PO M PE I
GUERRA MONDIALE DEI ROMANI
ADULIS
COLORI DI POMPEI
KARNAK E NAPATA
CESARE E LA
GUERRA MONDIALE DEI ROMANI
SPECIALE PLINIO IL VECCHIO
SCAVI
CRISTIANI NELLA TERRA DI AKSUM
SPECIALE
LUOGHI DEL SACRO
NEL TEMPIO DI AMON
www.archeo.it
IN EDICOLA L’11 MARZO 2021
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IC OL OR IR ISC ww OP w. ER a rc TI he
2021
Mens. Anno XXXV n. 433 marzo 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 433 MARZO
L’ULTIMO SEGRETO DI PLINIO IL VECCHIO
€ 5,90
EDITORIALE
POMPEI È MORTA, VIVA POMPEI! La città sotto il Vesuvio è ancora una volta protagonista delle nostre pagine. Con la «riscoperta» delle materie prime alla base di una delle sue espressioni artistiche piú esclusive, la pittura, di cui ci parla Alessandro Mandolesi alle pagine 60-71, offrendoci, cosí, l’occasione di presentare, in apertura dell’articolo, l’immagine del thermopolium scoperto di recente nella Regio V della città, con il suo bancone ornato da colori magnificamente conservati. Nello Speciale si dipana, invece, il racconto della distruzione di Pompei, narrato dalla prospettiva della piú illustre vittima della catastrofe del 79 d.C., l’ammiraglio della flotta imperiale Plinio il Vecchio (il quale dedica il volume XXXV della sua monumentale Naturalis Historia proprio ai colores del suo tempo, non senza incorrere, come rileva Mandolesi, in qualche acritica imprecisione…). È pura coincidenza, naturalmente, che mentre stiamo mandando in stampa il numero, venga annunciata l’ultima scoperta, avvenuta durante lo scavo di una villa suburbana a nord di Pompei, in località Civita Giuliana: si tratta dei resti, in apparenza completi e integri, di un grande carro da parata a quattro ruote, con i suoi elementi in ferro e le decorazioni in bronzo e stagno. Un ritrovamento unico nel suo genere, come ha dichiarato il direttore uscente del Parco archeologico di Pompei, Massimo Osanna, «utilizzato non per gli usi
quotidiani o i trasporti agricoli, ma per parate o processioni». Il rinvenimento è avvenuto grazie alla collaborazione tra le autorità del Parco, la procura di Torre Annunziata e i Carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio Culturale, impedendo cosí che il reperto cadesse preda degli scavatori clandestini che, da tempo, stavano estendendo la loro criminale attività nella zona. Pompei, dunque, e lo vediamo quotidianamente, è una realtà viva, piena di sorprese meravigliose. Vogliamo ricordare a questo punto come, appena una decina di anni fa, quando la colpevole indifferenza delle istituzioni preposte aveva causato il crollo di uno dei suoi edifici piú famosi, la Schola Armaturarum (vedi «Archeo» n. 395, maggio 2011; anche on line su issuu.com), le sorti dell’antica città sembravano ormai segnate da ben altro destino. A partire dal 2014, la nuova gestione avviata sotto l’egida del Grande Progetto Pompei e svolta con competenza e dedizione da Massimo Osanna (e di cui «Archeo» ha dato mensilmente conto con la rubrica «All’ombra del vulcano») ha voltato pagina. È di questi giorni la notizia che a prendere il posto di Osanna è Gabriel Zuchtriegel, già direttore del Parco archeologico di Paestum e Velia. A lui, e alla futura vita di Pompei, vanno i nostri piú fervidi auguri. Andreas M. Steiner
Un particolare della ricca decorazione del carro da parata rinvenuto negli scavi della villa in località Civita Giuliana.
SOMMARIO EDITORIALE
Pompei era morta, viva Pompei!
3
importante collezione di reperti precolombiani 14 di Davide Domenici
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
SCAVI
Cristiani al crocevia dei mari
44
di Gabriele Castiglia, Philippe
6
SCOPERTE La presenza dei Longobardi nel Veneto trova una conferma clamorosa grazie alla ricca necropoli scoperta a Sarego, nel Vicentino 6 di Giampiero Galasso
PASSEGGIATE NEL PArCo Si moltiplicano le iniziative per garantire la piena accessibilità del Parco archeologico del Colosseo, sul sito e on line 8
PAROLA D’ARCHEOLOGO Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e il Museo Egizio di Torino hanno riaperto al pubblico: il racconto di una giornata da ricordare nelle parole dei direttori delle due raccolte, Valentino Nizzo e Christian Greco 20 di Flavia Marimpietri
L’INTERVISTA
Quattordici anni che sconvolsero il mondo 32 incontro con Giusto Traina, a cura di Silvia Camisasca
44
Pergola, Stefano Bertoldi, Marco Ciliberti, Elie Essa Kas Hanna, Božana Maletic e Matteo Pola
STORIA
Pompei, la festa dei colori
60
di Alessandro Mandolesi
di Giulia Giovanetti, Federica Rinaldi e Andrea Schiappelli
32
Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
www.archeo.it
o. it
Federico Curti
Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXV n. 433 marzo 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE PLINIO IL VECCHIO
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
KARNAK E NAPATA
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
COLORI DI POMPEI
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
In copertina L’assassinio di Cesare, olio su tela di Karl Theodor von Piloty. 1865. Hannover, Landesmuseum.
Presidente
ADULIS
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
€ 5,90
GUERRA MONDIALE DEI ROMANI
Anno XXXVII, n. 433 - marzo 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
60 IN EDICOLA L’11 MARZO 2021
2021
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PO M PE I
ARCHEO 433 MARZO
IC OLO RI RIS CO PE RT he I
MUSEI Le collezioni dei Civici Musei di Bologna acquisiscono una
CESARE E LA
GUERRA MONDIALE DEI ROMANI SCAVI
CRISTIANI NELLA TERRA DI AKSUM
SPECIALE
L’ULTIMO SEGRETO DI PLINIO IL VECCHIO
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Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis
LUOGHI DEL SACRO
NEL TEMPIO DI AMON
01/03/21 15:31
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Stefano Bertoldi è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Siena. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Silvia Camisasca è giornalista. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Gabriele Castiglia è assistente e assegnista di ricerca presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Marco Ciliberti è dottorando di ricerca presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma. Francesco Colotta è giornalista. Davide Domenici è professore associato di discipline demoetnoantropologiche all’Università di Bologna. Elie Essa Kas Hanna è professore incaricato presso il Pontificio Istituto Orientale, Roma. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giulia Giovanetti è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Francesca Iannarilli è dottore di ricerca e assegnista in egittologia presso Ca’ Foscari Università di Venezia. Marina Lo Blundo è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Božana Maletić è dottoranda di ricerca presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista.
I LUOGHI DEL SACRO/3
Una casa per Amon
72
di Francesca Iannarilli
72 Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO Il tesoro della signora Pretty
108
di Andrea Augenti
90
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Apollo, padre pentito 110 di Francesca Ceci
LIBRI
112
SPECIALE
L’ultimo segreto di Plinio il Vecchio
90
di Flavio Russo
Claudia Irene Mornati è funzionario architetto del Parco archeologico di Ostia Antica. Philippe Pergola è professore ordinario presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma. Matteo Pola è dottorando di ricerca presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma. Sergio Ribichini è studioso di storia delle religioni e delle civiltà del Mediterraneo antico. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Andrea Schiappelli è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.
Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina e pp. 75 (basso), 76, 77 (basso), 81, 90/91; CM Dixon/Heritage-Images: p. 40; Fototeca Gilardi: p. 94; Zuma Press: pp. 106/107 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11, 60-71; Luigi Spina: p. 3 – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Verona, Rovigo e Vicenza: pp. 6-7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Cortesia Ufficio stampa Istituzione Bologna Musei: pp. 14-15 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 16-17 – Cara Lowry: p. 18 – Cortesia degli autori: pp. 19, 103, 104 (basso) – Cortesia Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma: pp. 20-21 – Cortesia Museo Egizio, Torino: pp. 22-24 – Doc. red: pp. 33-35, 36, 38-39, 41, 77 (alto), 84, 92, 92/93, 95, 96-102, 104 (alto), 107, 108-111 – Alamy Sotck Photo: pp. 44/45 – Cortesia Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma: pp. 47, 48, 52-53, 54 (basso, a sinistra), 55-57 – da: D.W. Phillipson, Foundations of an African Civilisation Aksum & the northern Horn 1000 BC-AD 1300, Croydon 2012: p. 54 (centro, a sinistra) – da: R.K. Pedersen, Nautical Archaeology Surveys Near Jeddah, 2012–2013, and Their Connections to the Study of Red Sea Commerce, Boston-Leiden 2019: p. 54 (alto) – da: Roberto Paribeni, Ricerche sul luogo dell’antica Adulis (Colonia Eritrea), in Monumenti Antichi, 18 (1907): p. 54 (centro, a destra) – Bridgeman Images: pp. 50-51 – Shutterstock: pp. 72/73, 79, 80, 88 – Bruce Allardice: pp. 86/87 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 37, 46, 49, 74 (alto), 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCOPERTE Veneto
ILLUSTRI LONGOBARDI
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i una sensazionale scoperta archeologia è stato teatro il territorio del Comune di Sarego (Vicenza) durante le indagini di archeologia preventiva svolte per i lavori di realizzazione di una nuova condotta di adduzione primaria nella tratta Montecchio Maggiore-Brendola-Lonigo per la sostituzione delle fonti idriche contaminate da Pfas: è infatti venuta alla luce un’estesa necropoli di età longobarda, connessa a un luogo di culto cristiano. Sono state individuate oltre 50 tombe, databili tra la fine del VI e gli inizi dell’VIII secolo d.C., per lo piú intercettate intorno ai resti in fondazione di opere murarie pertinenti a un edificio di culto altomedievale, secondo un modello funerario di alto interesse archeologico. Il ritrovamento è di straordinaria importanza, perché conferma archeologicamente la presenza longobarda nel territorio, finora solo ipotizzata grazie alla diffusione del toponimo tipicamente longobardo di Fara. Inoltre, i reperti recuperati permetteranno agli studiosi di acquisire nuove informazioni sul territorio vicentino e veneto nel periodo tardo-antico e altomedievale. «L’ipotesi piú plausibile è che la necropoli si fosse sviluppata intorno a un luogo di culto – spiega Claudia Cenci, funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP di Verona, Rovigo e Vicenza e responsabile dello scavo – ed è da approfondire e chiarire di che tipologia di edificio si tratti,
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permettendoci di scoprire anche qualcosa di piú sulla comunità vicentina dell’epoca e sulla sua cristianizzazione. Nello scavo sono stati rinvenuti anche corredi funerari degni di nota, tra cui, in particolare, quello della tomba ribattezzata del «cavaliere», riferibile a un personaggio maschile di alto rango, con scudo da parata, lancia, spatha, fibbie di cintura, frecce e speroni. Soprattutto la presenza dello scudo da parata testimonia che siamo di fronte a una persona dall’alto status sociale. In Veneto, nelle altre necropoli longobarde note, non è cosí
comune trovare questo tipo di armi: ciò significa che siamo di fronte a una personalità di grande rilievo. In un altro settore dello scavo è stata invece esplorata una fornace per mattoni che testimonia la preesistenza di un insediamento produttivo di età romana, databile, grazie a una moneta rinvenuta in situ, alla fine del I secolo d.C. Storicamente i Longobardi s’insediarono lungo le principali strade antiche, come appunto la via Postumia, la piú importante arteria stradale del territorio che, fin dal II secolo a.C., doveva passare a breve distanza dal sito di Monticello di Fara. In virtú di altri ritrovamenti
Nella pagina accanto: Sarego (Vicenza). Una veduta dall’alto della necropoli longobarda e lo scavo di una sepoltura. Le tombe si datano tra la fine del VI e gli inizi dell’VIII sec.
In alto, a destra: l’umbone dello scudo da parata facente parte del corredo della tomba detta «del cavaliere». Qui sopra: un bracciale in bronzo, rinvenuto al polso del defunto.
effettuati in passato nella stessa località è lecito pensare di essere in presenza proprio di uno di questi insediamenti altomedievali. I materiali restituiti dallo scavo sono in corso di restauro, studio e conservazione, attività che daranno modo di acquisire dati utili anche a definire meglio la cronologia dei reperti. La necropoli presenta infatti sepolture risalenti ad almeno 2-3 generazioni diverse e le analisi archeologiche e antropologiche potranno restituirci informazioni preziose. L’analisi degli scheletri recuperati potrebbe inoltre permettere di ricostruire l’alimentazione degli abitanti di questo villaggio, il loro stato di salute, i rapporti di parentela ed eventuali matrimoni misti con persone autoctone». Obiettivo della Soprintendenza, che ha eseguito le indagini in sinergia con la Società «Veneto Acque», è ora quello di far confluire tutti i dati raccolti in uno studio scientifico per poi divulgarli al pubblico e alla cittadinanza attraverso una mostra in cui saranno esposti i principali reperti rinvenuti. Giampiero Galasso
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
BELLO E... ACCESSIBILE IL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO RAFFORZA IL PROPRIO IMPEGNO AL FINE DI GARANTIRE LA FRUIZIONE DEL SUO PATRIMONIO A QUALSIASI TIPO DI PUBBLICO. UN OBIETTIVO AL QUALE CONCORRONO LE INIZIATIVE ATTUATE SUL CAMPO E QUELLE UTILIZZABILI ON LINE
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n linea con l’idea fondante di un’istituzione accessibile a tutti, il Parco archeologico del Colosseo ha avviato nel 2018 una serie di progetti mirati a supportare il pubblico nella conoscenza e nella visita del proprio diversificato patrimonio culturale. Un impegno particolare è stato rivolto ai percorsi per il pubblico con esigenze specifiche, sia in età scolare, sia adulto: visitatori ipovedenti o non udenti, cosí come il pubblico con disabilità psichiche e cognitive o, ancora, con difficoltà di tipo sociale. Tutto ciò nella ferma convinzione che il patrimonio culturale quale bene comune e la bellezza in senso lato possano avere un ruolo pedagogico, da un lato, e di supporto psicologico dall’altro, favorendo anche il senso di inclusione nella comunità. Con queste premesse, nel 2019 è nato il programma Salus per Artem (vedi «Archeo» n. 418, dicembre 2019; on line su issuu.com), comprensivo di una serie di attività incentrate sul connubio tra archeologia e salute. Il progetto prosegue, si amplia e da subito
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tutte le attività a esso connesse sono state pensate per essere fruibili sia on site all’interno del PArCo, sia da remoto.
LE GUIDE TATTILI Nel 2020, nell’ambito delle azioni che favoriscono l’autonomia di visita di ipovedenti e non vedenti, il progetto «Il PArCo tra le mani» ha visto la realizzazione di due guide tattili. La prima, già attiva, è stata battezzata Museo Palatino. Accarezzare la storia di Roma. Promossa dal PArCo, realizzata da
Atipiche Edizioni con la collaborazione di Spazio Attivo Zagarolo FabLab, la guida è anche il frutto del corso di formazione «Metodi e strumenti per rendere accessibili musei e luoghi della cultura alle persone con disabilità visiva» (2018-2019), realizzato insieme al Museo Tattile Statale Omero di Ancona e alla Direzione Generale Educazione e Ricerca del MiBACT. All’interno di una scatola, la guida raccoglie 16 schede relative a una selezione delle opere piú rappresentative del Museo, descritte con testi ad alta leggibilità (in italiano e inglese con trascrizioni in braille) e illustrate con immagini tattili realizzate con materiali diversi. La guida è stata pensata per favorire la conoscenza e l’apprendimento da parte di ipovedenti e non vedenti, cosí come per i bambini in età scolare o per chi soffre di disturbi cognitivi e, piú in generale, chiunque voglia arricchire la propria esperienza con un approccio sensoriale al patrimonio culturale. Completa l’esperienza un cassetto
A sinistra: la guida tattile Museo Palatino. Accarezzare la storia di Roma. Nella pagina accanto: l’icona della App Il PArCo di Piranesi. In basso: il logo di Y&Co-You and Colosseum.
immersivo contenente le riproduzioni in 3d di alcuni reperti di età preromana. Sempre nel contesto del «PArCo tra le mani», saranno presto completate le guide tattili della Casa delle Vestali, del Foro Romano e della chiesa di S. Maria Antiqua.
PERCORSO A TAPPE Un altro strumento di visita rivolto a tutti e in particolare ai visitatori con disabilità intellettiva è la prima guida Easy to Read del PArCo, frutto della collaborazione con la cooperativa Phoenix. Il progetto prevede una prima parte dedicata alla visita del Museo Palatino ed è già disponibile on line sul sito web del Parco (https://parcocolosseo.it/ education/attivita-accessibili/), e una seconda che illustra un percorso semplificato a tappe tra l’Arco di Tito e lo stesso Museo. Il programma comprende inoltre un ciclo di visite guidate al Museo Palatino con laboratori specificamente concepiti per persone con disabilità cognitiva e affette dal morbo di Alzheimer. Per quanto riguarda la fruizione on line, nello scorso dicembre il Parco archeologico del Colosseo ha lanciato due nuove app, incentrate sul tema dell’accessibilità nel segno del DESIGN FOR ALL.
La prima, Y&Co-You and Colosseum, curata e promossa dal PArCo e realizzata da Ruschena’s Project con la collaborazione di Silvio Costa, nasce come espansione del percorso tattile con pannelli che si snoda dal Colosseo (II ordine), al Foro Romano e al Palatino. La App include testi e videoclip in 9 lingue (italiano, inglese, francese, russo, cinese, giapponese, tedesco, spagnolo, portoghese), oltre a videoguide in LIS e ASL con interpreti ufficiali, audio-descrizioni per non vedenti e contenuti speciali per bambini in italiano e inglese animate da disegni. Scaricabile gratuitamente dagli store Android e iOS, può essere fruita da casa, oppure all’interno del PArCo durante la visita, grazie alle postazioni wi fi e tattili con QR-code lungo i percorsi.
VEDUTE A CONFRONTO La App II PArCo di Piranesi è stata invece promossa dal PArCo in occasione dei 300 anni dalla nascita di Giambattista Piranesi, in collaborazione con l’Istituto Centrale per la Grafica e con il contributo della Q8: si tratta di una App gratuita per smartphone, che consente l’esplorazione virtuale di un’ampia selezione delle vedute dedicate ai monumenti del PArCo
con testi di approfondimento in italiano, inglese, LIS e in audiolettura. Anche questa App è concepita per essere utilizzata sia durante la visita nel PArCo, sia come viaggio nel passato da vivere da remoto. Ogni veduta d’epoca è sempre affiancata dalla foto dello stato attuale del luogo corrispondente ed è disponibile anche una gallery di immagini degli stessi monumenti ritratti in altre epoche e da autori diversi. Completano l’esperienza due video-documentari, L’acquaforte e Reprinting Piranesi, visibili anche sul canale YouTube del PArCo, realizzati per l’occasione presso la Stamperia dell’ICG e dedicati rispettivamente alla tecnica dell’acquaforte e alla ristampa, evento raro, di un’incisione che rappresenta la valle del Colosseo da una matrice originale di Piranesi. Giulia Giovanetti, Federica Rinaldi e Andrea Schiappelli
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
RITORNO ALLE ORIGINI RIAPRE LE SUE PORTE, CON UN ALLESTIMENTO INTEGRALMENTE RINNOVATO, L’ANTIQUARIUM DI POMPEI: IL NUOVO PROGETTO ESPOSITIVO CONIUGA I PRINCIPI ISPIRATORI DEL MUSEO, ELABORATI DA GIUSEPPE FIORELLI, CON LA PRESENTAZIONE DELLE PIÚ IMPORTANTI SCOPERTE DEGLI ULTIMI ANNI
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opo un lungo periodo di chiusura, l’Antiquarium di Pompei era stato riaperto al pubblico nel 2016 come contenitore di mostre temporanee. Oggi torna, invece, alla sua vocazione originale di museo della città e di luogo introduttivo alla visita degli scavi. Il nuovo allestimento, curato da Massimo Osanna, Fabrizio Pesando e Luana Toniolo, è ispirato alle atmosfere pensate da Amedeo Maiuri e che seguono il naturale sviluppo storico della città. Istituito nel 1861 e inaugurato nel 1873 dall’allora direttore Giuseppe Fiorelli, l’Antiquarium ha visto un primo aggiornamento nel 1926, per essere poi drammaticamente colpito dai bombardamenti alleati del 1943, che causarono la distruzione di una sala e la perdita di molti reperti conservati. Quindi è stato ricostruito e ampliato nel 1948 da Maiuri, in occasione delle celebrazioni del secondo centenario della scoperta del sito archeologico. Piú tardi ha patito un nuovo oblio, con la lunga chiusura nel 1980 a causa del terremoto, fino alla riapertura in tempi recenti, dopo ben 36 anni di attesa. Una tormentata vicenda, quella del principale contenitore pompeiano,
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che oggi recupera la sua immagine di spazio espositivo interamente dedicato alla città, come lo aveva concepito Maiuri nel dopoguerra.
TUTTE LE TAPPE DI UNA LUNGA STORIA Con la sua ampia e scenografica terrazza artificiale, appoggiata alle mura occidentali e alla sottostante Villa Imperiale, torna a offrire un suggestivo spaccato di Pompei, che raccontiamo in due puntate della nostra rubrica, dalle sue origini arcaiche fino alla tragica eruzione del 79 d.C., con un occhio attento alle relazioni inscindibili con Roma.
Dall’ingresso principale aperto sulla terrazza, si accede alle sezioni espositive, distribuite lungo 11 sale e che offrono approfondimenti sui grandi momenti storici della città, aggiornati alle recenti scoperte emerse negli scavi della Regio V. Prima di Roma, Roma vs Pompei, Pompeis difficile est, Tota Italia e A fundamentis reficere, L’ultimo giorno sono le sezioni che illustrano al pubblico la nuova rappresentazione di Pompei, mantenendo sempre viva la tradizione espositiva dell’Antiquarium attraverso allestimenti luminosi e il recupero
di vetrine degli anni Cinquanta del Novecento. L’esposizione si apre con Summa Pompeiana, uno spazio introduttivo segnato da una selezione di pezzi iconici che ritraggono le principali tappe della scoperta del sito, e gli uomini protagonisti di questa stupefacente stagione avviata nel 1748. La violenta distruzione di Pompei offre per la prima volta al mondo una dimensione reale e quotidiana di una città romana, inattesa per tutti, riassunta da Goethe nel 1786 con una delle piú felici definizioni della città antica: «Molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità. Credo sia difficile vedere qualcosa di piú interessante». La visita prosegue con le principali tappe evolutive del centro, la prima dedicata a Pompei prima di Roma. Il Secolo Oscuro rimanda alla fase formativa, nell’età arcaica (VI secolo a.C.), quando Pompei si trasforma in città su ispirazioni urbane etrusche, ma allo stesso tempo sollecitata da spinte greche provenienti da Cuma, faro culturale nell’area attorno al golfo di Napoli. A Pompei si pianifica un impianto regolare, con grandi aree pubbliche e importanti santuari, come quello di Apollo e di Atena presso il Foro Triangolare, inoltre si innalza una città muraria di oltre tre chilometri di lunghezza. Dopo la crisi del V secolo a.C., segue la fase di vita sannitica, frutto dei sommovimenti italici che riguardano l’intero Mezzogiorno; le tombe sannitiche del IV secolo a.C., trovate nell’area della necropoli di Porta Ercolano, con i corredi riferibili alla pratica del banchetto rituale, gettano luce su questa fase ancora oscura. Poi l’alleanza con Roma, tramite trattati e lo storico Livio che per la prima volta ricorda Pompei. L’ingresso fra le città federate coincide con una notevole attività edilizia, che si riflette nella
A destra: particolare di affresco con architetture prospettiche. I sec. a.C. In basso: calco di cavallo dalla villa suburbana di Civita Giuliana. Nella pagina accanto: efebo portalucerna in bronzo, dalla Casa di Marco Fabio Rufo. I sec. d.C.
ristrutturazione del Tempio Dorico del Foro Triangolare – testimoniato dalla metopa in tufo con l’episodio del mitico supplizio di Issione e da lastre in terracotta raffiguranti Minerva ed Ercole – e in una rinnovata attenzione al culto di Apollo e, soprattutto, nella costruzione di un nuovo circuito murario munito di aggere, riutilizzato piú tardi dai Romani.
IL SECOLO D’ORO Dai primi decenni del III secolo a.C. inizia a svilupparsi la Pompei che tutti conosciamo, con le sue strade, i suoi edifici pubblici e le sue abitazioni. Il Secolo d’oro è il II a.C., quando il centro vede il rinnovamento dei propri monumenti e la nascita di nuovi, dal teatro alla palestra, dalle terme ai mercati. In particolare, l’attività dei mercanti pompeiani nel Mediterraneo è nota fin dal II secolo a.C., documentata da iscrizioni di cittadini presenti a Delo, il piú
famoso porto dell’Egeo e crocevia globale di genti e di merci. Una serie di oggetti documenta l’arrivo di merci dall’Oriente e dall’Occidente, scambiate con rinomati prodotti locali, come il vino e il garum: fra questi, spiccano vasi e coppe da banchetto di produzione egea, contenitori di provenienza iberica e anfore rodie e puniche. L’«immagine di Roma» è sempre piú presente percorrendo le vie della città, lungo le quali si affacciano grandi case, talvolta perfino piú lussuose di quelle di Roma. Gli ingressi sono spesso segnalati da alti portali con ricchi capitelli scolpiti in tufo, come quello esposto dalla Casa dei Capitelli figurati, con coppie di sposi fra menadi e satiri, raffiguranti all’esterno la trasfigurazione dei proprietari nella perfetta coppia maritale. Per notizie e aggiornamenti: www.pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.
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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
LA SECONDA VITA DI PORTUS LO SCALO OSTIENSE FU UNO DEI CARDINI DEL SISTEMA ECONOMICO ROMANO, CARATTERIZZATO DALLA GRANDIOSITÀ DEGLI IMPIANTI VOLUTI, IN PARTICOLARE, DALL’IMPERATORE CLAUDIO. STRUTTURE INTERESSATE DA RESTAURI CHE PRELUDONO ALLA LORO FRUIZIONE DA PARTE DEL PUBBLICO
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ell’area archeologica dei Porti di Claudio e di Traiano, oggi a 4 km dal mare e in stretta prossimità dell’Aeroporto di Fiumicino, le strutture di moli, banchine e magazzini di stoccaggio sono immerse in una vegetazione rigogliosa e convivono con l’elemento naturale in un delicato e suggestivo equilibrio. Complice l’avanzamento della linea di costa rispetto a quella antica, è oggi difficile immaginare di trovarsi nel grande porto della Roma imperiale. Concepito dall’imperatore Claudio per rispondere alle necessità del
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A destra: la nuova biglietteria dell’area archeologica di Porto. In basso: il settore dei cosiddetti «Magazzini Severiani», affacciati sul bacino di Traiano.
crescente approvvigionamento di merci – in particolare di grano – destinate all’Urbe, il porto fu progettato per essere degno della capitale dell’impero: l’imponente «isola-faro» citata dalle fonti e il lungo portico colonnato innalzato su uno dei moli interni – il molo nord-sud – dovevano impressionare quanti giungevano per mare dai vari scali del Mediterraneo. Il collegamento tra il porto e l’Emporio di Roma era assicurato dal Tevere, in cui le imbarcazioni si immettevano attraverso la «Fossa Traiana» (oggi Canale di Fiumicino). Fin dall’impianto originale di Claudio, il porto venne dotato di un complesso di stoccaggio davvero imponente, rinnovato da Traiano (da cui il nome tradizionale di «Magazzini Traianei») e ulteriormente potenziato dagli imperatori successivi. Tuttavia, l’intervento di Traiano sul porto non si limitò a questo monumento: va probabilmente attribuito ad Apollodoro di Damasco il progetto del grande bacino esagonale, piú interno rispetto al bacino di Claudio, realizzato al duplice scopo di minimizzare l’effetto delle tempeste (una delle quali, secondo quanto narra Tacito, distrusse nel 62 d.C. 200 navi ancorate nel bacino di
Claudio) e di permettere l’attracco contemporaneo, in sicurezza, di un numero molto piú elevato di navi. Traiano potenziò poi il sistema di stoccaggio, facendo costruire ulteriori magazzini, disposti tutt’intorno al bacino; a quest’epoca risale inoltre la costruzione del Palazzo Imperiale, in un punto di raccordo tra il bacino di Claudio e il bacino esagonale.
LAVORI IN CORSO Attualmente è in corso il restauro della Strada Colonnata (le cosiddette «Colonnacce»), percorso monumentale di accesso ai Magazzini Traianei, costituito da uno spazio a cielo aperto articolato in tre navate da due file di colonne. Si stanno poi elaborando progetti di restauro incentrati su settori dei Magazzini Traianei e Severiani e sul cosiddetto «Antemurale» – la struttura che in età tardo-antica chiuse a scopo difensivo il molo nord-sud e il fronte sul mare del Portico di Claudio –, con l’obiettivo di assicurare la visibilità, all’interno di un calibrato circuito di visita, dei tratti delle strutture che testimoniano con maggiore evidenza i passaggi storici, i dati tecnico-costruttivi e gli spazi architettonicamente rilevanti. L’area archeologica di Porto, il Lago di Traiano e, sullo sfondo, l’Aeroporto Internazionale «Leonardo da Vinci».
Tra gli interventi già finanziati vi sono il restauro e la contestuale valorizzazione dell’area del Palazzo Imperiale e dei Navalia, finora esclusa dal percorso di visita, ma cruciale per comprendere appieno la vita e il funzionamento del grande porto di Roma imperiale. In mezzo al verde, cosí lontano dall’attuale linea di costa, la vera sfida è riuscire a raccontare l’area archeologica dei Porti Imperiali. E in questa direzione si sta muovendo il Parco archeologico di Ostia antica, grazie ad alcuni importanti interventi: innanzitutto una nuova pannellistica che, cosí come per l’area archeologica di Ostia (vedi «Archeo» n. 432, febbraio 2021; anche on line su issuu.com), prevederà un ricco apparato di ricostruzioni e di animazioni, fruibili anche in realtà aumentata. È in corso di realizzazione la nuova struttura di accoglienza, dotata di biglietteria e bookshop, nonché dei servizi necessari ad assicurare l’apertura al pubblico e la migliore fruizione dell’area archeologica (progetto Alvisi Kirimoto). A margine di tale complesso, sarà costruito il deposito dei materiali archeologici, corredato di uno spazio «in vetrina», che potrà ospitare laboratori o esporre materiali in corso di studio e restauro. Un’ampia area, situata tra l’ingresso al sito e la struttura di accoglienza, rimarrà liberamente accessibile e costituirà una sorta di giardino urbano dal quale i visitatori potranno apprezzare i resti dell’Antemurale. All’interno del sito è infine in fase di progettazione il restauro del Casale Torlonia, risalente all’epoca delle bonifiche condotte negli anni Venti e Trenta del Novecento, destinato a ospitare una sala multifunzione, adatta anche per conferenze, e la caffetteria. Marina Lo Blundo e Claudia Irene Mornati
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n otiz iario
MUSEI Bologna
NEL SOLCO DI UNA TRADIZIONE ILLUMINATA
L’
Agenzia Dogane e Monopoli (ADM) di Bologna, a seguito di un sequestro penale, ha recentemente donato ai Musei Civici d’Arte Antica dell’Istituzione Bologna Musei del Comune di Bologna un gruppo di reperti archeologici di provenienza colombiana. La donazione, autorizzata dall’autorità giudiziaria, consiste in un piccolo gruppo di manufatti ceramici risalenti a diversi ambiti culturali di età precolombiana. Il gruppo piú antico è costituito da una figurina antropomorfa sedente e nove testine fittili ascrivibili all’ambito culturale Tumaco-La Tolita (300 a.C.-200 d.C. circa), sviluppatosi nella regione costiera a cavallo dell’attuale confine tra Colombia ed Ecuador. Alla sfera culturale
Calima (200-800 d.C. circa), incentrata nella valle del Cauca, è invece riferibile una pregevole bottiglia (alcarraza) con ansa a staffa e doppio versatoio in forma di rapace notturno. Il gruppo piú consistente di manufatti è costituito da una serie di recipienti, alcuni dei quali con sostegni antropomorfi, ascrivibili all’ambito culturale Nariño (8001500 d.C. circa) e provenienti da una regione compresa negli attuali dipartimenti di Nariño (Colombia meridionale) e Carchi (Ecuador settentrionale). L’elemento distintivo di quest’ultimo gruppo è costituito dalla tipica decorazione «al negativo», ottenuta ricoprendo alcune aree del vaso già cotto con un sottile strato di argilla semiliquida prima di immergerlo nel pigmento nero; la rimozione dello strato di argilla lasciava poi allo scoperto la sottostante superficie rossa del vaso, ottenendo cosí peculiari decorazioni geometriche, spesso impiegate per rappresentare le pitture corporali degli individui. Tra gli oggetti nariño spicca una bottiglia il cui corpo è costituito da tre rappresentazioni di pepino (Solanum muricatum), un frutto ampiamente diffuso nella regione. Tutti i materiali derivano certamente da saccheggi illegali, spesso facilitati dalla struttura delle tombe a pozzo, dotate di profondi camini d’accesso verticali. Sebbene la loro profondità, talvolta pari a diverse decine di metri, ne renda In alto: figurina antropomorfa. Cultura Tumaco-La Tolita (Colombia/Ecuador), 300 a.C.-400 d.C. A sinistra: bottiglia ornitomorfa con ansa a staffa e doppio versatoio (alcarraza). Cultura Calima (Colombia), 200-800 d.C. circa.
