Archeo n. 444, Febbraio 2022

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2022 SCIENZA E SOCIETÀ PALAFITTE DI LUCONE

LAZIO

RELIGIONE NELL’ANTICO IRAN SPECIALE HATTUSA

Mens. Anno XXXVIII n. 444 febbraio 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

CATACOMBE DI NEPI

GLI ANTICHI E LA FIDUCIA NELLA SCIENZA LE CATACOMBE DI NEPI LOMBARDIA

VITA QUOTIDIANA AL TEMPO DELLE PALAFITTE LUOGHI DEL SACRO

NEI GRANDI SANTUARI DELL’ANTICO IRAN

HATTUSA

NUOVE SCOPERTE NELLA CAPITALE DEGLI ITTITI

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 FEBBRAIO 2022

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ARCHEO 444 FEBBRAIO

L’INTERVISTA

€ 6,50



EDITORIALE

I TORNANTI DELLA LIBERTÀ Nell’intervista in apertura di questo numero, lo storico della filosofia antica Giuseppe Cambiano accenna alla generale indifferenza circa le potenziali conseguenze prodotte dalla repentina evoluzione e diffusione di dispositivi tecnologici ritenuti oggi indispensabili. E sottolinea quanto l’opinione generale riservi una simile disattenzione anche alla ricerca scientifica, salvo ricredersi in frangenti quali l’emergenza sanitaria che ancora connota la nostra quotidianità, aprendo, al contempo, una discussione – rumorosa quanto impropria – sulle «restrizioni» imposte alla libertà proprio dagli strumenti messi a disposizione dalla ricerca. Di certo, suggerisce Cambiano, la questione del rapporto tra conoscenza scientifica (e tecnologica) e sapere diffuso – tra scienza e società – informerà la nostra esistenza futura in maniera sempre piú rilevante, al di là e oltre i suoi risvolti cronachistici… Quanto l’innovazione tecnologica, oltre ad aprirci varchi per il futuro, rappresenti anche un formidabile strumento per l’esplorazione del passato, è dimostrato dalle indagini svolte da un team internazionale nel sito di Hattusa, capitale degli Ittiti. Ce ne riferisce Massimiliano Marazzi nelle pagine dello speciale. Ed è emozionante leggere come strumenti quali la scansione laser, le riprese stereofotografiche, l’ortofotogrammetria ottenuta mediante l’impiego di un drone, riescano non solo a «ricreare» (e a salvare per sempre) superfici e contorni di antichi rilievi rupestri altrimenti votati all’oblio, ma anche a scoprire, per la prima volta, messaggi che il tempo aveva reso invisibili agli archeologi impegnati, sin dai primi dell’Ottocento, nell’esplorazione del sito. Auguriamoci, dunque, che scienza e tecnologia procedano lungo il loro percorso virtuoso, consentendo a tutti di assaporare, nuovamente e presto, la libertà di visitare (e non solo «virtualmente»!) quei luoghi cosí pieni di fascino. Poche esperienze, infatti, eguagliano la suggestione di un viaggio archeologico, come ci conferma Marta Rivaroli: nel corso delle sue indagini sui luoghi sacri dell’antica Persia (vedi alle pp. 66-83), la studiosa percorre il tracciato di una via carovaniera attraverso le montagne del Zagros. E ricorda come «tornanti e strade ripide fanno sí che la velocità sia ridotta, tanto da poterci immaginare a dorso di cammello o di cavallo e contemplare il cambiamento del paesaggio, trasformando questo percorso in un itinerario senza tempo». Andreas M. Steiner

Hattusa. La ricostruzione delle mura di fortificazione della Città Bassa.


SOMMARIO EDITORIALE

I tornanti della libertà

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCAVI I secoli di Patavium 6 di Giampiero Galasso

SCOPERTE Ibridi di successo PASSEGGIATE NEL PArCo Il piú celebre tra i fuggiaschi

8 10

di Daniele Fortuna, Sandra Gatti

RECUPERI Traffico... ferroviario ALL’OMBRA DEL VULCANO Intelligenza artificiale e restauri «impossibli»

12

IN DIRETTA DA VULCI Archeologia in passerella

SCAVI 20

di Carlo Casi

A TUTTO CAMPO Monti Aurunci: un passato da scoprire

Scene di vita sul lago scomparso

46

di Cristina Ferrari

22

di Federico Saccoccio

MUSEI Il segreto dell’elmo ARCHEOFILATELIA Palafitte e case lacustri

24 26

di Luciano Calenda

L’INTERVISTA

46

«Basta che tu disprezzi ragione e scienza... e ti avrò in mio potere» 32

ARCHEOLOGIA CRISTIANA

incontro con Giuseppe Cambiano, a cura di Silvia Camisasca

di Stefano Francocci

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Nella grotta delle sante reliquie

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di Alessandro Mandolesi

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ARCHEO 444 FEBBRAIO

€ 6,50

www.archeo.it

di Alessandra Ghelli

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IN EDICOLA IL 9 FEBBRAIO 2022

SCOPERTE Cacciatori, ma non troppo FRONTE DEL PORTO La tutela scende sott’acqua

Presidente

2022 SCIENZA E SOCIETÀ

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

L’INTERVISTA

GLI ANTICHI E LA FIDUCIA NELLA SCIENZA

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

LAZIO

Mens. Anno XXXVIII n. 444 febbraio 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE HATTUSA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

RELIGIONE NELL’ANTICO IRAN

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

CATACOMBE DI NEPI

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Federico Curti

PALAFITTE DI LUCONE

Anno XXXVIII, n. 444 - febbraio 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

In copertina i resti della ziqqurat di Choga Zanbil (Iran), l’esempio piú grande e meglio conservato di questo tipo di monumenti al di fuori della Mesopotamia.

LE CATACOMBE DI NEPI LOMBARDIA

VITA QUOTIDIANA AL TEMPO DELLE PALAFITTE LUOGHI DEL SACRO

NEI GRANDI SANTUARI DELL’ANTICO IRAN

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HATTUSA

Comitato Scientifico Italiano

NUOVE SCOPERTE NELLA CAPITALE DEGLI ITTITI

27/01/22 15:48

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Silvia Camisasca è giornalista. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro Conti è ricercatore in etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa. Daniele Fortuna è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Stefano Francocci è direttore del Museo Civico di Nepi. Giampiero Galasso è giornalista. Sandra Gatti è referente scientifica del Progetto Rotta di Enea. Alessandra Ghelli è funzionario archeologo subacqueo del Segretariato Regionale per la Calabria e del Parco archeologico di Ostia antica. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Massimiliano Marazzi è professore ordinario di culture dell’Egeo e Anatolia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Marta Rivaroli è storica del Vicino Oriente antico e storica delle religioni. Federico Saccoccio è dottorando in scienze dell’antichità e archeologia all’Università di Pisa.


LUOGHI DEL SACRO/12 I millenni di un sacro banchetto

66

di Marta Rivaroli

66 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Una rupe e due verità 110 di Francesca Ceci

84 SPECIALE

110 LIBRI

Ritorno a Hattusa 112

84

a cura di Massimiliano Marazzi

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 73 in basso) e pp. 66/67, 70/71, 74 (alto), 86/87, 88-91, 92/93, 94-95, 98/99 (alto), 102, 104/105 – Andreas M. Steiner: p. 3 – Cortesia Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso: pp. 6-7 – Glenn Schwartz/John Hopkins University: p. 8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Cortesia Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: pp. 12-13 – Parco Archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia «Sapienza» Università di Roma-Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche e Maxillo-Facciali: pp. 16-17 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: p. 19; elaborazione G. Luglio: p. 18 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 20-21 – Edoardo Vanni: p. 22 – Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia-Ufficio Comunicazione e Promozione: p. 25; Mauro Benedetti: p. 24 – Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles: pp. 32/33 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 34-35, 38, 43; Zuma Press: p. 36; Fototeca Gilardi: p. 37; CM Dixon/Heritage Images: pp. 38/39; Album/Fine Art Images: pp. 40/41; Album/ Larrieu Licorne/Kharbine Tapabor: p. 72 (alto); Erich Lessing/Album: p. 76 – Cortesia MAVS, Museo Archeologico della Valle Sabbia: pp. 46-47, 48/49, 49, 50-57 – Stefano Francocci: pp. 58-59, 60/61, 64-65 – Archivio Pontificia Commissione di Archeologia Sacra: pp. 61, 62-63 – Persepolis Fortification Archive Project: p. 71 – Doc. red.: pp. 72 (basso), 78, 81, 82-83, 110-111 – Alamy Stock Photo: pp. 77, 84/85 (basso) – da: Javier Álvarez-Mon, Gian Pietro Basello, Yasmina Wicks (acura di), The Elamite World, Oxford 2018: pp. 79, 80 – da: Andreas Schachner, Hattuscha. Auf der Suche nach dem sagenhaften Reich der Hethiter, Monaco di Baviera 2011: elaborazioni alle pp. 86, 92 – Archivio della Missione Italiana di Cooperazione a Hattusa: pp. 96-97, 98/99 (basso), 100-101, 103, 104 (basso, a sinistra) – da Jürgen Seehr, Gods carved in stone. The Hittite rock sanctuary of Yazılıkaya, Istanbul 2021: elaborazioni alle pp. 104 (basso, a destra), 105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 48, 60, 68/69, 87. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCAVI Veneto

I SECOLI DI PATAVIUM

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na complessa stratigrafia, che interessa un ampio orizzonte cronologico (dalla protostoria all’età medievale), è stata individuata nel cuore della città di Padova, tra via degli Zabarella e via San Biagio, in un settore urbano ubicato in prossimità dell’antica sponda fluviale e dell’area monumentale di epoca romana di Porta Altinate. Avviate in occasione della costruzione di un’autorimessa interrata sul sedime dell’antico monastero di S. Bernardino, le indagini hanno interessato un’area di oltre 2000 mq e sembrano confermare quanto già documentato in contesti di dimensioni piu ridotte, ovvero le dinamiche insediative e di sviluppo urbanistico di Patavium, a partire dalle origini dell’insediamento protostorico.

«La peculiarità del sito – spiega Elena Pettenò, funzionario archeologo e direttore dello scavo – era quella di avere a disposizione un sedime protetto dalla fondazione monastica del 1439 che, pur avendo intaccato nella sua fase fondativa parte delle fasi romane, ha sostanzialmente conservato il deposito archeologico. Questo si è rivelato in tutta la sua complessità in uno scavo effettuato in piú fasi, a partire dal 2008, che si è concluso con l’intervento iniziato nel maggio 2019 e ultimato nel dicembre 2020. Lo studio dei materiali, dei campioni e della sequenza stratigrafica è ancora in corso, ma è possibile proporre una sintesi preliminare e una definizione cronologica basata sui primi risultati dati dal C14. La profondità raggiunta ha permesso di documentare le prime fasi di

insediamento collocabili almeno nella seconda metà dell’età del Bronzo Medio. Da questa epoca si sviluppa un impianto caratterizzato da un’organizzazione urbanistica che prevede sia impianti artigianali, sia residenziali, impostati su dossi artificiali prospicienti entrambe le sponde di un canale navigabile attrezzato e divisi da canalette di drenaggio. L’impianto si sviluppò nei secoli con minime variazioni e l’organizzazione degli spazi rimase sostanzialmente invariata fino all’età del Ferro, quando al suo mutamento si associa l’impiego di nuovi e piú solidi materiali per i piani di calpestio. Dalla seconda metà del III secolo a.C., in piena romanizzazione, si assiste a un profondo cambiamento, che non varia l’orientamento dell’impianto urbanistico, ma riguarda le tecniche Padova. Il cantiere aperto tra via degli Zabarella e via San Biagio: lo scavo ha messo in luce una stratigrafia con fasi comprese tra la protostoria e l’età medievale.

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costruttive che consentono la realizzazione di edifici di ampie dimensioni, con l’uso della pietra come materiale costitutivo almeno delle fondazioni. Da questo momento l’area si presenta sostanzialmente divisa in due lotti, con destinazioni diverse, separati da una strada che si imposta sul tombinamento del canale navigabile. A sud, vi sono due edifici separati da un vicolo, molto diversi tra loro per impianto e tecnica costruttiva, probabilmente a vocazione residenziale e commerciale; a nord, invece, a ridosso dell’area monumentale di Porta Altinate, sorsero altri due edifici, forse pubblici, con ambienti di grandi dimensioni, che hanno restituito frammenti di intonaci dipinti in primo stile pompeiano. Al termine dell’età repubblicana l’aspetto dell’area muta, soprattutto nella parte meridionale, dove i due edifici vengono uniti in un unico grande complesso. Vengono quindi realizzate grandi trincee di sostruzione che disegnano un ampio rettangolo, colmate con un deposito su cui impostare il nuovo edificio che solo in parte sfrutta il precedente; infine, la strada viene basolata, e, nella parte settentrionale, si restaurano entrambi gli edifici, senza però mutare l’impianto complessivo. Da questo momento la lettura delle strutture diventa complessa a causa delle asportazioni correlate alla fondazione monastica. Risultano comunque evidenti alcune variazioni collocabili nel IV-VI secolo d.C. che riguardano principalmente

In alto: lacerto di mosaico venuto alla luce in uno degli ambienti indagati. A destra: vaso che reca impresso un bollo bilingue, in venetico e latino.

la suddivisione interna degli edifici che restano in uso fino all’Alto Medioevo, momento in cui sono documentate sia variazioni architettoniche –probabile un porticato lungo la via basolata –, sia le prime importanti asportazioni delle strutture di epoca classica. Del tutto residuali sono le evidenze medievali, che nulla aggiungono allo sviluppo urbanistico di questa porzione di città; esse portano direttamente alla fondazione monastica del 1439 dedicata a san Bernardino, ben documentata da fonti archivistiche, impostata su un precedente impianto monastico,

forse minore, dedicato a santa Chiara e di cui non si hanno sostanziali notizie. Il monastero rimarrà intatto fino all’occupazione delle truppe napoleoniche, con conseguente demolizione della chiesa affacciata su via Zabarella nel 1810». Lo scavo, seguito dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso diretta da Fabrizio Magani, è stato eseguito dalla ditta Malvestio snc e condotta da Michele De Michelis. Giampiero Galasso

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n otiz iario

SCOPERTE Vicino Oriente

IBRIDI DI SUCCESSO

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li equidi hanno impresso una svolta decisiva all’evoluzione delle tecniche di combattimento nel corso della storia. Nell’area vicino-orientale, sebbene il cavallo domestico abbia fatto la sua comparsa solo intorno ai 4000 anni fa, sappiamo che sui campi di battaglia i Sumeri utilizzavano già da secoli carri tirati da equidi, come provano le scene raffigurate sul cosiddetto Stendardo di Ur, una cassetta lignea decorata in madreperla e conchiglie su uno sfondo di lapislazzuli, conservata al British Museum di Londra e databile intorno al 2600 a.C. Alla medesima epoca risalgono anche varie tavolette cuneiformi in cui si cita il kunga, un equide ritenuto di gran pregio e di elevato valore commerciale. Tuttavia, la sua reale natura è stata a lungo discussa dagli specialisti. La questione è stata ora affrontata da un’équipe dell’Institut Jacques Monod (CNRS/Université de Paris) specializzata in paleogenomica che

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ha appunto analizzato il genoma degli equidi sepolti nel complesso funerario principesco di Umm el-Marra (nell’odierna Siria settentrionale), databile intorno ai 4500 anni da oggi. E, basandosi su criteri di tipo morfologico e archeologico, è stata avanzata l’ipotesi che gli animali deposti siano proprio i kunga. Sebbene fosse degradato, è stato possibile mettere a confronto il loro genoma con quello di altri equidi, come cavalli, asini domestici, nonché asini selvatici appartenenti alla famiglia dell’emione, il cui genoma è stato sequenziato per l’occasione. Quest’ultima operazione è stata condotta grazie ai resti di un equide provenienti dal complesso templare di Göbekli Tepe (Turchia), in uso intorno agli 11 000 anni fa, e di quelli degli ultimi esemplari di una specie siriana di asino selvatico, estintasi agli inizi del Novecento. Le analisi hanno rivelato che gli equidi di Umm el-Marra sono ibridi di prima

Scheletri di equidi, identificati come kunga, nel complesso funerario principesco di Umm el-Marra (Siria). generazione, nati dall’incrocio fra un’asina domestica e un emione maschio. Poiché i kunga erano infecondi e gli emioni selvatici, per ottenerne nuovi esemplari si doveva, quando necessario, far incrociare un’asina domestica con un emione preventivamente catturato (come conferma un rilievo assiro di Ninive). Invece di domesticare i cavalli selvatici diffusi nel loro territorio, i Sumeri avrebbero dunque optato per animali ibridi, che riunivano in sé le qualità dei genitori, essendo piú forti e veloci degli asini – ma anche dei cavalli – e piú controllabili degli emioni. I kunga furono poi soppiantati dal cavallo domestico, importato nella regione dalle steppe del Ponto, la cui riproduzione risultò di gran lunga piú facile da gestire. (red.)



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

IL PIÚ CELEBRE TRA I FUGGIASCHI SI SNODA TRA CINQUE PAESI LA ROTTA DI ENEA, UN ITINERARIO CULTURALE CHE RIPERCORRE LE PEREGRINAZIONI DELL’EROE TROIANO. TAPPA FINALE È ROMA, LA CUI NASCITA È LEGATA ALLA SUA VICENDA E DOVE SONO QUINDI NUMEROSE E IMPORTANTI LE TESTIMONIANZE A LUI RICONDUCIBILI

L

a Rotta di Enea è un itinerario culturale che ripercorre il viaggio compiuto dall’eroe troiano e descritto da Virgilio nell’Eneide. Costretto ad abbandonare Troia per mettere in salvo la famiglia e, per volontà degli dèi, costruire una nuova patria per gli esuli, Enea intraprende un lungo viaggio da oriente a occidente, attraverso il Mediterraneo. Dopo lunghe peregrinazioni, l’eroe virgiliano e i suoi compagni raggiungono le coste del Lazio, dove fondano la città di Lavinium. Il figlio di Enea, Ascanio, fonda sui Colli Albani la mitica Alba Longa e dalla sua stirpe nasce Romolo, che nella leggenda è il mitico fondatore di Roma e il suo primo re. Ideato e promosso a partire dal 2017 dall’Associazione Rotta di Enea, dalla Fondazione Lavinium e dal Comune di Edremit, l’itinerario è nato con l’intento di divulgare il patrimonio culturale e artistico legato al mito di Enea, simbolo della lunga formazione della civiltà mediterranea, e di promuovere la cultura del mare, i paesaggi e le testimonianze del passato, nonché i valori universali dell’incontro fra popoli, nella convinzione che proprio tali diversità abbiano costruito nel tempo la ricchezza

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culturale dei Paesi europei, che nell’insieme formano un inestimabile patrimonio condiviso.

UN PATRIMONIO COMUNE Il 23 maggio 2021 la Rotta di Enea ha ottenuto il prestigioso riconoscimento di Itinerario Culturale del Consiglio d’Europa, diventando uno dei 45 percorsi certificati che invitano alla scoperta del comune patrimonio archeologico, religioso, artistico e naturalistico, promuovendo altresí valori fondamentali come democrazia, diritti umani, scambi interculturali e interazione

economica e sociale tra diverse comunità. L’itinerario segue in maniera fedele il racconto virgiliano e attraversa cinque Paesi: Turchia, Grecia, Albania, Tunisia e Italia. Il percorso si snoda intorno a 21 tappe principali, che toccano 7 Siti UNESCO (Troia, Delo, Butrinto, Monte Etna, Cartagine, Parco del Cilento e Vallo di Diano, Roma), 3 Parchi nazionali (Monte Ida in Turchia, Parco Nazionale di Butrinto in Albania e Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano in Italia sulla costa tirrenica), per arrivare nell’area metropolitana di Roma, città simbolo della comunanza


Qui accanto: veduta delle mura di Troia. A sinistra: gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini raffigurante Enea che fugge da Troia con il padre Anchise sulle spalle. 1619. Roma, Galleria Borghese. Nella pagina accanto: La Rotta di Enea: le tappe dell’itinerario da Troia a Roma. mediterranea e dell’Unione Europea a partire dai Trattati di Roma del 1956. In Italia tocca 5 regioni: Puglia, Sicilia, Calabria, Campania e Lazio. Il mitico viaggio inizia a Troia, uno dei siti archeologici piú affascinanti del Mediterraneo, arricchito dalla fine del 2018 da un nuovo museo archeologico che custodisce la maggior collezione scultorea e iconografica al mondo dei luoghi e dei personaggi mitici dell’Iliade. Poco distante si trova il Parco Nazionale del Monte Ida, un luogo ricco di vegetazione lussureggiante e cascate naturali, dove Anchise avrebbe incontrato la futura madre di Enea, Afrodite. A nord di Edremit si trova invece il sito di Antandros, la località da cui secondo il poeta latino Enea salpò. L’antica area urbana non è ancora stata individuata, ma sono però stati rinvenuti una necropoli e una villa romana di epoca imperiale con splendidi mosaici. Dopo tanto vagare per mare e terra, Enea giunge alla foce del Tevere: qui incontra il re degli Aborigeni, Latino, il quale, spinto da una profezia, gli concede in sposa sua figlia Lavinia, nonostante la fanciulla fosse già promessa al re dei Rutuli, Turno, che, adirato per il

tradimento dell’impegno preso, dichiara guerra ai Troiani. Enea, per rispondere all’attacco di Turno, stipula un’alleanza vittoriosa con Evandro, il re del villaggio di Pallanteo, sul colle Palatino. La definitiva vittoria sui Rutuli e il matrimonio con Lavinia sanciscono cosí l’inizio di una nuova stirpe italica di origine troiana.

INTORNO AL PALATINO I luoghi di Roma legati alla figura mitica di Enea e della progenie romulea sono piuttosto numerosi e si addensano tutti intorno all’abitato primigenio del Palatino, sede del villaggio di Evandro e luogo in cui Romolo fondò il primo nucleo della città. La fonte principale resta il libro VIII dell’Eneide, che ci permette di ricostruire passo dopo passo i luoghi che vide Enea al suo arrivo a Roma. Evandro mostra all’eroe la gradinata che collegava il Palatino con il Foro Boario, raccontandogli di come Ercole, nel sito identificabile con le Scalae Caci, avesse ucciso il mostro Caco, e dei riti di ringraziamento allo stesso dio presso un’ara «massima», situata nel Foro Boario, alle pendici del Palatino. Poco distante si può collocare uno dei luoghi piú

importanti della leggenda di Romolo e Remo: il Lupercale; mentre sulla sommità del Palatino scavi archeologici hanno portato in luce le tracce di un antichissimo villaggio di capanne dell’VIII secolo a.C. e dove la tradizione colloca la dimora di Romolo. La centralità del Palatino nelle vicende legate alle origini della città spinse i Romani ad arricchire il colle e le aree limitrofe di monumenti che celebrassero la propria origine troiana o che conservassero i sacra portati in salvo da Enea. Nei pressi delle capanne romulee sorse il Tempio della Magna Mater, il cui culto proveniva proprio dalla Troade; nel Tempio di Vesta, nel Foro Romano, era ospitato il «Palladio»: il simulacro di Atena-Minerva, portato a Roma, secondo la leggenda, da Enea, fonte di protezione di Troia e pegno della sua salvezza nonché simbolo della nobiltà della stirpe romana. Il Parco archeologico del Colosseo, custode di questi luoghi, ha dunque accolto con entusiasmo la proposta di partecipare a questo progetto, valorizzando i monumenti legati al mito di Enea e contribuendo a delineare il profilo dell’eroe troiano e a diffonderne la leggenda. Daniele Fortuna, Sandra Gatti

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n otiz iario

RECUPERI Italia

TRAFFICO... FERROVIARIO

O

ltre 2000 reperti archeologici sono stati sequestrati a coronamento di un’indagine avviata nel febbraio del 2019 e ribattezzata Operazione Taras. Tutto è cominciato quando i Carabinieri dalla Sezione Archeologia del Reparto Operativo TPC hanno scoperto che un noto indiziato di reati contro il patrimonio culturale alloggiava periodicamente presso un albergo di Monaco di Baviera, ove portava con sé diversi plichi, contenenti oggetti verosimilmente di natura archeologica. Visto il modus operandi del soggetto, già emerso in attività precedenti e risultato pressoché coincidente con le informazioni ricevute, è stata interessata la Polizia bavarese, che ha accertato che la persona in questione aveva piú volte soggiornato nell’hotel. I servizi successivi organizzati dalla Sezione Archeologia, insieme ai colleghi bavaresi, hanno appurato che il soggetto partiva in treno da Taranto e, attraversata l’Austria, arrivava a Monaco, città nella quale pernottava per poi proseguire il

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viaggio, sempre in treno, verso Bruxelles. La scelta di viaggiare con quel mezzo per raggiungere destinazioni cosí lontane, piuttosto che utilizzare l’aereo, ha fatto intuire che si trattasse di un espediente per eludere eventuali controlli. Nel giugno 2019, per evitare che l’indagato scoprisse d’essere stato individuato da un’Unità specializzata a lui ben nota, i Carabinieri del TPC lo hanno fatto controllare dalla Polizia Ferroviaria al Brennero: questa circostanza ha confermato le ipotesi investigative, dal momento che l’individuo è stato trovato in possesso di un’anfora archeologica. Il seguito investigativo ha fatto emergere un vasto traffico illecito di reperti archeologici, condotto da un sodalizio criminale ben strutturato e con importanti collegamenti all’estero. Nel gennaio 2020, a Monaco di Baviera, il principale indagato, arrestato dalla polizia tedesca, è stato trovato in possesso di reperti archeologici di notevole interesse, fra i quali spicca un elmo corinzio in bronzo.

Nell’estate successiva, in collaborazione con le Polizie locali, sono state effettuate perquisizioni in Belgio e in Olanda con servizi di osservazione e pedinamento. Un’abitazione di Bruxelles si è rivelata essere la base d’appoggio e il deposito del soggetto arrestato in Germania: lí, infatti, sono stati sequestrati circa 1000 reperti archeologici provenienti dall’Italia, per lo piú dall’area di Taranto e provincia, databili tra il VI e il II secolo a.C. Contestualmente sono stati individuati altri reperti italiani, scavati clandestinamente e commercializzati a Bruxelles da esercenti inconsapevoli della loro provenienza illecita, nonché un laboratorio specializzato in restauri di oggetti d’arte antichi a Delft, in Olanda, dove erano stati portati nel tempo diversi beni archeologici per interventi propedeutici alla loro offerta sul mercato. Nonostante le limitazioni e le difficoltà dovute alla pandemia da COVID-19, gli accertamenti sono proseguiti. Si è configurata un’associazione criminale che


A destra: uno dei depositi utilizzati per nascondere i materiali archeologici scavati clandestinamente nell’area di Taranto e della sua provincia e sequestrati grazie all’Operazione Taras. In basso, sulle due pagine: i reperti dopo il sequestro.

ricalca la filiera criminale tipica di questo settore, dai «tombaroli» che riforniscono di reperti i ricettatori di primo e secondo livello, i quali, a loro volta, alimentano i trafficanti internazionali. La loro individuazione ha portato a eseguire nella provincia di Taranto perquisizioni presso le abitazioni dei soggetti coinvolti a vario titolo nel traffico illecito, giungendo al

sequestro di altri 1000 reperti circa, databili tra il VI e il II secolo a.C. e riferibili prevalentemente alle aree archeologiche tarantine, nonché due metal detector e strumenti per il sondaggio del terreno (spilloni). Le indagini si sono chiuse con un nuovo arresto a Delft, da parte della Polizia olandese in coordinamento con i Carabinieri TPC, del promotore dell’associazione

criminale, già arrestato in Germania, nonché il sequestro di un altro elmo corinzio in bronzo, affidato al citato laboratorio per il restauro. Sono tuttora in corso le attività per il rimpatrio di beni localizzati in Olanda, Germania e Stati Uniti, provento del traffico illecito riconducibile a questa associazione a delinquere. (red.)

