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DISCO DI NEBRA
BABILONIA TRA CIELO ETERRA
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GLI EREDI DI ALESSANDRO
SPECIALE LE STRADE ROMANE
TUTTI GLI EREDI DI ALESSANDRO
LUOGHI DEL SACRO
UNA CITTÀ FRA CIELO E TERRA
IL DISCO CELESTE DI NEBRA
LE ULTIME RIVELAZIONI
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IN EDICOLA IL 10 FEBBRAIO 2021
2021
Mens. Anno XXXV n. 432 febbraio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 432 FEBBRAIO
ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI
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EDITORIALE
DALLE STRADE ALLE STELLE Quando a Roma c’erano ancora i turisti – e auguriamoci di averli presto nuovamente fra noi – era divertente osservarli compiere esercizi di equilibrio (non dissimili da quelli cinestetici che i fisioterapisti infliggono alle vittime delle ormai leggendarie «buche nell’asfalto» della Capitale) consistenti nello spostarsi saltellando da basolo a basolo lungo le antiche strade romane. Esperienza, in verità, per la quale non c’è bisogno di scomodarsi fino all’Urbe: sebbene, come è noto, le vie consolari, portino tutte a Roma (o forse, meglio, partano da lí) si trovano ovunque nella Penisola e anche al di fuori di essa. Tanto che l’antica terminologia costruttiva (quelle romane erano percorsi segnati da lastre di pietra, viae lapidibus stratae) riecheggia nell’inglese street o nel tedesco Strasse. Dell’antica viabilità romana, di quel monumento stupefacente («la piú grande infrastruttura militare di tutti i tempi») costituito dai resti delle vie consolari pensavamo di sapere tutto? Per convincerci del contrario, basta sfogliare le pagine dello Speciale di Flavio Russo (vedi alle pp. 90-109). L’occhio dell’ingegnere antichista ci permetterà di rispondere a vecchi interrogativi (perché la forma scelta per la pavimentazione delle strade era irregolare, addirittura poligonale, invece di essere «comodamente» rettangolare?) e a porne di nuovi: come mai i carri romani che, per secoli, percorrevano – trainati da cavalli o buoi – quella «rete» di centinaia di migliaia di chilometri, avevano generalmente il passo corto e l’avantreno «scomodamente» fisso? Riflettiamo, allora, in questi tempi di forzata immobilità, su quella bellissima invenzione che furono le strade romane, e andiamo a cercarne le testimonianze piú vicine a casa nostra. Consideriamole un metaforico invito a futuri movimenti e viaggi. E riflettiamo (sempre dopo aver letto le pagine rivelatrici dello Speciale) sulle modalità e, soprattutto, sui tempi che la loro percorrenza suggeriva… Due parole a proposito dell’immagine di copertina: i lettori piú fedeli l’avranno riconosciuto, si tratta dell’ormai celebre disco di Nebra (ne abbiamo parlato per la prima volta quindici anni fa, quando la sua scoperta venne resa pubblica). È tornato a far parlare di sé, questo unico e affascinante reperto che, a oggi, sembra essere la piú antica rappresentazione astronomica del mondo... L’Arche Nebra, il centro visite realizzato nei pressi del Mittelberg, l’altura su cui il disco di Nebra fu trovato nel 1999.
Andreas M. Steiner
SOMMARIO EDITORIALE
Dalle strade alle stelle
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di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
SCAVI Con la conclusione degli scavi nell’area di via Alessandrina, a Roma, il Foro di Traiano recupera un’ampia porzione della sua grandiosa piazza INCONTRI Il Teatro Argentina di Roma dà il via alla settima edizione di «Luce sull’archeologia»
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FRONTE DEL PORTO Un apparato informativo totalmente rinnovato permette di «leggere» la storia di Ostia e dei suoi monumenti 18
di Claudia Abatino
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di Marta Rivaroli
Nebra vent’anni dopo
44 MUSEI
Sulle ali della vittoria
ESCLUSIVA 12
Una città fra cielo e terra
di Claudia Tempesta e Alberto Tulli
A TUTTO CAMPO Lo studio delle antiche specie animali è un alleato prezioso per l’archeologia e contribuisce a ricostruire la storia e le abitudini delle comunità umane 22 6
I LUOGHI DEL SACRO/2
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66
di Cristina Ferrari
di Andreas M. Steiner
di Catia Fauci
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66 IN EDICOLA IL 10 FEBBRAIO 2021
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ARCHEO 432 FEBBRAIO
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di Alessandro Mandolesi
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Un nuovo intervento di restauro ha interessato la Casa del Fauno, una delle residenze piú eleganti e ricche dell’intera Pompei 14
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Presidente
DISCO DI NEBRA
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Mens. Anno XXXV n. 432 febbraio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE LE STRADE ROMANE
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
GLI EREDI DI ALESSANDRO
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
BRESCIA
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
Federico Curti
BABILONIA TRA CIELO ETERRA
Anno XXXVII, n. 432 - febbraio 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
In copertina il disco di Nebra, interpretato, per via della raffigurazione della volta celeste, come un vero e proprio strumento astronomico. 1600 a.C. Halle, Museo Preistorico.
ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI
LUOGHI DEL SACRO
TUTTI GLI EREDI DI ALESSANDRO
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UNA CITTÀ FRA CIELO E TERRA
IL DISCO CELESTE DI NEBRA
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis
LE ULTIME RIVELAZIONI
28/01/21 16:39
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Claudia Abatino è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Siena. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Catia Fauci è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa. Daniele Fortuna è assistente tecnico del Parco archeologico del Colosseo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Marta Rivaroli è storica delle religioni. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Claudia Tempesta è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Alberto Tulli è responsabile dell’Ufficio Valorizzazione del Parco archeologico di Ostia Antica.
ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/7 Tutte le piccole patrie
74
di Umberto Livadiotti
74 Rubriche
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Per sanare quel fragile corpo
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di Francesca Ceci
LIBRI
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SPECIALE Strade romane
La grande rete
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di Flavio Russo
Illustrazioni e immagini: Cortesia Landesamt für Denkmalpflege und Archäologie Sachsen Anhalt: pp. 37, 38; Juraj Lipták: copertina e pp. 3, 31, 32 (basso), 33 (basso), 36/37, 42; Karl Schauer: pp. 39, 40-41, 43; M. Ritchie: p. 34 – Cortesia Ufficio Stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 6-7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: p. 8 – Da: Rodolfo Lanciani, Forma Urbis Romae, Edizioni Quasar, Roma 1988: p. 9 – Cortesia Soprintendenza ABAP Molise: pp. 10-11 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Parco archeologico di Ostia antica: p. 19; Studio InkLink: p. 18 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 20-21 – Claudia Abatino: pp. 22, 23 (basso) – Cortesia Jacopo De Grossi Mazzorin: p. 23 (alto) – Shutterstock: pp. 30/31, 44/45, 46 (basso), 48/49, 61 (alto), 64/65, 74/75, 77, 80-84, 85 (alto), 87, 88/89, 90/91, 98/99, 108-109 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/Album: pp. 46 (alto), 61 (basso); Album/Prisma: pp. 51, 62/63; AKG Images/Bible Land Pictures: p. 57 (alto); AKG Images: p. 57 (basso); Album/Josep R. Casals: pp. 58/59; AKG Images/Alain Le Toquin: p. 85 (basso); Historica Graphica Collection/Heritage-Images: p. 110 – Doc. red: pp. 35, 49, 50/51, 52-55, 59, 60, 76, 78-79, 86, 92-93, 95, 98, 100/101, 105, 106/107, 111 – Da: https://archeologie.culture.fr/: p. 56 – Cortesia Archivio Fotografico Musei Civici di Brescia: pp. 70-71: Fotostudio Rapuzzi: pp. 66/67; Alessandra Chemollo: pp. 68-69; Renato Corsini: pp. 72-73 – Flavio Russo: ricostruzioni virtuali e tavole alle pp. 101, 102-103; foto alle pp. 104/105 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 33, 47, 65, 94 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 96/97, 99. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCAVI Roma
QUELL’AUGUSTO DI VIA ALESSANDRINA
S
i sono conclusi nello scorso novembre gli scavi che a Roma, grazie alla rimozione del tratto settentrionale di via Alessandrina, hanno riportato alla luce una nuova porzione della piazza del Foro di Traiano, oltre ai resti delle abitazioni del quartiere medievale che qui si era in seguito sviluppato, le cui fondazioni poggiavano direttamente sulla piazza stessa, ormai privata della sua pavimentazione originaria a lastre in marmo bianco, della quale restano bene evidenti le impronte sulla malta di preparazione.
L’intervento si è inserito nel piú vasto progetto di scavo dei Fori Imperiali e, in questo caso, mirava a restituire migliore visibilità al grandioso complesso traianeo, la cui costruzione fu probabilmente motivata, oltre che da intenti celebrativi, dalla necessità di un massiccio ampliamento degli spazi disponibili per l’amministrazione della giustizia, che dal Foro Romano, alla fine della repubblica, si era spostata in buona parte in quello di Cesare e poi, principalmente, in quello di Augusto. Il cantiere, alla cui guida A sinistra: il ritratto di Augusto in età giovanile in corso di scavo. Nella pagina accanto, in alto: l’area di via Alessandrina al termine degli scavi. Nella pagina accanto, in basso: frammento del Fregio d’Armi del Foro di Traiano, appartenente, con buona probabilità, al pannello che decorava il fronte della Basilica Ulpia rivolto verso la piazza del Foro di Traiano.
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fu chiamato l’architetto Apollodoro di Damasco, fu avviato nel 105 d.C., e, nel 112, Traiano poté inaugurare il suo Foro, che, per la sua grandiosità, fu sempre considerato dai Romani alla stregua di una delle «meraviglie» del mondo. Se fino all’Alto Medioevo le strutture che componevano il Foro di Traiano si erano conservate in buono stato, intorno al IX secolo lo scenario mutò in maniera repentina e anche qui si succedettero spoliazioni, interventi di riuso e trasformazione, con la nascita di un vero e proprio quartiere. Un processo che raggiunse il culmine nel XVI secolo a seguito dell’intervento urbanistico promosso dal cardinale Michele Bonelli, nipote di Papa Pio V Ghislieri (1566-1572) e nato nella provincia di Alessandria (Bosco Marengo) nel 1541. Negli anni Ottanta del XVI secolo, il porporato dispose la bonifica di tutta la vasta zona soggetta a impaludamento compresa tra la Colonna Traiana e la Velia, con la riattivazione della Cloaca Massima e poi con la stesa di un potente interro che rialzò e uniformò il livello rispetto al ristagno delle acque. Di qui la ragione dell’appellativo «Alessandrino» dato al quartiere e al suo asse viario principale (via Alessandrina), fatto tracciare attorno al 1570 e lungo piú di 400 m, poiché collegava l’area urbanizzata nel Foro diTraiano con la basilica di Massenzio, all’epoca identificata con il Foro della Pace. Fra il 1924 e il 1932, tutti gli edifici che s’affacciavano su via Alessandrina
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
vennero demoliti, cosí da consentire la realizzazione della via dell’Impero (oggi via dei Fori Imperiali). Oltre a offrire testimonianze dell’intera vicenda urbanistica, gli scavi hanno portato al recupero di molti reperti scultorei e architettonici di pregio, destinati a essere esposti in permanenza nel Museo dei Fori Imperiali ai Mercati di Traiano, in stretto legame, quindi, con il luogo di rinvenimento. Fra le acquisizioni piú significative, possiamo ricordare la testa in marmo rinvenuta nel settembre 2019 in un interro artificiale di epoca medievale (XI-XII secolo), interpretabile come il ritratto di Augusto in età giovanile o di altro componente della famiglia giulio-claudia. Le ciocche dei capelli si dispongono sulla fronte secondo la tipica disposizione dei
ritratti di quest’epoca, caratterizzati inoltre da occhi sporgenti, guance scarne, labbra carnose e mento ben pronunciato. Pochi mesi prima, era stata la volta di un’altra testa, in questo caso raffigurante il dio Dioniso, databile alla prima età imperiale. Anche in questo caso il reperto era stato reimpiegato come materiale da costruzione in una fondazione del XIII secolo. La testa apparteneva a una statua che, in base all’iconografia nota, presentava il
dio in posizione stante e doveva raggiungere i 2 m d’altezza. Gli occhi erano realizzati in pasta vitrea o in pietre preziose e le analisi diagnostiche condotte in laboratorio hanno rilevato sulla capigliatura tracce di colore rosso pallido su uno strato preparatorio. Importante è stato anche il recupero di una sessantina di frammenti riferibili al fregio con le armi che rappresentano le spoglie belliche dei popoli vinti e quelle dei vincitori, tutte deposte a simboleggiare la raggiunta pax romana. Il motivo, noto appunto come Fregio d’Armi del Foro diTraiano, decorava pannelli marmorei fiancheggiati da statue di guerrieri daci che coronavano il ricco fronte della Basilica Ulpia e, forse, i portici della piazza del Foro diTraiano. (red.)
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
C’È UN ANELLO NELLA VIGNA A POCHI PASSI DAL TEMPIO VOLUTO DA ELIOGABALO PER IL DIO DEL SOLE EL-GABAL BRILLA UN’OPERA D’ARTE CONTEMPORANEA. LA PRIMA DEL SUO GENERE A FAR PARTE DEL PATRIMONIO DEL PARCO DEL COLOSSEO
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omunicare con efficacia il patrimonio storico, archeologico e monumentale è la grande sfida dei luoghi della cultura che, per vincerla, sempre piú ricorrono ad approcci e prospettive alternative, per innovare e rafforzare il rapporto con il pubblico e raggiungere fasce di piú difficile coinvolgimento. Un’esigenza a cui risponde perfettamente il linguaggio dell’arte contemporanea, da sempre terreno di sperimentazione e rivoluzione. Negli anni recenti il Parco archeologico del Colosseo ha promosso una serie di iniziative legate ai temi del contemporaneo,
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elaborate a partire dalla volontà di mettere in relazione, equilibrio e dialogo le strutture antiche con le opere d’arte ospitate, con una predilezione per le installazioni site specific, pensate appositamente per l’area archeologica.
CREATIVITÀ ITALIANA Una di queste è Anello di Francesco Arena, la prima opera di arte contemporanea entrata a far parte del patrimonio artistico del Parco. Inaugurata il 25 giugno 2020, la grande scultura bronzea è stata ideata dall’artista per lo spazio di Vigna Barberini sul Palatino, in un armonico ed equilibrato scambio
con il contesto espositivo e i resti antichi: dal dialogo tra archeologia e arte contemporanea scaturiscono suggestioni e spunti di riflessione inediti sulla memoria del tempo, sul suo divenire e sulla resilienza al suo trascorrere. Il progetto nasce dalla volontà di comunicare, attraverso un linguaggio contemporaneo, che affonda le sue radici nel passato, valori e concetti rilevanti, universalmente condivisi, trasversali, per completare e arricchire l’esperienza di visita del pubblico del Parco. L’opera consiste in un anello di bronzo, spesso 20 cm, alto 50 e di 410 di diametro, esternamente
Nella pagina accanto: Anello, l’installazione site specific realizzata da Francesco Arena nell’area della Vigna Barberini. A destra: la Vigna Barberini nella Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani. 1893-1901. opaco. Nella parte interna, lucidata a specchio, è incisa la frase: THE VERY STONE ONE KICKS WITH ONE’S BOOT WILL OUTLAST SHAKESPEARE («La stessa pietra che calci con lo stivale sopravvivrà a Shakespeare»). Tratta dal romanzo To the Lighthouse (1927; Al faro) di Virginia Woolf, la citazione sintetizza a meraviglia il rapporto dell’uomo con le cose che lo circondano, che esistono da prima di lui e a lui sopravvivranno; illustra la stratificazione del tempo e la moltitudine di tempi esistenti: il tempo dell’uomo uguale a una manciata di decenni e il tempo della pietra, fatto di ere.
RESISTERE AL TEMPO Nelle parole della scrittrice inglese Francesco Arena coglie l’anima del rapporto che abbiamo con le cose inanimate e che «usiamo» quotidianamente, per l’appunto una pietra a cui diamo un calcio, apparentemente un oggetto senza importanza, ma che testimonia, con il suo resistere nel tempo, l’indifferenza della natura nei confronti del passaggio dell’uomo, anche quando questo trasforma un masso in una statua o in un’architettura inesorabilmente destinata a divenire rovina e nuovamente pietra. Fulcro dell’opera è un fusto di colonna adagiato a terra, pertinente all’area del Palatino, racchiuso e protetto dall’anello: l’immagine del manufatto romano, su cui sono visibili i segni del tempo, si riflette, insieme alle lettere che compongono la citazione di Virginia Woolf, all’interno della superficie lucida della scultura di bronzo.
Del reperto archeologico Francesco Arena coglie e intende valorizzare in special modo l’orizzontalità e il valore simbolico di questa posizione: «Mi è piaciuta perché, rispetto alla grandiosità dei Fori, questa colonna da verticale è diventata orizzontale, un gesto semplice vicino alla vita dell’essere umano. Volevo che avesse un aspetto umano e potesse accogliere chi transita in questo luogo e che potrà anche sedersi sull’anello». Con queste parole l’artista invita dunque i visitatori a entrare in contatto, anche fisico, con l’opera; a relazionarsi con la scultura e a fermarsi a riflettere, immersi in un contesto ambientale carico di testimonianze e suggestioni. La scelta di Vigna Barberini quale luogo dove collocare l’opera, non è stata dunque casuale: si tratta di una terrazza artificiale di età imperiale collocata sulla pendice nord-est del Palatino che sovrasta l’arco di Costantino e il Colosseo, sospesa tra le chiese di S. Sebastiano e S. Bonaventura e da cui si gode di una straordinaria vista sulla valle dell’Anfiteatro;
questa porzione del colle rappresenta ancora oggi uno spazio quasi incontaminato, metafisico, denso di stratificazioni storiche, un luogo di riflessione distante dai grandi flussi di visita. Nell’area è ancora oggi visibile il basamento del tempio che l’imperatore Eliogabalo fece erigere in onore della divinità solare di origine siriana El-Gabal e, proprio a pochi metri di distanza, il fusto di una colonna romana adagiato a terra, probabilmente pertinente lo stesso tempio, ha ispirato l’artista. Il progetto ideato da Francesco Arena è stato selezionato tra i vincitori della V edizione del bando Italian Council (2019), il programma a supporto della creatività italiana dedicato alla promozione dell’arte contemporanea italiana nel mondo promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, con il partenariato culturale dell’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona per la promozione internazionale. Daniele Fortuna
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n otiz iario
SCAVI Molise
NELLA VILLA D’UN MAGISTRATO ASSAI BENVOLUTO
N
egli ultimi anni il territorio di Venafro, l’antica Venafrum (Isernia) è stato teatro di significative scoperte, che hanno contribuito a ricostruire il quadro delle dinamiche insediative antiche in un territorio strategico: la fertile pianura venafrana, chiusa tra le Mainarde e il Matese e al centro di molteplici collegamenti naturali
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i contatti culturali e commerciali con le popolazioni vicine, fu infatti abitata fin dalla preistoria. In particolare, in località Ficora di Morra – che si trova allo sbocco della strettoia che collega la Campania al Molise – sono stati effettuati, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio
del Molise, importanti rinvenimenti: già nel 2014, durante i lavori per la realizzazione di un metanodotto, erano stati individuati e parzialmente scavati due insediamenti neolitici con capanne e focolari con resti di pasto, nonché tracce di fauna pleistocenica. La grande quantità di ossidiana rinvenuta in entrambi i siti è
fino in epoca tardo-antica, della quale è stato possibile rimettere in luce una porzione della pars rustica, con magazzini, ambienti di stoccaggio, canalette e una piccola fornace per la produzione di laterizi; la grande residenza si estende verso nord, dove probabilmente, come testimoniato da tessere di mosaico anche in pasta vitrea visibili sul terreno, si trovava la pars Nella pagina accanto: località Ficora di Morra (Venafro, Isernia). Veduta dall’alto dell’area indagata, con i resti di una grande villa rustica edificata agli inizi del I sec. d.C. e in uso fino all’età tardo-antica. In questa pagina, dall’alto: uno degli
ambienti della villa rustica in corso di scavo; l’anello sigillo in bronzo che ha permesso di identificare in Maecius Felix il proprietario della villa; una delle tombe facenti parte del nucleo necropolare, impiantato fra le macerie della villa fra il VI e il VII sec. d.C.
risultata proveniente in gran parte da Lipari, probabilmente attraverso la Puglia, a testimonianza dei passaggi di uomini e greggi lungo quelli che poi diverranno i percorsi tratturali che ancora oggi caratterizzano il paesaggio molisano. Uno dei due siti mostra continuità di vita dal Neolitico fino all’età del Bronzo, a cui risale un fossato con palizzata purtroppo intercettato solo parzialmente. Quelle ricerche avevano anche rivelato che gli strati di frequentazione pre-protostorica erano stati in parte obliterati da strutture di epoca romana, una circostanza ora confermata dai lavori intrapresi per la sostituzione di un vecchio sostegno per i cavi
elettrici. Le indagini preventive hanno infatti riportato alla luce la porzione meridionale di una grande villa rustica, la cui esistenza era stata data pressoché per certa per la presenza di materiale ceramico e frammenti di pavimento in cementizio visibili sul terreno attorno al traliccio da sostituire. «Le strutture – spiega Maria Diletta Colombo, funzionario archeologo e direttore delle indagini – sono state rinvenute a pochi centimetri dall’attuale piano di campagna, come avviene sempre in territorio molisano; dell’edificio, quindi, si conserva poco piú del livello di fondazione: si tratta di una grande abitazione di campagna, costruita agli inizi del I secolo d.C. e abitata
dominica. Il ritrovamento di un anello sigillo in bronzo ci ha svelato anche il nome di uno degli ultimi proprietari del complesso: si tratta di Maecius Felix, il quale, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C., fu patrono di Venafro e governatore della provincia del Sannio. Questo importante magistrato ci era noto finora solamente grazie a una sola attestazione, la base di una statua rinvenuta nella zona del Foro di Venafrum (oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), che gli venne dedicata dai decurioni e da tutto il popolo per la sua benevolenza e quella dei suoi antenati (CIL X 4863). Nell’iscrizione si ricorda che Maecius Felix fu anche civitatis Venafranae defensor e questo ci permette di confermare che la villa è appartenuta proprio a lui: nel cartiglio è infatti perfettamente leggibile l’abbreviazione CVD. Dopo l’abbandono e il crollo delle strutture, tra il VI e il VII secolo d.C. tra le macerie fu sistemato un piccolo nucleo necropolare con quattro sepolture». Giampiero Galasso
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n otiz iario
INCONTRI Roma
STORIE DELLA «NUOVA» ROMA
C
on la settima edizione di Luce sull’archeologia al Teatro Argentina, dedicata quest’anno al tema: «Da capitale di un impero all’ultima Roma antica. Paesaggi urbani, trasformazioni sociali e culturali», il Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in un percorso di ideale continuità, prosegue con gli appuntamenti dedicati a Roma e al mondo romano. Un viaggio nella storia, nell’archeologia e nella storia dell’arte, per approfondire temi, avvenimenti, aspetti peculiari di una civiltà nella sua evoluzione, avviando nel contempo una riflessione sull’ultima fase dell’impero romano e sull’età tardo-antica (IV-VI secolo circa), segnata anche dall’ascesa del cristianesimo e dalla sua graduale fusione con la tradizione pagana. Nel V secolo, Roma è una città contesa: la presenza di una potente e opulenta nobiltà senatoria rallenta la cristianizzazione della popolazione, molto piú avanzato in altre metropoli dell’impero e l’identità della città appare sdoppiata. C’è, da una parte, l’ultima Roma antica, ex capitale
dell’impero e culla della tradizione, con i suoi monumenti e le sue memorie posti sotto la vigile tutela dei senatori; dall’altra, il vescovo ortodosso si batte per aumentare il proprio prestigio e guadagnare il controllo degli uomini, degli spazi, perfino del tempo dell’Urbe. Tra il 410 e la metà del VI secolo, i «sacchi» e altri drammatici eventi si abbattono sulla città e su questi gruppi in competizione, e scandiscono cesure epocali, avviando la trasformazione della città, dalla Roma dell’antichità alla nuova Roma cristiana, ormai avviata verso il Medioevo. Sette gli incontri del 2021, da domenica 7 febbraio, fino al 25 aprile, con studiosi illustri, i cui contributi sono un invito alla conoscenza e alla fruizione del nostro patrimonio, ma anche alla sensibilizzazione verso problematiche di discipline che non possono piú considerarsi di pochi studiosi, ma proprie di tutti i cittadini. Incontri dedicati alla vita politica, militare, sociale e culturale del mondo romano, in cui ciascun contributo assume il valore di un tassello di un complesso e articolato mosaico, in cui sono raffigurate le nostre radici e le
nostre origini. Ripercorreremo quindi la stratificazione dei luoghi e dei paesaggi attraverso i resti archeologici, le testimonianze della cultura, materiale e letteraria, in un continuum cronologico fino a: «Quando le truppe italiane entrarono in Roma nel settembre 1870 la città all’interno delle mura si presentava ancora racchiusa in una cintura di orti e vigneti. Quando si è formato quel paesaggio, che l’urbanizzazione di Roma Capitale spazzerà via nel corso di una generazione? Fu l’esito di un lungo e lento processo di trasformazione o il prodotto di una serie di atti organizzati e concentrati nel tempo? E se fu cosí, quando?». E domenica 14 febbraio celebreremo una ricorrenza speciale, con un incontro-evento dedicato a Roma, che da capitale di un impero diventa capitale di una nazione. Un omaggio con cui ilTeatro di Roma-Teatro Nazionale partecipa alle celebrazioni per i centocinquant’anni di Roma capitale d’Italia, con l’annessione di Roma e del Lazio al Regno d’Italia e il definitivo trasferimento della capitale da Firenze a Roma, approvato con la legge n. 33 del 3 febbraio 1871. Catia Fauci
Luce sull’Archeologia 2021 «Da capitale di un impero all’ultima Roma antica. Paesaggi urbani, trasformazioni sociali e culturali» 7-14-21 febbraio, 7-28 marzo, 11-25 aprile Tutti gli eventi avranno luogo alle ore 11,00 di domenica mattina a partire dal 7 febbraio e saranno trasmessi in diretta streaming sul canale Youtube del Teatro di Roma e/o in presenza, in base alla normativa anti Covid-19 vigente alle date di programmazione. La visione in streaming sarà gratuita e aperta a tutti, mentre le conferenze in presenza avranno il regolare biglietto. Quanti desiderino comunque contribuire al progetto, possono farlo attraverso l’ArtBonus, il bonus fiscale per chi sostiene la cultura, scegliendo liberamente la cifra da donare, detraendo il 65% dell’importo donato. Per ulteriori informazioni: e-mail: promozione@teatrodiorma.net; www.teatrodiroma.net
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FORMAZIONE Napoli
DALLA PASSIONE ALLA PROFESSIONE
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avorare come archeologo: normative, opportunità, specialismi, comunicazione e racconto di un mondo che studia il passato per parlare al presente e costruire il futuro conservando la memoria. Questo è l’obiettivo del master APRI, organizzato dall’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, che permetterà di incontrare storie di successo e percorsi imprevisti, per capire come lo studio dell’archeologia abbia rappresentato un’opportunità per costruire lavoro ed entrare in contatto con chi ha già saputo vincere questa sfida. Un’iniziativa in partnership con istituzioni, media (fra cui «Archeo») e realtà imprenditoriali protagoniste nella difesa, nello studio e nella valorizzazione del patrimonio archeologico. Il master APRI si suddivide in quattro aree tematiche: 1. l’archeologo, le istituzioni e l’impresa, per l’approfondimento del quadro normativo entro cui l’archeologo opera in Italia ed entro il quale è possibile fare impresa a partire da competenze di tipo archeologico; 2. l’archeologo come professionista dello studio dei reperti, delle culture e del territorio: essere specialisti su specifiche classi di reperti e metodologie d’indagine è un importante passaporto per
accrescere il valore del proprio profilo professionale; 3. l’archeologo e il suo pubblico: strategie per la comunicazione del patrimonio archeologico, per incontrare i professionisti che lavorano per raccontare il mondo
delle scoperte archeologiche; 4. l’archeologia nella società contemporanea: le grandi sfide, per riflettere sul posizionamento delle scienze archeologiche nel quadro dell’evoluzione della società contemporanea. I docenti del master sono l’espressione piú ampia del mondo di professioni e competenze attive nel mondo dei beni archeologici:
dirigenti e funzionari del MiBACT in forza presso musei e soprintendenze, direttori di musei non statali, docenti e ricercatori universitari, imprenditori e professionisti nel campo dei beni archeologici e rappresentanti delle loro associazioni di categoria, imprenditori e creativi attivi nel campo della comunicazione, della mediazione e della promozione del patrimonio culturale, giornalisti e blogger specializzati, organizzatori di festival e rassegne cinematografiche incentrate sui beni culturali. La frequenza ai corsi del master si svolgerà indicativamente fra aprile e ottobre 2021, con una pausa durante l’estate, e occuperà non piú di due giorni a settimana. La didattica frontale sarà seguita da uno stage di 150 ore da svolgersi presso enti e imprese i cui rappresentanti partecipano come docenti al master e poi da un lavoro preparatorio per la stesura dell’elaborato finale di tesi, che potrà essere svolto sotto la supervisione di un docente a scelta fra quelli attivi nella fase di didattica frontale. La domanda di partecipazione, da compilare esclusivamente on line (https:// www.unisob.na.it/) va inviata entro e non oltre il 13 marzo 2021. Per ogni ulteriore informazione: master.apri@unisob.na.it
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
QUANDO IL LUSSO FA SCUOLA GIÀ RESTAURATA PER RIMEDIARE AI DANNI CAUSATI DAI BOMBARDAMENTI DEL 1943, LA CASA DEL FAUNO È STATA OGGETTO DI UN NUOVO INTERVENTO. CHE HA RIDATO SMALTO A UNA DELLE PIÚ SONTUOSE RESIDENZE POMPEIANE, ELEVATA A MODELLO DELL’ARCHITETTURA DOMESTICA DI PREGIO
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all’area degli scavi di Pompei, nei primi giorni del settembre 1943, echeggiano sinistri boati e si alzano nuvole di fumo denso. Il sito archeologico è diventato purtroppo un obiettivo dell’aviazione angloamericana, per la presunta presenza di truppe tedesche nelle adiacenze. Il bombardamento infierisce in particolare sul settore occidentale della città antica, corrispondente alle Regiones VI, VII e VIII. Sono colpiti il Foro, la Basilica e il Tempio di Apollo, fra le domus subiscono invece gravi danni soprattutto le Casa
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del Fauno e di Cecilio Giocondo. Le ferite inferte dalle esplosioni sono ancora oggi visibili nel Parco, per esempio lungo la sede stradale di via del Vesuvio, e danno conto della potenza deflagrante degli ordigni da circa 250 libbre ciascuno. I resti di uno di questi si conserva ancora all’ingresso della Casa del Fauno, le cui tormentate colonne dell’atrio secondario, ricostruite nel dopoguerra e ancora fratturate dal terremoto del 1980, sono ora tornate a risplendere grazie al recente restauro.
