, aghi, bracciali e ornamenti di collane in oro, vasi italo-geometrici, vasi etruschi a figure nere e rosse, buccheri, un pithos in impasto, antefisse in terracotta, statue e statuette in pietra e bronzo, figurine, collane e un pettine in avorio, uno specchio in osso, un’urna villanoviana biconica e un’altra a capanna.
UN OREFICE MALDESTRO Sin dalla mia prima visita, nel 1999, ho avuto forti dubbi sull’autenticità di molti oggetti etruschi e italici. Una grande kylix a figure nere dipinta con l’aggiunta di colore rosso e bianco in stile tardoarcaico si deve con ogni probabilità a una bottega novecentesca di Cerveteri o Tarquinia. La provenienza da Tarquinia è indicata per due antefisse in terracotta policroma con teste di satiro e menade in stile tardo-arcaico, ma già la loro espressione umoristica ne tradisce l’origine moderna. Il museo è particolarmente orgoglioso della sua collezione di ori etruschi, con fibule di varia tipologia (ad arco, a sanguisuga), datate tra il VII e il V secolo a.C. La granulazione, tuttavia, è poco curata e, nel caso della fibula decorata con una sfinge alata, tre uccelli e una testa di ariete, si tratta chiaramente di un pastiche, 66 a r c h e o
Urne di produzione etrusca. Kawasaki, Collezione Okuma.
che combina elementi di stili e periodi differenti. Particolarmente divertente è la collezione di piccoli oggetti in avorio e osso con provenienze da Cerveteri, Tarquinia e Chiusi e datati prevalentemente nel VI secolo a.C. La collezione consiste soprattutto in figure femminili, ma anche in un satiro e un pegaso in stile arcaico. Un pettine in avorio, con provenienza Tarquinia e decorato con un rilievo con guerrieri su una
biga, viene datato nel III secolo a.C. Mentre uno specchio in osso è decorato invece con un guerriero nel cosiddetto Knielaufschema («corsa in ginocchio»). Già a prima vista, questi oggetti possono essere identificati come falsi, neanche «ben fatti». Cinque statuette assai alte (fino a 63 cm) in pietra e bronzo, dall’aspetto poco convincente, con provenienze Chiusi, Tarquinia e Cerveteri, rappresentano due guerrieri con elmo,
oggetti, i responsabili del Tenri Museum abbiano fatto affidamento su consulenti di scarsa esperienza. Peraltro, anche le altre sezioni mediterranee del museo non sono prive di reperti falsi.
due donne con vaso e un caprone e vengono datate fra il VII e IV secolo a.C., sebbene lo stile risulti in tutti casi di tipo arcaico. La collezione comprende anche tre statuette in bronzo di guerrieri di tipo sardo-nuragico con provenienza Populonia e datate nel VIII secolo a.C. Le notevoli misure (altezza fino a 87 cm) e il luogo di provenienza in Etruria non convincono. E del resto bronzetti sardi sono stati spesso falsificati in età moderna.
Molti dei reperti in questa sezione etrusco-italica possono dunque essere classificati come falsi, per di piú realizzati maldestramente, attribuendo spesso ai manufatti tratti comici e grotteschi. In piú di un caso le misure, troppo grandi, raccomandano prudenza e diffidenza e anche le proposte di datazione riflettono una conoscenza piuttosto limitata dell’arte e della cultura etrusche. È perciò probabile che al momento dell’acquisto di questi
DAL MERCATO DELL’ARTE Come accennato all’inizio, l’origine del collezionismo giapponese di arte antica mediterranea risale in alcuni casi fino al periodo Meji, alla fine dell’Ottocento. Grazie alla nuova politica di apertura verso l’Occidente e alla presenza di studiosi e artisti occidentali (fra cui anche italiani), fra gli intellettuali giapponesi si sviluppò per la prima volta un certo interesse per le antiche culture e arti del Mediterraneo. La gran parte delle collezioni venne comunque creata solo dopo l’ultima guerra mondiale e gli oggetti furono dunque acquistati soprattutto da case d’asta e da mercanti d’arte, a New York, Londra e in Svizzera. Alcuni reperti della collezione Okuma, a Kawasaki, erano invece noti e pubblicati già all’inizio del Novecento e avevano in precedenza fatto parte di collezioni europee. Altre opere, come lo straordinario cratere monumentale a volute apulo a figure rosse dell’Ancient Mediterranean Museum a Tokyo, attribuito al Pittore di Baltimora, sono rimasti a lungo sconosciuti, anche agli specialisti, prova del fatto che si tratta con ogni probabilità di reperti scavati clandestinamente (come per esempio nelle vaste e ricche necropoli di Arpi, presso Foggia, saccheggiate sin dagli anni Settanta del secolo scorso) e poi esportati illegalmente. Dopo un certo «boom» del collezionismo di arte greca, romana ed etrusca in Giappone fra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, si è registrata una flessione nelle acquisizioni, causata, almeno parzialmente, dalla crisi economica vissuta dal Paese asiatico. In generale, si può rilevare la netta preferenza di studiosi, collezionisti e a r c h e o 67
ESCLUSIVA • GIAPPONE A sinistra: statua di bodhisattva, dal Ghandara. Hokuto (Yamanashi), Silk Road Museum. Nella pagina accanto: il ciclo Great Silkroad Series dipinto da Ikuo Hirayama. Hokuto (Yamanashi), Silk Road Museum.
SULLA VIA DELLA SETA Molto innovativo è il Silk Road Museum, fondato nel 2004 da Ikuo Hirayama e da sua moglie a Hokuto, nelle belle montagne della Yamanashi Prefecture, con una meravigliosa vista sul Monte Fuji. Dopo essere sopravvissuto al bombardamento atomico di Hiroshima, Ikuo Hirayama (1930-2009) ha dedicato la sua vita all’arte e soprattutto alla pittura giapponese, alle culture fiorite lungo la Via della Seta, al
buddhismo e alla pace mondiale. È stato pittore, professore e ricercatore, collezionista e anche Goodwill Ambassador dell’UNESCO. Il Silk Road Museum, in un bell’edificio moderno dalle linee curve, non ospita solo la sua vasta collezione con opere d’arte dall’Asia orientale, dall’Asia centrale, dal Vicino Oriente e dal mondo mediterraneo, ma organizza anche mostre, conferenze, concerti, workshop, contribuendo cosí alla
formazione delle giovani generazioni. Nella grande sala del museo si possono ammirare la serie dei grandi dipinti di Hirayama che rappresentano una carovana sulla Via della Seta dalla Cina fino a Roma. Di particolare interesse è la collezione di sculture buddhiste specialmente da Gandhara. Ma troviamo anche oggetti di arte greca, romana e etrusca come alcuni vasi attici e specchi e terrecotte etrusche.
del pubblico per l’arte del Vicino Oriente, dell’Egitto, dell’Asia centrale, della cosiddetta Silkroad (Via della Seta) e del Ghandara, rispetto all’arte greca, etrusca e romana. Una preferenza che si esprime anche nelle mete e nelle tematiche degli scavi, delle missioni e delle piú importanti ricerche condotte dal Giappone in ambito archeologico, ricerche alle quali partecipò il principe Mikasa, membro della casa imperiale. Riflesso di questa tendenza sono i tre maggiori musei d’arte del Vicino Oriente: l’Ancient Orient Museum di Tokyo-Ikebukuro, il Middle Eastern Cultural Center di Tokyo-Mitaka e l’Okayama Orient Museum a Okayama. E, negli ulti-
mi decenni, particolare importanza per le ricerche sulla Via della Seta (in collegamento con la diffusione del buddhismo) ha assunto la Ikuo Hirayama Foundation, a Kamakura, che ha sede dal 2004 in un bel museo a Hokuto-shi, tra le grandiose montagne di Yamanashi con vista sul Monte Fuji.
du Louvre a Parigi) hanno vissuto a lungo in Europa e sono veri connoisseurs. La loro collezione, allestita in una casa privata parzialmente in legno di tipo giapponese, include oggetti egiziani, ciprioti, greci, etruschi, romani, bizantini e anche cinesi. Spiccano alcuni vasi attici, di qualità eccezionale. La sezione etrusca comprende urne – una in alabastro da Volterra, due in pietra calcarea e una in terracotta da Chiusi – i cui rilievi mostrano una scena di battaglia, una Centauromachia, una Scilla e il mito di Echetlos. In piú troviamo antefisse in terracotta del periodo tardo-arcaico e teste votive in terracotta di epoca ellenistica. Infine, un’altra importante collezio-
UNA CASA-MUSEO Fra le raccolte private di arte antica mediterranea presenti in Giappone merita d’essere poi menzionata la Collezione Okuma, a Kawasaki, presso Tokyo. Il suo colto e ospitale proprietario e la sua deliziosa signora (una restauratrice di vasi antichi che ha appreso il mestiere all’École
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ESCLUSIVA • GIAPPONE
IL MEGLIO DELL’ARTE ETRUSCA E ITALICA La collezione d’arte antica del Ninagawa Museum, nella pittoresca città di Kurashiki, vicino il castello di Himeji, era stata pubblicata già nel 1982 in un catalogo curato dalla studiosa tedesca Erika Simon (1927-2019), la migliore conoscitrice occidentale delle collezioni giapponesi. Negli anni Novanta del secolo scorso, gran parte degli oggetti di questa collezione privata è stata traslocata nella nuova sede a Kyoto, cioè nel Kyoto Kitazonocho Greek and Roman Museum. Il museo ha sede in un quieto quartiere residenziale, con la vista verso le montagne boscose che circondano la vecchia capitale del Giappone. I reperti sono esposti in un edificio moderno, che rappresenta una combinazione di elementi classici occidentali e
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In questa pagina: reperti del Kitazonocho Greek and Roman Museum di Kyoto: sarcofago tardo-etrusco in terracotta, da Tuscania, e un canopo chiusino.
giapponesi. I proprietari, la famiglia Ninagawa, vivono in una casa tradizionale giapponese a fianco del museo. La collezione è concentrata principalmente su ceramiche greche, italiote ed etrusche, ma contiene anche sculture, sarcofagi, frammenti architettonici, mosaici, bronzi e terrecotte. La sezione etrusca e italica – di gran lunga la piú importante in Giappone – possiede un’urna biconica villanoviana, un sarcofago in terracotta di età ellenistica da Tuscania, un canopo maschile chiusino, oggetti in bronzo come due specchi (che rappresentano rispettivamente i Dioscuri e Artemide alata), fibule, cinturoni, morsi di cavallo, resti di un paio di sandali e un elmo dell’Italia meridionale, terrecotte anatomiche votive, una testa arcaica in nenfro – probabilmente di una sfinge – da Vulci (?), varie ceramiche in impasto (fra cui grandi pithoi e
bracieri con decorazione a rilievo di tipo ceretano), bucchero sottile e pesante, vasi etrusco-corinzi, vasi etruschi a figure nere e a figure rosse (fra cui una kelebe volterrana del cosiddetto Pittore Ninagawa), vasi falisci a figure rosse (fra cui una tazza del Pittore di Nazzano), un poculum con iscrizione, vasi a vernice nera, vasi apuli a figure rosse (fra cui un dinos del Pittore di Dario), vasi apuli indigeni con decorazione geometrica, ceramica policroma canosina e una grande pisside policroma da Centuripe con una scena da una commedia di Menandro. Un vero unicum in tutto il Giappone è una stele daunia dall’area sipontina in pietra calcarea (1,05 x 0,48 m) risalente al VII secolo a.C. La sua decorazione incisa e originalmente dipinta mostra uno scudo, il vestito con ornamenti geometrici e scene figurate come cavalieri, carri, cavalli e altri animali.
ne privata giapponese – quella della famiglia Fujita – comprende prevalentemente vasi greci, italioti ed etruschi – molti di qualità eccellente – e si trova da pochi anni come prestito permanente nel Museo dell’Università di Jena in Germania.
Questo articolo è frutto della lunga permanenza in Giappone dello scrivente (dal 1994 al 2001), durante la quale è stato titolare della cattedra di archeologia mediterranea presso l’Università di Tokyo (Todai), già Università Imperiale.
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DALLA PARTE DEI BARBARI
ANCHE GLI STATI EUROPEI SORTI IN AREE PERIFERICHE RISPETTO ALLE CIVILTÀ DEL MEDITERRANEO FURONO INVESTITI DALLA NECESSITÀ DI LEGITTIMARE LA PROPRIA ESISTENZA SUL PIANO STORICO. COSÍ, IN POLEMICA PIÚ O MENO SOFFERTA CON LA TRADIZIONE CLASSICISTICA CHE LI ETICHETTAVA COME «BARBARI», I NAZIONALISMI NORDEUROPEI POSTULARONO UNA DISCENDENZA DIRETTA DAGLI ANTICHI ABITANTI DEI TERRITORI SOGGETTI AL NUOVO ORDINE POLITICO. ESALTANDO LA PUREZZA (E IL VIGORE!) DI GERMANI, CELTI E SCITI, POPOLAZIONI LA CUI FISIONOMIA ETNICA È, IN REALTÀ, ASSAI DIFFICILE DA RICOSTRUIRE... di Umberto Livadiotti Riproduzione a colori di un dipinto monumentale raffigurante la battaglia di Teutoburgo, realizzato da Friedrich Gunkel nel 1864 per il Maximilianeum di Monaco di Baviera e andato distrutto nella seconda guerra mondiale.
