Archeo n. 434, Aprile 2021

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IN EDICOLA IL 10 APRILE 2021

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2021 DESERTO DI GIUDA SAN CASCIANO DEI BAGNI ORACOLI SPECIALE MINIERE DIMENTICATE

Mens. Anno XXXV n. 434 aprile 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

BONAPARTE

DEI DAL FANGO GLI

UNA SENSAZIONALE SCOPERTA NELLE TERRE DI SIENA

SPECIALE TOSCANA

NELLE MINIERE DIMENTICATE I LUOGHI DEL SACRO

AVVENTURE NEL DESERTO DI GIUDA

DOVE PARLAVA L’ORACOLO

PASSIONE PER L’ANTICO

I BONAPARTE IN ITALIA

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E I NA LM P ITO OL DI EON ww RO E w. M a rc A h

ARCHEO 434 APRILE

€ 5,90



EDITORIALE

VOGLIO SCAVARE ANCH’IO! Schiere di giovani e giovanissimi archeologi che si calano a doppia corda per indagare i dirupi di un deserto arido e inospitale; altri che affrontano l’oscurità del sottosuolo a esplorare uno dei piú antichi e complessi sistemi minerari dell’antichità; altri ancora che annunciano la scoperta – frutto di uno scavo lungo e difficoltoso – di un santuario termale emerso in una celebrata terra del nostro Paese. Accade tutto ciò in questi mesi di prolungata emergenza sanitaria, e siamo particolarmente fieri, proprio ora, di poterne riferire. Ma non dimentichiamo le mostre, allestite con impegno e dispendio di mezzi, fortemente penalizzate dalla chiusura obbligata e forse destinate a restare nel ricordo di pochi, fortunati, visitatori: è per esempio sospesa – auguriamoci solo temporaneamente – la bellissima esposizione dedicata a «Napoleone e il mito di Roma», allestita ai Mercati Traianei (ne parliamo alle pp. 48-65). Una mostra solo in apparenza celebrativa: certo, l’occasione viene offerta dal duecentesimo anniversario della morte di un grande protagonista della storia moderna, scomparso, come è noto, in esilio a Sant’Elena, una remota isola dell’Atlantico, il 5 maggio del 1821. Ma perché a Roma (che, sia detto per inciso, Napoleone non visitò mai di persona) e perché proprio ai Mercati Traianei?

Il legame tra Napoleone e la capitale del piú grande impero dell’antichità risale agli anni della sua formazione, quando fu cadetto alla Scuola Militare di Brienne-le-Château. Anni in cui risuonava ancora la celebre espressione di Johann Joachim Winckelmann, il padre del neoclassicismo, morto a Trieste nel 1768 (un anno prima della nascita di Napoleone): «L’unica via per noi di diventare grandi e, se possibile, insuperabili, è l’imitazione degli antichi». Roma divenne, per espresso volere di Napoleone, la seconda città (dopo Parigi) del suo impero. E «a Roma – l’imperatore dei Francesi e re d’Italia aveva confessato al Canova – voglio fare scavi anch’io»! Ecco allora che, mentre al di là delle Alpi – e in un clima mortalmente segnato dal virus e dalle sue mutazioni, ma anche da un diffuso sentimento postcoloniale improntato alla «correttezza politica» – si dibatte se sia ancora lecito celebrare quest’uomo (al quale, certo, non faceva difetto una serie di tratti caratteriali assai poco condivisibili), la mostra romana ne ricorda un aspetto spesso trascurato, che, se davvero fosse necessario, potrebbe riabilitarne l’immagine: il suo indiscutibile amore per l’antico.

Matrice in vetro con il ritratto di Napoleone coronato d’alloro, opera di Pietro Paoletti. 1834-1844. Roma, Museo di Palazzo Braschi.

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Voglio scavare anch’io! 3

dei giochi panatenaici, deposto con un ricco corredo 14

MOSTRE

di Giampiero Galasso

di Giuseppe M. Della Fina e Alessandra Costantini

di Andreas M. Steiner

Attualità

LA NOTIZIA DEL MESE Le grotte del Mar Morto svelano importanti testimonianze risalenti alla preistoria e nuovi frammenti di rotoli di papiro 6 di Andreas M. Steiner

NOTIZIARIO

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PASSEGGIATE NEL PArCo Gli Horti Farnesiani sono pronti ad accogliere i visitatori piú giovani del Parco archeologico del Colosseo per raccontare la lunga storia del sito, coinvolgendoli in attività ludiche e di laboratorio 12

Fratelli ribelli

48

FRONTE DEL PORTO Ostia antica ha ottenuto il Marchio del Patrimonio Europeo: un riconoscimento prestigioso, che rinnova la vocazione da sempre internazionale e il carattere multiculturale del porto di Roma 20 di Marina Lo Blundo

SCOPERTE

Gli dèi dal fango

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di Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli

48 I LUOGHI DEL SACRO/4 Per chiedere consigli divini

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di Alessandro Locchi

di Maria Grazia Filetici e Fulvio Coletti

amministrazione@timelinepublishing.it

Mens. Anno XXXV n. 434 aprile 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE MINIERE DIMENTICATE

Amministrazione

ORACOLI

Impaginazione Davide Tesei

BONAPARTE

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Federico Curti

SAN CASCIANO DEI BAGNI

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

In copertina San Casciano dei Bagni (Siena). I resti del santuario scoperto in località Bagno Grande e nel quale sono attestati i culti di Apollo, Fortuna Primigenia e Iside.

Presidente

DESERTO DI GIUDA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

€ 5,90

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2021

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

IN EDICOLA IL 10 APRILE 2021

o. it

ARCHEO 434 APRILE

Anno XXXVII, n. 434 - aprile 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

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32 E IL NA M PO ITO L DI EON RO E M A he

SCAVI Torna alla luce, a Gravina di Puglia, la tomba di un vincitore

Comitato Scientifico Internazionale

GLI DEI DAL FANGO

UNA SENSAZIONALE SCOPERTA NELLE TERRE DI SIENA

arc434_Cop.indd 1

SPECIALE TOSCANA

NELLE MINIERE DIMENTICATE I LUOGHI DEL SACRO

AVVENTURE NEL DESERTO DI GIUDA

DOVE PARLAVA L’ORACOLO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Paul J. Riis

PASSIONE PER L’ANTICO

I BONAPARTE IN ITALIA

26/03/21 13:39

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Olivier Alfonsi è dottorando in scienze dell’antichità e archeologia presso le Università di Grenoble e Pisa. Antonio Borzatti von Löwenstern è conservatore del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo della Provincia di Livorno. Cristina Bronzino è funzionario architetto alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Franco Cambi è professore associato di Archeologia dei Paesaggi all’Università di Siena. Andrea Camilli è funzionario archeologo alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno. Giovanna Cascone è geologa libera professionista e membro del Gruppo Speleologico Archeologico Livornese. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Alessandra Casini è direttrice del Parco Nazionale delle Colline Metallifere-Tuscan Mining Unesco Global Geopark. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Fulvio Coletti è assistente tecnico archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Francesco Colotta è giornalista. Alessandra Costantini è archeologa. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Maria Grazia Filetici è funzionario architetto presso il Parco archeologico del Colosseo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Marina Lo Blundo è funzionario


Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Sapiente e sovversivo

110

di Francesca Ceci

84 SPECIALE

Nelle miniere dimenticate

110 LIBRI

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testi di Antonio Borzatti von Löwenstern, Cristina Bronzino, Franco Cambi, Andrea Camilli, Giovanna Cascone, Alessandra Casini, Luca Tinagli e Andrea Zifferero

archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Alessandro Locchi è archeologo e dottore di ricerca in storia delle religioni. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Emanuele Mariotti è archeologo. Jacopo Tabolli è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena Grosseto e Arezzo. Luca Tinagli è dottorando in petrografia all’Università di Pisa e membro del Gruppo Speleologico Archeologico Livornese. Andrea Zifferero è professore associato di Etruscologia e Antichità Italiche all’Università di Siena.

Illustrazioni e immagini: Gabriele Forti: copertina e pp. 32-33, 34 (sfondo), 35 (alto), 36-41, 42, 43 – Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 3, 48-49, 50 (basso), 52, 55 – Cortesia Israel Antiquities Authority: Guy Fitoussi: pp. 6/7; Shai Halevi: pp. 7 (basso), 11 (basso); Emil Aladjem: p. 8 (alto); Eitan Klein: pp. 8 (basso), 9 (alto); Yaniv Berman: pp. 9 (basso), 10; Highlight Flims: p. 11 (alto, a sinistra); Ofer Sion: p. 11 (alto, a destra) – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 12-13 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bari: pp. 14-15 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 16-17 – Cortesia Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo: p. 18 – Cortesia Parco archeologico di Ostia antica: pp. 20-21 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 22-23 – Cortesia degli autori: pp. 110-111; Mount and Nature: p. 24; S. Aude/ Collectivité de Corse: pp. 24/25; D. Gliskman/Inrap: p. 25 – Shutterstock: pp. 42/43, 54, 66/67, 68, 74/75, 77, 78-81, 106 – G. Venturini: disegno a p. 44 (alto) – Doc. red: pp. 50 (alto), 51, 53, 60-61, 62, 64-65, 69, 72 – Mondadori Portfolio: Fone Art Images/HeritageImages: p. 57; Album/Collection Grob/Kharbine-Tapabor: p. 58; Erich Lessing/Album: p. 59 (basso); Album/Oronoz: p. 63; CM Dixon/Heritage-Images: pp. 70/71, 83; AKG Images: pp. 74, 82; Album: p. 76 – Luca Tinagli: pp. 84/85, 87 (basso), 90/91, 92, 95, 96-97, 99, 100101, 102, 103 (basso), 105, 107 – Rossella Faleni: tavole alle pp. 85, 88/89, 94/95 – Franco Cambi: pp. 90, 91 – Antonio Borzatti von Löwenstern: pp. 98, 108 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 59, 69. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


LA NOTIZIA DEL MESE Andreas M. Steiner

NUOVE SCOPERTE NEL DESERTO DI GIUDA

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on il nome «deserto di Giuda» (o «deserto della Giudea», Midbar Yehuda in ebraico) viene indicata una vasta area semidesertica che si estende, per un totale di circa 1500 chilometri quadrati, tra i Monti della Giudea a ovest, e la depressione della valle del Giordano e del Mar Morto a est. Il territorio è caratterizzato da una teoria di aride colline e da altipiani calcarei, attraversati da burroni scavati dalle acque dei fiumi torrentizi (nahal in ebraico, wadi in arabo) che, nei millenni, hanno creato veri e propri canyon, con pareti a strapiombo profonde fino a 500 m. Un paesaggio spettacolare ma inospitale che, tuttavia, accoglie alcuni tra i siti che hanno scritto la storia della ricerca archeologica del Levante: nella parte settentrionale del deserto si trova l’antica Gerico, poco piú a sud, a 2 km dalle rive del Mar Morto, l’insediamento di Qumran – divenuto famoso in seguito alla scoperta degli

Giordano

C

Gerico Gerusalemme Qumran Mar Morto En Ghedi Nahal Hever Masada

omonimi manoscritti – e, ancora piú a meridione, Masada, la leggendaria roccaforte voluta da Erode il Grande. Pur presentandosi come aspro e inadatto a ogni forma di insediamento umano, sin dalla In alto: foto satellitare di Israele con, cerchiato in rosso, il deserto di Giuda e i principali siti citati nel testo. Sulle due pagine: la gola del Nahal Hever, il torrente che taglia il deserto della Giudea e sfocia nel Mar Morto (sullo sfondo). A sinistra: gli archeologi preparano lo scavo di una grotta nei pressi di Qumran. Sullo sfondo, il Mar Morto.

archeo 7


preistoria il deserto è stato luogo ideale per chi cercava rifugio o nascondiglio, complici le grotte che, in numero di svariate centinaia, si aprono sui precipizi lungo i corsi dei nahal. E proprio in alcune di queste grotte, situate lungo la falesia prospiciente il Mar Morto, furono

In alto: lo scheletro di un bambino di seimila anni fa rinvenuto nella Grotta degli Orrori. A destra: Nahal Hever, Grotta degli Orrori. Gli archeologi passano al setaccio la terra della grotta. trovate, negli anni tra il 1946 e il 1947, i celebri manoscritti (detti anche rotoli), contenenti fra le piú antiche trascrizioni dei testi biblici. Da quell’evento in poi (definito a ragione la piú importante scoperta archeologica del XX secolo) le grotte del deserto di Giuda entrarono nel mirino dei scavatori clandestini (ricordiamo che gli stessi Manoscritti del Mar Morto furono scoperti casualmente, da alcuni pastori, vedi «Archeo» n. 232, giugno 2004). Ma si mobilitarono anche gli archeologi israeliani. Tra il 1960 e il 1962, vennero esplorate le grotte di molti nahal, con risultati clamorosi: in una grotta del Nahal Mishmar (in

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seguito nominata «Grotta dei tesori») fu rinvenuto un insieme di 429 recipienti in ematite, avorio e rame, risalenti al periodo calcolitico, ovvero al IV millennio a.C. (questi straordinari reperti sono oggi esposti all’Israel Museum di Gerusalemme).

In due altre grotte, inoltre, emersero oggetti che portarono alla ribalta, dopo millenni, la memoria dell’ultima insurrezione giudaica contro Roma, quella dell’anno 132 d.C. e nota come la rivolta di Bar Kochba (aramaico per «figlio della stella»), dal nome del


L’indagine archeologica delle grotte del deserto di Giuda ha visto la partecipazione di decine di giovani volontari muniti di attrezzatura da alpinismo. Alcune grotte, infatti, potevano essere raggiunte solo calandosi a corda doppia.

personaggio carismatico che la capeggiò. I rivoltosi tentarono di rifugiarsi nelle grotte, portandosi dietro tutti i loro averi. E se da una di esse, cosí pare, riuscirono a scappare, due altre grotte, aperte sulla falesia del Nahal Hever, si trasformarono in trappola mortale. Nella «Grotta delle Lettere» gli archeologi rinvennero una grande quantità di reperti di vita quotidiana, tra cui frammenti di papiri iscritti, mentre nella seconda grotta, aperta sul versante opposto (meridionale) della parte del nahal, la scoperta fu sconcertante: nella cavità giacevano gli scheletri di 40 tra uomini, donne e bambini, verosimilmente morti di inedia. Provenienti dalla vicina oasi di En Ghedi, le famiglie si erano rifugiate nella «Grotta degli Orrori» (cosí venne denominata dagli archeologi) per sfuggire alle legioni romane. Queste, però, una volta individuati i fuggiaschi, si accamparono sulla cima della falesia, in attesa della loro resa…

È dei primi di marzo di quest’anno la notizia di una nuova campagna di ricognizione e di scavo, condotta dalla Soprintendenza alle Antichità di Israele (IAA) a partire dall’ottobre del 2017, finalizzata a censire e scavare tutto il patrimonio archeologico ancora nascosto nelle grotte e a preservarlo dall’operato dei clandestini. A oggi, circa 600 grotte sono già state esplorate, altre centinaia sono in attesa di esserlo. «Abbiamo indagato circa il 60/70 per cento dell’area, lungo un percorso di circa 80 km – spiega Eitan Klein, direttore della Prevention of Antiquities Looting, l’unità preposta alla prevenzione del saccheggio delle antichità dell’IAA – e per completare il restante 40% serviranno altri due o tre anni di lavoro». Le nuove indagini nel deserto di Giuda, le prime dopo un intervallo di sessant’anni, hanno visto la partecipazione – fino

archeo 9


In questa pagina: Wadi Muraba’at. Dall’alto, in senso antiorario: la scoperta del cesto risalente al Neolitico preceramico; il cesto viene asportato dopo essere stato rimosso dalla grotta; il cesto nei laboratori di restauro della Soprintendenza alle Antichità di Israele.

all’interruzione forzata dovuta alla pandemia da Covid – di decine di giovani volontari, muniti di attrezzature da alpinismo e coadiuvati da un nuovo strumento di indagine, oggi sempre piú indispensabile, il drone. Di tutte le grotte censite, 12 sono

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state scavate e altre 15/20 seguiranno. Intanto, le scoperte non si sono fatte attendere. Durante un nuovo e approfondito scavo nella già menzionata Grotta degli Orrori del Nahal Hever, posta a 80 m dalla cima della falesia e raggiungibile solo calandosi con la

fune, è stato rinvenuto un scheletro parzialmente mummificato e databile, questa volta, all’età calcolitica. Il corpo, appartenuto a un (una) giovane, era stato sepolto nella grotta, avvolto in un tessuto, ben 6000 anni fa. Un’altra scoperta sensazionale è emersa durante l’esplorazione delle grotte che si aprono lungo il Wadi Muraba’at, il cui canyon, profondo 200 metri, attraversa il deserto di Giuda per aprirsi sul Mar Morto, circa 18 km a sud di Qumran: si tratta di un grande


In alto, a sinistra: Nahal Hever, Grotta degli Orrori. La scoperta dei frammenti di papiro. In alto, a destra: i frammenti vengono avvolti in un panno per essere trasportati. A sinistra: il papiro ricomposto contenente i passi dai Libri dei Profeti. II sec.d.C.

cesto, realizzato con un intreccio di fibre vegetali e straordinariamente conservato. Datato a 10 500 anni fa, al periodo cosiddetto Neolitico preceramico, potrebbe rappresentare il piú antico reperto del genere a oggi noto. Sempre dalla Grotta degli Orrori proviene, infine, la scoperta che ha riportato la memoria alle prime, avventurose scoperte del secolo scorso: setacciando la terra che ricopriva il pavimento della cavità, sono emersi dei frammenti di papiro iscritti. Alcune parti delle iscrizioni sono state ricostruite dagli archeologi della Dead Sea Scrolls Unit (il dipartimento addetto allo studio dei Rotoli del Mar Morto) Tanya Bitler, Oren Ableman e Beatriz Riestra: riportano passi dei Libri dei Profeti Zaccaria (8, 16-17) e Naum (1:5-6). La scrittura usata è il greco, con una eccezione: quella del nome di Dio, riportato in caratteri ebraici.


PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

GIOCANDO S’IMPARA NASCE, ALL’INTERNO DEGLI HORTI FARNESIANI, IL «PARCO DEI PICCOLI», UNO SPAZIO PENSATO PER AVVICINARE ALLA CONOSCENZA DELL’ANTICO I VISITATORI PIÚ GIOVANI. AI QUALI FARÀ DA GUIDA IDEALE IL BAMBINO DI DUEMILA ANNI FA SVELATOSI GRAZIE A UN SORPRENDENTE AUTORITRATTO

L

o straordinario rinvenimento di un graffito tracciato da un piccolo abitatore del Palatino tra gli anni Trenta e Cinquanta del I secolo d.C. – ritraente se stesso con il papà, i giochi abitualmente usati e gli affetti a cui era legato (un cavallo, una palla accanto a un gattino e a un cagnolino) – su una delle pareti intonacate di bianco

di una casa tardo-repubblicana nei livelli sottostanti la Domus Tiberiana, ha suggerito la creazione di uno spazio dedicato ai bambini che da tutto il mondo vengono in visita al Parco archeologico del Colosseo. Assunto questo particolare documento come logo del «Parco dei Piccoli», l’ideale bambino, ribattezzato Tiberio,

guiderà come mascotte i giovani visitatori alla scoperta delle bellezze archeologiche e naturalistiche dei luoghi nascosti e di quelli della vita pubblica e privata antica che rappresentano l’offerta dei percorsi di visita del Parco. Il padiglione sorge vicino al roseto voluto da Giacomo Boni in prossimità delle Uccelliere Farnesiane, uno spazio ampio ed elevato dal quale si traguardano a nord tutti i monumenti piú importanti del Foro: la basilica di Massenzio con la chiesa di S. Maria Nova (S. Francesca Romana), il tempio detto del Divo Romolo con quello di Antonino e Faustina, di Vesta e dei Castori e le due basiliche della piazza del Foro e la Curia.

UN’ACQUISIZIONE PRESTIGIOSA La cornice entro la quale si inserisce il padiglione è il famoso giardino all’italiana degli Horti Farnesiani. Risalenti al 1565, acquisiti tra le proprietà di famiglia da parte di Alessandro Farnese, nipote del papa Paolo III, come prestigiosa «conquista» di un settore dell’antico luogo del potere imperiale, con fini propagandistici della supremazia tra le famiglie romane, gli Horti Farnesiani

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Napoleone III tra il 1861 e il 1870, e di Giacomo Boni, che indagò l’area tra il primo e il secondo decennio del XX secolo.

BAMBINI DI IERI E DI OGGI

In alto: il graffito scoperto su una delle pareti di una casa tardo-repubblicana sottostante la Domus Tiberiana e nel quale un bambino ha ritratto se stesso

con il papà, i giochi abitualmente usati e gli affetti a cui era legato. Nella pagina accanto: una veduta del padiglione del «Parco dei Piccoli».

occupavano in origine gran parte della metà occidentale del colle, estendendosi dalle pendici settentrionali a contatto con la valle del Foro, fino al fianco meridionale e occidentale, al confine con la via di S. Teodoro. Attualmente, tuttavia, a seguito dei grandi scavi novecenteschi che ne hanno ridotto l’estensione, l’ingombro del giardino farnesiano corrisponde a un’area di 4 ettari circa e insiste totalmente sui resti di quello che la storia degli studi ci ha tramandato come il primo palazzo dinastico dell’impero: la Domus Tiberiana. Oggi poco rimane dell’originario assetto paesaggistico di epoca farnesiana, che

contemperava le due formule del giardino coltivato e organizzato – vero e proprio giardino all’italiana nel settore nord al di sopra del sedime del palazzo imperiale – e del giardino incolto, lasciato intatto al totale dominio della natura nel settore sud e sud-ovest del colle, secondo una concezione filosofica della natura stessa: con spazi antropizzati (lavorati, regolati e sistematizzati) e spazi in cui invece sia assente l’intervento pianificatore dell’uomo. Nella sua configurazione attuale, il giardino risente delle sistemazioni di Pietro Rosa, che scavò presso gli Horti Farnesiani in qualità di direttore delle antichità sotto

Il rapporto tra l’architettura del nuovo padiglione (al cui progetto hanno partecipato anche Alessandro Miele e Matteo Carluccio) e il giardino farnesiano è enfatizzato dall’uso del legno nelle naturali tonalità del verde bosco unito a soluzioni tecnologiche in acciaio inossidabile e all’inserimento di un nuovo perimetro botanico. All’interno sono ricreati arredi ispirati ai giochi antichi e qui, divertendosi alla maniera dei bambini romani, i piccoli ospiti potranno fare esperienze, incontri, laboratori e attività didattiche e ludico-ricreative. Lo spazio esterno, invece, accoglierà i laboratori in cui i piccoli visitatori potranno sperimentare il lavoro dell’archeologo mediante la pratica dello scavo stratigrafico simulato, della scheggiatura della selce e della manifattura della ceramica. A ogni visitatore verrà consegnato un kit personale nel quale avrà a disposizione tutto l’occorrente per orientarsi (una mappa semplificata del parco in tessuto non tessuto), un taccuino corredato di matita per appunti e disegni, alcuni sassolini per il gioco delle tabulae lusoriae. Infine, dal Parco dei Piccoli, vero fulcro esperienziale di conoscenze tecnico pratiche e teoriche, partiranno i percorsi guidati alla scoperta dei luoghi del Parco. In tal modo i visitatori piú giovani avranno la possibilità di visitare l’area dei venerandi santuari originari del colle, i palazzi e le sedi della corte imperiale, i luoghi della vita pubblica e politica nell’area forense nonché le meraviglie naturalistico-paesaggistiche degli Horti Farnesiani e del percorso alle pendici meridionali del Palatino. Maria Grazia Filetici e Fulvio Coletti

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n otiz iario

SCAVI Puglia

UN CAMPIONE D’ALTRI TEMPI

A

Gravina in Puglia (Bari) l’area archeologica di Botromagno, che domina la grandiosa valle d’erosione del torrente Gravina, costituisce un ambito territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici e ambientali. L’interesse per il sito, indagato con numerosi saggi dalla Soprintendenza territoriale e da missioni internazionali di scavo, non è mai venuto meno per le caratteristiche dell’insediamento di epoca peuceta segnato dalla particolare valenza aristocratica delle presenze funerarie e dal

A destra: Gravina di Puglia (Bari), località Botromagno. L’area in cui è stata scoperta la tomba appartenuta con ogni probabilità a un atleta. In basso: la pregiata spada con elsa in avorio che qualifica come guerriero, oltre che vincitore di gare, il defunto sepolto nella tomba. tessuto abitativo. Con il supporto di finanziamenti ordinari, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bari ha promosso un breve intervento di scavo sulla collina di Botromagno, in un’area ora di proprietà comunale che nel 1974, in uno scavo d’emergenza nella proprietà Ferrante, aveva restituito splendidi vasi a figure rosse di produzione attica e italiota, tra cui l’eccezionale cratere a volute e le due anfore panatenaiche del Pittore di Gravina. Tra i nuovi e importanti rinvenimenti emerge una grande tomba a semicamera forse appartenuta a un atleta vincitore alla panatenaiche. «In una tomba in asse con lo scavo del 1974, colma di blocchi lapidei della copertura – commenta Marisa

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Corrente, funzionario archeologo direttore dello scavo – tra i numerosissimi reperti frantumati, sono emerse parti significative di un’anfora attica panatenaica a figure nere. I vasi panatenaici attici erano premi per i vincitori per le gare atletiche, lo stàdion – ovvero la corsa –, il pentathlon, la lotta, il pugilato, il pancrazio, la corsa dei carri, la corsa a cavallo e la corsa in armi, che si svolgevano ad Atene ogni quattro anni, durante le Panatenee, feste in onore della dea protettrice della città. Le raffigurazioni su questi vasi, prodotti dalla metà del VI secolo a.C. fino all’età ellenistica, sono canoniche. Su un lato, la figura di Atena armata, accompagnata dall’iscrizione ton Athenethen athlon (un premio da Atene);


A destra: frammento della parete di una kylix sul quale si conservano tracce di doratura. In basso: la tomba al termine dello scavo.

Qui sopra: un altro frammento di kylix con tracce di doratura: la presenza di simili decorazioni è indizio dei rituali riservati a personaggi considerati come eroi immortali. sull’altro, lato la disciplina sportiva in cui l’atleta era risultato vincitore. Sull’anfora rinvenuta a Gravina la gara era relativa a robusti corridori in nudità atletica. I dati del rinvenimento ci permettono di ipotizzare la collocazione del vaso all’esterno della tomba e l’ipotesi di lavoro, supportata dalla presenza di blocchi lavorati, è di un particolare apprestamento funerario con l’anfora enfatizzata a ricordare la particolare posizione dell’individuo sepolto come atleta e vincitore. Permette di verificare tale ipotesi la famosaTomba dell’Atleta di Taranto, oggi conservata al MArTA, con la chiara fisionomia atletica delle anfore panatenaiche disposte attorno alla sepoltura. Uno sguardo agli altri elementi del corredo aiuta a comprendere la

posizione aristocratica del defunto, qualificato come guerriero da una spada con l’elsa di avorio. Ceramica attica figurata e vasi protoitalioti risultano rilevanti nella composizione del corredo. I frammenti sono parlanti: su alcune pareti di kylikes si conservano dorature e non è casuale la tecnica pittorica, con presenza di oro puro sui vasi per la libagione, a sottolineare la significatività dei rituali per i defunti, eroi immortali. Il vasellame attico rivela l’importanza dei traffici verso la Peucezia, testimoniando come la domanda di prodotti di prestigio presso l’élite aristocratica di Botromagno tra il 450 e il 425 a.C. avesse avuto un incremento notevole, con una preferenza per le immagini di donne e giovani

impegnati in scene rituali. Tra i prodotti attici importati, in prevalenza vasi per il consumo del vino, pochi e frammentati esemplari di vasi a decorazione plastica, i famosi rytha, vasi configurati con teste zoomorfe di ariete e asino». Vi è una prospettiva indigena nella storia non finita delle tombe a semicamera di Gravina in Puglia, con adesione a un sistema di segni che connota la posizione elevata di alcune famiglie, ma il ruolo non marginale dell’insediamento nella Puglia centrale è ben rilevato dall’alta qualità dei prodotti convogliati da Atene verso l’Occidente: prodotti di lusso in un trend di distribuzione che affascina per la portata del fenomeno. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

DALLO SFARZO AL SILENZIO COMPLETIAMO LA PRESENTAZIONE DEL RINNOVATO ANTIQUARIUM DI POMPEI, LE CUI SEZIONI RIPERCORRONO LE TAPPE SALIENTI DELLA STORIA DELLA CITTÀ. E RIUNISCONO LE MAGNIFICHE SUPPELLETTILI DELLE CASE DI UNA CITTÀ RICCA E FIORENTE, FINO AL FATIDICO 79 D.C.

D

opo le tormentate vicende anticipate nell’intervento precedente (vedi «Archeo» n. 433, marzo 2021; anche on line su issuu. com), è stato inaugurato il nuovo allestimento dell’Antiquarium di Pompei, ispirato alle sue origini di museo della città e di spazio introduttivo agli scavi, cosí come era stato pensato da Giuseppe Fiorelli e Amedeo Maiuri. Dopo

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la parte iniziale, Prima di Roma, descritta la volta scorsa, nelle successive sale si sviluppano altre sezioni storiche dedicate alla città, illustrate da una selezione di opere provenienti dai depositi e dagli scavi recenti della Regio V. Roma vs Pompei focalizza l’indissolubile legame del centro vesuviano con l’Urbe, a partire dalla sanguinosa guerra sociale,

con Pompei e gli alleati italici contrapposti a Roma, fino alla conquista di Silla nell’89 a.C. Iscrizioni in lingua osca documentano eccezionalmente la difesa pompeiana delle mura, con le milizie scelte lungo i diversi settori e gli ausiliari raggruppati presso le principali aree pubbliche e le strade, fra le quali si citano la víu sarinu (via Salaria) e la víu


mefíu (via Mediana). La creazione della colonia di veterani sillani nell’80 a.C., Cornelia Veneria Pompeianorum, mutò completamente l’orientamento politico e sociale della città.