UN INTERO ISOLATO Famosa per il bronzetto del Fauno danzante che impreziosiva l’impluvio dell’atrio principale, oltre a essere una delle case piú vaste di Pompei – 3000 mq circa, estesi su un isolato –, la residenza signorile si segnala per la raffinatezza dei
suoi apparati architettonici e decorativi, tanto da essere stata considerata, già ai suoi tempi, uno degli esempi piú mirabili di abitazione privata e modello della domus aristocratica romana d’età repubblicana. La parte anteriore dell’edificio si sviluppa intorno a due atri, il primo è il principale, di tipo tuscanico, e segue lo schema tradizionale della casa ad atrio italica; il secondo, invece, è tetrastilo, con il tetto poggiato su quattro colonne, secondo uno schema tipicamente ellenistico. La domus si apriva su via della Fortuna, dove l’iscrizione di benvenuto Have precedeva gli ampi atri e gli spazi destinati a ricevere i visitatori ogni giorno per le cerimonie della salutatio, e ad accogliere gli ospiti che dovevano rimanere suggestionati dal fasto trasudato dagli ambienti.
La residenza nasce all’inizio del II secolo a.C., in tarda età sannitica, quando viene costruita una prima abitazione già articolata su due atri, con peristilio e un grande giardino esteso fino al limite opposto dell’insula. Verso la fine del secolo la casa viene completamente trasformata, con la creazione di uno specifico ingresso all’atrio minore, che diventa un’armonica struttura tetrastila, mentre sul peristilio si aggiunge una grande esedra con il celebre mosaico di Alessandro (al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e il giardino viene invece monumentalizzato con un porticato dalle colonne in laterizio. Il rifacimento riguarda anche gli apparati decorativi parietali in I stile e pavimentali in opus sectile ed emblemata in vermiculatum. Da questo momento la residenza diventa un vero e proprio punto di riferimento per l’architettura domestica pompeiana, ispirando per circa un secolo le scelte di altre sontuose case, come quelle di Pansa, del Labirinto, del Menandro, del Cinghiale, di M. Obellius Firmus. I committenti della grande dimora furono verosimilmente i Sadirii, facoltosa gens pompeiana,
considerato che la statua di un loro esponente era presente all’interno della casa e che alla stessa famiglia si rimanda il programma decorativo di stampo dionisiaco, illustrato da preziosi mosaici e dall’immagine del Satiro danzante (cosiddetto Fauno), nel quale la stirpe evidentemente si riconosceva, ereditandone perfino il nome (Sadirii, dal latino Satrii). Nel corso degli scavi il Satiro fu ritrovato sul bordo dell’impluvio e, in origine, era collocato su una base abbellita da due pantere affrontate, come ricorda una fotografia ottocentesca.
UN’IPOTESI AFFASCINANTE Gli ultimi proprietari della casa furono invece i Cassii, suggeriti da un sigillo trovato accanto a una delle vittime presenti nell’atrio secondario: i proprietari decisero di rinnovare la dimora dopo il violento terremoto del 62 d.C., come dimostra il peristilio trasformato, al momento dell’eruzione, in un deposito di materiali edilizi da cantiere. Sull’appartenenza iniziale della dimora, Amedeo Maiuri avanzò un’ipotesi affascinante: il direttore degli scavi propose infatti Nella pagina accanto: la Casa del Fauno in una foto Sommer scattata alla fine dell’Ottocento. A sinistra: l’atrio della sontuosa residenza con le colonne che sono state oggetto del recente intervento di restauro.
di riconoscere che questa poteva essere la dimora di Sulla, nipote del dittatore Publio Silla, incaricato di conciliare gli interessi dei nuovi coloni pompeiani con i veteres cives dopo l’89 a.C. L’ambiente di raccordo all’atrio principale, aperto durante la trasformazione del nucleo primitivo della casa (fine del II secolo a.C.), immette nel suo settore privato, imperniato attorno all’imponente atrio tetrastilo, esaltato da colonne in stile corinzio-italico. Di fronte all’ingresso, dalla parte opposta dell’atrio, si apre un’esedra con pavimento di scaglie di travertino e palmette agli angoli; qui è presente una base che sosteneva una cassaforte, purtroppo scomparsa. Rispetto al resto dall’abitazione, colpisce la sobrietà della decorazione del quartiere privato, presumibilmente in via di rifacimento al momento dell’eruzione. Oltre al sigillo dei Cassii, nell’atrio secondario sono stati rinvenuti oggetti legati al culto domestico, fra cui un piccolo altare dedicato a Flora e una statuina di Iside. Nel settembre del 1943 due bombe precipitarono sull’abitazione, e una di queste piombò proprio sull’atrio tetrastilo, radendo al suolo tre delle quattro colonne in tufo e decorate in stucco; rimaneva integra solo la colonna posta a nord. Le colonne distrutte furono subito ricostruite utilizzando i metodi del periodo, ossia con grandi grappe in ferro e malte cementizie; dopo il terremoto una delle colonne venne anche puntellata per sostenere le parti frammentate. Il recente restauro consente di restituire alla fruizione un altro ambiente di questa prestigiosa dimora, che reca in sé la testimonianza di un capitolo drammatico di Pompei legato all’ultima guerra mondiale. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.
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n otiz iario
INCONTRI Paestum
AMICI ILLUSTRI
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ell’attesa della XXIII edizione – in programma dall’8 all’11 aprile 2021 – la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, d’intesa con il Sindaco di Capaccio Paestum, Franco Alfieri, e con il Direttore del Parco Archeologico di Paestum e Velia, Gabriel Zuchtriegel, ha nominato Mounir Bouchenaki suo Presidente Onorario. L’attribuzione nasce per quanto il territorio salernitano gli deve (portano la sua firma, infatti, le ratifiche dell’istruttoria finale da parte dell’UNESCO per l’inserimento nella Lista del Patrimonio dell’Umanità sia nel 1997 della Costa d’Amalfi che nel 1998 del Parco Nazionale del Cilento con le aree archeologiche di Paestum e Velia e la Certosa di Padula) e per la straordinaria divulgazione della Borsa, che ha portato a conoscenza di istituzioni e della comunità scientifica internazionale. Il suo personale impegno per la Borsa, che ha sempre definito «una preziosa best practice internazionale per sviluppare il dialogo interculturale attraverso la valorizzazione del patrimonio archeologico e la promozione delle destinazioni», oltre ad arricchire di contenuti il programma scientifico con lo svolgimento di annuali iniziative a cura di UNESCO e ICCROM, ha determinato la partecipazione a Paestum di istituzioni, in primis il coinvolgimento ufficiale dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo, e di personalità del mondo del patrimonio culturale, quali Irina Bokova Direttore Generale UNESCO, il Presidente del Tatarstan e numerosi Ministri della Cultura (Azerbaigian, Bahrain, Cambogia, Iraq, Mounir Bouchenaki, nominato Presidente Onorario della BMTA di Paestum.
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Tunisia). La nomina di Presidente Onorario amplifica il già forte legame esistente, rappresentato dal conferimento della cittadinanza onoraria presso il Museo Archeologico Nazionale il 27 marzo 2013, anno del 15° anniversario dell’inserimento nella Lista del patrimonio UNESCO, da parte del Consiglio Comunale di Capaccio, per «l’efficace sostegno che ha avuto nel proporre e sostenere il riconoscimento, quale patrimonio mondiale dell’umanità, di Paestum nel 1998». «Sono onorato di ricevere questo riconoscimento dal piú greco dei siti italiani», dichiarò, allora, Bouchenaki, che, nel ricordare i tempi della candidatura, aggiunse: «vidi che in coloro che prepararono il dossier c’era davvero la volontà di far conoscere a livello internazionale un sito, che era già conosciuto a livello nazionale». La nomina di Bouchenaki rafforza anche i progetti di cooperazione culturale, che vedranno protagonisti, appena la pandemia sarà superata, la Borsa e il Ministero della Cultura e delle Arti della Repubblica Algerina, per il tramite dell’Ambasciatore in Italia Ahmed Boutache. Infatti, la Ministra Malika Bendouda, con un invito ufficiale al Direttore della Borsa Ugo Picarelli, ha posto le basi per una collaborazione proficua, volta ad acquisire competenze e formazione per i funzionari ministeriali e per i giovani algerini, che intravedono nelle attività legate al patrimonio culturale il loro futuro. Mounir Bouchenaki è nato il 16 novembre 1943 a Tlemcen in Algeria. Ha conseguito presso l’Università di Algeri dapprima la laurea in Storia e Geografia e quindi il diploma post-laurea in Storia Antica. Ad Algeri nel 1972 è conservatore capo e Direttore del Servizio Antichità, dal 1974 Vice Direttore del Dipartimento di Archeologia, Musei e Monumenti Storici e dal 1976 al 1981 Direttore del Dipartimento per il Patrimonio Culturale presso il Ministero della Cultura e dell’Informazione. All’UNESCO a Parigi nel 1982 entra quale specialista di programma alla Divisione del Patrimonio Culturale, della quale dal 1990 al 2000 è Direttore; dal 1998 al 2000 è Direttore del World Heritage Centre; dal 2000 al 2006 Vice Direttore Generale per la cultura; dal 2012 al 2019 Consigliere Speciale del Direttore Generale. Degne di nota nell’esperienza all’UNESCO: nel 1992 alla fine della guerra civile libanese la relazione sulla situazione del patrimonio culturale in Libano e le azioni di risanamento di Beirut Museum; dal 1993 al 1994 il coordinamento dei lavori di ricostruzione del
In alto: Paestum, 2019. Ugo Picarelli, direttore della BMTA, consegna il Premio «Paestum Mario Napoli», assegnato postumo a Sebastiano Tusa, a Valeria Li Vigni, vedova dell’archeologo siciliano. A sinistra: Fiavé (Trento), località Carera. Pali riferibili all’insediamento che, tra il Neolitico e l’età del Bronzo, sorse sulle sponde del bacino lacustre. ponte di Mostar, terminato nel 2004, apprezzato dalla Bosnia-Erzegovina, che gli concesse la cittadinanza; l’attuazione della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo (adottata nel 2001), della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (adottata nel 2003), della Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (adottata nel 2005); l’incarico di monitorare questioni delicate, come la distruzione in Afghanistan nel 2001 dei grandi Buddha di Bamiyan da parte dei talebani, la seconda guerra in Iraq (2002-2003), il conflitto in Kosovo (2003-2004). All’ICCROM a Roma dal 2006 al 2011 è Direttore Generale, dal 2012 Consigliere Speciale del Direttore Generale. Nel 2012, a Manama, in Bahrain, fonda con la Ministra della Cultura e del Turismo, Sheikha Mai Al Khalifa, sotto l’egida dell’UNESCO, l’Arab Regional Centre for World Heritage, di cui è stato Direttore fino al 2019. È stato insignito in Francia del titolo di «Chevalier des Arts et des Lettres and Officier des Arts et des Lettres» e di «Commandeur des Arts et Lettres» dal Ministero della Cultura e di «Chevalier de la Légion d’Honneur» dal Presidente della Repubblica; in Italia di Commendatore dal Presidente della Repubblica; in Algeria nel 2005 dalla Ministra della Cultura la Medaglia d’oro per il suo contributo a livello nazionale e internazionale e nel 2017 il Premio Achir del Presidente della Repubblica.
In occasione della edizione 2019 la BMTA assegnò postumo il Premio «Paestum Mario Napoli» a Sebastiano Tusa, per onorare la memoria del grande archeologo, dello studioso, dell’amico della Borsa, ma soprattutto dell’uomo del Sud, che ha vissuto la sua vita al servizio delle istituzioni per contribuire allo sviluppo locale e alla tutela del Mare Nostrum. In
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NEL BLU PROFONDO DI BLU
quegli stessi giorni nacque l’idea di inserire, annualmente all’interno del programma, un’iniziativa di carattere internazionale, volta a ricordare l’impegno e le progettualità di Sebastiano Tusa. Pertanto, nell’ambito della XXIII edizione della BMTA, avranno luogo la I Conferenza Mediterranea sul Turismo Archeologico Subacqueo, e il I Premio di Archeologia Subacquea «Sebastiano Tusa» in collaborazione con Soprintendenza del Mare dell’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana della Regione Siciliana, Underwater Cultural Heritage UNESCO, Regional Department for Europe UNWTO, NIAS Nucleo per gli Interventi di Archeologia Subacquea dell’ICR Istituto Centrale per il Restauro del MiBACT, Parco Archeologico dei Campi Flegrei, ICOMOS Italia, Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali di Ravello, Accademia Internazionale di Scienze e Tecniche Subacquee, Istituto Italiano di Archeologia Subacquea, Gruppi Archeologici d’Italia, Archeoclub d’Italia e con il coordinamento scientifico di Luigi Fozzati. Il Premio intende riconoscere le eccellenze in quei campi che Sebastiano Tusa ha saputo valorizzare, da Xavier Nieto per le sue competenze nel campo del patrimonio subacqueo sviluppato con l’UNESCO a Paolo Giulierini per la splendida mostra «Thalassa», curata con Sebastiano Tusa, e che ha rappresentato una pietra miliare sulla storia della subacquea, a Franco Marzatico per l’originale lavoro del Parco Natura di Fiavé, a Donatella Bianchi per il suo efficace messaggio volto a diffondere la tutela e la valorizzazione del Mediterraneo. Un particolare ringraziamento va a Luigi Fozzati con il quale abbiamo da subito condiviso il Premio e a Ugo Picarelli, che con la sua Borsa dà voce alle importanti realtà che divulgano il nostro patrimonio archeologico e le nostre eccellenze. Info e programma definitivo: www.bmta.it
FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
COME UNA METROPOLI ALLA CONOSCENZA DEL SITO DI OSTIA CONCORRE IN MANIERA DECISIVA L’APPARATO DIVULGATIVO MESSO A DISPOSIZIONE DEL PUBBLICO. UNO STRUMENTO INTEGRALMENTE RIPENSATO E AGGIORNATO ALLE TECNOLOGIE PIÚ MODERNE, D’ORA IN POI FRUIBILE IN SITU E ON LINE
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iero Angela osserva che «paradossalmente, si può dire che è piú difficile… essere facili. Tutti, infatti, sono capaci di parlare o di scrivere in modo oscuro e noioso: la chiarezza e la semplicità invece sono scomode. Non solo perché richiedono piú sforzo e piú talento, ma perché quando si è costretti a essere chiari non si può barare». E proprio per questa ragione mettere mano al rinnovamento dell’apparato didattico-illustrativo di un sito complesso come Ostia ha rappresentato una sfida appassionante. Raccontare una città antica al pubblico variegato – persone comuni di ogni età e provenienza, ma anche appassionati e studiosi – che ogni giorno ne calpesta le strade ha significato in primo luogo ripensarne la storia, le funzioni, il significato, ridisegnarne l’immagine urbana, ricostruirne gli edifici e, infine, immaginarla animata dai volti, dalle voci, dai rumori che i monumenti non sono in grado di restituire. Un’operazione non facile, che ha richiesto il contributo di professionalità diverse e comportato un labor limae continuo, volto a veicolare il
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messaggio essenziale senza rinunciare alla complessità di approccio che caratterizza lo studio scientifico di una città e/o di un monumento antico. Il primo passo è consistito nel ripensare Ostia come una metropoli moderna, in cui, pur nella commistione tipica del paesaggio urbano, ogni settore è connotato da una vocazione prevalente, di volta in volta civile, religiosa, residenziale, commerciale, funeraria. È stata quindi delineata una suddivisione per quartieri, piú aderente alla realtà di quanto non lo sia quella tradizionale per regiones: dalle necropoli suburbane al quartiere dei magazzini, esteso lungo il Tevere e funzionale a garantire gli approvvigionamenti dell’Urbe; dalla zona commerciale al crocevia tra il Decumano e via della Foce, fino ai sobborghi residenziali destinati all’edilizia di pregio e di lusso, senza tralasciare i principali luoghi di aggregazione, ovvero la piazza del Foro, dominata dalla mole del Capitolium, e il polo Teatro-Piazzale delle Corporazioni, icona di una città che traeva la sua fortuna dalle relazioni con l’impero.
«DI QUARTIERE» E «DI MONUMENTO» Declinare tale impianto scientifico in apparato comunicativo ha indotto ad articolare i pannelli in due categorie: i «pannelli di quartiere», a illustrare i dieci settori urbani individuati, e i «pannelli di monumento», dedicati agli edifici ricompresi all’interno di ciascun quartiere. L’impostazione grafica dei primi contempla, oltre alla planimetria dell’intera città con l’evidenziazione del quartiere, un
Dall’alto: pannello di quartiere sull’area del Teatro e il centro delle corporazioni commerciali; pannello di monumento sugli Horrea Epagathiana et Epaphroditiana. Nella pagina accanto: ricostruzione di Ostia antica. testo bilingue e una tavola ricostruttiva dello spaccato urbano, volta a restituire al visitatore non solo la «realtà aumentata» degli edifici, ma anche il senso della pulsante vita quotidiana di Ostia, resa attraverso la presenza di imbarcazioni, carri e persone intente alle piú disparate attività. Diversa e complementare è la composizione dei «pannelli di monumento», caratterizzata da un’articolazione planimetrica su tre livelli: una stilizzata keyplan consente al visitatore di localizzare la propria posizione all’interno
della città; la pianta di inquadramento, orientata come la precedente, rende conto della relazione topografica tra il monumento e il tessuto urbano circostante; la planimetria specifica, invece, è sempre orientata in funzione della posizione del visitatore, cosí da consentire l’immediata comprensione del monumento antistante. Tutte le planimetrie sono elaborate da un’unica base cartografica, ottenuta attraverso la vettorializzazione delle piante generali e di dettaglio disponibili, tenendo conto sia del dato certo sia del dato ipotetico, opportunamente distinti. Completano i pannelli di monumento un testo bilingue e un apparato iconografico attinto al ricco patrimonio documentale degli archivi del Parco. La stessa impostazione sarà estesa alle altre aree archeologiche del Parco e completata dallo sviluppo di Ostium App, applicazione multimediale che utilizzerà i pannelli come interfaccia per la restituzione di contenuti aggiuntivi (traduzioni dei testi in altre lingue, foto panoramiche 360° degli edifici chiusi al pubblico, ricostruzioni/ animazioni video in computer grafica), che potranno essere visualizzati da ciascun visitatore sullo schermo del proprio device. Per quanti vogliano scoprire Ostia antica o approfondirne la conoscenza, i nuovi pannelli sono da oggi disponibili, oltre che in situ, anche sul sito web del Parco: www.ostiaantica.beniculturali.it Claudia Tempesta e Alberto Tulli
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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
RITORNO A PONTE ROTTO SONO RIPRESI GLI SCAVI NELLA NECROPOLI CHE ANNOVERA ALCUNE FRA LE TOMBE MONUMENTALI PIÚ CELEBRI DI VULCI. E I PRIMI RISULTATI DELLE NUOVE INDAGINI SONO DECISAMENTE PROMETTENTI...
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ell’autunno del 2020, nonostante le problematiche causate dal coronavirus e in piena sicurezza, le attività di scavo nella necropoli di Ponte Rotto sono finalmente riprese, dopo piú di sessant’anni. Le ultime, fortunate, scoperte nell’area – la Tomba delle Iscrizioni (1957), la Tomba del Delfino (1958) e la Tomba dei Bronzetti Sardi (1959) – risalivano infatti al periodo in cui Sergio Paglieri seguí gli scavi di Vulci (1956-1962). La necropoli prende nome dal diruto ponte romano che attraversava il fiume Fiora lí vicino ed è situata a est
della città antica. Nell’ambito dei sepolcreti orientali, la necropoli di Ponte Rotto ha restituito le piú interessanti testimonianze di età tardo-classica ed ellenistica, con monumenti funerari riferibili, nella maggior parte dei casi, a esponenti di spicco dell’aristocrazia vulcente, come provano la monumentalità degli apprestamenti architettonici, l’eccezionalità delle decorazioni, interne ed esterne, oltre che la ricchezza dei materiali di corredo. Indagata sin dall’Ottocento, questa area funeraria, già in uso almeno dalla fine del IX secolo a.C., ebbe un enorme sviluppo, soprattutto a
partire dalla seconda metà del IV. Le caratteristiche geomorfologiche di questo settore, articolato sul pianoro e sui sottostanti tre gradoni che digradano verso il Fiora, si rivelarono ideali per le esigenze di rappresentatività del rango degli illustri possessori dei monumenti funerari qui realizzati: alcune tombe sono infatti caratterizzate da planimetrie articolate e complesse, particolarmente adatte a ospitare piú generazioni di inumati della stessa gens, mentre alla cura nella realizzazione degli interni, ispirati all’architettura domestica, corrisponde spesso la presenza di
In alto: tomba a pozzetto villanoviana con l’urna cineraria e la ciotola coperchio appena rinvenute. A sinistra: lo scavo di una tomba a fossa di età orientalizzante.
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apparati decorativi scenografici che animavano i prospetti esterni. E proprio intorno alla metà del IV secolo a.C., verosimilmente a seguito di un preciso progetto, vengono realizzate le tombe piú importanti della necropoli, appartenenti a famiglie di alto rango imparentate tra loro: la Tomba François o dei Saties, il cui imponente dromos si apre nel primo gradone della necropoli; la Tomba dei Sarcofagi, detta anche dei Tutes, e quella dei Tori, appartenuta ai Tarnas, che, insieme alla Tomba dei Due Ingressi (o dei Tetnies), sono invece scavate sulla seconda terrazza della necropoli.
IL POZZETTO PERDUTO Le ricerche odierne si sono concentrate sul pianoro calcareo soprastante, dove ricognizioni di superficie e indagini geofisiche hanno rilevato alcune interessanti anomalie. In uno dei due saggi aperti è stato possibile recuperare probabilmente la struttura del pozzetto (o perlomeno ciò che resta) della Tomba dei Bronzetti Sardi, del quale era andata perduta la precisa localizzazione e che eventualmente confermerebbe il posizionamento di uno schizzo non misurato fatto all’epoca della scoperta. Questo sarà sicuro oggetto di piú attente verifiche nella prossima campagna di scavo. Nell’altro sono state rinvenute varie strutture funerarie, alcune delle
In alto: tombe a pozzetto villanoviane. La prima, a sinistra, conserva l’urna cineraria rasata dalle arature. A destra: una tomba a fossa di età arcaica, tagliata dai lavori agricoli, attribuita a un individuo di sesso maschile. quali, purtroppo, già oggetto di interventi clandestini. Cosí una tomba a fossa profonda degli inizi del VII secolo a.C. e la limitrofa tomba a camera con dromos e vestibolo a cielo aperto e due camere ipogee. Nel dromos era presente un loculo, parzialmente intaccato dal precedente scavo abusivo. Altre tombe a fossa di vari periodi compresi tra il IX e il VI secolo a.C. sono state scoperte in condizioni precarie dovute alle lavorazioni agricole che hanno anche segnato alcune tombe a pozzetto di VIII secolo a.C. Le ricerche sono dirette da Marco Pacciarelli (Università di Napoli «Federico II», Dipartimento di Studi Umanistici) in collaborazione con Simona Carosi (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria
Meridionale) e con Carlo Casi (Fondazione Vulci), e vedono il sostegno dei Comuni di Canino e di Montalto di Castro. Lo staff che ha condotto lo scavo è composto da Francesco Quondam, assegnista dell’Università di Basilea, e da assegnisti e studenti dell’Università di Napoli Federico II: Lorenzo Fiorillo, Pasquale Miranda, Fabiana Grilli, Gaia Amendola, Chiara Buonincontro, Chiara Panniello. Allo scavo ha preso parte anche il personale di Fondazione Vulci che curerà anche i restauri: Daniele Baglioni, Teresa Carta, Sergio Cesetti, Leila Lotti e Maurizio Maffei. Lo scavo dei resti ossei umani è stato seguito da Carmen Esposito, dottoranda dell’Università di Belfast. La Pegaso Srl di Gloria Adinolfi e Rodolfo Carmagnola ha curato il piano di sicurezza e la documentazione.
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A TUTTO CAMPO Claudia Abatino
COSA RACCONTANO GLI ANIMALI LO STUDIO DEI REPERTI FAUNISTICI PERMETTE DI RICOSTRUIRE IL RUOLO DELLE VARIE SPECIE NELLE SOCIETÀ ANTICHE. E FA LUCE ANCHE SUI SISTEMI DI SUSSISTENZA, ALIMENTAZIONE, COMMERCIO E SULLA CULTURA DI UNA COMUNITÀ
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a sempre, il rapporto fra uomo e animale ha alimentato e alimenta il dibattito in ambiti diversi: filosofico, scientifico, etico. Il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1818-1883), per esempio, poneva al centro del suo pensiero il ruolo fondamentale della natura, sottolineandone i vincoli indissolubili con le comunità umane: in Essenza della religione (1846) dichiarava il ruolo essenziale e indispensabile svolto dagli animali nell’organizzazione delle società umane, tanto da diventarne in molte culture motivo e oggetto di culto. Questo l’argomento centrale: «Bisogna riconoscere che l’uomo è alle bestie debitore di molta parte del suo sviluppo; ed egli in esse venerava le facoltà che gli erano utili, ciò che in esse esisteva di buono per sè e per la sua vita». In ambito scientifico, l’archeozoologia
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si occupa oggi di comprendere le relazioni esistenti tra l’uomo e il mondo animale attraverso lo studio dei resti faunistici rinvenuti nei giacimenti archeologici.
INDIZI PREZIOSI Gli animali hanno contribuito allo sviluppo delle popolazioni umane, fornendo forza lavoro e letame, oltre a cibo e materiale per vestirsi; sono stati anche protagonisti di rituali religiosi, che prevedevano vittime sacrificali, e di rappresentazioni artistiche, sia rilievi che pitture, fin dalla preistoria. Dai resti rinvenuti nei
contesti archeologici emergono consistenti quantità di informazioni, riferibili in primo luogo agli aspetti ecologici o alimentari, ma anche a quelli socioeconomici, politici e religiosi. Nonostante l’analisi prenda avvio dalle ossa animali e si concentri soprattutto sulla natura dei reperti faunistici, le considerazioni che ne scaturiscono toccano tutti gli aspetti del contesto antropico che ha causato la formazione di tali depositi. I dati sulla mortalità, per esempio, consentono di ricostruire i modelli di abbattimento e le strategie di gestione a cui
tendevano le attività allevatorie per il consumo carneo, la produzione del latte e dei suoi derivati, della lana o l’impiego dell’animale come forza lavoro. La determinazione del sesso è un ulteriore elemento che aiuta a sviluppare ipotesi sulla conduzione di greggi e mandrie; le tracce di macellazione forniscono invece informazioni sull’utilizzo e sul porzionamento delle carcasse. Tali aspetti offrono indizi essenziali sulla lavorazione, preparazione e consumo delle carni; altre tracce antropiche osservabili sulle ossa animali sono i segni di scuoiatura, che testimoniano il recupero e la lavorazione del pellame.
INTEGRARE I DATI Durante l’esame dei reperti è essenziale procedere con un approccio interdisciplinare, per ricostruire gli aspetti ambientali, economici e sociali delle comunità oggetto di studio: già negli anni Ottanta del secolo scorso veniva sottolineata l’importanza di integrare le analisi faunistiche con altri dati provenienti dallo studio dell’ambiente e delle fonti letterarie. Lo studio del paesaggio e delle sue trasformazioni – come diboscamenti, bonifiche, terrazzamenti, valorizzazione delle aree adibite a pascolo – consente, per esempio, di comprendere meglio le scelte operate dalle comunità in termini anche economici. Il quadro che ne risulta dovrebbe poi includere sempre l’analisi della cultura materiale, in grado di fornire importanti informazioni sulla stratificazione sociale della comunità e sulle differenze di impiego delle diverse specie nell’alimentazione umana. Le fonti letterarie sono poi strumenti imprescindibili per approfondire la ricerca sull’alimentazione e sulle tradizioni culinarie. Le opere di autori classici, ma anche i trattati di cucina scritti dai piú famosi scalchi vissuti tra il XV e il XVIII secolo,
possono, per esempio, rivelare notizie preziose sulle tavole imbandite, soprattutto dai ceti piú abbienti. La dieta di persone appartenenti ai ceti piú bassi può invece essere ricostruita basandosi sui campioni faunistici provenienti da immondezzai che conservano rifiuti e scarti alimentari. Dall’inizio degli anni Novanta, le ricerche archeozoologiche in Italia hanno preso piede, soprattutto grazie alle iniziative di studiosi attivi nelle soprintendenze archeologiche e in molte università
italiane, che hanno deciso di unirsi nell’Associazione Italiana di Archeozoologia (AIAZ), con l’intento di promuovere la divulgazione delle ricerche condotte e di aprirsi al confronto con gli altri specialisti del settore. L’Università di Siena, che da anni manifesta attenzione allo studio dei reperti faunistici, ospiterà dal 3 al 7 novembre 2021 la decima edizione del Convegno Nazionale di Archeozoologia: ne illustreremo presto qui finalità e contenuti. (claudia.abatino@unisi.it)
Nella pagina accanto: conchiglie di cornetto comune (Phorcus turbinatus), con apice forato per facilitare l’estrazione del mollusco, dal sito post-medievale di Torre Santa Caterina, Nardò (Lecce).
