ARCHEO n. 431, Gennaio 2021

Page 1

GIOVE DI VALENTANO

ROMA E POMPEI

UNA GRANDE ANTEPRIMA

ROMULUS

RICOSTRUIRE L’ANTICO

ROMULUS EROE FANTASY?

LA DIMORA DEGLI DÈI

L’AQUILA

ANTICHISSIME MADRI D’ABRUZZO

ESCLUSIVA

ANTICHE MADRI

LA VERA STORIA DEL GIOVE DI VALENTANO

SPECIALE ROMA E POMPEI

I LUOGHI DEL SACRO UNA NUOVA SERIE

o. i t

CA IL P NE IÚ A D’ NTIC ITA O ww w. LIA a rc he

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 GENNAIO 2021

2021

Mens. Anno XXXV n. 431 gennaio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 431 GENNAIO

SPECIALE

€ 5,90



EDITORIALE

TREMENDUM ET FASCINANS Quante volte, nel nostro linguaggio pubblico e privato, ci è capitato di ricorrere alla distinzione tra «sacro e profano», quante volte bolliamo con il marchio della «profanazione» le malefatte dei nostri avversari? «Sacro e/o profano» è l’amore nell’arte, «da profani» è invece il discorso dell’incompetente di turno che s’immischia in discorsi di cui – spesso ostentando il contrario – non capisce granché; sicuramente è buona regola non combinare quei due ingredienti esistenziali che, similmente al sale e al pepe (di cui condividono, per puro caso, le iniziali), conviene tenere separati. Eppure, con ogni probabilità, anche chi possiede una sufficiente dimestichezza linguistica, ignora come al sacro il profano sia indissolubilmente legato. Gli sta, infatti, letteralmente davanti: la parola latina profanus si compone di pro- «davanti» e fanum, uno dei tanti nomi con i quali, in antico, veniva designato uno spazio particolare, diverso da ogni altro, «sacro» appunto. I luoghi del sacro sono terreno privilegiato della ricerca archeologica, perché «gli ambienti di questo tipo sono tra le memorie del passato meglio conservate», spiega Sergio Ribichini nell’introduzione alla nuova serie con cui inauguriamo il nuovo anno. Con essa compiremo un viaggio, lungo e denso di rivelazioni, alla ricerca del significato, del senso vero, che i grandi santuari del mondo antico, cosí miracolosamente sopravvissuti fino a oggi, racchiudevano per chi li aveva eretti. E, forse, seguendo un percorso che dalla Torre di Babele ci condurrà – passando per i templi faraonici, gli spazi religiosi dell’antico Iran, gli oracoli della Grecia, i luoghi sacri della fondazione di Roma e decine di altri ancora – fino alle porte del leggendario Tempio di Salomone, potremo avvicinarci a quell’ineffabile sensazione evocata dallo storico delle religioni Rudolf Otto in una sua celebre opera, Il sacro, pubblicata nel 1917. In essa lo studioso aveva proposto di definire il numinoso (cosí Otto chiama il fondamento ultimo della religione) come esperienza del «totalmente altro», percepito attraverso il suo duplice e complementare carattere di realtà terrificante (tremendum) e, al contempo, ammaliante, meravigliosamente splendida (fascinans). Un’esperienza che, soggiornando con «Archeo» nei luoghi del sacro, vi coinvolgerà. Perfino nella veste di semplici… profani. Andreas M. Steiner Amor sacro e amor profano, olio su tela di Tiziano Vecellio. 1515 circa. Roma, Galleria Borghese.


SOMMARIO EDITORIALE

Tremendum et fascinans 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE Due importanti giacimenti preistorici pugliesi, Grotta Paglicci e Grotta Romanelli, si candidano a essere i siti nei quali per la prima volta il cane fu addomesticato 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Il grandioso tempio di Venere e Roma è in corso di restauro: un intervento destinato a ripristinare l’unitarietà del complesso 10 FRONTE DEL PORTO Nella sua veste di porto di Roma, Ostia fu un centro nevralgico dell’impero, costituendo uno dei pilastri del suo sistema economico e commerciale 18

IN DIRETTA DA VULCI Si è concluso il restauro del Ponte della Badia, risanato dopo i gravi danni causati dall’alluvione del fiume Fiora 20 MUSEI La Campania saluta l’apertura del Museo Archeologico di Stabia «Libero D’Orsi», che documenta il lusso delle magnifiche ville dell’antica Stabiae 22

ESCLUSIVA

Quel divino emigrato 32 di Romualdo Luzi

L’ANTICO SULLO SCHERMO

«Lukwerkoloi somos, Ueliad gwenimos...» 46 di Umberto Livadiotti

46 I LUOGHI DEL SACRO/1

La dimora degli dèi

60

di Sergio Ribichini

60

32

In copertina ritratto in bronzo di Lucius Caecilius Iucundus, dal tablino della Casa di Lucio Cecilio Giocondo. Prima metà del I sec. d.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVII, n. 431 - gennaio 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Italiano

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Martina Almonte è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Stefano Camporeale è professore associato di archeologia classica all’Università di Siena. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco archeologico di Ostia antica. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Cristina Genovese è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Agata Grasso è archeologa. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Romualdo Luzi è storico e scrittore. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Cynthia Mascione è responsabile del Laboratorio di disegno e documentazione archeologica del Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Sergio Ribichini è studioso di storia delle religioni e delle civiltà del Mediterraneo antico. Claudia Tempesta è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica.


ICONOGRAFIA

Antichissime madri e amorevoli...

78

di Agata Grasso

78 Rubriche

88

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Un serpente per emblema

110

di Francesca Ceci

LIBRI

112

SPECIALE

Roma e Pompei Anteprima dal Colosseo

88

incontro con Alfonsina Russo, a cura di Flavia Marimpietri

Illustrazioni e immagini: Andreas M. Steiner: copertina (e p. 101) e pp. 88-94, 95 (basso), 98 (alto), 99, 100, 102, 104, 105 (basso), 106, 108-109 – Doc. red: pp. 3, 35 (basso), 41, 42, 43 (basso), 52/53, 53, 54-55, 64, 66, 70, 76-77, 111 – Cortesia Ufficio Stampa dell’Università di Siena: pp. 6-7 – Cortesia Soprintendenza ABAP Friuli-Venezia Giulia: p. 8 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 10, 11 (basso); A. Gratteri: p. 11 (alto) – Cortesia Parco archeologico di Segesta: pp. 14-15 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: p. 17 (alto); Luigi Spina: pp. 16, 17 (basso) – Cortesia Parco archeologico di Ostia antica: pp. 18-19 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 20-21 – Cortesia Museo Archeologico di Stabia «Libero D’Orsi»: pp. 22-23 – Archivio UniSiena: pp. 24-25 – Cortesia Ny Carlsberg Glyptotek: p. 35 (destra); Kim Nilsson: pp. 32/33 – Cortesia degli autori: pp. 34 (basso), 36-40, 78-79, 80, 81 (basso), 82, 83 (alto), 84 – Shutterstock: pp. 43 (alto), 60/61, 62, 68-69, 71 (sinistra) – Cortesia Sky TV: Francesca Fago: pp. 46/47, 49, 50/51, 56/57, 58/59 – Mondadori Portfolio: Electa/Massimo Teti: p. 48; Werner Forman Archive/Musei Capitolini, Roma/Heritage Images: p. 52; Paramount/Cortesia Everett Collection: p. 56; Mary Evans/AF Archive/Cinetext B: p. 57; Erich Lessing/Album: pp. 65, 67; AKG Images: pp. 71 (destra), 72-73, 110; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 81 (destra) – Studio Inklink: p. 75 – MuNDA, Museo Nazionale d’Abruzzo, L’Aquila: pp. 83 (basso), 85, 86 – Ufficio Stampa Electa: pp. 95 (sinistra), 96-97, 98 (destra), 102/103, 105 (destra), 107 – Cippigraphix: cartine alle pp. 34. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Italia

IN GROTTA CON FIDO

A

rcheologi e archeozoologi dibattono da tempo sulla domesticazione del cane. A oggi, infatti, non si hanno prove certe e definitive su dove e quando esso sia divenuto l’«amico

6 archeo

dell’uomo» per antonomasia, poiché non è stato ancora possibile individuare gli aspetti morfologici che indichino questa svolta. Una novità importante è però stata annunciata alcune settimane fa e

vede protagonisti due importanti giacimenti preistorici italiani, situati entrambi in Puglia: Grotta Paglicci (Rignano Garganico, Foggia) e Grotta Romanelli (Castro, Lecce). Grazie alle analisi eseguite su resti fossili di canidi, è stato infatti accertato che la loro presenza nei siti risale a un momento compreso fra i 20 000 e i 14 000 anni fa. «Questa scoperta – spiega Francesco Boschin, archeozoologo dell’Università di Siena, nonché coordinatore dello studio – è di particolare interesse, in quanto i cani piú antichi, riconosciuti con certezza dagli studiosi di preistoria, provenivano finora da contesti dell’Europa centrale e occidentale datati a circa 16 000 anni fa. I resti pugliesi rappresentano quindi, a oggi, gli individui piú antichi scoperti nell’area mediterranea, ma potrebbero rappresentare anche le prime testimonianze in assoluto del processo che ha portato alla comparsa del cane, il primo animale domestico». La domesticazione del cane si fa risalire all’ultimo massimo glaciale, un periodo di forte crisi ambientale, nel corso del quale molte popolazioni animali europee, compreso l’uomo, hanno cercato rifugio in alcune regioni, quali, per esempio, le penisole dell’Europa meridionale (Italia peninsulare, Iberia, Balcani), l’area franco-cantabrica e il bacino dei Carpazi. «In questo periodo di forte crisi – prosegue Boschin – il lupo, un predatore sociale per certi versi


A sinistra: i 15 frammenti fossili di ossa canine provenienti da Grotta Paglicci e Grotta Romanelli, la cui analisi ha fornito una datazione compresa fra i 20 000 e i 14 000 anni fa. Nella pagina accanto: l’esterno e un particolare dell’interno di Grotta Paglicci (Rignano Garganico, Foggia).

affine all’uomo, potrebbe aver individuato un nuovo modo per garantirsi la sopravvivenza: adattarsi a sfruttare gli avanzi delle prede dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, frequentandone le periferie degli accampamenti. Ciò avrebbe favorito il contatto sempre piú stretto tra uomini e lupi e, tra questi ultimi, la sopravvivenza degli individui meno aggressivi. La selezione di animali sempre piú docili avrebbe poi innescato il

processo di domesticazione e la comparsa dei primi cani». «È ancora difficile capire se la Puglia – precisano i ricercatori – possa essere stata un centro di domesticazione. I dati genetici di uno dei cani provenienti da Grotta Paglicci, datato a 14 000 fa, ne mettono in risalto la somiglianza con un individuo di epoca comparabile proveniente dal sito di Bonn-Oberkassel in Germania. I due cani potrebbero quindi essersi

originati da una popolazione comune, piú antica, poi diffusasi in varie parti d’Europa. All’epoca il nostro continente era caratterizzato da una forte frammentazione culturale, ma il rinvenimento di due cani geneticamente affini, uno in Italia meridionale e l’altro in Germania, significa che nonostante le differenze culturali il cane può aver rappresentato un importante elemento di contatto tra le comunità di cacciatoriraccoglitori dell’epoca». Ulteriori ricerche potrebbero ora far comprendere il ruolo del cane nelle comunità paleolitiche, se possa quindi avere avuto una funzione nelle battute di caccia o di difesa degli accampamenti oppure un importante ruolo simbolico, che ha ancora oggi presso alcune popolazioni dove è considerato manifestazione terrena di spiriti o reincarnazione di defunti. Lo studio è stato svolto dall’Università di Siena in collaborazione con l’Università di Firenze, il Centro Fermi di Roma, l’International Centre for Theoretical Physics di Trieste, l’Università di Bordeaux, il Museo nazionale preistorico etnografico «Luigi Pigorini» di Roma, l’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana «Aleandri», l’Istituto nazionale di Fisica nucleare-sezione di Firenze, il Musée de l’Homme di Parigi, Elettra Sincrotrone di Trieste e la Soprintendenza archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Barletta-Andria-Trani e Foggia. (red.)

archeo 7


n otiz iario

SCAVI Friuli-Venezia Giulia

STORIE DI PALAFITTE

R

ecenti indagini sistematiche condotte a Palú di Livenza, sito UNESCO dal 2011, posto tra i Comuni di Caneva e Polcenigo (Pordenone) a valle del fiume Livenza, hanno confermato l’esistenza di tre insediamenti abitativi preistorici sovrapposti che hanno restituito importanti resti faunistici, ceramici e litici. «Le ricerche – spiega Roberto Micheli, funzionario archeologo SABAP FVG – sono state realizzate con l’obiettivo di mettere in luce livelli piú antichi della stratigrafia del Settore 3 , continuando le indagini sul villaggio palafitticolo piú antico già individuato nel 2018. Gli scavi del 2020 hanno rilevato l’esistenza di tre villaggi palafitticoli, sovrapposti tra loro e separati da brevi episodi di abbandono. L’ultimo abitato si può attribuire a una fase tardo-neolitica tra il 3900 e il 3600 a.C., mentre quello della seconda fase è riferibile alla cultura dei Vasi a Bocca Quadrata, databile nei secoli immediatamente precedenti. Le indagini hanno messo in luce tre sistemi di fondazione delle palafitte neolitiche, che si estendono in un’area circoscritta di appena 48 mq. Non si conoscono le caratteristiche delle capanne sopraelevate, ma si è potuto accertare che le palafitte erano edificate su spesse travi di quercia, che servivano da sostegno degli alzati ed erano disposte sia parallelamente tra loro, sia a formare un reticolo regolare: questo sistema, comune alle tre fasi individuate, serviva a sostenere le capanne sopraelevate, limitando lo sprofondamento delle abitazioni nei limi naturali del bacino. Come in altri siti neolitici, sono numerosi i resti ossei di animali, i frammenti ceramici dei vasi e gli

8 archeo

Palú di Livenza (Pordenone). Un settore dello scavo che ha interessato i resti dei tre villaggi palafitticoli sovrapposti l’uno all’altro.

strumenti di selce, ma quest’anno, per la prima volta dall’inizio degli scavi, sono stati raccolti due frammenti di asce in pietra levigata dai livelli piú tardi di occupazione del sito. Questi strumenti di pietra erano fondamentali per la trasformazione del legno e la produzione degli oggetti della cultura materiale in un periodo in cui non vi sono prove della lavorazione del metallo. Gli strati piú recenti della fase tardo-neolitica hanno restituito anche in questa campagna di scavo numerose pintadere. Si tratta di stampi di terracotta che recano su una faccia una superficie decorata da linee incise o in rilievo con motivi curvilinei o lineari, a zig zag e a reticolo. Di grande importanza sono inoltre i resti organici che si conservano perfettamente sia allo stato naturale originale che carbonizzati. Le ricerche hanno consentito di raccogliere dagli strati piú profondi numerose mele selvatiche carbonizzate, oltre che abbondanti resti combusti di corniolo, ghiande di quercia e di semi di farro, che suggeriscono la

presenza di scorte alimentari bruciate, forse da un incendio. Inoltre, sono ben attestati i funghi del legno raccolti e utilizzati come esca da fuoco. L’uso di masticare la pece di betulla o altre sostanze resinose è confermato anche dalle ultime indagini. Un ritrovamento eccezionale effettuato negli ultimi giorni dello scavo proviene ancora dai livelli piú antichi: è un piccolo cucchiaio di legno perfettamente conservato che prova le eccezionali capacità degli artigiani neolitici e un gusto estetico nella lavorazione del legno che esula dalla semplice funzionalità dell’oggetto». Le indagini archeologiche, eseguite grazie a finanziamenti del MiBACT, sono state dirette della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia e, condotte sul campo dalla CORA Società Archeologica di Trento, sono state rese possibili grazie alla fattiva collaborazione dei Comuni di Caneva, Polcenigo e Aviano e il supporto del Gruppo Archeologico di Polcenigo. Giampiero Galasso



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

DI NUOVO INSIEME IL TEMPIO DI VENERE E ROMA È OGGETTO DI UN IMPORTANTE INTERVENTO DI RESTAURO, MIRATO AL RIPRISTINO DELL’ORIGINARIA UNITARIETÀ DEL GRANDIOSO COMPLESSO

Q

uando si accede alla piazza del Colosseo, lo sguardo – e non potrebbe essere altrimenti – viene calamitato dalla mole maestosa dell’Anfiteatro Flavio, quasi sempre ignorando i grottoni della grandiosa platea che limita la piazza sul lato occidentale. Del resto, l’attuale dislivello e l’assenza, su questo fronte, dell’alzato delle colonne rendono difficilmente percepibile la presenza di quello che era il piú grande edificio sacro di Roma, nonché uno dei piú notevoli dell’impero. E, per cogliere lo splendore dei resti magnifici del tempio di Venere e Roma, si deve quindi entrare nel Colosseo, salire al primo livello e affacciarsi dalla

terrazza Valadier. Oggi, in realtà, piú dei resti stessi, si può vedere un enorme cantiere: dallo scorso settembre sono stati infatti avviati estesi lavori di restauro del tempio, a vent’anni di distanza dagli ultimi interventi, realizzati in occasione del Giubileo del 2000.

UN’INTESA PROFICUA I lavori sono finanziati da FENDI, grazie a una sponsorizzazione tecnica di 2,5 milioni di euro, e si svolgono sotto l’alta sorveglianza del Parco archeologico del Colosseo, con un gruppo di lavoro guidato dai responsabili del Monumento, chi scrive e l’architetto Cristina Collettini. Si tratta di un modello di collaborazione tra

pubblico e privato in una logica di partenariato virtuoso ed estremamente proficuo. L’intervento ha preso le mosse dal rilievo di dettaglio dell’intero monumento, nonché dalla verifica delle condizioni statiche delle strutture murarie e dello stato conservativo degli apparati decorativi, nonché dei rivestimenti pavimentali marmorei, ed è stato intrapreso allo scopo di consolidare le murature e arrestare il degrado delle superfici, anche attraverso la revisione del sistema di deflusso delle acque. A conclusione degli interventi strutturali e di restauro, verrà sviluppato anche un progetto di valorizzazione che racconterà, con il concorso di supporti

A sinistra: il tempio di Venere e Roma visto dal Palatino-vigna Barberini; sulla destra, l’ombra del Colosseo. A destra: la cella della dea Roma in una stampa realizzata quando la struttura era in uso al convento di S. Maria Nova.

10 a r c h e o


multimediali, le principali fasi di vita del monumento, dall’impianto adrianeo a oggi. L’imperatore Adriano avviò nel 121 d.C. la costruzione del tempio, che fu completata da Antonino Pio nel 141. La caratteristica principale dell’edificio di culto è di avere due celle tangenti e contrapposte: una che si affaccia sul Colosseo, dedicata alla dea Venere, e l’altra verso il Foro Romano, consacrata alla dea Roma. Tutto intorno si innalzava una doppia peristasi di colonne in marmo proconnesio e, sui lati della platea, due portici con

avvistamento. Nel Rinascimento, persa la funzione difensiva, l’area divenne una vera e propria cava di materiali pregiati, ma le imponenti vestigia continuarono ad attrarre i visitatori del Grand Tour. Il primo atto volto a ripristinare l’aspetto originario dell’area fu l’abbattimento dell’edificio adibito a magazzino del convento tra la facciata della chiesa e l’Arco di Tito, ordinato nel 1815 dalla Commissione Napoleonica per gli Abbellimenti di Roma. L’architetto incaricato dei successivi restauri, da cui deriva l’aspetto odierno dei

Piazza di Santa Francesca Romana

Tempio di Venere e Roma

Piazza di Santa Maria Nova

colonne lisce di granito e capitelli di ordine corinzio, al centro dei quali si aprivano due ingressi segnati da propilei. Il tempio che oggi possiamo ammirare è però quello ricostruito da Massenzio a seguito dell’incendio del 307. La rovina dell’edificio iniziò nel 625, quando papa Onorio I rimosse le tegole di bronzo del tetto per utilizzarle nella copertura della basilica di S. Pietro. Nell’847, quando papa Leone IV fondò la chiesa di S. Maria Nova, sul lato ovest del tempio, la cella della dea Roma venne inglobata nell’annesso convento, mentre sulla platea verso il Colosseo si svilupparono orti e giardini. Nell’XI-XII secolo intorno alla chiesa sorse un borgo fortificato, con mura di cinta e torri di

Via dei Verbiti

Piazza del Colosseo Chiostro di Santa Maria Nova

luoghi, fu Giuseppe Valadier. Durante l’amministrazione francese di Roma, tra il 1810 e il 1817, furono condotti anche i primi scavi sistematici, che proseguirono nel decennio successivo sotto la direzione di Antonio Nibby, il primo a riconoscere le due principali fasi costruttive del tempio.

LE VICENDE MODERNE Dopo l’Unità d’Italia e il trasferimento della capitale a Roma, il monumento passò sotto il controllo statale: nel 1894 Rodolfo Lanciani eliminò definitivamente il giardino del convento, mettendo in luce il pavimento marmoreo della cella di Roma; tra il 1901 e il 1907 i lavori di Giacomo Boni portarono al rinvenimento dei blocchi di fondazione della cella adrianea.

In alto: il cantiere del tempio di Venere e Roma visto dal Colosseo. A sinistra: veduta planimetrica del tempio di Venere e Roma. Agli inizi del XX secolo, una parte del convento di S. Maria Nova venne trasformata negli uffici della Direzione dei Monumenti del Foro Romano-Palatino, con annesso Museo, gli stessi spazi che oggi ospitano gli uffici della Direzione del Parco archeologico del Colosseo. Dopo il 1930, a seguito della divisione della proprietà del tempio tra lo Stato italiano (cella di Roma) e il Governatorato di Roma (cella di Venere), l’unitarietà del monumento è stata ulteriormente compromessa dal diverso utilizzo degli spazi e dalle diverse metodologie di restauro adottate. Al fine di creare una monumentale quinta architettonica alla nuova arteria di via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali, Antonio Muñoz procedette allo sterro di tutto il podio e alla sistemazione della cella di Venere e del porticato esterno. Nello stesso periodo, Alfonso Bartoli curò il restauro della cella di Roma per il Ministero della Pubblica Istruzione. I lavori di restauro in corso, la cui conclusione è prevista alla metà del 2021, permetteranno di ripristinare l’unitarietà del tempio di Venere e Roma, restituendolo integralmente alla fruizione, e la storia millenaria del monumento sarà di nuovo sotto gli occhi di tutti. Martina Almonte

a r c h e o 11


i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

ASPETTANDO LA BORSA...

A

ll’insegna di «Aspettando la XXIII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico», posticipata ai giorni 8-11 aprile 2021, il Vice Direttore per la Cultura UNESCO Ernesto Ottone Ramírez, il 19 novembre scorso, nel suo intervento da Parigi, ha voluto ricordare l’evento, che da molti anni gode del supporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per la lunga durata e per essere unico tra le fiere dedicate al turismo di tutto il mondo, oltre a complimentarsi con la Fondazione Paestum per aver confermato i «Dialoghi sull’Archeologia della Magna Grecia e del Mediterraneo» in modalità telematica, al fine di preparare il palcoscenico per l’evento del prossimo anno. Riportiamo dunque le parole del Vice Direttore: «Alcuni dei piú iconici siti patrimonio mondiale UNESCO sono siti archeologici e la loro salvaguardia va al cuore della missione dell’UNESCO. A causa della pandemia da Covid-19 questo evento, come molti altri compreso il World Heritage Committee (Comitato per il Patrimonio Mondiale), è stato posticipato. La crisi ha visto il turismo diminuire rapidamente nella maggior parte dei Paesi, influenzando molti siti patrimonio mondiale UNESCO per un funzionamento corretto per l’immediato futuro. I nostri siti stanno iniziando a riaprire in alcune aree del mondo, la situazione è cambiata, ma rimane volatile, con paesi e regioni diversi che vivono sfide diverse. Nuove misure e approcci sono messi alla prova per far ripartire il turismo e alcuni trend stanno emergendo. Una tendenza chiave è la crescente importanza della tecnologia digitale. Plasmerà il futuro del patrimonio e del turismo. All’UNESCO riteniamo che avere cura della cultura e del patrimonio ci renda resilienti. Durante la crisi da Covid-19 l’accesso digitale alla cultura ha fornito istruzione, intrattenimento e conforto a milioni di persone confinate nelle proprie case in tutto il mondo. Abbiamo assistito a una richiesta senza precedenti di accesso on line alla cultura, con alcuni siti patrimonio mondiale che hanno riscontrato un incremento del 30% del traffico dei loro siti internet e dell’engagement dei loro account sui social media rispetto all’anno precedente. Per supportare l’urgente necessità di rendere la cultura accessibile a tutti l’UNESCO ha lanciato quest’anno le sue campagne Share Culture e Share Our Heritage e ha messo in campo una serie di iniziative, che puntano alla digitalizzazione del patrimonio. Molti siti archeologici stanno implementando e esplorando l’innovazione digitale ed è incoraggiante vedere cosí

12 a r c h e o

tante risposte creative che promuovono l’accesso alla cultura. La mostra digitale ArcheoVirtual nel programma della BMTA è un esempio eccellente. Anche il numero attuale della World Heritage Review ha come tema l’interpretazione del patrimonio culturale e il Covid-19 e fornisce gli ultimi strumenti digitali a supporto dell’accesso al patrimonio culturale, dalle visite virtuali alle mostre on line, agli inventari di catalogazione di manufatti del patrimonio culturale. Un altro trend emergente è lo spostamento dai mercati internazionali verso la riconnessione con le comunità locali e l’invito al coinvolgimento con e alla riscoperta del loro patrimonio culturale. Tuttavia, le comunità locali avranno bisogno di maggior supporto sia per la ripresa dalla crisi in corso che per fronteggiare e adattarsi alle future sfide regionali e globali, dalle pandemie al cambiamento climatico, ai disastri naturali o ai conflitti. Saranno necessari nuovi modelli economici inclusivi e standard migliorativi di salute, sicurezza e interazione sociale. La relazione tra natura e cultura dovrà sostenere sforzi per rafforzamento e resilienza. La pandemia da Covid-19 ha dato slancio al ripensamento dei modelli esistenti e all’indirizzamento degli sforzi post Covid-19 verso un turismo culturale basato sulla natura in linea con i valori UNESCO, rispettoso del patrimonio e benefico per le comunità. In risposta, l’UNESCO ha istituito una task force sul turismo culturale e resiliente, con autorità consultive della Convenzione UNESCO per affrontare temi chiave legati al turismo e per promuovere nuovi approcci, che sfruttano i valori del patrimonio e contribuiscono allo sviluppo sostenibile durante e oltre la crisi del Covid-19. Guardando avanti, l’aumento del coordinamento, il rafforzamento della formazione nell’innovazione digitale e lo scambio di buone pratiche saranno fattori cruciali. Questo sarà il focus del nostro lavoro andando avanti e la vostra collaborazione è benvenuta».



n otiz iario

SCAVI Sicilia

ULTIMISSIME DA ENTELLA, CITTÀ DEGLI ELIMI

D

i nuove scoperte archeologiche è stata recentemente teatro Entella, antico e strategico insediamento localizzato lungo la vallata del Belice, nell’attuale territorio del Comune di Contessa Entellina, in provincia di Palermo. La città visse una storia lunghissima, segnata da molte fasi, ognuna delle quali ha lasciato le sue tracce: abitata dagli

14 a r c h e o

Elimi – stirpe indigena della Sicilia, a cui la tradizione greca attribuiva origini troiane –, fu poi frequentata dai Greci, conquistata dai Romani, sottomessa e ripopolata dagli Arabi, inclusa nel regno normanno e infine abbandonata in età sveva. «L’attività di scavo – spiegano i responsabili dello scavo Rossella Giglio (direttore archeologo del Parco Archeologico di Segesta),

Anna Magnetto (direttore Laboratorio SAET Scuola Normale Superiore) e Maria Cecilia Parra (docente di archeologia della Magna Grecia e della Sicilia Antica, Università di Pisa) – si è concentrata in due aree: il complesso monumentale del vallone est e il palazzo fortificato medievale. Nel vallone orientale sono state riprese indagini mirate alla conoscenza del grande complesso pubblico, che, tra il VI e il III secolo a.C., si articolò su quattro terrazze digradanti, costituendo il fulcro della città antica. In quest’area era probabilmente ubicata anche la piazza pubblica, l’agorà, sede delle attività istituzionali. Nel corso dell’ultima campagna, le ricerche si sono concentrate sulla terrazza inferiore, dove è stato possibile individuare un’area di culto che fu attiva, in particolare, tra la fine del


IV e la prima metà del III secolo a.C. Intorno a un sacello (o recinto) erano distribuite piccole deposizioni votive di lucerne, coppe di grandi e piccole dimensioni, pissidi e bottigliette, ritualmente adagiate in fossette con resti di combustione di materiale ligneo. Atti di devozione praticati con riti incruenti, che permettono di toccare con mano forme di religiosità coeve ai noti decreti di Entella e che aggiungono dati significativi alla conoscenza dei culti praticati nella città, in cui Kore e Demetra, insieme a Hestia, ebbero un ruolo di rilievo. Nell’area del palazzo fortificato medievale si è invece lavorato per mettere in luce i percorsi di accesso all’imponente complesso normanno-svevo, indagando zone che rivelavano anche strutture preesistenti di epoca ellenistica e romana. Qui è emersa un’ampia

massicciata che conduceva all’ingresso principale del palazzo e, nelle adiacenze, il ritrovamento di bacini policromi e monocromi (fine XI e XII secolo) ha confermato l’intenso utilizzo dell’area in età medievale. All’età tardo-repubblicana e protoimperiale (tra il II secolo a.C. e gli inizi del II secolo d.C.) rimanda un’altra massicciata, fiancheggiata

Nella pagina accanto, in alto: Entella. Veduta panoramica dei resti del palazzo fortificato di età medievale. Nella pagina accanto, in basso: il muro di terrazzamento in blocchi di pietra locale (gesso) messo in luce nell’area

del palazzo fortificato di età medievale, pertinente alla fase romana. In alto: l’area dell’agorà, con resti di edifici tardo-arcaici ed ellenistici. In basso: vasellame e lucerne restituiti dall’ultima campagna di scavo.

da una banchina, la cui superficie ha restituito un complesso di ceramiche da mensa e da cucina di età romana. Vetri colorati, ceramiche sigillate di varie produzioni, stucchi e intonaci colorati hanno gettato luce su un

stessa fase di vita della città che vide attivi un tempio a oikos (senza peristasi) e un edificio monumentale sui due versanti del vallone orientale. Ceramiche a figure rosse, vasellame da cucina e da mensa rinvenute nello strato di crollo rimandano alla prima età ellenistica. La monumentalità della struttura e la posizione nell’area urbana suggeriscono che il complesso avesse una funzione pubblica nell’ambito dell’antica Entella». Le indagini sistematiche sono state condotte dal Laboratorio di Storia, Archeologia, Epigrafia e Tradizione dell’Antico (SAET) della Scuola Normale Superiore di Pisa in convenzione con il Parco Archeologico di Segesta, con la partecipazione di studenti e dottorandi della Scuola Normale e delle Università di Pisa e di Firenze. Gli scavi, diretti da Rossella Giglio, Anna Magnetto e Maria Cecilia Parra, sono stati coordinati sul campo da Alessandro Corretti, Chiara Michelini e Maria Adelaide Vaggioli, affiancati da Cesare Cassanelli per la documentazione grafica e fotografica. Giampiero Galasso

periodo della vita di Entella che appare “compresso” tra la grande fase medievale e gli splendori dell’epoca classica e della prima età ellenistica. I livelli sottostanti la fase romana hanno riportato alla luce un imponente muro di terrazzamento in grandi blocchi di pietra locale (gesso), perfettamente squadrati e accuratamente messi in opera, con ogni probabilità pertinente alla

a r c h e o 15


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

QUELLA GENIALE INVENZIONE... IN UNA VILLA SUBURBANA IN LOCALITÀ CIVITA GIULIANA SI SONO RINNOVATE LE EMOZIONI PROVATE GIÀ DAI PRIMI SCAVATORI DI POMPEI: L’ULTIMO SOFFIO DI VITA DI DUE VITTIME DELL’ERUZIONE È STATO INFATTI «FOTOGRAFATO» GRAZIE AL METODO MESSO A PUNTO OLTRE UN SECOLO FA DA GIUSEPPE FIORELLI

D

a sempre, Pompei si distingue per lo stato di conservazione delle testimonianze architettoniche e artistiche, ma, ancor piú unico, appare l’aspetto umano e tragico che trasuda dalle coltri vulcaniche che l’hanno sommersa. Le indagini in località Civita Giuliana, subito a nord-ovest delle mura della città, hanno messo in evidenza, in seguito a scavi clandestini bloccati dai Carabinieri, una grande villa suburbana della quale, nel 2017, si era messo in luce un tratto del settore servile, con la stalla occupata dai resti di tre cavalli bardati di cui furono realizzati i calchi in gesso. Gli interventi piú recenti si sono invece concentrati

16 a r c h e o

Il criptoportico della villa in località Civita Giuliana nel quale giacevano i due uomini che tentarono, inutilmente, di mettersi in salvo dall’eruzione. nel settore residenziale, disposto in posizione panoramica con vista sul golfo di Napoli e articolato attorno a un peristilio delimitato su due lati da un portico, su un altro da un criptoportico coperto da terrazza. Sul peristilio si affacciano alcuni ambienti di soggiorno, due cubicula diurna (stanze da letto) dagli eleganti pavimenti in cocciopesto, e un oecus (grande

sala da banchetto) con decorazioni in III Stile e un pavimento a inserti marmorei (opus sectile). Sotto la terrazza correva invece il criptoportico, frequente nelle ville suburbane vesuviane, lungo almeno 56 m e già in parte esplorato agli inizi del Novecento. E proprio nel criptoportico, in uno stretto vano di collegamento al piano superiore, sono affiorate


A sinistra: Civita Giuliana. Una speciale miscela di gesso viene colata attraverso uno dei fori che hanno rivelato la presenza degli scheletri, cosí da ottenere il calco dell’individuo defunto, secondo il metodo messo a punto nel 1867 da Giuseppe Fiorelli. Qui accanto: particolare delle pieghe della tunica di uno degli individui uccisi dall’eruzione.

due nuove testimonianze del dolore pompeiano. L’ambiente di passaggio è risultato sigillato dai crolli delle parti alte delle murature, sotto i quali è affiorato uno spesso strato di cenere grigia riferibile alle correnti piroclastiche che hanno distrutto Pompei. Durante la sua rimozione, gli archeologi e i restauratori hanno percepito la presenza di vuoti che si aprivano nello strato di cenere indurita, all’interno dei quali si scorgevano resti scheletrici umani. E cosí, seguendo l’intuizione ottocentesca dell’allora direttore degli scavi di Pompei, Giuseppe Fiorelli, i tecnici del Parco archeologico, una volta rimosse parte delle ossa, hanno proceduto con la colatura di gesso all’interno delle cavità, proprio secondo la tecnica sperimentata per la prima volta nel 1867 da Fiorelli. In merito a questa ideazione, all’epoca il suo allievo e collaboratore Giulio De Petra si espresse cosí: «La piú fortunata delle sue invenzioni fu la immagine autentica che diede della

catastrofe vesuviana (…) per cui questi rivivono nelle forme e nelle contrazioni della loro agonia». La tecnica di base del colaggio è rimasta quella di Fiorelli, ma diverso è stato l’approccio metodologico supportato da analisi preventive: per esempio, con l’endoscopio sono stati esplorati i fori dei vuoti affioranti nella cenere ed è stata effettuata una scansione laser-scanner che ha permesso di ottenere in anteprima un modello 3D dell’interno.