Alise-Sainte-Reine (Borgogna, Francia). Particolare della statua di Vercingetorige scolpita da Aimé Millet e posta a coronamento del monumento in onore del capo gallico, inaugurato nel 1865.
Nella pagina accanto: maschera di ferro ricoperta d’argento, già parte di un elmo cerimoniale romano, rinvenuta nel 1990 nella località di Oberesch, presso l’altura di Kalkriese, nella foresta di Teutoburgo (Germania settentrionale). Qui l’esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo, governatore della Germania, fu sconfitto, nel 9 d.C., da una lega di tribú germaniche guidate da Arminio. 72 a r c h e o
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P
er anni eruditi e studiosi hanno dibattuto sull’identificazione del luogo in cui, all’inizio dell’autunno del 9 d.C., tre legioni romane, con tanto di servitori e familiari al seguito, vennero intrappolate e fatte a pezzi dagli uomini di Arminio, in Germania. Si trattò di una disfatta epocale, non solo per le proporzioni (nella carneficina dovettero perdere la vita almeno 20 000 persone) ma soprattutto perché determinò nei fatti un cambio di rotta nella politica estera romana. I territori al di là del Reno, In alto: monete romane in oro, argento e rame recuperate nell’area di Kalkriese, presso Osnabrück. Qui accanto: Detmold (Germania). L’Hermannsdenkmal (Monumento ad Arminio), opera dell’architetto e scultore Ernst von Bandel. 1833-1875.
Nella pagina accanto: la Germania in età augustea, con i principali centri romani e l’indicazione del sito di Kalkriese, presunto luogo della battaglia di Teutoburgo. A destra: ricostruzione ipotetica degli avvenimenti succedutisi nel corso della battaglia. 74 a r c h e o
Grande Palude
Ritrovamenti archeologici Ritrovamenti archeologici
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Molti Romani, disorientati dalla confusione della battaglia, fuggirono a nord, ma trovarono la morte nella vicina palude Sentiero principale
I Romani tentano un’ultima e disperata difesa, provando a trincerarsi in un campo di fortuna fatto di carriaggi Sentiero deviato dai Germani
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Grande Palude La colonna romana, formata da 3 legioni (XVII, XVIII e XIX), 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliare (per un totale di circa 20 000 uomini), si allungava nella foresta di Teutoburgo per circa 3,5 Km.
o il terrapi i dietr eno man Ger 0 0 0 e n l l i a n s elva ma /7 Ger 00 00 50 /70 0 0 50 7000/10 000 Germani nascosti nella selva
Terrapieno costruito dai Germani
Altura di Kalkriese
Mar Baltico Mare del Nord Tiberio (5 d.C.)
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(dall’11 a.C.)
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MARCOMANNI Tiberio (6 d.C.)
Saturnino (6 d.C.)
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REGNO DI MAROBODURO
Treviri Magonza
Reims
Markbreit Stoccarda
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GERMANIA SUPERIOR
Basilea
Vindonissa
Tiberio (15 a.C.)
Kaiseraugst
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Linz
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Vienna
Salisburgo
Berna Druso (15 a.C.)
Canuntum
Graz
Lione Aosta
Spostamento di truppe romane in età augustea Campi legionari Città romane Postazioni militari
Nîmes
Città moderne
Mar Tirreno
Mare Adriatico Corsica
Roma a r c h e o 75
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poco ricchi e viceversa molto complicati da controllare, sarebbero rimasti al di fuori dei confini dell’impero. Oggi sappiamo con ragionevole verosimiglianza che l’imboscata venne compiuta nei pressi di Kalkriese, a una decina di chilometri da Osnabrück, all’estremo sud della Bassa Sassonia, dove, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, sono stati recuperati migliaia di reperti sopravvissuti al drammatico evento: armi, proiettili, monete (che hanno consentito la datazione del contesto), ossa di uomini, muli e cavalli. Ora sul sito del combattimento sorgono un moderno Museo e un Parco Archeologico, dove accanto alla ricostruzione del campo di battaglia ci si può imbattere in pannelli espositivi con richiami alla pace e all’Europa. Questo perché in Germania, dopo la tragedia del nazionalsocialismo, le istituzioni cercano di insistere al minimo sulle rivendicazioni patriottiche, mentre in passato proprio la selva di Teutoburgo, cioè il luogo dell’imboscata architettata da Arminio, era assurto al ruolo di «luogo della memoria» per eccellenza del nazionalismo tedesco piú radicale. L’esaltazione di Arminio – e del suo agguato vincente ai danni di Varo – è una vicenda che parte da
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lontano, dalla fine del Quattrocento, quando, nelle biblioteche dei monasteri tedeschi, vennero rinvenuti i codici contenenti alcuni testi dello storico latino Tacito, fino ad allora sconosciuti. In uno di questi, gli Annales, lo scrittore romano ricordava il capo germanico, bistrattato dalle altre fonti, con parole
lusinghiere.Tanto bastò per trasformarlo in alfiere della Riforma luterana, che proprio in quegli anni divampava in Germania. Arminio, il cui nome stesso venne presto tedeschizzato in Hermann, divenne infatti il simbolo della riscossa antiromana e dell’eroismo germanico. Nel Cinquecento la sua figura («il piú libero, il piú invitto, il piú tedesco degli uomini») venne In alto: I Romani resa popolare da un pamphlet di Ulpassano sotto il giogo, olio su tela rich von Hutten; nel secolo successivo Daniel Casper von Lohenstein di Marc-Charleslo rese protagonista di un corposo Gabriel Gleyre. romanzo di successo; alla fine del 1858. Losanna, Settecento la sua storia venne rapMusée cantonal presentata in una trilogia teatrale di des beaux-arts. A sinistra: Londra. Friedrich Gottlieb Klopstock e, in piena età napoleonica, da un dramIl monumento a ma di Heinrich von Kleist. Boudicca, Riprodotto su un numero infinito realizzato di quadri e di raffigurazioni libreda Thomas sche, nell’Ottocento romantico ArThornycroft fra il minio/Hermann impresse la sua 1856 e il 1886 e forma sull’immaginario tedesco. inaugurato L’espressione piú estrema del suo nel 1902.
mito fu la megalomane iniziativa di uno scultore, Ernst von Bandel, che progettò una statua colossale (con un basamento alto piú di 50 m), da posizionare nel luogo che all’epoca era da molti considerato quello della battaglia, cioè i boschi vicino Detmold (una sessantina di chilometri a sud-est di Kalkriese). La statua, che rappresentava Arminio con la spada sguainata verso l’alto, guardava oltre il Reno, in direzione della Francia, il nemico storico di allora. Iniziata nel 1841, quella dell’Hermannsdenkmal (Monumento ad Arminio) fu una impresa complicatissima, che consumò la vita intera dello scultore. Dopo i primi anni di lavoro infatti si esaurirono i fondi a disposizione. Ma Bandel organizzò una colletta popolare raccolta nelle scuole e riuscí a recuperare le risorse per riprendere l’attività. L’inaugurazione avvenne nel 1875, in un clima di entusiasmo patriottico suscitato dall’unificazione, appena avvenuta, dei tanti piccoli Stati tedeschi in un unico Stato nazionale (il «Secondo Impero»). Meta di escursioni individuali e gite organizzate, la statua si ritrovò al centro di una sorta di pellegrinaggio laico e per decenni offrí lo scenario a manifestazioni e cer imonie pubbliche. E a tutt’oggi, benché deprivata del suo significato politico piú «passionale», costituisce per la popolazione tedesca un richiamo turistico di primo rilievo.
LA GERMANIA DI TACITO Altrettanto, se non piú importante, risultò un altro dei testi ritrovati di Tacito, la Germania, in cui l’autore descrive gli usi e i costumi dei barbari germani d’età romana: tribú descritte come selvagge, ma delle quali si apprezzavano il vigore fisico e la lealtà e di cui si sottolineava anche la purezza del sangue. Per la prima volta, e addirittura richiamandosi alla testimonianza di un
FRA NAZIONALISMO E NEOCLASSICISMO Gli anni dell’egemonia napoleonica, all’inizio dell’Ottocento, risultarono decisivi per la diffusione del sentimento nazionalista in Germania. Il nuovo assetto istituzionale dato al mondo tedesco da Napoleone fu infatti percepito come avvilente: di qui la nascita di un viscerale senso di riscatto patriottico. Esponente della generazione cresciuta in questo clima fu Ludwig di Baviera che, sin dai tempi in cui era ancora principe ereditario, maturò il progetto di erigere un tempio laico, una sorta di pantheon della nazione, in cui far scolpire in marmo le immagini dei personaggi che si fossero maggiormente distinti nell’arco della millenaria storia del popolo tedesco: sovrani e guerrieri, ma anche artisti, poeti e scienziati. Erano anni di profondo filellenismo, in cui i giovani di buona famiglia trascorrevano parte della loro gioventú visitando le antichità nei Grand Tour in Italia e Grecia. Non a caso, proprio nel periodo di regno di Ludwig (1825-1848), Monaco di Baviera si arricchí di edifici e palazzi neoclassici, corredati di frontoni e colonnati, al punto da meritare la definizione di «Atene sull’Isar». Un orientamento che induceva l’ardente nazionalismo tedesco a esprimersi spesso ancora in forme classicistiche. Non sorprende, pertanto, che il bando per la costruzione del complesso monumentale, emanato nel 1814, prevedesse la erezione di una struttura in «forme classiche». L’edificio, solenne battezzato Walhalla (l’«aula della morte» dove gli antichi dèi nordici attendevano i guerrieri) fu costruito fra il 1830 e il 1842 su una collinetta affacciata sul Danubio nei pressi di Ratisbona, in cima a una scenografica scalinata ritmata su sei rampe. L’aspetto dell’edificio, in bianchissimo marmo, era ispirato scopertamente al Partenone. Ma i fregi che ne decoravano le pareti interne ed esterne illustravano le vicende del popolo tedesco. Nel timpano del frontone posteriore dinamici rilievi a tutto tondo rappresentavano la madre di tutte le vittorie: Teutoburgo. Arminio in nudità eroica, affiancato da guerrieri germanici armati di asce, clave e spade, annichiliva con lo sguardo i soldati romani, fra cui Varo raffigurato nell’atto di suicidarsi. Sintomatico che uno dei guerrieri di Arminio avesse l’aspetto di Eracle, come per suggellare l’affinità ellenico-tedesca tanto evocata negli ambienti colti di allora. Col tempo, il numero dei personaggi immortalati da targhe o busti nel Walhalla è notevolmente aumentato. Dai 50 originariamente ipotizzati si è arrivati a quasi 200, tra cui lo stesso Ludwig, ritratto nel 1890 in una statua che lo rappresenta seduto nei panni di un... imperatore romano!
Il Walhalla, costruito fra il 1830 e il 1842 nei pressi di Ratisbona.
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STONEHENGE Nel 1998, una ricerca attestò che gran parte dei visitatori dell’area archeologica di Stonehenge, un centinaio di chilometri a sud-ovest di Londra, passa piú della metà del tempo trascorso sul sito a fare acquisti nel tourist shop e nei bar o nella toilette. L’unica cosa che conta, cosí pare, è poter dire di «esserci stati». La capacità di attrazione di questo «luogo della memoria», radicato come nessun altro nell’immaginario collettivo britannico, è veramente sbalorditiva e non risulta minimamente intaccata dal notevole sfruttamento turistico e commerciale che, assecondando le aspettative del pubblico, sembra anzi potenziarne la valenza identitaria. Il celebre circolo di pietre (in buona parte rialzate dagli archeologi negli ultimi due secoli), la cui costruzione era un tempo attribuita al Mago Merlino, sembra suscitare nei visitatori un senso di legame misterioso ma viscerale col passato, con la terra, col suolo. La connessione fra Stonehenge e il mondo celtico, evocata ancora oggi in raduni in costume e festival musicali, venne formulata nel Seicento da John Aubrey (autore dei Monumenta Britannica), ma si diffuse e si radicò negli anni della celtofilia, tra fine Settecento e inizio Ottocento. Anche se generalmente si riconosce una funzione in qualche modo sacrale o liturgica allo spazio circolare segnato dai trilobati, oggi nessuno piú pensa che i druidi sacrificassero uomini sulla «pietra del massacro» (una lastra di arenaria arrossata dal ferro disciolto dalle piogge). Gli studiosi concordano infatti su una datazione del complesso, sebbene scaglionata in piú fasi, a un periodo molto piú antico (l’erezione delle pietre dovrebbe essersi compiuta intorno al 2100 a.C.), un’età, dunque, assai antecedente alle prime manifestazioni della cultura celtica sull’isola. In alto: il circolo megalitico di Stonehenge (Wiltshire, Inghilterra meridionale), la cui realizzazione si colloca nel III mill. a.C.