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E RESTAURI «IMPOSSIBILI» PUNTI DI FORZA DEL PROGETTO REPAIR SONO LA ROBOTICA D’AVANGUARDIA E LA DIGITALIZZAZIONE: RISORSE GRAZIE ALLE QUALI SI POTRANNO RICOMPORRE LE MIGLIAIA DI FRAMMENTI DEGLI AFFRESCHI DELLA CASA DEI PITTORI AL LAVORO E DELLA SCHOLA ARMATORARUM

L

a tecnologia robotica si mette al servizio dell’archeologia pompeiana. Il progetto RePAIR – acronimo di Reconstruction the past: Artificial Intelligence and Robotics meet Cultural Heritage – prevede infatti l’impiego di un’infrastruttura robotica d’avanguardia, grazie alla quale le migliaia di frammenti di affreschi di difficile ricomposizione, provenienti dalla Casa dei Pittori al Lavoro e della Schola Armatorarum, saranno fisicamente riassemblati per la prima volta. Piccole tessere di un puzzle che verranno movimentate attraverso

braccia meccaniche intelligenti in grado di scansionare i singoli frammenti, di riconoscerli tramite un sistema di digitalizzazione 3D e, quindi, di restituire loro la giusta collocazione. Mentre i frammenti vengono identificati, le mani automatizzate li manipolano e li movimentano con l’ausilio di sensori avanzatissimi in grado di evitarne anche il minimo danneggiamento. La scelta di sperimentare la robotica sugli affreschi e gli stucchi della Casa dei Pittori al Lavoro, ubicata nell’Insula dei Casti Amanti, danneggiati prima dall’eruzione del

79 d.C. e poi dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, si lega all’importanza di questo contesto: una domus trasformata in un cantiere decorativo al momento della distruzione di Pompei, nella quale è possibile ricostruire tutte le fasi di realizzazione di una pittura parietale, dalle stesure dell’intonaco fino alla levigatura finale (politiones) necessaria per far aderire i diversi strati di colori alla parete. Il progetto RePAIR si affianca al lavoro di un gruppo di esperti in pitture murali antiche dell’Università di Losanna, guidato da Michel E. Fuchs, da alcuni anni

In questa pagina: ricomposizione dei frammenti di una pittura parietale eseguita manualmente, secondo il metodo tradizionale.

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impegnato nello studio e nella ricomposizione manuale che si basa sull’analisi dei diversi aspetti morfologici, stilistici e tecnici dei frammenti. L’indagine robotica, che mette a disposizione le piú avanzate tecniche nel campo dell’Intelligenza Artificiale, della Visione Artificiale e della Robotica, procede parallelamente a quella condotta dall’équipe svizzera, e consentirà presto di confrontare due diverse metodologie di lavoro e i rispettivi risultati.

ESEMPI SIGNIFICATIVI Il secondo caso di studio preso in esame è rappresentato dai resti degli affreschi della Schola Armaturarum, determinati dal

drammatico crollo dell’edificio nel 2010 e ancora non ricollocati in situ. Pertanto, due esempi significativi di decorazioni parietali pompeiane, al momento conservati nei depositi del Parco Archeologico. Il progetto si avvale dell’apporto interdisciplinare di istituti scientifici e di ricerca che operano nel campo della Computer vision e della robotica; partner del progetto RePAIR, assieme al Parco Archeologico di Pompei, sono l’Università Ca’ Foscari di Venezia

In alto: l’applicazione delle metodiche previste dal Progetto RePAIR su vasi in ceramica frammentati. In basso: frammenti di pittura parietale preparati per la digitalizzazione, cosí da permettere la ricerca di ulteriori parti ricostruibili. Il protocollo previsto dal Progetto RePAIR è in corso di sperimentazione sugli affreschi e gli stucchi della Casa dei Pittori al Lavoro e sugli affreschi della Schola Armaturarum.

(ente coordinatore con Marcello Pelillo, professore di Intelligenza artificiale), la Ben-Gurion University of the Negev di Israele, l’Istituto Italiano di Tecnologia, l’Associação do Instituto Superior Técnico para a Investigação e Desenvolvimento del Portogallo, la Rheinische FriedrichWilhelms-Universität di Bonn in Germania e il nostro Ministero della Cultura. Il progetto beneficia di finanziamenti dal programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea.

«Le anfore, gli affreschi e i mosaici – sottolinea Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Pompei – vengono spesso portati alla luce frammentati, solo parzialmente integri o con molte parti mancanti. Quando il numero dei frammenti è molto ampio, con migliaia di pezzi, la ricostruzione manuale e il riconoscimento delle connessioni tra i frammenti è quasi sempre impossibile o comunque molto lento e laborioso. Questo fa sí che diversi reperti giacciano per lungo tempo nei depositi archeologici, senza poter essere ricostruiti e restaurati, né tanto meno restituiti all’attenzione del pubblico. Il progetto RePAIR, frutto di ricerca e competenza tecnologica, grazie all’ausilio della robotica, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale, si pone quindi l’obiettivo di risolvere un problema atavico». Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCOPERTE Balcani

CACCIATORI, MA NON TROPPO

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o studio condotto da un team internazionale ha rivelato come, all’inizio dell’Olocene, i cacciatori-raccoglitori dei Balcani centrali facessero ampio uso di piante a scopo alimentare. «I cereali spontanei – spiega Emanuela Cristiani (Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche e Maxillo-Facciali della «Sapienza» Università di Roma, responsabile del progetto «HIDDEN FOODS» finanziato dallo European Research Council) – sembrano aver svolto un ruolo importante nella dieta degli antichi cacciatori-raccoglitori anche in Europa sud-orientale: fuori, quindi, dalle principali aree della domesticazione del Vicino Oriente». La ricerca si basa sull’analisi del tartaro di 60 individui vissuti tra gli 11 500 e gli 8000 anni fa nei Balcani centrali e ha compreso anche l’analisi delle tracce di utilizzo e dei residui su un centinaio di strumenti in pietra non scheggiata. I risultati ottenuti offrono un contributo significativo al dibattito sull’intensificazione del consumo delle piante selvatiche prima della loro domesticazione. «Durante il Mesolitico – afferma afferma Dušan Boric, ricercatore della «Sapienza» e responsabile dello scavo di Vlasac, uno dei siti investigati dalla ricerca – la regione delle Gole del Danubio nei Balcani centrali fu abitata da società di cacciatori-raccoglitori per diversi millenni prima dell’arrivo dei primi agricoltori. Finora, per questa parte dell’Europa mancavano prove concrete del consumo alimentare di piante e cereali selvatici, ben documentate invece in Grecia già intorno a 20 000 anni fa». I residui vegetali rinvenuti nel tartaro antico, quali amidi e fitoliti, costituiscono la prova diretta piú incontrovertibile del consumo

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A destra: Vlasac (Serbia). I resti di uno degli individui di cui è stato analizzato il tartaro. Nella pagina accanto, da sinistra, in senso orario: il cantiere di scavo di Vlasac; macine, macinelli e pestelli sui quali sono state rilevate tracce di trattamento dei cereali a scopo alimentare; un momento delle analisi di laboratorio su un frammento di macina.

alimentare di piante erbacee spontanee da parte di questi gruppi umani. Di particolare importanza sono i granuli di amido, polisaccaridi prodotti dalla maggior parte delle piante e usati come riserva energetica. Queste strutture sono specialmente numerose in radici, tuberi, grani e semi, al cui interno assumono forme specifiche che possono essere riconosciute e caratterizzate a livello microscopico. Ulteriore evidenza del consumo delle piante proviene dalle tracce di utilizzo e dai residui conservati sulle superfici di strumenti in pietra non scheggiata rinvenuti in grande quantità nei siti investigati dalla ricerca. «Il sito di Vlasac – conferma conferma l’archeologo Andrea

Zupancich – ha restituito numerose macine, macinelli e pestelli con chiare modificazioni funzionali che dimostrano lo sviluppo di una tecnologia litica ad hoc dedicata alla lavorazione delle cariossidi spontanee». «I nostri risultati – conclude Emanuela Cristiani – suggeriscono come la familiarità dei cacciatoriraccoglitori dell’Europa sud-orientale con alcuni cereali spontanei possa aver facilitato l’introduzione e il consumo delle specie domestiche che sono oggi alla base della nostra dieta». Precedenti studi condotti dallo stesso gruppo di ricerca della «Sapienza» avevano già dimostrato come il tartaro dentale, da sempre considerato un nemico della salute orale, sia in realtà un


importante strumento per studiare abitudini alimentari, stili di vita e salute di individui preistorici (vedi «Archeo» n. 440, ottobre 2021; anche on line su issuu.com). Il DNA conservato nel tartaro antico di 44 individui rinvenuti in siti archeologici in Italia e nei Balcani ha infatti permesso di identificare una specie batterica che popola la nostra cavità orale, l’Anaerolineaceae bacterium oral taxon 439, la cui variabilità genetica e filogeografia ha consentito di ripercorrere il flusso migratorio dei primi agricoltori che, 8500 anni fa circa, spostandosi dal Vicino Oriente, sono giunti nei Balcani e in Italia, delineando cosí le tappe che hanno segnato in Europa meridionale la transizione verso l’agricoltura. (red.)

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

LA TUTELA SCENDE SOTT’ACQUA IL PARCO ARCHEOLOGICO DI OSTIA HA ULTERIORMENTE AMPLIATO IL PROPRIO CAMPO DI INTERVENTO, ESTENDENDO LE ATTIVITÀ DI CONTROLLO E RICERCA ANCHE AL PATRIMONIO SOMMERSO. E, FIN DALLE PRIME IMMERSIONI, NON SONO MANCATI RISULTATI DI NOTEVOLE INTERESSE

C

ostruita alla foce del Tevere, Ostia era il porto fluviomarittimo di Roma. Il fiume non costituiva una linea di confine o un limite territoriale, ma era parte integrante dell’Urbe e la attraversava come una grande «arteria cittadina». Cuore pulsante della città, il suo corso era animato da numerose imbarcazioni, che ne solcavano le acque, trasportando ogni genere di mercanzia. Il Tevere era la principale «via d’acqua» del territorio ostiense, ma non l’unica. A partire dalla prima età imperiale, con la costruzione dei Porti di Claudio e Traiano, nell’ottica di un potenziamento delle strutture portuali, teso a garantire l’approvvigionamento,

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in primo luogo alimentare, si attuò una trasformazione del territorio a destra del Tevere, il cosiddetto «Trastevere ostiense».

GESTIRE LE PIENE Alla realizzazione di una serie di canali artificiali, quali «vie d’acqua interne», di collegamento tra i Porti Imperiali e il Tevere, si accompagnò l’esecuzione di opere di «sistemazione fluviale», volte alla diminuzione della portata di piena, al fine di limitare, quanto piú possibile, le esondazioni. Queste ultime, tra l’altro, ci sono note anche grazie a un’iscrizione rinvenuta a Portus nel 1836: «Claudius (…) fossis ductis a Tiberi operis portus caussa

emissisque in mare urbem inundationis periculo liberavit» (CIL XIV, 85), datata al 46 d.C. Proprio la costruzione di uno di questi canali artificiali, iniziata dall’imperatore Claudio e terminata da Traiano, la cosiddetta «Fossa Traiana» (odierno Canale di Fiumicino), ha trasformato il Trastevere ostiense in un’isola artificiale, l’Isola Sacra. Le attività di tutela e ricerca interdisciplinare condotte all’interno del Parco archeologico di Ostia antica hanno restituito e continuano a restituire importanti dati per la conoscenza e ricostruzione del paesaggio antico. Indagini archeologiche e geoarcheologiche hanno


In alto: strutture archeologiche del Parco monitorate dal Servizio Tutela Patrimonio culturale subacqueo. A sinistra: uno dei fusti di colonna individuati nella Fossa Traiana. Nella pagina accanto: ipotesi ricostruttiva della laguna navigabile dell’Isola Sacra.

evidenziato, per esempio, come a seguito della costruzione del Porto di Claudio si assista, in prossimità della linea di costa di età imperiale, alla formazione di una duna costiera, il cosiddetto tombolo, che ha favorito, a est della stessa, lo sviluppo di una laguna dalla forma allungata, regolarizzata al fine di renderla navigabile. All’interno di questa «via d’acqua» parallela all’antica linea di costa, collegamento tra la Fossa Traiana e il Tevere, intorno alla metà del III

secolo d.C. affondarono due imbarcazioni lignee, denominate Isola Sacra 1 e Isola Sacra 2, oggetto di indagine dal 2011.

UN NUOVO SERVIZIO Degli antichi traffici commerciali, che animavano i porti ostiensi e le vie d’acqua, rimangono, inoltre, testimonianze tangibili sugli argini e sui fondali. E proprio per conoscere, tutelare, salvaguardare e conservare queste memorie storiche il Parco archeologico di

Ostia antica ha attivato il servizio di Tutela del Patrimonio Culturale subacqueo, curato dal funzionario archeologo subacqueo con il supporto tecnico operativo dei Reparti di Specialità dell’Arma dei Carabinieri: Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma e Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Roma. Nel corso di un sopralluogo per il monitoraggio dei fondali, sono stati individuati e documentati, nella Fossa Traiana, a 5 m di profondità, tre fusti di colonna in marmo e, in seguito, recuperato campioni per la caratterizzazione mineralogico-petrografica al fine di individuarne le cave di estrazione. Attualmente è al vaglio dei tecnici del Parco la valutazione del protocollo di tutela piú idoneo da attuare, prevedendo, anche, l’eventuale recupero delle colonne. Le attività di recupero di carichi dispersi nelle acque del Tevere, ma non solo, erano praticate, conosciute e attuate a Ostia e a Roma già in epoca antica da professionisti di settore, gli urinatores (da urinari, -are «tuffarsi sott’acqua»), organizzati in associazioni di mestiere come documenta una nota serie di iscrizioni di epoca imperiale. Alessandra Ghelli

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

ARCHEOLOGIA IN PASSERELLA LA NECROPOLI DI POGGIO MENGARELLI DIVENTA ACCESSIBILE E PIENAMENTE FRUIBILE GRAZIE A UN INNOVATIVO PROGETTO MULTIMEDIALE

L’

area funeraria di Poggio Mengarelli è situata su tre modeste alture, comprese all’interno della piú estesa necropoli dell’Osteria, prospicienti il lato nord dell’antica Vulci e separata da questa attraverso il Fosso della Città o dell’Osteria. La zona è particolarmente ricca di contesti funerari, ricavati in un banco geologico naturale affiorante appena sotto 40-50 cm di livello arativo, e risulta nascosta a chi giunge da nord. Accanto a un’area di tombe «a pozzetto» villanoviane, posta sulla sommità della collina, lo scavo ha evidenziato per lo piú tombe a fossa, principalmente del tipo «a fossa profonda» e in misura minore «a fossa semplice» e «a fossa semplice con cassa litica», databili all’orientalizzante antico (fine dell’VIII-inizi del VII secolo a.C.), distribuite per nuclei familiari. Sono inoltre venute alla luce tombe a camera con dromos, cronologicamente ascrivibili all’orientalizzante recente (630-580 a.C.); nonché tombe riferibili all’età ellenistica, che talvolta intaccano e riutilizzano parte delle sepolture precedenti e che sono spesso ricavate nei livelli geologici piú profondi, i quali, per la loro natura sabbiosa, risultano meno stabili e perciò rinvenuti al momento dello scavo in molti casi crollati.

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Queste testimonianze piú recenti, preliminarmente circoscrivibili tra la seconda metà del IV e tutto il III secolo a.C., sono generalmente del tipo a camera ipogea o con piccoli ambienti, in alcuni casi piú vicini a loculi, ai quali si accede attraverso uno stretto corridoio di accesso che può in qualche definirsi «a caditoia» per le ridotte dimensioni e l’assenza di gradini.


Nella pagina accanto: immagine satellitare con l’indicazione dell’area urbana di Vulci e delle sue necropoli.

In alto: una tomba di Poggio Mengarelli e la sua collocazione nella necropoli. In basso: l’infoscopio.

Le indagini archeologiche svolte negli ultimi cinque anni a Poggio Mengarelli hanno portato a numerose (oltre 150 tombe) e fortunate scoperte.Tra queste, la Tomba dello Scarabeo Dorato, la Tomba del Cinerario Crestato di Bronzo e quella dellaTruccatrice. È stato cosí possibile mettere in luce un’area di circa 400 mq, occupata da numerosi complessi funerari.

UNA NECROPOLI ALLA PORTATA DI TUTTI Molto è stato fatto in tempi recenti per curare l’accessibilità ai tanti monumenti del Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci e per svilupparne la fruizione. Ultimo, in ordine di tempo, è l’intervento in corso a Poggio Mengarelli per renderne fruibile la necropoli. Questa, quasi un esempio «rupestre» dalla articolata stratificazione, vede adesso la realizzazione di un importante progetto concernente l’abbattimento delle barriere architettoniche, la messa in

sicurezza del sito e alcuni interventi di valorizzazione indispensabili per facilitarne la comprensione e la conoscenza, uniche alternative alla ricopertura del sito e al suo oblio. Le azioni che caratterizzano l’intervento in corso sono perciò tese a migliorare l’accessibilità e fruibilità dei luoghi mediante la realizzazione di sentieri di pendenza inferiore all’8% e della realizzazione di una «passerella didattica multimediale», struttura anch’essa con inclinazione inferiore all’otto percento ovvero assolutamente piana, che consente la visibilità sulla necropoli e le tombe che la caratterizzano. La passerella è anche luogo di allestimento, in quanto alloggia le tre stazioni infoscopiche che consentono la visione virtuale del momento

dell’apertura della tomba e del suo corredo. Questo è uno strumento ottico meccanico unico che, grazie a una combinazione di specchi e lenti, permette di vedere molteplici immagini relative a ciò che si sta osservando, nel nostro caso sei tra le tombe piú significative scavate nella necropoli di Poggio Mengarelli. Con la sua tecnologia d’avanguardia, l’infoscopio consentirà di visualizzare i corredi funebri con le indicazioni piú opportune da quelle storiche a quelle naturalistiche, sovrapposte direttamente all’immagine reale (realtà aumentata). I contenuti ovvero i reperti visionabili con gli infoscopi faranno parte di una App scaricabile dagli utenti all’ingresso del centro visite e godibile tramite telefonino. Il progetto in corso, diretto dagli architetti Stefano Ceccarelli e Rita Lulli, è coordinato dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale ed è realizzato dalla Fondazione Vulci con un finanziamento della Regione Lazio e un contributo del Comune di Montalto di Castro.

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A TUTTO CAMPO Federico Saccoccio

MONTI AURUNCI: UN PASSATO DA SCOPRIRE UN’AREA PERIFERICA DEL LAZIO MERIDIONALE, TRA LE PROVINCE DI LATINA E FROSINONE, OFFRE L’OCCASIONE PER SVILUPPARE UNA COLLABORAZIONE TRA ARCHEOLOGI, AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE E COMUNITÀ LOCALI

I

l tratto di costa compreso tra la piana di Fondi e il fiume Garigliano, nel Lazio meridionale, appare di grande interesse dal punto di vista storico e ricco di potenzialità archeologiche. Dalla carta emergono località come Gaeta, Minturno, Formia, Fondi e Sperlonga, centri che vantano importanti tradizioni di ricerca. Particolare rilievo ha avuto nella zona lo studio delle ville marittime, anche in virtú della fama che ha sempre circondato

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quella dell’imperatore Tiberio a Sperlonga, con il suo ciclo scultoreo incentrato sul periglioso viaggio di Odisseo. La sua scoperta ha innescato, nel tempo, la nascita di un Museo Archeologico Nazionale e di un Parco Regionale ispirato alla figura dell’eroe omerico, il cui «ricordo», soprattutto grazie al legame visivo col promontorio del Monte Circeo, permea ancora oggi questi luoghi. La cartografia del Piano Territoriale Paesaggistico Regionale (PTPR) del

Lazio, in cui sono indicate anche le aree e i siti sottoposti a tutela archeologica, registra un vuoto di conoscenze grosso modo corrispondente all’area occupata dai Monti Aurunci, la catena montuosa che separa l’area interna del Latium adiectum dalla sua parte propriamente costiera. Il vuoto lascia intuire le difficoltà legate allo studio dell’area montuosa, che pone complesse problematiche metodologiche, strategiche e pratiche: ciò ha fatto sí


che le indagini si siano concentrate sulla costa, e che i Monti Aurunci siano stati considerati marginali e quasi insondabili sotto il profilo storico e archeologico.

Dal 1997 l’area è tutelata dall’istituzione del Parco Naturale Regionale dei Monti Aurunci che, nel marzo 2021, si è dotato di un nuovo statuto, aggiornato e ben concepito, in cui è stato dato ampio spazio ai beni storici e archeologici presenti nell’area. Il Parco conferma cosí la sensibilità già dimostrata negli anni, con la gestione del tratto della via Appia tra Itri e Fondi, nonché col supporto fornito alla ricerca archeologica anche al di fuori dei confini del Parco, come nel caso del santuario pagano in località San Cristoforo a Itri. L’area montuosa e boscosa del Parco è zona difficile, che pone molte sfide: se la ricerca è mancata, tuttavia, la responsabilità non è

certo delle montagne, dei boschi o dell’assenza di supporto, che è presente e attivo. Nonostante la fascia interna del Parco dei Monti Aurunci appaia oggi impervia e disabitata, si ha ragione di pensare che non fosse tale nell’antichità. Le poche fonti storiche disponibili riferiscono, per esempio, di una comunità che occupava certamente queste valli nel Medioevo, raccolta in villaggi attorno al castello di Campello, di cui è tuttora possibile vedere i resti. Poco o nulla conosciamo della reale entità e organizzazione della comunità, come nulla sappiamo delle possibili preesistenze di età piú antica. All’abbandono del castello e dei villaggi, avvenuto presumibilmente nel XV secolo per ragioni non chiare, fece seguito un’occupazione stagionale legata alle principali attività dell’area, fino alla piena età contemporanea: l’allevamento transumante e la produzione di carbone.

Nella pagina accanto: un team dell’Università di Siena impegnato in una ricognizione nel territorio del castello di Campello, nel cuore dei Monti Aurunci.

In basso: la regione dei Monti Aurunci in una visualizzazione da DEM (Digital Elevation Model) elaborata in QGIS. In verde il territorio del Parco Naturale Regionale dei Monti Aurunci.

LA NASCITA DEL PARCO

Il paesaggio montuoso e boscoso conserva ancora molte tracce del passato, gran parte delle quali non sono mai state documentate, né investigate. Lo stesso castello di Campello è noto e tutelato dal Parco, ma le sue strutture non sono mai state oggetto di una ricerca archeologica finalizzata.

NUOVE TECNOLOGIE E STRATEGIE CONSOLIDATE A causa delle condizioni ambientali, lo studio di questi paesaggi e delle relative comunità è particolarmente complesso e necessita di un approccio quanto piú possibile multidisciplinare. L’accordo di collaborazione in corso di definizione tra il Laboratorio di Archeologia dei Paesaggi dell’Università di Siena e il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituti ISPC e IMAA), ha come obiettivo l’affiancamento di nuove tecnologie di remote sensing e di strategie consolidate per l’indagine dei paesaggi storici, con lo scopo di far riemergere il passato dei Monti Aurunci e di restituirlo alle proprie comunità. Le tecnologie introdotte dal CNR saranno fondamentali per orientare e costruire un metodo in grado di investigare, attraverso indagini sul campo, ricerche di superficie e scavi, uno spazio geografico di per sé articolato e indagabile con difficoltà. Tra gli obiettivi principali vi è quello di costruire consapevolezza grazie al coinvolgimento nella ricerca degli Enti delle comunità locali, col fine ultimo di realizzare la «tutela sociale» in un Parco Regionale, che potrebbe fare del patrimonio archeologico e culturale uno degli asset fondamentali per il proprio futuro. Cooperazione e comunicazione con gli amministratori e le comunità locali saranno quindi fondamentali per stimolare forme di partecipazione e iniziative dal basso. (federico.saccoccio@phd.unipi.it)

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n otiz iario

MUSEI Roma

IL SEGRETO DELL’ELMO

R

ecuperato nel 1930 nel corso delle fortunate campagne di scavo condotte nella necropoli dell’Osteria di Vulci, un elmo in bronzo appartenente al corredo della tomba 55 del sepolcreto ha custodito per quasi un secolo un segreto straordinario. Finora, infatti, nessuno aveva rilevato la presenza della breve iscrizione etrusca che corre al suo interno, a cominciare dai suoi scopritori, Ugo Ferraguti e Raniero Mengarelli, che pure avevano trattato con ogni cura i materiali rinvenuti. Si trattava delle prime indagini archeologiche condotte con metodo scientifico moderno nell’antica città etrusca, dopo secoli di saccheggi quasi indiscriminati, ma la morte prematura di entrambi gli scavatori ha impedito finora la loro pubblicazione per

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In questa pagina: l’elmo italico in bronzo e, in basso, il particolare dell’iscrizione scoperta al suo interno, dalla tomba 55 della necropoli

dell’Osteria di Vulci. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nella pagina accanto: il corredo della tomba 55 dell’Osteria di Vulci.


problemi legati anche allo studio della documentazione di scavo. Ciononostante, i contesti piú importanti vennero sin da subito destinati alla pubblica fruizione nelle sale vulcenti di Villa Giulia. Un recente intervento di digitalizzazione e di verifica dello stato di conservazione di alcune armi custodite nelle collezioni del Museo ha portato all’inattesa scoperta. Incisa all’interno del paranuca dopo la manifattura, l’epigrafe restituisce molto probabilmente un gentilizio privo finora di riscontri puntuali nell’onomastica etrusca, a fronte di migliaia di iscrizioni note. In base all’esame tipologico e alle

informazioni fornite dagli altri oggetti del corredo della tomba 55 (una delle piú ricche tra quelle coeve rinvenute a Vulci), la deposizione dell’elmo può essere datata intorno alla metà del IV secolo a.C. Siamo in un’epoca caratterizzata da una forte conflittualità tra popoli che competevano per il predominio nella nostra Penisola o per la semplice sopravvivenza, minacciata dalla calata dei Celti che nel 390 avevano messo a ferro e fuoco la stessa Roma. L’elmo di Vulci si inserisce perfettamente in questo contesto e, grazie alla sua iscrizione, racconta una pagina inedita della

vita di un guerriero del suo tempo, anche se non è possibile stabilire se il nome conservato coincida con quello del suo ultimo proprietario. Molti indizi, infatti, ci portano a cercare le sue origini in un’altra città, al confine tra Umbri ed Etruschi, Perugia. La lettura non comporta particolari difficoltà e consente di ricostruire una sequenza completa di 7 lettere disposte ai lati di un ribattino: HARN STE. Quest’ultimo ostacolo sembrerebbe essere stato considerato dall’autore dell’epigrafe la quale, molto probabilmente, va letta come un’unica parola, quasi certamente un gentilizio per analogia con le altre iscrizioni rinvenute su elmi e caratterizzate da una simile collocazione. La presenza all’interno doveva infatti essere nota solo a chi utilizzava l’elmo e, quindi, molto probabilmente doveva indicare il suo proprietario. Questo rafforzava il senso di appartenenza di un oggetto di vitale importanza che, nel nascondere le sembianze del guerriero e nel proteggerlo, diveniva la sua proiezione metaforica. Contrariamente a quanto si pensava finora, è possibile che l’elmo non sia stato prodotto a Vulci, ma a Perugia dove è documentato il maggior numero di esemplari di questo tipo peculiare. (red.)