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complesso lo scavo, la grande facilità di individuazione degli accessi mediante sonde metalliche ha favorito il saccheggio delle sepolture, particolarmente ambite a causa della frequente presenza nei corredi di manufatti in leghe d’oro e rame (tumbaga) e in platino. Anche a causa dell’intensità del saccheggio, la conoscenza archeologica delle culture precolombiane della regione è abbastanza limitata. Sappiamo comunque che le aree di provenienza dei manufatti erano occupate in età preispanica da piccole entità socio-politiche dominate da élite nobiliari, il cui status si rifletteva nella ricchezza dei corredi funerari. Il grosso della popolazione era costituito da agricoltori di mais che integravano
la loro dieta con prodotti del mare (nel caso di Tumaco-La Tolita), con la coltivazione di quinoa (Chenopodium quinoa) e con l’allevamento di lama e vigogne (nel caso di Nariño). La donazione dei manufatti ai Musei Civici d’Arte Antica e il loro deposito presso il Museo Civico Medievale sono dovuti al fatto che quest’ultimo già possiede una piccola, ma straordinaria, collezione di arte andina, sia preispanica che coloniale. Dalla stessa regione d’origine dei manufatti nariño, per esempio, proviene un raro bauletto ligneo del XVIII secolo, decorato con una resina nota come mopa mopa o «vernice di Pasto» e donato nel 1751 dal gesuita Carlos Brentano a Benedetto XIV (il bolognese Prospero Lambertini), il quale lo inviò alla locale Accademia delle Scienze. Una ingente collezione di ceramiche
provenienti dalla costa settentrionale del Perú – perlopiú di ambito culturale Chimú – si deve invece al lascito del celebre artista, architetto e collezionista Pelagio Palagi (1775-1860) e costituisce una delle piú precoci collezioni europee di materiali archeologici andini. La ricchezza delle collezioni amerindiane del Museo Civico Medievale è l’esito di una lunga storia di collezionismo bolognese di materiali amerindiani, risalente ai primi decenni del XVI secolo ed esemplificata dalla figura di Ulisse Aldrovandi. A differenza di collezioni simili conservate in altre città italiane, le raccolte felsinee si sono sempre distinte per il loro carattere eminentemente pubblico, cosí che il fatto che alcuni beni archeologici sottratti al mercato illegale vengano oggi restituiti alla pubblica fruizione costituisce in qualche modo un omaggio all’illustre tradizione del collezionismo pubblico cittadino. Davide Domenici
In alto: ciotola emosferica senza collo (tecomate), con decorazione geometrica incisa. Cultura Nariño (Colombia), 800-1500 d.C. circa.
Ciotola con all’interno una figura femminile. Cultura Nariño (Colombia/Ecuador), 800-1500 d.C. circa.
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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
UNA CITTÀ A TUTTO TONDO LA VULCI ETRUSCA EBBE NELLA PRODUZIONE SCULTOREA UNA DELLE SUE ECCELLENZE, TESTIMONIATA DALLE MOLTE OPERE RESTITUITE DAGLI SCAVI. DESTINATE A FAR BELLA MOSTRA DI SÉ IN UN MUSEO AD HOC
È
stato recentemente redatto il progetto esecutivo del «Museo della scultura e dell’arte etrusca di Vulci», volto ad arricchire la già vasta offerta archeologica che il Parco offre, mettendo l’accento su una delle peculiarità principali della cultura vulcente: la scultura funeraria arcaica. Presto si potranno quindi ammirare – nei locali dell’ex convento di S. Sisto, a Montalto di Castro – le opere scultoree inserite nei relativi contesti, in uno sviluppo diacronico che, partendo dai
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prodromi villanoviani, evidenzia, nel periodo orientalizzante, la rappresentazione simbolica del defunto all’interno della sepoltura. A questa volontà di rappresentazione vanno infatti ricollegate sia la pratica rituale dell’antropomorfizzazione del contenitore delle ceneri, sia la rappresentazione vera e propria del defunto nella tomba mediante simulacri in legno e bronzo (i cosiddetti sphyrelata polimaterici). Queste premesse sono utili a contestualizzare le
successive manifestazioni di età tardo-orientalizzante e arcaica nel piú ampio quadro della cultura figurativa etrusca e, in particolare, a illustrare l’evoluzione di tali rappresentazioni in relazione alla ritualità funeraria e alla piú antica concezione etrusca della morte e dell’oltretomba. Se queste prime espressioni «scultoree» appaiono fortemente legate alla ritualità funeraria e, nello specifico, alla volontà di restituire ai titolari delle sepolture di maggior prestigio la fisicità annullata dalla
cremazione, l’introduzione della statuaria di grande formato si lega infatti a una comunicazione sociale diretta, come elemento di eccellenza e autocelebrazione delle classi aristocratiche. La transizione fra questi due momenti concettuali è probabilmente rappresentata proprio dai simulacri polimaterici, di cui le sepolture di Vulci hanno restituito diversi esemplari. Con questi manufatti la rappresentazione della figura umana si stacca infatti da oggetti con funzioni diverse, come i vasi cinerari, per assumere una propria autonomia monumentale.
Presupposto fondamentale per l’introduzione della statuaria monumentale, il salto concettuale è notevole e non manca chi abbia suggerito che in ambito etrusco e soprattutto vulcente ne siano stati responsabili artefici di provenienza greco-orientale.
LA MASSIMA FIORITURA La sezione principale del museo riguarda la scultura di età orientalizzante e arcaica, proponendo un quadro delle opere riferibili a queste fasi, in quanto elementi di rilievo e di particolare evidenza dello straordinario sviluppo economico e culturale della città, protrattosi sino alla piena classicità. Tale quadro sarà costruito attraverso l’esposizione delle figure in pietra di creature animali o semi-mostruose raffiguranti leoni, pantere, sfingi,
A destra: statua di leone alato, dalla necropoli dell’Osteria. VI sec. a.C. In basso: frammento di un coperchio di sarcofago, dalla Tomba dei Tutes (o dei Sarcofagi). IV sec. a.C. Nella pagina accanto: sarcofago dalla Tomba dei Tarnas (o dei Tori). II-I sec. a.C.
poste a coronamento delle architetture sepolcrali. È stata a piú riprese sottolineata l’importanza di questi manufatti, che dovevano rivestire un ruolo fondamentale nella ritualità funeraria attraverso la quale le classi dominanti esprimevano il proprio status sociale. Esse infatti dovevano costituire apparati figurativi complessi, funzionali sia ad aumentare il prestigio dei committenti, sia a solennizzare il passaggio tra la sfera terrena e un oltretomba al quale alludono in modo esplicito queste figure non piú compiutamente reali e umane. Il percorso museale si chiuderà con l’evoluzione delle manifestazioni scultoree vulcenti tra il IV-III secolo a.C. e la piena romanizzazione. Particolare riguardo sarà dato alla decorazione monumentale degli apparati architettonici esterni delle
tombe, con capitelli, architravi e frontoni arricchiti di gruppi scultorei a tema mitologico o ancora con figure animali ferine, i cui tratti formali e stilistici denunciano la piena ellenizzazione delle officine vulcenti verosimilmente per mediazione di maestranze magno-greche. A questa produzione di grande formato fanno riscontro le numerose testimonianze di sarcofagi che, pur nel quadro di una produzione su larga scala, caratterizzata in prevalenza dalla riproposizione di temi del repertorio mitologico greco, offrono talora scene di vita reale tese a esaltare il defunto nonché esempi di notevole raffinatezza formale. Chiuderà l’esposizione l’eccezionale ciclo scultoreo del Mitreo, risalente al III-V sec. d.C. Il Progetto del Museo, fortemente voluto dall’Amministrazione Comunale di Montalto di Castro, è stato redatto dallo Studio Associato Architetti Stefano Ceccarelli e Rita Lulli, con il coordinamento scientifico di chi scrive e la supervisione di Simona Carosi della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale.
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A TUTTO CAMPO Mara Sternini
L’«ANNUNCIAZIONE» DI FIDIA LA STORIA DEI FREGI DEL PARTENONE È, A DIR POCO, TRAVAGLIATA. MA UNA DELLE METOPE SUPERSTITI DEVE LA SUA SALVEZZA ALL’INASPETTATA, E SORPRENDENTE, LETTURA DELLA RAFFIGURAZIONE SU DI ESSA SCOLPITA
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F
idia, l’artista che meglio di ogni altro riuscí a scolpire nel marmo gli ideali della politica di Pericle, fu coinvolto nella costruzione del Partenone, sull’acropoli di Atene. In qualità di sovrintendente al progetto decorativo del tempio, diresse i lavori per la realizzazione delle sculture frontonali, delle 92 metope del fregio dorico esterno e delle lastre del fregio ionico, che correva sui muri della cella. Purtroppo, gli eventi succedutisi nel corso dei secoli hanno causato danni irreparabili all’edificio e molte parti del tempio sono andate perdute. Infatti, già nel VI secolo d.C. la trasformazione del Partenone in chiesa cristiana causò l’asportazione della maggior parte dei rilievi presenti sul fregio esterno, perché raffiguravano soggetti pagani, non compatibili con la nuova funzione di culto. Tuttavia, fatta eccezione per alcune metope del lato meridionale, forse salvate perché meno visibili, tra le poche lastre risparmiate vi è anche la n. 32 del lato settentrionale (32N), che mostra due figure femminili, Fregio dorico (metope e triglifi) Fregio ionico
una a destra seduta su una roccia, e un’altra in piedi a sinistra. Sebbene la loro identificazione sia ancora discussa (Era e Atena?;Teti ed Era?), all’epoca della trasformazione del Partenone in chiesa le due divinità pagane vennero identificate con l’arcangelo Gabriele e la Vergine Maria, e la scena interpretata come l’Annunciazione, circostanza che favorí la sopravvivenza della metopa. Ma come è stato possibile identificare una scena con divinità dell’Olimpo greco con un avvenimento cosí centrale nella storia di Cristo? La posizione delle due divinità, una in piedi rivolta verso l’altra, seduta (seppure seduta su una roccia) è con tutta probabilità alla base dell’identificazione, anche se la dea in piedi non presenta le caratteristiche di un angelo.
albori del cristianesimo gli angeli erano raffigurati in modo molto piú umanizzato e senza ali, tanto da rendere difficile identificarli se estrapolati dal contesto narrativo in cui si trovano inseriti. In questa prima fase erano visti come messaggeri, vestiti di tunica e dall’aspetto giovanile, come si può osservare nella piú antica immagine di un angelo giunta fino a noi, che si trova nelle catacombe di Priscilla, un complesso cimiteriale situato sulla via Salaria, a Roma, in uso tra il II e il V secolo d.C. Qui, nel cubicolo detto appunto «dell’Annunciazione», si
GIOVANI ANDROGINI Se è vero che nella tradizione iconografica cristiana gli angeli sono figure di giovani dall’aspetto androgino, forniti di nimbo e ali piumate, tuttavia occorre ricordare che non sempre è stato cosí. Agli
Frontone
In alto: l’Annunciazione dipinta nell’omonimo cubicolo delle catacombe di Priscilla. II sec. d.C. A sinistra: posizione delle sculture frontonali e dei due fregi del Partenone (447-432 a.C.). Nella pagina accanto: la metopa 32N del fregio dorico del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.
trova un tondo con una figura femminile, in trono, posta a sinistra e una figura maschile in piedi a destra. Datata al II secolo d.C., la scena è stata interpretata come il momento in cui Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesú, secondo una versione del NuovoTestamento. La figura dell’angelo cominciò ad avere caratteristiche sempre piú specifiche solo tra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C., quando assunse l’aspetto di una figura nimbata e alata, dove le ali acquistarono il valore di attributo divino. Alla luce di queste considerazioni appare comprensibile che la scena della metopa 32N sia stata letta in chiave cristiana, dando vita cosí a una «Annunciazione», che in realtà risale a piú di quattro secoli prima della nascita di Cristo. (mara.sternini@unisi.it)
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
DIRETTORI GUIDATI E DIRETTORI CHE GUIDANO Alcuni grandi musei archeologici italiani, da mesi chiusi al pubblico a causa dell’emergenza Covid, per effetto del passaggio in fascia gialla delle regioni in cui ricadono, hanno potuto finalmente riaprire i battenti e accogliere il pubblico in presenza. Cosí, dopo il periodo di chiusura piú lungo dalla seconda guerra mondiale a oggi, istituzioni come il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma, e il Museo Egizio, a Torino – raccolte di primaria importanza per la civiltà etrusca e quella egizia –, hanno potuto «abbracciare» nuovamente i loro visitatori. Nell’occasione, abbiamo intervistato i direttori dei due istituti, Valentino Nizzo e Christian Greco, entrambi classe 1975, che hanno saputo trasformare il lockdown in un’occasione per ripensare e reinventare la comunicazione di quei luoghi, puntando su innovazione e nuove tecnologie per rendere il museo sempre «vicino» al proprio pubblico. Nel primo giorno di riapertura del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, incontriamo il direttore, Valentino Nizzo, che si aggira per le sale emozionato, indaffarato e appassionato… mentre prepara una diretta web per raccontare gli Etruschi ai visitatori virtuali e (finalmente) reali del museo. Direttore, quale sensazione ha provato questa mattina, nel riaprire le porte del museo al pubblico, dopo tanto tempo? «Un’emozione fortissima, ben rappresentata dalla foto che abbiamo voluto condividere sui social nel primo giorno di riapertura: il portone del museo spalancato, con la luce che fuoriesce. Il sole che illumina la rinascimentale Villa Giulia e quella porta finalmente aperta, un simbolo di rinascita e superamento delle difficoltà».
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Quali visitatori si sono presentati il primo giorno di riapertura? «I primi a entrare sono stati gli abbonati, il pubblico piú affezionato: erano lí ancor prima dell’apertura, mi hanno accolto all’ingresso come una comunità, anzi, una famiglia. Siamo stati il primo museo statale a introdurre l’abbonamento (3 o 6 mesi, oppure l’annuale, che costa come due ingressi giornalieri e mezzo).
Quello che viene oggi è il pubblico di prossimità, in questo momento il piú importante. L’abbonamento è un’esperienza che fa sentire il museo come una casa e i visitatori come una famiglia». Tra le forme innovative di comunicazione sperimentate durante il lockdown dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia ci sono le dirette web che lei stesso tiene periodicamente su alcune piattaforme social. Vuole spiegarci meglio che cosa ha escogitato? Che cosa fa un direttore con luci, cavi e telefono cellulare tra i reperti etruschi del suo museo? «Stiamo in diretta per interagire con il pubblico di Twich, un canale social dedicato a giovani, giovanissimi appassionati di videogame. Siamo il primo museo statale autonomo ospite di questa piattaforma web, oggi finalmente
A sinistra: alcuni dei primi visitatori che hanno varcato la soglia del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma, nel giorno della sua riapertura, il 2 febbraio scorso. In basso: il Sarcofago degli Sposi, uno dei capolavori della raccolta di Villa Giulia. Rinvenuto a Cerveteri, lo splendido manufatto è databile intorno al 530-520 a.C. Nella pagina accanto: Valentino Nizzo.
abbiamo anche il pubblico reale, che si può specchiare in quello virtuale. Ci sono molte famiglie e bambini tra i visitatori: durante la diretta un bimbo presente in sala si è fermato a fare domande, interagendo con me e con il pubblico on line. Visitiamo il museo in diretta insieme, soffermandoci su pezzi unici come il Sarcofago degli Sposi, l’Apollo di Veio, la Cista Ficoroni, l’altorilievo di Pyrgi o la tomba del Guerriero di Veio». Ma, invece, che cosa hanno a che fare gli Etruschi con i videogame? «Il museo di Villa Giulia ha collaborato allo sviluppo scientifico del videogame “Mi Rasna”, ovvero “Io sono etrusco”, un gioco on line strategico in cui i partecipanti vivono l’esperienza di gestire una città etrusca e scoprono al tempo stesso il patrimonio custodito nelle decine di istituzioni aderenti. Il museo non solo non ha investito denaro nell’operazione, ma ha
beneficiato di una parte dei proventi che lo sviluppatore del videogioco, Maurizio Amoroso, ha destinato al sostegno delle nostre attività». Quindi, grazie a una sinergia del tutto nuova tra Etruschi e giovanissimi, un videogioco ha contribuito virtuosamente all’economia del museo? «Grazie a una parte degli introiti è stata potenziata la rete wi fi interna, consentendoci di migliorare la qualità delle nostre dirette on line». Il lockdown, in questo senso, è stato davvero un banco di prova per sperimentare strade di comunicazione nuove… «Sí, è stato un modo per trovare nuove forme di comunicazione e potenziare quelle esistenti. Il museo, nella sua fase autonoma (dal maggio 2017), ha “investito” moltissimo (ma a costo pari quasi a zero) nella comunicazione digitale, sviluppando web e social. Siamo presenti su YouTube con il
canale Etruschannel, attivo già prima della pandemia, che oggi ha centinaia di migliaia di visualizzazioni, ore e ore di diretta visibili on line e un numero di follower, cioè “iscritti” – oltre 5500 – che è secondo a quello del Museo Egizio e primo tra i musei statali autonomi». Lei è tornato a dirigere il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia il 25 febbraio 2020, dopo lo stop imposto dalla revoca dell’autonomia del museo, per effetto della riorganizzazione del ministero dei Beni Culturali del 2019. Quindi, ha ripreso la sua attività proprio all’alba del primo lockdown... quali altri strumenti di comunicazione ha ideato, allora, per rimanere vicino al pubblico? «Ricordo come l’8 marzo scorso, la mattina stessa in cui il primo DPCM aveva stabilito la chiusura dei luoghi della cultura, organizzai una diretta on line per raccontare la terribile epidemia che mise in crisi Roma nel 365 a.C. e per fare alcune riflessioni sulla situazione presente. Abbiamo poi cercato di fare ancora di piú, offrendo esperienze tali da favorire il “benessere” e una percezione di normalità nei nostri fruitori virtuali. Nelle nostre dirette web abbiamo reso protagonista il pubblico: i visitatori interagivano con me e tra di loro da casa attraverso la chat, “guidandomi” e sottoponendomi tutte le loro curiosità, senza alcuna limitazione». Le dirette web dal museo di Villa Giulia vengono «costruite» in maniera interattiva dal pubblico on
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PAROLA D’ARCHEOLOGO line, che le porge domande in tempo reale… per questo le chiamate «Dirigi il direttore»? «Esattamente! Credo che siamo uno dei pochi musei, se non l’unico, ad avere sperimentato questa modalità di dialogo con il pubblico. Sicuramente siamo i soli che hanno portato i loro visitatori da casa (mia) al Museo in auto (sempre in diretta) e viceversa in una Roma allora deserta. “Etru-on the road” ha offerto a tutti l’opportunità di conoscere la storia primitiva della città, quella che precede l’impero e arriva fino alle origini della Capitale, immersa nel mito e nella leggenda. Un’esperienza molto apprezzata, che è servita a cementare il legame del museo con il territorio. Ancora oggi, infatti, i Romani faticano a ricordare o percepire come identitario il loro passato etrusco». Le forme innovative di comunicazione sperimentate durante il lockdown sono state messe a frutto quando, poi, il museo ha dovuto chiudere di nuovo al pubblico, lo scorso novembre? «Durante la seconda fase di chiusura, abbiamo messo a frutto la collaborazione scientifica con il regista Matteo Rovere per la supervisione di alcuni dei contenuti archeologici e storici della serie televisiva Romulus, ambientata nell’VIII secolo a.C., alle origini di Roma, cosa piuttosto originale per un museo. La serie è andata in onda a novembre e ne abbiamo “approfittato” per commentarla in diretta con appuntamenti settimanali nei quali abbiamo risposto alle curiosità del pubblico». Quanti visitatori avete perso nell’ultimo anno, a causa della pandemia? «Dalle 85mila presenze annuali del 2019, siamo passati alle circa 25mila del 2020. Abbiamo registrato un calo del 70 per cento,
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indubbiamente inferiore rispetto ad altri grandi musei – come Pompei e Ercolano – che hanno perso oltre l’80 per cento. Molti dei nostri visitatori sono bambini e il Covid ha da questo punto di vista prodotto danni enormi per musei come il nostro». Con le nuove opportunità del web, tuttavia, realizzate anche gite virtuali al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia per classi e intere scuole di bambini, non è vero? «Nell’ultima diretta su Etruschannel abbiamo portato virtualmente in “gita” piú di 50 scuole da tutta Italia, riservando loro un ampio spazio per le domande e compensando in questo modo l’impossibilità di fare dal vivo esperienze di questo tipo. Anche la squadra del Museo si è adoperata per concentrare on line le nostre attività didattiche (nella sezione EtruKids del nostro sito: museoetru.it) o per raccontare le iniziative di restauro e le collezioni, con video dedicati anche ai non vedenti, cosí da migliorare l’accessibilità per tutti i tipi di pubblico, in un racconto a 360 gradi. Da ultimo, con l’obiettivo di rinsaldare ulteriormente il legame con il territorio, abbiamo lanciato la convenzione “Tular Rasnal-Etruschi senza confini”, che può essere sottoscritta da qualunque comune italiano per ottenere sconti dedicati ai residenti su biglietto e abbonamento al museo». Che cosa le hanno insegnato questi mesi di pandemia, per il futuro del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia? «Quello che è accaduto ci ha fatto sperimentare per la prima volta una condizione per molti ordinaria facendoci comprendere cosa vuol dire davvero inclusione. Molte persone mi hanno scritto, anche in diretta, facendomi capire che quell’esperienza, al di là del Covid, era per loro l’unica modalità di fruizione possibile, come se
l’epidemia li avesse finalmente davvero integrati. Questo mi ha insegnato ancor piú di prima quanto siano importanti i valori dell’inclusione e della partecipazione per un museo. Dobbiamo essere in grado di raggiungere tutti, senza mai lasciare indietro nessuno, sempre!». C’erano visitatori emozionati in fila dall’alba, di fronte all’ingresso del Museo Egizio di Torino, il 2 febbraio scorso, quando ha finalmente riaperto le porte al pubblico, dopo i mesi di chiusura imposti dal Covid in questo anno di pandemia. In tutto questo tempo, tuttavia, il museo ha continuato a fare ricerca, anche a porte chiuse, rimanendo in dialogo con il pubblico e con la comunità scientifica grazie alle tecnologie digitali, per divulgare un patrimonio che appartiene all’umanità, come ci racconta Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino... «È stato un anno estremamente difficile. Siamo stati chiusi la prima volta, nel 2020, da marzo a giugno. La seconda per 98 giorni, da novembre a febbraio 2021: in tutto
un’interruzione per sei mesi di quello che è un “servizio pubblico essenziale”. Nei primi giorni del lockdown, lo scorso marzo, ci siamo sentiti disorientati, spaventati. Ma abbiamo fissato subito alcune priorità: sebbene la vita produttiva e sociale di tutti noi fosse stata interrotta, i musei dovevano continuare il loro dovere essenziale: prendersi cura dei reperti. Fin da subito, abbiamo capito di dover approfittare dei mesi di chiusura per mettere ancora di piú al centro dell’attività del museo la conoscenza, la ricerca e la diagnostica. I musei non sono mai stati chiusi, lo è stato solo il servizio al pubblico. Il museo è fatto di donne e uomini che si prendono cura della collezione, studiandola, inventariandola, pubblicandola». La ricerca, dunque, nei laboratori del Museo Egizio di Torino, è proseguita anche in tempo di Covid. In quale modo siete riusciti a rimanere vicino al pubblico, invece, in questi mesi difficili? «Molti visitatori ci scrivevano che erano tristi di non poter venire, noi ci chiedevamo come raggiungere il pubblico a casa. Abbiamo cercato di tradurre i contenuti fisici in modo digitale e trasformato le “Passeggiate del Direttore”, che io personalmente svolgevo già dal 2014 all’interno del Museo Egizio, una volta al mese, dopo l’orario di chiusura, per 30 persone, in “passeggiate digitali”, che hanno raggiunto un bacino d’utenza molto piú ampio, di oltre un milione di persone. Il primo giorno di chiusura del museo, nel marzo 2020, registrai otto ore di “Passeggiate del Direttore” che abbiamo segmentato in 56 puntate on line, preregistrate come pillole illustrate, che sono andate in onda sul web durante tutto il periodo di chiusura, fino a giugno». Quindi le «Passeggiate digitali del Direttore» hanno raggiunto piú
A destra: visitatori del Museo Egizio nel giorno della riapertura. In basso: la Galleria dei Sarcofagi. Nella pagina accanto: Christian Greco.
pubblico di quelle reali… mentre il canale YouTube del Museo Egizio registra i numeri piú alti in assoluto in termini di iscritti (oltre 14mila). E come è stato incontrare di nuovo il pubblico dal vivo, con quest’ultima riapertura del museo? «Dopo la piú lunga chiusura del museo dal secondo conflitto mondiale, abbiamo voluto restituire gratuitamente il museo alla collettività, anche alla luce delle convinzioni maturate in questo anno di Covid: la prima settimana di febbraio è stata gratuita per tutti. Va ripensato il sistema dei musei, che sono la casa di tutti gli Italiani. Il museo appartiene alla collettività. In questo momento la nostra a vita è spogliata di ciò che la rende vita, senza parchi archeologici, cinema, concerti, incontri e scambi di idee anche con colleghi.
Ci siamo resi conto con ancora maggiore convinzione di quanto la cultura materiale, i frammenti di memoria che si sono preservati dal passato siano una parte essenziale della nostra vita. Il museo è un luogo in cui sentirsi cittadini, in cui riconoscersi. I musei sono un’“enciclopedia materiale” del nostro passato: non poterli visitare è come non avere piú accesso alla propria biblioteca personale di casa. Per questo ci sono mancati tanto. I musei sono di tutti, non solo dei turisti». Che tipo di pubblico è venuto a trovarvi, alla riapertura? «Alle 9 di mattina del 2 febbraio è entrata una signora che mi ha detto di aver messo la sveglia alle 6 perché voleva assolutamente tornare al Museo Egizio. Ci ha riempito di gioia il fatto che in poche ore, appena si è diffusa la notizia che avremmo riaperto al pubblico, i biglietti sono andati esauriti. Abbiamo sentito la vicinanza e l’affetto dei visitatori che ci chiedevano quando potevano ritornare nelle sale del museo. Tuttora, molte persone da regioni lontane ci chiedono se, come Museo Egizio, possiamo rilasciare una certificazione per autorizzare lo spostamento perché “è una necessità”. Abbiamo un pubblico variegato, va molto bene il “biglietto famiglia” e noto che l’età anagrafica dei visitatori si è
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Un particolare dell’allestimento di «Archeologia invisibile», una delle piú recenti esposizioni temporanee realizzate dal Museo Egizio di Torino.
abbassata. In questi primi giorni di riapertura sono stato spesso in sala e ho chiesto ai visitatori chi fossero. Molti sono studenti universitari, che finalmente possono fare qualcosa in presenza, in un anno in cui è mancato loro il confronto con i reperti ma anche con gli altri studenti: spesso vengono in piú i colleghi e si soffermano a lungo. L’oggetto archeologico crea una rete e un dialogo». Quindi adesso sono ricominciate le «Passeggiate» in presenza del direttore, al Museo Egizio? «Sí, ora mi intrattengo la sera con 12 visitatori, una volta al mese, e dialoghiamo, faccio vedere loro una sala, racconto i progetti di ricerca. È vero che durante il lockdown abbiamo reso digitali le “Passeggiate del Direttore”, ma il risultato è stato che, non appena sono ripartite quelle in presenza, i visitatori sono venuti anche dalla Puglia e dalla Calabria. Ciò significa che la visita in presenza non è sostituibile, è un’esperienza preziosa. Il museo digitale deve esistere, ma non come surrogato, bensí come strumento complementare al museo fisico». Quindi, come immagina il museo del futuro? E come si possono sfruttare al meglio le possibilità offerte dal digitale? «Noi eravamo già pronti sul fronte tecnologico: sul sito web del Museo Egizio ci sono 3800 oggetti, con foto e informazioni. Proprio quest’anno abbiamo ottenuto il
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premio di Europa Nostra per la ricerca, per lo sforzo da noi intrapreso con la TPOP (Turin Papyrus Online Platform) nel fornire un accesso pubblico alla collezione di papiri che vengono “esposti virtualmente” con foto, traslitterazione, traduzione e commento. C’è un progetto, partito già prima della pandemia, con il Politecnico di Milano, per la trasformazione digitale del museo. Negli ultimi tre anni abbiamo digitalizzato tutto l’archivio fotografico, mettendolo in relazione con le notizie e le informazioni che ci sono pervenute circa gli scavi, le modalità di rinvenimento, le analisi sugli oggetti, i confronti e i legami con altre collezioni. Nel futuro, grazie al digitale, potremo dare vita al “museo egizio impossibile”, ovvero superare la separazione dell’oggetto dal paesaggio e mettere in risalto le connessioni tra i reperti archeologici, che assumono valore solo se ricontestualizzati. In un museo egizio del futuro – che non potrà mai esistere nella realtà fisica – per esempio, mettendo in relazione i nostri oggetti con quelli dei principali musei europei e del Cairo, potremmo fare una passeggiata nel villaggio di Deir el-Medina, presso Luxor, e notare la stratificazione dovuta alla successione dei periodi storici che hanno profondamente modificato il paesaggio nei secoli. La prossima sfida a lungo termine
è quella di cambiare completamente l’idea del museo: il valore aggiunto non può piú essere il biglietto, il museo dev’essere gratuito per tutti». Se i musei fossero sempre gratuiti per tutti, come il British Museum di Londra, per esempio, e come lei stesso auspica, come si potrebbero sostenere, senza l’introito dei biglietti? «Mettendo la ricerca al centro e sviluppando bandi europei, facendo connessioni tra università, musei e luoghi della cultura, puntando sulla formazione per le scuole, ma anche per le aziende. Se si fa un discorso integrato, è possibile. È necessario sviluppare una modalità di offerta diversa, che comprenda il know how scientifico del museo. La collezione di un museo appartiene alla Repubblica e noi ne siamo solo i meri custodi, per questo deve essere aperta a tutti. Il museo, poi, svolge la sua funzione sviluppando contenuti scientifici sempre nuovi, trovando forme innovative che permettano una maggior comprensione delle collezioni. Insomma, può sempre piú diventare un laboratorio di innovazione che trova proprio nella ricerca e nella sua funzione educativa la sua finalità e fonte di sostentamento. Bisogna rimettere la ricerca al centro: comunicare non significa abbassare i contenuti per allargare il pubblico, ma il contrario. Dobbiamo ripartire dai nostri articoli scientifici e fare ricerca con sociologi, pedagoghi, filosofi, per capire come rendere partecipe la collettività di alti contenuti scientifici. Mi auguro non solo che milioni di turisti stranieri tornino al Museo Egizio, ma soprattutto che 60 milioni di Italiani si possano riappropriare del loro patrimonio, come recita l’articolo 9 della Costituzione, che affida proprio alla res publica la tutela del patrimonio e la ricerca tecnico-scientifica».
MULTIMEDIALITÀ Virtual Tour Emozionale
UN NUOVO STRUMENTO PER I MUSEI VIRTUALI i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
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egli anni scorsi, e ancor piú durante il recente lockdown, molti musei hanno pubblicato on line esperienze digitali che hanno sfruttato i cosiddetti Virtual Tour a 360° per simulare l’esperienza di visita reale. L’utente si trova immerso nella fotografia di una stanza del museo che gli permette di osservare in qualsiasi direzione, a 360° appunto. In sovraimpressione compaiono icone sensibili, dette «hotspot», che, se cliccate, faranno apparire finestre informative con contenuti multimediali. Sono inoltre presenti frecce di spostamento, che permettono di passare da una panoramica a un’altra, simulando una camminata tra le sale. Questa tecnologia è stata resa molto famosa da Google Maps, che permette di spostarsi tra le vie di una città proprio nello stesso modo e di farlo utilizzando uno smartphone, un tablet o un computer. Ma che cosa manca, solitamente, in queste esperienze? Non è presente una narrazione, tanto meno emotiva, che ci fa apprezzare una visita quando abbiamo con noi una guida preparata e che ci coinvolge con il racconto di dati storici, ma anche dei sentimenti e delle sensazioni che li avvolgono da secoli. Ecco la vera novità introdotta dal VirtualTour Emozionale (VTE), una piattaforma di creazione, gestione e pubblicazione dei VirtualTour
implementata da una serie di possibilità incredibili per chi necessita di uno storytelling interattivo. Facciamo qualche esempio. L’utente può scorrere le panoramiche da un punto preciso a un altro, simulando l’azione della guida reale che orienta l’attenzione della sala da uno specifico angolo a un altro. L’aggiunta di un commento vocale, in piú lingue, renderà questa esperienza simile a un video di introduzione alla visita. Ma se volessimo vedere «di persona» la guida che ci sta parlando? Questa è una delle novità piú utili dello storyteller, perché è possibile filmare interamente una persona per poterla poi far comparire (con la tecnica «green screen») quasi magicamente, nei punti e nei momenti piú utili alla narrazione. Cosí il nostro «Cicerone» virtuale apparirà quando previsto nella storia, oppure a comando, per spiegare vis-à-vis i contenuti di quella teca o sala. Inoltre, a richiesta, è possibile aggiungere un livello di gamification all’esperienza di visita: per esempio, il nostro «Cicerone» ci chiederà di individuare oggetti specifici esposti e per ogni scelta attribuirà un punteggio; oppure, in caso di risposta positiva, ci permetterà di proseguire. E se volessimo esporre la replica 3D di un oggetto? Nulla di piú facile. A uno degli hotspot si può collegare una pagina web specifica con un visualizzatore di modelli 3D e l’utente potrà far ruotare nelle proprie mani virtuali il modello 3D replicato. Ma queste sono solamente alcune delle funzionalità avanzate dei Virtual Tour Emozionali, mentre tutte le procedure di aggiornamento rimangono rapide, facili e modificabili direttamente dall’ente, comprese la correzione e ampliamento dell’esperienza virtuale. «7emezzo.biz» e «No Real Interactive» sono le aziende che forniscono tutto il servizio di virtualizzazione, dalle riprese fotografiche in altissima definizione (fino a 32k), alla costruzione del database a supporto del VTE, fino alla realizzazione dell’interfaccia utente e, non ultimo, la replica 3D dei reperti esposti. a r c h e o 25
n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
SPLENDORI FARAONICI Il viaggio alla scoperta dei luoghi sacri del mondo antico tocca in questo numero l’Egitto, soffermandosi su Tebe, che racchiude il gioiello di Karnak, uno dei piú maestosi luoghi di culto d’ogni tempo (vedi alle pp. 72-88). Nel suo articolo, Francesca Iannarilli ci fa rivivere l’importanza e la grandiosità delle divinità dell’epoca nei rapporti con i potenti faraoni e con l’intera popolazione. Qui la narrazione si arricchisce dal punto di vista visivo, mostrando una parte del materiale filatelico che riguarda il complesso di Karnak, lungo la riva destra del Nilo (1, cartolina degli inizi del Novecento) e alcuni dei faraoni che ne fecero la storia. Tutto ebbe inizio con la XII dinastia, nel segno del dio Amon (2), quando il sito di Tebe (3), divenne il centro politico e religioso dell’Egitto soprattutto sotto Sesostri I (4), che diede avvio alla costruzione del grande tempio di Amon a Karnak, di cui mostriamo alcuni particolari, come la selva di colonne (5) e i magnifici capitelli (6). Il tempio di Amon, in una veduta panoramica (7), viene continuamente arricchito con un doppio portale (8) da Amenofi I, con un secondo pilone da Horembeb (qui con il dio Amon, 9) e da Tuthmosi III (10). Il suo successore, Tuthmosi IV (11), fa erigere l’obelisco «unico» in granito rosa oggi posizionato in piazza di San Giovanni in Laterano a Roma (12). L’intera struttura del complesso di Luxor-Karnak viene usata dai faraoni per lasciare il proprio ricordo tramite geroglifici e statue. Anche il grande Ramesse II non fu da meno e lasciò un enorme ritratto in granito rosa, poi «usurpato» dal faraone Pinedjem della XX dinastia, e altre statue (13), nonché due obelischi, uno dei quali è ancora in situ (14), mentre l’altro si trova oggi in place de la Concorde a Parigi (15).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
AVVISO AI LETTORI Italia Questo Calendario è stato redatto in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19 emanate dalle autorità nazionali e locali. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.