Nella pagina accanto: Villaggio lacustre dell’età del Bronzo, olio su tela di Auguste Bachelin. 1867. Zurigo, Musée national suisse.
autore classico, i Tedeschi potevano, con un certo orgoglio, vantare un’ascendenza di tutto rispetto. Da allora, il valore militare della stirpe germanica non cessò di essere evocato dai patrioti di turno: prima per fronteggiare l’avanzata ottomana su
Vienna; poi, piú tardi, quella napoleonica; infine per assicurarsi il proprio «spazio vitale». Dalla seconda metà dell’Ottocento, del resto, nuovi fattori favorirono la diffusione di un senso di apprezzamento del proprio passato «barbari-
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co». Innanzitutto, la scoperta delle radici «indoeuropee» del mondo occidentale operata dai linguisti all’inizio del secolo si andò caricando di significati razziali: il successo ottenuto nell’arco della loro storia sembrava, infatti, dimostrare la superiorità della stirpe degli Ariani (di cui i Germani costituivano una schiatta particolarmente «pura»). In secondo luogo, i risultati delle indagini protostoriche di Gustav Kossinna, chiamato nel 1902 a insegnare archeologia a Berlino, inducevano a riconoscere in un’ampia area dell’Europa centrale – dal Reno allo Jutland alla Vistola – la «patria originaria» di quello che, grazie ai reperti della cultura materiale (provenienti soprattutto da contesti funerari), sembrava potersi in sostanza identificare, già allora, come il «popolo tedesco».
VISIONI CONTRAPPOSTE Tuttavia, l’entusiasmo romantico e nazionalistico divampato nell’Ottocento dovette confrontarsi, comunque, con la tradizione classicistica, radicatissima nella cultura tedesca delle classi alte. In molti ambienti artistici e accademici l’esaltazione del passato «barbarico» si scontrava infatti con l’apprezzamento incondizionato della civiltà romana e ancor piú di quella greca. Una dialettica che caratterizzò, per esempio, l’attività dell’Istituto Archeologico Germanico, prestigiosissima istituzione scientifica (cronologicamente la prima in assoluto a essere acquisita dal Reich) con sedi a Roma e Atene. L’Istituto seguiva, naturalmente, una politica di prestigio nazionale, cercando soprattutto di far affluire nei musei tedeschi i reperti di maggior rilievo artistico rinvenuti nei vari scavi in cui era coinvolto; ma al suo interno favoriva una atmosfera cosmopolita e classicistica. Le pressioni patriottiche ne determinarono, tuttavia, la forte germanizzazione: venne stabilito, per
esempio, che nelle comunicazioni interne il tedesco fosse l’unica lingua ammessa oltre al latino. Ma le polemiche sorsero soprattutto attorno alla Commissione RomanoGermanica (Römisch-Germanische Kommission), istituita nel 1900 per occuparsi di storia patria. Inizialmente, infatti, la tendenza dei suoi membri, tutti classicisti di formazione, fu quella di studiare principalmente gli insediamenti romani lungo il limes, con grande disappunto degli studiosi, sempre piú numerosi, che in quegli anni subivano il fascino delle teorie di Kossinna. Cosí, negli anni Trenta, la Commissione, considerata poco patriottica, finí direttamente nel mirino di alcuni settori della dirigenza nazionalsocialista. Il nazismo però coltivava piú anime al suo interno: infatti, accanto all’attività e alla propaganda svolta dalla «Ahnenerbe» (la «Società di
ricerca dell’eredità ancestrale») di Himmler, volta a esaltare gli antichi Germani, altri studiosi, venuti a patto con il classicismo di fondo della loro cultura, prediligevano e diffondevano la teoria che insisteva sul carattere ariano della grecità classica, affratellandola, quindi, dal punto di vista storico ed etnico, al mondo germanico. Un orientamento (condiviso dallo stesso Hitler) che trovò un’espressione ben riconoscibile, per esempio, nell’operazione mediatica legata alla celebrazione a Berlino dei giochi Olimpici del 1936, culminata nella produzione del celebre documentario Olympia di Leni Riefenstahl.
NAZIONALISMI MODERNI E CARTOGRAFIA ANTICA Non tutti in Europa potevano vantare un antenato di successo come Arminio. Tuttavia, a partire dal Cinquecento e poi con sempre
maggiore intensità nel Sei e Settecento, eruditi e giuristi ansiosi di certificare come i confini reclamati dagli Stati allora nascenti corrispondessero a una realtà millenaria quasi naturale, rintracciarono – frugando fra i testi degli antichi – assetti geopolitici (di cui Romani stessi avevano tramandato la memoria) utili a questo fine. Accadde cosí che il regno unificato delle corone di Inghilterra e Scozia venne qualificato come terra dei Britanni; la Svizzera venne assimilata al paese degli Elvezi; i Paesi Bassi asburgici vennero fatti coincidere con la Gallia Belgica… E, benché questi Stati avessero ben altri e piú recenti miti fondativi, quando, alla fine del Settecento, l’avvento del Romanticismo diffuse in tutto il Nord Europa la passione per la bruma, i boschi e le pietre incise da rune, il revival nazionalistico indusse all’esaltazione delle pro-
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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/5
C’È DELL’ANTICO IN DANIMARCA… All’inizio dell’Ottocento il regno di Danimarca era in difficoltà: una serie di sconfitte militari ne avevano minato le dimensioni territoriali, la potenza marittima e il prestigio internazionale. Per sollecitare l’orgoglio della popolazione, le autorità pensarono di valorizzare quelle vestigia del passato che sembravano simbolizzare l’essenza della nazione. Lo Jutland e i suoi antichi abitanti non avevano partecipato ai fasti del mondo classico, ma dal territorio emergevano altre tracce importanti della storia antica, tumuli, pietre coperte da rune, oggetti suggestivi come i corni d’oro rinvenuti a Gallehus (ma proprio allora rubati). Reperti che colpivano l’immaginazione romantica degli intellettuali alla ricerca dello spirito profondo del loro popolo. Cosí, nel 1819, aprí a Copenaghen il Museo di Antichità Nordiche, il primo a privilegiare reperti archeologici estranei al mondo greco-romano. Si trattava di centinaia di pezzi, che però non si sapeva come datare, classificare e ordinare nelle teche. Fu cosí che Christian J. Thomsen, un giovane studioso di numismatica messo a capo della struttura museale, decise di adottare il criterio «tecnologico» delle tre
prie radici celtiche e all’eroizzazione di figure sostanzialmente sconosciute, il cui unico elemento distintivo era quello di aver difeso la patria dall’aggressione di Roma. Fu questo, per esempio, il caso di Ambiorige, re degli Eburoni (una tribú dei Belgi), il cui mito visse una stagione di fiamma alla metà dell’Ottocento, all’indomani della guerra che rese indipendente dall’Olanda le provincie meridionali (che presero appunto il nome di Belgio). Ambiorige era stato il promotore, nella primavera del 54 a.C., di una rivolta contro i Romani e solo il tempestivo intervento di Cesare era riuscito a domare l’insurrezione. Del resto, proprio Cesare, nelle pagine iniziali della sua opera, aveva descritto i Belgi come i fortissimi («i piú valorosi») fra i Galli: una definizione di cui i Belgi moderni si sono orgogliosamente appropriati. Nel corso dell’Ottocento, perciò, Ambiorige fu raffigurato, perlopiú su committenza pubblica, 80 a r c h e o
età (pietra, bronzo, ferro), che ben si adattava all’idea di progresso diffusa all’epoca. In base a questo sistema i reperti vennero catalogati secondo una successione cronologica scandita dal tipo di materiale utilizzato. Non era che una ipotesi; che sarebbe stata però convalidata negli anni seguenti dal suo successore alla direzione del Museo, Jens Worsaae, il quale applicò per primo il sistema stratigrafico agli scavi archeologici. Qualche tempo prima, negli anni Quaranta, stimolato dal re a scrivere una storia antica della Danimarca, Worsaae aveva cercato di suscitare interesse nel pubblico verso la tutela dei resti archeologici esaltando gli antichi abitatori della penisola, di cui le vestigia mostravano appunto le tracce. Ne aveva fatto degli antenati desiderosi di infondere nei loro discendenti l’amore per l’indipendenza dallo straniero. Erano, in effetti, tempi di guerra. Il Sud dello Jutland era conteso. Animati dai dettami del pangermanesimo, nella primavera del 1848 i rappresentanti tedeschi riuniti a Francoforte per progettare una Germania unita inserirono i ducati di Holstein e Schleswig nel loro
in grandi pitture storiche, rilievi e statue. Poi il mito si offuscò, anche perché la rivalità fra Fiamminghi e Valloni ha eroso il sentimento nazionale unitario e, oggi, il profilo di Ambiorige sembra funzionare ancora solo nel marketing: portano il suo nome, infatti, una birra e una fabbrica di scarpe...
BOUDICCA, REGINA BRITANNICA Un caso assai simile è quello di Boudicca (altrimenti nota come Boadicea), la vedova del capo della tribú britannica degli Iceni, stanziata nel Norfolk. Di Boudicca, che guidò la rivolta antiromana divampata sull’isola nel 60-61 d.C., abbiamo notizie scarne e poco affidabili; ma in età vittoriana (non a caso un’epoca in cui sul trono sedeva una regina) divenne una icona del patriottismo britannico, al punto che, negli anni Cinquanta dell’Ottocento, una grande statua bronzea raffigurante la donna alla guida di
un carro da combattimento venne commissionata allo scultore Thomas Thornycroft dalla stessa casa reale. Ci vollero trent’anni, ma dal 1902 il monumento troneggia nei pressi di Westminster (vedi foto a p. 76, in basso). Boudicca è tuttora oggetto di libri e canzoni, sebbene il suo appeal risulti ormai infiacchito. Del resto, nella cultura britannica il richiamo al mondo celtico non ha maturato ovunque lo stesso peso. Se è vero, infatti, che il senso di insularità ha indotto tutte le diverse comunità dell’arcipelago a sviluppare una percezione della propria storia in termini di confronto/scontro fra nativi e invasori, è altrettanto indubbio che nella narrativa nazionalista inglese, centrata soprattutto sul Medioevo anglo-normanno, il richiamo alle radici celtiche si esaurisce generalmente in una rievocazione di un passato nebuloso, suggestivo, ma privo di concretezza storica. Di contro, in Scozia, Galles e Irlanda, il richiamo alle radici celtiche ha
disegno risorgimentale. Come sempre, i belligeranti chiesero agli accademici di suffragarne le ragioni. Cosí Worsaae si sentí in dovere di polemizzare con Jacob Grimm (quello delle fiabe), il quale sosteneva, in base a considerazioni linguistiche, l’antica appartenenza della penisola danese al mondo germanico. Inizialmente Worsaae si limitò a redigere un banale opuscolo a celebrazione del «Danevirke», la struttura difensiva (risalente all’Alto Medioevo) i cui ruderi sembravano da sempre segnare un confine netto con le popolazioni tedesche. Ma poi trovò la lucidità per sottolineare che le evidenze archeologiche, capaci di risalire a un tempo piú antico di quello testimoniato dai documenti letterari (un tempo indicato, con una espressione allora innovativa, come «preistoria»), non consentivano di tracciare confini netti, «nazionali», tra le antichissime popolazioni. Una lezione che però sarebbe stata parzialmente stravolta dalla tendenza, affermatasi nei decenni successivi, a trasformare in «popoli» e «nazioni» ogni gruppo umano identificato tramite l’associazione a determinati usi funerari oppure all’uso di specifici manufatti.
rappresentato, negli ultimi due secoli, cioè da quando è stata evidenziata la matrice comune delle lingue gaeliche, un fattore costitutivo dell’orgoglio nazionale, una sorta di attestazione di primogenitura da contrapporre non alla civiltà romana, bensí all’elemento sassone. Un marchio di identità da esibire orgogliosamente (e da spendere commercialmente: un logo con cui firmare società sportive o identificare una produzione musicale). In Irlanda, in particolare, i risultati delle indagini archeologiche sono stati assimilati dalla cultura popolare come ulteriore conferma della propria remotissima autoctonia, quasi di una purezza etnica, suggerendo cosí una netta separazione della propria storia da quella britannica. Non a caso, si insiste sulla provenienza da occidente (e non dall’isola maggiore, la Britannia) delle popolazioni che, in età neolitica, popolarono l’isola e di cui gli Irlandesi si sentono discendenti diretti.