FUGA SENZA SCAMPO I due Pompeiani sono stati sorpresi dalla morte durante la cosiddetta seconda corrente piroclastica, che nelle prime ore del mattino del 25 ottobre investí Pompei, soffocando i superstiti ancora presenti in città e nelle campagne circostanti. Questa seconda corrente è stata preceduta da una breve pausa, forse di una mezz’ora, durante la quale i sopravvissuti di Civita Giuliana cercarono di salvarsi. La nuova corrente investí però la villa

velocemente e con particolare violenza, invadendo ogni angolo dell’edificio, fino a seppellire nella cenere i due poveri fuggitivi. Il calco della prima vittima mostra la testa reclinata, con denti e ossa del cranio ben visibili: dalle prime analisi, sembra trattarsi di un giovane fra i 18 e i 25 anni di età, alto 156 cm circa. Gli schiacciamenti vertebrali riscontrati, inusuali per l’età, hanno fatto pensare a una forte sollecitazione delle spalle, dovuta allo svolgimento di lavori pesanti. Indossava una tunica corta, riconoscibile dall’impronta del panneggio, con ricche e spesse pieghe, la cui consistenza, assieme alle tracce di tessuto pesante, suggeriscono che fosse di lana. La seconda vittima ha invece una posizione diversa, già documentata in altri calchi pompeiani: il volto è rovesciato nella cenere, e il gesso ha delineato con precisione il mento, le labbra e il naso, mentre si conservano ancora le ossa del cranio. Le braccia sono ripiegate con le mani sul petto, mentre le gambe sono divaricate e piegate. La robustezza della vittima, soprattutto a livello del torace, suggerisce anche in questo caso un uomo, piú anziano rispetto al precedente, con un’età compresa tra i 30 e i 40 anni e alto 162 cm circa. Indossava un abbigliamento apparentemente piú ricercato: sul petto, dove la stoffa crea evidenti pieghe, si conservano le impronte della trama del mantello in lana, fermato sulla spalla sinistra; nella parte alta del braccio sinistro è invece riconoscibile l’impronta di un tessuto diverso relativo a una lunga tunica che raggiunge la zona pelvica. Non è però da escludere che anche la vittima piú giovane fosse provvista di un mantello di lana, ritrovato accanto alla sua impronta, sempre attraverso il colaggio. Per notizie e aggiornamenti: www.pompeiisites.org; pagina Fb: Pompeii-Parco Archeologico.

a r c h e o 17


FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

IL CUORE DEL SISTEMA-IMPERO DIAMO IL BENVENUTO A UN NUOVO APPUNTAMENTO FISSO, CON IL PARCO ARCHEOLOGICO DI OSTIA ANTICA, LASCIANDO AL SUO DIRETTORE, ALESSANDRO D’ALESSIO, IL COMPITO DI PRESENTARLO AI NOSTRI LETTORI

I

l Parco archeologico di Ostia antica (e Portus, aggiungo idealmente) come Fronte del Porto (1954), il celebre film di Elia Kazan, reso indimenticabile da Marlon Brando nel ruolo di Terry Malloy. Può dunque essere questo un giusto titolo per la rubrica che, grazie alla disponibilità del direttore Andreas M. Steiner e alla cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese, inauguriamo in «Archeo»? Fu cioè cosí nell’antichità, quando il prospetto

e lo skyline della città di Ostia e delle imponenti infrastrutture di Porto, reciprocamente divisi e pur congiunti dal corso ultimo del Tevere, si affacciavano sulla costa e sul mare? Forse, ancor piú e meglio, il titolo originale del film, On the Waterfront (che, tradotto letteralmente, suonerebbe Sul lungomare) rende giustizia di tale assetto geografico e urbano/funzionale, alterato ai giorni nostri sia dal progressivo allontanamento a ovest di quella

linea di costa – che ha arretrato e privato della loro acqua i monumentali resti della città e del porto imperiale –, sia da una piú recente disordinata edificazione sui due lati della strada (approssimativamente la litoranea Severiana antica) che collega la Via del Mare a Fiumicino e all’aeroporto Leonardo da Vinci. Un rapporto, quello di Ostia con il fiume e il mare, a tal punto inestricabile da essere insito nel nome stesso: ostium = «foce», ma anche

Veduta a volo d’uccello del centro monumentale di Ostia antica.

18 a r c h e o


«porta»/«entrata», con evidente bi-direzionalità o bustrofedismo del significato, come di una realtà insediativa di antichissima origine. Semplificando, si potrebbe dire che Roma non esisterebbe senza Ostia, senza la foce del suo fiume, senza quelle saline (il Campus Salinarum Romanarum di età storica) che, almeno dal IX secolo a.C., permettevano la coltivazione e il trasporto del sale nell’entroterra, lungo la via Campana appunto (da campus), sulla rive droite fino al guado dell’isola Tiberina e all’area destinata a diventare il Foro Boario, luoghi di passaggio e incontro fra le genti e di mercato ai piedi del Palatino, lí dove la tradizione colloca la fondazione romulea dell’Urbe. Mentre di qui, trasferito sulla rive gauche, a proseguire il viaggio verso la Sabina, il tragitto di quel sale materializzò la via Salaria.

NEL SEGNO DI ERCOLE Su tutto, la protezione di Ercole, divinità italica tutelare degli allevamenti e della pastorizia, dello scambio e degli emporia, il cui culto costella quasi ogni percorso della transumanza in area medio-italica (e non solo), e che tanto a Roma quanto a Ostia, di nuovo, segna taluni inveterati luoghi del sacro. Storia di uomini, di dèi e di strade, dunque, anche quelle che mutuarono i loro nomi proprio dalla fondazione di Ostia e dalla costruzione dei porti di Claudio e Traiano: le viae Ostiensis e Portuensis. A dire, semplificando di nuovo, che Ostia e Portus non sarebbero mai nate senza Roma. Storia comunque tangibile di mura, muri e marmi scolpiti o iscritti, di insulae, domus e sontuose residenze, di templi/santuari e sedi istituzionali e di rappresentanza, e cosí di governanti, maggiorenti e imprenditori, di nomi, magistrature e cariche, potenti personaggi e associazioni collegiali o di mestiere, di panifici, molini e terme, come di

In alto: disegno ricostruttivo del litorale ostienseportuense in età romana. A destra: Portus. Le cosiddette «Colonnacce», pertinenti al portico di Claudio.

culti disparati e di necropoli, di magazzini, derrate e merci/prodotti, di committenti, artisti e opere, immagini scolpite e architetture, pitture e mosaici. E ancora di attracchi e di canali, di navi e arsenali, di genti d’ogni etnia, e della presenza, incombente, del potere imperiale sull’annona. Questo e molto altro, nelle sue piú recenti novità, vogliamo raccontare ai lettori di «Archeo». Perché ancora oggi, come in passato, Ostia non è soltanto il mare di Roma: è Roma sul mare. E il «polo» ostiense/ portuense nella sua vita pluricentenaria costituí senza dubbio, a partire almeno dall’età di Claudio, il piú importante e gigantesco scalo portuale del mondo antico, cuore pulsante del

sistema-impero. Un ruolo a cui si è in parte sovrapposto, dopo secoli di oblio, quello dell’aeroporto di Fiumicino, un terminale strategico anche nelle prospettive del Parco. Secoli di oblio riemersi in tutta evidenza grazie alle epiche stagioni dell’archeologia ostiense, tra Otto e Novecento, e che ancora oggi disvelano un patrimonio di conoscenze che abbraccia tutta l’età antica e buona parte di quella medievale fino al Rinascimento e oltre, traversando gli anni delle bonifiche e dei grandi scavi appunto, per giungere al contemporaneo con una forza che ne restituisce vivido il valore e un’identità aggiornata ai temi e alle sfide che il nostro tempo ci pone. Alessandro D’Alessio

a r c h e o 19


IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

RESTAURO IN TRE ATTI GRAVEMENTE DANNEGGIATO DALL’ALLUVIONE DEL FIUME FIORA NEL 2012, IL PONTE DELLA BADIA È STATO RESTAURATO E TORNA A ESSERE PRATICABILE, RESTITUENDO A VULCI UNA DELLE SUE ICONE PIÚ CELEBRI

C

ostruito sopra un profondo orrido di scure rocce vulcaniche, il Ponte della Badia costituisce una delle maggiori attrazioni dell’area archeologica vulcente: un «bizzarro ponte a forma di arcobaleno» lo definí David Herbert Lawrence nei suoi Etruscan Places, paragonandolo a una «bolla nera che si alza nell’aria…». In effetti, l’arcata maggiore svetta per oltre 30 m dall’alveo roccioso del fiume e si imposta su solidi piloni: l’ardita struttura, articolata originariamente in tre arcate di diverse ampiezze, presenta un nucleo in opera quadrata con

blocchi di tufo rosso riferibile con tutta probabilità all’età etrusca (all’epoca il ponte poteva essere completato da un piano ligneo) e risulta essere stata rinforzata in epoca romana da un paramento in blocchi di nenfro e travertino. Il caratteristico andamento a schiena d’asino della pavimentazione a ciottoli, fiancheggiata da alti parapetti segnati dallo sfregamento dei mozzi dei carri, rimanda invece a rifacimenti medievali: in quel periodo una delle arcate minori, quella sulla sponda sinistra, fu parzialmente chiusa, per ricavarne un vano da utilizzare come mulino

ad acqua a uso della piccola comunità che le fonti ricordano essere stanziata presso il Castello.

IL FAZZOLETTO DEL DIAVOLO Funzionale all’asse viario che collegava il settore settentrionale dell’antica metropoli ai territori dell’Etruria interna, il Ponte della Badia consentiva anche il passaggio dell’acquedotto che riforniva la città captando l’acqua da una sorgente della vicina località Cento Camerelle, e proprio l’alta concentrazione di calcare contenuta nell’acqua ha provocato, nel corso dei secoli, la formazione Il Ponte della Badia durante l’intervento di restauro, con i ponteggi allestiti per consentire le operazioni di risanamento delle parti danneggiate dall’alluvione del novembre 2012.

20 a r c h e o


proprio in corrispondenza dell’antica struttura: la forza dell’acqua ha travolto i piloni, causando il distacco di alcune porzioni di blocchi di sacrificio pertinenti a restauri recenti, e il Ministero dei Beni Culturali ha dovuto disporre le necessarie opere di consolidamento e restauro sull’intera struttura.

UN’OPERA COMPLESSA In questa pagina: immagini che documentano lo stato del ponte rilevato nel corso del restauro. di concrezioni calcaree e stalattiti che pendono oggi dal parapetto settentrionale e che la leggenda popolare attribuisce al diavolo, il quale, avendo costruito il ponte in una sola notte, si sarebbe asciugato la fronte con un fazzoletto, poi pietrificatosi. Utilizzato per oltre duemila anni (negli anni Sessanta del Novecento vi transitavano ancora le automobili e i trattori!), il Ponte della Badia è stato da poco riaperto al pubblico, dopo la chiusura imposta dai danni provocati dall’alluvione del 12 novembre 2012, quando il livello del fiume Fiora si è alzato di oltre 20 m,

Il ponte collega le due sponde del fiume Fiora nel punto piú stretto ed è un’opera molto stratificata e caratterizzata da una complessa processualità architettonica; presenta tre arcate, la maggiore delle quali ha una luce di 20 m, ed è sostenuto da due pile in opera quadrata. I danni provocati dalle piene consistevano principalmente nella perdita di molti blocchi di tufo e nenfro (in parte originali, in parte di restauro) della pila principale e nell’erosione della base fondale della spalla destra, a causa della conseguente diminuzione delle sezioni resistenti: danni che ponevano le premesse per una grave vulnerabilità dell’intera struttura. I lavori, appena terminati, sono stati realizzati in tre anni e sono stati suddivisi in altrettante fasi operative. La prima ha interessato la

spalla sulla riva destra e parte della pila principale (maggiormente danneggiata dalle piene che hanno causato lo scalzo di numerosi blocchi della parte basamentale); si è quindi intervenuti sull’arcata centrale; per concludere con il risanamento delle parti laterali. Poiché i ponteggi, necessari al cantiere, dovevano occupare l’alveo del fiume Fiora, caratterizzato da una grande variabilità stagionale della portata delle acque, la Regione Lazio, competente in materia, ha rilasciato un nulla-osta idraulico condizionato da questa particolare situazione: i lavori sono stati effettuati nelle tre annualità ineludibilmente nel periodo tra giugno e ottobre. Una successiva quarta fase, appena approvata, vedrà il recupero dell’antica osteria, già descritta da Annibal Caro alla metà del Cinquecento, dalla quale prende il nome la necropoli etrusca che si estende a nord dell’antica Vulci. Il progetto è della Techne srl mentre i lavori sono stati effettuati dalla So.La.Spe s.r.l. ; il MiBACT ha invece messo a disposizione il proprio personale per il controllo dei restauri: Simona Carosi, Anna De Luca, Yuri Strozzieri, Maurizio Novello e Mario Fulgenzi.

a r c h e o 21


n otiz iario

MUSEI Campania

L’OTIUM IN VETRINA

N

ella cornice monumentale della Reggia di Quisisana è stato aperto il Museo Archeologico di Castellammare di Stabia, che espone i numerosi e rilevanti reperti provenienti dal territorio dell’antica Stabiae. L’edificio nasce nel XIII secolo, grazie ai sovrani angioini, che lo prediligono come luogo di villeggiatura e di rigenerazione salutare, e da questa

funzione, secondo la tradizione, deriva il nome, ispirato alla frase pronunciata da Carlo II d’Angiò, «Qui si sana», dopo essere guarito da una malattia proprio in questo luogo. Dalla residenza si gode di uno dei piú bei panorami del golfo di Napoli. L’aspetto attuale della Reggia, meta di viaggiatori e studiosi durante il Grand Tour, risale alla seconda metà del Settecento, quando venne trasformata in palazzo di caccia e di villeggiatura, con un ampio parco che si estende alle pendici del Faito, allestito su modelli del giardino all’inglese.

22 a r c h e o

A destra: la Reggia di Quisisana, sede del Museo Archeologico di Stabia. In basso: affresco con giovane donna e fanciullo, da Villa Arianna.

Oggi, grazie a un progetto di valorizzazione diretto dal Parco Archeologico di Pompei, la Reggia è divenuta sede di un museo che racconta le fasi preromane di Stabia, i suoi luoghi di culto e, soprattutto, le strepitose ville romane d’otium (lussuose residenze destinate al riposo, al benessere del corpo e dello spirito, e alle attività e agli affari) e le ville rustiche dell’entroterra, disposte quasi tutte in «bella vista» verso il mare e la valle del Sarno. Curato dal Parco Archeologico di Pompei, il Museo è intitolato a Libero D’Orsi (1888-1977), preside scolastico che,

negli anni Cinquanta del Novecento, intraprese scavi alla riscoperta delle ville stabiane, già parzialmente indagate in età borbonica. Tanti ed eterogenei sono i reperti esposti, alcuni presentati al pubblico per la prima volta, tra affreschi, pavimenti in opus sectile, stucchi, sculture, terrecotte, vasellame da mensa, oggetti in bronzo e in ferro, in precedenza conservati nell’Antiquarium stabiano, allestito nel cuore di Castellammare da Libero d’Orsi e chiuso al pubblico dal 1997. Il percorso museale si snoda lungo i corridoi e le sale della Reggia e propone un’ampia panoramica su Stabiae e il suo territorio, dall’età arcaica sino all’eruzione del 79 d.C. Le prime sale illustrano la storia della Reggia e delle ricerche archeologiche, con approfondimenti sugli scavi borbonici settecenteschi e su quelli di Libero D’Orsi. Si prosegue con la prima Stabiae, fiorente centro indigeno, che ha avuto una funzione plurivalente, sia come polo economico connesso alla fertile piana del Sarno che come scalo marittimo aggregato alla piú intera Nuceria-Nocera. La fase preromana è illustrata dai materiali votivi del santuario extraurbano in località Privati (metà del IV-fine del II secolo a.C.), fortemente connesso, come rivelano i suoi


votivi, al mondo femminile e ai riti propiziatori della fertilità e della nascita, e dai corredi della necropoli arcaica di via Madonna delle Grazie (dalla seconda metà del VII alla fine del III secolo a.C.), capaci di offre lo spaccato di una vivace comunità strategicamente insediata nella vallata sarnese. Il periodo romano, fino al 79 d.C., è invece ricostruito attraverso un Qui sotto: larario con scena di banchetto di genere popolareggiante, da Villa Arianna. In basso: porzioni di pavimento in opus sectile da Villa San Marco.

criterio espositivo cronologico e topografico, con interessanti approfondimenti tematici. Il percorso prende avvio dalle ville d’ozio costruite in posizione privilegiata, quasi senza soluzione di continuità, sul ciglio della lunga collina di Varano, per le quali si presentano gli straordinari apparati decorativi costituiti da affreschi e sculture: Villa San Marco, Villa del Pastore, Villa Arianna e il Secondo Complesso erano veri e propri palazzetti della «dolce vita» (vedi «Archeo» n. 363, maggio 2015; anche on line su issuu.com). La scelta di iniziare da Villa San Marco, che con i suoi 11 000 mq era fra le piú grandi ville residenziali di Stabiae, è motivata dalla sua contiguità con l’antico centro indigeno e si presta meglio a illustrare il passo di Plinio sulla distruzione di Stabiae da parte di Silla, avvenuta nell’89 a.C. insieme alla conquista di Pompei. Dopo la sezione dedicata al pianoro di Varano, si presentano la villa del Petraro (Santa Maria la Carità), importante complesso, che ha restituito raffinate decorazioni in stucco provenienti da ambienti termali, e quella di Carmiano (Gragnano), fulcro dell’allestimento permanente del museo. La villa di Carmiano è una delle circa 50 ville rustiche diffuse nell’ager Stabianus – ubicata sulla vivace strada Stabiae-Nuceria –, un comprensorio punteggiato da numerose piccole proprietà (ville rustiche con un’estensione tra i 400 e gli 800 mq) bene organizzate per la coltivazione della vite e dell’olivo. In questa sezione, un approfondimento riservato all’alimentazione introduce all’esposizione dello splendido triclinio di Carmiano: qui il tema del cibo, della sua preparazione e

consumazione è illustrato dai servizi da mensa in bronzo, terracotta e vetro, dal vasellame da cucina e dalle anfore, oggetti che offrono un’ampia visione su un momento importante della vita quotidiana romana, quale era quello della convivialità. Le pareti affrescate del triclinio di Carmiano propongono scene figurate dal sapore dionisiaco (Dioniso e Arianna) che rievocano la produzione del vino, l’attività principale svolta negli ambienti rustici della residenza. Lo straordinario carro in bronzo di Villa Arianna – la piú antica fra quelle stabiane, il cui nome deriva dalla grande pittura a soggetto mitologico che campeggia al centro di uno dei suoi tre triclini –, esposto per la prima volta con i suoi finimenti, è lo spunto per approfondire le conoscenze sui lavori agricoli e sulle produzioni tipiche del territorio: il ricco campionario di attrezzi e strumenti in metallo restituito dalle ville chiude il percorso di visita, con il tema delle attività produttive. Con l’apertura del Museo Archeologico di Castellamare di Stabia si viene a integrare l’ampio circuito archeologico dell’antica Stabiae, strettamente connesso ai siti visitabili di Villa San Marco e di Villa Arianna. Alessandro Mandolesi

DOVE E QUANDO Museo Archeologico di Stabia Libero D’Orsi Reggia di Quisisana, Castellammare di Stabia (Napoli) Orario invernale: 9,00-17,00; estivo: 9,00-19,00; chiusura settimanale il martedí Info www.pompeiisites.org/ reggia-quisisana

a r c h e o 23


A TUTTO CAMPO Stefano Camporeale e Cynthia Mascione

FRA DIDATTICA E RICERCA FRA L’UNIVERSITÀ DI SIENA E POPULONIA C’È UN RAPPORTO ORMAI «ANTICO». COSTANTEMENTE ARRICCHITO DA NUOVE SCOPERTE E SCANDITO DA UN ALTRETTANTO COSTANTE IMPEGNO NEL CAMPO DELLA DIVULGAZIONE

L’

Università di Siena è da anni impegnata in un complesso progetto di ricerca sull’acropoli della città etrusca di Populonia, situata lungo un tratto particolarmente suggestivo della costa toscana, nel Comune di Piombino (Livorno). Un progetto iniziato nel 1998 e che ha portato, nel 2007, alla nascita del Parco Archeologico dell’Acropoli, che si è aggiunto all’area delle necropoli del Golfo di Baratti, già aperta al pubblico. Un esempio ben riuscito di gestione del patrimonio culturale, il cui successo è dovuto a

In basso: studenti durante le operazioni di rilievo alla base del terrazzamento delle Logge. A destra: documentazione della vasca in terracotta del balneum.

24 a r c h e o

un accordo politico, amministrativo e gestionale tra la Soprintendenza, il Comune di Piombino e la Società Parchi Val di Cornia con diverse istituzioni universitarie, fra cui l’Ateneo senese, nei cui laboratori

si svolgono anche i seminari invernali con gli studenti. Un lavoro poderoso, quindi, che ha portato alla scoperta di un settore importante dell’acropoli etruscoromana di Populonia, nata dopo il


A sinistra: schedatura delle unità stratigrafiche nel caldarium. In alto: la siglatura e la divisione dei materiali in magazzino. passaggio della città sotto il controllo di Roma, avvenuto nel primo ventennio del III secolo a.C. Grazie all’impegno di tanti giovani archeologi, sono tornati alla luce settori importanti della città: un’area sacra con tre templi, due vie lastricate, una residenza aristocratica completa di ambienti termali, una casa meno estesa ma anche questa con bagno privato, e il grande edificio chiamato «Le Logge», nome che deriva dal maestoso muro di terrazzamento ad arcate cieche di 7 m circa di altezza che lo caratterizza.

I LAVORI IN CORSO Prima dell’inizio degli scavi, proprio «Le Logge» erano il solo resto visibile della città antica, che lasciava presagire l’importanza di quanto era ancora sepolto. Nonostante l’indubbia maestosità e notorietà, l’edificio è ancora in gran parte da scavare e da comprendere nella sua funzione. Le ricerche attuali sono dedicate proprio all’indagine di questo complesso architettonico. Un saggio di scavo è alla base del terrazzamento ad arcate, per affrontare l’indagine del cantiere di costruzione, mentre un secondo intervento è in corso a monte delle arcate, sul terrazzo superiore, dove è stato individuato un piccolo

edificio termale, uno dei piú antichi conosciuti in Etruria, databile per ora intorno al 100 a.C. Lo scavo delle terme è la nuova sfida della ricerca archeologica a Populonia, che dal 2018 coinvolge anche il Department of Classics della University of Toronto, oltre a un team di architetti impegnato nella progettazione delle opere di restauro degli intonaci e dei pavimenti, e del consolidamento delle strutture, conservate in alcuni punti fino allo spicco delle volte. Numerose ed emozionanti sono state le scoperte: un primo ambiente che conserva ancora la soglia di ingresso e il pavimento in piccoli mattoni disposti a lisca di pesce (opus spicatum). In un angolo vi è ancora una vasca in terracotta, rimasta intatta nel bancone di muratura che la contiene, mentre nelle pareti sono ricavate due nicchie porta-oggetti in cui gli utenti potevano riporre gli indumenti, prima di passare al bagno oppure alla sauna, allestita in un piccolo vano circolare (sudatorium). Tornando al primo ambiente, sul lato opposto alla sauna si apre uno stretto corridoio con pavimento in mosaico, che conduce al vano piú grande e riscaldato (caldarium), con ben otto nicchie ricavate in parete per l’appoggio degli indumenti.

Su un lato si trova una piccola abside con pavimento in mosaico policromo, nella quale era collocato un bacino di acqua fresca (labrum), mentre in un’altra parete era alloggiata la vasca per il bagno caldo, posta davanti al grande forno che scaldava sia l’ambiente che l’acqua per il bagno.

VERSO LA FRUIZIONE Il mosaico della sala e la vasca furono ridotti in pezzi in occasione di una ruberia antica, mirata probabilmente a recuperare i laterizi che formavano l’intercapedine sottostante (ipocausto), nella quale circolava l’aria calda prodotta dal grande forno. L’ipocausto di Populonia sarebbe dunque uno degli esempi piú antichi documentati fino a oggi, dopo quello di Fregellae (Frosinone), datato fra il 180 e il 150 a.C.: questa è almeno l’ipotesi, in attesa di poter terminare lo scavo del balneum. Con la prossima stagione di lavori inizierà anche il restauro dell’edificio, in vista della sua restituzione al pubblico del Parco Archeologico, conclusione del lungo lavoro degli archeologi e del percorso che conduce dallo scavo fino alla divulgazione dei risultati delle ricerche. (stefano.camporeale@unisi.it, cynthia.mascione@unisi.it)

a r c h e o 25


n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

L’ANTICO FA SPETTACOLO Nell’intrigante articolo di questo mese (vedi alle pp. 46-59), Umberto Liviadotti ci parla dell’interesse del cinema per il classicismo, soprattutto egiziano o greco-romano, sia dal punto di vista delle «leggende» che delle «realtà» storiche. Questa invasione della settima arte nel mondo classico si può dire che 1 sia praticamente iniziata con l’avvento stesso del cinema e si è ulteriormente amplificata per i molti programmi televisivi realizzati in questi ultimi tempi. Ma se cinema e storia, e archeologia, hanno un rapporto consolidato nel tempo, un po’ meno è quello della filatelia riferita al cinema che parla di vicende del passato e che, come si vede, sono limitate agli attori piú famosi che hanno interpretato personaggi celebri. L’inizio non può non essere riservato a Cleopatra, il famoso film del 1963 (1, locandina del film), interpretata da Elizabeth Taylor, con Rex Harrison (Giulio Cesare) e Richard Burton (Antonio). I tre del cast stellare sono insieme nel foglietto di Sao Tomé & Prince (2) e uno dei francobolli mostra la splendida attrice con sullo sfondo ancora Richard Burton/Antonio (3). Altre emissioni sullo stesso film, e sempre per la coppia Liz/Richard, dalla Guinea (4) e dal Mozambico da un foglietto con sullo sfondo un arco romano e le piramidi egizie (5). Esaurito il capitolo Cleopatra, si passa al Giulio Cesare del 1953, interpretato da Marlon Brando e ricordato dal Bf del Burundi che omaggia vari attori (6) e del quale presentiamo solo la parte che mostra l’attore e, in alto a destra, un fotogramma della Cleopatra del 1963, con Liz Taylor e Rex Harrison. Altro film epico fu Spartacus, interpretato da Kirk Douglas ricordato in tre francobolli: Mali (7), Grenada (8) e Guinea (9). Questa piccola rassegna cinema-storia classicafilatelia, si chiude con Sansone e Dalila, un altro film «storico» molto famoso del 1949, interpretato da Victor Mature ed Hedy Lamarr; non ci sono collegamenti diretti con il film, ma con la sua sequenza piú spettacolare: quella in cui Sansone muore con tutti i suoi nemici, facendo crollare le colonne del tempio (cartolina e annullo relativa all’omonima opera lirica, 10-11).