IL NUOVO VOLTO DELLA CITTÀ La classe dirigente sannitica fu scalzata dai nuovi arrivati e Pompei assunse sempre piú l’aspetto di città romana, grazie alla riorganizzazione urbana e alla costruzione di edifici allora in voga, come il teatro per le rappresentazioni musicali (l’Odeion) e l’anfiteatro. Lungo le strade che uscivano dalle porte urbiche furono create necropoli monumentali, simili a quelle di Roma, e il suburbio si popolò di ville aristocratiche (su tutte quelle dei Misteri e di Civita Giuliana) e di una moltitudine di fattorie simili alla Villa Regina di Boscoreale. Organicamente inserita nel progetto politico unificante dell’Italia, la Tota Italia, la Pompei augustea manifesta la sua piena identità nel Foro civile, con monumenti rappresentativi del potere politico e religioso e, sul lato orientale, edifici commissionati da magistrati e da potenti personaggi locali, come la sacerdotessa Eumachia. Altri importanti interventi edilizi sono la Palestra Grande, per la formazione fisica e culturale della gioventú, l’ammodernamento del teatro, come spazio ludico-sacrale curato dall’architetto M. Artorius Primus, e il tempio di Venere, pensato come luogo celebrativo delle origini della gens Iulia. Un’altra sezione è dedicata al benessere e al rapporto privilegiato con la corte imperiale di età giulioclaudia, in particolare sotto Tiberio e Nerone, ma anche con Caligola, per aver ospitato una delle sue mogli, e Claudio, un cui figlio trovò qui la morte in un tragico gioco

A destra: affresco raffigurante la dea Venere su una quadriga trainata da elefanti, dall’Officina dei Feltrai (IX 7, 5). I sec. d.C. Nella pagina accanto: un particolare del nuovo allestimento dell’Antiquarium di Pompei.

infantile. Le domus dell’aristocrazia e dei nuovi ricchi mostrano nell’organizzazione architettonica, nelle decorazioni e negli arredi un gusto raffinato, di sapore ellenico, esotico e talvolta antiquario, una ricercatezza e un’esibizione del lusso che testimoniano un ampio benessere socio-economico. Tra gli affreschi esposti, quelli di «giardino» della Casa del Bracciale d’oro e del triclinio della Casa del Menandro, appartenuta a un ramo della famiglia di Poppea Sabina, moglie di Nerone, vicino ai quali risplendono gli argenti del prezioso tesoro rinvenuto a Moregine, sulla strada che univa Pompei a Stabia. Gli scavi recenti nella Regio V hanno restituito altri reperti significativi, fra cui frammenti di stucco in I stile delle fauces della Casa di Orione e il ricco gruppo di amuleti della Casa con Giardino.

LA RICOSTRUZIONE A fundamentis reficere illustra invece la fine del mondo «dorato» della prima età imperiale, segnata da una calamità che colpí la città, il terremoto del 62 d.C., forse piú probabilmente un lungo sciame sismico che trova riscontri drammatici nei rilievi della Casa di Cecilio Giocondo, dove appaiono alcuni monumenti del Foro

squassati dal sisma. Per l’enorme e lungo lavoro di ricostruzione non potevano essere sufficienti le officine locali di muratori (structores) o di decoratori (pictores), e dovettero quindi intervenire imprese specializzate provenienti da altre zone campane, composte da schiavi, lavoratori salariati, architetti, muratori, pittori e mosaicisti. Si trattava di ospitare in città tutte queste maestranze e di adattare i servizi necessari alle loro necessità: una città cantiere, con locande, ristori, alloggi e postriboli. E questa è l’immagine della Pompei che visitiamo oggi. Quella dell’Ultimo giorno, il 24 agosto o il 24 ottobre del 79 d.C., come suggeriscono recenti scoperte. Sappiamo che i Pompeiani tentarono di ripararsi nelle case dalla massiccia pioggia di lapilli, finché la mattina successiva la scarica violentissima di gas tossico devastò completamente città e territorio. La caduta di cenere finissima, depositata per uno spessore di 6 m circa, aderí alle forme dei corpi umani e alle pieghe delle vesti, cosí come dimostrano i recenti calchi delle vittime dalla villa di Civita Giuliana. Per notizie e aggiornamenti: www.pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

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n otiz iario

SCAVI Sicilia

UN’ARTERIA DI PRIMARIA IMPORTANZA

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el territorio comunale di Caltavuturo (Palermo) è stato di recente intercettato un tratto della via Catina-Thermae, uno degli assi viari piú importanti del sistema stradale della Sicilia di età romana, la cui esistenza è ampiamente attestata dagli antichi itinerari, come l’Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana. «L’eccezionalità del rinvenimento – dice Lina Bellanca, soprintendente ai Beni Culturali di Palermo – consiste principalmente nel fatto che siamo di fronte all’unico tratto di strada romana costruita fino a oggi attestato sull’isola. Altro dato straordinario è la coincidenza del percorso appena scoperto con la Strada Statale 120 dell’Etna e delle Madonie, strada di per sé molto antica, il cui tracciato risale all’epoca bizantina». «Il tratto stradale romano – spiega Rosa Maria Cucco, archeologo della Soprintendenza di Palermo e direttore dello scavo –, lungo 23 m e largo 2,70, e del quale si conserva solo la massicciata in pietre ciottoli di varie dimensioni (statumen) sottostante il basolato – certamente divelto dai secolari lavori agricoli –, corre a una quota di poco inferiore la Statale, confermando, almeno tra il km 36 e il 37, la corrispondenza tra le due strade, prima d’ora solo ipotizzata dagli studiosi di topografia antica. Come testimoniano reperti ceramici (terra sigillata africana), laterizi e oggetti in metallo, il settore messo in luce è databile tra il II e il III secolo d.C. e la sua monumentalizzazione in questa zona è forse da mettere in relazione con la presenza di una stazione di sosta (mansio). Indiziario potrebbe essere, poi, il toponimo Balate della contrada a est del tracciato.

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Due immagini della strada romana, la via Catina-Thermae, recentemente scoperta nel territorio del Comune di Caltavuturo (Palermo). Non lontano dal luogo del recente rinvenimento, a nord-ovest, si trova inoltre il sito della fattoria di età romana imperiale intercettata tra il 1990 e il 1991 in località Pagliuzza, insediamento che era servito proprio dalla via CatinaThermae: qui fu scoperto un tesoretto monetale di 541 denari d’argento di età repubblicana (fine del III-II secolo a.C.), nascosto sotto un mattone del piano pavimentale di uno degli ambienti della villa rustica probabilmente in un momento di pericolo, che, sulla base della datazione dei denari piú recenti, potrebbe coincidere con la seconda rivolta servile del 104-99 a.C. In seguito, il proprietario delle monete non riuscí a recuperare il suo tesoro,

che costituisce oggi uno dei piú ricchi rinvenimenti monetali di età romano-repubblicana scoperti in Sicilia ed è attualmente esposto presso il Museo Civico Giuseppe Guarneri di Caltavuturo». Il ritrovamento della strada è avvenuto grazie a indagini di archeologia preventiva attivate dalla Soprintendenza per i Beni Culturali di Palermo, nell’ambito delle procedure finalizzate alla definizione della progettazione del metanodotto «Rifacimento Metanodotto Gagliano-Termini Imerese». Le operazioni di scavo sono state seguite dall’archeologo Filippo Ianní, coordinato dalla Sezione Archeologica della Soprintendenza. Giampiero Galasso


INCONTRI Paestum

L’AUTUNNO SI ADDICE ALLA BORSA

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«Abbiamo condiviso con il Sindaco di Capaccio Paestum – ha detto Felice Casucci – di far diventare Paestum attraverso la BMTA la regia dell’offerta del turismo culturale campano in ambito archeologico, nell’intento di sviluppare dall’autunno 2021 e per il primo semestre 2022 la domanda di prossimità nazionale ed europea, in attesa della ripartenza definitiva della domanda intercontinentale dall’estate 2022, mettendo in luce i prestigiosi siti UNESCO, quelli in procinto di candidatura (i Campi Flegrei) e l’ampio patrimonio culturale che minore non è, ma che attende solo di essere valorizzato. Inoltre, l’offerta enogastronomica campana trova nella dieta mediterranea e nella pizza napoletana, patrimoni immateriali dell’UNESCO, il valore aggiunto, unico e autentico, da consegnare ai turisti che scelgono le nostre destinazioni archeologiche». Gli ha fatto eco Franco Alfieri, affermando che: «Grazie alla Regione Campania rilanciamo la BMTA. Il Masterplan del Litorale Sud Salerno e l’apertura dell’Aeroporto proietteranno Capaccio Paestum alla ribalta internazionale, per cui nei prossimi tre anni Franco Alfieri, Sindaco di dobbiamo far crescere il Capaccio Paestum. nostro territorio, migliorare i servizi e riqualificare al meglio strutture private e aree pubbliche». Cosí, infine, si è espresso Ugo Picarelli: «Sono grato al Sindaco Franco Alfieri di considerare la BMTA un importante veicolo di sviluppo della destinazione Capaccio Paestum, che naturalmente potrà migliorare con il suo rilancio. Fortemente lo sono al Presidente della Regione Vincenzo De Luca e all’Assessore al Turismo Felice Casucci per aver confermato la BMTA nel calendario ufficiale delle fiere della Regione Campania per il 2021, ma soprattutto per l’impegno di sostenerla maggiormente e accrescerne l’importanza, considerandola una opportunità di relazioni, di processi condivisi, di progettualità per il territorio regionale e per acquisire risorse e stringere accordi di partenariato internazionale nell’ambito del turismo e dei beni culturali». a r c h e o 19

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

seguito degli ultimi provvedimenti governativi, non ci sono le condizioni perché la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico possa svolgersi dall’8 all’11 aprile 2021, dopo aver già rinunciato nel 2020 alle date in programma dal 19 al 22 novembre. Pertanto, gli enti promotori – Regione Campania, Comune di Capaccio Paestum, Parco Archeologico di Paestum e Velia – in occasione di un incontro con la Direzione della BMTA, ne hanno posticipato la XXIII edizione, che si terrà da giovedí 30 settembre a domenica 3 ottobre 2021, al fine di assicurare soprattutto sicurezza, ma anche soddisfazione di risultati. Nell’incontro, al fine di rilanciare la BMTA e farne la vetrina internazionale dell’offerta archeologica della Campania in termini di turismo culturale e di valorizzazione del patrimonio in un’ottica di sistema e di condivisione di buone pratiche, è stato istituito il Comitato di Indirizzo, che vedrà protagonisti la Regione con l’Assessore al Turismo Felice Casucci e il Direttore Generale per le politiche culturali e il turismo Rosanna Romano, il Comune di Capaccio Paestum con il Sindaco Franco Alfieri, il Parco di Paestum e Velia con il neo direttore e il Consigliere di Amministrazione Alfonso Andria. Al Comitato di Indirizzo sarà affiancato il Comitato Scientifico, costituito dai Parchi (Pompei con Gabriel Zuchtriegel, Ercolano con Francesco Sirano, i Campi Flegrei con Fabio Pagano) e Musei Archeologici (il MANN di Napoli con Paolo Giulierini), dalla Direzione regionale Musei del Ministero della Cultura con Marta Ragozzino e dal Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni con Tommaso Pellegrino. La nuova data consentirà anche di vivere Paestum e la bellezza del sito UNESCO in un mese particolarmente ambito per il clima, rispetto alla data tradizionale di novembre, che sancirà la definitiva ripartenza del nostro Bel Paese e del turismo in chiave piú esperienziale, sostenibile e rivolto alla domanda di prossimità, tematiche tutte a cui la Felice Casucci, Assessore Borsa si ispirerà in al Turismo della Regione questa edizione. Campania.


FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

PORTA DI ROMA E DELL’EUROPA SCALO NEVRALGICO NEL SISTEMA ECONOMICO DELL’IMPERO, OSTIA EBBE SEMPRE UNA VOCAZIONE INTERNAZIONALE. ORA RINNOVATA DALL’ATTRIBUZIONE DEL MARCHIO DEL PATRIMONIO EUROPEO

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l 31 marzo del 2020 una bella notizia ha rischiarato il periodo piú buio della pandemia: la Commissione Europea ha insignito l’Area archeologica di Ostia antica del Marchio del Patrimonio Europeo. Un riconoscimento che tiene conto sia dei valori di cui il sito di Ostia è portatore, sia delle attività svolte dal Parco nei confronti dei pubblici, degli studiosi e degli interlocutori internazionali. Il Marchio del Patrimonio Europeo è un riconoscimento a quei siti del patrimonio culturale europeo che abbiano un particolare valore simbolico e/o rivestano un ruolo importante nella storia e nella cultura d’Europa e/o nella costruzione dell’Unione Europea e dai quali emerga, tramite l’evidenziazione dei caratteri propri

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del patrimonio culturale europeo comune, la ricchezza della diversità culturale e l’importanza del dialogo interculturale. Ostia antica fu, in età imperiale, la «porta di Roma», verso cui convergevano i traffici marittimi di merci e di persone.

INTEGRAZIONE E CIRCOLAZIONE La multiculturalità della città è evidente in alcuni monumenti, quale per esempio il piazzale delle Corporazioni: sui mosaici pavimentali sono iscritti i nomi delle genti provenienti dai principali porti delle odierne Francia (Narbonne), Spagna (Tarragona, Cadice) e Africa mediterranea (Cartagine), che a Ostia avevano propri uffici e sedi corporative. Per Ostia antica la parola chiave è integrazione.

Ampliando lo sguardo al porto di Ostia – e di Roma – ovvero Portus, lo scalo costruito dall’imperatore Claudio e ampliato da Traiano, la parola chiave diventa circolazione: una vocazione che il territorio ha ancora, dato che a pochi metri dal Molo Nord del Porto di Claudio sorge l’Aeroporto Internazionale di Fiumicino. Integrazione e circolazione sono le grandi sfide dell’Europa di oggi: integrazione tra genti ed etnie all’interno dell’Europa stessa e nei confronti delle persone extraeuropee che giungono in Europa; circolazione libera dei cittadini dell’Unione Europea all’interno dei confini degli Stati membri, con attenzione all’eguaglianza dei diritti per tutti; circolazione delle merci in un mercato unico, con una


moneta unica, oggi come al tempo dell’impero. In quanto melting pot culturale, crocevia di genti provenienti da ogni parte del Mediterraneo, Ostia è stata il luogo attraverso il quale sono stati introdotti a Roma anche culti e religioni originari del Mediterraneo orientale. Tra questi spicca l’ebraismo, che ha uno dei piú antichi e importanti edifici di culto del Mediterraneo occidentale proprio nella sinagoga ostiense, scoperta 60 anni fa e oggi divenuta luogo identitario della comunità ebraica. Ostia antica svolge quindi, oggi come un tempo, un importante ruolo nella trasmissione dei valori della multiculturalità, dell’integrazione e della circolazione internazionale. Le azioni che perseguono gli intenti del Marchio viaggiano su tre livelli: uno locale, costituito dalla popolazione del territorio e dagli studenti delle scuole di ogni ordine e grado; uno europeo rivolto al pubblico dei visitatori reali e degli

utenti web che seguono il Parco attraverso le sue attività digitali; uno internazionale, che colloca Ostia in Europa e l’Europa a Ostia sul piano della ricerca. L’educazione al patrimonio e ai valori che a esso si riferiscono e da esso promanano è al centro delle attività didattiche e dei progetti di alternanza scuolalavoro a cura dei Servizi Educativi del Parco. Il patrimonio archeologico di Ostia non è soltanto veicolo di trasmissione culturale, ma anche di valori universali: l’importanza della conoscenza delle nostre radici, il confronto tra passato e presente, sia in termini di similarità che di differenza.

UN MERCATO COMUNE Ostia è al centro di progetti di ricerca e di valorizzazione internazionali che mirano all’approfondimento della conoscenza del patrimonio comune, connettendo la storia e l’archeologia del sito al contesto piú ampio, in particolare ai porti

Nella pagina accanto: i resti della sinagoga di Ostia antica. In basso: uno scorcio del piazzale delle Corporazioni.

antichi del Mediterraneo, per capire le intime connessioni che esistevano in età romana tra le varie aree dell’impero, per ricostruire rotte, commerci, ma anche infrastrutture e organizzazione interna del lavoro. Già per l’età romana infatti si può parlare di un mercato comune del quale Roma era il fulcro. Nel mese di maggio si svolgerà la cerimonia di apposizione della Targa del Marchio del Patrimonio Europeo nell’area archeologica di Ostia antica. Un evento simbolico, ma altamente significativo per il sito, per l’Italia e per la conferma dell’attualità del nostro passato. Marina Lo Blundo

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

GENTE DI UN «CERTO LIVELLO»... TROVATE UNA ACCANTO ALL’ALTRA, DUE TOMBE RECENTEMENTE SCOPERTE NELLA NECROPOLI DI POGGETTO MENGARELLI ACCOLSERO LE SPOGLIE DI UN UOMO E UNA DONNA, DEPOSTI CON RICCHI CORREDI. FORSE UNA COPPIA E, COMUNQUE, ESPONENTI DI UNA FAMIGLIA ALTOLOCATA

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ella necropoli in località Poggetto Mengarelli è stato appena ultimato lo scavo di due tombe poste molto vicine tra loro – una appartenuta a una donna e l’altra a un uomo, entrambi adulti – e la loro disposizione suggerisce

che possano aver accolto le spoglie di due componenti (moglie e marito? fratello e sorella?) di un medesimo nucleo familiare di altissimo rango nella Vulci degli inizi del VII secolo a.C. La tomba femminile, a fossa, di

Sulle due pagine: la tomba femminile (a sinistra e in alto) e la tomba maschile recentemente scoperte nella necropoli di Poggetto Mengarelli e riferibili a personaggi di rango elevato. Inizi del VII sec. a.C. forma rettangolare e con orientamento NE-SW, è localizzata sul margine sud-occidentale dell’area oggetto d’indagine. Al momento dello scavo, il contesto è risultato fortemente alterato da processi deposizionali, con buona probabilità connessi alla realizzazione di sottostanti tombe a

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camera di età ellenistica, che ne hanno causato lo sprofondamento e alterato la conformazione originaria. Il sepolcro era chiuso da lastre in pietra calcarea (il cosiddetto palombino) di grandi dimensioni, rinvenute frammentate in ampie porzioni e leggermente inclinate verso il centro della struttura. Dopo la loro rimozione, è emerso un sottile strato a matrice sabbio-terrosa, che obliterava il materiale di corredo, fortemente compromesso dal crollo della copertura, che lo ha schiacciato. Insieme alla defunta furono deposti reperti in ceramica e metallo – in particolare suppellettili in bronzo, come un bacile-tripode con ampio labbro, uno stamnos e varie coppe emisferiche apode –, rimossi per stacchi anche attraverso la realizzazione di cinque differenti pani di terra, e poi sottoposti a microscavo in laboratorio. Numerosi sono anche gli oggetti di ornamento personale in materiale prezioso – come oro, argento, ambra, cristallo di rocca e pasta vitrea –, che provano l’alto rango del personaggio sepolto, di genere sicuramente femminile. Tra questi, sono degni di nota due scarabei di produzione vicinoorientale – con montature,

rispettivamente, in oro e argento – e un copricapo in materiale organico (forse vegetale), decorato con numerose borchiette circolari in lamina di bronzo. Di notevole interesse è anche la porzione di un probabile diphros (sgabello) in legno con decorazioni in bronzo.

ARMI IN FERRO La sepoltura maschile rimanda a un personaggio di alto rango politicomilitare, come sembra indicare il ritrovamento di una spada in ferro, la prima in questa necropoli. La presenza di due alari con lo spiedo ancora montato, di un’ascia e di un coltello, tutti in ferro, esplicita la natura guerriera del defunto. Anche in questo caso si tratta di una tomba a fossa, di forma rettangolare e con orientamento NE-SW, localizzata in prossimità del margine sud-occidentale dell’area di scavo. E come nel caso della sepoltura femminile, il contesto è risultato fortemente alterato da processi deposizionali che ne hanno alterato l’assetto originario. Al momento dell’intervento, l’ampio taglio nel bancone tufaceo, forse del tipo «semplice» senza risega, era ancora sigillato da una copertura a lastre in pietra calcarea di grandi dimensioni, rinvenute

collassate e fortemente inclinate verso il centro della sepoltura. Dopo averle rimosse, è emerso uno spesso strato a matrice sabbioterrosa, che obliterava un’inumazione supina in connessione anatomica, orientata anch’essa NE-SW, e il ricco corredo. Quest’ultimo, molto frammentato, era raccolto intorno e, in modo singolare, sopra le ossa del defunto. A un primo esame, risultavano chiaramente distinguibili tutte le forme ceramiche tipiche del periodo, sia in impasto (olle, ciotole, kyathoi e coperchi) che in ceramica acroma o etruscogeometrica (kylikes, coppa-cratere e piattello), oltre a un copioso strumentario in ferro (spada, punta di lancia, ascia, lama, reggivasi e alari) e ad alcuni ornamenti personali in bronzo (fibula, affibbiaglio e anellini). Le ricerche di Poggetto Mengarelli sono dirette da Simona Carosi della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale e da chi scrive con la collaborazione sul campo di Carlo Regoli e di Teresa Carta di Fondazione Vulci e vedono l’importante sostegno della Regione Lazio e del Comune di Montalto di Castro.

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A TUTTO CAMPO Olivier Alfonsi

MONTAGNE POPOLATE DA SELVAGGI? PER SECOLI LA CORSICA È STATA VISTA COME UN’ISOLA ARRETRATA E CHIUSA IN SE STESSA: UN’IMMAGINE CONDIZIONATA DAL GIUDIZIO DEI CONQUISTATORI ROMANI, DECISAMENTE SMENTITA DALLA RICERCA ARCHEOLOGICA

«L

a Corsica è una montagna nel mare», scriveva il geografo tedesco Friedrich Ratzel nel 1899 ed è vero che, rispetto alla Sardegna, sua «sorella maggiore», l’isola è caratterizzata da cime piú alte, alcune delle quali sfiorano i 3000 m. Tale particolarità geomorfologica ha alimentato molti stereotipi; uno dei piú persistenti è quello di un’isola a due velocità: una Corsica civilizzata e aperta sul Mediterraneo con la città di Alalia/Aleria come epicentro, opposta a una Corsica montagnosa, «selvaggia e ripiegata su se stessa», come sosteneva il geografo Strabone (Geografia, V, 2,7), a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Il pregiudizio è nato, in realtà, con i Romani, i quali, dopo aver conquistato nel 259 a.C. l’etrusca Alalia – in origine colonia focese, poi occupata dagli Etruschi dopo il 540 a.C. e infine ribattezzata Aleria sotto il dominio romano – impiegarono quasi 150 anni per sottomettere il resto dell’isola a causa della resistenza delle comunità montane. Come è

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accaduto per le province che si opponevano ferocemente agli invasori, Roma ha costruito e trasmesso l’immagine di una Corsica interna arretrata, barbara ed estranea allo spazio civile rappresentato dal mondo mediterraneo. Come vedremo, i risultati delle ricerche condotte negli ultimi anni da storici e archeologi tendono, invece, a dimostrare il contrario.

Siti come Cagnano (nel settore settentrionale dell’isola) e Cuciurpula (nel settore meridionale), testimoniano la partecipazione delle comunità dell’interno alle reti commerciali del mondo antico fin dall’inizio dell’età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.): recenti scavi effettuati nei due siti hanno portato in luce varie classi di materiali protostorici – ceramiche, fibule, ornamenti e armi


Qui sotto: veduta di Aleria con i resti del Foro romano (I sec. d.C.): il sito si trova sulla costa tirrenica della Corsica, di fronte a Civitavecchia. Nella pagina accanto: la sommità del Monte Cinto, la vetta piú alta della Corsica (2706 m), vista dalla Pointe des Éboulis (2607 m). Il Monte Cinto è

nel settore centro-settentrionale dell’isola (Comune di Asco), presso le antiche cave di marmo. In basso, a destra: tomba a camera femminile scoperta ad Aleria nel febbraio 2019 e identificata come etrusca grazie al corredo. La datazione è stimata tra il 350 e il 300 a.C.

– provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo. Dotate di abili artigiani, le comunità montane producevano anche oggetti in metallo, a loro volta esportati: lo dimostrano le spade corte e i pugnali in bronzo di fabbricazione còrsa che si trovano in tutta l’isola, ma che arrivano anche in Italia meridionale, in particolare nella ricca colonia sibarita di Poseidonia (poi divenuta Paestum). Ci sono, inoltre, evidenti analogie con la cultura materiale nuragica e con quella etrusca: il fenomeno indizia una trasmissione di competenze, legata a spostamenti di persone, sollevando in senso piú ampio la questione delle influenze reciproche tra l’area còrso-sarda a sud e quella còrso-toscana a nord nel campo della produzione metallurgica e artigianale, ma anche negli usi e costumi locali. Un testo dello storico greco Polibio (Storie, XII, 4, 1-5), vissuto nel II secolo a.C., sembra confermare come tali contatti andassero oltre lo scambio di manufatti di uso comune, poiché riferisce che i pastori còrsi utilizzavano una

tromba da guerra etrusca chiamata salpinx per radunare le greggi: l’autore osserva inoltre che l’uso di questo strumento per scopi agropastorali fosse conosciuto, al di fuori della Corsica, solo in Etruria. Considerata l’importanza dell’allevamento nell’economia delle comunità interne, la circostanza che i pastori locali avessero adottato una pratica di origine etrusca, probabilmente introdotta in Corsica dai guerrieri etruschi sepolti in gran numero nelle tombe aristocratiche di Alalia, stabilisce ancora una volta la permeabilità delle comunità della fascia costiera con quelle dell’area montana.

UN’INTERFACCIA PRIVILEGIATA I legami tra mare e montagna sono proseguiti nel tempo, nonostante le numerose rivolte contro la dominazione romana. Lo studio dei marmi ornamentali di Aleria del I secolo d.C. ne indica la provenienza dalle cave situate nel centro dell’isola, mentre quelli di importazione consistono

soprattutto nel marmo lunense. L’impiego del marmo còrso implica il fatto che la città mantenesse stretti legami con il suo entroterra, poiché lo sfruttamento di quelle cave poteva essere effettuato soltanto con il consenso e il sostegno della popolazione locale, vista la complessità della logistica necessaria per l’estrazione e il trasporto dei blocchi grezzi. La presenza di materiali di origine locale e di importazione nell’ambiente urbano di Aleria è quindi una prova dell’esistenza di un tessuto economico basato sull’uso delle risorse presenti nell’entroterra e, allo stesso tempo, dell’apertura della città al commercio mediterraneo. Questi elementi indicano pertanto come, lungi dall’essere arretrate e

isolate, le comunità dell’interno fossero parte integrante degli scambi che collegavano la Corsica al resto del mondo antico. Occorre perciò riconsiderare a fondo l’ipotesi di Aleria vista come un’oasi di civiltà che, dalla costa, volgeva le spalle al resto dell’isola; la città era, al contrario, un’interfaccia privilegiata, un centro nel quale si articolavano i contatti politici, culturali e commerciali tra mare e montagna. (olivier.alfonsi@ univ-grenoble-alpes.fr)

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

«EI FU...» I magnifici spazi dei Mercati di Traiano-Museo dei 2 Fori Imperiali ospitano la mostra «Napoleone e il mito di Roma», organizzata per celebrare il bicentenario della morte dell’imperatore e della 1 quale ci parla in questo numero Giuseppe Della Fina. L’esposizione, che illustra quanto il mito della Roma imperiale fosse sentito dall’empereur, si articola in tre macrosezioni e qui riproponiamo 4 alcune delle opere esposte grazie ad alcuni degli innumerevoli francobolli emessi su Napoleone. Il rapporto con il mondo classico. Nato ad Ajaccio il 16 agosto del 1769 (1, casa natale), Napoleone fu 3 avviato giovanissimo alla carriera militare frequentando la scuola reale di Brienne (2, scuola e 5 gesso di Napoleone da cadetto). Il bronzo che lo 6 raffigura come imperatore romano (3) testimonia il desiderio di ispirarsi ai grandi condottieri del passato come Giulio Cesare (4) e Augusto (5, busto di marmo dai Musei Capitolini), senza dimenticare Alessandro Magno (6) e il cartaginese Annibale (7). Il rapporto con l’Italia e Roma. Napoleone ha 7 8 sempre avuto un sentimento benevolo verso 9 l’Italia, per le origini della sua famiglia, e verso Roma in particolare, perché in essa vedeva la grandezza di un impero che cercava di ricostruire a propria misura. Fu incoronato Re d’Italia con la corona ferrea (8) nel Duomo di Milano il 25 maggio 1805 e non mancò mai di esprimere ammirazione per la storia e l’arte italiana, «portando con sé» 10 molte opere oggi in bella mostra al Louvre. Importante fu anche il rapporto con Antonio Canova 11 dal quale si fece ritrarre (9). Modelli antichi nell’arte e nell’epopea napoleonica. Napoleone guardò ai modelli antichi che fece suoi; valga per tutti l’aquila romana (10), che adottò in occasione della sua incoronazione come si vede nel celebre dipinto (11) di David che chiude il percorso espositivo. L’amore per l’antico fa da fil rouge anche all’articolo di Alessandra Costantini che ripercorre 13 12 la vicenda biografica del fratello minore Luciano Bonaparte, legatissimo all’Italia e divenuto principe di Canino nel cuore della Maremma. IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere A lui sono dovuti molti ritrovamenti etruschi a alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai Vulci (12), fra cui quello della Tomba di Iside, seguenti indirizzi: attualmente al British Museum. Di Luciano si Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, conosce un solo ricordo filatelico, seppur Via Tavanti, 8 C.P. 17037 indiretto: un annullo postale di Autun, Francia, con i 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. nomi dei tre fratelli Bonaparte: Giuseppe, oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it Napoleone e Luciano (13).

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CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

AVVISO AI LETTORI Italia Questo Calendario è stato redatto in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19 emanate dalle autorità nazionali e locali. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

ROMA Pompei 79 d.C.

MILANO Sotto il cielo di Nut

Napoleone e il mito di Roma

Qhapaq Ñan

I marmi Torlonia

NAPOLI Gli Etruschi e il MANN

Una storia romana Colosseo fino al 09.05.21

Egitto divino Civico Museo Archeologico sospesa

Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 30.05.21

La grande strada Inca MUDEC-Museo delle Culture sospesa

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.06.21

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21

L’eredità di Cesare e la conquista del tempo

Gladiatori

Musei Capitolini fino al 31.12.21

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21

ODERZO L’anima delle cose

Piranesi

Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica sospesa

BOLOGNA Etruschi

Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico sospesa

FIRENZE Imperatrici, matrone, liberte

Volti e segreti delle donne romane Galleria degli Uffizi fino al 09.05.21

Tesori dalle terre d’Etruria

La collezione dei conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21 28 a r c h e o

Un videomapping proiettato sui Fasti Capitolini. Ritratto di matrona romana.

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo FoscoloMuseo Archeologico Eno Bellis fino al 30.05.21

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli

Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22

Paesi Bassi LEIDA I templi di Malta

Rijksmuseum van Oudheden fino al 29.08.21

Mosaico con gladiatori, da Augusta Raurica.