Qui sotto: astragali forati e levigati utilizzati nelle pratiche divinatorie nella Roma di età regia, dall’area del Lapis Niger (Foro Romano, Roma). In basso: graffiti rupestri con figure di animali a Twyfelfontein (Namibia).
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
SULLE STRADE DELL’IMPERO 2
Lo Speciale sulle strade di Flavio Russo (vedi alle pp. 90-109) ha richiamato alla memoria «Tutte le strade parton da Roma», il «progetto collettivo» realizzato dal CIFT (vedi «Archeo» n. 372, febbraio 2016; anche on line su issuu. com), che consisteva in un blocco di 28 minicollezioni da 12 fogli, ciascuna delle quali descriveva il percorso di una delle numerose strade romane esistenti in Italia, in Europa e lungo le coste del Mediterraneo. La minicollezione introduttiva era incentrata proprio sulle tecniche di costruzione delle strade romane, e a quella ci siamo rifatti per documentare alcuni passi del nuovo articolo. Russo esordisce sottolineando la vastità della rete stradale romana, che si estende su ben tre continenti (1) per poi esaltare le straordinarie capacità dei tecnici romani, immortalate anche sulla Colonna Traiana (sezione di una cartolina postale rumena che illustra operai al lavoro per costruire una strada, 2). Il tipo di strada piú importante è quella pavimentata con lastre di pietra, o via strata, come si vede bene da questo francobollo della Giordania (3). I dettagli della costruzione sono evidenziati in questa ricostruzione immaginaria (4), e un giusto risalto viene dato all’abilità dei lavoratori nell’incastrare i massici «basoli», tanto da ottenere superfici praticamente levigate (5). Cosí fu costruita anche la regina viarum, la via Appia (nei pressi di Roma, nel francobollo del Vaticano, 6). Quanto ai carri che percorrevano le strade, Russo sottolinea come i Romani non avessero avuto una propria capacità costruttiva, ma avessero fatto proprie le esperienze maturate dai Celti e dagli Etruschi (7), sia per quelli a due ruote (8), sia per quelli a quattro ruote, come il cursus publicus (9). La rigidità dei meccanismi di traino e di curvatura determinarono la necessità che le strade romane fossero le piú rettilinee possibile, come l’Appia nella zona pontina, come indicato su un altro francobollo vaticano (10). Infine, la carreggiata. Sembra incredibile, ma la sua ampiezza fu determinata partendo dall’ingombro dei glutei di due buoi aggiogati (11), per cui la lunghezza degli assali tra le due ruote del carro, cioè lo «scartamento», doveva essere al massimo di 1435 mm; in previsione del possibile incrocio di due carri marcianti in direzioni opposte, la carreggiata variava da 4,2 a 5,8 m, e, nelle vie consolari, era racchiusa da banchine laterali (12). L’autore conclude ricordando, a gloria imperitura dei costruttori delle strade romane, che lo scartamento dei binari ferroviari delle moderne ferrovie, il cosiddetto «scartamento Stephenson» (13), misura proprio...1435 mm!
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
AVVISO AI LETTORI Italia Questo Calendario è stato redatto in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19 emanate dalle autorità nazionali e locali. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.
ROMA Civis, Civitas, Civilitas
Gladiatori
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21 (dall’08.03.21)
Roma antica modello di città Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali sospesa
Rilievo con scene gladiatorie da Porta Stabia.
La lezione di Raffaello Le antichità romane Complesso di Capo di Bove sospesa
Pompei 79 d.C.
Una storia romana Colosseo sospesa
ODERZO L’anima delle cose
Piranesi
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 14.02.21 (salvo proroga)
Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica sospesa
TORINO Lo sguardo dell’antropologo
I marmi Torlonia
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.06.21 (salvo proroga)
Connessioni tra egittologia e antropologia Museo Egizio sospesa
BOLOGNA Etruschi
UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli
Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico sospesa
Castello, Museo Archeologico fino al 05.04.21 (salvo proroga)
FIRENZE Imperatrici, matrone, liberte
Francia
Volti e segreti delle donne romane Galleria degli Uffizi fino al 14.02.21 (salvo proroga)
SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da Alesia a Roma
Tesori dalle terre d’Etruria
La collezione dei conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21 (salvo proroga)
MILANO Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 28.03.21 (salvo proroga)
NAPOLI Gli Etruschi e il MANN
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21 26 a r c h e o
Ritratto di matrona romana.
L’avventura archeologica di Napoleone III Musée d’Archéologie nationale fino al 15.02.21 (prorogata)
Paesi Bassi LEIDA I Romani lungo il Reno
Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21 (salvo proroga)
Vetro
Rijksmuseum van Oudheden fino al 28.02.21 (salvo proroga)
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LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
LA BELLEZZA nel mondo antico di Eugenio De Carlo e Massimo Vidale
Pompei, Villa dei Misteri. Particolare degli affreschi della Sala della Megalografia raffigurante una giovane donna che viene pettinata. I sec. a.C.
IN EDICOLA
S
in dagli inizi dell’umanità, la cura del proprio aspetto e il raggiungimento dei traguardi posti dai canoni di bellezza hanno fatto parte delle preoccupazioni dell’universo femminile, ma anche di quello maschile. Nel tempo, però, i modelli a cui si aspirava sono mutati e, soprattutto, sono stati elaborati in forme diverse dalle grandi civiltà del mondo occidentale e di quello orientale. La nuova Monografia di «Archeo» esplora dunque questo universo affascinante, è il caso di dirlo, a cominciare dal passato piú remoto, quando i nostri antenati del Paleolitico e del Neolitico scolpirono nella pietra o plasmarono nell’argilla le figurine note come «Veneri». Come spiegano gli autori, soprattutto per quelle epoche cosí lontane, è difficile stabilire cosa fosse considerato «bello», mentre il discorso si fa piú agevole scendendo nel tempo, quando alle testimonianze materiali si affiancano le notizie tramandate da letterati e poeti. Parallelamente, Eugenio De Carlo e Massimo Vidale illustrano il variopinto mondo della cosmesi, svelando come in Egitto, in Grecia e a Roma, passando per la Mesopotamia e la Persia e l’India, fossero state scoperte e utilizzate sostanze sempre piú raffinate (cosmetici, unguenti e profumi) e inventate tecniche e discipline fisiche (alcune paragonabili alle nostre ginnastiche di fitness), atte a valorizzare le proprie doti di bellezza. Si potrà cosí constatare quanto notevole fosse il bagaglio di conoscenze accumulato in secoli di sperimentazioni, basate sulla sorprendente conoscenza delle proprietà chimiche e fisiche di una vastissima gamma di materie prime. Già allora, potremmo dire, la bellezza era una dote concessa a molti dal destino, ma esaltata, spesso, dall’artificio.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Arbitrio, bellezza e cultura • PREISTORIA • Comunicare col volto • EGITTO • Colori e bagliori nell’oscurità • NEFERTITI • La piú bella d’Egitto •V ICINO ORIENTE • Tutti pazzi per la Dama di Warka • GRECIA E ROMA • Bellezza e cosmesi nelle parole degli autori
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ESCLUSIVA • NEBRA
NEBRA
VENT’ANNI DOPO Sulle due pagine: veduta dalla cima del Mittelberg (la «Montagna di mezzo»), l’altura nei pressi della cittadina di Nebra e luogo di ritrovamento dell’ormai celebre disco. Sullo sfondo il monte Kyffhäuser. Nella pagina accanto: particolare del disco con l’elemento circolare che, secondo le ipotesi piú recenti, rappresenterebbe sia il sole, sia la luna piena, a seconda dell’utilizzo del manufatto. 30 a r c h e o
PORTATO ALLA LUCE DA SCAVATORI CLANDESTINI NELL’ESTATE DEL 1999, IL DISCO DI NEBRA PUÒ SENZ’ALTRO PUNTARE AL TITOLO DI REPERTO ARCHEOLOGICO PIÚ ANALIZZATO DI SEMPRE. EPPURE NON RIESCE A LIBERARSI DEL SUO «PECCATO ORIGINALE»: L’ESSERE STATO TROVATO IN UN CONTESTO E IN CONDIZIONI ANCORA AVVOLTE DALL’INCERTEZZA di Andreas M. Steiner
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ESCLUSIVA • NEBRA
C
he si tratti del piú intrigante reperto della recente archeologia europea è fuori discussione. Parliamo del cosiddetto Disco di Nebra, noto anche come «Himmelsscheibe» («disco celeste» in tedesco), vera e propria star del Landesmuseum für Vorgeschichte, il Museo di Preistoria della città di Halle (nella regione della Sassonia-Anhalt). Un museo venerando (la sua fondazione risale al 1819, mentre l’attuale edificio fu costruito quasi un secolo piú tardi, tra il 1911 e il 1913) del qual e , p e r ò,
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pochi oggi si ricorderebbero, se non fosse, appunto, per quel suo recente, sfavillante, inquilino. Alcuni dei nostri lettori se lo ricorderanno, ne abbiamo scritto nell’ottobre del 2005, in occasione di una mostra allestita proprio in quel museo e che, per la prima volta, aveva portato all’attenzione del pubblico internazionale le ricerche scaturite intorno al misterioso disco. Ricordiamone gli aspetti principali, partendo dall’avventurosa vicenda della scoperta cosí come è emersa da indagini e controindagini che, come vedremo, perdurano ancora oggi.
Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione del ritrovamento del disco da parte degli scavatori clandestini. Nella pagina accanto, in basso: un’altra immagine del disco. 1600 a.C. circa. Halle, Museo Preistorico. In basso: il saggio di scavo condotto nel 2002 nel luogo del ritrovamento.
Wolfsburg Braunschweig
Bassa Sassonia
GERMANIA
Magdeburgo Halberstadt
Goslar
Bernburg Wernigerode Brocken Osterode (1142 mt.) Sassonia-Anhalt Mansfeld Helmsdorf Nordhausen Halle Gottinga Dieskau Kyffhäuser Nienstedt Sondershausen
Mittelberg / Nebra
Merseburg
Leubingen Sömmerda Eisenach 25 Km
Sassonia
(477 mt.)
Turingia
Weißenfels Naumburg
Erfurt
Sepolture principesche della prima età del Bronzo
Lipsia Kleinkorbetha
Jena
Gera
Terra di principi L’area in cui è stato trovato il disco di Nebra, quella del Mittelberg (la «Montagna di mezzo») nella regione della Sassonia-Anhalt (Germania centrale), è caratterizzata dalla presenza di numerose sepolture principesche e di intere necropoli databili nella prima età del Bronzo.
Siamo nel luglio del 1999, quando, di pomeriggio, due uomini, Henry Westphal e Mario Renner, muniti di metal detector, picconi e diverse bottiglie di birra, attraversano le radure del Mittelberg (la «Montagna di mezzo»), un’altura di 252 m situata nei pressi di Nebra, cittadina a poche decine di chilometri da Halle. L’intenzione è quella di raccogliere reperti metallici risalenti all’ul-
tima guerra mondiale e, verosimilmente, non è la prima volta che i due si dedicano a quell’attività, anche se, a quanto in seguito dichiarato davanti al giudice, le loro ricerche non avevano mai sortito alcun risultato importante. Non cosí, però, in quel pomeriggio di luglio, quando, dopo ore di silenzio, il metal detector aveva iniziato a emettere segnali inequivocabili. I due uo-
mini – cosí la loro deposizione – incominciano a scavare e, a poche decine di centimetri dalla superficie, il piccone colpisce quello che, a prima vista, sembra essere un vecchio coperchio metallico, conficcato verticalmente nel terreno. Messo da parte il presunto coperchio, i due proseguono nello scavo da cui affiorano una serie di oggetti metallici ben piú significativi: due spade, due asce, quello che appare come uno scalpello, i resti di due bracciali a spirali. Henry e Mario sono convinti di essersi imbattuti, finalmente, in un vero tesoro e nascondono la refurtiva in uno zaino. Senza tralasciare, guarda caso, quel a r c h e o 33
ESCLUSIVA • NEBRA
vecchio e malandato «coperchio» che, come si intuirà, si rivelerà presto essere assai piú importante di tutti gli altri reperti messi insieme. Ma proseguiamo nel racconto che, da ora in poi, si avvale di testimoni dalla massima attendibilità. Consapevoli di avere violato la legge, i due tombaroli della domenica cedono la refurtiva per la cifra di 31 000 marchi a un ricettatore locale (il quale si dedicherà a una sommaria e rudimentale pulitura del «vecchio coperchio», privando il reperto di preziose incrostazioni che avrebbero potuto facilitare le successive indagini scientifiche). Il ricettatore, a sua volta, rivenderà gli
In questa pagina: Harald Meller, direttore del Museo Preistorico di Halle, e la copertina della rivista Archaeologia Austriaca, sulla quale, alla fine del 2020, l’archeologo ha risposto ai dubbi dei colleghi Rupert Gebhard e Rüdiger Krause sulla datazione del disco di Nebra e la sua interpretazione. Nella pagina accanto: il Museo Preistorico di Halle.
oggetti a un collezionista, per una somma di gran lunga superiore (piú di 200 000 marchi). Dovrà passare qualche anno prima che si arrivi al vero colpo di scena: nel maggio dei 2001, il direttore del museo di preistoria di Berlino,Wilfried Menghin, informa l’allora soprintendente archeologo della Sassonia-Anhalt, Harald Meller, di aver ricevuto l’offerta di acquistare un insieme di reperti protostorici proveniente da un non meglio specificato sito nei pressi di Nebra. La cifra richiesta: 1 milione di marchi. Inizia una trattativa e, contestualmente, procedono le indagini di polizia. Con il pretesto di voler acconsentire all’acquisto e offrendo 700 000 marchi, Meller riesce a fissare un appuntamento con il misterioso offerente. Non a Berlino, però, e neanche a Halle, bensí in territorio neutro, in Svizzera. L’incontro si svolge il 23 febbraio del 2002 in un hotel di Basilea. Sono presenti il collezionista e la sua assistente, lo stesso Meller e… gli agenti della polizia elvetica. Nel marzo dello stesso anno il tribunale di Halle consegna ufficialmente i reperti di Nebra al Museo Preistorico della città (di cui Meller è l’attuale direttore).
DUBBI E... INVIDIE Da quel momento, il disco celeste di Nebra, oltre a diventare un elemento di richiamo senza precedenti per il grande pubblico, tedesco e internazionale, è stato costantemente al centro dell’attenzione della comunità scientifica. Ed è comprensibile che, sin dalla pubblicazione della sua scoperta e della sua rocambolesca «messa in sicurezza», questo oggetto cosí unico e senza confronti con altri reperti simili abbia suscitato (e, come vedremo, continui a suscitare) riserve e perplessità da parte di studiosi non direttamente coinvolti nelle vicende del suo recupero. Ben pre34 a r c h e o
sto si levarono voci che mettevano in dubbio la stessa autenticità del disco, tra cui quella di Peter Schauer, professore di pre- e protostoria all’Università di Regensburg. Chiamato a esprimere la propria opinione di esperto in occasione del processo contro i ricettatori (svoltosi a Halle nel 2005), Schauer motivava la sua convinzione affermando che «tra centinaia e centinaia di reperti relativi alla nostra età del Bronzo, nessuno somiglia anche solo minimamente al disco». Piú cauta la posizione di Wolfgang David, studioso dell’arte dell’età del Bronzo all’Università di Monaco, il quale, pur non mettendo in questione l’autenticità del disco, ne sottolineava «lo stile piuttosto naif della rappresentazione dei corpi celesti» che rimanderebbe piuttosto all’arte dei Celti. Ci fu poi l’autorevole opinione di Markus Egg, direttore dell’Istituto di Protostoria del Museo Romano-Germanico di Magonza, per il quale sarebbe stato impossibile datare il disco se non vi fossero stati gli altri reperti trovati insieme a esso. Ed è proprio su questo punto che si erano addensati gli strali del professor Schauer: le armi sarebbero senz’altro autentiche, afferma, ma il disco potrebbe essere stato «fabbricato» partendo da un oggetto, purché vecchio di cento anni (età minima del disco di Nebra, secondo l’analisi archeometrica che ha rile-
vato l’assenza di radioattività dell’isotopo di piombo) acquistato sul mercato antiquario. Alle osservazioni dei colleghi, Harald Meller ha sempre risposto facendo notare come il disco sia uno dei reperti archeologici piú a lungo e profondamente esaminati dell’archeologia contemporanea. Un dato incontrovertibile se consideriamo le infinite analisi condotte e rese pubbliche da numerose pubblicazioni e dai ponderosi atti di un
Alle perplessità avanzate da piú di un collega, Meller e il suo team hanno opposto una formidabile mole di dati convegno internazionale, svoltosi nel febbraio del 2005 a Halle. Oggi l’autenticità del disco di Nebra non viene piú messa in discussione, eppure gli scettici non mancano. Risale a pochi mesi fa, infatti, la pubblicazione di un saggio molto critico nei confronti non solo e non tanto delle ipotesi avanzate circa la funzione e il significato del disco (di cui presentiamo una sintesi nella seconda parte di questo
articolo), quanto della sua reale età. Per gli autori, l’archeologo Rupert Gebhard e il paletnologo Rüdiger Krause, la lettura in termini astronomici e storico-culturali avanzati da Meller – per il quale, in estrema sintesi, il disco rappresenterebbe l’insegna di un capo/sovrano della cultura cosiddetta di Aunjetitz (vedi box a p. 42) e implicherebbe l’esistenza, nella Germania dell’età del Bronzo, di un culto solare sull’esempio di quelli babilonesi e egiziani – è frutto di un eccesso di fantasia interpretativa. Anche perché, secondo gli autori, il reperto non apparterrebbe affatto all’età del Bronzo, ma sarebbe «piú giovane» di ben mille anni. Mancherebbe, infatti, ogni certezza circa il fatto che il disco fosse originariamente parte del ritrovamento effettuato dai tombaroli sul Mittelberg, mentre non sarebbe da escludere una sua collocazione «a posteriori» nel sito, allo scopo di accrescerne il prestigio e il valore. Privato dal suo contesto di scavo, il disco perderebbe cosí ogni valore particolare e non rimarrebbe altra scelta che considerarlo per quello che è: un oggetto archeologicamente privo di significato, verosimilmente databile all’età del Ferro. A favore di una vera e propria «messa in scena» del ritrovamento – ovvero della giustapposizione intenzionale di elementi sí autentici, ma provenienti da contesti diversi,
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ESCLUSIVA • NEBRA
senza alcun collegamento tra di loro – testimonia, secondo Gebhard e Krause, la casualità della composizione dei reperti rinvenuti, insieme alla circostanza che il disco si trovasse, secondo la testimonianza di uno dei due scopritori, a pochi centimetr i dalla superfice, mentre gli altri oggetti del tesoro erano nascosti a una profondità maggiore.
UNA REPLICA PUNTUALE La reazione di Meller e del suo entourage non si è fatta attendere e, in una pubblicazione apparsa nella rivista scientifica Archaeologia Austriaca alla fine del 2020, lo stesso Meller, insieme a dodici suoi collaboratori, ha riproposto una sintesi di tutte le piú recenti indagini a favore dell’attr ibuzione del disco al 1600 a.C., ovvero all’età del Bronzo nella Germania centrale. La pubblicazione riporta le prove inequivocabili circa l’esattezza del luogo di ritrovamento che, al di là delle dichiarazioni dei due (certo poco attendibili!) scopritori, si avvale ora di una serie di dati scientifici difficilmente oppugnabili: l’aumentata concentrazione, nel terreno, di particelle d’oro e di rame, spiegabili con la prolungata permanenza del reperto nel terreno, e la corrispondenza tra la terra del luogo del ritrovamento e tracce che ne sono state rinvenute su una delle asce e sul disco stesso. La datazione del reperto a un periodo intorno al 1600 a.C. si avvale, inoltre, dei risultati 36 a r c h e o
dell’analisi al radiocarbonio effettuati su resti organici (tracce di corteccia di betulla) prelevati dal manico di una delle spade rinvenute insieme al disco. Le controprove predisposte dal team di Meller non si fermano qui e affrontano, su larga scala, «l’accusa» mossa al disco di non essere – cronologicamente e territorialmente – contestuali agli altr i componenti del r i t r o v a m e n t o. Argomenti cen-
trali diventano, dunque, la composizione chimica dei metalli (per la quale non esiste ancora un metodo di datazione scientifica) e il luogo di provenienza degli stessi. Dal confronto con un database che riunisce ben 50 000 miniere
metallifere preistor iche sul territorio europeo (e basandosi sull’esame geochimico della concentrazione degli isotopi del piombo) è emersa con evidenza l’origine del rame impiegato nel disco da depositi nelle Alpi orientali, nell’odierna Austria (miniera di Mitterberg, presso Salisburgo), mentre l’oro delle decorazioni proviene, con grande probabilità, dal fiume Carnon, nella regione della Cornovaglia (Inghilterra sud-occidentale).
Prove scientifiche Planimetria e sezione dell’area del ritrovamento, con le concentrazioni di particelle d’oro (Goldkonzentrationen) e di rame (Kupfkonzentrationen). La loro presenza è spiegabile con la prolungata giacitura dei reperti e dunque smentisce l’ipotesi che questi provengano da luoghi diversi.
Questi dati ribadiscono, ancora una volta, la vocazione tutt’altro che solitaria del misterioso reperto. Il quale sarà al centro Il disco di Nebra e gli altri reperti di una nuova mostra al Museo rinvenuti sul Mittelberg: due spade in Preistorico di Halle che aprirà i bronzo con intarsi d’oro, asce, uno battenti, emergenza Covid perscalpello e resti di bracciali a spirale in bronzo. L’analisi al radiocarbonio di mettendo, il 4 g iugno di quest’anno, a ventuno anni meresti organici sui manici delle spade ha fornito la data del 1600 a.C., ritenuta no un mese dalla sua prima «scoperta», con il titolo: «Il applicabile anche al disco.
mondo del disco celeste di Nebra. Nuovi Orizzonti». Nel frattempo, il disco è di nuovo sotto esame, indagato dall’occhio di un microscopio di nuovissima tecnologia. In una località tenuta segreta. Per motivi di sicurezza, naturalmente, visto che quel sottile cerchio di bronzo è assicurato per una somma di circa 100 milioni di euro. a r c h e o 37
ESCLUSIVA • NEBRA
COSA RAPPRESENTA IL DISCO DI NEBRA?
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uasi perfettamente circolare, con un diametro massimo di 31,4 cm, uno spessore che varia da 1,5 mm ai bordi fino a 4,5 mm al centro, e un peso di circa 2 kg, il disco di Nebra è molto di piú che un antico oggetto d’uso. Per il team di studiosi facente capo all’archeologo Harald Meller, il reperto, datato a un periodo intorno al 1600 a.C., rappresenta, con la sua raffigurazione della volta celeste, un vero e proprio strumento astronomico. A rendere cosí particolare il disco sono gli elementi in lamina d’oro applicati su una delle due superfici e identificati con i principali corpi celesti. Il grande elemento circolare sul lato sinistro del disco, invece che la raffigurazione del sole, come potrebbe sembrare a un primo sguardo, è stato inizialmente interpretato come una luna piena, in contrasto con la mezzaluna che appare, invece, sul lato destro. Rivedendo questa ipotesi, una recentissima interpretazione attribuisce all’elemento circolare un ruolo duplice: esso rappresenterebbe sia il sole, sia la luna piena, a seconda che si utilizzi il disco come strumento di computo rispettiva-
In alto: veduta dalla cima del Mittelberg in direzione ovest verso la valle dell’Unstrut, un affluente del Saale.
mente dell’anno solare o lunare. La restante superficie del disco è cosparsa da 30 (in origine erano 32) tondini in lamina d’oro, raffiguranti le stelle. La loro distribuzione appare regolare, ma priva di un ordine particolare, con l’eccezione di una configurazione (in corrispondenza dell’ estremità alta della falce lunare) composta da un elemento circondato da altri sei. Per Wolfhard Schlosser, astronomo dell’Università della Ruhr, si tratta della raffigurazione delle Pleiadi (nella mitologia greca, le sette stelle figlie di Atlante e di Pleione), un ammasso stellare visibile nella costellazione del Toro (a occhio nudo si discernono bene fino a sei stelle). L’assenza di altre costellazioni è fondamentale per interpretare il senso del disco: esso
LA LUNGA VITA DEL DISCO 1. All’inizio, sul disco erano probabilmente raffigurati solo gli astri del cielo notturno: le stelle, la luna piena e la costellazione nascente, le Pleiadi.
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2. Gli archi dell’orizzonte, realizzati in una lega diversa, furono applicati in un secondo momento, causando anche la scomparsa di due stelle (coperte dall’arco destro) e lo spostamento di una terza.
3. L’arco interpretato come «barca solare» è di una lega ancora diversa da quella dei precedenti elementi, e anche la sua fattura sembra risalire a una mano diversa.
4. In un periodo ancora successivo furono realizzati i fori che attraversano sia gli archi orizzontali che la «barca solare».
5. L’arco dell’orizzonte del lato sinistro del disco era già mancante al momento della sua deposizione intorno al 1600 a.C.
solstizio invernale
occidente
il kiffhäuser nel giorno del 1° maggio
collocazione ipotetica del disco all ’ interno dell ’ osservatorio stellare sulla cima del mittelberg indica la direzione del sole che tramonta dietro il brocken al solstizio d ’ estate indica la direzione del tramonto del sole al solstizio d ’ inverno
rappresenterebbe l’immagine tipica di un cielo notturno, nel quale viene volutamente enfatizzata, come unica costellazione, quella delle Pleiadi. Vedremo in seguito la ragione di questo particolare aspetto. Oltre ai corpi celesti, sul disco erano applicate tre fasce auree a forma di arco (delle quali ne restano due). L’analisi ha rivelato che le fasce piú larghe, poste alle due estremità del disco (e di cui una è, appunto, mancante) furono applicate Cosí le Pleiadi – accompagnate dalla falce di luna nascente – erano visibili, per l’ultima volta prima del tramonto, intorno alla data del 10 marzo, nel cielo del Mittelberg nella prima età del Bronzo.
il brocken
Ricostruzione grafica dell’antico osservatorio stellare sulla cima del Mittelberg, la valle dell’Unstrut e le montagne del Brocken e del Kyffhäuser. Il disegno illustra l’ipotesi dell’astronomo Wolfhard Schlosser secondo il quale, tenendo il disco in posizione orizzontale, con il lato alto verso nord, gli archi indicano la data del solstizio estivo e di quello invernale.
in un secondo momento: l’oro è diverso da quello usato per le lune e le stelle e, sotto la fascia ancora conservata, si trovano i segni della presenza di altre due stelle, coperte dal «nuovo» elemento applicato. La terza fascia, infine, si trova sul lato basso, piú o meno a uguale distanza da quelle laterali, e con le estremità ricurve verso l’interno del disco. Qual è il significato di questi elementi? Erano posti a ulteriore decorazione di una semplice, A sinistra: con la luna piena nell’emisfero occidentale del cielo mattutino, le Pleiadi erano visibili intorno al 17 ottobre.
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seppur antichissima, mappa stellare? Le conclusioni a cui giungono Meller e Schlosser vanno oltre: il disco rinvenuto sul Mittelberg è molto di piú che la rappresentazione del cielo stellato. E la chiave di volta interpretativa è offerta proprio dalla rappresentazione di quelle sette sorelle, le Pleiadi. È noto che nell’antichità – in Mesopotamia, per esempio, ma anche in Grecia – l’osservazione dei corpi celesti particolarmente luminosi svolgeva funzioni di calendario: le stelle, con la loro apparizione o scomparsa, identificavano particolar i g ior ni dell’anno. Ora, Schlosser ha dimostrato che, nel cielo della Germania centrale di 3600 anni
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fa, nelle serate del 10 marzo, le Pleiadi tramontavano luminosamente nell’emisfero occidentale, spesso in compresenza della luna nascente. In compagnia della luna piena, invece, la costellazione era visibile nel cielo serale il 17 ottobre. Le date corrispondono – piú o meno – ai due periodi in cui i contadini della Germania nell’età del Bronzo dovevano provvedere, rispettivamente, alla semina e al raccolto. Due avvenimenti fondamentali dell’antico calendario agricolo, dunque, che il disco di Nebra rappresenta in simultanea. «Ecco – spiega Meller – il messaggio che il disco trasmetteva a chi lo osservava 3600 anni fa: quando scorgi le Pleia-
rebbero, rispettivamente, i momenti in cui il sole raggiungeva la sua massima e la sua minima declinazione: l’estremità alta, il solstizio d’estate (21 giugno), quella bassa, il solstizio d’inverno (21 dicembre). Queste ipotesi trovano, poi, un certo riscontro nel territorio in cui il disco venne ritrovato; il sito del Mittelberg sembra, infatti, esso stesso evocare un contesto astronomico. Dalla sommità del monte – dove sono state trovate tracce di un vallo che cingeva l’intera cima – era possibile assistere, il 21 di giugno, al tramonto del sole proprio dietro alla piú importante montagna UNA COINCIDENZA PERFETTA Ma il disco contiene un ulteriore messaggio, della regione, il Brocken (un’altura di 1142 m racchiuso in quegli strani elementi a forma di ritenuta, sin dal Medioevo, luogo privilegiato arco che decorano i bordi dell’antico calendario per l’annuale riunione delle streghe e che ha di bronzo. Per essi Schlosser ha proposto un’af- mantenuto la sua aura di leggendario misticifascinante spiegazione in termini astronomici: smo fino ai tempi moderni), mentre il 1° maggio il sole tramontava dietro al Kulpenberg, tenendo il disco in posizione orizzontale, la principale cima dell’altrettanto con il lato alto verso nord, la fascia leggendar ia catena del sul lato destro ricopre perfetKyffhäuser. tamente l’arco dell’orizPosizionando il disco di zonte orientale, in cui, Nebra in rapporto a nel corso di un anno questi punti di riferidurante l’età del mento (come Bronzo, sorgeva il avrebbe potuto tesole; mentre la fanerlo un addetto scia sul lato sinidell’osservatostro (quella anrio del Mitteldata perduta), berg nell’età cor r isponde del Bronzo; veinvece all’arco di il disegno a p. dell’orizzonte 39), l’ipotesi di occidentale, in Schlosser apcui il sole trapare confermontava. Di mata. conseguenza, Ma c’è di piú. le due estremiSe, come appare tà della prima plausibile, il lato fascia indichedi vicino alla luna crescente sono in arrivo la primavera e il periodo della semina. Quando, invece, appaiono insieme alla luna piena, siamo in autunno e dovresti aver completato il raccolto. Vengono in mente i versi di Esiodo: «Quando le Pleiadi sorgono figlie di Atlante la mietitura incomincia; l’aratura al loro tramonto: esse infatti quaranta notti e quaranta giorni stanno nascoste poi volgendosi l’anno appaion dapprima quando è il momento di affilare gli arnesi. Questa dei campi è la legge...» (Le Opere e i Giorni, versi 383-388).
