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ANTICHITÀ VIOLENTA
RISCOPRIRE GABII
NEL SANTUARIO DELL’UOMO SERPENTE UN MISTERO DI 12 000 ANNI FA
KARAHAN TEPE
MISTERI DI CAPESTRANO
ABRUZZO
L’ENIGMA DI CAPESTRANO
SPECIALE GIACOMO BONI A ROMA
ALLA RISCOPERTA DI GABII
GIACOMO BONI UN VENEZIANO ALLA SCOPERTA DI ROMA
SPECIALE
www.archeo.it
IN EDICOLA IL 10 MARZO 2022
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Mens. Anno XXXV n. 445 marzo 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 445 MARZO
LAZIO
€ 6,50
EDITORIALE
SI VIS PACEM... Appartengo a una generazione – o perlomeno a una parte forse minoritaria ma pur significativa della medesima – talmente fortunata da essere cresciuta ed essersi beata nella già allora improbabile pretesa di poter abolire, attraverso la sola dichiarazione pubblica della propria volontà, quel «proseguimento della politica con altri mezzi» che, secondo la definizione di un noto generale prussiano, è la guerra. A poco era valsa la consapevolezza degli accadimenti bellici di quegli anni, geograficamente lontani ma perpetrati dagli esponenti per eccellenza della «migliore di tutte le peggiori forme di governo» e contro i quali si accaniva il mio (nostro) sdegno. E ancor meno valsero gli insegnamenti dei professori di scuola i quali, con sussiego nei confronti di noi ignari e ingenui ragazzi di pace, reiteravano l’inevitabilità di quel fenomeno che aveva scandito la storia dell’umanità. Inutile dire che avevano ragione loro e che noi, rifiutando di piegarci a quella millenaria evidenza, stavamo imboccando la brutta china di una sconfitta perenne… La guerra nell’antichità è l’argomento di un libro importante, pubblicato – un po’ in sordina – durante i mesi della pandemia e di cui consigliamo vivamente la lettura. L’autore è Marco Bettalli, docente di storia greca all’Università di Siena e conoscitore profondo dell’argomento. Lo abbiamo intervistato in apertura di questo numero. Nell’introduzione a Un mondo di ferro (Laterza, 2021) Bettalli dichiara: «Non amo la guerra (…) ma la guerra è un modo di esprimersi dell’uomo (…) e un modo assolutamente fondamentale, condiviso da pressoché tutte le società umane conosciute». Ecco, dunque, in sinistra coincidenza con il profilarsi di una nuova emergenza bellica, un’autorevole conferma di quell’inascoltata lezione dei miei professori di liceo… Veniamo ora all’immagine di questa pagina. Rispetto alle righe precedenti è fuori tema, ma la pubblichiamo perché si tratta di un inedito assoluto, che vogliamo offrire all’attenzione dei nostri lettori. Si tratta del particolare di un rilievo raffigurante un uomo nudo, affiancato da due felini, in evidente atteggiamento aggressivo. È stato rinvenuto nella primavera del 2021 a Sayburç, un sobborgo della citta di Sanliurfa, di cui vi parliamo nel reportage alle pagine 62-77, nel corso di indagini volte a rivelare i monumenti prodotti da una civiltà neolitica di cui, fino a pochi decenni fa, non immaginavamo neanche l’esistenza. E che, se forse ignorava ancora la guerra, certo ne sapeva già molto di politica! Andreas M. Steiner
SOMMARIO EDITORIALE
Si vis pacem... 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
SCAVI Scarti di lusso, anzi da museo
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A TUTTO CAMPO C’è vita nella palude
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INCONTRI La città come spazio e come concetto PAROLA D’ARCHEOLOGO L’alba di Velia e le armi di Atena
ARCHEOFILATELIA La parola alle armi di Luciano Calenda
FRONTE DEL PORTO Fra le mura di un quartiere esclusivo
L’INTERVISTA
www.archeo.it
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IN EDICOLA IL 10 MARZO 2022
o. it
GU NTIC ER HITÀ RA
L’A
amministrazione@timelinepublishing.it
di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale
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In copertina una delle strutture del sito di Karahan Tepe (Anatolia sud-orientale, Turchia), la cui frequentazione ebbe inizio intorno al 9400 a.C.