Suggestivi siti archeologici preistorici (quindi di fatto pre-celtici) come Céide Fields, o Brú na Bóinn, restaurati e attrezzati con centri d’accoglienza per visitatori, sono divenuti perciò veri e propri luoghi della memoria in cui le pietre stesse incastonate nel suolo sembrano testimoniare il legame profondo e atavico fra la terra e i suoi abitanti.
SOTTO IL GIOGO INFAMANTE Il caso della Svizzera è forse il piú interessante. Qui, già dal Cinquecento, alcuni eruditi umanisti, benché consapevoli del fatto che il territorio della Confederazione fosse abitato nell’antichità anche da altre genti (per esempio gli Allobrogi, o i Reti), avevano identificato nella tribú celtica degli Elvezi la popolazione in cui riconoscere i propri antenati. Forse li suggestionava l’immagine della difficile sopravvivenza di questa tribú, stretta nella morsa fra Germani e Romani, suggerendo
Un tratto del Danevirke (l’«Opera dei Danesi»), struttura difensiva innalzata a partire dalla fine del VII sec. d.C.
un’analogia con la loro condizione. Nella non particolarmente esaltante storia di questo popolo esisteva però un episodio capace di solleticare l’orgoglio nazionalistico: la vittoria sulle truppe di Cassio Longino, avvenuta nel 107 a.C. In quella occasione i Romani furono fatti a pezzi e persero le insegne: i superstiti, secondo una tradizione, sarebbero stati costretti a passare sotto il giogo, proprio come era accaduto alle Forche Caudine. Particolare ben evidenziato in un celebre quadro di Charles Gleyre, che rappresenta, per l’appunto, alcuni prigionieri spauriti e in ceppi, che si chinano per passare sotto un giogo di legno, davanti allo sguardo festante e irridente di bardi, guerrieri e sacerdotesse (vedi foto a p. 76, in alto). Non si tratta di una tela qualsiasi. L’opera era stata infatti commissioa r c h e o 81
ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/5 A sinistra: Tápiószentmárton (Ungheria). Busto di Attila. Nella pagina accanto: placca in oro in forma di cervo accovacciato, da Tápiószentmárton. Budapest, Museo Nazionale Ungherese.
IL FLAGELLO DI DIO Non da sempre, né ovunque, Attila, il re degli Unni capace di unificare sotto il suo personale dominio un territorio immenso attorno alla metà del V secolo d.C., viene ricordato come «il flagello di Dio». Si tratta, infatti, di un’immagine radicata soprattutto in Occidente, ravvivatasi negli ultimi secoli del primo millennio, quando il Nord Italia e altre zone d’Europa erano sottoposte alle devastazioni degli Ungari. Sia gli Ungari che gli Unni, del resto, muovevano le loro scorrerie partendo dalla pianura danubiana, dalla Pannonia; e i monaci che ce ne hanno lasciato la descrizione assimilavano spesso gli uni agli altri. Non sorprende piú di tanto, quindi, che, sin dal Medioevo, i cronachisti magiari sostenessero la discendenza del loro popolo dalla stirpe di Attila. Nella seconda metà dell’Ottocento, quando i nobili ungheresi si sforzarono di cementare anche le fasce piú umili della popolazione in un nazionalismo capace di contrapporsi a quello tedesco sostenuto dagli Asburgo (nell’ambito dell’impero «austroungarico»), la convinzione di essere discendenti degli Unni divenne di dominio popolare; nonostante l’analisi linguistica suggerisse sempre piú una origine siberiana della popolazione (o quantomeno dell’idioma) ungherese. Per anni, inutilmente, si svolsero in tutta l’Ungheria accanite ricerche archeologiche, piú o meno amatoriali, alla ricerca della tomba di Attila. Nel 1874, nel corso di scavi patrocinati dal signorotto locale, su
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nata nel 1850 dalle autorità del Cantone di Vaud, che avevano richiesto al pittore un quadro che celebrasse la lotta per la libertà. La Svizzera era appena uscita dalla guerra civile che nel 1848 aveva portato alla costitu-
una collina vicino Tápiószentmárton, una settantina di km da Budapest, sulla quale la tradizione locale voleva che Attila avesse soggiornato, fu rinvenuto un piccolo ma prezioso manufatto: uno splendido cervo dorato (ora al Museo Nazionale di Budapest; vedi foto a destra). Il «cervo miracoloso» era una figura del folklore unno: la connessione con Attila sembrò dimostrata. In realtà, il reperto risale a quasi un millennio prima che gli Unni si affacciassero nella regione. La fantasia popolare però sopravvisse, tanto che, una ventina d’anni fa, un imprenditore ungherese progettò (invano) di ricostruire sulla collina, come attrazione turistica, il «palazzo di legno» del re unno. Nel mondo accademico oggi nessuno crede piú alla discendenza degli Ungheresi dagli Unni. Eppure, in Ungheria la popolarità di Attila, politicamente alimentata dai partiti nazionalisti (negli anni Trenta dai turanisti, oggi dalla formazione di estrema destra «Jobbik») è rimasta inalterata. Incontrare persone che portano il suo nome è facilissimo; ed è possibile anche imbattersi in busti o monumenti dedicati al re unno (ancora dieci anni fa, una sua statua equestre è stata inaugurata a Budapest dal Ministro della Difesa Nazionale). Non sorprende dunque che proprio alla narrazione della storia di Attila il compositore ungherese Szörényi Levente abbia dedicato, nel 1993, un’opera rock premiata da un largo successo di pubblico.
zione dello Stato federale e le istituzioni erano alla ricerca di figure che suscitassero un senso di identità nazionale. Alla metà dell’Ottocento, la pittura storica era forse il piú prestigioso dei generi pittorici: si trattava di ricostruzioni enfatiche e retoriche eseguite però con la massima accuratezza antiquaria. Tuttavia, per il loro valore documentario istituzionale, spesso finivano per rappresentare il passato come si desiderava che fosse stato. La scena raffigurata nel quadro di Gleyre, che doveva glorificare il diritto all’indipendenza elvetica, era non a caso ambientata sulle rive del Lago di Ginevra, mentre l’episodio della vittoria del 107 a.C. (come dimostrato da indagini storiografiche successive) si svolse sulle sponde della Garonna, nella Francia sud-occidentale.
MEGLIO LE PALAFITTE DELLA TECNOLOGIA Proprio nella pittura storica ufficiale, inoltre, è possibile cogliere, dopo appena un decennio, l’avvento di un nuovo scenario nella retorica nazionalista svizzera. All’Esposizone universale di Parigi del 1867, il Paese alpino venne infatti rappresentato dal dipinto di Auguste Bachelin Villaggio lacustre dell’età del Bronzo (vedi foto a p. 79) I padiglioni delle altre nazioni avevano puntato
su tecnologie e macchinari avveniristici. Gli Svizzeri, invece, optarono per l’evocazione di un passato idilliaco, fatto di laboriosità, pace e uguaglianza, un passato senza armi e strutture palaziali, in linea con l’ideologia ginevrina. Il mondo dipinto ritraeva quello che, proprio in quegli anni, stava tornando alla luce sulle coste di decine e decine di laghi alpini. Tutto era iniziato appena poche stagioni prima, nella primavera del 1854, quando la secca dovuta alla mancanza di precipitazioni invernali aveva fatto emergere casualmente, sul litorale lacustre di Obermeilen, una sfilza fittissima di pali infissi nel fondale, insieme a una gran quantità di reperti di vita quotidiana, ottimamente conservatisi sotto uno strato di fango e sabbia, risalenti a un passato protostorico. L’erudito zurighese Ferdinand Keller, suggestionato anche dal confronto con realtà esotiche note dai resoconti etnografici, elaborò l’ipotesi di villaggi costruiti su piattaforme comuni, sospesi sull’acqua e collegati tra di loro da ponti e passerelle. Rinvigorita dal continuo ritrovamento di contesti simili in tutti i laghi del Paese, la teoria del «popolo delle palafitte», creatore di una pacifica civiltà locale, tecnologicamente evoluta ben prima dell’arrivo dei
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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/5
SCITI ANTICHI E MODERNI «Di noi parlavano a voce bassa, tremando di paura i miti ellenici. Noi, gli Sciti, popolo amante delle risse e delle battaglie». Questi versi di Valerij Brjušov (1873-1924) descrivono bene la suggestione esercitata su alcuni settori della cultura russa dalla riscoperta del popolo delle steppe. In particolare, agli inizi del secondo decennio del Novecento, il richiamo agli Sciti rappresentò un punto significativo per chi intendeva segnare una rottura con gli orientamenti culturali prevalenti. Erano gli anni in cui, per esempio, Sergej Prokofiev musicò la Suite scita, una composizione per orchestra in quattro movimenti, carica di volute dissonanze e cacofonie, ispirata a vicende della mitologia scitica. Fu in particolare un gruppo di poeti, che prese per l’appunto il soprannome di «Sciti», a sfruttare il fascino e la potenza emotiva stimolati dall’evocazione dell’ancestrale cultura nomade delle steppe, riesumata dagli scavi archeologici per attaccare lo spirito borghese incarnato nella civiltà «occidentale». «Voi: milioni. Noi: nugoli, nugoli e nugoli. / Provateci, a farci la guerra! / Sí,
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noi! Gli asiatici! Sí, noi ! gli Sciti / con gli occhi a mandorla e avidi! (...) Per boscaglie e boschi ci faremo largo / davanti all’Europa bella e distinta, e rivolti ad essa / noi mostreremo il nostro sorriso e l’asiatica grinta!» (dal poemetto Gli Sciti, di Aleksander Blok, 1918).
In alto: placca di pettorale in oro. Già nella collezione siberiana di Pietro il Grande, VII-VI sec. a.C San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. In basso: le terminazioni di un collare in oro configurate in forma di cavalieri. Arte scitica, IV sec. a.C. Collezione privata.
Romani, ebbe un successo immediato e straordinario. Gli Svizzeri sembravano finalmente aver trovato i loro antenati «ideali». L’entusiasmo per i lacustri infiammò l’opinione pubblica elvetica a tutti i livelli sociali, in forme che hanno fatto parlare di una vera e propria «febbre» (in netto e significativo contrasto con l’accoglienza molto piú tiepida riservata in quegli stessi anni agli straordinari ritrovamenti di La Téne, presso Neuchâtel). Mostre ed esposizioni, romanzi e articoli di giornale, spettacoli di piazza ed evocazioni storiche, calendari e stampe, poesie e libri scolastici, tutto contribuí ad alimentare per decenni il mito romantico delle palafitte fino a radicarlo nel profondo della memoria collettiva. Tanto da farlo sopravvivere, sia pur in forme blande, fino a oggi. Anche se, almeno a livello accademico, nessuno considera piú la palafitta un tratto culturale, cioè l’espressione di una particolare civiltà, ma solamente una soluzione abitativa, ripresa e adottata da gruppi differenti in diversi periodi e in diversi ambienti.