Il cielo come una cupola Il disco di Nebra potrebbe essere la raffigurazione bidimensionale di un modello tridimensionale dell’universo. Secondo l’astronomo Schlosser, infatti, il disco rappresenta il modo in cui gli abitanti dell’età del Bronzo in Germania concepivano il cielo. Le decorazioni del disco si sovrappongono cosí alle descrizioni giunteci dal Vicino Oriente, dall’Egitto, dalla Persia, dal
mondo dell’Antico Testamento, ma anche dalla Grecia, dove il cielo è visto come una cupola, una semisfera, che si erge sopra al piatto terrestre. Durante la notte, il sole naviga, trasportato da una barca lungo l’arco orizzontale meridionale, da occidente (dove è tramontato) verso oriente, da dove potrà nuovamente risorgere. Proprio come lo raccontano i protagonisti aurei del disco.
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alto del disco corrisponde al nord, Pleiadi e mezzaluna nascente (visibili, nelle date del 10 marzo e del 17 ottobre, nell’emisfero celeste occidentale) dovrebbero apparire sul lato sinistro, «occidentale», del disco, invece che su quello destro. Ecco, allora, che emerge un’altra funzione del disco, quella cioè di raffigurare il cielo stellato – in maniera non dissimile dalle moderne mappe astronomiche – secondo una visione «dal basso verso l’alto»: tenendo, infatti, il disco sopra di noi – come se, distesi e con la testa verso nord, osservassimo il cielo notturno, esso «riproduce» la volta celeste, con l’arco dell’orizzonte destro che da orientale diventa occidentale e con le Pleiadi nel loro giusto emisfero.
UN MODELLO DELL’UNIVERSO Cosí – secondo Meller – il disco potrebbe anche costituire la rappresentazione bidimensionale di un modello tridimensionale dell’universo, con la volta celeste interpretata come una cupola che si tende sopra la terra piatta (vedi box e ricostruzione alle pp. 40-41), «un concetto appartenuto agli antichi Egizi, in seguito ai Greci e, perché no, allora, anche alle popolazioni dell’Europa centrale nell’età del Bronzo?». L’ipotesi di Meller è confortata dalla presenza della terza fascia a forma di arco, nella parte bassa del disco. Applicata anch’essa in un secondo momento, viene unanimemente interpretata come la rappresentazione stilizzata di un’imbarcazione, come se ne conoscono numerose, sia in ambito mediterraneo che scandinavo. Per Meller, la laminetta d’oro rappresenterebbe una «barca solare» che – come nelle cosmologie del Vicino Oriente antico e, in particolare, dell’Egitto – trasporta il sole nella sua migrazione attraverso il cielo. Un concetto, quello del viaggio diurno e notturno del sole, espresso anche nella complessa simbologia presente in un altro, famosissimo reperto dell’età del Bronzo, il cosiddetto «carro di Trundholm», raffigurante il sole che poggia su un carro trainato da un cavallo. Le ricerche sollecitate dal ritrovamento del disco di Nebra si sono intensificate nell’ultimo decennio, portando a una sempre piú approfondita contestualizzazione dell’enigmatico reperto all’interno del mondo da cui proveniva. Oggi, gli interrogativi principali riguardano le diverse fasi di utilizzo del reperto: Meller ne ha individuate ben quattro (basandosi soprattutto sugli evidenti, e intenzionali, interventi di sostituzione dei singoli elementi costitutivi del disco) per un periodo d’uso complessivo durato almeno 100 anni. Per lo studioso, dunque, la fabbricazione del reperto risalirebbe alla seconda metà del XVIII secolo a.C., mentre il suo interramento sarebbe avvenuto verso la fine del XVII secolo a.C., in coincidenza con il tracollo della cultura di Unétice (in tedesco Aunjetitz), attestata nella Germania centrale dell’età del Bronzo tra il 2300 e il 1600 a.C. 42 a r c h e o
LA CULTURA DI UNÉTICE Tra il 2300 e il 1600 a.C., ampie parti dell’Europa centro-orientale erano abitate da una popolazione caratterizzata da elementi stilistici comuni, tra cui vasellame (foto qui sotto), gioielli e modalità di sepoltura dei defunti. La loro civiltà – il cui nome deriva da Unétice (in tedesco Aunjetitz), una piccola località a nord-ovest di Praga, dove nel 1879 vennero scoperte due necropoli preistoriche – rappresenta una delle piú estese unità territoriali protostoriche dell’Europa centrale.
Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo nel quale si ipotizza la deposizione del disco e degli altri manufatti, che dovette avvenire intorno al 1600 a.C. In basso: una veduta del Mittelberg: in evidenza, la radura in cui è avvenuta la scoperta.
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UNA CITTA FRA CIELO E TERRA IMMENSA, GRANDE VENTI VOLTE L’ATENE DI PERICLE: ECCO COME SI PRESENTAVA BABILONIA AGLI OCCHI DEI CONTEMPORANEI, SUSCITANDO, COME IN ALESSANDRO MAGNO, STUPORE E AMMIRAZIONE. E LE CUI ARCHITETTURE – NE ERANO CONVINTI I SUOI COSTRUTTORI – MAI AVREBBERO VISTO LA LUCE SENZA IL CONCORSO DIVINO di Marta Rivaroli
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on il complesso sacrale dedicato al dio Marduk, Babilonia ha rappresentato, sin dall’antichità, il modello della città mesopotamica, perfetta fusione tra architettura umana e progettazione divina. La Babilonia entrata nel mito è quella della dinastia caldea (fine del VII-inizi del VI a.C.) riportata in luce dall’archeologo tedesco Robert Koldewey (1855-1925) nel 1899: è la città di
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Nabopolassar e Nabucodonosor II, quella che gli Ebrei deportati da Gerusalemme contribuirono a costruire e che è stata poi eternata dal mito della «Torre di Babele». Descritto con ammirazione da Erodoto e con toni di condanna nel testo biblico, il tempio di Marduk è una testimonianza recente rispetto alla millenaria storia della Mesopotamia. Eppure si tratta dell’esempio piú evidente della concezione me-
sopotamica dello spazio sacro e dello stretto rapporto tra città, tempio e quella divinità poliade (protettrice della città, da polis, n.d.r.) che, nel tempo del mito, sceglie il luogo in cui risiedere (città) e stabilire la sua dimora terrena (tempio). In realtà, questo complesso architettonico è il risultato della codificazione della tipologia templare prodotta mediante un continuo processo di riformulazione, le cui
Veduta dei resti dell’antica Babilonia, oggi in Iraq. Le mura si presentano nella ricostruzione effettuata, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, dalla locale Direzione delle Antichità.
prime tracce risalgono al periodo calcolitico. A seconda dei cambiamenti sociali, politici e religiosi, il tempio tende ad adattarsi inserendo a livello planimetrico e architettonico nuovi elementi connessi ai cambiamenti del modo di concepire la divinità e soprattutto al legame che si instaura con la comunità cittadina. Ogni variazione sul piano politico trova una legittimazione sul piano religioso e una concretizzazione architettonica, con l’inserimento di una modifica dello spazio sacro che, in quanto fondazione divina, viene legittimato sul piano sacrale. Lo stesso nome Babilonia (bab-ili, traducibile come «porta del dio») esplicita lo stretto rapporto tra città e dio poliade. Qui sorgono il tempio Esagila e la ziqqurat Etemenanki del dio Marduk; qui si trova il complesso palaziale, sede del potere del re, il cui compito è gestire la città del dio, curarne l’aspetto e conservarne la magnificenza. I sovrani della dinastia caldea, da Nabopolassar (626-605 a.C.) a Nabucodonosor II (605-562 a.C.) fino a Nabonedo (555-539 a.C.), affermano con insistenza nelle loro iscrizioni di avere ricostruito la città e soprattutto il santuario di
Marduk, rispettando le norme sacrali, recuperando i testi di fondazione dei re precedenti e non alterando la pianta originaria concepita e progettata da Marduk stesso e realizzata dagli dèi Anunnaki a suggello della sua opera creatrice e ordinatrice, come riportato nel testo Enuma elish, noto come Poema della Creazione (vedi box a p. 56). Basandosi sulle descrizioni riportate nelle iscrizioni neobabilonesi, su alcune ricostruzioni topografiche presenti in testi come la serie TIN.TIR e la Tavoletta dell’Esagila e sui passi di Erodoto, gli archeologi tedeschi effettuarono una corrispondenza tra dati archeologici e testuali, tanto da ricostruire la topografia cittadina.
LA TRIPLICE CINTA Proviamo a descrivere il paesaggio urbano mettendoci nei panni di un viandante, un commerciante oppure un governatore straniero dell’epoca che, dopo un lungo viaggio, avrebbe finalmente visto stagliarsi nella distesa della steppa la magnifica struttura cittadina, con le possenti mura e l’altissima ziqqurat, visibile a chilometri di distanza. Avvicinandosi alla città, saremmo rimasti sopraffatti dalla monumen-
talità del sofisticato sistema difensivo: una triplice cinta muraria, descritta con meraviglia da Erodoto e Diodoro Siculo, costituita da un’alternanza di mura provviste di torri difensive (Ctesia di Cnido ne menziona 250) e protetta da un ampio fossato, alimentato, tramite una deviazione, dall’Eufrate che, canalizzato all’interno della città, era parte integrante del paesaggio urbano. Superata questa impervia barriera, davanti ai nostri occhi sbalorditi si sarebbe mostrata l’intera città, vera e propria metropoli, con una superficie di quasi 1000 ettari – circa 20 volte piú dell’Atene classica del V secolo a.C. –, ma della quale, purtroppo, sono state messe in luce soltanto poche strutture. Probabilmente, un analogo stupore colse Alessandro Magno, quando entrò per la prima volta a Babilonia e la scelse come residenza. Strabone racconta che il re macedone, dopo averla conquistata, progettò il restauro della ziqqurat, distrutta da Serse nel 482 a.C., ma l’immane impresa (solo per pulire i lati ci vollero 10 000 uomini e due mesi di lavoro) rimase incompiuta a causa della morte improvvisa di Alessandro, proprio a Babilonia, nel 323 a.C. a r c h e o 45
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Dopo un primo istante di smarrimento, avremmo iniziato a percorrere la via cerimoniale, fiancheggiata da pareti mosse da contrafforti e decorate con mattoni smaltati di colore azzurro che costituivano lo sfondo di una decorazione dal forte impatto simbolico e visivo. Si era letteralmente accompagnati da una teoria di leoni, sacri alla dea Ishtar, con la criniera resa a rilievo e la coda alzata, che costituivano un fregio continuo sormontato da una fascia decorata a rosette, simbolo astrale della dea, e da pannelli con alberi sacri stilizzati a simboleggiare la protezione e la prosperità che la dea assicurava alla città e al sovrano. La teoria di leoni si fermava di fronte alla Porta di Ishtar, una delle otto porte che si aprivano lungo la seconda possente doppia cinta muraria, la cui facciata monumentale è stata smontata, trasportata e ricostruita nel Pergamonmuseum di Berlino. Anche la Porta di Ishtar era deco-
In alto: cilindro-sigillo in calcedonio (e suo sviluppo) con scene del culto tributato a Marduk e a suo figlio Nabu. Epoca neo-assira, IX-VII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
In basso: un tratto delle mura (ricostruite) di Babilonia. Nella pagina accanto: cartina del moderno Iraq, con l’indicazione delle regioni e culture antiche.
rata con mattoni smaltati e presentava sulle pareti, protette da imponenti torri difensive, file alternate di tori, sacri al dio Adad, e dragoni, simboli di Marduk, che
sorvegliavano il passaggio verso l’interno della città, in direzione del tempio del dio poliade. Alzando lo sguardo, avremmo visto (segue a p. 56)
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L’ARCHITETTURA TEMPLARE UN EXCURSUS STORICO Nella storiografia mesopotamica è nota la sequenza della «nascita del tempio» come spazio architettonico che «evolve», assumendo forme sempre piú complesse, fino a giungere a una standardizzazione della pianta dell’edificio sacro. È possibile seguire tale processo a partire dalla sequenza del tempio di Enki a Eridu. Nel livello XVI, corrispondente al Calcolitico (5300-4500 a.C.), è stato ritrovato un edificio costituito da una sala rettangolare divisa in due zone e interpretato come struttura templare per la presenza di elementi che diverranno tipici dell’architettura religiosa mesopotamica: la nicchia su uno dei lati corti, futuro luogo della presenza divina attraverso la statua o il simbolo, e la tavola offertoria legata al culto quotidiano. Nella fase finale del periodo di ‘Ubaid (4000-3500 a.C.) si attesta una nuova tipologia edilizia. Il tempio è ora posto sopra una terrazza artificiale, risultato di stratificazioni a causa di continui rifacimenti dovuti all’impiego del mattone crudo, materiale di facile deperimento. Tale terrazza, antecedente della ziqqurat, testimonia la valenza sacrale dello spazio, concepito come «residenza
del dio», che ha stabilito la dimora in quel luogo rendendo la posizione non modificabile. L’edificio assume una planimetria tripartita: la cella a sviluppo longitudinale affiancata da due file di vani e l’ingresso su uno dei lati lunghi con percorso a gomito, a celare la vista della statua del dio (Long Room with Bent Axis). Le mura perimetrali hanno un ritmo cadenzato con nicchie e aggetti. Questa tipologia diventerà «canonica» nell’architettura religiosa basso-mesopotamica nei periodi successivi, quando si assisterà al compimento del processo di urbanizzazione (periodo di Uruk) e all’affermazione dell’istituto regale, con l’attestazione delle prime strutture palatine, che comporteranno una rimodulazione dello spazio urbano (periodo proto-dinastico). Uruk: la prima città Uruk (moderna Warka) è il primo vero centro urbano: nella fase del suo sviluppo occupa un’area di 70 ettari per raggiungere, all’inizio del periodo protodinastico (2900 a.C.), un’estensione di 100 ettari. Le indagini
Sulle due pagine: veduta del sito di Eridu, dove è possibile seguire la sequenza della «nascita del tempio». A destra: assonometrie ricostruttive del tempio di Enki a Eridu, cosí come doveva apparire nel periodo di ‘Ubaid.
archeologiche hanno messo in luce una serie di strutture che permette di individuare gli elementi caratteristici di un contesto urbanizzato: estensione dell’abitato, architetture monumentali, strutture di immagazzinamento, documentazione di tipo amministrativo e concentrazione di una specifica tipologia ceramica (Bevelled Rim Bowl) impiegata per la distribuzione di cibo in occasione di prestazioni lavorative e in connessione con lo svolgimento di cerimonie religiose. Un ruolo chiave, nel passaggio da una formazione comunitaria tendenzialmente egualitaria a un’organizzazione statale centralizzata e gerarchizzata, viene svolto dal tempio, che fornisce un impianto ideologico-sacrale alla stratificazione sociale, alla diseguaglianza nella gestione dei beni, all’accumulo di ricchezze e al sistema redistributivo dei beni. Il sito di Uruk è caratterizzato da due grandi aree sacre, poste su terrazze e quindi distinte dal resto dello spazio urbano: la collina Kullab, con il cosiddetto Tempio Bianco realizzato sopra una terrazza artificiale alta 12 m e la cui planimetria ripete lo schema già riscontrato per
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il tempio di Eridu. In epoche successive quest’area sarà dedicata al dio Anu e il toponimo Kullab impiegato per denominare l’intera città. Nei racconti mitici, Gilgamesh, l’eroe costruttore delle mura di Uruk, verrà definito «signore di Kullab» e con tale toponimo sarà identificato un distretto di Babilonia. La seconda area sacra, l’Eanna, dedicata alla dea Inanna, mostra un’articolazione ben piú complessa: accanto a edifici identificabili come architetture a carattere sacro in base alla tradizionale planimetria, si trovano strutture che presentano elementi innovativi, come la decorazione a mosaici con l’impiego di coni di pietra o di argilla, colorati di verde, bianco, nero e rosso, a formare dei motivi geometrici. Nonostante ci siano ancora delle incertezze sulla funzione di tali edifici, s’ipotizza che tale area fosse connotata come spazio sacro funzionale all’incontro tra popolo e mondo divino, 50 a r c h e o
dove avevano luogo cerimonie e la distribuzione delle eccedenze in occasione di feste. L’Eanna quindi assumerebbe l’aspetto di una grande sede cerimoniale, con la compresenza di strutture templari ed edifici di servizio per lo svolgimento dell’attività cultuale. Dalla terrazza alla città: lo spazio sacro nel periodo sumerico Alla fine del periodo protodinastico (2600-2350 a.C.) si assiste a una nuova «urbanizzazione», con il paesaggio dell’alluvio costellato da numerose città-stato. Ogni città è connessa a una divinità specifica, concepita sempre piú con caratteri antropomorfi, dotata di una casa, legata da rapporti di parentela con altri dèi (articolazione del pantheon) e provvista di personale per la gestione amministrativa dei suoi beni (funzionari templari), per la sua cura personale (operatori cultuali)
A sinistra: Le rovine di Ur. Sullo sfondo, si riconosce la mole imponente della ziqqurat.
In basso: la «Tavoletta dell’Esagila». Anno 83 dell’epoca seleucide (229 a.C.). Parigi, Museo del Louvre. La tavoletta contiene un testo matematico neo-babilonese, giunto a noi in una copia piú tarda, redatta a Uruk. La denominazione, in realtà, non rispecchia il contenuto della trattazione, perché all’Esagila è riservato solo un breve cenno, mentre ben piú ampia è la descrizione dell’Etemenanki, rivelatasi preziosa al fine di ricostruire l’aspetto del monumento.
e per la gestione politica della città in cui risiede (sovrano). Nei testi sono ora menzionati due centri amministrativi, il tempio e il palazzo, che mostrano un’organizzazione similare e che comporteranno una trasformazione dello spazio urbano e dei modelli architettonici. Le strutture templari mostrano l’aggiunta di ampie corti e spazi aperti e nel tessuto urbano compaiono dei veri e propri edifici palatini che affiancano il tempio come sede del potere temporale. L’esempio piú noto di tale trasformazione è il cosiddetto Tempio Ovale di Khafaja, non piú una struttura separata, innalzata dal resto e dominante, ma inserita all’interno dello spazio cittadino e separata da esso mediante un recinto di forma ovale, che definisce e delimita l’edificio templare e lo spazio antistante sede di attività quotidiane. Il tempio è ora una struttura economica inserita nel tessuto urbano e il raccordo spazio a r c h e o 51
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religioso-spazio profano è affidato alle corti che permettono l’interazione tra dio e comunità cittadina. La III dinastia di Ur: la «rivoluzione» del rapporto dio-sovrano Nel periodo neosumerico (2112-2004 a.C.) si assiste all’intensificarsi della ricostruzione delle fabbriche sacre nelle città di tradizione sumerica, da Uruk a Kish, legata alla volontà dei sovrani della nuova dinastia di «ancorare» il loro potere al passato ormai mitizzato. Allo stesso tempo, l’articolazione delle strutture templari viene sottoposta a una sorta di canonizzazione, secondo criteri di ordine e simmetria sicuramente da connettere al ruolo «ordinatore» assunto dal sovrano, ora divinizzato. Tuttavia, questo tipo di uniformazione non portò alla replica di un «modello» in ogni complesso sacrale, bensí alla loro risistemazione nel rispetto di una tradizione che vede ogni area sacra associata a una funzione differente, che è propria del dio a cui è dedicata e, allo stesso tempo, come «cosmo» in cui gli elementi fondamentali sono duplicati. 52 a r c h e o
I templi neosumerici abbandonano l’impianto protodinastico (cella lunga ed entrata a gomito) per adottare una planimetria che diverrà canonica nella Babilonia dei periodi successivi: la cella è a sviluppo latitudinale («Broadroom» o «Breitraum») ed è preceduta da un’antecella di uguali dimensioni, a cui si aggiunge la presenza di una o piú corti. A partire da questo periodo, inoltre, l’ingresso alla zona «sacra» da mediato diviene assiale, riflesso di un importante cambiamento della fruizione e della percezione dello spazio sacro. A Ur, l’Eanna è oggetto di grandi opere di ricostruzione, con la realizzazione della ziqqurat di Ur-Nammu, che diverrà il prototipo delle successive. La ziqqurat è una costruzione di mattoni crudi di forma rettangolare articolata in terrazze in successione, sull’ultima delle quali sorge il tempio alto, di cui purtroppo non si conoscono pianta e funzione, perché non se ne è conservato alcun esempio. Si tratta di un edificio isolato, delimitato da una corte, ma al tempo stesso integrato con il complesso sacrale del tempio basso. La sua struttura architettonica è l’esito finale
A sinistra: ricostruzione virtuale di una cerimonia nel santuario di Eanna, nella città di Uruk, intorno alla fine del III mill. a.C. In basso: pianta della città di Ur, con l’area sacra e i monumenti piú importanti.
Bacino portuale settentrionale
Palazzo neobabilonese Recinto sacro
Fortezza cassita
Edublamah Case dell’epoca della III Dinastia e successive
Case dell’epoca della III Dinastia e successive
dello sviluppo del tempio costruito su un’alta terrazza, attestato in epoca ‘Ubaid (V millennio a.C.) a Eridu, che secondo i Babilonesi fu la prima città della storia.
Mausoleo dei re della III Dinastia Case dell’epoca della III Dinastia e successive
Bacino portuale occidentale
Babilonia e Assiria: dicotomia dello spazio sacro A partire dal XVIII secolo a.C. si vengono a costituire due poli statali e politici che nel corso della storia saranno costantemente contrapposti: Babilonia e Assiria. Entrambi i regni, incentrati sulle loro capitali Babilonia e Assur, cercarono di legittimare il proprio ruolo politico e, soprattutto, di reclamare la loro egemonia territoriale rifacendosi alla tradizione bassomesopotamica e aspirando a elevare la loro divinità cittadina (rispettivamente Marduk e Assur) al rango di capo del pantheon mesopotamico sostituendosi al dio Enlil. I complessi sacrali di queste due divinità furono strutturati riprendendo la planimetria, i nomi cerimoniali e la funzione dell’Ekur di Enlil a Nippur. Problematico è lo studio dell’architettura del tempio di
Tempio di Enki
Marduk per questo periodo, per l’assenza di documentazione archeologica riguardante la Babilonia di Hammurabi (1782-1750 a.C.), prototipo da replicare nelle altre realtà urbane. Uno dei complessi piú rappresentativi del periodo paleobabilonese per a r c h e o 53
LUOGHI DEL SACRO/2 A sinistra: statuetta di orante, dal tesoro del tempio di Nintu a Khafaja. 2600-2400 a.C. Baghdad, Iraq Museum. Nella pagina accanto: veduta aerea degli scavi di Ur. In basso: ricostruzione virtuale della ziqqurat di Ur, dedicata a Nanna, dio della luna.
Per l’Assiria è invece possibile seguire adeguatamente lo sviluppo dell’architettura sacra. Prototipo del nuovo schema templare, che si affermerà come canone, è il tempio fatto costruire da Shamshi-Adad I (1815-1782) a Shubat-Enlil (Tell Leilan): la cella a sviluppo longitudinale è preceduta da un’antecella larga. Lo stesso sovrano realizza ad Assur il tempio del dio poliade con una successione tempio-ziqqurat-palazzo a formare un’unità monumentale poi ampliata nei periodi successivi. Durante il regno di Tukulti-Ninurta I (1243-1207 a.C.) si porta a compimento il processo religioso di identificazione della figura di Assur con il dio Enlil, attraverso l’assimilazione dei nomi celebrativi (Ekur ora indica il tempio del dio Assur ad Assur) e dello schema architettonico del tempio di Enlil a Nippur. Questo sovrano, significativamente, è colui che penetra nel territorio babilonese, conquista Babilonia distruggendone mura e templi e «deporta» la statua del dio Marduk. Il processo di «Enlilizzazione» del tempio del dio Assur si attua con lo scopo di far risultare l’Assiria la vera erede della tradizione sumerica, in diretta concorrenza con il regno di Babilonia, che invece prende a modello la struttura organizzativa e ideologica del periodo neosumerico. Questa differenziazione è riscontrabile anche nell’architettura templare: i templi babilonesi sono con cella a sviluppo latitudinale e ingresso in asse (tipologia sviluppata a partire da Ur-Nammu), mentre quelli assiri continuano a essere con cella a sviluppo longitudinale con ingresso a gomito. concezione, impostazione planimetrica, materiali e tecniche impiegate è l’Ebabbar del dio Shamash, a Larsa. Il tempio è formato da tre corti quadrangolari disposte in sequenza lungo un asse longitudinale, in fondo alle quali è collocata la cella a sviluppo latitudinale, che riprende la tipologia formulata nel periodo neosumerico. Uno dei tratti distintivi dell’architettura monumentale templare in questo periodo, comune alla successiva età cassita, è la caratterizzazione delle facciate esterne, articolate in nicchie e lesene, e la decorazione con semicolonne, in questo caso tortili, costruite con mattoni dal profilo modanato. 54 a r c h e o
LUOGHI DEL SACRO/2
L’ENUMA ELISH: IL POEMA DELLA CREAZIONE E LA FONDAZIONE DI BABILONIA «Gli Anunnaki scavarono il suolo con le loro zappe e, per la durata di un anno, fabbricarono mattoni: poi a partire dal secondo anno, dell’Esagil, copia dell’Apsû, posero il coronamento. Eressero anche alta la ziqqurat di questo nuovo Apsû. E vi apprestarono una dimora per Anu, Enlil ed Ea». L’Enuma elish è un testo redatto in forma innica, fissato come canone intorno al XII secolo a.C. e cantato durante la festa del Capodanno. Temi principali del mito sono la nascita e l’ascesa di Marduk che da divinità poliade di Babilonia diviene il capo del pantheon babilonese, spodestando il dio Enlil. All’origine di tutto esiste solo l’elemento acquatico primordiale e indistinto, costituito da Apsû (acque dolci) e Tiamat (acque salate). Nella prima parte il protagonista è il dio Ea, il quale, dopo avere sconfitto Apsû, separando cosí le due entità primordiali, fissa la sua dimora sull’entità assoggettata, chiamandola significativamente con lo stesso nome.
l’imponente mole del complesso palatino di Nabucodonosor II, posto a cavallo delle mura e sviluppato in una serie di terrazzamenti, forse all’origine del mito dei giardini pensili di Babilonia. Attraversare la Porta doveva suscitare sentimenti contrastanti di
Corte I
Tempio ovale
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Il racconto cosmogonico inizia a metà del testo quando Marduk, generato da Ea, inizia la sua opera di «creazione» dell’universo dopo aver ucciso Tiamat. Egli divide in due parti il corpo di Tiamat: sollevando la metà superiore, realizza il cielo nel quale stabilisce la dimora di Anu e Enlil, fissa al suo interno la posizione delle stelle e regola la durata dell’anno, del mese e del giorno mediante il percorso delle stelle, della luna e del sole. Con la metà inferiore, Marduk «crea» la terra utilizzando le varie parti del corpo come elementi topografici: sopra la testa accumula polvere, formando la superficie terrestre, dai suoi occhi fa sgorgare il Tigri e l’Eufrate e sul suo seno realizza le «montagne distanti» ricche di fonti d’acqua. Dopo aver organizzato i due elementi costitutivi dell’universo, Marduk, ricevuti gli onori e le insegne regali, decide di realizzare la sua dimora, Babilonia, con il concorso degli dèi e infine procede alla creazione dell’uomo.
soggezione e protezione, rendendo manifesto, allo stesso tempo, che la città interna in cui si stava entrando era un luogo protetto sacralmente dagli dèi, fisicamente dalla doppia cinta muraria e militarmente dal sovrano. Oltre la Porta si trovava il centro monu-
Corte III
mentale di Babilonia, che sembrava replicare su scala urbana l’intero territorio mesopotamico: la città interna era suddivisa in quartieri, i cui nomi e le cui strutture templari richiamavano le antiche città sumeriche ormai inglobate all’interno del territorio babilo-
Ziqqurat
A sinistra: planimetria dei resti del tempio di Shamash a Larsa. Nella pagina accanto, in alto: tavolette contenenti il testo dell’Enuma elish, da Ninive. VII sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: chiodo di fondazione di Gudea in lega di rame, forse da Lachish. 2100 a.C. circa. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.
nese, come Eridu, la città sumeri- piva di fedeli che per devozione, ca legata al dio Enki, e Kullab, ammirazione o semplice curiosità si l’area sacra di Anu a Uruk. recavano ad assistere ai riti. Il santuario di Marduk presentava tutti gli elementi costitutivi dell’arLA ZIQQURAT: IMPONENTE E MAGNIFICA chitettura religiosa aggiunti di volta Continuando a percorrere la via in volta nel corso della storia mesocerimoniale, avendo come riferi- potamica. L’Esagila (é-sag-gil-la, letmento visivo la ziqqurat che si innalzava maestosa con la sua splendida decorazione policroma, avremmo raggiunto il complesso santuariale del dio Marduk, fulcro religioso non solo cittadino ma di tutta la Mesopotamia, costituito a nord dal recinto sacro dell’Etemenanki e a sud dal tempio basso, l’Esagila. Entrambe le aree sacre erano separate dal contesto urbano da uno spesso muro continuo, movimentato da un’alternanza di nicchie e lesene, che permetteva di riconoscere come sacra l’area situata al di là del recinto. Il nostro percorso si sarebbe probabilmente interrotto davanti alla porta d’ingresso della corte dell’Esagila, poiché non tutti potevano accedere al complesso templare, se non durante le cerimonie pubbliche, quando la grande corte esterna si riem-
teralmente «casa del dio la cui testa è posta in alto»), il piú complesso e monumentale santuario della Babilonia, si trovava a sud del grande recinto dell’Etemenanki. Come riportato nell’Enuma elish era stato costruito dagli dèi Anunnaki su invito dello stesso Marduk. Il luogo e la forma del tempio non erano scelti casualmente: gli dèi avevano realizzato la dimora di Marduk nel luogo in cui tutto aveva avuto origine, dove lo stesso dio era nato e dove era stato creato il genere umano. Il tempio si identificava quindi con l’ombelico del mondo, posto esattamente in asse con l’Apsû, dimora di Ea, e con l’Esharra di Anu, di cui costituiva una replica. Le tre residenze divine erano poste sull’asse verticale che assumeva la funzione di axis mundi, con l’Esagila intermediario tra le due sfere celeste e sotterranea e a sostegno dell’intero cosmo. Sul piano architettonico, il dur.mah (grande collegamento) che Marduk aveva fissato per rendere stabile la sua creazione, era rappresentato dalla ziqqurat Etemenanki (letteralmente «Casa fondamento a r c h e o 57
LUOGHI DEL SACRO/2
del cielo e della terra»). La funzione di raccordo tra le diverse realtà era espressa anche dalla corte ubsukinna, realizzata nel punto esatto in cui, secondo il mito, Marduk aveva preso possesso del luogo, dopo aver sconfitto Tiamat, e dove annualmente, durante la celebrazione del Capodanno (la festa akitu; vedi box a p. 60), gli dèi del cielo, della terra e del mondo infero si radunavano in assemblea per decretare i destini di Babilonia, del suo sovrano e di tutto il mondo.