Federico Curti
Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXV n. 445 marzo 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE GIACOMO BONI A ROMA
Amministrazione
MISTERI DI CAPESTRANO
Impaginazione Davide Tesei
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UN MISTERO DI 12 000 ANNI FA
KARAHAN TEPE
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
Nella terra delle colline di pietra
Presidente NEL SANTUARIO DELL’UOMO SERPENTE
RISCOPRIRE GABII
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
€ 6,50
52 REPORTAGE
incontro con Marco Bettalli, a cura di Silvia Camisasca
ANTICHITÀ VIOLENTA
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
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2022
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
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Un mondo in guerra. L’antichità violenta di Atene e Roma 36
ARCHEO 445 MARZO
Anno XXXVIII, n. 445 - marzo 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
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di Giusy Castelli
di Giampiero Galasso
Quella città prima di Roma di Chiara Andreotti e Rocco Bochicchio
incontro con Francesco Uliano Scelza, a cura di Flavia Marimpietri
di Alessandro Mandolesi
MUSEI I tesori di Noto
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di Edoardo Vanni
di Francesca Boldrighini
RESTITUZIONI Scambi eccellenti ALL’OMBRA DEL VULCANO Anche in caso di afflusso ridotto
SCAVI
di Carlo Casi
di Giuseppe M. Della Fina
PASSEGGIATE NEL PArCo «Straniero, dove stai andando?»
IN DIRETTA DA VULCI Una tomba da prima fila
ABRUZZO
L’ENIGMA DI CAPESTRANO LAZIO
ALLA RISCOPERTA DI GABII
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SPECIALE
GIACOMO BONI UN VENEZIANO ALLA SCOPERTA DI ROMA
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto
Comitato Scientifico Italiano 28/02/22 15:27
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Chiara Andreotti è funzionario architetto della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. Rocco Bochicchio è funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. Francesca Boldrighini è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Silvia Camisasca è giornalista. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Giusy Castelli è archeologa. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Vincenzo d’Ercole è professore a contratto di civiltà dell’Italia preromana presso l’Università degli Studi «Gabriele d’Annunzio» di Chieti-Pescara. Giampiero Galasso è giornalista. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Edoardo Vanni è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Siena. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova.
SCOPERTE
Due fratelli e molti misteri
78
di Vincenzo d’Ercole
78 Rubriche
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA La lunga vita dei sesterzi
110
di Francesca Ceci
LIBRI
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SPECIALE
Un veneziano «principe del Foro»
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di Stefano Mammini, con un intervento di Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo
Illustrazioni e immagini: Andreas M. Steiner: copertina e pp. 62/63, 64, 66 (a destra), 68, 69, 70, 71, 74, 75 (in basso), 76, 77, 102 – Cortesia Ufficio cultura e informazioni Ambasciata di Turchia: Bekir Kösker: pp. 3, 62 (a sinistra), 73; Murat Öcal: pp. 66 (a sinistra), 67, 72, 75 (in alto) – Cortesia Soprintendenza ABAP per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale: pp. 6-7 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia Studio Esseci: p. 10 – Parco Archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 14-15 – Cortesia Museo Civico Archeologico di Noto: F. Amarú: pp. 16-17, 18 (alto); L. Falesi: pp. 18 (basso), 19 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 20-21 – Cortesia Archivio delle Tradizioni Popolari, Comune di Grosseto: p. 22 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 22 (basso), 80 (centro e basso), 81, 82-85, 110; Museo archeologico nazionale d’Abruzzo-Villa Frigerj, Chieti: p. 79 – Edoardo Vanni: p. 23 – Cortesia Parco Archeologico di Paestum e Velia: pp. 26-28 – Doc. red.: pp. 36-39, 40/41, 42-45, 80 (alto), 86-87, 90-91, 99, 100 (basso), 104 (sinistra) – Mondadori Portfolio: Ashmolean Museum, University of Oxford/Heritage Images: pp. 41, 46; CM Dixon/Heritage Images: p. 47; Album: p. 49 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 48 – Cortesia Soprintendenza Spreciale ABAP Roma: pp. 54/55 (alto), 58 (alto); Simona Sansonetti: pp. 52/53, 55 (alto e basso), 59, 61; volo University of Michigan-Kelsey Museum of Archaeology, Gabii Project, 2019: pp. 54/55 (basso); Università degli Studi di Roma Tor Vergata: pp. 56-57; Francesco Mazzotta: rilievo a p. 58 (basso); Municipio VI di Roma Capitale-Università degli Studi di Roma Tor Vergata: p. 60 (alto); Agenzia Parallelozero srl: foto da drone a p. 60 (basso) – Cortesia Uffici Stampa Electa e Parco archeologico del Colosseo: pp. 104 (destra), 105 (alto), 107; Simona Murrone: pp. 88/89, 108 (sinistra); Parco archeologico del ColosseoArchivio Fotografico Storico: pp. 89, 92, 92/93 (alto), 96-97, 98/99, 100 (alto), 101, 102/103, 103, 108 (destra), 109 (basso); Bruno Angeli: p. 105 (basso); Marco Cremascoli: p. 106; Gaetano Alfano: p. 109 (alto) – da: Il «metodo» nelle esplorazioni archeologiche, in BdA, 1913: pp. 94-95 – National Gallery of Art, Washington: p. 111 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 53, 64, 65, 78. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito https://arretrati.mondadori.it/privati. A partire dal 15 marzo 2022, il suddetto sito verrà sostituito dal nuovo sito https://arretrati.pressdi.it L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova
n otiz iari o SCAVI Tarquinia
SCARTI DI LUSSO, ANZI DA MUSEO
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ieci sepolture etrusche sono state scoperte a Tarquinia, nella necropoli dei Monterozzi, a poca distanza dalle celebri tombe dipinte dei Tori e degli Auguri. Il ritrovamento è avvenuto, in un terreno di proprietà privata, grazie a una campagna di scavo disposta dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale a seguito di un’aratura troppo profonda, che aveva portato alla luce alcune cavità. Il gruppo di tombe copre un arco di tempo compreso tra il villanoviano e l’epoca arcaica e, al suo interno, spicca un sepolcro del tipo gemino,
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A destra: Tarquinia, necropoli dei Monterozzi. La posizione della tomba gemina appena scoperta rispetto a quelle dei Tori e degli Auguri. In basso: i vasi del corredo deposti in una delle camere della tomba gemina in corso di scavo.
a due camere indipendenti e affiancate. Queste ultime sono quasi identiche e si aprono su altrettanti vestiboli a cielo aperto, ai quali si accede tramite una ripida scala. Erano chiuse da due lastroni di nenfro ed entrambe presentano un letto, scavato nel macco (la roccia sedimentaria biancastra tipica del territorio tarquiniese, n.d.r.), lungo la parete sinistra; quest’ultimo, nel vano posto piú a nord, è decorato da zampe a rilievo. La tomba venne violata nell’antichità, ma i profanatori si limitarono a sottrarre gli oggetti in metallo, lasciando sul posto decine di vasi e altri oggetti del corredo
In questa pagina: materiali restituiti dallo scavo della tomba gemina. Dall’alto: ceramiche dipinte in stile etruscogeometrico; vasellame in bucchero; la figurina fittile femminile.
funerario, tra cui alcuni elementi in legno e in ferro e i lacerti di una sottile lamina d’oro, materiali, questi ultimi, che suggeriscono la ricchezza e la varietà dell’insieme. Gli archeologi della Società EOS ARC, incaricati dei lavori, hanno recuperato vasi d’impasto lucidati a stecca, a volte con decorazioni incise o con forme configurate; esemplari di bucchero inciso; vasi dipinti di stile etrusco-geometrico, tra cui alcune brocche da riferire al Pittore delle Palme; coppe euboiche del tipo «a chevrons» e, inoltre, una statuetta fittile raffigurante una donna, che costituisce un ritrovamento di notevole interesse. Daniele Federico Maras, coordinatore dei lavori come funzionario di zona della Soprintendenza, ha osservato che: «tutto il materiale è stato ritrovato in frantumi. Probabilmente rotto intenzionalmente dagli scavatori