ROMA Pompei 79 d.C.
MILANO Sotto il cielo di Nut
Una storia romana Colosseo fino al 09.05.21
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 28.03.21
Napoleone e il mito di Roma
Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 30.05.21
Qhapaq Ñan
La grande strada Inca MUDEC-Museo delle Culture fino al 25.04.21
NAPOLI Gli Etruschi e il MANN
I marmi Torlonia
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.06.21
Gladiatori
L’eredità di Cesare e la conquista del tempo Musei Capitolini fino al 31.12.21
ODERZO L’anima delle cose
Piranesi
Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico sospesa
Rilievo con scene gladiatorie
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo- Museo Archeologico Eno Bellis fino al 30.05.21
Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica sospesa
BOLOGNA Etruschi
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21 (dall’08.03.21)
Un videomapping proiettato sui Fasti Capitolini.
UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22
FIRENZE Imperatrici, matrone, liberte
Volti e segreti delle donne romane Galleria degli Uffizi fino al 09.05.21
Paesi Bassi
Tesori dalle terre d’Etruria
La collezione dei conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21 28 a r c h e o
LEIDA I templi di Malta Ritratto di matrona romana.
Rijksmuseum van Oudheden fino al 29.08.21 (dall’08.04.21)
La Grotta di Velika, presso Savogna (Udine).
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LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
LA BELLEZZA nel mondo antico di Eugenio De Carlo e Massimo Vidale
Pompei, Villa dei Misteri. Particolare degli affreschi della Sala della Megalografia raffigurante una giovane donna che viene pettinata. I sec. a.C.
IN EDICOLA
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in dagli inizi dell’umanità, la cura del proprio aspetto e il raggiungimento dei traguardi posti dai canoni di bellezza hanno fatto parte delle preoccupazioni dell’universo femminile, ma anche di quello maschile. Nel tempo, però, i modelli a cui si aspirava sono mutati e, soprattutto, sono stati elaborati in forme diverse dalle grandi civiltà del mondo occidentale e di quello orientale. La nuova Monografia di «Archeo» esplora dunque questo universo affascinante, è il caso di dirlo, a cominciare dal passato piú remoto, quando i nostri antenati del Paleolitico e del Neolitico scolpirono nella pietra o plasmarono nell’argilla le figurine note come «Veneri». Come spiegano gli autori, soprattutto per quelle epoche cosí lontane, è difficile stabilire cosa fosse considerato «bello», mentre il discorso si fa piú agevole scendendo nel tempo, quando alle testimonianze materiali si affiancano le notizie tramandate da letterati e poeti. Parallelamente, Eugenio De Carlo e Massimo Vidale illustrano il variopinto mondo della cosmesi, svelando come in Egitto, in Grecia e a Roma, passando per la Mesopotamia e la Persia e l’India, fossero state scoperte e utilizzate sostanze sempre piú raffinate (cosmetici, unguenti e profumi) e inventate tecniche e discipline fisiche (alcune paragonabili alle nostre ginnastiche di fitness), atte a valorizzare le proprie doti di bellezza. Si potrà cosí constatare quanto notevole fosse il bagaglio di conoscenze accumulato in secoli di sperimentazioni, basate sulla sorprendente conoscenza delle proprietà chimiche e fisiche di una vastissima gamma di materie prime. Già allora, potremmo dire, la bellezza era una dote concessa a molti dal destino, ma esaltata, spesso, dall’artificio.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Arbitrio, bellezza e cultura • PREISTORIA • Comunicare col volto • EGITTO • Colori e bagliori nell’oscurità • NEFERTITI • La piú bella d’Egitto •V ICINO ORIENTE • Tutti pazzi per la Dama di Warka • GRECIA E ROMA • Bellezza e cosmesi nelle parole degli autori
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L’INTERVISTA • STORIA ROMANA
QUATTORDICI ANNI CHE SCONVOLSERO IL MONDO I CONFLITTI VERIFICATISI DOPO L’ASSASSINIO DI GIULIO CESARE FURONO, DAVVERO, SOLTANTO «GUERRE CIVILI»? IN UN LIBRO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE, GIUSTO TRAINA RIESAMINA LE FONTI – ANTICHE E MODERNE – INTORNO AGLI AVVENIMENTI SVOLTISI TRA IL 44 E IL 30 A.C. E NE RISCRIVE LA STORIA. ABBIAMO INCONTRATO L’AUTORE ... di Silvia Camisasca
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rofessore ordinario di storia romana alla Sorbona di Parigi, Giusto Traina conserva il suo legame con l’Italia, dove nel 2020 ha pubblicato La storia speciale. Perché non possiamo fare a meno degli antichi romani (Laterza) e, con Aldo Ferrari, una Storia degli armeni (il Mulino). Nel suo nuovo libro, La guerra mondiale dei Romani, che uscirà in Francia nel prossimo autunno (per i tipi di Fayard), racconta la storia delle ultime guerre civili della repubblica, dall’assassinio di Giulio Cesare, nel 44 a.C., alla vittoria finale di Ottaviano (non ancora Augusto) nel 30 a.C. ♦ Professor Traina, lei insegna nel Paese di Fernand Braudel, ma sembra poco interessato alla longue durée di cui l’insigne storico fu uno dagli alfieri (tale definizione, coniata dalla scuola delle Annales, indica un approccio che dà la priorità alle strutture storiche di lunga durata, appunto, piú che agli eventi, n.d.r.): il suo libro di maggior successo (428 dopo Cristo: storia di un anno, Laterza, 32 a r c h e o
2007) è centrato su un singolo anno della tarda antichità e anche nella Guerra mondiale dei Romani si occuperà di un periodo di soli quattordici anni. Quali sono le ragioni di queste scelte? «Il 428 d.C. è un anno anonimo, ma solo in apparenza. Gli eventi verificatisi in quell’anno, e che io riassumo ed esamino, non sono epocali, eppure prefigurano quello che possiamo definire il tramonto dell’impero romano o, se si preferisce, l’alba del Medioevo. Invece questa volta intendo narrare quattordici anni che sconvolsero il mondo: non a caso, generazioni di antichisti si sono misurati con questo periodo». ♦ Come mai, accantonando la sua predilezione per i margini della storia, ora ha deciso di studiare un tema «classico» e ampiamente trattato, come quello delle guerre civili romane? «Nel mio percorso di cultore di storia antica – per questi studi sono in pochi a meritare la qualifica di “storico” – i margini hanno avuto effettivamente ampio spazio. Le mie
ricerche hanno avuto inizio dalle aree periferiche, o, se vogliamo, dalle paludi e dai boschi, quando tutt’attorno era un fiorire di studi sulle bonifiche, reali o presunte, e sulle centuriazioni, le divisioni geometriche dei territori di pianura. Ho poi lavorato sulle crisi causate dalle calamità naturali e, sottolineo, non dalle catastrofi: per quanto distruttivo, infatti, un terremoto non è assimilabile a un Big Bang. Ho poi studiato, e studio tuttora, realtà lontane dal Mediterraneo – e soprattutto dagli interessi degli antichisti –, come l’Armenia. Per uno storico dell’antichità, occuparsi dei margini comporta rischi e vantaggi. Tra i primi, il principale è quello di finire tra gli storici marginali, esclusi dal dibattito mainstream e con uno scarso impact factor, se mi perdonate l’anglicismo (l’impact factor è il punteggio che indica il valore e il prestigio di una rivista scientifica e, di conseguenza, degli articoli che vi sono pubblicati, n.d.r.).Tra i secondi, il piú evidente è quello di poter dialogare direttamente con le fonti senza misurarsi con bibliografie sterminate e spesso ripetitive, a differenza di chi intende proporre una nuova interpretazione della crisi politica nell’Atene del 411 a.C., o di chi sceglie di scrivere il profilo aggiornato di un celebre imperatore romano. Detto questo, studiare i margini in quanto tali non ha molto senso; prima o poi occorre maturare le conoscenze acquisite, e metterle a frutto per comprendere meglio le “centralità” della storia. Le guerre civili della fine della repubblica si prestano molto bene a esemplificare la sfida che la storia globale pone agli storici dell’antichità». ♦ In altre parole, lo storico romano è condizionato da testi romano-centrici? «Nel XXI secolo, chi si occupa di storia moderna e contemporanea conosce bene la posta in gioco che comporta una prospettiva internazionale, transnazionale o anche transregionale. Gli antichisti sono invece ostacolati, fin da subito, dalla scarsità di fonti, a loro volta essenzialmente concentrate sul punto di vista dei Greci e dei Romani. A mio parere, tutti gli eventi della storia romana andrebbero rivisti in una prospettiva globale, e ciò vale in particolare per un’epoca come quella della fine della repubblica, quando l’intero Mediterraneo non era ancora un “lago romano”. Ma le fonti romane hanno tramandato una storia autoreferenziale, che emargina le gentes esterne, quando non le cancella del tutto. Cosa sappiamo del punto di vista dei Berberi, degli Ispani, dei Galli? Poco o nulla. Qualcosa in piú è stato tramandato dalle tradizioni ebraica ed egizia, ma la maggior parte delle fonti sul periodo dal
Ritratto in scisto verde di Giulio Cesare. Prima metà del I sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlungen. Nella pagina accanto: Giusto Traina. a r c h e o 33
L’INTERVISTA SCAVI • ROMA • STORIA ROMANA
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44 al 30 a.C. consegna l’immagine di una guerra di fazioni, dove gli alleati stranieri sembrano assistere a una tragedia interamente giocata tra Romani, tranne quando questi combattono contro nemici o ribelli barbari. In una documentazione relativamente ricca, almeno rispetto ad altri periodi della storia antica, le fonti letterarie mettono in luce le azioni militari e diplomatiche dei Romani lasciando nell’ombra quelle dei non Romani: il ruolo di questi ultimi è ridotto, se non inesistente, mentre gli eventi di questo periodo furono visti come una lunga, pressoché ininterrotta guerra civile. Anche lo scontro finale di Azio e Alessandria fra il 31 e il 30 – tecnicamente, una guerra contro l’Egitto – venne presentato in questi termini. La fine di Antonio e Cleopatra, che Orazio celebrava con il famoso invito a brindare (nunc est bibendum), segnò la fine delle guerre civili: nel suo compendio di storia romana, scritto ai tempi dell’imperatore Adriano, Lucio Anneo Floro spiega che, a partire da questo momento, i Romani combatterono solo contro popoli esterni. La preoccupazione di dimostrare che l’età triumvirale era soprattutto un periodo di guerre civili – mentre i
♦ Occorre dunque capovolgere la prospettiva delle guerre civili? «Il piú bel libro mai scritto sul passaggio dalla repubblica al principato è La rivoluzione romana (1939) di Ronald Syme, storico raffinato quanto autorevole. Quest’opera, che per altri versi è un capolavoro della storiografia del Novecento, sorvola ampiamente sulle vicende dei non Romani, nonostante Syme fosse perfettamente a conoscenza delle vicende militari. Farò solo un esempio: fin dalla sconfitta di Carre, nel 53 a.C. (località della Mesopotamia, oggi in Turchia, dove
Nella pagina accanto: soldati romani in un particolare del Mosaico del Nilo di Palestrina, dal santuario della Fortuna Primigenia. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
In basso: calco di un rilievo raffigurante una nave romana carica di armati, dal santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina. Albenga, Museo Navale Romano.
conflitti esterni erano limitati a situazioni episodiche – dipendeva dalla tradizionale divisione tra guerre civili e guerre esterne. Tale distinzione, peraltro, poneva problemi anche agli stessi Romani. Del resto, già la guerra civile immediatamente anteriore, quella fra Cesare e Pompeo, si era svolta all’interno di un quadro internazionale, dalla Spagna all’impero partico. Non a caso, nel poema composto da Lucano (in età neroniana) su questo conflitto, il poeta parla di “bella (…) plus quam civilia”, guerre (…) piú che civili».
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L’INTERVISTA • STORIA ROMANA
Crasso fu sconfitto e poco dopo ucciso dai Parti guidati dal nobile Surena, n.d.r.), erano stati fatti enormi sforzi, sia militari che diplomatici, per scongiurare i movimenti dell’impero iranico dei Parti, che cercarono a piú riprese di occupare la provincia romana di Siria e controllare i territori limitrofi. Infine, approfittando dell’ennesima guerra civile (quella di Perugia, tra il 41 e il 40 a.C.), i Parti lanciarono una devastante offensiva non solo contro la Siria, ma anche contro l’Asia Minore. La campagna venne affidata al principe ereditario, Pacoro, mentre alla testa dell’esercito anatolico si trovava un romano, figlio di un ex luogotenente, poi strenuo avversario di Cesare, Quinto Labieno: costui era stato inviato da Bruto e Cassio come ambasciatore alla corte partica, dove poi era rimasto e dove tentò di imporsi come “signore della guerra”. Commenta Ronald Syme: “Enormi furono il danno e il disonore, ma il dominio dei nomadi era destinato a essere passeggero”. Da questa frase traspare tutto il disprezzo per i “barbari” di un fiero rappresentante delle élites coloniali di Sua Maestà Britannica (Syme era originario della Nuova Zelanda). Per ragioni analoghe, Syme presenta il conflitto di Ottaviano contro Antonio e Cleopatra come l’episodio finale del lungo periodo di guerre civili. L’enfasi degli autori augustei sul presunto scontro fra Oriente e Occidente è liquidata come un espediente propagandistico: “La condotta politica e le mire di Antonio o di Cleopatra non furono la vera causa della guer ra di Azio; furono solo un pretesto nella lotta per il potere, la splendida menzogna su cui fu costruita la supremazia dell’erede di Cesare e la rinascente nazione Statua eroica di rango militare in marmo, dal teatro di Cassino (Lazio). Metà del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 36 a r c h e o
italiana. Eppure, con tutto ciò, ben presto la contesa assunse l’aspetto solenne di una guerra di ideali, di uno scontro fra Oriente e Occidente. Antonio e Cleopatra sembrano ora povere pedine nel gioco del destino”. Di fronte alla potenza dello storytelling (perdonatemi l’ulteriore anglicismo) di Syme, è arduo ribattere in modo ugualmente convincente. Ma stiamo parlando di uno storico vissuto nel “secolo breve”, educato in un mondo di nazioni, colonie e protettorati, dove gli imperialismi europei rappresentavano la civiltà contro la barbarie. Se per certi versi ha demolito la vulgata tramandata dalle fonti, in particolare nel suo impietoso trattamento di Ottaviano/Augusto, non possiamo pretendere da Syme una prospettiva post-coloniale. Per lui sarebbe stato impensabile rivalutare l’importanza della potenza egiziana e, soprattutto, l’abilità politica di Cleopatra, una regina dai molti talenti, non ultimo il dono delle lingue, che le permetteva di trattare con numerosi popoli senza r icor rere all’interprete. Se pensiamo che Ottaviano non era capace di esprimersi perfettamente neanche in greco, non è difficile trarne le debite conclusioni». ♦ A questo proposito, qual era il grado di comunicabilità tra i Romani e il mondo esterno? «Alla fine del I secolo a.C., l’aristocrazia romana è bilingue: chi poteva permetterselo, mandava i figli a studiare in Grecia. Naturalmente, in un mondo vasto quanto quello romano, per lingue piú esotiche non mancavano gli interpreti; inoltre, molti individui erano diventati poliglotti per ragioni professionali, per esempio i mercanti, o perché costretti a diventare tali, come gli schiavi catturati come bottino di guerra. Gli stessi conquistatori romani, pur non
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Asia 133
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Mar Rosso
Province romane e data di conquista Battaglie e date
Cartina dei territori assoggettati da Roma fino all’età di Giulio Cesare. Province romane
Alleati di Roma Asia Confini del133 regno e data di conquista di Pergamo nel 133 a.C.
Zona d’influenza di Pompeo
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Battaglie e date Alleati di Roma
e annessioni dal 120 al 58 a.C. Zona d’influenza di Cesare sentendoConquiste il bisogno di vantarsene, sapevano “conosceva la loro lingua alla perfezione”, che Confini del regno Conquiste Cesaredei «barbari». Zona d’influenza di Crasso esprimersi nelledi Giulio lingue aveva evidentemente appreso combattedi Pergamo nel 133quando a.C. Prendiamo l’esempio, per restare nel periodo va in Gallia con Cesare. E non doveva essere delle guerre civili, della morte di Decimo Bruto, l’unico: non è escluso che anche Antonio, un vittima illustre di questa concatenazione di con- altro veterano della guerra gallica, fosse in grado flitti. Nel 43 a.C., incalzato dalle truppe di Mar- di interagire direttamente con i Galli. Questo co Antonio, Decimo aveva finito per rinunciare particolare, però, interessava poco ai Romani, alla battaglia e, abbandonato gradualmente dai che non si vantavano di padroneggiare il linsuoi uomini, cercava di spostarsi dalla Gallia guaggio dei barbari: non a caso, Appiano era verso oriente, dove già si trovavano Marco Bru- originario di Alessandria, e quindi piú sensibile to e Cassio. Rimasto con un pugno di fedeli alle vicende dei popoli stranieri. ausiliari gallici, si travestí da Gallo ma, giunto Va detto che questi scambi linguistici non erano alle pendici delle Alpi occidentali, fu catturato a senso unico: le aristocrazie galliche sapevano a dai Sequani (o, piú probabilmente, dagli Elvezi). loro volta esprimersi con i conquistatori, in latino Il loro capo, Camilo, riconobbe il prigioniero e o piú probabilmente in greco, e i loro rampolli finse di trattarlo con cordialità, ma nel frattem- andavano a studiare a Marsiglia, fondata nel 600 po avvisò Antonio, che ordinò di ucciderlo e di a.C. da coloni greci originari dell’Asia Minore. mandargli la sua testa. Nella versione dei fatti Probabilmente uno degli studenti piú illustri fu dello storico Appiano (II secolo d.C.) emerge un Pompeo Trogo, un Gallo della comunità dei Vodettaglio di grande interesse: Decimo Bruto conzi, autore di una storia universale in latino di
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L’INTERVISTA • STORIA ROMANA
cui resta un’epitome redatta da un tal Giustino. Combattendo per Pompeo, il nonno di Trogo aveva ottenuto la cittadinanza romana, e i suoi figli avevano continuato a battersi come ausiliari: uno in Oriente, sempre con Pompeo contro Mitridate, mentre suo fratello, il padre di Trogo, fu segretario di Cesare in Gallia. All’epoca, i dirigenti romani erano bilingui, e del resto il greco non serviva solo a comunicare con i Greci e gli Orientali: si trattava infatti di una lingua tecnica, in cui si scrivevano i manuali, anche militari, e il cui uso potremmo paragonare, per certi versi, a quello attuale dell’inglese».
un canale che univa i due mari. Strabone ricorda, inoltre, che il “divino Cesare”, cosí chiamato per distinguerlo da Cesare Ottaviano, aveva progettato una campagna contro di lui. Burebista aveva concluso un trattato di amicizia con Pompeo e aveva parteggiato per lui durante la guerra civile. Cesare era noto per la sua clemenza, ma certi affronti non li dimenticava. Sempre da Strabone sappiamo, infine, che Burebista, prima della spedizione contro i Daci, venne ucciso in una congiura che determinò il crollo della confederazione getico-germanica. È altamente probabile che la congiura fosse stata fomentata dai Romani, e certo questo avvenne dopo l’assassinio di Cesare, ma non sappiamo in quale anno. Come ricordavano ancora Cassiodoro e Giordane nel VI secolo, nei Balcani Burebista era celebrato come un guerriero piú forte di Cesare, in quanto aveva difeso i Germani dalle scorrerie dei Goti, soggiogandoli. Piú che di Goti, si trattava, probabilmente, degli Sciti, i nomadi iranofoni della steppa: gli storici tardo-antichi – quali Cassiodoro, appunto, e il bizantino Giordane – chiamavano cosí i Goti, con un nome dal sapore erodoteo, che dava un tono classicheggiante alle loro opere».
♦ Nel suo ultimo libro, lei sostiene che l’Oriente continua a essere il «grande sconosciuto», noto soprattutto grazie al racconto degli «occidentali» dell’epoca... «In Oriente c’era l’impero dei Parti, di cui non potremmo peraltro ricostruire la storia senza le fonti “occidentali”. Quelle orientali sono infatti ben piú avare di informazioni; le testimonianze sugli Arsacidi, la dinastia che governò l’impero partico per quasi cinque secoli, sono state filtrate dalla storiografia dei Sasanidi, la dinastia persiana che li aveva spodestati nel III secolo d.C., mentre quella araba medievale, che, a propria volta, rielaborò le fonti persiane, presenta il dominio degli Arsacidi come una parentesi tra Alessandro Magno e i Sasanidi. Di questo ha risentito anche la storiografia armena, che si sviluppò a partire dal V secolo d.C., rielaborando cronache greche e siriache, ma anche tradizioni orali armene. Qualcosa racconta Flavio Giuseppe, che si concentra sul rapporto fra Roma e gli Ebrei e sulla biografia di Erode, un personaggio ambizioso, che ottenne il diadema regale grazie all’interessamento di Antonio e Ottaviano. Altri indizi interessanti si trovano nella Geografia di Strabone, un autore greco proveniente da una nobile famiglia del Ponto, che aveva scritto un’opera storica oggi perduta, di cui la Geografia era una sorta di complemento. Senza Strabone, per esempio, sapremmo ben poco di un grande re come Burebista, che era riuscito a unifica- Tetradramma di re varie tribú balcaniche, creando una confe- Mitridate III, derazione che aveva fermato i progetti roma- re del Ponto. ni per controllare la penisola balcanica e 250-185 a.C. unire l’Adriatico al Mar Nero: del resto, fin Berlino, Altes dal IV secolo a.C., i Greci favoleggiavano di Museum. 38 a r c h e o
♦ I nsomma, la dimensione orientale della storia antica è ancora da esplorare... «Come del resto è largamente inesplorata la dimensione globale della storia greca e romana. Quando Cesare fu assassinato, era appunto in procinto di partire per una lunga campagna in Oriente che prevedeva due fasi: la prima contro i Daci, la seconda contro i Parti». ♦ Le chiedo, a questo punto, quale rapporto avessero i Romani con la geografia? «Come ricorda Strabone nella parte introduttiva della Geografia, le peggiori sconfitte subite dai Romani dipesero proprio dalla scarsità di informazioni geografiche. Comandanti come Pompeo e Cesare ne erano ampiamente consapevoli, e fecero il possibile per colmare queste lacune.Tuttavia, la maggior parte delle operazioni sul campo erano condizionate da intermediari stranieri: alleati, ausiliari, disertori. Ovviamente, Cesare sapeva benissimo che, per dominare il mondo, non ci si poteva piú accontentare di informazioni spesso tratte da testi superati. Uno scritto tardo-antico, tramanda-
toci insieme alla Cosmographia di Giulio Onorio, riporta una notizia che non vi è motivo di considerare infondata: all’inizio del 44, il dittatore affidò a quattro eruditi greci, forse alessandrini, l’incarico di redigere una descrizione del mondo conosciuto. Ognuno di questi dotti – Nicodemo, Didimo, Teodoto e Policleto – era responsabile di un settore corrispondente a uno dei quattro punti cardinali: dovevano quindi esplorare il mondo conosciuto sulla base di una mappa mundi che differiva da quella tradizionale di Eratostene. Quest’ultima, infatti, divideva l’oikoumene (la “terra abitata”) nei tre continenti di Europa, Asia e Africa, ed era piú simile a quello che si può desumere dalla prima opera di geografia composta in latino, scritta meno di un secolo dopo: la Chorographia di Pomponio Mela. L’esplorazione del mondo da parte dei quattro saggi si sarebbe quindi svolta secondo la logica geografica dei trionfi di Cesare, e non sulla base del modello della divisione in tre continenti, che dominava la geografia antica. Questa storia ben si sposa con lo sviluppo della cultura scientifica a Roma in questo periodo, ma, soprattutto, riflette chiaramente il carattere visionario delle mire di Cesare che, molto sensibile agli aspetti geopolitici, aveva ideato una vera e propria Grand Strategy per coronare le sue ambizioni di conquista». ♦ La morte di Cesare pose quindi fine al suo progetto orientale, che del resto non tutti guardavano con lo stesso ottimismo del dittatore... «Infatti: a poche settimane dal cesaricidio, Cicerone comunicò al suo grande amico Attico le preoccupazioni sulle gravi conseguenze delle Idi di marzo: che bisogno c’era di uccidere Cesare in modo cosí plateale, scriveva Cicerone, visto che non sarebbe mai tornato da quella campagna? In fondo stiamo parlando di un epilettico di circa 56 anni, provato da lunghi anni di guerra. In ogni caso, non furono le Idi di marzo a far svanire i progetti di nuove conquiste, bensí lo sviluppo delle guerre civili, che interruppe i preparativi della campagna. Molto probabilmente, i cesaricidi Bruto e Cassio scesero a patti con i nemici che Cesare si accingeva a conquistare, sia nei Balcani che in Oriente. Fra le ipotesi che sto cercando di verificare, una riguarda l’influenza del progetto cesariano sull’operato dei due triumviri Ottaviano e Antonio. Entrambi intrapresero, infatti, campagne di conquista: Antonio contro i Parti e Ottaviano nei Balcani. Il primo fu sconfitto e costretto a ridimensionare i propri piani, il secondo si limitò essenzialmente a pacificare le Alpi e l’Adriatico. Questi eventi spiegano meglio lo sviluppo del quadro geopolitico, che si concluse con la vittoria finale di Ottaviano, la creazione del principato e la fine di una politica aggressiva contro i Parti: del resto, i Romani si limitarono a contendere loro il controllo dell’Armenia e di altri regni minori.
L’orazione di Marco Antonio sul corpo di Cesare, olio su tela di George Edward Robertson. 1894-1895. Hartlepool, Hartlepool Museums.
Ma il progetto di Cesare non venne abbandonato del tutto. Piú tardi, una strategia analoga fu portata a termine con successo da Traiano, che conquistò la Dacia e, seppure per breve tempo, l’Armenia e la Mesopotamia partica. Non a caso, il piano piú ambizioso della mancata campagna di Cesare è tramandato da Plutarco, che scrisse la biografia del dittatore piú o meno quando Traiano stava per partire alla volta dell’Oriente. Secondo Plutarco, una volta compiuto il suo piano, Cesare intendeva percorrere un “itinerario ad anello”, attraversando l’Europa orientale e la Germania e tornando in Italia attraverso la Gallia. In questo modo, l’imperium Romanum sarebbe stato circondato interamente dall’Oceano, il mare esterno». ♦ Come è stato interpretato dagli storici moderni questo progetto di Cesare? «Piuttosto tiepidamente, anche perché il dossier delle fonti ha destato non poca perplessità. Gli interventi piú interessanti sono decisamente vintage. Un osservatore d’eccezione fu Napoleone Bonaparte, che si pose il problema nel suo breve trattato Le guerre di Cesare (appena ripubblicato dalla Salerno Editrice, con introduzione e postfazione di Luciano Canfora, n.d.r.), dettato durante l’esilio a Sant’Elena al suo segretario, il quale lo pubblicò qualche anno dopo la morte dell’Empereur. Napoleone formula una prima osservazione di ordine politico: affinché i Romani dimenticassero la guerra civile, occorreva appellarsi all’unità nazionale, e, quindi, impegnarsi in una guerra esterna. La seconda osservazione è di ordine pratico e rileva due difficoltà: la superiorità degli arcieri partici e l’impraticabilità del territorio, sia nel caso di una campagna di montagna in Armenia, sia nel caso di un’avanzata nei deserti e nelle a r c h e o 39
L’INTERVISTA • STORIA ROMANA
Terracotta raffigurante un arciere a cavallo. Produzione partica, I-III sec. d.C. Londra, British Museum.
paludi della Mesopotamia. Tutto questo, osserva Napoleone – che però, è bene ricordarlo, non era uno storico! – era facilmente risolvibile grazie al talento di Cesare. Vediamo invece come interpretò questo evento l’allora quarantenne Theodor Mommsen, che rifiutava l’identificazione di Cesare con Napoleone: Cesare, scrive l’autore di quella Römische Geschichte che nel 1902 gli valse un Premio Nobel per la letteratura, “voleva vendicare la giornata di Carre e aveva inoltre abbozzato il piano di attaccare il re dei Geti, Burebista – di cui abbiamo parlato sopra –, che stava allargando i suoi dominii sulle due rive del Danubio, e anche di proteggere l’Italia al nord-est creando Marken, ovvero province frontaliere, simili a quelle che aveva avuto nel paese dei Celti”. Mommsen aveva ben compreso i piani balcanici di Cesare, ma al tempo stesso aveva ridotto la sua imitatio Alexandri, osservando che le popolazioni barbariche erano difficilmente domabili, e ci sarebbero voluti secoli per assimilarle. Pertanto, anche in caso di successo militare, Cesare avrebbe finito per compiere errori perfino peggiori di Alessandro. In definitiva, conclude Mommsen, “tanto dal modo di procedere di Cesare nella Bretagna e in Germania, quanto dalla condotta di coloro che furono gli eredi dei suoi pensieri politici, si può desumere che Cesare, come Scipione Emiliano, non invocasse gli dèi per estendere il re40 a r c h e o
gno, ma per conservarlo, e che i suoi piani di conquista si limitassero a una regolarizzazione di confini, tesa ad assicurare la linea dell’Eufrate invece del confine a nord-est del regno, debole e militarmente nullo, e fissare e rendere capace alla difesa quella del Danubio”. Questo quadro è difficile da confutare. Ma possiamo ricordare anche gli aspetti economici di questa campagna, ben espressi in questa bella pagina in cui lo storico e scrittore Guglielmo Ferrero (1871-1942), in un’opera recentemente ripubblicata dall’editore Castelvecchi, rievoca i progetti dell’ultimo Cesare: “Quante cose magnifiche potrebbe egli fare! Non solo rinvigorire la esecuzione della sua legge agraria del 59 (…) ma ripigliare addirittura la grande idea di Caio Gracco; restaurare le sedi delle civiltà distrutte dalla espansione conquistatrice di Roma; ricostruire Cartagine e Corinto; dedurre colonie nella Gallia Narbonese, a Lampsaco, in Epiro, a Sinope e a Eraclea, sulle rive del Mar Nero ancor guaste e dolenti per la brutalità dei soldati e dei generali di Lucullo. Una guerra contro i Parti gli provvederebbe i capitali necessari a tanta opera; la vendetta di Crasso, la ricostruzione di Cartagine e di Corinto gli procaccerebbero gloria immortale e la deduzione di tante colonie una popolarità immensa; ma potrebbe egli compiere questi grandi disegni, dovendo rispettare i pregiudizi, le paure, gli interessi di quegli invidi e malevoli senatori di Roma, che in quel momento non badavano se non a rallegrarsi segretamente dei successi di Gneo Pompeo, a scrivere o a leggere con diletto maligno stupidi elogi di Catone?” (Grandezza e decadenza di Roma, Milano 1902-1907). Altri grandi storici hanno invece piú che ridimensionato il progetto: un autore pur sensibile alla storia militare come Ronald Syme si limita a queste poche righe, nel capitolo Caesar the Dictator: “Cesare rinviò ogni decisione sull’ordinamento definitivo dello Stato. Era cosa troppo ardua. Invece, avrebbe mosso di nuovo guerra, in Macedonia e alle frontiere orientali dell’impero. A Roma si sentiva impacciato, mentre fuori poteva avere la soddisfazione e la coscienza di dominare uomini ed eventi, come prima in Gallia. Vittorie facili, ma non un’urgente necessità per il popolo romano”. Tenendo conto del centro d’interesse del capolavoro di Syme, di cui abbiamo già esaminato il disprezzo per i “nomadi”, è comprensibile che
un “non-evento” come la campagna orientale di Cesare lo interessasse ben poco». ♦ Un’ultima domanda. Se decidesse di affrontare la longue durée e scrivere un manuale di storia antica, come lo strutturerebbe? «Cercando di seguire il continuum di popoli e strutture politiche (non possiamo ancora parlare di Stati). Le dottrine politiche moderne si sono largamente ispirate agli antichi, magari guardando con nostalgia a una polis ormai idealizzata (come del resto già facevano i Greci sotto il controllo romano), o agli ideali di libertà di un Cicerone. Ma il testo antico che a mio parere ha compreso piú di tutti l’organizzazione politica del mondo, e che non a caso è stato riscoperto dai politologi piú recenti, non è né greco né latino, bensí sanscrito. Si tratta del trattato intitolato Arthashastra, la cui datazione oscilla fra il III secolo a.C. e il III secolo d.C., e che rappresenta una serie di precetti di ordine politico, economico e militare. Il buongoverno propugnato dall’Arthasha-
stra si fonda su un realismo talvolta spietato, sia per la politica interna (si precisa, per esempio, quando sia consigliabile eliminare gli oppositori politici, o servirsi di donne e bambini come sicari), sia per quella internazionale, rappresentata come una continua evoluzione nei rapporti che intercorrono fra i singoli re: una sorta di «circolo» (mandala) che si può riprodurre graficamente come un diagramma di insiemistica. Insomma, in futuro la storia antica dovrebbe essere insegnata come una World History, anzi come una Connected History (sorry per gli anglicismi). In alto: le copertine degli ultimi libri di Giusto Traina. A sinistra: statua in marmo di Galata in ginocchio, dalla collezione di Giovanni Grimani. Replica del II sec. d.C. di un originale di età ellenistica, con restauri del XVI sec. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.