IL SANTUARIO DI MARDUK Non si conosce esattamente la datazione della prima costruzione, quasi sicuramente realizzata durante il regno di Hammurabi (17921750 a.C.), ma sappiamo che rima-
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se in funzione fino in età seleucide. Nella ricostruzione di età neobabilonese il complesso dell’Esagila (170 x 110 m) era delimitato da una recinzione al cui interno erano presenti una grande avancorte, spazio per le cerimonie collettive, e il tempio in posizione decentrata, ma in asse con la struttura della ziqqurat; a sua volta, l’edificio sacro era costituito da un grande corpo di fabbrica (77 x 79 m), una corte interna quadrata a cui si accedeva attraverso la «porta del sorgere del sole» e, sul lato occidentale della corte interna, il nucleo del santuario vero e proprio, con la tipica struttura babilonese (ingresso assiale, antecella e cella di Marduk). Nel complesso erano presenti celle, cappelle e podi dedicati alla «fami-
glia» di Marduk (Ea, padre di Marduk, e le celle dedicate alla sposa Sarpanitum e al figlio Nabû), a numerose divinità del pantheon babilonese, ma anche a dèi di antica tradizione sumerica. L’Esagila era infatti chiamato «palazzo degli dèi», perché, come riportato nell’Enuma elish (V 125128): «Quando dall’Apsû andrete nell’assemblea, in questo luogo potrete sostare per la notte prima dell’assemblea; quando dai cieli scenderete nell’assemblea, in questo luogo potrete sostare per la notte prima dell’assemblea». Come Marduk nel mito è la divinità che prende su di sé le caratteristiche e le funzioni degli altri dèi, assumendo una posizione di centralità all’interno del pantheon mesopotamico, cosí il suo santuario inglobava le celle
delle altre divinità, connotandosi come centro del mondo divino, dove aveva luogo l’assemblea degli dèi durante la festa akitu.
ORO, PIETRE PREZIOSE E CEDRO DEL LIBANO Il complesso dell’Esagila era riccamente decorato con elementi preziosi e immagini che rimandavano alla sua fondazione mitica: secondo quanto riportato dai testi celebrativi, i passaggi da una corte all’altra erano protetti da statue raffiguranti le «creature di Tiamat», i mostri primordiali sconfitti da Marduk. La cella di questo dio conteneva una tavola offertoria e un altare in oro, e aveva il soffitto decorato con travi di cedro del Libano ricoperte d’oro e pietre preziose. All’interno sul «podio del
trono dei destini» con il suo rivestimento d’oro doveva essere la statua di Marduk, deportata da Sennacherib in Assiria e riportata a Babilonia da Assurbanipal nel 668 a.C. Erodoto (I 183) cosí descrive la ricchezza del tempio Esagila: «C’è poi nel santuario di Babilonia anche un altro tempio piú in basso, dove c’è una grande statua d’oro di Zeus seduto e accanto gli sta una grande tavola d’oro, e sia lo sgabello sia il trono sono d’oro. (...) Fuori del tempio poi c’è un altare d’oro. C’è anche un altro altare grande su cui si sacrificano le bestie adulte; sull’altare d’oro infatti non è permesso sacrificare altro che bestie lattanti (...). C’era inoltre in questo santuario ancora a quel tempo anche una statua di 12 cubiti, d’oro massiccio. Io veramente non la vidi, ma riferisco quel che raccontano
i Caldei: Dario figlio di Istaspe, pur avendo concepito piani intorno a questo simulacro, non osò impadronirsene; se ne impadroní invece Serse figlio di Dario ed uccise il sacerdote che voleva impedirgli di rimuovere la statua». Dalla corte, attraverso due porte che si aprivano sul lato settentrionale, era possibile passare al complesso dell’Etemenanki, di cui purtroppo sono rimasti soltanto la base del nucleo in mattoni crudi e un largo fossato la cui forma corrisponde alla pianta dell’edificio. Importanti dati sono forniti da Erodoto (I, 181-182), dalle iscrizioni di Nabopolassar e di Nabucodonosor II e dalla Tavola dell’Esagila che ricordano che la ziqqurat aveva lunghezza, larghezza e altezza di 91,50 m, era costituita da sette gradoni
A sinistra: ricostruzione di Babilonia, cosí come doveva apparire intorno al VI sec. a.C. La città è vista dall’Eufrate e, al centro, è dominata dal complesso sacrale dedicato al dio Marduk, con la ziqqurat Etemenanki. In basso: Babilonia. Veduta aerea dei resti della ziqqurat Etemenanki.
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LA FESTA AKITU Celebrata in ogni centro urbano della Mesopotamia, l’Akitu era una festa di Capodanno durante la quale si attuava una rottura controllata dell’ordine ed era compiuta una serie di rituali di purificazione finalizzati a rimuovere le impurità accumulate nel corso dell’anno, cosí da poter «entrare» nell’anno successivo totalmente rinnovati. Grazie a un testo di età seleucide (III secolo a.C.), è possibile ricostruire l’intero complesso festivo di Babilonia. Centro focale era il tempio di Marduk anche se la festa coinvolgeva lo spazio cittadino e il Paese. Il rinnovamento investiva tutti i livelli della realtà: mitica, sacrale e storica. Lo spazio architettonico dell’Esagila veniva purificato con
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abluzioni, fumigazioni e scongiuri. La statua di Marduk veniva tolta dal podio, spostata in un altro ambiente e velata mentre nel tempio di Madanu (divinità legata alla giustizia) venivano portate due statuine che rivestivano la funzione di capro espiatorio caricandosi tutte le impurità per poi essere decapitate e bruciate al termine della festa. Il rinnovamento dell’intero Paese avveniva con il sacerdote di Marduk che recitava l’Enuma elish di fronte alla statua del dio, riattualizzando l’atto cosmogonico sul piano rituale. Il sacerdote conduceva il sovrano nella corte dell’Esagila per compiere il rinnovamento sul piano storico: il re consegnava le insegne regali, veniva schiaffeggiato ritualmente dal sacerdote ed era condotto di fronte alla statua del dio dove, prostrandosi, affermava di non aver agito empiamente. Dopo tale confessione negativa, veniva nuovamente schiaffeggiato, gesto funzionale a provocarne il pianto, segno del perdono del dio necessario alla sua reintronizzazione. Atto finale della festa era l’uscita della statua di Marduk dal tempio e dalla città, accompagnata da tutti gli dèi, e il soggiorno per un periodo di tempo nel bit akiti, tempio extra-urbano. L’uscita del dio era funzionale al rinnovamento di tutta la città attraverso la processione di ritorno quando l’ingresso del dio e di tutti gli dèi riattualizzava la presa di possesso di Babilonia nel tempo del mito, nel momento in cui Marduk entrava per la prima volta nell’Esagila. Nella corte ubshikinna aveva luogo l’assemblea degli dèi e venivano fissati i destini del Paese, della città e del suo re.
(variavano senza un ordine da un’altezza di oltre 33 m del primo, fino a circa 6) e sulla sommità vi era un tempio dove si trovavano le immagini di Marduk, Nabu e Tashmetu e di Ea, Nusku, Anu e Enlil. Davanti al trono del dio era custodito il celebre letto delle nozze sacre ricordato anche da Erodoto (I 181, 2-5): «In mezzo al tempio si erge una torre massiccia, che misura uno stadio sia di lunghezza sia di larghezza, e su questa torre è posta un’altra torre e su questa un’altra, fino a otto torri. La strada che vi sale è costruita all’esterno a spirale, e circonda tutte le torri. Per chi sia circa a metà della salita c’è una stazione e dei sedili per riposarsi, dove si riposano quelli che salgono. Nell’ultima torre poi c’è un grande tempio, nel quale si trova un grande letto fornito di belle coperte con accanto una tavola d’oro. Non c’è lí alcuna statua di divinità e di notte nessuno degli uomini vi dimora, a eccezione di una solo donna del paese, quella che il dio abbia scelta fra tutte, a quanto dicono i Caldei che sono i sacerdoti di questo dio».
L’INIZIO DI TUTTO Il legame tra città e divinità trova fondamento nel tempo del mito, quando tutto ha avuto inizio e per la prima volta sono stati definiti elementi culturali e rapporti tra mondo divino e terreno. Nelle culture della Mesopotamia non è concepibile un’autorità politica senza il sostegno divino: è la divinità che decide di costruire la propria residenza terrena in un determinato luogo e sceglie un sovrano come suo vicario che si prenda cura di essa. Suo preciso dovere è assicurare la protezione e il mantenimento dell’ordine fissato dagli dèi al momento della creazione e provvedere alla ricostruzione e al restauro della statua del dio, della sua dimora, della sua città e del suo Paese. In cambio, la divinità garantisce la sua benevolenza al re e, per estensione al Paese, come ben espresso nell’iscrizione di Nabopolassar, in
A sinistra: la Porta di Ishtar, ricostruita nel Pergamon Museum di Berlino. Nella pagina accanto: Babilonia in un olio su tela di Maurice Bardin. 1936. Chicago, Oriental Institute Museum. In basso: cilindro neo-assiro (e suo sviluppo) con scene di culto e simboli di Marduk e Nabu. Parigi, Museo del Louvre.
cui è descritta la ricostruzione dell’Etemenanki: «O Marduk, mio signore, guarda benevolo alle mie buone azioni e con il tuo volere che è immutabile, possa la costruzione, l’opera delle mie mani, restare solida per sempre. Cosí come i mattoni dell’Etemenanki restano solidi per sempre, fa sí che anche le fondamenta del mio trono siano solide per i giorni lontani. O Etemenanki, al re che ti ha ricostruito, concedi la tua benedizione! Quando Marduk stabilisce con gioia la sua residenza
in te, racconta allora a Marduk, mio signore, le mie buone azioni». I rituali connessi alla costruzione o ricostruzione di un tempio erano essenziali ai fini della stabilità della struttura e del benessere del costruttore. Edificare era pericoloso: durante le varie fasi costruttive era necessario rispettare tutte le prescrizioni e prestare attenzione al verificarsi di presagi funesti che dovevano essere scongiurati con la messa in campo di specifici rituali.
Il re assiro Arik-den-ili (XIV secolo a.C.) motiva la ricostruzione del tempio di Shamash ad Assur con il tentativo di salvare il raccolto dell’Assiria, rimediando a un «affronto» nei confronti del dio causato dalla costruzione di alcune cappelle sulle macerie di un tempio andato in rovina.
GLI ABUSI DI UN GOVERNATORE Il sovrano doveva inoltre preoccuparsi di eventuali «colpi di mano» di sacerdoti e governatori che talvolta apportavano modifiche senza rispettare le prescrizioni proprio per far ricadere l’ira divina sul re in carica. In una lettera al re assiro Esarhaddon (680-669 a.C.) il funzionario Bel-ushezib lo informa del comportamento scorretto del governatore di Nippur, il quale, in accordo con i ribelli anti-assiri e con il proposito di recare danno al re, ha demolito il santuario di Nippur, cambiato il suo sito ed eseguito un rituale apotropaico per allontanare da sé l’ira divina e indirizzarla contro il sovrano. a r c h e o 61
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Il Cilindro A di Gudea, sovrano della II dinastia di Lagash (2200-2000 a.C.), riporta in dettaglio la riedificazione del tempio Eninnu di Ningirsu con l’indicazione dei molteplici rituali che un re mesopotamico doveva eseguire per «far ritornare il tempio al suo posto». Le stesse azioni furono eseguite, 1500 anni piú tardi, dai sovrani caldei di Babilonia per la ricostruzione dell’Esagila, a conferma della valenza sacrale di tale procedimento rituale. Dopo aver ricevuto in sogno dal dio Ningirsu l’ordine di ricostruire la sua dimora, Gudea mette in atto una sospensione rituale in tutta la città, cosí da procedere alla ricostruzione dell’edificio, fondato nel tempo del mito e chiamando in aiuto un’ampia serie di divinità. Dopo aver convogliato le materie prime da ogni parte del mondo, l’ensi prende accordi con gli artigiani e inizia le operazioni, delimitando l’area, misurandola e inserendo i chiodi di fondazione per rendere stabili i limiti della futura struttura architettonica.
IL MATTONE PRIMIGENIO La successiva preparazione del «primo mattone» è un’azione fondamentale e, in questa delicata fase, Gudea è assistito dal dio personale Ningizzida, che «lo tiene per mano». Il primo mattone simboleggia la «nascita» del tempio, attuata nel tempo del mito, e la sua preparazione chiama in causa una serie di divinità: in primo luogo Kulla, allo stesso tempo Mattone e Architetto primigenio, e poi divinità femminili legate in vario modo al tema della nascita; l’argilla del primo mattone proviene dall’Apsû ed è la stessa materia che ha permesso al dio Enki, il dio creatore, di condurre all’esistenza l’uomo. L’associazione «costruzione del tempio», «creazione del cosmo» e «creazione dell’uomo» trova conferma nella presenza del mattone anche nei rituali di nascita e nei miti antropogonici. 62 a r c h e o
Tornando al testo del Cilindro, dopo aver fabbricato il «primo mattone», Gudea mette il cesto in testa e trasporta il mattone per realizzare l’ush, termine tradotto come «muro», ma verosimilmente da intendere come «trincea di fondazione». Poi delimita sette quadrati corrispondenti ai diversi settori templari, assegnando loro nomi cerimoniali e quindi definendoli nella loro essenza. Infine innalza la struttura, cosí che la casa del dio appaia come una montagna, che alza la testa come un toro. Come atto finale rende stabile l’Eninnu ponendovi il dim-gal («grande collegamento»), e dunque ancorando l’edificio sacro alle realtà cosmiche, nella stessa modalità riscontrata nella descrizione della costruzione dell’Esagila. Da un altro testo apprendiamo che, al termine dei lavori edilizi, i costruttori umani e divini dovevano lasciare il luogo. Kulla veniva letteralmente esorcizzato: una statuetta del dio veniva fatta passare nelle varie parti dell’edificio e di notte trasferita dalla casa al fiume.Venivano quindi eseguiti rituali per evitare il suo ritorno: l’esorcista spaventava i demoni facendo un gran rumore in casa (é), suonando campane tamburi e schioccando fruste. Presso la riva del fiume Kulla veniva messo su una barca e mandato via, in quanto la sua presenza avrebbe continuato a rendere «attiva» la fase costruttiva con il rischio di crolli e conseguenti restauri. Anche all’architetto umano era vietato per tre giorni di entrare nella nuova costruzione.
É: CASA DELL’UOMO E CASA DEL DIO Il termine é/bitum, in relazione al contesto familiare, rappresenta sia la struttura architettonica, sia la famiglia che vive al suo interno; allo stesso modo, il tempio è la casa del dio e della sua famiglia. La connessione casa-tempio è evidente anche nell’articolazione, disposizione e funzione degli spazi. La
casa mesopotamica presenta una bipartizione: da un lato una zona piú pubblica, incentrata sulla corte anteriore attorno a cui ruotano vani dalle funzioni piú varie (dalla cucina agli «appartamenti» legati ai nuclei minori del clan); dall’altro una zona piú interna, meno raggiungibile e dall’accesso mediato,
Particolare della decorazione della Porta di Ishtar: il monumento era realizzato con mattoni invetriati blu, che costituivano lo sfondo, e con mattoni smaltati gialli a rilievo che, con una composizione a mosaico, creavano teorie di dragoni, simbolo di Marduk, e di tori, simbolo del dio Adad. Berlino, Pergamon Museum.
che costituiva la residenza del nucleo primario e lo spazio riservato al dio della casa e allo svolgimento del culto domestico. Nel tempio troviamo un’articolazione simile, sebbene le due tipologie planimetriche non possano essere sovrapposte. Il settore anteriore era imperniato sulla corte,
spazio di intermediazione tra il contesto urbano e la cella con la statua del dio. Su questa corte si affacciavano ambienti dalle diverse funzioni (alcuni destinati a «casa» di divinità minori e un’unità strutturale connessa alla preparazione del cibo). Questa zona era separata dal settore retrostante da a r c h e o 63
LUOGHI DEL SACRO/2
un vano con passaggi sfalsati, posto su una piattaforma mediana e connesso alla corte da una scalinata. Al di là di questo spazio era la residenza del dio, posta secondo la tradizione in alto. La sequenza corte-scalinata-terrazza intermedia-cella segna il passaggio da una sfera all’altra. La terrazza intermedia, elemento di maggiore visibilità per chi stava nella corte bassa, era probabilmente il luogo in cui la divinità «appariva» ai cittadini tramite la sua statua. La statua era concepita come un oggetto sacro, non forgiato da mani umane e realizzato con materiali scelti dal dio per le loro qualità di purezza e sacralità. La creazione della statua era un atto «extra-umano»: gli esperti-artigiani che la plasmavano, operavano su ispirazione divina attraverso responsi oracolari e gli arnesi di lavoro erano considerati proprietà delle divinità artigiane che realizzavano, tramite il lavoro 64 a r c h e o
umano, l’immagine divina (alam/ salmu). Materiali, utensili e artigiani erano quindi strumenti della volontà divina e non artefici dell’effigie. Il dio «abitava» nella statua, ma la statua non era il dio.
L’APERTURA DELLA BOCCA La correlazione statua-dio avveniva mediante l’esecuzione del rituale mis pî (letteralmente, «apertura della bocca»), che prevedeva il trasporto della statua dall’officina al tempio ed era strutturato come un percorso di trasformazione a tappe, articolato in operazioni con attori umani e divini chiamati ad agire fino all’intronizzazione del dio nella cella del tempio. Il mis pî permetteva all’effigie di essere considerata coincidente con il dio e quindi strumento di intermediazione tra mondo divino e mondo umano, che si concretizzava nello svolgimento delle attività cultuali.
La divinità era venerata e accudita con una serie di atti rituali indirizzati al sostentamento (pasti e offerte alimentari), alla cura (bagni rituali, vestizione) e alla venerazione del dio (preghiere, invocazioni). Tutte queste attività giornaliere erano svolte dal personale addetto al culto di ogni singola entità divina ed erano finalizzate a garantire la continua capacità operativa del dio. La divinità poliade agiva come il vero «sovrano» di cui il governante terreno era solo il vicario: come il capo di uno Stato, il dio, o meglio la sua statua, compiva viaggi diplomatici, recandosi ad assemblee divine o a «incontri bilaterali» per garantire il mantenimento dell’ordine e i rapporti con le altre città/ divinità. Ovviamente, questi rapporti erano vincolati agli specifici ambiti di competenza della divinità e alla loro posizione gerarchica all’interno del pantheon. Il dio Enki/Ea, per esempio, era la
Eufrate
Palazzo d’Estate
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Porta di Ishtar
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Porta di Enlil
Porta di Marduk
Città nuova Kullab Porta di Lugalirra
Eridu
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Porta di Zababa
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Tuba
Porta di Adad
Porta di Urash Porta di Shamash
PER SAPERNE DI PIÚ Palazzo principale
Porta di Ishtar
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Avancorpo occidentale
Tempio di Nin-mah
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Porta di Marduk
Tempio di Ishtar
ella P roce
Porta di Zababa
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Palazzo meridionale
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In alto: Babilonia. Particolare delle decorazioni presso la Porta di Ishtar. A destra, in alto: pianta di Babilonia con le tre principali aree urbane, i nomi dei quartieri e le fortificazioni completate sotto Nabucodonosor II (604-562 a.C.). A destra, in basso: il centro di Babilonia sulla sponda orientale dell’Eufrate, con l’indicazione dei palazzi, dei santuari e delle porte cittadine.
Fossato
Fossato
divinità connessa al processo creativo: per questo doveva presenziare a ogni nuova fondazione e modifica che si voleva apportare. Questo comportava la necessità che, prima d’ogni nuovo «atto creativo», ci si recasse dal dio a Eridu, oppure che Enki si spostasse, compiendo un viaggio per presenziare alla costruzione. Al contrario, Enlil era il garante della stabilità dell’ordine che si manifestava nella sua «staticità/inamovibilità» nella sua residenza Duranki, «legame tra cielo e terra», a Nippur: perciò erano le altre divinità che si dovevano recare annualmente a Nippur per partecipare all’assemblea divina per decretare il rinnovamento dell’ordine e fissare i destini del mondo. Quando poi le dinamiche politiche fecero emergere altre entità statali, il ruolo di Enlil venne assunto dalle divinità poliadi del centro dominatore, come il dio Marduk per Babilonia e il dio Assur per l’Assiria.
Tempio di Marduk Tempio di Ishara
Tempio di Ninutta
Maria Giovanna Biga, Anna Maria Gloria Capomacchia (a cura di), Il politeismo vicino-orientale, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 Davide Nadali, Andrea Polcaro (a cura di), Archeologia della Mesopotamia antica, Carocci editore, Roma 2015 Lorenzo Verderame, Introduzione alle culture dell’antica Mesopotamia, Le MonnierMondadori, Firenze-Milano 2017. Marinella Ceravolo, L’attivazione della statua di culto in Mesopotamia. Il rituale mis pî tra dualità e riti di passaggio, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 85/2 (2019); pp. 888-907
NELLA PROSSIMA PUNTATA • Lo spazio di Amon fra Tebe e Napata a r c h e o 65
MUSEI • BRESCIA
SULLE ALI DELLA VITTORIA UN NUOVO ALLESTIMENTO IN GRADO DI ESALTARNE LA BELLEZZA E, AL CONTEMPO, GARANTIRNE LA CONSERVAZIONE, ACCOGLIE DAL MESE SCORSO LA STATUA DIVENUTA UNO DEI SIMBOLI DI BRESCIA. UN EVENTO DI GRANDISSIMO RILIEVO, SOLO TEMPORANEAMENTE OSCURATO DALL’EMERGENZA SANITARIA di Cristina Ferrari
Tutte le immagini si riferiscono alla Vittoria Alata, statua bronzea databile alla metà del I sec. d.C., al suo allestimento nel Capitolium e al suo restauro. Sulle due pagine: la testa della statua. I capelli sono trattenuti da una fascia illuminata da agemine in argento, che riproducono foglie probabilmente di mirto e rosette.
L
a Vittoria Alata, la statua bronzea divenuta uno dei simboli di Brescia, ha definitivamente lasciato Firenze, dopo un intervento di restauro durato oltre due anni, e, come avevamo anticipato (vedi «Archeo» n. 429, novembre 2020; anche on line su issuu.com) è rientrata «a casa». Ora si offre nuovamente all’ammirazione del pubblico all’interno del Capitolium (l’antico tempio dedicato alla triade capitolina), con un nuovo allestimento altamente tecnologico, che ne esalta le caratteristiche storiche ed estetiche, ma che tiene anche conto di tutte le sue esigenze strutturali, per garantirne la conservazione. Al momento in cui scriviamo, l’inaugurazione, inizialmente a r c h e o 67
MUSEI • BRESCIA
«L’allestimento a Santa Giulia – conferma Stefano Karadjov, Direttore della Fondazione Brescia Musei – privilegiava soprattutto gli aspetti formali ed estetici della Vittoria Alata e, di conseguenza, il Comitato Scientifico, composto da esperti della Fondazione Brescia Musei e della Soprintendenza Archeologica, ha scelto di riportare la statua nel suo “luogo di origine”, con un nuovo allestimento firmato dall’architetto spagnolo Juan Navarro Baldeweg, capace di andare oltre la musealizzazione storico-cronologica, e di donarle una nuova identità, elevandola a grande icona di epoca romana».
Sulle due pagine: immagini del nuovo allestimento della Vittoria Alata all’interno del Capitolium, realizzato su progetto di Juan Navarro Baldeweg.
prevista nello scorso novembre, è stata rimandata per l’ordinanza di chiusura dei musei lombardi, dovuta alla pandemia da Covid-19. «La scelta di esporre la Vittoria Alata nel Capitolium – spiega Francesca Morandini, archeologa di Fondazione Brescia Musei – è stata fatta in seguito a varie considerazioni di natura storico-artistica, ma anche per recuperarne il contesto di origine, in primis perché proprio nel Capitolium (in un’intercapedine tra
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due muri e il retrostante colle Cidneo) la statua fu rinvenuta la sera del 20 luglio 1826 (vedi box a p. 71). E qui, nel tempio parzialmente ricostruito e divenuto sede del Museo Patrio dal 1830, venne inizialmente esposta, prima nell’aula occidentale e poi nelle sale costruite sopra il Capitolium stesso nell’immediato dopoguerra, fino al 1998, anno in cui, temporaneamente, fu spostata nel Museo di Santa Giulia, dove è rimasta fino al 2018».
NELL’ANTICO TEMPIO Concluso quindi l’intervento di restauro, grazie anche all’evoluzione tecnologica di questi ultimi anni (vedi box a p. 72), la statua è tornata definitivamente nell’antico tempio, nella cella orientale, come parte integrante del percorso. «L’accesso alla stanza – continua Karadjov – avviene dall’aula centrale attraverso una bussola chiusa con due porte in vetro e legno, con un impatto scenografico molto forte, dovuto anche al fondale archeologico originale, con il podio per la statua di culto rivestito di marmi policromi, e il rivestimento delle pareti in mattoni fatti a mano lavati a calce, con un bellissimo effetto luminoso, che riproduce le decora-
zioni parietali di opus listatum di età romana, dando al visitatore l’impressione di trovarsi in una piazza chiusa e coperta. L’effetto scenografico è dovuto anche al sapiente gioco di luci creato da una lampada composta da diversi corpi illuminanti, sospesa nello spazio e simile a una luna, dalla quale origina un punto luminoso di forma ellittica sul muro, a evocare lo scudo della statua oggi perduto». La Vittoria Alata è stata collocata su un podio cilindrico in pietra di Botticino, bianca, posto su una
base antisismica altamente tecnologica nascosta dal pavimento, in posizione asimmetrica rispetto al centro della stanza.
L’ALTEZZA IDEALE «Per scegliere l’altezza del basamento, poi definita a 1,5 m – spiega Morandini – è stato affidato uno studio a una scultrice, che ha analizzato le dimensioni e le (pochissime) asimmetrie del bronzo storico, arrivando a identificare il punto di osservazione ideale (focus visivo all’altezza dei piedi), come molto
probabilmente doveva essere anche in epoca romana. La posizione rialzata, oltre a riportare la Vittoria alla sua probabile altezza originaria, consente anche di renderla protagonista e dominante nello spazio in cui è collocata, nelle tre dimensioni (nella sua relazione con il pavimento, con le pareti e con il soffitto), mentre altrimenti la scultura avrebbe potuto essere annichilita dalla grandiosità dell’aula stessa. Non dimentichiamo infatti che si tratta di un vero e proprio “monumento in un monumento”». a r c h e o 69
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«La posizione eccentrica – continua Karadjov – assicura inoltre una visione immediata, subito dopo aver varcato la porta di accesso, con un vero e proprio “gioco illusionistico”. Il basamento cilindrico permette infatti una fruizione a 360°, non piú quindi solamente frontale, e porta istintivamente a girare intorno alla statua, per ammirarla a tutto tondo, arrivando cosí a inquadrarla in una “scenografia astratta”, con la parete sinistra della cella, non visibile quando si entra e che si svela allo sguardo proprio ruotando 70 a r c h e o
A destra: l’iscrizione sul frontone del timpano del Capitolium che menziona l’imperatore Vespasiano. Nella pagina accanto: una veduta d’insieme del Capitolium.
METTI UNA SERA DI LUGLIO... Il ripostiglio dei bronzi di Brescia venne scoperto la sera del 20 luglio 1826, nascosto sotto uno strato di «carboni e terriccio» in un’intercapedine tra due muri del Capitolium e il retrostante colle Cidneo. I manufatti, che coprono un arco cronologico compreso fra l’epoca giulio-claudia e il III secolo d.C., erano stati deposti con grande cura, suggerendo che fossero stati nascosti per preservarli, piú che per destinarli alla rifusione. Oltre alla Vittoria Alata, ritrovata con le ali appoggiate vicino alla testa, il ripostiglio comprende bronzi figurati, il braccio di un’altra statua e vari materiali architettonici, tra cui ghiere,
elementi di difficile interpretazione, cardini e soprattutto cornici del I-II secolo d.C., realizzate a cera persa, alcune delle quali presentano decorazioni a sbalzo e ad ageminatura. Le cornici dorate, interpretate originariamente come elementi di una biga, sono invece oggi riconosciute come elementi decorativi del trono di una statua di culto. I bronzi figurati comprendono 5 teste-ritratto in bronzo dorato di imperatori, identificati come Settimio Severo (193-211 d.C.), 2 ritratti di Claudio II il Gotico (268-269) d.C. e 2 di Marco Aurelio Probo (276-282 d.C.), oltre alla testa di una donna di età matura, caratterizzata
dalla tipica pettinatura di moda nella seconda metà del I secolo d. C., da molti interpretata come Domizia Longina, moglie dell’imperatore Domiziano (81-96 d.C.). Facevano parte del ripostiglio anche un balteo (pettorale da cavallo per parata bronzeo del II-III secolo d.C.), con una scena di battaglia tra soldati romani a cavallo e barbari in fuga (tutte le figure sono ad altorilievo), e il «Prigioniero», una scultura a mezzo tondo in bronzo dorato, anch’esso forse del II-III secolo d.C., interpretata come applique di una biga, che raffigura un giovane nudo, coperto solo da un mantello e con le mani legate dietro la schiena.