IL VENTO DELLE STEPPE In Russia la riscoperta delle proprie radici «barbariche» si ebbe molto piú tardi. Per lunghi secoli, nel grande Paese eurasiatico, nessuno era interessato a ricostruire un legame storico con realtà che non fossero il mondo bizantino o quello greco-romano. Lentamente gli orientamenti cambiarono, fors’anche per l’esigenza di dotare la nazione russa di un albero genealogico non inferiore per dignità a quello degli altri popoli europei. Sin dal Settecento, la collezione di corte degli zar (riunita piú tardi nel Museo dell’Ermitage) si era andata arricchendo di reperti artistici e curiosità occasionalmente rinvenute da contadini e tombaroli nei kurgan (le tipiche collinette artificiali costruite sopra gli antichi tumuli
funerari) di cui sono costellate le campagne russe e caucasiche. Un’attività che era stata incrementata e regolarizzata con appositi editti da Pietro il Grande e poi direttamente stimolata dalle spedizioni in Siberia patrocinate dall’Accademia delle Scienze (fondata nel 1725). Poi, nel 1830, nella Crimea da poco annessa all’impero, fu scoperto casualmente il kurgan di Kul-Oba: una tomba scita del IV secolo a.C., al cui interno venne ritrovato un preziosissimo corredo di monili d’oro. Fu un rinvenimento epocale. Nella rappresentazione offerta dalle fonti letterarie classiche, gli Sciti, il popolo nomade delle steppe eurasiatiche che aveva tenuto testa a Greci e Persiani, incarnavano la piú completa e radicale alterità al mondo civile. Ora i corredi delle loro tombe ne mostravano una faccia diversa, quella di un popolo «umano» e raffinato. L’interesse per l’archeologia e per il mondo scitico, che veniva pian piano dissepolto, aumentò progressivamente. Nel 1859 fu istituita la Commissione Archeologica Imperiale incaricata, in particolare, della ricerca di oggetti legati alla «storia nazionale». Seguí una stagione di affascinanti ritrovamenti che accompagnarono l’espansione russa in Asia (e talvolta servirono a giustificarla). Dalla Russia meridionale, alla regione degli Urali, dalle coste del Mar Nero alla Siberia fino alle vallate dell’Altai e al confine con la Mongolia, sembravano tornare alla luce frammenti di una unica arte, di una unica «civiltà delle steppe». Sciti, Sarmati, Unni: un’omogeneità di fondo sembrava caratterizzare il mondo «eurasiatico». Inzialmente percepita come «pericolo mongolo» e associata alla crudeltà tartara, per una parte almeno dell’opinione pubblica russa (da sempre dilaniata dal conflitto fra occidentalisti e slavofili, piú orientati a valorizzare le radici autoctone del proprio mon-
do), questa civiltà delle steppe cominciò ora invece a essere avvertita come un elemento incontaminato e vitale, da opporre al mondo occidentale, mercantile e corrotto. Una prospettiva che darà grande impulso alle indagini archeologiche successive, particolarmente proficue nella zona dell’Altai. L’archeologia dell’epoca sovietica, tuttavia, legata a una visione dei processi storici in chiave marxista, concentrò le proprie analisi sulla cultura materiale, sui sistemi di produzione e sui rapporti fra classi sociali, abbandonando ogni interpretazione in chiave «nazionalistica» dei dati forniti dalle indagini. PER SAPERNE DI PIÚ La bibliografia sui temi affrontati nell’articolo è, in piú di un caso, disponibile solo in lingua straniera. Qui ricordiamo alcuni dei titoli reperibili in italiano. Johann Chapoutot, Il nazismo e l’Antichità, Einaudi, Torino 2017; Umberto Roberto, Il nemico indomabile. Roma contro i Germani, Laterza, Roma-Bari 2018; Massimo Ferrari Zumbini, Il Partenone sul Danubio. Il Walhalla: ideale classico e liturgia nazionale, in Studi Germanici 2012, pp.133172; Christian Jansen, «L’Istituto Archeologico Germanico all’epoca del Nazionalismo», in Carmela Capaldi, Ortwin Dally, Carlo Gasparri (a cura di), Archeologia e politica nella prima metà del XX secolo. Incontri, protagonisti e percorsi dell’archeologia italiana e tedesca nel Mediterraneo, Naus Napoli 2017, pp. 253-261; Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Mimesis, Milano 2012
NELLA PROSSIMA PUNTATA • Prima di Maometto. Nazionalismi islamici e mondo antico. a r c h e o 85
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QUANDO
RAFFAELLO PRESE CARTA E PENNA...
IL GENIO URBINATE PUÒ BEN ESSERE RITENUTO IL PRIMO «SOPRINTENDENTE» DELLA STORIA... LA SUA ATTENZIONE PER LA TUTELA DEL PATRIMONIO, GIÀ AMPIAMENTE DOCUMENTATA, È CONFERMATA DA UNA MISSIVA INVIATA AL PONTEFICE. CE NE PARLA UNA MOSTRA ALLESTITA NEL COMPLESSO DI CAPO DI BOVE, SULL’APPIA ANTICA di Giuseppe M. Della Fina
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a riflessione sull’importanza della tutela delle antichità in Italia e in Europa prende le mosse da una lettera: quella scritta da Raffaello e Baldassarre Castiglione a papa Leone X. Da quella missiva ha preso spunto la mostra «La lezione di Raffaello. Le antichità romane», allestita a Roma negli spazi della Villa di Capo di Bove sull’Appia Antica. Curato da Ilaria Sgarbozza, il progetto espositivo analizza i tempi e i modi della scrittura della lettera, l’impatto nel suo tempo e la fortuna nei secoli successivi attraverso la presentazione di un numero contenuto di opere, ma selezionato attentamente. La Lettera da Raffaello e Baldassarre 86 a r c h e o
Castiglione a Leone X – la cui attribuzione all’Urbinate venne ipotizzata per la prima volta nel 1799 – è giunta a noi in tre versioni: un testo manoscritto risalente al 1519, autografo di Baldassarre Castiglione, che rappresenta una sorta di bozza ricca di cancellature e correzioni e oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Mantova; un secondo testo manoscritto del 1519-1520 in forma di bella copia, pronto per la pubblicazione e sicuramente rivisto Le Belle Arti alla tomba di Raffaello, disegno a penna acquarellato su cartoncino avorio di Pelagio Palagi. 1802 circa. Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio.
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da Raffaello, confluito nella Staatsbibliothek di Monaco di Baviera; una versione a stampa pubblicata a Padova nel 1733 e tratta da un manoscritto andato perduto, che era stato nella disponibilità dell’antiquario veronese Scipione Maffei.
L’INTUIZIONE DELL’ABATE L’attribuzione della Lettera a Raffaello contribuí grandemente alla sua conoscenza e diffusione e il
LA PRIMA PUBBLICAZIONE La Lettera rimase a lungo inedita e venne pubblicata per la prima volta nel 1733 nel volume Opere volgari e latine del conte Baldessar Castiglione, curato dai fratelli Giovanni Antonio e Gaetano Volpi e stampato a Padova per i tipi di Comino. I due curatori attribuirono il testo alla sola mano del Castiglione (1478-1529), noto soprattutto per il suo capolavoro Cortegiano, edito a Venezia nel 1528, dove si tratteggia, in forma dialogica, la figura del cortigiano perfetto secondo gli ideali rinascimentali.
In alto: il sepolcro «dei Servilii» in un disegno di Pirro Ligorio. 1560-1566. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III». A sinistra: frontespizio dell’opera di Daniele Francesconi Congettura che una lettera creduta di Baldessar Castiglione sia di Raffaello d’Urbino, stampata a Firenze per i tipi di Brazzini. 1799. Roma, Biblioteca Hertziana. Nella pagina accanto: il mausoleo di Cecilia Metella in un disegno di Pirro Ligorio. 1560-1566. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III». 88 a r c h e o
UN LAVORO FATTO CON CURA E DILIGENZA Raffaello ricorda nella Lettera di essere «stato assai studioso di queste antiquità, et havendo posto non picciola cura in cercarle minutamente e misurarle con diligentia». Un’attenzione che lo portò a raggiungere i ruderi che voleva esaminare con sforzo avvicinandoli anche «con molta diligentia e faticha per molti lochi pieni de sterpi e quasi inaccessibili».
ruolo dell’artista fu intuito e dimostrato dall’abate veneto Daniele Francesconi, amico di Antonio Canova. Egli avanzò l’ipotesi innovativa in occasione di una conferenza tenuta nelle stanze della Reale Accademia Fiorentina, nella giornata del 4 luglio 1799, consapevole del fatto che il testo, «col solo cambiarsegli il nome dell’Autore, diverrebbe come un altro scritto, cioè degno di una diversa considerazione appresso agli Studiosi, ed i Critici». La relazione fu pubblicata subito, col titolo Congettura che una lettera creduta di Baldassar Castiglione sia di Raffaello d’Urbino (Firenze 1799) e iniziò la fortuna della Lettera. Essa si accompagnò a una rinnovata attenzione per l’attività dell’artista che, in maniera indipendente, era nel frattempo maturata nel mondo della critica d’arte, arrivando a investire l’intera cultura del tempo e dei decenni a seguire.
VISITA AGLI SCAVI Interessante Didascalia da fareèIbusdae notare come, nella fortunata editoevendipsam, officte impresa erupit antesto riale Vitailita di aut Raffaello da Urbino taturi cum quatiur restrum disegnata e incisa deiium fratelli eicaectur, testo blaborenes Franz Johannes Riepenhauquasped equos non etur reius nonem sen rivolta non quam(1841), expercipsunt quos restsoltanto magni al pubblico degli specialisti, autatur apic teces enditibus teces. si tenga conto dell’impegno del grande pittore per la difesa delle antichità romane. L’XI tavola della serie propone una scena ambientata nel Foro Romano: Raffaello è impegnato a illustrare i risultati degli scavi al pontefice Leone X e tra i personaggi presenti è inserito anche l’amico Baldassarre Castiglione. Quest’ultimo è raffigurato richiamandosi al suo celebre ritratto conservato al Louvre. Si deve osservare che il pontefice pone amichevolmente una mano sulla spalla di Raffaello, a suggerire una vicinanza personale tra i due, oltre a r c h e o 89
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che intellettuale. Il gesto sembra alludere anche alla sostanziale parità tra il prestigio di un papa e quello di un artista e quindi alla rivendicazione dell’importanza dell’invenzione artistica. In un’altra tavola della stessa pubblicazione – la IX – il pontefice è mostrato proprio nello studio di Raffaello: Leone X è seduto mentre l’artista in piedi gli mostra il progetto per la basilica di S. Pietro e il modello per il Giona che esce dalla balena, che, una volta trasferito sul marmo, era destinato alla Cappella Chigi nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma. Non basta: alle pareti dello studio, sono presenti il cartone di un arazzo per la Cappella Sistina e il ritratto dello stesso pontefice.
UN APPELLO ACCORATO Proviamo a vedere la Lettera piú da vicino: è un appello a difendere i monumenti di Roma antica e, al contempo, a guardare a loro per cercare di «agguagliarli e superarli». La denuncia dei danni compiuti è molto forte e non esclude la responsabilità dei predecessori di Leone X: «Quanti pontefici, Padre Santissimo, li quali avevano il medesimo officio che ha Vostra Santità: quanti, dico, hanno atteso a ruinare tempi antichi, statue, archi e altri edifici gloriosi!». Poco oltre si segnalano i motivi delle distruzioni, che sono individuati nella ricerca di materiali da costruzione a buon mercato: «Quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana si sieno scavati dei fondamenti, onde in poco tempo poi gli edifici sono venuti a terra! Quanta calce si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi». La denuncia risulta ancora piú forte e coraggiosa se si considera che, nel Leone X nello studio di Raffaello Pittore Scultore e Architetto, tavola IX della Vita di Raffaello da Urbino disegnata e incisa, opera dei fratelli Franz e Johannes Riepenhausen. 1841. Roma, Biblioteca Hertziana. 90 a r c h e o
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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Breve Apostolico del 27 agosto 1515, lo stesso Leone X aveva dato a Raffaello, in qualità di capo-cantiere della Fabbrica di San Pietro, l’incarico di procurare i marmi necessari per la costruzione della nuova basilica e di «vegliare sugli scavi che si faranno in Roma e sulle pietre che ne verranno tratte, e di acquistare tutti i materiali utili alla costruzione», salvaguardando solo le epigrafi degne di nota. Sembra proprio che tale incarico abbia indotto l’artista a riflettere sulla necessità di avere comportamenti diversi e di tutelare ciò che restava dei monumenti di Roma antica. Cosí chiese al pontefice di considerare, tra le responsabilità papali, anche quella di «aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana, non sia estirpato e guasto dalli maligni e ignoranti». Tale azione – se determinata – non sarebbe stata fine a se stessa. Nella Lettera, Raffaello e Baldassarre Castiglione sembrano suggerire al papa i vantaggi che ne sarebbero potuti scaturire: «favorire le virtuti, risvegliare gl’ingegni, spargendo il santissimo seme della pace tra li principi cristiani». La tutela delle antichità, quindi, come azione politica ambiziosa. Interessante è anche la seconda parte del testo, nella quale si passa a esaminare l’architettura romana esaltandola rispetto a quella tardo-antica e medievale, e a ipotizzare il rilievo sistematico dei monumenti superstiti seguendo metodologie innovative, con il disegno in scala di pianta, prospetto e sezione. La Lettera, che non venne pubblicata al tempo (quasi con certezza, comunque, si diffuse tra gli allievi di Raffaello e nella curia pontificia), era stata concepita come introduzione a una pianta antiquaria della città di Roma, divisa per regiones. Raffaello avrebbe voluto realizzarla, ma la morte prematura gli impedí di farlo. Il progetto non vide quindi la luce, ma alcuni suoi collaboratori
avevano iniziato già a lavorare: Gia- ria Molza: tutti personaggi coi quali como Mazzocchi, Marco Fabio entrò in contatto durante la sua vita. Calvo e Andrea Fulvio. Si è fornito un elenco troppo lungo di nomi, ma si è scelto di farlo per L’EREDITÀ DEL MAESTRO dare un’idea del livello dei persoFu un esponente della generazione naggi che avevano mostrato interessuccessiva che cercò di recuperare se, talvolta entusiasmo, per il progetl’intero progetto dopo il trauma del to iniziale di Raffaello. Idee che sacco di Roma del 1527: Pirro Ligo- Pirro Ligorio seguí inizialmente rio (1513-1583). Egli deve aver co- quasi alla lettera, riproponendo la nosciuto le idee di Raffaello attra- riproduzione grafica del monuverso gli architetti Baldassarre Peruz- mento attraverso la pianta, il prozi, Antonio da Sangallo il Giovane, spetto e la sezione e adottando il Sebastiano Serlio e gli umanisti An- «piede anticho» come unità di misura. gelo Colocci, Paolo Giovio, Latino Poi, attorno al 1550, se ne distaccò, Giovenale Manetti e Francesco Ma- arrivando a concepire il lavoro coIn basso: la Vergine dei Candelabri, grafite e acquarello su carta di Jean-Auguste-Dominique Ingres, dal dipinto di Raffaello. 1806-1820. Montauban, Musée Ingres Bourdelle. Nella pagina accanto: Ritratto di Raffaello, grafite su carta di Jean-Auguste-Dominique Ingres, da Marcantonio Raimondi. Primo quarto del XIX sec. Montauban, Musée Ingres Bourdelle.