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SCAVI • ERITREA
CRISTIANI
AL CROCEVIA DEI MARI
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LE SABBIE DEL DESERTO NASCONDONO LE VESTIGIA DI ADULIS, IL PORTO DEL REGNO DI AKSUM AFFACCIATO SUL MAR ROSSO. OGGI, UNA MISSIONE DEL PONTIFICIO ISTITUTO DI ARCHEOLOGIA CRISTIANA E DEL CENTRO RICERCHE SUL DESERTO ORIENTALE RIPORTA ALLA LUCE LE SUE GRANDI ARCHITETTURE DI ETÀ TARDO-ANTICA di Gabriele Castiglia, Philippe Pergola, Stefano Bertoldi, Marco Ciliberti, Elie Essa Kas Hanna, Božana Maletic e Matteo Pola
Una veduta del golfo di Zula, nei pressi di Adulis, in Eritrea.
SCAVI • ERITREA
«F
ino all’estremo dell’Etiopia, nella regione chiamata Barbaria»: con queste parole, agli inizi del VI secolo, Cosma Indicopleuste, mercante e teologo alessandrino, definiva l’area etiope. Oltre millequattrocento anni piú tardi, nel territorio dell’attuale Eritrea, una cinquantina di chilometri a sud di Massaua, insiste il sito dell’antica città portuale di Adulis. Immersa in un paesaggio pianeggiante, a prevalente matrice desertico-sabbiosa e circondata da possenti giacimenti di scisti e basalti – prova evidente della natura vulcanica del territorio – e delimitata a sud dal corso del fiume Haddas (in secca per buona parte dell’anno), Adulis è menzionata già dal I secolo d.C. Ne fanno cenno sia Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, che il Periplus Maris Erythraei (un trattato anonimo), attribuendole il ruolo di principale sbocco al mare del regno aksumita, cosí denominato dalla capitale – Aksum – oggi in Etiopia, sebbene sia curioso notare come molti autori antichi sovente con-
fondessero quest’area, denominandola impropriamente «India» e, in taluni casi, appunto, «Barbaria». Esteso in buona parte del Corno d’Africa (soprattutto in area etiope ed eritrea), il regno si sviluppò proprio dal I secolo d.C. sino almeno all’VIII, con il massimo apogeo toccato tra IV e VI, configurandosi come l’unica forza politica a battere moneta in tutta l’Africa subsahariana, in virtú del vastissimo polmone di scambi commerciali e culturali in cui era inserita, tra Mediterraneo e Oceano Indiano, con il Mar Rosso a imporsi quale snodo cruciale (vedi cartina a p. 49).
In basso: cartina con la localizzazione di Adulis e dei principali centri del regno aksumita.
Nella pagina accanto: un tipico paesaggio nella regione di Adulis, nei pressi del campo base della missione.
COMMERCI IN TERRE LONTANE Il regno africano esportava perlopiú merci di grande pregio (avorio, smeraldi, carapaci di tartaruga, incenso, ecc.) ed era in contatto con la penisola indiana per l’importazione di seta, tè, pepe e spezie, sovente provenienti dalla terra nota come Tzinista, l’odierna Cina. Altro fondamentale snodo commerciale del regno aksu-
Arabia Saudita Najran
Sudan Mar Rosso Eritrea Asmara
San’a
Adulis
Yemen
Qohaito Matara Yeha Aksum Muza
Golfo di Aden
Etiopia N NO
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100 Km.
mita era l’isola di Taprobane, oggi Sri-Lanka, dove nel VI secolo d.C. è attestata la presenza di mercanti provenienti proprio da Adulis. Nei primi decenni del IV secolo, la corte aksumita, sotto il re Ezana, si convertí al cristianesimo, con la nomina del siriano Frumentius a primo presule della capitale, assurto al soglio episcopale per diretta iniziativa del patriarca di Alessandria d’Egitto, Atanasio – declinando un momento epocale, destinato a configurare per secoli la Chiesa etiope come una diretta filiazione di quella alessandrina – mentre il primo vescovo noto ad Adulis, Moses, si attesta alla metà del V secolo. Con l’eccezione del recentissimo rinvenimento di una chiesa nel sito di Beta Samati, in Etiopia, datata dagli scavatori al IV secolo (cronologia, questa, da accogliere con il beneficio del dubbio), i dati archeologici evidenziano un attecchimento monumentale del cristianesimo nelle trame del regno di qualche secolo piú tardo, con una propulsione all’edificazione di edifici cristiani che toccò il proprio zenit nel VI secolo. Numerosi sono gli esempi, provenienti dalla capitale, ma anche da altri siti, tra i quali Matara, Qohaito, Argula e, appunto, Adulis. Proprio Adulis, nei primi decenni del VI secolo, fu meta della visita di Cosma Indicopleuste, il quale, nella Topographia Christiana (vedi box a p. 48), definiva l’area come ricca di «innumerevoli chiese, vescovi e numerosi popoli cristiani, molti martiri e monaci esicasti», tratteggiando dunque un contesto pienamente cristianizzato. Pur a fronte di questo momento di grande apogeo, pochi secoli dopo, probabilmente nell’VIII, il regno aksumita e, con esso, la stessa Adulis, intrapresero una china di inesorabile declino, che ne segnò la rapida fine, dovuta probabilmente a una serie di concause, quali le invasioni islamiche e cambiamenti climatici, che implicarono insostenibili sconvolgimenti al sistema agricolo e
L’ERITREA OGGI: UNA TERRA DA (RI)SCOPRIRE Estesa per 120 000 kmq circa e abitata da circa 6,5 milioni di persone, l’Eritrea si trova all’imbocco del Mar Rosso, prospiciente lo Yemen e confina, in ambito continentale, con Etiopia, Sudan e Gibuti. Caratterizzata da una morfologia che vede una striscia pianeggiante limitata all’area litoranea, è in buona parte attraversata dall’immenso altopiano che contraddistingue anche il territorio etiope, con cime che superano i 2000 m di altezza. Attraversata nella propria lunga storia da numerose dominazioni, tra cui quella ottomana – che durò per circa tre secoli, dal XVI alla seconda metà del XIX –, nel 1869 vede la prima occupazione per mano italiana, che nel 1896 culminò con il riconoscimento dello status di colonia. Dopo la dominazione perpetuatasi sotto il regime fascista e una breve presenza inglese come protettorato, nel 1952 l’Eritrea venne annessa come Stato federato al regno etiope. Pochi anni piú tardi iniziò la lunga e tormentata storia dei moti di autonomia interni, con decenni travagliati e drammatici, che portarono, nel 1991, alla conquista dell’indipendenza dall’Etiopia, con strascichi che, però, si estesero sino ai primi anni Duemila. L’Eritrea oggi è popolata da ben nove differenti gruppi etnici e ha il grande merito di portare avanti una pacifica convivenza tra cristianesimo e Islam. Le tracce
della presenza italiana sono ancora ben evidenti, sia nei numerosi prestiti linguistici, nella cultura e, soprattutto, ad Asmara, la meravigliosa capitale. Città dal fascino discreto, essa merita a pieno titolo l’appellativo di «Piccola Roma», con numerose tracce di architettura modernista, tra le quali spiccano la Fiat Tagliero e i cinema «Roma» e «Impero». Ma l’Eritrea non è solo Asmara: la sua storia piú antica è ben tangibile negli splendidi siti archeologici di Adulis, Matara e Qohaito (solo per citarne alcuni), nello scenografico teatro naturale offerto dalla strada che, partendo dall’altipiano asmarino, conduce sino a Massaua, sulle sponde del Mar Rosso. È proprio Massaua a sorprendere con il proprio mix di culture e architetture, che ci parlano di influssi ottomani, egiziani e yemeniti: proprio da qui è inoltre possibile recarsi, in poche ore di barca, nello straordinario arcipelago delle isole Dahlak, puntellato da piú di centoventi isole e atolli e in buona parte disabitato, custode di un habitat naturale pressoché immacolato e di una incantevole barriera corallina. Questi sono solo alcuni dei doni che lo scrigno dell’Eritrea può regalare, un Paese da (ri)scoprire, con una storia millenaria, scenari naturalistici mozzafiato e, soprattutto, un popolo gentile e sempre pronto alla condivisione e al sorriso. (G.C.)
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l’impaludamento delle aree costiere, fenomeno questo che, di fatto, pose un freno ai commerci. L’interesse nei confronti di Adulis rimanda ai primi decenni del XIX secolo, con una prima esplorazione da parte del diplomatico britannico Henry Salt, che nel 1809-1810 ne visitò le rovine, seguito nel 1868 da
una spedizione, sempre per mano inglese, guidata dal colonnello William West Goodfellow, il quale questa volta intraprese una prima indagine di scavo, riportando parzialmente in luce le vestigia di quella che venne definita una «Early Christian Church» e i cui reperti vennero consegnati successivamente al British Museum
(vedi box alle pp. 50-51). Agli inizi del XX secolo Adulis fu oggetto di ricerche piú estensive da parte dell’archeologo italiano Roberto Paribeni, nel 1907, lo stesso anno in cui sul sito era attivo anche il missionario svedese Richard Sundström. Tuttavia, solo alla fine degli anni Sessanta del Novecento nuove in-
COSMA INDICOPLEUSTE, MERCANTE E LETTERATO Una delle testimonianze letterarie piú straordinarie sul regno aksumita è la Topographia Christiana, opera vergata nei primi decenni del VI secolo da parte di un mercante e teologo alessandrino, a noi noto con lo pseudonimo di Cosma Indicopleuste. Tràdito da tre manoscritti (uno del IX secolo, oggi conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana, e due dell’XI, uno presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze e l’altro nel monastero di S. Caterina nel Sinai), il monumentale trattato si dedica prevalentemente a questioni teologiche, pur riservando alcuni significativi passaggi ad aspetti geografici, tra cui il resoconto della visita in prima persona da parte dello stesso autore, accompagnato dal monaco Mena, nel regno aksumita e proprio ad Adulis. Qui Cosma trascrisse due importanti iscrizioni, note come Monumentum Adulitanum, una delle quali era apposta sul cosiddetto «Trono di Adulis», un manufatto che lo storico descrive come realizzato in marmo bianco e collocato alle estremità occidentali della città. Se la presenza di troni è ben attestata archeologicamente nella capitale Aksum, di contro, quello adulitano sembra configurarsi, a ora, come un unicum al di fuori del centro del potere amministrativo del regno, pur non essendo mai stato rinvenuto. Di esso, inoltre, lo stesso Cosma ci ha lasciato una raffigurazione, apposta su uno dei numerosi apparati iconografici di corredo all’opera: nella versione piú
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antica, dunque quella del manoscritto di IX secolo, inoltre, l’autore alessandrino inserisce la rappresentazione del manufatto in uno stilizzato proscenio topografico, raffigurando, tramite vignette, Aksum (in alto a destra), Adulis e i suoi siti «satellite» di Gabazas e Samidi (sulla sinistra, lungo il litorale). Il primo, Gabazas, corrispondente all’attuale toponimo delle Galala Hills, doveva configurarsi come l’approdo portuale vero e proprio di Adulis, mentre il secondo, Samidi, si contraddistingue (sebbene non ancora scavato) per la presenza in superficie di tumuli funerari e di strutture di pregio, declinandolo come un possibile nucleo cimiteriale di grande prestigio. (G.C.)
Turkmenistan
Turchia
Tagikistan
Antiochia
Cipro Libano
Siria
Cina
Palmira Damasco
Afghanistan
Iraq
Iran
Gaza
Israele Giordania Arsinoe
Charax
Petra Ayla Leuke Kome
Gherra Myos Hormos
Egitto
Berenice
Pakistan
Kuwait
Arabia Saudita
Bahrein Qatar Emirati Arabi Uniti
Nepal
Pattala
India Barygaza
Oman
Mar Rosso Najran
Sudan
Eritrea Adulis Qohaito Aksum Yeha
San’a Yemen Muza
Gibuti
Golfo di Aden
Socotra Muziris
Etiopia Sud Sudan Somalia Uganda
Sri Lanka
Oceano Indiano
NO
NE
SO
SE
O
Kenya
dagini riprendono nel sito, per mano di Francis Anfray, sino ad arrivare agli anni Duemila, prima con le prospezioni geofisiche dell’Università di Southampton e, dal 2011, con il progetto coordinato dal Ce.R.D.O. di Varese (nelle figure di Angelo e Alfredo Castiglioni e Serena Massa), nell’ambito del quale si inserisce la missione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC) di Roma, sotta la direzione scientifica di Philippe Pergola e quella sul campo di Gabriele Castiglia, con la fondamentale presenza degli altri firmatari di questo articolo. Dal 2017, infatti, il PIAC ha avuto in carico lo scavo della cosiddetta «chiesa orientale» e, dal 2018, di quello che sembra a tutti gli effetti configurarsi come il complesso episcopale della città, una città che doveva estendersi per circa quaranta ettari e la cui topografia, fatta ecce-
Sri Lanka (Taprobane)
N
E
0
500 Km.
S
In alto: cartina nella quale sono riportati i principali porti e le antiche rotte commerciali tra Mar Rosso, Golfo Persico ed Oceano Indiano.
Nella pagina accanto: il cartello che indica il sito di Adulis, nell’attuale villaggio di Foro e una veduta del sito dal bacino del fiume Haddas.
zione per le chiese, un grande palazzo secolare (noto come «Palazzo Sundström») e alcuni quartieri residenziali, è ancora in buona parte da indagare. (G.C., Ph.P.)
realizzate parallelamente ai due stilobati, in accordo con le pratiche di scavo comuni all’epoca. Il risultato di questi scavi fu un imponente accumulo di materiale di risulta, posizionato principalmente lungo le strutture perimetrali dell’edificio, costituito da terreno sabbioso, lastre di scisto e di basalto, materiali architettonici e frammenti ceramici. Alla ripresa delle indagini, la rimozione dello scarico inglese ha rappresentato il primo gravoso impegno e ha consentito la messa in luce dell’intera planimetria della chiesa, la piú grande finora conosciuta ad Adulis. L’edificio sorge in un’area già interessata dalla presenza di ambienti a carattere residenziale, intercetta-
LO SCAVO DEL COMPLESSO EPISCOPALE Il complesso episcopale insiste nella zona centro-orientale della città, a poche decine di metri proprio dal cosiddetto «Palazzo Sundström». Le indagini britanniche del 1868 – in virtú delle quali si deve la denominazione dell’edificio anche come «chiesa del British Museum» – a cui si faceva cenno, intaccarono una parte dei livelli della chiesa, come dimostrano due profonde trincee
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IN ERITREA PER CONTO DI SUA MAESTÀ Nel corso del XIX secolo, la piana tra Foro, Afta e Zula, occupata dalle vestigia dell’antica città di Adulis, ha esercitato una forte attrazione su studiosi e avventurieri, sudditi della corona inglese, che colsero il pretesto di missioni diplomatiche nel Corno d’Africa per esplorare il sito e approfondire le conoscenze su un luogo simbolo della civiltà aksumita. Il primo a manifestare interesse per Adulis è Henry Salt, che nel 1810 è in Abissinia su mandato del governo inglese e prova a raggiungere le rovine della città, scontrandosi con le ostilità dei nativi che sbarrano la strada a lui e ai suoi collaboratori. Per le prime indagini sistematiche si dovrà attendere il 1868: è l’anno in cui una spedizione militare inglese, partita da Bombay e giunta nella piana di Malkatto, non lontana da Zula, annovera tra i suoi ranghi Richard Rivington Holmes, emissario del British Museum con il compito di raccogliere materiale utile alle collezioni archeologiche del museo e dirigere eventuali operazioni di scavo archeologico. Distratto dal suo intento principale di
ti immediatamente a nord da uno scavo dell’Università «L’Orientale» di Napoli, orientati in maniera lievemente divergente rispetto alla chiesa e precedenti a essa; la loro frequentazione e fruizione, secondo quanto suggerito dall’analisi dei materiali rinvenuti, doveva riguardare nuclei familiari appartenenti all’aristocrazia adulitana e si attesta in un orizzonte cronologico compreso tra il IV e il VI-VII secolo d.C. In questo contesto si inserisce l’alto podio, caratterizzato da filari di basalti alternati a corsi di lastre di scisto, su cui viene impostata la chiesa: questo schema ricalca uno degli stilemi ricorrenti nell’architettura 50 a r c h e o
In questa pagina: tavole tratte dall’articolo pubblicato il 5 settembre 1868 sull’Illustrated London News che dava conto dei risultati della Abyssinian Expedition. In alto, il
generale Charles Staveley e il colonnello William Merewheter, che guidarono le operazioni; in basso, le rovine dell’antica città di Adulis, visitata nel corso della spedizione.
particolarmente avverse, la squadra si dedica anche alla ricerca del leggendario Trono di Adulis, senza successo nonostante una meticolosa ricognizione del letto del fiume Haddas. Il materiale rinvenuto ad Adulis è preso in consegna dal Dipartimento delle Antichità del British Museum e i lavori di scavo vengono divulgati in Inghilterra con un articolo nell’Illustrated London News del 5 settembre 1868, corredato da immagini di grande impatto, che testimoniano anche il tentativo di anastilosi compiuto nel corso della missione. La stagione delle esplorazioni inglesi di Adulis si chiuse nel 1893, quando Theodore Bent giunse sul sito, ma non avviò scavi, limitandosi ad annotare come ci fosse poco da osservare, fatta eccezione per le imponenti colonne rinvenute dai suoi connazionali pochi decenni prima. (M.C.)
raggiungere Aksum, Holmes affida la direzione delle operazioni di scavo ad Adulis al capitano William West Goodfellow, al comando di venticinque uomini dei Madras Sappers and Miners, il genio militare annesso all’Indian Army. Coadiuvati da maestranze locali, gli uomini di Goodfellow cominciano a lavorare nell’area centro-orientale del sito, dove rinvengono i resti di un imponente edificio di culto, dotato di un apparato architettonico di pregevole fattura e impostato su uno scenografico podio alto circa 13 piedi (pari a poco meno di 4 m), identificato da Holmes (giunto sul luogo in un secondo momento) come una Early Byzantine Church: ad aiutare lo studioso nella sua identificazione interviene il rinvenimento di una lastra recante una croce incisa. Sfidando condizioni climatiche
Altre tavole pubblicate nell’articolo dell’Illustrated London News raffiguranti una croce scolpita e un capitello in marmo.
aksumita e accresce l’impatto scenografico dell’edificio, fortemente soprelevato rispetto alle costruzioni del quartiere circostante. Dal punto di vista planimetrico, l’edificio è composto da una grande aula a profilo esterno rettangolare, scandita al suo interno da una divisione in tre navate operata da due file di pilastri; l’abside, di forma semicircolare, è affiancata da due ambienti laterali (pastophòria), uno dei quali (quello meridionale) presenta caratteristiche tali da poter ipotizzare una sua funzione battesimale, come suggeriscono la pavimentazione in malta idraulica (che presenta una lacuna semicircolare riferibile alla presenza
della vasca) e l’elevata qualità del materiale rinvenuto nel livello immediatamente sopra il pavimento. Nella stessa fase di vita, la prima dell’edificio, si collocano la struttura quadrangolare rinvenuta al centro dell’area absidale, identificata come base dell’altare, e la grande soglia in granito (dotata di incavi di alloggio per i cardini) che definisce a ovest l’ingresso della chiesa. Un grande ambiente rettangolare, immediatamente a ovest della facciata, completa la dotazione planimetrica originaria del complesso, datato, sulla base di analisi archeometriche di campioni al carbonio 14, al pieno VI secolo d.C. a r c h e o 51
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In un secondo momento vennero apportate modifiche alla configurazione dell’edificio che coinvolsero in particolare la zona presbiterale, che fu dotata di una recinzione a «T», e la zona sud-ovest della chiesa, dove si ricavò un ambiente provvisto di un basamento quadrangolare in posizione centrale: potrebbe trattarsi di un altare, oppure dell’alloggio per una scala che presupporrebbe l’esistenza di un piano superiore. Nei decenni successivi a questi interventi, la chiesa conobbe una prima fase di abbandono, testimoniata dal rinvenimento di diversi crolli caratterizzati da una quantità elevata di materiale architettonico e da una pressoché totale assenza di malta (il legante degli elevati era costituito principalmente da sabbia mescolata a acqua e argilla). Una successiva fase di frequentazio-
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In questa pagina, in basso: pianta del sito di Adulis, a cui sono associate la planimetria e ricostruzione tridimensionale della cosiddetta
«chiesa orientale» (qui sotto) e la ricostruzione tridimensionale della chiesa episcopale e degli ambienti situati a nord di essa.
ne della chiesa è segnata da nuove modifiche apportate alle navatelle laterali, dove si ricavano due ambienti mediante l’erezione di due piccoli setti murari, e interventi localizzati nell’area esterna a est, dove vengono aggiunti due muri che descrivono un ambiente esterno. La prima ipotesi cronologica, basata su alcuni indicatori provenienti soprattutto dall’ambiente esterno a Est, porta a collocare questa fase nel periodo post-aksumita, nel IX secolo d.C. In seguito, il grande edificio venne definitivamente abbandonato, non prima di aver ospitato, nei suoi livelli di spoliazione, due sepolture islamiche nella navata centrale e sulla rasatura dello stilobate Nord: la spia del definitivo tramonto del complesso che aveva rappresentato un punto di riferimento per la comunità cristiana del porto di Adulis. (M.C.)
ARCHITETTURA CRISTIANA AD ADULIS E NEL REGNO AKSUMITA Con le sue chiese monumentali, Adulis, rappresenta un punto di osservazione privilegiato per lo studio dell’architettura cristiana nel regno aksumita. Insieme ai famosi esempi di Aksum e Matara, le chiese di Adulis si inseriscono a pieno titolo nella rosa degli edifici cristiani antichi piú
In alto: una scolaresca in visita al sito di Adulis. La missione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana coinvolge nelle proprie ricerche anche giovani archeologi eritrei e le
popolazioni dei vicini villaggi di Afta, Zula e Foro, attuando un percorso di formazione che permetta loro, nel futuro, di gestire e valorizzare la propria eredità storica e monumentale.
notevoli dell’intero Corno d’Africa, frutto di un innovativo connubio di caratteristiche proprie dell’architettura di prestigio aksumita, fuse a specifiche influenze di matrice cristiano-orientale. Esemplificativo di una tale congiunzione risulta il tipico assetto planimetrico, che di base si imposta su un modello basilicale standard, di solito a tre navate, non sempre absidato.
L’abside, quando presente, era inserita tra due ambienti angolari quadrati, spesso riprodotti anche in facciata, che se da una parte richiamano uno schema tipico delle chiese di area siro-palestinese – nella tipologia detta «a sanctuaire carré» –, sembrano essere allo stesso modo debitori di modelli desumibili dalle grandi aule di rappresentanza dell’aristocrazia locale, come dimostrano, tra gli altri esempi nel regno, anche le strutture non del tutto indagate del cosiddetto «palazzo di Sundström» ad Adulis. Tra gli elementi caratter istici dell’architettura tradizionale del regno aksumita, adottate nella costruzione delle chiese, si disgiunge l’alto podio a gradoni, che rimarca la posizione dominante sul paesaggio urbano delle nuove fondazioni ecclesiastiche al pari dei piú importanti edifici civili. Questi grandi basamenti, che potevano sorpassare i 3 m in altezza, erano costituiti da blocchi di basalto, a volte alternati a riseghe di scisto. I muri perimetrali del basamento si configuravano attraverso un a r c h e o 53
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curioso gioco di rientranze e sporgenze, che donavano un effetto movimentato all’intera struttura e ne garantivano la staticità. Lo stesso modello doveva essere ripreso, senza soluzione di continuità, nei perimetrali delle chiese stesse, anche se la generale cattiva conservazione degli elevati non permette quasi mai di verificarlo. I muri delle chiese dovevano inoltre
essere apparecchiati attraverso l’utilizzo di tiranti lignei con estremità sporgenti «a teste di scimmia», secondo un particolare sistema costruttivo fedelmente riprodotto in scultura sulle celebri stele di Aksum e comune in edifici, tuttora conservati, di epoca successiva. Le linee spezzate e i volumi decrescenti, leitmotiv di questa architettura, si rispecchiano fedelmente anche
In questa pagina: la chiesa episcopale di Adulis all’alba, vista da ovest, e nel riquadro, la pianta plurifase dell’edificio: fase 1. VI sec.; fase 2. inizi del VII sec.; fasi 3-4. VIII sec.
Le nuove ricerche hanno provato la monumentalità dell’edificio, la qualità delle murature e hanno restituito un eccezionale palinsesto di reperti scultorei in marmo e alabastro.
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nella tipologia dei pilastri, comuni sia alle chiese che ai piú antichi palazzi, formati da fusti a sezione quadrangolare con angoli smussati, monolitici o in piú blocchi sovrapposti, e basi e capitelli «a gradini». Gli unici finora a distinguersi, per l’adozione di un modulo mistilineo decisamente piú complesso, si conservano a Maryam Ts’iyon ad Aksum ed erratici a Samidi (pochi chilometri a nord di Adulis), dove solo nuove ricerche potranno riconoscerne la pertinenza a un edificio civile o a una basilica cristiana. Le chiese adulitane restituiscono una summa di questi elementi caratterizzanti, insieme ad alcune particolarità significative. Da una veloce analisi comparativa si evidenzia, in primo luogo, la specificità della planimetria della chiesa orientale che, rispetto al canonico impianto basilicale a tre navate riscontrabile nelle altre due basiliche cittadine, risulta invece caratterizzata da un periplo interno di pilastri, posti in origine a sostegno di una cupola. Questa pianta, che risponde ai prestigiosi modelli a sviluppo centrale di origine mediterranea, risulta un unicum in tutto il Corno d’Africa per queste cronologie. La sua presenza ad Adulis sottolinea una volta di piú la posizione di grandissima apertura
LA DOCUMENTAZIONE HA UNA DIMENSIONE IN PIÚ Durante l’ultima campagna di scavi ad Adulis, nel febbraio 2020, l’indagine stratigrafica è stata affiancata da un progetto di rilievo fotogrammetrico che aveva come obiettivo la documentazione tridimensionale delle principali emergenze scavate negli ultimi anni. Le tecniche fotogrammetriche, ormai d’uso comune in archeologia, sono in grado, attraverso l’elaborazione delle fotografie, di analizzare le stesse e di individuarne i punti di contatto, calcolando la posizione dello scatto per ogni singola immagine. Di conseguenza, è possibile ottenere un modello tridimensionale, georeferenziato e texturizzato. Nel caso di Adulis, in assenza di GPS centrimetrico, abbiamo scelto di usare tre differenti sistemi locali di coordinate, in attesa della corretta georeferenziazione, che è stata poi eseguita in laboratorio con l’aiuto della cartografia e dei servizi on line di geografia. L’impossibilità, almeno nella prima fase, di «collegare» i tre sistemi di rilievi era dovuta al fatto che i settori di scavo risultavano essere molto lontani e difficilmente visibili reciprocamente.
Molteplici sono i vantaggi della fotogrammetria applicabili anche nel contesto eritreo: un rilievo 3d permette, per esempio, di non schematizzare l’emergenza in due dimensioni e poterne valutare il volume, ma anche di poter documentare in laboratorio (e quindi a posteriori, risparmiando tempo sul cantiere) anche attraverso piante, sezioni, prospetti e, soprattutto, per realizzare un progetto GIS georeferenziato in coordinate assolute che contiene i raster delle ortofoto, i modelli digitali del terreno e la vettorializzazione delle singole murature. La gestione del dato spaziale, soprattutto in un contesto complesso come quello di Adulis, è una sfida di fondamentale importanza, sia in un’ottica di archiviazione delle evidenze scavate durante le ultime campagne archeologiche, sia per il riconoscimento, la corretta georeferenziazione e la codifica dei vecchi settori di scavo delle varie missioni succedutesi in questo sito nel corso del XX secolo, sia per l’analisi della città e del paesaggio limitrofo, estremamente mutato rispetto all’antichità. (S.B.)
Esempio di ricostruzione in progress del modello 3D della chiesa episcopale di Adulis tramite fotogrammetria.
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del centro marittimo nei confronti delle importanti novità culturali provenienti dal mondo bizantino. La chiesa orientale ha altresí restituito un fonte battesimale ottimamente conservato, posto nell’ambiente quadrangolare a sud dell’abside, che, insieme agli esempi di Enda Cerqos e di Yeha, fornisce un termine di confronto ottimale per interpretare gli indizi messi in luce dagli scavi del PIAC, nella stessa posizione, nella chiesa episcopale. Riguardo a quest’ultima, oltre agli elementi piú sopra delineati, i nuovi scavi hanno permesso di recuperare in maniera del tutto inedita la partitura dei possenti pilastri posti in origine a divisione delle navate che, sconnessi, in molti casi giacevano ancora in una posizione originaria post-crollo. Inoltre, alcuni saggi di scavo lungo i perimetrali
permettono di apprezzare la qualità delle murature del basamento che, per l’attenzione nel taglio dei basalti e la regolarità delle riseghe di scisto, si configura come uno degli esempi tra i piú raffinati finora rinvenuti, del tutto diverso nella resa estetica, per esempio, dal vicino basamento della chiesa settentrionale. Queste peculiarità, insieme all’imponente soglia di ingresso, restituiscono un’immagine, seppur sfocata, della monumentalità originaria della grande chiesa «del British Museum», a ulteriore dimostrazione del suo possibile ruolo di ecclesia episcopalis. (B.M.)
MARMI, ALABASTRI, CROCI I nuovi scavi nella chiesa episcopale, oltre a una sequenza molto articolata, hanno restituito un eccezionale
A destra: tecnica edilizia tipica delle costruzioni aksumite, con tiranti lignei «a teste di scimmia», che sporgono dal filo della cortina muraria. In basso: esempi di muratura medievale realizzate tramite la stessa tecnica, dal monastero di Debre Damo in Etiopia.
Qui sopra e in alto: carico di anfore di tipo Aqaba del relitto di Black Assarca, isola dell’arcipelago delle Dahlak al largo della costa eritrea, di fronte ad Adulis. In bianco e nero, alcuni dei tappi di anfora in gesso, con monogrammi ed iscrizioni greche, ritrovati da Paribeni. 56 a r c h e o
TUTTE LE CHIESE IN UNA SOLA La Chiesa etiopico-eritrea riconosce le origini della propria liturgia nella Chiesa alessandrina copta, cattedra dell’apostolo Marco. È plausibile che, verso il IV secolo, ambedue le Chiese abbiano avuto gli stessi riti liturgici, che si sono però diversificati nel corso dei secoli. All’inizio, la lingua liturgica usata dal clero fu il greco, successivamente rimpiazzato dal ge’ez, idioma locale ormai desueto, ma ancora utilizzato oggi nelle celebrazioni. La provenienza siriana del primo vescovo di Aksum, Frumentius, e l’ipotetico arrivo di molti monaci siriani in questa regione nel V-VI secolo, spiegano per quale ragione riconosciamo molte espressioni siriache nel linguaggio liturgico. In questo stesso arco cronologico – stando a una tradizione che non può essere però ricondotta filologicamente a prima del XIIIXIV secolo – nel Corno d’Africa sarebbero giunti anche i cosiddetti «Nove Santi», che avrebbero tradotto la Sacra Scrittura in ge’ez, sebbene si tratti di una vicenda di dubbia attendibilità. Parimenti, anche la Chiesa di Gerusalemme avrebbe lasciato qualche segno nella liturgia locale, grazie alla presenza di alcune comunità monastiche etiopiche installate proprio in Terra Santa. La Chiesa etiopico-eritrea include documenti liturgici pertinenti a tutte le Chiese del mondo cristiano a causa della loro ampia ricezione. Intorno al V secolo venne tradotto in ge’ez il Testamentum Domini, una delle fonti liturgiche piú interessanti, la cui eucologia (lo studio, sotto vari punti di vista, della preghiera, n.d.r.) fu chiamata Kidan (Testamento). Questa fonte costituisce oggi l’ossatura dell’ufficio divino, la cui
preghiera eucaristica (l’Anafora del Signore) divenne poi d’uso corrente. Il rituale rimase strettamente dipendente da quello copto per la mancanza di un episcopato autoctono; infatti i primi vescovi nativi risalgono solo al secolo scorso. I riti dell’iniziazione e della penitenza cristiana si sono arricchiti di elementi di tradizione latina e armena, dovute alle comunità monastiche etiopiche presenti a Gerusalemme. Un altro documento liturgico conservato in ge’ez – un’omelia trovata in una copia del sinassario del XXVIII Terr. – attesta nel VII secolo un’ulteriore influenza egiziana nella prassi liturgica. Questo caleidoscopio di influenze multiformi ebbe evidentemente significative ripercussioni anche dal punto di vista architettonico. L’ipotetico utilizzo del bema (una piattaforma posta di fronte al presbiterio e utilizzata per recitare il Vangelo) e la presenza nel nartece di uno o piú vani di fronte alle facciate attestano l’influenza siriana, mentre le recinzioni a forma di pi greco, con una solea annessa a ovest, provano la presenza di influssi gerosolimitani, egiziani e bizantini. La navata centrale sollevata rispetto alle navatelle in certe basiliche della regione rimanda inoltre ad alcune basiliche bizantine dell’area greco-anatolica e solleva molte domande sull’uso liturgico delle navate. Se il santuario (maqdas) con la recinzione di fronte (qeddest) veniva usato dai presbiteri, allo stato attuale della ricerca è plausibile ipotizzare che le navate (qene mahlet) fossero invece utilizzate dalla comunità dei fedeli. (E.E.K.H.)
palinsesto di reperti scultorei in marmo e alabastro, che offrono uno straordinario punto di osservazione sulle soluzioni decorative e liturgiche in atto ad Adulis, oltre che una lente di ingrandimento sulla rete di scambi commerciali e culturali tracciabili lungo la dorsale del Mar Rosso di età tardo-antica. Le basiliche di Adulis sono infatti ormai ben note, nel panorama degli studi dell’architettura cristiana del Corno d’Africa, per avere restituito, fin dai primi scavi del XIX secolo, ingenti porzioni di importanti recinzioni presbiteriali marmoree importate dall’area siro-palestinese e facilmente databili al VI secolo che, insieme alle planimetrie, denunciano una gestione dello spazio liturgico aggiornata su modelli orientali. Queste manifestazioni confermano la preminenza della città nel controllo di quell’importante canale commerciale che, con spiccata continuità dall’età romana, collegava la regione del Corno d’Africa, l’Oceano Indiano e il Mediterraneo. Dal Mediterraneo orientale, del resto, provenivano ingenti quantità di vino e olio, il cui commercio è ben documentato dalla grande diffusione delle anfore di tipo Aqaba, ma anche suppellettile liturgica di pregio, come dimostrano le croci pettorali con iscrizioni greche ritrovate sia ad Adulis che a Matara. Tra i nuovi reperti si distingue un cospicuo numero di frammenti in marmo di diverse tipologie di sicura provenienza mediterranea, tra cui i marmi proconnesio e docimio – di derivazione microasiatica, utilizzati intensivamente nell’architettura bizantina e commercializzati in tutto il bacino del Mediterraneo – ma anche il piú ricercato marmo bianco e nero antico – estratto nella regione dei Pirenei e comune nella decorazione di basiliche poste sotto la diretta influenza di Bisanzio – e finanche il «porfido verde» o Serpentino. I nuovi reperti in marmo bianco, in particolare, erano parte a r c h e o 57
SCAVI • ERITREA
del grande cancello liturgico della chiesa, che divideva in origine l’area presbiteriale, ad accesso esclusivo da parte del clero, e la navata centrale, destinata invece ai fedeli. Posizionata su una piattaforma, rialzata e sporgente verso la navata, questa recinzione era formata da lastre figurate (plutei) rette da diversi pilastrini a sezione quadrata e ottagonale, alcuni dei quali sovrastati da colonnine che reggevano, in origine, una sottile trabeazione. Grazie soprattutto a due cospicui frammenti recuperati durante gli scavi del 1868, siamo in grado di ricostruire le iconografie principali che caratterizzavano questa istallazione, e che risultano particolarmente diffuse nelle fondazioni ecclesiastiche di area siro-palestinese e dell’Egitto mediterraneo. I plutei esibivano una croce a braccia patenti – anche detta «croce di Malta» – iscritta in un clipeo, oppure una croce, d’identica fattura, sovrapposta a una chi greca con terminazioni a fleur-de-lis e racchiusa in una corona lemniscata. È bene ricordare che questa tipologia di recinzione risulta del tutto comune, sia per forma che per decorazione, nell’ambito dell’organizzazione dello spazio liturgico delle chiese del In alto: il campo base della missione italo-eritrea ad Adulis.