A sinistra: la Vittoria Alata circondata dal personale del Museo in un’immagine dell’inizio del Novecento.
intorno al basamento. Sull’ampia parete della cella sono state appese alcune delle cornici bronzee rinvenute insieme alla Vittoria Alata stessa, posizionate in modo da evocare le campiture e le geometrie architettoniche che ornavano i monumenti e le ville dell’epoca, cosí da dare l’impressione di ammirare un vero e proprio quadro». Per la prima volta, quindi, la Vittoria Alata viene esposta nella stessa stanza con parte delle cornici e degli elementi architettonici che facevano parte del ripostiglio di bronzi a r c h e o 71
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TRA TUTELA E TECNOLOGIA ALL’AVANGUARDIA La grande attenzione e la cura che Brescia ha sempre riservato al suo patrimonio storico e archeologico sono testimoniate anche dalla tutela e dalla costante applicazione delle piú moderne tecnologie applicate al patrimonio archeologico stesso, un ambito nel quale la città è sempre stata all’avanguardia. La tutela per impedire la dispersione delle testimonianze storiche è testimoniata, già nel XV secolo, dal provvedimento del 13 ottobre 1480 con cui il Consiglio della Città impose l’obbligo di conservare sia le pietre lavorate e le iscrizioni già rinvenute, sia quelle che sarebbero state trovate in futuro, inizialmente murate nelle facciate dei palazzi sedi del Monte di Pietà Vecchio, del Monte Nuovo e delle Carceri, in Piazza della Loggia (dove si trovano ancora oggi). Nel XIX secolo la città ha fatto ricorso a metodologie d’avanguardia nella ricostruzione del Capitolium, con le parti ricostruite rese distinguibili dalle parti originarie – una tecnica allora innovativa –, cosí come nel primo restauro della Vittoria Alata, caratterizzato dall’inserimento di una struttura metallica interna (per sostenere le ali e le braccia) molto ingegnosa, e nell’allestimento del Museo Patrio, con cartellini esplicativi dei vari reperti qui conservati. Nel nostro secolo l’impiego delle moderne tecnologie multimediali e di realtà virtuale e aumentata hanno inoltre consentito nuove sorprendenti soluzioni, a
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partire dai filmati con la ricostruzione delle aree archeologiche in 3D realizzati per l’inaugurazione delle Domus romane nel Museo di Santa Giulia (2003) e per l’area archeologica sotto Palazzo Martinengo Cesaresco Novarino (accessibile in due differenti percorsi, da via dei Musei e da Piazza del Foro), oltre che per il Tempio Repubblicano (2015). Nel 2013, nella cella orientale del Capitolium è stato creato un percorso di visita con una lavagna multimediale intorno al plastico dell’area archeologica comprendente il Tempio, il Teatro e la piazza del Foro come si presentavano nell’antichità, oltre alla sezione della città moderna intorno ai monumenti stessi. Tale installazione illustrava l’area, cosí come doveva apparire attraverso le varie epoche storiche (mentre il plastico veniva illuminato in rapporto alla spiegazione stessa), e la lavagna multimediale riportava ulteriori indicazioni, toccando e scegliendo le aree di interesse, come su un normale tablet. Infine, a partire dal 2015, con la mostra «Roma e le Genti del Po. Un incontro di culture, III-I secolo a.C.», nel Parco Archeologico è stato inaugurato un percorso di realtà aumentata, in seguito esteso alle Domus romane visitabili nel Museo di Santa Giulia e, a fine 2019, alla Basilica altomedievale di S. Salvatore (vedi «Archeo» n. 420, febbraio 2020; anche on line su issuu.com).
Qui sotto: lo smontaggio della statua nel Museo di Santa Giulia. In basso: il posizionamento della Vittoria Alata nel nuovo allestimento all’interno del Capitolium.
Nella pagina accanto: la scultura nel corso dell’intervento di restauro condotto presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e che ha richiesto due anni di lavoro.
rinvenuto nel 1826, alcune appese alla parete tramite microfissaggi, distanziate di qualche centimetro dal muro, a formare un rilievo che evoca la differenza tra muro e ornamento, cosí come doveva apparire anche negli spazi romani originali, mentre in un tavolo-vetrina accanto all’ingresso si trovano le cornici piú piccole e gli elementi funzionali (per esempio i cardini), di grande interesse storico e scientifico. «Gli elementi – spiega Francesca Morandini – sono stati selezionati in base alla loro funzione. Sono state infatti scelte cornici che fungevano da decorazioni applicate, ovvero materiali architettonici che ornavano porte e finestre, ma anche altari e iscrizioni. Nel Museo di Santa Giulia sono rimaste invece alcune cornici del I-II secolo d.C. in bronzo dorato, probabilmente pertinenti al trono di una delle statue di culto collocate nelle celle laterali del Capitolium». «Oltre alle cornici dorate – conclude Karadjov – si è deciso di lasciare nel Museo anche le teste-ritratto degli imperatori, il balteo e il “Prigioniero”, tutti bronzi figurati e/o dorati, per motivi conservativi, ma anche perché tali reperti si inseriscono perfettamente nel racconto ideale dell’evoluzione della città nei secoli (dal punto di vista diacronico) illustrato in Santa Giulia. Infine, dividere il ripostiglio tra il Capitolium e il Museo permette di creare un percorso che collega tra loro le due aree, percorso che verrà completato nel 2022-23 con il “corridoio UNESCO” e che le unirà anche fisicamente in una sola area unitaria e continua, con un unico ingresso». DOVE E QUANDO Brixia. Parco archeologico di Brescia romana Brescia, via Musei 55 Info tel. 030 2977.833-834; e-mail: santagiulia@bresciamusei.com; www.bresciamusei.com a r c h e o 73
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TUTTE LE PICCOLE PATRIE IL NOSTRO CONTINENTE PULLULA DI GRUPPI ETNICI DEMOGRAFICAMENTE ESIGUI CHE, IN NOME DELLA STORIA, RIVENDICANO A SÉ LO STATUS DI NAZIONE E IL DIRITTO DI ESSERE RICONOSCIUTI COME ENTITÀ STATALI. E COSÍ, SULL’ONDA DI ISTANZE POLITICHE CONTINGENTI E SPESSO EFFIMERE, SI RIACCENDONO SOPITE «PASSIONI ARCHEOLOGICHE»… di Umberto Livadiotti
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ra le tante scritte che ritornano sui murales di Bilbao (capoluogo della provincia spagnola di Biscaglia), ce n’è una dall’apparenza particolarmente incomprensibile: «Euskal Herria». In realtà, non è altro che l’espressione con cui in euskara, cioè nella la lingua autoctona, si indicano i Paesi Baschi. Questa piccola regione, incassata fra i Pirenei e il Golfo di Biscaglia, in gran parte in territorio spagnolo con una propaggine in suolo francese, rappresenta forse il
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caso piú noto, in Europa, di ostinato irredentismo regionale. Il nazionalismo basco trova uno dei suoi puntelli in quello che potremmo definire un reperto archeologico davvero anomalo: la lingua. Un reperto «animato», dalle origini antichissime, riuscito a sopravvivere nonostante il notevolissimo afflusso – negli ultimi centocinquant’anni – di lavoratori ispanofoni immigrati nelle città industriali della regione e nonostante le politiche centraliste dei governi
spagnoli. L’euskara si differenzia nettamente, per forma e struttura, non solo dal castigliano, ma da tutte le altre lingue indoeuropee. Da dove essa tragga origine rimane però, ancora oggi, tema di dibattito. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, alcuni eruditi locali andavano sostenendo che il basco dovesse essere considerata la madre di tutte le lingue, quella insomma parlata prima della costruzione della Torre di Babele. Tesi che non trovarono neppure allora grandi
Orfeo, il mitico cantore trace che al suono della sua lira ammaliava tutte le creature viventi, nella versione realizzata dallo scultore Krum Damyanov nei pressi di Kardzhali in Bulgaria. Nella seconda metà del Novecento, il richiamo all’antica Tracia ha finito con il trasformarsi in una vera e propria «tracomania».
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consensi, ma che testimoniano la convinzione diffusa di trovarsi di fronte a una lingua primigenia, anteriore agli altri idiomi europei. Nel corso dell’Ottocento, la teoria piú affermata per spiegarne la presenza divenne quella in seguito definita basco-iberista. Si immaginava, in base perlopiú a indagini toponomastiche, che i Baschi moderni non fossero altro che gli ultimi testimoni dell’antica popolazione iberica, scomparsa o assimilata dai Romani nei secoli del loro dominio. La nascita degli studi preistorici alla fine dell’Ottocento favorí invece l’ipotesi di una diretta discendenza della popolazione basca dai piú antichi abitatori umani della penisola iberica, distinti e precedenti quindi anche agli stessi Iberi: sembravano dimostrarlo le somiglianze craniofacciali riscontrate dagli studiosi,
che confrontavano i volti dei Baschi loro contemporanei con i resti paleolitici rinvenuti nelle grotte della regione. Questa nuova visione, che marcava la distinzione originaria fra Baschi e tutti gli altri abitatori della penisola iberica (e ai quali i primi avrebbero opposto per millenni una fiera resistenza) si affermò rapidamente; anche perché ben si sposava col sentimento antispagnolo che in molti settori della popolazione basca cominciava a montare proprio in quel periodo, a seguito dell’afflusso nelle città portuali di masse di operai provenienti da altre zone della penisola e, soprattutto, a causa dell’abolizione, nel 1876, dell’autonomia legislativa della regione. Da allora, anche se la natura del sentimento nazionalista è molto mutata, la convinzione di essere parte di un lignaggio culturale e
A destra: denario con legenda Barscunes (Vascones). I-II sec. a.C. Nella pagina accanto: Bilbao. Un gruppo di Baschi impegnati in una danza popolare tradizionale nel corso di un festival.
I VASCONES PARLAVANO BASCO? Come sappiamo da Plinio, Strabone e altri autori antichi, nella Spagna preromana e romana, fra le popolazioni iberiche stanziate sui pendii del versante pirenaico meridionale, ce n’era una la cui denominazione (Vascones) è chiaramente alla base dell’etnonimo «Baschi». Sulla scorta di questa evidenza, per lungo tempo si è immaginato – con eccessivo schematismo – che i Baschi di oggi fossero semplicemente i discendenti di questi Vascones e che questi, a loro volta, parlassero la stessa lingua dei loro supposti discendenti, l’euskara (cioè il basco). Oggi, però, una piú attenta analisi delle fonti letterarie in nostro possesso e una riflessione piú matura sui rapporti fra evoluzioni linguistiche e processi storici (in particolare quelli migratori) hanno indotto gran parte 76 a r c h e o
degli studiosi a conclusioni piú sfumate. Secondo queste nuove ricostruzioni, i Vascones, che abitavano la zona a nord dell’Ebro, non avrebbero parlato l’antenato dell’euskara moderno, ma un’altra lingua, con ogni probabilità un idioma iberico (quindi indoeuropeo) con forti influenze celtiche. Solo al momento del definitivo collasso delle autorità romane nel Nord della Spagna, attorno al VI secolo d.C., tribú provenienti dall’Aquitania (cioè dal versante pirenaico settentrionale) e parlanti una forma antica di euskara si sarebbero riversate su questo territorio o almeno vi avrebbero esteso la loro influenza, tanto da essere chiamati dai loro vicini con il nome stesso dei loro predecessori: per l’appunto Vascones, o piuttosto (ormai) Baschi.
persino razziale particolare, distinto dal resto del mondo, non si è piú affievolita. Del resto, anche gli studi sui gruppi sanguigni e sul DNA hanno evidenziato un particolare addensamento, in questa area geografica, di caratteristiche specifiche non facilmente riscontrabili nelle popolazioni delle aree contigue.
BALCANIZZAZIONE E «TRACOMANIA» Negli ultimi decenni, questa tendenza delle piccole comunità a voler affermare una propria specifica identità culturale e a reclamare, in virtú di essa, il diritto a uno Stato nazionale indipendente, viene descritta con il termine di «balcanizzazione». La frantumazione in tante piccole patrie che ha accompagnato un po’ ovunque il collasso del mondo sovietico (e in generale del so-
cialismo reale) ha avuto, infatti, una delle sue piú vistose manifestazioni proprio nei Balcani e, in particolare, nei territori di quella che era la Federazione Iugoslava. Albanesi, Sloveni, Croati, Serbi, Macedoni e Bosniaci hanno insistito ciascuno sulle proprie «radici storiche». E, sebbene sie le varie tribú slave, sia le genti ungheresi e «protobulgare» vennero a stanziarsi nei Balcani solo a partire dall’Alto Medioevo, ciò non ha impedito ad alcune di queste comunità di riscrivere il proprio pedigree al fine di dotarlo dell’antichità necessaria a legittimare l’esistenza di una propria entità statale e, magari, rivendicare in suo nome un ruolo «egemone». È quello che è successo in Bulgaria dove, nella seconda metà dell’Ottocento, i nazionalisti avevano riscoperto la loro ascendenza slava e poi, nella prima metà del Novecento, le loro radici «protobulgare». Durante il periodo comunista, infatti, le istituzioni politiche e accademiche in-
sistettero molto su un terzo, ulteriore elemento costitutivo dell’etnogenesi del popolo bulgaro, in grado di garantire alla «nazione» autoctonia e originalità: questo elemento era rappresentato dalla civiltà dei Traci. Cosí, a partire dagli anni Sessanta, si assistette a una stagione di vera e propria «tracomania»: campagne di scavo, congressi, insegnamenti, pubblicazioni usufruirono di un inedito sostegno di fondi pubblici.
UN ISTITUTO AD HOC Su tutte brillò l’attivismo dell’Istituto di Tracologia, nato nel 1972 all’interno dell’Accademia delle Scienze e diretto per decenni dallo storico e «tracologo» Aleksandar Fol (il quale, negli anni Ottanta, sarebbe stato anche Ministro della Cultura del governo comunista). Nella ricostruzione suggerita dagli accademici bulgari, i confini geografici e cronologici del mondo tracico si espandevano ben oltre quelli generalmente riconosciuti dagli studiosi
occidentali e un’enfasi smisurata veniva posta sulla loro importanza storico-culturale. Ma il richiamo alla civiltà tracia non si limitò a rappresentarne il prestigio. Presto, infatti, si trasformò anche in un fattore di richiamo turistico, in una identità «da vendere». Hotel e ristoranti furono intitolati alla Tracia e, tra le figure mitologiche, quella di Orfeo (nativo, secondo le fonti antiche, della città tracia di Lebetra) risultò la piú gettonata: al figlio della musa Calliope venne intestato persino un festival canoro! Può sorprendere che proprio in un Paese socialista, per definizione poco incline a concedere spazio all’esperienza religiosa, la «tracomania» abbia chiamato in causa l’orfismo e, in generale, il carattere mistico della religiosità tracica. Un aspetto certo paradossale che, forse, potrebbe spiegarsi con una certa politica culturale promossa da Ljudmila Živkova, figlia del premier Todor
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Živkov, a sua volta funzionaria del partito e membro del Politburo. Donna di spicco e grande promotrice delle arti e della cultura bulgara in genere, anche a livello internazionale (si deve a lei la grande mostra itinerante, allestita in 25 Paesi del mondo, intitolata all’«oro dei Traci»), la Živkova sviluppò un – dichiarato – interesse per le forme della spiritualità orientale, per il misticismo e l’esoterismo. A ogni buon conto, benché dopo la caduta del Muro il richiamo alle radici traciche da parte del nazionalismo bulgaro si sia sostanzialmente affievolito, è a quel carattere misticheggiante che continua a richiamarsi
Sulle due pagine: manufatti in oro del tesoro trace di Panagjuriste (Bulgaria). Fine del IV-inizi del III sec. a.C. Plovdiv, Museo Archeologico Regionale. A destra, rhyton a forma di testa di daino; nella pagina accanto, anfora-rhyton con manici a forma di centauro e una scena della saga dei Sette contro Tebe. 78 a r c h e o
una certa «tracomania» popolare e tese bulgare (ma anche greche e dilettantistica, ancora oggi diffusa albanesi) sulla regione. sui mass media locali. Nel periodo comunista, quest’attività si intensificò notevolmente e quando, agli inizi degli anni NovanMACEDONI ta del secolo scorso, la Macedonia ANTICHI E MODERNI Altrettanto imprevista fu la risco- proclamò la sua indipendenza, alle perta dei Macedoni antichi da parte autorità risultò necessario trovare di quelli contemporanei. Accadde ulteriori luoghi e personaggi che che, nel secolo scorso, le autorità simbolicamente incarnassero la sua iugoslave – ovvero i vertici istitu- nuova specificità storica.Venne difzionali della nuova compagine sta- fusa, cosí, una nuova vulgata, secontale che inglobò, dopo la fine do la quale la frontiera settentrionadell’impero ottomano, anche il ter- le dell’antica Macedonia – terra ritorio che oggi conosciamo come delle storiche gesta di Filippo e di «Macedonia del Nord» – si impe- suo figlio Alessandro – si trovasse gnarono a «inventare» un’identità molto piú a nord rispetto ai territomacedone da contrapporre alle pre- ri oggi compresi entro i confini della Grecia, includendo cosí anche il territorio montuoso dell’ex Repubblica Iugoslava. Questa nuova ricostruzione storica, per giunta, insisteva (e insiste) a sottolineare la diversità – e la reciproca estraneità – fra gli antichi Macedoni e i Greci, suggerendo che i primi si sarebbero semplicemente fusi con gli Slavi accolti nelle loro terre durante l’Alto Medioevo. Ben presto, però, questa revisione della storia macedone si rivelò fallimentare, sia perché la popolazione non vi ha aderito con troppa convinzione, sia perché essa è stata aspramente criticata e pubblicamente osteggiata dalla comunità accademica internazionale.
Ostilità che si concretizzò il 18 maggio 2009 con l’invio al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di un documento controfirmato da centinaia di professori universitari, perlopiú classicisti (fra cui ovviamente molti greci ma anche studiosi americani di primo piano e anche qualche italiano, come l’archeologo Luigi Beschi), per ribadire l’assoluta mancanza di scientificità della tesi che pretendeva la derivazione diretta dell’odierna popolazione slava dai Macedoni di Alessandro Magno (è da sottolineare, invece, che proprio la precedente amministrazione statunitense aveva avallato l’adozione della denominazione di «Macedonia» da parte del nuovo Stato). La lettera si concludeva cosí: «Noi le chiediamo, signor Presidente, di aiutare il governo di Skopje – in qualunque modo lo ritenga opportuno – a capire che non può costruire un’identità nazionale a scapito della verità storica. La comunità internazionale non può sopravvivere quando la storia viene ignorata, tanto meno quando la storia è fabbricata». La vicenda si concluse con la creazione di una commissione intergovernativa di studiosi chiamati ad appianare le dispute storiografiche greco-macedoni: nel giugno del 2018 venne stipulato un accordo (il cosiddetto accordo di Prespa), in base al quale le autorità macedoni rinunciarono al «sole di Verghina» (la simbolica stella a 16 raggi, quale appare sullo scrigno dorato rinvenuto dall’archeologo greco Manolis Andronikos nelle tombe reali di Verghina nel 1977, n.d.r.) come emblema nazionale, nonché alla de-
nominazione stessa dello stato, ridefinito «Macedonia del Nord» e non piú semplicemente «Macedonia».
NEL NOME DEGLI ILLIRI Il piú eclatante mito nazionalista balcanico richiamantesi al mondo antico è, però, l’illirismo. Con il nome di Illiri si indica una serie di tribú presenti sulla costa adriatica e nell’immediato entroterra (grosso modo dall’Erzegovina all’Albania) almeno dall’inizio dell’età del Ferro. E in qualche misura «illiriche» sono considerate, in genere, anche le tribú dalmate e pannoniche stanziate piú a nord. Si tratta di popolazioni piuttosto misteriose,
di cui abbiamo descrizioni incerte e lacunose da parte degli autori classici, che le consideravano «barbare». Dall’onomastica e dalla toponimia si può desumere il carattere indoeuropeo della loro lingua, mentre dai corredi funerari e dagli altri reperti di cultura materiale è possibile farsi un’idea della loro economia e società, ma riguardo alla loro etnogenesi non si sa nulla. Sottomessi dai Romani fra il II e il I secolo a.C., gli Illiri nei secoli successivi sembrano poi essersi dissolti, senza lasciar traccia di una particolare identità etnica. Di contro, il nome del territorio da loro abitato fu adottato dai conquistatori per indicare anche gli spazi limitrofi man mano annessi. Sta di fatto che, al momento del crollo dell’impero romano, il toponimo Illyricum copriva un’area geografica enorme, tutto il territorio racchiuso tra l’Adriatico e il Danubio. Con questa accezione la parola venne riesumata dagli studiosi in età moderna e Napoleone battezzò «Province Illiriche» la parte dei Balcani sotto il suo diretto controllo. Cosí, nel momento in cui il nazionalismo cominciò a diffondersi fra le élites slave meridionali, «illirismo» fu il nome assunto dalla corrente patriottica unitaria, che intendeva riunire in un unico e libero stato le varie genti slave sottomesse ai Turchi e agli Asburgo. Ma si trattava, per l’appunto, di un nazionalismo tutto slavo, che solo indirettamente poteva riconnettersi agli antichi Illiri. Fu però tra gli studiosi che l’attenzione e l’entusiasmo per il mondo illirico crebbe in maniera esponenziale, tanto da indurre, fra Ota r c h e o 79
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tocento e prima metà del Novecento, una parte consistente di linguisti e archeologi a promuovere tesi «panilliriste», arrivando a sostenere che popolazioni di lingua illirica avrebbero preceduto e originato le culture storiche di mezza Europa, dalla Polonia al Veneto. Il richiamo agli Illiri conobbe la sua fortuna maggiore in Albania, in particolare durante il regime comunista (1946-1991), per quanto la mitologia identitaria locale abbia sempre continuato a ruotare intorno alla figura del vero eroe della patria albanese, il principe Giorgio Castriota Skanderbeg (1405-1468), e alla sua epopea antiottomana. Già dalla fine dell’Ottocento, infatti, nel momento in cui le élites schipetare cominciarono ad abbracciare le tesi nazionaliste, iniziò ad affermarsi una tradizione di studi che attribuiva agli Albanesi progenitori antichissimi e autoctoni, da contrapporre, in qualità di originali e legittimi abitanti originari del territorio, alle mire A destra: la basilica di episcopale di Sandanski, cittadina della Bulgaria meridionale che rivendica l’aver dato i natali a Spartaco. Nella pagina accanto: lo Spartacus Memorial, che domina la via d’accesso a Sandanski. La statua in bronzo raffigurante l’eroe che tenne in scacco le legioni romane si trova all’interno di un parco pubblico ed è alta 7 m.
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espansionistiche dei Greci e dei Serbi (che, proprio in quegli anni, andavano edificando i loro Stati nazionali sulle ceneri dell’impero ottomano). Furono chiamati in causa anche i Pelasgi («popolo» dai contorni fumosi, che sembra godere di rinnovata fortuna presso gli storici proprio in questi ultimi anni), sebbene la maggior parte degli studiosi avesse continuato a identificare negli Illiri i progenitori degli Albanesi. Dal punto di vista linguistico, per la verità, la parentela fra illirico e albanese, per quanto storicamente verosimile, non è stata mai chiaramente dimostrata (per il semplice fatto che della lingua illirica conosciamo veramente troppo poco). Nella seconda metà del Novecento, tuttavia, il regime nazional-comunista di Enver Hoxha ha reso la teoria della filiazione illirica degli Albanesi verità assiomatica, ribadendola con tutti i mezzi della propaganda. Il regime, in linea con questa rinnovata sensibilità archeologica e nonostante vietas-
SPARTACO: FRA INTERNAZIONALISMO E PATRIOTTISMO Chi non conosce Spartaco, il gladiatore ribelle che tenne in scacco le legioni romane, devastando con un esercito di schiavi in rivolta le campagne di tutta Italia fra il 73 e il 71 a.C.? Nel Novecento, il secolo delle ideologie, la sua figura divenne una delle icone piú popolari dei movimenti rivoluzionari a carattere operaio e socialista. Il suo nome è stato adottato da partiti, squadre di calcio, aziende industriali e la sua figura ha troneggiato in romanzi, film, balletti, persino in competizioni sportive (le Spartachiadi, disputate negli anni Cinquanta e Sessanta in molti Paesi del blocco comunista). A dispetto della celebrità del personaggio, però, le origini storiche della persona rimangono
piuttosto oscure. Le fonti letterarie antiche infatti ci dicono pochissimo sulla sua vita precedente il reclutamento gladiatorio. Nonostante le informazioni perlopiú imprecise e contraddittorie, si può asserire con ragionevole verosimiglianza che Spartaco dovesse essere nativo della Tracia. L’orgoglio bulgaro non si è lasciato sfuggire l’occasione per celebrare un suo antenato cosí illustre, al tempo stesso eroe nazionale e internazionalista. Cosí è toccato alla cittadinanza di Sandanski, un piccolo centro di villeggiatura della Bulgaria meridionale, a poca distanza dal confine con la Macedonia del Nord e la Grecia, proporsi come la patria dell’eroe. Qui, dove sin dagli anni Trenta sorge uno dei pochi musei archeologici di tutta la Bulgaria (che ospita principalmente reperti d’età romana imperiale e mosaici paleocristiani), alla fine degli anni Settanta è stato edificato un imponente complesso monumentale: il cosiddetto Spartacus Memorial. Una statua di bronzo di Spartaco, alta 7 m e collocata in cima a una scalinata sulla sommità di un parco pubblico, domina la via d’accesso alla cittadina, in cui annualmente si svolge una fiera intitolata all’eroe. I dépliant locali parlano di antiche leggende che collocherebbero nei pressi di Sandanski il luogo in cui Spartaco sarebbe nato e cresciuto, adducendo prove dalla evidente labilità. Certo è che in quell’area, nel I secolo a.C., era stanziata la tribú tracia dei Maedi (evidenze archeologiche di un abitato sono state riportate alla luce in un villaggio pochi km a est di Sandanski) e che ai Maedi alcune fonti collegano Spartaco. Il resto è… mistero.
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IGNOTO, MA NON TROPPO «Skopje 2014» è il nome di un progetto di riassetto urbanistico voluto (quand’era al governo) dal partito nazionalista macedone VMRODPMNE. L’intento era quello di attribuire alla capitale nord-macedone, ancora segnata dal terremoto che nel 1963 ne distrusse buona parte del centro, uno stile e una atmosfera neoclassicheggianti.
Ma sia dal punto di vista estetico-architettonico, sia dal punto di vista finanziario il progetto è stato molto criticato. La spesa, difficile da quantificare con precisione, è stata nell’ordine di diverse centinaia di milioni di euro. Il piano ha portato alla ricostruzione di un’ampia area centrale della città: in particolare all’edificazione di Skopje, Repubblica di Macedonia del Nord. Una veduta d’insieme e un particolare del monumento a un anonimo «guerriero a cavallo», ma nel quale è fin troppo facile riconoscere Alessandro Magno. 82 a r c h e o
una vasta piazza ornata di statue, tra cui primeggia con i suoi 24 m d’altezza quella in bronzo di un anonimo condottiero a cavallo, con spada sguainata, dalle riconoscibilissime fattezze di Alessandro Magno. In asse con questa piazza, è stato approntato un altro piazzale, anch’esso puntellato di statue, dominato questa volta dalla scultura, sempre in bronzo, di un condottiero a piedi, col braccio destro teso in alto e pugno chiuso, alta 15 m su un piedistallo di 13 emergente anch’esso da una fontana, facilmente identificabile in Filippo II. Ufficialmente le statue, forgiate l’una a Firenze e l’altra a Vicenza, sono denominate «cavaliere armato» e «guerriero» e si calcola che siano costate intorno agli 8 milioni di euro ciascuna. Nella piazza hanno trovato posto anche altre figure simbolo della presunta «memoria storica» del Paese. Da segnalare, oltre alla statua dell’imperatore bulgaro Samuele, anche quella in marmo di Giustiniano (nativo di un borgo nei dintorni di Skopje) seduto su un trono, alta 5 m piú 3 e mezzo di piedistallo. Il progetto originario prevedeva anche l’erezione di un padiglione a tholos e una «Porta Macedonia» in forma di arco trionfale. Un’altra statua (a cavallo) di Filippo II è stata innalzata, secondo programma, presso Avtokomanda, nella zona nord-orientale della città. Nel 2018, con l’avvento al potere dei socialdemocratici, il progetto è stato bloccato e si è cominciata la rimozione di alcune delle statue piú discusse.
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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/7
La bandiera con il «sole» di Verghina issata nel corso di una manifestazione antimacedone svoltasi a Salonicco sotto il monumento in onore di Alessandro Magno realizzato da Evaggelos Moustakas e inaugurato nel 1973.
se concessioni di scavo a istituzioni straniere, si produsse in un notevole sforzo a sostegno della ricerca e divulgazione. Nacquero musei, riviste e centri di studio. Anche gli antropologi offrirono il loro contributo cercando di dimostrare la diretta ed esclusiva discendenza degli Albanesi dagli antichissimi abitanti del territorio, evidenziandone, attraverso lo studio dei reperti ossei, una particolare affinità anatomica (una tesi oggi invalidata dalle piú recenti analisi genetiche). Nei trent’anni successivi alla caduta del comunismo, il richiamo all’autoctonia ha continuato a rappresentare un pilastro del nazionalismo albanese, e non solo all’interno dello Stato schipetaro, ma anche per le 84 a r c h e o
comunità albanesi impegnate in lotte irredentiste nel Kosovo, nella Macedonia del Nord, nel Sud della Serbia e nella regione greca dell’Epiro. Conflitti politici a cui, in qualche misura, si sovrappone il dibattito storiografico fra gli studiosi, che attribuiscono carattere illirico anche alle tribú dei Dardani (stanziati nella valle del Vardar, a est dell’Albania) e degli Epiroti (generalmente considerati Greci di periferia) e quelli che, invece, lo negano.