26 a r c h e o

2 3

5

4

7

8 9

11

6

10

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

AVVISO AI LETTORI Italia Questo Calendario è stato redatto in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19 emanate dalle autorità nazionali e locali. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

ROMA Civis, Civitas, Civilitas

ODERZO L’anima delle cose

Roma antica modello di città Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali sospesa

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo FoscoloMuseo Archeologico Eno Bellis fino al 14.02.21

La lezione di Raffaello Le antichità romane Complesso di Capo di Bove sospesa

TORINO Lo sguardo dell’antropologo

79 d.C. Roma e Pompei Fine di una storia Colosseo fino al 31.01.2021

Connessioni tra egittologia e antropologia Museo Egizio sospesa

Piranesi

Incensum

Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica fino al 31.01.21

Suggestioni dalla terra dell’Oman Musei Reali, Spazio Passerella del Museo di Antichità fino al 10.01.21

I marmi Torlonia

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.06.21

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli

BOLOGNA Etruschi

Castello, Museo Archeologico fino al 05.04.21

Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico sospesa

Francia

FIRENZE Imperatrici, matrone, liberte

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da Alesia a Roma

Volti e segreti delle donne romane Galleria degli Uffizi fino al 14.02.21

L’avventura archeologica di Napoleone III Musée d’Archéologie nationale fino al 15.02.21 (prorogata)

Tesori dalle terre d’Etruria

La collezione dei conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21

MILANO Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 28.03.21

NAPOLI Gli Etruschi e il MANN

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21 28 a r c h e o

Paesi Bassi Ritratto di matrona romana.

LEIDA I Romani lungo il Reno Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21

Vetro

Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21



IL M M O IST ER LO O C RI H VE LA TO

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

MOLOCH

IL dio che mangiava bambini di Sergio Ribichini

Salammbô, olio su tela di Carl Strathmann. 1894 circa. Weimar, Klassik Stiftung Weimar.


I

n questa nuova Monografia di «Archeo», Sergio Ribichini prende le mosse da un episodio che dimostra quanto sia ancora potente l’immagine del Moloch, ma, soprattutto, quanto forti siano le suggestioni che è capace di evocare: qualche mese fa, in occasione della mostra «Carthago, il mito immortale», una sua ricostruzione – ricalcata su quella realizzata nel 1914 per il kolossal Cabiria – accoglieva i visitatori all’inizio del percorso espositivo allestito negli spazi del Colosseo. E tanto è bastato per scatenare le veementi reazioni di una minoranza – va detto – che non ha esitato a condannare la scelta di presentare «una divinità luciferina proprio dove i fratelli cristiani hanno subíto il martirio» o ad annunciare che Baal era tornato «al Colosseo, pronto per nuovi sacrifici umani»… Da qui ha dunque inizio il racconto di Ribichini, che non mira a una «riabilitazione», che non avrebbe alcuna ragion d’essere, quanto piuttosto a fare luce su quella che, in ogni caso, costituisce da decenni una questione vivacemente dibattuta, cioè l’effettiva esistenza di una divinità chiamata Moloch e, soprattutto, l’uso di sacrificare in suo nome neonati e bambini. La trattazione esamina il delicato affaire sotto ogni punto di vista: dalle notizie ricavabili dalle fonti e dalle Sacre Scritture ai dati offerti dall’archeologia, dalle tradizioni leggendarie fiorite nel tempo alle proposte di interpretazione succedutesi nell’arco di oltre due secoli di studi… Un’opera completa, accurata e, come sempre, arricchita da un corredo iconografico puntuale e suggestivo.

IN EDICOLA

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • L’ultima apparizione • LE FONTI • Il concilio dei numi • LA TRADIZIONE BIBLICA • Quando gli angeli erano idoli • LE ORIGINI DEL MITO • La fabbrica del mostro •L ’ICONOGRAFIA MODERNA • L’immagine e l’immaginario • L’ARCHEOLOGIA • L’idolo è morto! Anzi no... •L ’ALLEGORIA DEL MALE MODERNO • Un mito perenne • BIBLIOGRAFIA • Il senso delle storie

a r c h e o 31


ESCLUSIVA • VALENTANO

QUEL DIVINO

EMIGRATO UN RITRATTO MARMOREO DI GIOVE CONTRIBUISCE AL LUSTRO DI UN CELEBRE MUSEO, LA NY CARLSBERG GLYPTOTEK DI COPENAGHEN. MA COME È APPRODATO QUEL PREGEVOLE REPERTO DI EVIDENTE FATTURA MEDITERRANEA, NELLE FREDDE LANDE DELLA DANIMARCA? E, IN ORIGINE, A QUALE LUOGO DI CULTO APPARTENEVA? UNA LUNGA, AVVINCENTE, INDAGINE NE HA RIVELATO L’AVVENTUROSA VICENDA. CHE VI RACCONTIAMO IN ESCLUSIVA. PARTENDO DA UN PICCOLO CENTRO DEL VITERBESE... di Romualdo Luzi

F

ra le molte leggende e storie di Valentano – cittadina dell’Alto Lazio situata a una trentina di chilometri a nord-ovest di Viterbo – che spesso sentivo raccontare da bambino, ce n’era una che affermava come, nel Giardino Rocchi, cioè nel dirupo retrostante la chiesa parrocchiale di S. Giovanni Evangelista, esistes-

32 a r c h e o


Uno scorcio del Salone delle Feste della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen: evidenziata, in basso, a destra, la statua di Giove proveniente da Valentano e acquisita dal museo danese nel 1901.

se un cippo romano, sul quale troneggiava un «busto di Giove». Se dunque era esistito un «idolo» cosí importante, molto probabilmente si poteva trovare un luogo di culto a lui dedicato: e, infatti, molti raccontavano anche che le colonne di quel tempio erano state trasportate addirittura dentro la vicina Rocca dei Farnese, per realizzarne il bel cortile. Ma esisteva o era esistito davvero quel busto di Giove che molti cittadini asserivano fosse conservato in qualche luogo di Valentano, unitamente a un cippo votivo funerario in pietra lavica, sul quale, secondo la memoria orale del tempo, correva una dedica alla memoria di antichi cittadini romani? Solo una fonte avrebbe potuto aiutarci a risalire a una qualche verità sull’argomento: la «Sora Pierina», al secolo Petra

Corradi Bonita, la piú anziana «maestra» delle scuole elementari del paese che, nata a Valentano il 12 marzo 1893, era la fonte potenzialmente piú attendibile per confermare o smentire quei racconti.

I RICORDI DI UNA BIMBA Chiesi dunque di incontrare la Sora Pierina – che cordialmente continuerò a citare cosí, per familiarità, rispetto e amicizia – per parlare della storia del Giove, e lei si mostrò subito interessata, accennandomi di aver sentito parlare della statua dal proprio nonno, Filippo Corradi e da suo padre, Cesare. Fece subito mente locale e mi assicurò per certa l’esistenza del Giove, che lei, essendo allora una bambina, ricordava appena di avere visto. Come detto, ne aveva però sentito parlare e, stando ai racconti, la scultura sarebbe stata venduta verso la fine dell’Ottocento. In ogni caso, ricordava che suo nonno aveva a lungo scritto appunti sulla storia di Valentano e, forse, cercando in un fascicolo di fogli accantonati da qualche parte, sarebbe stato possibile ritrovare le note relative a questa circostanza. Ci sarebbe voluto del tempo per

a r c h e o 33


ESCLUSIVA • VALENTANO

controllare fra le carte di famiglia, ma mi promise che l’avrebbe fatto, appena possibile, e che comunque era certa di non sbagliarsi. La storia del Giove le tornava alla mente con certezza e mi garantí che, se avesse trovato qualche informazione piú circostanziata, mi avrebbe subito avvertito.

LE RICERCHE D’ARCHIVIO Nel frattempo, chiedevo consigli a quanti potevano saperne di piú e quali libri avrei potuto consultare. Cosicché, con l’aiuto del direttore della Biblioteca Provinciale di Viterbo e consultando anche i cataloghi della Biblioteca dell’Accademia degli Ardenti ero riuscito a creare un piccolo schedario bibliografico su Valentano e sul nostro territorio. Ricevetti poi una preziosa segnalazione dal compianto amico Tur iddo Lotti, che conservava nella sua biblioteca un’opera importante per queste ricerche e che ebbi l’occasione di consultare: Monumenti dello Stato Pontifi-

Acquapendente Grotte di Castro Pitigliano

Bolsena

Lago Valentano di Bolsena Marta Canino

Tuscania

A1

Montefiascone SR2

Viterbo

Montalto di Castro SS1

Tarquinia

In alto: cartina dell’Alto Lazio con la localizzazione di Valentano. In basso: Valentano in una foto degli inizi del Novecento. Nella veduta si riconoscono la Rocca Farnese e la collegiata di S. Giovanni Apostolo.

cio e relazione topografica di ogni paese opera di G.M. (Roma, 1836) di Giuseppe Marocco. Nel tomo XIII, nella sezione delle schede delle «Lapidarie di Valentano», cosí scr ive l’autore: «LAPIDE PROFANA. Sopra un piedistallo su cui poggia un torso Colossale di Giove nel giardinetto della famiglia Rocchi si legge: DIIS. MANIBUS P. RESTITUTAE». Si aveva cosí la certezza della presenza di parte della statua del Giove, del luogo in cui era conservato (il giardino della famiglia Rocchi), con l’ulteriore precisazione circa la presenza di un piedistallo del quale nessuno aveva fatto menzione. L’opera di Marocco documentava dunque l’esistenza certa della statua: quella del Giove non era piú una leggenda tramandata di generazione in generazione. Nello stesso frangente la Sora Pierina chiese di incontrarmi, perché aveva ritrovato il fascicolo degli appunti del nonno e cosí la andai a trovare, riferendole che, nel frat-

IDENTIKIT DELLO ZEUS Ecco la scheda sul Giove di Valentano, dal catalogo delle opere della Roma imperiale della Ny Carlsberg Glytpotek di Copenaghen curato da Mette Moltesen. Zeus/Jupiter - n. 58 (I.N. 1814) Busto: marmo bianco con venature verticali grigie; altezza (totale): 122 cm; altezza della testa: 45 cm. Il busto del dio è nudo, la sua testa leggermente inclinata e avvolta da una fitta capigliatura di ricci e dalla barba. La leggera inclinazione della parte inferiore del torso potrebbe indicare che è stato ritratto in posizione seduta. La testa è scolpita in modo arrotondato, mentre la

34 a r c h e o

schiena è piatta, la parte inferiore mostra la presa e rettangolare di un morsetto. La spalla sinistra è arrotondata, con un piccolo foro di ancoraggio nella parte anteriore. Ciò prova che il busto di marmo potrebbe essere stato fissato a un blocco di legno coperto da un rivestimento di bronzo, che potrebbe anche aver coperto la parte inferiore del busto. Il busto è quindi parte di un lavoro composito: una statua le cui parti erano realizzate con materiali diversi. Un busto simile fu scoperto in un tempio romano a Kharmissa, in Tunisia, risalente al 113 a.C., attualmente conservato in

un museo di Guelma. Il tipo di statua è greco-ellenica, sebbene questo sia un lavoro romano del tardo II secolo d.C. La statua si è conservata fino al punto vita, mancano completamente le braccia. La parte inferiore della fronte, le sopracciglia, la palpebra sinistra, l’occhio destro, il naso, la bocca e gran parte dei baffi, sono stati restaurati in gesso. È presente una tamponatura scura intorno all’occhio destro. Acquisita nel 1901 tramite l’agenzia di Helbig dalla collezione Borghese di Roma: la provenienza è stata assegnata a Valentano, vicino al lago di Bolsena, nel Lazio.


tempo, avevo a mia volta scovato le notizie riportate da Marocco. Lei mi consegnò tutto il carteggio e io le promisi di farle conoscere l’esito di questa nuova impresa. Il fascio dei manoscritti risultava parzialmente numerato, ma non in ordine. Sul verso della carta n. 28, autografata dalla signora Corradi, si legge questa dicitura: «Storia di Valentano e del Ducato di Castro scritta da Filippo Corradi nato nel 1714 (?). Petra-Bonita Corradi fu A destra: il Giove di Valentano. Fine del II sec. d.C. La scultura è priva di molte delle sue parti originali, ma, per confronto con statue analoghe, si può immaginare che rappresentasse il dio seduto, ammantato, con uno scettro sorretto dal braccio sinistro e un fascio di saette e fulmini o una Nike nella mano destra. In basso: statua di Giove in marmo e bronzo, dalla villa di Domiziano a Castel Gandolfo, già nella collezione del marchese Campana. I sec. d.C. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. È questo l’aspetto che anche il Giove di Valentano poteva avere avuto in origine, con il manto bronzeo e i vari attributi tipici della divinità.

a r c h e o 35


ESCLUSIVA • VALENTANO

Cesare – di lui nipote 1941». Consultando il registro dei Battesimi della locale chiesa parrocchiale di S. Giovanni Evangelista, ho potuto sciogliere il dubbio sulla data di nascita di Filippo Corradi, che ri-

sulta nato il 21 marzo 1812 e deceduto il 23 marzo 1897. A un primo esame l’insieme dei fogli risulta molto approssimativo e non può certo considerarsi, come se fosse una vera e propria

Dagherrotipo del Giove di Valentano prima della vendita, posseduto da Cesare Corradi (dal fascicolo conservato nell’Archivio del Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione delle antichità belle arti 1800/1890. B.153.F.322,SF.4.).

36 a r c h e o

«Storia di Valentano…», in quanto i fatti sono raccontati senza citare alcuna base scientifica, né contengono richiami a pubblicazioni o notizie particolari. L’importanza del manoscritto sta nel fatto che Corradi «racconta» ciò che può constatare e quindi descrive la realtà che si trova dinnanzi.

LA TRADIZIONE COME TESTIMONIANZA Come detto, i riferimenti storici sono pressoché nulli o di poco interesse, ma, come nel caso della statua, è importante ciò che scrive, perché si intuisce che molto ha appreso dalla tradizione orale, che quindi acquista valore di testimonianza. In particolare, ecco cosa scrive sulla presenza del Giove in quella che abbiamo individuato come pagina 27: «Nel piú alto della collina ov’è posto Valentano, nel luogo ove esiste la indicata Chiesa (la romanica parrocchiale di S. Giovanni Evangelista, poi trasformata tra il 1400 e il 1500 sotto i Farnese e quindi completamente resa in stile barocco nel 1700 con successivi rifacimenti, n.d.r.), eravi un sontuoso Tempio Pagano, in un cortile della Rocca (il riferimento è alla vicina Rocca Farnese), dedicato a Giove che ivi veniva adorato. Questa Statua della quale non si vede altro, che il busto, è di forma colossale, di marmo bianco, alta palmi sette (140 cm circa) larga nelle spalle 74 centimetri. Contraffatta ha in parte la faccia; maestoso l’aspetto, capelli inanellati sugli omeri gli discendono, si conosce opera stata sopra il suo piedistallo per [p. 28] avere i suoi forami (?) da potersi collocare e da tutti gli intendenti è stata riconosciuta di bellissima fattura ed opera Toscana; come ancora dal Ministero delle arti che la dichiarò assai pregevole per le sue antichità, e rappresentanza. Rimossa dal luogo indicato, ed asportata in un vicino orto del sig. Arciprete Paoli, e quindi nell’altro piccolo orto del signor Domenico Scorsetti. Si vede ora posta in un piedistallo con la seguente iscrizione:


Dis Manibus Restitutae L. Aevilius Firmius C. Millius iustus Frati posuerunt E. C .C . CCC. & Nell’indicato sito adunque era la Città Capitale dei Popoli Verentani, senza omettere che anche nelle Corsie Vaticane si trova segnato col nome Verento, ecc. (sarebbe questo il tradizionale nome etrusco di Valentano) come ognuno può vedere, ed argomento maggiore viene dal tempio di Giove quivi adorato e le numerose colonne di pietra d’ordine Toscano secondo diverso disegno, coi suoi capitelli». Queste ultime righe si collegano, in qualche modo, a quanto tramandato dal racconto popolare: se c’era una statua di Giove – e il dato sembra ormai inconfutabile – questa divinità, la piú importante del pantheon romano, era qui stata collocata in sostituzione della divinità piú alta della religione etrusca, cioè quel Ver-

tunno (oVertumno; latino Vertumnus o Vortumnus), venerato specialmente a Volsinii (l’odierna Bolsena) il cui culto, all’indomani della distruzione di quella città (264 a.C.), sarebbe passato a Roma, dove sarebbe stato eretto un tempio sull’Aventino.

UN CARTEGGIO PREZIOSO Fra le molte fonti bibliografiche utilizzate nel corso di questa indagine occorre poi ricordare il catalogo della mostra documentaria «Ricerche e luoghi archeologici dell’Ottocento. Scavi nel Patrimonio di San Pietro in Tuscia» (Viterbo, Museo Civico, 16 maggio-16 giugno 1985). Nella pubblicazione si dà conto del carteggio relativo al rinvenimento di «un idolo antico e altro, che pari si trovi nella casa d’un tal Vincenzo Rocchi». Riportiamo dunque, qui di seguito un compendio della documentazione archeologica a cui si fa riferimento in quel catalogo, conservata presso l’Archivio di Stato di Viterbo. In alto: ricostruzione ideale del busto di Giove con la sua base, disegno di Giovanni Ciucci, secondo le indicazioni fornite dalle note manoscritte di Filippo Corradi. A sinistra: l’insegnante Petra Bonita Corradi, nota come «Sora Pierina» con un gruppo di scolari. È lei che, nipote del nonno Filippo, ha conservato molte memorie storiche, orali e scritte, sulla storia di Valentano. a r c h e o 37


ESCLUSIVA • VALENTANO

oggetti di belle arti. Nella successiva risposta (n. 2101 del 12 luglio 1859), il Governatore riferisce, al Delegato Apostolico di Viterbo, circa l’esito negativo del sopralluogo effettuato dalla locale Gendarmeria circa il rinvenimento di materiale archeologico nella predetta abitazione, cosí come denunciato. III. Nel frattempo, in una lettera del Ministro del Commercio del 19 ottobre 1859, si assicura che il sacerdote Eustachio Rocchi ha r imesso la somma richiesta di 15

I. Perviene al Governatore di Valentano, che si preoccupa di riferire al Direttore di Polizia, un «anonimo pervenutogli» l’8 giugno 1859, in cui si denuncia del «rinvenimento di un Idolo antico ed altro», e di aver già dato istruzioni alla Gendarmeria di Valentano per il relativo probabile recupero. Riferisce che dalle molte e diligenti pratiche già fatte si era accertato che detti oggetti si trovavano nella casa di un tal Vincenzo Rocchi ove abitano tre sacerdoti. Si per mette quindi di interpellare il suddetto Dirigente quali provvedimenti adottare in merito e attende superiori comandi. II. A seguito di ciò, il 3 giugno 1859, il Governatore di Valentano scrive al Vescovo Diocesano (dispaccio n. 4244), essendovi coinvolti tre sacerdoti, e chiede direttive circa il comportamento da tenersi per accertare se nella predetta abitazione sia nascosto l’idolo antico, ed altri 38 a r c h e o

Pagine degli appunti manoscritti di Filippo Corradi sul Giove di Valentano.

bajocchi, «per diritto di Bollo», relativamente alla richiesta avanzata per effettuare scavi archeologici in località «Mignattara». IV. A seguito dell’avvenuta regolarizzazione dell’istanza, don Eustachio Rocchi, arciprete della Chiesa Collegiata di Valentano, con il parere favorevole della Commissione Ausiliare di belle arti, riceve dal Ministero del Commercio e dei Lavori Pubblici di Roma, la licenza n. 9281, del 16 settembre 1859, di autorizzazione al predetto per eseguire gli scavi richiesti nella sua prebenda Arcipretale. V. In sostanza, tutto appariva regolare, non c’era traccia di alcun idolo nell’abitazione Rocchi, e non essendoci motivi ostativi il sac. Eustachio Rocchi poteva procedere a eseguire quanto richiesto.

NUOVE PROVE Come spesso accade, le vie della ricerca hanno mille rivoli e, consigliato da un amico, ho esteso il mio interesse alla documentazione dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, presso il quale ho ritrovato la segnalazione di un fascicolo datato 1878 (contrassegnato con il n. 40-1-F), che riportava sulla coperta la scritta «Valentano. Statua di Giove». Il fascicolo, in origine conservato nell’Archivio del Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione generale delle antichità e belle arti (18001890, B. 153, F. 322, SF. 4), contiene, oltre alla copertina, i seguenti documenti: • copia di una fotografia in bianco e nero di un busto di Giove e varia corrispondenza, che si elenca in ordine cronologico, riassumendo le fasi piú importanti della trattativa che si stava iniziando. • L’Ispettore degli Scavi, giusta comunicazione del 27 ottobre 1878, riferiva che un tal Sig. Cesare


Corradi di Valentano pregava di rimettere al Direttore Generale dei Musei e Scavi di antichità di Roma, la fotografia di un tronco di statua di marmo bianco logora dal tempo, la quale la crede di qualche pregio come suppone rilevare da alcune memorie conservate in casa del suo Padre Signor Filippo. In caso affermativo si avanza richiesta che il frammento sia tolto dalle intemperie, e venga messo in un posto piú adatto onde poterla conservare. • Il Direttore del Ministero il 13 novembre 1878 scrive che avendo il Sig. Corradi Filippo, possessore del busto costí esistente [in Valentano] rappresentante un Giove ha offerto al Governo l’acquisto, invita l’Ispettore agli scavi di far conoscere all’interessato che il Governo non intende comperarlo, nondimeno conferma la volontà di vedere il modo di provvedere che per mezzo del locale municipio si assicurasse la conservazione di quel marmo. • Lettera a firma di Corradi Filippo dell’8 novembre 1878 (due pagine) in cui lo stesso cosí si esprime: «Onorevole Sig. Direttore. Giorni sono mi venne comunicato dal Sig, Giuseppe Andreoli, che il busto di marmo esistente in Valentano rappresentante un Giove, del quale ne fu mandata la fotografia a codesta On. Direzione, merita per la sua rappresentanza e grandiosità d’essere conservato. Il possessore perciò, piuttosto che tenerlo in un Paese, dove nessuno è amante di oggetti antichi, andrebbe meglio disfarsene e per obbligo e dovere, un incarico (pria di rivolgermi altrove) di far conoscere a Codesta Direzione se credesse farne acquisto. Nella speranza che l’On. S.V. sarà per favorirmi con risposta, mi do l’onore di potermi dire. Valentano 8 9bre 1878. Il suo doveroso servitore Corradi Filippo». In diversi manoscritti reperibili nella casa del Sig. Filippo Corradi di Valentano si leggono alcune memorie d’un busto

di marmo rappresentante un Giove adorato dagli antichi Verentani popoli un giorno uniti con i Vincenti. Il suddetto busto si trova ancora in Valentano nell’orto del Sig. Domenico Scorzetti ed è dell’altezza di metri 1,18 cent. Alcuni intendenti di scultura giudicarono i capelli di lavoro Greco altri Etrusco. Nello stesso orto si vede pure un piedistallo di pietra con la seguente iscrizione D I S · M A N I BV S R E S T I TV T A E L · AV I L L I U S · F I R M U S C · AV I L L I U S · IVSTVS F R A T R · P O SV E RV U N T E C · C · C · C · C · E». • All’Ispettore degli scavi, con lettera successiva del 9 novembre 1878, si riferisce che sebbene il busto posseduto dal Sig. Filippo Corradi di Valentano, come può rilevarsi dalla fotografia, «non sia di fino e corretto lavoro: pure per la sua rappresentanza e grandiosità merita di essere conservato», e quindi chiede che si provveda alla sua tutela togliendolo ai danni cui accenna la nota precedente. • L’Ispettore di Farnese-Valentano, con sua del 19 novembre 1878, Il cippo funerario utilizzato come sostegno del busto di Giove.

chiede di riferire a Filippo Corradi che il Governo non avrebbe acquistato la statua di Giove di cui era possessore. Si richiede comunque che si assicuri la conservazione di quel marmo, e chiede di dare al Sindaco di dare buone speranze [ovviamente relativamente all’acquisto]. • Il seguente 24 novembre si ringrazia per la premura posta in essere secondo i desideri espressi dal Ministero.

UNA DEGNA COLLOCAZIONE Nel frattempo, l’amico Valter Cucchiari recuperava in rete la versione dell’Album di Zeus, una guida genealogica sulla mitologia greca, nella quale si riuscí a individuare, nella figura 5025, il Giove proveniente da Valentano. Una conferma del fatto che la scultura si trovava lontana dal suo luogo d’origine e, precisamente, in Danimarca, nella celebre Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. La corrispondenza che inviammo alla direzione di quel Museo, all’epoca in ristrutturazione, confermava il tutto, ma ci diceva che in quel particolare frangente sarebbe stato problematico ogni riferimento al busto di Giove e che, comunque Valentano, a lavori ultimati, sarebbe stata soddisfatta pienamente, perché il busto sarebbe stato collocato nel punto piú prestigioso dello stesso museo, in una esposizione che lo avrebbe certamente valorizzato. E nel catalogo delle opere della Roma imperiale presenti nella collezione della Ny Carlsberg Glyptotek, curato da Mette Moltesen, si può leggere la descrizione puntuale dello Zeus/Jupiter proveniente da Valentano (vedi box alle pp. 34-35). La scheda del museo danese si è rivelata utile soprattutto perché riferisce dati che non erano emersi nelle ricerche precedenti e rispetto alle quali non avevamo le necessarie certezze. Non si conoscevano le fasi dell’alienazione, il tempo e il luogo di destinazione e di collocazione fia r c h e o 39


ESCLUSIVA • VALENTANO

I TESORI DI QUEL «POSTO ANTICO»… Nel corso delle ricerche svolte per ricostruire la storia moderna del Giove di Valentano, si è rivelata assai utile la consultazione di due pubblicazioni che appaiono edite una nelle Memorie della Reale Accademia dei Lincei, e l’altra nelle Notizie degli Scavi di Antichità, curati dalla stessa Accademia, nel giugno e luglio dell’anno 1884. Pur trattandosi di due pubblicazioni diverse, l’articolo redazionale, curato da Giuseppe Fiorelli, è identico in entrambe le edizioni e cosí lo riportiamo: «XIII. Valentano. Cluverio, ed altri seguendo lui, vi hanno segnato una etrusca città col nome di Verentum; il Canina il

Fanum Voltumnae. Posto antico deve essere per la sua posizione, e perché lo rasentava quella via, che veniva da Latera; ma al presente rari monumenti ha il paese. Ho veduto in un orto una testa colossale di Giove Olimpico in marmo, presa a sassate, che l’hanno deformata. Sta sopra un cippo quadrato di nenfro, con questa iscrizione sepolcrale:

nale. Come ricordato in precedenza, la Sora Pierina aveva parlato di una vendita fatta verso la fine del 1800 per una destinazione che parlava di un probabile museo degli Stati Uniti, ma, come già sottolineato, si tratta

delle memorie di una bambina di appena nove anni e, in ogni caso, molto tempo era passato. La ricostruzione storica, finalmente portata a termine attraverso i documenti e le testimonianze orali rac-

In basso: la grotta «posta nella collina di Bolsena, di fronte a Bisenzio», citata da Giuseppe Fiorelli nella pubblicazione su Valentano in cui viene citata anche la statua di Giove. Nella pagina accanto: medaglione con

cammeo su cui sono scolpiti i busti affrontati di un uomo e una donna. III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Medagliere. Il monile faceva parte del «tesoro di via Alessandrina» riunito da Francesco Martinetti.