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VI secolo, specialmente in area vicino-orientale. Il caso di Adulis, d’altra parte, appare a oggi il contesto piú lontano dal bacino del Mediterraneo in cui un’istallazione di questo tipo sia mai stata rintracciata. A prescindere da questi importanti marmi d’importazione, i nuovi scavi hanno permesso di recuperare le tracce di un’originaria, ricchissima, compagine decorativa in alabastro, la cui analisi sembra restituire coordinate culturali del tutto differenti. Alcuni frammenti di lastre di rivestimento parietale presentano decorazioni, spesso limitate a delle scansioni lineari della superficie. Altri, tra cui un frammento combaciante con l’angolo di una lastra ritrovata negli scavi del 1868, presentano invece decorazioni fitomorfe
– caratterizzate dall’uso reiterato di motivi a tralci di vite, varie tipologie di foglie e steli a doppio fusto – tipiche di una cultura figurativa che interessava indistintamente, in età preislamica, le due sponde del Mar Rosso meridionale. I medesimi stilemi, del cui vasto repertorio si distingue in particolare un motivo a fiore quadripetalo iscritto in un quadrato, si ritrovano indistintamente sia su alcuni avori di produzione aksumita, sia su un vasto campionario di bassorilievi di ambito sudarabico. Il legame con quest’ultima realtà, e in particolare con il contemporaneo regno di Himyar (esteso in buona parte della penisola arabica), tra l’altro ben supportato da numerose altre fonti a nostra disposizione, risulta comprovata anche dal recentissimo riconoscimento, su uno dei frammenti in alabastro rinvenuto durante la cam-
pagna del 2020, di una sigla incisa corrispondente alla lettera Qoph dell’antico alfabeto Musnad. Lo studio di questi materiali manifesta con chiarezza il carattere fortemente polimorfo e rappresentativo alla base dell’ornamento della grande chiesa adulitana, che rispecchia in maniera puntuale l’apogeo del regno aksumita, nonché il momento di maggior fortuna della città, segnato da un’inedita stagione di apertura nei confronti delle maggiori realtà politiche e culturali del mondo tardo-antico. (M.P.).
declinazione piú vasta, imponendosi come vera e propria testa di ponte oltre approcci talvolta eccessivamente (e inevitabilmente) mediterraneo-centrici. La natura delle evidenze documentarie e storiche riTRA PASSATO E FUTURO vela infatti un palinsesto di influenAdulis rappresenta a tutti gli effetti, ze plurali e disparate, dalla gittata dunque, un contesto cruciale per la estesissima, che agglutinarono parastoria del mondo antico nella sua digmi commerciali, religiosi, politici In alto: una fase dello scavo. A sinistra: il gruppo di lavoro. In basso, sulle due pagine: operai dei villaggi limitrofi in un momento di pausa.
e culturali, contribuendo a definire il prisma di un regno – quello aksumita – latore di un melting pot in anticipo sui tempi. Studiare questi luoghi, la loro storia, viverli e «toccarli» con mano, dunque, non rappresenta soltanto un’eccezionale occasione e sfida scientifica, ma al contempo ci apre le porte e la mente verso il presente e il futuro. Scavare ad Adulis, infatti, permette di lavorare quotidianamente fianco a fianco con i giovani archeologi eritrei e le popolazioni dei vicini villaggi di Afta, Zula e Foro, attuando anche un percorso di formazione – sia pratica che teorica – in modo da contribuire, in un clima di reciproca collaborazione, alla riscoperta e alla valorizzazione di questa eredità storica e monumentale: una delle sfide piú grandi ed emozionanti per il futuro di un popolo straordinario. (G.C., Ph.P.)
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POMPEI • I COLORI DELLA PITTURA
POMPEI, LA FESTA DEL COLORE
LA CITTÀ VESUVIANA È UN OSSERVATORIO PRIVILEGIATO PER LO STUDIO DELLA PITTURA ROMANA. SIGILLATI DALL’ERUZIONE, GLI AFFRESCHI SONO INFATTI GIUNTI FINO A NOI IN CONDIZIONI ALTROVE IMPENSABILI. OGGI, INOLTRE, GUIDATI DALLE NOTIZIE RIPORTATE DALLE FONTI, POSSIAMO IDENTIFICARE TUTTI I PIGMENTI PIÚ DIFFUSI E APPREZZATI di Alessandro Mandolesi 60 a r c h e o
Le vivaci pitture policrome che ornano il bancone del termopolio della Regio V, una delle scoperte piú recenti di cui Pompei è stata teatro. I riquadri accolgono le rappresentazioni degli animali probabilmente macellati e venduti nel locale, come le due anatre germane esposte a testa in giú, pronte per essere preparate e consumate, e un gallo. Si può anche vedere l’immagine di un cane al guinzaglio, quasi un monito alla maniera del famoso Cave Canem.
D
ella pittura pompeiana stupiscono le raffigurazioni, di piccolo e grande formato, spesso ispirate a modelli o a megalografie di origine greco-ellenistica, con miti e personaggi ripresi in vari atteggiamenti, oppure scene di genere con paesaggi, nature morte e giardini vivificati da animali, attraverso
una policromia dalle innumerevoli tonalità. Dal punto di vista tecnico, oltre alla dibattuta modalità di esecuzione dei dipinti, sorprende la varietà di pigmenti disponibili sulla tavolozza dei pictores parietarii, gli artigiani decoratori che hanno abbellito le domus e gli edifici pubblici pur rimanendo nell’ombra dell’anonimato.
A Roma erano note botteghe di pigmentarii destinate a soddisfare varie esigenze, dalla medicina all’abbigliamento, benché fra le applicazioni piú ricercate dovevano risultare quelle artistiche: clienti importanti di queste botteghe dovevano infatti essere i gestori di officine pittoriche composte da abili decoratori pariea r c h e o 61
POMPEI • I COLORI DELLA PITTURA
tali, vere e proprie attività imprenditoriali gestite da terzi per conto di padroni facoltosi e socialmente influenti. Queste officine erano in grado di soddisfare ogni richiesta proveniente da una committenza variegata dal punto di vista sociale ed economico, come dimostra, a Pompei, quella che lavorò nella lussuosa Casa dei Vettii e che, insieme a un’altra, detta «di via di Castricio», operò diffusamente in città fra il 50 e il 79 d.C., rivelandosi fra le maestranze piú capaci al servizio dell’élite cittadina e della committenza pubblica. I colori da pittura usati dai Romani derivano principalmente dalle esperienze maturate in altre grandi civiltà del Mediterraneo, in primo luogo egizia, fenicia, greca ed etrusca. Piú che proporre nuove tecniche o nuovi materiali, Roma si afferma come originale centro di raccolta, assorbendo i contributi piú disparati, per poi riorganizzarli in base alle proprie esigenze. L’efficiente rete commerciale romana ha contribuito notevolmente a far arrivare in Italia i pigmenti e i coloranti piú apprezzati, cosí da arricchire l’eclettica tavolozza con le sfumature piú variegate.
LE FONTI La fonte letteraria piú importante sulle tecniche e sui materiali utilizzati dai pittori romani è Plinio il Vecchio, erudito e grande osservatore della natura, che si occupò di molti aspetti della scienza, della tecnica e dell’arte, raccontati nella sua opera enciclopedica, la Naturalis Historia. Non meno preziose sono anche le indicazioni tecniche fornite dall’architetto Vitruvio nel De Architectura. Di Plinio, il libro XXXV è interamente dedicato ai colores, con numerose e preziose informazioni sulla loro origine, provenienza e costo. La lettura del testo pliniano richiede, però, una certa attenzione, in quanto l’autore non mostra sempre un senso criti62 a r c h e o
In alto: il restauro delle pitture di un larario recentemente rinvenuto nella Regio V, nei pressi del vicolo di Lucrezio Frontone. L’ottimo stato di conservazione permette di apprezzare la luminosità del bianco utilizzato come colore di fondo.
Nella pagina accanto: coppette con resti di sostanze coloranti, da Pompei. Questi ritrovamenti costituiscono una preziosa integrazione delle notizie riportate dagli autori, Plinio il Vecchio e Vitruvio innanzitutto, sulla composizione dei pigmenti.
co, raccogliendo notizie piú o meno fondate, e nel definire gli stessi pigmenti talvolta è impreciso o confuso, usando lo stesso nome per due colori diversi o dando piú nomi allo stesso composto. Riferendosi al pregio dei colori, l’autore distingue in «piani» quelli piú diffusi e di facile reperimento e in «floridi» quelli piú ricercati e costosi, certamente piú brillanti.
Insieme all’opera di Plinio, l’analisi degli affreschi scoperti a Pompei e nell’area vesuviana fornisce molte altre informazioni sulla tavolozza cromatica usata dai pittori di pareti, a cui si aggiungono i numerosi resti di pigmenti in blocchetti o polvere ritrovati negli scavi e oggi conservati, spesso all’interno di originali coppette di terracotta a orlo rientrante e basso piede, al
In questo passo Plinio mette in evidenza la potenza della pittura e il grande fascino esercitato dalla policromia ormai perduta, che ai suoi tempi evidentemente era alimentata da innumerevoli cromatismi. Plinio scrive quando a Pompei e nell’area vesuviana era maturo il cosiddetto IV stile pittorico, caratterizzato da larghi pannelli a mo’ di tappeti sospesi e piccoli quadretti figurati fra esili architetture fantastiche, uno
stile che l’erudito ammiraglio conosceva molto bene, perché di stanza a Capo Miseno, dove governava quella flotta imperiale. Anzi, incuriosito della spaventosa eruzione del 79 d.C., Plinio ne divenne la vittima piú celebre, tanto da essere definito da Italo Calvino «protomartire della scienza sperimentale». Le pitture pompeiane, e romane in generale, sono prevalentemente realizzate con una tecnica mista fra
Laboratorio di Ricerche Applicate del Parco di Pompei. «Tra tutti, i colori amano la creta e ricusano di esser dati a fresco sull’intonaco umido il purpurisso, l’indico, il ceruleo, il melino, l’auripigmento, l’appiano, la cerussa. La cera nelle pitture a fuoco (l’encausto, n.d.r.) si tinge coi medesimi colori; è una tecnica poco usata nelle pitture parietali, ma comune nelle navi da guerra e anche in quelle da trasporto; poiché noi dipingiamo anche i mezzi che espongono ai pericoli (…) e piace che quelli i quali vanno a combattere fino alla morte o almeno fino al sangue siano trasportati con fasto elegante. E per questa visione di tanti colori in tanta varietà ci sentiamo spinti ad ammirare gli antichi» (NH, XXXV,49). a r c h e o 63
POMPEI • I COLORI DELLA PITTURA Affresco su sfondo bianco raffigurante due gladiatori al termine del combattimento: un Mirmillone, che vince, e un Trace, ferito, che soccombe. Nella pagina accanto: affreschi su sfondo bianco nel triclinio della Casa del Principe di Napoli.
una base ad affresco, come descritto da Vitruvio per la preparazione e la stesura del colore su ampi spazi, e una sovradipintura a secco per dettagli e figure, come ricordato invece da Plinio. Una volta approntata la base ci si accingeva alla decorazione: «Ben consolidato l’intonaco sotto l’azione degli appianatoi e ben levigata la candida superficie di marmo, anche i colori che costituiscono l’ultima parte della rifinitura acquisteranno splendore e nitidezza. Questi ultimi vanno applicati con cura all’intonaco ancora fresco, cosí non si staccheranno e dureranno per sempre in quanto la calce, divenuta secca e porosa in seguito al processo di cottura nella fornace ed essendo come inaridita, assorbirà quell’umidità che prima la caratterizzava e con cui ora si trova a contatto; quindi, attraverso un nuovo processo di assimilazione, incorporerà gli elementi propri di altra materia e solidificandosi e asciugandosi insieme sarà come se tornasse a riacquistare le sue qualità primigenie» (Vitruvio, De Arch.VII,3.7). E poi c’era l’encausto, un’antica tecnica di pittura caratterizzata dalla miscelazione dei colori con la 64 a r c h e o
cera liquefatta a caldo. Questo sistema è raccontato da Plinio: «Due tecniche nell’antichità vi furono per la pittura a encausto: colla cera – che era la tecnica usuale – e col cestro, o stilo, sull’avorio. Le due tecniche durarono sole, finché si cominciarono a dipingere le navi da guerra. Questo fu il terzo procedimento, per cui si discioglie la cera al fuoco e si sparge col pennello; questo colore sulle navi non viene attaccato né dal sole, né dalla salsedine, né dai venti» (NH, XXXV, 149). L’autore aggiunge che i primi pittori ad adoperare l’encausto furono i greci Polignoto, Nicanore e Mnesilao, e che la tecnica era preferita in ambienti umidi perché considerata particolarmente resistente alle intemperie e alla salsedine.
LA PREPARAZIONE Le rappresentazioni parietali erano precedute da disegni preparatori realizzati sul penultimo strato, l’arriccio, a linee graffite o dipinte in rosso o giallo, dette sinopie. Non tutti i pigmenti erano però adatti alla pittura e si preferivano quelli naturali di origine minerale o ter-
rosa, dei quali Plinio ci fornisce molte notizie. Fra i colori pliniani utilizzati a Pompei si possono comprendere l’Armenium (azzurro), il Cinnabaris (rosso), la Chrysocolla (verde erba), l’Indicum (indaco), il Purpurissum (rosso), il Melinum (bianco), l’Elephantinum (avorio, inventato dal pittore greco Apelle), l’Appianum (verde), la Cerussa (biacca di piombo), l’Atramentum (nero, Polignoto e Micone lo realizzarono con le vinacce). Definiti i pannelli e i quadri da decorare, prima che la punta del pennello le toccasse con grazia, le pareti venivano tirate a specchio con rulli e passate di mano intrise di grasso («bruniture»), come si evince dall’osservazione dei dipinti a luce radente, su cui appaiono talvolta evidenti le impronte digitali dell’artigiano: «Gli intonaci fatti a regola d’arte non sono soggetti a usura e se lavati non perdono il colore, cosa che capita invece quando il lavoro non è accurato o quando è stato eseguito su di una superficie già asciutta. Ma seguendo le indicazioni fornite il loro splendore rimarrà inalterato nel tempo» (Vitruvio,
De Arch. VII,3.8). La straordinaria lucentezza dei dipinti pompeiani ha fatto piú volte ipotizzare che la tecnica utilizzata fosse quella dell’encausto, tesi però contraddetta dall’assenza di cera nel colore. Nell’antichità una sostanza colorata inorganica allo stato di polvere finissima, insolubile in acqua e adatta a ricoprire una superficie, era considerata color, sinonimo di pigmentum da cui pictura. «I colori poi sono austeri o floridi. L’uno e l’altro tipo si ha per natura o per mistura. Sono floridi – e il committente li fornisce a sue spese al pittore – il minio, l’armenium, il cinabro, la crisocolla, l’indaco, il purpurissum, gli altri sono austeri. In ogni tipo alcuni si trovano allo stato naturale, altri si fabbricano. Si trovano allo stato naturale la terra di Sinope, la rubrica, il bianco paretonio, la terra di Melo, la terra di Eretria, l’orpimento; tutti gli
altri si fabbricano, e in primo luogo quelli menzionati tra i metalli, poi, tra i piú comuni, l’ocra, la biacca e la biacca bruciata, la sandracca, la sandyx, il siriaco, l’atramentum». Nella sua ampia dissertazione sui colori – che a Pompei, come a Roma, erano di origine minerale, vegetale e animale – Plinio propone una classificazione oggetto di numerosi dibattiti fra gli studiosi, poiché all’interno delle categorie definite e dei singoli colori non c’è spesso omogeneità e coerenza chimica o mineralogica, come imprecisa appare talora anche la loro preparazione.
I COLORI DI BASE Per Plinio, i pittori greci del periodo classico impiegavano principalmente quattro colori-base, connessi ai quattro elementi naturali, acqua, aria, terra e fuoco: a
proposito di Apelle, l’artista preferito da Alessandro Magno, dice che usasse il melinum o bianco di Milo (un’argilla bianca), il sil atticum (ocra gialla), la sinopia (ocra rossa) e l’atramentum o nero di carbone. In realtà i pittori greci disponevano di una tavolozza molto piú ampia, comprendente i pigmenti verdi e blu, quest’ultimo ereditato dagli Egizi; inoltre, introdussero nuovi pigmenti sia naturali che artificiali, come il bianco piombo o biacca, il rosso piombo o minio, il verdigris, il vermiglio o vermiglione. Tuttavia, è difficile stabilire nell’antichità il punto d’inizio dell’impiego o della creazione di uno specifico pigmento, verosimilmente in uso presso piú civiltà avanzate nelle arti. Il bianco è il colore piú luminoso e assoluto, ma privo di particolari
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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POMPEI • I COLORI DELLA PITTURA
sfumature. Contiene tutti i colori dello spettro elettromagnetico, all’opposto del nero, che rappresenta invece l’assenza di colori. Il bianco si ricavava da diverse sostanze a base di carbonati o di silicati. Secondo Plinio, sarebbe stato prodotto in tre modi differenti: con le cretae naturali, ossia argille e marne, fra cui pregiate erano le greche melinum di natura calcarea, dell’isola greca di Milo e impiegato dal famoso Apelle, la samia e l’eretria, quest’ultima proveniente dall’Eubea e facilmente riconoscibile per Plinio poiché lascia sulla lingua una sensazione di secchezza. Queste terre erano molto gra-
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dite ai pittori perché stemperabili quella dell’isola di Rodi. Poco citato rapidamente in acqua. come pigmento è invece il gesso. A Pompei il nero è spesso caratterizzato dalla presenza di carbonio LA «SPUMA DI MARE» Il bianco si ricavava anche da una grafitico proveniente da materiale qualità di carbonato di calcio detto organico. Il colore è in generale paraetonium (paretonio), dal nome di l’atramentum, una sostanza liquida una località costiera presso Alessan- artificiale ottenuta da legna resinodria d’Egitto, caratterizzata dall’in- sa o da vinacce, oppure dalla calciclusione di sedimenti marini che nazione delle ossa animali o da sali Plinio indica come «spuma di mare»; organici; ma anche dalla terra, da era fra le piú apprezzate per la faci- cui trasuda come una salsedine, o lità di stesura e di adesione all’into- direttamente da terre di colore sulnaco. Infine, il bianco si otteneva fureo. Plinio dice addirittura che anche con la cerussa o bianco piom- per ottenere questo colore certi bo, detta biacca, ricavata artificial- «pittori (…) hanno violato dei sepolcri mente dal minerale cerussite per per trafugare resti carbonizzati e ciò reazione del piombo; la migliore era costituisce una novità riprovevole».
Non è chiaro quale sia esattamente la composizione dell’atramentum naturale indicato da Plinio: tra le possibilità ci sono ossidi di ferro, grafite e carbone, tutti materiali facilmente reperibili, o ancora lignite, torba e bitume. Particolare è l’uso del nero per far risaltare il colore verde: sullo strato bianco di parentonio si preparava uno strato di colore nero, l’atramentum, sul quale si stendeva ancora la chrysocolla; il risultato finale, a detta di Plinio, era particolarmente luminoso, come il verde di un prato.
IL SIMBOLO DI UNA CITTÀ Il rosso è il colore di Pompei. Proveniva da pigmenti suddivisibili in cinque gruppi: ossidi di ferro, piombo, cinabro, realgar (solfuro di arsenico) e lacche. Le denominazioni usate da Plinio rendono però un po’ confusa l’identificazione delle diverse varietà. Il gruppo piú numeroso è quello degli ossidi di ferro, costituito da ocre rosse di varia origine geografica o geologica. La rubrica, usata da Apelle, sembrerebbe fra le piú preziose, ottenibile sia naturalmente che artificialmente dalla calcinazione dell’ocra gialla (ochra usta) o rossa con cristalli di ematite, le piú rinomate erano l’egizia e l’africana; meno pregiata era la sinope, il cui nome è legato alla città greca di Sinope sul Mar Nero. Si ottenevano anche rossi artificiali tramite ocre gialle riscaldate. Particolarmente brillante è il colore del rosso Pozzuoli o pompeiano, di origine vulcanica, riconoscibile a prima vista negli affreschi. Oltre all’ocra rossa, nella pittura murale è documentato l’impiego del pregiato cinabro, un solfuro di mercurio dalle vivide tonalità brillanti, considerato uno dei pigmenti piú importanti e utilizzato a Pompei nellaVilla dei Misteri e nella Casa dei Vettii. Aveva però il difetto, con il tempo, di annerire alla luce solare. Il pigmento era ottenuto per macina-
In alto: pitture di giardino su sfondo nero in un cubicolo della Casa del Frutteto. Si vedono limoni e corbezzoli, piante da frutto e ornamentali, uccelli svolazzanti, e un albero di fico a cui è avvinghiato un serpente, immaginati nel buio della notte.
Nella pagina accanto: particolare del grande affresco del giardino della Casa dei Ceii, appena restaurato, con un’animata scena di caccia di sapore orientale, nella quale si vedono animali selvatici di varie specie disposti su piú livelli. a r c h e o 67
POMPEI • I COLORI DELLA PITTURA
PITTORI AL LAVORO Quando il Vesuvio decise di porre fine alla vita pompeiana, all’interno di una casa compresa in una grande insula che include la Domus dei Casti Amanti e botteghe adiacenti Via dell’Abbondanza, erano in corso diversi lavori di ristrutturazione e, soprattutto, il rifacimento della decorazione parietale di un grande
oecus, una sala di rappresentanza della cosiddetta Casa dei Pittori al lavoro: qui gli scavi hanno messo in evidenza un cantiere nel quale è possibile osservare tutte le fasi di realizzazione di una pittura parietale, dalla preparazione della calce alle stesure dell’intonaco e dei colori di fondo, dalla
realizzazione dei disegni preparatori o sinopie in ocra all’esecuzione dei dettagli dei quadri figurati, con immagini svolazzanti impreziosite da sovradipinture a fresco-secco, fino alla levigatura finale (politiones) necessaria per far aderire i diversi strati di colore alla parete.
Per la realizzazione di un affresco parietale si richiedevano tempi rapidi e un forte affiatamento della squadra coinvolta nel lavoro, con una chiara ripartizione dei ruoli e delle competenze: per questo ambiente pompeiano è stato calcolato che gli artigiani impegnati dovevano essere quattro, supportati da almeno un paio di
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Nella pagina accanto, a sinistra: Selene ed Endimione in un tondo dall’insula dei Casti amanti, entrambi dal morbido incarnato e dal panneggio verde della dea che si staglia nello sfondo nero. Nella pagina accanto, a destra: scorci architettonici che inquadravano le decorazioni in corso nella Casa dei Pittori al lavoro.
In alto: la parete nord dell’ambiente di soggiorno della Casa dei Pittori al lavoro in corso di esecuzione: si può osservare la suddivisione dello spazio decorativo in registri orizzontali e verticali e, al centro, spicca un grande pannello, sul quale il pittore stava tracciando i disegni preparatori servendosi dell’ocra gialla (sinopia).
assistenti. Un primo pittore stava tracciando i disegni preparatori (sinopie) con scorci architettonici nella parte mediana di una parete, con l’aiuto di una squadra e di cordini; un secondo pittore piú esperto era invece impegnato nelle sovradipinture a fresco-secco di figure dipinte sulla parete accanto; un terzo pittore stava invece dipingendo un quadro mitologico al centro di una terza parete, e un quarto e ultimo pittore aveva appena steso l’intonachino su un angolo della stanza ed era pronto
ad applicare il colore di fondo. Nel frattempo, nella squadra pittorica ben allenata, i due assistenti stavano preparando la calce da utilizzare per l’intonaco (tectorium) e l’intonachino. Possiamo immaginare che molte di queste operazioni si sarebbero dovute ultimare in quella stessa giornata lavorativa, considerato che non si poteva aspettare molto tempo prima che l’intonaco asciugasse: ma si trattava evidentemente di quel giorno fatale del 79 d.C.
zione del minerale che si ricavava dalle miniere di Almadén nella Spagna sud-occidentale, mentre in Italia si trovava in Toscana sul Monte Amiata. Esistevano infine i rossi derivati dalla miscelazione di diverse componenti, come il sandyx dalla cerussa usta e rubrica oppure il syricum, dallo stesso sandyx con la sinope.
MINIO O CINABRO? La questione si complica se, seguendo le indicazioni di Plinio, citiamo l’uso di pigmenti rossi a base di piombo e di mercurio: il minio e il cinabro. I Romani chiamavano minium o cinnabar il nostro cinabro, e cerussa usta o minium secondarium il minio. Sta di fatto che il cinabro era il pigmento rosso piú pregiato ed era considerato sostanza sacra e rituale, probabilmente perché costituito dal mercurio, l’argentum vivum, metallo che ha sempre meravigliato gli uomini per la sua capacità di legare l’oro. Il minio, come lo intendiamo oggi, era la cerussa usta, ottea r c h e o 69
POMPEI • I COLORI DELLA PITTURA
nuta per riscaldamento della cerussa (carbonato di piombo di colore bianco) che con la cottura si trasformava in colore rosso. Era considerato di valore inferiore rispetto al cinabro, nonostante quest’ultimo fosse nocivo nella manipolazione e ricavato nelle lontane regioni spa- fresco. Il sil pressum, cioè scuro, è gnole, efesine e del Mar Nero. un’argilla contenente ossido di manganese, corrispondente a una terra di Siena o a una terra d’omIL GIALLO, UN bra. Infine, il sil lucidum Galliae. Si PIGMENTO CANGIANTE Molti colori ritrovati a Pompei usava anche un pigmento giallo a presentano tonalità gialle, dal chiaro base di piombo chiamato spuma aral rossiccio; sono costituiti da terre genti, perché rinvenuto nelle minieod ocre con minerale di ferro, per- re argentifere. Il giallo si otteneva, tanto risultavano piuttosto diffusi inoltre, arrostendo minerali piombiper il basso costo. I Romani chia- feri, nel qual caso era noto come mavano l’ocra gialla sil, dall’aspetto puteolanum, cioè di Pozzuoli. fangoso, e ne conoscevano quattro Il verde si otteneva da sostanze di varianti, in ordine di qualità decre- diversa composizione. Per Plinio scente: il sil atticum, uno dei quattro deriva dalla chrysocolla o armenium, colori fondamentali dei Greci usato termine con il quale si indicavano per la prima volta da Polignoto e indifferentemente la malachite o la Micone, era molto ricercato nella crisocolla (carbonato di rame), cioè decorazione degli edifici e, per la il silicato di rame. L’autore ne depresenza di limonite nella sua com- scrive il metodo per prelevarla nelle posizione, se riscaldato, si disidrata- miniere di oro, rame, argento e va e diventava rosso, come è acca- piombo, sia dal minerale naturale, duto in molte pareti dipinte di sia artificialmente, facendo scorrere Pompei con il grande calore svilup- acqua lungo la vena per molti mesi. Un altro pigmento verde assai appato dall’eruzione del 79 d.C. Il sil marmorosum è considerato il prezzato era il verdigris o verderame, piú adatto e diffuso alla pittura a l’aeruca dei Romani, ottenuto me70 a r c h e o
diante la produzione della ruggine di rame. Il prodotto è esclusivamente di origine artificiale, anche se Plinio, scambiandolo per la malachite, asserisce che si possa trovare sulla superficie delle rocce cuprifere. Molto diffusa, anche se meno pregiata, era invece una terra verde naturale indicata da Vitruvio come creta viridis, composta da celadonite o glauconite, entrambe del gruppo delle miche, mentre non sappiamo molto di un’altra terra verde chiamata appianum.
L’AZZURRO, ESOTICO E PREZIOSO Il colore azzurro aveva una composizione caratteristica a Pompei, tanto da definirsi «pompeiano», come il piú famoso rosso. Nei ritrovamenti risulta molto stabile e dall’aspetto sabbioso, indicato anche come azzurro egiziano o vestorio. Plinio chiama caeruleum tutti i pigmenti blu minerali, sia naturali che sintetici; quelli naturali sono estratti dalle miniere aurifere e argentifere. Tra questi si possono distinguere il caeruleum armenium, proveniente dall’Armenia, che potrebbe corrispondere all’azzurrite o ad altri minerali cupriferi; il caeruleum
aegyptium o «blu egizio», antichissimo composto di miscele di sabbia e minerali quali azzurrite o malachite provenienti dal Sinai; il caeruleum scythicum, il piú pregiato dopo quello aegyptium, corrispondente al lapislazzuli delle miniere del Firgamu, nell’odierno Afghanistan; il caeruleum puteolanum potrebbe essere lapislazzuli disponibile sui mercati dell’area vesuviana o, forse meglio, il blu egiziano prodotto a Pozzuoli; il caeruleum cyprium è azzurrite della migliore qualità, proveniente dalle miniere di rame dell’isola di Cipro, che veniva ridotto in polvere e miscelato con carbonato sodico (natron)
Nella pagina accanto: Villa di Diomede. Un saggio delle vivaci policromie che i pictores parietarii erano in grado di realizzare. Qui sotto: Casa dello Scienziato. Particolare di un affresco con pigmei e una barca fallica per il quale è stato
utilizzato, fra gli altri, il blu egiziano. In basso: particolare della decorazione della Casa dell’Adone ferito nel quale figura l’immagine di una coppia statuaria in marmo che impreziosiva gli scorci architettonici dipinti.
e sabbia, da cuocere poi fino a 800 gradi; infine, il caeruleum hispaniense, probabilmente affine al puteolanum usato a Pompei. Per ottenere l’azzurro chiaro si macinava piú finemente il pigmento, diluendolo in seguito con creta bianca.
LA RICETTA DI VESTORIO A Pozzuoli, famoso centro di produzione di pigmenti e coloranti, era attivo un certo Vestorio, un uomo d’affari amico di Cicerone. Le sue fortune si basavano anche sull’avere carpito la ricetta del blu egiziano – evidentemente da qualcuno venuto dall’Egitto – e l’aveva replicata, a mo’ di imitazione, sotto il marchio caeruleum vestorianum, fatto stampare in bella vista sui blocchetti di pigmento. La differenza del procedimento di Vestorio rispetto a quello orientale consiste nell’impiegare limatura di rame anziché minerali cupriferi, e nel macinare finemente le materie prime cosí da aumentare al massimo la superficie di contatto tra gli elementi. Il prezzo del caeruleum vestorianum era alto, sembra infatti che a Roma e in Campania fosse il pigmento piú caro e apprezzato. Si ringrazia per la collaborazione l’Ufficio stampa e comunicazione del Parco Archeologico di Pompei. a r c h e o 71
LUOGHI DEL SACRO/3
UNA CASA PER AMON L’UNIVERSO RELIGIOSO DELL’ANTICO EGITTO È SEGNATO DALL’OSMOSI COSTANTE FRA LA NATURA UMANA DEI FARAONI E QUELLA DIVINA DELLE ENTITÀ VENERATE. UNA CONCEZIONE ESPRESSA IN FORME SPETTACOLARI NEI GRANDI TEMPLI DI KARNAK E NAPATA di Francesca Iannarilli
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Karnak. Le statue di sfingi criocefale (con corpo leonino e testa di ariete) che fiancheggiano il viale d’accesso (dromos) al grande tempio di Amon.
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LUOGHI DEL SACRO/3
A
Mar Mediterraneo
ll’inizio del II millennio a.C. sale sul trono d’Egitto Amenemhat, il cui nome significa «Amon è a capo». Con lui ha inizio la XII dinastia (Medio Regno), nonché il primato del dio Amon sulla terra dei faraoni, destinato a durare per tutto il millennio successivo e che avrà il suo apice nel Nuovo Regno (1550-1069 a.C.). Il sito di Tebe, in Alto Egitto (nel Sud del Paese), comincia a diventare un centro politico-religioso particolarmente rilevante, soprattutto quando Sesostri I, successore del fondatore Amenemhat I, inaugura quello che è conosciuto come il grande tempio di Amon a Karnak. Il nome egiziano di Tebe, Waset, «La Potente», ne sottolinea la grandezza; quello ebraico (in Geremia 46,25 e Naum 3,8) No Amôn, «Città di Amon», ne evidenzia lo stretto legame con questa sua divinità. Il complesso templare di Karnak era noto come neswt tawy, «I troni delle Due Terre» e ipet-swt, «La piú scelta delle sedi», definizioni che
dal Nilo, percorre una strada a ritroso nel tempo, partendo dagli edifici piú tardi per arrivare a quelli piú antichi, dal I al VI pilone.