I LOCALISMI ITALIANI Anche l’Italia è stata, ed è tuttora, patria di numerosi localismi, partendo dai semplici campanilismi municipali per arrivare ai regionalismi e ai veri e propri movimenti secessio-
nisti. Si tratta, in genere, di tendenze a cui corrisponde un’esaltazione del patrimonio storico locale orientata, soprattutto, alla valorizzazione turistica del territorio. Non mancano, ovviamente, le strumentalizzazioni politiche, in genere sotto forma di polemica rivolta contro il centralismo della capitale. Sin dall’inizio dell’Ottocento, ai tempi in cui lo storico e archeologo Giuseppe Micali dava alle stampe L’Italia avanti il dominio dei romani, l’esaltazione delle piccole patrie contro la prepotenza romana aveva già rappresentato una delle tendenze caratterizzanti gli studi delle antichità italiche. Pur non essendo facile capire se e quanto il recupero di un’eredità culturale locale abbia un
peso nella definizione di queste identità regionali, appare tuttavia evidente il ruolo svolto nell’autorappresentazione collettiva delle comunità. Un caso tipico è il rapporto con gli Etruschi (quello che lo scrittore Luciano Bianciardi definí «una specie di nazionalismo di eccezione»), quale è venuto a costituirsi in maniera par ticolar mente viscerale nell’Etruria meridionale delle province di Grosseto e Viterbo. Qui, in Maremma, la cittadinanza tende a identificare il proprio passato con quello etrusco, percepito come una
sorta di «età dell’oro» precedente alla desolazione malarica che avrebbe flagellato il territorio nell’età moderna, fino alle bonifiche novecentesche. Non mancano, d’altra parte, casi in cui l’opera di valorizza-
zione del passato assume i connotati di un vero e proprio discorso nazionalista. Una tendenza di cui sono protagonisti non tanto gli archeologi e le istituzioni accademiche, quanto il mondo dei mass media, la politica, talvolta anche le istituzioni locali, che insistono a presentare l’identità culturale (e in alcuni casi persino genetica) del loro mondo come radicate fin nel cuore della storia antica… e oltre. Il caso piú noto e maldestro di invenzione di una tradizione storica che, attraverso l’asserzione dell’autoctonia storica e
In alto: francobollo greco del 1979 che celebra la scoperta degli ori di Verghina. In basso: urne in oro decorate con la stella a 16 raggi, anelli e il rivestimento in oro di una faretra, di manifattura scitica, decorato a rilievo con la presa di una città, dalla cosiddetta «Tomba di Filippo». IV sec. a.C. Verghina, Museo e Tombe Reali.
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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/7
culturale, legittimasse le richieste di indipendenza politica di una collettività è quello legato alle presunte radici celtiche evocate da alcune frange del movimento della Lega Nord, soprattutto negli anni a cavallo fra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello nuovo (il periodo in cui il partito del Carroccio fece proprie le istanze secessioniste piú radicali). Riviste, siti web, manifestazioni culturali locali e raduni politici alimentarono, per almeno un decennio, la convinzione che fosse corretto polarizzare la percezione del nostro passato in termini di contrapposizione binaria tra Nord e Sud. In questo quadro, semplificato e banalizzato fino agli estremi, Camuni, Reti,Veneti, Liguri, Celti sono stati presentati come costitutivi un so-
strato tendenzialmente omogeneo, antropologicamente e culturalmente uniforme e radicalmente diverso dal mondo dei suoi oppressivi conquistatori, i Romani. Un apparato di simboli e rituali comparve dal nulla per ratificare e radicare questa visione della storia. Vale la pena ricordare come il 15
settembre 1996, nel corso di una liturgia dal sapore ancestrale, anche se inventata per l’occasione, Umberto Bossi raccolse una bicchierata di acqua del Po (o, per meglio dire, dell’Eridano) in un’ampolla soffiata a Murano sul modello di un vaso celtico, esposto alcuni anni prima nella grande mostra tenuta a
Le statue del guerriero sannita di Montreal (a destra) e di Campobasso: quest’ultima, inserita nel monumento ai caduti, fu smantellata fra il 1942 e il 1945.
IL RITORNO DEL GUERRIERO SANNITA Poche aree geografiche in Italia consentono ai loro attuali residenti di inorgoglirsi e immedesimarsi negli antichi abitatori della zona (e loro presunti antenati) come la regione formata dalle province di Isernia, Campobasso, Benevento e Avellino: in breve, il Sannio. Da quando, nella seconda metà dell’Ottocento, gli scavi di Pietrabbondante hanno riportato alla luce reperti in quantità e qualità tale da illuminare la realtà sannita, conosciuta altrimenti solo attraverso lo schermo della narrazione degli avversari romani, il mito dei Sanniti si è impossessato dell’immaginario collettivo degli abitanti del Molise, dell’Irpinia e del Matese campano. La percezione di una affinità di vita, segnata da pastorizia e transumanza, asprezza e sobrietà, ha contribuito a radicare negli animi una vera e propria identificazione. Un orgoglio identitario manifestatosi anche di recente, all’inizio di questo secolo, in parte come reazione alla propaganda «nordista», allora su posizioni secessioniste e provocatoriamente antimeridionali.
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Il «richiamo agli antenati» si è in questo caso tradotto nell’evocazione della loro prestanza militare: il guerriero sannita, decantato per le sue doti di indomita fierezza anche dal nemico romano, è tornato cosí a calcare il suolo patrio, e non solo. A San Giorgio del Sannio, il sindaco, esponente di una forza politica locale chiamata «Lega Sannita», ha fatto innalzare a uno degli ingressi stradali del paese una statua con le fattezze di un antico combattente; mentre il 21 giugno 2004 una statua dal medesimo soggetto (anche se artisticamente piú curata) era stata inaugurata a Montreal, in Canada, su iniziativa della locale comunità di immigrati molisani,
Venezia. Intorno, un tripudio di bandiere col nuovo simbolo della nazione padana: un fiore a sei petali definito «sole del Po» e evocativo dell’iconografia celtica. Piú che espressione di una memoria collettiva saldamente condivisa, questo celtismo – un miscuglio di velleità esoteriche, amore per il paesaggio e per la buona cucina – si è rivelato ben presto un prodotto del tutto artificiale, una sorta di emulazione dei movimenti indipendentisti britannici di matrice «celtica», irlandesi e scozzesi soprattutto (erano gli anni in cui nelle sale cinematografiche spopolava Braveheart…). E, in effetti, quando il progetto politico della Lega è mutato e l’ipotesi indipendentista venne abbandonata, anche il richiamo alle radici celtiche si è affievolito.
con una iscrizione esplicativa: «Il guerriero sannita simbolo dell’unione dei molisani». Dietro a queste sculture si nasconde, in realtà, una tradizione consolidata: negli anni Venti del secolo scorso, infatti, in piú d’uno dei monumenti per commemorare i soldati originari di queste zone caduti durante la Grande Guerra, al posto del classico legionario, fu immortalato un guerriero sannita. Cosí a Bojano, cosí a Campobasso, cosí, soprattutto, a Pietrabbondante, dove la piú celebre fra le statue di guerriero sannita fu inaugurata il 2 ottobre 1922. Per racimolare le 30 000 lire indispensabili a finanziare l’opera, il comitato cittadino si era appoggiato soprattutto sulle tasche dei concittadini emigrati in America. I quasi 8 quintali di bronzo necessari a fondere la scultura vennero invece in parte regalati e in parte venduti a prezzo di favore dal Ministero della Guerra. Oggi la statua di Pietrabbondante, restaurata, si trova nell’atrio della scuola, mentre in piazza troneggia una sua copia. Quella di Campobasso invece, smantellata fra il 1942 e il 1945, non c’è piú. In cambio, una trentina d’anni fa se ne è aggiunta una nuova a Pontelandolfo, intitolata ai Sanniti Pentri: un’opera in cui l’artista, Giovanni Mancini, ha saputo tuttavia evocare con notevole originalità l’esperienza della guerra, forgiando una specie di enorme e informe scheggia di bronzo.
La statua del guerriero sannita a Pietrabbondante (Isernia), realizzata con il generoso contributo dei cittadini emigrati negli Stati Uniti d’America e inaugurata nel 1922. a r c h e o 87
ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/7
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Il complesso nuragico Su Nuraxi di Barumini (Sud Sardegna).
Piú radicata e capillare appare, invece, la diffusione di un altro mito identitario: il riferimento è alla tendenza di un certo «sardismo» incline a presentare la civiltà nuragica come pura e assolutamente autoctona e, al tempo stesso, di fondamentale importanza per lo sviluppo di tutte le altre antiche culture mediterranee (e non solo). Una vulgata dal carattere consolatorio e in grado di riscaldare – emotivamente – chi identifichi nell’atteggiamento di diffidenza e chiusura culturale del mondo sardo verso l’esterno (la «costante resistenziale» come venne battezzata dall’archeologo Giovanni Lilliu) non solo un
elemento di continuità nella storia della Sardegna, ma anche un motivo di orgoglio e vanto. E cosí, l’immagine degli antichi Sardi arroccati a Barumini in difesa della loro fortezza, assediata dai perfidi Punici, benché ormai inadeguata, mantiene il suo fascino. E lo dimostra la recentissima e virulenta polemica con cui sui giornali, sul web e ovunque abbiano potuto, molti lettori sono intervenuti a difesa di un libro che, a dispetto degli appelli sottoscritti da centinaia di studiosi e archeologi per screditarne la tesi, presenta il mondo nuragico come la madre di tutte le civiltà: la mitica Atlantide.
NELLA PROSSIMA PUNTATA • La Terra Promessa. Sionismo e archeologia
PER SAPERNE DI PIÚ Jonatan Pérez Mostazo, Lustrando las raíces. Antigüedad vasca, politica e identitades en el siglo XIX, Urgoiti, Pamplona 2019. Tchavdar Marinov, Ancient Thrace in the Modern Imagination: Ideological Aspects of the Construction of Thracian Studies in Southeast Europe (Romania, Greece, Bulgaria), in Entangled Histories of the Balkans. III (Shared Pasts, Disputed Legacies), a cura di R. Daskalov e A.Vezenkov, Brill, 2015; pp.10-117. Ivo Strahilov, «We are the New Thracians»: Modern Bulgarians and the Making of Ancient Living Again, in SEMINAR_BG, 2, 2018; pp.46-107; Maja Muhic e Aleksandar Takovski, Redefining National Identity in Macedonia. Analyzing Competing Origins Myths and Interpretations through Hegemonic Representations, in Etnološka tribina 44 (37), 2014; p. 138-152; Maja Gori, Who are the Illyrians? The Use and Abuse of Archaeology in the Construction of National and Trans-National Identities in the Southwestern Balkans, in Archaeological Review from Cambridge 27, 2012; pp.71-84. Mariagrazia Celuzza, Luciano Bianciardi, gli Etruschi, il Medioevo e Grosseto: una questione di identità, in Antico e non antico. Scritti multidisciplinari offerti a Giuseppe Pucci, a cura di V. Nizzo e A. Pizzo, Mimesis, 2018; pp. 105-114. Filippo Cola, La Lega Nord e la reinvenzione dei miti identitari (1984-2010), Saggi e Studi 49, 2020. Johnny Samuele Baldi, Nazionalismi e strumentalizzazioni archeologiche: qualche considerazione sulle ossessioni identitarie in protostoria, Intersezioni 32, 2012; pp. 3-17; Rubens D’Oriano, Il mito dell’identità sardo-nuragica da Giovanni Lilliu al fantarcheosardismo, in Le tracce del passato e l’impronta del presente. Scritti in memoria di Giovanni Lilliu, a cura di M. Perra e R. Cicilloni «Quaderni di Layers» 1, 2018; pp. 235-243. Fabrizio Frongia, Irriducibilmente nuragici: cronache dall’isola che non c’è(ra), Medea V, 1, 2019 a r c h e o 89
SPECIALE • STRADE ROMANE
LA GRANDE RETE PERCORSI SVILUPPATI CAPILLARMENTE IN TUTTE LE REGIONI DELL’IMPERO, LE VIE CONSOLARI RAPPRESENTANO UN VERO E PROPRIO CAPOLAVORO DI INGEGNERIA, NATO PER ESIGENZE BELLICHE, MA PRESTO TRASFORMATOSI IN UNO DEI PILASTRI DEL SISTEMA ECONOMICO di Flavio Russo
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Un tratto della via Appia poco fuori Roma. Costruita nel 312 a.C. per iniziativa del censore Appio Claudio Cieco, fu una delle strade piú importanti, tanto da meritarsi l’appellativo di regina viarum: partiva da Porta Capena e terminava a Capua, in Campania. In seguito, nel corso del II sec. a.C., venne prolungata fino alla città di Brindisi.
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SPECIALE • STRADE ROMANE
L
e strade consolari romane sono considerate la piú grande infrastruttura militare di tutti i tempi, dal momento che la loro rete attraversa i territori di ben tre continenti e resta perciò, a tutt’oggi, insuperata per ampiezza e complessità. Stando a attendibili valutazioni, il sistema viario realizzato dalle legioni fra il III secolo a.C. e il I d.C. si sviluppava per 100 000 km circa, avvolgendo l’intero impero in una trama che si dipanava dalla Scozia alla Mesopotamia, dalle rive dell’Atlantico a quelle del Mar Rosso, sulle Alpi e nelle piane balcaniche, a fianco del Reno e del Danubio, fino ad affrontare le roventi sabbie del Sahara. La lungimiranza di quegli impianti è confermata dal perpetuarsi dei loro tracciati, rimasti immutati fino all’avvento delle moderne autostrade, che tuttavia li ricalcano per lunghi tratti. Senza dubbio, la concezione originaria della strada non fu romana, poiché gli ingegneri
delle legioni si limitarono a replicare archetipi assai piú antichi e di gran lunga piú brevi, verosimilmente di matrice italica o italiota. Tuttavia, rispetto alle vie etrusche, che si adattavano alle quote del terreno e alle sue circonvoluzioni morfologiche, presentavano una differenza sostanziale, poiché correvano quasi in aderenza alle curve di livello e perciò con una propria autonomia altimetrica. Spesso, poi, furono condotte a dorsale di collina, ricavandone cosí, senza elaborate opere d’arte, un efficace drenaggio delle acque meteoriche e, di conseguenza, riducendo al minimo indispensabile gli interventi di manutenzione. Forse per questo motivo erano all’origine rozze e inadeguate, simili a piste su fondo naturale o coperte di ghiaia, e prive perciò della loro connotazione piú tipica, costituita dal basolato. In breve, però, grazie alla capacità di ottimizzazione dei tecnici romani, le migliorie strutturali fecero delle Lastroni in calcare (primo strato della pavimentazione)
Pali di sottofondazione
Pavimentum Nucleus Rudus Statumen
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Ghiaia e ciottoli (secondo strato della pavimentazione)
In alto: disegno ricostruttivo che mostra in sezione una strada romana con sottofondazione della massicciata in legno, utilizzata in presenza di terreni paludosi o fangosi. In basso: disegno ricostruttivo della sezione di una strada romana, con l’indicazione degli strati di cui era composta: statumen, rudus, nucleus e pavimentum.
NELLE MANI DEL COCCHIERE All’indomani della domesticazione dei grandi quadrupedi – equini e bovini –, l’uomo si adoperò per trasformarne la rilevante forza muscolare in trazione. L’attacco che consentí di utilizzare a tal fine una coppia di cavalli fu il finimento, che, sebbene fosse di scarsa efficacia, mantenne pressoché inalterate le proprie caratteristiche dal IV millennio a.C. fino a oltre il V secolo d.C., quando iniziò a diffondersi l’attacco di petto, che pose fine alle sue gravi limitazioni. Il finimento si componeva di varie parti, alcune per la trazione, altre per il governo. Alla prime appartenevano il giogo, il timone, le redini e il freno; alle seconde il collare e la cinghia. Il giogo era una sorta di traversa, a volte arcuata, che, solidale trasversalmente al timone, poggiava le sue estremità sul garrese o sul collo dell’animale, fissato da una cinghia e dalla fascia del collare. Il timone era invece il palo di legno che congiungeva il carro al giogo. Il freno, o morso, a sua volta, era una corta barretta metallica che passava nella bocca del cavallo e restava fissata con cinghie alla sua testa. A essa facevano capo due lunghe cinghie di cuoio, o redini, che terminando fra le mani del conduttore, gli consentivano di dirigere le bestie ed eventualmente fermarle. Il collare, poi, era formato da una larga striscia, anch’essa in cuoio, posta intorno al collo dell’animale e fissata al giogo; la cinghia, infine, era un’altra fascia di cuoio che circondava il torace e, passando dietro i gomiti dell’animale, si fissava al giogo, mantenendolo stabile. Questo tipo di finimento, come accennato, risultava di scarsa validità ai fini della trazione, dal momento che comprimeva l’area del
collo del cavallo dove la trachea e la vena giugulare sono piú vicine alla pelle, schiacciandole al crescere dello sforzo e facendo perciò rallentare le bestie, o addirittura bloccandole del tutto per un principio di soffocamento. Dal momento che lo sforzo varia in funzione del carico da trascinare, la soluzione adottata consistette nel contenere quest’ultimo a un
massimo di appena 650 kg, stando al Cursus Publico del Codice Teodosiano. Ma anche cosí, poiché al crescere della pendenza della strada aumentava lo sforzo necessario alla trazione, fu necessario limitare la stessa pendenza a un massimo del 5-10%, primo vincolo tassativo e irto di difficoltà a cui dovette sottostare la costruzione delle strade romane.
Calco della stele di Marco Viriato Zosimo raffigurante un carro a quattro ruote a trazione animale. Roma, Museo della Civiltà Romana.
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SPECIALE • STRADE ROMANE
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In alto: cartina dell’Italia con il tracciato delle piú importanti vie consolari. Nella pagina accanto: calco di un rilievo raffigurante un plaustrum, un carro a trazione animale per il trasporto agricolo. Roma, Museo della Civiltà Romana. 94 a r c h e o
strade, insieme agli acquedotti, una delle massime realizzazioni della storia. Come si può leggere in qualsiasi articolo sulla viabilità romana, o anche nelle piú accurate e documentate pubblicazioni scientifiche, quelle strade furono costruite per velocizzare gli spostamenti delle grandi unità militari, cosí da aumentarne efficacemente la rapidità d’intervento, abbattendo i tempi di afflusso sui teatri d’impiego. Sebbene fossero tutti genericamente etichettati sotto la comune definizione di «strade», quei tragitti, come accade anche oggi, si dividevano in varie tipologie. Le piú importanti erano senza dubbio le viae lapidibus stratae, ovvero le strade pavimentate con lastre di pietra, dette anche solo viae stratae, una peculiarità riservata, almeno per lungo tempo, solo alle arterie principali, meglio note come vie consolari. Una seconda tipologia, piú semplice e ovviamente meno resistente, consisteva nello stendere sopra la carreggiata uno strato di ghiaia, ottenendo cosí le viae glareatae. Con funzione di raccordo tra le grandi
ville rustiche e le strade principali limitrofe, vi erano quelle che attualmente denominiamo interpoderali, dette all’epoca viae rusticae; e, infine, le strade prive di massicciata, dalla carreggiata lasciata al naturale ovvero in terra battuta, le viae terranae, piste di infima resistenza al degrado provocato dalle acque meteoriche e, piú ancora, dalla vegetazione infestante, e perciò percorribili soltanto nella buona stagione.
LA POSA IN OPERA Dal momento che, per quanto fin qui accennato, le strade romane possedevano un’indubbia valenza strategica, si volle costruirle in maniera tale da renderle durevoli, persino nel caso di una prolungata assenza di manutenzione. Venne perciò riposta una straordinaria attenzione alla loro posa in opera, a partire dalla fondazione, di volta in volta accuratamente adeguata alla natura pedologica del terreno sul quale si sarebbero dovute snodare. Nessun problema particolare si poneva (segue a p. 98)
È stato calcolato che la rete delle grandi strade romane si sviluppava per 100 000 km circa
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Cartina dell’impero romano all’epoca della sua massima espansione. È facile osservare quanto estesa e capillare fosse la rete stradale, che arrivava a toccare anche le regioni piú lontane dalla capitale.
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SPECIALE • STRADE ROMANE
quando questo risultava coeso e solido, poiché in casi simili erano sufficienti fondazioni in grado di raggiungerne lo strato piú compatto; non cosí, invece, quando il terreno fosse apparso incoerente, argilloso o paludoso. In quest’ultimo caso, oltre a dover essere massicce e robuste, le fondazioni furono spesso integrate da palificazioni, ottenute conficcando al di sotto delle stesse grossi tronchi d’albero o, in alternativa, spesse griglie, composte anch’esse di tronchi disposti orizzontalmente (vedi disegno a p. 92, in alto).
In basso: calco dell’elogio di Appio Claudio Cieco. Roma, Museo della Civiltà Romana. Il testo era iscritto sulla base della statua del censore, nel Foro di Augusto.
In linea di larga massima ogni strada constava fondamentalmente di tre strati – donde il nome – che cosí si succedevano: una cospicua massicciata di base, un robusto e elastico nucleo intermedio e un rivestimento esterno (vedi disegno a p. 92, in basso). Il primo, lo statumen, era ottenuto ammassando scheggioni di rilevante pezzatura, gettati in una trincea larga quanto la sede stradale, profonda oltre 1 m e leggermente concava, per uno spessore oscillante fra i 30 e gli 80 cm. Su questo veniva steso un manto, detto rudus, formato da pietre piú piccole, saldate fra loro da un impasto di calce e pozzolana, per uno spessore compreso fra i 25 e i 30 cm. Il secondo strato, collocato in posizione intermedia, o nucleus, era ottenuto con sabbia e pietrisco, dove possibile costituito da ghiaia e frammenti di coccio, ripetutamente battuto e livellato con un pesante cilindro, in modo da compattarne l’insieme. Al di sopra, infine, veniva applicato l’ultimo strato, il piú esterno, detto agger o pavimentum – la sola parte visibile di una strada –, formato incastrando fra loro massicci basoli immersi parzialmente in un letto di sabbia, in modo da poterne spianare, per percussione, la superficie. Posta la questione in questi termini, non appare casuale che la «regina delle strade» (regina viarum) come venne definita dai Romani la via Appia – che collegava Roma a Brundisium (Brindisi) – voluta da Appio Claudio il Cieco quando era censore nel 312 e console fra il 98 a r c h e o
307 e il 296 a.C., sia stata avviata e costruita nel corso dell’assoggettamento del Meridione d’Italia, il cui snodo piú rimarchevole furono le guerre sannitiche, cornice cronologica del mitico episodio dell’agguato alle Forche Caudine. Nonostante l’ottima fattura, dal 258 a.C. si provvide a pavimentare l’Appia con un durissimo manto d’usura, ottenuto con grandi blocchi di leucitite, una roccia d’origine vulcanica abbondante nei pressi di Roma, e piú a sud di basalto, roccia anch’essa vulcanica, peraltro abbastanza simile.
A PIEDI SCALZI SUL BASOLATO I blocchi furono sempre tagliati in forma di poligoni irregolari, da vagamente esagonali a ottagonali, fatti combaciare fra loro in maniera talmente aderente da non lasciare quasi percepirne le connessure. Stando a Tito Livio, quando la via raggiunse Capua, Appio Claudio, ormai del tutto cieco, saggiava con i piedi scalzi la perfetta giunzione dei basoli, ben sapendo che dalla loro stretta aderenza dipendeva non solo la longevità della sua creatura, ma anche il comfort per tutti quelli che l’avrebbero percorsa a bordo di un carro. Quanto alla forma geometrica di poligono irregolare scelta per i basoli, essa non scaturí certo dall’incapacità dei tecnici romani di avvalersi di elementi rettangolari tutti delle stesse dimensioni, e perciò prefabbricabili in cava in milioni di esemplari – come di fatto
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Mar Tirreno Qui sopra: cartina con il tracciato della via Appia. In alto: rilievi funerari sulla via Appia, a Roma. In prossimità dei centri abitati, sulla strada si allineano numerosi monumenti funerari.
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avvenne nei due millenni successivi – con enorme risparmio di tempo nella posa in opera e nel trasporto; derivò, invece, da un’acuta considerazione empirica. In virtú della loro risaputa ottima resistenza ai ricorrenti terremoti, le fortificazioni realizzate sovrapponendo enormi conci poligonali fatti combaciare senza il minimo interstizio – opere diffuse in tutto l’Appennino centrale – suggerirono il criterio da adottare per il manto d’usura. In pratica, al pari dei grandi conci delle muraglie in opera poligonale, i basoli non dovevano formare fra loro piani di scorrimento, ovvero non dovevano offrire, per la a r c h e o 99
SPECIALE • STRADE ROMANE
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A sinistra: rilievo raffigurante un carro da viaggio romano, murato su una parete della cattedrale di Maria Saal, nel distretto di Klagenfurt-Land in Carinzia, Austria.
loro forma irregolare, allettamenti rettilinei lungo i quali sconnettersi in conseguenza di forti sollecitazioni orizzontali. Pertanto, equiparando le sollecitazioni sismiche a quelle, certamente di gran lunga piú esigue, prodotte dal transito dei carri, ma, altrettanto certamente, di gran lunga piú frequenti, quei tecnici scelsero proprio quella concezione strutturale per la pavimentazione delle loro strade, a partire appunto dall’Appia. Poiché ogni basolo andava sagomato dopo averne rilevato il contorno dai due già in opera ai quali si sarebbe dovuto affiancare con estrema precisione, tale razionale opzione impediva non solo la loro prefabbricazione, ma costringeva al trasporto di blocchi piú grandi e pesanti del necessario, da sgrezzare sul posto, con conseguente abnor-
PER IL SERVIZIO PUBBLICO Ricostruzione virtuale e prospetti di un carro diligenza, veicolo adibito al servizio pubblico, con sedili anche sull’imperiale, cioè nello spazio sovrastante il tetto.
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SPECIALE • STRADE ROMANE
me allungamento dei tempi di costruzione. Garantiva però una longevità tale da scavalcare i millenni, e i ruderi delle strade ne sono la conferma piú eclatante.
FORTIFICAZIONI... SEMOVENTI Lo sfilamento giornaliero di una legione su un percorso non preparato non poteva eccedere i 5-10 km al giorno (basti pensare alla difficoltà di far superare a un carro anche un ruscello largo appena 1 m). Percorrenze che diminuivano ulteriormente quando il transito doveva avvenire attraverso boschi o foreste inviolate, non superando in questo caso i 3-4 km al giorno, al di là delle mirabolanti performance tramandate dagli autori classici e dai loro pedissequi epigoni, per pura propaganda. Quando invece lo sfilamento avveniva su strada, la stessa legione, con le medesime salmerie e a parità di tempo, poteva triplicare la percorrenza. Accadeva cosí che, secondo una prassi forse voluta, nel trasferimento delle grandi unità – quali, per esempio, un esercito consolare formato da due legioni – la testa della colonna, lunga non di rado oltre 15 km, stava già costruendo il nuovo campo, mentre la coda stava ancora uscendo dal vecchio! In quei casi, dunque, l’accampamento romano, come è stato giustamente osservato, si trasformava in una sorta di... fortificazione semovente! Le velocità di avanzamento di uomini a piedi e senza bagagli, su strada o fuoristrada, differiscono ben poco e anzi, spesso, la seconda,
CARICHI FLUTTUANTI Ricostruzione virtuale e prospetti di un carro botte, mezzo destinato al trasporto di vino o altri liquidi.
potendo seguire un tracciato piú breve può risultare persino maggiore della prima. Come si giustifica allora la notevole divaricazione evidenziata poco innanzi? La spiegazione ci viene dalla stessa denominazione latina di una parte cospicua dell’esercito in trasferimento: gli impedimenta. Il termine è stato adottato per designare i convogli per il trasporto delle salmerie, del foraggio per i cavalli – quasi mai disponibile lungo l’itinerario –, delle tende, delle armi pesanti, degli equipaggiamenti tecnici, ecc. Volendo esemplificare, una legione aveva bisogno, in ragione di 8 uomini per tenda (contubernium), di circa 600 tende in pelle,
LE PRIME DECAPPOTTABILI Ricostruzione virtuale e prospetti di una carrozza privata con copertura a mantice, che poteva essere aperta o chiusa secondo le preferenze dei viaggiatori.
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PER VIAGGI DI LUNGA DURATA Ricostruzione virtuale e prospetti di una carruca dormitoria, carro da viaggio, di origine gallica, utilizzato per lunghe percorrenze e attrezzato per le soste notturne. Il carro era trainato da due cavalli e fornito di cappotta di copertura in pelle o tela su armatura di legno o ferro. Nella ricostruzione, una delle ruote posteriori è vista in sezione, cosí da mostrare il particolare delle cinghie in cuoio che, agganciate a un supporto arcuato, funzionavano come una sorta di sospensione, al fine di attenuare i sobbalzi e garantire il maggiore comfort dei viaggiatori.
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SPECIALE • STRADE ROMANE
ciascuna delle quali pesava, con i relativi accessori, una trentina di chilogrammi, per un carico complessivo di poco meno di 20 tonnellate.
CARRI O MULI? Ora, tenendo conto che un carro a 4 ruote poteva trasportare, al massimo, un carico di 500 kg, solo per le tende ne sarebbero occorsi almeno 40, trainati da altrettante pariglie di cavalli o muli! Certamente, e molti autori lo ricordano, ogni contubernium poteva disporre di un mulo, per cui, stimando per ciascuna legione una sessantina di centurie, si 104 a r c h e o
ottengono almeno 600 muli e altrettanti mulattieri. In tal caso, però, il problema si sarebbe aggravato, poiché 600 muli richiedono molto piú foraggio della quarantina di pariglie dei carri, senza contare le razioni per i rispettivi mulattieri: un insieme di fattori che ci induce a ritenere piú sensata l’ipotesi dell’adozione dei carri piuttosto che dei singoli muli; carri sui quali, va ricordato, dovevano trovar posto anche le pelli di ricambio per la riparazione e la fabbricazione di nuove tende. Inoltre, per ogni legione in marcia, occorreva un numero rilevante di carri
Resti di un carro agricolo, da Villa Arianna, a Stabia. I sec. d.C. Castellammare di Stabia, Museo Archeologico di Stabia «Libero D’Orsi».