PIE TR A

TO SC S RI C TT A EN N EL A LA ST OR IE

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

Meraviglie del Tufo pitigliano, sovana, sorano, vitozza a cura di Carlo Casi


N

el lembo di Toscana che confina con il Lazio si conserva un patrimonio unico e spettacolare: sono le Città del Tufo, un nucleo di centri accomunati dall’aver vissuto la propria storia in una costante e felice simbiosi con la pietra che è il nocciolo e l’anima di questa terra, il tufo, appunto. Le vicende di ciascuno di questi insediamenti – Pitigliano, Sovana, Sorano, Vitozza – attraversano i secoli e le testimonianze di questo passato sono oggi mete ricche di fascino. Capillare fu la presenza degli Etruschi, che nella pietra seppero scavare e scolpire monumenti imponenti, dalle «vie cave», che si snodano come canyon tra un sito e l’altro, alle tombe rupestri, decorate da eleganti sculture e maestosi elementi architettonici. E dopo la lunga e importante fase della romanizzazione, altrettanto significativo fu il millennio medievale, nel corso del quale i borghi ebbero ruoli di primo piano negli equilibri politici e sociali e godettero anche di grande notorietà grazie ad alcuni dei loro figli. Come accadde soprattutto a Sovana, che diede i natali al monaco Ildebrando, asceso al soglio pontificio come papa Gregorio VII e destinato a segnare una svolta cruciale nella storia della Chiesa. La nuova Monografia di «Archeo» è dunque l’occasione per conoscere le Città del Tufo, viaggiando in un tempo lungo e denso di avvenimenti, ma, soprattutto, vuol essere un invito a scoprire e visitare un vero e proprio scrigno di tesori.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Quella grande bellezza diffusa

La Tomba Ildebranda di Sovana, la piú monumentale del comprensorio. Prima metà del III sec. a.C.

IN EDICOLA

• PITIGLIANO • La piccola Gerusalemme • SOVANA • Nella città delle sirene • Ildebrando: da monaco a papa • SORANO • Gemma del Rinascimento •V ITOZZA • La Matera della Maremma

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SCOPERTE • TOSCANA

GLI DÈI DAL FANGO UN PAESAGGIO BELLISSIMO, COSTELLATO DA SORGENTI DI ACQUA CALDA POSTE SOTTO LA PROTEZIONE DIVINA: UNA RECENTE, SENSAZIONALE SCOPERTA A SAN CASCIANO DEI BAGNI ILLUMINA LA STORIA ANTICA DI UN TERRITORIO UNICO AL MONDO di Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli


Salvo diversa indicazione, le foto documentano lo scavo del santuario scoperto al Bagno Grande di San Casciano dei Bagni (Siena). Sulle due pagine: gli altari e la vera della sorgente. In basso: replica dell’Afrodite accovacciata del tipo Doidalsas. II sec. d.C. San Casciano dei Bagni, Terme del Portico, Fonteverde SPA.

N

ella prima delle Epistole (I, 15), il poeta latino Orazio racconta che il suo medico personale, Antonio Musa, piuttosto che nei bagni nella splendida Baia, nei Campi Flegrei, gli avrebbe consigliato di curare i dolori alla testa e allo stomaco presso le aquae Clusinae, le fonti di Chiusi. Filologi, storici e archeologi si sono a lungo interrogati sulla localizzazione dei potenti e salutari impianti termali di Chiusi, l’antica città della dodecapoli etrusca – divenuta pienamente romana nel 90 a.C. – e la ricerca si è accompagnata a grandi scoperte: dalle terme di Mezzomiglio nel territorio di Chianciano Terme, alle vasche di Fontegrande ad Acquaviva di Montepulciano, al santuario termale di Campo Muri a Rapolano Terme, fino al tempio delle ninfe su a r c h e o 33


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cui sorsero le meravigliose terme medicee di Bagno Vignoni, a San Quirico d’Orcia.

LA MEMORIA DI ANTICHI LUOGHI All’ombra del Monte Amiata e del Monte Cetona, attraverso le valli del Chiana, dell’Orcia e dell’Ombrone, l’antico Ager Clusinus è infatti costellato, almeno a partire dall’età ellenistica, di impianti terapeutici legati alle risorgive di acqua calda: sono luoghi di cura nati sotto la protezione divina, ma anche punti focali nel paesaggio prima etrusco e poi romano per incontri di genti e di mercato e che, con la loro collocazione, definivano anche la sfera di influenza politica della potente città. Tali sono la ricchezza e la resilienza di questi siti – che ancora oggi costituiscono uno dei tratti piú caratEmilia-Romagna

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San Casciano dei Bagni

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Lazio

DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ MODERNA Dopo la lunga crisi che interessa il fenomeno del termalismo a partire dalla caduta dell’impero romano, nel XIII secolo il «castello» di San Cassiano ad Balnea acquista nuovamente forza e importanza, con la creazione del borgo murato, grazie alla equilibrata (e a volte spregiudicata) politica dei visconti di Campiglia, sempre in bilico, con i vari rami della famiglia, tra i favori dei ghibellini senesi e quelli dei guelfi orvietani. All’inizio del XV secolo, San Casciano si lega definitivamente a Siena, potendo cosí godere di quel periodo di pace e prosperità necessario alla ripresa delle terme e dell’economia a esse legata. Ma è a partire dalla metà del XVI secolo, con l’avvento dei Medici, che il sito vede la sua definitiva ripresa, nonché lo sviluppo completo del suo panorama artistico e culturale: alla ricostruzione della chiesa di S. Leonardo, si aggiunge la costruzione del Palazzo dell’Arcipretura, oltre all’abbellimento di molte facciate di edifici pubblici e privati, come l’attuale Palazzo Comunale, ingentiliti da ricercati portali e architravi in travertino locale, non escluso quello proveniente dalle

ancora visibili strutture antiche del Bagno Grande. All’inizio del Seicento risale la costruzione del portico mediceo nei pressi della sorgente della Ficoncella, non a caso poco distante dalla chiesa di S. Maria ad Balnea: eretta anch’essa su una fonte d’acqua e su strutture piú antiche pertinenti al suo uso, ha probabilmente origini paleocristiane, e presenta al suo interno una singolare edicola centrale, incastonata da quattro colonne. Da questo momento in poi, e per tutto il Settecento, San Casciano vede rafforzarsi la sua fama europea e nazionale, con i rappresentanti delle principali famiglie italiane in visita alle sue terme, tra cui i granduchi di Toscana, i Colonna, i Chigi, i Bentivoglio, i Malaspina, gli Oddi, i Savelli, oltre a nobili e dignitari stranieri, in particolare spagnoli, polacchi, olandesi, maltesi, francesi, tedeschi e inglesi. All’inizio dell’Ottocento, con l’affermarsi dei grandi stabilimenti termali e delle architetture dedicate all’accoglienza, si osserva una repentina crisi delle terme sancascianesi, ormai relegate a una dimensione di nicchia, se non di oblio.

Una veduta di San Casciano dei Bagni, insediamento che si sviluppò grazie alla fortuna di cui godettero, sin dall’antichità, le aquae Clusinae (le fonti di Chiusi).


teristici delle terre di Siena – che in quel plurale delle aquae Clusinae va forse riconosciuto, a scanso di facili campanilismi, non un singolo complesso termale, bensí l’insieme di questi antichi luoghi di cura. Un sistema unico al mondo. Al margine meridionale del territorio antico di Chiusi, la lingua di terra che discende dalla montagna di Cetona e che fu il confine con le città consorelle di Vulci e Volsinii (Orvieto) – per secoli demarcazione tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana e oggi limite amministrativo tra Toscana, Umbria e Lazio In alto: una veduta dell’area del Bagno Grande, con il Monte Cetona sullo sfondo.

– a controllo dell’angolo forse meno conosciuto del territorio senese, ma non meno ricco dal punto di vista archeologico, è l’Alta Valle del fiume Paglia. Qui, l’estate del 2020 ha portato alla luce un nuovo ed eccezionale complesso, che fu certamente parte delle aquae Clusinae consigliate a Orazio: il Bagno Gran-

La prima descrizione Nel 1688, il dottor Giovanni Bottarelli, «medico fisico di Foiano», dà alle stampe l’opera De bagni di San Casciano. Il testo è corredato da varie illustrazioni, tra cui quelle qui riprodotte, che documentano (da sinistra, in senso antiorario) il «Modo di praticare la cornettatura», il «Modo di praticare la Doccia del Bagno Grande per lo stomaco» e il «Modo di praticare la Doccia della Testa».

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A sinistra: altare dedicato a Esculapio e Igea e noto fin dal 1585, grazie alle ricerche di Andrea Schiavetti. Nella pagina accanto: due degli altari rinvenuti in occasione dei recenti scavi, dedicati ad Apollo (in alto) e alla Fortuna Primigenia.

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LA SCOPERTA DEL BAGNO GRANDE Nelle parole di Andrea Schiavetti, redatte nell’anno precedente alla morte, in una trattazione prevalentemente dedicata alle caratteristiche termominerali delle acque di San Casciano dei Bagni, emerge quasi l’emozione archeologica della scoperta: «In quest’anno 1585 del mese di Febraro vicino al Bagno grande si sono scoperti bellissimi acquedotti, et molti fondamenti di pietre travertine quadrate, et grande, quali denotano fabriche di Palazzi, et di

bellissimi bagni, tra quali vi era una cortina di muraglie fortissime, et nella cortina cinque canali con cinque teste di Leoni grandi, e ben scolpiti: i quali per quel che si giudica servivano per docciare lo stomaco, le reni, ò altri membri patienti (…). Nel medesimo luogo si è anco trovato un’altra memoria in un pilastro rotto, dove si leggono queste poche parole. PRO. SALVTE. THYRINIARIE. APOLLINI. SACR» (Andrea Schiavetti, Breve Ragionamento del

Rever. M. Andrea Schiavetti, Sopra l’acque e bagni di San Casciano Con gli ordini da osservarsi nel bevere,

de di San Casciano dei Bagni. Non ci troviamo di fronte solo a un grande impianto termale come in altri casi nel territorio, ma a un vero e proprio santuario. Con le difficoltà derivanti dal dover scavare immersi nell’acqua calda e con le ristrettezze imposte dal protocollo di contrasto della pandemia del COVID-19, il team del Roman Baths Project (vedi box a p. 38) ha visto tornare alla luce, in un orto abbandonato a pochi metri dalle

polle pubbliche ancora oggi in uso, le vestigia di un santuario romano intatto, il cui carattere sacro era suggellato da altari dedicati agli dèi, che i giovani archeologi (studenti di diverse università italiane e internazionali) hanno toccato prima ancora di veder emergere con chiarezza dal fango caldo. Posto al vertice della valle del torrente Elvella, che per balze discende nelle acque del Paglia, il Bagno Grande è una delle trentotto sor-

bagnarse in dette acque. Et di nuovo aggiuntovi nel fine alcune antichità ritrovate quest’Anno, Orvieto 1585, p. 19).

genti di acqua calda, distribuite in quarantaquattro polle del territorio di San Casciano dei Bagni e certamente la piú prossima allo splendido borgo medievale che domina la vallata (vedi box a p. 40). La toponomastica ha conservato la sacralità del luogo: il piccolo podere che ancora oggi sovrasta le polle (e che in antico fu una grande cisterna del complesso termale) porta il nome evocativo di «Podere Montesanto». Qui, almeno fin dal 1585, grazie a r c h e o 37


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alle ricerche di Andrea Schiavetti, la presenza di strutture romane affio- IL ROMAN BATHS PROJECT ranti è ricordata a margine delle vasche sempre in uso per la cura Il progetto di scavo del Bagno Grande nasce nel 2019 come iniziativa termale, per le pratiche della «doccia congiunta del Comune di San Casciano dei Bagni e della Soprintendenza dello stomaco», della «doccia della testa» Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e e della «cornettatura» (cosí come te- Arezzo, per volontà del sindaco Agnese Carletti e del soprintendente stimoniato dalle incisioni seicente- Andrea Muzzi. Il progetto è stato da subito strutturato come una sche; vedi box e foto a p. 35). collaborazione internazionale che coinvolge docenti, dottorandi e studenti Della sacralità del Bagno Grande e delle università di Siena, Pisa, Firenze, Sassari, Roma «Sapienza» e del delle vestigia romane si parla ab- Trinity College Dublin e della University of Cyprus. La direzione dello scavo bondantemente nelle fonti anti- è di Emanuele Mariotti; il comitato scientifico che coinvolge Stefano quarie, soprattutto per il rinveni- Camporeale, Paraskevi Christodoulou, Hazel Dodge, Lisa Rosselli, è mento, presso il complesso, di due coordinato da Jacopo Tabolli. altari in travertino, l’uno dedicato ad Apollo e l’altro a Esculapio e Igea, trasportati nel corso del Sei- Sulle due pagine: immagini del santuario e della sorgente d’acqua calda. La cento e Settecento presso le grandi veduta dall’alto permette di cogliere la vicinanza dei resti antichi alle polle Terme del Portico da parte dei Me- tuttora frequentate per i bagni.

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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LE SORGENTI Il territorio di San Casciano dei Bagni è uno dei piú ricchi per le proprietà termominerali delle sue acque, con numeri impressionanti quanto a portata di quelle calde. Dalle 38 sorgenti sgorgano piú di 90 litri di acqua calda al secondo, che corrispondono a 323 000 litri l’ora e a 7 751 000 litri ogni ventiquattr’ore. Tutte le acque termali di San Casciano si riversano nel torrente Elvella, affluente del fiume Paglia, con l’eccezione della sorgente di

Fosso Moro, che si scarica nel torrente Rigo, altro affluente del medesimo fiume. Come il nome stesso indica, il Bagno Grande è la massima fra le manifestazioni idrotermali di tutto il distretto sancascianese. Da sola, la sorgente fornisce oltre un terzo delle acque che scaturiscono dal gruppo di sorgenti situate immediatamente al disotto del paese. La scaturigine, in argille plioceniche adiacenti ai calcari

selciferi del Lias, è ripartita in numerose polle, non tutte chiaramente individuabili. Una buona parte dell’acqua, 9 litri al secondo, proviene da una specie di cratere situato subito sopra strada; molte altre polle si vedono gorgogliare nella fossetta a lato della strada e qualcuna anche nel fondo dei vasconi del lavatoio. Anche la temperatura è ragguardevole, perché raggiunge i 41,5 °C.

dici, costruite su quello che doveva essere l’altro fulcro del culto a San Casciano dei Bagni in età romana, la sorgente della Ficoncella, dove oggi sorge Fonteverde SPA. La realizzazione delle nuove Terme del Portico dovette comportare un

pesante smantellamento anche del Bagno Grande, e cosí dell’articolato complesso termale si sono perse nei secoli le tracce e la natura ha riconquistato integralmente la valle, trasformata in un susseguirsi di polle naturali e piccole cascate, do-

ve la presenza delle antichità è testimoniata da piccoli lacerti di muri in opera reticolata, tessere di mosaico e materiale reimpiegato nei capanni degli orti lungo i ruscelli. La memoria dei fasti delle terme romane è sopravvissuta in

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una piccola collezione da sempre esposta presso le Terme del Portico, che vanta una replica dell’Afrodite accovacciata del tipo Doidalsas (vedi foto in apertura, a p. 33).

NUOVI EQUILIBRI Le campagne di prospezioni geofisiche che hanno preceduto e accompagnato lo scavo del 2020 (vedi box alle pp. 42-43) hanno confermato l’estensione in piú ettari delle architetture antiche che circondano le polle e lo scavo archeologico ha ripercorso a ritroso la storia del rapporto inscindibile tra la sorgente e il paesaggio umano e divino. Sotto i livelli di detriti del cantiere seicentesco di demolizione e obliterazione è emerso l’ultimo istante di vita del santuario. È l’alba del V secolo d.C. e la profonda cristianizzazione del territorio di Chiusi sta sconvolgendo gli equilibri secolari che hanno caratterizzato i luoghi degli dèi nel territorio. Presso il Bagno Grande, con un’azione che A destra: l’altare dedicato ad Apollo subito dopo il suo ritrovamento. Nella pagina accanto, in alto: le architetture del santuario semisommerse dall’acqua della sorgente. Nella pagina accanto, in basso: la sorgente del Bagno Grande, la piú importante manifestazione idrotermale del territorio sancascianese.

ARCHEOLOGIA DEL RITO Se la collocazione delle arae sul bordo della vasca alla fine del II secolo d.C. doveva essere l’elemento principale della struttura, anche per quanto riguarda gli aspetti cultuali e il rito, le fasi precedenti di vita del santuario ci hanno lasciato elementi significativi, sebbene non «parlanti» come le epigrafi. Ancora nel I secolo d.C., su un lato del lastricato di ingresso inerente al propileo fu alloggiata un’ara di travertino: i segni di abrasione sulla sua sommità, incavata per l’uso, e i mortaria ritrovati in contesto alla sua base gettano luce sui possibili riti svolti su di essa. Specularmente, sull’altro lato, frammenti marmorei di un labrum con decorazioni a bassorilievo (elementi marini e teoria di nodi), ci raccontano di probabili abluzioni prima di entrare, con

bacili e arae all’esterno di un edificio sacro, cosí come ricorre nelle rappresentazioni delle pitture vesuviane. Poco piú in là, ancora nello spazio racchiuso dall’angolo esterno dell’edificio, il ritrovamento esclusivo di lucerne e ceramica fine da mensa (sigillata italica), parla della frequentazione all’edificio sacro. All’interno, vicino al tetrastilo centrale che incorniciava la vasca (anch’essa costituita da grandi blocchi squadrati in travertino), vi era uno scamnum, di cui restano le tre mensole modanate, in travertino, che lo sorreggevano: da qui proviene esclusivamente ceramica da fuoco, con due olle e un tegame quasi interamente conservati negli strati di fango. Una testimonianza piú che mai vivida di quella che doveva essere la vita all’interno del santuario. Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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IL MONTE CETONA Il rapporto uomo-acqua nella Toscana preistorica, attraverso le sue ricche e multiformi manifestazioni, costituisce una sorta di chiave di lettura privilegiata di fenomeni e processi, anche di lunghissima durata, che hanno interessato il popolamento umano in rapporto a zone costiere, acque interne, sorgenti, pozzi e risorse idriche di varia natura. In questo paesaggio d’acque, il comprensorio del Monte Cetona è noto per la ricchezza di siti che testimoniano la frequentazione umana, a partire dal Paleolitico. La maggior parte di essi è

testimonia quasi il rispetto per culti e riti antichi presso la sorgente di acqua calda, un santuario viene messo a dormire: le colonne che ornavano il suo atrio a impluvio sono stese ordinatamente accanto alla vera della sorgente; gli altari degli dèi sono adagiati come a chiudere l’accesso al santuario e nello smantellamento regna l’ordine. Alcune lucerne raccontano del ritorno sul luogo di culto anche dopo il suo abbandono.

LA FINE DI UNA LUNGA STORIA Questo quadro di abbandono che, come ha efficacemente suggerito il soprintendente Andrea Muzzi, sembra ricordare un’incisione di Piranesi, è l’atto finale di una storia 42 a r c h e o

localizzata nel territorio di Cetona, nelle aree occupate dalle formazioni di travertino di Belverde e del Biancheto. Ricostruire il popolamento di un’area cosí estesa durante la preistoria significa narrare vicende imperniate su una vasta e completa documentazione archeologica, che va dalla frequentazione di siti all’aperto e di grotte nel Paleolitico Inferiore e Medio (Montepulciano, Fonte Vetriana-Sarteano, Cetona, San Casciano dei Bagni), alla realizzazione dei primi abitati stabili neolitici (Pienza, Chiarentana-Chianciano Terme),

IL CONTRIBUTO DELLA GEOFISICA E DEL REMOTE SENSING L’area del Bagno Grande, del Montesanto e i terreni circostanti sono stati oggetto di prospezioni geofisiche tra l’estate del 2018 e la tarda primavera del 2019 (in collaborazione con la Geostudi Astier di Livorno). Le attività hanno seguito metodi e strategie diverse a seconda della posizione, delle caratteristiche del terreno e dell’estensione richiesta. Le indagini geomagnetiche hanno interessato, per prime, un appezzamento posto circa 150 m a sud della sorgente, laddove precedenti ricognizioni avevano

individuato varie aree di spargimento di materiali, in particolare laterizi, ceramica romana, elementi da costruzione e tessere di mosaico. I risultati di questa prima indagine geofisica hanno confermato la presenza nel sottosuolo di grandi edifici, seppur poco leggibili e fortemente compromessi dai lavori


all’utilizzo delle cavità naturali come luogo di sepoltura o di culto nel Neolitico, nell’Eneolitico e, soprattutto, nel corso dell’Antica e Media età del Bronzo (Sarteano, Cetona, Monticchiello-Pienza), all’impianto di insediamenti strutturati nel Bronzo Finale (Casa Carletti-Cetona, Rocca di Radicofani, Vetta del Cetona, Chiusi). L’archeologia della montagna di Cetona è narrata nel Museo Civico per la Preistoria del Monte Cetona e Parco Archeologico Naturalistico e Archeodromo di Belverde (http://preistoriacetona.it/).

agricoli. Altre prospezioni, in particolare con georadar multisensore, hanno riguardato la strada lungo cui si aprono le sorgenti del Bagno Grande, individuando strutture e anomalie non pertinenti alle opere moderne. Lo stesso «Montesanto», indagato questa volta con metodo geoelettrico, era interessato da strutture e piattaforme poco al di sotto della superficie. Dai dati cosí

A sinistra: il Monte Cetona, nel cui comprensorio sono stati scoperti numerosi siti frequentati dall’uomo in vari momenti della preistoria. In basso, a destra: statuetta della dea Igea, una delle divinità venerate nel santuario del Bagno Grande, rinvenuta nell’ultimo giorno di lavoro della campagna di scavo. In basso, sulle due pagine: orecchie in bronzo rinvenute nel corso degli ultimi scavi e riferibili al culto di Iside.

lunga almeno cinquecento anni. In soli tre mesi di scavo è infatti emersa con chiarezza parte della sequenza di vita del luogo di culto. L’impianto monumentale del santuario è riconducibile all’età augustea e rientra, forse, in quel geniale e rivoluzionario processo di rifondazione dei luoghi di culto operato da Ottaviano. Un luogo che – come sembrerebbe suggerire un potente muro in opera quadrata appena indiziato dallo scavo e parte del regime delle offerte votive – era probabilmente già un luogo sacro in epoca etrusca almeno durante l’ellenismo. In età augustea il santuario assume la forma di un edificio con coper-

ottenuti attraverso la molteplicità delle indagini non invasive, si sono prese le mosse per le successive ricerche. Le attività di documentazione hanno visto, inoltre, l’utilizzo di APR (drone) con sensore termico, una tecnologia che, in questo contesto, si è rivelata particolarmente efficace nell’interpretazione del sottosuolo in corso di scavo.

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tura a compluvio su un bacino centrale circolare, che poggia su quattro colonne tuscaniche, e con propileo di ingresso a sud delimitato da due colonne a base attica.

L’INCENDIO E POI IL RESTAURO A seguito di un drammatico incendio, scoppiato probabilmente alla metà del I secolo d.C., l’edificio fu ricostruito e ampliato tra l’età flavia e l’età traianea. Il restauro, con abbondante uso di piombo anche a fortificare la base delle grandi colonne, dimostra la consapevolezza dell’instabilità geomorfologica della sorgente che, con continui abbassamenti e inRicostruzione ipotetica del santuario, con gli altari disposti lungo il bordo della vera della sorgente.

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Nel V secolo d.C., il santuario viene smantellato e gli altari vengono adagiati a chiuderne l’ingresso In alto: disegno artistico delle strutture del santuario nella sua ultima fase di utilizzo.


Per visitare il percorso espositivo Le Stanze Cassianensi nascono nel 2014 all’interno dell’edificio comunale di San Casciano dei Bagni allo scopo di accogliere i materiali archeologici provenienti dalla necropoli di Balena, in uso tra il II e il I secolo a.C., che testimonia la transizione di una comunità di frontiera dal mondo etrusco a quello romano, assieme ai ritrovamenti da una piccola stipe votiva rinvenuta nel 2004 presso la sorgente di Doccia della Testa. Il nome richiama il «piccolo e patrio museo cassianense»

nalzamenti della tavola d’acqua, doveva certamente costituire una base instabile per il santuario. Se le fasi di costruzione e ricostruzione del I e del II secolo d.C. sono però «mute» dal punto di vista delle divinità venerate nel santuario, verso la fine del II secolo d.C. il santuario diviene «parlante» e lo fa in modo sorprendente. Lo scavo ha infatti portato alla luce tre arae in travertino iscritte con dediche, ancora una volta ad Apollo, come già noto fin dal 1585, ma anche a Fortuna Primigenia e a Iside (vedi foto alle pp. 3637). Un universo di divinità che se associate a Esculapio e a Igea, dipingono un variopinto quadro del sacro al Bagno Grande. Se le divinità sono molteplici, gli attori che dedicano gli altari sono stati invece ricondotti da Gianluca Gregori alla cerchia delle famiglie senatorie degli Erucii, dei Pomponii e degli Asinii, ad almeno due generazioni, sullo scorcio del II secolo d.C. In particolare, ricorre in quasi tutte le dediche la figura di una matrona di nome Triaria. Appariva già negli altari noti dal Cinquecento e, alla luce dei nuovi scavi, si potrebbe trattare in particolare di Erucia Triaria (menzionata nella dedica a Fortuna Primigenia) che sarebbe figlia di Pomponia Triaria, nota dalla dedica a Esculapio e Igea, moglie di C. Erucius Clarus, console nel 170 d.C. e successivamente legatus Augusti pro praetore di Siria Palestina. Si snoda cosí un

di Annibale Bastiani. L’apertura del nuovo percorso espositivo alle Stanze Cassianensi, dedicato ai nuovi scavi del santuario del Bagno Grande, è previsto per il prossimo 24 aprile, compatibilmente con i protocolli di contenimento della pandemia. Per informazioni e prenotazioni, consultare il sito istituzionale del Comune di San Casciano del Bagni (https://www.comune.sancascianodeibagni.si.it/), o scrivere alla mail: sancascianoliving@gmail.com

complesso quadro prosopografico, che testimonia però come una o piú famiglie senatorie tra loro legate alla fine del II secolo d.C. prendano possesso del santuario apponendo i propri altari nel cuore dell’edificio sacro, sul bordo della vera.

LE ORECCHIE DI ISIDE L’altare a Iside invece è privo di dedicante e proprio la divinità egizia giunta precocemente in Etruria sembra aver avuto un ruolo centrale nelle ultime fasi di vita del santuario prima della sua ordinata dismissione. Incastrato sotto il suo altare è stato rinvenuto un orecchio in bronzo e altre orecchie in bronzo provengono da strati limitrofi anche se in contesti sconvolti dalle devastazioni settecentesche (vedi foto alle pp. 42-43). Le orecchie di Iside sono alcuni degli attributi piú importanti della divinità. Come ha efficacemente messo in evidenza Valentino Gasparini, le orecchie in bronzo non costituivano certamente la raffigurazione di un organo corporeo da guarire, bensí una sorta di «citofono», un’estensione delle orecchie divine che permetteva al devoto di trasmettere con piú efficacia la propria preghiera e fare in modo che il dio non se ne dimenticasse. Assieme ad altri votivi in bronzo rinvenuti presso la sorgente, anche le orecchie, la cui cronologia è difficilmente puntualizzabile (confronti analoghi anche in epoca etrusca), potrebbero testimoniare, nel «riu-

so», la continua trasformazione del rito e del culto nel santuario. Se le dediche pro salute del santuario del Bagno Grande hanno confermato e ampliato la documentazione divina attorno alla sorgente, la scoperta, l’ultimo giorno di scavo, di un piccolo simulacro in marmo raffigurante, secondo Massimiliano Papini, la stessa Igea, sembra chiudere il cerchio. Consunta e dilavata dalla giacitura nel fango caldo la piccola statua ammantata, con chitone, è raffigurata con un serpente attorno al braccio. La dea è infatti spesso accompagnata dal serpente, al quale dà da bere da una patera, forse in questo caso sorretta dalla perduta mano sinistra. Non è peregrino immaginare che fosse eventualmente in coppia con una piccola immagine di Esculapio, che resta ancora da scoprire tra gli «dèi nel fango». PER SAPERNE DI PIÚ Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli (a cura di), Il santuario ritrovato. Nuovi scavi e ricerche al Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, sillabe, Livorno 2021 Mario Iozzo (a cura di), Iacta stips. Il deposito votivo della sorgente di Doccia della Testa a San Casciano dei Bagni, Polistampa, Firenze 2013 Monica Salvini (a cura di), Etruschi e Romani a San Casciano dei Bagni. Le stanze cassianensi, Quasar, Roma 2014 a r c h e o 45


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FRATELLI RIBELLI ENTRAMBI FIGLI DEL NEOCLASSICISMO, NAPOLEONE E IL FRATELLO MINORE, LUCIANO, EBBERO UN RAPPORTO PRIVILEGIATO CON L’ITALIA E LE SUE ANTICHITÀ. IL PRIMO FU AFFASCINATO DAL MITO DI ROMA, CITTÀ CHE NON VIDE MAI DI PERSONA MA NELLA QUALE INAUGURÒ – AL FINE DI VALORIZZARNE LE VESTIGIA IMPERIALI – LE PRIME DEMOLIZIONI DELL’ETÀ MODERNA. IL SECONDO, INVECE, SCELSE COME PATRIA ADOTTIVA LA MAREMMA, DEDICANDOSI ALLA SCOPERTA – E AL COMMERCIO – DELLE ANTICHITÀ ETRUSCHE. UNA BELLISSIMA MOSTRA ALLESTITA NEI MERCATI TRAIANEI E UN VOLUME APPENA PUBBLICATO RIEVOCANO FASTI (E NEFASTI) DI QUELL’EPOCA STRAORDINARIA... di Giuseppe M. Della Fina e Alessandra Costantini

I

l romanzo La Certosa di Parma, che Stendhal scrisse in soli cinquantadue giorni, tra il novembre e il dicembre del 1839, si apre con questa osservazione: «Il 15 maggio 1796 fece il suo ingresso a Milano il generale Bonaparte alla testa di quel giovane esercito che poco prima aveva attraversato il ponte di Lodi, annunciando al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore». L’atmosfera di quegli anni era ben nota allo scrittore, che – come sottotenente dei dragoni – aveva raggiunto l’armata napoleonica in Italia nel 1800 e l’aveva seguita in Germania, Austria e Russia. L’occasione per comprende-

re quanto fosse appropriato il r ifer imento a Cesare e a Alessandro viene ora data dalla mostra «Napoleone e il mito di Roma», allestita negli spazi dei Mercati di Traiano in occasione del bicentenario della morte dell’imperatore, avvenuta il 5 maggio 1821. Articolato in tre macrosezioni e forte di oltre 100 opere – tra cui sculture, dipinti, stampe, medaglie, gemme e oggetti di arte minore provenienti dalle collezioni dei Musei Capitolini e da altri musei italiani e stranieri –, il percorso espositivo suggerisce che l’interesse di Napoleone per l’antico non fu temporaneo, o legato a singole occasioni, ma lo accompagnò

Nella pagina accanto: Napoleone con gli abiti dell’incoronazione, olio su tela di François Gérard. 1805. Ajaccio, Palais Fesch-Musée des Beaux-Arts.

Ritratto marmoreo di Augusto, da Roma, via Merulana. I sec. a.C.I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo, Sala degli Imperatori. a r c h e o 49


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per tutta la vita. Un aneddoto – indipendentemente dal fatto che sia vero o falso – è indicativo: mentre cavalcavano insieme, Pasquale Paoli, leader del movimento per l’indipendenza della Corsica, avrebbe detto a un giovane Napoleone, che muoveva i primi passi nella carriera militare e politica: «Non hai nulla di moderno in te, tu vieni da Plutarco!». Oggi sembrerebbe un richiamo critico, un invito a vivere nel presente e ad abbandonare l’interesse per un mondo ritenuto finito; al tempo, invece, era affermato e recepito come un complimento. Il passato era nel presente e poteva suggerirne obiettivi e comportamenti.