40 a r c h e o

DIS·MANIBVS RESTITVTAE L·AVILLIUS·FIRMUS C · AV I L L I U S · IVSTVS FRATR·POSVERVUNT E C·C·C·C·C· E

È la prima volta che incontro queste note nell’epigrafia; mi sembra, che si debbano spiegare: Equites quingenarii, cioè i due Avilli facevano parte della cohors equitata quingenaria, che vale lo stesso intendere ex quingenariis equitibus. Nello stesso comune di Valentano si denomina Bisenzio (Visentium, Vesentium) un alto colle a guisa di tumulo, che si avanza nel lago di Bolsena e vi si specchia. Gli sterpi vi germinano nei muri caduti, e pezzi e tristi caverne nascoste tra i frutici, ti rendono timido. Eppure sorride la natura allo intorno, e il chiaro lago e le colline festanti: e

colte, ha consentito di circoscrivere la vicenda dell’importante reperto, peraltro ben descritto nella scheda curata da Mette Moltesen. Come avevamo già intuito, si trattava di una statua mutila (mancante delle braccia e forse dei piedi, con alcune lacune e abrasioni) raffigurante Giove seduto in trono; in casi come questo, la parte inferiore, mancante, era spesso costituita da un panneggio, normalmente avvolgente, realizzato in bronzo, tanto che sull’omero sinistro è presente e visibile un foro, rilevabile anche nelle vecchie immagini, ove sicuramente era stato fissato il rivestimento stesso. In origine, come di solito si può confrontare in altre simili statue, il re degli dèi reggeva con il braccio sinistro lo scettro, mentre nell’altra mano era presente una statua di Nike (con corona d’alloro, in segno di vittoria) o, piú spesso un fascio di saette e fulmini, mentre, ai suoi piedi, era collocata un’aquila, l’animale simbolo del dio. Come indicato nella scheda di catalogo della Ny Carlsberg, l’idolo fu acquisito dal museo danese nel 1901, proveniente da Valentano. La


male si comprende. Che sia triste divenuto il colle aprico, ove l’uomo dimorò, e triste per sempre. A poco a poco gli abitanti mancarono da quel florido vico, e discesero al piano, e nei vicini villaggi si stabilirono, anzi tutto a Capodimonte: e il totale abbandono si ricorda due secoli fa, quando ora le stesse orme antiche si perdono. Ma le contrastò alla sdegnosa quella virtú Visentina, cui si ebbe un culto speciale, come si legge in una bella iscrizione: Virtute Visentinae Sacrum; la quale ora collocata in un bivio regge una croce. Lungo alla via che tocca la chiesuola e a destra volge a

Bisenzio, s’incontrano due caverne, murate anticamente intorno alla bocca, le quali ben potevano essere dedicate a modo di edicole a qualche nume campestre: e quivi in devoto posarsi, e fatta la libazione di rito, trarre nel breve sonno l’auspicio. La quale cosa ho dichiarato, nel descrivere una grotta dedicata a Silvane, e posta nella collina di Bolsena, che sta di fronte a Bisenzio (Notizie 1882, p. 264). Mentre che il colle è di sua natura munito, ed in alcuni tratti tagliato, fuor che da ponente, ove sale piegando la via antica, singolare cosa apparisce, che nei sottoposti campi l’aratro intoppi

talvolta nei massi quadrati che vetustissimi muri compongono: come infatti era accaduto in una presa di grano del sig. Balicchi di Capodimonte, che ne ha fatti estrarre buona copia, e se ne vuol giovare in una sua fabbrica nel paese. Ed in tal guisa si disfecero le mura di Visentium, delle quali non appare vestigio. E mi hanno affermato che oramai cinquanta anni fa, dal comune il quale è proprietario del luogo, fu costruita la chiesa di s. Rocco , perché allora nella contrada il morbo asiatico non sopravvenne. La necropoli etrusca si estende in una collina al tramonto, né vano forse sarebbe il tentarla».

vendita fu propiziata dal famoso archeologo tedesco Wolfgang Helbig (1839-1915), studioso strettamente legato all’altrettanto noto Francesco Martinetti (1833-1895), antiquario e numismatico romano, persona colta, profondo conoscitore dell’arte antica, che s’era fatto amico di una copiosa cerchia di archeologi, studiosi e collezionisti d’arte.

tanti richiedenti – privati e istituti culturali – reperti archeologici di grande valore, tanto da suscitare l’invidia dei colleghi, molti dei quali non esitarono a bollarlo come presunto o vero falsario. Non a caso, il suo nome è legato anche alla vicenda della fibula prenestina, sulla cui autenticità si è dibattuto per decenni (vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011; anche on line su issuu.com). Tuttavia, raccontare le vicende di Francesco Martinetti ci porterebbe lontano, mentre qui interessa spiegare p e rc h é Wo l f gang Helbig fosse finito a Valentano e avesse agito come «sensale» della vendita dell’idolo alla Glyptotek (peraltro fondata da un altro estimatore di Martinetti, Carl Jacobsen, ricchissimo mecenate e collezionista danese). Una delle chiavi di lettura è legata al fatto che Francesco, che morí a

Roma il 31 ottobre 1895, sebbene fosse nato nella capitale, proveniva da Valentano. Quella della sua famiglia è una storia particolare, che ha inizio ben prima della vicenda del Giove: nasce e si sviluppa in Francia, ove tre fratelli Martinetti si ritrovano coinvolti nelle guerre di religione che sconvolsero il Paese transalpino fra il XVI e il XVII secolo. Dopo la notte di San Bartolomeo, tra il 23 e 24 agosto 1572, si scatenò una guerra feroce, nella quale furono uccisi migliaia di ugonotti (protestanti). Dei fratelli Mar tinetti, uno soltanto era ugonotto e quindi costrinse gli altri a darsi alla fuga, prendendo direzioni diverse: un fratello raggiunse la Spagna, ove un suo erede, Giuliano Martinetti, venne poi proclamato beato, mentre l’altro, ch’era riuscito a trovare riparo in Italia, si fer-

LA PERIZIA DEL «SOR CHECCO» In questa veste Martinetti, conosciuto a Roma e nell’ambiente dei collezionisti e degli archeologi come il «Sor Checco», era divenuto fiduciario dei piú prestigiosi musei del mondo. Aveva ricevuto importanti incarichi come perito ufficiale dello Stato Italiano, dal 1871 era stato nominato membro dell’Istituto Archeologico Germanico, e fu stimato come un accademico. Per questo ottenne concessioni di scavo e addirittura, nel 1876, venne nominato cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia. Con Helbig, Martinetti aveva costituito un sodalizio, in pratica una società di fatto, che procacciava per i

a r c h e o 41


ESCLUSIVA • VALENTANO

mò dapprima nel Milanese, e giunse infine a Castro, nel Lazio, nella città divenuta la capitale dell’omonimo Ducato farnesiano fondato da Paolo III Farnese (vedi «Archeo» n. 352, giugno 2014; anche on line su issuu.com). Quella di Castro fu una breve parabola, perché la città dovette battersi prima con i Barberini (1641-1644) e quindi sostenere una seconda guerra contro lo Stato della Chiesa, nel 1649. Era allora pontefice Innocenzo X Pamphili, il quale, con il pretesto dell’assassinio di monsignor Cristoforo Giarda, da poco nominato vescovo di Castro, ordinò che la città fosse rasa al suolo. Dopo un lungo assedio, il «3 dicembre 1649. Fu dato avviso dallo Spinola [Delegato Apostolico per la città di Viterbo], a Nostro Signore della compita demolitione di Castro». Nel frattempo ai citta42 a r c h e o

dini e agli altri abitanti della città era stato concesso di allontanarsi in altri centri del Ducato farnesiano.

L’archeologo e filologo tedesco Wolfgang Helbig (1839-1915).

LA «DIASPORA» Dei Martinetti, che ormai contavano alcune famiglie, alcuni si portarono a Cellere (piccolo centro del Viterbese, situato 40 km circa a nord-ovest del capolouogo) la maggior parte a Valentano, città che era nel frattempo divenuta la capitale amministrativa del Ducato. Qui la famiglia si raccolse abbastanza numerosa, tanto da avere, nella chiesa collegiata, anche la tomba di famiglia. I Martinetti erano personaggi di rango, istruiti e, poco a poco, furono attratti a Roma, nell’ambito vaticano, ove servirono cardinali e pontefici. Anche Pio VI, conosciuto Antonio Martinetti, volle che Giuseppe divenisse a Roma Governatore


Generale e appaltatore della Depositeria Vaticana, incarico poi assunto dal figlio Stefano. A Valentano i Martinetti restarono sino alla fine del Settecento e oltre, ma mantennero con il paese sempre ottimi rapporti fino ad alcuni anni fa. Una lunga consuetudine, quindi, alla quale non si sottrasse Francesco, che, tuttavia, non esitò a privare Nella pagina accanto, in alto: Un antiquario, olio su tela di Gerolamo Induno. 1889. Milano, Galleria d’Arte Moderna. In alto: un’altra immagine del Salone delle Feste della Ny Carlsberg Glyptotek, con il Giove di Valentano alla sinistra dell’ingresso. Qui sopra: Carl Jacobsen (1842-1914). Imprenditore nel settore della birra e grande collezionista di arte antica, fondò nel 1882 la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.

questa sua seconda patria del nostro torso di Giove, organizzandone, insieme a Helbig, la vendita alla Ny Carlsberg Glyptotek. E grande è stata l’emozione dei Valentanesi che, nel corso degli ultimi anni, hanno potuto ammirare il loro antico «concittadino», ora troneggiante in una delle sale piú importanti del museo di Copenaghen.

PER SAPERNE DI PIÚ Umberto Pannucci, Bisenzo e le antiche civiltà intorno al lago di Bolsena, Tipografia Ceccarelli, Grotte di Castro 1964 (I ed.) Umberto Pannucci, I Castelli di Bisenzo e di Capodimonte, Tipografia Agnesotti, Viterbo 1976 Rosella Di Stefano, Capodimonte. Guida alla scoperta, Annulli Editori Grotte di Castro 2016 Mette Moltesen (a cura di), Imperial Rome II, Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen 2002 Romualdo Luzi, Storia di Castro e della sua distruzione, edizione curata dal Santuario del SS.mo Crocifisso di Castro, Tipolitografia Gigli, Grotte di Castro 1987 a r c h e o 43


UN RICCO PASSATO, UN’EREDITÀ DA NON DIMENTICARE!


ALLA SCOPERTA DEI GRANDI TESORI DELL’ANTICHITÀ

ABBONATI ADESSO!

Ogni numero di Archeo è una rivelazione: scopri fiorenti civiltà, ti appassioni con reperti straordinari, leggi testimonianze attualissime, ti stupisci con segreti svelati... Non perdere un appuntamento così importante: abbonati subito.

OFFERTA RISERVATA AI NUOVI ABBONATI

4 30% NUMERI GRATIS

SCONTO

1 ANNO A SOLI 49,90 EURO ANZICHÈ 70,80 (+4,90 EURO SPESE SPEDIZIONE)

SCEGLI L’ABBONAMENTO CHE FA PER TE!

8

NUMERI GRATIS

% 38

SCONTO

2 ANNI A SOLI 87,90 EURO

ANZICHÈ 141,60 (+6,90 EURO SPESE SPEDIZIONE) LE GARANZIE DEL TUO ABBONAMENTO • RISPARMIO • PREZZO BLOCCATO • NESSUN NUMERO PERSO • RIMBORSO ASSICURATO

Chiama lo 02 211 195 91

(da lunedì a venerdì ore 9/18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario)

Scrivi a abbonamenti@directchannel.it Collegati a www.abbonamenti.it/archeo (se desideri pagare con carta di credito) Invia un fax allo 030 7772387 Invia il coupon in busta chiusa a: Direct Channel SpA - Casella Postale 97 - Via Dalmazia 13 - 25126 Brescia (BS)

TAGLIANDO DI ABBONAMENTO Pagherò in un’unica soluzione con bollettino di conto corrente postale che invierete al mio indirizzo 10 Mi abbono ad Archeo per un anno (12 numeri) a soli € 49,90 più € 4,90 per spese di spedizione anziché € 70,80 per un totale di € 54,80 (IVA inclusa) 20 Mi abbono ad Archeo per due anni (24 numeri) a soli € 87,90 più € 6,90 per spese di spedizione anziché € 141,60 per un totale di € 94,80 (IVA inclusa) 787 11 100 787 02 INFORMATIVA AI SENSI DELL’ART. 13 DEL REGOLAMENTO EU 679/2016 La presente informativa è resa ai sensi dell’art. 13 del Regolamento EU 679/2016 da Timeline Publishing srl, con sede in Via Calabria 32, 00187 Roma, titolare del trattamento, al fine di dar corso alla tua richiesta di abbonamento alla/e rivista prescelta. Il trattamento dei tuoi dati personali si baserà giuridicamente sul rapporto contrattuale che verrà a crearsi tra te e il titolare del trattamento e sarà condotto per l’intera durata dell’abbonamento e/o per un ulteriore periodo di tempo previsto da eventuali obblighi di legge. Sulla base del legittimo interesse come individuato dal Regolamento EU 679/2016, il titolare del trattamento potrà inviarti comunicazioni di marketing diretto fatta salva la tua possibilità di opporsi a tale trattamento sin d’ora spuntando la seguente casella o in qualsiasi momento contattando il titolare del trattamento. Sulla base invece del tuo consenso espresso e specifico, il titolare del trattamento potrà effettuare attività di marketing indiretto e di profilazione. Il titolare del trattamento ha nominato Direct Channel S.p.A., responsabile del trattamento per

Cognome Nome Via

N.

CAP Prov.

Località Cell.

Data di nascita

E-mail la gestione degli abbonamenti alle proprie riviste. Potrai sempre contattare il titolare del trattamento all’indirizzo e-mail abbonamenti@directchannel.it, nonché reperire la versione completa della presente informativa all’interno della sezione Privacy del sito www.abbonamenti.it/privacy, cliccando sul nome della rivista da te prescelta, dove troverai tutte le informazioni sull’utilizzo dei tuoi dati personali, i canali di contatto del titolare del trattamento nonché tutte le ulteriori informazioni previste dal Regolamento ivi inclusi i tuoi diritti, il tempo di conservazione dei dati e le modalità per l’esercizio del diritto di revoca Rilascio

Nego il consenso per le attività di marketing indiretto

Rilascio

Nego il consenso per le attività di profilazione

P 001


L’ANTICO SULLO SCHERMO • ROMA

«LUKWERKOLOI SOMOS, UELIAD GWENIMOS...» «SIAMO LUPERCI, VENIAMO DA VELIA»: È LA FRASE PRONUNCIATA – IN UNA LINGUA APPOSITAMENTE E FILOLOGICAMENTE RICOSTRUITA PER LA SCENEGGIATURA DELLA SERIE TELEVISIVA ROMULUS – DA UN GRUPPO DI GIOVANI MANDATI AD AFFRONTARE UNA PROVA DI CORAGGIO. DOPO IL SUCCESSO DEL FILM IL PRIMO RE, IL LAZIO PROTOSTORICO TORNA AD ESSERE IL TEATRO DI UNA NUOVA, SUGGESTIVA, RICOSTRUZIONE CINEMATOGRAFICA DEL PASSATO. INSISTENDO SULLA VISIONE DI UNA REALTÀ PERVASA DALLA RELIGIONE E RICORRENDO ALL’ESPEDIENTE DELLA RECITAZIONE IN LATINO, LO SPETTATORE VIENE IMMERSO IN UN MONDO DIVERSO. SIAMO LONTANI, ORMAI, DALLA STORIA ANTICA RIVISTA ATTRAVERSO I CLICHÉ HOLLYWOODIANI. MA IL RISCHIO DELLA DERIVA VERSO ALTRI STEREOTIPI È IN AGGUATO… di Umberto Livadiotti

I

n un’intervista rilasciata alcuni anni fa, il regista del Gladiatore (2000), l’inglese Ridley Scott, ammetteva che il problema piú difficile incontrato nel girare il suo film era stato quello di riuscire ad

46 a r c h e o

affrontare il tema della morte in ottica pagana e, piú in generale, di attribuire al protagonista della pellicola, il generale Massimo Decimo Meridio, profondità sul piano della spiritualità religiosa.

Piú d’una generazione di cineasti, soprattutto statunitensi, aveva infatti contribuito ad associare indelebilmente l’immagine cinematografica dei Romani a quella di gaudenti e blasfemi materialisti. I pagani


Una scena di combattimento tratta da uno degli episodi di Romulus, la serie tv creata da Matteo Rovere e ambientata nel Lazio protostorico.

che s’incontrano sullo schermo, tanto nei kolossal quanto nelle produzioni peplum e nei B-Movies girati nel secolo scorso, si rivelano in effetti figure scialbe dal punto di vista religioso: invocano continuamen-

te gli dèi alzando coppe al cielo, è vero; ma il loro coinvolgimento sembra superficiale, cinico, una semplice maschera per coprire un egoistico materialismo di fondo (che del resto ben si addice alla loro raf-

figurazione in termini di spietati dominatori del mondo). Una rappresentazione che, pochi anni fa, è stata magistralmente parodiata dai fratelli Joel ed Ethan Coen in Ave, Cesare! (2016), ma che, ancora a r c h e o 47


L’ANTICO SULLO SCHERMO • ROMA

alla fine del Novecento, era difficile da superare. Scott riuscí nell’impresa, grazie alla celebre scena iniziale, accompagnata dalla suggestiva musica di Lisa Gerrard, nella quale le dita del Romano frusciano fra le spighe di grano. Da allora, il tentativo di rappresentare i Romani immersi in una religiosità «altra», radicalmente diversa dalla nostra, è stato ripetuto piú volte, anche con un buon grado di accuratezza (è il caso, per esempio, della serie televisiva Rome, prodotta dalla HBO-BBC e andata in onda in Italia fra il 2006 e il 2009). La diffidenza e il disprezzo verso la diversità hanno lasciato sempre piú spazio alla tolleranza e alla curiosità; parte dell’opinione pubblica e della critica è divenuta molto attenta alla correttezza politica, soprattutto in ambito religioso. Per di piú, soprattutto in Nordamerica, è in continuo aumento la sensibilità alle suggestioni esercitate da filosofie esoteriche e da movimenti spirituali centrati su una visione immanentistica del mondo che, in maniera piú o meno larvata, spingono per una rivalutazione del paganesimo.

È dunque all’interno di questo quadro che dobbiamo calare l’esperimento del regista Matteo Rovere, produttore, sceneggiatore e regista del film Il Primo Re (girato alla fine del 2017, ma distribuito all’inizio del 2019) e della serie tv Romulus (10 puntate, andate in onda su Sky), ambientati nel Lazio dell’età del Ferro (precisamente nella prima metà dell’VIII secolo a.C.).

QUANDO ROMA NON ESISTEVA Tanto le vicende narrate nel lungometraggio quanto quelle della serie sono ispirate alla tradizione mitica della fondazione di Roma: nel primo, i gemelli Romolo e Remo, dopo una violenta esondazione del Tevere, si ritrovano prigionieri ad Alba Longa, da dove riescono a fuggire, premurandosi però di portare con sé il fuoco sacro, protetto da una vestale. Il loro avventuroso percorso si conclude sulle rive del Tevere, dove, al termine di un duello, Romolo uccide il fratello. La serie descrive invece le avventure di Yemos, nipote del re Numi-

tor, braccato dal prozio Amulius, il quale, dopo avergli ucciso il fratello, lo ha spodestato dal regno di Alba; in parallelo si snoda la vicenda della vestale Ilia, figlia dello stesso Amulius e di Silvia, consacratasi a Marte e trasformata in spietata vergine guerriera. Molti e vari sono i personaggi di contorno, fra cui spiccano i luperci, cioè il gruppo dei giovani di Velia mandati a sostenere una prova di sopravvivenza nella foresta; vi sono poi i devoti della dea Rumia, una tribú composta di uomini e donne decisamente selvaggi, ma abilissimi nel combattimento, che vivono nascosti nell’oscurità dei boschi in cui si sono rifugiati dopo un fallito tentativo di insediamento nel territorio latino. E, anche, Ertas, il re di Gabii; Wiros, lo schiavo ribelle che riuscirà a fare da ponte fra le tribú in conflitto; e tanti altri. I copioni, insomma, sviluppano alcune tradizioni secondarie del mito tradizionale, cercando poi, attraverso una scenografia accuratissima, di mantenersi aderenti, soprattutto nei particolari minuti della vita materiale, a quanto sapA sinistra: La Vestale sepolta viva, olio su tela di Pietro Saja. 1830. Caserta, Reggia, Quadreria. L’opera evoca la vicenda di Rea Silvia, che sarebbe stata appunto sepolta viva da Amulio. Nella pagina accanto: una scena di Romulus con Wiros (a sinistra, impersonato da Francesco Di Napoli) e Yemos (Andrea Arcangeli).

48 a r c h e o


piamo, grazie all’archeologia, della quotidianità dell’età protostorica. In queste pellicole, la religiosità è presentata come il principale degli elementi che caratter izzano il mondo pre- o protoromano. Ancestrale, mistica e violenta, assolutamente pervasiva e radicalmente

diversa rispetto ai canoni contemporanei. Sacrifici cruenti, ritualità ossessive, sacerdotesse dai tratti sciamanici immergono il mondo del Lazio della metà dell’VIII secolo a.C. in una dimensione che ci ricorda piuttosto l’universo tribale delle società amazzoniche o della

Nuova Guinea, con spiriti che animano la foresta e presenze divine, implacabili e misteriose, capaci di orientare il destino degli uomini. Ogni richiamo al classicismo viene rigorosamente evitato. Uomini coperti di maschere e tinture, capanne fatte di canne e fogliame

UNA SCENEGGIATURA FILOLOGICA A dispetto del titolo il serial Romulus non narra la storia del primo re di Roma, ma i suoi immediati antefatti. La vicenda è focalizzata attorno a personaggi in parte di fantasia in parte presenti nella tradizione letteraria antica; anche se è stato scelto di privilegiare alcune versioni secondarie. Alla base, le linee fondamentali tramandate dalla mitologia sono conservate: Amulio spodesta dal trono il fratello Numitore e condanna a essere sepolta viva la giovane vestale Ilia (piú nota come Rea Silvia, che la tradizione vorrebbe però figlia di Numitore mentre nel film è figlia di Amulio) la quale, misteriosamente posseduta da Marte, darà origine alla stirpe romana. Nel serial compaiono altri personaggi importanti, in particolare la coppia di gemelli Enitos e Yemos. Il primo corrisponde a una figura attestata nella tradizione letteraria: Aristide di Mileto, autore greco di

età ellenistica, chiama cosí il figlio di Numitore che Amulio avrebbe ucciso a tradimento durante una battuta di caccia. Si tratta di un personaggio ricordato da molte altre fonti, anche se con nomi vari (Egesto per Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, Lauso secondo Ovidio; altri, come Valerio Anziate o Livio, lo lasciano anonimo). Il secondo invece corrisponde a una figura presente nell’originario mito indoeuropeo della creazione, almeno come è stato ricostruito dagli studiosi: *Yemo («gemello») infatti sarebbe uno dei due fratelli che avrebbero dato origine al mondo: in particolare quello che sarebbe stato ucciso, o piú propriamente sacrificato, dal fratello e dalle cui ossa sarebbero poi nati gli esseri viventi. Insomma *Yemos non sarebbe altro che la forma proto-latina da cui i linguisti fanno discendere il latino Remus.

a r c h e o 49


ci ricordano che il passato, anche quello di Roma – e a maggior ragione le sue origini, che si perdono nel mito –, resta per noi una «terra incognita». Paradossalmente, segno supremo di questa lontananza è la lingua parlata in queste produzioni, per apparente esigenza di realismo documentario (sottotitolata o, a scelta, doppiata in italiano): un latino ancora piú 50 a r c h e o

antico di quello, per intenderci, della fibula prenestina (la cui celebre iscrizione, Manios med fhefhaked Numasioi – che in latino classico avrebbe suonato Manius me fecit Numerio – dovrebbe risalire al VII secolo a.C.).

lingua presenta infatti il paradosso di mostrarci, al contrario del latino che studiamo a scuola, un idioma vivo, sonante; ma assolutamente estraneo, incomprensibile, fatto di sonorità gutturali inattese per quanti sono abituati a leggerlo con la pronuncia ecclesiastica. UNA LINGUA INVENTATA Ricostruita (o meglio immagi- Si tratta di una scelta intellinata a tavolino) da un manipo- gente, poiché, per la solennità lo di filologi e linguisti, questa dei contesti in cui sopravvive-


Un villaggio di capanne realizzato per la serie Romulus. La ricostruzione è abbastanza fedele a quanto documentato dall’archeologia per questo genere di strutture, salvo che per le finestre.

va, il latino preletterario si proponeva, già agli stessi antichi – che spesso non ne avevano piú chiaro il significato neppure quando continuavano a usarne le formule sacrali – come una lingua capace di emanare fascino e incutere soggezione. Per fare un esempio, Satur fu fere Mars limen sta berber intonavano suggestivamente, ancora all’inizio del III secolo

d.C., i membri del collegio noto o di riconoscere finalsacerdotale degli Arvali. mente un vocativo... Potrebbe essere un segno positivo, un segnale che la storia INCOMPRENSIBILE antica, quella romana e italica, EPPURE FAMILIARE Il misto di incomprensibilità e sia ormai percepita come molfamiliarità di questo protolati- to lontana, «diversa», e non piú no (che non sarebbe altro poi semplicemente come legata alche il «proto-proto-italiano») le vicende dei nostri avi (che, in sembra aver riscosso un buon quanto tali, dovevano somifavore fra gli spettatori, felici di gliarci parecchio). captare, qua e là, un vocabolo È la stessa direzione, per a r c h e o 51


L’ANTICO SULLO SCHERMO • ROMA

esempio, su cui si sta lavoranA destra: urna do da decenni nelle scuole, o cineraria a almeno in alcune scuole, dove capanna. latino e greco vengono inseX-IX sec. a.C. gnati non piú per riproporre Nella pagina l’esemplar ità del modello accanto, in basso: classico, bensí per evidenziare, Fidene (Roma). La le une accanto alle altre, conricostruzione di tinuità e diversità culturali. una capanna

DAL CLASSICISMO ALL’ETNOLOGIA A Roma, «esiliati» da decenni nel quartiere dell’EUR, a pochi isolati l’uno dall’altro, hanno sede due delle piú importanti istituzioni museali italiane attinenti all’antichità. Uno, purtroppo chiuso al pubblico da anni, è il Museo della

dell’età del Ferro realizzata sulla base dei resti di una struttura rinvenuta nell’area negli anni Ottanta del Novecento.

IL FUOCO E LA CAPANNA È buio. Una notte di gennaio non piú fredda delle altre. A Roma, nell’estrema periferia nord della città, la mano di qualcuno, forse un giovane in vena di spacconate o chissà chi, appicca il fuoco a una capanna di fango e frasche all’interno di una cancellata. Ma non è una capanna qualsiasi. Siamo sul versante settentrionale di una piccola altura a ridosso del Tevere, che in questo punto scorre parallelo alla via Salaria, a un paio di minuti di macchina dal Grande Raccordo Anulare: una collinetta fagocitata dall’urbanizzazione che negli ultimi decenni ha ricoperto tutta la zona, saldando la città al borgo un tempo extraurbano di Fidene. Qui, alla fine degli anni Ottanta, nel corso di alcuni lavori di sterro vennero rinvenuti i resti di un’abitazione dell’età del Ferro (fine del IX secolo a.C.: un paio di generazioni al massimo prima della

52 a r c h e o

mitica data tradizionalmente corrispondente alla fondazione di Roma). Intervenne la Soprintendenza, che avviò uno scavo archeologico vero e proprio; poi, in collaborazione con il Comune, si decise di innalzare a pochi metri dal rinvenimento una ricostruzione dell’edificio in scala 1:1, utilizzando materiali e tecniche costruttive per quanto possibile simili a quelle originarie. Il progetto si è rivelato forse troppo ambizioso, poiché la capanna è stata lasciata invecchiare all’interno di una cancellata eternamente chiusa, fiancheggiata da un sentiero coperto da ciottoli, terriccio e fogliame dentro un giardinetto di periferia. Accanto alla ricostruzione, in uno spiazzo sterrato circondato da qualche panchina, un lampione e un paio di alberi, restano, piantati nel terreno, poco meno di una trentina di

paletti, a segnalare i punti precisi in cui sono state rinvenute le tracce di fondazione della capanna. Ovvero le buche in cui erano infissi i pali verticali che sostenevano la copertura dell’edificio, presumibilmente un tetto a spiovente fatto di fibre vegetali, con ogni probabilità canne palustri: quattro pertiche al centro e un altro giro di pali piú esterno, oltre il muro perimetrale della capanna (muro eretto probabilmente con la tecnica del pisé: un getto di terra cruda e un misto di pietrisco, paglia e letame lasciato compattare entro casseforme mobili e armato da stanghe verticali). La costruzione era a pianta rettangolare (6,20 x 5,20 m per una superficie abitabile di quasi 30 mq) e aveva un ingresso porticato. Dalla disposizione dei ritrovamenti si è dedotta la divisione funzionale degli spazi interni della struttura:


Civiltà Romana, che raccoglie plastici e ricostruzioni in buona parte modellati in occasione delle mostre della romanità del 1911 e 1937. Per quanto a carattere fortemente didascalico e sebbene concentrato principalmente sugli aspetti della vita quotidiana, si tratta di un museo che, per origini e finalità, esalta la classicità. L’altro è il Museo Preistorico ed Etnografico intitolato a Luigi Pigorini (oggi ricompreso nel Museo delle Civiltà), che proprio con la sua denominazione ci ricorda come, sin dagli La Fibula Prenestina. VII sec. a.C. Roma, Museo delle Civiltà, Museo Nazionale albori, l’archeologia preistorica Preistorico ed Etnografico «Luigi Pigorini». Lungo la staffa corre un’iscrizione (segue a p. 56) di dono in latino arcaico: Manios med fhefhaked Numasioi.

sulla sinistra di chi entrava, lí dove sono stati rinvenuti alcuni dolii interrati, doveva essere una zona destinata a magazzino; piú centrale il focolare. Contrariamente a quelle ricostruite sul set di Romulus, la

capanna di Fidene non doveva avere finestre (che gli scenografi hanno invece voluto per ragioni di sicurezza): possiamo avere un’idea del suo aspetto non solo confrontandone i dati di scavo con

quelli delle fondazioni rinvenute a Ficana, a Cures e in altre località del Lazio (compreso il Palatino), ma, soprattutto, osservando le riproduzioni, in bronzo o terracotta, offerte dalle urne cinerarie dell’età del Ferro (che si possono ammirare, per esempio, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia). Dalla capanna di Fidene gli sceneggiatori hanno invece tratto uno spunto originale: la presenza di un gattino! Proprio il contesto archeologico di Fidene, infatti, ha restituito la piú antica attestazione di gatto domestico a oggi nota in Italia. La capanna antica fu distrutta con ogni probabilità da un incendio, che, facendo crollare le pareti, ne sigillò gli arredi interni. Fortunatamente, invece, il fuoco appiccato un anno fa dall’anonimo piromane alla replica moderna ha danneggiato solo alcune travi del tetto e la porta.

a r c h e o 53


L’ANTICO SULLO SCHERMO • ROMA

ANCHE VARO PARLA LATINO Si è da poco concluso il passaggio televisivo della serie tedesca Barbari (Barbaren), prodotta da Netflix. Con ritmo e dinamicità, vi si racconta (non senza una buona dose di fantasie e inesattezze, come del resto si conviene a una fiction) la storia di quella che i Romani chiamavano la clades Variana, l’imboscata che in pochi giorni, nell’estate del 9 d.C., portò le tre legioni romane comandate da Quintilio Varo alla totale distruzione in una foresta nel Nord della Germania. Nel sequel, già annunciato, si racconteranno presumibilmente la cattura della principessa Tusnelda da parte dei

54 a r c h e o


Romani e le ulteriori gesta di Arminio, l’artefice della vittoria narrata in questa prima serie. In realtà alla battaglia di Teutoburgo e al suo protagonista vittorioso, Arminio, sono state già dedicate numerose pellicole, quasi tutte prodotte in Germania. Quattro anni fa gli era stato riservato un episodio anche dalla mini-serie Sulle due pagine: tre dei protagonisti della serie televisiva tedesca Barbaren, prodotta da Netflix.

Da sinistra, Folkwin (David Schütter), Arminio (Laurence Rupp) e Quintilio Varo (Gaetano Aronica).

statunitense di docu-drama televisivi Barbarians. Roma sotto attacco. La piú antica fra le pellicole intitolate ad Arminio, di cui sopravvive un solo esemplare (ritrovato peraltro negli archivi moscoviti dopo la dissoluzione dell’URSS), risale al 1922, quando il cinema era ancora muto. Nel Barbari di Netflix i Germani recitano in tedesco moderno e sono doppiati nella lingua dello spettatore, mentre i Romani parlano latino e vengono sottotitolati e anche per questo la serie è stata accusata di offrire una rappresentazione manichea della vicenda, con buoni (i barbari) contro cattivi. Ma questa, del resto, è la logica binaria che regola i plot narrativi delle fiction. Non mancano comunque aspetti apprezzabili: appare per esempio ben espressa l’immagine della spiccata divisione tribale nel mondo germanico. L’uso del latino non è una novità: già nell’eccentrico Hermannsschlacht, girato in Germania fra il 1993 e il 1995, i Romani parlavano un latino sottotitolato, ma in quella bizzarra pellicola la finalità non era certo realistica. In Barbari, l’uso del latino marca invece lo «scontro di civiltà». Arminio, principe germanico cresciuto a Roma (nella fiction

addirittura come figlio adottivo di Varo!), cerca inizialmente di fare da ponte fra i due mondi; ma quando capisce che il suo inserimento al vertice della società romana costituisce solo una forma di strumentalizzazione e che, in quanto barbaro, non potrà che essere sempre rifiutato, reagisce, organizzando un tradimento in complicità da confare i suoi vecchi amici Didascalia Ibusdae evendipsam, officte Come erupit già antesto rimasti nei boschi. taturi cum ilita quatiur restrum accadeva in unaut imbarazzante film di eicaectur, blaborenes ium produzionetesto italo-tedesca-jugoslava, quasped quos non etur distribuito in Italia nelreius 1966 nonem col titolo quam expercipsunt quos rest magni Il massacro della foresta nera, il autatur teces enditibus teces. drammaapic di Arminio si sviluppa insomma come una «storia di redenzione» (la pellicola degli anni Sessanta si chiudeva con la rivincita dei Romani e il sacrificio di Arminio: chissà come si svilupperà invece questa nuova serie!). L’ipotesi introspettiva, che presenta la vicenda di Arminio come esito di una «mancata integrazione», non è del tutto priva di suggestione o plausibilità, ma rimane di fatto assolutamente sprovvista di appigli documentari. E rende paradossale la rappresentazione di un mondo, come quello romano, che proprio della capacità di integrazione, soprattutto delle élite, fece la chiave del suo secolare successo. a r c h e o 55


L’ANTICO SULLO SCHERMO • ROMA

abbia attinto alle suggestioni dell’etnologia (del resto, vale anche il contrario: partendo dall’analisi di rituali attestati nei mitografi e storici antichi, come per esempio quello del rex nemorensis, James Frazer scrisse alla fine dell’Ottocento Il ramo d’oro, testo fondante dell’antropologia culturale).