DOVE E QUANDO ETRU-Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Roma, piazzale di Villa Giulia 9 Info tel. 06 3226571; e-mail: mn-etru@beniculturali.it; www.museoetru.it

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

PALAFITTE E CASE LACUSTRI L’articolo sui recenti ritrovamenti nella palafitta di 1 2 Lucone di Polpenazze (Brescia; vedi alle pp. 46-57) è una buona occasione per parlare dei siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino, in particolare nei pressi del Lago di Garda. Ed è anche l’occasione per dedicare la rubrica di questo mese a un argomento un po’ negletto in Filatelia Tematica. Partiamo anche 4 qui da Polpenazze del Garda, con un busta del 3 Comune con annullo postale (1) e indicazione della posizione del piccolo centro sulla piantina del Lago di Garda (2), ma ci spingeremo poi in tutto il mondo per presentare vari esempi di abitazioni su palafitte che, dopo migliaia 6 di anni, sono ancora in uso nelle zone 5 fluviali e lacustri di molti Paesi, soprattutto nelle aree meno urbanizzate. In Africa esiste Ganvié, la «Venezia d’Africa», sul lago Nokoué nell’attuale 9 Benin; la città lacustre è abitata e 7 8 funzionante ancor oggi, e per questo motivo importante meta turistica. Molti i francobolli di Dahomey (3), poi diventato Benin (4, 5, 6), che ne ritraggono vari scorci. La 10 dimostrazione che sia una città «viva» è data da questi due francobolli che raffigurano la consegna della posta mediante piroga (7) e il passaggio di una abitante da una capanna a un’altra (8). Ancora in 11 12 Africa, in Costa d’Avorio, ci sono i 13 villaggi su palafitte a Bletankoro sulla costa (9) e a Tiegba sulla laguna di Ebrié (10). In Asia, nel Brunei, c’è Kompong Phluk (11), un villaggio galleggiante, ma anch’esso «vivo» (12, una piroga tra le palafitte 14 15 16 ne è la prova) a poca distanza dal Lago di Tonle Sap, il piú grande del Sud-Est asiatico. Anche nell’isola di Timor ci sono IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può palafitte abitate, a volte di «artistica» fattura (13). scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi Per il Sud America ecco il villaggio nella laguna di altro tema, ai seguenti indirizzi: Sinamaica-Edo-Zulia (14), famosa meta turistica in Segreteria c/o Luciano Calenda Venezuela, mentre molto piú rozza è la palafitta sul Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa Rio delle Amazzoni in Brasile (15). Infine, ci regalano Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it un sorriso i bambini thailandesi, che immaginano oppure www.cift.it cosí i loro villaggi lacustri (16).

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LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

ROMA BARBARICA

Stranieri nel cuore dell’impero di Umberto Roberto


Genserico e i Vandali invadono Roma, olio su tela di Karl Pavlovic Brjullov. 1833-1835. Mosca, Galleria Tretjakov.

L

a nuova Monografia di «Archeo» illustra uno degli aspetti che piú hanno caratterizzato la storia di Roma, vale a dire l’incontro/scontro con le genti straniere e con il vasto mosaico di popoli tradizionalmente etichettati come «barbari». L’obiettivo è puntato sui secoli dell’impero e della tarda antichità, nel corso dei quali il fenomeno fu particolarmente rilevante, ma non mancano riferimenti anche a fasi precedenti, come quelli che del resto si ritrovano in un celebre discorso tenuto dall’imperatore Claudio in senato, che a tutt’oggi è uno dei piú efficaci manifesti della politica estera romana. Al di là dei molti stereotipi negativi dettati dall’idea che il crollo dell’impero abbia avuto come unica causa la violenta irruzione sulla scena di popolazioni non romane, esiste una realtà – documentata dalle fonti e dall’archeologia – ben diversa e assai piú sfaccettata, in seno alla quale la pacifica convivenza ha a lungo costituito la cifra dominante del fenomeno. Poi, certo, ci furono anche momenti tragici, come in occasione dei ripetuti saccheggi di cui l’Urbe fu vittima, ma si tratta di eventi da collocare in un contesto di respiro ben piú ampio. Ed è questa l’operazione compiuta da Umberto Roberto, autore della Monografia, il quale ripercorre una fase storica cruciale avendo sempre come filo conduttore il tema del confronto fra culture diverse. Una trattazione di straordinario interesse, capace anche di cogliere quelli che dovettero essere i sentimenti dei protagonisti alle prese con un mondo che stava velocemente cambiando.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Storie di gentes externae

in edicola

• STRANIERI E BARBARI • Al centro del mondo • Germani a guardia dell’imperatore • Alarico e Roma • Valentiniano e i Vandali • Ricimero, l’uomo della provvidenza • Flavio Valila: un benefattore alla fine dell’impero • Il regno ostrogoto

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CALENDARIO

Italia ROMA I marmi Torlonia

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 27.02.22 (prorogata)

Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 03.04.22 (prorogata)

FIRENZE A misura di bambino

Crescere nell’antica Roma Galleria degli Uffizi fino al 24.04.22

MILANO Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino all’08.05.22

NAPOLI Gladiatori

Museo Archeologico Nazionale fino al 18.04.22

Giacomo Boni

L’alba della modernità Foro Romano e Palatino fino al 30.04.22

Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22

CAMPELLO SUL CLITUNNO (PG) Trame Longobarde Tra Architettura e Tessuti Palazzo Casagrande fino al 20.02.22

Giocare a regola d’arte

Museo Archeologico Nazionale fino al 04.06.22

Sing Sing. Il corpo di Pompei Fotografie di Luigi Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.22

SPOLETO (PG) Toccar con mano i Longobardi

Rocca Albornoz-Museo nazionale del ducato di Spoleto fino al 06.03.22 30 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

TORINO Un santuario portatile per la dea Anuket Museo Egizio fino al 20.03.22

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22

VARESE La civiltà delle palafitte

L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22

VENEZIA Power & Prestige

Simboli del comando in Oceania Palazzo Franchetti fino al 13.03.22

Venetia 1600

Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25.03.22

Francia PARIGI Parigi-Atene

Nascita della Grecia moderna 1675-1919 Museo del Louvre fino al 07.02.22

Germania FRANCOFORTE Leoni, sfingi, mani d’argento

Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci Archäologische Museum fino al 10.04.22

Regno Unito LONDRA Perú

Un viaggio nel tempo British Museum fino al 20.02.22

Il mondo di Stonehenge British Museum fino al 17.07.22 (dal 17.02.22)

In basso: il circolo megalitico di Stonehenge.

Svizzera VERONA Vasi antichi

Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22

BASILEA animalistico!

Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 31


L’INTERVISTA • SCIENZA E SOCIETÀ

«BASTA CHE TU

DISPREZZI RAGIONE E SCIENZA... E TI AVRÒ IN MIO POTERE» incontro con Giuseppe Cambiano, a cura di Silvia Camisasca


IL RAPPORTO, TANTO ANTICO QUANTO CONTROVERSO, TRA SCIENZA E SOCIETÀ, È TORNATO PREPOTENTEMENTE D’ATTUALITÀ CON LA DIFFUSIONE DELLA PANDEMIA, MONOPOLIZZANDO IL DIBATTITO PUBBLICO. UN TEMA, QUESTO, CARO A UNO DEI PIÚ FINI PENSATORI DEL NOSTRO TEMPO, CHE ALL’ARGOMENTO HA DEDICATO BUONA PARTE DEI SUOI STUDI, GIUSEPPE CAMBIANO, PROFESSORE EMERITO DI STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA PRESSO LA SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA E SOCIO NAZIONALE DELL’ACCADEMIA DEI LINCEI E DELL’ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO

G

iuseppe Cambiano ha iniziato dallo studio della filosofia antica, in particolare del pensiero di Platone (Platone e le tecniche, 1991; Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, 2016), producendo anche sintesi generali (Storia della filosofia antica, 2004, piú volte riedita, e I filosofi in Grecia e a Roma. Quando pensare era un modo di vivere, 2013), per poi estendere le sue ricerche agli usi delle filosofie antiche nella filosofia contemporanea A sinistra: il professor Giuseppe Cambiano. Sulle due pagine: Peste in una città antica, olio su tela di Michael Sweerts. 1650-1652 circa. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art. a r c h e o 33


L’INTERVISTA • SCIENZA E SOCIETÀ

(Il ritorno degli antichi, 1988; Perché leggere i classici, 2010) e al peso esercitato dalle immagini delle antiche città greche nell’elaborazione del pensiero politico di età moderna (Polis. Un modello per la cultura europea, 2007; I moderni e la politica degli antichi, 2018), nella convinzione che esista un legame esplicito, e, a volte, anche inconsapevole, tra mondo moderno e antichità. In questa prospettiva ha dedicato indagini alla storia della scienza antica, raccolte nel volume Figure macchine sogni (Roma 2006). Da ultimo, ha pubblicato un volume destinato a un pubblico ignaro di filosofia e a giovani che si accin34 a r c h e o

gono allo studio di essa dal titolo Sette ragioni per amare la filosofia (2019, ), in cui protagonisti sono proprio i rapporti tra filosofia e scienza, lo straordinario valore dello studio di queste discipline e la funzione positiva che esercitano sulla formazione dei giovani. Ne abbiamo parlato con lui, partendo da un argomento di estrema attualità... ♦ Professor Cambiano, lo scoppio della pandemia ha riportato al centro del dibattito internazionale il tema della «convivenza» tra scienza e società. Quali elementi di novità riscontra, in questo


Sulle due pagine: ex voto in terracotta in forma di organi e parti del corpo umano, dal santuario di Ponte di Nona, al IX miglio della via Prenestina. Roma, Museo Nazionale Romano. A sinistra: Asclepio, dio della medicina, in una calcografia settecentesca.

caso, rispetto alla tradizionale impostazione della questione? E a cosa è dovuto, secondo lei? «Se si pongono a confronto il nostro mondo e quello antico greco e romano si constata immediatamente il prevalere, nell’età moderna, della scienza. Ciò è dovuto, naturalmente, soprattutto agli innumerevoli risultati sul piano tecnico che essa ha prodotto, ampliando lo spazio – e le possibilità di spostamenti – e il tempo, accelerando le forme di comunicazione uditiva e visiva. Da alcuni decenni, però, viviamo in un universo caratterizzato da un crescente popolarsi di nuovi dispositivi tecnologici, resi di fatto indispensabili, non avendo, tuttavia, consapevolezza delle conseguenze prodotte dal loro impiego su vasta scala. Diversamente, non prestiamo altrettanta attenzione all’impatto delle ricerche scientifiche sulla vita individuale e collettiva, come se si trattasse di un dato ovvio. Un atteggiamento che, oggi, può spiegarsi con il fatto che, in primo luogo, ognuno si è sentito vittima potenziale della pandemia e la grande maggioranza ha avvertito che solo dalla scienza potevano provenire gli strumenti per combata r c h e o 35


L’INTERVISTA • SCIENZA E SOCIETÀ

ortopedica. Durante la guerra del Peloponneso, Atene fu invasa dalla peste e Tucidide riferisce che anche i medici perivano a causa di essa, senza essere in grado di contrastarla. Anche oggi, come sappiamo, molti sono stati i medici e sanitari deceduti all’inizio della diffusione del virus. La differenza, tuttavia, è emersa gradualmente, quando l’approccio e il metodo scientifico hanno consentito lo studio e l’analisi delle caratteristiche del virus e la comunità di scienziati si è impegnata nella preparazione di vaccini in grado di contrastarlo. Il fatto è che la ricerca scientifica dispone ora di strumenti di osservazione e diagnostici totalmente assenti nel mondo antico e medioevale, a cominciare dal microscopio, che ha reso possibile indagini chimiche e biochimiche, senza le quali il virus sarebbe rimasto nelle nebbie dell’ignoto».

In alto: Ippocrate di Coo in una incisione dall’opera Vies des Savants Illustres di Louis Figuier. 1866. Considerato il padre della medicina, visse fra il 460 e il 370 a.C. circa. Nella pagina accanto: rilievo raffigurante il dio Asclepio. IV sec. a.C.

tere questa minaccia. E poi per il carattere planetario che la minaccia ha assunto».

♦ Secondo lei, la restrizione delle libertà alla quale la diffusione del virus ha necessariamente condotto è una delle cause che hanno portato al discredito nei confronti della scienza? «La parola “libertà” è echeggiata continuamente nella scena pubblica, come se la nostra vita fosse pervasa da libertà totale, come possibilità di “tutto”, mentre di fatto siamo sempre soggetti a limiti e al potere di qualcosa o di altri. A parte i limiti biologici peculiari della specie umana, mi riferisco a suggestioni pubblicitarie o pressioni d’opinione pubblica o di parte di essa, alle influenze affettive e mentali, alle costrizioni fisiche, o anche solo alla minaccia dell’uso della forza. Sono solito citare una frase del nostro Carlo Dossi (1849-1910), secondo cui la distinzione tra oppressi e oppressori è relativa, perché non c’è uomo, per quanto oppresso, che non trovi altri da opprimere, “fosse sua moglie, fosse il suo gatto, fosse lui stesso”. Pensiamo al potere che è oggi nelle mani del web o dei cosiddetti social network e di coloro che li sfruttano per influenzare i comportamenti altrui, spesso ricorrendo a notizie false, che si diffondono con quelli che sono chiamati “effetti a cascata”, creando identità fittizie tra individui in competizione ostile con altri individui o gruppi. L’esercizio di questa forma di potere trova terreno fertile quando i destinatari di esso, nella loro insicurezza, sono preda dell’ossessione per lo status in cui altri li collocano, specie se li disapprovano o li declassificano. Anche questa è una forma di contagio, non “fisica”, ma altrettanto grave. Di queste continue restrizioni della libertà, passivamente subite, non ci si preoccupa, mentre di quelle funzionali a salvaguardare la vita non solo propria, ma anche di altri, non solo ci si preoccupa, ma le si contesta».

♦ Come spiegare, però, lo scetticismo odierno o, addirittura, il discredito nei confronti della scienza? «Un certo scetticismo nei confronti del sapere scientifico non è mancato neppure nel passato, per esempio nei confronti della medicina, da Catone il Censore e Plinio il Vecchio sino a Petrarca e oltre. Ma lo si può spiegare tenendo conto dei grandi limiti diagnostici e terapeutici della medicina antica: scarse conoscenze su anatomia e funzionamento degli organi interni e terapie affidate solo alla somministrazione di determinati cibi e bevande. L’unico ambito che registrò qual- ♦ Non sempre, inoltre, subire il potere di norme che successo permanente fu quello della chirurgia esterne è un fatto negativo... 36 a r c h e o


«Esatto. Un esempio banale è la disciplina del traffico, che impone obblighi e quindi restringe l’area delle scelte possibili, cioè della libertà, ma tali regole forniscono gradi di sicurezza per chi guida e per tutti gli altri cittadini. Si deve infatti tener conto del nesso esistente tra individuo e comunità: è da anteporre la libertà di un singolo, anche se questa danneggia o ha buone probabilità di danneggiare gli altri, o, in tali casi, è meglio restringerla, soprattutto se la restrizione ha un carattere temporaneo? Non danneggiare altri è requisito minimo, se si vuole vivere in una comunità. Come disse Montesquieu, “se un cittadino potesse fare ciò che le leggi proibiscono, non sarebbe piú libero, perché tutti gli altri avrebbero anch’essi questo stesso potere”. Prendiamo, per esempio, la possibilità di infettarsi non vaccinandosi. Quando si rivendica la libertà di non vaccinare i propri figli, si lascia ovviamente spazio alla possibilità di danneggiare i figli di altri». ♦ Il discredito nei confronti della scienza è, allora, qualcosa di casuale oppure presenta un nesso con condizioni storiche precise? «È chiaro che nelle discussioni attuali si fa riferimento a una nozione generica di libertà, intesa come arma di battaglia e propaganda politica. A questo proposito è interessante che le proteste contro le restrizioni delle libertà, prodotte dalle misure contro la pandemia, siano alimentate prevalentemente da forze che si richiamano a tradizioni politiche che, a essere benevoli, si possono chiamare autoritarie, se non tiranniche. Appare evidente, cosí, la responsabilità nell’uso delle parole – come

quella di libertà –, soprattutto da parte di politici, intellettuali e, in generale, di quanti sono nelle condizioni di influenzare altri. E costoro non sono sempre all’altezza di questo compito. Lo ricordava già Italo Calvino negli anni 1977-1978, quando diceva che una grave malattia ha colpito la parola, specie nel linguaggio politico. “Oggi – diceva – il rifiuto della parola, il non voler piú ascoltare, mi pare segno d’un desiderio di morte. Tendere alla condizione in cui nulla può raga r c h e o 37


L’INTERVISTA • SCIENZA E SOCIETÀ

giungerci dal di fuori, in cui l’altro non interviene a scombinare continuamente lo stato di compiutezza che crediamo d’aver raggiunto, vuol dire invidiare la condizione dei morti. L’intolleranza è aspirazione a che il fuori di noi sia uguale a ciò che crediamo essere il dentro di noi (…) In qualche caso l’intollerante è mortifero; in ogni caso è lui stesso un morto (…) Il diavolo oggi è l’approssimativo (…) il diavolo come personificazione della mistificazione e dell’automistificazione. Dico l’approssimativo, non il complicato”». ♦ La scienza può rappresentare un’alternativa capace di contrastare questa tendenza? «Contrariamente a luoghi comuni, la scienza non è affatto caratterizzata da dogmatismo. Sono i cosiddetti no-vax a ostentare certezze, senza fornire alcuna prova, verificabile anche da altri, di quanto dicono. Già il vecchio Socrate diceva che il peggior male da cui un individuo può essere affetto non è l’ignoranza in quanto tale, ma l’ignoranza di chi è sicuro di sapere qualcosa non sapendola. Al contrario, come diceva nel secolo scorso il fisico Werner Heisenberg, un esperto non è colui che conosce a fondo il suo campo, dato che nessuno può conoscere a fondo qualcosa, ma chi sa “quali grossi sbagli si possono compiere nel suo campo, e sa come evitarli”. La scienza è un cantiere aperto con territori sempre nuovi da esplorare e con possibilità di errori rettificati o rettificabili. Ciò dipende dal carattere pubblico e comunitario della ricerca scientifica, che oggi travalica anche i singoli confini nazionali. La scienza viene svolta da individui che hanno avuto una formazione e un addestramento fondati su basi comuA sinistra: calcografia raffigurante la divinità salutare greca Igea. Personificazione della sanità fisica e spirituale, fu elevata a divinità ed era ritenuta figlia o moglie di Asclepio. A destra: un altro rilievo raffigurante Asclepio, dal santuario a lui dedicato a Epidauro. VI sec. a.C.

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ni, sull’impiego degli stessi strumenti di osservazione e misurazione, per cui ogni ipotesi e ogni eventuale risultato vengono sottoposti al vaglio e alla verifica di altri, i quali possono ripetere le medesime procedure e, su questa base, aggiungendo ulteriori osservazioni o esperimenti, validare o meno queste ipotesi». ♦ Un modo di procedere, quello della scienza, impensabile nell’antichità?


«In genere, fra quanti vantavano competenze scientifiche erano forti le rivalità e la competizione per accaparrarsi il favore dei destinatari delle loro attività. Questo era evidente soprattutto in medicina, dove esistevano piú correnti di pensiero, le quali si avvalevano di metodi diversi e di forme alternative di terapia, dati anche i limiti cognitivi e terapeutici propri della medicina antica. Ma, in alcuni ambiti, si era già avviata la prassi, diventata oggi costante, della cooperazione. Ad

alcuni dei suoi trattati Archimede premetteva lettere indirizzate da Siracusa a colleghi operanti in Alessandria, nelle quali indicava le vie che egli aveva percorso per raggiungere determinati risultati, perché li controllassero e, qualora apparissero loro accettabili, conferissero a essi quella che egli chiamava pistis, cioè fiducia o credito. Ciò contribuiva a formare tradizioni scientifiche, nelle quali le novità si potevano coniugare con la (segue a p. 42)

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L’INTERVISTA • SCIENZA E SOCIETÀ

L’assedio di Siracusa, olio su tela di Thomas Ralph Spence. 1895. Collezione privata. L’autore del dipinto immagina Archimede, ideatore delle macchine belliche, che dà istruzioni su come organizzare la difesa. 40 a r c h e o


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L’INTERVISTA • SCIENZA E SOCIETÀ

continuità, come avviene fondamentalmente anche oggi. Nell’antichità, inoltre, erano a volte auspicate e praticate anche forme di cooperazione tra scienze diverse, come le vediamo oggi, per esempio, nel rapporto per lo sviluppo di apparecchiature e strumenti tecnici, capaci di facilitare e migliorare le diagnosi o le operazioni chirurgiche; o nel rapporto tra virologi, epidemiologi e studiosi di statistica dotati di strumenti matematici, capaci di formulare previsioni su decorsi possibili, incrementi o decrementi della pandemia. Cosí, nella Roma antica, già Vitruvio richiedeva che un architetto disponesse di conoscenze di aritmetica, geometria, ottica e acustica, ma anche di medicina, per valutare la salubrità dei luoghi nei quali costruire, senza per questo essere uno specialista in tutti questi campi. E tesi analoghe sosteneva Galeno a propoito del medico, che doveva disporre anch’egli di conoscenze geometriche, ottiche e botaniche. Il sapere deve continuamente nutrirsi di altri saperi». ♦ Il clima di sfiducia nei confronti della scienza viene anche favorito dalla credenza che sia strumentalizzata dal potere, persino da poteri occulti? «Indubbiamente, quella dell’uso pubblico delle scienze è una questione rilevante, anche perché oggi il possesso di sapere scientifico, e la possibilità di esercitare attività dipendenti da questo sapere, sono attestati da titoli conferiti da autorità pubbliche e conseguiti in seguito a esami, diplomi, lauree. Nulla di ciò era presente nell’antichità, dove le indagini scientifiche erano per lo piú frutto di iniziative individuali o di piccoli gruppi. L’unica eccezione rilevante fu il Museo di Alessandria di Egitto sotto i Tolomei, successori di Alessandro Magno, letteralmente la “casa delle Muse” nella quale scienziati con diverse competenze svolgevano le loro ricerche, piú che dedicarsi all’insegnamento. Il monarca le sosteneva, soprattutto, per mostrare la superiorità della cultura ellenica su quelle indigene. Questo aspetto non è affatto assente nel nostro mondo: basta pensare ai voli spaziali, che hanno sí scopi conoscitivi, ma sono motivati anche da esigenze di competitività nei confronti di nazioni rivali. Un ambito in cui, già nell’antichità, il sapere tecnico-scientifico era utilizzato dai monarchi fu quello della costruzione di macchine belliche, di cui un classico esempio è ancora una volta Archimede. Ma si può ricordare anche l’opera di Frontino preposto a Roma alla costruzione degli acquedotti, sulla quale scrisse un’opera dove esaminava tipi di tubature, loro capacità di erogazione e norme legislative sulla costruzione e manutenzione di acquedotti. È difficile, tuttavia, stabilire un nesso univoco tra uso delle scienze e determinate forme di governo. Rimane il fatto, tuttavia, che soprattutto nei regimi dittatoriali le scienze sono state a volte piegate a strumento di 42 a r c h e o

potere: basta ricordare i casi del medico Josef Mengele, impegnato in esperimenti criminali sui deportati di Auschwitz, o del biologo Lysenko, che sotto Stalin condannò la genetica classica in quanto contraria al materialismo dialettico. La dimensione pubblica e pluralistica delle democrazie moderne rende invece piú difficile un uso strumentale della scienza da parte del potere. Quando poi si parla di poteri occulti, occorrerebbe ancora una volta fornire prove e documenti, non semplici asserzioni. Prendendo l’esempio della pandemia da Covid-19, è difficile pensare a un complotto ordito da migliaia e migliaia di sanitari, per altro essi stessi colpiti e vittime del virus». ♦ È possibile, allora, restituire fiducia nella scienza e attraverso quali vie? «Intanto bisogna distinguere tra fiducia e credulità. Non di rado si dà credito a racconti o storie diffusi attraverso Internet, considerate indiscutibili sulla base di qualche autorità, amici o familiari, che, attraverso semplici considerazioni e verifiche, potrebbero risultare non vere o del tutto inverosimili. Ognuno di noi è affezionato alle proprie credenze, talora ostinatamente legato a esse, senza chiedersi perché nutre tali convincimenti. Uno scrittore del Settecento, Laurence Sterne, disse ironicamente: “È un singolare dono del cielo che la natura abbia infuso nello spirito dell’uomo quella stessa felice riottosa resistenza alla persuasione, che si osserva nei vecchi cani: quella di non apprendere trucchi nuovi”. Ciò porta a volte al rifiuto di ascoltare argomenti contrari alle proprie credenze, un comportamento che ricorda quello dell’individuo che, ai tempi di Galileo, si rifiutò di guardare nel cannocchiale. La situazione è particolarmente pericolosa oggi, perchè i giovani trascorrono quotidianamente ore e ore davanti al computer, sottoposti a fuochi di fila di asserzioni incontrollate, presentate come “evidentemente” ovvie: quale “mascherina”, quale difesa predisporre per i giovani di fronte a ciò, se non avvezzarli a capire come verificare tali notizie? Questo senza demonizzare Internet, anzi cercando di valorizzarlo, ma liberandolo dai poteri malefici che può sprigionare e di cui soprattutto i giovani sono potenziali bersagli, anche perchè piú esposti. Oggi il mondo di Internet, come sostiene Jonathan Franzen nel suo romanzo Purity (2015), è un mondo “governato piú che altro dalla paura, la paura di essere impopolari o sfigati, la paura di rimanere esclusi, la paura di venire insultati o dimenticati”, la paura di non apparire “i meglio”. Piú che una forma di comunicazione capace di stabilire legami positivi tra individui, essa si trasforma non di rado in quella che Eugenio Montale chiamò “solitudine di gruppo”. È compito della scuola cercare di trasmettere ai giovani il significato odierno


della ricerca scientifica e storica, quali approcci e procedure adotti, l’importanza della sua dimensione pubblica e intersoggettiva, aperta a controlli critici reciproci e, quindi, a nutrire diffidenza – non fiducia cieca – nei confronti di asserzioni perentorie, prive di qualsiasi riscontro. Anche perché nella vita di tutti i giorni può avere conseguenze spiacevoli scambiare una semplice opinione per una conoscenza dotata di qualche certezza e probabilità: non distinguere, per esempio, tra il sapere che certe cose inquinano e il credere che non inquinano, o ritenere il Covid una semplice forma di influenza o raffreddore. Migliaia di persone hanno subito le conseguenze di queste “opinioni” sulla propria pelle e hanno dovuto confessare la propria stupidità: ma contro la stupidità anche gli dèi, diceva il poeta Schiller, combattono invano. E Goethe faceva dire da Mefistofele a Faust: “basta che tu disprezzi ragione e scienza e ti avrò immediatamente in mio potere”. È meglio farsi curare da un medico e farsi costruire una casa da un architetto o un ingegnere edile o affidarsi a persone senza alcuna competenza specifica in materia? O, per riprendere una considerazione dell’antropologo Clifford Geertz, dato che non esiste un ambiente perfettamente asettico, sarebbe la stessa cosa sottoporsi a un’operazione chirurgica in una sala operatoria o in una... fogna?». ♦ Rimane il problema di un sapere scientifico che ha raggiunto ormai gradi tali di specializzazione da sfuggire a ogni possibile controllo da parte di chi non dispone di tali conoscenze, ovvero la stragrande maggioranza delle persone... «Il fenomeno, inevitabile, di una sempre crescente specializzazione aveva mosso i primi passi già nell’antichità, distinguendo campi autonomi del sapere e indicando criteri generali grazie ai quali individuare i detentori del sapere.Tra questi figurava l’esibizione dei risultati positivi delle proprie operazioni e attività, il saper correggere e perfezionare i propri procedimenti, la capacità di insegnare e trasmettere anche ad altri le proprie conoscenze e, infine, la necessità di motivare la ragione di certe scelte, operazioni e metodologie. Non bastava sostenere la propria abilità di fronte agli altri per persuaderli automaticamente o perchè potenziali discepoli accettassero le tesi propugnate».