LA STORIA, MAESTRA DI VITA D’altronde, tra gli insegnamenti impartiti nella Scuola Reale Militare di Brienne-le-Château, che Napoleone frequentò dopo aver lasciato la Corsica, vi era quello della storia antica, considerata «una scuola di moralità e virtú». L’attenzione – l’amore, verrebbe da dire – per l’antico non era un fatto personale: si pensi a quanto figure e isti-

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Novello Macedone Il desiderio di Napoleone di emulare i grandi dell’antichità è ben espresso dal confronto tra queste due celebri opere. In alto: Il Primo Console valica le Alpi al colle del Gran San Bernardo, olio su tela di JacquesLouis David. 1800. Rueil-Malmaison, Musée national des châteaux de Malmaison et de Bois-Préau. A sinistra: Alessandro Magno a cavallo, statuetta di bronzo. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


FINALMENTE A ROMA! LA MOSTRA AI MERCATI DI TRAIANO La mostra «Napoleone e il mito di Roma» è allestita all’interno dei Mercati di Traiano e promossa da Roma Culture e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. L’organizzazione è di Zètema Progetto Cultura. La cura dell’esposizione è di Claudio Parisi

Presicce, Massimiliano Munzi, Simone Pastor, Nicoletta Bernacchio. Il catalogo è pubblicato da Gangemi. Info: www.mercatiditraiano.it

In alto e in basso: particolari dell’allestimento della mostra, ospitata nel Museo dei Fori Imperiali ai Mercati di Traiano.


MOSTRE • ROMA

tuzioni della classicità siano state presenti nelle rivoluzioni americana e francese. Limitandoci alla seconda, basti pensare allo spazio dato alla figura di Bruto, che faceva riferimento a due personaggi diversi e quasi li sovrapponeva: Lucio Giunio Bruto, che aveva allontanato il re Tarquinio il Superbo da Roma, dando un contributo deci-

sivo al superamento della monarchia e all’avvento della repubblica; e Marco Giunio Bruto, che aveva invece ucciso Giulio Cesare. Al riguardo, in mostra si può ammirare il busto di un giovane principe a lungo identificato proprio come Marco Giunio Bruto. Ma l’operazione di recupero non si fermò ai personaggi e abbracciò, per esem-

IL VALORE SIMBOLICO DELL’AQUILA L’aquila venne scelta come emblema da Roma già nella fase monarchica della città e divenne, dopo la riforma dell’esercito realizzata da Caio Mario, il signum

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delle legioni romane. Guardando proprio alle legioni romane, Napoleone Bonaparte volle che l’aquila fosse ripresa per le unità della sua Grande Armée e da esse utilizzata. Un famoso quadro del pittore Jacques-Louis David (17481825), ricorda la Distribuzione delle aquile: un evento reale che si svolse a Parigi, al Campo di Marte, nella giornata del 5 dicembre 1804.

pio, anche i semplici capi di abbigliamento, come il berretto frigio (pileus), divenuto un’icona, o il fascio littorio, piú tardi ripreso anche dal fascismo o, ancora, il pugnale, con riferimento ai Cesaricidi. La stessa terminologia politica – Console, Primo Console, Tribuno, Prefetto, Senatore, Imperatore – guardava alla Roma antica, almeno a livello semantico. Tornando al giovane Napoleone, sappiamo che negli anni di formazione alla scuola militare si appassionò alle Vite dei massimi condottieri di Cornelio Nepote e alle Vite parallele di Plutarco, con una predilezione per Alessandro Magno, Annibale e Giulio Cesare. Ben conosceva, inoltre, l’opera di Virgilio, che recitava però in francese.

UNA GALLERIA DI UOMINI ILLUSTRI Tutte queste figure continuarono a essere un punto di riferimento per lui, anche quando aveva ormai raggiunto il potere: alle Tuileries, nel febbraio 1800, volle che venisse riunita una collezione di statue dei grandi uomini antichi e moderni che ammirava. Si apriva con le statue di Alessandro Magno e Giulio Cesare, ai quali va aggiunto Annibale, se non altro per essere stato capace di valicare le Alpi e aver dimostrato una grande abilità sui campi di battaglia. Da allora, l’ammirazione si trasformò progressivamente in emulazione e poi in confronto e, fin da subito, non mancarono gli adulatori: lo stesso Vincenzo Monti, nell’Inno per la battaglia di Marengo, composto nel 1800, arrivò a scrivere: «[in riferimento al valico delle montagne alpine] Tu scendesti, ed ei volò / … /Afro, cedi e il ciglio inchina: / Muore ogni astro in faccia al sol». E nel Journal de Bonaparte et des hommes vertueux, pubblicato appena qualche anno prima, il 18 febbraio 1797, dopo la presa di Mantova, il


tono si fa quasi irridente: «Annibale ha dormito a Capua. Invece a Mantova, Bonaparte non dorme». Un sarcasmo che Napoleone non condivise, se pensiamo che nel suo studio nella residenza di Saint Cloud facevano bella mostra di sé due busti bronzei raffiguranti Annibale e Scipione l’Africano, i condottieri che si erano affrontati nello scontro finale tra Cartagine e Roma. Una statuetta in bronzo di Alessandro Magno a cavallo, concessa in prestito dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli (vedi foto a p. 50), presenta poi un’iconografia che verrà ripresa per il Napoleone vincitore, che aveva inserito il Macedone nel novero delle figure dell’antichità degne di ammirazione. Con l’incoronazione a re d’Italia, nel Duomo di Milano (26 maggio 1805), di poco successiva all’assunzione del titolo di Imperatore dei Francesi nel 1804, e poi con la scelta di Roma come seconda capitale dell’impero nel 1810, l’attenzione verso la romanità andò – se possibile – ancora aumentando ed è interessante notare come l’accento si spostò dalla Roma repubblicana a quella imperiale, con un interesse crescente per l’azione politica di Augusto.

Busto colossale di Napoleone Bonaparte scolpito da Antonio Canova. 1803-1806. Chatsworth, Sculpture Gallery. Nella pagina accanto: aquila in bronzo dorato del 7° Reggimento Ussari. 1804. Parigi, Musée de l’Armée.

CANOVA, UNA VOCE FUORI DAL CORO In mostra s’incontra anche il gruppo scultoreo Napoleone ispira l’Italia e la fa risorgere a piú grandi destini (1807) di Camillo Pacetti, che illustra l’azione di Bonaparte nel giudizio pieno di speranza dei suoi soste-

PIANTARE OBELISCHI Nel 1802 Napoleone, da Primo Console, invitò Antonio Canova a Parigi per farsi ritrarre. Si racconta che durante una sessione di posa, gli avrebbe chiesto: «Voi a Roma piantate alberi per le vie e nelle piazze, come noi?». Canova risentito avrebbe risposto: «A Roma noi piantiamo gli obelischi».


MOSTRE • ROMA

nitori italiani e nella propaganda politica portata avanti da chi ne curava l’immagine. La complessità e la (inevitabile ?) contraddittorietà di tale azione politica era compresa a pieno da Antonio Canova, un artista che Napoleone ammirava e dal quale voleva essere ritratto. Lo scultore, invece, non perdonava al generale e al politico la cessione di Venezia all’Austria a seguito del Trattato di Campoformio (1797) e la razzia di opere d’arte portata avanti sul suolo italiano. Nel 1802 dovette intervenire il pontefice Pio VII in persona per convincerlo a recarsi a Parigi dove Napoleone, Primo Console, lo aveva invitato.

DEMOLIZIONI E PROGETTI INCOMPIUTI Acquisito il controllo diretto di Roma, Napoleone dovette prendersi cura dei monumenti della città antica, seppure in maniera indiretta, dato che non riuscí mai a soggiornare nell’Urbe. Un’attenzione speciale s’indirizzò verso la Colonna Traiana, che volle rendere piú visibile demolendo le costruzioni che occupavano l’area a sud di essa, tra i quali due importanti edifici religiosi: il monastero dello Spirito Santo e il conservatorio di S. Eufemia, sede di un orfanatrofio per bambine abbandonate. I lavori procedettero con rapidità: gli abitanti delle due strutture furono allontanati nel dicembre 1811 e pochi mesi dopo, già nel febbraio 1812, la demolizione del monastero era stata portata a termine e quella del conservatorio si concluse entro l’agosto dello stesso anno. Negli spazi dei Mercati di Traiano sono esposti per la prima volta i tre progetti di sistemazione dell’area realizzati dagli architetti Giuseppe Valadier e Giuseppe Camporese. Quello prescelto prevedeva la realizzazione di una piazza ellittica, con la Colonna Traiana inserita in un’abside, ma non fu possibile realizzarlo, poiché – du54 a r c h e o

IL MODELLO DELLA COLONNA TRAIANA Un decreto del 1° ottobre 1803, emanato durante il consolato di Napoleone Bonaparte (1799-1804), previde d’innalzare a Parigi, in place Vendôme, in onore dei caduti in guerra, una colonna: «sul modello di quella eretta a Roma in onore di Traiano». La colonna avrebbe dovuto avere sulla sommità una statua di Carlo Magno. Dopo la vittoria di Austerlitz (1805), si pensò di dedicare invece quella colonna alla celebrazione della vittoria e di farla sormontare da una effigie di Napoleone. Il monumento venne realizzato nel 1810. Particolare della colonna eretta in place Vendôme, a Parigi, sul modello della Colonna Traiana. 1810. Nella pagina accanto: Il Foro di Traiano dopo gli scavi dei Francesi, olio su tela di Charles Lock Eastlak. 1820-1830. Roma, Museo di Roma.

rante i lavori – vennero scoperte sculture e resti del settore centrale della Basilica Ulpia. Dopo un acceso dibattito, una nuova sistemazione della zona venne completata solo nel 1815, quando i Francesi avevano lasciato già Roma. Nel seguire il rapporto tra Napoleone e il mondo romano dobbiamo quindi fare un salto in avanti sino agli ultimi anni di vita dell’imperatore confinato ormai nell’isola di Sant’Elena. In quel frangente, nei primi mesi del 1819, si dedicò a ripensare all’intera parabola politica e personale di Giulio Cesare, dettando il racconto Précis des guerres de César al fedele segretario Luis-Joseph Narcisse Marchand. Vero testamento politico di Napoleone, quel volumetto ebbe la sua prima edizione a stampa a Parigi,


nel 1836, a cura dello stesso Marchand ed è stato ripubblicato in Italia di recente da Salerno Editrice sotto il titolo Le guerre di Cesare, con un’introduzione e una postfazione di Luciano Canfora. Il Précis fu poi ristampato in Francia, nel 1869, per ordine dell’imperatore Napoleone III, mentre in precedenza, nel 1837, ne era stata pubblicata, sempre a Parigi, un’edizione in lingua spagnola curata dal generale messicano José-Antonio Facio. Un’edizione italiana era apparsa prima a Bologna (1837) e poi a Milano (1838) e, nel 1865, si ebbe una traduzione in tedesco stampata a Berlino. Tutto ciò per segnalare che – almeno negli ambienti politici e militari – l’opera suscitò un notevole interesse. Leggendo il libro, si notano le considerazioni critiche che Napoleone

avanza verso Giulio Cesare per alcune repressioni violente e gratuite consentite in Gallia; l’attenzione per le strategie di combattimento messe in pratica dal condottiero romano, talvolta non condivise e per le soluzioni d’ingegneria militare.

L’INTERESSE DI TUTTI E LA VOLONTÀ POPOLARE Ma soprattutto colpisce la volontà di comprendere a fondo l’operato di Cesare, che diviene una chiave interpretativa e giustificativa dei suoi stessi comportamenti. C’è un passo, nel capitolo finale del Précis, che merita di esser riportato per intero: «Immolando Cesare, Bruto cedette a un pregiudizio dovuto alla sua formazione, un pregiudizio che egli aveva assunto nelle scuole greche. Nella sua testa, Bruto assi-

milò Cesare a quegli oscuri tiranni delle città del Peloponneso che, godendo del favore di alcuni intriganti, usurpavano l’autorità nelle loro città. Non volle vedere che l’autorità di Cesare era legittima: legittima perché necessaria e protettrice, perché salvaguardava tutti gli interessi di Roma, perché era il risultato dell’orientamento e della volontà del popolo». Come Giulio Cesare, lui, Napoleone Bonaparte, non era stato un tiranno, ma l’uomo che era riuscito a realizzare la sintesi necessaria di «tutti gli interessi» (seppure non di Roma questa volta, ma dei Francesi e forse dei gruppi sociali europei che lo avevano seguito in maniera convinta), e «dell’orientamento e della volontà del popolo». Giuseppe M. Della Fina

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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LUCIANO BONAPARTE, IL PRINCIPE ARCHEOLOGO Terzo figlio di Carlo Buonaparte e Letizia Ramolino, Luciano visse un rapporto tormentato con il piú celebre fratello maggiore. Coltivando la passione per la storia, le arti e le lettere e non il mestiere delle armi di Alessandra Costantini

N

ell’agosto del 1814 papa Pio VII istituí in favore di Luciano Bonaparte, il fratello «ribelle» di Napoleone, il principato di Canino. Nella cittadina del Viterbese, sua seconda casa e patria adottiva, già prescelta dai Farnese, il principe si era trasferito con la numerosa famiglia nel 1808 e vi rimase, salvo alcuni periodi piú o meno prolungati, fino alla morte, nel 1840. La storia di Luciano – come spesso in modo familiare e affettuoso veniva chiamato dai suoi contemporanei – è quella di un uomo brillante, risoluto, dalla personalità forte e complessa, per certi versi contraddittoria: rivoluzionario e fedele al papa, repubblicano e nobile, dongiovanni libertino e seduttore romantico, orgoglioso a tal punto da abbandonare con coraggio un’avviata e promettente carriera politica per amore di una donna. Dalla sua biografia emergono i tratti di un personaggio eclettico e originale che fu ministro, ambasciatore, politico, letterato, poeta, astronomo, collezionista d’arte e archeologo, un intellettuale inquieto, spesso volubile nelle sue passioni, che però, finché erano vive, lo assorbivano completamente. Terzogenito del patriota còrso Carlo Bonaparte e della nobile italiana Letizia Ramolino, Luciano 56 a r c h e o

nacque ad Ajaccio il 21 maggio 1775. Dal padre, il futuro senatore ereditò l’amore per le lettere e la poesia, che, unitamente alla passione politica e a una brillante eloquenza, rappresentarono i tratti distintivi della sua personalità pubblica. Al contrario di Napoleone, nato sei anni prima, che aveva ricevuto una valida istruzione, Luciano si formò una cultura di autodidatta. La mancanza di studi regolari acuí ben presto il suo ingegno stimolando in lui la passione per la lettura degli scrittori antichi con i quali amava spesso identificarsi.

MEGLIO LA POLITICA DELLA RELIGIONE Alla morte del padre, Luciano, che aveva appena sette anni, fu costretto ad abbandonare la scuola militare di Brienne e a entrare in seminario, al fine di contribuire al mantenimento degli altri familiari, una volta divenuto prete, grazie a un reddito fisso. Letizia, rimasta vedova a soli 32 anni, non era piú in grado di sostenere finanziariamente un’adeguata istruzione per tutti i suoi otto figli. Ben presto, però, Luciano manifestò apertamente la sua avversione per la vita ecclesiastica e, abbandonato il canonicato, si mise a studiare seriamente il latino, gli storici romani, i poeti epici italiani e, con grande entusiasmo, i filosofi illumi-

nisti. Negli anni della giovinezza, abbracciò la causa della rivoluzione, divenendo un convinto sostenitore della legalità repubblicana ed entrando in aperto dissidio con Napoleone, politicamente portato a scelte piú reazionarie. In famiglia Luciano riconosceva l’autorità del fratello maggiore Giuseppe, ma non quella di Napoleone, secondo lui dominato da «un’ambizione egoistica che sorpassa l’amore per il pubblico bene». In effetti, il carattere dispotico del fratello aveva ormai preso il sopravvento in famiglia. «Con lui non si discuteva – si lamenterà Luciano – si arrabbiava per la minima resistenza». I rapporti tra i due Bonaparte furono costantemente tesi e conflittuali proprio per la risolutezza con cui Luciano rifiutò di piegarsi alla volontà del fratello. Le parole pronunciate da Napoleone in esilio a Sant’ Elena, rispecchiano chiaramente quanto la loro relazione fosse tormentata: «Indubbiamente il piú dotato dei miei fratelli, ma egli è anche quello che mi ha fatto piú male». A soli diciassette anni Luciano entrò a far parte del club giacobino locale, dove subito conquistò la platea per la sua abilità retorica, astutamente infarcita di evocazioni classiche. Costretto all’esilio insieme alla famiglia, divenne magazziniere dell’esercito nella piccola cittadina di


Luciano Bonaparte alla Villa Rufinella, olio su tela di François-Xavier Fabre. 1808. Roma, Museo Napoleonico. Il fratello minore di Napoleone è in piedi e in abiti civili. L’espressione concentrata e il libro di Torquato Tasso nella mano destra lo qualificano come uomo di studio e di cultura, in contrapposizione con i ritratti eroici dell’imperatore, sui campi di battaglia o con insegne del potere.

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Saint-Maximin-la-Sainte-Baume, A destra: cartina vicino Marsiglia. Sull’onda del padella Maremma, triottismo repubblicano, l’esule corcon l’ubicazione so, divenuto figura di primo piano di Canino. nel comitato rivoluzionario cittadiNella pagina no, si fece chiamare Brutus Bonapar- accanto: l’albero te, citoyen sans-culotte. genealogico della

CHRISTINE, LA PRIMA MOGLIE Innamoratosi della graziosa e seducente Christine Boyer, figlia del suo oste, la sposò il 4 maggio del 1794 all’insaputa della famiglia, suscitando le ire di Napoleone, che non gradí affatto quelle nozze con una ragazza di rango socialmente inferiore. Tuttavia, il generale si lasciò conquistare dal carattere docile della cognata, che gli scrisse una lette-

famiglia imperiale dei Bonaparte.

Sorano

Scansano Saturnia

Montiano

Manciano

Poggio Magliano Aquilone in Toscana Talamone

Fonteblanda

Poggio Buco

Marsiliana

Orbetello

Pitigliano

Valentano Bisenzio

Ischia di Castro

Marta

Canino Musignano

SS 1 V ia A ure lia

Nunziatella

Vulci

Montalto di Castro Giannutri

Mar Tirreno

ra amorevole, supplicandolo di mettere da parte ogni rancore. Da quel matrimonio nacquero due figlie, Carlotta, detta Lolotte, e Christine Egypta, cosí chiamata in ono-

Il generale Bonaparte al Consiglio dei Cinquecento, a Saint-Cloud, 10 novembre 1799, olio su tela di François Bouchot. 1840. Versailles. Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nel dipinto, che evoca il colpo di Stato che pose fine al Direttorio, compare anche Luciano, allora presidente del Consiglio, che, in piedi, dietro la tribuna, cerca di riportare l’ordine.

Lago di Bolsena

Piansano

Capalbio

Monte Argentario

Grotte di Castro

rta

Ma

Tarquinia

re delle vittorie militari di Napoleone in Egitto. Trasferitosi con la famiglia a Parigi, Luciano proseguí rapidamente nella sua ascesa politica, facendosi largo tra le fila dei piú accaniti sostenitori di Robespierre. Eletto Presidente del Consiglio dei Cinquecento ad appena 24 anni, ebbe un ruolo decisivo nel colpo di Stato del 19 brumaio (10 novembre 1799) che pose fine all’esperienza del Direttorio. Con grande sangue freddo Luciano riuscí ad avere la meglio sull’assemblea inferocita contro Napoleone e, facendo ricorso alla sua brillante oratoria, evitò che fosse messo ai voti il decreto con cui il fratello veniva dichiarato fuori legge. Napoleone divenne cosí il Primo Console della Repubblica Francese e se ottenne il potere assoluto senza problemi lo dovette esclusivamente a Luciano. Ma non faceva parte della natura di Napoleone dimostrare gratitudine e, per tenere sotto controllo il fratello, gli affidò il Ministero degli Interni. In questo periodo, avvalendosi della sua nuova posizione e di ingenti disponibilità economiche, Luciano cominciò a manifestare la sua passione per l’arte, acquistando quadri e sculture oltre che una villa in campagna a Plessis-Chamant. Era animato da un sincero amore per la cultura e tra le arti amava la pittura, la musica e le lettere. Riteneva che tutte le arti dovessero essere favorite, a r c h e o 59


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non solo quelle vantaggiose per la politica, ma anche quelle «che rendono la vita piú bella e rafforzano i legami che uniscono le persone». La sua tranquillità fu interrotta bruscamente dall’improvvisa morte della giovane moglie, da tempo malata di polmonite. Distrutto dal dolore e disperato per non avere fatto in tempo a vederla ancora in vita, Luciano fece seppellire Christine nel parco della villa e vegliò la sua tomba trascorrendo le ore a piangere, in preda al piú profondo sconforto. Richiamato da Napoleone a Parigi, fu nominato ambasciatore di Francia a Madrid e si trasferí in Spagna, portando con sé la figlia piú piccola, mentre Carlotta fu affidata alla zia Elisa, che si occupò perso60 a r c h e o

nalmente della sua istruzione. Nel 1803, a coronamento di una brillante carriera politica, a Luciano fu conferito il titolo di senatore.

UNA PASSIONE TRAVOLGENTE Rientrato a Parigi dalla Spagna, visse nel lusso, circondato dalla sua preziosa collezione d’arte nel palazzo conosciuto come Hôtel de Brienne. La situazione precipitò quando il ventottenne senatore s’innamorò perdutamente dell’ incantevole Alexandrine de Bleschamp, vedova di Hyppolyte Jouberthon, un agente di cambio fallito fuggito a Santo Domingo e dal quale aveva avuto una figlia, Anna. Dall’intensa e folgorante passione

per la giovane donna nacque un figlio, Carlo Luciano Bonaparte. Il bambino fu battezzato in gran segreto e il sacerdote celebrò anche le nozze religiose tra i due genitori, attestando che i coniugi giuravano di sposarsi civilmente «non appena possibile, senza pericolo». Luciano era pienamente consapevole del fatto che il suo passo avrebbe mandato Napoleone su tutte le furie, ma non poteva immaginare di avere scelto il momento meno opportuno, visto che il fratello aveva in mente per lui ben altri piani matrimoniali. Essendo morto all’epoca il re d’Etruria, Luigi I, voleva che Luciano ne sposasse la vedova, Maria Luisa di Spagna, in modo da legare piú saldamente


A sinistra: Vulci, Ponte della Badia, acquarello di Samuel J. Ainsley. 1842. In basso: incisione raffigurante monumenti sepolcrali etruschi noti a Vulci, Tarquinia e Viterbo. 1832. Parigi, Musée d’Orsay.

me, bisogna che una moglie sia bella, cosí da rimanere sempre l’amante di suo marito».

TUTTO PER IL FRATELLO, PURCHÉ NON SI SPOSI Quando Luciano e Alexandrine si sposarono anche civilmente, il senatore inviò una lettera al fratello, ritenendo che fosse giunto il momento di rendere ufficiale a tutta la famiglia la sua unione con la vedova Jouberthon. Furioso, Napoleone impose a Luciano il divorzio immediato da Alexandrine, definendola senza mezzi termini una «sgualdrina» e contro di lei manifestò una violenta avversione, colpendola con gli strali della piú aggressiva misoginia e giurò che non avrebbe mai

riconosciuto come cognata una donna che era entrata in famiglia senza il suo consenso. Proclamatosi imperatore a Parigi il 18 maggio 1804, Napoleone, con un senatoconsulto, emanò un provvedimento, esteso anche ai figli, con il quale Luciano veniva escluso dai diritti di successione e diseredato. A nulla valsero i vari tentativi di riconciliazione tra i due fratelli, caldeggiati dai familiari. L’imperatore era pronto «a fare tutto per Luciano, ma niente per Luciano sposato». Molto afflitto, il senatore scrisse a Napoleone una corretta e dignitosa lettera di rottura: «Rispetto il velo che copre le azioni dell’imperatore, e siccome le ragioni di stato da un lato e il mio onore dall’altro, si uni-

la Toscana alla Francia attraverso un’alleanza dinastica. Napoleone cercò di convincere con le buone il fratello a sposare Maria Luisa e quando Luciano, tenendo nascosto al Pr imo Console il suo matrimonio religioso, si rifiutò di sposare la regina vedova, adducendo come motivazione la sua scarsa avvenenza, si sentí rispondere: «Luciano, credimi: non è necessario che le nostre mogli siano belle. Per le nostre amanti è un’altra storia. Un’amante brutta è una cosa orribile. Mancherebbe al suo primo, diciamo meglio, al suo unico dovere». E Luciano, di rimando: «È proprio per questo che, secondo a r c h e o 61


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scono per separarmi da ogni incarico pubblico abbandonerò ogni speranza e abbraccerò completamente la vita privata che il destino mi ha riservato». La situazione non era piú sostenibile e i coniugi Bonaparte partirono per l’Italia, dove trovarono asilo. Nel 1804, Luciano e Alexandrine, con i figli, si stabilirono a Roma, nel seicentesco Palazzo Lancellotti, in via dei Coronari, ospiti dello zio, il cardinale Fesch, con il quale i rapporti erano stati sempre affettuosi, fin dall’infanzia. In seguito acquistarono il Palazzo Nuñez, in via Bocca di Leone, come dimora cittadina, e la Villa Rufinella, presso Frascati, che divenne il «buen retiro» prediletto da Luciano, nel quale amava dedicarsi, in serena contemplazione, alla letteratura e all’arte. Fu tale l’entusiasmo di possedere la villa, identificata dagli eruditi con quella un tempo appartenuta a Cicerone, che Luciano la ribattezzò Tuscolana.

I PRIMI SCAVI Alla Rufinella il senatore esule fece le prime esperienze di quella che definiva «archeologia in azione», ovvero di scavo archeologico, contribuendo sia all’identificazione del teatro e del Foro del municipio romano di Tusculum, sia ad arricchire di marmi antichi la sua già pregevole collezione di sculture classiche. Nel 1808, Luciano acquistò dalla Camera Apostolica il feudo di Canino, nel cuore della Maremma, all’interno dello Stato della Chiesa, che comprendeva 8000 ettari di terreno agricolo, il Palazzo Farnese a Canino, il Castello della Badia e la residenza di Musignano, dove la famiglia Bonaparte si trasferí e fissò la sua dimora. Nella nuova proprietà il senatore trascorreva il tempo tra passeggiate a cavallo, battute di caccia e lavori agricoli, in compagnia dell’inseparabile amico padre Maurizio Malvestiti da Brescia, un Francescano letterato, matematico, astronomo e teologo definito da Lucia62 a r c h e o


sta a Londra nel 1815 per poi disperdersi nei musei e nelle collezioni private di tutto il mondo. Il 27 maggio 1814 i Bonaparte poterono finalmente rientrare a Roma dove furono accolti calorosamente da papa Pio VII, che volle manifestare tutta la sua riconoscenza a «quella buona pezza di Luciano», come definiva con affetto il fratello dell’imperatore, concedendogli il titolo nobiliare di principe di Canino per il suo leale e sincero attaccamento alla Santa Sede. Il 18 agosto 1814 la terra di Canino divenne principato e, dal dicembre di quell’anno, i Bonaparte tornarono nella loro residenza a Musignano. Gli anni che seguirono fino alla morte di Napoleone, avvenuta a Sant’Elena il 5 maggio 1821, furono caratter izzati dall’acuirsi delle difficoltà economiche, per cui Luciano, vessato dai creditori e dalle banche, fu costretto a vendere la villa della Rufinella nel 1818 alla duchessa di Chiablais e, poco dopo, a cedere Palazzo Nuñez al fratello Girolamo. Inoltre, nel 1826, dovette chiedere un ulteriore aiuto economico allo zio ANNI DIFFICILI Fesch e al fratello Giuseppe, poiché Nel frattempo, Napoleone fece elile rendite della tenuta di Canino minare dalla lista dei senatori il noandavano a coprire esclusivamente me del fratello, mortificandolo e il pagamento degli interessi passivi. privandolo del ragguardevole apPur avendo fatto fronte all’emerpannaggio di 80 000 franchi, corrigenza, le difficoltà però rimanevano spondente al suo incarico. Furono e non si scorgevano soluzioni a anni difficili per la famiglia Bonabreve termine per risolverle. A queparte, soprattutto sul piano finanziario, ma Luciano ebbe il tempo di Anfora attica a figure nere sulla quale sto punto intervenne un fatto nuodedicarsi alla sua grande passione, la è rappresentata la raccolta delle olive. vo, destinato a cambiare le sorti della vita di Luciano e della sua faletteratura, componendo il poema 520 a.C. Londra, British Museum. in quindici canti Charle Magne ou Il vaso fu venduto al museo inglese da miglia: la scoperta della necropoli della città etrusca di Vulci. Alexanl’Eglise sauvèe e di intraprendere lo Luciano Bonaparte nel 1837. studio dell’astronomia grazie ai tre Nella pagina accanto: busto femminile drine, affatto spossata dalle numerose gravidanze e con la responsabilitelescopi acquistati direttamente in bronzo, dalla Tomba di Iside, nella tà di dieci bocche da sfamare e supdallo scienziato William Herschel, necropoli vulcente della Polledrara. portata dall’interesse che Vincenzo scopritore del pianeta Urano. Lu- VI sec. a.C. Londra, British Museum. no il suo migliore amico, fedele compagno di studi e di viaggi. In questo angolo della Maremma i coniugi Bonaparte aumentarono considerevolmente la loro prole che, incluse le due figlie di primo letto di Luciano e Anna Jouberthon, nata dal primo matrimonio di Alexandrine, raggiunse alla fine la cifra complessiva di tredici figli. Il soggiorno a Musignano fu però di breve durata. Nello stesso anno lo Stato Pontificio venne annesso all’impero francese e Luciano, ricevuto il nuovo ultimatum imperiale «o divorzio o America», fu costretto a lasciare in fretta l’Italia per sfuggire all’ira del fratello. Imbarcatosi con tutta la famiglia per il Nuovo Mondo, venne fatto prigioniero dagli Inglesi al largo di Cagliari e, nel 1811, fu trasferito – con Alexandrine, i figli, il pittore Charlese de Chatillon e padre Maurizio, sempre al suo fianco – a Thorngrove, vicino a Worcester: il castello divenne cosí la nuova casa della famiglia Bonaparte, il loro nuovo esilio.

ciano cominciò cosí a indagare i cieli assistito da padre Maurizio, ma la scienza da sola e le lettere non potevano certo sostenere la famiglia. Divenne chiaro che l’unica entrata possibile poteva venire dalla vendita della preziosa collezione di dipinti, parte della quale venne messa all’a-

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Campanari aveva saputo destare sul territorio, inoltrò regolare domanda di scavo al camerlengato. Nel 1828, forte dell’esperienza maturata nelle precedenti indagini archeologiche a Frascati e perfettamente consapevole delle possibilità economiche che potevano derivare dalla vendita dei reperti antichi, la principessa, inaugurò una fortunata stagione di scavi nella tenuta della Badia per spostarsi poco dopo al tumulo della Cuccumella, dove i risultati delle scoperte furono sorprendenti. All’epoca, Luciano si trovava a Senigallia, con padre Maurizio, per realizzare un corposo lavoro di schedatura degli astri celesti, arricchito di oltre ventimila stelle, che sarebbe dovuto confluire in un Atlante celeste. Rientrato in gran fretta a Musignano per aiutare la consorte, seguí personalmente gli scavi archeologici alla Cuccumella. Applicando il rigore scientifico con cui svolgeva tutti i suoi lavori, il principe suddivise le necropoli secondo distretti familiari sulla base delle testimonianze epigrafiche e, dopo aver individuato e classificato i reperti, li inviava nel Castello di Musignano, nel quale aveva allestito un vero e proprio laboratorio di restauro. Le prime tre campagne di scavo portarono alla luce, oltre a numerose oreficerie, un’enorme quantità di vasi attici figurati, 2000 dei quali furono esposti dal principe in Palazzo Gabrielli, a Roma, nel 1829. In seguito una scelta di 100 vasi di gran pregio venne trasferita nella residenza del cardinale Fesch in via dei Coronari. A conferma di quanto la sua passione per le antichità fosse autentica, Luciano pubblicò veri e propri cataloghi archeologici: il Muséum étrusque de Lucien Bonaparte prince de Canino, fouilles de 1828 a 1829, vases peintes avec inscriptions e il Catalogo di scelte antichità etrusche trovate negli scavi del Principe di Canino, nei quali ogni vaso viene descritto nel dettaglio, indicando la forma, le misure, 64 a r c h e o

la scena rappresentata, il luogo e la data di rinvenimento. Precorrendo i tempi, Luciano dimostra di aver compreso molto bene l’importanza del legame che esiste tra il contesto di rinvenimento e il reperto di scavo. Seguiva poi la documentazione grafica delle scoperte, affidata al pittore Luigi Maria Valadier, che avrebbe dovuto realizzare un atlante di litografie a colori con le riproduzioni dei vasi piú significativi, alcune delle quali furono utilizzate da Luciano nelle sue pubblicazioni, mentre altre sono conservate attualmente dagli eredi.