MARMI CANDIDI E SQUILLI DI BUCCINA... In passato, per narrare visivamente la storia romana arcaica, e persino la preistoria romana (le vicende di Romolo, Remo e dei loro progenitori), pittori, disegnatori e scenografi hanno attinto tradizionalmente al materiale che ritroviamo nel primo di questi musei. Come se, per riconoscere la romanità di una ambientazione di qualsiasi epoca – monarchica o tardo-antica –, fosse necessario associarle qualcuna delle immagini stereotipate che la qualificano a tutti come tale: riccioli ben disposti sulla fronte, templi in marmo candido, soldate-

sche a passo cadenzato, accompagnate da squilli di buccina. Ora, con Il Primo Re e Romulus, la fantasia ricostruttiva degli autori sembra aver finalmente spostato il proprio cantiere nell’altro museo, che è quello che ospita effettivamente i reperti dell’età del Ferro (compresa la Fibula Prenestina ricordata piú sopra). Tuttavia, gli esiti di questa operazione non mancano di ambiguità, proprio a partire dal ricorso a quello che potremmo definire l’«immaginario etnografico», o forse, piú onestamente, «coloniale». Da almeno tre secoli cerchiamo di colmare le informazioni mancanti sul mondo antico ricorrendo agli scenari offerti dalle società che ci appaiono arretrate, in base alla discutibile analogia fra A destra: un’altra scena di Romulus. In basso, a sinistra: Dwayne Johnson in Hercules. Il guerriero (2014). Nella pagina accanto, in basso: Gordon Scott e Steve Reeves in Romolo e Remo (1961).

ERCOLE. LA METAMORFOSI DI UN EROE Nel 1961, quando la Titanus incaricò Sergio Corbucci di girare un film su Romolo e Remo, la scelta dell’attore protagonista cadde su Steve Reeves, il culturista californiano che da un paio d’anni aveva riportato in

56 a r c h e o

auge, a livello massmediatico mondiale, la figura del mitico Ercole. A rivestire i panni di Remo fu chiamato Gordon Scott (ben noto al pubblico come interprete di Tarzan). Sguardo franco, risata sonora, muscolatura prorompente e acconciatura ben modellata, questi attori incarnavano il prototipo di un eroismo senza macchia e senza paura. Abbronzati, depilati e oliati, grazie a loro gli eroi antichi spopolarono per un decennio nelle sale cinematografiche non solo italiane, ma anche americane, trasmettendo una visione della realtà ottimistica e priva di sfumature, dove il cattivo restava cattivo fino in fondo e il buono non cadeva in tentazione. Viceversa, quando alla fine degli anni Novanta, dopo un lungo periodo di disaffezione da parte del pubblico, è tornata nuovamente ad affermarsi una produzione massmediatica incentrata sugli eroi greci e romani (non solo pellicole, ma anche videogame, fumetti, siti on line), tale produzione si è caratterizzata per le atmosfere dark, le tonalità cromatiche cupe e la truculenza dei combattimenti. Non è strano, pertanto, che questa nuova rilettura


dell’antichità abbia puntato alla valorizzazione proprio di quell’Ercole che i peplum interpretati da Reeves e Scott avevano ridotto a luminoso supereroe. Si tratta, invece, di un personaggio complesso, protagonista di una vicenda ricca di brutalità e ambiguità (nel mito infatti l’eroe greco si rende piú volte responsabile di violenze omicide causate da attacchi di follia). Nel 2014 Ercole si ritrovò a essere protagonista, in un solo anno, addirittura di tre film differenti (uno dei quali destinato però al solo circuito televisivo). Nella piú interessante di queste pellicole (in italiano Hercules. Il guerriero, di Brett Ratner con Dwayne Johnson «The Rock» nel ruolo dell’eroe) si assiste a una specie di metamorfosi di Ercole, un tempo lucido bodybuilder, e ora invece personaggio cupo e sporco, dolente, dal passato intorbidito da zone buie. In realtà il film è una trasposizione sul grande schermo della graphic novel Hercules: The Thracian Wars, sceneggiata nel 2008 da Steve Moore. Si dice che sia stato espressamente l’editore Barry Levine a commissionare al fumettista una storia che

demitizzasse l’eroe. E cosí nella graphic novel, come poi nel film, Ercole torna a essere un semplice uomo, carico di angosce, le cui imprese, poi cantate con esagerazione dagli aedi, vengono compiute solo grazie all’aiuto di una gang di eccentrici combattenti, fra cui l’immancabile donna guerriero: Atalanta!

a r c h e o 57


L’ANTICO SULLO SCHERMO • ROMA

Ancora una scena della serie Romulus. Come molte altre, si svolge in un bosco, che è il paesaggio ricorrente nel quale si è scelto di ambientare gran parte della vicenda.

tecnologicamente primitivo e cronologicamente primordiale. Ma nel frattempo, proprio grazie a cinema e tv, alcuni tratti delle culture etnologiche si sono cristallizzati in cliché iconografici tenaci e seducenti (penso, in particolare, alla rappresentazione dei nativi americani), di cui è possibile rintracciare nelle pellicole di Rovere diversi riflessi, anche impropri. Quindi il rischio dell’appiattimento su un immaginario preconfezionato esiste anche in questa prospettiva. Inoltre, l’affrancamento dell’ambientazione 58 a r c h e o

storica dalla coloritura classicistica ha aperto la strada a suggestioni di natura piú tipicamente cinematografica, che possiamo cogliere, per esempio, nella caratterizzazione del paesaggio.

UOMINI DEI BOSCHI Nelle pellicole di Rovere, giustamente, non vediamo campagne ordinatamente dissodate, lotti di terra ben squadrati e messi a vigna, o possenti arcate di acquedotti sullo sfondo. Il panorama ambientale di Romulus, come già quello del Primo Re, è tutt’altro, fatto soprattutto di boschi.

Boschi temuti, venerati, attraversati in viaggi di iniziazione o in fughe per la sopravvivenza. E paludi. E poi uomini, avvolti in pellicce, che cavalcano per le praterie. Al di là della sostanziale verosimiglianza della ricostruzione, avvertiamo la contaminazione con i luoghi e le atmosfere cari al genere fantasy. Il lavoro ricostruttivo sulla lingua e la religiosità finisce cosí per sbilanciare la ricostruzione – che avrebbe invece potuto assumere tinte piú mediterranee – verso atmosfere «nordiche», tipiche, per l’appunto, del fantasy (a proposito


TOPOGRAFIA ANTICA E SET MODERNI

di Romulus, c’è chi ha individuato una tendenza «barbarizzante» addirittura nella grafica del titolo, redatto in parte con lettere che evocano caratteri runici). I nomi stessi dei personaggi richiamano suggestioni tolkeniane (persino re Numitor, almeno a tutti quelli che per una vita lo avevano chiamato Numitore, sembra uscito da una saga nordica). Anche le atmosfere dark e l’insistenza su scene di violenza riflettono un cedimento al gusto del pubblico, che proprio queste caratteristiche ha mostrato di ap-

Sia gli esterni del Primo Re che quelli della serie Romulus sono stati girati interamente nel Lazio, anche se in luoghi diversi da quelli evocati. Alcune riprese hanno usufruito dello sfondo offerto dal paesaggio della Tuscia (per esempio, il lago del Pellicone nel Parco archeologico di Vulci), mentre altre sono ambientate piú a sud, nel Latium Vetus, in particolare fra il Tevere e i Colli Albani. Sul set sono stati ricostruiti, con qualche inesattezza ma con buon impatto scenico, anche gli agglomerati protourbani di Velia, Alba e Gabii, tre centri latini aderenti all’alleanza dei «trenta popoli» (formula che riflette una tradizione nota da Dionigi di Alicarnasso e Plinio il Vecchio). Il villaggio di Velia, che doveva sorgere su una delle sommità del Palatino (precisamente l’altura di fronte al Colosseo, cancellata negli anni Trenta del secolo scorso dalla costruzione della via dell’Impero, l’odierna via dei Fori Imperiali), è stato ricostruito su un terreno adiacente Cinecittà World, poco lontano da Roma; Gabii è stata invece ricostruita nei pressi di Pomezia, accanto allo specchio d’acqua

abbandonato della locale solfatara. In realtà, Gabii era situata una trentina di chilometri piú a nord, ai bordi del lago di Castiglione (il fondo acquitrinoso di un antico cratere vulcanico, prosciugato e bonificato alla fine dell’Ottocento). Fra gli anni Settanta e Ottanta, nelle sue vicinanze, in località Osteria dell’Osa, è stata scavata un’importante necropoli, i cui reperti, risalenti all’età del Ferro, sono ora esposti (assieme a quelli provenienti dalle tombe principesche portate alla luce nel 2009 a La Rustica, presso l’antica Collatia) nella sezione di Protostoria dei Popoli Latini, all’interno del Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano. L’impenetrabile foresta fra Gabii e Velia, in cui i giovani luperci incontrano i devoti della dea Rumia e Yemos in fuga da Alba, corrisponderebbe invece alla zona in cui oggi, a cavallo del Grande Raccordo Anulare e poi fin dentro Roma, pezzi di campagna si alternano a capannoni industriali, centri commerciali e soprattutto insediamenti urbani ad altissima densità abitativa (come Tor Bella Monaca, Centocelle, il Pigneto).

prezzare nella piú recente produzione filmica ambientata nell’antichità (il cosiddetto neopeplum: 300, Troy, Spartacus e i nuovi Hercules; vedi box alle pp. 56-57).

formidabili (vedi box alle pp. 54-55). Questa contaminazione, legittima sul piano artistico, corre il rischio, con il suo carico di fango, sangue e oscurità, di appesantire la percezione di un’epoca, cosí faticosamente emancipata dalla cappa del classicismo. Un’epoca ritratta come un periodo buio, d’angoscia e violenza. Un mondo selvaggio, la cui bestialità finisce, paradossalmente, per restituire al mondo classico una patina di superiorità. A meno che, per l’ennesima volta, non si stia semplicemente raccontando un mito. E il mito, si sa, non ha storia.

GUERRIERE FORMIDABILI Non a caso, boschi e violenza permeano anche un altro, recentissimo, serial tv prodotto in Germania, Barbaren, che con Romulus non condivide solo la recitazione in latino, ma anche la presenza, fra i protagonisti, di giovani sacerdotesse destinate a impugnare la spada e dimostrarsi, con gestualità da samurai, guerriere

a r c h e o 59


LUOGHI DEL SACRO/1

Veduta del Mount Hikurangi (Nuova Zelanda), montagna che la locale tribú degli Ngati Porou considera sacra e sulla quale si conservano queste grandi sculture in legno scolpito che ritraggono il dio Maui e la sua famiglia.

60 a r c h e o

LA

DIMORA ,

DEGLI DEI di Sergio Ribichini

La ricerca archeologica pone spesso di fronte all’osservatore monumenti di carattere religioso, per il semplice fatto che santuari, sacelli e altri ambienti di questo tipo sono tra le memorie del passato meglio conservate. La loro interpretazione come luoghi sacri dipende innanzitutto dalla natura dei ritrovamenti. Nel caso piú frequente è la stessa struttura architettonica di un’installazione a rivelarne la destinazione cultuale o la connessione con una particolare manifestazione di ciò che è ritenuto sacro; in altri casi la connotazione sacrale si deduce dal rinvenimento di oggetti e manufatti in tal senso qualificanti, come ex voto, iscrizioni, statue o altri oggetti indicativi di un culto.


T

opografia del sito, pratiche rituali e credenze religiose possono essere intesi come i tre elementi capaci di individuare in autonomia un luogo consacrato. Tuttavia, definire uno spazio come «luogo sacro» è meno facile di quanto possa sembrare a prima vista. Dipende, in primo luogo, dal significato che l’osservatore moderno assegna a questa qualificazione, e al contempo, piú o meno indipendentemente, anche dal valore attribuito al termine «sacro» nella cultura in esame, correlatamente a quanto, nell’uno e nell’altro caso, può essere distinto come «profano». Dal punto di vista terminologico, poi, il «sacro» è un concetto individuato originariamente nelle religioni del Mediterraneo antico, poi arricchito con valori derivati dall’etnologia (mana, tabu, ecc.), e giunto a rappresentare uno degli strumenti per l’interpretazione moderna dei fatti religiosi. Nelle antiche lingue semitiche, e particolarmente in ebraico, il termine qodesh esprimeva la nozione di consacrazione/appartenenza a Dio e di purità religiosa, in riferimento a oggetti, luoghi e persone. Nell’Islam sono haram, inviolabili, i luoghi resi sacri dalla presenza divina e dagli atti religiosi (a cominciare dalla Ka‘ba e dai territori della Mecca), accessibili solo per il credente purificato. Nel mondo indiano la parola caitya designa in origine le caverne usate per le sepolture; indica poi i tumuli funerari e successivamente edicole con immagini cultuali, infine la sala monumentale con abside e navate, tipica del convento buddhista. Un particolare significato religioso si riconosce anche al termine tirtha, che indica inizialmente fiumi (si pensi al Gange), abbeveratoi, guadi o siti per fare il bagno lustrale. Nel lessico greco sembra possibile individuare un’alternativa tra hieros e hagios, per indicare rispettivamente il sacro come qualcosa di diverso e potente, e il sacro come oggetto di rispetto e timore. Nell’antica

Roma una tripartizione stabilita già alla fine dell’età repubblicana distingue le res sacrae (consacrate ritualmente) da quelle religiosae (principalmente le tombe) e dalle sanctae (le cose dotate di una sanctio legale, per esempio le mura o le porte di una città).

SPAZIO ASSOLUTO E SPAZIO RELATIVO In generale, per caratterizzare il sacro si possono utilizzare due criteri: da un lato sta il sacro per separazione, ciò che è stato scisso dall’uso quotidiano; dall’altro il sacro in positivo, la qualità indefinibile, ma evidente nei suoi effetti che distingue dal consueto taluni esseri e cose. Riserva e timore distinguono il primo aspetto, ammirazione e ricerca di familiarità il secondo. Tuttavia, nell’osservare ciò che nelle varie civiltà tende a differenziare lo spazio sacro rispetto al profano, lo studioso è chiamato a rendere conto non già di un’esperienza assoluta del sacro, come qualcosa di obiettivamente esistente, bensí delle ragioni per cui certi luoghi assumano carattere religioso, di volta in volta, in risposta a esigenze diverse. Pochi esempi chiariranno meglio il giudizio. La terra coltivabile può avere un valore sacro differente, a seconda che a identificarlo sia una popolazione di agricoltori oppure di allevatori, di nomadi o di marinai. Analogamente, una grotta può recare traccia di un culto funerario, eroico, divino, salutifero, ctonio, ecc., in dipendenza di significati a essa riconosciuti in una determinata cultura o tradizione mitica. Una tipologia dello spazio consacrato non può perciò rispondere a criteri fondati sulla semplice esperienza paesaggistica o a una generica sacralità della natura. Parimenti, una distinzione tra luoghi sacri urbani ed extraurbani, rurali, marittimi, o montani, nazionali, tribali o sovranazionali può assu-

a r c h e o 61


LUOGHI DEL SACRO/1

mere valori diversi secondo la civiltà in esame e le differenti visioni del mondo che li hanno espressi. Sul piano storico, insomma, non ha importanza che cosa sia una grotta, una roccia o una fonte in assoluto, o se riveli qualcosa di trascendente; interessa invece conoscere che cosa una certa cultura, a seconda delle circostanze, vuole che la grotta, la roccia, la fonte siano, e perché, nella loro connessione con altri elementi culturali, politici, sociali, religiosi. Da un simile punto di vista, un primo elemento da rimarcare è il processo di sacralizzazione di determinati spazi, che vengono sottratti alla dimensione profana mediante l’attribuzione di valori simbolici peculiari. Tale processo concerne da un lato luoghi costruiti specificamente dall’uomo per finalità religiose e, dall’altro, luoghi naturali, adibiti allo stesso scopo; riguarda luoghi nei quali si può entrare fisicamente, ma

anche luoghi immaginari, ove entrare simbolicamente, o visivamente. Risvolti di sacralità s’individuano allo stesso modo nella configurazione topografica di certi siti, quando a essa si riconoscono contenuti particolari: il «centro», per esempio, può avere un carattere positivo rispetto alla «periferia», analogamente all’orientamento e alle direzioni. Connotati sacrali investono anche la configurazione marginale di taluni luoghi, come soglie, crocicchi, vestiboli e confini. In teoria la sacralità dello spazio non esclude neppure un luogo del tutto profano, per via che lo stesso posto può essere sacro e non, in differenti punti di vista o circostanze. Nella cultura tradizionale maori (Nuova Zelanda), per esempio, la latrina segna il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti; come tale, gode di una sacralità specifica, relativa a particolari momenti del mito o del rito. Nell’India vedica, per

Impronte di mani su una parete rocciosa del sito preistorico di Pra Thu Pha (provincia di Lampang, Thailandia). Una delle interpretazioni ricorrenti di questo genere di raffigurazioni è che esse siano legate alla sfera del rito.

62 a r c h e o


altro verso, non c’erano templi o aree consacrate per- mèta, proprio per questo, di pellegrinaggi, ispirati al manenti; il luogo sacro veniva costituito di volta in desiderio di sperimentare cure miracolose o motivati volta, presso singoli individui o località, mediante l’in- dalla ricerca d’una salvezza interiore e dalla volontà di migliorare la propria sorte (si pensi ai santuari dei stallazione di tre focolari e dell’altare. Gli spazi possono apparire sacralizzati in relazione alle culti misterici nell’impero romano). Lo spazio sacro origini di un popolo, come localizzazione di eventi serve, in terzo luogo, con i suoi simbolismi, come primordiali, oppure perché sede della manifestazione di rappresentazione iconografica del mondo, prototipo una presenza potente (si pensi al culto delle reliquie, ai di un regno ultraterreno, proiezione ideale dell’unicentri oracolari e salutiferi) o, ancora, perché localizza- verso e ripetizione di una cosmogonia, luogo d’origino materialmente luoghi immaginari (territorio dei ne e di ordinamento perfino del tempo. morti, Olimpo degli dèi, ecc.). La forma di un sito può Vi sono infine spazi che appaiono sacralizzati in raptalora dare senso specifico alla sacralità che a esso viene porto alla loro utilità economica e sociale, nella misura in riconosciuta proprio per essere collegato a punti carat- cui rappresentano l’ambito delle attività dei vari grupteristici della natura. In differenti culture vari luoghi pi umani, costituiscono il centro di produzione, consunaturalmente eminenti suggeriscono la presenza di una mazione e redistribuzione della ricchezza, s’identificapotenza extraumana, che abita o s’identifica con boschi, no con la sede del potere o funzionano come elemento di coesione per la società, favorendone l’unità. fiumi, sorgenti, grotte e sporgenze rocciose. In questi casi, in un certo senso, l’uomo si limita a ri- Il recinto del bestiame è luogo sacro per gli allevatori; conoscere la sacralità degli spazi in questione, che di- il mare assume caratteri sacri per pescatori e marinai; pende dal suo volere solo nella misura in cui egli inter- il suolo si esprime come spazio per la coltivazione e sede della potenza ctonia viene per dare forma e per culture di agricoltori; accessibilità ai luoghi stesla foresta o il deserto si Valenza sacrale si, o nello stabilirne la sedi valenze sacraparazione rispetto allo possono assumere la terra caricano li presso popoli cacciatospazio profano. In altri cari-raccoglitori o nomadi. si, invece, la sacralità di un per i contadini, il mare Ma il discorso investe sosito deriva direttamente per i naviganti o la foresta prattutto i templi delle dalla volontà umana, che antiche culture orientali sceglie e costruisce i luoper i cacciatori e classiche: santuari che ghi in cui far abitare la battevano moneta e fundivinità. Il posto sacro, in ogni caso, si configura come un non-luogo, nel senso zionavano come sedi per l’accumulazione di ricche costituisce uno spazio delimitato nello spazio e chezza pubblica, organizzavano fiere commerciali, guidavano imprese coloniali, erano luogo d’incontro ritagliato dal mondo circostante. Un secondo elemento da rilevare è quello degli atteg- e di raccordo comunitario. giamenti rituali che concernono il rapporto uomo- Questo, a grandi linee, il quadro generale sui «luoghi spazio consacrato. A questo proposito possiamo distin- del sacro» a cui dedicheremo una serie di interventi guere i riti di determinazione degli spazi religiosi sulla nostra rivista, a cominciare da quanto scriviamo (mediante aruspicina, incubazione, o altre forme divi- qui, a mo’ d’introduzione. Come i saggi che seguiranno natorie, per stabilire posizione, orientamento e se- nei prossimi fascicoli, queste pagine sono dedicate in quenze di costruzione di un edificio sacro), dai riti specie all’edificio templare, che rappresenta lo spazio di destinati a trasformare simbolicamente lo spazio co- culto caratteristico delle civiltà del mondo antico. struito o stabilito dall’uomo in uno spazio di valore Non abbiamo certo la pretesa di esaurire l’argomento, cosmico, nonché dai riti che piú propriamente quali- né di esporne tutti gli aspetti e gli esempi storici; conficano come tale lo spazio consacrato, mediante inter- tiamo piuttosto di offrire un panorama storico suffidizioni e prescrizioni sull’accesso a esso (abbigliamen- cientemente rappresentativo delle diverse realizzazioni del tempio nel santuario, muovendo in particolare to, esclusioni, rituali di purificazione, ecc.). Un terzo elemento da porre in evidenza concerne la dal Vicino Oriente preclassico verso la Grecia e Rofunzione dello spazio sacro, connessa innanzitutto alla ma. Seguiremo soprattutto la genesi, gli elementi copossibilità che ivi si offre di entrare visivamente in muni e gli sviluppi specifici del binomio caratteristico contatto col sovrumano. In tal senso, lo spazio sacro è dei sistemi politeistici: quello del rapporto tra lo spatipicamente un luogo di purità, che rivela un ordine zio dedicato e il culto intitolato a esseri superiori ideale e riflette la grandezza divina. In secondo luogo considerati nel loro complesso (il «pantheon») come esso è l’ambito dell’intervento sovrumano, spesso espressione deificata della realtà esistenziale. a r c h e o 63


LUOGHI DEL SACRO/1

UNA CASA PER LA DIVINITÀ

I

l tempio, si dice, è il luogo sacro specifico delle civiltà cosiddette superiori, soprattutto là dove la religione è caratterizzata dalla credenza in una pluralità di esseri divini. L’osservazione è giusta e trova riscontro costante nella documentazione archeologica, passata e recente. Eppure l’edificio templare non è un presupposto ovvio del politeismo: Erodoto e Tacito, per esempio, registrano forme di sacralizzazione spaziale, presso popoli considerati barbari, diverse da quelle in uso in Grecia e a Roma. Scrive il primo (I 131), a proposito dei Persiani: «Non ritengono lecito innalzare templi e altari e addirittura rimproverano di follia quelli che lo fanno, perché, a quanto credo, non reputano gli dèi simili all’uomo, come fanno invece i Greci. Essi sono soliti tributare sacrifici a Zeus salendo sulle cime piú alte dei monti e chiamano Zeus tutto l’orizzonte del cielo». Tacito, da parte sua, afferma che presso i Germani «chiudere gli dèi entro muri o raffigurarli in spoglie umane sembra cosa poco adatta alla grandezza degli abitanti del cielo; essi consacrano loro boschi e foreste e danno il nome di dèi a questa realtà misteriosa che vedono soltanto con la loro pietà» (Germania IX 3). D’altro canto, anche le civiltà che piú compiutamente hanno realizzato il politeismo, come la Grecia e Roma, conoscono luoghi di culto «naturali», estranei all’architettura templare. Le origini di questa vanno cosí ricercate nella combinazione di due diverse realtà: lo

64 a r c h e o

sviluppo della civiltà urbana e quello delle immagini divine. Per un popolo che vive in agglomerati cittadini e che venera divinità alle quali attribuisce qualità e sembianze simili a quelle umane, la dimora divina è per forza analoga a quella della gente importante: il dio vive nel tempio come il re nel suo palazzo, attorniato dal seguito (le divinità minori) e dai domestici (i sacerdoti). Cosí siamo autorizzati a delimitare l’area semantica del nostro termine «santuario», riconoscendola nella nozione di «abi-

Una scena di libagione dipinta all’interno di una coppa attica a figure rosse, da Vulci. 480 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: tavoletta con il testo di un rituale da compiersi nel tempio di Anu, da Uruk. III-II sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

tazione divina» in senso lato, includendovi cioè non solo lo spazio residenziale, ma anche l’area che lo circonda (cortili, magazzini), con esso adibita al culto divino. Il lessico ratifica quest’uso, dal momento che un po’ tutte le lingue antiche concordano nell’indicare con la stessa parola utilizzata per «casa» l’edificio in cui gli uomini «fanno abitare» la divinità. Si va dal sumerico é (oppure e2), la «casa» e dall’egiziano hwt all’accadico bîtu, analogamente attestato nella forma bt anche in ugaritico, ebraico e fenicio, per indicare il tempio, il palazzo, la casa, e perfino il sepolcro (in quanto «dimora per l’eternità»).

LA CELLA E IL FOCOLARE Lo stesso criterio s’incontra in greco e in latino, dove troviamo rispettivamente naós e aedes per indicare l’edificio dove dimorano gli dèi. Il primo rinvia al verbo naíô, «abitare», ma, a differenza dei termini sopra citati, si riferisce alla cella entro la quale si trova la statua divina e non si usa per abitazioni private; il secondo (il latino aedes) in origine ha il valore di «focolare», viene perlopiú precisato da un aggettivo, come aedes sacra, e seguito quasi sempre dal nome del dio titolare. Accanto a naós, inoltre, troviamo in greco altri due termini fondamentali: témenos e hierón. Il primo, con riferimento al verbo témnô, «tagliare», nell’Iliade indica una porzione di terreno separata, tagliata, data in privilegio sia a un capo guerriero sia a un dio, in opposizione al bébelon, cioè al terreno profano per il quale l’accesso non era interdetto. Nella Grecia classica témenos indica


CIBI E BEVANDE PER IL PADRE DEGLI DÈI Un passo del rituale del culto di Anu nella città sumerica di Uruk, ricalcato sul protocollo reale, stabilisce: «Ogni giorno, per il grande pasto del mattino, si prepareranno davanti (all’immagine di) Anu, oltre ai vasi per libagioni, 18 vasi d’oro sulla sua tavola: 7 a destra, e cioè 3 di birra d’orzo e 4 di birra labku; e 7 a sinistra, e cioè 3 di birra d’orzo, 1 di birra labku, 1 di birra nâšu e 1 di birra in orcio; inoltre del latte in un vaso di alabastro e 4 vasi d’oro di vino pressato. Ugualmente, per la seconda colazione del mattino, lo stesso per il pasto principale e per quello minore della sera». Dopo la lista delle bevande e prima di quella di pani, dolci e datteri, segue il brano relativo alle carni: «Si sacrificheranno complessivamente (per ogni pasto) 21 pecore di prima qualità, ingrassate e pure, dell’età di due anni, nutrite con orzo; 4 ... di offerta regolare, nutrite con latte e 25 pecore di qualità inferiore, non alimentate coll’orzo. Piú due buoi grandi e 1 vitello di latte» (traduzione di Jean Bottéro, 1987).

propriamente la parte del territorio riservata al dio, lo spazio, sovente recintato, che contiene almeno un altare e un edificio, detto appunto hierón (da hierós, «sacro»). Dunque il témenos è il recinto del santuario, hierón è l’edificio segnato dalle cerimonie del culto e dalle offerte (anch’esse hierá), mentre naós indica la cella dove si trovava la statua divina. La distinzione di questi termini è chiara, per esempio, in Erodoto (I 183) per il santuario di Zeus a Babilonia e (VI 19) per quello oracolare di Apollo a Didima. Altri vocaboli sono usati per indicare specifici boschetti sacri, sacelli o tempietti e poi i santuari sea r c h e o 65


LUOGHI DEL SACRO/1

gnalati con il nome dell’essere sovrumano cui erano dedicati o una sua particolare attribuzione, come per esempio l’Heraion per Hera e l’Artemision per Artemide. Nel lessico latino, accanto al termine piú diffuso (aedes), si trovano vocaboli come fanum, che viene da fas, «legge divina», e ancora templum, che sembra essere derivato dalla stessa radice del greco témenos. Templum vale dunque, etimologicamente, come zona ritagliata, spazio riservato, con un’area semantica piuttosto complessa. Peraltro, nell’uso letterario, il ricorso a questi e altri termini spesso si confonde, sicché spetta sovente all’archeologo verificare che cosa siano nella realtà storica hieroi, naoi, templa o fana di cui parlano gli autori antichi.

DIVINITÀ TRATTATE COME PERSONE La personificazione antropomorfa della divinità giustifica dunque, in società sedentarie, la nozione del tempio come dimora principesca degli dèi, che vi risiedono grazie alle loro immagini. Nei templi sumerici, babilonesi e assiri questo significa innanzitutto una cura quotidiana per la statua divina: i sacerdoti erano incaricati di provvedere ai suoi bisogni, di lavarla e vestirla ogni mattina, di nutrirla durante il giorno con vari pasti/sacrifici, nonché di rallegrarla con danze, musiche e festività, previste da un accurato calendario liturgico. Anche in Egitto al dio veniva offerto un culto quotidiano: nel gran tempio di Amon-Ra a Karnak (fondato sotto il regno di Sesostri I, 1971-1929 a.C., e rimaneggiato nel corso di venti dinastie) la giornata del dio cominciava quando il sacerdote rompeva il sigillo d’argilla messo la sera precedente e apriva le porte della cella in cui era stata riposta, per la notte, l’immagine divina. Analogamente, nei templi ittiti la divinità veniva quotidianamente lavata, vestita, profumata, 66 a r c h e o


provvista di cibi e bevande, allietata con cerimonie e melodie. Stando a Omero, anche gli dèi greci vivono la propria immortalità in una dimensione giornaliera: dormono, si svegliano, si lavano, si profumano e si riuniscono a convivio. Eppure, nonostante la cura periodica dell’immagine divina, nella Grecia classica è assente il servizio quotidiano; taluni templi si aprivano unicamente un giorno o due l’anno e gli dèi venivano serviti come ospiti di un banchetto solo in casi eccezionali. Le feste, gli agoni, davano certamente l’occasione per grandi sacrifici, ma lo scopo del costume sacrificale non era tanto quello di nutrire le divinità con un pasto regolare, quanto quello di venerarli e, al contempo, mangiare e bere in comunione: un modo di stabilire legami e diversità sociali mediante la spartizione di carni tra commensali umani. Non mancano poi altri tipi di offerte (anathémata), a cui si dà grande importanza e spazio notevole, nell’ambito del luogo di culto. A Roma, la cura giornaliera del tempio era affidata a un «custode» (aeditumus o aedituus), sovente di condizione servile, mentre un articolato calendario stabiliva le cerimonie da compiere per ciascuno dei giorni, feriali o festivi. Nutrire il dio sull’altare è l’oggetto di ogni sacrificio anche nel mondo romano; ma servirgli un banchetto, immaginando la presenza sensibile del dio in atto di mangiare, rappresenta qualcosa di diverso e di eccezionale, rispetto al culto ordinario, mentre si sviluppa, nel pensiero filosofico dell’ellenismo, una critica del sacrificio cruento, che progredisce e matura poi nei primi secoli d.C., soprattutto con Porfirio.