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me un compendio enciclopedico ispirato alle Antiquitates varroniane. In questa seconda fase, Federico Rausa – in uno dei saggi del catalogo, pubblicato da Electa – osserva che i monumenti non sono piú ritenuti esempi per illustrare l’architettura antica con le sue peculiarità tipologiche e stilistiche, ma divengono testimonianza storica delle antiche gentes, al pari, per esempio, delle iscrizioni.
SULLA REGINA VIARUM Tra i monumenti antichi che attrassero l’attenzione di Raffaello e dei continuatori del suo progetto, un posto speciale spetta agli edifici visibili lungo la via Appia che, nel Cinquecento, era l’asse stradale principale che collegava Roma col Regno di Napoli. Le prime miglia, uscendo dalla Porta di San Sebastiano, ancora presentavano lungo i bordi numerose testimonianze di strut-
ture antiche, soprattutto funerarie. Di conseguenza – come ha notato sempre Rausa – quel tratto dell’Appia divenne la meta di missioni di studio per antiquari, pittori, architetti. Non mancavano nemmeno i pellegrini, che andavano alla ricerca delle memorie del cristianesimo delle origini con soste di preferenza nella basilica extramuranea di S. Sebastiano e nella chiesetta del Domine quo vadis. Nel vasto archivio di disegni, elaborati secondo le linee del progetto ipotizzato inizialmente da Raffaello, restano tracce importanti dei rilievi realizzati lungo l’Appia. Un documento è rappresentato da due fogli inseriti in un taccuino, conservato attualmente nelle Staatliche Kunstsammlungen di Kassel, attribuiti alla mano di un artista sconosciuto della cerchia di Giulio Romano, noto come «Anonimo mantovano A». Un’altra testimonianza potrebbe essere rappresentata da alcuni fogli
UN PALADINO DEL PATRIMONIO La Villa di Capo di Bove si trova sulla via Appia Antica e non è lontana dal mausoleo di Cecilia Metella. Nell’edificio, dal 2008, sono custoditi l’Archivio e la Biblioteca di Antonio Cederna (1921-1996), uno dei padri del movimento ambientalista in Italia e noto soprattutto per le sue coraggiose battaglie a difesa del patrimonio archeologico e storico-artistico del nostro Paese.
In alto: i resti dell’impianto termale di Capo di Bove. Metà del II sec. d.C. È probabile che fosse una proprietà privata a uso di una corporazione che frequentava la zona. A ridosso dell’impianto sorge la villa nei cui spazi è attualmente allestita la mostra «La lezione di Raffaello» (foto qui accanto). 94 a r c h e o
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del codice di Fossombrone, un libro di disegni, acquistato da Gherardo Cibo nel 1533, e connesso sempre con Giulio Romano. In quest’ultimo documento sono riprodotti la chiesa di S. Urbano alla Caffarella, il cosiddetto tempio del dio Redicolo e la tomba attribuita a Q. Verannius al IV miglio della regina viarum.
DOVE E QUANDO «La lezione di Raffaello. Le antichità romane» Roma, via Appia Antica 222, Complesso di Capo di Bove fino al 29 novembre Orario gio-do, 9,00-17,30 Info www.parcoarcheologicoappiaantica.it Catalogo Electa
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SPECIALE • BALUCHISTAN
I MISTERI DELLA VALLE DI ZHOB BALUCHISTAN, INVERNO DEL 1975. NELLA REMOTA REGIONE DEL PAKISTAN SETTENTRIONALE, UNA MISSIONE ARCHEOLOGICA FRANCESE COMPIE UNA SCOPERTA STRAORDINARIA: DAI RESTI DI UN VILLAGGIO DI 5000 ANNI FA EMERGONO CENTINAIA DI FIGURINE IN TERRACOTTA. MA QUAL ERA IL LORO SIGNIFICATO, QUALE LA LORO FUNZIONE? LA RISPOSTA POTREBBE ESSERE NASCOSTA IN UN ENIGMATICO MANUFATTO AFFIORATO DI RECENTE SUL MERCATO ANTIQUARIO... di Massimo Vidale Sulle due pagine: figurine in terracotta di personaggi maschili e femminili, nude, recanti elaborate acconciature e gioielli. Baluchistan settentrionale, 3000-2700 a.C. circa. Rinvenute nei resti degli insediamenti, ma non nelle tombe, le figurine erano spesso dipinte, dopo la cottura, con colori vivaci: nero per gli occhi, giallo e azzurro per corpo e vestiti; le chiazze rosse sulla fronte ricordano il costume induista di applicare il rosso sulla fronte come segno devozionale.
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anno affollato le pagine del sito di vendite e aste on line Ebay e gli scaffali di un numero sconosciuto di collezionisti privati, in ogni parte del mondo. Sappiamo (almeno in linea generale) da dove vengono, e a quale età risalgono; ma nei profondi occhi vuoti che spiccano da volti inespressivi, sotto turbanti e acconciature complicate, nella loro nudità, accentuata da collane e bracciali, leggiamo solo mistero. Stiamo parlando di un numero sconosciuto, probabilmente elevatissimo, di statuine umane preistoriche in terracotta – intere e a frammenti – che, negli ultimi vent’anni, sono state scoperte e scavate in circostanze sconosciute da una regione di confine tra Pakistan e Afghanistan. Procediamo con ordine. Siamo in una valle interna delle pianure di Kacchi, un lembo della valle dell’Indo che si insinua tra i rilievi centrali del Baluchistan, una regione montuosa tra il margine est dell’Altopiano Iranico e quello occidentale del Sub-Continente Indo-Pakistano. In una zona remota, scarsamente accessibile, una missione archeologica francese sta scavando il sito preistorico di Mehrgarh, sotto la protezione del khan di una influente tribú locale. È l’inverno del 1975: solo nella stagione fredda, infatti, è possibile vivere e lavorare in una zona che d’estate si fa piú che torrida. Mehrgarh è un sito enorme, che si allarga per quasi 3 km in lunghezza lungo le sponde del fiume Bolan, che scende dai rilievi afgani. Diverse comunità e villaggi si sono alternati, nel corso del tempo, in punti diversi, cosicché, invece delle possenti stratificazioni sovrapposte l’una all’altra dei tell del Vicino Oriente, Mehrgarh si sviluppa in orizzontale, e le abitazioni e le tombe dei diversi periodi sono direttamente accessibili agli scavi a pochi centimetri dalla superficie attuale. Si sta scavando parte di un villaggio della prima metà del III millennio a.C. a r c h e o 97
SPECIALE • BALUCHISTAN
Dalle rovine di un gruppo di stanzette intricate, alcune delle quali usate come magazzini – come dimostra una pletora di giare e vasetti ancora integri, abbandonati tra le rovine – emerge oltre un migliaio di frammenti di figurine umane di terracotta, piú spesso femminili, a volte maschili. Sembrano essere state scaricate, come rifiuti, confuse in una ingente massa di cocci e altri scarti.
UNA DENOMINAZIONE SUGGESTIVA Gli archeologi francesi avevano già un nome per queste piccole immagini: le «dee-madri di Zhob». Il nome viene da quello del fiume e della relativa valle, che si trova nel Baluchistan pakistano, presso il confine con l’Afghanistan, 300 km circa a sud di Kabul. In questa valle, in quella di Quetta e altre del confine internazionale, tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento, ricognizioni e limita-
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ti saggi di scavo condotti da archeologi statunitensi avevano cominciato a rivelare che, 6000 anni fa, un clima che è facile immaginare piú propizio dell’attuale aveva favorito l’intenso popolamento preistorico da parte di società di agricoltori e pastori nomadi. Gli studi archeobotanici suggeriscono che la coltivazione della palma da dattero – che trovava condizioni ideali nei fondovalle umidi e caldi della regione – fosse stata uno dei fattori principali dello sviluppo, insieme alla capacità dei contadini di costruire dighe e sbarramenti (nelle lingue locali, gabarband), che catturavano e preservavano le colate di limo fertile trasportate a valle dalle rare torrenziali alluvioni. Attiravano l’attenzione degli archeologi innumerevoli cocci dipinti con intricati disegni geometrici e figure animali, che, sulla superficie dei monticoli archeologici, testimoniavano il variare delle culture e il passare del tempo
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G o l fo d i O m a n In alto: cartina geo-politica del Pakistan. La regione da cui provengono le figurine riprodotte nell’articolo si trova presso il confine con l’Afghanistan, tra i siti preistorici di Mehrgarh, Rahman Dheri e Kulli.
(al punto che l’archeologo inglese Mortimer Wheeler, mai tenero con i propri colleghi, paragonò gli articoli degli studiosi d’oltreoceano – pieni appunto di cocci – a «raccolte di francobolli»). Il rinvenimento delle statuine di Zhob tornò improvvisamente alla ribalta archeologica con le scoperte di Mehrgarh. Colpiscono, in queste immagini, gli occhi, resi con profondi fori cilindrici, con bordi che a volte si espandono sopra capelli e copricapi; l’elaborazione delle acconciature, che vanno da semplici turbanti di forma cilindrica a veli che coprono il capo e le tempie, fino alle spalle; a volte, con bande o trecce che, ai lati del volto, scendono sulle spalle. I volti femminili sono sovente incorniciati da volute di riccioli che sembrano sbucare, sulle tempie, da sotto ampi veli. I maschi spesso recano grandi cappelli a forma di ventaglio, con una banda eccentrica che sbuca dal retro, sulla sinistra. Altre statuette hanno
Dholavira Surkotada
Sulle due pagine: vedute della valle del fiume Zhob (Baluchistan pakistano) e delle catene montuose che circondano la regione. A destra: un villaggio situato sulla strada per Quetta.
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grandi coni che si dipartono dal capo come i raggi di una stella, o giri di applique circolari, come petali di una corolla. Il corpo è ben proporzionato, ma non il capo, ingrandito piú delle reali proporzioni; nelle statuette femminili, il seno è fortemente accentuato. Il corpo, sia dei maschi sia delle femmine, è in
genere nudo, ma le forme sono scandite, per contrasto, da collane con fili multipli, perle e pendenti, bracciali e cavigliere. I maschi spesso mostrano sotto il mento un pendente simile a una «cravatta». È lo stesso sottile gioco formale che, millenni dopo, animerà le sculture piccole e grandi di soggetto
LA TEORIA DEI TORI Nei siti della cultura di Kulli (Baluchistan centro-meridionale) sono state rinvenute, a centinaia, figurine in terracotta di tori del tutto
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analoghi a quelli qui illustrati. Molte di esse provengono da sepolture scavate illegalmente. Tra il IV e il III mill. a.C., il possesso di mandrie
di bovini, era certamente una risorsa economica essenziale; gli zebú avevano anche forti implicazioni ideologiche e simboliche.
induista, conferendo spesso alle immagini sacre un velo di erotismo. Nelle parole dello scopritore, JeanFrançois Jarrige, «Le figurine di Mehrgarh (...) possiedono una eccezionale varietà di forme e dettagli. Il modellato dei contorni, e la delicatezza delle acconciature, rivelano qualità che si incontrano piú spesso nell’arte dei successivi periodi storici. Molte figurine hanno tracce di colore applicato dopo la cottura: nero per i capelli, giallo per i gioielli applicati, porpora per alcuni dettagli delle acconciature». Anche gli occhi e le sopracciglia, nelle immagini
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dello stesso tipo, sono segnate con pigmenti scuri, e in qualche esemplare la fronte reca del colore rosso, che sembra molto simile al bindi, il tocco vermiglio che, nella piú tarda tradizione induista, esprime la shakti, l’energia generatrice primordiale, associata alla purezza rituale della donna maritata e madre. Un altro tipo di figurina, sia maschile sia femminile, è di proporzioni accresciute, e modellato con cura molto maggiore: apparentemente non dipin-
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te, le immagini di questo tipo si ispirano a un naturalismo piú percepibile, e, anche a causa degli occhi fortemente allungati e socchiusi, comunicano una sensazione di contenuta potenza e autorità. Lo stile è diverso, ma il rinvenimento di immagini dei diversi tipi negli stessi contesti ne mostra la contemporaneità. Le figurine piú comuni hanno posizioni e attitudini diverse. In genere non si reggono da sole in posizione stante, e
non vi è alcuna traccia di piedestalli. Dobbiamo quindi supporre che fossero maneggiate, o rette temporaneamente da altri sostegni. Molte, soprattutto femminili, hanno il corpo piegato come se fossero destinate a sedere su troni o sgabelli, ma anche di tali supporti non vi sono evidenze. Nelle statuette «sedute», le braccia sono piegate all’altezza della vita e protese in avanti; le mani, piccole e chiuse a pugno, hanno le dita accennate da sottili solcature e in molti casi il pollice proteso all’insú, quasi ad afferrare qualcosa. Le figurine maschili hanno piú spesso il corpo eret-
Un eccezionale modello in terracotta, lungo oltre 50 cm, che sembra rappresentare un’imbarcazione o un carro con una protome taurina; trasporta un gruppo di 8 personaggi seduti (quattro uomini e quattro donne, con le donne poste davanti ai maschi) che accompagnano una «dea» seduta in trono all’interno di una cabina coperta. Baluchistan settentrionale, 2700 a.C. circa. a r c h e o 103
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to in piedi; le braccia si allargano ai fianchi, o si chiudono sul petto. Particolare sconcertante, un numero minore di statuette, sia maschili sia femminili, sembra recare al petto un fagottino dal quale spunta il grande naso di un neonato: una posizione simile a quella dell’allattamento, ma certo non spiegabile cosí nelle immagini maschili.