UNO STRETTO SODALIZIO La grande quantità di ceramica attica emersa dagli scavi vulcenti dei principi Bonaparte richiamò fin dall’inizio l’interesse di studiosi, collezionisti e mercanti d’arte. Luciano fu un assiduo frequentatore dei circoli culturali stranieri. Fin dal suo arrivo a Roma, nel 1804, era entrato a far parte della cerchia di intellettuali che si riunivano nella casa dell’ambasciatore prussiano Wilhelm von Humboldt.Tra i due nacque un particolare sodalizio, tanto che Luciano non esitò a farsi vedere pubblicamente in compagnia dell’amico proprio mentre Napoleone era impegnato sul fronte prussiano. L’eredità politica e culturale di von Humboldt, che lasciò l’Italia nel 1807, venne raccolta dieci anni dopo da Barthold Georg Niebuhr e, successivamente, da Karl Josias von Bunsen, il direttore dell’Istituto il Corrispondenza Archeologica fondato a Roma nel 1829, che divenne il principale punto di riferimento per studiosi italiani e stranieri. A lui Luciano si rivolse preferibilmente attraverso il segretario dell’Istituto, Eduard Gerhard, con il quale strinse un cordiale rapporto personale e di dotta corrispondenza. Gerhard si recò spesso a visitare gli scavi dei Bonaparte e fu invitato costantemente da Luciano a visionare la sua collezione di vasi.

Lo studioso tedesco lodò da subito «le sagge e magnifiche premure del signor principe e sua moglie» per il modo con cui dirigevano il cantiere, sottolineando la rapidità con cui i vasi venivano restaurati. Grazie alla disponibilità di Luciano, Gerhard fece riprodurre ai disegnatori dell’Istituto numerosi esemplari di ceramica attica conservati nel Castello di Musignano, che furono successivamente venduti o trasferiti altrove. Il principe mise a disposizione anche alcune litografie di vasi iscritti realizzate da Valadier. In seguito Luciano ritenne opportuno limitare la visione dei suoi disegni a pochi esemplari, perché temeva di urtare la suscettibilità degli eventuali acquirenti, come risulta da questa missiva: «Ricevo Signor Professore la vostra lettera: vi prego di credere che è sempre con molto piacere che vi vedrei approfittare delle antichità etrusche del mio Museum sia qui che a Canino. Vi rinvio i calchi e se non si


dovesse avere riguardo per i pregiudizi dei compratori sarei incantato che ne prendeste degli altri nel Museum disponibili; sarei anche molto soddisfatto che illustraste nel Bollettino archeologico alcuni dei nostri calchi e questo non farà che aggiungere alla riconoscenza che vi devo per tutto quello che avete detto degli scavi di Canino». Il rapporto instauratosi tra Gerhard e Luciano Bonaparte riflette perfettamente il clima culturale dell’epoca, in cui la convivenza tra interessi eruditi ed esigenze puramente commerciali era all’ordine del giorno. Il carteggio tra i due studiosi testimonia da una parte una cura scientifica nel documentare con precisione, analizzare e illustra-

re le scoperte, dall’altro manifesta chiaramente l’intenzione, da entrambe le parti, di contrattare l’acquisto o la vendita di nuclei della raccolta, soprattutto a partire dal 1833, quando Gerhard diventò archeologo ufficiale del Reale Museo di Prussia e si trasferí a Berlino.

Nella pagina accanto: figura femminile in gesso, dalla Tomba di Iside a Vulci. VI sec. a.C. Londra, British Museum. Qui sotto: il Castello di Musignano,

che fu a lungo residenza di Luciano Bonaparte e della sua famiglia. In basso: la Cappella Bonaparte nella chiesa collegiata dei Ss. Giovanni e Andrea Apostoli a Canino.

CHI HA DIPINTO QUEI VASI? Dopo avere analizzato e studiato la ceramica di Canino, Gerhard stabilí che si trattava di prodotti dell’arte greca, non etrusca e rese pubbliche le sue conclusioni nel Rapporto sui vasi volcenti. Il principe, apertamente nazionalista e filo-italico, sia per convinzione, sia per gratitudine verso l’Italia che lo aveva accolto, scese

in campo nei suoi libri contro la «greco-mania», considerando «un erudito infantilismo» ritenere i vasi di Canino dipinti da Greci. Gli scavi subirono una battuta d’arresto fino al 1837, periodo in cui, per far fronte alle sempre piú gravi difficoltà economiche, Luciano vendette all’asta parecchi vasi della sua raccolta. Le ricerche ripresero in località Ponte Sodo e, un anno piú tardi, nella necropoli della Polledrara, fu scoperta la famosa Tomba di Iside, il cui corredo si trova attualmente al British Museum di Londra. Il 13 maggio 1839 moriva il cardinale Fesch e in una lettera di quell’anno Luciano propose a Gerhard l’acquisto della centuria «di vasi etruschi o greci» deposti nel palazzo dello zio defunto, per il Museo di Berlino. Si tratta probabilmente di una delle ultime testimonianze del rapporto epistolare con lo studioso tedesco. L’anno seguente, nella notte tra il 29 e il 30 giugno, Luciano, mentre stava recandosi a Siena, moriva all’età di 65 anni, assistito dalla moglie Alexandrine, dalla figlia Costanza e dal fedele padre Maurizio. Le sue spoglie mortali riposano nella cappella gentilizia dei Bonaparte nella chiesa dei Ss. Giovanni e Andrea Apostoli a Canino. Il monumento funebre è stato scolpito da Luigi Pampaloni (1791-1847) e rappresenta il principe sul letto di morte, presso il quale è inginocchiata la moglie; attorno sono le raffigurazioni allegoriche della Fede, Fama, Pace e Ambizione. Alessandra Costantini

PER SAPERNE DI PIÚ Alessandra Costantini, Luciano e Alexandrine Bonaparte. Principi di Canino e Musignano, Antiquares Edizioni by Controstampa srl, Acquapendente a r c h e o 65


LUOGHI DEL SACRO/4

PER CHIEDERE

CONSIGLI DIVINI

TRA I LUOGHI SACRI DELL’ANTICA GRECIA, I SANTUARI ORACOLARI RAPPRESENTANO UN FENOMENO DEL TUTTO ORIGINALE. PUNTI D’INCONTRO PER ECCELLENZA TRA GLI UOMINI E GLI DÈI, NASCONDONO ORIGINI ANTICHISSIME. E UN LEGAME PARTICOLARE CON IL PAESAGGIO E LA NATURA di Alessandro Locchi

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V

estita di scuro, afflitta per la perdita della figlia Persefone, e tuttavia maestosa nella sua divina bellezza: cosí appare la dea Demetra in uno dei piú celebri Inni Omerici, a lei dedicato. Nei versi 302 ss., la potente sorella di Zeus ci viene presentata in disparte dagli altri abitanti dell’Olimpo, nobilmente assisa in trono, all’interno del tempio edificato, in suo onore, presso l’Acropoli di Eleusi. All’ostinato permanere della dea nel chiuso dell’edificio di culto corrisponde il suo disinteresse verso le coltivazioni e l’inevitabile inaridirsi delle messi, motivazioni che spingono tutte le altre divinità

A destra: laminetta di piombo con la quale un certo Ermonas chiede a quale divinità si debba rivolgere, affinché sua moglie Kretaia abbia una buona progenie, da Dodona. 525-500 a.C. Sulle due pagine: i resti del tempio di Apollo a Delfi.

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a raggiungerla nel santuario eleusino per tentare di rabbonirla. Ancora nell’ambito della letteratura omerica (Odissea VIII, 321 ss.), in una diversa situazione mitica, troviamo un’altra protagonista del pantheon, la dea Afrodite, in fuga dalle scintillanti sedi celesti, dopo essere stata messa alla berlina, insieme all’amante Ares, dagli altri dèi. Ad attendere la fedifraga sposa di Efesto è uno dei principali centri del suo culto, l’isola di Cipro: avrebbe infatti trovato sicuro rifugio nel santuario dedicatole a Pafo, dove le Cariti, sue ancelle, si sarebbero occupate di lei, lavandola, ungendola e provvedendola di magnifiche vesti. Nei due esempi, seppure di ambito mitico, è possibile ravvisare una nozione di base, comune ad altre cul-

ture del mondo antico: quella del luogo di culto come stabile dimora per la divinità. Tale idea è suffragata da ulteriori testimonianze letterarie, nonché da un’osservazione di tipo lessicale: l’evidente connessione col verbo naío («abito», «dimoro») del termine greco naós, che indica il tempio o, piú specificamente, la cella (l’ambiente interno che ospita il simulacro divino). Qualcosa di simile si ritrova in ambito romano, dove il nome latino aedes può essere riferito tanto a un’abitazione quanto, e piuttosto frequentemente, a un edificio di culto.

allo spazio templare nel contesto dell’urbanistica ellenica antica. Eloquente è la testimonianza di Platone, il quale, nel quinto libro delle Leggi, soffermandosi a delineare il suo modello di polis ideale, elenca tra le prime operazioni da compiersi l’assegnazione di luoghi alle principali divinità del pantheon, preliminarmente alla suddivisione del territorio cittadino. Che si tratti di una prassi concreta, e non di una mera ricostruzione utopistica, lo prova una cospicua documentazione, che dall’arcaismo si snoda fino al tempo di Alessandro Magno; di questo condottiero PRIMA VENGONO GLI DEI... si dice che, occupandosi in prima Alla luce di questa specifica con- persona dell’assetto da conferire notazione non stupisce perciò la alla città da lui fondata in Egitto posizione privilegiata riconosciuta (Alessandria), si sarebbe subito po-

Dodona. I resti del tempietto dedicato a Zeus noto come hierá oikía (la «sacra casa»), situato all’interno del témenos del santuario. IV sec. a.C.

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sto il problema del numero dei templi da edificare e degli dèi (greci e locali) a cui dedicarli. D’altronde, la presenza divina, evocata dalla statua cultuale all’interno del naós, giustifica la preclusione di questo spazio consacrato ai comuni frequentatori del santuario e un accesso riservato soltanto al perso-

templare, il santuario vero e proprio, denominato hierón. Oggetto a piú riprese di abbellimenti e destinatario di ricchi doni votivi, questo spazio finisce non di rado per configurarsi come uno sfarzoso complesso di monumenti, cosí come ci viene frequentemente restituito dall’indagine archeologica. A prescindere dalla sua monumentalità, nell’ambito di questo spazio consacrato s’instaurava un rapporto privilegiato con la sfera divina, per mezzo del rito sacrificale. Di conseguenza, nell’area del témenos, l’altare (bomós) è un elemento immancabile – manufatto in pietra o in altro materiale, per lo piú di forma quadrata o rettangolare –, dalla colloca-

nale sacerdotale preposto. Ciò non implica una limitata fruizione del luogo da parte dei cittadini: a loro sembra infatti rivolgersi, in una sorta di dialogo visivo, l’esterno della costruzione, fregiato talvolta di iscrizioni con dediche e sentenze (è il caso del maestoso tempio di Delfi) nonché puntualmente impreziosito, nel suo fastigio, da ricchi apparati scultorei. Per di piú, l’area in genere visitata era proprio quella all’aperto, chiamata témenos, delimitata da un muro continuo (períbolos) e formante, insieme all’edificio

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In alto: cartina della Grecia, con i principali santuari oracolari. A sinistra: bronzetto raffigurante Zeus che scaglia un fulmine, da Dodona. 470-460 a.C. Ioannina, Museo Archeologico.

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zione tutt’altro che casuale: era infatti solitamente ubicato di fronte all’edificio templare, le cui porte, opportunamente spalancate al momento del rito, dovevano consentire alla divinità, ritenuta presente all’interno, di presenziare direttamente alla celebrazione. Adibito a una pluralità di funzioni (come il ruolo centrale che aveva all’interno di festività cittadine o panelleniche), lo hierón rappresentava, nell’esperienza quotidiana greca, il punto d’incontro per eccellenza tra il mondo umano e quello divino, l’irrefutabile mèta verso cui convergevano indistintamente autorità locali e straniere o anche semplici cittadini, tutti desiderosi di impetrare l’aiuto divino. In un numero considerevole di casi, però, l’aiuto richiesto consisteva non tanto in un repentino interven70 a r c h e o

to risolutore, bensí in un consiglio, un parere «illuminato» su problematiche di vario genere, a cui, evidentemente, si attribuiva un’origine o una valenza religiosa. In tale evenienza, ci si rivolgeva a esperti del sacro, spesso itineranti e svincolati dalle gerarchie ufficiali (indovini, interpreti di prodigi), ma piú spesso, e con maggiore autorevolezza, a prestigiose strutture cultuali, preposte allo scopo; piú precisamente, ci si recava presso uno dei numerosi santuari oracolari (manteîa) del mondo greco, nei quali si praticavano le varie specialità della tecnica divinatoria al fine di decifrare il volere divino. La fama di alcuni di essi valicò, per diverse motivazioni, gli immediati confini territoriali, contribuendo ad accreditarli come importanti istituzioni sovranazionali: è il caso dello hierón di Zeus a

Dodona e dell’ancor piú celebre santuario di Apollo a Delfi.

IN PRINCIPIO FU DODONA Gli scrittori definiscono concordemente quello di Dodona come il piú antico santuario oracolare della Grecia. Già nei poemi omerici emerge una conferma della sua importanza, a fronte di stringati riferimenti ai vaticini di Apollo nella petrosa Pytho (Delfi); risulta significativa, in particolare, la preghiera che un preoccupato Achille rivolge a Zeus Pelasgico, signore di Dodona, affinché l’amico Patroclo torni illeso e vittorioso dal campo di battaglia (Iliade XVI 231 ss.). Maggiore enfasi si avverte nel passo dell’Odissea (XIV 327-30) in cui si fa esplicito riferimento alla consultazione di questo oracolo da parte di Ulisse: «A Dodona era andato, a sentire il con-


Laminetta in piombo recante il quesito posto all’oracolo da alcuni Epiroti di Corcira (Corfú) e di Orico per sapere a quale dio o eroe avrebbero dovuto tributare sacrifici al fine di governare saggiamente le proprie terre, dal santuario di Zeus a Dodona. IV sec. a.C. Ioannina, Museo Archeologico.

siglio di Zeus, dalla quercia alata chioma del dio, come deve tornare tra il ricco popolo d’Itaca, da cui manca da tanto, se apertamente o in segreto» (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). Con questa vetusta sede oracolare, ci troviamo in un settore periferico del mondo greco, la regione storica dell’Epiro. In età antica, l’area – che nell’attuale geografia politica corrisponde all’estremità nord-occidentale della Grecia – si trovava in una posizione di confine, tra il territorio dei Molossi e quello dei Tesprozi. Nonostante la dovizia di descrizioni e di preziosi ragguagli tramandati dalle fonti letterarie, l’esatta ubicazione dell’oracolo di Dodona è rimasta a lungo oscura: erroneamente rintracciato a piú riprese nel comprensorio della città di Ioannina, venne infine localizzato nel 1832, su intuizione del vescovo britannico

Christopher Wordsworth, in un ameno scenario naturale, ai piedi del monte Tomaros (1974 m). A distanza di qualche decennio dall’identificazione, nel 1875 il banchiere e diplomatico ellenico Konstantinos Karapanos, superando le resistenze delle autorità locali turche, riuscí a intraprendere una prima campagna di scavi sul sito. L’operazione si rivelò fruttuosa: l’intraprendente personaggio iniziò l’indagine archeologica da una basilica cristiana presente in quel paesaggio desolato e identificò, nelle sue fondazioni, molto materiale reimpiegato proveniente dall’antico santuario; recuperò, soprattutto, un primo e consistente nucleo di laminette oracolari in piombo, che confermarono l’identificazione. Dopo uno sfortunato tentativo di riprendere lo scavo, compiuto dall’eminente studioso tedesco Theodor Wiegand, l’esplorazione sul terreno venne rilanciata e portata avanti da archeologi greci, in specie da Demetrios Evangelides, negli anni successivi alla prima guerra mondiale, e, a partire dal 1958, da Sotiris Dakaris.

ORIGINI PREISTORICHE I ritrovamenti attestano una frequentazione del luogo risalente almeno all’età del Bronzo Antico e, nei molti studi a essi collegati, la ricostruzione prevalentemente accettata è quella di un sito religioso preistorico incentrato sulla venerazione di alberi considerati sacri. A questo sostrato iniziale si sarebbe poi sovrapposto il culto di Zeus, localmente venerato con gli epiteti di Dodonaios e Naios, in coppia con una divinità femminile: non si tratta però dell’olimpica consorte Era, bensí di Dione, figura non certo di spicco nel pantheon greco di epoca

classica, che tuttavia nell’Iliade figura come amorevole madre di Afrodite, avuta da Zeus. Questo antichissimo santuario pre-greco doveva essere amministrato da un gruppo di sacerdoti denominati «Selli» (Selloi): nel citato passo dell’Iliade, sono descritti come ministri di Zeus Dodoneo, dai piedi non lavati (aniptópodes) e dormienti sulla nuda terra (chamaieunai). Accanto a questa componente maschile, si fa riferimento frequente alle sacerdotesse incaricate dell’oracolo, chiamate Peleiades, termine traducibile come «donne anziane» (nell’antico dialetto epirota) o, piú comunemente, «colombe». In effetti, stando a una tradizione locale registrata da Erodoto (II 55), due colombe nere sarebbero volate via da Tebe d’Egitto e, separatesi, avrebbero determinato la nascita di due celebri santuari oracolari del mondo antico: una infatti sarebbe giunta nel deserto libico e lí, esprimendosi con voce umana, avrebbe ordinato agli abitanti del luogo di fondare il manteíon di Zeus Hammon (nell’oasi di Siwa); l’altra avrebbe raggiunto il sito di Dodona, dove si sarebbe posata su una quercia e avrebbe, analogamente, disposto la creazione di un oracolo in quel luogo. A prescindere dalla verosimiglianza (o meno) del racconto, si conferma la caratteristica dell’oracolo, centrato sullo stormire delle fronde di una quercia, mentre l’asserito legame col mondo egiziano ribadisce le origini remote e, soprattutto, l’autorevolezza dell’istituzione cultuale dodonea. Dai ritrovamenti si può anche arguire, ferma restando una continuità di frequentazione dello hierón, che solo in una fase tardiva si arrivò a una sua sistemazione imponente: risale infatti al IV secolo a.C. un tempietto dedicato a Zeus, dal sia r c h e o 71


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gnificativo nome di hierá oikía (la «sacra casa»), che, insieme alla venerata quercia oracolare, sorgeva all’interno del consueto témenos, definito da un basso muretto. Una vera e propria monumentalizzazione del complesso si ebbe però solo agli inizi del secolo successivo, quando il sovrano epirota Pirro, deciso a farne il centro religioso del regno, fece realizzare nelle vicinanze edifici ragguardevoli, come un teatro (ben conservato, con una considerevole capienza di 18 000 spettatori) e uno stadio, entrambi probabilmente adibiti allo svolgimento dei Naia, solenni agoni in onore di Zeus Naios. Insieme ad altri templi, dedicati alla locale paredra del dio, Dione, a Eracle e alle divinità femminili Temi e Afrodite, furono inoltre aggiunti edifici politico-amministrativi, come un Pritaneo e un edificio per riunioni (bouleutérion). Qualche decennio piú tardi, lo scontro tra la Macedonia e l’Etolia ebbe tragiche conseguenze anche sul santuario: nel 219 a.C., gli strateghi della Lega Etolica saccheggiarono Dodona e diedero alle fiamme il prestigioso complesso, distruggendolo quasi per intero. Alla successiva ricostruzione seguirono ulteriori devastazioni, collegate all’avvento dei Romani. Nonostante tali vicissitudini, l’attività cultuale perdurò fino all’avvento del cristianesimo, quando il centro epirota divenne sede episcopale e una basilica paleocristiana (precedentemente ricordata) venne a so- Plastico ricostruttivo del santuario di vrapporsi ad alcuni edifici dell’or- Delfi. Secondo la tradizione, mai negletto hierón. successivi edifici sacri si

ALL’OMBRA DELLA QUERCIA SACRA La consultazione della quercia oracolare seguiva una procedura del tutto specifica, che ci è nota sia da molte testimonianze letterarie, sia dai materiali emersi dagli scavi, oggi divisi tra il vicino Museo Archeologico di Ioannina e il Museo Archeologico Nazionale di Atene. 72 a r c h e o

sovrapposero sul luogo dell’oracolo. Il primo era fatto con fronde d’alloro, mentre di cera e piume sarebbe stato il secondo, costruito dalle api. Il terzo, bronzeo, era attribuito al dio Efesto.

Ai mitici architetti Agamede e Trofonio veniva invece assegnato il quarto (il primo ad aver lasciato tracce di sé): distrutto da un incendio nel 548 a.C., fu ricostruito sul finire del VI sec. a.C. e già presentava la struttura che vediamo ancora oggi e proposta dal modello in scala.

Nell’ambito della documentazione, rivestono assoluta importanza le menzionate laminette oracolari, ritrovate a migliaia, all’interno di due depositi votivi. Si tratta di piccoli

manufatti, per lo piú in piombo, non di rado levigati per essere riutilizzati, sui quali venivano incise le domande dell’interrogante di turno. Da essi apprendiamo che a presen-


I luoghi di Delfi 1. Ingresso 2. Toro di Corcira 3. Monumento votivo degli Ateniesi 4. Monumento votivo degli Spartani 5. Monumento votivo di Argo 6. Tesoro di Sicione 7. Tesoro dei Sifni 8. Tesoro di Megara 9. Tesoro di Tebe 10. Tesoro dei Beoti 11. Tesoro di Potidea 12. Tesoro degli Ateniesi 13. Tesoro dei Cnidi 14. Bouleuterion 15. Asclepieion 16. Rocce e sorgenti sacre 17. Colonna dei Nassi 18. Tesoro di Corinto 19. Tesoro di Cirene 20. Prytaneion 21. Tripode dei Plateesi 22. Monumento votivo di Rodi 23. Altare di Chio 24. Monumento votivo dei Siracusani 25. Tesoro di Acanto 26. Temenos di Neottolemo 27. Monumento votivo dei Tessali

1. T empio arcaico o tesori 2. A ltari 3. P rimo tempio di Atena Pronaia (500 a.C. circa) 4. T esoro dorico 5. T esoro ionico dei Massalioti 6. Tholos 7. U ltimo tempio di Atena Pronaia (innalzato dopo il terremoto del 373 a.C.) 8. C asa dei sacerdoti (?) a r c h e o 73


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tarsi nella ventosa valle, ai piedi del monte Tomaros, erano sovrani o personaggi di rilievo, ma anche e soprattutto semplici agricoltori, comuni cittadini o forestieri (non di rado provenienti dalla sponda opposta dell’Adriatico), i quali interpellavano Zeus Dodoneo per problemi di salute, questioni familiari e altri dilemmi personali. Ecco, a titolo di esempio, alcuni dei quesiti, tratti dalla raccolta edita da Georg Luck: «La comunità di Mondea [in Tessaglia] consulta Zeus Naios e Dione a proposito del denaro richiesto da Temisto: se Temisto è persona solvibi-

IL RE CRESO E L’ORACOLO DELFICO Uno degli appellativi ricorrenti del divino fondatore dell’oracolo delfico, Loxias («l’obliquo»), evoca l’ermeticità e la spiccata ambivalenza dei responsi. Riferisce Erodoto, nelle Storie, che a farne tristemente le spese, in un’occasione, fu il re dei Lidi, Creso (596-circa 546 a.C.). Pianificando un’azione militare per frenare l’espansionismo persiano, il ricchissimo monarca puntò sull’infallibile oracolo pitico, gratificandolo d’imponenti sacrifici e di preziose offerte votive. Interrogata dai messi del re sull’esito della progettata spedizione, la Pizia rispose che, se Creso avesse marciato contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero. Entusiasta per quell’apparente responso favorevole, il sovrano lidio dispose l’elargizione di una congrua somma

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di denaro a ciascuno degli abitanti di Delfi, ricevendo in cambio onori inauditi, come la promanteía, ossia la precedenza nella consultazione dell’oracolo. Poi però l’azione militare si concluse con una sonora sconfitta e l’ormai decaduto Creso, prigioniero di Ciro il Grande, ottenne dal vincitore di poter inviare alcuni Lidi presso l’oracolo delfico per deporre, sulla soglia del tempio, le catene della sua prigionia e lamentarsi dell’insuccesso, subíto a dispetto del vaticinio favorevole. La risposta della Pizia fu questa volta piú chiara, facendo ricadere le colpe su Creso, per l’inesatta interpretazione da lui stesso data alle parole profetiche: il grande impero di cui gli era stata assicurata la distruzione, infatti, non era quello persiano, bensí quello lidio, il suo!


le e se è vantaggioso accordarle un prestito»; «Lisania chiede a Zeus Naios e a Dione se è suo il bimbo che Annula porta in grembo»; «Sarà meglio e piú vantaggioso per me acquistare la casa in città e il podere?»; «Cleuta chiede a Zeus e a Dione se è utile e vantaggioso per lui allevare bestiame».

stavano. Il responso consisteva spesso in un’affermazione o in una negazione; veniva fornito a voce e talvolta era riportato anche per iscritto, inciso frettolosamente sul retro della laminetta. Accanto al venerato albero secolare, vi era un sistema ulteriore per decifrare la volontà di Zeus. Il riferimenIL FRUSCIO DELLE FRONDE to al «lebete bronzeo mai muto», citato Le richieste erano probabilmente nell’Inno a Delo di Callimaco (v. 286), lette di volta in volta dalle profetesse, che per la risposta si basavano Nella pagina accanto: l’interno di una sui suoni raccolti presso la quercia kylix a figure rosse sulla quale è sacra, come il fruscio delle fronde rappresentato Egeo, mitico re di o i versi delle colombe che vi so- Atene, che interroga l’oracolo di Delfi,

allude infatti alla presenza nell’area santuariale di bacili di bronzo che, opportunamente o involontariamente percossi, producevano una fragorosa sequenza di suoni tenuta in considerazione dagli interpreti oracolari per i loro vaticini. Negli studi sullo spazio sacro, è da tempo acquisito lo stretto legame tra un luogo di culto e il paesaggio (naturale o antropizzato) nel quale da Vulci. 440-430 a.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. In basso: veduta dall’alto del tempio di Apollo a Delfi.

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UN CONSULTO INIZIATO MALE (E FINITO PEGGIO) La fama di Plutarco di Cheronea (47 d.C. circa-dopo il 120 d.C.) è legata alla sua prolifica produzione letteraria e, in particolare, alla sua opera piú celebrata: le Vite parallele (scritte per dimostrare le analogie, ma anche le differenze, fra gli eroi greci e romani, n.d.r.). Vi è però un dato della sua biografia che merita qui un giusto risalto: la carica di sacerdote, che ricoprí presso il santuario delfico al quale dedica, non a caso, ben tre trattati. Nella messe di preziose informazioni in essi rintracciabili, si segnala la ricostruzione dell’inopinata morte di una Pizia, un evento drammatico, utile però a dimostrare l’importanza di una genuina ispirazione divina nella seduta oracolare: «Giunta una delegazione straniera, per consultare l’oracolo, si dice che la vittima era rimasta immobile e inerte alle prime libagioni, e solo dopo molto tempo, poiché i sacerdoti che volevano compiacere i visitatori continuarono oltre il limite della norma, e persistettero, inzuppata d’acqua e quasi affogata, la vittima a stento cedette. Cosa accadde allora alla Pizia? Scese per dare l’oracolo ma dicono fosse riluttante e maldisposta; e subito, fin dalle prime risposte, sembrò chiaro, dall’asprezza della voce, che non stava bene, come una nave sbattuta dalle onde, posseduta da un’ispirazione muta e malvagia. Alla fine, completamente sconvolta, e con un grido anormale e terribile, si protese verso l’uscita e cadde a terra. I membri della delegazione, allora, e con loro anche il profeta Nicandro, e i sacerdoti presenti, fuggirono. Tuttavia, dopo un po’, tutti rientrarono e la sollevarono da terra, rianimandola, ma rimase in vita solo pochi giorni» (Plutarco, L’eclisse degli oracoli, 51; traduzione di Emanuele Lelli). 76 a r c h e o


esso si trova inserito. Famosissimo nell’antichità, il sito oracolare di Delfi rappresenta un esempio di rara suggestione al riguardo: lo scenario è qui costituito da un comprensorio dirupato, nella regione della Focide, a 500-700 m di altitudine, sulle pendici del monte Parnaso, prospiciente una placida valle affacciata sul golfo di Corinto. L’importanza strategica di questo crocevia naturale e il suo prestigio sul piano religioso gli valsero l’incontrastata qualifica di «centro del mondo». A ribadire tale preminenza per i Greci, vi era anche una tradizione locale, stando alla quale Zeus, volendo individuare il punto centrale della terra, avrebbe liberato dalle estremità del mondo due aquile, che si sarebbero incontrate esattamente nel luogo in questione.