UN’IDEA COMUNE Tutte le civiltà del Vicino Oriente preclassico condividono l’idea che una divinità desideri avere una propria casa, la piú bella possibile,

a cui si associa la volontà umana di dotare gli dèi di abitazioni adeguate al loro rango e di assicurare la loro presenza e protezione per l’intero centro abitato. Di conseguenza, la costruzione e il mantenimento dei templi erano tra i compiti Nella pagina accanto: piccola statua in diorite raffigurante Gudea, principe di Lagash. 2120 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Sulla parte anteriore della veste corre una lunga iscrizione che ricorda la fondazione del tempio del dio Ningirsu. In basso: coppa per libagioni in clorite di Gudea. 2120 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

principali del sovrano orientale e dei suoi governatori. Stando ai testi, il monarca era innanzitutto un «re costruttore»: presiedeva e partecipava direttamente alla realizzazione e faceva inserire il proprio nome e il racconto dei propri meriti nei depositi di fondazione, per documentare ai posteri quanto aveva compiuto. Cosciente della fragilità dei monumenti costruiti in mattoni crudi, il re (soprattutto quello assiro) trasformava anzi questi depositi in un elemento basilare dell’edificazione, quasi che, nelle sue intenzioni, erigere e scrivere fossero indissociabili. Anche in Egitto la costruzione di un tempio dava luogo a importanti cerimonie, con una serie di gesti simbolici. Numerose scene rappresentano il faraone che traccia con un laccio il contorno dell’edificio, scava il primo solco con la zappa, purifica le fondamenta, posa le pietre d’angolo e consegna la dimora al dio suo padrone.Anche qui un deposito di fondazione era sepolto in un angolo dell’edificio, con modellini di utensili, simulacri di offerte e piccole formelle che recavano inciso il nome del sovrano fondatore. In fondo, però, il sovrano orientale è piuttosto un esecutore, rispetto a una volontà divina e a una sacralità del luogo che lo trascendono totalmente. Il modello per costruire l’edificio sacro giunge dall’alto. L’iscrizione di Gudea, re sumerico della città di Lagash (XXII secolo a.C.), per esempio, c’informa che il re ha ricevuto dal dio Ningirsu l’ordine di costruirgli un tempio durante un sogno, nel quale egli ha visto il modello da eseguire e tutti i dettagli della costruzione. Il sovrano esegue alla lettera le istruzioni: sceglie i mattoni, procura i materiali, realizza il santuario e invita infine gli dèi a prendere possesso. In Egitto, le istruzioni per la costruzione vengono dal dio-architetto Imhotep, mentre gli dèi sovrintena r c h e o 67


LUOGHI DEL SACRO/1

dono direttamente ai lavori, nei santuari abitati dalle loro statue divine. Per la decorazione, parimenti, si seguivano le prescrizioni di un manuale, che in qualche caso, come a Edfu, è stato ritrovato nella biblioteca del santuario. Ogni tempio consacrato dal faraone riproduceva, peraltro, la creazione del mondo, con una portata cosmogonica a largo spettro: essendo ogni divinità nel suo tempio la forza suprema del mondo, l’intero edificio costruito attorno alla sua statua veniva concepito come immagine del mondo, un microcosmo. L’Osireion di Abido, per esempio, costituito sostanzialmente da un lungo corridoio che sbocca in una sala, il cui centro è occupato da una sorta di pedana, rappresenta la collina primordiale, sulla quale, secondo il mito, era nata la vita. Il tempio di Amon-Ra a Karnak, parimenti, appariva costantemente come simbolo cosmico, immagine e ripetizione del corso diurno del sole. Nel modello di santuario cittadino 68 a r c h e o

programmato dai Greci dell’VIII secolo a.C., invece, nessuna divinità pretende di aver disegnato il primo schema o di averne fissato il modello. Il témenos non scende dal cielo, anzi è vero il contrario: nella suddivisione dello spazio urbano esso fa parte del territorio assegnato agli dèi dal fondatore-architetto, accanto ad altri luoghi importanti, come l’agorà o il pritaneo. I grandi santuari sono spazi del momento pubblico, accessibili a tutti i cittadini, con terme, palestre e teatri all’interno del témenos.Taluni, come il Partenone di Atene, non sono neppure sede di un culto e costituiscono piuttosto un «tesoro» pubblico, per la funzione specifica di conservare offerte preziose e riserve monetarie.

IMPORTANTE, MA NON PREMINENTE Nella fondazione di colonie, d’altro canto, l’impianto di un santuario è ricordato come uno dei primi atti della fondazione, ma senza beneficiare di una preminenza nella lista

degli elementi dell’organizzazione territoriale (cioè mura, abitazioni, santuari e terre coltivabili). Nella concezione del tempio romano l’elemento di base è rappresentato dall’orientazione del luogo sacro. Roma, infatti, assegna agli dèi una porzione di spazio scelta mediante la costituzione da parte degli auguri di un terreno quadrangolare, che ripete sul suolo un templum, cioè uno spazio ritagliato, individuato prioritariamente nel cielo, orientato secondo i punti cardinali dagli auguri e preventivamente liberato dalle potenze ostili (effari templum). Il tempio latino, insomma, prima di essere un edificio, è una superficie e uno spazio di consultazione celeste. Il grammatico Servio, commentando l’Eneide, indica almeno tre momenti per la costituzione del luogo sacro, che esigono altrettanti soggetti diversi: l’individuazione del terreno e la sua liberazione da influssi negativi, compito degli auguri (è l’inauguratio); la dichiarazione di pro-


A sinistra: uno scorcio del tempio di Amon-Ra a Karnak (Egitto), fondato al tempo di Sesostri I, faraone della XII dinastia, 1971-1929 a.C. In basso: l’Osireion di Abido (Egitto), compreso nel grandioso complesso templare voluto da Sethi I, faraone della XIX dinastia, 1290-1279 a.C.

prietà divina, affidata ai pontefici (è la consecratio); infine la dedica ufficiale, una sorta di consegna pubblica al dio, in cui interveniva l’autorità statale. Davano occasione per edificare un luogo sacro le situazioni piú disparate: un voto fatto in battaglia, l’espiazione per prodigi inattesi, situazioni di crisi (sismi, epidemie), la celebrazione della famiglia imperiale, la volontà esplicitamente manifestata di qualche divinità di avere una nuova costruzione.

IL SANTUARIO NELLA CITTÀ Tanto in Mesopotamia che in Egitto, sia pure con differenziazioni cospicue (e riassumendo ai limiti del consentito storie plurimillenarie), il santuario aveva anche funzioni di difesa delle attività economiche e delle riserve di cibo. Già tra le piú antiche forme di comunità urbane, troviamo talora evidenziata l’identi-

a r c h e o 69


LUOGHI DEL SACRO/1

ficazione tra tempio e sede del potere politico e dell’attività redistributiva, mentre in altri casi si tende invece a separare le attività politicoamministrative, lasciando al tempio la funzione di solo centro cerimoniale. Il tempio mesopotamico era solitamente attorniato da botteghe artigiane, magazzini per le provviste, ambienti per il lavoro ammini-

strativo, e possedeva terreni coltivabili, in parte concessi in usufrutto ai dipendenti, in parte affittati, in parte destinati al mantenimento del personale e a finanziare lavori di pubblica utilità. Quanto alla struttura generale del luogo sacro, si può osservare che nel mondo sumerico non si costruiva sempre con la medesima pianta.

In alto: la Porta dei Leoni di Hattusa (Bogazköy, Turchia), fondata come capitale del regno ittita da Hattusili I, intorno al 1565 a.C.

In basso: ricostruzione grafica del recinto ovale di Khafagia, antico centro urbano sumerico situato a est di Baghdad, nell’odierno Iraq.

70 a r c h e o

Inizialmente, ancora in fase preistorica, il vano del santuario è unico; su uno dei lati corti è l’altare e davanti a esso la tavola offertoria; l’ingresso si trova abitualmente su uno dei lati lunghi. Nel rapido sviluppo dell’edificio sacro in Mesopotamia, il santuario si correda di ulteriori ambienti e s’introduce l’uso del cortile, che si circonda a sua volta di vani, assumendo una posizione centrale nella pianta. Progressivamente si crea un recinto, che scinde gli edifici del tempio dagli altri nella città. Un ottimo esempio di questo genere è il recinto ovale di Khafagia, con una doppia cinta di mura, una serie di edifici destinati ai sacerdoti e ai funzionari, un ampio cortile, una terrazza a cui si accedeva mediante una scalinata, e infine il tempio. In Egitto, tale progressione si articola meglio: da un cortile all’aria aperta si passa a una o piú sale ipostile coperte, che, a loro volta, danno accesso alla camera che conteneva la statua del dio e ad altri locali, per le divinità minori e il clero. La progressione dell’accesso sembra cosí chiaramente delineata: il cortile per la folla dei fedeli, la sala ipostila per il clero e i dignitari, la cella per il faraone e i sacerdoti incaricati del


servizio quotidiano. L’orientamento sembra rispondere a un’intenzione precisa: l’asse maggiore del tempio di Amon-Ra a Karnak, per esempio, corrispondeva alla traiettoria del sole, da est a ovest; un asse perpendicolare, da sud a nord ripeteva invece il percorso del Nilo. Nell’Anatolia ittita la struttura del santuario è affine a quella mesopo-

A destra: ritratto di Aristotele. Copia romana di un originale greco. Atene, Museo dell’Acropoli. In basso: l’Acropoli di Atene, dominata dal Partenone.

CHE SIANO LUOGHI APPROPRIATI Platone attribuisce al fondatore di colonie il compito di «dividere il territorio in dodici settori, riservando innanzitutto un luogo sacro per Estia, Zeus e Atena che chiamerà Acropoli e circonderà di un muro. (...) Dedicati quindi i dodici lotti di territorio ai dodici dèi, si deve dare, traendola a sorte, a ciascuna parte il nome di ciascun dio e consacrargliela» (Leggi, 745 B, E; cf. anche Leggi, 848 D). Quanto agli altri templi, siano essi urbani o extramuranei, «essi dovranno esser disposti tutt’intorno alla piazza dell’agorà, e in cerchio intorno alla città, sulle eminenze montuose, per ragioni di buona difesa e di pulizia. Vicino ai templi la sede delle magistrature e i tribunali, dove si riceveranno e si daranno le sentenze ai cittadini, come in luoghi piú che mai sani, sia per la loro funzione che è attinente a cose sante, sia perché sedi degli dèi preposti a tale compito» (Leggi, 778 C-D.; cf. anche 761 C). «È opportuno – scrive Aristotele – che gli edifici destinati al culto divino siano posti in un luogo appropriato, che sia lo stesso in cui poi si terranno le piú importanti adunanze dei magistrati, escludendo da questa norma solo quei templi ai quali la legge o l’oracolo della Pizia assegna uno spazio a parte. Risponderà a queste condizioni ogni area in sufficiente evidenza, per una posizione vantaggiosa e piú forte rispetto alle zone limitrofe della città» (Politica, 1331 A).

a r c h e o 71


LUOGHI DEL SACRO/1

tamica, con piú vani raccolti attorno a un cortile. Qui però le stanze hanno ampie finestre, compresi i vani con le statue divine, come mostrano i cinque templi portati alla luce dagli scavi di Boghazköy. L’ingresso alla cella con la statua di culto non era nella parete di fronte all’idolo, ma in una delle pareti laterali: si può concludere che l’adorazione della divinità riguardava solo pochi eletti, mentre l’assemblea riunita nel cortile non vedeva l’immagine divina, né prendeva parte alle cerimonie nella cella. Il tempio, infine, assolveva anche alla funzione di centro del governo civile e dell’amministrazione economica, ospitando funzionari civili e religiosi.

SANGUE E FUOCO Nel santuario greco di età classica, la parte piú importante per il culto è l’altare (bomós): si drizza nel témenos, apre l’installazione di un santuario ed è la prima pietra di una nuova città. Sull’altare cola il sangue delle vittime e viene acceso il fuoco, per bruciare le parti riservate agli dèi e arrostire quelle destinate agli uomini. Esistono altari naturali di roccia o costituiti dai resti delle ceneri e delle ossa degli animali sacrificati (cosí era, per esempio l’ara di Zeus a Olimpia); ma solitamente l’altare viene eretto in muratura e imbiancato a calce, oppure in blocchi di pietra scolpiti. Nel centro, è la piastra su cui arde il fuoco; talora vi sono anche gradini laterali, sui quali si dispongono i partecipanti al rito. Accanto all’altare, e solitamente davanti a esso nello spazio del témenos, si innalza il naós, la cella destinata ad accogliere l’immagine cultuale. Il In alto: icona raffigurante Mosè davanti al roveto ardente. XII-XIII sec. Sinai (Egitto), monastero di S. Caterina. Il Libro dell’Esodo narra che, di fronte al cespuglio che bruciava senza consumarsi, il profeta fu designato da Yahweh per portare gli Israeliti nel paese di Canaan. 72 a r c h e o

UN TABERNACOLO COME DIMORA Fino al regno di Salomone, il dio d’Israele non ha avuto residenza né ha mai domandato di costruirgli un santuario. Secondo una legge registrata in Esodo 20,24-25, il Signore promette la sua benedizione a coloro che gli renderanno un culto, innalzando un altare di terra o di pietre non tagliate per offrirvi sacrifici. Ma l’altare può essere eretto in ogni luogo in cui, dice il

Signore, «Io vorrò ricordare il mio nome», cioè in ogni luogo in cui si sia verificata una sua particolare epifania. L’erezione di un altare non era dunque possibile che nei luoghi indicati dallo stesso Yahweh. Un’altra legge (Deuteronomio 12,4-11) regola quanto si sarebbe poi dovuto osservare nel paese di Canaan, una volta giuntivi. Là avranno luogo tutte le


A sinistra: ricostruzione grafica di Olimpia. In basso: rilievo raffigurante un’arca, montata su ruote, dalla sinagoga di Cafarnao. IV sec. d.C. La singolare rappresentazione allude probabilmente all’armadio per conservare i rotoli della Legge (Aron ha-qodesh), in questo caso mobile.

tipo piú comune, che si diffonde nel VII secolo a.C., dopo l’invenzione della tegola, è una struttura rettangolare in pietra, su un basamento a tre gradini, con colonnato esterno e tetto piatto a due falde; non senza un certo influsso egiziano, vengono man mano perfezionati gli ordini di colonne e si stabilizzano quei canoni per pilastri, trabeazione, fregio e timpano che, dal VI secolo, dominarono poi, per oltre settecento anni, l’architettura mediterranea.

manifestazioni del culto, «nel luogo che il Signore vostro Dio avrà scelto per farvi abitare il suo nome; là voi presenterete i vostri olocausti e i vostri sacrifici». Dunque, in assenza di un edificio, è la costante rivelazione divina che indica il luogo sacro. Piú in particolare poi, la presenza di Yahweh presso il suo popolo era contrassegnata dal Tabernacolo, la

tenda nella quale si conservava l’Arca dell’Alleanza (Esodo 25). E poiché la residenza dell’Arca cambiava secondo le circostanze, vi erano molteplici luoghi sacri, nei quali si offrivano i sacrifici prescritti. Ma anche il modello di questo Tabernacolo e di tutti gli arredi procedono da una rivelazione divina. «Osserva e fabbrica tutti gli oggetti secondo il modello che ti

viene mostrato sulla montagna», dice il Signore a Mosè in Esodo 25,4; e quando Davide dà a Salomone suo figlio il disegno per l’edificio del tempio, il Tabernacolo e tutti gli arredi, l’assicura che «tutto ciò si trova esposto in uno scritto di pugno dell’Eterno, che lo ha posto a mia conoscenza per farmi comprendere tutti i particolari del modello» (1 Cronache 28, 19).

a r c h e o 73


LUOGHI DEL SACRO/1

La cella è talvolta preceduta da un pronao; oppure comunica con una seconda stanza, l’ádyton; ma, per questa zona piú celata, non sembra che ci sia l’idea di un «santo dei santi», osservabile, invece, nell’architettura templare del Vicino Oriente antico. La statua cultuale, nella grande maggioranza dei templi, è offerta agli occhi dei fedeli: dapprima una statua scolpita nel legno (xóanon), come l’antica immagine di Atena, intagliata nell’olivo, quasi nascosta nell’Eretteo sull’acropoli di Atene; poi, l’alta statua in pietra, marmo o bronzo che compare tra il VII e il VI secolo a.C. L’ingresso del tempio è in genere riservato ai sacerdoti; i fedeli non entrano, ma restano sulla spianata e vedono l’effigie divina dalle porte semiaperte o girano attorno alla cella, nel colonnato. Il complesso del santuario si trova delimitato talora da confini, da un muro che corre tutt’intorno al témenos, o anche da recipienti colmi di acqua lustrale, disposti lungo le vie di accesso. L’orientamento dipende dalla configurazione del terreno e dalle limitazioni imposte dall’urbanizzazione. Appartenendo all’ordine sociale della città, infine, il tempio greco gioca un ruolo importante come spazio del momento pubblico, soprattutto in località panelleniche, come Olimpia nell’Elide, Delfi nella Focide ed Eleusi nell’Attica. Con le feste, i giochi, le iniziazioni, gli oracoli, e in virtú della loro extraterritorialità, i grandi santuari sono luoghi di assemblea e di confronto, di associazioni e di popoli. Questa dimensione «politica» del tempio è un dato costante nel mondo greco: il témenos appartiene all’universo spirituale della città, vale a dire al kósmos nell’accezione politica affermata dai filosofi ionici. In età ellenistica taluni grandi e influenti santuari giungono a costituire veri e propri templi-stato, con vita sociale e politica autonome rispetto al contesto. 74 a r c h e o

L’idea di una divinità che risiede nel suo edificio non impediva però di ritenere che essa fosse libera di spostarsi a proprio piacere; la statua era concepita, piuttosto, come immagine della divinità e non semplicemente identificata con essa. Talvolta si osserva anzi una netta distinzione tra il dio e la sua statua, magari trovandoli raffigurati, sulle pitture vascolari, l’uno accanto all’altra. Si trattava certo con cura meticolosa il simulacro divino, adornandolo, rivestendolo e conducendolo eccezionalmente anche in processione, ma senza porre sullo stesso piano immagine e divinità, come accade, invece, in Oriente; e d’altra parte le immagini divine piú celebri erano famose per la loro bellezza, per gli artisti che le avevano realizzate, piú che per il fatto d’impersonare in qualche modo la divinità.

OFFERTE D’OGNI TIPO Normalmente i templi erano costruiti per decreto e con la supervisione dello Stato cittadino; taluni, come già ricordato per il Partenone, non erano neppure sedi di un culto, e costituivano piuttosto un deposito delle ricchezze pubbliche. Fare un’offerta, d’altro canto, era uno dei gesti piú frequenti in ambito religioso: dal piú modesto degli scudi all’intero bottino raccolto in una guerra, dalla corona di un atleta all’opera d’arte, dall’effigie di una parte malata del corpo al piú sontuoso dei vasi in metallo o ceramica. Gli spazi consacrati erano essenziali alla vita della comunità, anche nelle fasi della sua espansione, assicurando la presenza e la cooperazione divina. Ma se il colonizzatore partiva con le indicazioni dell’oracolo delfico, che dovevano guidarlo nell’impresa e nella nuova fondazione, una volta sul posto, aveva, per cosí dire, carta bianca e lui soltanto era responsabile della divisione del territorio. Certo, v’erano criteri specifici da seguire per la scelta delle aree da destinare al culto; tuttavia,

erano criteri di dominio esclusivo del legislatore e dell’ecista, fondati su elementi razionali e funzionali, come comodità di accesso al luogo sacro, facilità di difesa, di purificazione e pulizia, per un luogo ben visibile e impressionante: dunque criteri di scelta che, a dire il vero, non ottemperano ad argomenti propriamente religiosi. A Roma i templi sono di norma quadrangolari, orientati secondo le quattro direzioni del cielo e i quattro punti cardinali. Unico, tra gli antichi santuari attribuiti a divinità propriamente romane, il tempio di Vesta non è quadrato, bensí rotondo, per la sua specificità assoluta. La sede di Vesta, in effetti, che assicurava col fuoco perenne stabilità e durata ai Romani nel loro sito, era considerata pienamente terrestre, non aveva a che fare con il cielo e le direzioni del cielo; per questo era piuttosto una aedes sacra, non un templum. Gli edifici sacri piú antichi ripetono lo stile etrusco, a cominciare dal tempio piú importante dell’urbe, quello di Giove Capitolino. Voluto dai Tarquini per onorare Giove, Giunone e Minerva, esso è costruito su un podio, a cui si accede per una scalinata, ed è circondato da colonne sul fronte e sui lati. I templi, poi, erano riccamente decorati e pieni di opere d’arte, spesso portate dalla Grecia o da altre regioni sottomesse, e le immagini divine, di regola, erano accessibili ai fedeli. Altri oggetti sacri, al contrario erano custoditi con cura: cosí nel tempio di Vesta, per gli oggetti del penus Vestae affidati alle Vestali, cosí in quello della dea Terra per il misterioso magmentarium, cosí per i Libri Sibillini, prima nel tempio di Giove Ottimo Massimo e poi in quello di Apollo Palatino. Piú ancora che in Grecia, il tempio romano assolveva a funzioni politiche e civili, oltre che religiose: sede di assemblee, luogo di avvio delle cariche pubbliche, archivio cittadino per i documenti importanti, strumento


Disegno ricostruttivo della sommità meridionale del Campidoglio con il tempio di Giove Capitolino, voluto dai Tarquini per onorare Giove, Giunone e Minerva.

del trionfo e della propaganda politica, centro commerciale, museo, libreria, spazio privato e riservato alle attività di un collegium. A Roma, inoltre, si mantenne a lungo il costume di salvaguardare i culti ancestrali anche in modo «territoriale», giacché i templi degli dèi stranieri, greci od orientali che fossero, potevano dapprima trovare posto solo all’esterno della linea del pomerium, cioè fuori dai confini della Roma quadrata voluta da Romolo e ingrandita a piú riprese, secondo la crescita urbana della città. Per questo motivo, per esempio, il greco Apollo era stato accolto nel 431 a.C. in Campo Marzio e Asclepio aveva avuto, nel 291, un santuario sull’Isola Tiberina. Questa prescrizione venne osser-

vata sino alla fine del III secolo a.C.: in tale epoca, ai gravi turbamenti della situazione politica e militare successivi alla presenza di Annibale in Italia, corrispose un turbamento anche nelle questioni religiose. Gli dèi tradizionali sembravano aver abbandonato Roma e, per fronteggiare una larga propagazione di «superstizioni» tra la plebe, fu deliberato di trasferire a Roma la Pietra Nera venerata in Asia Minore come immagine della dea Cibele, cioè d’una figura divina tradizionalmente apparentata alla famiglia di Enea. Fu allora, appunto, che venne infranta la normativa pomeriale, con l’introduzione del Betilo della Grande Madre Idea nel tempio della dea Vittoria sul Palatino, nel 204 a.C., seguita nel 191

dall’inaugurazione del tempio appositamente edificato per la dea frigia, sempre sul Palatino.

CULTI D’IMPORTAZIONE Nei secoli della Roma imperiale, poi, l’edilizia templare conobbe la nascita dei santuari delle divinità orientali, un po’ dappertutto, nella città. Essi venivano realizzati talora in ambienti sotterranei, come nel culto di Mitra; ma anche in spazi piú importanti, come il santuario delle divinità siriache sul Gianicolo, il tempio di Sol Invictus costruito da Elagabalo nelle vicinanze del palazzo imper iale, i templi di Iside sul Campidoglio e in altre zone di Roma. Non a caso, per questo nuovo tipo di santuari si utilizza sovente in a r c h e o 75


LUOGHI DEL SACRO/1

a quella di luogo riservato alle adunanze di una comunità ristretta, marginale e minoritaria rispetto al culto civico e statale. Una collettività riunita dal bisogno di salvezza individuale, una famiglia religiosa che ignora i ranghi della società romana e un’associazione che preferisce il conforto dell’appartenenza a una cerchia ristretta di eletti.

TEMPIO DELLA VITTORIA

NUOVE IDEOLOGIE Questo sviluppo nella definizione e tipologia del tempio si lega peraltro anche ad altre evoluzioni religiose: da un lato, per esempio, alla riflessione sul modo di tributare un culto agli dèi (con una critica in specie del sacrificio di animali, con il rifiuto del vincolo assoluto della venerazione di Dio in un dato luogo e con la polemica sulle immagini divine); dall’altro all’insistenza dei nuovi culti sull’aspetto personale della pratica religiosa, che dà vita per essa a originali luoghi consacrati. La trasformazione storica dell’idea di santuario trova articolate e differenziate realizzazioni già in ambito giudaico, con la sinagoga, e poi in ambito cristiano, con la domus ecclesiae, infine in quello musulmano, con la moschea: «luogo di riunio-

TEMPIO DELLA MAGNA MATER

Pianta e ricostruzione prospettica del settore sud-occidentale del Palatino, nel quale erano situati alcuni importanti luoghi di culto: 1. Tempio di Magna Mater; 2. Sacello di Victoria Virgo; 3. Tempio della Vittoria; 4. Casa di Livia; 5. Casa repubblicana; 6. Casa di Augusto; 7. Tempio di Apollo; 8. Scalae Caci; 9. Clivus Victoriae.

latino il termine fanum, piuttosto che aedes, per sottolineare anche terminologicamente la differenza con quelli dedicati alle divinità tradizionali della religione romana. In questi luoghi resta l’immagine divina, ma il concetto di tempio si evolve progressivamente, dalla nozione di spazio abitativo, in cui la divinità si presenta e si materializza, 76 a r c h e o

4 1

2

3

5 7

8 9

6


ne», nel primo caso, «casa dell’assemblea», nel secondo, «luogo in cui ci si prostra (per l’esercizio del culto)» nel terzo. Scompare insomma, con l’adorazione per la statua antropomorfa e i riti che la contrassegnavano, anche l’idea prioritaria del tempio come abitazione della statua divina, per far posto a nuove espressioni del luogo sacro.

Di questo dunque tratteremo, occupandoci dell’archeologia dello spazio consacrato. Di essa offriremo varie e diverse configurazioni storiche concrete, per raccontare i criteri che hanno guidato la costituzione dello spazio consacrato e quali funzioni esso è stato chiamato a svolgere nei diversi contesti. Tratteremo in particolare dell’ar-

Simulacro di culto della Magna Mater in trono, rinvenuto nel tempio a lei dedicato sul Palatino. Fine del II sec. a.C. Roma, Museo Palatino.

chitettura templare, e sarà il confronto tra i vari contributi, pubblicati di volta in volta, a facilitare la distinzione tipologica dei «luoghi del sacro», rispetto allo spazio abitato (urbani, extraurbani, nazionali, internazionali), a quello naturale e paesaggistico (santuari rurali, montani, costieri, santuari in luoghi d’intenso scambio commerciale e culturale, santuari di confine), o in riferimento alla storia di un popolo (luoghi consacrati al culto di eroi o antenati; spazi ritenuti significativi perché sedi mitiche di avvenimenti fondanti). Non si avrà certo modo di distinguere tipologicamente tutti i luoghi di culto immaginati in ambito politeistico; tuttavia, è forte il nostro auspicio che sia l’esposizione che il metodo condiviso tra gli autori chiamati a collaborare a questa serie consentiranno di chiarire la nozione dello «spazio sacro» rispetto ad alcuni dei suoi valori peculiari, nelle specifiche e differenti realizzazioni storiche. NEL PROSSIMO NUMERO • La Torre di Babele

PER SAPERNE DI PIÚ Tra gli studi piú recenti, si vedano: Giuseppe Roma, Lo spazio sacro nelle culture del Mediterraneo, in Immacolata Aulisa (a cura di), I santuari e il mare, Edipuglia, Bari 2014; pp. 179-93; Sergio Botta, Tessa Canella, Alessandro Saggioro (a cura di), Geografie del mondo altro. Prospettive comparative sugli spazi sacri e l’aldilà, Morcelliana, Brescia 2014; Laura Carnevale, Spazi e luoghi sacri. Espressioni ed esperienze di vissuto religioso, Edipuglia, Bari 2017; Federica Fontana, Emanuela Murgia (a cura di), Sacrum facere, Atti del IV Seminario di Archeologia del Sacro, EUT, Trieste 2018 a r c h e o 77


78 a r c h e o


ANTICHISSIME MADRI E AMOREVOLI... PARTE DA UNA SERIE DI SPLENDIDE RAFFIGURAZIONI MEDIEVALI DELLA MADONNA, CONSERVATE AL MUSEO NAZIONALE D’ABRUZZO, L’INDAGINE SULLE ORIGINI DI UN TEMA ICONOGRAFICO DIFFUSO SIN DALLA PREISTORIA: QUELLO DELLA DONNA CHE ALLATTA IL FIGLIO di Agata Grasso

L

a volontà della città dell’Aquila di lasciarsi alle spalle le ferite causate dal terremoto del 2009 non viene meno, ma, anzi, si rafforza anche attraverso la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e archeologico. In questo quadro si è inserita la scelta del MuNDA (Museo Nazionale d’Abruzzo; vedi box a p. 86) di affrontare un tema di ricerca che prende le mosse proprio dalle origini cultuali abruzzesi e da alcuni dei piú interessanti capolavori del Medioevo locale: le rare icone della Madonna Regina e della Madre che allatta (lactans) del XIII secolo, riunite nella mostra «La Madre generosa: dal culto di Iside alla Madonna lactans», curata da Lucia Arbace. Tre dipinti nella sezione medievale del museo – la Madonna Regina Lactans «de Ambro», la Madonna di Montereale e la Madonna

Statuetta in terracotta di Iside lactans, da Ercolano, Insula Orientalis II. I sec. d.C. Nella pagina accanto: pittura murale raffigurante la Virgo lactans, dal monastero di Apa Geremia a Saqqara (Egitto). VI-VII sec. d.C. Il Cairo, Museo Copto.