Cairo
N ilo
E G I T TO
Tebe Mar Rosso Lago Nasser
ben rivelano la maestosità del luogo. Karnak, il nome arabo moderno, deriva dal vicino villaggio fortificato e designa non un solo tempio, bensí un agglomerato di edifici sorti in due millenni di storia. Un grande muro di cinta quadrangolare intervallato da otto portali racchiude l’enorme tempio di Amon, sorto a partire da un cortile del Medio Regno e ampliato durante il Nuovo Regno e l’epoca tolemaica, fino a comprendere una trentina di ambienti. Chi entra oggi nel complesso di Karnak, arrivando
Il grande tempio di Amon
N
Planimetria del complesso templare di Amon Karnak. A. Cinta di Amon B. Tempio di Ramesse III C. Grande sala ipostila D. Obelischi E. Uagit (piccola sala ipostila) F. Cortile del Medio Regno G. Akh-menu H. Tempio di Ptah I. Lago sacro J. Tempio di Opet K. Tempio di Khonsu L. Primo pilone M. Secondo pilone N. Terzo pilone O. Quarto pilone P. Settimo pilone Q. Ottavo pilone R. Nono pilone S. Decimo pilone T. Tempio di Montu
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DALLA LUCE ALL’OMBRA Il tempio in egiziano è definito Hwt-necer, letteralmente «dimora del dio»; egli vi abita concretamente in forma di statua e in suo onore vengono officiate festività e processioni. Esso fungeva da interfaccia tra la sfera divina e la sfera umana, attraverso i rituali simbolici che si svolgevano al suo interno. L’immagine di culto non è quasi mai visibile, poiché si colloca nella parte piú intima e oscura del santuario, alla quale solo pochi accedono. Il tempio, infatti, è articolato in una serie di ambienti progressivamente piú piccoli e ombrosi, che conferiscono alla struttura una conformazione detta «a cannocchiale». Ai due torrioni del pilone di ingresso, decorati con scene a rilievo, segue un grande cortile porticato a cielo aperto, probabilmente accessi-
T A H L
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Nella pagina accanto in basso: ricostruzione virtuale del complesso templare di Karnak. In particolare, si notino le colonne hathoriche disposte in due file fra il primo e il secondo pilone.
bile anche alla popolazione durante le occasioni festive, unico momento in cui era consentito un «incontro», benché a distanza, con la divinità. Il sacerdote, infatti, conduceva la statua in processione all’interno di un tabernacolo, permettendo cosí al dio di manifestarsi, pur senza mostrarsi direttamente. Dal cortile luminoso si prosegue verso la sala ipostila che, come denota l’etimologia del suo nome (dal greco ypó, «sotto», e stéle, «colonna»), è un ambiente coperto e affollato di colonne, ove solo i claustra – alte grate in pietra – diffondevano una fioca luce. Le scene raffigurate sulle pareti ci dicono che qui dovevano svolgersi le cerimonie di vestizione, unzione e imbellettamento dell’immagine divina, da parte del solo officiante ammesso: il sovrano. Spesso le colonne in pietra non avevano funzione strutturale, ma andavano a costituire una sorta di fitta palude di papiri, la cui forma era ripresa dai capitelli che le sormontavano. Questa «palude» dava
Simbolo dell’orizzonte Il termine pilone deriva dal greco pylón, «porta d’ingresso». In un tempio egiziano il pilone è il portale di accesso, costituito da due alti torrioni trapezoidali gemelli. Simboleggia l’orizzonte (akhet), il cui segno geroglifico è, in effetti, costituito proprio da due colline tra cui sorge il disco solare.
Caratteristici del Nuovo Regno sono i piloni costituiti da torrioni gemelli dalla superficie rastremata e con una modanatura a gola egizia, tipica decorazione a profilo curvo che orna la parte superiore delle pareti. Spesso la loro sommità è dotata di dispositivi di fissaggio per pennoni e vessilli. La superficie esterna dei due torrioni è decorata con scene di battaglia o caccia, nelle quali il re sovrasta i nemici e la natura selvaggia, manifestando il proprio ruolo di conquistatore e detentore dell’ordine cosmico. Il passaggio attraverso il pilone è chiuso da pesanti porte lignee, talvolta decorate con dorature di rame. I piloni di Karnak possono raggiungere un’altezza di 43 m e un’ampiezza superiore ai 100 m.
accesso a un’area piú intima del tempio, piú stretta e piú buia: quella, per cosí dire, del sancta sanctorum. Si tratta della cella, luogo in cui risiede il dio, inaccessibile e sacro.
Tutto il percorso segue uno stesso asse, est-ovest nel caso di Karnak, dalla luce all’ombra, sale e si restringe lentamente dal primo pilone di accesso fino alla cella, che rappresenta
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la collina primordiale, cioè un monticello di terra che si riteneva essere emerso per primo dalle acque al momento della creazione del mondo. Anche il muro di cinta che circonda l’intera area templare ha una peculiarità: i filari di mattoni non sono dritti, ma ondulati, in modo da ricordare le acque dei primordi che hanno dato inizio alla vita e che sono fondamento dello stesso tempio. L’orientamento del tempio segue anch’esso un criterio legato al paesaggio e ai riferimenti mitologici che lo caratterizzano e in alcuni casi si predilige il criterio astrale: per esempio il tempio di Elefantina (Alto Egitto) sembra seguire il sorgere della stella Sirio/Sothis, 76 a r c h e o
che preannuncia l’arrivo dell’inondazione del fiume. Il tempio di Karnak, invece, viene originariamente orientato est-ovest con l’ingresso principale che dà verso il Nilo e il sorgere del sole; man mano, però, al classico modello «a cannocchiale» si aggiungono sempre piú appendici e ambienti nuovi, finché il tempio di Amon non arriva a comprendere anche una sezione parallela al Nilo (che scorre da sud a nord). Amon è una divinità presente in Egitto sin dal III millennio a.C. (Antico Regno); poi, all’inizio del millennio successivo, egli figura come dio locale della regione tebana e i sovrani cominciano ad attribuir-
si il suo nome (come nel caso, già ricordato, di Amenemhat). Egli ha molte caratteristiche e molte manifestazioni e per tale ragione è definito dagli stessi Egiziani «Amon dai molteplici nomi». È un dio creatore, un dio della fertilità («Amon-torodi-sua-madre») e un dio guerriero, protettore del sovrano, noto come «Signore dei troni delle Due Terre», cioè l’Alto e il Basso Egitto. Gradualmente il prestig io di Amon diviene sempre piú preminente, finché arriva ad assumere il ruolo di maggiore divinità del pantheon egiziano durante il Nuovo Regno. In particolare, nella XVIII dinastia (1543-1292 a.C.) – per iodo di rapido sviluppo
Nella pagina accanto: veduta a volo d’uccello del cortile fra primo e secondo pilone; sulla sinistra, si riconosce il tempio di Ramesse III. A sinistra: una veduta generale del complesso monumentale di Karnak. In basso: particolare della decorazione del terzo pilone, che Amenofi III realizzò smantellando alcune costruzioni precedenti, fra cui la corte realizzata da Thutmosi IV.
dell’Egitto dopo la riunificazione seguita all’invasione degli Hyksos (sovrani delle regioni straniere) – il tempio di Karnak rappresenta il segno concreto del dominio di Amon e diventa lo scenario ufficiale del potere regale. La prima costruzione del tempio di Amon risale al Medio Regno e, in particolare, a Sesostri I (1964-1919 a.C.), il quale fa erigere un edificio in calcare di cui rimangono soltanto colonne, pilastri decorati e una statua colossale di Osiride (l’area è oggi definita «cortile del Medio Regno»). È però durante il Nuovo Regno che il tempio prende ad espandersi velocemente: tutti i sovrani della XVIII dinastia, infatti, ne costruiscono uno o piú ambienti, dal doppio portale di Amenofi I (1550 a.C. circa) al II pilone di Horemheb (1320 a.C. circa).
MODIFICHE RADICALI In particolare, Thutmosi III, sesto faraone della dinastia, modifica radicalmente la struttura piú antica del santuario, costruendo una sala ipostila a doppia fila di colonne, un nuovo sacrario per la barca sacra di Amon (a bordo della quale il dio usciva dal tempio durante le cerimonie in suo onore) e, soprattutto, un edificio estremamente complesso e dall’orientamento perpendicolare al tempio maggiore, noto come Akh-menu, «splendido di monumenti». Esso sorge a est del cortile del Medio Regno ed era, in origine, preceduto da due statue colossali del sovrano vestito a festa, che a r c h e o 77
LUOGHI DEL SACRO/3
testimoniano l’intento celebrativo della regalità a cui questo edificio era votato. Dopo l’ingresso si aprono numerosi ambienti di diversa destinazione, tra cui uno atto alla celebrazione del cosiddetto heb-sed, la festa del giubileo regale – celebrata ogni 30 anni di regno per il rinnovamento della regalità – e il «giardino botanico», cosí chiamato per le straordinarie raffigurazioni naturalistiche di animali e piante esotiche sulle sue pareti. All’esterno del muro orientale dell’Akh-menu era collocato il famoso «obelisco unico» in granito rosa, eretto da Thutmosi IV e poi spostato, nel 357 d.C. da Costanzo II, figlio dell’imperatore Costanti-
no, nel Circo Massimo a Roma; esso è oggi meglio noto come Obelisco Laterano, dal nome della basilica di S. Giovanni in Laterano ove fu collocato nel 1588 da Sisto V e davanti alla quale ancora si staglia nei suoi 32 m di altezza. Alla fine della XVIII dinastia, prende forma una nuova sezione del tempio: si tratta dell’asse «secondario» che corre da nord a sud, quindi per pendicolare all’asse principale, caratterizzato da altri quattro cortili e quattro piloni (dal VII al X). Il témenos, la grande cinta muraria che circoscrive l’area sacra di Amon, è invece opera della dinastia tolemaica (nome originato dal capostipite Tolomeo
Soter, satrapo di Alessandro Magno), che governò l’Egitto ellenistico tra il 304 e il 30 a.C.
UN PALCOSCENICO PER IL RE Le tematiche ricorrenti nella decorazione delle pareti del tempio sono sostanzialmente due, quella divina e quella regale, che tra loro si intrecciano e si completano. Il sovrano reca offerte agli dèi, i quali, a loro volta, lo introducono nel tempio e gli donano vita, forza e potere; la statuaria stessa non rappresenta solamente la divinità a cui il tempio è dedicato, ma anche i sovrani che gli ambienti di quella struttura hanno edificato. Afferma-
LA STATUA DEL DIO E IL RITUALE GIORNALIERO La statua è l’oggetto materiale in cui la divinità manifesta se stessa; essa rappresenta l’immagine vivente del dio, tanto che per gli Egiziani la sua realizzazione corrisponde a una vera e propria creazione. Per tale ragione sulla statua divina i sacerdoti svolgevano un rituale quotidiano preciso e imprescindibile: ogni giorno essa veniva prima svegliata, lavata, vestita, trattata con olii e unguenti, poi nutrita e rifornita di stoffe, ornamenti e insegne divine. Molte scene ancora visibili sulle pareti dei templi di Nuovo Regno, accompagnate dalle relative didascalie, forniscono svariati dettagli sull’esecuzione di questi rituali. Uno di questi, in particolare, è chiamato «Rituale di Amenhotep I» e ci è noto da diverse fonti: il cosiddetto Papiro Chester Beatty 9 (datato al regno di Ramesse II); la sala ipostila di Karnak (datata a Seti I) e le pareti del tempio di Medinet Habu (Ramesse III). La diffusione di questo rituale mostra come esso non fosse applicato esclusivamente dal sovrano di cui prende il nome, ma anche dai suoi successori. Sulla parete orientale della sala ipostila del tempio di Amon a Karnak è possibile osservare un officiante nell’atto di offrire un vassoio colmo di cibarie al dio Amon; l’immagine è accompagnata da un testo: «Vieni, o Ra, solleva le offerte davanti al volto (del dio). Solleva le offerte verso Amon-Ra, Signore dei Troni delle Due Terre. Tutta la vita viene da lui, tutta la salute viene da lui, tutta la stabilità viene da lui, ogni buona fortuna viene da lui, come Ra per l’eternità» (traduzione da: Harold H. Nelson, Certain reliefs at Karnak and Medinet Habu and the Ritual of Amenophis I, 1949). 78 a r c h e o
Restituzione grafica della scena scolpita sulla parete orientale della sala ipostila, raffigurante un officiante che offre al dio Amon un vassoio colmo di cibarie.
va Thutmosi III in un’iscrizione: «Ho fatto fare cappelle in pietra (…) per trasportarvi le statue della mia maestà e le statue dei miei padri, i re dell’Alto e Basso Egitto». Le pareti esterne dei piloni sono quelle maggiormente sfruttate per «sponsorizzare» il sovrano, attraverso la narrazione figurata delle imprese militari svolte fuori dai confini egiziani, in modo che tutti i visitatori possano riconoscere la forza sovrumana dei propri re e la loro legittimazione da parte delle grandi divinità del pantheon nazionale. Queste divinità si uniscono idealmente al sovrano proprio al centro del territorio egiziano, nell’area sacra di Karnak. La presenza del re vi si manifesta attraverso la statuaria colossale, di cui fornisce un ottimo esempio la scultura in granito rosa di Ramesse II – tra i piú noti e longevi sovrani della XIX dinastia – poi usurpata da Pinedjem, della XX dinastia, e recuperata in pezzi nei pressi del II pilone. Una volta riassemblati i frammenti, è stato possibile apprezzare le dimensioni originali della statua, che era alta ben 11 m.
STATUE COLOSSALI Il re si manifesta nella pienezza del suo ruolo soprattutto nel cortile: durante la XX dinastia, Ramesse III fa erigere una struttura tra il I e il II pilone. Doveva trattarsi di un punto di sosta per le barche delle divinità che percorrevano l’area sacra durante le manifestazioni pubbliche, ma qui lo spazio viene concepito in grande, come un vero e proprio tempio. Esso è infatti costituito da un pilone, un cortile, una sala ipostila e tre celle per le tre barche sacre del dio Amon, della sua sposa Mut e del figlio Khonsu. Il cortile, peraltro, è costeggiato da pilastri ai quali si appoggiano delle statue colossali del sovrano, rappresentato nella fila settentrionale con la corona rossa del Basso Egitto e nella fila meridionale con la corona
Statua colossale di Ramesse II, collocata fra le colonne del secondo pilone.
bianca dell’Alto Egitto. Con la fine della XX dinastia (1070 a.C. circa), la monarchia perde la sua coesione e il clero tebano acquisisce sempre maggior autonomia. Anche le nuove dinastie, prima libica (XXII) e poi nubiana (XXV) che salirono al potere, misero mano al grande tempio di Amon e lo fecero in modo piutto-
sto ambizioso. Sheshonq – primo re della casata libica (945-924 a.C.) – apre un nuovo cortile davanti al II pilone e accanto al tempietto di Ramesse III fa erigere un imponente portico noto come «Portale dei Bubastidi», coperto di rilievi che mostrano il nuovo sovrano in scene di trionfo sui nemici e liste di luoghi da lui conquistati. a r c h e o 79
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In alto: Karnak. Rilievo raffigurante due personaggi che portano offerte a una barca sacra. Nel complesso templare erano comprese tre celle, per le imbarcazioni del dio Amon, della sua sposa Mut e del figlio Khonsu.
Taharqa – quinto re della stirpe nubiana (690-664 a.C.) – è artefice di un chiosco, costruito proprio al centro del primo grande cortile, con colonne a papiro che si stagliavano sotto il cielo aperto, ma di cui oggi ne resta una soltanto, alta ben 21 m. Un possibile confronto per questa struttura si ha nel tempio di Amon al Jebel Barkal, proprio in Nubia, di cui si scrive piú avanti. L’area sacra non si riduce alla struttura templare tipica di un determinato modello culturale di un dato periodo storico, ma costituisce un cosmo in miniatura nel quale si compiono tutte le manifestazioni rituali e cerimoniali proprie della religiosità locale. L’intero edificio templare riproduce l’universo al momento della creazione, come già evidenziato per il cosiddetto sancta sanctorum sopraelevato che simboleggia la «collinetta primordiale»; esso deve rievocare la perfe80 a r c h e o
Nella pagina accanto: Karnak. Rilievo raffigurante l’incoronazione di un faraone. Il sovrano indossa la corona piatta, che rappresentava il Basso Egitto e, in posizione frontale, sporge l’ureo, il cobra protettore della regalità.
zione dell’universo stabilita dalla Maat (divinità garante dell’ordine cosmico), rispondendo ai criteri di «eternità» e «stabilità».
RIPETERE LA CREAZIONE Il tempio, d’altronde, è un punto di congiunzione tra il mondo terreno e quello divino, ove si svolge un cerimoniale che consacra l’intero spazio, affinché divenga degno di fungere da «casa del dio». La cerimonia di fondazione, prima tra tutte, rappresenta una ripetizione della creazione: la fossa scavata per le fondamenta della struttura deve essere tanto profonda da raggiungere il livello dell’acqua, richiamando cosí le acque del Nun (una sorta di brodo primordiale, che gli Egiziani ritenevano avesse originato l’esistenza). Il riempimento della fossa con sabbia, poi, rievocherebbe la collina primordiale, primo
monticello di terra venuto al mondo. In molti casi, il faraone – assistito dai sacerdoti e dalla dea Seshat – è autore della cerimonia di fondazione del pedj-sesh, il «tendere la corda», con la quale traccia il contorno della struttura con picchetti e vi lega attorno, appunto, un laccio che definiva i limiti della costruzione. In tal modo il sovrano si presenta come creatore. Persino le colonne che affollano la sala ipostila possono essere interpretate come la trasposizione in pietra delle piante che crescono in prossimità del Nilo e delle paludi: i capitelli, infatti, assumono la forma di un papiro chiuso o aperto, di un fiore di loto o di una palma, mentre l’alto fusto rappresenta lo stelo che fuoriesce dalla terra o dalle acque fertili e produttive del fiume. Ma non solo dimensioni, luminosità ed elementi architettonici dell’edificio templare hanno un simboli-
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA REGALITÀ E IL SIMBOLISMO DELLE CORONE Il sovrano egiziano può assumere valori e funzioni diverse in relazione all’occasione e al contesto in cui agisce. Alcune opere che lo rappresentano sono destinate al culto e al rito, dunque non necessitano di essere mostrate al pubblico, poiché esiste un clero addetto a quello specifico cerimoniale. Altre, invece, devono fungere da modello per i sudditi e sono dunque collocate in luoghi ad alta visibilità, quali gli ingressi monumentali o i cortili templari. In tali contesti, la statua del faraone deve ostentare superiorità, vigoria fisica e dignità, in modo da incutere rispetto e ammirazione in chi guarda; ciò è particolarmente vero per i Ramessidi, che prediligono nella loro statuaria tratti idealizzati e dimensioni colossali. Oltre a queste caratteristiche, però, è necessario che
smo che esula da ragioni puramente funzionali: ogni caratteristica dell’ambiente circostante, dell’intero contesto in cui il tempio si colloca, assume un significato preciso. A Tebe, lo spazio cerimoniale è contraddistinto fortemente dal Ni-
Didascalia da fare Ibusdae
evendipsam, erupit antesto l’immagine del sovrano contengaofficte gli elementi tipici taturi cum ilita aut quatiur restrum della regalità che permettano di riconoscerlo eicaectur,del testo ium chiaramente nella pienezza suoblaborenes ruolo; tra queste, è quasped e, quos etur reius nonemil sostanziale l’abbigliamento piúnon specificatamente, quam il expercipsunt rest magni copricapo. Molto spesso re indossa ilquos nemes, un teces teces. fazzoletto di stoffa aautatur righe, apic e sulla suaenditibus fronte svetta l’ureo (in Egiziano iaret, «serpente eretto», poi in greco ouraîos, «della coda, caudale»), il cobra protettore della regalità. Ma ancor piú emblematiche sono le corone: quella bianca e alta rappresentava l’Alto Egitto, quella rossa e piatta sulla sommità rappresentava il Basso Egitto. Le due corone venivano frequentemente combinate a formare la cosiddetta «doppia corona», simbolo dell’unificazione del Paese e del dominio del sovrano sull’intero territorio egiziano.
lo. Le festività e le processioni che vi si celebrano fungono, infatti, da congiunzione tra la riva orientale – la terra dei viventi – e la riva occidentale – sede delle tombe regali e dunque, regno dei morti. L’annuale festa di Opet, prima tra
tutte, si celebrava proprio sul fiume, sulle cui acque viaggiava la barca di Amon, della consorte Mut e del figlio Khonsu diretta a Luxor; qui, nelle stanze piú inaccessibili del tempio, veniva celebrato il matrimonio sacro tra Amon – con cui a r c h e o 81
LUOGHI DEL SACRO/3
LE MANIFESTAZIONI DEGLI DÈI Una divinità egiziana può avere molteplici forme: lo stesso dio può, infatti, essere rappresentato in versione antropomorfa (con fattezze umane), teriomorfa (con fattezze animali), o in forma mista. Le possibilità di rappresentazione di una stessa divinità sono, dunque, molteplici. Un chiaro esempio ci è offerto dalla dea Hathor, che spesso assume la forma umana di una donna con un paio di corna di mucca sulla parrucca, ma che ha anche una forma animale di mucca e, piú raramente, corpo umano e testa di mucca. Anche il piú famoso Anubi può assumere una forma mista, umano con testa di canide, o, a volte solo canide. Tutte le possibili rappresentazioni di un dio ne
evidenziano le diverse caratteristiche e le varie funzioni. Dotare Amon di una testa di ariete non significa che gli Egiziani o i Nubiani lo immaginassero davvero come un uomo con testa animale, ma
si identificava il re – e la dea Mut, Sulle due pagine, in alto: restituzioni assicurando al sovrano il diritto di grafiche dei rilievi del tempio di Mut continuare a regnare. ai piedi del Jebel Barkal, presso
DA UNA SPONDA ALL’ALTRA Un’altra festività tebana che si svolgeva lungo il fiume era la «Bella festa della Valle», durante la quale la statua di Amon veniva condotta in processione da Karnak sino a Deir el-Bahari, sulla sponda occidentale. La barca divina era accompagnata da sacerdoti, ballerini, musici e portatori di offerte; il raggiungimento della riva occidentale, quella del mondo dei morti e degli dèi dell’oltretomba, doveva essere anche occasione di banchetti e veglia sulle tombe degli antenati. Per il sovrano, la Festa della Valle era soprattutto occasione di unirsi al dio e assicurarsi, cosí, una riconferma della regalità. Altro elemento caratterizzante del paesaggio tebano è la montagna calcarea che corre quasi parallelamente al fiume, e che gli Egiziani consideravano colma della presen82 a r c h e o
piuttosto che l’ariete alludesse a uno dei tratti essenziali della divinità. In antico egiziano, un termine usato per scrivere «ariete» è rhny, connesso con rhn, cioè «guadare» o «attraversare» le acque; questa
Napata (oggi in Sudan). In alto, il dio Amon rappresentato in versione ibrida,
con corpo umano e testa di ariete, come dio di Napata; nella pagina accanto, in versione antropomorfa come dio di Tebe (da Richard Lepsius, Denkmäler aus Ägypten..., 1913).
za divina. La cima di questa montagna era considerata il punto di accesso all’aldilà, uno spazio liminale in cui il mondo dei vivi e quello dei defunti si incontrano. La montagna occidentale si confi-
gura, dunque, come luogo divino, ma anche luogo di rinascita: cosí come accoglie il sole al tramonto, permettendogli di rigenerarsi durante la notte per poi sorgere nuovamente, allo stesso modo acco-
Il trono sull’acqua Nella Sala Ipostila di Karnak, Amon-Ra compare seduto in trono su un piedistallo dal quale sgorga l’acqua del Nilo e l’iscrizione che accompagna la scena recita: «Vita e potere sono stretti nel tuo pugno, l’acqua esce da sotto i tuoi piedi». Della scena presentiamo qui accanto la restituzione grafica: da sinistra si possono riconoscere gli dèi Khonsu, Mut e Amon, sotto il cui trono scorre la piena (tavola tratta da: The Great Hypostyle Hall at Karnak I/1-The Wall Reliefs, Chicago 1981).
erigere un tempio è presto detto: Thutmosi – grande costruttore e celebre conquistatore – rese l’Egitto una potenza internazionale, spingendo le proprie mire espansionistiche non solo a est, sulla costa levantina, ma anche a sud, in Nubia. Egli è il primo egiziano a raggiungere la IV cateratta del Nilo e l’area del Jebel Barkal, un rilievo roccioso di arenaria alto circa 100 m e dalla
anche l’Amon di Napata ha uno stretto legame con il fiume: egli, infatti, non è solamente il dio protettore della regalità, ma gestisce i ritmi della piena del Nilo attraverso le acque dell’inondazione, creando la vita e garantendone il rinnovamento ciclico. Il dio nazionale, quindi, è lo stesso: Amon neb neswt tawy, «Signore dei troni delle due terre», sia a Tebe che a Napata, sia
glie il defunto nel suo viaggio conformazione particolare, il cui oltremondano, attraverso i riti sperone ricorda un cobra o un’alta corona faraonica. Thutmosi e i suoi connessi con la sepoltura. successori assimilarono il Jebel Barkal alla Montagna Pura (Djw wab è DA TEBE A NAPATA: AMON DELLA MONTAGNA il nome egiziano), sede e luogo di Il fiume e la montagna costituisco- nascita dello stesso dio Amon a cui no quindi due elementi caratteristi- era stato dedicato il maggiore sanci dell’area sacra, ma non solo di tuario di Tebe. Anche qui, dunque, quella tebana. Un paesaggio simile nel profondo territorio nubiano, si ritrova, infatti, molti chilometri viene eretto un tempio per il dio piú a sud, nella città di Napata, oggi «Amon che risiede nella Montagna sito del Jebel Barkal (patrimonio Pura» e fiorisce la città di Napata, UNESCO), in Sudan. Anche qui destinata a divenire la controparte sorgeva una grande area sacra, in- meridionale di Karnak. centrata attorno al tempio di Amon Proprio come a Karnak, infatti, il e fondata dal sovrano Thutmosi III tempio di Amon di Napata ha una connessione profonda con la sua (1479-1425 a.C.). Perché un faraone dovesse scegliere montagna, all’interno della quale un luogo tanto lontano dalla pro- viene ricavata la cella che doveva pria capitale (Napata si trova a piú contenere l’immagine del dio. E, di mille chilometri da Tebe!) per proprio come l’Amon di Karnak,
in Egitto che in Nubia; eppure si moltiplica in due forme, ben riconoscibili nell’iconografia: una divinità egiziana, rappresentata antropomorfa, e una nubiana, con corpo umano ma testa di ariete. Piankhi (744-714 a.C.), primo sovrano della dinastia nubiana (la XXV), si fa rappresentare in una stele, oggi conservata al Museo di Khartoum, mentre riceve le corone dal dio Amon a testa d’ariete; nell’iscrizione si insiste proprio sulla legittimazione del re da parte di Amon di Napata, che gli consentirà di estendere la propria autorità su Nubia ed Egitto. Questa XXV dinastia corrisponde al periodo di affrancamento della Nubia dal controllo egiziano, al quale era stata sottoposta per tutto il millennio precedente; la stabilità politica derivante da questa
parola viene usata per descrivere il movimento nell’acqua del dio creatore all’origine del mondo. Attraverso la forma di ariete, quindi, si vuole manifestare il potere del dio che esiste fin dall’inizio della creazione e il suo strettissimo legame con l’acqua del Nilo.
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LUOGHI DEL SACRO/3
nuova condizione favorí anche la crescita culturale del Paese e di Napata in particolare, che ne divenne centro. Sia Piankhi che i suoi successori contribuiscono alla crescita di Napata come centro cerimoniale della regalità e come sede della divinità, la cui dimora è il tempio costruito sotto la montagna.
UN COMPLESSO GRANDIOSO Il tempio di Amon a Napata è il piú grande mai eretto in area nubiana, con una lunghezza complessiva di 156 m. Queste dimensioni risalgono proprio al periodo di Piankhi, che ampliò un nucleo originario costruito dai faraoni del Nuovo Regno, da Thutmosi III a Ramesse II. La planimetria, come quella del tempio di Amon a Karnak, si articola in un grande pilone di ingresso, una corte colonnata, una sala ipostila e un’area interna protetta costituita dalla cella principale e da stanze sussidiarie. Caratteristico è il fatto che la cella sia scavata proprio all’interno dell’arenaria del Jebel Barkal, di quella «montagna pura» che veniva considerata luogo di
UN TEMPIO DI BELLA ARENARIA BIANCA Nell’antecella del tempio di Mut al Jebel Barkal (Napata), la coppia divina costituita da Amon e Mut è rappresentata nell’atto di ricevere offerte dal re Taharqa e dalla sua regina Tehakatamani. Il primo porta in dono due vasetti contenenti vino, mentre la seconda reca un vaso d’acqua per libagioni e un sistro, tipico strumento musicale metallico usato in cerimonie religiose e rituali. Nell’iconografia templare, il sovrano è ritratto in prima persona nel compimento delle cerimonie, da solo o in compagnia della consorte; i sacerdoti non sono raffigurati anche se nella pratica rituale fungevano da suoi delegati. È infatti compito precipuo della regalità, fondata sulla persona del faraone, garantire il rapporto con gli dèi e un posto per l’Egitto nell’ordine universale di origine divina. A ogni azione cultuale corrispondono testi scritti da entrambe le parti, quella umana e
quella divina, che definiscono le figure di re e regina da un lato e quelle di dio e dea dall’altro. La didascalia verticale di fronte al sovrano recita: «Re dell’Alto e Basso Egitto Khunefertumra, figlio di Ra, Taharqa, dotato di vita e potere». La regina è invece definita: «la piú favorita, madre di tutte le donne, sorella del re, sposa del re, l’amata Tehakatamani; Colei che suona il sistro per il tuo bel volto, Amon Ra, signore del trono che vive nella montagna pura». E il dio Amon a testa di ariete è, in effetti, seduto in trono all’interno di un tabernacolo con cobra rampante che ricorda proprio la strana conformazione della «montagna pura» di Napata; dietro di lui, in posa stante e con il tipico copricapo a forma di avvoltoio, si riconosce la dea Mut, «signora della Nubia». È lei la titolare di questo tempio, colei a cui Taharqa ha destinato i propri sforzi; e non è difficile accorgersene, perché il re Veduta a volo d’uccello dei resti del tempio di Amon a Napata, il piú grande mai eretto in area nubiana. Come a Karnak, il complesso si articola in un grande pilone di ingresso, una corte colonnata, una sala ipostila e un’area interna protetta costituita dalla cella principale e da stanze sussidiarie.
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lo dichiara molto chiaramente nella linea superiore dell’iscrizione che sovrasta l’intera rappresentazione figurata: «Taharqa, possa egli vivere per sempre. Egli (lo) ha fatto come monumento per sua madre, Mut di Napata; egli ha costruito per lei il nuovo tempio, con bella arenaria bianca: sua maestà aveva trovato questo tempio fatto di pietra». Come non fosse abbastanza chiaro, Taharqa insiste: «Fatto dagli antichi con un cattivo lavoro, sua maestà fece sí che questo tempio fosse costruito con un lavoro eccellente, per l’eternità». Il re ci tiene, dunque, a sottolineare come il tempio, sí esistesse già, ma fosse costruito in semplice e povera pietra. Il suo intervento edilizio, invece, porta l’edificio a un nuovo splendore grazie all’uso di arenaria bianca, ove il termine egiziano hedj, «bianco», può assumere anche le sfumature di «chiaro» e «luminoso». Per il faraone erigere un nuovo tempio è oggetto di prestigio e
garanzia di potere sul Paese; i templi sono, infatti, edifici legati all’amministrazione centrale e costituiscono una componente fondamentale dell’economia statale. Ancor di piú, dedicare un tempio a una divinità – come fa Taharqa con «sua madre Mut» – assicura al
nascita del dio. Sembrerebbe, questa, una peculiarità propria degli spazi sacri nubiani, che gli architetti egiziani recepiscono e accolgono; in età ramesside, per esempio, il famoso tempio di Abu Simbel (quasi al confine con l’attuale Sudan) viene ricavato proprio nella montagna, ma altrettanto vale per santuari meno noti, come Uadi esSebua, pochi chilometri a nord di Abu Simbel, o Gerf Hussein a sud di Assuan, entrambi oggi sommersi dalle acque del Lago Nasser. Piankhi aggiunge alla struttura un nuovo muro esterno e una sala del trono con una massiccia base per il trono del dio in granito nero. Egli, inoltre, riprende un progetto lasciato incompiuto da Ramesse II e fa costruire una sala ipostila con 42 colonne; davanti a quella pone, infi-
ne, un’altra grande corte e un imponente pilone d’accesso. A differenza del complesso templare di Karnak, questo di Napata non versa in buone condizioni di conservazione e l’apparato decorativo con cui Piankhi aveva ricoperto le pareti del santuario sono difficilmente ricostruibili. Quel che resta permette comunque di riconoscere scene del sovrano che si rivolge al dio Amon in trono e alla sua consorte Mut; immagini della barca del dio che lascia il tempio in processione, salutata da portatori di stendardi e danzatrici. Non mancano scene di battaglie con carri e cavalli, che molto probabilmente si riferiscono alle operazioni militari condotte dal re in Egitto. I rilievi della corte esterna, meglio conservati, illustrano la consegna del tributo a
sovrano un rapporto privilegiato con quella e un controllo stabile sul territorio di cui è patrona. Jebel Barkal, Tempio di Mut. Disegno della scena raffigurante il re Taharqa e la regina Tehakatamani che recano offerte ad Amon e Mut.
Piankhi, con i governatori del Basso Egitto raffigurati inginocchiati in totale sottomissione al sovrano. Il tempio di Amon al Jebel Barkal è, dunque, frutto di una complessa e articolata stratificazione di fasi storiche e dominazioni, egiziana prima e nubiana poi, proprio come il tempio di Amon a Karnak.