A destra: cippo sepolcrale del locandiere Lucio Calidio Erotico, da Isernia. Prima età imperiale. Parigi, Museo del Louvre. Il rilievo mostra lo stesso Calidio che discute con un cliente, riconoscibile per il mantello da viaggio.
per il trasporto degli effetti personali ingombranti e del molteplice materiale di uso collettivo, quali, per esempio, le macine per il grano, le grandi marmitte, le razioni per diversi giorni, le attrezzature e le armi collettive. Le scene raffigurate sulla Colonna Traiana e su quella Aureliana mostrano barili per l’acqua, per il vino, per la posca (una bevanda dissetante a base di acqua e aceto, n.d.r.) sempre caricati sui carri. Anche ammettendo l’adozione di un secondo mulo per ciascun contubernium, il numero delle bestie salirebbe ad almeno 1200, destinate peraltro esclusivamente alla truppa. Quanto ai viveri d’armata, considerando una razione media di circa 0,5 kg/uomo, si trattava di circa 3 tonnellate al giorno, che, per un’autonomia di appena una decina, divenivano una trentina, pari al carico di un’altra dozzina di carri. E siamo ancora lontani dal plausibile totale, per cui appare sensato concludere che anche una sola legione in sfilamento richiedesse almeno un centinaio di carri per i suoi impedimenta e, soprattutto, vedere nel ricorso ai carri la soluzione di gran lunga meno complessa. In ogni caso, quel lungo convoglio formato da carri a trazione animale avanzava con velocità molto diverse tra loro, quando su strada o quando fuoristrada, velocità alle quali era comunque obbligato ad adeguarsi l’intero esercito. In definitiva, la celerità o la lentezza del trasferimento delle legioni non dipendeva dalla velocità di marcia dei soldati, ma da quella del trasporto dei loro impedimenta. Concepite a scopo innanzitutto tattico, le strade si affermarono dunque come infrastrutture strategiche, eccezionali per lungimiranza di concezione, grandiosità di sviluppo e razionalità d’impianto, pur restando l’esito, paradossalmente, della inspiegabile incapacità di aggiogare in modo corretto, dal punto di vista fisiologico, le
bestie adibite al traino dei carri, limitando la capacità di carico dei veicoli e, peggio ancora, le pendenza che essi avrebbero potuto superare.
GENIALI IMITATORI Può sembrare sorprendente, ma i Romani – artefici, come detto, della piú vasta e razionale rete stradale dell’antichità – non furono mai rinomati costruttori di carri. I loro carradori ebbero pertanto un ruolo marginale nello sviluppo dei mezzi di trasporto a trazione animale, ma seppero migliorare, armonizzare e potenziare quanto era stato messo a punto in questo campo presso i vari popoli e nei territori da loro conquistati. In particolare, i Romani perfezionarono e a volte ottimizzarono le esperienze sviluppate dai Celti e dagli Etruschi. Si limitarono perciò a copiare i loro
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SPECIALE • STRADE ROMANE
carri, soprattutto quelli ideati dai primi e, piú in generale, dalle etnie nordiche, senza darsi neppure la pena di mutarne il nome, adattandoli, con poche varianti, alle proprie esigenze commerciali e militari. Scaturí cosí una vasta gamma di veicoli a due e a quattro ruote, trainati perlopiú da cavalli, ma anche da pariglie di buoi. In breve, quei carri si differenziarono a tal punto da ricordare le attuali tipologie di camion e autobus. Vi furono, infatti, carri con basse e alte sponde per forti carichi compatti o incoerenti, carri per i trasporti militari di elementi galleggianti per ponti, e persino carri botte per uno o piú liquidi, in cisterne separate. E ancora carri diligenze per il servizio pubblico, con sedili anche sull’imperiale; veloci carrozze private con copertura a mantice e, non ultime, vere carrozze letto, con padiglioni in pelle, a quattro o sei cuccette.
AVANTRENI FISSI E FRENI A MARTELLINA Sia che fossero adibiti al trasporto passeggeri, agricolo o mercantile, solido o liquido, i carri romani a quattro ruote montavano sistematicamente l’avantreno fisso. In tutte le fonti iconografiche, infatti, le ruote anteriori e quelle posteriori presentano il medesimo diametro e risultano vistosamente piú alte del cassone, per cui il loro assale non poteva girarvi sotto. Un secondo dettaglio lo conferma: i cavalli, o i buoi appaiono sempre attaccati tramite un cortissimo timone, quasi a contatto con il conduttore: una collocazione del tutto inconciliabile con l’avantreno sterzante, nel quale, per agevolarne la rotazione, il timone avrebbe dovuto, invece, essere abbastanza lungo e, quindi, mantenere le bestie piú distanti (si vedano, a questo proposito, le immagini e le ricostruzioni alle pagine pecedenti, n.d.r.). Senza contare che in alcune raffigurazioni piú dettagliate si distingue un freno a «martellina», del tipo di quelli ancora in uso sui carri merci ferroviari, azionato da una leva a mano applicata al cassone e che agisce sui cerchioni delle ruote anteriori, che sono le piú vicine al conduttore. Nel caso di avantreno sterzante, una simile disposizione sarebbe stata inutilizzabile, dal momento che, nelle curve, varia la distanza delle ruote anteriori dal cassone e, non a caso, i suddetti vagoni merci hanno assali fissi. Una ulteriore conferma, sia pure 106 a r c h e o
indiretta, di tale assenza è la brevità del passo dei carri romani, una soluzione di ripiego necessaria per farli sterzare per trascinamento laterale, senza un’eccessiva resistenza. In quei casi il passo risulta talmente ridotto da far agire il freno a martellina fra le ruote anteriori e posteriori contemporaneamente, come una sorta di spesso cuneo inserito fra i loro cerchioni. Un freno da non confondere con quello di stazionamento, o di non indietreggio, il classico «bastone fra le ruote». Consisteva, infatti, in un robusto bastone, piú lungo dell’asse, che inserito fra i raggi di due opposte ruote, ne impediva la rotazione. L’assenza dell’avantreno sterzante va considerata una peculiarità dei carri romani, in genere ignorata in molte ricostruzioni, nelle quali le ruote dell’avantreno sono immaginate vistosamente piú piccole cosí da poter sterzare sotto il cassone come quelle delle «botticelle» romane o delle diligenze del Far West. In realtà, l’assenza di avantreni sterzanti non va ascritta all’incapacità di concepire simili meccanismi, che in alcuni casi dovettero certamente esistere, ma dalla loro inidoneità a sopportare carichi concentrati di peso rilevante. Un assale attraversato da un perno era comunque debole e l’unico supporto che lo sorreggeva nelle curve
Una strada di epoca romana a Sierra de Gata, in Estremadura, Spagna.
cremento attribuibile anch’esso al mancato avantreno sterzante che faceva spostare lateralmente l’intero carro. Ma un tracciato rettilineo in un territorio morfologicamente accidentato come quello italiano, costringeva a superare gole e vallate mantenendo, per giunta pendenze lievi. Il che si tradusse nella frequente costruzione di ponti e aggeri di contenimento, da cui la rilevanza dei primi, per i quali fu istituita un’apposita magistratura.
strette rischiava di spezzarsi. Non a caso, quando oggi si costruiscono gli autocarri a motore per grandi carichi, se ne raddoppia l’avantreno, al fine di potersi avvalere di ben quattro ruote sterzanti. Da tale connotazione costruttiva dei carri derivò un’altra connotazione delle strade romane: esse avrebbero dovuto essere quanto piú possibile rettilinee, dal momento che non era agevole mutare la direzione di avanzamento di un carro. Alla medesima deduzione inducono le banchine laterali, impropriamente definite marciapiedi: in quanto tali, sarebbero stati del tutto inutili in relazione al traffico veicolare dell’epoca, mentre risultavano di grande utilità al fine di scongiurare la fuoriuscita delle ruote dalla sede stradale, con la conseguente caduta in uno dei canaletti laterali di drenaggio. Del resto, la linearità soddisfaceva anche il requisito primario delle strade romane, ovvero quello di abbreviare al massimo il tempo di trasferimento delle legioni e dunque, in base a una semplice regola di geometria, il loro tracciato era il piú prossimo alla retta. Le strade ebbero quindi poche curve, e di raggio abbastanza ampio, nelle quali la larghezza della loro carreggiata si raddoppiava, un in-
SOSPENSIONI ELASTICHE Nonostante la cura adottata per far combaciare fra loro i basoli del manto d’usura delle strade piú importanti, la cerchiatura in ferro delle ruote dei carri non poteva evitare i sobbalzi causati dai giunti, che, nei veicoli piú sofisticati, si cercò di attenuare, cosí da assicurare, come anticipato, un maggior comfort ai passeggeri. Si prese dunque spunto dai carri celtici, che, operando su terreni alquanto accidentati, erano provvisti di una cassa in vimini che non poggiava direttamente sull’assale, ma su un supporto arcuato, tramite cinghie tese che agivano come un’antesignana sospensione elastica, di cui i Romani ottimizzarono il criterio informatore (vedi il disegno a p. 103). Ispirandosi a quell’archetipo, fecero insistere il cassone dei loro carri piú evoluti su coppie di robuste cinghie di cuoio, scindendolo in tal modo dal telaio. A loro volta, le cinghie erano sostenute da eleganti supporti di bronzo fissati sugli assali, alcuni dei quali, di discreto pregio artistico, sono stati trovati e riconosciuti. Quanto al telaio, deve immaginarsi a forma di «H» allargata, composto cioè da due assali uniti da una trave centrale, con i relativi rinforzi diagonali. All’estremità di ciascun assale, appena dietro la ruota, i suddetti supporti erano innestati su massicce bandelle di ferro inchiavardate. In linea di massima, ricordano un uomo con le braccia spalancate e alzate formando perciò quasi tre rebbi. Quello centrale, cavo e figurato in sembiante umano o animale, si infilava sopra un perno verticale delle bandelle; quelli laterali, piú tozzi e corti, se ne discostavano di una decina di centimetri, fornendo cosí l’ancoraggio alle due coppie di cinghie, che, fissate sotto la cassa, la svincolavano dal telaio e dai suoi peggiori scossoni. In ogni caso, la disposizione a doppia cinghia per ciascun assale attenuava senza dubbio le violente sollecitazioni laterali – quelle che avrebbero potuto scaraventare a r c h e o 107
SPECIALE • STRADE ROMANE
il passeggero fuori dalla cuccetta –, ma quasi Nelle vie consolari la carreggiata era racchiuper nulla quelle verticali, attutite, in compen- sa da ambedue i lati da un bordo in pietra, so, dalla rete e dal materasso sovrastante. umbo, e poteva essere fiancheggiata da banchine laterali, margines, di larghezza variabile. Va osservato che la nostra capacità di definire LA CARREGGIATA Come già accennato, la pendenza a cui subor- con precisione lo scartamento dei carri romadinare la costruzione della carreggiata delle ni è determinata dalle loro stesse ruote, in strade era determinata dal sistema di aggioga- legno cerchiate di ferro, la cui peculiarità, mento degli animali da tiro. E anche la lar- oltre alla robustezza, consisteva nel concentraghezza della carreggiata derivò dall’ingombro re il carico trasportato nel punto di tangenza dei carri. Alla luce di riflessioni scaturite con la strada, incidendo progressivamente il dall’osservazione empirica, il carro romano manto d’usura per duro che fosse stato. standard, già prima dell’età imperiale, ebbe Ma l’avantreno fisso, che grazie all’ampio necessariamente una larghezza all’incirca pari raggio di curvatura delle strade non creava a quella dei glutei di due buoi affiancati, es- problemi nei percorsi extraurbani, né sulle sendo i glutei o le natiche dell’animale le sue piste – per la scarsa coerenza del terreno batparti trasversali piú ingombranti. Le ruote, tuto –, diventava incompatibile, invece, con la pertanto, compresi i relativi mozzi, devono viabilità urbana, rigidamente ortogonale. Lo risultare incluse in tale ingombro, e dunque la può confermare una passeggiata per le strade distanza fra di esse, in entrambi gli assali dei di Pompei, dove, non a caso, gli unici resti di carri, che oggi si definisce scartamento, dove- veicoli identificati sono di carri a due ruote. Per quelli a quattro ruote, infatti, riusciva del va attestarsi intorno ai 1435 mm. Dal momento che due carri marcianti in op- tutto impossibile svoltare da un cardine a un poste direzioni si sarebbero dovuti poter in- decumano e viceversa: fisso l’assale e strettiscrociare liberamente in qualsiasi punto lungo simo l’incrocio. Occorreva, pertanto, imbocla stessa strada, la larghezza minima di care direttamente la strada di destinazione, il quest’ultima si attestò tra un minimo di 3 che spiega il rilevante numero di postierle scartamenti, pari a 4,2 m – dei quali 2 per i nelle cerchie urbiche greco-romane, spesso carri e 1 per le distanze fra gli stessi e i bordi due per ciascun asse viario. Un carro, quindi, della strada – e un massimo di 4, pari a 5,8 m. se possibile, entrava in città e avanzava, senza A sinistra: Pompei. Particolare della pavimentazione di una strada. Le grandi pietre al centro della carreggiata servivano per l’attraversamento pedonale nel caso di allagamento. Si possono anche vedere i solchi guida-ruote.
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La strada consolare delle Gallie a Donnas, in Valle d’Aosta, tagliata nella roccia a mezza costa, nel I sec. a.C.
mai svoltare, fino a quando ne usciva: tuttavia, poiché la sede stradale, oltre a essere stretta, era anche scabra e con alte banchine laterali e attraversamenti pedonali persino piú alti, il rischio di sbattervi contro le ruote danneggiandole gravemente, non era affatto remoto.
SOLCHI PROVVIDENZIALI Per risolvere il problema si fece ricorso agli antichissimi solchi guida-ruote, dei quali proprio a Pompei possiamo ancora oggi vedere numerosi esempi. I solchi venivano incisi a volte in asse con la strada per centinaia di metri, a volte solo in prossimità degli attraversamenti e nei valichi montani, dove forse interveniva anche un paranco per la trazione. Si trattava di una soluzione tutt’altro che irrazionale, se pensiamo che anche i moderni mezzi a ruota guidata, tram e treni, vengono preferiti appunto perché il binario consente il transito in sedi appena piú larghe del veicolo, senza debordamenti laterali ed eccessive oscillazioni. Di conseguenza, in tutti i Paesi in
cui i carri vennero utilizzati, per agevolarne la guida nelle strette strade urbane, si realizzarono nel manto d’usura coppie di solchi destinati alle ruote, simili ad antesignani binari tranviari, pervenutici in discreto numero. Dal punto di vista normativo, l’adozione dei solchi guida ruote presuppone la standardizzazione dello scartamento dei veicoli, equivalente antico della distanza fra i binari. Gli ingegneri romani portarono lo scartamento meramente casuale dei Greci a coincidere quasi con il loro doppio passo (1,48 m), fissandolo a 1435 mm, una dimensione che dovette verosimilmente essere prescritta da un’ordinanza imperiale. A quella misura si adeguarono quasi tutti i carri dei millenni successivi e persino, piú tardi, le stesse ferrovie, tanto che coincide con il cosiddetto «scartamento Stephenson», pari appunto a 1,435 m. Ancora oggi è lo scartamento ferroviario in uso nei piú avanzati Paesi del mondo, compresi i binari sui quali sfrecciano, a centinaia di chilometri orari, i treni ad altà velocità! a r c h e o 109
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
PER SANARE QUEL FRAGILE CORPO PER LA LORO DUPLICE NATURA, DIVINA E MORTALE, ASCLEPIO E GESÚ DI NAZARETH SONO, FRA TUTTI I LEGGENDARI GUARITORI DELL’ANTICHITÀ, I PIÚ VICINI ALL’UMANITÀ
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n questo periodo cosí particolare, del tutto nuovo per noi generazioni nate e cresciute nel diffuso benessere dell’Europa postbellica, è tremendo e
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inaspettato vivere un’epidemia estesasi a livello planetario. Il senso di impotenza che la pandemia da Covid-19 ha causato e sta causando, lo sgomento e il lacerarsi di un
consolidato sistema economico che aggiunge angoscia all’angoscia, la speranza in cure e vaccini, conducono l’uomo smarrito a rimettersi non soltanto alla fiducia nella scienza, ma anche – come è sempre avvenuto – alla fede nel pietoso intervento divino. Il timore della malattia e l’aspirazione alla salute del corpo sono tra i connotati piú intimi e sensibili dell’essere umano, connessi strettamente alla paura della morte. Nell’esperienza religiosa antica, come in quella moderna e contemporanea, trova ampio spazio la garanzia o, quanto
meno, il concreto aiuto delle divinità e dei santi nel saper e poter risanare il fragile corpo umano. Asclepio, Igea, Apollo, Iside e Serapide, o personificazioni come Salus, solo per nominare le piú celebri divinità salutari del pantheon greco-romano, incentrano il loro agire sulla cura della salute dei loro fedeli. Asclepio, in particolare, nato da Apollo e da una donna mortale e divinizzato post mortem quale dio della medicina per la scienza esercitata in vita con un successo straordinario, è particolarmente vicino all’umanità, per averne sperimentato la natura mortale e per aver cercato con perizia di garantirne una sana longevità.
GESÚ TAUMATURGO L’importanza e la presa sulle genti della capacità di guaritore di un dio, capace addirittura di far risorgere i morti, è un tema presente anche nel messaggio cristiano: Gesú di Nazareth opera come guaritore (i Vangeli riportano 15 guarigioni), esorcista (anche i demoni causano la malattia, come per esempio l’epilessia) ed è capace di resuscitare i morti (il piú celebre è Lazzaro). L’eccezionale potenza taumaturgica di Gesú funge da formidabile mezzo di conversione ed egli invita ad «Andare a riferire (…) quel che avete veduto e udito: i ciechi ricuperano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risuscitano» (Luca, 7, 22). Asclepio, di nascita semidivina, vive la sua vicenda umana, impara la medicina, ha una famiglia numerosa, nella quale tutti i suoi figli esercitano l’arte medica, insegna a curare e crea una sua importante scuola; arrivato a resuscitare i morti, provoca l’ira di Zeus, che lo fulmina. Il padre Apollo allora ne perora la divinizzazione, facendone un dio di grandissimo successo e appeal, e la sua immagine, accompagnata dal sacro
serpente e fedele compagno avvolto al bastone del dio, diviene la tredicesima costellazione dello Zodiaco, l’Ofiuco (latino Ophiuchus, dal greco Ophiouchos, composto di óphis, «serpente», ed écho, «tenere»), detto anche Serpentario, raffigurata come un uomo barbato che tiene tra le mani le spire di un serpente enorme. Il serpente di Asclepio svolge numerose mansioni all’interno del culto del dio: è l’animale che lo accompagna e rappresenta, simbolo di eternità per l’avvolgersi delle sue spire e di rigenerazione Nella pagina accanto: la costellazione di Ofiuco, tavola tratta dall’Atlas Coelestis di John Flamsteed, pubblicato postumo nel 1729. In basso: bronzo di Pautalia (Tracia) di Settimio Severo. Al dritto, il ritratto imperiale; al rovescio Asclepio, che, adagiato su un gigantesco serpe-dragone, tiene il bastone con il serpente avvolto.
continua per la capacità di mutar pelle. Uccidere un serpente sacro era un sacrilegio gravissimo e anche oggi il bastone con il serpente avvolto è il simbolo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, mentre i medici e le farmacie usano perlopiú il caduceo con due serpenti, originariamente attributo di Mercurio.
LE ACQUE DI PAUTALIA Le molteplici capacità del serpente asclepideo lo vedono trasformarsi anche in un mezzo di trasporto, secondo un modello iconografico che ricorre sulle monete provinciali della città trace di Pautalia (oggi Kyustendil, in Bulgaria). Città ricca di acque salutari (il nome trace significa infatti «acque zampillanti») e con un tempio dedicato ad Asclepio e ai suoi familiari, fu municipium sotto Traiano ed ebbe una zecca attiva dal regno di Antonino Pio (138-161 d.C.) fino a quello di Caracalla (211-217 d.C.) caratterizzata da una varietà tipologica eccezionale. Su alcune monete di bronzo battute sotto i Severi, si ritrova al dritto il consueto profilo imperiale e, al rovescio, Asclepio con il suo bastone con serpente attorcigliato, comodamente semidisteso su un enorme serpente alato in forma di dragone, con il muso coronato da una barbetta e spire che quasi assumono la forma di ruote. In altri tipi monetali serpenti-dragoni tirano il carro di Trittolemo o di Cerere, mentre sul bronzo di Pautalia, in questo caso, il rettile pare essere contemporaneamente veicolo e tiro su cui si adagia il dio. Questa iconografia riporta alla mente alcune tipiche raffigurazioni delle divinità dell’induismo, ognuna caratterizzata da un animale che la rappresenta ed esprime, chiamato vahana (veicolo, cavalcatura), sul quale il dio placidamente e con fare amabile si siede, lasciandosi trasportare nel cielo.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Antonio Dell’Acqua
LA DECORAZIONE ARCHITETTONICA DI BRESCIA ROMANA Edifici pubblici e monumenti funerari dall’Età repubblicana alla tarda antichità Edizioni Quasar, Roma, 481 pp., ill. b/n 60,00 euro ISBN 978-88-5491-024-9 www.edizioniquasar.it
articola la trattazione in quattro parti: il primo capitolo propone un profilo urbanistico della città; il secondo e il terzo descrivono le strutture esaminate; nel quarto, si entra nel dettaglio degli aspetti tecnici e stilistici che connotano la produzione delle decorazioni architettoniche. Un excursus ampio e puntuale, suggellato dalle conclusioni finali, nelle quali i materiali studiati si trasformano nel filo conduttore della storia cittadina, e dalle schede di catalogo dei reperti. Gian Luca Franchino
PREDATORI DI TOMBE
Sviluppo della tesi di dottorato discussa dall’autore nel 2018, nonché coronamento di oltre un decennio di ricerche sull’argomento, il volume analizza in maniera sistematica – con la sola eccezione del teatro – la decorazione architettonica degli edifici monumentali pubblici e dei monumenti funerari di Brixia, l’antica Brescia. Una città che, per una serie di fortunate coincidenze, conserva un ricco patrimonio storico-archeologico, della cui importanza si prese coscienza fin dal XV secolo, con provvedimenti di tutela e conservazione. Dell’Acqua 112 a r c h e o
Studio sulla documentazione dei saccheggi nella Necropoli Tebana prefazione di Nigel Strudwick, Kemet Edizioni, Torino, 234 pp., ill. b/n 17,50 euro ISBN 9791280007070 www-kemet-edizioni.com
La piaga dello scavo clandestino ha origini tanto antiche quanto le civiltà che piú ne sono state colpite, prima fra tutte l’Egitto. Del resto, i grandi monumenti funerari dei faraoni e degli alti funzionari del regno accolsero corredi di eccezionale ricchezza e non può dunque stupire che molti non li vedessero come l’ultima e inviolabile dimora dei loro titolari, ma come fonti di arricchimento a cui attingere senza
288 pp., ill.b/n 17,90 euro ISBN 978-88-6298-757-8 www.morellinieditore.it
particolari difficoltà. Gian Luca Franchino esamina nel volume il caso della Valle dei Re, a Tebe, nella quale si concentrarono molti dei sepolcri piú sfarzosi a oggi noti, e che fu quindi uno dei teatri d’intervento prediletti dai tombaroli. Il fenomeno viene illustrato basandosi sulle testimonianze offerte da un corpus di papiri (noti appunto come Tomb Robbery Papyri e perlopiú conservati al British Museum) che contengono le trascrizioni dei processi celebrati nei confronti dei saccheggiatori colti sul fatto e arrestati. Come nota l’autore, si tratta di testi redatti secondo schemi standardizzati e che, tuttavia, offrono un interessante spaccato di uno degli aspetti che, seppur negativamente, contrassegnarono la civiltà egiziana. E che, purtroppo, ancora oggi può vantare una sempre nutrita schiera di epigoni. Jacopo Ibello
GUIDA AL TURISMO INDUSTRIALE Morellini Editore, Milano,
Non sorprenda vedere qui segnalato questo volume, poiché il valore archeologico degli impianti industriali di piú antica data è riconosciuto e condiviso ormai da molti decenni. La guida di Jacopo Ibello offre dunque un’eccellente rassegna delle piú importanti realtà esistenti nel nostro Paese, in un viaggio che si snoda da Torino, «città dell’automobile», alla Sardegna. E se le strutture descritte costituiscono per molti una presenza familiare nello skyline della propria città, non mancano siti forse inaspettati, come nel caso della miniera d’oro della Guia, nei pressi di Macugnaga. Soprattutto negli ultimi anni si è poi fatto sempre piú importante il fenomeno della musealizzazione, che ha contribuito a salvare dal degrado, se non dalla scomparsa,
presenta
INGHILTERRA
Nascita di una monarchia millenaria Desiderio di indipendenza e vocazione internazionale segnarono la storia della corona inglese nel Medioevo. Una duplice filosofia politica, tuttora al centro dei destini strategici del regno. Il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre la storia dell’Inghilterra, che s’intreccia con quella della sua monarchia, una delle piú antiche d’Europa e senza dubbio la piú popolare, anche oltre i confini dell’isola. Una vicenda che prende le mosse all’indomani della caduta dell’impero romano, quando anche la Britannia può liberarsi definitivamente dal giogo straniero e, prima di trasformarsi nel Regno Unito, vede convivere molte corone. Le prime e decisive svolte si registrano con l’avvento del re anglosassone Alfredo il Grande – che sconfigge i Vichinghi e si fa promotore della crescita culturale e civile del suo popolo – e poi di Edgardo il Pacifico: solennemente incoronato nel 973, è il sovrano grazie al quale l’In-
ghilterra si avvia ad assumere i contorni di una nazione vera e propria. Meno di un secolo piú tardi, irrompono sulla scena i Normanni che, guidati dal duca Guglielmo il Bastardo, escono vincitori dallo scontro combattuto nel 1066 a Hastings, la «madre di tutte le battaglie»: gli Inglesi subiscono la piú grande umiliazione della loro storia, il vincitore si autoribattezza «il Conquistatore» e inaugura una stagione nuova, dando inizio a una delle piú potenti monarchie di tutti i tempi. Tempi che a piú riprese si macchiano ancora di sangue, come quando, dal 1337 al 1453, le corone di Francia e Inghilterra si batterono aspramente per il controllo di vaste porzioni della Francia nella Guerra dei Cent’anni. O, piú tardi, quando la rivalità fra le casate dei Lancaster e degli York si trasforma nella Guerra delle due Rose, che per trent’anni vede le isole britanniche teatro di scontri campali, intrighi e tradimenti.
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molti beni di questo patrimonio. Come si può constatare sfogliando la guida, si contano ormai decine di musei, distribuiti in tutta la Penisola, che sono musei di se stessi, raccontando la storia dell’attività ospitata, o sono invece divenuti contenitori di altre storie, come è accaduto, per esempio, per lo zuccherificio di Ravenna, oggi Classis Ravenna, o la Centrale Montemartini, a Roma, da anni trasformata in una delle sedi dei Musei Capitolini.
DALL’ESTERO Anna Paola Anzidei, Giovanni Carboni (a cura di)
ROMA PRIMA DEL MITO Abitati e necropoli dal Neolitico alla prima età dei metalli nel territorio di Roma (VI-III millennio a.C.) Archaeopress, Oxford, 2 voll., 777 + 833 pp., ill. col. e b/n 160,00 GBP ISBN 978-1-78969-308-9 www.archaeopress.com
La leggenda della fondazione di Roma – peraltro evocata anche nel titolo di quest’opera (pubblicata per i tipi di un editore straniero, ma in lingua italiana) – ha sempre avuto nella fatidica data del 753 a.C. uno dei suoi cardini, ma, per quanto l’immagine possa essere suggestiva, è da tempo condivisa la certezza che l’area poi occupata dalla città e il suo suburbio fossero 114 a r c h e o
tutt’altro che disabitati quando Romolo tracciò il mitico solco. Una certezza ora ulteriormente sostanziata da un lavoro ponderoso – e di taglio prettamente specialistico –, che dà conto di oltre un ventennio di ricerche condotte in vari quadranti del territorio romano. Si è trattato quasi sempre di interventi di archeologia preventiva e già questo elemento suggerisce quanto piú ricco avrebbe potuto essere il quadro se l’avvio sistematico di analoghe indagini avesse accompagnato gli interventi edilizi e infrastrutturali che si succedettero a ritmi spesso frenetici soprattutto fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso. Sebbene le nuove acquisizioni siano dunque tracce spesso «residuali» – molte sono le zone in cui sbancamenti e costruzioni hanno cancellato e obliterato per sempre le testimonianze archeologiche –, colpiscono la loro densità
Vaso a «guscio di noce» o cassa armonica di strumento musicale, dalla tomba 15 della necropoli eneolitica di Torre della Chiesaccia (Roma).
e il loro rilevante valore culturale. L’insieme dei dati propone infatti un panorama assai articolato, che fra Neolitico ed età del Rame vide l’area romana giocare un ruolo di primo piano nelle dinamiche transregionali che caratterizzarono i fenomeni succedutisi
nell’arco di circa tre millenni. Nel primo volume, dopo i capitoli dedicati alla geologia e all’ambiente, viene proposta la rassegna sistematica dei siti scoperti e indagati. Sfilano dunque resti di abitati e strutture funerarie di varia tipologia, sempre puntualmente descritti, insieme alla presentazione dei materiali restituiti
dagli scavi. Il secondo volume è invece riservato alle considerazioni tecnologiche e tipologiche sulle diverse classi di reperti, accompagnate dai dati offerti dalle analisi paleobotaniche, antropologiche e archeozoologiche. Data la vastità dell’opera, è qui impossibile dare conto nel dettaglio della mole di informazioni acquisite, ma si possono ricordare, per esempio, la scoperta di un vaso «a guscio di noce» in una tomba eneolitica del sito di Torre della Chiesaccia, che sembra essere stato utilizzato come cassa armonica di uno strumento a corde, e lo studio condotto sui residui organici conservatisi all’interno di una serie di vasi a fiasco, tazze e askoi eneolitici, che ha dimostrato la presenza dell’idromele. Due istantanee di una storia che meriterebbe senza dubbio d’essere raccontata anche in forma piú accessibile, cosí da rendere familiari, anche al di fuori della cerchia degli specialisti, questi «Romani» prima di Roma. Stefano Mammini