Tavola raffigurante sistemi fognari e di approvvigionamento idrico, da un’edizione settecentesca del trattato sugli acquedotti di Sesto Giulio Frontino, curator aquarum di Roma durante l’imperio di Nerva.

cialista può giudicare adeguatamente e pienamente le asserzioni di altri specialisti del proprio settore: era un punto già assodato da parte di Platone e di Aristotele. Questo significa che tutti gli altri sono completamente esclusi dalla possibilità di comprendere e formulare qualche giudizio sull’operato di uno specialista? Aristotele aveva messo in luce l’importanza della formazione di un uomo dotato di cultura generale (che egli designava col termine pepaideumenos, dal greco paideia, educazione, formazione), al quale attribuiva la capacità di formulare giudizi anche sui discorsi degli specialisti, nel senso di saper valutare i metodi e la coerenza argo♦ In altre parole, se qualcuno sa qualcosa, deve mentativa delle loro tesi, pesandone la congruenza o anche rispondere del proprio sapere e deve poter mettendone in luce eventuali punti oscuri o criticità». rendere conto in nome di chi, o di cosa, egli de♦ Una perizia non facile da acquisire… tenga quel sapere... «...invece le semplici credenze, come si è detto, sono «Naturalmente, ma solo su questa base è possibile acaccolte come ovvie e indiscutibili, senza che sia avver- cordare fiducia alle scienze anche da parte dei non tita la necessità di darne ragione, di spiegare perché specialisti, ed è solo attraverso l’insegnamento, la scuodovrebbero essere accettate. Naturalmente solo lo spe- la che tale capacità può essere conquistata». a r c h e o 43


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L’

acqua ha sempre rappresentato un’importante risorsa e via di comunicazione per le comunità umane, che, fin dall’antichità, l’hanno sfruttata e hanno abitato in zone vicine a laghi e fiumi. Abitare in simili luoghi, però, comportava il rischio di continue variazioni del livello dell’acqua stessa e di inondazioni e, di conseguenza, la necessità di adattarsi ad ambienti molto ricchi ma anche per loro natura «instabili». Un adattamento che trova la sua espressione nella costruzione di abitazioni sopraelevate, le palafitte, che già dal Neolitico e fino al Bronzo Finale (dal 5300 al 900 a.C. circa), continuando raramente come fenomeno residuale nell’età del Ferro (fino al 500 a.C. circa), hanno caratterizzato il paesaggio della Pianura Padana e dell’arco alpino, con la fondazione di

villaggi sia sulle sponde dei grandi laghi (Garda, Iseo, Idro, Lecco, Maggiore), sia intorno a bacini piú piccoli, laghetti inframorenici, stagni, paludi, torbiere e fiumi.

UN SITO TRANSNAZIONALE Nel 2011 l’iscrizione del sito seriale «Siti Palafitticoli Preistorici dell’Arco Alpino» nella Lista del Patrimonio UNESCO ha coinvolto 111 abitati, selezionati tra i circa 1000 esistenti tra Austria, Francia, Germania, Italia, Slovenia e Svizzera, e ha confer mato l’impor tanza scientifica e l’unicità di tali insediamenti, ma anche la necessità della loro conservazione. Del sito seriale transnazionale

fanno parte 19 palafitte italiane, suddivise in 7 grandi macroaree tra Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia (piccoli laghi e torbiere del Piemonte, Lago Maggiore e Laghi Varesini tra Piemonte e Lombardia, Lago di Garda tra Lombardia e Veneto, fiumi tra Lombardia e Veneto, laghi e torbiere del Trentino, Berici ed Euganei del Veneto, fiumi e paludi tra Veneto e FriuliVenezia Giulia), a cui fanno capo anche «siti associati», insediamenti che non rientravano in tutti i criteri di selezione, ma ai quali si riconosce comunque un grande valore, tra cui quelli di Lagozza e di Polada, che danno il nome ad

Nella pagina accanto: il recupero di un boccale, un recipiente da mensa ampiamente attestato nel repertorio delle forme ceramiche in uso nell’abitato palafitticolo del Lucone di Polpenazze (Brescia). In basso: un’immagine della campagna di scavo condotta nel sito nel 2014.

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SCAVI • LOMBARDIA

Lago Maggiore

Varese

Como Bergamo

Busto Arsizio

Lago d’Iseo

Monza

Brescia

Milano Pavia Piacenza

Veneto

a

Og

Cremona

Emilia-Romagna

Piemonte

Lago di Garda

Lucone di Polpenazze

Vigevano Po

Trentino Alto Adige

Lago di Como

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Adda

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SITI MENO «PERICOLOSI» «È significativo – spiega Marco Baioni, direttore scientifico dello Scavo al Lucone D e, dal 2004, del Museo Archeologico della Valle Sabbia di Gavardo (Brescia) – che la maggior parte degli abitati palafitticoli gardesani a oggi conosciuti si concentri proprio intorno ai laghetti inframorenici, forse perché tali bacini d’acqua erano piú “gestibili” e meno pericolosi rispetto ai grandi laghi. Le indagini hanno permesso di individuare molti siti, anche grazie al fatto che tali laghetti sono oggi quasi tutti prosciugati e gli abitati sono quindi su terreno». Per quanto riguarda il Lucone, si

Svizzera

Ti

altrettante facies archeologiche. Per lo studio di tali insediamenti l’area gardesana rappresenta indubbiamente un territorio molto importante, con villaggi sia lungo le coste del lago che in torbiere, un tempo laghetti inframorenici formatisi con il ritirarsi dei ghiacciai, spesso collocati nelle vicine valli, come nel caso della palafitta dell’ex lago Lucone a Polpenazze (Brescia) in Valtenesi, uno dei maggiori bacini inframorenici intorno al Garda.

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Mantova M

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Liguria

tratta di una vasta conca con due In basso: la conca aree palustri (una piú grande e una un tempo piú piccola) coperte da vegetazione occupata dalle (bosco e canneti) che formavano aree palustri che l’ex lago – prosciugato tra la fine del formavano il lago XV e il XVI secolo d.C. –, unite tra di Lucone, non loro a creare una caratteristica forlontano dalla ma «a occhiale». sponda «Lungo le sponde – continua Baiooccidentale del ni – sono stati individuati 5 insedialago di Garda menti, noti come Lucone A, B, C, D (vedi cartina nel ed E». Il primo, Lucone A, è stato riquadro).


Sulle due pagine: una gerla in legno intrecciato in corso di scavo. In basso, nel riquadro: cartina che mostra la sponda meridionale del lago di Garda con la localizzazione di Lucone indicata dal cerchiello rosso.

indagato archeologicamente tra il 1965 e il 1971 a opera del maestro Piero Simoni del Gruppo Grotte di Gavardo, e ha portato all’individuazione di un grande abitato databile tra il 2200 e il 1300 a.C. (Bronzo Antico e Medio), da cui proviene anche una piroga monossile, della cui scoperta diede notizia anche la Domenica del Corriere del 5 settembre 1965. Lucone C risale invece alla cultura dei Vasi a Bocca Quadrata e alla cultura della Lagozza (IV millennio a.C.), e Lucone D (indagini ripartite nel 2007 e ancora in corso), B ed E al Bronzo Antico. «I dati attualmente a disposizione non permettono di stabilire se si tratta sempre della stessa comunità che si è un po’ spostata nei secoli, fondando nuovi villaggi sulle spon-

de del bacino lacustre o di una concentrazione di diversi abitati in un unico nucleo piú grande. Al Bronzo Recente si data l’abitato (non lacustre) sul Dosso Castilí-Monte Guarda di Castrezzone, frazione di Muscoline, mentre dal Bronzo Finale si assiste a un crollo demografico e allo spopolamento del territorio (con una interessante rifrequentazione di ripari sottoroccia e grotte nella Valle Sabbia), con l’inizio della concentrazione della popolazione nei primi centri protourbani». Quanto al Lucone D, il sito è stato individuato nel 1986, anno in cui è stato condotto un primo sondaggio che ha confermato la presenza di un sito intatto, non turbato da attività umane, sigillato da uno strato carbonatico di colore bianco. a r c h e o 49


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«È una tipica stratigrafia lacustre, con lo strato “a sigillo” formatosi forse tra il Bronzo Finale e la Prima età del Ferro, con una maggiore estensione del bacino. Le indagini vere e proprie sono riprese nel 2007 su concessione ministeriale e con il finanziamento della Regione Lombardia e dei Comuni di Gavardo e di Polpenazze del Garda, e proseguite con successive campagne annuali fino a oggi. I dati raccolti hanno permesso di stabilire che si tratta di un abitato monofase del Bronzo Antico, con una durata di vita di circa 70 anni (dal 2034 al 1967 a.C., Bronzo Antico 1), durante la quale è stato interessato da diverse fasi costruttive e da un devastante incendio, che ha causato la distruzioIn alto: grandi vasi per derrate, che si presentano schiacciati, ma ricostruibili, grazie alla conservazione di tutti i frammenti. A destra: un vassoio in legno. Nella pagina accanto: un’immagine del livello riferibile all’incendio che devastò l’abitato in una data che le analisi di laboratorio hanno permesso di fissare al 2034 a.C.

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ne di gran parte delle strutture, ma che, contemporaneamente, ha permesso la conservazione degli elementi strutturali e dei vari materiali caduti in acqua. L’incendio, avvenuto nel 2034 a.C., segna la nuova fase insediativa dell’abitato che è stato nuovamente ricostruito per poi venire definitivamente abbandonato al termine dalla fase stessa». L’indagine archeologica mira a comprendere l’articolazione e la grandezza dell’abitato, e si è perciò scelto di procedere con uno scavo estensivo (nei limiti del possibile) che per il momento ha interessato due settori contigui per un’area di 343 mq, ovvero il settore 1 (chiuso nel 2014) e il settore 2, interessato da un primo saggio tramite una

trincea nel 2013-14 e aperto nel 2016. Lo scavo si è concluso nel 2021 con il raggiungimento dello strato sterile rappresentato dal fondo del lago (resta in realtà da indagare una piccola fascia laterale).

VARI TIPI DI LEGNO «Durante gli scavi sono stati individuati piú di 1200 elementi lignei sia verticali (pali) che orizzontali (assi, travi, travetti di muri e impalcati) oltre a elementi di arredo (per esempio uno scaffale con un foro per agganciare un montante). Il Lucone D era una palafitta costruita su “pali liberi”, ovvero pali in quercia non fermati da elementi, ma solo dalle buche di fondazione, che si conservano ancora in loco,

perfettamente verticali (solo quelli ricavati dalle piante piú giovani sono talvolta stati spostati dai movimenti del sedimento) per una lunghezza di 2-3 m (ma talvolta anche 7-8), mentre i pali che costituivano gli elementi orizzontali, oltre che in quercia, sono anche in acero, ontano, ecc.». In particolare sono state indagate tre grandi capanne rettangolari, due datate al 2031 a.C. e una al 2033 a.C., dotata di una sorta di terrazzo cha dava sul lago. «Livelli di scarico ricchi di elementi vegetali e materiali organici ritrovati tra i pali hanno permesso di stabilire la posizione del focolare, vicino al quale doveva trovarsi una botola sul pavimento, utilizzata per gettare via i resti del

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SCAVI • LOMBARDIA

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Per gli oggetti d’ornamento si fece ricorso a una vasta gamma di materie prime, che comprendeva osso, corno di cervo, faïence verdi e azzurre, marmo, nonché semi forati

focolare stesso e delle varie attività In alto: collana domestiche durante le pulizie». di perline in Lo studio dei materiali di scarico ha marmo e semi fornito vere e proprie istantanee forati di «falso sulla vita che doveva svolgersi nel pistacchio» villaggio. «La sezione sottile da cam(Staphylea pione indisturbato ha evidenziato pinnata). tracce di paglia, forse proveniente A destra: dai tetti, di pula (per i focolari) e di particolare di una escrementi secchi di animali utiliztrave in quercia zati come combustibile, frutti e semi, con fori ma sono stati anche individuati veri quadrangolari per e propri “incidenti domestici”, qua- travetti passanti. li vasetti con semi carbonizzati». Nella pagina Fotografie di vita quotidiana sono accanto: la porta offerte anche dagli strati di crollo composta da tre dell’incendio: «Sono strati rinvenuassi a incastro, ti vari elementi strutturali, tra cui due dei quali capriate di tetti, tegole di corteccia provvisti di di quercia con foro per il fissaggio, «manici» per molto simili a quelle che utilizziainserire travetti mo ancora oggi, e due pali ancora poi bloccati infissi uno nell’altro. Ritrovamenti da cunei. a r c h e o 53


SCAVI • LOMBARDIA

eccezionali sono due travi di quercia gemelle, scoperte nel 2015-16, lunghe circa 8 m e dotate di 25 fori quadrangolari per travetti passanti (vedi foto a p. 53, in basso)». Le due travi, forse elemento strutturale per i tetti (capriate), sono esposte dal 2021 nel Museo Archeologico della Valle Sabbia, in cui sono conservati i reperti provenienti dagli abitati del Lucone. «Nel 2020 è venuta alla luce una porta del Bronzo Antico, la prima mai ritrovata in Italia e una delle piú antiche in Europa (a parte due porte del Neolitico scoperte in Svizzera), composta da 3 assi a incastro (non venivano utilizzati chiodi), di cui 2 con “manici” in cui inserire travetti poi bloccati da cunei per tenerla unita (vedi foto a p. 52)». Il fuoco dell’incendio ha anche determinato la cottura, e la conseguente conservazione, di elementi in argilla cruda: «Dall’area provengono pezzi di intonaco e di focolari ma anche alcune strutture tronco-coniche interpretate come silos per conservare semi e cereali». La ceramica è ampiamente rappre-

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sentata da reperti di varia tipologia: A sinistra: una dalle tavolette enigmatiche (manutavoletta fatti in ceramica o pietra, che recaenigmatica in no spesso linee orizzontali, lungo le ceramica. quali sono impressi o incisi A destra: un motivi diversi – triangoli, momento cerchi, quadrati, rettandell’ultima goli con varie campicampagna di ture – e il cui signifiscavo (2021). cato non è chiaro, In basso, a donde il nome, n.d.r.) sinistra: ai recipienti da mensa particolare di una (tazze, ciotole, boc- zappa ricavata da cali), da fuoco (sco- un palco di cervo. delle e vasi tronco- In basso, a destra: conici per cucinare) un grande vaso in e per la conservazioceramica dopo il ne di bevande (anfore restauro. e brocche) e di derrate alimentari (dolii e orci). «I recipienti di grandi dimensioni vengono generalmente rinvenuti rotti (schiacciati), mentre quelli medio-piccoli sono spesso integri. Di ceramica sono anche fusaiole e pesi da telaio verticale, utilizzati per


UNO SCAVO «APERTO» filatura e tessitura di tessuti in lino; oltre ai tessuti, è stato rinvenuto del filo ancora avvolto a una spoletta, un vero e proprio rocchetto dell’epoca. Meno numerosi, ma comunque presenti sono anche oggetti in metallo, quali asce, spilloni, lesine e pugnali». Non mancano reperti in osso, corno, pietra e legno. «Gli oggetti in legno ricoprono varie tipologie e dimensioni, da una vasca scavata in tronco di ontano, fino a falcetti con lame in selce, frullini, zappe (con parti in corno di cervo; vedi foto a p. 54, in basso) e al manico di uno strumento sconosciuto, interamente decorato a incisione con motivi geometrici, ma anche a una gerla in legno intrecciata, rinvenuta nel 2019 (vedi foto a p. 49, in alto)». Gli ornamenti sono rappresentati da bottoni in osso e da perline di vari materiali: «Sono state rinvenute perline di osso, corno di cervo, faïence verdi e azzurre e di marmo. Queste ultime in una collana erano in-

tervallate da semi forati di “falso pistacchio” (Staphylea pinnata), pianta che si riteneva originaria dei Balcani (dove ancora oggi i semi vengono utilizzati per produrre gioielli), ma che si è scoperto essere endemica in Lombardia (vedi foto a p. 53, in alto). Curiosa la mancanza di ambra (un solo frammento), attestata invece in Lucone A».

FRUTTA «PASSITA»? «Lo studio dei frutti, semi e resti di animali ha permesso di comprendere che l’alimentazione era costituita da vari tipi di cereali, con predominanza di farro, tra cui un cereale estinto ancora privo di nome scientifico, affine al “Triticum timopheev”, frumento coltivato nel Caucaso (testimoniato da due spighe; vedi foto a p. 57, in alto). Per quanto riguarda la frutta, si nota il consumo di pere, fichi e mele, queste ultime tagliate in due, forse per venire “passite”, mentre la grande abbondanza di

Una delle principali caratteristiche del Lucone D è lo stretto rapporto con il pubblico. Lo scavo è stato infatti organizzato per essere aperto al pubblico, con l’obiettivo di coinvolgere e sensibilizzare le comunità locali: tutti i giorni si possono osservare e incontrare gli esperti che vi lavorano e imparare come si organizza e gestisce un cantiere archeologico, mentre il venerdí sono previste visite guidate con laboratori per i bambini. Ma sono anche organizzati campi di scavo per i ragazzi delle scuole superiori, che vengono coinvolti nelle varie attività del cantiere, aiutando, per esempio, a lavare e classificare i materiali. La campagna del 2021 si è conclusa il 5 settembre con la tradizionale festa di fine scavo e l’indagine riprenderà nella prossima estate.

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SCAVI • LOMBARDIA

semi di corniolo potrebbe testimoniare anche la preparazione e il consumo di bevande alcoliche. La raccolta di frutta spontanea è attestata dall’abbondanza di frutti di bosco (fragole, more, lamponi)».

UNA DIETA CON POCA SELVAGGINA Dallo studio della fauna emerge il consumo prevalente di carne di maiale, mentre caprovini e bovini erano sfruttati soprattutto per i prodotti secondari (latte) e come forza lavoro. «La caccia, testimoniata anche dai cosiddetti “bracciali da arciere”, rivestiva un ruolo assolutamente marginale (non piú del 5% dei resti animali appartengono a specie selvatiche) ed era quasi sicuramente praticata non a scopo alimentare, ma piú probabilmente ludico o rituale (per esempio per riti di iniziazione). Naturalmente veniva praticata anche la pesca (tinche e lucci)».

Di grande importanza scientifica è il ritrovamento, a partire dal 2012, dei resti degli scheletri di 5 bambini, quasi tutti di un’età compresa tra i 2,5 e i 3 anni, ma anche 2 neonati (uno di meno di 1 anno e uno di non piú di tre mesi), tutti sprovvisti del cranio (resta solo la mandibola). «Si tratta di una scoperta veramente eccezionale – sottolinea Baioni –, in quanto nelle palafitte gardesane del Bronzo Antico non è mai stata scoperta una

necropoli e, di conseguenza, non si sa come venissero sepolti i morti. Ancora piú straordinario è il fatto che, nel 2020, sono stati rinvenuti resti pertinenti a scheletri già precedentemente individuati, ovvero un omero contenuto in un vaso. Negli strati di rifondazione postincendio è stato invece ritrovato un involucro di quercia contenente parte del cranio (l’unico ritrovato al Lucone) di un bimbo di 2,5-3 anni, fatto che fa pensare a un probabile

UN MUSEO PER LA VALLE SABBIA Il MAVS, Museo Archeologico della Valle Sabbia con sede a Gavardo (Brescia) è stato fondato nel 1956 su iniziativa del locale Gruppo Grotte di Gavardo (associazione nata nel 1954) proprio con lo scopo di raccogliere, conservare, studiare ed esporre al pubblico i reperti provenienti dal territorio, grazie anche all’interessamento dell’allora soprintendente Mario Roberto Mirabelli, che ha sostenuto le associazioni lombarde nella creazione di un tessuto di piccoli-medi musei nella regione. In seguito è stato donato al Comune di Gavardo, con un accordo notarile in virtú del quale il Comune stesso si impegnava a mantenerlo attivo, e, da

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sei anni, è divenuto Fondazione in società con la Comunità Montana della Valle Sabbia. Ospitato in un edificio costruito tra XV e XVII secolo, un tempo di proprietà della Curia Vescovile, il MAVS ripercorre la storia del territorio e della presenza umana a partire dal Paleolitico Medio (100 000 anni fa) fino all’Alto Medioevo, concentrandosi sui principali rinvenimenti dell’area, quali i siti della Buca del Frate (per la sezione paleontologica, che comprende anche uno scheletro completo di Ursus Spelaeus e di lupo del Pleistocene), del Monte Covolo, di Monte Faita, Corna Nibbia di Bione, del Lucone e quelli romani di Lugone di Salò e di Castel Antico di Idro, oltre allo stesso Gavardo. Il primo piano è invece dedicato alle mostre temporanee. Si tratta di un «museo vivo», con collezioni in continuo accrescimento grazie alle ricerche effettuate dal Gruppo e agli scavi eseguiti dal Museo stesso, in accordo con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, oltre che a donazioni e a rinvenimenti occasionali, un vero e proprio «cantiere permanente», che presto potrà usufruire di nuovi spazi, grazie all’acquisto di un edificio confinante, nel quale verranno spostati i magazzini, i servizi e gli uffici, mentre nelle sale che si libereranno verrà allestita la nuova sezione alto e bassomedievale.


rito di rifondazione o di consacrazione. Gli altri rinvenimenti (scheletri con ossa concentrate, non bruciate, almeno in un caso contenute in un vaso, e privi di cranio), suggeriscono che non si tratti di bimbi morti durante l’incendio, ma che al Lucone fosse previsto un trattamento speciale almeno per i piú piccoli (resti tenuti nelle abitazioni), e che il cranio godesse di un particolare riguardo». DOVE E QUANDO

In alto: spighe di un cereale estinto, affine a una varietà del Caucaso. Nella pagina accanto, in alto: un tessuto di lino con frange. Nella pagina accanto, in basso: calco

della piroga monossile rinvenuta nell’area dell’abitato nel 1965. In basso: la ricostruzione di una casa palafitticola con le sue suppellettili inserita nell’allestimento del MAVS.

MAVS, Museo Archeologico della Valle Sabbia Gavardo (Brescia), piazza San Bernardino, 5 Info tel. 0365 371474; e-mail: info@ museoarcheologicogavardo.it; http://museoarcheologicogavardo.it; Facebook: Museo Archeologico della Valle Sabbia; Instagram: museo_archeologico_vallesabbia

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ARCHEOLOGIA CRISTIANA • NEPI

NELLA GROTTA DELLE

SANTE RELIQUIE OLTRE MILLE SEPOLTURE – TRA CUI QUELLA DI UN SANTO MARTIRE RITROVATO DOPO 1500 ANNI «ANCORA INTIERO E INCORROTTO» – CENTINAIA DI LUCERNE, MIRABILI AFFRESCHI DI ETÀ MEDIEVALE: NELLA CITTADINA LAZIALE DI NEPI È OGGI NUOVAMENTE VISITABILE, DOPO UN LUNGO OBLIO, LA CATACOMBA DI SANTA SAVINILLA di Stefano Francocci

F

ra gli antichi cimiteri che testimoniano della fede dei primi cristiani, la catacomba di S. Savinilla a Nepi (Viterbo) è una fra le piú importanti del Centro Italia. Situata una quarantina di chilometri a nord di Roma, l’area sepolcrale presenta, infatti, peculiarità e conserva memorie storiche che ne fanno un mo-

numento di grande interesse. Il padre dell’archeologia cristiana, Giovanni Battista De Rossi (1822-1894), visitando il luogo ebbe modo di osservare che: «È tutto spogliato: pure da qualche residuo delle chiusure de’ loculi e da qualche lettera graffita sulla calce, che quivi ho osservato, raccolgo, il sistema esserne stato simile a quello dei vicini cimiteri dei Capenati». Sulle due pagine: la galleria principale (A1) della catacomba di S. Savinilla a Nepi (Viterbo). A sinistra: l’area presbiteriale della chiesa di S. Tolomeo fuori le Mura, con l’ingresso alle gallerie (A1 e B1) della catacomba.

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ARCHEOLOGIA CRISTIANA • NEPI

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Perugia Chianciano Terme

Chiusi

Sarteano Marsciano

Monte Amiata

Orvieto

Pitigliano

Bolsena

A1

Lago di Bolsena

Vulci

Spoleto

ere Tev

Questo sintetico rapporto, peraltro A destra: cartina reso nell’ambito di un piú generale del Lazio studio sui sistemi di chiusura dei settentrionale sepolcri cristiani della Tuscia, non con la posizione incoraggiò successive ricerche, tanto di Nepi, centro che nuovi studi sistematici sul mosituato a metà numento furono avviati solo dagli strada fra Roma anni Ottanta del secolo scorso, da e Viterbo. Vincenzo Fiocchi Nicolai, in conIn basso: la comitanza con interventi di restauro galleria A2 della realizzati dalla Pontificia Commiscatacomba. sione di Archeologia Sacra. Nella pagina Secondo la tradizione, riportata da accanto: una Passio dell’XI secolo, nella cata- planimetria della comba la matrona Savinilla fece sepcatacomba pellire i corpi dei due martiri Tolodi S. Savinilla meo e Romano e dei loro discepoli. al termine Il martirio sarebbe avvenuto sotto delle indagini un imperatore di nome Claudio, che archeologiche oggi si tende a identificare con eseguite nel 2003. Claudio «il Gotico» (268-270 d.C.).

Viterbo

Tuscania

Magliano Sabina

Vetralla Tarquinia

Barbarano Blera Romano

Civitavecchia Tolfa

Nepi

Lago di Bracciano

Palombara Sabina

Bracciano Cerveteri A12

Rieti

Roma


All’area sepolcrale si accede dalla chiesa di S. Tolomeo fuori le Mura, eretta nella seconda metà del XVII secolo in sostituzione di una precedente chiesa medievale. La costruzione dell’edificio seicentesco andò a cancellare parte dell’antico cimitero paleocristiano, attualmente composto da tre gallerie principali (A1, B1, C1) e da tre diramazioni secondarie (A2, A3, C2) scavate nel tufo. Le prime due gallerie principali si estendono per la lunghezza di circa 35 m e si congiungono quasi ad anello. La terza galleria, di lunghezza inferiore, è posizionata poco a ovest delle precedenti e corre parallela, raggiungendo una maggiore profondità. Lavori di restauro della chiesa, svolti nel 2003, hanno permesso di indagare sotto la sua super-

ficie, consentendo l’individuazione di un ampio ambulacro (U), sul quale erano scavate numerose formae (tombe) pavimentali, e di un’ulteriore galleria (D1) con la sua diramazione (D3).