ICONOGRAFIA • ANTICHE MADRI

del latte di Gentile da Rocca – hanno costituito il punto di partenza di un filo conduttore che va dalle attestazioni pagane a quelle cristiane della Madre lactans. Oltre alla perizia nella resa dei dettagli delle figure (vesti ricamate ed elementi decorativi), saltano subito all’occhio la presenza di un trono e una corona – che attribuiscono alla Madre il ruolo di Regina –, ma, soprattutto, la posizione curotrofica (dal greco kouros, «fanciullo» e trepho, «allevare»), costituita dalla donna che stringe tra le braccia il bambino e lactans (dal latino, «colei che allatta»), nel momento in cui porge il seno per l’allattamento. Le tre tavole abruzzesi sono un esempio di rappresentazione ieratica e regale della Madonna che, al contempo, aprono uno squarcio verso la maternità.

LE ORIGINI Ma quali sono le origini di questa antica iconografia e quanto si deve risalire indietro nel tempo? La cura del bambino e il suo allattamento sono gesti connaturati alla vita delle comunità umane, dal momento che garantiscono la sopravvivenza della prole all’indomani della nascita. È dunque interessante notare come un atto cosí intimo e abituale sia posto al centro dell’attenzione di molte rappresentazioni iconografiche, motivo per il quale gli studiosi hanno cercato di accertare se esistesse o meno un precedente storico. La diffusa raffigurazione della Madre (sia curotrofica che lactans) sembrerebbe potersi ricollegare al «mistero» della fertilità e della maternità, essenziali per garantire la sopravvivenza della specie. Non stupisce dunque, scoprire una lunga tradizione di figure associate alla fecondità, riscontrabili già dal 35-30 000 a.C. circa, con le prime «Veneri» del Paleolitico. Secondo una delle in80 a r c h e o

terpretazioni piú diffuse, queste immagini, caratterizzate dalla forte accentuazione degli attributi anatomici coinvolti nella maternità (per esempio il seno prosperoso, chiaro riferimento all’abbondanza di latte) sarebbero vere e proprie statuette votive, capaci di propiziare la fertilità della donna e, se seppellite nei

La statuetta in pietra calcarea nota come Venere di Willendorf. Cultura gravettiana, 25 000 anni fa circa. Vienna, Naturhistorisches Museum. La figura presenta i tratti tipici di questo genere di rappresentazioni del corpo femminile, le cui peculiarità sono vistosamente enfatizzate.

campi, anche della terra, auspicando dunque sia la procreazione che la rigenerazione dei frutti. Da una primordiale esigenza di nutr imento e abbondanza e dall’apprensione nei riguardi della vita e della progenie, si possono dunque trarre le prime notizie sulle origini della figura della Madre, propiziatrice della fecondità e della vita, che nei secoli assunse nomi e forme differenti.

CULTI DELLA FECONDITÀ La maternità continuò ad avere un ruolo rilevante anche nelle culture successive, in tutto il bacino del Mediterraneo e del Vicino Oriente, favorendo lo sviluppo di divinità, culti e riti dedicati alla «Dea Madre», spesso affini e sovrapposti, che ebbero sempre in primo piano il motivo della fecondità, nella natura e soprattutto nell’uomo. Definito il concetto di fondo, non resta che scoprire quando si afferma il modello della Madre rappresentata mentre tiene il bambino tra le braccia (kourotròphos) e nel momento dell’allattamento (lactans). Le prime attestazioni risalgono già all’età del Bronzo, quando, in un contesto geografico che va dall’Anatolia alla Mesopotamia, fino alla Penisola Italiana, si producono terrecotte raffiguranti madri con bambini. Lo stesso Omero fa riferimento alle kourotròphoi, spiegando con precisione di cosa si tratti: «Noi chiamiamo kourotròphoi coloro che fanno crescere i fanciulli» (Odissea, IX, 27). A partire dal periodo Geometrico (X secolo a.C.) cominciano invece a circolare le prime immagini di madri che allattano. Queste figure, sia kourotròphoi che lactans, costituivano il dono votivo e propiziatorio da dedicare a divinità della fertilità, per le quali si predisponevano anche complessi riti e cerimonie. La propensione verso la maternità


è poi fortemente presente nel culto egizio di Iside che, a partire dal I millennio a.C., godette di massima fortuna come madre e sposa, a capo della triade familiare, assieme al marito Osiride e al figlio Horus. Secondo il mito, Iside riporta in vita Osiride, ucciso e spodestato dal fratello Seth che tenta di legittimare una nuova linea di successione dinastica. Il concepimento con Osiride, post mortem, di un figlio, Horus, ristabilisce la regola della discendenza patrilineare e fa di Iside una dea benevola che, attraverso la protezione e la nutrizione del bambino Horus, garantisce nuovamente il ritorno al modello dinastico egizio e dunque la continuità delle generazioni.

CON IL BIMBO SULLE GINOCCHIA Iside viene quindi riconosciuta per i suoi poteri magici, ma, soprattutto, è oggetto di grande devozione per il ruolo materno e per la forza tutelare nei confronti delle madri, dei bambini, della gravidanza e A destra: statua cinerario rappresentante Mater Matuta, da Chianciano Terme (Siena). V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: statuetta in bronzo di Iside lactans, che porge il seno al figlio Horus. Già Collezione Borgia Tardo periodo dinastico (664-332 a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

dell’allattamento. L’importanza di Iside Madre nella religione egizia si traduce, poi, in uno dei motivi iconografici piú diffusi del tempo, quello della Iside lactans, che, a partire dalla XXV dinastia (747-656

a.C.), fu rappresentata con il bambino sulle ginocchia, mentre porge amorevolmente il seno al figlio. Dalla semplice rappresentazione della maternità, il latte di Iside diventa anche viatico della regalità a r c h e o 81


ICONOGRAFIA • ANTICHE MADRI Statua in terracotta raffigurante la Mater di Capua, dal Fondo Patturelli a Capua. III sec. a.C. Capua, Museo Provinciale Campano. Nella pagina accanto in alto: statuetta votiva in terracotta raffigurante una Kourotrophos, da Cansano (AQ). Fine del IV-inizi del III sec. a.C. Sulmona, Museo Civico Archeologico.

divina, assumendo, nelle concezioni e nei rituali egiziani, un vero e proprio valore di legittimazione della successione dinastica. Le qualità del latte materno sono ridondanti anche nei Testi delle Piramidi, nei quali, oltre a ricordare Iside come sposa, vedova e madre, si legge «Tu hai il tuo latte che è nel seno di tua madre Iside». La forza eloquente del gesto e i valori annessi all’allattamento fanno di Iside l’archetipo della dea Madre, capace poi di imprimersi nella cultura greco-romana fino, secondo alcuni studi, all’iconografia religiosa della Madonna. Il modello di Iside Madre perdura nei secoli successivi, assorbito soprattutto nel mondo romano: in tutto l’impero ritroviamo, infatti, aree di culto dedicate a Iside, in cui la dea egizia assume le caratteristiche iconografiche tipiche della cultura romana, in uno stile meno rigido e con forme massicce, capelli a boccoli e lunga tunica. L’immagine, di derivazione faraonica, si diffuse nella veste di lactans, sia nella statuaria che nella bronzistica, nella coroplastica e nella glittica.

NUTRICI MITICHE Come Iside, altre divinità assumono le caratteristiche di madri nutrici; sono infatti sia kourotròphoi che lactans: Gea, dea della Terra; Demetra, che assieme alla figlia Persefone, è il simbolo del ciclo della vita e della fecondità; Afrodite, madre di Eros; Fortuna Primigenia, dea delle nascite e della vita che assisteva ai parti e faceva nascere le piante; Iuno Lucina (o Giunone Lucina, letteralmente «colei che porta i bambini alla luce») dea tutelare del parto; Cerere, venerata come divinità della terra e dei nascituri; Tellus, a cui, ogni 15 aprile, si dedicava un rito di fecondità, sacrificando le mucche gravide; Mater Matuta, dea dell’Aurora, protettrice delle nascite e dei bambini; alcune ninfe, come la greca Maia, madre di Hermes, la cui cerimonia prescriveva il sacrificio di 82 a r c h e o


piú bambini in fasce o nel momento dell’allattamento. Nonostante i vari tentativi di identificazione, non è ancora chiaro se riconoscere in queste statue la rappresentazione di una divinità o semplicemente dell’offerente. È però innegabile il forte riferimento alla fertilità e alla prole, nonché la speranza in una feconda generazione. Se il concetto di grande Madre viene dunque assorbito e condiviso da molte popolazioni, soprattutto nella tipica rappresentazione curotrofica, è in particolare l’immagine di Iside, nella sua condizione di lactans, a costituire l’esempio piú forte e influente per l’iconografia della Madre, riscontrabile poi anche nella figura della Madonna. L’immagine di Maria è attestata e diffusa nell’arte paleocristiana dell’Or iente e

dell’Occidente, stabilita e impostata, di volta in volta, dai diversi concili ecumenici. Fu però il Concilio di Efeso, nel 431 d.C., a legittimare definitivamente la duplice natura umana e divina di Maria, riaffermando la maternità della Madre di Gesú, compiuta anche nel gesto dell’allattamento.

UN PRIMATO EGIZIANO? Attestazioni documentarie si ritrovano anche in un passo evangelico, quello di Luca, nel quale è presente un esplicito riferimento all’allattamento e alla maternità carnale, esprimendo ammirazione e contemplazione nei riguardi della madre Maria che porta in grembo e allatta il bambino Gesú. Gli studiosi hanno a lungo dibattuto sull’origine del motivo iconografico della Madonna galaktotrophousa (denominazione orientale) o lactans (terminologia utilizzata in Occidente); molti sono concordi nel farla risalire all’Egitto copto, le cui attestazio-

una scrofa gravida per propiziare la A destra: fecondità dell’uomo e della terra. Madonna Regina Nel panorama italico, fra le numeLactans, dipinto rose rappresentazioni di Madri che su tavola di allattano, ricordiamo le Matres di Gentile da Rocca, Capua, rinvenute nel santuario del dalla chiesa di S. Fondo Patturelli a Curti, dedicate a Maria ad Cryptas una divinità ancora non identificata a Fossa (AQ). e datate tra la fine del V secolo a.C. Seconda metà del e la fine del II-inizi I secolo a.C. XIII sec. L’Aquila, Tutte le Matres sono rappresentate Museo Nazionale nella stessa posizione: sedute su un d’Abruzzo. trono, tengono tra le braccia uno o a r c h e o 83


ICONOGRAFIA • ANTICHE MADRI

84 a r c h e o


Nella pagina accanto: statua di Iside lactans in marmo pario, dai Giardini del Palazzo Apostolico del Quirinale. I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. A sinistra: dipinto su tavola raffigurante la Madonna Regina Lactans de Ambro, da San Pio di Fontecchio (AQ). Fine del XII -inizi del XIII sec. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.

ni note piú antiche, datate tra il VI e VII secolo d.C., si conservano nel monastero di Apa Geremia a Saqqara, dove le due rappresentazioni murali riproducono la Madonna seduta in trono mentre porge il seno al bambino. Il ritrovamento di diverse immagini di Maria lactans nell’Egitto copto ha fatto pensare a una possibile «trasmigrazione» del motivo pagano di Iside nel culto cristiano. Elementi a favore di questa ipotesi sono sicuramente alcuni aspetti iconografici della Virgo che si ritrovano anche in Iside, quale la tipica rappresentazione ieratica e composta, la frontalità della figura e la presenza di una corona.

UN MOTIVO DI SUCCESSO Solo a partire dall’XI-XII secolo cominciano a diffondersi in Europa le immagini di Maria lactans, trasmesse e veicolate negli anni, dai crociati che tornavano dal Vicino Oriente (e dunque anche dall’Egitto). In particolare, dopo l’assedio di Costantinopoli del 1205 e la conseguente fuga degli artisti verso l’Europa, si assiste a una grande diffusione dei modelli e delle icone della pittura mariana orientale. La forte devozione per la Madonna lactans fu poi favorita dai codici miniati, nei contesti monastici e, in particolare, dalle abbazie benedettine, divenendo progressivamente una delle icone piú diffuse fino al XV secolo. La cultura e l’influenza di stampo bizantino è stata riscontrata in molti contesti italiani; tra questi, il territorio abruzzese con le rappresentazioni della Madonna lactans, punto di partenza della ricerca in questione. Senza dubbio, queste icone sono anche il frutto della forte devozione nei confronti di una Madre benevola che nutre e cresce, i cui riti e celebrazioni riconducono, tramite un unico filo conduttore, al culto delle Madri e delle «Veneri» propiziatrici di fertilità e abbondanza, spesso in continuità con i culti locali preesistenti. a r c h e o 85


ICONOGRAFIA • ANTICHE MADRI

I MILLENNI DI UN TERRITORIO Nella zona di Borgo Rivera, a L’Aquila, proprio di fronte a uno dei monumenti storici della città, la Fontana delle Novantanove Cannelle, oggi sorge il MuNDA, Museo Nazionale d’Abruzzo. La sua storia è segnata dal tragico sisma del 2009, che ha gravemente danneggiato il Forte Spagnolo cinquecentesco, sede espositiva originaria, costringendo dunque alla chiusura temporanea della struttura. Grazie al coraggioso e opportuno recupero delle opere

sepolte sotto le macerie e alla forte volontà di riconsegnare il patrimonio culturale alla città, il 19 dicembre 2015, il MuNDA ha riaperto le porte, appunto nella nuova sede di Borgo Rivera. Dopo un accorto intervento di ristrutturazione del complesso dell’ex mattatoio comunale e l’esecuzione delle opere di adeguamento antisismico, è stato infatti possibile ridare una nuova collocazione a una parte delle opere del museo. La ricca collezione è andata formandosi nel tempo, a partire dalla prima inaugurazione nella sede del Forte nel 1951, comprendendo le raccolte del Museo Civico Aquilano, i depositi della Soprintendenza, le opere del Museo Diocesano d’Arte Sacra e, dal 1958, lo scheletro di Mammuthus meridionalis, rinvenuto durante gli scavi condotti nel giacimento paleontologico di Madonna della Strada (Scoppito, L’Aquila). Gli spazi provvisori attualmente disponibili a Borgo Rivera non permettono di esporre l’intera collezione del museo, per cui è stato necessario procedere a una selezione delle opere piú

rappresentative della regione e della città, costringendo, tra l’altro, all’esclusione dello scheletro del Mammuthus, ancora custodito nel bastione est del Forte Spagnolo. Le opere esposte sono costituite da circa una sessantina di reperti archeologici provenienti dai siti italici e romani di Amiternum, Aveia e Peltuinum e piú di 120 opere, tra dipinti, sculture e oreficerie, dall’età medievale fino a quella moderna. L’esposizione è organizzata in grandi ambienti suddivisi in 5 sezioni, seguendo uno sviluppo sia cronologico che tematico. Oltre a essere il simbolo della rinascita culturale della città, il museo è anche un esempio di adozione dei moderni sistemi antisismici applicati al patrimonio culturale, rispondendo cosí alle esigenze di conservazione e protezione delle opere.

In alto: scheletro fossile di Mammuthus meridionalis, dal giacimento paleontologico di Madonna della Strada (Scoppito, L’Aquila), scoperto nel 1954 in una cava d’argilla. 1 300 000 anni fa circa. A sinistra: Madonna Regina Lactans di Montereale, dipinto realizzato su pergamena poi incollata su tavola di pino, dalla chiesa di S. Maria in Pantanis a Montereale. XIII sec.

Sarebbe perciò scorretto proporre la dipendenza iconografica della Madonna che allatta dalla Iside lactans, poiché l’immagine della Vergine può aver avuto modelli anche diversi da quelli della dea egizia. In compenso, si può rilevare la condivisione del motivo iconografico, oltre che 86 a r c h e o

del valore intrinseco. Sembrerebbe, insomma, che sia stato trasmesso un concetto di fondo, legato alla fertilità che, di volta in volta, ha assunto forme e culti diversi: un modello, quello della kourotròphos e della lactans, che attecchisce e si diffonde attraverso culture e popoli diversi.



SPECIALE • POMPEI E ROMA

88 a r c h e o


ROMA E POMPEI

ANTEPRIMA DAL COLOSSEO incontro con Alfonsina Russo, a cura di Flavia Marimpietri

All’interno delle gallerie del secondo ordine del Colosseo, in un contesto che lascia senza fiato, tutto è pronto per l’apertura della mostra «Pompei 79 d.C. Una storia romana», promossa dal Parco archeologico del Colosseo, in collaborazione con il Parco archeologico di Pompei e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Stucchi, statue, affreschi pompeiani e pezzi unici sono esposti nelle sale già allestite. La mostra doveva essere inaugurata il 6 novembre scorso, ma, in quello stesso giorno, a causa dell’emergenza sanitaria Coronavirus, un nuovo DPCM ha decretato la chiusura di monumenti e luoghi della cultura –

fino al 15 gennaio – per cui non ha mai potuto aprire al pubblico. Nel momento in cui scriviamo l’esposizione è dunque ancora chiusa per la pandemia, con il Colosseo deserto, reso ancora piú maestoso da un silenzio impressionante. Ma «Archeo», in via straordinaria, ha potuto visitare «Pompei 79 d.C. Una storia romana» e può regalarne ai suoi lettori un’esclusiva anteprima. Con una guida d’eccezione: Alfonsina Russo, Direttrice del Parco archeologico del Colosseo e già Soprintendente per l’Archeologia, belle Arti e paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale.

Qui sopra: Alfonsina Russo, direttrice del Parco archeologico del Colosseo. In alto: installazione multimediale realizzata per la mostra «Pompei 79 d.C. Una storia romana». Nella pagina accanto: uno scorcio del Colosseo, con, al centro, le gallerie del secondo ordine, al cui interno è allestita la mostra. a r c h e o 89


SPECIALE • POMPEI E ROMA

◆D ottoressa Russo, come nasce la mostra «Pompei 79 d.C. Una storia romana»? «Il progetto prende vita dalla collaborazione avviata da alcuni anni tra importanti realtà archeologiche a livello nazionale: il Parco archeologico del Colosseo, quello di Pompei e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’iniziativa affonda le radici in un’intuizione che ebbi insieme a Massimo Osanna, attuale Direttore generale dei Musei del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ed ex direttore del Parco archeologico di Pompei, quando avevo l’interim su Pompei, nel 2019. Allora nacque l’idea di una mostra dedicata alla relazione tra Pompei e Roma: il professor Osanna aveva già organizzato due esposizioni sul rapporto tra Pompei ed Etruschi e tra Pompei e Greci. Come curatore abbiamo coinvolto il maestro Mario Torelli, uno dei padri fondatori della nuova scuola archeologica italiana, venuto a mancare lo scorso settembre: a lui va un pensiero grato per il grande apporto di conoscenza che ha dato come studioso e archeologo. Non ha potuto vedere l’allestimento della mostra. Ma vi ha

90 a r c h e o

A destra: un particolare dell’allestimento della mostra nelle gallerie del secondo ordine del Colosseo. In basso: l’architetto Maurizio Di Puolo osserva l’opera scelta per aprire il percorso espositivo, l’affresco con scena di rissa fra Pompeiani e Nocerini nell’anfiteatro di Pompei. 59-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


a r c h e o 91


SPECIALE • POMPEI E ROMA

lavorato fino all’ultimo e ha potuto apprezzare quasi tutto, dal catalogo (scritto a quattro mani insieme al professore Fausto Zevi, altro maestro dell’archeologia greca e romana contemporanea, n.d.r.) fino al progetto dell’architetto Maurizio Di Puolo».

Ricostruzione della stiva di una nave oneraria, con il suo carico di anfore, simbolo della ricchezza commerciale della famiglia degli Eumachi.

92 a r c h e o

confrontare New York o Pechino con un piccolo centro della vecchia Europa. Roma era tra le poche città del mondo antico che poteva meritare il nome di «megalopoli», insieme ad Alessandria, Antiochia e Cartagine. Pompei un piccolo centro nella provincia. Per questo abbiamo voluto raccontare il rapporto ◆C ome viene raccontata la lunga relazio- tra le due città attraverso fenomeni concreti, nelle varie fasi del loro rapporto». ne tra la città vesuviana e Roma? «La mostra tratta quattro secoli di storia di Pompei, dalla fine della seconda guerra sanni- ◆ A d aprire il percorso espositivo, che si tica, nel 308 a.C., fino all’eruzione che cansnoda nelle gallerie del secondo ordine cellò la città nel 79 d.C. L’esposizione è suddel Colosseo, è l’affresco con scena di divisa in tre grandi sezioni – la fase dell’allerissa fra Pompeiani e Nocerini nell’Ananza, la fase della colonia romana, il declino e fiteatro di Pompei (59-79 d.C.)… la fine – con intermezzi dedicati a due mo- «Questo affresco, che proviene dal Museo menti cruciali: l’assedio romano dell’89 a.C. e Archeologico Nazionale di Napoli, è una il terremoto del 62 d.C. Come diceva Mario “chicca”, con cui non a caso abbiamo voluto Torelli, è impossibile paragonare Roma e aprire l’esposizione. Perché nel 79 d.C. finisce Pompei in maniera astratta: sarebbe come Pompei e l’anno dopo, nell’80 d.C., viene


inaugurato il Colosseo: una storia finisce, ai anni di espansione per Roma e per l’Italia, piedi del Vesuvio, un’altra ne inizia, Roma». in cui arrivano la ricchezza e la forza lavoro degli schiavi: Pompei in questo momento si ◆L a prima fase della storia tra Roma e rinnova, diventando parva imago Romae, città Pompei è quella dell’«alleanza», raccon- che rispecchia in piccolo Roma». tata nelle prime sale... «Sí, nella prima parte della mostra raccontia- ◆ C on la conquista di Cartagine e di Como l’“alleanza” tra Roma e Pompei a partirinto, nel 146 a.C., insieme a migliaia di re dal foedus del 308 a.C., fino alle guerre statue e marmi preziosi, a Roma afflucivili del 90 a.C., un periodo florido per iscono il lusso, l’arte, l’eleganza dei Pompei che, come tutto il mondo romano, mosaici e delle pitture ellenistiche. si apre al Mediterraneo e alla cultura grecoUn’ondata di ricchezza e di raffinato ellenistica. Per il centro vesuviano, la fine del benessere invade tutto il mondo romaIII secolo a.C. coincide con una grande no. Che cosa accade a Pompei? crescita, il commercio fiorisce, gli armatori «L’espansione militare ed economica di Roitalici e pompeiani vengono attestati nelle ma nel Mediterraneo si riflette in una granepigrafi da Carthago Nova, in Spagna, fino a diosa trasformazione culturale, tanto nel Delo, in Grecia. In quest’epoca molti com- centro del potere quanto nelle città alleate mercianti viaggiano dalla Campania Felix al della Penisola. Gli stessi intellettuali romani distretto minerario iberico e all’Egeo. Sono individuano nel 146 a.C. la data simbolo di

Ricostruzione di una macchina da guerra, a evocazione dei ripetuti assedi subiti da Pompei.

79 D.C.: COME ALLESTIRE QUELL’ANNO FATIDICO Il luogo della mostra, il Colosseo, nasceva con Vespasiano nel 79 d.C., nel momento in cui Pompei spariva sotto la lava del Vesuvio. Da questa coincidenza temporale è nata l’idea di «ricollocare» le statue tra i fornici: un segno forte di festa nell’impero, mentre si spegneva una delle province piú potenti, piú affascinanti, piú lussuose. Una scelta condivisa, come l’intero progetto, con il curatore Mario Torelli, uno dei miei piú amati maestri. Con lui, per l’allestimento della mostra, si è scelto di citare colori e modi dell’ultimo periodo di Pompei: il rosso, il nero, l’oro inseriti in false architetture nelle quali si articola il racconto del dialogo con l’Urbe. E poi la ricostruzione di baliste e catapulte delle varie guerre e assedi subiti da Pompei, e di una nave oneraria carica di anfore simbolo delle ricchezze commerciali della famiglia degli Eumachii, dai forti legami politici, che produceva vino, anfore, navi ed esercitava il commercio di tessuti. Un modo per interpretare la maniera di Mario Torelli di scavare nelle ragioni meno appariscenti di frammenti di storia: una lettura attenta e colta di nessi, della politica, degli intrighi e delle potenze sotterranee, della formazione di ricchezze spropositate e di grandi miserie. Infine, l’allestimento ha previsto la ricostruzione in grandezza naturale di una parete della domus del Gianicolo, con i suoi straordinari marmi colorati a testimoniare come Roma sia arrivata a «dipingere con il marmo», in un confronto stringente con gli affreschi

pompeiani, massima espressione dello status symbol della ricchezza acquista di una parte della popolazione. Il percorso di visita si chiude con tre calchi di corpi da Pompei. Simboli della fine di una città, di una cultura, di un popolo. Maurizio Di Puolo a r c h e o 93


SPECIALE • POMPEI E ROMA

questo mutamento e di quell’ondata di benessere che avrebbe sommerso i conquistatori, conquistandoli a loro volta con la luxuria, il lusso. In questo periodo, in Campania e sul litorale flegreo, sorgono le sontuose ville dell’otium romano, sul modello delle grandi città ellenistiche come Pergamo e Alessandria. Nella mostra, questa prima fase di crescita e alleanza tra le due città viene narrata con quattro sezioni, dedicate rispettivamente alla mercatura (commercio), alla luxuria (lusso), al mos maiorum (costumi degli antenati) e alla religio (culto)». ◆C on quali reperti archeologici avete scelto di raccontare la prima fase di unione e prosperità tra Roma e Pompei, nei secoli della conquista del mondo greco-ellenistico, tra il III e il II secolo a.C.? «Tra i reperti piú significativi della prima sezione, possiamo ricordare il fregio con cavalieri dal Foro Triangolare di Pompei, conservato al Museo Archeologico Nazionale di

94 a r c h e o

In questa pagina: una vetrina dell’allestimento. Nella foto in basso si riconosce il mosaico con fauna marina, dalla Casa del Fauno. II-I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Napoli, e un oggetto particolarissimo, che appartiene al secolo d’oro della mercatura: una statuetta per la dea Lakshmi, che dà l’idea dell’apertura dei mercati fin dal II secolo a.C. (vedi foto alla pagina accanto). Tra i pezzi illustri c’è, poi, il raffinato mosaico con i pesci dalla Casa del Fauno di Pompei, simbolo della luxuria asiatica (vedi foto in questa pagina): realizzato intorno al 100 a.C. da una bottega itinerante – giunta a Pompei forse da Alessandria con un repertorio di stampo regale –, fa parte di uno dei piú straordinari cicli musivi giunti fino a noi dal mondo antico. Anche la planimetria della Casa del Fauno ripropone una piccola reggia, con decorazioni e affreschi preziosi, nel cuore di Pompei. Accanto sono esposti affreschi e pitture pompeiane che vanno dal I stile (che attraversa tutto il II secolo a.C.) fino al II (dalla fine del II secolo a.C. all’inizio del I secolo a.C.). È esposto un corredo funerario del IV secolo a.C., proveniente dagli ultimi scavi della necropoli di Porta Ercolano, e figure di antenati e di Lari dal Museo delle Antichità di Trieste (vedi foto a p. 97). In questa prima sezione troviamo anche un busto in bronzo di Artemide Diana dal Tempio di Apollo (vedi foto a p. 96), databile al I secolo a.C., e una statua in terracotta di Afrodite/Venere trovata nel santuario di Fondo Iozzino, databile tra II e I secolo a.C. Nel “secolo d’oro”, il II a.C., si diffondono nuovi culti: quello di Esculapio, testimoniato nella mostra dalla statua dal tempio di Esculapio, databile al II secolo a.C. (vedi foto a p. 98), e quello di Iside e Cibele, che si diffonde sul Palatino come a Pompei: da qui proviene una testa femminile cosiddetta di Iside».


Statuetta in avorio della dea indiana Lakshmi, dalla Casa della Statuetta Indiana a Pompei. I sec. a.C.-I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

◆L a secolare alleanza fra Roma e la città vesuviana portò al «secolo d’oro» di Pompei, il II a.C.Venne poi il periodo delle guerre civili, con il conflitto tra Mario e Silla, e Pompei venne «assediata». Che cosa racconta la mostra di questo periodo? «L’obsidio, l’assedio sillano della città, chiuse il secolo d’oro della città vesuviana. Con le guerre sociali, alla fine del II secolo a.C., le mura di Pompei vengono ristrutturate per reggere alle nuove tecniche di assedio. La città viene presa d’assalto e capitola, alla fine, nell’89 a.C.: è la fine della secolare autonomia di Pompei. Di questa fase sono testimonianza le splendide iscrizioni dipinte a caratteri cubitali in punti nevralgici delle mura di Pompei contenenti istruzioni per gli assediati – iscrizioni dette eituns –, che ci fanno rivivere le fasi dell’assedio da parte dei Romani. Silla punisce Pompei fondando una colonia per i

a r c h e o 95


SPECIALE • POMPEI E ROMA

Busto in bronzo di Artemide-Diana saettante, dal tempio di Apollo a Pompei. II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

96 a r c h e o


SOCII POPULI ROMANI. L’ALLEANZA L’incontro fra Roma e Pompei inizia a margine della seconda guerra sannitica (326-304 a.C.), condotta contro le popolazioni italiche abitanti l’area della dorsale appenninica centrale e meridionale. Il lungo conflitto alla fine del IV secolo a.C. sancisce l’egemonia romana sull’Italia centrale, gettando le basi per la futura politica mediterranea della repubblica. Nel 310 a.C. i Romani tentano senza successo un’incursione nel territorio della lega nucerina (dal nome della capitale della confederazione, Nocera in Campania), all’interno della quale Pompei gioca il ruolo di sbocco portuale. Due anni dopo la confederazione viene sconfitta e stipula con Roma un trattato di alleanza (foedus), che inserisce stabilmente le comunità sannitiche della valle del Sarno nell’orbita della nuova

suoi veterani, la Colonia Civica Romanorum Cornelia Veneria Pompeianorum. Alla popolazione residente sannitica viene imposta la lingua latina, anziché quella osca. Terre e case delle famiglie aristocratiche non schierate con Roma vengono espropriate e donate ai veterani di Silla: la città si trasforma anche da un punto di vista etnico e culturale. Gli investimenti pubblici si concentrano nelle Terme e nell’Anfiteatro di Pompei, databile al I a.C. e piú antico di quello di Roma. I reperti esposti rappresentano l’affacciarsi sulla vita pubblica pompeiana di nuove famiglie e personaggi, in una fase in cui cambiano classi sociali e composizione della popolazione. Gli ex soldati si insediano nelle lussuose ville e case espropriate, aggiornandone i decori (II stile) e facendosi ritrarre secondo la moda in auge a Roma. Tra i pezzi piú significativi, un rilievo dalla via Appia a Roma e un’erma marmorea di Caius Norbanus Sorex dal tempio di Iside a Pompei, nonché alcuni ritratti virili. Sono esposti anche splendidi affreschi: quello con prue di navi, proveniente da Pompei e databile alla seconda metà del I secolo a.C.; l’affresco con architettura, porta

potenza. Per il piccolo centro di Pompei inizia cosí un processo storico di grande portata: la città si sviluppa alla periferia del crescente sistema di Roma, omologandosi progressivamente ai modelli offerti dal centro del potere e dalle sue colonie.