TRADIZIONI POPOLARI Nel mondo rurale indiano, gruppi di figurine animali, nei luoghi di culto, possono essere usati come sostituti simbolici di animali sacrificati. Altre figure umane e mitologiche, che noi definiremmo «burattini», sono comunemente usate nei villaggi per visualizzare a ripetizione i popolarissimi racconti delle grandi epiche classiche indiane. Fabbricate e dipinte con cura, ma fragili e scartate in frammenti nei rifiuti senza eccessivi riguardi, le statuette non sembrerebbero essere rappresentazioni divine, almeno in quanto immagini permanenti di venerazio-
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Il modello visto di lato mostra, lungo i fianchi, le zampe ripiegate del toro (il che suggerirebbe un carro trainato, appunto, da un toro). Sul muso sembrerebbero rappresentate le redini. Sui due lati del petto, invece (in basso) compare un viluppo di piante acquatiche, che invece sarebbero compatibili con l’ipotesi di un’imbarcazione.
IL COLORE E IL COBRA Il retro del modello è provvisto di un manico verticale, consunto dalla manipolazione, che prende il posto della coda dell’animale. Sulle zampe del toro si ergono, rappresentati in modo schematico ma molto dinamico, alcuni cobra con gli occhiali (Naga naga), che nel mondo indiano sono simbolo di potenti spiriti sotterranei.
ne e culto. Ma allora, quale avrebbe potuto essere la loro funzione? Un manufatto unico, anche se affiorato sul mercato antiquario e quindi privo di precise coordinate archeologiche, ci offre qualche spunto di riflessione. Si tratta del modello di una imbarcazione, o di un carro, di grandi dimensioni (è lungo quasi 60 cm), che assume le forme dell’intero corpo di un possente toro. La sua «protome» o polena costituisce la prua o l’avancorpo del veicolo, mentre il retro
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Particolare degli otto personaggi seduti in due file presso i lati del modello, davanti alla cabina. Le figurine recano tracce di vivaci colori, ora scomparsi; quelle col copricapo piú alto sono femminili e, poste davanti ai maschi, accentuano il carattere femminile dell’intera scena. 106 a r c h e o
Tra le due file di personaggi seduti (a destra) si trova un passaggio libero, che conduce al retro della testa taurina, collocata come una protome o «polena» all’estremità del modello. Subito dietro vi sono tre scalini (in basso), come se la «dea» seduta in trono avesse potuto salirvi e manifestarsi tra le grandi corna dell’animale. Ai lati degli scalini si trovano due attendenti maschi, con una gonna plissettata.
è formato da una cabina o da una copertura a volta, che ricorda da vicino la copertura dei carri trainati da animali del III e II millennio a.C. La protome a testa bovina, dipinta in pennellate nere su uno sfondo ingubbiato in rosso, domina l’intero manufatto. Gli occhi dell’animale sono spalancati e completamente frontali, e danno al toro uno sguardo molto umano e chiaramente benevolo; sulla fronte campeggia un cerchio campito da un punto interno, che di solito è interpretato come simbolo solare. Le narici sono profondamente incise, secondo uno schema geometrico astratto, che ricorda da vicino la forma dei sigilli dello stesso periodo. Sul petto si snoda un lento viluppo di piante che sembrano acquatiche, mentre sulle quattro corte zampe – del tutto sproporzionate rispetto al resto della figura animale – dagli zoccoli alla spalla si snodano quattro cobra con gli occhiali (Naga naga), uno degli animali che, nell’immaginario dell’India antica, possiedono, come creature-spiriti sotterranee del mondo dei morti, importanti connotazioni soprannaturali. Sul retro, al di là della cabina, un manico verticale, con segni di una prolungata manipolazione, sembra fare le veci della coda.
In questo straordinario veicolo-animale ha luogo un consesso di ben 15 figurine in terracotta analoghe alle «dee di Zhob» e ai loro accompagnatori maschili. Nel centro, la parte scoperta del veicolo, disposti in una fila unica lungo ciascuna delle fiancate a bordo ondulato, si vedono quattro coppie di figurine sedute su altrettanti sgabelli. Il ceramista, nel realizzare il modello, ha accuratamente saldato le figurine e i sedili al corpo stesso del manufatto. Tuttavia, è chiaro che la posizione dei personaggi è la stessa delle figurine di Mehrgarh – seduti, con le braccia piegate e spinte in avanti. Ma questo non ci aiuta molto nell’interpretazione: se il modello rappresentasse una soprannaturale barca bovina, è possibile che tale posizione alluda alla propulsione a remi (comunque assenti); se pensiamo a un veicolo (senza ruote) la stessa posizione si adatterebbe molto bene alla conduzione del carro mediante le redini. In ogni caso, l’analogia con i personaggi seduti nel modello suggerisce che le figurine di Zhob e Mehrgarh erano concepite per essere sedute su sedili (lignei, o di argilla cruda) di natura piú deperibile.
ACCONCIATURE VISTOSE Ma l’aspetto piú straordinario della raffigurazione è che, in entrambe le fila, le donne si ergono, con ampie e vistose acconciature, davanti agli uomini, piú bassi e molto meno visibili. È un caso praticamente unico nell’arte preistorica: che l’intero modello sia ispirato a un evento o a una cerimonia decisamente «al femminile» diviene subito chiaro quando ci si abbassa a guardare che cosa ci sia sotto alla cabina. Di colpo appare un nuovo personaggio, vero protagonista dell’intero complesso iconografico: una donna nuda assisa in a r c h e o 107
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trono, con il capo sproporzionato – la fronte è innaturalmente innalzata sino alla volta – coronato da riccioli e coperto da un velo. L’espediente contribuisce a rendere quasi monumentale la sua immagine, perché in senso psicologico tale compressione genera un contrario effetto di espansione. Il trono ha lo schienale che si espande a raggi appuntiti e, al posto dei braccioli, ha due zebú, modellati con impeccabile senso estetico. Le mani della signora (oppure dea, sacerdotessa o regina), nella consueta posa degli avambracci protesi in avanti, si spingono a sfiorare la punta delle corna degli animali. Anche qui ritorna il tema della subordinazione degli uomini: il trono e la signora sono circondati da quattro figurine di «servitori» con la schie-
In basso: una veduta frontale, sotto la cabina, della «dea» ignuda, seduta su un trono dallo schienale a sei punte, con braccioli a forma di zebú.
na addossata alle pareti; vestiti con una specie di gonna plissettata e un copricapo a ventaglio, abbassano lo sguardo in atto di deferenza. Altre statuette identiche sono comparse come figure isolate sul mercato antiquario, a suggerire che composizioni di statuette in gruppo dello stesso tipo potevano essere parte di una ritualità ricorrente. La signora in trono guarda, oltre la cabina, verso la parte opposta del veicolo e l’incavo del retro della testa del toro. Qui si ergono tre scalini, guardati anch’essi da due guardie in gonnella identiche alle altre. Sembra quasi di vedere la signora alzarsi dal trono, incamminarsi al centro del suo seguito, e salire la scala, fino a innalzarsi tra le corna del toro. Ed è facile immaginare che da qui essa potesse predicare, narrare o cantare, sfruttando la «cassa di risonanza» formata dall’incavo della testa bovina, come se la signora e 108 a r c h e o
l’animale soprannaturale fossero diventati, nel La «dea» in trono, contempo, un’unica cosa. distinta dalla
L’ETÀ DELLE PRIME «CITTADELLE» Una delle possibili letture, se il modello rappresenta davvero un carro, è che esso raffiguri una processione rituale nel corso della quale l’immagine di una dea assisa in un trono, forse con connotazioni astrali, o una sacerdotessa di alto rango, erano trasportate su dei carri monumentali intorno a nuclei architettonici urbani o sacralizzati. All’epoca in cui il manufatto venne realizzato (il primo quarto del III millennio a.C.), la valle dell’Indo fu teatro della costruzione di grandi opere murarie in mattone crudo, con accessi controllati e bastioni, e della graduale agglomerazione, intorno a queste prime «cittadelle», di altri
nudità e da una elaborata acconciatura coperta da un velo. Le mani poggiano sulla punta delle corna dei tori che formano i braccioli. Il trono è circondato da altri quattro inservienti maschi, identici a quelli che affiancano gli scalini.
agglomerati di popolazione urbana, anch’essi fortificati nel corso del tempo con grandi recinzioni in mattone crudo e cotto. Che queste grandi opere urbane avessero una forte importanza simbolica, ribadita nel corso di cicliche occasioni cerimoniali collettive, è una possibilità. Ancora oggi, nell’India meridionale, in occasione del Rathoutsava (festival dei carri), si costruiscono colossali veicoli di legno (chiamati ratha), tirati da cavalli o elefanti, oppure a mano con funi dalla collettività, sui quali si mettono le statue delle principali divinità. I carri percorrono le principali vie cittadine secondo percorsi rituali rigidamente stabiliti, accompagnati da canti e inni religiosi. Ma questa è soltanto una tra le varie possibili ipotesi a proposito di un mistero che, presumibilmente, continuerà a restare tale. a r c h e o 109
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
MEDIATORI DI CIVILTÀ IL COMPLESSO DI S. VINCENZO AL VOLTURNO SI CONFERMA UNA PREZIOSA MINIERA DI DATI SULLA CULTURA MONASTICA: QUESTA VOLTA GRAZIE ALLE RIVELAZIONI FORNITE DALLO STUDIO DELLE SUE ISCRIZIONI
I
mmaginate di essere al tempo dell’imperatore Carlo Magno, nel cuore del Molise, non lontani dal corso del fiume Volturno. Improvvisamente, vi appare in tutta la sua maestosità il monastero dedicato a san Vincenzo, uno dei piú ricchi e importanti dell’intera Europa. Tra tutti gli edifici spicca per dimensioni la grande chiesa, fondata dall’abate Giosuè. E un dettaglio colpisce, subito: una iscrizione in grandi lettere d’oro che si snoda in alto, sulla facciata (in realtà si tratta di bronzo dorato, ma questo non si vede a occhio nudo, e da cosí lontano). L’iscrizione è uguale a quelle degli archi onorari o dei templi romani, molto solenne, nella forma e nel testo. Tradotta, dice: «O forestiero, tutte le cose che vedi, da quelle che svettano in cielo a quelle che sono piú in basso, le costruí Giosuè, uomo di Dio, insieme ai suoi fratelli». Ma le sorprese non sono finite. Perché una volta entrati, il monastero si rivela uno scrigno pieno di scritture: nei dipinti sulle pareti, presso le tombe dei monaci… Persino le tegole in terracotta usate per il pavimento dei corridoi del chiostro sono iscritte, con i nomi di membri della comunità monastica. Tutto questo non succedeva solo a S. Vincenzo, ormai lo sappiamo: decenni di ricerche di archeologia medievale hanno confermato e dato corpo a qualcosa che gli
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Nella pagina accanto: abbazia di Farfa (Rieti). Tomba affrescata di un abate (Altbertus?), con iscrizione dipinta. Fine dell’VIII sec. In basso: iscrizione funeraria di un sacerdote di nome Tamfrid, dagli scavi della parte orientale della «Corte a giardino» di S. Vincenzo al Volturno. Prima metà del IX sec.
storici dei testi avevano già intuito tempo fa. L’età romana è la grande stagione delle scritture esposte, delle epigrafi ben visibili al pubblico sulle facciate dei monumenti, nelle strade e nelle piazze. La cultura urbana dei Romani è intimamente legata alla parola scritta, ma poi le cose cambiano e già dal V-VI secolo le scritture si diradano, e si concentrano invece dentro luoghi specifici: soprattutto le chiese, prima, e poi i monasteri.