CARATTERE MONUMENTALE Nel caso della prima galleria principale (A1) le dimensioni raggiunte sono decisamente notevoli: l’ampiezza supera, infatti, i 3,50 m, mentre l’altezza massima arriva a sfiorare i 6. Questi dati conferiscono uno straordinario carattere monumentale alla catacomba di Nepi, che trova riscontro in quelle ben piú estese di Roma o Napoli. Al suo interno erano ospitate oltre mille sepolture, scavate nell’arco di

circa un secolo e mezzo a partire dal IV e costituite da loculi, tombe ad arcosolio, tombe a mensa, formae pavimentali e nicchioni funerari. Tutte le tombe erano chiuse con tegole e sigillate con uno strato di malta sul quale veniva inciso o dipinto l’epitaffio. Attualmente, però, i sepolcri si presentano in larghissima parte aperti; ciò ha fatto sí che le epigrafi funebri siano andate perse e con queste la memoria di coloro che vi erano sepolti. Nei rari casi ancora conservati, il formulario trova riscontro in quello di altri coevi complessi funerari cristiani del Lazio, caratterizzandosi per il frequente utilizzo dell’espressione «hic dormit» («qui dorme») all’inizio del testo, secondo la concezione cristiana che vede il sonno come un riposo in attesa del risveglio, ovvero della Resurrezione. Vari sepolcri dovevano essere affrescati ma, purtroppo, molto scarse rimangono oggi le testimonianze pittoriche riferibili alla fase paleocristiana del cimitero. Di molto posteriori sono, invece, gli affreschi meglio conservati che decorano i fianchi di un arcosolio e che raffigurano da un lato gli Apostoli Giovanni e Giacomo Maggiore e dall’altro il Salvatore. Le pitture sono andate a decorare una sepoltura che la comunità di Nepi ha voluto identificare come quella di san Romano (vedi box alle pp. 62-63). Il restauro della catacomba ha permesso il recupero di reperti oggi conservati nel locale Museo Civico. La quasi totalità dei ritrovamenti è costituita da alcune centinaia di lucerne fittili. Le piú antiche sono cronologicamente inquadrabili tra il IV e il VII secolo e fra di esse compare frequentemente il tipo delle lucerne globulari con decorazione a perline o globetti, molto diffuso in ambito catacombale. Altre lucerne presentano elementi tipici del repertorio iconografico cristiano, come la figura del pesce o la croce monogrammatica. Gli esemplari piú numerosi appartengono, però, a tia r c h e o 61


ARCHEOLOGIA CRISTIANA • NEPI

UNA DEVOZIONE SENTITA E DIFFUSA La diffusione del culto, e quindi dell’iconografia, dell’Apostolo Giacomo nel territorio italiano è un dato acquisito da tempo, e non solo da parte degli studiosi. Ma continua a suscitare meraviglia la scoperta, o riscoperta, di nuove, ulteriori testimonianze della devozione nei suoi confronti anche in ambiti e in contesti apparentemente lontani da quelli già noti. Un esempio della singolare e capillare diffusione dell’iconografia jacopea è costituito appunto dall’immagine collocata nella catacomba di S. Savinilla a Nepi. Nel sottarco di una sepoltura ad arcosolio, tradizionalmente designato come sepoltura di san Romano, patrono di Nepi insieme a

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san Tolomeo, compare infatti un affresco medievale composto da due pannelli. In quello di destra è raffigurato Cristo, nella tipica iconografia del Pantocratore che rimanda, in qualche modo, alle tante copie tardo-medievali dell’Acheropita del Laterano. La figura di Cristo è a mezzo busto, in posizione frontale, il suo capo è cinto del nimbo crucigero, è rivestito di una tunica bianca e di un pallio color rosso, con la destra compie il gesto dell’adlocutio, della parola, mentre con la sinistra regge un libro aperto, su cui era riportata una citazione biblica, di cui si distinguono ormai solo poche lettere (A e TO), che potrebbero riferirsi alla

tradizionale iscrizione «ALFA ET OMEGA». Nel riquadro, delimitato da tre fasce di colore, compaiono anche due angeli, che reggono una cortina a losanghe, che fa da sfondo alla figura del Cristo. Sulla parete di sinistra, invece, il pannello è piú elaborato. Le consuete fasce di colore rosso, bianco e giallo delimitano la rappresentazione. Sullo sfondo grigio-turchino si apre, in alto, una «finestra» piú scura, a evidenziare i volti di due santi, entrambi muniti di un nimbo color ocra delimitato da una linea bianca. Si tratta, appunto, di San Giacomo Apostolo, collocato a destra, e di San Giovanni Evangelista a sinistra. Quest’ultimo, di aspetto giovanile, con il volto imberbe, volge leggermente il capo verso sinistra, con la destra fa il gesto della parola, mentre con la sinistra regge un libro chiuso. Giacomo ha l’aspetto di un uomo adulto, con il volto incorniciato da una leggera barba e da baffi, e rivolge lo sguardo verso l’altro Apostolo. Con la destra impugna il bordone dalla punta metallica, con la sinistra regge anch’egli un libro chiuso. Sul fianco destro si nota una piccola sacca scura, una scarsella, tenuta a tracolla con una cordicella. I due lacerti di affresco, opera di autori diversi, si possono datare, soprattutto per motivi stilistici, al XIV secolo. La loro collocazione in una catacomba rappresenta, perciò, davvero un’eccezione, giacché molto raramente si trovano affreschi medievali nelle catacombe. Normalmente la frequentazione delle catacombe non va oltre il V-VI secolo. Per alcune ci sono singolarità, dovute soprattutto alla presenza di comunità religiose che si insediarono accanto agli antichi cimiteri per dare continuità a qualche particolare venerazione,


pologie che coprono un ampio arco temporale che va dal Medioevo all’età moderna. La presenza dell’affresco di età medievale e l’insieme dei reperti recuperati permettono di affermare che la catacomba conobbe una frequentazione continua che andò intensificandosi, in particolare, dopo la «riscoperta» del complesso cimiteriale nel 1540.

Sulle due pagine: gli affreschi del Cristo Pantocratore (in alto) e di San Giacomo Apostolo e San Giovanni Evangelista. Le pitture sono state assegnate, sulla base dello stile, ad artisti attivi nel XIV sec.

generalmente rivolta ai martiri. Abbiamo, cosí, testimonianze pittoriche che a Roma (come l’oratorio benedettino nella catacomba di Sant’Ermete) e nel Lazio (Albano, San Senatore) arrivano anche al XII secolo. Significativa, infine, e ancora da studiare in profondità, la scelta del committente di non rappresentare il vescovo patrono lí sepolto, bensí Cristo e i due fratelli Apostoli, Giacomo e Giovanni. Non è documentato un significativo culto ai due Santi Apostoli nella cittadina e nei dintorni. Si potrebbe, allora, ipotizzare una particolare venerazione o devozione per i due Apostoli da parte del committente,

presumibilmente un ecclesiastico locale, vescovo o sacerdote, o anche un nobile, giacché difficilmente altri personaggi meno autorevoli avrebbero avuto la possibilità di decorare un luogo cosí importante e significativo per la popolazione. Tale devozione potrebbe, come talvolta si riscontra, essere collegata proprio al nome dello stesso committente (Giovanni Giacomo, Giangiacomo, ecc.). Ma si potrebbe ancora ipotizzare che i due fratelli Apostoli Giacomo e Giovanni rappresentino il modello, il «precedente» illustre dei due «apostoli ed evangelizzatori» di Nepi, Tolomeo e Romano. Monsignor Pasquale Iacobone

BASTIONI AL POSTO DELLA CHIESA Le cronache dell’epoca narrano, infatti, che in quell’anno, in relazione con l’avvio dei lavori per la realizzazione della cinta muraria cittadina, progettata da Antonio da Sangallo il Giovane, Pier Luigi Farnese ordinò di demolire la chiesa medievale che sorgeva sul luogo: «L’Eccellentiss. Sig. Duca Pierluigi Farnese, volendo porre in fortezza detta Città, determinò gettare a terra alcune Chiese, e cappelle fuori di essa; ma per che da quella di S. Tolomeo, che risedeva in luogo vicino, e rilevato, considerava potersi far maggior nocumento a detta fortezza, questa principalmente volle che da’ fondamenti fusse rovinata». Questo edificio, noto per la prima volta da un documento del XII secolo, doveva ospitare al suo interno la tomba con le spoglie di san Tolomeo. Si trattava, probabilmente, di una basilica ad corpus, sorta allo scopo di monumentalizzare il sepolcro. All’atto della demolizione, un muro sarebbe miracolosamente crollato riportando alla luce la tomba del santo accerchiata da altre sepolture scavate nel tufo. Come ricorda il domenicano Giacinto de Nobili, autore di un’opera sui martiri di Nepi stampata nel 1620: «Fu aperta la cassa di pietra, in cui riposava il corpo del S. martire Tolomeo, oltre all’odor mirabile e fragrantia inuenarabile che uscí dalle sante membra, fu ritrovato doppo 1500 anni in circa del suo martirio, il corpo ancora intiero e incorrotto, con la ferita del collo fresca, e con il sangue liquido». Di questo miracolo, oltre a quello a r c h e o 63


ARCHEOLOGIA CRISTIANA • NEPI

del ritrovamento dei corpi di altri martiri con ancora i segni delle percosse e delle ferite ricevute, sarebbe stato testimone Paolo III, il quale, «Arrivato alla grotta, visitò le sante reliquie con grandissima divozione». A seguito della visita, il pontefice, con una bolla, promosse l’edificazione di una nuova chiesa dedicata a san Tolomeo nel centro abitato, destinata ad accoglierne le reliquie.

GLI INTERVENTI DEI FRANCESCANI Il resoconto della prodigiosa scoperta sottolinea che della «grotta», cioè della catacomba, si era persa la memoria. Questo fatto appare in contrasto con quanto esposto sopra e con ciò che studi recenti hanno accertato: solo alcuni decenni prima, nel 1492, i Francescani che avevano in custodia la chiesa stipularono, infatti, un contratto per i lavori di costruzione di una tribuna sopra l’altare maggiore e per la realizzazione di una galleria che avrebbe dovuto collegare l’edificio alla catacomba. Inoltre, prima di essere attuato, l’ordine di demolizione fu esaminato dal Consiglio cittadino degli Otto, che predispose i lavori per il trasferimento temporaneo delle reliquie dei martiri all’interno della chiesa di S. Andrea, sita nel centro abitato. La demolizione della chiesa, come quella di altri edifici religiosi e abitazioni, fu effettivamente dettata dall’esigenza di creare un ampio spazio libero fuori della cinta muraria a scopo difensivo, ma questa «riscoperta» casuale, come riportata dalla fonte seicentesca, suggerisce una relazione con gli analoghi ritrovamenti fortuiti che interessarono gli antichi cimiteri cristiani di Roma nella seconda metà del Cinquecento. In questo momento, infatti, le reliquie divennero uno strumento per riaffermare il legame con il cristianesimo delle origini e garantire la legittimità della fede di Roma nei confronti del protestantesimo. 64 a r c h e o

In alto: la galleria A1 e l’affresco raffigurante il Cristo Pantocratore. Nella pagina accanto: statua di san Tolomeo posta all’ingresso della catacomba nel 1913 dal vescovo monsignor Joseph Bernhard Doebbing.

Soprattutto all’indomani del Concilio di Trento (1545-1563), al rinvenimento delle reliquie all’interno delle catacombe si aggiunsero le ricognizioni dei corpi dei martiri che erano già stati ritrovati, ma dei quali si voleva accertare l’esistenza. Significativo è il caso di santa Cecilia, il cui corpo fu individuato miracolosamente nel 1599 e la cui tomba divenne, poi, luogo di pellegrinaggio per quanti si recavano a Roma. La riscoperta della catacomba di S. Savinilla si pone, quindi, cronologicamente come antesignana a quanto avverrà piú tardi e ha fra i protagonisti della vicenda Paolo III, proprio colui che avvierà la Controriforma. Nel caso in questione, il ritrovamento della catacomba e delle reliquie dei martiri di Nepi costituí, quindi, il primo esempio di utilizzo propagandistico di un cimitero cristiano, seppur limitatamente all’ambito locale. Narra ancora Nobili che: «Molti personaggi o da curiosità, o da divozione

mossi, venivano a visitare queste sante reliquie». Le reliquie furono portate poco dopo in città, ma prima di prelevarle dalla catacomba: «Evaporò da quelle S. reliquie, meglio che da bottega di profumiero non solo un suavissimo odore, ma etiando, come alcuni testificorno, quelle sante ossa stillorno goccie di vivo sangue». È vero che dopo la demolizione della chiesa medievale, la catacomba rimase in stato di semiabbandono e, quindi, che essa non poté fungere da luogo di pellegrinaggio, almeno al suo interno, sino al 1619, quando si procedette all’allargamento dell’ingresso e alla sua pulizia. Questo stato di incuria potrebbe avere avuto, però, origine dalla partenza dei Farnese da Nepi nel 1545, a seguito della donazione alla Chiesa dei territori del Ducato di Castro. Anche i lavori per il nuovo edificio dedicato a san Tolomeo nel centro cittadino furono, infatti, sospesi e ripresero solo nel 1563, con il ritorno al governo di Nepi di Ottavio Farnese.


a r c h e o 65


LUOGHI DEL SACRO/12

I MILLENNI DI UN

SACRO BANCHETTO

LA VICENDA DI UN CONVIVIO RITUALE MOLTO PARTICOLARE, RAFFIGURATO IN SANTUARI RUPESTRI E RIFLESSO NELL’ARTICOLAZIONE ARCHITETTONICA DI UN CELEBRE COMPLESSO TEMPLARE, SEMBRA ATTRAVERSARE L’INTERA STORIA RELIGIOSA DELL’ANTICO IRAN, DALLE ORIGINI FINO ALL’ETÀ DI ALESSANDRO MAGNO... di Marta Rivaroli

I

l territorio chiamato Iran, conosciuto in passato come Persia, rimanda nel nome alla presenza di genti iraniche nell’area dell’antica Anshan (Fars) a partire dal I millennio a.C. I Persiani si inserirono in un contesto geopolitico complesso, noto come Elam, che ha

66 a r c h e o


Naqsh-i Rustam. Particolare dei rilievi della tomba del re achemenide Serse I, morto nel 465 a.C. Secondo uno schema consueto per questo genere di monumenti, il sovrano appare in piedi, su un podio a gradoni, di fronte a un altare del fuoco, anch’esso su un podio. Entrambi stanno su una piattaforma sostenuta dalle personificazioni delle province.

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LUOGHI DEL SACRO/12

elammatum, «terra dell’Elam». Tale denominazione designava una vasta area geografica che comprendeva la piana alluvionale che si apriva a est, la catena montuosa degli Zagros e l’altopiano iranico. La

Monte Ararat

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68 a r c h e o

L’Elam è indicato nelle fonti sumeriche del III millennio a.C. con il termine NIM, «alto», spesso accompagnato dal determinativo KI, «paese, regione», mentre nelle fonti accadiche è chiamato KUR

il

QUATTRO CERCHI CONCENTRICI Dobbiamo allo storico greco Diodoro Siculo il racconto dettagliato di un grande convivio, organizzato dal satrapo Peucesta per l’arrivo a Persepoli, nell’autunno del 316 a.C., di Eumene di Cardia, capo della cancelleria di Alessandro Magno: «Quando giunsero a Persepoli, la capitale reale, lo stratego di questa regione Peucesta celebrò grandiosi sacrifici agli dèi, ad Alessandro e a Filippo, e, avendo fatto giungere da quasi tutta la Perside una gran quantità di vittime e di quanto altro era utile per il banchetto e la festa religiosa, invitò tutti i soldati. Dispose i partecipanti al sacrificio in quattro cerchi concentrici e racchiusi da quello piú grande; il perimetro di quello piú esterno era di dieci stadi e lo occupavano i mercenari e la moltitudine degli alleati; quello del secondo cerchio era di otto stadi e vi si trovavano gli Argiraspidi macedoni e gli hetairoi che avevano combattuto al seguito di Alessandro; il perimetro del successivo era di quattro stadi e vi aveva-

UN TERRITORIO DAI MOLTI NOMI

G

sempre avuto come tratto distintivo la multietnicità, da collegare alla grande diversità e varietà di ecosistemi e, allo stesso tempo, al ruolo di crocevia tra Oriente e Occidente che il territorio iranico ha svolto per millenni. Per ricostruire la storia o, meglio, le storie dell’Iran dobbiamo confrontare la documentazione scritta – cioè i racconti di chi ha attraversato, conquistato e abitato questo territorio – con i dati materiali, che mostrano una continua fusione di culture, credenze religiose ed espressioni artistiche in un richiamo continuo a un passato mitico al quale ancorarsi e con cui legittimare il proprio dominio. Il filo d’Arianna che ci permetterà di avviare questo viaggio virtuale, nella labirintica e millenaria storia dell’Iran, è il racconto di un banchetto, apparentemente un semplice incontro conviviale, ma in realtà il fulcro di una cerimonia dalle profonde valenze sacre.

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Cartina dell’odierno Iran, con, in evidenza, le località citate nel testo. L’area colorata in verde indica l’estensione dell’antico Elam.

Golfo Persico

ARABIA

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cultura elamita si sviluppa nell’arco di tre millenni con dinastie che si alternano e sovrappongono. Varie formazioni culturali ed etniche hanno nel tempo dato vita a zone geopolitiche con specifici tratti

distintivi (Awan, Anshan, Susiana, Simashki). Queste enclaves hanno conosciuto periodi di grande conflittualità e momenti in cui una delle realtà politiche ha avviato un processo di aggregazione, dando

T U R K M E N I S TA N Bojnurd Gondab-e Qabus Tureng Tepe Gorgan (Asterabad)

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vita a uno Stato confederale la cui struttura politico-amministrativa è uno dei tratti distintivi della cultura elamita e trova riflesso nella articolazione del pantheon iranico e del culto a esso associato.

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LUOGHI DEL SACRO/12

no preso posto i comandanti in seconda, gli amici e gli strateghi fuori schiera e infine i cavalieri; nell’ultimo, che era di due stadi, sedevano gli strateghi, gli ipparchi e inoltre i piú insigni Persiani. Nel mezzo c’erano gli altari degli dèi, di Alessandro e di Filippo. I sedili erano fatti di fogliame, ricoperti di tappeti e di ogni genere di tovaglie, dal momento che la Persia ha abbondanza di tutto quanto serve al lusso e al piacere; i cerchi infine erano collocati a una distanza tale l’uno dall’altro che i convitati non erano assolutamente a disagio e avevano vicino tutto quanto il necessario» (Diod. Sic. XIX 22; traduzione di Anna Simonetti Agostinetti). La descrizione sottolinea il carattere rituale del banchetto, che presenta forti analogie con quello organizzato da Alessandro Magno nel 324 a.C. a Opis (città della Mesopotamia, n.d.r.). Come riporta Arriano nella Anabasi (VII 11, 8), in quell’occasione furono coinvolte novemila persone e, durante lo svolgimento, Alessandro stesso, i partecipanti, gli indovini greci e i magi persiani fecero libagioni per la concordia e l’intesa tra i due popoli. Possiamo anche ipotizzare che questa particolare tipologia di banchetto servisse a garantire sacralmente 70 a r c h e o

l’istituzione o il rinnovamento di alleanze e accordi tra differenti entità etniche e politiche, secondo una modalità che rimanda alla tradizione rituale iranica. Peucesta, a cui Alessandro affida la Persia, è l’unico tra i Macedoni ad adottare il «costume barbarico di vita» e a comportarsi come un governatore persiano (Arr. Anab. VI 30, 3). Alcuni elementi, come il pasto comunitario e il gran numero di vittime sacrificate, permettono poi di collegare i banchetti di Alessandro e di Peucesta ai rituali achemenidi e, in particolare, alla cerimonia šip celebrata in onore di Dario I (522-486 a.C.) dal dignitario Parnakka a Pasargade.

COME UN RECINTO SACRO Le notizie in proposito si trovano soprattutto nei testi amministrativi conservati nell’archivio della Fortificazione di Persepoli, dai quali sappiamo che questa cerimonia coinvolgeva centinaia di persone, prevedeva la partecipazione diretta del re o dei suoi rappresentanti, si svolgeva in uno spazio ben definito, a Pasargade o in altri luoghi topograficamente connessi alla regalità, e aveva la funzione di rinsaldare, a livello

In alto, sulle due pagine: i resti di Persepoli (a nord dell’odierna Shiraz), la città piú importante dell’antico Iran. Nella pagina accanto: tavolette in argilla iscritte, provenienti dall’archivio scoperto nei pressi di una torre difensiva di Persepoli. I documenti si riferiscono al regno di Dario il Grande (509-493 a.C.).

sacrale, le alleanze e i patti di lealtà tra il sovrano achemenide e i suoi sudditi (vedi box a p. 71). Lo studioso Wouter F.M. Henkelman ha proposto d’identificare lo spazio destinato allo šip con il «recinto sacro» situato nel settore nordorientale di Pasargade, nel quale, in un’area delimitata da un basso muro, sono stati individuati due podi interpretati come piedistalli cerimoniali che dovevano permettere di rendere visibile ai partecipanti l’officiante e l’azione rituale. Si tratta di un’articolazione spaziale non dissimile da quella raffigurata sulle facciate delle tombe reali achemenidi di Naqsh-e Rustam: su una piattaforma, sostenuta dalle personificazioni delle province, il re sta su un podio a gradoni, di fronte a un «altare del fuoco» posto su un altro podio (vedi foto alle pp. 66/67).


Nella descrizione di Diodoro colpisce in particolare la disposizione dei partecipanti in cerchi concentrici, che risponde a una precisa collocazione nella gerarchia sociale. È possibile ravvisare un’analoga disposizione anche nella cerimonia šip? E, soprattutto, qual è la valenza sacrale di questa cerimonia? Per dare una risposta a queste domande conviene compiere una sorta di viaggio a ritroso, nel tempo e nello spazio, andando a ricercare le prime attestazioni di tale liturgia e comprenderne modalità e funzione. In effetti, la cerimonia šip di età achemenide è fortemente legata

L’ARCHIVIO DELLA FORTEZZA DI PERSEPOLI Nel settore fortificato nordorientale della terrazza di Persepoli, durante la campagna di scavo del 1933-34, l’archeologo tedesco Ernst Herzfeld mise in luce migliaia di tavolette che erano state immagazzinate in un piccolo spazio vicino alla scala della torre difensiva. In seguito all’incendio di Persepoli a opera di Alessandro Magno (330 a.C.), il piano superiore del muro di fortificazione crollò, sconvolgendo l’ordine dell’archivio ma, allo stesso tempo, sigillando l’intero corpus e preservando questa preziosa fonte

documentaria. Fino alla scoperta di questo archivio, le fonti greche e i riferimenti biblici erano l’unica documentazione scritta per lo studio della cultura achemenide. Gli archivi di Persepoli mettono in evidenza il peso straordinario della cultura elamica e la sua permeazione nella corte achemenide. Si tratta di un archivio amministrativo che copre circa 16 anni di regno di Dario il Grande (dal 509 al 493 a.C.), con testi in elamico, aramaico, babilonese, anticopersiano. Il corpus presenta circa 8000 testi scritti in elamico, piú della metà dei quali sono stati traslitterati e solo un quarto pubblicato; trattano varie tematiche, dallo status e organizzazione dei lavoratori alle pratiche cultuali e alle feste religiose, che coinvolgono personale sacerdotale

elamita e iranico. Per saperne di piú: https://oi.uchicago.edu/ research/projects/persepolisfortification-archive

a r c h e o 71


LUOGHI DEL SACRO/12

alla tradizione religiosa dell’Elam denominata šup, che rappresenta il contesto geografico, politico e socio-culturale in cui si inserisce l’elemento persiano. La piú antica attestazione di šup è un’iscrizione votiva del re medio-elamita Untash-Napirisha (1340-1300 a.C.), in cui si menzionano la costruzione di un tempio dedicato agli dèi Inshushinak, Mashti e Tepti e la celebrazione di sacrifici in loro onore: «Io ho rinnovato i loro šup e il loro likir, notte e giorno». Untash promosse l’unificazione politica e religiosa del mondo iranico, in concomitanza con l’emergere della componente elamica nel contesto susiano. Il culmine è rappresentato dalla fondazione di una capitale religiosa, Dur Untash, vero e proprio santuario federale posto al confine tra le due realtà geografiche

e culturali dell’Elam: Anshan e Susiana. È probabile che la cerimonia šup fosse parte integrante di tale processo di unificazione.

LA FORTEZZA DI UNTASH Per ricostruirlo, si deve tornare indietro nel tempo e muoversi nello spazio, spostandosi dall’altopiano montuoso del Fars alle valli circondate da picchi innevati degli Zagros, alla fertile regione del Khuzestan, per giungere a Choga Zanbil, uno dei complessi cultuali piú famosi del Vicino Oriente an72 a r c h e o

In alto: una delle formelle in terracotta con pomello (knob) rinvenute intorno alla ziqqurat di Choga Zanbil sulle quali corre un’iscrizione dedicatoria al re Untash-Napirisha. In basso: una delle fasce di mattoni della ziqqurat di Choga Zanbil con iscrizioni del re Untash-Napirisha.

meglio conservata al di fuori del contesto mesopotamico. La città venne costruita solo parzialmente, poiché, all’indomani della morte di UntashNapirisha, i lavori vennero interrotti, probabilmente per prendere le distanze da un progetto rivoluzionario e fortemente personalizzato (come avvenuto per Kar Tukulti-Ninurta e Dur Sharrukin in Assiria). Ciononostante, il sito continuò a rivestire una funzione sacrale, come luogo di sepoltura e meta di pellegrinaggi, fino alla sua distruzione a opera del re assiro Assurbanipal (640 a.C.). Il rinvenimento di numerose strutture sacre (50 tra templi, cappelle e altari) e il numero di divinità venerate (almeno 18 divinità stando alle dediche ritrovate su oltre 5000 mattoni iscritti) hanno indotto al-

tico e patrimonio UNESCO dal 1979. Choga Zanbil («monticello del paniere» in persiano moderno) è il nome attuale dell’antica Dur Untash («Fortezza di Untash»), situata su un pianoro che domina il corso dell’Ab-e Dez (antico Eulaeus), tributario del fiume Karun. I suoi resti furono scavati tra il 1951 e il 1962 da Roman Ghirshman, che mise in luce la planimetria urbanistica, gli edifici cultuali e, soprattutto, l’imponente mole della ziqqurat, fulcro dell’intero complesso e considerata la piú grande e

cuni storici e archeologi a ipotizzare che il sovrano medio-elamita avesse voluto realizzare qui un nuovo centro religioso, con il proposito di unificare il culto degli dèi delle regioni montuose orientali dell’Elam con quello della regione pianeggiante sudoccidentale della Susiana. Si tratterebbe quindi di una costruzione dalle profonde valenze politico-religiose. È difficile oggi cogliere la magnificenza e la monumentalità del complesso sacro. Le possenti mura che circondavano l’area urbana si sono


20

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corte mediana

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Pianta del complesso santuariale di Choga Zanbil Corte interna 1. Ziqqurat 2. Tempio di Inshushinak A 3. Tempio di Inshushinak B 4. Porta nord-orientale 5. Tempio di Gal Temple 6. Complesso templare di Kiririsha e Ishnikarab 7. Templi quadrati 8. Royal Gate

Corte mediana 9. Porta di Susa 10. Tempio di Hishmitik e Ruhuratir 11. Tempio della Porta nord-orientale 12. Tempio delle Napratep 13. Tempio di Shimut e Nin-Ali 14. Tempio di Shala e Adad (IM) 15. Tempio di Pinikir 16. Porta del Re 17. Torre di Nur Kibrat

Corte esterna 18. Palazzo ipogeo 19. Palazzo II 20. Palazzo III 21. Tempio di Nusku 22. Cisterna

I resti della ziqqurat di Choga Zanbil, l’esempio piú grande e meglio conservato di questo tipo di monumenti al di fuori della Mesopotamia.

a r c h e o 73


LUOGHI DEL SACRO/12

L’AREA SACRA DI SUSA Il racconto del saccheggio da parte del re assiro Assurbanipal permette una ricostruzione schematica dell’area sacra di Susa: sull’acropoli era il quartiere sacro (kizzum) con i santuari, dominato dalla ziqqurat (zagratume). Sulla sommità di questa era il tempio alto (kukunum) mentre alla sua base vi era il tempio basso (haštu). La ziqqurat era inoltre impiantata vicino a un ingresso monumentale e il complesso era inserito in un bosco sacro (husa). Molti degli elementi menzionati nel resoconto del sovrano assiro trovano conferma a Choga Zanbil, dove la ziqqurat domina il recinto sacro chiamato Sian-kuk. Nel racconto è riportato anche un altro elemento per noi prezioso: «Ho distrutto la ziqqurat di Susa di lapislazzuli. Ho rotto le sue corna fuse di rame brillante». I templi elamiti, infatti,

74 a r c h e o

presentavano una particolare decorazione che li distingueva dalle ziqqurat di tradizione

mesopotamica e che è ricostruibile grazie alla documentazione iconografica e testuale.

In alto: i resti della città di Susa. In basso: disegno di un rilievo raffigurante la ziqqurat di Susa, da

Nineveh and Babylon: a narrative of a second expedition to Assyria di Austen Henry Layard. 1882.


trasformate in collinette di argilla e solo occhi esperti riuscirebbero a riconoscere, nella parete di terra che fiancheggia da ambo le parti la strada di accesso al sito archeologico, una delle antiche porte urbiche della città-santuario. I pullman turistici oltrepassano inconsapevoli quella porta e parcheggiano davanti alla biglietteria che, oltre tutto, quasi a osservare le antiche prescrizioni religiose, è posta di fronte alla seconda cinta muraria che separava dall’area sacra in cui risiedevano le divinità tutto lo spazio cittadino profano, nel quale si trovavano il palazzo reale, gli edifici amministrativi e l’abitato. Il grande centro cerimoniale e amministrativo era concepito secondo un progetto urbanistico organico e razionale. L’intera città era suddivisa in aree concentriche, separate da tre cinte in muratura. La zona piú esterna, inclusa all’interno di una cinta muraria di 4 km, era riservata all’abitato, purtroppo solo in minima parte interessato dagli scavi archeologici. La zona intermedia accoglieva alcune strutture religiose, con una disposizione topografica della casa/ tempio di ogni divinità che sembra corrispondere allo specifico ambito di azione e alla posizione gerarchica occupata all’interno del pantheon elamita. La zona interna, separata da una cinta con mura dello spessore di 2,4 m, era lo spazio piú sacro, al centro del quale si innalzava l’imponente ziqqurat dedicata alle due principali divinità del nuovo regno: Inshushinak (dio di Susa) e Napirisha (signore di Anshan). Osservando la pianta (vedi a p. 73), si nota una disposizione dell’impianto urbano a cerchi concentrici, che sembra replicare, a livello architettonico e sacrale, la disposizione attuata durante la cerimonia šip sopra menzionata. Il settore piú esterno è da identificare come lo «spazio umano», ossia l’abitato vero e proprio dominato, nel settore orientale accanto alla cinta muraria, dal complesso palatino. Questo è costituito

da tre palazzi, una corte interna di collegamento, un grande ingresso (Royal Gate) e un edificio sacro dedicato al dio Nusku, divinità di tradizione mesopotamica legata al fuoco e, in questo contesto, connessa con l’istituto regale. Varcando la seconda cinta, di forma trapezoidale, si accede alla vasta area sacra (400 x 500 m), orientata secondo i punti cardinali, dedicata al mondo divino piú liminare sia geograficamente che funzionalmente. Nel settore orientale, accanto all’ingresso principale, si trova un complesso di quattro edifici sacri che, grazie alle iscrizioni, è stato possibile associare a specifiche divinità connesse con la tradizione mesopotamica (Adad e Shala), quella elamita delle origini (Pinikir) o il cui ambito di attività è quello di protezione o intermediazione (Napratep, Shimut e Nin-ali).