LA FAMIGLIA DIVINA Sia il monumentale complesso di Karnak che quello di Napata non accolgono un solo tempio, ma un insieme di strutture che concorrono a costituire lo spazio sacro. Se il tempio principale è dedicato in ambo i casi al dio dinastico Amon, altri santuari collocati nei pressi di quello sono consacrati alla consorte Mut e al figlio Khonsu, con cui costituisce la cosiddetta «Triade Tebana». a r c h e o 85
LUOGHI DEL SACRO/3
Mut è una dea rappresentata in forma animale come avvoltoio o come donna dal copricapo piumato, ed è paredra (in greco significa «che siede accanto») di Amon a partire dalla XVIII dinastia. Il suo nome si scrive con il geroglifico dell’avvoltoio, lo stesso usato per scrivere la parola mwt, «madre»; il ruolo di questa dea, infatti, è principalmente materno, sia nei confronti del giovane dio Khonsu che dello stesso sovrano. Amon può essere accompagnato occasionalmente anche da altre divinità femminili, quali Hathor o Iside, ma nelle scene formali connesse alla regalità è sempre affiancato da Mut. A Karnak il suo complesso templare si colloca a sud di quello del consorte, al quale è collegato tramite un dromos, il viale di sfingi criocefale (con corpo leonino e testa di ariete; vedi la foto d’apertura dell’articolo). L’area sacra è circoscritta da un proprio recinto e caratterizzata dalla presenza del lago Isheru dalla peculiare forma a ferro di cavallo, che circonda il tempio di Mut su tre lati. Si tratta di un edificio dalla planimetria abbastanza fedele al modello «a cannocchiale», con pilone d’accesso, due cortili, una sala ipostila e una cella, costruito tra la XVIII (il nucleo originario) e la XXX dinastia (il muro di cinta esterno). Thutmosi IV (1401-1391 a.C.) fece erigere all’interno dello stesso recinto sacro un santuario dedicato a Khonsu il fanciullo, che assumerebbe il ruolo di un mammisi, in Egiziano per meset, «casa della nascita»; questa particolare struttura fu particolarmente diffusa nei grandi templi di epoca tolemaica – File, Edfu, Dendera – ma già a Karnak ha un illustre predecessore. Il tempio di Khonsu è infatti decorato con scene di matrimonio diviUn’altra immagine dei resti del grande tempio di Amon ai piedi del Jebel Barkal, presso Napata (oggi in Sudan). 86 a r c h e o
no, nascita del dio-fanciullo e allattamento da parte della madre, che lo inquadrano come figlio della coppia formata da Amon e Mut. Con questo dio-bambino e, soprattutto, figlio, si identifica il sovrano stesso, ottenendo cosí dal rituale celebrato all’interno del suo tempio la conferma del proprio ruolo di legittimo successore al trono d’Egitto come erede diretto di Amon e Mut. Anche al Jebel Barkal viene dedicato uno spazio a Mut: un tempio rupe-
stre, in gran parte ricavato dalla stessa roccia della montagna; fu Taharqa a farlo edificare sulla base di una struttura preesistente di epoca ramesside. Originariamente il tempio era lungo 35 m circa, caratterizzato dal pilone, una grande corte con colonne hathoriche (cioè dal capitello raffigurante la testa di Hathor, dea dalle orecchie di vacca), una sala ipostila, un’antecella e una cella principale affiancata da due laterali. Questi ultimi ambienti erano direttamente
intagliati nell’arenaria del Jebel. L’apparato iconografico conservatosi mostra il sovrano accolto da coloro che risiedono nella «montagna pura», in primis Amon di Napata e la sua sposa Mut; all’interno della cella, tra le divinità in processione, figura anche Khonsu, che segue la coppia costituendo con loro la triade tebana. Nonostante il dio fanciullo compaia spesso sulle rappresentazioni a rilievo nel tempio di Mut e in altre
strutture nell’area – sempre al seguito dei suoi genitori – sembra che al Jebel Barkal egli non abbia però ricevuto un tempio, proprio come avviene invece a Karnak.
LA LEGITTIMAZIONE DEL POTERE D’altra parte, scavi recenti nei pressi del tempio di Amon hanno messo in luce una struttura piú recente (I secolo a.C.), caratterizzata da scene a rilievo che raffigurano il sovrano
di fronte a Khonsu o la dea Iside che allatta il piccolo Horus, le quali porterebbero all’identificazione di questo edificio con un mammisi (Kendall 2016). Come il mammisi egiziano fungeva da strumento di legittimazione per i sovrani d’Egitto, cosí il mammisi del Jebel Barkal doveva far sí che il sovrano nubiano si identificasse con il dio-bambino e si fondesse ritualmente con la madre divina, garantendogli cosí il supremo diritto di governare.
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LUOGHI DEL SACRO/3 Un’altra immagine del tempio di Mut al Jebel Barkal.
Le aree sacre di Tebe e Napata, in definitiva, condividono molti aspetti strutturali e architettonici, ma anche e soprattutto cultuali e rituali. Sorte entrambe agli albori del Nuovo Regno e prosperate tra il II e il I millennio a.C., costituirono un centro di potere economico e religioso di notevole impatto, tanto da far prosperare l’intera regione di cui erano fulcro. Sorgevano ambedue nei pressi del Nilo, una caratteristica fisica che conferiva fertilità, e dunque ricchezza,
all’ambiente circostante e che era mezzo per il movimento di persone e beni, fondamentale sia per ragioni puramente economiche che per l’organizzazione delle cerimonie religiose. Entrambe, infine, erano protette e accolte da una montagna – quella tebana a Karnak, il Jebel Barkal a Napata – che fungeva da portale tra il mondo umano e quello divino e che costituiva il luogo di nascita del dio cui il tempio principale era dedicato. Con la propria
conformazione e la sacralità che gli era attribuita, ogni elemento di questi territori concorreva dunque a costruire un palcoscenico per la realizzazione e la concretizzazione del ruolo del sovrano, ma soprattutto una casa per il dio; in altre parole: lo spazio di Amon. NELLA PROSSIMA PUNTATA • I grandi santuari oracolari del mondo greco
PER SAPERNE DI PIÚ Dieter Arnold (a cura di), The Encyclopedia of Ancient Egypt Architecture, AUC Press, Londra 2003 John Baines, Jaromir Malek, Atlante dell’Antico Egitto, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1985 Emanuele M. Ciampini, Napata, città regale: testimonianze epigrafiche e archeologiche, in Emanuele M. Ciampini, Francesca Iannarilli (a cura di), Il Leone e la Montagna. Scavi Italiani in Sudan, Gangemi Editore, Roma 2019; pp. 41-46 Sergio Donadoni, Tebe, Electa, Milano 1999 Erik Hornung, Spiritualità nell’Antico Egitto, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2002 Dietrich Wildung (a cura di), Egitto. Dall’epoca preistorica agli antichi Romani, Taschen, Colonia 2009 88 a r c h e o
Timothy Kendall, Ahmed Mohamed El-Hassan (a cura di), A Visitor’s Guide to the Jebel Barkal Temples, The NCAM Jebel Barkal Mission, Khartum 2016 C. Richard Lepsius, Denkmäler aus Ägypten und Äthiopien nach den Zeichnungen der von Seiner Majestät dem Könige von Preussen, Friedrich Wilhelm IV., nach diesen Ländern gesendeten, und in den Jahren ausgeführten wissenschaftlichen Expedition auf Befehl Seiner Majestät, vol. V, Nicolaische Buchhandlung, Berlino 1913; tav. V5. Harold H. Nelson, Certain Reliefs at Karnak and Medinet Habu and the Ritual of Amenophis I, in Journal of Near Eastern Studies 8, No 4, Oct. 1949; pp. 310-345
SPECIALE • PLINIO IL VECCHIO
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L’ULTIMO
SEGRETO
PLINIO
DI IL
VECCHIO
SCIENZIATO, GEOGRAFO, FILOSOFO, LETTERATO E… AMMIRAGLIO DELLA FLOTTA IMPERIALE. PROPRIO NELLA SUA VESTE DI MILITARE, L’AUTORE DELLA MONUMENTALE NATURALIS HISTORIA ASSISTE ALLA CATASTROFE DI POMPEI, DIVENENDONE LA VITTIMA PIÚ CELEBRE. MA ECCO IL RACCONTO DI QUEGLI ATTIMI FATIDICI. E DI COME, ANCORA OGGI, UNA SCOPERTA STRAORDINARIA ABBIA CATALIZZATO L’ATTENZIONE DI STORICI E SCIENZIATI… di Flavio Russo
S
L’eruzione del Vesuvio sopraggiunta il 24 agosto dell’anno 79 dopo Cristo sotto il regno di Tito, olio su tela di Pierre-Henri de Valenciennes. 1813. Tolosa, Musée des Augustins.
econdo le piú recenti analisi vulcanologiche e indagini geoarcheologiche, l’eruzione vesuviana del 79 d.C., se non del tutto improvvisa, si estrinsecò in una maniera che possiamo ritenere per l’epoca subitanea e scarsamente prevedibile. «Per l’epoca» non significa affatto che il fenomeno abbia oggi assunto un andamento piú lento, facendosi perciò meno pericoloso, ma soltanto che, da quando fu fondato il Reale Osservatorio Vesuviano nel 1841, gli strumenti scientifici via via messi a punto permettono di percepirne – e identificarne per tali – anche i sintomi precursori. Un preannuncio salvifico, poiché quando le manifestazioni eruttive divengono umanamente sensibili, il tempo residuo per l’evacuazione si riduce a pochissimi giorni, forse ancor meno, proprio come accadde allora. Rispetto ai Romani, è solo questo, in definitiva, il vantaggio di cui godiamo per poter prevedere un’eruzione: un po’ di tempo in piú per a r c h e o 91
SPECIALE • PLINIO IL VECCHIO
fuggire e la consapevolezza del doverlo fare rapidamente! Al riguardo va osservato che anche all’epoca, sebbene il Vesuvio non fosse stato identificato sicuramente per un vulcano, proprio gli anzidetti prodromi riuscirono a far allontanare dalle sue pendici un gran numero di abitanti che vivevano nei dintorni. Scrive, a questo proposito, Plinio il Giovane (nella sua prima lettera) che Pomponiano, un benestante amico dello zio, Plinio il Vecchio, «sebbene il pericolo non fosse prossimo, quand’anche già in vista, temendo che col crescere potesse farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune navi, deciso a fuggire non appena il vento contrario si fosse placato». Da fine letterato, l’autore utilizza nelle sue epistole un linguaggio forbito e aderente, consentendoci perciò di trarre significative precisazioni da quelle brevi righe. Dunque, a suo dire, Pomponiano «aveva trasportato le sue cose su alcune navi» («sarcinas contulerat in naves»): sarcina, al plurale, in-
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dica le suppellettili e il mobilio, che nella fattispecie devono intendersi per quelle piú raffinate e costose della sua domus e, al di là del valore economico, se ne deve immaginare anche l’abbondanza, occorrendo per l’evacuazione almeno due navi. Ora, reputando il parossismo sismico talmente prolungato e violento da anticipare una incombente catastrofe di inaudita violenza e stimando il tempo necessario al trasporto degli arredi e dei preziosi sulle navi in almeno una giornata e un’altra ancora spesa nella vana attesa che un vento favorevole consentisse di lasciare la banchina, non si è lontani dal vero nel ritenere che l’iniziativa di Pomponiano avesse anticipato di almeno due o tre giorni la catastrofe. Sui tempi di quel presentimento concorda, del resto, la seconda lettera dello stesso autore, che recita: «Per molti giorni, in precedenza, si erano avvertiti scotimenti tellurici, senza che però nessuno vi faces-
Campi Flegrei
Na N ap po oli li Errccola Erc Er la ano n
Pozzuoli
Vesuvio
Torrre del Tor To el Gr G eco co c o
Mis Mis i eno no
Golfo di Napolii
Oplont Opl ontis is
Po ompei Nuc ompei om Nu uceri erria eri a
Sta tabia bia ae Sal alle errn ern rno
Sor orren ren en nto o
C ap ri Capri Cap
Un’immagine del monte Vesuvio ripresa dal satellite. Nel riquadro: il golfo di Napoli e, coperta dall’alone di colore nero, l’area interessata dall’eruzione del 79 d.C. Nella pagina accanto: particolare del cratere.
se gran caso, essendo tali eventi consueti in Campania». Appare sensato presumere che le scosse che interessarono Miseno – località che dista una trentina di chilometri dal Vesuvio e nella quale si trovava Plinio il Vecchio, essendo a capo della flotta lí stanziata – avvertite come lievi e perciò abituali, al punto da non doversene preoccupare, non lo fossero affatto, in un terrificante crescendo di intensità.
UN GIUSTO PRESENTIMENTO In altri termini, quando Plinio salpò con la sua squadra per trarre in salvo i sopravvissuti, poche ore dopo aver scorto la mostruosa colonna di vapore e cenere innalzarsi nel cielo, già da un paio di giorni almeno Pomponiano tentava freneticamente, quanto vanamente, di prendere il largo. In zona i terremoti erano frequenti e sebbene anche allora non fossero in alcun
Golffo Gol di Salerno
Se
le
Pae ae estu s m st
modo prevedibili, pur danneggiando le abitazioni, di rado distruggevano arredi e oggetti preziosi, consentendone il recupero al cessare dei fenomeni. Pomponiano, invece, ravvisa in quel fitto reiterarsi di scosse telluriche qualcosa di anomalo, di minaccioso, l’annuncio di una catastrofe di irreparabile violenza, tale da fargli riporre nella fuga per mare l’unica speranza di mettere in salvo familiari e averi. Dobbiamo presumere che la tempestiva e oculata risoluzione di allontanarsi in tempo dal pericolo incombente fosse stata condivisa e attuata da un gran numero degli abitanti di Pompei e di Ercolano, i quali, però, non gravati da pesanti beni, fuggirono a piedi rispettivamente verso i vicini Lattari e verso Napoli. Molti altri abitanti della zona, invece, non vollero o non poterono imitarli, soccombendo alla furia del vulcano. a r c h e o 93
SPECIALE • PLINIO IL VECCHIO Plinio il Vecchio in una calcografia settecentesca.
Va, al riguardo, aperta una breve parentesi: i Romani non avevano banche nelle quali custodire i propri averi che, di conseguenza, venivano abitualmente tenuti in casseforti nell’atrio delle domus e alcune di esse ci sono pervenute in discreto stato di conservazione. Il danaro aveva, allora, un valore corrispondente a quello del metallo prezioso con cui era coniato e, dunque, le persone piú facoltose possedevano masse di monete tanto piú pesanti e ingombranti quanto maggiore era la loro entità economica. Sarebbe stato quindi 94 a r c h e o
assurdo pensare di trasportarle fuggendo, senza contare gli altrettanto preziosi argenti e gioielli: allontanarsi dalla propria abitazione significava perciò lasciare quei tesori in balia dei ladri, sempre pullulanti in tutte le calamità, rassegnandosi a perderli. In alcuni casi furono dati in custodia a schiavi fidati, in altri nascosti all’ultimo momento, provocando cosí il maggior numero di vittime tra i ricchi possidenti o i loro poveri servi. Eppure, quasi fino a quel momento, nessun ostacolo materiale impediva l’esodo di quan-
Bassorilievo raffigurante una nave romana, da Pozzuoli. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
ti preferivano attendere la fine delle scosse lontano dalle città e all’aperto. La strada, infatti, era ancora integra e seguiva lo stesso tracciato che, secoli dopo, ebbe la via Regia delle Calabrie, con i numerosi ponti che scavalcavano i canaloni che scendevano dal Vesuvio verso il mare; strutture ben salde in grado di garantire la percorribilità del tracciato, a differenza delle vie del mare. Il litorale tra Napoli e Sorrento, nell’autunno del 79, va immaginato come un susseguirsi di ville private affacciate sul mare. Spesso completavano lo schieramento minuscole darsene per le imbarcazioni private da diporto e porticcioli per navi mercantili di modesta stazza, utilizzati abitualmente dalle barche dei pescatori locali e anche, a volte, dalle navi della flotta se adiacenti a sorgenti e rivoli. Si può dunque immaginare che fosse disponibile un gran numero di natanti ormeggiati lungo la costa sottostante il Vesuvio. Molti, di conseguenza, erano gli abitanti che, per pesca, commercio o svago, solcavano quotidianamente le vie del mare, per non parlare dei lavoratori impiegati a vario titolo nei tanti cantieri na-
vali distribuiti lungo il golfo, cosicché il traffico marittimo si deve supporre di gran lunga piú vivace del terrestre. Comune a tutti i navigli, eccezion fatta per le barche dei pescatori, era la propulsione velica, agevolata dalle cicliche brezze del golfo, particolarmente propizie in alcune ore del giorno. Non difettavano, quindi, né le imbarcazioni, né i marittimi capaci di favorire l’esodo dalle spiagge minacciate dalle ire del vulcano e, probabilmente, in tanti decisero di fare come Pomponiano, se solo il vento avesse smesso di soffiare da mare, impedendo a qualsiasi legno di prendere il largo sia con la forza di pochi remi che delle vele spiegate.
PLINIO IL VECCHIO, PRAEFECTUS In epoca augustea, quando Marco Vipsiano Agrippa fu scelto come comandante in capo della flotta, sappiamo che ogni nave da guerra venne equiparata a una centuria dell’esercito e, di conseguenza, il suo comandante a un centurione. Sappiamo, inoltre, che a capo delle due flotte pretorie, di Miseno e di Classe, furono posti altrettanti prefetti di rango equestre, con a r c h e o 95
SPECIALE • PLINIO IL VECCHIO
di letterato. Ne scaturí un uomo coraggioso, metodico e forse pure pedante, ma divorato dalla curiosità per ogni singolarità della natura e spinto dall’esigenza di fornirne, se non la spiegazione, almeno la testimonianza. Ben diversa, invece, fu la sua sorte di scrittore, che costituisce un caso davvero unico. La sua Naturalis Historia, infatti, non soltanto non conobbe mai l’abbandono, la devastazione, la mutilazione o la trasformazione, ma restò sempre integra, immutata in ogni suo dettaglio e persino nello scopo, continuando a essere ancora oggi un imprescindibile riferimento per scandagliare le conoscenze in età classica. Ecco perché Plinio il Vecchio viene di volta in volta ricordato come scienziato, geografo, fisico, filosofo e letterato, nonché, ma quasi solo incidentalmente, come comandante della flotta di Miseno.
supremazia del primo e stipendio annuo di 100 000 sesterzi (quando la paga annua di un centurione era di 8500 sesterzi), una cifra rilevante, ma non ingente, e perciò raddoppiata nel II secolo. Plinio il Vecchio divenne Praefectus classis Misenensis forse tra il 70 e il 74, lo stesso anno in cui Tito Flavio Vespasiano retrocesse Sesto Lucilio Basso da capo di ambedue le flotte alla sola di Classe. Gaio Plinio Secondo nacque a Como, nel 23 d.C., da agiata famiglia equestre e mantenne un forte attaccamento alla località, tanto che vi possedette due ville, attestate da resti architettonici ed epigrafici; in una di esse dovette trascorrere i primi anni.Tipica fu la sua carriera militare, simile a quella di molti suoi contemporanei di par i estrazione sociale, intrecciandosi di frequente l’attività militare con quella 96 a r c h e o
In alto, a sinistra: collana con pendente e gemme in oro, smeraldi e perline, dai Praedia di Giulia Felice, a Pompei. I sec. a.C.I sec. d.C. In alto, sulle due pagine: calco del corpo di una giovana donna uccisa dall’eruzione.
FORSE ANDÒ COSÍ Le incessanti scosse telluriche ricordate dal nipote non impressionano piú di tanto il prefetto, che, svegliatosi sul far dell’alba, in quel giorno d’ottobre del 79, dopo una breve esposizione al sole, seguita da un bagno e da una parca colazione, verso le 8,30 si dedica ai suoi compiti. Ormai anche a Miseno, nonostante la distanza, si percepiscono in maniera crescente i tremori provocati dal Vesuvio. Trascorse circa quattro ore a esaminare i molti rapporti, intorno alle 12,30, Plinio viene raggiunto dalla sorella, che gli annuncia la stranissima nube sovrastante il centro del golfo. Il dettaglio, confermato dall’essere ancora scalzo, lascia presumere che il prefetto si trovi ancora all’interno della sua residenza privata, dove il boato dell’esplosione vulcanica, attutito dal vento e dalla distanza, se pure giunse, non parve straordinario. Ma, appena esce all’aperto, una rapida occhiata gli è sufficiente per intuire la grandiosità del fenomeno. Senza perdere un istante, raggiunge un luogo elevato, forse la torre di controllo dell’ammiragliato o, forse, addirittura la specola del faro, da dove può scorgere perfettamente la prospiciente costa alle falde del Vesuvio e la misteriosa nube
candida. Nel giro di pochi minuti, dinanzi ai suoi occhi assetati di scienza, lo scenario inizia velocemente a mutare. La nube o, piú esattamente, l’immensa colonna biancastra, striata di grigio e solcata da violenti fulmini, continua inarrestabile la sua ascesa verso il cielo, in una continua terrificante successione di riverberi rossastri, i cui soffocati boati giungono con discreto ritardo. Alla solitudine dei primi attimi subentra intorno a lui una frenetica agitazione: mai come in quel terribile frangente, tutti lo cercano per la sua notoria competenza scientifica e per il suo grado. Da lui ci si attendono una spiegazione tranquillizzante e un ordine sul da farsi. Appoggiato al parapetto, con il vento che gli agita la tunica e scompiglia i radi capelli bianchi, Plinio realizza d’essere testimone di un violentissimo fenomeno vulcanico, d’entità a lui ignota e che, per giunta, sembra sollevarsi dalla sommità di una montagna ritenuta fino ad allora normale e solo da pochissimi un vulcano spento da tempo immemorabile. Congetture scientifiche, interrogativi, osservazioni e comparazioni agitano la mente di Plinio, impedendogli di pensare alla sorte di quanti abitano
In basso: cassaforte in legno, ferro, bronzo, argento e rame, dal peristilio della Villa B di Oplontis. Età ellenistica.
nella zona. In passato aveva osservato e descritto alcune eruzioni, ma mai nulla di lontanamente paragonabile a quanto sta contemplando. Per meglio carpirne ogni minima mutazione, si convince che deve portarsi piú vicino, proprio alle pendici del Vesuvio, là dove la costa sembra lambire il suo piede, ben sapendo che le eruzioni, per quanto spettacolari, non sono molto pericolose,
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SPECIALE • PLINIO IL VECCHIO
A sinistra: l’area degli scavi Matrone cosí come si presenta oggi. In giallo, la planimetria dei ruderi romani, reinterrati e coperti da costruzioni, in prossimità del casello autostradale di Castellammare di Stabia.
ovviamente a debita distanza sul mare. Fa armare, perciò, intorno alle ore 13,30, una liburna per salpare immediatamente alla volta di Ercolano: non può immaginarlo, ma in quel preciso istante inizia l’ultima fase della sua carriera di scienziato e di prefetto.
LE INSEGNE DEL COMANDO Mentre l’ordinanza lo precede piú spedita, in modo da abbreviargli l’attesa sulla banchina, Plinio si concede una breve sosta a casa per avvertire della decisione. A ogni buon conto, prende e indossa i distintivi del grado, una massiccia collana e due grosse armille d’oro, ponendosi al fianco il suo parazonio (una spada corta, portata come arma di lusso dai tribuni militari e dagli ufficiali superiori dell’esercito romano, n.d.r.), paventando forse di doverli ostentare nel malaugurato caso di un ammutinamento, dettato dal terrore. Si dirige, quindi, con la prestezza consentitagli dalla corporatura e dall’età – massiccia l’u98 a r c h e o
In alto: un segmento della Tabula Peutingeriana (copia di epoca medievale di un’antica carta stradale romana) relativo al tratto compreso tra le città di Napoli e Sorrento.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
na quanto avanzata l’altra – verso la banchina, dove l’imbarcazione, con l’armamento ai remi, è già in attesa. Mentre si accinge a salirvi a bordo, si sente invocare a gran voce. Si volta e un trafelato portaordini, appena giunto, gli porge un drammatico dispaccio, ricevuto da pochi istanti dalla stazione semaforica. Legge e immediatamente il suo volto impallidisce: il messaggio proviene dalla sua amica Rectina, la cui splendida villa si trova nei paraggi di Ercolano. Terrorizzata, la donna sollecita il suo urgente aiuto, non restandole altra via di fuga se non con le navi da guerra, le sole, come ben sa, a poter navigare anche con il vento contrario. Fermo sulla banchina, il prefetto pondera il da farsi: al di là dell’affetto che lo lega alla donna, tradito dalla confidenza del disperato dispaccio, immagina che un gran numero di residenti, molti dei quali, delle piú nobili casate, in preda al panico, si stiano accalcando sulle spiagge, nella vana speranza di potersene allontanare. Forse coglie il paradosso di una rara congiuntura di terra, acqua, aria e fuoco contro quei derelitti, e decide di non potersi esimere dal soccorrerli, fidando, proprio come gli ha ricordato Rectina, nella potenza delle sue navi. Dà perciò ordine, intorno alle 15,00, di far uscire con la massima urgen-
za le maggiori di cui dispone, le quadriremi, per tentare di raggiungere la costa e salvare quanti sono ancora in vita.
SPERANZA DI SALVEZZA Intorno alle 16,00, se non proprio la notizia del convergere delle navi di Miseno su Ercolano, il loro avvistamento all’orizzonte dovette accendere le speranze di salvezza nei disperati Ercolanesi accorsi sulla spiaggia. Per ripararsi dalla ormai incessante caduta di cenere, si rifugiano sotto i fornici delle mura aperti sulla spiaggia e fungenti da ricovero per le barche, spiando con trepidazione l’avvicinarsi delle grosse quadriremi. Del resto, che senso avrebbe rifugiarsi in quegli anfratti senza scampo? Non certo la speranza di prendere il largo in un’improbabile schiarita della tempesta, non riuscendo le barche disponibili a vincere le avverse condizioni del mare. Il sole che tramonta, verso le 18,30, consente, a tratti, di scorgere le navi ormai vicine. A prua, con il braccio avvinto a una gomena, collocazione atipica per un prefetto, ma logica per uno scienziato divorato dalla curiosità, Plinio non cessa di dettare al suo atterrito segretario ogni piú piccolo dettaglio del fenomeno che si consuma davanti ai suoi occhi in tutta la sua terrificante violenza. In prossimità della costa, le navi mutano formazione, aprendosi a ventaglio, dirigendosi ciascuna Qui accanto: planimetria dei resti romani scavati in località Bottaro, nella proprietà di Gennaro Matrone. Sul sito furono recuperati 73 scheletri di Pompeiani. Nella pagina accanto, in basso: il corso del Sarno presso la foce, prima della rettifica del 1859, nella cartografia dell’Officio Topografico del Regno di Napoli. 1817-1819. a r c h e o 99
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verso il settore di atterraggio prestabilito. Il mare, però, sempre piú agitato e torbido, obbliga a un’estrema prudenza: le vele vengono ammainate e solo per caso, non potendo scandagliare in continuazione, si evitano secche formatesi in conseguenza del cataclisma. Le quadriremi non possono avvicinarsi ulteriormente, senza correre il rischio di arenarsi e, gettate le ancore a diverse centinaia di metri dalla spiaggia, mandano a riva le lance, avviando con esse l’imbarco dei civili.
UNA PIOGGIA DI POMICI Plinio, invece, constatando che verso Pompei il cielo è ancora piú scuro, ordina di farvi rotta, ritenendo che proprio lí vi siano molti altri disperati: dopo poco sul ponte della sua nave iniziano a cadere, via via piú fitte e piú grosse, pietre di pomice incandescenti. Il rumoroso grandinare dei lapilli sul ponte di coperta e gli ordini frenetici di bagnarlo continuamente per evitarne l’incendio, vengono percepiti con crescente apprensione sui sottostanti banchi di voga. Sempre piú spesso, tra il cadenzato ritmo dei remi si avverte qualche cupo boato lontano. Vicinissimo, invece, e ininterrotto, è lo sfrigolio emesso dalla grandine rovente che si spegne nell’acqua. Con la lancia, ormai nell’oscurità e su di un mare sconvolto, il prefetto guadagna la terraferma, dirigendosi subito presso l’abitazione del suo amico Pomponiano, sita nei paraggi. Lo trova in preda al panico, circondato dai suoi familiari, altrettanto atterriti, nonché da una piccola folla di vicini e di servi, in condizioni persino peggiori. Anche qui in tanti aspettavano le navi della flotta per fuggire, dal momento che le L’ULTIMA DIMORA DELL’AMMIRAGLIO Una sala del Museo Storico Nazionale dell’Arte Sanitaria, presso l’Ospedale S. Spirito di Roma; qui si conserva il teschio da sempre identificato come quello di Plinio il Vecchio (foto a destra), rinvenuto da Gennaro Matrone agli inizi del Novecento, nel corso di scavi privati condotti presso la foce del Sarno, in contrada Bottaro (Pompei).
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Statua di ermafrodito, dagli scavi Matrone. Boston, Museum of Fine Arts.
loro non possono neppure tentarlo: la salvezza è a poche miglia di distanza, verso Sorrento, purché si riesca a salpare. Sdrammatizzare la situazione è la prima incombenza del prefetto. Non cessa perciò di ripetere che il fenomeno non è grave, che è piú vistoso che pericoloso e che, in ogni caso, le sue navi possono navigare senza problemi, portando via quanti lo vorranno. Meglio mangiare qualcosa, attendendo che il mare si calmi, per iniziare l’evacuazione con le lance. Ostentando un’indifferenza nei confronti della situazione che, in realtà, è ben lungi dal controllare, conforta i presenti e finge di aver fame, sedendosi a cenare, dopo di che va addirittura a schiacciare un pisolino. Nessuno sa della sua capacità di prendere subito sonno in qualsiasi circostanza e tanta noncuranza rincuora, per un po’, i disperati. Il riposo viene presto interrotto, poiché si teme seriamente che Plinio possa finire bloccato nella sua stanza dal costante innalzamento dello strato di lapilli e cenere. Un breve conciliabolo e, forse, la constatazione di un lieve attenuarsi delle ricadute, inducono nella mattinata, intorno alle 8,00, ad abbandonare la casa, per attendere, sotto la grande tettoia antistante i magazzini del porto, che un ulteriore miglioramento conceda di far giungere la lancia. Il sole è sorto da tempo, ma a causa della densa coltre di cenere che lo nasconde, alla foce del Sarno regnano le piú fitte tenebre e, all’incerta luce delle lucerne, tra gemiti e pianti, la mesta processione si avvia, riparandosi la testa con i cuscini, mentre la terra trema, tra boati e rossastri bagliori. Si sdraiano in terra sui lapilli ancora caldi, ma, prima dell’arrivo della lancia, un sinistro odore di zolfo preannuncia a tutti
l’arrivo della morte che a Ercolano già da ore aveva esaurito il suo compito. Il collasso della colonna eruttiva, infatti, innesca violente ondate ardenti, che, rotolando veloci giú per i fianchi del vulcano, completano la distruzione e la strage. La prima, abbattutasi durante la notte, aveva ucciso quanti ancora in attesa del turno d’imbarco, almeno 300 persone, ponendo cosí fine al salvataggio. Intorno alle 8,30 del mattino, nessun segno di vita si scorge piú lungo gli oltre sei chilometri di costa. Molti cadaveri con le vesti bruciate giacciono scomposti in quell’estrema, inutile attesa, mentre la cenere che continua a cadere li copre rapidamente. Il mare dal canto suo, piú furioso che mai, ha ributtato a riva anche la lancia intenta ai trasbordi, scagliando a poca distanza dal relitto il corpo dell’ufficiale preposto all’imbarco.
IL RITROVAMENTO Sul finire degli anni Cinquanta dell’Ottocento, una serie di importanti lavori vennero intrapresi in prossimità della foce del Sarno allo scopo di regolamentare il corso che, dalla catastrofe del 79 d.C., continuava a serpeggiare pigramente in una vasta area, formando ampi e malsani acquitrini, seppure fertilissimi. L’intervento previsto comportava, oltre alla rettifica degli ultimi 5 km del suo alveo, la bonifica dei terreni limitrofi, in particolare delle ex anse, il loro appoderamento e l’utilizzo, tramite un ingegnoso sistema di canali, della forza motrice prodotta dalla corrente dell’acqua, per attivare i macchinari di un nuovo polverificio borbonico. Non ultimo, mirava alla formazione di una via d’acqua navigabile, che, grazie a chiuse e conche, potesse essere risalita agevolmente fino al suddetto stabilimento. La costruzione di un nuovo ponte fece riaffiorare resti di murature romane, e portò al recupero, tra l’altro, di grossi doli in terracotta, la cui scoperta era stata preceduta nella zona dai ritrovamenti di oggetti piú o meno preziosi, da parte di contadini e muratori nei terreni adiacenti al canale Bottaro. La valorizzazione industriale che seguí alla bonifica comportò l’installazione di moderni mulini, durante la cui costruzione affiorarono altri materiali archeologici e, forse, i resti di una delle navi di Pomponiano, come non mancò di ricordare l’ingegnere Mariano E. Cannizzaro nell’opuscolo Il Cranio di Plinio (pubbli-
Gli scavi dell’ingegner Matrone
Il peristilio della villa presso il canale Bottaro
Le pareti affrescate degli ambienti in cui fu trovato il teschio
Un’altra immagine del peristilio, durante lo scavo, nel 1901
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cato a Londra nel 1901 in sole 100 copie): «Lo scavo del signor Matrone dista poco dal Mulino Fienzo, quondam de Rosa, in vicinanza del Sarno. Quando questo mulino fu costruito nel 1858 altri cadaveri furono trovati, bronzi lavorati, oggetti d’oro e d’argento in quantità e pezzi di legname quasi pietrificato, ancore, & c. Poco conto fu tenuto di tutto ciò. Gli oggetti d’oro e altri oggetti di valore furono dal figlio di de Rosa venduti al Castellani di Roma e da questi chi sa a chi. Il colono del podere ricorda esattamente queste cose trovate e ricorda che nella sabbia e nella terra era rimasta la impronta di una barca, dentro la quale tutti quegli oggetti vennero trovati; chiama la barca una martingana che per forma e misura risponde alla Liburna». Secondo la dettagliata relazione dello stesso Matrone, le ricerche archeologiche lo portarono alla scoperta di significativi ruderi sin dalla prima campagna di scavi. La seconda, autorizzata e avviata il 25 giugno del 1900 – diretta e finanziata dallo stesso Matrone – si concluse agli inizi del 1902. A stimolare quelle vere e proprie cacce al tesoro fu il miraggio
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QUELL’ACQUA DEL LAGO DI COMO... Le analisi isotopica, osteologica e del DNA sul teschio attribuito a Plinio il Vecchio Un paio d’anni fa, sulla scorta delle ricostruzioni da me proposte nel libro 79 d.C., Rotta su Pompei. La prima operazione di protezione civile (Roma 2017), lo storico dell’arte Andrea Cionci, collaboratore de La Stampa, aveva rilanciato l’idea di far eseguire un esame isotopico sui denti del teschio attribuito a Plinio il Vecchio per
verificare dove il soggetto avesse trascorso l’infanzia. L’esame, condotto sui soli denti inferiori (poiché il cranio è privo dell’intero massiccio facciale e quindi anche della mascella superiore), è stato eseguito dal geochimico dell’Igag-CNR Mauro Brilli. Confrontato con una mappa isotopica relativa alla sola Italia, il risultato ha fornito un
In basso: la Pliniana, villa cinquecentesca che deve il suo nome a Plinio il Vecchio, il quale per primo descrisse la fonte che scaturisce nelle vicinanze e le cui acque
precipitano nel lago di Como. Nella pagina accanto, dall’alto: carta isotopica delle acque dell’Italia e dettaglio relativo alla Pianura Padana e al territorio di Como.
valore intorno al 7: il soggetto, in età infantile poteva essere vissuto in un’area comprendente l’Appennino centrale e la Pianura Padana, al cui interno ricade, grosso modo, anche la zona di Como, città natale di Plinio. Incoraggiati da tale riscontro, è stato coinvolto il professor Roberto Cameriere, all’epoca docente di medicina legale presso l’Università di Macerata e autore di un apprezzato metodo di datazione dell’età di morte attraverso l’analisi dell’accrescimento dei denti. L’esito è stato però scoraggiante: l’individuo doveva essere morto intorno ai 37 anni, un’età dunque lontana dai 56 anni che Plinio il Vecchio aveva quando spirò. La svolta è arrivata con l’intuizione dell’antropologo fisico Luciano Fattore, già autore di molti studi su Ercolano: la mandibola inferiore poteva non essere pertinente alla calotta cranica. Per avere conferma di tale ipotesi, basata sulla asimmetrica usura della mandibola rispetto al suo alloggiamento cranico, ci si è rivolti all’antropologo molecolare David Caramelli, direttore del Dipartimento di Biologia all’Università di Firenze, che ha eseguito l’esame del DNA mitocondriale antico, dal quale si è avuta conferma che si tratta di due diversi individui.