L’EPIGRAFIA DEGLI ABATI E cosí, nel recente saggio Epigrafi dal cenobio, Daniele Ferraiuolo esplora una pista finora poco battuta: si può parlare di una epigrafia monastica altomedievale? L’indagine è stata condotta a partire soprattutto dal nutrito corpus di iscrizioni del complesso di S. Vincenzo al Volturno, e la forza di questo studio risiede nel suo stare a cavallo tra piú discipline: prima di tutto l’archeologia e la paleografia. E i risultati sono davvero interessanti, a volte sorprendenti. Veniamo a sapere dell’esistenza di una «epigrafia degli abati», cioè di un’esaltazione della memoria di queste figure centrali del monachesimo grazie a sepolture molto ampie e segnalate da iscrizioni monumentali, grandi lastre di marmo con componimenti in versi e arricchite da cornici decorative. E qui emerge un
dettaglio, che conferma le proverbiali affinità tra il mestiere dell’archeologo e quello del detective: le superfici di queste lastre non sono abrase, le lettere sono in genere ben leggibili… e dunque le tombe degli abati dovevano essere transennate. Una novità, un dato importante su cui non si era ancora riflettuto. Lo studio delle epigrafi funerarie restituisce poi altre informazioni interessanti: a S. Vincenzo (come in altri complessi monastici del Meridione, per esempio Montecassino), sono presenti delle piccole iscrizioni di forma troncoconica. Probabilmente venivano inserite dentro le mura di ambienti dedicati alle sepolture dei monaci, le cui tombe erano invece scavate nel pavimento, nello spazio di fronte. Il risultato finale, come suggerisce Ferraiuolo, è una parete che ospita «un mosaico di tessere epigrafiche». Altre soluzioni possibili erano le tombe scavate nel terreno, con le pareti intonacate, decorate (spesso con
croci) e iscritte. È evidente che queste scritture, non visibili se non al momento del funerale, erano piú che altro un mezzo per assicurare protezione nell’aldilà al defunto.
AFFINITÀ INASPETTATE Ma un altro punto d’arrivo molto interessante sono le analogie tra le lettere, gli alfabeti usati in molte di queste iscrizioni, e i libri prodotti negli scriptoria, i laboratori di scrittura associati alle biblioteche dei monasteri. Queste similitudini aprono orizzonti inaspettati sui canali di comunicazione tra ambiti culturali: le lettere usate nelle iscrizioni dei monasteri milanesi o del nostro Meridione sono simili a quelle dei libri prodotti nelle abbazie della Francia carolingia. Ed ecco che prende ancora piú sostanza la percezione che le comunità monastiche furono «mediatori di civiltà», vere ricetrasmittenti che permisero la diffusione e l’osmosi tra culture diverse. Studi come questo ci mostrano quanto un’archeologia
ben fatta sia in grado di ricostruire in maniera efficace e dettagliata capitoli importanti della nostra storia culturale.
PER SAPERNE DI PIÚ Daniele Ferraiuolo, Epigrafi dal cenobio. Forme, contesti e scritture nell’Italia longobarda e carolingia, Volturnia Edizioni, Cerro al Volturno 2019
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
DALLA PESTE CI SCAMPI IL CAVALIERE! LA MONETAZIONE PROVINCIALE DELLA CITTÀ DI SERDICA, NELLA PROVINCIA ROMANA DI TRACIA, ATTESTA L’IMPORTANZA DEI CULTI TRIBUTATI ALLE DIVINITÀ CHE TUTELAVANO LA SALUTE
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el frangente storico in cui ci troviamo, affrontare temi connessi con le divinità salutifere e, in qualche modo, con le epidemie permette di collocare le pandemie nell’ambito dei corsi e ricorsi storici. La monetazione della provincia romana di Tracia,
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corrispondente grosso modo all’attuale Bulgaria, con estensioni nella Grecia settentrionale e nella Turchia europea, è caratterizzata da una notevole e interessante serie di emissioni le cui tipologie si riferiscono al tema «salute». La produzione monetale trace è
pienamente inserita nelle dinamiche delle province balcaniche, sia per quanto riguarda la metrologia che i modelli iconografici. Non mancano, tuttavia, tratti specifici, determinati dal locale ambiente culturale e religioso e strettamente
legati a divinità apportatrici di salute e che tendono a riunire, in un contesto di sincretismo religioso, i culti indigeni con quelli prettamente greco-romani: dal Cavaliere Trace a Iside e Apollo, da Asclepio a Telesforo.
ACQUE CURATIVE Tali culti danno anche conto del contesto sanitario regionale della provincia, con focolai di malaria endemica testimoniati a partire dal V secolo a.C., insieme ad altre epidemie, che si ripetono nel I e nel III secolo d.C. Inoltre, merita di essere sottolineato come il territorio sia ricco di sorgenti e acque termali e curative, che da sempre costituiscono un efficace e risolutivo rimedio naturale per la cura e la salute generale della popolazione. Su tali luoghi, ieri come oggi, sorsero templi e santuari, la cui continuità storica in alcuni casi non si è mai interrotta. Nella monetazione in bronzo le divinità salutifere diventano un tema ricorrente a partire dal II secolo d.C., in significativa concomitanza con le pesti di età antonina, che causarono milioni di morti in tutto l’impero. A queste epidemie, piú o meno virulente, si cercava di porre rimedio come si poteva, il piú delle volte affidandosi alla medicina e alle cure termali, ma fondamentalmente alla clemenza divina. Particolarmente interessanti sono i tipi iconografici adottati dalla zecca di Serdica (l’odierna Sofia), entrata nell’orbita romana già attorno al 29 a.C., quando venne occupata dalle truppe del governatore di Macedonia, Marco Licinio Crasso. Nel 46 d.C. Claudio istituí la Provincia Thracia, stabilendo la capitale a Edirne – la futura Adrianopoli – e ponendo la nuova provincia sotto il comando di un procuratore imperiale di rango ducenario. Verso il 112 d.C., Traiano
A destra: rilievo con la raffigurazione del Cavaliere Trace. Sofia, Museo Nazionale di Storia. Nella pagina accanto, in alto: l’équipe di archeologi a cui si deve il ritrovamento di un tesoretto monetale composto da 3000 denari del I-II sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: Sofia. Lo scavo dei resti dell’antica città di Serdica.
ne modificò lo statuto e sostituí il procuratore con un legato di rango pretorio: contestualmente a tale riordino, Serdica divenne un municipium amministrativo della regione e acquisí la denominazione di Ulpia Serdica.
I DENARI DI SELVIUS Scavi effettuati negli ultimi anni nel centro di Sofia hanno restituito tracce di vari edifici pubblici, tra i quali quelli che sembrerebbero potersi identificare con una zecca urbana databile tra il III-IV secolo d.C., ipotesi ancora al vaglio degli studiosi; nel corso di precedenti indagini nello stesso sito, era stato già rinvenuto un importante tesoretto, contenente quasi tremila denari del I-II secolo d.C., racchiusi in un contenitore ceramico sul quale era stato inciso un nome: Selvius Calistus. Lo studio iconografico delle monete provinciali battute nella zecca di Serdica permette di evidenziare la corrispondenza
tra la scelta del tipo monetale con la raffigurazione di una divinità salutifera e l’attestazione, su base archeologica, del relativo culto, spesso connesso alla presenza di acque benefiche; d’altra parte, come accennato, ancora oggi a Sofia vi sono fonti minerali largamente utilizzate dalla popolazione. Tra le divinità eroiche propriamente locali si distingue il Cavaliere Trace, un guerriero a cavallo con manto e a volte con lancia, raffigurato nell’atto di colpire una fiera (e che ricorda l’iconografia di san Giorgio e il drago…). In epoca romana su questa figura vanno a innestarsi, dando luogo a sincretismi figurativi e cultuali, le divinità salutifere per eccellenza quali Apollo, ma ancor piú specificatamente Asclepio, che diviene infatti, in questo periodo, il dio piú popolare della Tracia, insieme con la figlia Hygeia e il suo seguito apportatore di benefici. (ha collaborato Gianluca Mandatori)
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA GIOVANNI BRIZZI
ANDARE PER LE VIE MILITARI ROMANE Roma è le sue strade il Mulino, Bologna, 144 pp. 12,00 euro ISBN 978-88-15-28084-8 www.mulino.it
Appia, Flaminia, Emilia: sono i nomi delle tre strade che, come lunghe «cuciture», difendono quello che l’autore (professore emerito di storia romana all’Università di Bologna, esperto di storia militare romana e, last but not least, collaboratore di «Archeo») si ostina, per sua stessa ammissione, a definire la «prima Italia». Le tre strade consolari, sorte nell’arco di 125 anni, nascono, infatti, come strade militari: con la via Appia, Roma intendeva «mettere in sicurezza» il versante tirreno a sud di Roma; la via Flaminia – che dall’Urbe giungeva fino alla costa adriatica – era finalizzata al controllo
(e alla separazione) di due dei principali nemici di Roma, i Galli a nord e i Sanniti a sud. L’Emilia, infine, segnava – come un limes prima del limes e tutto italico – la frontiera settentrionale dell’Italia politica legata a Roma. Ma lo stimolante volumetto – pubblicato nella collana che l’editore bolognese ha intitolato Ritrovare l’Italia – non è solo un utile quanto necessario riepilogo di uno degli aspetti piú innovativi e decisivi dell’ingegno politico e militare di Roma. È, soprattutto, un invito a ripercorrere (nel senso letterale del termine) la vita di queste strade, a «riscoprirne il cuore». E il racconto di Giovanni Brizzi, scandito da luoghi, personaggi, episodi e curiosità, ne rappresenta una guida ideale. A. M. S. Alessandra La Fragola, Giuseppe Carzedda
IL RIPOSTIGLIO DI STINTINO Indagine aperta su un ritrovamento monetale di età romano-repubblicana in Sardegna a cura di Esmeralda Ughi, Salvatore Rubino, Quaderni Stintinesi 10, Sassari, 164 pp., 12 tavv. col. e b/n 15,00 euro (per informazioni sull’acquisto del volume, rivolgersi al Museo Della Tonnara di Stintino: e-mail: mut.stintino@gmail.com)
Il mare spesso restituisce ciò che si è preso dai naufragi di navi, tra cui 114 a r c h e o
interi gruzzoli di monete con i loro contenitori originari, che viaggiavano con i proprietari e infine approdati sulle spiagge moderne. Questo accadde anche al ritrovamento protagonista di questo volume, rinvenuto in modo fortuito presso la spiaggia de «La Pelosa» di Stintino in Sardegna nei primi anni Settanta del secolo scorso. I particolari esatti del recupero e dell’originaria composizione hanno contorni purtroppo parzialmente sfumati, e tutto il materiale è rimasto sino a oggi inedito. Lo studio di questo contesto, conservato oggi al Museo Archeologico Nazionale «Antiquarium Turritano» a Porto Torres (Sassari), l’antica Turris Libisonis, viene ora presentato per la prima volta. Il gruzzolo da Stintino è composto da 186 denari quasi tutti di età repubblicana, databili tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. Tra questi nominali spicca un nucleo di monete «legionarie», destinate al pagamento delle truppe. L’insieme risulta di grande interesse per le informazioni che offre relativamente alla circolazione monetale locale, riconducibile a una probabile presenza militare nel territorio della Sardegna settentrionale conseguente a un piú ampio movimento di militari tra l’isola e altre zone del Mediterraneo soggette a Roma. Il volume riunisce, come
dovrebbe sempre essere, i dati archeologici, sociali e monetali e li analizza inserendoli nel contesto storico-politico dell’isola. L’abbondanza di monete legionarie, di nominali frazionati, la presenza di una rara contromarca fortemente storicizzante, la storia del territorio, i relitti costieri, i vari ripostigli monetali ritrovati tutti nel Centro-Nord dell’isola, sono gli elementi che rimandano a un accumulo avvenuto in ambito militare e finito in mare, probabilmente spazzato via da un naufragio. Il lavoro si presenta come uno stimolo all’approfondimento di molti temi, compreso quello del profondo legame tra mito e propaganda politicosociale; un gruzzolo che è un magnifico ed esaustivo spaccato ove il potere delle immagini, veicolo d’eccellenza per dichiarare alleanze e affiliazioni politiche, vincola ancora una volta la numismatica all’archeologia. Francesca Ceci