PLANIMETRIE RICORRENTI A eccezione dell’edificio sacro dedicato alle divinità protettrici Napratep, gli altri tre templi sono concepiti come un’unità architettonica, essendo inseriti in una sola fabbrica continua, con i prospetti esterni decorati da nicchie e lesene. Tutti presentano la medesima planimetria che rimanda alla tradizione basso-mesopotamica, con ingresso frontale non in asse, corte delimitata su due lati da vani a carattere funzionale (servizi e magazzini) e, al centro, l’edificio sacro composto da antecella con altare e cella lunga. A nord-est vi è un altro complesso templare, dedicato alla coppia divina Hishmitik e Ruhuratir, venerata nella regione di Simashki: anch’esso ha l’ingresso rivolto verso la ziqqurat e presenta un settore separato con un bacino lustrale per le cerimonie di purificazione. Il terzo settore, di forma quasi circolare (170 m diametro), a cui si accede attraversando la cinta interna del temenos, è quasi totalmente oc-

cupato dalla grande ziqqurat (di 105,20 m di lato, corrispondenti a 200 cubiti elamiti) a quattro piani; qui, sulla sommità (oltre 50 m di altezza), era posto il tempio alto, raggiungibile solo da una scalinata posizionata nel lato sud-ovest e dedicato a due divinità, Inshushinak dio di Susa e Napir isha dio dell’Anshan. Nello spazio rimanente tra la ziqqurat e il temenos si trova l’area riservata al culto, con altari per lo svolgimento delle cerimonie, podi per l’installazione di statue votive, come quella ora conservata al Museo di Teheran, e altre strutture sacre tra cui una meridiana. La ziqqurat venne costruita in almeno due fasi, che riflettono i cambiamenti politici e religiosi attuati dal sovrano: all’inizio, all’interno di un’area recintata quadrata, viene realizzato il tempio (kukunum) dedicato al dio Inshushinak, signore della provincia; in un secondo momento, questo tempio viene inglobato nel primo gradone della ziqqurat a cui si aggiungono gli altri quattro gradoni, cosicché la ziqqurat finisce per coincidere con l’intero spazio sacro. Ogni gradone è formato da una struttura in mattoni crudi, rinforzata da travi di legno e rivestita da un paramento in mattoni cotti. Dalle iscrizioni sappiamo che ogni piano era decorato con mattoni smaltati in oro, argento, ossidiana e alabastro. Intorno alla ziqqurat sono stati ritrovati grandi «pomelli» (knobs in inglese) in terracotta, con tracce di invetriatura e l’iscrizione «Io Untash-Napirisha», che dovevano costituire la decorazione delle pareti esterne (vedi foto a p. 72, in alto). Sul paramento esteriore, ogni dieci filari di mattoni v’era una fascia costituita da mattoni iscritti con un testo standard: «Io, Untash-Napirisha, re di Anshan e Susa, ho eretto la città sacra di Untash Napirisha nella quale il sian in mattoni cotti [e] il kukunum in mattoni smaltati ho costruito. Al dio Inshushinak del Sian-kuk li ho offerti. a r c h e o 75


LUOGHI DEL SACRO/12

Io la ziqqurat ho innalzato. Ciò che ho fatto e ciò che mi sono sforzato [di fare], dèi Napirisha e Inshushinak del Sian-kuk, a voi possa essere gradito» (vedi foto a p. 72, in basso). L’aggiunta del nome del dio Napirisha alla dedica della ziqqurat potrebbe coincidere con la svolta politico-religiosa di Untash-Napirisha, tesa a dare un maggior ruolo alla componente socio-culturale dell’altopiano iranico e, al contempo, a rafforzare i legami con la Susiana. Tale visione politica viene legittimata sacralmente con l’associazione delle divinità nazionali delle due componenti, Inshushinak signore di Susa e Napirisha, signore di Anshan, e con l’adozione da parte del sovrano del titolo «re di Anshan e di Susa». Nel settore nord-est, a cavallo della cinta muraria interna, sono posti i santuari di Kiririsha, paredra Statua in bronzo di Napirasu, moglie del re Untash-Napirisha, dal tempio di Ninhursag a Susa. 1345-1305 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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del dio Napirisha, «madre» di tutti gli dèi e protettrice della regalità, e di Ishnikarab, dea dei giuramenti, associata al dio Inshushinak. I due santuari erano collegati, tramite un piccolo ingresso, con il tempio basso di Napirisha, situato appena fuori dal temenos (n. 5 nella pianta a p. 73). Possiamo affermare che il santuario di Choga Zanbil rappresenti la fissazione architettonica, sul piano umano, della modifica, a livello sacrale e quindi extra-umano, dei rapporti gerarchici e delle funzioni delle varie divinità nel pantheon. I templi delle divinità Napirisha e Kiririsha, che con la riforma di Untash-Napir isha hanno assunto una «nuova» centralità all’interno del pantheon, sono topograficamente disposti in Nella pagina accanto, a sinistra: particolare della stele di UntashNapirisha che il re ShutrukNakhunte fece portare da Choga Zanbil a Susa. Parigi, Museo del Louvre.


IL DIO SUL TRONO DI SERPENTI Il sovrano Shutruk-Nakhunte (XII secolo a.C.) afferma di aver trasferito a Susa alcune stele che il re Untash-Napirisha aveva eretto a Choga Zanbil. Tra queste sicuramente possiamo inserire quella attualmente conservata al Museo del Louvre. La stele presenta un impianto compositivo di tradizione mesopotamica ma con raffigurazioni iraniche. Nel primo registro è raffigurato il re davanti a una divinità seduta su un trono di serpenti da identificare forse con il dio Napirisha. Nel secondo registro

il re è tra due figure femminili: alle spalle la moglie Napirasu, di fronte una seconda figura di donna a cui il sovrano rende onore, forse la regina madre. Seguono due rilievi raffiguranti dee-pesce con il vaso zampillante e due uomini-toro. La posizione del re tra due donne indica i corretti legami familiari e, in questo caso specifico, servono a ribadire le forti relazioni che il sovrano Untash-Napirisha instaura con il regno cassita in Mesopotamia, soprattutto attraverso i rapporti di parentela: il sovrano è

In alto: disegno della stele di UntashNapirisha portata da Choga Zanbil a Susa da Shutruk-Nakhunte.

figlio di una principessa cassita e marito di Napirasu, figlia del re cassita Burna Buriash, di cui si conserva al Museo del Louvre una splendida statua bronzea a grandezza naturale, straordinario capolavoro di toreutica.

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LUOGHI DEL SACRO/12

zionale connubio tra contesto naturale e artefatto umano, sono portatori di memoria sacra e continuano a reiterare il loro messaggio, quasi come storytellers: attraverso le scene scolpite su costoni rocciosi, in grotte naturali, accanto a polle sorgive, viene fissato sulla pietra il legame tra sfera extra-umana e sfera umana, e fondato sul piano sacrale il controllo culturale di spazi e paesaggi naturali, caricandoli di significati religiosi.

una posizione liminare e intermedia, quasi a voler simbolicamente fissare il momento del loro ingresso nello spazio sacro centrale, dove in una prima fase si trovava soltanto il tempio di Inshushinak, dio di Susa, e che ora è interamente occupato dalla ziqqurat, manifesto architettonico della modifica dei rapporti sacrali con la parificazione di Inshushinak e Napirisha. L’articolazione planimetrica a settori concentrici, da una parte, rispecchia la struttura del pantheon con le divinità piú importanti poste al centro e in posizione piú elevata; allo stesso tempo, è l’espressione simbolica dell’unificazione di popoli e territori attraverso la presenza e la coabitazione delle reciproche divinità tutelari: Inshushinak signore di Susa e Napirisha, signore di Anshan; la dea Kiririsha signora di Liyan e paredra di Napirisha e Ishnikarab, paredra di Inshushinak; Hishmitik e Ruhuratir coppia divina collegata a Simashki; Shimut, Adad e Shala, collegati con il mondo mesopotamico e Pinikir dea legata ad Awan. In questa prospettiva, la fondazione di Choga Zanbil, che comportò un grande impegno economico, assume una forte connotazione ideologica: può essere identificato come un centro cerimoniale in cui regalità terrena e culto degli dèi appaiono strettamente interconnessi. È possibile istituire un legame cul78 a r c h e o

turale tra il centro cultuale medioelamita di Choga Zanbil (XIV secolo a.C.) e la Persepoli dove ha luogo la cerimonia in onore di Eumene (IV secolo a.C.), cosí lontani spazialmente e temporalmente? La risposta è sí. Come abbiamo già evidenziato, la cultura elamita non è da confinare a Susa e nella Susiana, poiché è certa l’esistenza di una zona dimorfica nell’area di passaggio tra il Khuzestan e il Fars, da identificare soprattutto nella valle di Izeh/Malamir, nella quale alcuni siti, con specifiche funzioni di snodi commerciali, continuarono a esistere nel passaggio tra medio, nuovo elamico e periodo achemenide, delineandosi quali avamposti della cultura sedentaria elamica nel contesto geografico dell’altopiano. Con l’arrivo delle tribú pastorali iraniche questi siti diventano il punto di contatto, innescando un processo sincretistico culturale e religioso. La presenza elamita nell’altopiano è confermata dall’attestazione di rilievi rupestri e iscrizioni di epoca medio e neo-elamita nei santuari a cielo aperto di Kul-e Farah e Shekaft-e Salman nella valle di Izeh, Kurangun nella regione di Mamasani, fino ad arrivare nella regione del Fars, con Naqsh-e Rustam, vero e proprio sito palinsesto, in cui dialogano, sulle pareti scoscese, epoche e regni, intessendo un’unica perfetta trama culturale. Questi luoghi, ecce-

SULLA STRADA DEL «MONDO ALTRO» Proseguiamo il nostro viaggio lasciando la Susiana e iniziando a salire lungo le pendici del sistema montuoso degli Zagros, fino a giungere alla zona di Izeh/Malamir, valle montuosa a 800 m slm, vera porta naturale tra le terre basse della Susiana e l’altopiano iranico. Per raggiungere questa valle bisogna percorrere una strada che ricalca il percorso della via carovaniera che nell’antichità collegava Babilonia a Persepoli e in epoca islamica Baghdad con Isfahan e Shiraz. Tornanti e strade ripide fanno sí che la velocità sia ridotta, tanto da poterci immaginare a dorso di cammello o di cavallo e contemplare il cambiamento del paesaggio, trasformando questo percorso in un itinerario senza tempo. Gradualmente si passa dal terreno arido e pianeggiante alle verdi valli coltivate, con ruscelli e laghi stagionali dominati dalle scoscese pareti rocciose delle montagne Bakhtiyari, con le cime innevate inframmezzate da boschi di alberi ad alto fusto. Queste montagne cosí diverse dall’alluvio furono identificate dalle culture mesopotamiche come il KUR, il «mondo altro», ostile e selvaggio, ricco di materie prime, ma abitato da esseri mostruosi come Anzû, il mitico uccello leontocefalo, e da popolazioni dai tratti e dai costumi talmente diversi da far dubitare il re accadico Naram-Sin (21202084 a.C.) della loro umanità, al


punto di farne uccidere uno per verificare se fossero fatti anch’essi di carne e sangue, e quindi mortali. La Valle di Izeh è inserita nell’odierna regione del Khuzestan (Iran sudoccidentale), corrispondente all’antica Elimaide, toponimo probabilmente derivato dal termine sumero-accadico «Elam» con il quale si definivano in antico le regioni montane degli Zagros. Si tratta di

un’area ricca di testimonianze archeologiche soprattutto per la presenza di rilievi rupestri, databili a un periodo circoscritto (XII-VII secolo a.C.), ma realizzati in particolari contesti naturalistici come falesie, grotte e sorgenti, che svolgono la funzione di luoghi di culto extraurbani, e centri di pellegrinaggio per un periodo molto lungo, dalla fine del II millennio a.C. fino all’età

Nella pagina accanto: una faccia del rilievo KF IV di Kul-e Farah raffigurante personaggi che si accingono a partecipare al banchetto comunitario. In basso: una veduta del sito di Shekaft-e Salman, caratterizzato anch’esso dalla presenza di pannelli scolpiti a rilievo.

partica. Osservando la distribuzione di questi santuari extra-urbani si nota come siano legati tra loro in una sorta di mappa concettuale che collega luoghi e tempi in un unico sistema di relazione con il territorio circostante. I rilievi tra loro «dialogano» con una serie di rimandi iconografici, cosí da assicurare un controllo sacrale su un territorio aspro e difficile, nel quale si deve abitare o ci si deve muovere e che quindi necessita di essere trasformato in un paesaggio culturale.

LA GROTTA E LA SORGENTE Ai fini del nostro viaggio sulle tracce dell’origine del «banchetto šip», sono due i siti che maggiormente interessano: Shekaft-e Salman e Kul-e Farah. A pochi chilometri da Izeh, città fondata in età sasanide, una diramazione dalla strada principale conduce al sito di Shekaft-e Salman. Su uno sperone roccioso si trova una grotta naturale che salvaguarda una sorgente le cui acque, durante la stagione primaverile, si mescolano con quelle della cascata che scorre al di sopra. In questo luogo, dalla forte valenza sacrale, vennero realizzati quattro rilievi, due all’interno della grotta, ormai quasi scomparsi, e due sulla parete di fronte alla cascata, ancora ben leggibili. Posti a poca distanza uno dall’altro, raffigurano una teoria di personaggi, rappresentati di profilo, rivolti verso la grotta e in atteggiamento di preghiera. Sono identificabili grazie alle iscrizioni che li accompagnano: nel rilievo piú vicino alla grotta vi sono Khanni, governatore di Aiapir, la moglie e il loro figlio; nel secondo, è rappresentata nuovamente la famiglia, ma preceduta dal primo ministro raffigurato nell’atto di compiere un sacrificio di fronte a un incensiere o altare. Lo stile di esecuzione e la resa delle figure rimandano all’ambito elamico del XII secolo a.C., mentre le didascalie li collegano a a r c h e o 79


LUOGHI DEL SACRO/12

Khanni, vassallo del re elamita Shutur-Nakhunte (VIII a.C.), che deve essersi appropriato del luogo aggiungendo le sue iscrizioni. Questo riuso è indicativo di una continuità del santuario, che d’altronde è testimoniata anche dal nome moderno Shekaft-e Salman (grotta di Salo-

mone): il luogo continuò a essere uno spazio sacro fino alla conquista araba quando venne legato alla figura di Salomone cosí da preservarlo dalla distruzione. Una lunga iscrizione presente accanto a uno dei rilievi nella grotta, ormai non piú leggibile ma fortu-

natamente ricopiata nel 1846 da Austen Henry Layard, testimonia che questo luogo era sacro alla dea Mashti, signora di Tarisha, connessa all’elemento acquatico. Nel testo vengono nominate una serie di sacrifici e la successiva ripartizione delle vittime sacrificali a vari

NEL SANTUARIO DI KUL-E FARAH

Veduta (al centro) del santuario di Kul-e Farah e dei rilievi che lo caratterizzano. La datazione del complesso è tuttora dibattuta, fra chi lo assegna al periodo neo-elamita (VII-VI sec. a.C.) e chi invece ipotizza che la sua frequentazione sia stata piú lunga e abbia avuto inizio tra l’XI e il X sec. a.C. 80 a r c h e o

Il rilievo del santuario di Kul-e Farah denominato KF VI è scolpito nella facciata nord-ovest di un masso situato a 300 m fuori dal perimetro della gola dove sono collocati gli altri rilievi: al centro sono raffigurate quattro figure inginocchiate, in posizione antitetica, con le braccia alzate a sostenere una piattaforma. Il vestiario li connota come esseri umani appartenenti a un gruppo di alto lignaggio. La piattaforma sostiene una figura maschile raffigurata in scala maggiore rispetto alle altre, di profilo, e con entrambe le braccia piegate nel gesto dell’indicare. Dietro di lui sono effigiate in scala minore nove figure, disposte su tre registri e con differenti abiti e acconciature. La scena è stata interpretata come la descrizione visiva di un preciso momento all’interno di una cerimonia festiva, ossia l’arrivo della processione con la statua divina portata su una piattaforma, oppure, secondo un’altra interpretazione, il momento in cui il personaggio principale (sovrano o governatore) sta salendo sulla piattaforma per dare inizio alla cerimonia. La figura su piattaforma ritorna, con le stesse modalità di vestiario e gestualità, anche nel rilievo KF III, posto all’interno della gola, accanto al letto del fiume: l’intera parete di un masso è decorata con registri sovrapposti raffiguranti una processione di


dignitari, tra cui il «capo del palazzo» Shutruru, lo scriba che offre preghiere e legge l’iscrizione, una classe di esperti cultuali e i lavoratori. È probabile che una simile distribuzione avesse luogo nell’altro santuario che qui c’interessa, quello di Kul-e Farah, sicuramen-

te collegato alla celebrazione di sacrifici e di pasti comunitari. Kul-e Farah è un santuario a cielo aperto inserito in una gola che conserva sei rilievi rupestri di epoca elamita, tre scolpiti sulle pareti rocciose e altri tre su grandi massi erratici posti accanto all’antico letto di

centinaia di persone, tutte rivolte verso un personaggio in piedi su una pedana sostenuta da figure inginocchiate. Sulla parete opposta è replicata la medesima scena, ma ora la piattaforma è poggiata a terra e di fronte al personaggio sono raffigurati dei suonatori, quasi a indicare la tappa successiva in una sorta di scansione temporale della cerimonia. Sulla parete piú piccola sono riprodotti animali (capre e zebu), anch’essi disposti ordinatamente in registri e forse da identificare come le vittime destinate al sacrificio che sta per compiersi e che viene puntualmente rappresentato, e quindi fissato, nei rilievi disposti lungo le pareti della gola (KF II e KF V). La parte centrale della cerimonia, ossia la partecipazione al banchetto comunitario, è raffigurata lungo la parete meridionale della gola (KF IV) che sovrasta lo spazio sacro dove aveva luogo, probabilmente con cadenza annuale. Il personaggio principale ora siede su un ampio trono, davanti a una tavola sulla quale viene poggiato del cibo, mentre alle sue spalle sono due piccoli ripiani con sopra contenitori per liquidi e intorno a lui alcuni assistenti. Alle spalle e davanti al personaggio, disposti su pannelli laterali ma alla stessa altezza, sono rappresentati dei dignitari, con abiti lunghi e acconciature differenti, a sottolineare una diversa appartenenza sociale o etnica, con una mano distesa in avanti in segno di rispetto e omaggio e l’altra alla

bocca a indicare l’atto del mangiare. La stessa gestualità è riproposta nei registri sottostanti, nei quali è rappresentato l’incontro dei due gruppi di partecipanti alla cerimonia, sotto la supervisione del «capo del palazzo»/portatore di

un fiume ormai prosciugato (vedi foto e box in queste pagine). Si tratta di un complesso extra-urbano straordinario per tematiche, concezioni religiose, sociali e ideologiche. La prima menzione dei rilievi è del 1836 a opera di Sir Henry C. Rawlinson, il quale, mentre guidava una

armi: centinaia di uomini, questa volta con gonna corta, a indicare una posizione sociale specifica, sono raffigurati frontalmente su piú livelli. La gerarchia sociale è determinata da registri, attività, posizione e tipologia di vestiario.

Restituzione grafica del rilievo KF VI, che mostra una figura di dimensioni maggiori delle altre, con le braccia piegate nel gesto dell’indicare; il personaggio è sostenuto da quattro figure inginocchiate, in posizione antitetica.

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LUOGHI DEL SACRO/12

rocciosa (17,70 x 6 m). Il fulcro della composizione è un personaggio raffigurato in scala maggiore, seduto su un trono, circondato da funzionari, assistenti e musicisti, che presiede al banchetto cerimoniale per rinsaldare l’alleanza tra gruppi socialmente o etnicamente differenti, rappresentati nei registri sottostanti mentre partecipano, in maniera ordinata, alla consumazione di un pasto comunitario. Il programma iconografico dei rilievi e la loro disposizione nello spazio rappesentano, e quindi fissano nel tempo, l’intero svolgimento della cerimonia celebrata dal perso-

spedizione militare, venne a sapere dell’esistenza di «una delle grandi curiosità della zona», presso un luogo di pellegrinaggio delle popolazioni locali. Non c’è accordo tra gli archeologi sulla datazione del complesso santuariale: sulla base dell’iscrizione sul rilievo KF I, alcuni datano l’intero corpus scultoreo al periodo neo-elamita (VII-VI secolo a.C.), mentre altri propendono per una frequentazione di lunga durata, datando i primi rilievi all’XI-X secolo a.C. e definendoli come espressione di un potere locale che si sviluppa dopo l’invasione di Nabucodonosor I (1104 a.C.).

su massi erratici, disposti al di fuori della gola (KF VI) o in prossimità del letto del fiume (KF III). Il motivo del sacrificio, con un personaggio di dimensioni maggiori che assiste a scene di macellazione, sembra delimitare allo stesso tempo lo spazio sacro «reale», comparendo all’ingresso della gola su entrambe le pareti rocciose (KF I e KF V), e quello «reiterato», a circoscrivere la scena del banchetto (KF II e KF V). Il banchetto è, infatti, il motivo centrale del rilievo KF IV (vedi foto a p. 78), situato sul lato meridionale della gola e che si estende su un’ampia superficie verticale della parete

MUSICISTI E SACRIFICI L’iscrizione e le didascalie presenti sul rilievo KF I permettono d’identificare tutti i personaggi effigiati e di connettere questo luogo all’area sacra di Shekaft-e Salman. Situato nel lato nord della gola e tagliato nella roccia, il rilievo tratteggia una scena dominata dalla figura di Khanni, figlio di Tahhi, capo (kutur) di Aiapir. Dietro di lui ci sono due funzionari: Shutruru, capo del palazzo con arco, faretra e spada, e Kutur, esperto cultuale che indossa una veste lunga. La parte destra è suddivisa in due registri; nella parte superiore vi sono musicisti, mentre in quella inferiore compaiono scene di sacrificio con la macellazione di uno zebu accanto a carcasse di arieti e un incensiere o altare del fuoco. Nel testo, Khanni invoca una serie di dèi, inclusi Tirutur «protettore dei re», probabilmente la divinità a cui è dedicato il santuario, la dea Mashti e il dio Khumban. L’epigrafe non fa riferimento alle azioni cultuali raffigurate del rilievo, ma alle imprese militari, alla costruzione di un tempio e alla dedica di prigionieri e di bottino agli dèi di Aiapir. Osservando bene la disposizione dei rilievi, si nota una correlazione tra tematica raffigurata e posizione nello spazio sacro (vedi foto a p. 80). Le scene di processione sono realizzate

Sulle due pagine: i rilievi KF V (in basso) e KF II (nella pagina accanto) di Kul-e Farah. In entrambi i casi, di fronte a un personaggio con le braccia alzate si vedono teorie di animali (capre e zebu) probabilmente da identificare con quelli destinati al sacrificio.

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naggio raffigurato in scala maggiore, la cui identificazione è ancora oggetto di studio, e in uno spazio percepito come sacro da entrambe le comunità: l’arrivo delle due collettività socio-politiche nel santuario extra-urbano, lo svolgimento del rituale con le scene di sacrificio di animali e la consumazione di un pasto comunitario attraverso il quale rinsaldare l’alleanza. Seguendo la teoria sostenuta da Wouter F.M. Henkelman, nel santuario di Kul-e Farah troviamo la piú eloquente attuazione di una festa, celebrata da Khanni signore di Aiapir e menzionata nell’iscrizione scolpita nella grotta di Shekaft-e Salman, che, alcuni secoli piú tardi, sarà rinnovata con modalità analoghe nel cuore dell’impero achemenide: il banchetto šip. Come nel caso della già menzionata cerimonia celebrata in onore di Dario I da Parnakka a Pasargade, la cerimonia di Kul-e Farah potrebbe svolgersi, con cadenza annuale, durante la stagione autunnale quando la valle di Izeh (Aiapir), posta lungo la rotta della transumanza, diviene il luogo dell’incontro tra il gruppo pastorale e quello sedentario. Il banchetto rituale serve a rinnovare l’unione tra le differenti componenti sociali di un territorio dimorfico e, allo stesso tempo, a ribadire il potere del signore di Aiapir e la sua funzione di garante di quel precario equilibrio. La centralità del suo ruolo è ben evidenziata nel ciclo iconografico attraverso una gerarchia visuale: sul piano dimensionale, come figura principale, piú grande e sempre presente; sul piano spaziale, come punto focale di tutta la cerimonia con tutti i partecipanti che, disposti su piani differenti, convergono il loro sguardo verso la figura seduta in trono. Si verrebbe cosí a riproporre visivamente uno schema a cerchi concentrici come già osservato a livello urbanistico a Choga Zanbil e sul piano cerimoniale, nel banchetto di Peuceste a Persepoli. A

Kul-e Farah questa proiezione in un tempo fuori dal tempo è resa nei rilievi che ripetono, eternandoli, la cerimonia e il banchetto rituale durante il quale l’identità di gruppo, la gerarchia sociale, i legami di alleanza vengono riconfermati e ristabiliti.

PRELUDIO DELL’ARTE ACHEMENIDE Il santuario di Kul-e Farah è espressione della cultura elamita ancora attiva e presente nel momento in cui la componente persiana inizia a emergere e ad assumere un ruolo di rilievo, ancorandosi alla memoria del luogo e assorbendo tradizioni artistiche e religiose delle popolazioni già presenti nel territorio. Come ben sottolineato dallo studioso belga Louis van den Berghe, l’arte di questo santuario preannuncia quella achemenide. I molti paralleli tra l’iconografia dei rilievi di Kul-e Farah e l’arte monumentale achemenide includono l’assenza della divinità, la rappresentazione di figure su vari registri, la gerarchia dimensionale, la piattaforma sostenuta da persone, le processioni e il seguito di dignitari tra cui il portatore di armi.