Il centro del mondo, a Delfi, era contrassegnato da una roccia, l’omphalós («ombelico» in greco), visibile in antico all’interno del santuario, ma oggi irrintracciabile: solo una copia marmorea, di epoca ellenistica o romana, si trova nel locale museo.

LA PIETRA INGHIOTTITA Quest’elemento, rappresentato come una pietra di forma conica ricoperta da una rete di lana (l’agrenón) affiancata da due aquile, compare spesso nelle raffigurazioni apollinee. Stando a una tradizione diffusa, inoltre, questo «segno» coincideva con la mitica pietra inghiottita dall’ignaro dio Crono, al posto del figlio Zeus, e successivamente rigettata. Nella fase pre-olimpica del mito appena menzionata, non vi sarebbe

stato ancora il luminoso hierón apollineo, bensí un antichissimo oracolo in mano a Gea, la Terra, e ad altre divinità femminili. Ecco, come nell’esordio delle Eumenidi (vv. 1-8) Eschilo rievoca i primordia mitici del luogo: «Prima fra tutte le divinità onoro con questa preghiera la prima profetessa Gea: dopo di lei Temi, che seconda s’assise su questo profetico seggio della madre, come la fama tramanda; terza per volere di Temi e senza che violenza di alcuno glielo imponesse, un’altra Titanide figlia della Terra s’assise, Febe: ed ella poi a Febo (Apollo) lo assegnò come dono per la sua nascita: egli da Febe ha derivato il suo nome» (traduzione di Giulia e Moreno Morani). Una consistente documentazione letteraria ci permette di ricostruire la tradizione sul successivo arrivo di Apollo e la nascita del santuario

Nella pagina accanto: Sacerdotessa di Delfi, olio su tela di John Collier. 1891. Adelaide, Art Gallery of South Australia. In basso: Delfi. L’area del santuario di Atena Pronaia, sulla terrazza di Marmarià. Si riconoscono la tholos, i resti del tempio di Atena Pronaia e quelli di un edificio forse destinato ad abitazione dei sacerdoti.

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oracolare. Figlio di Zeus e di Leto, il dio generato, come la sorella Artemide, sull’isola di Delo, sarebbe divenuto, nel giro di pochi giorni, uno splendido giovane nel pieno delle forze; appresa l’arte della divinazione, avrebbe iniziato a spostarsi attraverso il territorio ellenico, in cerca di un luogo in cui stabilire un oracolo. Nel suo peregrinare, Apollo avrebbe raggiunto le pendici del monte Parnaso, in Focide, e la città di Crisa non lontano dalla quale avrebbe fondato il suo santuario. È quanto si può leggere nell’Inno omerico ad Apollo (vv. 287-295), datato intorno al VI secolo a.C.: «Là Febo Apollo, il signore, decise d’innalzare l’amabile tempio, e cosí disse: “Qui io intendo innalzare uno splendido tempio che sia oracolo per gli uomini, i quali sempre qui mi porteranno perfette ecatombi – quanti abitano il Peloponneso fecondo, quanti abitano l’Europa, e le isole circondate dal mare – desiderosi di consultare l’oracolo: e a tutti loro il 78 a r c h e o

mio consiglio infallibile esprimerò, dando responsi nel pingue tempio”. Cosí parlava Apollo; e gettò le fondamenta, ampie, profonde, compatte» (traduzione di Filippo Càssola). Vi era però un ultimo ostacolo da superare, prima che l’opera del giovane dio potesse dirsi compiuta: la rimozione delle potenze ctonie che, fino a quel momento, avevano dominato sul luogo.A infestarlo, infatti, vi sarebbe stato lo smisurato serpente detto Pitone, guardiano dell’oracolo, oppure, stando all’Inno omerico, una mostruosa dragonessa che faceva strage di uomini e d’animali.

IL NOME DELLA PROFETESSA L’eliminazione della creatura letale procurata da Apollo, a quanto si diceva, ebbe notevoli ripercussioni: come l’istituzione degli agoni panellenici, i giochi «Pitici», e l’attribuzione dell’epiteto «Pizio» tanto al dio quanto alla sua profetessa: la «Pizia». All’uccisione del mostro si

faceva anche risalire l’antico toponimo col quale la località è conosciuta in Omero, Pito, etimologicamente ricollegato dalle fonti letterarie al putrefarsi (in greco pythein) del corpo di Pitone. Nella prospettiva del mito, anche l’altra denominazione piú nota, Delfi, sembrerebbe scaturire dalla vicenda della fondazione apollinea: nella parte conclusiva dell’Inno omerico, infatti, il figlio di Zeus si sarebbe posto il problema del personale sacerdotale cui affidare la cura e la gestione dello hierón. Cosí, notata a distanza una veloce nave di mercanti di Cnosso, Apollo li avrebbe raggiunti in un batter d’occhio e, assunto l’aspetto di un maestoso delfino (delphís in greco, da cui uno dei possibili etimi per il nome della città), sarebbe balzato sull’imbarcazione, piantandosi minacciosamente sullo scafo. Dopo averli poi «dirottati» nel porto di Crisa, il dio lí si sarebbe mostrato nelle sue fattezze divine e li avrebbe invitati ad


A destra: le rovine del tempio di Zeus a Olimpia. Nella pagina accanto: i resti del santuario di Apollo a Didima, sulla costa ionica dell’Asia Minore.

accudire il suo splendido tempio. La richiesta della divinità sarebbe stata naturalmente soddisfatta: di lí a breve, il dio in persona, al suono della cetra, avrebbe guidato i marinai cretesi al sito dell’importante naós e qui avrebbe dissipato le ultime titubanze, prospettando loro, da consumato affarista, benefici e privilegi derivanti da quella nuova (e inaspettata) mansione.

IL SANTUARIO RISCOPERTO Lo studio delle tradizioni mitiche fin qui riassunte e, piú in generale, l’esame della documentazione storico-erudita pervenutaci (in particolare, alcuni scritti di Plutarco, che a Delfi fu eletto sacerdote intorno al 90 d.C., e un’accurata descrizione di Pausania, nel II secolo d.C.), si sono rivelati fondamentali ai fini dell’esplorazione archeologica del santuario apollineo. Visitata nel 1436 dall’antiquario Ciriaco d’Ancona e correttamente identificata nel 1676 dal viaggiatore inglese George Wheeler e dall’erudito francese Jacques Spon, l’area venne estesamente esplorata, a partire dal 1892, dagli archeologi dell’École Française di Atene, i quali, sotto la direzione di Théophile Homolle, avevano ottenuto l’anno precedente una licenza di scavo decennale dal re Giorgio I. In quell’occasione, per le necessità dei lavori, si

procedette allo smantellamento del villaggio moderno di Kastri, sorto sulle rovine antiche – da esso abbondantemente «cannibalizzate» – nonché al suo trasferimento nelle vicinanze (è l’odierna località di Delfi). Attualmente, alla luce di innumerevoli studi e indagini sul campo, condotte per lo piú da archeologi francesi e greci, lo sviluppo storico dello hierón appare ben ricostruibile nelle sue linee generali, a cominciare dalla verosimile presenza in loco di realtà cultuali inquadrabili in epoca micenea, ma dai contorni poco definiti. A questa situazione di partenza seguirono, nel corso del VII secolo a.C., l’insediarsi del culto di Apollo e l’edificazione di un primo tempio, mantenutosi fino alla metà del secolo successivo. La sua devastazione, causata da un incendio nel 548 a.C., non incise sulla notorietà del santuario, legata alla crescente popolarità dell’oracolo delfico. Sotto l’egida di una lega sacra di tribú e città greche (la cosiddetta Anfizionia Delfica), si riorganizzò la celebrazione dei giochi Pitici e, soprattutto, si avviò l’imponente r icostruzione del complesso, per la quale arrivarono consistenti donazioni, anche molto generose, come quelle elargite dalla famiglia aristocratica ateniese degli Alcmeonidi. Completati i lavori sul finire del VI secolo a.C., il santuario assunse una

configurazione di particolare monumentalità: inserito nell’antico tessuto urbano, era al contempo da esso separato da un lungo recinto. A sudest, da un ingresso principale, situato a un livello inferiore, tramite passaggi e scalinate era possibile accedere ai vari terrazzamenti, fino a raggiungere il piazzale antistante il tempio.

NELLA CELLA DEL TEMPIO Ai margini di questo percorso in salita (in parte ancora oggi riscontrabile per chi visita gli scavi) era disposta una pletora di opere d’arte e soprattutto numerosi thesauròi, cioè eleganti costruzioni a forma di tempietto, dedicate da popolazioni e centri piú o meno importanti del mondo antico, che ospitavano preziosi doni votivi. In alto, s’imponeva alla vista il tempio, fastosamente ricostruito: era un edificio esastilo, di ordine dorico, rivolto verso est. I principali elementi simbolici del culto delfico si trovavano raccolti all’interno della cella, nell’ádyton, lo spazio riservato a pochi, nel quale la Pizia proferiva gli oracoli. Di particolare evidenza erano i riferimenti visivi al divino «padrone di casa»: il gruppo statuario, in marmo pario, del frontone principale, esaltava il suo arrivo trionfale a Delfi, mentre sul frontone opposto la rappresentazione di una Gigantomachia evocava un momento a r c h e o 79


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centrale dell’affermarsi dell’ordine olimpico di Zeus, con il combattimento primordiale tra gli dèi e i Giganti. Stando infine alla testimonianza di diversi autori antichi, un richiamo alla saggezza e alla moderazione era offerto da celeberrime sentenze, attribuite ai cosiddetti sette sapienti e incise a caratteri d’oro nella parte anteriore dell’edificio («Conosci te stesso», «Nulla di troppo»), oltre a una simbolica lettera «E», che costituisce il nucleo centrale di un trattato di Plutarco. Il prolungato periodo di splendore dello hierón oracolare si interruppe bruscamente nel 373 a.C.: squassato da terremoti, lo splendido tempio arcaico degli Alcmeonidi finí completamente diroccato e fu di conseguenza rimpiazzato da una nuova costruzione, ultimata nel 330 a.C.

L’ARRIVO DI DIONISO Questo terzo naós, le cui strutture s’impongono all’interno dell’attuale area archeologica, riproduceva nella pianta e nelle dimensioni l’edificio precedente, ma con una interessante differenza: nel frontone principale, un nuovo gruppo statuario riproponeva la scena dell’avvento di Apollo a Delfi, ma la Gigantomachia del frontone posteriore veniva sostituita dalla rappresentazione del dio Dioniso affiancato dalle Menadi (Museo di Delfi). Non si tratta di un dettaglio irrilevante: ben documentata è la presenza del culto dionisiaco nel cuore del santuario apollineo. Stando alle locali tradizioni teologiche, sembra che i due figli di Zeus non solo condividessero lo spazio templare, ma anche il tempo, o piú precisamente, la scansione dell’anno solare, ripartito tra i nove mesi, in cui Apollo era ritenuto presente a Delfi e i tre mesi invernali, periodo di assenza del dio (lo si riteneva intento a soggiornare nel lontano paese degli Iperborei) nel quale, invece, si tributava il culto a Dioniso. Sul prestigioso e complesso sfondo qui delineato aveva luogo dunque la 80 a r c h e o

consultazione dell’oracolo. Il titolare Apollo esprimeva i responsi per bocca di una profetessa (in greco prómantis), cioè attraverso la Pizia. Le notizie relative al periodo piú antico sono incerte e confuse: si riferiva che la prima di queste profetesse sarebbe stata una certa Femonoe e che, inizialmente, si scegliessero solo ragazze del posto; solo in seguito a un fatto increscioso (il rapimento e la violenza di una di tali fanciulle da parte di un uomo della Tessaglia), gli abitanti di Delfi avrebbero stabilito che la Pizia dovesse avere almeno cinquant’anni. La candidata per questo importante ruolo era dunque solitamente una stimata signora del luogo, piuttosto avanti negli anni, spesso sposata e con figli, che, una volta selezionata, doveva abbandonare la famiglia, abbigliarsi da fanciulla (come le prime Pizie) e mantenere la verginità. Insieme alla purezza, si richiedevano una particolare dedizione e una specifica disposizione d’animo, l’assenza delle quali poteva inficiare la validità del responso, talvolta con conseguenze drammatiche, come apprendiamo da una testimonianza di Plutarco (vedi box a p. 76). Documenti relativi a epoche piú recenti, ci informano che, nel concreto adempimento delle sue funzioni religiose, la prómantis era coadiuvata dal personale del culto, composto da due sacerdoti, due profeti, a loro volta assistiti da cinque hósioi (letteralmente «i pii»), tutti nominati dalle autorità cittadine. L’efficienza di tale organizzazione si manifestava nelle poche opportunità concesse di interrogare l’oracolo: tale possibilità, inizialmente limitata a una sola volta l’anno – il settimo giorno del mese di Bisio (= febbraio-marzo), data della nascita di Apollo –, venne poi estesa al settimo giorno di ogni mese, con l’eccezione del periodo invernale, caratterizzato, nelle credenze locali, dall’assenza del dio. Solitamente, in quei giorni fatidici,

ci si preoccupava innanzitutto di verificare la disponibilità divina a proferire oracoli: a tal fine, i sacerdoti provvedevano ad aspergere di acqua fredda una capra che doveva scuotersi e rabbrividire, dopo di che veniva immolata e bruciata. La Pizia, di buon mattino, si recava presso la fonte Castalia, situata non lontano, per purificarsi ed essere poi accompagnata nella sede oracolare, ovvero nel citato ádyton, che era una sorta di cripta, ubicata nella cella del tempio. In quest’ambiente, bevendo l’acqua di un’altra sorgente locale, la Cassotide, e masticando foglie di alloro, la profetessa, prendeva posto su un tripode, collocato al di sopra d’una misteriosa fenditura del suolo. Qui, pervasa da una qualche forma d’ispirazione indicata nei


testi come pneúma (si è pensato a vapori o esalazioni, ma le cause concrete sono state indagate con risultati deludenti, in tempi antichi e moderni), iniziava a profetizzare.

LA VOCE DEL DIO I postulanti, dal canto loro, dapprima versavano un contributo al santuario, poi venivano fatti accedere nell’area sacra, uno dopo l’altro; assistevano quindi alla formulazione del responso e ricevevano poi la risposta – oralmente o per iscritto – probabilmente dai sacerdoti. Le domande rivolte ad Apollo Pizio vertevano spesso su intricate questioni familiari o su problemi di salute; però, al di là di specifiche richieste di privati, la voce del dio aveva quasi sempre forti ricadute pubbliche. Poteva, per esempio, dare

il proprio endorsement ad autorevoli personaggi: è il caso del legislatore spartano Licurgo o del pensatore Socrate, esaltato come il piú sapiente di tutti gli uomini. Oltretutto, la divinità si esprimeva liberamente e talvolta, ignorando il quesito sottoposto, orientava altrove le scelte dell’interrogante: cosí accadde all’indovino eleo Tisameno, che venne a informarsi riguardo alla sua futura prole e fu invece indirizzato verso una gloriosa carriera militare. Spesso, inoltre, le risposte fornite a interrogazioni pubbliche presentate dalle varie póleis avevano come effetto l’istituzione di culti e feste, nonché la creazione di una nuova città o di una colonia; non a caso, l’epiteto Archegétes, rivolto al dio, lo qualificava esplicitamente come «guida» e «fondatore». Notissimo

Epidauro. I resti del complesso cultuale dedicato ad Asclepio, figlio di Apollo, celebre nel mondo antico.

era il caso della colonia greca di Cirene, la cui fondazione, nel 630 a.C., a opera di Batto, un aristocratico dell’isola di Tera, sarebbe stata insistentemente richiesta dalla Pizia. Per converso, la scelta di dare origine a una colonia di propria iniziativa, senza tener conto dell’oracolo, si rivelava puntualmente disastrosa: è il caso del principe spartano Dorieo, che provò a fondare una colonia in Libia, ma riuscí nell’impresa solo in un secondo tempo, questa volta sulla base di opportuni vaticini che lo portarono in Italia. Il frequente contravvenire alle prescrizioni oracolari derivava, non di rado, dall’oscurità delle risposte, tala r c h e o 81


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volta non seguite e piú spesso non comprese: eloquente al riguardo, è la disavventura occorsa al re Creso, ultimo sovrano della Lidia nel VI secolo a.C. (vedi box a p. 74). Ugualmente conosciuto e non meno indicativo era il responso che interessò, qualche decennio piú tardi, l’intero mondo greco: nel 480, con l’approssimarsi della minaccia persiana, gli Ateniesi inviarono messi a interrogare l’oracolo.

RESPONSI AMBIGUI La consultazione fu faticosa e i legati ricevettero dalla Pizia Aristonice una risposta che, da un lato, destava preoccupazione, per il riferimento a una consistente strage di uomini causata dalla divina isola di Salamina, mentre dall’altro lasciava trapelare spiragli positivi, alludendo a un enigmatico muro di legno: «Zeus dall’ampio sguardo concede a Tritogenia [cioè ad Atena] che un muro di legno solo resti inespugnabile, che salverà te e i tuoi figli». La contrastante predizione – com’è facile immaginare – destò confusione e discussioni tra la popolazione ateniese, ma si rivelò decisiva la lettura fornita dal politico Temistocle. Questi giudicò riferita ai potenti avversari stranieri la disfatta annunciata e interpretò il misterioso muro di legno come allusione a una flotta navale, al cui allestimento gli Ateniesi si dovevano dedicare per vincere; il che, appunto, avvenne nelle acque di Salamina, nel settembre del 480 a.C. Nei secoli successivi, pur nel progressivo indebolimento dell’ispirazione apollinea, la Pizia continuò a emettere i suoi vaticini, comunque tenuti in considerazione da Greci e Romani. Prima della chiusura del santuario (sancita dai decreti di Teodosio, alla fine del IV secolo d.C.), si segnala un ultimo responso, fornito all’inviato dell’imperatore Giuliano l’Apostata, Oribasio. Nel discusso documento, da alcuni confutato e ritenuto una mistificazione di 82 a r c h e o


In alto: rilievo raffigurante Asclepio, dio della medicina, dal santuario di Epidauro a lui intitolato. VI sec. a.C. Nella pagina accanto: rilievo raffigurante un uomo che offre ad

Asclepio un ex voto in forma di gamba, per ringraziare il dio di averlo guarito dalle vene varicose, dall’Asklepieion di Epidauro. V sec. a.C. Atene, Museo Nazionale Archeologico.

ambiente cristiano, le sconsolate parole della prómantis annunciano l’imminente fine dell’oracolo: «Dite al re che la sala ben costruita è crollata. Febo non ha piú una dimora, né un alloro profetico, né una fonte fatidica. Anche l’acqua loquace si è spenta».

del culto. Stando infatti a un’informazione di Pausania (V 14, 10), analogamente alla Delfi pre-apollinea, vi sarebbe stato nei tempi piú antichi un primitivo oracolo terrestre riferito a Gea. Con l’affermarsi del culto di Zeus e il definirsi dell’area santuariale, si sarebbe passati a forme piú controllate di divinazione, basate sul metodo deduttivo: tra i vari altari «di cenere» presenti in loco, ve n’era uno imponente (alto ben sei metri e mezzo), dedicato a Zeus Olimpio, il cui elevato era costituito da una particolare malta, ottenuta impastando le ceneri degli animali sacrificati con l’acqua del fiume Alfeo. Su questo impressionante bomós si traevano presagi dall’osservazione della forma e dei movimenti delle fiamme, secondo una tecnica nota come «empiromanzia». Merita un cenno anche un altro complesso cultuale, quello di Epidauro, dedicato ad Asclepio, figlio di Apollo e notissimo nel mondo antico. Il caratteristico rito dell’incubazione, praticato in questo e in al-

ALTRI ORACOLI ILLUSTRI L’enorme popolarità riconosciuta al santuario delfico e ai suoi vaticini finí per accreditare Apollo come divinità collegata per eccellenza alla sfera divinatoria. Di conseguenza, tutti i manteîa a lui dedicati conobbero una vasta rinomanza: è il caso dell’oracolo di Apollo Ptoos, sui monti della Beozia, o di quello di Claro e del celebrato hierón di Didima, sulla costa ionica dell’Asia Minore. Accanto alla mantica d’ispirazione apollinea, questo percorso virtuale tra i santuari oracolari della Grecia antica può includere realtà meno prevedibili, come quella di Olimpia (Elide), ricordata non solo per i ben noti agoni panellenici, ma anche per l’aspetto divinatorio

tri santuari di guarigione, prevedeva che il visitatore, ovvero il malato, in condizioni di purezza e di digiuno venisse accompagnato a dormire in un settore del témenos, all’interno di un edificio porticato denominato àbaton («inaccessibile»). Lí, in sogno, riceveva la visione del dio, che provvedeva a sanarlo istantaneamente oppure a fornirgli indicazioni, anche confuse, che poi al suo risveglio i sacerdoti locali trasformavano in opportune indicazioni terapeutiche di natura religiosa. Le domande oracolari collegate a richieste di guarigione, qui come in tutti i grandi hierá, erano tutt’altro che rare. D’altro canto, se è indubbio che una delle principali funzioni della mantica era la risoluzione delle malattie, è altrettanto vero che il guaritore doveva nondimeno possedere delle capacità divinatorie. Alla luce dello stretto legame intercorrente tra i due ambiti (non a caso, coincidenti nella figura divina di Apollo), possiamo senz’altro accostare queste due tipologie di santuari, meta, entrambi, di pellegrinaggi e di visite per quanti qui si recavano per trovare una risposta efficace alle incertezze e ai mali che li affliggevano. NELLA PROSSIMA PUNTATA • Elimi e Sicani nella Sicilia prima dei Greci

PER SAPERNE DI PIÚ Salvatore Costanza, La divinazione greco-romana. Dizionario delle mantiche: metodi, testi e protagonisti, Forum, Udine 2009. Michael Scott, Delfi. Il centro del mondo antico, Laterza, Bari-Roma 2017 Carmelo Malacrino, Konstantinos I. Soueref e Luigi Vecchio (a cura di.), Dodonaios. L’oracolo di Zeus e la Magna Grecia, catalogo della mostra, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2019 a r c h e o 83


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NELLE MINIERE

DIMENTICATE

UN ARTICOLATO SISTEMA MINERARIO, NASCOSTO PER SECOLI DALLA MACCHIA MEDITERRANEA, È AL CENTRO DI UN INTERVENTO DI RICERCA E TUTELA CONDOTTO DALLA SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGIA, BELLE ARTI E PAESAGGIO PER LE PROVINCE DI PISA E LIVORNO, IN COLLABORAZIONE CON IL MUSEO DI STORIA NATURALE DEL MEDITERRANEO DI LIVORNO E L’UNIVERSITÀ DI SIENA. LE NUOVE GROTTE MINIERA, LOCALIZZATE NELL’ENTROTERRA DI POPULONIA, CONSERVANO A GRANDE PROFONDITÀ I RESTI DI ATTIVITÀ ESTRATTIVE DEI MINERALI METALLIFERI, RIFERIBILI IN MODO PREVALENTE AL PERIODO ETRUSCO E ROMANO: UNA STRAORDINARIA OPPORTUNITÀ PER DOCUMENTARE E PROTEGGERE UN PATRIMONIO ARCHEOLOGICO E NATURALISTICO, UNICO NEL SUO GENERE testi di Antonio Borzatti von Löwenstern, Cristina Bronzino, Franco Cambi, Andrea Camilli, Giovanna Cascone, Alessandra Casini, Luca Tinagli e Andrea Zifferero

Sulle due pagine: la Grotta miniera della Lucerna. Il termine «grotta miniera» indica ipogei di natura mista, naturale e artificiale al tempo stesso, scavati per la coltivazione del minerale. In primo piano, una ripiena, ovvero un cumulo di materiale sterile di risulta. 84 a r c h e o


In alto: ipotesi ricostruttiva di un pozzo attrezzato per la risalita con trasporto a spalla del minerale (periodo etrusco e romano).

I

Monti di Campiglia, in parte compresi nel perimetro del Parco Archeominerario di San Silvestro (Campiglia Marittima, Livorno), mantengono in superficie le tracce palpabili di un passato minerario di lunghissima durata. Se, infatti, gli opifici abbandonati e i castelli in ferro dei pozzi sono quanto resta delle attività estrattive piú recenti, condotte tra Otto e Novecento, le numerose discariche di materiali di scarto che il bosco non riesce ancora a ricoprire sui pendii collinari, sono la traccia a r c h e o 85


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archeologica di attività molto piú antiche. I giacimenti del Campigliese sono stati oggetto di coltivazione a partire dall’età del Rame: a questo periodo, infatti, risalgono i resti di forni per il trattamento di minerali di rame, rinvenuti nel corso delle attività di cava vicino al piccolo centro di San Carlo, nel territorio comunale di San Vincenzo. Nello stesso contesto sono state recuperate anche ceramiche dell’età del Bronzo Finale, che testimoniano la frequentazione del bacino minerario nelle fasi avanzate della protostoria. L’attività estrattiva si concentrò in seguito nei periodi etrusco e romano, fino al I secolo a.C., nel Medioevo tra l’anno Mille e il Trecento, nel periodo mediceo durante il Cinquecento e, infine, tra l’Ottocento e il Novecento. La coltivazione dei depositi minerari locali è strettamente legata a Populonia, proiettata sul mare grazie alla posizione dominante sul Promontorio di Piombino e all’affaccio su una grande laguna interna, individuata di recente dalla ricerca archeologica: a partire almeno dalla fase avanzata dell’età del Ferro (VIII secolo a.C.), la città etrusca esercita un controllo diretto sui giacimenti di ematite (i piú importanti del Mediterraneo), posti nel settore orientale dell’Isola d’Elba, e concentra la lavorazione del minerale elbano nella zona suburbana, lungo l’ampio arco del Golfo di Baratti.

UNA VERA IMPRESA Se, a partire dalla fine del VII secolo a.C., l’attività siderurgica assume i connotati di una vera impresa di età preindustriale – con letti di scorie che progressivamente ricoprono le necropoli, seppellendo le tombe piú antiche nel Podere San Cerbone –, è opportuno ricordare come la stessa Populonia abbia promosso anche la coltivazione dei giacimenti a solfuri misti del Campigliese, ricchi di minerali utili alla produzione del rame, del piombo e dell’argento. I rapporti tra la città e il vicino bacino minerario sono stati accertati dalle ricerche condotte nell’ultimo quindicennio, mirate a documentare la natura e la composizione dei letti di scorie metallurgiche ancora oggi visibili lungo la spiaggia di Baratti: le analisi chimiche e mineralogiche delle scorie, infatti, insieme all’analisi dei carboni superstiti, hanno permesso di appurare come la piú antica metallurgia estrattiva qui effettuata sia stata quella dei solfuri misti estratti dal Cam86 a r c h e o

pigliese, in un periodo compreso tra la fine del IX e l’VIII secolo a.C. A Populonia, quindi, la metallurgia del rame, piombo e argento precede quella del ferro di provenienza elbana, i cui strati di scorie sono sovrapposti (e sono quindi piú recenti) a quelli con scorie da solfuri misti, almeno nel tratto di spiaggia indagato dagli scavi. I dati confermano l’interesse per i giacimenti dei Monti di Campiglia da parte populoniese a partire dalle ultime fasi della protostoria, ma, soprattutto, la posizione litoranea dei forni fa del Golfo di Baratti un luogo strategico per il commercio dei metalli nel Mediterraneo, aperto al contatto e allo scambio con altre culture. Se la zona suburbana di Populonia è senza dubbio un ambito privilegiato per l’indagine archeologica e archeometallurgica, il contesto minerario del Campigliese pone maggiori ostacoli alla ricerca: l’esplorazione di questo settore del territorio populoniese, infatti, si basa sull’archeologia di superficie, condotta attraverso ricognizioni e scavi, ma deve affrontare, nello stesso tempo, l’esplorazione archeologica del sottosuolo con la pratica dell’archeologia mineraria.Tale disciplina non può sottrarsi a un approccio di tipo speleologico alle cavità ipogee, accompagnandolo costantemente con le osservazioni geologiche per il riconoscimento delle rocce e delle mineralizzazioni e, soprattutto, con l’analisi delle discariche del minerale estratto e delle scorie prodotte dalla metallurgia estrattiva, che richiedono competenze specifiche nelle scienze geologiche e mineralogiche. I risultati dell’archeologia di superficie, limitatamente al periodo protostorico, etrusco e a parte di quello romano, hanno sinora permesso di individuare, nei numerosi siti di altura posti a contatto con le valli ricche di depositi minerari, i poli di un sistema insediativo che controllava l’accesso ai giacimenti e ai luoghi in cui si praticava la metallurgia estrattiva dei solfuri misti. Tale sistema cambia nel Medioevo, quando veri e propri castelli minerari crescono in prossimità dei giacimenti: come ha provato lo scavo di Rocca San Silvestro, la metallurgia estrattiva è condotta ora all’interno delle mura del borgo, sotto il controllo delle consorterie signorili che risiedono nell’esteso bacino minerario campigliese. (segue a p. 93)

Nella pagina accanto, in alto: carta generale con l’ubicazione di Populonia e dei Monti di Campiglia. Nella pagina accanto, in basso: veduta panoramica del bacino minerario dei Monti di Campiglia: in primo piano, Rocca San Silvestro; sullo sfondo, il Promontorio di Populonia e l’Isola d’Elba.


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ARCHEOLOGIA DEI PAESAGGI A POPULONIA Tra l’VIII e il VI secolo a.C., i paesaggi populoniesi sembrano poco frequentati, con l’eccezione di un breve incremento di presenze nella seconda metà del VII secolo a.C. Nel Golfo di Baratti i grandi tumuli orientalizzanti sono ricoperti già nel VI-IV secolo a.C. dai cumuli delle scorie della lavorazione dei minerali di rame e piombo (solfuri misti del Campigliese) e di ferro (ematite elbana). Tra il IV e gli inizi del II secolo a.C., accanto ai forni appaiono anche forge per lavorare i lingotti in ferro. Il territorio controllato da Populonia appare diviso in tre fasce: quella suburbana (proastion), interessata da un’intensa produzione metallurgica a partire dal VI secolo a.C.; il settore tra il proastion e le sponde della grande laguna, oggi bonificata, forse destinato all’agricoltura, all’allevamento, alla pesca e alla produzione del sale; il settore piú marginale (chora) rispetto alla città, con alcuni poli siderurgici come Rondelli, presso Follonica. Dal IV secolo a.C. si intensifica la presenza di forni siderurgici nel Golfo, nell’area compresa fra le mura e il Poggio all’Agnello: questi siti restituiscono parti di fornaci, masselli di minerale (in prevalenza ematite) e scorie di riduzione. La chora populoniese vera e propria, con insediamenti residenziali, sembra iniziare oltre le due miglia romane dalle mura urbiche: dalla seconda metà del IV a tutto il II secolo a.C. si registra il numero massimo dei siti, con case medio-grandi e villaggi, mentre le attività agricole si intensificano, procedendo verso la Val di Cornia. Al momento della conquista romana, intorno al 298 a.C., il paesaggio appare prospero, grazie ai metalli, al sale, all’agricoltura, al pascolo e alla pesca. Le attività metallurgiche 88 a r c h e o


Ipotesi ricostruttiva di un cantiere di coltivazione con minatori al lavoro (periodo romano).