Evidentemente, poiché la calotta dell’ammiraglio era incompleta, Matrone aveva ricomposto il teschio prendendo «in prestito» un’altra mandibola, di un 37enne, appunto. L’aplogruppo genetico è stato poi verificato da Teresa Rinaldi, biologa dell’Università «Sapienza» di Roma: la calotta è compatibile con quella di un cittadino romanoitalico. La mandibola potrebbe essere riconducibile anche alla fascia nordafricana, soprattutto alla Numidia. Didascalia Forse si tratta di queldanero Ibusdae altissimo, fare il cui scheletro evendipsam, Matrone aveva riferito di officteaccanto erupit aver rinvenuto antesto cum allo scheletro deltaturi presunto aut quatiur Plinio: unoilita schiavorestrum guardia del corpo? È testo possibile, eicaectur, visto il rango blaborenes iumpiú dell’ammiraglio e tanto quasped quos non che un terzo dei marinai etur africani. reius nonem romani erano Tuttavia, laquam mappa isotopica expercipsunt del Nord Africa quos restsui magni prodotta da Brilli denti apic teces esclude laautatur provenienza enditibus teces. africana dell’individuo. In mancanza di una mappa aplotipica antica relativa al resto d’Europa, la mandibola postrebbe appartenere a un Numida di seconda generazione, cresciuto «in cattività» in Italia. Si tratta di una mera supposizione, ma ciò che conta è la calotta. Luciano Fattore ne ha esaminato le suture craniche: l’età alla morte stimata per la volta è di circa 45,2 ± 12,6 anni (resta quindi plausibile a r c h e o 103
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A sinistra: il teschio di Plinio il Vecchio e la corta spada rinvenuta nei suoi pressi. Roma, Museo dell’Arte Sanitaria. In basso: la scatola cranica separata dalla mandibola, di cui le piú recenti indagini hanno dimostrato l’appartenenza a un altro individuo, piú giovane di Plinio il Vecchio, al quale può invece essere assegnato il cranio.
fino ai 57,8), mentre per il sistema latero-anteriore è di circa 56,2 ± 8,5 anni. In questo caso, il valore centrale corrisponde curiosamente all’età di morte di Plinio. In sintesi, pur non potendosi avere la certezza assoluta che quel cranio sia stato di Plinio, dallo studio scientifico eseguito, il primo organizzato,
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finora non è emerso alcun dato a sfavore, ma solo indizi positivi: la calotta appartiene a un cittadino romano italico di circa 56 anni. A questo punto le probabilità di una errata identificazione, tenendo conto degli ornamenti aurei indosso allo scheletro, del suo parazonio, della sua postura e della
ubicazione geo-topografica del ritrovamento, tendono ad azzerarsi, lasciandoci perciò motivatamente concludere che quel teschio fu realmente di Plinio il Vecchio.
di remunerativi ritrovamenti, acuito dal recupero, nel 1895, del cosiddetto «Tesoro di Boscoreale», rivenduto al barone Edmond de Rothschild per oltre un milione di franchi. Nella zona circolavano dicerie sull’esistenza di ruderi quasi affioranti e si spiega forse cosí l’immediato riaffiorare nel fondo del Matrone, dopo pochi colpi di vanga, di antiche mura romane, sepolte sotto appena un metro di soffice terriccio. Scriveva ancora Cannizzaro: «Avvertito dai suoi contadini del rinvenimento di mura antiche, il signor Matrone, nel mese di Luglio 1899, incominció a scavare in questa sua proprietà, sita fra la strada vecchia e la nuova e nella piccola fossa fatta in principio trovò tanto in oggetti di bronzo, oro e argento, da essere indotto a estendere di molto lo scavo seguendo la linea dei muri che mano a mano venivano alla luce. Lo scopo del signor Matrone, benché appassionato per le cose antiche, non era di fare delle ricerche archeologiche, ma di ritrovare tutto quanto potesse avere un valore per rifarsi con un guadagno delle spese e della perduta coltivazione del fondo».
UN CUMULO DI SCHELETRI Il 20 settembre, rimossa la coltre di sedimenti vulcanici, uno sgradevole tanfo di morte aggredisce gli scavatori: tutti, da tempo, ne conoscono l’origine, ma, almeno in quel caso, nessuno può immaginarne la macabra entità. Infatti, dopo poche ore di lavoro, riaffiorano, ammucchiati, ben 73 scheletri. Qualche passo piú innanzi riappare anche uno scheletro isolato: non giace riverso o raggomitolato come i precedenti, ma supino, con il cranio appoggiato a un pilastro, uno dei tanti sui quali, a giudicare dalle macerie, poggiava la tettoia antistante la lunga teoria dei magazzini portuali. Le ossa sono quelle di un uomo anziano, che gli ornamenti indicano come facoltoso: al collo ha una massiccia collana d’oro di ben 75 maglie, disposta in triplice giro, e ai polsi, sempre in triplice giro e sempre in oro, due pesanti armille a forma di vipera bicefala; alle dita tre anelli, anch’essi in oro massiccio, su uno dei quali ricorre il motivo delle due teste di vipera affrontate. Questo dettaglio, sempre ignorato, sarebbe invece stato, secondo Svetonio, una prerogativa di Agrippina e dei suoi protetti, con natura di talismano. Nell’insieme, si tratta di oltre un chilogrammo di prezioso metallo, senza contare i tre anelli alle dita. Rimossa
altra cenere, riaffiorano al fianco dell’anziano un gladio e una brocca in terracotta: usuale la seconda quanto eccezionale il primo. Cosí descrisse i ritrovameni il cultore di cose romane Alessandro Tomassi in un articolo pubblicato dopo un intervento di restauro condotto sui resti mortali forse nel secondo dopoguerra: «In base però ad un accurato restauro compiuto si può affermare che il gladio è risultato assai piú ricco ed importante di quanto a suo tempo giudicato dal Matrone. Infatti la impugnatura era di avorio e nella sua parte centrale di ambra. La guaina era ricoperta da uno strato di legno a sua volta protetto da una lamina di argento. Il puntale che al Matrone sembrò di bronzo, era invece rivestito di oro con graffiti purtroppo indecifrabili: il pometto terminale della punta è d’oro. Il gladio ha una lunghezza totale di cm. 61; il puntale è lungo cm. 13,5; la guajna cm. 45 – la impugnatura cm. 16 – la larghezza del fodero cm. 6. La importanza di questo gladio, ammettendo che fosse effettivamente appartenuto a Plinio e che rispondesse a realtà la versione di Svetonio, sarebbe anche maggiore; essendo verosimile che lo schiavo, per obbedire all’ordine ricevuto, abbia trafitto Plinio con la sua stessa spada, poi deposta di fianco al corpo inanimato del padrone. Resta comunque inconfutabile che il gladio se non può essere classificato di ammiraglio come afferma arbitrariamente il Matrone, era un’arma di distinzione e di onore e non un’arma comune da combattimento» (Caius Plinius Secundus (sul presunto ritrovamento dei suoi resti mortali), in Strenna dei romanisti, vol. X, 1949; pp. 248-252). Svetonio, infatti, riportando alcune delle dicerie sulla morte del prefetto, scrisse che forse: «vi pulveris ac favillae oppressus est» («oppresso dalla polvere e dalle faville»), oppure, come altri ritengono, sentendosi venir meno per il calore, pregò uno schiavo di ucciderlo accelerando cosí la fine: «Vel ut quidam existimant a servo suo occisus, quem aestu deficiens, ut necem sibi maturaret, oraverat». L’ipotesi venne fermamente smentita dal nipote, che fornisce una testimonianza nettamente diversa e, in sostanza, concorde con il presunto ritrovamento archeologico. Il gruppo di scheletri che comprendeva quello con collana, armille, anelli e gladio non doveva trovarsi a molta distanza dal luogo nel quale si è sempre immaginato che a r c h e o 105
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Plinio il Vecchio avesse esalato l’ultimo respiro: forse a meno di un chilometro. Cosí ne rievocò il ritrovamento lo stesso Matrone, in una pubblicazione in lingua francese: «Il 20 settembre 1900 furono ritrovati diversi scheletri sotto la lunga tettoia antistante i magazzini. Uno di essi comparso in una posizione piú elevata, era disteso, con la testa addossata ad un pilastro. Era lo scheletro di un anziano, sdraiato sul dorso, al di sopra del lapillo. Portava intorno al collo un collare d’oro di 75 maglie formante tre giri, del peso di 400 grammi e sulle ossa di ciascun braccio una armilla d’oro rappresentante due vipere maschio e femmina in triplice giro; il peso dei due bracciali era di circa 665 grammi; alle dita della mano sinistra, aveva tre anelli d’oro massiccio, di cui uno pesante 36 grammi, rappresentante due serpenti affrontati; al suo fianco un gladio ed una brocca d’argilla; nessuna moneta di qualsiasi specie gli venne rinvenuta indosso. In direzione Nord, a due metri di distanza dal gruppo, si rinvennero le ossa di un gigante di 2 metri e 10 centimetri di altezza, avente una grossa lampada di bronzo in mano a forma di testa di cavallo».
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DI CHI ERA QUELLO SCHELETRO? Anche il viceconsole di Francia a Castellammare di Stabia, Edouard Jammy, un cultore di archeologia, si recò sugli scavi dell’ingegner Matrone ed espresse il parere che quello scheletro cosí vistosamente ornato potesse essere quello di Plinio il Vecchio. L’ipotesi fu entusiasticamente accolta dal Matrone, ma, dopo avere incontrato un’ampia condivisione, venne altrettanto rapidamente bocciata dagli intellettuali dell’epoca, con disappunto dell’ingegnere. La principale critica consisteva nel ritenere assurda la presenza intorno a un prefetto di un codazzo di donne e bambini e non già di alti ufficiali. E poi perché mai avrebbe dovuto portare indosso tanti monili d’oro, che l’avrebbero fatto somigliare a una ballerina da avanspettacolo piú che a un ammiraglio in capo? Nessuno, evidentemente, immaginò che proprio quei monili fossero onorificenze tipiche degli alti gradi dell’esercito romano... Gli scavi furono quindi ricoperti e il sito obliterato dal successivo sviluppo edilizio. Se un secolo fa l’identificazione di un teschio era del tutto impossibile, oggi, in circostanze
In basso: incisione raffigurante la morte di Plinio il Vecchio, da Vies de savants illustres di Louis Figuier. 1866.
A destra: affresco di IV stile raffigurante il dio Bacco e il monte Vesuvio, prima dell’eruzione del 79 d.C., con le pendici ricoperte da filari di viti, dal larario dell’atrio secondario della Casa del Centenario a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
favorevoli, risulta invece praticabile, cosí come, per esempio, è possibile individuare il luogo natale di un defunto in base agli isotopi dell’acqua contenuti nei denti. Grazie a simili analisi si può accertare dove la madre condusse la sua gestazione e dove il bambino visse i suoi primi anni, che, nel caso di Plinio il Vecchio, fu la sponda del lago di Como. Altrettanto attendibile è l’analisi osteologica sulle suture craniche, che permette di stabilire l’età alla morte, nella fattispecie di 56 anni compiuti. Oggi custodito in una teca del Museo Storico Nazionale dell’Arte Sanitaria, a Roma, il teschio, sebbene incompleto, è corredato da un’etichetta eloquente – «Teschio di Plinio il Vecchio» (vedi box a p. 100) – precisando che è stato rinvenuto nel 1900, presso la foce del Sarno, nel corso di uno scavo privato, condotto dall’ingegnere di Boscotrecase Gennaro Matrone. Appare arduo stabilire il percorso compiuto dal reperto per finire nella suddetta teca e piú ancora immaginare le ragioni dell’identificazione, ma proprio nella sede del Museo si sono avviate le analisi di cui alle pagine 102-104.
IL RESPONSO DELLA VEGGENTE Analisi precedute da una piú singolare e piú strana indagine di tipo psicometrica, cosí rievocata, nell’articolo già citato, da Alessandro Tomassi, promotore e momentaneo detentore del teschio e del gladio: «Da ultimo, per non lasciare nulla di intentato mi sono anche rivolto a cultori di scienze occulte ed ho avvicinato la famosa chiaroveggente Madame Sylvia (contessa Bianca von Beck). La veggente mi ha cortesemente ricevuto in una piccola stanza di albergo piú somigliante ad una cella monastica che allo speco di una sibilla (...). Mi sono trovato di fronte ad una piccola, fragile, aristocratica figura di donna che nella sua semplicità di modi afferma la distinzione della sua nascita (...). La contessa possiede delle qualità medianiche di primissimo ordine ma non se ne serve mai perché profondamente religiosa. E poi, dice, perché dobbiamo disturbare i morti? I morti vengono essi da noi quando possono e quando vogliono dirci qualche cosa. Ed essa narra che spesso di notte sotto forma di incubi vede persone scomparse e persone che non conosce e che poi incontra a breve scadenza, figure irreali e figure simboliche. In quel momento se ha a portata di mano dell’argilla, per
quanto non abbia alcuna cognizione di plastica, le sue dita modellano inconsciamente delle figure di rara forza espressiva e mi mostra alcune fotografie veramente interessanti tra le altre quella di un pauroso guerriero mongolo, un’altra dell’Europa morente, una terza dell’Angelo della Pace. Esposto lo scopo della mia visita ho aperto la piccola urna di vetro contenente il teschio: la veggente ha avuto un istante di profondo malessere; mi ha pregato col gesto di richiudere subito il coperchio dell’urna affermando che quel resto umano emanava delle radiazioni talmente potenti da farle sentire lo stesso senso di oppressione e di angoscia che doveva aver preceduto la morte del soggetto. Passò poi all’esame del gladio, riportando la stessa impressione ma in forma meno violenta: pose l’arma sulle ginocchia e rimase breve tempo assorta: poi scandendo le sillabe nel suo italiano correttissimo ma non troppo spedito assicurò che teschio e arma appartenevano indiscutibilmente alla stessa persona ed in modo sicuro a Plinio il Vecchio; che il gladio aveva dato piú volte la morte ma non a Plinio; che era un’arma di distinzione di epoca anteriore al primo secolo, donata a Plinio in qualcuna delle sue peregrinazioni per il mondo e probabilmente in Egitto; che l’impugnatura doveva in origine avere la forma di un idolo; che la versione di Svetonio secondo la quale Plinio per abbreviare le sue sofferenze si sarebbe fatto uccidere da uno schiavo non risponde a verità». a r c h e o 107
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
IL TESORO DELLA SIGNORA PRETTY LA SCOPERTA DEL TUMULO DI SUTTON HOO RIVIVE IN THE DIG, UN FILM IN GRADO DI RICOSTRUIRE FEDELMENTE LA VICENDA E L’ATMOSFERA IN CUI EBBE LUOGO
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inalmente, grazie a The Dig (La nave sepolta, film coprodotto e distribuito da Netflix), l’archeologia dell’Alto Medioevo sale per la prima volta alla ribalta della cinematografia mondiale: un fatto epocale, che dimostra le potenzialità di questa disciplina, se raccontata con gusto e intelligenza. Al centro della pellicola c’è un grande evento: lo scavo della sepoltura del tumulo 1 di Sutton Hoo, nella regione del Suffolk. Nel 1938, la signora Edith Pretty decide di scoprire cosa si nasconda sotto i tumuli (ben 18!) che
punteggiano un terreno di sua proprietà e assolda perciò un archeologo locale, Basil Brown, un appassionato con una notevole esperienza di scavo. Sono loro i protagonisti di The Dig, splendidamente interpretati da Ralph Fiennes e Carey Mulligan. Brown inizia a scavare alcuni tumuli e poi, nel 1939, attacca il piú grande, dalla forma ovale. E iniziano le sorprese: vengono alla luce alcuni rivetti, gli elementi in metallo utilizzati per le giunture del fasciame di una nave e Brown intuisce che sotto il tumulo
dev’esserci dunque un’imbarcazione, che, sepolta, può contenere una tomba, magari quella di un principe o di un re.
LA NAVE ATTIRA GLI ACCADEMICI Lo scavo prosegue e una nave inizia in effetti ad affiorare, ma, sul piú bello, arriva una squadra di archeologi accademici, da Cambridge: la notizia della scoperta ha cominciato a circolare e gli addetti ai lavori pretendono di assumere il controllo delle operazioni. Sono tutti studiosi di altissimo livello, capitanati da Charles W. Phillips, e Basil Brown viene dapprima costretto a farsi da parte, salvo poi essere recuperato e partecipare allo scavo, ma senza esserne piú il protagonista unico. Il resto è storia: il terreno restituisce oggetti straordinari (gioielli, armi, calderoni, piatti) e si capisce che la
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nave conteneva in effetti una camera funeraria, ricchissima. Forse il tumulo era la tomba di Readwald, sovrano del regno di East Anglia nel VII secolo. La storia è avvincente e gli ingredienti per catturare il pubblico ci sono tutti: il mistero, la scoperta, gli oggetti preziosi. Ma il film colpisce soprattutto perché è un’opera complessa, stratificata, che parla di piú argomenti allo stesso tempo e in modo sottile; e ricostruisce bene non soltanto gli eventi, ma anche il clima di quella sensazionale scoperta. L’ambientazione, innanzitutto: c’è una gran cura nella rappresentazione del paesaggio. Le piatte distese del Suffolk, i prati con l’erba ingiallita dal sole (anche se non mancano le piogge inglesi, spesso torrenziali: un vero pericolo per lo scavo!); e il campo di Sutton Hoo, dominato dai tumuli. E poi il cielo, ampio e luminoso, a tratti solcato dagli aerei della RAF. Perché nel 1939 Hitler attacca e
invade la Polonia, e la guerra è alle porte. L’inquietudine dovuta a questa situazione si avverte per tutto il film, e l’incubo del conflitto getta un’ombra sinistra sulla scoperta, cosicché il dialogo tra i vivi e i morti, stimolato dallo scavo della tomba e dal pericolo imminente, è il vero filo rosso della vicenda.
UN APPROCCIO MODERNO Ma, soprattutto, The Dig colpisce perché affronta con intelligenza un argomento fondamentale legato all’archeologia: sebbene faccia spesso capolino la parola «tesoro» e gli oggetti preziosi di Sutton Hoo possano in effetti essere recepiti come tali, nei dialoghi tra Basil Brown e Mrs. Pretty le idee sono molto chiare, in proposito. Lui le chiede: «È questo che vuole? Scavare tesori?», e lei risponde di no, perché sa benissimo cos’è davvero l’archeologia: da piccola, infatti, ha aiutato il padre a scavare l’abside della chiesa di un’abbazia In questa pagina: Ralph Fiennes e Carey Mulligan, protagonisti di The Dig, nei panni di Basil Brown e di Edith Pretty. Nella pagina accanto, in alto: il vero Basil Brown in una foto scattata all’epoca dello scavo. Nella pagina accanto, in basso: la nave funeraria del tumulo di Sutton Hoo in corso di scavo.
cistercense. E in seguito lei stessa definisce un vero tesoro non gli oggetti ritrovati (il corredo funebre), ma la nave, la sepoltura nel suo insieme. Insomma, a Mrs Pretty, come diremmo oggi, sta a cuore il contesto. E questa è una vera rivoluzione, rispetto all’archeologia che siamo abituati a vedere al cinema: pensate alla differenza rispetto a film come La mummia, o la saga di Indiana Jones, nei quali l’archeologo non è altro che un cercatore/ladro di tesori. E poi, il film ci parla di molto altro. Per esempio, delle tensioni di quel periodo tra le classi sociali: Basil Brown (un superbo Ralph Fiennes) è, in fondo, un ricercatore, ma appartiene comunque alla lower class, tanto da essere trattato con sufficienza non solo da Phillips, ma persino dal maggiordomo della ricca signora Pretty: fare archeologia non porta necessariamente a un riscatto sociale. E ancora, si avverte forte il contrasto tra l’archeologia accademica – la blasonata squadra di Cambridge – e la società locale. Emerge l’atteggiamento «imperialista» e arrogante dei grandi studiosi che si spingono nella provincia profonda per appropriarsi della sua storia e dei suoi reperti, senza curarsi delle aspettative della comunità dei residenti (un modo di fare oggi inammissibile). Resta un solo, piccolo rimpianto: se lo scavo è mostrato molto bene, anche dal punto di vista tecnico, agli oggetti e alla ricostruzione del contesto viene lasciato poco spazio. Ma va comunque bene: in fondo, solo negli anni del dopoguerra la scoperta di Sutton Hoo è stata compresa al suo meglio. The Dig è un film ben fatto ed elegante, che indica una strada per raccontare al grande pubblico, e in maniera intelligente, tutta l’archeologia, non solo quella del Medioevo.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
APOLLO, PADRE PENTITO UN CORVO CHIACCHIERONE E LA GELOSIA DIVINA ALLE ORIGINI DELLA (TRAGICA) NASCITA DI ASCLEPIO
I
figli di un dio e di una donna mortale vengono spesso al mondo in circostanze quanto meno anomale: Castore, Polluce ed Elena (di Troia), frutto degli amori tra Zeus in forma di cigno e Leda, nascono da un uovo; Dioniso è estratto dal corpo della madre Semele fulminata dallo splendore del padre Zeus, che se lo cuce nella coscia sino a terminata gestazione; Asclepio, figlio di Apollo, viene strappato dal ventre della madre Coronide morente, prima che venga posta sulla pira funebre. La triste vicenda legata alla nascita al mondo del futuro dio della medicina è ampiamente tramandata, con alcune varianti, dalle fonti
Stampo da un sigillo in ametista raffigurante Coronide adagiata sulla pira funebre, ormai esanime, e Apollo che tiene in braccio il piccolo Esculapio.
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letterarie antiche, compreso Ovidio, che ne dà conto nelle Metamorfosi (2: 534-632). Bellissima figlia del re dei Lapiti, Coronide fu amata da Apollo, ma, durante la loro frequentazione, ebbe una relazione segreta con un giovane mortale. Il dio lo venne a sapere tramite un corvo bianco, da lui posto a controllo della fanciulla e incaricato di riferirgli ogni sua
mossa. Ligio al dovere, l’uccello raccontò ad Apollo il tradimento e il dio, folle di ira e gelosia, trafisse la fanciulla con la freccia del suo arco (mentre in altre versioni è la sorella Artemide a punirla spietatamente). In punto di morte, Coronide rimproverò Apollo, dicendogli che avrebbe almeno potuto aspettare la nascita del figlio, frutto del loro amore, cosí da evitare che morissero entrambi. Pentitosi di tanta violenza, il dio, prima che il corpo della donna fosse bruciato sulla pira funebre, estrasse il bimbetto dal ventre della madre e lo consegnò al centauro Chirone, che lo allevò amorosamente e lo iniziò all’arte In alto: xilografia in cui il mito della nascita di Esculapio costituisce l’illustrazione del parto cesareo, dall’edizione del 1549 del De re medica… di Alessandro Benedetti.
della medicina. Infine Apollo, che avrebbe solo dovuto punire se stesso, scatenò le sue ire anche contro l’incolpevole corvo, reo di avergli rivelato quanto egli stesso gli aveva chiesto di fare, e trasformò il suo candido piumaggio in lugubri penne nere e, possiamo aggiungere, lo dotò di una voce sgraziata, rendendolo simbolo di malaugurio.
introdotto a Roma nel 433 a.C., quando, nel corso di una lunga epidemia che non accennava a risolversi, fu votato un tempio al dio greco, ancora non venerato nella città. Situato nella zona del Campo
VITTIMA INCOLPEVOLE Il corvo, che non aveva fatto altro che obbedire ai voleri del dio, fu comunque trasformato nella piccola costellazione che prende il suo nome, nota a Tolomeo e ben osservabile anche a occhio nudo. Va ricordata l’assonanza dei nomi tra la bella uccisa, Coronide, e l’uccello rivelatore, il corvo: derivano entrambi dal greco korone, «corvo», e koronis, «curvo», termine con il quale si intende anche un segno di scansione nei testi greci antichi. Fra gli altri, l’anatomista, medico e umanista veronese Alessandro Benedetti (1450 circa-1512), nell’opera De re medica opus insigne (pubblicata postuma nel 1539), evocò la la nascita di Asclepio per descrivere con un colto riferimento mitologico il parto cesareo. Nonostante la nascita traumatica e l’orribile violenza paterna, il rapporto tra padre-Apollo e figlioAsclepio proseguí senza ulteriori turbamenti, e anzi Apollo, che ha tra le sue capacità anche quella di guaritore, trasmise le sue arti al figlio, che seppe svilupparle in maniera eccelsa. Per inciso, va ricordato che il culto di Apollo nella sua veste di Medicus venne
Marzio denominata Apollinar, dove già sorgeva un sacello privato per il dio, il tempio fu dedicato il 13 luglio 431 dal console Cneo Giulio Mentone, fuori dalla cinta muraria dell’epoca in quanto si trattava di un culto straniero. I resti del tempio, poi denominato di Apollo Sosiano dal rifacimento effettuato da Gaio Sosio in età augustea, si trovano oggi nell’area del Teatro di Marcello.
ASSOCIAZIONI RICORRENTI
Emissione in bronzo di Thyatira (Lidia). 193-211 d.C. Al rovescio, Asclepio appoggiato al bastone con serpente e Apollo Tyrimnaeus.
Tornando al rapporto fra Apollo e Asclepio, nelle iconografie monetali esso risulta idilliaco e paritetico: in numerosi esemplari provinciali Apollo è associato al figlio e ai nipoti, tutti provetti nell’arte medica. In particolare, su alcuni esemplari in bronzo battuti sotto i Severi nella zecca di Thyatira, città della provincia di Lidia (oggi Akhisar, in Turchia), il rovescio è dedicato al padre e al figlio, che campeggiano in posizione frontale, circondati da una estesa legenda. A sinistra, Asclepio di Pergamo si appoggia al bastone intorno al quale si avviluppa il sacro serpente, e Apollo Tyrimnaios a destra, con un ramo di alloro. La legenda riporta il nome del magistrato preposto all’emissione, Moschos, e l’homonoia, la concordia politica, tra Thyatira, simboleggiata da Apollo Tyrimnaios – massima divinità locale – e Pergamo, rappresentata da Asclepio, che qui aveva il suo principale santuario. Ci piace pensare che la sventurata Coronide abbia almeno gioito per la gloria raggiunta da suo figlio scampato a una morte brutale, alla quale lei invece dovette soccombere: l’ultimo desiderio di una madre infelice.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Marina Castoldi
PER GLI UOMINI E PER GLI DEI Aspetti della bronzistica in Magna Grecia Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 161 pp., 86 figg. n.t. 14,00 euro ISBN 978-88-799168-51-3 www.edizionidistoria.com
Nei territori dell’Italia meridionale popolati di colonizzatori greci tra l’VIII e il VII secolo a.C. si sviluppò rapidamente una produzione artigianale di alto livello. Scultori abilissimi, come Clearco e Pitagora di Rhegion o Dameas di Crotone, lavoravano in officine allora famose, realizzando statue, vasellame, specchi, gioielli, armi, strigili, fibule e molti altri oggetti destinati a durare nel tempo. Erano prodotti in bronzo, che celebravano il mondo degli dèi e degli eroi, e fornivano anche stoviglie per il consumo rituale di bevande o il pasto in comune di quanti vivevano secondo la 112 a r c h e o
moda greca. Questa produzione bronzistica, inoltre, era molto apprezzata anche negli ambienti dell’aristocrazia indigena, che la ostentava come simbolo di uno status sociale piú elevato e la dedicava come ricco corredo funebre per i defunti. Con stile agile e attento ai dati archeologici piú recenti, Marina Castoldi propone un viaggio nel laborioso mondo delle comunità della Magna Grecia, alla riscoperta della lavorazione artistica del bronzo; espone con chiarezza le tecniche di fusione delle leghe di rame e stagno. Con un cospicuo apparato iconografico, illustra la fabbricazione dei vari manufatti: quelli destinati ai santuari, all’uso quotidiano o alla deposizione nelle tombe. Ricostruisce inoltre l’intreccio dei contatti commerciali e culturali che favorirono la trasmissione del sapere nel Mediterraneo antico. Lo studio ricompone infine, su tali basi, l’insieme dei fenomeni di reciprocità e di scambio tra etnie diverse che si realizzarono nei territori dell’Apulia e dell’Enotria al contatto con Greci, Etruschi e altre popolazioni, indigene o immigrate dall’Oriente. Sergio Ribichini Fernando La Greca
POSEIDONIA-PAESTUM Guida storica dei monumenti greci e romani
Licosia Edizioni, Ogliastro Cilento (SA), 256 pp. 22,00 euro ISBN 9788896821473 www.licosia.com
Questa guida di Fernando La Greca, professore aggregato di Storia Romana dell’Università degli Studi di Salerno, è frutto di ricerche decennali e ripercorre le tappe piú importanti della storia di Poseidonia-Paestum nel periodo greco e romano, attraverso le testimonianze archeologiche, artistiche e monumentali. Rispettando la cronologia, l’esposizione tratta i vari argomenti secondo la loro sequenza storica, dalle origini alla tarda antichità, mettendo insieme gli elementi dell’area archeologica con quelli esposti nel Museo Nazionale, con molte illustrazioni in dettaglio. Le pagine iniziali sono dedicate alla protostoria, alla fondazione della città e ai santuari extraurbani. Vengono poi analizzati i noti templi che documentano le varie fasi dello sviluppo dell’architettura dorica in Italia. Ma uno dei punti forti del volume è offerto dalla nuova e suggestiva interpretazione della Tomba del Tuffatore, proposta dall’archeologo Fabio Astone, mentre una nuova analisi delle tombe dipinte pestane ci porta a riconsiderare la presenza lucana del IV secolo a.C., quando
– precisa l’autore – in realtà Poseidonia era ancora a tutti gli effetti una polis greca. Seguono la storia e l’illustrazione dei monumenti della Paestum romana: le mura, le porte, le strade, i ponti, il Foro, le botteghe, la curia, il comizio, i templi – fra i quali quello, poco noto, della dea Mente –, l’anfiteatro, le case romane con i loro mosaici. Non manca la presentazione di reperti poco conosciuti, ma funzionali al discorso che La Greca intesse con i lettori, quasi guidandoli per mano alla scoperta di una Paestum inedita e arricchita da continue scoperte e nuove interpretazioni. Un vero e proprio tuffo emozionale e coinvolgente nella città antica, da gustare in modo consapevole, nei suoi diversi periodi storici e nella sua vita quotidiana alla riscoperta di uno dei patrimoni culturali piú importanti del nostro pianeta. Giampiero Galasso
presenta
GUELFI E GHIBELLINI Una rivalità che ha fatto storia
Perché si dice «guelfo» e «ghibellino»? E perché quel binomio continua a essere d’uso comune anche a distanza di molti secoli da quando fece la sua prima comparsa? Da questi interrogativi prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che rilegge ed esamina uno dei fenomeni che piú hanno segnato la vita politica dell’età di Mezzo, in Italia innanzitutto, ma non solo. Una contrapposizione ideologica che non si limitò allo scontro dialettico, ma prese le forme di un vero e proprio conflitto, scandito da alcuni dei fatti di sangue piú cruenti della storia medievale. Un esito, quest’ultimo, che non deve sorprende-
re, poiché quella che, all’inizio, poteva sembrare una rivalità fra le famiglie piú in vista di alcune fra le maggiori città italiane – Firenze su tutte – assunse ben presto i contorni di un’autentica guerra fra i poteri forti del tempo: l’impero e la Chiesa. Non a caso, quindi, la lotta tra la fazione guelfa e quella ghibellina ha visto coinvolti tutti i personaggi di maggior spicco dell’epoca, compreso, fra gli altri, Dante Alighieri, che in piú d’una delle sue terzine evocò i fatti dei quali era stato testimone, nonché vittima. Un racconto avvincente, insomma, che degli eventi salienti offre chiavi di lettura inedite e affascinanti.
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