Allo stesso modo la cerimonia šup, saldamente ancorata alla cultura elamita, immediatamente trova un nuovo significato nella festa šip, adattata al contesto imperiale e istituzionale, che rinnova nei luoghi collegati con la regalità come Pasargade e i paradeisoi regali, i rapporti dei sudditi con l’autorità achemenide durante il soggiorno del re nel Fars. Come ricordato all’inizio, questa cerimonia religiosa appare cosí radicata nella tradizione millenaria di questo territorio da essere adottata da Alessandro Magno nel suo tentativo di mediazione tra cultura greca e persiana e da essere ripresa da Peuceste, uno dei suoi satrapi, quando dovrà dare il benvenuto a Eumene di Cardia. PER SAPERNE DI PIÚ Paolo Matthiae, Storia dell’arte dell’Oriente Antico vol. 3. I primi imperi e i principati dell’età del Ferro, Electa Mondadori, Milano 1997 Javier Álvarez-Mon, Gian Pietro Basello (a cura di), The Elamite World, Routledge, Oxford 2018 a r c h e o 83


SPECIALE • ITTITI

RITORNO A HATTUSA

DAL 1550 AL 1180 A.C. FU LA CAPITALE DEL REGNO ITTITA. OGGI, IL SITO, COMPOSTO DALL’ANTICA CITTÀ CON LE SUE FORTIFICAZIONI, I TEMPLI, I QUARTIERI RESIDENZIALI, MA ANCHE DA UN AFFASCINANTE SANTUARIO RUPESTRE, È PROTETTO DALL’UNESCO. IN ESCLUSIVA PER «ARCHEO», ECCO GLI STRAORDINARI RISULTATI DELLE RICERCHE CONDOTTE NELL’AMBITO DEL PROGETTO DI COOPERAZIONE ITALO-TEDESCO CON L’AUSILIO DELLE PIÚ RECENTI TECNOLOGIE... a cura di Massimiliano Marazzi 84 a r c h e o


G

li Ittiti, un popolo della cui esistenza per lungo tempo si è saputo soltanto quel poco che lasciavano intuire alcune allusioni indirette contenute nella Bibbia, sono oggi, dopo oltre un secolo di ricerche archeologiche, una importante realtà della storia del Vicino Oriente antico. Gli scavi condotti nella capitale, Hattusa, hanno portato alla luce non solo un patrimonio monumentale imponente, ma anche un complesso insediamento urbano che ha pochi confronti nel mondo. Lo sviluppo di questo insediamento, che ha il suo

Una veduta dei resti di Hattusa, capitale del regno ittita. Il sito si trova nei pressi dell’odierna Boghazkale/ Boghazköy, in Turchia, 150 km a est di Ankara.

inizio nel XVII secolo a.C., non si configurò inizialmente nella prospettiva di dar vita al centro di un grande impero. Il processo legato al suo divenire una delle piú imponenti e significative residenze regie della regione mediterranea orientale si svolse di pari passo con la trasformazione del regno ittita in uno dei grandi imperi di rilevanza internazionale dell’epoca. L’elemento che ne caratterizza l’originalità è dato soprattutto dal rapporto che si viene a instaurare fra il costruito e il paesaggio naturale, con il conseguente sviluppo di a r c h e o 85


SPECIALE • ITTITI

forme architettoniche originali. Nell’arco di tempo che vede la sua massima fioritura, fra il 1550 e il 1180 a.C., Hattusa è andata articolandosi su tre poli: la cosiddetta «Città Vecchia» (detta anche «Città Bassa»), la «Città Nuova» (o «Città Alta») e l’area dell’Acropoli (Büyükkale), che domina sul-

la prima e si apre sulla seconda. Questa tripartizione si riflette anche nelle fonti scritte cuneiformi contemporanee. L’antica capitale rappresenta oggi non soltanto il centro piú esteso che si conosca nella regione, ma anche il piú complesso sotto il profilo urbano, comprendente for-

I TRE POLI DI UNA CAPITALE Carta topografica dell’area di Hattusa: in evidenza i monumenti e le aree di maggiore rilievo. L’abitato si articola in tre nuclei principali: la «Città Vecchia» (o«Città Bassa»), la «Città Nuova» (o «Città Alta») e l’area dell’Acropoli (Büyükkale).

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me architettoniche sconosciute altrove nell’area del plateau anatolico. La cosiddetta «Città Bassa», originariamente caratterizzata da stradelle fra abitazioni di svariata grandezza, mutò il suo aspetto già agli inizi del XV secolo a.C., con la costruzione

Mar Nero Istanbul

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Mar Mediterraneo

E

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Il caratteristico paesaggio del plateau anatolico nel quale sorse e si sviluppò la città di Hattusa. a r c h e o 87


SPECIALE • ITTITI

di un grande tempio (il cosiddetto Tempio 1), con i suoi magazzini, gli imponenti edifici pubblici e le grandi strade lastricate che lo circondano. Questo nuovo assetto andò di pari passo con lo sviluppo di una complessa cinta di fortificazioni e la creazione di assi viari che la collegavano all’area dell’acropoli. L’area della «Città Alta», originariamente collocata extra moenia e adibita alle attività agricole, comincia a essere occupata già nel corso del XVI secolo a.C., come testimoniato dalla costruzione a quest’epoca, ai piedi della formazione rocciosa di Sarıkale, di una serie di grandi edifici quadrangolari, forse per uso militare. Nel corso del XV secolo a.C. un’intensa attività edilizia ha inizio nella conca che ne ca88 a r c h e o


Sulle due pagine: veduta della Città Bassa, con, in primo piano, la ricostruzione delle mura di fortificazione dell’abitato. Nella pagina accanto, in basso: resti delle strutture del tempio 1 adibite a magazzini, con grandi vasi per la conservazione delle derrate.

ratterizza la parte centrale. Qui gli scavi degli ultimi decenni hanno portato alla luce le strutture di ben 28 templi e di altri edifici con questi connessi.

LE MURA E LE PORTE L’occupazione della Città Alta, con la costruzione di edifici di culto anche sui tre picchi rocciosi in essa compresi (Nishantepe, Sarıkale e Yenicekale) e la definizione di una rete di strade di collegamento comportarono l’ampliamento dell’antica cinta muraria con la funzione di abbracciare l’intera area a sud dell’acropoli con i suoi edifici religiosi. Il limite meridionale di questa grande opera di fortificazione fu concepito in forma di un grande terrapieno lastricato, in cima al qua-

le la cinta muraria, raddoppiata, si apriva con una porta urbica decorata con quattro sfingi (Yerkapı), rispettivamente due rivolte verso l’esterno e due orientate verso l’area templare interna. Altri quattro portali monumentali, costituiti in grandi blocchi, si aprivano sulla fortificazione che chiudeva la Città Alta; di questi, tutti concepiti con una facciata a forma di parabola, i due immediatamente a ovest e a est di quello delle sfingi, portano una decorazione che ne caratterizza oggi il nome convenzionale: il portale occidentale è, infatti, anche detto «Porta dei Leoni» per la decorazione scultorea di due grandi leoni presenti all’ingresso sul lato esterno; «Porta del Re» o «Porta del Guer(segue a p. 94) a r c h e o 89


SPECIALE • ITTITI

LE PORTE DI HATTUSA Nella fortificazione che racchiudeva la Città Alta si aprivano vari portali monumentali, costruiti con grandi blocchi di pietra e la cui denominazione convenzionale deriva dalle decorazioni che li caratterizzano: abbiamo cosí la «Porta del Re» o «del Guerriero» (portale orientale; foto in alto, sulle due pagine); la «Porta delle Sfingi» (foto qui a destra); la «Porta dei Leoni» (portale occidentale; foto nella pagina accanto, in basso). 90 a r c h e o


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SPECIALE • ITTITI

In alto: carta topografica dell’area di Hattusa con le aree nelle quali la missione italo-tedesca ha svolto i lavori di rilevazione tridimensionale e le ricerche architettoniche ed epigrafiche dal 2014 a oggi. Sulle due pagine: la cittadina di Boghazkale (già Boghazköy) vista dalla Città Alta di Hattusa. 92 a r c h e o


ITALIA E GERMANIA INSIEME PER HATTUSA Il progetto di cooperazione fra la missione archeologica tedesca dell’Istituto Archeologico Germanico di Istanbul, diretta da Andreas Schachner, e il Centro Interistituzionale Euromediterraneo (CEM) dell’Ateneo Suor Orsola Benincasa di Napoli è nato nel 2014. Partendo dalle esperienze dell’équipe del CEM nel settore della rilevazione tridimensionale soprattutto durante gli otto anni (2003-2011) di ricerca condotta in collaborazione con il Ministero della Cultura greco sul sito di Monastiraki a Creta – un palazzo minoico di epoca protopalaziale –, si decideva di sperimentare sul complesso urbano della capitale ittita le nuove procedure di rilevazione, elaborazione e generazione di modelli «dinamici» messe a punto nel corso del tempo. Tre erano i fini primari che si intendeva raggiungere: il primo, quello di affinare e sviluppare ulteriormente le tecnologie già sperimentate, soprattutto per quanto concerne le procedure di fusione/interpolazione dei modelli e quelle della loro manipolazione in ambiente virtuale; il secondo riguardava il testare nuovi dispositivi hardware particolarmente avanzati, sia commerciali, ma non ancora impiegati nella ricerca archeologica, sia non presenti sul mercato, ma elaborati nei laboratori universitari e fino a quel momento impiegati soprattutto nelle indagini relative a manufatti sommersi; il terzo, infine, consisteva nello stabilire quanto, specifici protocolli di rilevazione tridimensionale, potessero essere applicati all’analisi delle grandi iscrizioni monumentali in scrittura geroglifica presenti nella capitale. La ricerca, che ha visto la partecipazione anche di studenti turchi e tedeschi particolarmente

interessati alle pratiche di rilevazione tridimensionale sul campo, è stata sostenuta, a cominciare dal 2015, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, e si è svolta con regolarità annuale fino a oggi. Al CEM dell’Ateneo Suor Orsola Benincasa si è inoltre aggiunto, a cominciare dal 2018, il Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse dell’Università Federico II di Napoli per una serie di ricerche petrografiche e geostatiche. Negli anni sono stati indagati e rilevati quattro settori significativi: l’area settentrionale della Città Alta, e, in particolare quella caratterizzata dal picco roccioso del Nishantepe e quella adiacente l’originario grande bacino artificiale, dove si trovavano due cappelle ipogeiche ricavate nel terrapieno che lo delimitava; l’area del «Grande Tempio» nella Città Bassa, con il complesso degli edifici amministrativi e di culto a questo annessi; la gola, compresa fra le alture di Ambarlıkaya e Büyükkaya, che delimitava la città a nord-est e attraverso la quale si doveva svolgere il percorso della cinta muraria che chiudeva il rilievo di Büyükkaya; l’intero santuario rupestre di Yazılıkaya, ricavato nella formazione rocciosa che si erge pochi chilometri a nord-est della capitale. Negli anni 2019-2021 è infine iniziato il rilievo delle tre grandi porte urbiche della Città Alta, con le loro sculture: la «Porta dei Leoni» a sud-ovest, la «Porta delle Sfingi» collocata in cima al grande terrapieno fortificato che si erge nella parte piú meridionale della città, e la «Porta del Re» collocata nel percorso della fortificazione che delimita il versante orientale della Città Alta.


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riero» è invece la nominazione che caratterizza il portale orientale, per la decorazione scultorea di un guerriero presente sul piedritto di sinistra del versante interno. L’assetto dell’area settentrionale della Città Alta è caratterizzato soprattutto dalle attività edilizie condotte dagli ultimi dinasti,Tuthalija (IV) e Suppiluliuma (II), nella seconda metà del XIII secolo a.C.; queste riguardano il complesso sacro del Nishantepe e della pro-

Qui sotto, nel riquadro: il camminamento sotterraneo (lungo 71 m), posizionato esattamente sotto la Porta delle Sfingi, che conduce fuori dalle mura dell’antica città.

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spiciente area a ridosso di due bacini lustrali artificiali. La monumentalizzazione di questa zona della Città Alta corrisponde, con molta probabilità, con il parziale decadimento della zona templare meridionale, dove, nel corso di questi ultimi decenni, sembrano collocarsi edifici collegati con attività manufatturiere. A differenza di molte altre capitali del Vicino Oriente antico, la fine di Hattusa quale centro dell’impero ittita non avviene a seguito di


invasioni e distruzioni. La corte ittita, nella temperie dei cambiamenti geopolitici che caratterizzano tutta l’area mediterraneoorientale nei decenni fra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C., abbandona probabilmente la città, che, pur ormai deprivata della sua funzione politica, continua una sua esistenza, anche se in forma ridotta. La presenza di una successiva occupazione frigia e le tracce pur rilevanti di edifici romani prima e

bizantini poi, indicano che la vita dovette continuare a lungo sul territorio di Hattusa. Tuttavia, il ricordo della potente capitale imperiale si perse nel corso dei secoli, fino alla «riscoperta» nel corso delle esplorazioni condotte durante i decenni del XIX secolo e, finalmente, all’inizio degli scavi tedeschi a cominciare dai primi del Novecento fino a oggi, che ne hanno riportato alla luce i meravigliosi monumenti.

Sulle due pagine: il possente terrapieno facente parte delle fortificazioni del recinto meridionale. Lungo il percorso delle mura si riconosce la Porta delle Sfingi (nella foto al centro).

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L’APPROCCIO TECNOLOGICO ALLA RILEVAZIONE DEI MONUMENTI E IL LAVORO IN LABORATORIO Ognuno dei complessi monumentali di Hattusa presenta caratteristiche peculiari (particolari elementi architettonici, decorazioni scultoree, iscrizioni geroglifiche di grandi dimensioni, ecc.) ed è inserito in un contesto topografico e struttivo originale. La differenza fra un modello tridimensionale «statico» rispetto a un modello «dinamico» consiste nell’applicare contemporaneamente varie procedure di scanning con apparecchiature diversificate, adatte alle caratteristiche del manufatto: dalle riprese della

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topografia e dei complessi edilizi in essa contenuti, fino ai dettagli architettonici, scultorei ed epigrafici. La distribuzione all’interno di uno stesso campo georeferenziato dei marker usati come riferimento per ogni tipologia di scansione, ha permesso di generare nuvole di punti fra loro allineabili e di

arrivare cosí alla costruzione di modelli tridimensionali interpolabili, come l’esempio della «fusione» dei diversi modelli relativi alla Cappella 2 nella Città Alta chiaramente dimostra. In questo caso il modello dinamico complesso è stato ottenuto attraverso la fusione di diversi modelli: quello relativo alla

In basso: ripresa fotogrammetrica dell’esterno della Porta dei Leoni. Nella pagina accanto in basso: un momento della ripresa ortofotogrammetrica del grande rilievo del re Tuthalija (IV) nella Camera A del santuario rupestre di Yazılıkaya. Queste operazioni sul campo preludono alla successiva elaborazione dei modelli digitali.


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Hattusa, Città Alta, Cappella ipogeica con iscrizione di Suppiluliuma (II): A. modello della struttura generato da scansione laser TOF; B. i due modelli della parete di destra iscritta e della parete di fondo con decorazione scultorea generati da scansione dinamica a luce strutturata, interpolati con le nuvole di punti generati da ortofotogrammetria; C. «fusione» dei 3 modelli (A-B) in un unico modello, caratterizzato dalle proprietà dei 3 elaborati originari.

struttura architettonica (generato da scansione laser «a tempo di volo»), della decorazione scultorea (generato da scansione a luce strutturata dinamica) e della grande iscrizione geroglifica, presente sulle due file di ortostati che ne formano la parete di destra (a sua volta ottenuto attraverso l’interpolazione di un primo modello generato da luce strutturata dinamica e di un secondo da ortofotografia). Il lavoro interpretativo dei singoli modelli si è svolto in laboratorio. Trasferiti in ambiente di visualizzazione virtuale, i modelli sono stati sottoposti a «manipolazione» secondo diverse procedure, tali da permettere di cogliere elementi non visibili sul campo a occhio nudo; si è cosí potuto eliminare la texture,

B C

arrivando di conseguenza a percepire particolari che il colore naturale delle diverse superfici nascondeva; l’illuminazione, resa possibile attraverso la creazione e il posizionamento di diverse fonti di luce gestibili in contemporanea, associata alla rotazione del manufatto secondo il suo asse

verticale o orizzontale ha permesso la creazione di condizioni di luce non esistenti nella realtà e la percezione di elementi assolutamente non rilevabili dall’occhio in condizioni naturali; infine, l’applicazione di procedure di «stretching» secondo uno dei tre assi spaziali ha offerto in molti casi la possibilità di ricreare profondità che gli agenti atmosferici avevano «appiattito» nel corso del tempo. Attraverso questi processi sono emerse forme scultoree, elementi epigrafici e particolari struttivi essenziali per impostare un nuovo studio architettonico, artistico ed epigrafico.

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LE GRANDI ISCRIZIONI MONUMENTALI DELLA CAPPELLA 2 E DELLA PARETE RUPESTRE DEL NISHANTEPE

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ue importanti complessi monumentali hanno caratterizzano l’attività costruttiva nella parte settentrionale della Città Alta di Hattusa all’epoca dell’ultimo re ittita Suppiluliuma (II): l’erezione di un edificio di culto sul picco di Nishantepe, forse concepito dal sovrano come un futuro sacrario alla sua memoria, e la costruzione di due cappelle ipogeiche ricavate ai lati del terrapieno che conteneva il versante nord-occidentale di un grande bacino lustrale artificiale. Entrambe le costruzioni sono caratterizzate rispettivamente dalla presenza di una grande iscrizione monumentale in una scrittura particolare, definita convenzionalmente geroglifico anatolico. Si tratta di una scrittura, contraddistinta da segni con forte valenza iconica, composta di elementi sia di carattere fonetico sillabico che logografico, sviluppatasi parallelamente alla nascita del regno ittita. In origine utilizzata essenzialmente sulla glittica, per indicare titolatura e nome del funzionario incaricato delle pratiche di sigillatura di cretule e tavolette d’argilla redatte in scrittura cuneiforme, diviene, dagli inizi del XIII secolo a.C., una forma di scrittura monumentale.

UNA LINGUA DIVERSA Soprattutto durante il regno degli ultimi due dinasti, Tuthalija (IV) e Suppiluliuma (II), in questa nuova forma di comunicazione il re celebra le proprie imprese belliche e i suoi trionfi. A differenza della gran parte della documentazione cuneiforme su tavoletta d’argilla, la lingua soggiacente a tali iscrizioni non è l’ittita, bensí il luvio, una varietà strettamente imparentata con l’ittita, divenuta all’epoca lingua di comunicazione maggioritaria nelle province del regno, e soprattutto nella capitale. Mentre l’iscrizione sugli ortostati che 98 a r c h e o

A destra: l’iscrizione monumentale di Suppiluliuma (II) nella cappella ipogeica della Città Alta. In basso: la parete di destra della medesima cappella con l’iscrizione e il modello della stessa derivato da scansione dinamica a luce strutturata.


formano la parete di destra della cappella ipogeica si è interamente ben conservata, quella di Nishantash (che prende il nome dalla collina di Nishantepe, n.d.r.), collocata sulla parete rocciosa orientale accanto alla rampa di accesso all’edificio sacro, di 9 m circa di lunghezza e oltre 2 di altezza, contenente ben undici righe predisposte in forma bustrofedica, appare oggi fortemente danneggiata. Non solo la

porzione sinistra della lastra rocciosa si è per un terzo spostata, dando vita a una grande frattura verticale, ma l’intera superficie, esposta per secoli agli agenti atmosferici, appare fortemente dilavata e degradata. Ciò ha causato una drastica perdita di profondità dei glifi, un tempo rilevati rispetto allo sfondo parietale, che, associata alla colorazione scura assunta dalla roccia, ha reso praticamente illeggia r c h e o 99


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bili la gran parte delle sequenze dei segni. Solo la prima riga della sezione destra della lastra rocciosa, in parte difesa dalla presenza di una cornice naturale creata al momento della originaria preparazione della superficie, si è mantenuta parzialmente integra, tanto da permettere agli studiosi di individuare la parte iniziale dell’iscrizione («Io Suppiluliuma, Labarna, Gran Re eroe…») e di attribuirla all’ultimo dinasta di Hattusa.

RIPRESE E PROCEDURE SPERIMENTALI Proprio questo stato del monumento ha fatto sí che sulla rilevazione dell’iscrizione di Nishantash si concentrassero, già dal 2014, una serie di riprese e procedure sperimentali finalizzate

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alla creazione e manipolazione di modelli in grado di offrire una base per la sua lettura e interpretazione. Varie prese ortofotogrammetriche georeferenziate, effettuate con differenti fotocamere digitali, per un totale di piú di 1500 fotogrammi, hanno rappresentato la base sulla quale implementare le nuvole di punti derivanti dalle diverse scansioni effettuate per mezzo di scanner a luce strutturata dinamica. Una serie di punti particolarmente degradati sono stati successivamente rilevati a mezzo di scansione a luce strutturata statica, mentre, per la messa in evidenza delle «appiattite» volumetrie dei singoli glifi

In alto: veduta del Nishantepe da rilievo ortofotografico via drone con evidenza della parete iscritta (nel riquadro, la parete iscritta). In basso: autografia preliminare dell’iscrizione fino alla metà della quinta riga.


Un’altra immagine dell’iscrizione del Nishantepe con, evidenziati dai riquadri, i punti nei quali ricorre la menzione degli Sherden.

si è fatto uso di un nuovo sistema di compiono sotto la protezione e con presa stereoscopica già applicata con l’ausilio della dea del sole di Arinna, una successo in ambienti marini sommersi. divinità fondamentale del pantheon ittita. Dai toponimi fino a oggi individuati, il fuoco delle spedizioni militari appare RISULTATI SORPRENDENTI I diversi modelli semplici e complessi essere stata soprattutto l’area sud-oriencosí generati sono stati mappati e sot- tale e meridionale dell’Anatolia, in pietoposti a un lungo lavoro di analisi in na concordanza non solo con quanto laboratorio in ambiente di visualizza- (in forma decisamente piú sintetica) zione virtuale. I risultati sono stati sor- narrato nell’iscrizione monumentale prendenti. I glifi che caratterizzano presente sulla parete della già ricordata l’intera superficie dell’iscrizione (a par- cappella ipogeica poco distante, ma, te una porzione della lastra di sinistra, soprattutto, con tutta una serie di altre purtroppo interamente andata distrutta testimonianze scritte, in parte provenel corso dei secoli) hanno cominciato nienti dagli archivi della città portuale ad apparire, permettendo agli epigrafi- di Ugarit, vassallo all’epoca del re ittita, sti di iniziare un lento e accurato lavoro e relative a scontri lungo le coste meridi individuazione delle stringhe di se- dionali anatoliche e nel mare antistante. gni. Sono cosí cominciati ad apparire Non meraviglia, quindi che, fra i nomi diversi toponimi ed etnonimi, legati presenti risulti SUPER-tá-ní il cui prialla narrazione delle conquiste militari. mo elemento, se correttamente letto L’opera di decifrazione e interpretazio- come logogramma per ser/sara, perne è ancora in corso di svolgimento, ma metterebbe l’individuazione di quei già due elementi appaiono chiari: l’i- Serdani/Serden che proprio in quegli scrizione non narra soltanto le gesta del anni, insieme ad altri gruppi marittimi re Suppiluliuma (II), ma anche quelle (come i Lukka, pure presenti nella nodel padre (Tuthalija IV), seguendo uno stra iscrizione), mettono in seria diffischema che si ritrova in un testo cunei- coltà le regioni costiere dal golfo di forme dell’epoca. Le imprese militari si Adana fino al delta del Nilo. a r c h e o 101


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LA NARRAZIONE SCULTOREA DEL SANTUARIO RUPESTRE DI YAZILIKAYA

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no dei monumenti piú suggestivi di Hattusa è indubbiamente il santuario rupestre di Yazılıkaya. Collocato pochi chilometri a nord-est della capitale, è un esempio unico di complesso templare ricavato all’interno delle camere naturali di una impressionante formazione rocciosa naturale. In uso già dal periodo piú antico del regno ittita, raggiunse il suo apice fra la fine del regno di Hattusili (III), quello di suo figlio Tuthalija (IV), fino all’ultimo dinasta Suppiluliuma (II) (fra la metà e la fine del XIII secolo a.C.), quando, sulla base di un ambizioso progetto politico-religioso, diviene il simbolo dell’assetto del pantheon imperiale. La costruzione di un avancorpo, che riprende elementi struttivi del tempio ittita, è concepito come ingresso alle due camere principali: quella A, la piú grande, pensata come vera e propria cella; e quella B, piú stretta, legata originariamente alla celebrazione di rituali ctonii e probabilmente concepita, ancora in corso d’opera, come luogo di culto post mortem del re Tuthalija (IV).

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In alto: veduta della Camera A del santuario rupestre di Yazılıkaya. Nella pagina accanto, in basso: il complesso in una veduta ortofotogrammetrica dall’alto.

Elemento caratterizzante della camera principale, di forma quadrangolare, è l’esecuzione sulle due pareti dei lati lunghi di una complessa decorazione scultorea raffigurante due processioni, rispettivamente di divinità maschili sulla parete di sinistra, e femminili lungo la parete di destra; queste si incontrano sulla parete di fondo nelle raffigurazioni delle due piú importanti divinità, rispettivamente maschile e femminile, del pantheon hittita dell’epoca: Tešub e Hebat.

QUASI COME FUMETTI La maggioranza delle divinità raffigurate è accompagnata da una composizione di segni geroglifici posta davanti al volto, a mo’ di «fumetto», la quale, spesso attraverso rimandi iconici, ha il fine di identificarne il nome; gli stessi tratti iconografici che carat-


A In alto e a destra: esempi di diversi modelli 3D del Santuario di Yazılıkaya. A-B. Modello della Camera A derivato dalla fusione del modello topografico generale e dei modelli delle teorie scultoree. C-D. Camera A: due particolari delle sculture relative alla processione delle divinità maschili; evidenziate in primo piano sono le parti scultoree rilevate via scanner a luce strutturata collocate sulla parete rocciosa (in background) derivata dal modello topografico generale.

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terizzano in alcuni casi la rappresentazione delle diverse divinità sono in stretta relazione con le funzioni e gli attributi che di esse conosciamo attraverso le fonti scritte. Questa decorazione scultorea, con le sue due processioni che trovano il fuoco nel loro punto di incontro, si presenta, quindi, organizzata secondo un ben preciso schema di storytelling, il cui fine principale è quello di illustrare, celebrandolo, il pantheon ufficiale della corte ittita di epoca tardo-imperiale, con le sue forti caratterizzazioni culturali luvie e hurrite, sottolineato (e disambiguato) dalle iscrizioni geroglifiche che accompagnano le principali personalità divine.

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La rappresentazione scultorea monumentale di Tuthalija IV subito all’ingresso della Camera A, sulla destra, conferma la celebrazione di questo dinasta come «re fondatore» del nuovo assetto assunto da quest’area del santuario, cosí come i resti di una banchina corrente lungo le due pareti, subito al di sotto delle sculture, sono indizio dell’originaria presenza di postazioni/altari davanti alle effigi delle divinità. Di piú complessa interpretazione appare la funzione e il programma scultoreo della adiacente Camera B. Certamente legata al culto post mortem di Tuthalija (IV), come la rappresentazione dei 12 antichi re sulla pa-

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SPECIALE • ITTITI

Uno dei rilievi con cortei di divinità e altri personaggi scolpiti sulle pareti del santuario rupestre di Yazılıkaya.

A sinistra: modello 3D da ortofotogrammetria via drone del santuario di Yazılıkaya: sono evidenziate le camere naturali A e B e le linee di andamento delle due processioni, con l’indicazione del punto di incontro sulla parete di fondo della Camera A. In basso: planimetria della Camera A con le indicazioni delle sculture parietali e del punto di incontro.

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degrado delle superfici rocciose rende in molti casi complessa l’analisi stilistica accurata dei rilievi, soprattutto in relazione all’individuazione e determinazione delle possibili botteghe di artigiani all’opera, e alla lettura delle iscrizioni che li accompagnano. Pur a fronte della pubblicazione di una serie di edizioni di altissima qualità a cominciare dall’immediato dopoguerra, questi due ordini di problemi permangono ancora oggi.