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diminuiscono fra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C.: la forte flessione potrebbe essere conseguenza del decreto, piú volte citato da Plinio nella Storia Naturale, con cui il Senato proibisce lo scavo di miniere nel suolo della Penisola. Nel I secolo

d.C. la distribuzione degli insediamenti nel Golfo di Baratti già risponde a logiche diverse: con la fine della siderurgia viene meno anche il ruolo centrale della città, visibile nella fine delle attività edilizie sull’acropoli. Il baricentro si sposta verso l’interno: località della

In alto: veduta panoramica della piana di Populonia; sullo sfondo, a sinistra, il profilo del Sassoforte e, a destra, quello del Monte Amiata. Sulle due pagine: veduta panoramica del Golfo di Baratti dalla necropoli

delle Grotte a Populonia; sullo sfondo, a sinistra, la Cava di Monte Calvi e, a destra, la Cava di Monte Valerio. Nella pagina accanto, in alto: il Golfo di Baratti dall’Acropoli di Populonia; sullo sfondo, i Monti di Campiglia.

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bassa Val di Cornia come Vignale, Banditelle, Caldana, Palmentello Franciana e Macchialta sono siti nevralgici nel paesaggio tardorepubblicano e imperiale con le funzioni di ville o stazioni di posta, in contatto con la viabilità e le lagune. Il villaggio di Poggio al Lupo sembra concentrare la popolazione di condizione libera, operante nelle grandi ville di Poggio San Leonardo, Villa del Barone e Poggio Grattalocchio: frequentato fino al III secolo d.C., doveva dipendere dalla vicina strada delle Caldanelle, importante nel quadro delle comunicazioni locali. Il villaggio di Poggio all’Agnello, visibile a partire dal IV secolo a.C., cresce


sensibilmente dalla metà del III e ancor piú in età imperiale, contraendosi nel IV secolo d.C., per essere abbandonato tra la fine del V e gli inizi del VI secolo. Dal II secolo d.C., la quasi totalità dei siti è formata da ville collocate

sul versante nord della Val di Cornia e lungo la strada collegante Vignale con un grande abitato situato a nord di Cafaggio. Situate presso la laguna che lambiva il Vignale, le ville potevano sfruttare le molte e variegate risorse: la pesca, i vivaria

per la piscicoltura, la raccolta e l’allevamento di molluschi. Sulle sponde delle lagune si potevano inoltre allevare suini, secondo un modello attestato dalle fonti. Nel corso del III secolo molti siti dell’entroterra vengono abbandonati: gli scavi condotti presso la spiaggia hanno permesso di identificare un edificio con cetaria per la salagione del pesce, oggetto di molteplici risistemazioni, il cui abbandono si colloca verso gli inizi del VII secolo. I siti di Vignale e Poggio all’Agnello sopravvivono: uno di essi potrebbe corrispondere alla villa descritta da Rutilio Namaziano dopo lo sbarco presso Falesia. Franco Cambi

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Persequimur omnes eius fibras vivimusque super excavatam, mirantes dehiscere aliquando aut intremescere illam, ceu vero non hoc indignatione sacrae parentis exprimi possit Tentiamo di raggiungere tutte le fibre intime [della terra] e viviamo sopra le cavità che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta si spalanchi o si metta a tremare, come se, in verità, non possa esprimersi cosí l’indignazione della sacra madre Plinio, Storia Naturale 33, 1, 1

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All’interno di un areale compreso tra i Comuni di San Vincenzo e Castagneto Carducci, posto piú a nord e in posizione periferica rispetto alle zone minerarie coltivate fino al Novecento (oggi ricomprese nel perimetro del Parco Archeominerario di San Silvestro), i ricercatori del Gruppo Speleologico Archeologico Livornese – afferenti al progetto di ricerca sulle grotte carsiche e sulle miniere del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo della Provincia di Livorno – hanno scoperto nel 2018 un articolato e complesso sistema minerario, avviato nel periodo etrusco nelle cosiddette grotte miniera e abbandonato tra il II e il I secolo a.C., in apparenza e al momento attuale della ricerca, con pochissime interferenze di età imperiale, medievale o moderna. Qui è stato possibile accertare come almeno l’area di coltivazione risalente ai periodi etrusco e romano fosse molto piú estesa ri-

Nella pagina accanto: lo spettacolare accesso a uno dei maggiori complessi minerari nell’area della Valle delle Rozze-Valle in Lungo: il colore arancio segnala la presenza di mineralizzazioni alterate. In basso: ortofoto con la posizione dei toponimi nell’area di ricerca.

spetto a quella di età moderna e contemporanea, concentrata nei settori dove i giacimenti minerari erano piú consistenti, ovvero nelle valli del Temperino, dei Lanzi e dei Manienti. Le nuove scoperte, avvenute sotto il controllo e la direzione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno – che ha richiesto il supporto scientifico dell’Università di Siena –, presentano uno stato di integrità eccezionale, dal momento che gli antichi lavori minerari non sono stati distrutti o tagliati da interventi successivi. La Valle delle Rozze, la Valle in Lungo, il Prato ai Fiori, il Monte Coronato e la Valle delle Schiumaie, sembrano essere stati praticamente «dimenticati» dai prospettori di età medievale, moderna e contemporanea. Oggi decine di ingressi, in qualche caso di grandi dimensioni, dei pozzi di estrazione e imponenti discariche minerarie raccontano la

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Ipotesi ricostruttiva dell’attività di cernita del minerale effettuata «a bocca di miniera» (periodo etrusco e romano). A destra: la sala di accesso alla Buca degli Spagnoli.

storia e l’organizzazione del lavoro di prospettori e minatori nelle valli dimenticate, attraverso le tracce degli attrezzi da scavo e delle infrastrutture lasciate sulla roccia, insieme alle lucerne e ai contenitori in ceramica per l’acqua e il cibo che ne documentano la sussistenza quotidiana.

LE NUOVE GROTTE MINIERA Rispetto alle valli del Temperino e dei Lanzi (all’interno del Parco Archeominerario di San Silvestro), dove le coltivazioni di solfuri misti (in prevalenza calcopirite e galena), effettuate in modo massiccio nell’Ottocento e Novecento hanno quasi sempre intercettato ed esplorato – con l’effetto di produrre alterazioni consistenti – pozzi, gallerie e camere di coltivazione del periodo etrusco a r c h e o 95


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e romano, le nuove grotte miniera costituiscono un patrimonio unico nel suo genere, in quanto sia le tecniche estrattive che i reperti ceramici e organici rinvenuti nelle gallerie dimostrano, per ora, un uso quasi esclusivo nei periodi etrusco (fasi tardo-arcaica, classica ed ellenistica) e romano (fasi medio- e tardo-repubblicana). Il metodo di coltivazione di queste miniere consisteva nel seguire l’andamento del filone, scavando gallerie e pozzi all’interno della massa mineralizzata: la sua individua96 a r c h e o

Speleotemi (stalattiti e stalagmiti), concrezionati sopra una ripiena mineraria.

zione in superficie avveniva grazie alla presenza di minerali e/o skarn alterati (idrossidi di ferro, in gergo minerario «cappellacci» o «brucioni»; vedi box alle pp. 102-103, in basso); la prospezione e la successiva impostazione del cantiere minerario potevano partire da un ingresso carsico o dall’ampliamento di fratture nella roccia. Gli ingressi sono generalmente allungati secondo le superfici di fratturazione delle rocce, oppure sono ricavati all’interno del giacimento con forme piú propriamente ellittiche o


circolari, di diametro variabile da 1 a 2 m. I lavori si approfondiscono quindi in senso verticale o sub-verticale, tramite pozzi e discenderie che intercettano il giacimento, al cui interno sono ricavate sale di coltivazione, di dimensioni diverse a seconda della consistenza della massa mineralizzata. I pozzi sono profondi di solito 30-50 m, mentre la profondità complessiva della miniera può superare i 100 m, con lo sviluppo di gallerie per oltre 600 m. Sul bordo di alcuni pozzi sono visibili resti di alloggi per leggere armature in legno,

In alto: rilievo topografico della Buca del Biserno (San Vincenzo): la prima grotta miniera vincolata dalla L. 1089/1939. A destra: Grotta miniera della Lucerna: le imponenti dimensioni di alcuni vuoti di coltivazione presuppongono un consistente impiego di forza lavoro e di perizia tecnica. a r c h e o 97


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VALLI RICCHE DI BIODIVERSITÀ La Valle delle Rozze e la confluente Valle in Lungo si trovano all’interno del Sito di Interesse Comunitario (SIC), denominato Montecalvi di Campiglia: sono quindi protette dal punto di vista naturalistico per l’ampia copertura boschiva e la presenza di ambienti e di specie rare e peculiari dell’area, posta sotto tutela della direttiva europea Habitat n. 92/43/CEE. I boschi sono per lo piú caratterizzati da sclerofille sempreverdi e in particolare dal leccio (Quercus ilex), presente con esemplari di grandi dimensioni, selezionati dall’uomo per la rigenerazione della copertura vegetale, durante le secolari attività di governo del bosco. Lungo la Valle delle Rozze, che è orientata in senso est-ovest, si osserva il fenomeno di inversione termica per il quale gli ambienti piú freschi e umidi si ritrovano a bassa quota, lungo il fondovalle, con presenza di latifoglie decidue, quali il nocciolo o il carpino, ma anche di esemplari secolari di alloro. A quote piú alte e sui crinali piú esposti al sole si ritrova invece il bosco mediterraneo, a prevalenza di leccio. Gli ambienti della direttiva Habitat individuabili, oltre alle foreste di leccio, sono le boscaglie popolate da

destinate a sostenere argani per la risalita del minerale abbattuto; i risparmi di minerale di forma cilindrica all’imboccatura dei pozzi fanno pensare a un loro impiego come ancoraggi per corde, che hanno lasciato evidenti segni di sfregamento. Le impronte in negativo nelle concrezioni di calcite hanno permesso di capire come la

ginepro comune, sulle fasce di crinale piú soleggiate, le formazioni erbose secche seminaturali, frammiste a cespugli su substrato calcareo (FestucoBrometalia), con presenza di orchidee spontanee negli spazi aperti e infine le grotte naturali e le grotte miniera, oggi abitate da pipistrelli (tutte le specie italiane sono tutelate a livello comunitario) e da una cavalletta priva di ali, la Dolichopoda schiavazzii, endemica della Toscana. Tra i rettili, degno di nota è il tarantolino (Eupletes europea), una specie di geco di piccole dimensioni, la cui distribuzione è frammentata e tipicamente mediterranea. Tra le piante, sono da segnalare la bivonea del Savi (Jonopsidium savianum) e la vedovella delle Apuane (Globularia incanescens), un endemismo delle Alpi Apuane segnalato di recente anche nell’area in esame. Antonio Borzatti von Löwenstern

In alto: una vedovella delle Apuane (Globularia incanescens), presente nella Valle dei Manienti.

progressione in tratte a forte inclinazione venisse risolta con la messa in opera di scalinate dotate di gradini in legno. Per evitare di trasportare in superficie la roccia sterile, la prima cernita si effettuava all’interno della miniera: il materiale di risulta veniva gettato nei pozzi o nei vuoti di coltivazione esauriti (ripiene) e, nel caso di cantie-

IL CARSISMO: UN’OPPORTUNITÀ PER I MINATORI L’azione dissolutrice dell’acqua sulle rocce di natura carbonatica, nota come carsismo, è ben riconoscibile lungo gli estesi affioramenti locali e si esprime in superficie, sotto forma di fessurazioni, solchi e fori, nonché con fratture aperte e pozzi carsici. Ubicate in corrispondenza di piccole mineralizzazioni a solfuri e ossidi-idrossidi di ferro con skarn, alcune aperture sono state utilizzate come prime vie di

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accesso ai depositi minerari del sottosuolo: tali approcci sono riscontrabili in molti pozzi di ricerca mineraria antica, con profondità non superiori ai 15-20 m, dove il risultato della prospezione, per l’esiguità del giacimento, non ha dato origine a veri e propri complessi estrattivi. La coltivazione dei giacimenti piú ricchi ha invece portato alla formazione di cavità profonde dai 60 ai 120 m, con lo sviluppo di

gallerie e pozzi per centinaia di metri, obliterando la morfologia carsica, al fine di aprire accessi di grandi dimensioni per la fuoriuscita del minerale estratto e di facilitare operazioni di cantiere «a bocca» di miniera. La coltivazione di giacimenti coesistenti con vuoti carsici ha dato quindi luogo a ipogei di natura mista, naturale e artificiale al tempo stesso: si è cosí coniato per queste cavità il termine di grotta miniera.


La Buca della Vacca, una suggestiva cavità carsica con numerose concrezioni calcaree (stalattiti, colate e stalagmiti).

Sono inoltre numerose le concrezioni calcaree come stalagmiti e colate, formatesi al di sopra delle superfici di scavo e sui fronti di taglio grazie alla percolazione dell’acqua lungo le rocce carbonatiche incassanti il giacimento, che rappresentano un importante strumento per determinare la cronologia di abbandono dei vari settori della miniera. Giovanna Cascone e Luca Tinagli

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ABITATI D’ALTURA PER IL CONTROLLO DEI GIACIMENTI Tra l’età del Bronzo Finale e la fase ellenistica del periodo etrusco, gli insediamenti attestati sui Monti di Campiglia sono per lo piú abitati di altura. Si tratta di un tipo molto diffuso sulle Colline Metallifere, tra Populonia e Vetulonia: si incontra su alture di media altezza, con la sommità piana, spesso rinforzata da imponenti muraglie a secco di pietre locali, con muri di terrazzamento sui fianchi per aumentare lo spazio abitabile e coltivabile, dal momento che il ripiano superiore è esteso soltanto pochi ettari. Gli abitati su altura (i Manienti, la Scala Santa, il Monte Rombolo, il Monte Spinosa e il piú periferico Monte Pitti) si trovano di solito a contatto con le aree in cui le mineralizzazioni a solfuri misti sono piú consistenti: una scelta dettata dalla necessità di esercitare un controllo sui giacimenti, da parte di

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grandi gruppi familiari che operavano sotto le direttive di Populonia, occupati nell’organizzazione delle attività estrattive, esercitate con il supporto di lavoranti (minatori e metallurgisti) di presumibile condizione servile. La presenza di questi gruppi è peraltro confermata dal ritrovamento, in prossimità di importanti vie di transito, di tombe a tumulo con caratteri architettonici populoniesi. È possibile che da ciascun abitato dipendesse un certo numero di miniere e di lavoranti, distribuiti nei diversi settori in cui era articolato il bacino minerario campigliese. L’area caratterizzata dalla presenza di abbondanti scorie da metallurgia estrattiva nella Val Fucinaia presso i giacimenti del Temperino, documentata da scavi

condotti negli anni Trenta, suggerisce che gli abitati di altura controllassero anche i siti di lavorazione del minerale estratto, collocati normalmente nei fondovalle, dove la presenza di acqua e la possibilità di concentrare grandi quantità di combustibile vegetale (legna o anche carbone per il trattamento dei solfuri) facilitavano i delicati processi di trasformazione metallurgica da minerale in metallo. Gli abitati di altura sono presenti anche sull’Isola d’Elba, con funzioni e periodi di frequentazione simili agli insediamenti del Campigliese e pongono il problema di quando sia iniziato il controllo populoniese sui giacimenti elbani e su quelli della terraferma. I dati archeometallurgici di Baratti suggeriscono l’avvio della coltivazione dei solfuri già nell’età del Ferro. Il rapporto tra

giacimenti, discariche di minerale e siti metallurgici, in un arco cronologico esteso dall’età del Ferro recente (metà dell’VIII secolo a.C.) all’età ellenistica, è ben visibile alle Schiumaie nella Valle delle Rozze, presso il Podere I Cancellini (Castagneto Carducci), dove grandi cumuli di scorie metallurgiche sono distribuiti ai margini di una vallecola che ospita le principali miniere di solfuri misti del settore. Il rinvenimento, a poca distanza dai lavori minerari, di semilavorati in piombo costituiti da piccoli lingotti di forma parallelepipeda e globulare e da tondelli forati, fa pensare con tutta probabilità a un’officina che fabbricava i candelabri in piombo, deposti in molti corredi funerari populoniesi di età ellenistica. Alessandra Casini e Andrea Zifferero


Nella pagina accanto: veduta panoramica dell’area in corso di studio: la Valle delle Rozze, a sinistra, in primo piano, con la Cava Solvay a destra, in primo piano; sullo sfondo, il crinale della Scala Santa. In basso: Grotta miniera della Lucerna: cantiere di coltivazione con resti di mineralizzazioni e skarn: i colori ocra, nero-bruno e verde sono dovuti a fenomeni di alterazione.

ri non ancora esauriti oppure nei punti di transito, lo sterile veniva sistemato con cura sotto forma di muretti a secco o accatastato all’interno di strutture in legno, di cui resta oggi l’impronta sulle pareti della ripiena. La seconda cernita avveniva in superficie, presso la «bocca» della miniera, attraverso la «pesta», ovvero la frantumazione e la separazione piú accurata del minerale utile dalla ganga. Il minerale cosí selezionato era pronto per il lavaggio, di solito effettuato in prossimità dei siti di trasformazione metallurgica. La probabile assenza di coltivazioni successive all’età tardo-repubblicana non è casuale: le cavità sinora identificate, infatti, si trovano su piccoli giacimenti subverticali di skarn a solfuri di piombo (con argento?), ferro e di minerali secondari di piombo, zinco e rame. La limitata potenzialità di questi giacimenti, dal punto di vista dell’estrazione moderna e contemporanea, ne ha salvaguardato l’integrità: nell’area esplorata, infatti, estesa su circa 4 kmq, tutti gli affioramenti di mineralizzazioni sono stati interessati da scavi di età antica.

UN DIVIETO TASSATIVO Se il prosieguo delle ricerche dovesse confermare questo quadro preliminare, tale assenza di coltivazioni in età successiva al I secolo a.C. parrebbe confermare la notizia di Plinio, che scrive nel I secolo d.C. (Storia Naturale 3, 138), circa un antico divieto del Senato romano in merito all’estrazione di minerali dal sottosuolo della Penisola. I dati archeologici registrati a Populonia, infatti, fissano il decremento e la fine delle attività di metallurgia estrattiva (e quindi l’arrivo del minerale di ferro dall’Elba?), tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C.

RAME, PIOMBO E ARGENTO NEL MONDO ANTICO Lo studio dei luoghi di approvvigionamento aiuta a comprendere il valore che i metalli e le loro leghe avevano nel mondo antico. Pur di ottenere minerali metalliferi, le attività di ricerca e scavo dei minatori si spingevano fino a grandi profondità, in situazioni di elevato pericolo e immensa difficoltà. I metalli ricavati dai minerali offrivano qualità diverse: resistenza e duttilità essenziali per fabbricare utensili e armi (ferro, rame e piombo), lucentezza e malleabilità per gli ornamenti personali e la coniazione di monete (rame, argento e oro). E il loro valore era direttamente proporzionale alla rarità e alle difficoltà di reperimento, coltivazione e lavorazione. Primo metallo impiegato dalle comunità tra la fine del Neolitico e l’Eneolitico, il rame veniva alligato con lo stagno (presente nell’area di Monte Valerio) per ottenere il bronzo, una lega molto piú dura e resistente dello stesso rame. Il bronzo ebbe un larghissimo uso nella fabbricazione di utensili e attrezzi agricoli, armi, panoplie, ornamenti e oggetti di arredo, opere d’arte, vasellame da mensa; essenziale, inoltre, fu il suo impiego per la monetazione. Il piombo, ottenuto soprattutto dai minerali di galena, è un metallo malleabile con un punto di fusione molto basso: utilizzato raramente per lavori di artigianato (suppellettili e candelabri, ben presenti a Populonia dal IV al II secolo a.C.), vi si fabbricavano proiettili per fionde, àncore e pesi, staffe per unire i blocchi nell’edilizia monumentale, condutture per l’acqua, ma anche statuette votive o laminette utilizzate per lanciare malefici (defixiones). L’argento, infine, ottenuto dagli stessi minerali piombiferi attraverso un procedimento chiamato coppellazione, è un metallo nobile e prezioso, impiegato soprattutto per la monetazione e la fabbricazione di ornamenti, vasellame da mensa e oggetti di arredo di elevata qualità, oltre a oggetti di alto artigianato e opere d’arte. Alessandra Casini

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SPECIALE • ETRUSCHI

GLI STRUMENTI DEL MINATORE Per distaccare porzioni di roccia contenenti il minerale, i minatori antichi utilizzavano attrezzi in prevalenza di ferro, le cui tracce di stacco sono riconoscibili sulle pareti dei cantieri e delle gallerie di coltivazione. L’abbattimento avveniva grazie a strumenti con manico in legno, soprattutto picchi e punteruoli battuti con la mazzetta: era però possibile anche l’impiego di utensili privi di manico, quali cunei e subbie. Attrezzi e metodo di abbattimento non sembrano modificarsi nel tempo, dal periodo etrusco fino al Medioevo: la morfologia degli strumenti è nota dall’iconografia di età romana, proveniente soprattutto dalla penisola iberica, dall’iconografia di età medievale e dalla manualistica mineraria del Cinquecento.

L’origine dello skarn e delle mineralizzazioni a solfuri è da ricondurre al magmatismo che 5 milioni di anni fa circa interessò tutto il Campigliese: l’intrusione di magmi a pochi chilometri di profondità ha portato alla formazione degli skarn e alla precipitazione dei solfuri di ferro, rame, zinco e piombo (con argento?). I corpi piú estesi di skarn e le

Non sono rari, tuttavia i ritrovamenti di punteruoli, picchi e mazzette all’interno di pozzi e gallerie, come testimoniano gli sporadici attrezzi rinvenuti in alcune miniere delle Colline Metallifere. Le tracce presenti sulle pareti permettono di riconoscere punte di forma conica e, piú spesso, piramidale, di varia grandezza, riconducibili all’uso del picco nei cantieri piú estesi, soprattutto per i lavori di sgrossamento e all’uso di mazzetta e punteruolo per lavori di precisione maggiore. L’impiego degli strumenti variava a seconda del lavoro

concentrazioni maggiori di metalli sono localizzati nell’area mineraria del Temperino-Lanzi e lí sono stati coltivati fino agli anni Settanta del Novecento. Le grotte miniera rientrano in tale contesto geologico, pur esibendo qualche differenza, oltre alle dimensioni ridotte e a concentrazioni in metalli molto inferiori: i giacimenti,

I MINERALI DEI MONTI DI CAMPIGLIA: LO SKARN I Monti di Campiglia sono famosi per gli skarn e per la grande varietà dei minerali presenti: skarn è un termine svedese (traducibile letteralmente con «ganga»), che indica una roccia costituita da Mineralizzazione a galena (solfuro di piombo) con quarzo (2 x 3 x 4 cm).

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silicati a grana grossa, associati a minerali economici come solfuri e ossidi. Lo skarn del Campigliese è formato essenzialmente da due minerali, l’hedenbergite e l’ilvaite: la prima forma dei cristalli allungati di colore verde scuro, dalla tessitura fibroso-raggiata, mentre la seconda forma cristalli piú tozzi, di colore nero, che diventano bellissimi prismi lucenti all’interno delle geodi con il quarzo. Allo skarn si associano, in vene o ammassi, solfuri come calcopirite, galena argentifera e sfalerite. Grazie alla circolazione di fluidi idrotermali a bassa temperatura o di acque meteoriche, i solfuri primari si sono alterati in minerali secondari come solfati, carbonati e ossidi-idrossidi, per formare i cosiddetti «cappellacci di

Un campione di skarn a hedenbergite e ilvaite, dalla Miniera del Temperino (20 x 10 cm).


da realizzare: i colpi sferrati per lo scavo di una galleria sono infatti piú sistematici e possono indicare una direzione di avanzamento e una rifinitura di ritorno. A prima vista, invece, risulta meno sistematico l’abbattimento in area di cantiere, per la necessità di seguire la vena di minerale piú promettente. Nelle vicine miniere di Massa Marittima e in molti lavori di età preindustriale in vari Paesi europei è attestato l’impiego del fuoco per facilitare l’abbattimento delle rocce incassanti: il metodo non sembra essere mai stato praticato nei Monti di Campiglia. Lungo le pareti vi sono talvolta nicchie artificiali di piccole dimensioni, utili per appoggiare le lucerne alimentate a olio, unica fonte di luce nell’oscurità del sottosuolo. Alessandra Casini

Nella pagina accanto: la traccia lasciata da un punteruolo o da un picco a punta conica. A destra: stele funeraria raffigurante un bambino con picco da minatore e cesto. Età romana. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

infatti, si sviluppano all’interno di un calcare massiccio piú o meno trasformato in marmo, spesso brecciato e sono composti da skarn a hedenbergite(?)-granato-ilvaite, fortemente alterato, a cui si associano ossidi-idrossidi di ferro (cosiddetti «brucioni») e mineralizzazioni a quarzo e solfuri di ferro e piombo (con argento?) e minerali secondari di ferro, piom-

alterazione», che costituiscono di solito la parte superiore dei depositi minerari. Troveremo cosí il piombo della galena nella cerussite, il rame della calcopirite nella malachite, nella crisocolla o nella campigliaite – minerale scoperto qui per la prima volta –, lo zinco della sfalerite nell’emimorfite e il ferro della pirite nella limonite e nella goethite, che formano spesso in superficie «brucioni» di colore ocra-nero, utili ai prospettori antichi per riconoscere la presenza di giacimenti a solfuri nel sottosuolo. In queste mineralizzazioni secondarie, alcuni studi preliminari hanno individuato la presenza di tennantite e tetraedrite, minerali che indiziano la presenza di argento. Luca Tinagli

bo, zinco, rame e probabilmente argento. Questi ultimi si trovano principalmente a contatto con i calcari, formando i «minerali verdi» all’interno delle fratture del marmo. La presenza e distribuzione dell’argento nei vari minerali e rocce non è ancora chiara, soprattutto nelle zone periferiche del bacino minerario campigliese: soltanto studi petrografici e

Buche al Ferro: mineralizzazione secondaria su marmo, formata da aggregati cristallini fogliacei di 1-2 mm di auricalcite (?) e sferule di rosasite (?), sopra una patina di ossidi-idrossidi di ferro.

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SPECIALE • ETRUSCHI

SEGUIRE IL FILONE... Condurre una ricerca all’interno di una miniera richiede il riconoscimento della successione delle fasi di estrazione e poi il loro inquadramento in una scala temporale. L’attività mineraria produce infatti unità stratigrafiche negative, distrugge i fronti di taglio piú antichi e ne crea di nuovi, con l’avanzamento nei cantieri e l’approfondimento dei pozzi. Per definire la cronologia di una miniera, occorre analizzare i metodi di coltivazione e di abbattimento. In età preindustriale, dal periodo etrusco fino almeno al Cinquecento, il metodo di coltivazione non viene mai modificato e consiste nel «seguire il filone», attraverso gallerie e pozzi scavati nella massa mineralizzata: questa tecnica prova la grande capacità del minatore antico di riconoscere la discontinuità delle formazioni rocciose e dei giacimenti, con interventi minimi di ampliamento degli spazi interni e di sistemazione dei collegamenti con la superficie, sempre dipendenti dall’entità e dall’assetto variabile del giacimento. In alcune miniere sono invece ben distinguibili le riprese dell’attività mineraria nel Cinquecento, che presentano gallerie piú grandi, ricavate non soltanto nella mineralizzazione, ma anche «a traverso banco», ovvero nella roccia incassante e messe in opera con una piú razionale attenzione all’organizzazione del

geochimici di dettaglio potranno far conoscere meglio la composizione mineralogica dei giacimenti delle grotte miniera e stabilire il loro interesse per i minatori di età antica.

NEL SOTTOSUOLO CON SPELEOLOGI E GEOLOGI Nell’affrontare lo studio di miniere frequentate in età preindustriale, del tutto prive di documenti di archivio che ne attestino le fasi evolutive, l’interazione tra le competenze archeologiche e geologiche è essenziale per una loro corretta interpretazione. I vuoti ipogei in corso di esplorazione costituiscono infatti le diverse parti di un vero organismo sotterraneo, la cui morfologia e la cui articolazione – formate da pozzi, gallerie, cantieri di colti104 a r c h e o

Sezione di un complesso minerario nella Valle in Lungo: il rilievo documenta la forma irregolare della mineralizzazione, coltivata «a seguire il filone».

vazione, scivoli e discenderie – sono state condizionate dalle tecniche estrattive e dalla strumentazione a disposizione delle antiche maestranze, ma anche dal contesto geomorfologico e giacimentologico. Ecco quindi che il riconoscimento delle diverse litologie della roccia incassante la mineralizzazione e il rilevamento spaziale dei loro contatti e della loro discontinuità, forniscono un riscontro essenziale per la descrizione dei morfotipi caratteristici della miniera e della sua organizzazione. L’identificazione delle specie minerali presenti nel giacimento e la loro associazione, insieme alla valutazione quantitativa del tenore in metalli, aiutano a comprendere e determinare l’importanza dei diversi siti per il prospettore antico.

Nella pagina accanto, in basso: Grotta miniera della Lucerna: lucerna frammentaria in vernice nera di manifattura populoniese, riferibile al II-I sec. a.C.