Statuetta in bronzo di Lare. Trieste, Museo d’Antichità «J.J. Winckelmann». a r c h e o 97


SPECIALE • POMPEI E ROMA A sinistra: affresco con Lari e serpenti, dal larario (Pompei, VII, 2 o 3). 55-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

e maschere e l’affresco con scena di corte ellenistica, risalenti al 60 a.C. circa e provenienti da Boscoreale, dalla Villa di Publius Fannius Synistor». ◆S i tratta di pezzi unici, come lo splendido affresco monocromo verde, databile tra 20 e 10 a.C., proveniente dalla villa presso la Reale Scuderia di Portici e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che testimoniano l’arte evoluta e raffinata diffusa al tempo a Roma e in Campania. Come prosegue, poi, il racconto di «Pompei 79 d.C. Una storia romana»? «Con la fase augustea di Pompei, che copre tutta l’età giulio-claudia, i grandi ritratti di Augusto e di Livia rappresentano l’espressione del culto imperiale, particolarmente

COLONIA CIVIUM ROMANORUM LA COLONIA La fine della guerra sociale (90-88/80 a.C.), con la concessione della cittadinanza romana agli ex alleati, non risolve l’instabilità politica della Penisola. Nel centro del potere scoppia

98 a r c h e o

una feroce guerra civile fra sostenitori di Mario e sostenitori di Silla. Pompei si schiera con il partito perdente e subisce quindi la dura repressione della fazione di Silla, che nell’80 a.C. fonda una

Statua in terracotta di Esculapio, dal tempio di Esculapio. III-II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


presente nella città. Sono anche celebrate figure che fanno rinascere la città finanziando opere pubbliche, come la benefattrice Eumachia, una dei grandi committenti della nuova classe sociale legata alla casa imperiale di Augusto, stabilizzatasi ai massimi livelli a Pompei. L’aristocrazia locale si modella sugli esempi romani. Con Augusto, a Roma e Pompei si afferma il III stile pompeiano (che ovviamente nasce nella capitale e viene trasferito a Pompei), che verrà cristallizzato dall’eruzione. A questa fase ap-

Statua in terracotta di divinità in trono (Iside-Fortuna?), da un sacello privato del Caseggiato del Sacello a Ostia. I-II sec. d.C. Ostia, Antiquarium di Ostia Antica.

partengono alcune splendide opere, come i due affreschi con paesaggio “idillico-sacrale”, risalenti al 20-10 d.C., provenienti dalla Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase, e conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (vedi foto a p. 107), o i frammenti di decorazioni pittoriche di III Stile, databili tra la fine del I secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C. provenienti da Roma, nell’area della Casa di Augusto, nel Parco archeologico del Colosseo. Per mostrare al pubblico il lusso che c’era al tempo a Roma, abbiamo ricostruito l’intera facciata di un ambiente di rappresentanza della domus del Gianicolo: una nicchia, con statua di Afrodite-Charis (vedi foto a p. 109), incorniciata da piccoli capitelli con delfini, è inserita in una parete con lesene decorate da un frammento in pavonazzetto e rosso antico e due raffinati capitelli di lesena in marmo rosso antico, con applicazioni policrome, risalenti al secondo terzo del I secolo d.C. e conservati nel Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps. Si tratta di una ricostruzione di grande effetto». ◆E poi c’è il terremoto del 62 d.C., che piegò Pompei ben prima dell’eruzione del 79 d.C.: l’immagine di Pompei che il Vesuvio consegna alla storia è quella di una città faticosamente impegnata a risollevarsi dal violento sisma... «Il 5 febbraio di un anno imprecisato del regno di Nerone (62 o 63 d.C.) Pompei vienesconvolta da un sisma tanto violento da divellere le statue del Foro e inghiottire un intero gregge di seicento pecore, stando a quanto narra Seneca. Dal 62 al 79 la città vive un

colonia di suoi veterani nella città vesuviana ribattezzata, in onore del vincitore, Cornelia Veneria Pompeianorum. La deduzione della colonia significa l’abolizione delle

antiche istituzioni locali, ma anche uno stravolgimento culturale, con l’imposizione ufficiale del latino al posto della lingua osca e la cancellazione delle memorie del passato.

a r c h e o 99


SPECIALE • POMPEI E ROMA A sinistra e nella pagina accanto: veduta d’insieme e particolare dell’erma marmorea con ritratto in bronzo di Lucius Caecilius Iucundus, dal tablino della Casa di Lucio Cecilio Giocondo. Prima metà del I sec. d.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: il settore dell’allestimento in cui è esposta l’erma.

100 a r c h e o

periodo difficile, provata da ripetute scosse. Noi archeologi, grazie agli scavi dell’eruzione che si verificò 17 anni piú tardi (nel 79 d.C.), abbiamo accertato che la ricostruzione di Pompei durava da diversi anni e che, al momento dell’eruzione, non era ancora terminata. Quello del 62 d.C. fu un terremoto molto distruttivo, tanto che da Roma vennero inviati sul posto magistrati imperiali per lo smaltimento delle macerie. Gli scavi ci restituiscono l’immagine di una città con molta manodopera al lavoro, proveniente anche da fuori: lo testimoniano i tanti luoghi di soggiorno, di svago e di ristoro (le cosiddette cauponae) che si conservano a Pompei. Luoghi nati appunto per soddisfare le esigenze dei molti operari giunti in città per la ricostruzione». ◆D opo la sezione dedicata al terrae motus, la mostra termina con l’eruzione del 79 d.C., che cancellò per sempre Pompei, cristallizzandola fino ai giorni nostri... «Dopo il terremoto del 62 d.C., a Pompei vennero ricostruite le grandi Terme Centrali, ancora in costruzione al momento dell’eruzione. La città visse una crisi economica molto forte: se ci vollero 17 anni per ricostruire Pompei e se, nel 79 d.C., c’erano ancora tutti quei cantieri in corso, vuol dire che ci fu una grandissima crisi. In questa fase nascono il ceto libertino, cioè quello dei liberti, gli schiavi liberati, e l’arte plebea. La mostra si chiude con affreschi molto belli riferibili a questa nuova corrente, come quello con processione di falegnami e quello con Lari e serpenti».


a r c h e o 101


SPECIALE • POMPEI E ROMA

◆D allo scorso 6 novembre monumenti e luoghi della cultura sono chiusi a causa dell’emergenza sanitaria. Avete approfittato di questo momento di «solitudine» del Parco archeologico del Colosseo per incrementare gli interventi di manutenzione dei monumenti e del verde del Foro Romano, del Palatino e dell’Anfiteatro Flavio? «Abbiamo proseguito la manutenzione ordinaria del patrimonio monumentale e di cura del verde in tutto il Parco. Anche in questi giorni continuano le attività dei cantieri di restauro dei monumenti, agevolati

A destra: parete in stucco policromo, dalla Casa di Meleagro a Pompei. 62-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: vetrina con l’affresco con prue di navi. Seconda metà del I sec. d.C.

TERRAE MOTUS. IL TERREMOTO DEL 62/63 D.C. Non tutti sanno che l’immagine di Pompei consegnata alla storia dal Vesuvio è quella di una città faticosamente impegnata a risollevarsi da un violento terremoto. Il 5 febbraio di un anno imprecisato del regno di Nerone (62 o 63 d.C.) Pompei viene sconvolta da un sisma tanto violento da svellere le statue del Foro e inghiottire un intero gregge di seicento pecore. Nessun edificio ne esce indenne; la stessa ricostruzione sarà travagliata da un lungo sciame sismico e si protrarrà fino all’eruzione del 79 d.C. È possibile immaginare le prime risposte al disastro, anche alla luce di quanto ancora oggi avviene, purtroppo, nelle tante aree terremotate della Penisola. Una sorta di commissario imperiale viene inviato sul luogo, per coordinare i magistrati locali nelle operazioni di smaltimento delle macerie. La viabilità è riorganizzata sulla base delle esigenze di smistamento dei cumuli di detriti, che ancora oggi si rinvengono fuori dall’abitato o nelle aree meno edificate. Solo dopo questa fase, di certo lunga e complessa, si poté avviare la messa in sicurezza e la ristrutturazione, forse non prima del regno di Vespasiano (69-79 d.C.).

102 a r c h e o


a r c h e o 103


SPECIALE • POMPEI E ROMA In questa pagina e nella pagina accanto, in basso: il volto e una veduta d’insieme della statua che ritrae Eumachia, dall’Edificio pompeiano che porta il suo nome. Fine del I sec. a.C.-inizi del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


dalla chiusura al pubblico dell’area archeologica, in quanto questi interventi, normalmente, con il Colosseo sempre aperto (il Parco chiude solo due giorni l’anno) e milioni di turisti nell’area archeologica, erano limitati negli orari. Adesso, in qualche modo, siamo f acilitati dall’assenza di visitatori».

Statua loricata di Marcus Holconius Rufus, membro di un’eminente famiglia nobile, da Pompei, tra via

dell’Abbondanza e le Terme Stabiane. 2/1 a.C.-14 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

◆Q uali sorprese attendono Romani e turisti alla prossima riapertura del Parco archeologico del Colosseo? «Stiamo lavorando intensamente per aprire nuove aree, al fine di creare una sorta di museo diffuso, che possa agevolare le visite senza creare assembramenti. Ricordiamo che nel Parco archeologico del Colosseo, la rete di luoghi espositivi si collega al Museo Palatino, ma anche al Museo del Colosseo, inaugurato nel 2018, con una mostra permanente sulla storia del monumento. In questi mesi si sta lavorando nell’edificio di S. Maria Nova-S. Francesca Romana, che presto ospiterà l’Antiquarium del Foro Romano, e in altre aree, cosí da non avere una concentrazione di pubblico solo in determinati luoghi. Nel 2021

a r c h e o 105


SPECIALE • POMPEI E ROMA

vorremmo, poi, inaugurare alcuni monumenti chiusi da tempo, tra cui la Domus Tiberiana, il primo vero palazzo imperiale sul Palatino, edificato da Tiberio sul lato occidentale del colle, alle pendici del Foro Romano, poi restaurato in epoca giulio-claudia, domizianea e soprattutto adrianea. Dopo 50 anni di chiusura, speriamo di poterla finalmente aprire al pubblico, con i suoi bellissimi ambienti lungo il Clivus Victoriae, per raccontare come si svolgeva la vita nei palazzi imperiali. La Domus sorge al di sotto dei cinquecenteschi Horti Farnesiani, per cui il nucleo piú antico è in gran parte inesplorato. Apriremo anche un nuovo settore della Casa delle Vestali, nel Foro Romano, per raccontare del piú antico sacerdozio femminile di Roma. Stiamo accelerando i lavori per regalare bellezza ai visitatori e, soprattutto, ai cittadini di Roma, che sono gli utenti piú vicini: i Romani hanno un grande bisogno di uscire e vedere cose belle». ◆È vero. C’è una grande sete di cultura e bellezza, in questo momento difficile per il Paese. Quali nuove passeggiate archeologiche tra Palatino e Foro Romano attendono i cittadini romani e i turisti, non appena sarà possibile godere di nuovo dei nostri monumenti? 106 a r c h e o

Sulle due pagine: la sezione della mostra dedicata all’arte augustea, nella quale è esposto, fra gli altri, questo affresco con paesaggio «idillicosacrale», dalla Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase. 20 a.C.-10 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

«Stiamo lavorando molto sul verde, che con i monumenti costituisce un paesaggio unico al mondo. Per esempio, nell’area retrostante le Uccelliere degli Horti Farnesiani, dove prima c’era solo terra battuta, abbiamo ripristinato i viali con le aiuole cosí come erano al tempo dei Farnese, per prolungare l’itinerario farnesiano che dalla via Nova, con scale e terrazze, attraversa le Uccelliere e giunge fino alla Casina Farnese. Un altro itinerario che coniuga la natura con l’architettura antica è il percorso lungo il Palatino meridionale, verso il Circo Massimo, dove abbiamo creato una passeggiata di un chilometro e mezzo nel verde, con pannelli che illustrano non solo i monumenti, ma anche i miti antichi correlati alle piante visibili lungo il percorso. Il numero dei visitatori con la pandemia è crollato: abbiamo perso piú di 5 milioni di visitatori solo nel 2020. Il Parco, solitamente, è frequentato perlopiú da Statunitensi, Canadesi, e, negli ultimi tempi, anche Cinesi e Coreani. Stiamo lavorando per rendere la visita sempre piú confortevole per tutto il nostro pubblico. Per questo stiamo incrementando itinerari di visita alternativi che consentono di approfondire diversi aspetti, che non è possibile cogliere pienamente nel corso di una breve visita. Ora tutti i 47 ettari del Parco archeologico del Colosseo sono


a r c h e o 107


SPECIALE • POMPEI E ROMA

ERUPTIO. 79 D.C. LA FINE DI POMPEI Il terremoto del 62/63 d.C. colse Pompei in una fase di evidente declino socio-economico, aggravandone la situazione. Alla vigilia del sisma, d’altronde, una celebre rissa, scoppiata nell’area dell’anfiteatro cittadino fra gli abitanti di Pompei e quelli della vicina Nocera, ne aveva già palesato tutto il malessere sociale. Nei diciassette anni che separano il terremoto dall’eruzione del 79 d.C. la città è sottoposta all’ulteriore test da sforzo di una ricostruzione continua e a macchia di leopardo. Tra le molte tracce di una progressiva crisi un unico, vistoso segnale in controtendenza: la realizzazione di un nuovo impianto per il pubblico svago, le Terme Centrali, ancora in costruzione al momento della definitiva distruzione. Tuttavia, al di là delle calamità naturali, le difficoltà palesate dalla classe dirigente di Pompei nel fare fronte alla ricostruzione riflettono una situazione comune a molti centri italici, duramente colpiti da una crisi economica legata alla crescita dei mercati provinciali, a scapito delle produzioni agricole della Penisola. E cosí, mentre la Roma imperiale è impegnata a sfidare il tempo con le realizzazioni di una metropoli senza precedenti (a partire dall’edificio che ospita la mostra che presentiamo in queste pagine), la piccola Pompei troverà nell’ambivalente caso di una distruzione conservativa la via per passare alla storia. 108 a r c h e o


In questa pagina: statuetta di Venere (cosiddetta «Afrodite Charis»), dalla domus del Gianicolo a Roma. Secondo terzo del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Nella pagina accanto: i calchi di un uomo e di un cane uccisi dall’eruzione del 79 d.C.

quasi interamente visitabili. E in questi tempi difficili, i percorsi diversificati e le passeggiate tematiche sono anche utili per evitare assembramenti e non concentrare i visitatori. A illustrare gli itinerari, varie applicazioni per cellulare, tra cui una App legata a Piranesi e al Grand Tour. Infine, il nostro desiderio piú grande è di poter finalmente inaugurare la mostra “Pompei 79 d.C. Una storia romana”: lo faremo con le opportune misure anti Covid, sicuramente scaglionando gli ospiti nell’intera giornata dell’inaugurazione, tra mattina e pomeriggio. Speriamo di poter festeggiare presto l’apertura della mostra insieme al nostro pubblico. Sarà un momento di ritrovato ottimismo e di speranza per una ripartenza». DOVE E QUANDO «Pompei 79 d.C. Una storia romana» Roma, Colosseo Catalogo Electa Note come detto nell’articolo, la mostra è attualmente chiusa, in ottemperanza delle del DPCM del 3 novembre 2020; per aggiornamenti sulla riapertura, sulle nuove date dell’esposizione e sulle modalità di accesso si può consultare il sito web del Parco archeologico del Colosseo: www.parcocolosseo.it a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

UN SERPENTE PER EMBLEMA NELLA MONETAZIONE DELLA CITTÀ TRACE DI BIZYA RICORRE LA SCENA DI UN LIETO SIMPOSIO, L’IDENTITÀ DEL CUI PROTAGONISTA PRINCIPALE, ASCLEPIO, È RESA EVIDENTE DALL’ANIMALE CHE NE ERA L’ATTRIBUTO

N

el IV libro della Naturalis Historia, Plinio il Vecchio elenca le regioni e i molti centri abitati della Tracia; ogni città viene caratterizzata da pochi cenni e, nominando Bizya, rocca di re, lo scrittore e naturalista latino la dipinge con scarse e fosche parole: essa è odiata dalle rondini per

110 a r c h e o

l’orribile crimine commesso dall’empio suo re Tereo (IV, 47). I truci eventi che si svolsero a Bizya dovevano essere parte dell’immaginario collettivo mitico del mondo classico e alla vicenda dedicano ampio spazio letterati e poeti, primi tra tutti Sofocle, nella sua tragedia Tereo, e poi Ovidio,

nelle Metamorfosi (VI, 424-570). Con alcune varianti, il macabro fatto è questo: Tereo, re trace di Bizya e figlio di Ares, sposa Procne, figlia del re di Atene, Pandione, che ha aiutato in battaglia, e hanno un figlio, Iti. Trasferitasi nella regia del marito, Procne, dopo cinque anni, desidera rivedere l’amata e


bellissima sorella Filomela. Giunta questa in Tracia, Tereo ne rimane morbosamente affascinato e la violenta; non soddisfatto, le taglia la lingua, affinché non sveli l’orribile azione avvenuta e la nasconde, facendola credere morta. Filomela riesce però a ritrovare Procne e a raccontarle per immagini ciò che è accaduto, cosicché insieme architettano una terribile vendetta, che fa dimenticare a Procne, novella Medea, la pietà umana e l’amore materno. Uccidono insieme, quindi, l’innocente figlioletto Iti, lo cucinano e lo servono a Tereo, mostrandogli, dopo il macabro pasto, la testa del povero bimbo e dandosi subito alla fuga. Infuriato e stravolto, Tereo le insegue, ma gli dèi, nei loro misteriosi disegni, trasformano Procne e Filomela rispettivamente in rondine e in usignolo (in alcune versioni le parti sono però invertite) per proteggerle da Tereo, che viene a sua volta trasformato in upupa o in falco. Per questo, tornando a Plinio, le rondini hanno in odio l’incolpevole città di Bizya.

NELLA CITTÀ DEGLI ASTI Arce del regno della tribú trace degli Asti, in posizione dominante sulle sponde del Mar Nero, Bizya (oggi Viza, in Turchia) prosperò durante la dominazione romana (oggi ne resta parte del teatro) e batté moneta a partire da Adriano fino a Filippo II. Le iconografie del rovescio sono particolarmente ricche di personaggi, che non fanno cenno al cupo e celebre dramma di Tereo, ma, piú saggiamente, presentano divinità greche e, in particolare, come abbiamo già visto (vedi «Archeo» n. 430, dicembre 2020; anche on line su issuu.com), quelle afferenti al culto

uomo barbato, a busto nudo, che tocca con la mano destra la spalla di una donna seduta accanto e che lo guarda, vestita di un chitone che le lascia scoperta una spalla. Davanti all’uomo c’è un basso tavolino a tre gambe in forma di zampe di felino, mentre accanto alla donna si trova un bastone sul quale è avvolto un serpente che rivolge la testa verso di lei.

LA PROVA REGINA

In alto: moneta in bronzo di Filippo I (244-249 d.C.), da Bizya (Tracia). Al dritto, l’imperatore; al rovescio coppia a banchetto, interpretata come Asclepio e Igea. Nella pagina accanto: Procne mostra a Tereo la testa di Iti, incisione da un’edizione delle Metamorfosi di Ovidio. 1606. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art. di Asclepio e dei suoi benefici familiari, protagonisti di un banchetto ben piú lieto rispetto a quello tramandato dal mito. In particolare, un’emissione datata al regno di Filippo I rappresenta al rovescio un felice simposio a due: su di un letto triclinare è sdraiato un

Vi è poi un omino, probabilmente un servitore, in chitone corto, con la mano su un’anfora intento a mescere, e un albero con una corazza appesa, mentre a destra si vede la parte anteriore di un cavallo che sta avanzando. In alto campeggia uno scudo ovale e in basso la leggenda BIZYHN-ΩN, che indica la «proprietà» dell’emissione, il popolo di Bizya. Se non fosse per il serpente avviluppato al bastone, non sarebbe facile interpretare la scena simposiaca, in quanto potrebbe trattarsi di una divinità barbata (primo tra tutti Zeus) a banchetto con una compagna seduta, oppure di un eroe locale con la sua compagna. La corazza appesa all’albero e il cavallo incedente farebbero poi pensare a un «ritorno del guerriero», secondo un’iconografia piú adatta a un rilievo funerario privato che a una moneta provinciale romana emessa da una comunità fornita di propria zecca. È dunque il serpente a far propendere, come riportato nei cataloghi scientifici, a una beneaugurante raffigurazione di Asclepio e Igea a tavola, legati da un gesto di affetto paterno dettato dal fatto che Igea è, tra i figli di Asclepio, la preferita e tributaria di culti autonomi, raffigurata sempre in compagnia di un serpente che spesso lei stessa nutre, simbolo di rigenerante eternità salutare.

a r c h e o 111


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Francesca Ghedini

GIULIA DOMNA Una siriaca sul trono dei Cesari Carocci editore, Roma, 267 pp., ill. b/n 24,00 euro ISBN 978-88-290-0123-1 www.carocci.it

A quasi quarant’anni da un primo saggio dedicato a Giulia Domna, Francesca Ghedini torna a parlare dell’illustre donna e lo fa con il rigore scientifico dell’archeologa, volta a ricostruire la società antica e le figure di spicco che l’hanno costellata, attraverso un repertorio di immagini e di fonti storiche. Ma chi è stata Giulia Domna? «Una siriaca sul trono dei Cesari», evidenzia il sottotitolo della biografia. Da Emesa, in Siria ha inizio, infatti, l’appassionante vita di Giulia che, appena sedicenne, nel 185 d.C. circa, viene mandata a Lione (Lugdunum) per 112 a r c h e o

sposare il governatore romano della città, il quarantenne Settimio Severo, originario di Leptis Magna e, di lí a poco, destinato a diventare imperatore dopo la morte di Commodo, nel 192 d.C. Giulia ha origini «aristocratiche», suo padre Giulio Bassano è gran sacerdote del culto solare e personaggio illustre nella compagine della cittadina siriaca. Egli invita la figlia ad affrontare un lungo viaggio verso l’ignoto, a lasciare l’amata sorella Mesa (che in seguito la raggiungerà a Roma, insieme alle figlie Soemia e Mamea), per celebrare il matrimonio con un uomo potente, di rango militare, ma che le sarà sembrato già anziano e dal linguaggio incomprensibile (Settimio Severo parlava una lingua a lei sconosciuta, il latino, mentre Giulia si esprimeva probabilmente in arabo). E quali saranno stati i pensieri piú reconditi della giovane donna? Nelle pagine iniziali del libro, Francesca Ghedini confessa di non aver saputo decifrare il mistero del cuore di Domna, di sentirsi nell’incapacità di «calarsi completamente nel personaggio, di pensare come lei, di sognare come lei di divenire Giulia Domna…». Da autorevole studiosa qual è, Ghedini segue dunque la

documentazione storica (Cassio Dione, Erodiano, l’Historia Augusta, ecc.) e delinea, con l’aiuto di un ricco repertorio iconografico – monete, statue, rilievi, monumenti pubblici e privati… – (che appaiono nella seconda parte del libro) i tratti salienti di una personalità forte, determinata che non ha eguali nel panorama del potere femminile in età imperiale. Quando Settimio Severo diventa imperatore, a Giulia, nel 194, come testimoniano alcune monete, sarà attribuito il titolo di Augusta. Da allora, ella sarà spesso a fianco del marito con i due figli, Settimio Bassiano (il futuro Caracalla) e Geta, seguendolo nelle campagne militari, nei lunghi viaggi nelle province dell’impero, assistendolo nelle celebrazioni ufficiali e importanti come, nel 204, i Ludi saecolares, fino a quando l’imperatore non troverà la morte, nel 211, in Britannia. Vedova, nella dimora del Palatino Giulia è circondata dal conforto di intellettuali: retori, sofisti, storici e poeti; conosce il potere in tutti i suoi ingranaggi ed è pronta ad affiancare la guida dell’impero, destinato, per volere di Settimio Severo, a entrambi i figli. Il senato si raccomanda a lei conferendole il titolo – mai attribuito ad alcuna

altra donna – di mater senatus et patriae, che la qualifica come colei che deve vegliare sull’ordine politico e sull’intero popolo romano. I fatti andarono diversamente: Caracalla uccide Geta che muore tra le braccia della madre, testimone attonita dell’orrendo massacro. Anche il destino di Giulia è segnato: da allora in poi, vive per mantenere nelle mani del figlio omicida l’impero a cui sente di aver sacrificato la sua dignità di madre. Il perverso legame, nato dal sangue di Geta, tra lei e il primogenito si tradusse per la donna in un potere crescente e progressivo, che la portò a svolgere compiti ai vertici dell’impero mai concessi a nessun altro esponente del genere femminile. Affiancò il giovane Caracalla che dette presto segni di instabilità mentale e di ferocia, cercando, con la sua presenza, di garantire una parvenza di equilibrio. Ora Giulia viaggiava per l’impero, al seguito del figlio imperatore, e fece ritorno, nell’ultimo atto della sua vita, nell’amata Siria, ad Antiochia, dove riprese le sue frequentazioni intellettuali. Qui le vengono recapitate le ceneri del suo folle figlio, ucciso nel 217, a 31 anni. Giulia decide che anche per lei è finita e si lascia morire d’inedia. Lorella Cecilia


presenta

INGHILTERRA

Nascita di una monarchia millenaria Desiderio di indipendenza e vocazione internazionale segnarono la storia della corona inglese nel Medioevo. Una duplice filosofia politica, tuttora al centro dei destini strategici del regno. Il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre la storia dell’Inghilterra, che s’intreccia con quella della sua monarchia, una delle piú antiche d’Europa e senza dubbio la piú popolare, anche oltre i confini dell’isola. Una vicenda che prende le mosse all’indomani della caduta dell’impero romano, quando anche la Britannia può liberarsi definitivamente dal giogo straniero e, prima di trasformarsi nel Regno Unito, vede convivere molte corone. Le prime e decisive svolte si registrano con l’avvento del re anglosassone Alfredo il Grande – che sconfigge i Vichinghi e si fa promotore della crescita culturale e civile del suo popolo – e poi di Edgardo il Pacifico: solennemente incoronato nel 973, è il sovrano grazie al quale

l’Inghilterra si avvia ad assumere i contorni di una nazione vera e propria. Meno di un secolo piú tardi, irrompono sulla scena i Normanni che, guidati dal duca Guglielmo il Bastardo, escono vincitori dallo scontro combattuto nel 1066 a Hastings, la «madre di tutte le battaglie»: gli Inglesi subiscono la piú grande umiliazione della loro storia, il vincitore si autoribattezza «il Conquistatore» e inaugura una stagione nuova, dando inizio a una delle piú potenti monarchie di tutti i tempi. Tempi che a piú riprese si macchiano ancora di sangue, come quando, dal 1337 al 1453, le corone di Francia e Inghilterra si batterono aspramente per il controllo di vaste porzioni della Francia nella Guerra dei Cent’anni. O, piú tardi, quando la rivalità fra le casate dei Lancaster e degli York si trasforma nella Guerra delle due Rose, che per trent’anni vede le isole britanniche teatro di scontri campali, intrighi e tradimenti.

IN EDICOLA


Marisa Ranieri Panetta

LE DONNE CHE FECERO L’IMPERO Tre secoli di potere all’ombra dei Cesari Salerno editrice, Roma, 260 pp. 18,00 euro ISBN 978-88-6973-469-4 www.salernoeditrice.it

Ancora di donne e potere si parla nel libro dell’archeologa, saggista e giornalista Marisa Ranieri Panetta. Il volume prende in esame alcune figure femminili che, dal I secolo a.C. al III secolo d.C. occuparono un posto significativo nella storia dinastica, partecipando alla gestione del modello imperiale e influenzando in qualche caso anche importanti nomine nella carriera politica. Il primo profilo biografico spetta a Cleopatra, unica monarca del Mediterraneo in grado di condizionare le scelte politiche di uomini di grande potere. Passata alla storia, a causa dell’ostile propaganda augustea, come donna lussuriosa e scellerata, la regina fu invece dotata di grande intelligenza e cultura. Se Augusto, infatti, potè trasformare una Roma «di pietra» in una città «di marmo» e se riuscí a creare con genialità una monarchia con un’impalcatura repubblicana fu anche grazie alle immense ricchezze del regno di Cleopatra appena conquistato. L’autrice passa poi a raccontarci di Livia, 114 a r c h e o

moglie di Augusto, rappresentante eccellente delle virtú tradizionali romane, ma capace di avere grande presa sull’imperatore e di contribuire all’ascesa al trono di suo figlio Tiberio. Segue, poi, la vita di Agrippina Minore, madre di Nerone che, destreggiandosi in situazioni difficili, ha perseguito fino in fondo l’obiettivo di comandare e di essere riverita. Dalle fonti letterarie, sembra invece che Plotina, moglie di Traiano – della quale si sa pochissimo – abbia manomesso il testamento del marito al fine di far eleggere imperatore Adriano. A chiusura di questa bella rassegna di donne al «vertice» ritroviamo Giulia Domna, che l’autrice definisce, usando un neologismo, un’influencer dell’epoca, colta, autorevole, braccio destro del marito e poi del figlio Caracalla in ogni iniziativa e nella gestione del potere. Grande mediatrice tra istanze orientali e occidentali,

affascinò e incuriosí i suoi sudditi suscitando invidie e ammirazione. Dopo la sua morte dovrà trascorrere molto tempo prima che altre donne lascino il segno nella storia. Toccherà a Elena, madre di Costantino e poi a Teodora, moglie di Giustiniano, che si distingueranno nel nome di un’altra religione, il cristianesimo, e di un’altra capitale: Costantinopoli. Attraverso la vita di queste donne scorrono tre secoli di storia romana. Ranieri Panetta conclude ricordando che «nella loro declinazione, non troviamo periodi definiti con nomi femminili: è sempre l’età di Augusto, di Nerone, di Traiano o di Settimio Severo. Le fonti storiche ci consegnano ritratti di matrone all’apice della scala sociale, macchiati di insinuazioni malevole, ed esse sono ricordate piú per i vizi a loro attribuiti che per le indiscutibili virtú». L. C. Vincenzo Farinella e Alfonsina Russo, con Alessandro D’Alessio e Stefano Borghini (a cura di)

RAFFAELLO E LA DOMUS AUREA L’invenzione delle grottesche Electa, Milano, 270 pp., ill. col. e b/n 39,00 euro ISBN 978-88-918-9006-1 www.electa.it

Il volume è stato realizzato in previsione della mostra che avrebbe dovuto

essere inaugurata nella Domus Aurea ed è stata rinviata a causa dei provvedimenti adottati per contrastare la diffusione del Covid-19. In attesa che la rassegna – uno degli appuntamenti piú attesi fra quelli organizzati nel cinquecentenario della morte di Raffaello – possa finalmente avere luogo, ci si può dunque avvicinare all’argomento, trattato in maniera ampia e dettagliata, grazie al concorso dei molti specialisti riuniti nel volume. In apertura, c’è spazio per la storia e l’architettura della Domus Aurea (un complesso che, sebbene solo parzialmente conservatosi, non cessa di stupire), per poi passare al rapporto speciale che il maestro urbinate stabilí con il grandioso monumento. Un’opera da leggere e da guardare, grazie alla quale non sarà difficile intuire perché le «grottesche» furono capaci di esercitare un cosí profondo e duraturo fascino su Raffaello, ma non solo. Stefano Mammini




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.