In basso: ricostruzione ideale delle sculture parietali della Camera A in età ittita (base grafica da Seeher 2011, in parte modificata).

rete orientale e del dio Sarruma che abbraccia il sovrano incedente verso il «dio spada» sulla parete occidentale stanno a testimoniare, essa appare però aver subito nel tempo alcuni cambiamenti, soprattutto per quanto riguarda l’accesso e la determinazione del focus delle decorazioni scultoree. Anche nel caso delle sculture e delle iscrizioni di Yazılıkaya un forte fenomeno di

TRE PROCEDURE Nell’estate del 2015, parallelamente ai lavori di rilevazione nell’area di Nishantash, cominciava quindi una campagna di studio e rilievo a Yazılıkaya. In questo caso la base tridimensionale sulla quale «innestare» le scansioni delle decorazioni scultoree e delle relative iscrizioni è stata la rilevazione georeferenziata dell’intero complesso roccioso, condotta in parallelo secondo tre procedure: una serie di scansioni laser «a tempo di volo», integrata da riprese stereofotogafiche e da una dettagliata ortofotogrammetria eseguita da media altezza con drone, quest’ultima al fine di integrare le nuvole di punti generate dalla scansione laser della parte sommitale della formazione rocciosa e per acquisire una texture delle stesse ad alta risoluzione. Le pareti di entrambe le camere sono state, come nel caso dell’iscrizione di Nishantash, sottoposte a un’accurata fotogrammetria con diversi tipi di fotocamera digitale. Un lungo e preciso lavoro di rilevazione con scanner dinamico a luce strutturata è stato dedicato alla rilevazione delle singole sculture e delle iscrizioni collegate. Questo si è svolto essenzialmente nelle ore notturne per ottenere il maggior effetto di contrasto tra i diversi piani scultorei; nel caso della rappresentazione di fondo, dove soprattutto la parte bassa della composizione con la raffigurazione di due divinità in forma di vitello con le rispettive iscrizioni risultava seriamente degradata, si è eseguita un’accurata scansione a luce strutturata statica. Grazie alla creazione di un unico campo georeferenziato al quale far riferire tutte le scansioni effettuate, è stato cosí possibile allineare nell’ordine di frazioni di millimetro tutte le nuvole di punti generate e fondere nel modello topografico generale le singole sculture e iscrizioni che le accompagnano. a r c h e o 105


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L’ISCRIZIONE CHE COMPARE... ALL’ORA DI PRANZO Uno degli obiettivi della missione a Hattusa è rappresentato dalla rilevazione tridimensionale e dallo studio architettonico dei grandi portali che si aprono nelle mura urbiche. In particolare, i portali che caratterizzano la cerchia muraria della Città Alta presentano, sia verso l’esterno che verso l’interno, un ingresso a forma di «parabola», come testimonia l’andamento dei due monoliti che ne vanno a formare le ante. In due casi, e cioè quelli dei portali immediatamente a est e a ovest del grande vallo di Yerkapı, questi monoliti presentano una decorazione scultorea di

particolare pregio. Nel caso del portale occidentale, due leoni sui due rispettivi monoliti all’ingresso esterno del portale fannno da guardiani a questo accesso alla capitale. Questo portale «dei leoni» ha rappresentato, già dalle prime visitazioni ottocentesche del sito, una vera e propria attrazione, sia per il pregio dell’opera scultorea, sia per l’imponenza che conferisce al monumento di ingresso. Uno di essi, e cioè quello di sinistra, celava un segreto che fu svelato solo nel 1976, dall’allora direttore degli scavi Peter Neve: in particolari condizioni di luce, che normalmente si verificano fra l’una e le due del pomeriggio, subito al di sopra della sua testa, sul corpo del monolito da cui il leone si protende, compare un’iscrizione in caratteri geroglifici particolarmente strana, sia per la tecnica di esecuzione, sia per il contenuto che sembrerebbe avere. L’iscrizione non è incisa, ma le Il modello testurizzato della Porta dei Leoni elaborato nel corso della campagna di rilevazione del 2019.

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linee che vanno a formare i glifi sono ricavate dall’allineamento di tante picchiettature sulla superficie della pietra eseguite con uno strumento appuntito. Iscrizioni simili, di tecnica «povera» quindi, e di carattere estemporaneo furono individuate fra gli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo dall’archeologo Kurt Bittel nell’area della Città Bassa, sempre apposte su elementi architettonici in punti di passaggio. Nella gran parte dei casi esse riportavano semplicemente il segno indicante il titolo di scriba accompagnato


Porta dei Leoni. A sinistra, il modello del leone di sinistra con il punto dell’iscrizione e la collocazione dell’incavo emisferico ai piedi della scultura; al centro, il modello di dettaglio dell’iscrizione con l’evidenza dei glifi che la compongono; a destra, la sequenza normalizzata dei segni con la loro valenza semantica.

dal nome, e non mostravano alcun nesso con il monumento sul quale erano apposte, a parte quello di essere bene in vista per i passanti; tanto che alcuni studiosi hanno proposto che si trattasse di vere e proprie «insegne» dell’epoca che marcavano il luogo in cui scribi, specializzati nella scrittura geroglifica su tavolette di legno cerate, svolgevano il proprio lavoro. Quest’ipotesi è stata in qualche modo rafforzata dal ritrovamento, nella stessa area sacra del Grande Tempio, di un certo numero di stili bronzei effettivamente adatti per forma allo svolgimento di questa attività scrittoria. Ma che cosa ci faceva una iscrizione del genere all’ingresso della porta urbica della Città Alta, in stretta connessione con il luogo dove erano appostati i due leoni con chiara funzione apotropaica? Effettivamente le proposte di lettura dell’iscrizione avanzate da diversi studiosi concordavano sul fatto che il contenuto si riferisse in qualche modo al portale, dal momento che l’ultimo segno dell’iscrizione appariva chiaramente ricollegabile (anche se in una strana variante

fino a quel momento unica nel suo genere) al glifo per PORTA. Quando nel 2019 si cominciò la rilevazione dell’area della Porta dei Leoni, si pensò che sarebbe stato interessante, sulla base dell’esperienza positiva già acquisita nel rilievo 3D dell’iscrizione di Nishantash, sperimentare quanto una scansione dinamica a luce strutturata, interpolata con i dati di un’accurata rilevazione fotogrammetrica, potesse fornire una chiara rappresentazione dei segni e una lettura affidabile dell’iscrizione. Il modello, analizzato in ambiente virtuale, ha effettivamente permesso di identificare con chiarezza gli elementi costitutivi dell’iscrizione, mostrando come la forma strana di alcuni segni fosse dovuta al fatto che il suo estensore, giocando con la forma dei glifi, li avesse inseriti in parte l’uno dentro l’altro, a formare una composizione armonica leggibile come (l’indicazione «+» si riferisce ai segni composti l’uno dentro l’altro): MAGNUS.THRONUS+LU-LU-u PORTA2+MI, che può essere resa come «(questo è il) grande luogo/ seggio/sede del lulu al/presso il

portale» (dove il logogramma per PORTA è complementato dal segno sillabico «MI» per indicarne la lettura come hilammi-, appunto «porta/portale» in lingua luvia) . La parola lulu in ittita significa «stato di grazia», uno stato, quindi in sintonia con la purezza religiosa. Il significato, anche se di primo acchito può apparire sibillino, può di fatto essere spiegato come segue: molti rituali di purificazione ittiti si fondavano, come i testi cuneiformi ci illustrano, sull’atto rituale del passare attraverso una porta/passaggio; nel transitare il «paziente» lasciava/veniva liberato dall’impurità che lo possedeva. Quale «passaggio» migliore di quello di una porta urbica difesa da due leoni? Questa iscrizione estemporanea ci dice che probabilmente proprio presso questo portale si celebravano riti di purificazione; e che i leoni non fossero un semplice abbellimento artistico, ma luogo di culto e ritualità, è confermato dal fatto che ai piedi di ciascuno di essi, scavata nel basamento su cui poggiavano le zampe, è presente una conca emisferica usata certamente per pratiche di libagione.

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DA YAZILIKAYA AI MUSEI DI BERLINO ALLA RICERCA DEI CALCHI OTTOCENTESCHI DI CARL HUMANN

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el luglio del 1882 l’ing e g n e re t e d e s c o Carl Humann (1839-1896), già famoso per i suoi scavi a Pergamo, arrivava a Hattusa, all’epoca ritenuta ancora l’antica Pteria. Al lavoro svolto dalla sua missione nel corso di circa quattro settimane dobbiamo non soltanto una pianta dettagliata di tutta l’area della capitale, ma, soprattutto, il primo studio organico del santuario rupestre di Yazılıkaya, che già negli anni Trenta dello stesso secolo aveva attirato l’attenzione della missione francese di Charles Texier. Il merito di Humann risiede soprattutto nell’aver fatto approntare una serie di calchi in gesso delle principali raffigurazioni presenti sia nella Camera A che nella Camera B. Questi furono spediti a Berlino dove le matrici originali furono conservate presso la Gipsformerei di Charlottenburg, mentre le copie dei calchi, eseguite successivamente furono esposte, dal 1883, prima nel Neues Museum, poi nel cosiddetto Provisorium, successivamente nel Kaiser-Friedrich-Museum e infine, dal 1936, nell’edificio del Pergamon/ Altvorderasiatiches Museum, dove sono oggi ancora visibili nella cosiddetta Stanza 1. Non tutti i calchi dell’originaria esposizione, però, finirono nell’esposizione del Pergamon; di alcuni rimaneva solo la traccia delle matrici originali conservate nella Gipsformerei di Berlin-Charlottenburg, come stavano a testimoniare i cataloghi editi dalla Gipsformerei stessa a cominciare dal 1889, fino a quello del 2007. Nel corso del tempo, tuttavia, non solo era venuta meno la dovuta attenzione al commento che a tali calchi Humann aveva steso nella sua pubblicazione edita a Berlino nel 1890 per 108 a r c h e o

i tipi della Regia Accademia delle Scienze, ma, soprattutto, si era perso il collegamento fra i calchi originari e il loro luogo di conservazione presso i magazzini della Gipsformerei, il cui edificio, e quindi i magazzini stessi, era miracolosamente rimasto illeso nel corso dei bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale. Eppure i calchi di Humann rappresentavano un patrimonio importantissimo, dal momento che all’epoca della loro esecuzione, molte sculture e le relative iscrizioni ancora si trovavano in uno stato di conservazione decisamente migliore rispetto a quello odierno. Alcune delle copie esposte al Pergamon erano state considerate, soprattutto dalle successive edizioni curate da Kurt Bittel, da quella preziosissima del 1934, fino all’ultima del 1975; era mancato però uno studio accurato delle matrici originali e, soprattutto, di alcune, le cui copie nel corso del tempo (anche a causa degli eventi del secondo conflitto mondiale) non essendo piú state fatte oggetto di esposizione al Pergamon erano state date per definitivamente perse.

UN CASO EMBLEMATICO Emblematico è il caso della scultura della processione femminile n. 46a. Di questa, ancora esistente fino alla prima metà dell’800 (come testimonia un disegno di Charles Texier pubblicato nella sua Description de l’Asie Mineure del 1839), rimaneva al momento della visita di Humann soltanto l’iscrizione geroglifica che l’accompagnava; ma già ai primi del Novecento anche l’iscrizione era per buona metà collassata. Oltre al calco dell’iscrizione integra, Humann ne aveva fatto anche uno schizzo che, per fortuna, era stato tenuto in conto nelle successive pubbli-

A sinistra: Carl Humann (1839-1896) in un’immagine d’epoca. Nella pagina accanto, in basso: fasi della rilevazione delle copie dei calchi Humann esposti oggi nella Sala 1 del Vorderasiatisches Museum del Pergamon a Berlino (a sinistra) e delle matrici originali dei calchi Humann ancora conservati nei magazzini della Gipsformerei di BerlinCharlottenburg (a destra).


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In alto: l’iscrizione della divinità femminile n. 46a della Camera A di Yazılıkaya: a. disegno dell’iscrizione ancora integra eseguito da Carl Humann nel 1882 e da lui pubblicato nell’opera Reisen in Kleinasien und Nordsyrien (1892); b-c. il calco originale della medesima iscrizione eseguito da Humann e «ritrovato» nei magazzini della Gipsformerei di Berlin-Charlottenburg (b), con il modello 3D eseguito nel 2017 via scanning a luce strutturata (c); d-e. il restauro virtuale dell’iscrizione eseguito fondendo il modello della parete rilevata in situ nel 2015 (a sinistra), con il modello del calco Humann rilevato nella Gipsformerei nel 2017 (a destra).

cazioni scientifiche, senza peraltro peritarsi di ricercare il calco originale. Nel dicembre del 2017, inoltre, grazie a un accordo stretto fra l’Istituto Germanico di Istanbul, i Musei di Berlino e l’Università Suor Orsola, si è potuto accedere ai calchi e alle matrici conservati al Vorderasiatisches Museum e alla Gipsformerei di Berlin/Charlottenburg. Dopo una lunga ricerca condotta nei magazzini dell’antica Gipsformerei, venivano finalmente rintracciati i famosi calchi di Carl Humann, compreso quello della ricordata iscrizione 46a.Tutte le repliche potevano finalmente essere acquisite in 3D per mezzo di scansione dinamica a luce strutturata ed essere sottoposti a rilevazione ortofotografica. I modelli cosí ottenuti, sono stati confrontati e in alcuni casi fusi con quelli relativi alle sculture e alle iscrizioni rilevate in situ, conducendo cosí una vera e propria opera di restauro/integrazione virtuale. La Missione di Hattusa si svolge dal 2014 nell’ambito del Centro Interistituzionale Euromediterraneo dell’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, Dipartimento di Studi Umanistici. In collaborazione con il personale della Missione di scavo dell’Istituto Archeologico Germanico, diretta da Andreas Schachner, partecipano a diverso titolo per conto dell’Ateneo napoletano: Carla Pepe, Massimiliano Marazzi, Leopoldo Repola, Natalia Bolatti Guzzo, Sven S.Tilia. Dal 2018 il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo Federico II di Napoli collabora alla missione con diversi specialisti coordinati da Vincenzo Morra. La Missione è sostenuta dal 2015 dal Ministero degli Affari Esteri. PER SAPERNE DI PIÚ Sulla storia e la cultura degli Ittiti: Stefano de Martino, La cilviltà degli Ittiti, Carocci editore, Roma 2020. Una guida aggiornata di Hattusa è ora offerta da Jürgen Seeher, Hattusha Guide. A Day in the Hittite Capital (Ege Yayinlari, Istanbul 2020), e dal direttore degli scavi, Andreas Schachner, Hattusa. Auf der Suche nach dem sagenhaften Großreich der Hethiter, C.H. Beck, Monaco di Baviera 2011 a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

UNA RUPE E DUE VERITÀ VERGINE TRADITRICE O EROINA PER AMOR DI PATRIA? COSA RIVELANO LE – RARISSIME – RAFFIGURAZIONI DELLA PUNIZIONE DI TARPEA…

L

a giovane Tarpea, figlia del comandante della rocca capitolina Spurio Tarpeo, dà ancora oggi il suo nome al fianco del Campidoglio noto appunto come Rupe Tarpea, dal quale venivano precipitati i traditori sino al I secolo d.C. La vicenda è stata tramandata in versioni differenti: Livio (I, II, 5-9) narra come, al tempo di Romolo, durante le guerre tra Romani e Sabini, la fanciulla, attratta dai monili che i guerrieri sabini indossavano, per cupidigia tradí la patria, facendo un patto scellerato con i nemici, i quali, fatti entrare da lei nella cittadella romana, l’avrebbero ripagata con ciò che portavano al braccio. Giunti nottetempo, i Sabini, invece, uccisero la ragazza, coprendola con i propri scudi, poiché nemmeno il nemico tollera i traditori. Curiosamente, la tomba di Tarpea sul colle della città divenne un luogo di culto. Calpurnio Pisone (in Dionigi di Alicarnasso, 2.38.3-4), invece, al quale sembrava impossibile che ogni anno i Romani rendessero onore alla tomba di Tarpea se fosse stata davvero una traditrice, ne fa un’eroina, in quanto avrebbe usato uno stratagemma per ingannare i Sabini e privarli dei propri scudi al fine di salvare Roma, ma, scoperta, fu da questi stessi uccisa. Ancora, il poeta di età augustea Properzio (Elegie, IV, 4) conferisce al racconto una veste romantica, ambientandola presso una fonte e nei luoghi immediatamente

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circostanti il colle capitolino: la giovane è una vestale custode della rocca e, recandosi a prendere l’acqua per le libagioni alla dea, vede il re dei Sabini Tito Tazio e se ne innamora perdutamente. Travolta dalla passione, decide di tradire la patria e di rinunciare alla verginità imposta dal suo sacerdozio: si accorda con il re nemico, permettendogli di prendere Roma in cambio dell’essere sua sposa. Ma Tazio, entrato nella rocca, la ricompensa uccidendola con gli scudi dei suoi soldati. E, da allora, il colle prese il nome dalla scellerata fanciulla. Vi sono poi anche altre versioni e studi che vedono inTarpea una divinità ctonia preromana destinataria di offerte annuali che aveva il suo luogo di culto sul colle capitolino, al quale dava anche il nome prima che vi venisse eretto il tempio di Giove, e collegata in qualche modo anche alla Luna, intesa come divinità celeste.

COME UN’APPARIZIONE In alto: denario di L. Titurius Sabinus. 89 a.C. Al dritto, il re sabino Tito Tazio; al rovescio, Tarpea coperta dagli scudi fra due soldati. Nella pagina accanto, in alto: particolare del fregio della Basilica Emilia con la punizione di Tarpea. Roma, Curia Iulia. Nella pagina accanto, in basso: denario di P. Petronius Turpilianus. 19-18 a.C. Al dritto, testa di Augusto; al rovescio, Tarpea che emerge dagli scudi a braccia aperte.

Rare sono le raffigurazioni della punizione di Tarpea: un fregio della Basilica Emilia a Roma – databile tra la fine dell’età repubblicana e la prima età augustea – e due monete. Nel fregio il busto di Tarpea si erge da un cumulo di scudi e grosse pietre, ha un seno scoperto, un velo come mosso dal vento intorno alla testa e le braccia aperte, simile all’epifania di una divinità ctonia. Ai lati, un soldato e un altro uomo non armato la stanno ricoprendo con gli scudi e, piú a sinistra, un


personaggio, identificabile con Marte, osserva la scena. La morte di Tarpea ricorre poi nel denario dell’89 a.C. emesso da L. Titurius Sabinus, il cui nome già ricorda l’origine sabina del magistrato, e raffigura sul dritto un nobile volto barbuto, quello di Tito Tazio re dei Sabini, e al rovescio Tarpea, inginocchiata e con i capelli al vento, affiancata da due armati che le gettano addosso i loro scudi; da notare la falce di luna e la stella che sovrastano la scena. P. Petronius Turpilianus, monetiere di Augusto del 19 a.C. e anch’egli di origine sabina, adotta sui suoi denari il tema di Tarpea, ma, a

differenza di quello scelto dal suo conterraneo settant’anni prima, qui la fanciulla si erge quasi come una divinità mediterranea da un cumulo di scudi e, forse, massi, similmente all’immagine della Basilica Emilia.

LE INSEGNE PERDUTE Varie sono state le interpretazioni proposte sul perché di questa iconografia per un denario di Augusto: gli studi lo ricollegano al recupero delle insegne perdute da Marco Licinio Crasso nella battaglia di Carre, nel 53 a.C., contro i Parti, e da questi restituite nel 20 a.C. Oppure il tipo potrebbe alludere alla riforma augustea dei costumi

del 18 a.C., che mirava a colpire comportamenti ritenuti immorali, per i quali è assurta a esempio Tarpea, vista come traditrice per bramosia di gioielli o per amore. Infine l’immagine potrebbe essere un’ammonizione per chi intende tradire la patria (si pensi, nell’ottica augustea, a Marco Antonio). Ma, al contrario, potrebbe anche darsi che qui Tarpea rappresenti una divinità antichissima, legata alla protostoria romana, simbolo di quel mos maiorum al quale Augusto, con il suo scaltro operare, affermava di rifarsi per garantire il benessere dei cittadini nel nascente principato.

PER SAPERNE DI PIÚ Paola Mazzei, Iuno Moneta-Tarpea, in Rivista di cultura classica e medioevale, 47, 1, 2005: pp. 23-79. Francesco Marcattili, Moles Martis, il turpe sepulcrum di Tarpea e la Luna dell’Arx, in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, 112, 2011; pp. 7-34.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Luana Cenciaioli, Giancarlo Mezzetti (a cura di)

IN RICORDO DI SERGIO FATTI Collezionismo e ricerca storica a Perugia

Volumnia Editrice, Perugia, 160 pp. 16,00 euro ISBN 979-12-80725-00-4 www.volumnia.it

Ci sono titoli difficili da recensire e cosí è per me in questo caso. Ho conosciuto Sergio Fatti, quando, studente universitario, prendeva parte agli scavi presso l’area sacra di Cannicella a Orvieto, sotto la direzione di Francesco Roncalli, docente con il quale poi si laureò presso l’Università di Perugia e collaborò a lungo, e Simonetta Sopponi. Una conoscenza proseguita negli anni, sulla base dei comuni interessi per la storia dell’archeologia e del collezionismo archeologico – ricordo un suo libro di particolare interesse su Gian Francesco Gamurrini – e 112 a r c h e o

del suo lavoro presso la Regione Umbria come funzionario per il Patrimonio librario e archivistico. Sergio è scomparso nel febbraio del 2020 e questo volume vuole ricordarlo. I curatori si sono mossi su due piani: nella prima parte una serie di testimonianze provano – riuscendoci – a ricostruirne la figura, l’impegno e le passioni. Simonetta Stopponi rammenta che, quando lei sullo scavo riprendeva qualcuno, Sergio: «prendeva le difese dei malcapitati, con la conseguenza che mi arrabbiavo con lui! A volte lo riprendevo proprio per la sua

fiducia verso gli altri, che spesso non ricambiavano il suo atteggiamento. Le sue risposte alle mie osservazioni si risolvevano sempre con un silenzioso sorriso». Un riferimento al suo sorriso torna negli altri ricordi affidati a colleghi e amici: i due curatori, Antonella Pinna, Mario Squadroni, Emidio De Albentiis, Massimo Nafissi, Paolo Renzi; e alla moglie, Giovanna Spaterna, e ai figli Marianna e Michele. In effetti colpiva e diceva molto del suo atteggiamento verso il mondo e della disponibilità verso gli altri. Sergio era un bibliofilo e, in proposito, interessante

è la testimonianza dei figli: «Ha sempre cercato di farci conoscere e amare i libri come se fossero persone, come se fossero amici suoi». La seconda parte del volume è dedicata all’Arco etrusco di Perugia sulla base delle incisioni che lo hanno raffigurato tra XVI e XIX secolo. La sceltà è meditata: le incisioni, su cui si riflette, sono state raccolte da Sergio che volle esporle – d’intesa con Luana Cenciaioli – in una mostra allestita all’interno del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria: «L’Arco etrusco. Le incisioni fra XVI e XIX secolo». La mostra aprí ai primi di febbraio del 2020 e Sergio


fece in tempo a prendere parte alla cerimonia d’inaugurazione in qualità di curatore. Tale parte si compone di due saggi di Luana Cenciaioli, nei quali si ricostruiscono gli aspetti archeologici e le vicende storiche del monumento legato alla storia di Perugia sin dal suo passato etrusco, e di un intervento scritto da Sergio per analizzare le incisioni. Mi limito a segnalare come alcune, al di là del valore antiquario e documentario, riescano a parlare della vita quotidiana a Perugia nei secoli trascorsi: in una dell’incisore Friedrich Georg Papperitz, databile al 1840, si vedono uomini e donne che attraversano l’arco, altre donne che lavano i panni alla fontana addossata al torrione di sinistra, un carro che trasporta botti trainato da cavalli, ancora un carro con accanto il conduttore e un bue in riposo. Scene di quotidianità ritornano in altre incise da Raimondo Faucci (1794), o da Giuseppe Carattoli e Frezzolini (1810-1811), o da Pierre Eugène Aubert (1835), o da Annibale Angelini e Napoleone Cherubini (1835), solo per fare qualche esempio. Penso che l’interesse di Sergio per esse sia nato anche da questo aspetto: era la curiosità e l’amore per il quotidiano del passato – piú o meno lontano nel tempo – di Perugia. Giuseppe M. Della Fina

Davide Nadali, Frances Pinnock (a cura di)

ARCHEOLOGIA DELLA SIRIA ANTICA Carocci editore, Roma, 490 pp., ill. b/n 42,00 euro ISBN 978-88-290-1119-3 www.carocci.it

Pensato innanzi tutto come manuale destinato agli studenti universitari, questo corposo manuale può soddisfare anche le aspettative di quanti abbiano il desiderio di comprendere la complessa realtà storica e archeologica di una delle aree cruciali nello sviluppo delle grandi civiltà preclassiche. Un’area, la Siria, per la quale, fin dalle prime pagine, i curatori e i numerosi altri studiosi coinvolti nella stesura del volume respingono l’etichetta di «terra di mezzo», sottolineandone invece le molte e significative peculiarità. Nell’organizzare la mole di dati e notizie si è scelto di suddividere il materiale per grandi temi,

piuttosto che seguire una presentazione scandita dalla successione cronologica dei diversi fenomeni. E cosí, dopo una prima parte dedicata all’inquadramento storico e geografico della regione, si passa ai rapporti della Siria antica con le altre regioni del Vicino Oriente, all’architettura e, infine, all’arte e alla cultura materiale. Ne scaturisce un profilo esauriente e puntuale, quale è stato definito da oltre un secolo di ricerche, condotte in primo luogo dalle numerose missioni internazionali che hanno operato nel Paese. Fra le quali, giova ricordarlo, hanno avuto un ruolo decisivo quelle italiane. Ed è significativo, al proposito, ripercorrere la storia delle esplorazioni proposta da Paolo Matthiae, del quale non si può non condividere l’auspicio per una rinascita dell’archeologia della Siria. Stefano Mammini Filippo Coarelli

OSTIA REPUBBLICANA Edizioni Quasar, Roma, 473 pp., ill. b/n 40,00 euro ISBN 978-88-5491-167-3 www.edizioniquasar.it

La considerazione di Ostia come porto della Roma imperiale può spesso avallare una visione parziale della sua vicenda storica, che fu di ben piú lunga durata. È questo

uno dei presupposti del nuovo volume di Filippo Coarelli, il quale, rielaborando materiali utilizzati per alcuni corsi universitari, sceglie dunque di analizzare la fase repubblicana del sito sviluppatosi alla foce del Tevere. Fin dall’inizio, nel lungo capitolo introduttivo, si può cogliere la complessità della vicenda e, al tempo stesso, apprezzare ancora una volta il modus operandi che da sempre costituisce la cifra dello studioso, basato sul costante confronto tra i dati archeologici e le fonti. Una prassi che costantemente alimenta «scoperte» e riletture, anche inaspettate, come nelle pagine dedicate al dibattito sull’esistenza di un porto prima dell’età di Claudio, da sempre negata sulla scorta di un passo di Strabone che, scrive Coarelli, «è spesso citato solo parzialmente o mal compreso». Un’opera, insomma, che è anche una lezione di metodo. S. M. a r c h e o 113


presenta

L’ETÀ DEI SANTI MISTERI, MIRACOLI E PRODIGI

La devozione religiosa e la pratica del culto sono elementi fortemente distintivi dell’età di Mezzo e il nuovo Dossier di «Medioevo» ne offre una ricca documentazione, cercando soprattutto di mettere in luce quanto sia spesso labile il confine fra realtà storica e tradizione leggendaria, alimentata, quest’ultima, dal fiorire delle agiografie di santi. Un confine lungo il quale occorre comunque muoversi con attenzione, poiché, come si legge nelle pagine introduttive, «un preconcetto eccesso di razionalismo può avere in questo ambito la medesima influenza deleteria di un cieco fideismo». Resta intatta la potenza di episodi comunque passati alla storia, quali l’incontro fra papa Leone I e Attila, in occasione del quale il pontefice fu capace di convincere il re unno ad astenersi dal mettere Roma a ferro e fuoco, o l’incrollabile tenacia di sant’Antonio Abate nel resistere alle tentazioni del diavoli. Fatti come questi furono peraltro alla base della diffusione delle reliquie, fenomeno che assunse contorni eccezionali, ma che, proprio per la sua portata, non fu esente, già allora, da critiche, anche molto aspre. Questo nuovo Dossier di «Medioevo» propone dunque un vasto repertorio di temi e, facendo luce sul rapporto con la religione, ne testimonia l’importanza e la centralità nella vita quotidiana del tempo. Un ruolo di cui sono figlie anche la nascita dei grandi luoghi di culto, prime fra tutti le cattedrali, e la ricca produzione artistica a carattere sacro. Le cui immagini compongono il ricco corredo iconografico del fascicolo.

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