VASI E LUCERNE PER I MINATORI

Una galleria «traverso banco», cioè scavata nella roccia e non nella mineralizzazione: rarissima nelle miniere antiche, molto comune dal Cinquecento in poi.

cantiere. La polvere da sparo, introdotta in Italia alla fine del Cinquecento, ma adoperata nei Monti di Campiglia soltanto nell’Ottocento, modifica radicalmente i modi di coltivazione: il suo impiego è riconoscibile nelle tracce lasciate dai fori da mina, ottenuti con lunghe punte di ferro (i fioretti) che venivano battute con la mazza nella massa mineralizzata o nella roccia incassante, e successivamente riempiti con materiale esplodente. Alessandra Casini

Dal momento che i giacimenti sono tutti incassati in rocce carbonatiche, la presenza di speleotemi (concrezionamenti di minerali carbonatici, in genere carbonato di calcio, sotto varie forme come stalattiti, stalagmiti e colate) anche al di sopra delle superfici con tracce di scavo, può essere utile per fissare la cronologia di attività e di abbandono della coltivazione: a loro volta, i dati ottenuti possono essere confrontati con la cronologia dei reperti organici (soprattutto frammenti di legno e carboni) e della ceramica. Un ulteriore indizio è fornito dal riconoscimento delle tracce di utensili minerari e dalle direzioni di avanzamento dello scavo. Il piano di coltivazione finale, che riproduce con esattezza la forma, le modalità e l’anda-

L’esplorazione delle nuove miniere ha prodotto il ritrovamento di carboni a grande profondità, probabilmente residuali dalla combustione di torce o di punti di fuoco, spesso associati a forme ceramiche dei periodi etrusco e romano, funzionali alla conservazione e al consumo di alimenti, alla conservazione di acqua e vino, all’illuminazione degli ambienti sotterranei. È interessante osservare come forme vascolari analoghe siano presenti anche nelle discariche del materiale sterile, di solito localizzate all’ingresso della miniera: mentre la ceramica rinvenuta all’interno dei cantieri di coltivazione e nelle gallerie, sempre in frammenti di dimensioni cospicue, sembra essersi conservata nel luogo di impiego per conservare e consumare alimenti e bevande, i reperti raccolti nelle discariche potrebbero essere stati trasportati in superficie già allo stato di rottami nei contenitori in legno o nei sacchi in pelle o tessuto, insieme al minerale estratto. Di certo non era semplice mantenere a lungo e in buone condizioni contenitori cosí fragili a profondità elevate e in situazioni ambientali senza dubbio difficili. La ceramica permette di inquadrare con sicurezza la cronologia di coltivazione della miniera: sebbene un gran numero di frammenti non siano diagnostici, le caratteristiche dell’impasto argilloso e della lavorazione consentono almeno un inquadramento generale. Per la ceramica etrusca, sono identificabili in via preliminare le olle ovoidi in impasto grezzo con bordo ingrossato, forse le scodelle in impasto piú raffinato e le ciotole in ceramica depurata, ascrivibili a un periodo compreso tra la fine del VI e tutto il IV secolo a.C. A un orizzonte nettamente posteriore, genericamente collocabile a partire dal III, ma, con maggiore incidenza, dal II secolo a.C., risalgono alcuni reperti che, con buona probabilità, è possibile ascrivere al periodo romano. L’elemento piú diagnostico è senz’altro la lucerna frammentaria in vernice nera di manifattura populoniese, che sembra far parte della famiglia di quelle dette «cilindriche», inquadrabili tra il II e il I secolo a.C. Vi sono, poi, molti frammenti di anfore vinarie romane di età tardo-repubblicana, databili entro il II secolo a.C. o, al piú tardi, nel corso del secolo successivo. Il quadro, per il periodo romano, è completato da frammenti di olle o pentole, oppure di tegami da fuoco. Da questi pochi elementi scaturiscono, in ogni caso, domande affascinanti: i minatori disponevano di una sorta di elementare servizio di cucina in prossimità degli ingressi? Stante il cospicuo dispendio di energie fisiche e il conseguente fabbisogno calorico, i minatori bevevano vino regolarmente e in quantità rilevanti, considerando che tale bevanda alcolica era l’unico modo per assumere zuccheri in maniera significativa? Franco Cambi e Andrea Zifferero a r c h e o 105


SPECIALE • ETRUSCHI

mento delle attività estrattive, è sempre assicurato da un supporto insostituibile quale il rilievo topografico, essenziale per realizzare le ricostruzioni 3D delle grotte miniera documentate (vedi box alle pp. 108-109).

IL COMBUSTIBILE PER I FORNI: PRIMA IL LECCIO E POI L’ERICA I reperti di natura organica provenienti da un contesto archeologico, come le paleofaune e i resti archeobotanici, sono solitamente utili per ricostruire il passato ambientale di un determinato spazio geografico. Tuttavia, a questa operazione concorrono i resti fossili e subfossili di organismi viventi che attestano l’esistenza di aspetti ecologici anche molto diversi da quelli attuali e sono essenziali per identificare i cosiddetti paleoambienti. Nel caso in esame, particolare importanza assumono i resti di carboni (probabilmente testimonianti l’uso di torce o la presenza di fuochi), rinvenuti in discreta quantità all’interno delle grotte miniera. Nel periodo etrusco (VI-IV secolo a.C.), l’area di Monte Calvi e della Valle delle Rozze doveva essere caratterizzata da un clima di tipo subatlantico, leggermente piú fresco di quello attuale e tale da favorire lo sviluppo di foreste. Un quadro verosimile degli ambienti naturali del tempo può essere desunto soprattutto dalle attività di metallurgia estrattiva (cioè il trattamento con il fuoco dei minerali per ottenere metalli di vario genere), emerse dagli scavi nelle zone limitrofe. Nel sito di Rondelli, a Follonica, è stato indagato un impianto siderurgico attivo nel periodo etrusco, con forni ancora contenenti resti di carboni: la loro analisi, condotta in parallelo allo studio dei granuli di polline provenienti dallo stesso scavo e da siti vicini, ha permesso di ricostruire la vegetazione presente al momento dell’abbandono dei forni e, con essa, i principali tratti ecologici dell’ambiente locale. Alla luce di questi dati, la vegetazione del periodo etrusco doveva essere formata da foreste di leccio riconducibili a quelle attuali, con presenza caratteristica di laurotino (Viburnum tinus) e di erica (Erica arborea). L’attestazione dell’erica nella grande maggioranza dei carboni di Rondelli fa intuire anche il fortissimo impatto ambientale che aveva la siderurgia etrusca sull’ambiente locale. Le boscaglie di erica e corbezzolo (Arbutus unedo) crescono infatti dove le foreste di leccio hanno subito tagli ripetuti e incendi; il largo impiego di erica fa quindi intuire come le primarie foreste di leccio (che fornisce un legno dalle capacità termiche superiori rispetto ad altre specie), fossero state sfruttate anche in maniera non sostenibile, determinando un paesaggio molto piú brullo rispetto a quello attuale e caratterizzato da una macchia mediterranea piú bassa. Antonio Borzatti von Löwenstern 106 a r c h e o

UN PATRIMONIO FRAGILE Nonostante sia noto quasi soltanto a speleologi e archeologi minerari, il patrimonio delle miniere della Valle delle Rozze e della Valle in Lungo presenta accentuati caratteri di fragilità, dal momento che è esposto al rischio dell’espansione delle attività di cava nel Comune di San Vincenzo; un rischio che ha portato, intorno al 1936, alla distruzione del vicino castello medievale di Biserno per consentire l’ampliamento della Cava Solvay e, sempre nell’area della stessa Cava, al recupero, effettuato tra il 1991 e il 1993 sotto controllo archeologico, dei resti dell’insediamento metallurgico eneolitico, con successiva fase di occupazione nell’età del Bronzo Finale. Nel 1997 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha posto per la prima volta il vincolo archeologico, ai sensi della Legge 1089/1939, a due coltivazioni antiche, la Buca del Biserno e la Miniera dei Manienti, nei pressi della Cava Solvay. Poiché il protrarsi delle attività di cava, assicurate da concessioni spesso di lunga durata, ha a lungo condizionato l’organizzazione e la circolazione dei visitatori all’interno del Parco Archeominerario di San Silvestro, nel 2019 il Ministero ha messo a punto una forma di vincolo (ai sensi del Decreto Legislativo 42/2004, noto come Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), dedicato in modo specifico alla tutela del sito minerario inteso come sistema di testimonianze di carattere storico, archeologico, architettonico, naturalistico e geologico di notevole interesse sia per la storia e tecnica delle attività metallurgiche, sia per la memoria collettiva locale, partendo dall’eccezionale patrimonio conservato nel Parco. Tale provvedimento di tutela parte dall’identificazione e dal riconoscimento di un sito minerario, costituito da spazi ipogei e da emergenze di superficie a questi collegati, che sono state definite come unità topografiche minerarie: ciascuna di esse è formata da vari punti di interesse, tra i quali accessi di gallerie e pozzi, aree di studio geologico, residui di lavorazioni antiche, nonché edifici


RISALIRE AI MINERALI ESTRATTI: UN TRAGUARDO IMPOSSIBILE? In che modo si può risalire al minerale estratto da una miniera in apparenza «esaurita»? In genere, le miniere antiche conservano sempre resti delle mineralizzazioni estratte. Dal rilevamento geologico, applicabile anche in tali contesti, si può accertare la natura delle rocce incassanti e delle mineralizzazioni e la loro disposizione nello spazio tridimensionale, documentato dalla disposizione dei vuoti causati dall’estrazione. Di solito, però, il rilevamento geologico richiede la distruzione di parte degli affioramenti rocciosi sulle pareti della miniera che, nel caso di episodi di coltivazione antichi, rappresentano prima di tutto un bene archeologico da tutelare. Prima di agire in modo incontrollato, si può procedere seguendo precisi criteri di metodo, analizzando: a) la discarica a bocca di miniera, formata da rocce estratte in profondità contenenti ancora, seppure in minima parte, i resti della mineralizzazione coltivata; b) le superfici «pulite» all’interno di pozzi e gallerie,

che permettono di distinguere nettamente le rocce e/o le mineralizzazioni presenti; c) le superfici secondarie (dovute a crolli successivi), se presenti, da cui è possibile campionare rocce di provenienza certa (piú sicure di quelle prelevate in discarica); d) limitati settori della miniera che possono essere sacrificati per un campionamento in situ. Applicando questi accorgimenti, si potrà comunque ricostruire la geometria del giacimento e collezionare un set di campioni da sottoporre alle analisi mineralogico-petrografiche, per confrontarli poi con i dati geochimici delle scorie, dei lingotti e/o di manufatti locali o di origine esterna, al fine di ricostruire la provenienza e la circolazione dei metalli. I risultati ottenuti permetteranno una migliore comprensione delle mineralizzazioni, anche su scala microscopica. Luca Tinagli

Nella pagina accanto: un bosco nei pressi del vicino Parco di Montioni. In basso: Grotta miniera della Lucerna: fronte di taglio di cantiere che si ricongiunge a un altro cantiere, con la tecnica di coltivazione «a seguire il filone». In primo piano, le tracce degli attrezzi in parete.

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SPECIALE • ETRUSCHI

e manufatti connessi. Dal momento che si tratta di conservare beni all’interno di un perimetro definito, si è reso necessario applicare criteri particolari per circoscrivere i siti minerari, individuati nella continuità tra suolo e sottosuolo, dove le gallerie sono in relazione anche fisica con le emergenze presenti in superficie: ne è derivata un’istruttoria approfondita, condotta dall’ente promotore, la Società dei Parchi della Val di Cornia. Nel caso di siti minerari con unità topografiche non collegate tra loro, si è fatto ricorso a un criterio di prossimità logica, fisica, geografica e storica tra le varie emergenze (pozzi e infrastrutture, ricerche minerarie, discariche del minerale estratto, cavità coltivate in un arco di tempo specifico) e le masse mineralizzate nel sottosuolo. Applicando i criteri suddetti, è stato possibile riconoscere 14 siti minerari tra i Comuni di Campiglia Marittima e San Vincenzo, dei quali i 7 ricompresi nell’area del Parco Archeominerario di San Silvestro sono stati perimetrati e sottoposti a tutela. È evidente come i nuovi provvedimenti possano rappresentare un’ulteriore forma di protezione per questi complessi, che si aggiunge alle forme di registrazione (e censimento ai fini della conservazione e della valorizzazione) delle grotte e delle grotte miniera, attraverso il Catasto regionale delle grotte e delle aree carsiche della Toscana, istituito dalla Regione Toscana con la Legge Regionale 20/1984. In conclusione, i siti minerari costituiscono documenti di straordinario valore per la conoscenza dei caratteri storici, archeologici, architettonici, naturalistici e geologici di un’area a vocazione mineraria, in quanto espressione della storia delle tecniche estrattive e testimonianza della memoria collettiva dei minatori che vi hanno lavorato, dall’antichità fino a un passato molto recente. Questo contributo deve molto ai soci del Gruppo Speleologico Archeologico Livornese, che hanno contribuito dal 1984 all’esplorazione e alla documentazione delle grotte miniera dei Monti di Campiglia: particolare gratitudine va a Giulio Della Croce, Roland Doja, Eleonora Pecunioso, Gianluca Salvadori, Nicola Spagnoli e Davide Viola, per l’impegno profuso nelle ricerche recenti. Le tavole ricostruttive delle attività minerarie sono state realizzate da Rossella Faleni. 108 a r c h e o

IL RILIEVO ARCHEOMINERARIO: TECNICA, FINALITÀ E STRUMENTI Il rilievo di ambienti ipogei, quali grotte e miniere antiche, presenta difficoltà maggiori rispetto alla topografia di superficie. Dovendo impiegare strumenti piú semplici, quali bussola, inclinometro e rotella metrica invece della ingombrante stazione totale, la cartografia speleologica offre di solito precisione e accuratezza inferiori alle cartografie del suolo. Solo in tempi recenti, nuovi e piú versatili strumenti hanno consentito di produrre rilievi con precisione e accuratezza decisamente maggiori. Il rilievo archeominerario in 2D e in 3D è essenziale per comprendere il metodo di coltivazione di una miniera, individuarne gli spazi funzionali, l’articolazione interna, e quindi la struttura del giacimento; serve inoltre per documentare e mettere in pianta e sezione le tracce di attrezzi sulle pareti, evidenze quali i risparmi di minerale sull’orlo dei pozzi, destinati a strutture di sostegno o per far passare corde, gli alloggi scavati nella roccia per ospitare strutture in legno come argani e scale e gli incavi per le lucerne, i gradini di scalinate, i «traverso banco» (cioè le gallerie scavate nella roccia incassante), le varie morfologie dei cantieri e dei fronti di taglio, la posizione dei reperti ceramici e infine la presenza di ripiene, costituite da cumuli di roccia sterile, privi di minerale di interesse per il minatore antico e quindi lasciati nel sottosuolo. Data la prevalente forma verticale delle miniere in esame, una parte consistente delle operazioni di rilievo avviene «in corda»: è necessario, perciò, disporre di strumenti impermeabili e robusti, ma soprattutto maneggevoli e facilmente trasportabili. In basso: il DistoX, strumento laser essenziale per il rilievo speleologico. Nella pagina accanto: rilievo topografico (pianta e sezione) della Grotta miniera della Lucerna.


PER SAPERNE DI PIÚ

Lo strumento da rilievo speleologico piú usato oggi è un distanziometro laser che integra le funzioni di distanziometro e inclinometro con una bussola digitale (DistoX modificato), per acquisire e memorizzare in una sola operazione i dati necessari. Il rilievo avviene attraverso la costruzione di un poligono che utilizza segmenti di lunghezza, inclinazione e orientamento noti, i cui capisaldi vengono fissati durante la progressione del lavoro. Ogni caposaldo potrà essere arricchito da ulteriori misure per restituire al meglio il volume della cavità e posizionare gli elementi piú significativi (come il ritrovamento di frammenti ceramici e di carboni). La poligonale cosí ottenuta potrà quindi essere trasformata, direttamente sul posto, in una bozza di rilievo attraverso un tablet collegato al DistoX modificato. Un rilievo di questo tipo potrà essere trasformato in un’immagine tridimensionale, che consentirà di riprodurre in dettaglio tutti i particolari essenziali per uno studio di archeologia mineraria. Giovanna Cascone, Alessandra Casini e Luca Tinagli

Andrea Camilli, La lavorazione del ferro a Populonia. Considerazioni topografiche e cronologiche, in Res Antiquae 13, 2016, pp. 1-22; Andrea Camilli, Populonia tra necropoli e scorie; appunti topografici sulla conca di Baratti, in Rassegna di Archeologia 26, 2018, pp. 87-132; Franco Cambi, Fernanda Cavari, Cynthia Mascione (a cura di), Materiali da costruzione e produzione del ferro. Studi sull’economia populoniese fra periodo etrusco e romanizzazione, Edipuglia, Bari 2009; Giovanna Cascone, Alessandra Casini, Pre-Industrial Mining Techniques in the Mountains of Campiglia Marittima (Livorno), in Sarah Milliken, Massimo Vidale (eds.), Craft Specialization: Operational Sequences and Beyond, Papers from EAA Third Annual Meeting at Ravenna 1997, Volume IV, Archaeopress, Oxford 1998, pp.149-151; Giovanna Cascone, Luca Tinagli, Il sistema minerario di età pre-industriale della Valle in Lungo (San Vincenzo, Livorno), in Quaderni del Museo di Storia Naturale di Livorno 26, 2015-2016, pp. 101-116; Andrea Dini, Silvia Guideri, Paolo Orlandi (a cura di), Miniere e minerali del Campigliese. Il mondo sotterraneo del Parco di San Silvestro, Gruppo Mineralogico Lombardo/I Parchi della Val di Cornia, Milano 2013; Giorgia Di Paola, Populonia e il suo territorio: strategie difensive, risorse. Trasformazione del paesaggio, in Rassegna di Archeologia 26, 2018, pp. 273-292; Fabio Fedeli, Attilio Galiberti (a cura di), Metalli e metallurghi della Preistoria. L’insediamento eneolitico di San Carlo-Cava Solvay, Tagete Edizioni, Pontedera 2016; Roberto Farinelli, Le miniere di Rocca San Silvestro nella prima età moderna. Organizzazione produttiva, cultura materiale, tecniche estrattive e metallurgiche nell’impresa di Cosimo I, Nuova Immagine Edizioni, Siena 2017; Andrea Zifferero, Attività estrattive e metallurgiche nell’area tirrenica. Alcune osservazioni sui rapporti tra Etruria e Sardegna, in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l’età del Bronzo Finale e l’Arcaismo, Atti del XXI Convegno di Studi Etruschi ed Italici, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2002, pp. 179-212. a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

SAPIENTE E SOVVERSIVO TAUMATURGO ECCELLENTISSIMO, ASCLEPIO OSÒ ANDARE OLTRE LA PRATICA MEDICA, CON UN’INIZIATIVA CONTRO L’ORDINE NATURALE, CHE PAGÒ A CARO PREZZO...

L’

estrema perizia medica di Asclepio, acquisita grazie agli insegnamenti del suo pedagogo, il centauro Chirone – celebre educatore di dèi ed eroi –, e trasmessa dal sangue paterno quale figlio di Apollo che, tra i suoi attributi, ha quello di essere invocato anche come Medicus, lo rese tanto sapiente da riuscire a resuscitare i morti. Nel tempo, il tema dello scienziato che vuole superare se stesso oltrepassando i limiti imposti dalla natura, dall’etica e dal cielo divenne immortale. Basti pensare al romanzo Frankenstein o il Prometeo moderno (1818) di Mary Shelley, nel quale il povero mostro nasce addirittura dall’assemblaggio di parti di cadaveri e il cui orrore è ben descritto dall’autrice: «Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante, perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo». Come tramandano le fonti, Asclepio effettivamente riportò in

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vita un morto, sebbene su invito – irrifiutabile – di una divinità pericolosa quale Artemide, sua zia e anche – in una versione dell’evento – colei che gli uccise con una freccia micidiale la madre Coronide, per punirla di aver tradito suo fratello Apollo.

CACCIATORE INDEFESSO Il «fortunato» risuscitato è Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene, e della regina delle Amazzoni, Ippolita (secondo una versione), dalla quale prese il nome. Alla morte della moglie, Teseo si risposò con la bella

Fedra. Ippolito non aveva interesse per l’amore e si dedicava esclusivamente alla caccia e ad Artemide, mantenendosi come lei vergine e addirittura irridendo Afrodite e le sue arti, qualificandola come la peggiore delle dee. Tale atteggiamento – peraltro estremamente sanzionabile come atto di superbia dell’uomo – irritò la dea dell’amore, che predispose una crudele vendetta, coinvolgendo una donna incolpevole, Fedra appunto. Per volere della dea, la matrigna di Ippolito venne presa da una folle passione per il giovane, il quale respinse nettamente le sue profferte amorose, che avrebbe comunque rifiutato, se anche non fosse stato il suo figliastro. Impazzita per l’amore impostogli dalla dea e per la vergogna di quanto provato, Fedra denunciò il giovane a Teseo, accusandolo falsamente di averla violentata, e quindi si uccise. Teseo allora maledisse ed esiliò Ippolito, che abbandonò la città con un carro, in gran furia e stravolto per la terribile e ingiusta accusa; lungo il percorso comparve un mostro marino in forma di toro, frutto della maledizione del padre, che fece imbizzarrire i cavalli: il carro si


In questa pagina, dall’alto: Asclepio riporta in vita Ippolito e Fedra insidia Ippolito, pitture murali eseguite da Taddeo Kuntze. 1770-1771. Ariccia, Museo di Palazzo Chigi. Nella pagina accanto: Morte di Ippolito (o Caduta di Fetonte), medaglia in bronzo del Moderno (al secolo, Galeazzo Mondella). Fine del XV-inizi del XVI sec. Washington, National Gallery of Art. ribaltò e Ippolito cadde e sbatté violentemente contro una roccia, straziato dall’impatto. Morente, fu trasportato aTrezene, patria di Teseo, al quale Artemide rivelò come si erano svolti i fatti e proclamò l’innocenza del giovane, al quale il padre chiese allora perdono.

RE DEGLI ARICI E qui entra in gioco Asclepio: secondo mitografi come Igino e Apollodoro, Artemide invitò allora il nipote medico a richiamare in vita il suo pupillo, che fu resuscitato grazie all’uso sapiente di erbe miracolose. Ippolito decise comunque di abbandonare la patria funesta e, per volere di Artemide, giunse nel Lazio meridionale, dove divenne re degli Arici di Aricia (Pausania, Periegesi, 2.27.4), istituendo giochi sacri in onore della dea. Quindi fu accolto da Artemide in un suo luogo di culto prendendo il nome di Virbio, trasformato in un dio minore celato nei boschi aricini sacri a Diana, il lucus Dianius con il suo lago (Ovidio, Metamorfosi, XV, 536-546). Asclepio, che aveva risuscitato il giovane per volere di una dea, ma ponendosi cosí contro l’ordine naturale delle cose instaurato da Zeus, conobbe per il suo ardire la punizione del dio, che lo fulminò, uccidendolo. Allora intervenne Apollo che intercedette per il figlio, trasformato nella costellazione dell’Ophiuchus, e divenendo cosí una tra le piú venerate divinità del mondo antico.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Andrea Augenti

SCAVARE NEL PASSATO La grande avventura dell’archeologia Carocci editore, Roma, 398 pp., ill. b/n 26,00 euro ISBN 978-88-290-0290-0 www.carocci.it

Dal momento che nel libro si evoca spesso Sherlock Holmes, si potrebbe dire che Andrea Augenti sia tornato sul luogo del delitto… Ma possiamo anche aggiungere che si tratta di un crimine innocuo e tutt’altro che riprovevole, anche perché, 112 a r c h e o

rispetto al precedente A come archeologia (recensito in «Archeo» n. 399, maggio 2018; anche on line su issuu. com), questo Scavare nel passato ha un respiro piú ampio e riprende, arricchendola, la formula sperimentata in quella occasione. L’autore offre la chiave di lettura dell’opera nell’Introduzione, quando scrive che «l’archeologia altro non è se non un modo di fare storia, concentrato sugli aspetti materiali delle vicende umane»: un’affermazione forse scontata per gli addetti ai lavori, ma certamente utile per

ribadire quanto lo studio del passato e delle sue testimonianze sia tutto, fuorché una caccia al tesoro. Alla definizione di questa e altre linee guida seguono i tre capitoli nei quali si articola la sezione dedicata al metodo, che illustrano, rispettivamente, la storia e i principi dello scavo stratigrafico, della ricognizione di superficie e della classificazione. Momenti cruciali della ricerca, alla cui canonizzazione si è tuttavia giunti in tempi relativamente recenti, dopo che, almeno fino all’Ottocento, l’archeologia non si era piú di tanto distinta dall’antiquaria. E si scopre cosí che concetti oggi ritenuti scontati furono il frutto di innovazioni letteralmente rivoluzionarie, come nel caso della prima tripartizione delle epoche storiche introdotta dal danese Christian Jürgensen Thomsen (età della Pietra, del Bronzo e del Ferro), oppure del metodo di indagine sistematica applicato da Mortimer Wheeler, l’archeologo inglese al quale si deve il primo manuale di scavo stratigrafico mai pubblicato, Archaeology from the Earth (Archeologia dalla terra). Parafrasando la piú celebre battuta sull’allunaggio, si potrebbe dire che queste e altre intuizioni furono «piccoli passi per l’uomo,

ma balzi giganteschi per l’archeologia». Dopo aver passato in rassegna gli attrezzi del mestiere, materiali ma soprattutto concettuali, Augenti passa a illustrare le scoperte che ritiene piú significative nei diversi campi della disciplina, a partire dalla preistoria. E, fin dall’inizio, emerge uno dei tratti distintivi del suo libro, vale a dire il costante richiamo ai protagonisti delle vicende di volta in volta ripercorse e alle loro personalità: una scelta che non solo rende il giusto merito agli artefici di ritrovamenti in molti casi epocali, ma contribuisce alla godibilità della lettura. Studiosi che hanno fatto la storia dell’archeologia ci vengono mostrati anche senza i paludamenti dell’accademia, come quando vengono evocati il rammarico di Albert Zink per aver sottoposto la mummia di Ötzi a ogni genere di analisi – dimenticano che di un cadavere pur sempre si tratta – o l’eccitazione e l’emozione di Massimo Pallottino di fronte alle lamine d’oro di Pyrgi. L’autore si muove con disinvoltura fra ambiti molto diversi e molto lontani, sia nel tempo che nello spazio – da Lucy all’esercito di terracotta di Xi’an, da Pompei a Sutton Hoo, solo per citare alcuni dei casi affrontati –, riuscendo sempre a trasmettere l’importanza oggettiva delle scoperte compiute,


ma senza abbandonarsi al sensazionalismo, come del resto è lecito chiedere a un archeologo. E, in chiusura, riserva al lettore uno dei capitoli piú riusciti e significativi: quello in cui dà conto dell’UMP, l’Undocumented Migration Project. Si tratta di un progetto ideato e condotto sul campo da Jason De León, il quale ha applicato l’approccio dell’archeologo allo studio degli oggetti disseminati nel deserto dai migranti che cercano di raggiungere gli USA dal Messico. Al di là delle osservazioni tipologiche, si è trattato di un’operazione dal grande valore sociale e politico, poiché ha contribuito al tentativo di non far passare sotto silenzio un dramma che si consuma da anni. E dimostra, una volta di piú, quanto l’archeologia possa essere una lente straordinariamente efficace anche per guardare al presente. Stefano Mammini Umberto Pappalardo, Sybille Galka, Amedeo Maiuri, Carlo Knight, Lucia Borrelli, Massimo Cultraro

HEINRICH SCHLIEMANN A NAPOLI con una nota di Paolo Giulierini, Francesco D’Amato editore, Salerno, 260 pp., figg. n.t. 16,00 euro ISBN 978-88-5525-052-8 www.damatoeditore.it/

Il libro ricostruisce a

piú mani aspetti inediti o poco esplorati del particolare rapporto che lega a Napoli il grande scopritore di Troia e della civiltà micenea. Nel corso dei frequenti viaggi per il mondo, Heinrich Schliemann visitò spesso la città partenopea e qui anzi morí, nel Natale del 1890, colto da malore mentre si preparava a imbarcarsi ancora una volta per Atene. A Napoli l’archeologo tedesco strinse molte amicizie e vi incontrò, per esempio, il direttore del Museo Archeologico Nazionale Giuseppe Fiorelli, che aveva già conosciuto da Ispettore a Pompei e che poi vide anche a Roma, quale Direttore Generale delle Antichità del nuovo Regno d’Italia. I due studiosi ebbero un ripetuto scambio di corrispondenza; a un certo punto, pensarono anche di trasferire a Napoli il famoso «tesoro di Priamo», ritrovato nel 1873 nel corso degli scavi sulla collina di Hissarlik e presto oggetto di

controversie e contese. Nella città partenopea Schliemann conobbe pure il medico e antropologo Giustiniano Nicolucci, fondatore della scuola italiana di antropologia. La loro amicizia favorí la creazione di una grande collezione litica, che a Napoli oggi espone un prezioso campionario di utensili provenienti dagli strati piú antichi di Troia (3000 a.C. circa). Nei numerosi carteggi d’archivio utilizzati per comporre questo libro, si scoprono molti elementi di dettaglio nella biografia di questo personaggio, dapprima povero e oscuro figlio di un pastore protestante, poi commerciante ricchissimo, infine celebre e stimato antichista: «l’ultimo grande romantico dell’archeologia», secondo la definizione di Amedeo Maiuri. Si evoca inoltre l’atmosfera degli scambi scientifici tipici degli studiosi europei alla fine dell’Ottocento e si recuperano, infine, testimonianze concrete su vari elementi della politica culturale italiana post-unitaria, nel piú ampio contesto internazionale, e mediterraneo in specie. A chiusura del volume è riprodotta l’edizione dell’epistolario di Giuseppe Fiorelli realizzata nel 1927 da Domenico Bassi e ormai introvabile, insieme alle trascrizioni dei diari di viaggio napoletani

dello Schliemann, i cui originali sono custoditi presso l’American Academy di Atene. Sergio Ribichini Nicola Mancassola (a cura di)

IL CASTELLO DI MONTE LUCIO: LA CHIESA E LA NECROPOLI All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 230 pp., ill. b/n e col. 40,00 euro ISBN 978-88-7814-942-7

www.insegnadelgiglio.it

Monte Lucio è il piú piccolo dei quattro castelli del Reggiano che ebbero un ruolo importante nella storia del territorio, soprattutto al tempo di Matilde di Canossa e il cui ricordo è vivo nel nome del Comune di Quattro Castella. Il sito è stato oggetto di campagne di scavo condotte nel 2011 e nel 2012, delle quali il volume costituisce la pubblicazione, inquadrando i risultati delle indagini nel piú ampio contesto storico del Medioevo e integrandoli con i dati d’archivio. S. M. a r c h e o 113


presenta

GUELFI E GHIBELLINI

Una rivalità che ha fatto storia

Perché si dice «guelfo» e «ghibellino»? E perché quel binomio continua a essere d’uso comune anche a distanza di molti secoli da quando fece la sua prima comparsa? Da questi interrogativi prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che rilegge ed esamina uno dei fenomeni che piú hanno segnato la vita politica dell’età di Mezzo, in Italia innanzitutto, ma non solo. Una contrapposizione ideologica che non si limitò allo scontro dialettico, ma prese le forme di un vero e proprio conflitto, scandito da alcuni dei fatti di sangue piú cruenti della storia medievale. Un esito, quest’ultimo, che non deve sorprendere, poiché quella che, all’inizio, poteva sembrare una rivalità fra le famiglie piú in vista di alcune fra le maggiori città italiane – Firenze su tutte – assunse ben presto i contorni di un’autentica guerra fra i poteri forti del tempo: l’impero e la Chiesa. Non a caso, quindi, la lotta tra la fazione guelfa e quella ghibellina ha visto coinvolti tutti i personaggi di maggior spicco dell’epoca, compreso, fra gli altri, Dante Alighieri, che in piú d’una delle sue terzine evocò i fatti dei quali era stato testimone, nonché vittima. Un racconto avvincente, insomma, che degli eventi salienti offre chiavi di lettura inedite e affascinanti.

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