clandestini per cercare immaginari tesori nascosti nei vasi. Per fortuna, però, i frammenti sono stati lasciati a terra e ora sono in restauro». A Maras si deve anche la convincente proposta di datazione per la tomba gemina, da lui collocata nella prima metà del VII secolo a.C., vale a dire in decenni di particolare importanza per gli sviluppi della città-stato di Tarquinia. A completamento del restauro, l’intero corredo funerario sarà esposto al pubblico e per la tomba sono previste la messa in sicurezza e una copertura adeguata allo scopo di consentirne la visita. In proposito, la soprintendente Margherita Eichberg ha dichiarato: «grazie all’impegno degli archeologi, l’emergenza è stata trasformata in un’opportunità di conoscenza e promozione culturale». Giuseppe M. Della Fina
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
«STRANIERO, DOVE STAI ANDANDO?» IL PARCO DEL COLOSSEO È FRA GLI ANIMATORI DI TRAME, PROGETTO IDEATO PER FAR SCOPRIRE ALLE GENERAZIONI PIÚ GIOVANI LE ORIGINI «ANTICHE» DI CONCETTI COME LA DIVERSITÀ CULTURALE E L’IDENTITÀ NAZIONALE
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opo aver celebrato il riconoscimento del progetto Rotta di Enea (vedi «Archeo» n. 444, febbraio 2022; anche on line issuu.com), il Parco archeologico del Colosseo prosegue nel solco di una forte identità europea sul tema dei movimenti di popoli. Di migrazioni – antiche ma anche moderne – e delle tracce che esse hanno lasciato in edifici e monumenti, ma anche di come e di quanto gli spostamenti di genti e di persone abbiano contribuito a plasmare e ad arricchire la nostra cultura, facendoci sentire parte di un’«identità comune» europea, si occupa infatti il progetto TRAME (TRAcce di MEmoria, TRAces of MEmories), finanziato
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nell’ambito di Erasmus+, il programma dell’Unione Europea per l’istruzione, la formazione, la gioventú e lo sport. Insieme ad altri 7 partner provenienti da Italia, Serbia, Ungheria, Polonia e Turchia, tra cui istituti pubblici di ricerca (l’Istituto di Archeologia di Belgrado e l’Università di Varsavia), associazioni private (l’Associazione Ungherese dei Manager del Patrimonio Culturale) e istituzioni scolastiche (il Liceo «Pilo Albertelli» di Roma, l’Istituto di Design di Belgrado, il Collegio «József Hajnóczy» di Pécs, e il Provveditorato del distretto di Catalca, Istanbul), il PArCo, coordinatore del progetto, sta
lavorando, dal settembre 2020, insieme agli studenti, veri protagonisti di TRAME: attraverso la conoscenza dell’eredità lasciata dalle antiche popolazioni che si mossero all’interno dell’Europa, i ragazzi dei Paesi partecipanti stanno infatti imparando a comprendere il valore della diversità culturale come uno dei pilastri su cui l’idea stessa dell’Unione Europea è stata concepita; potranno cosí capire l’importanza della contaminazione come mezzo per arricchire e modellare le identità culturali di ogni nazione, popolo e persona.
L’IDENTITÀ VISIVA Il primo passo è stata la creazione di un logo: gli studenti dell’Istituto di Design di Belgrado sono stati invitati a ideare il Logo del Progetto e il progetto piú votato è diventato il simbolo di TRAME. Vincitrice, la giovane Nadja Vincilov, classe 2003, con una proposta che evidenzia visivamente e anche «fisicamente» le tracce lasciate dagli spostamenti dei popoli. Nonostante le difficoltà causate dalla pandemia, che ha ostacolato i viaggi dei ragazzi (che stiamo però riprogrammando per i prossimi mesi), nello scorso autunno tutte le
A sinistra: un poster realizzato per pubblicizzare il progetto TRAME, con vedute di alcuni dei siti archeologici coinvolti nell’iniziativa. Nella pagina accanto, accanto al titolo: il logo del progetto. Nella pagina accanto, in basso: le colonne della Basilica Emilia e, sullo sfondo, la Curia Iulia. scuole hanno lavorato per approfondire i temi del progetto, grazie anche alla visita dei siti archeologici dei propri Paesi: da Viminacium (nell’odierna Serbia) capitale della provincia Moesia Superior, alla necropoli paleocristiana di Sopianae, presso Pécs (Ungheria), fino al sistema degli acquedotti che rifornivano Istanbul. A conclusione di questo percorso, ogni classe ha realizzato una creazione originale, utilizzando i mezzi piú congeniali: dal fumetto al teatro, dallo storytelling alla creazione di un video o di una clip. Il Parco archeologico del Colosseo ha lavorato in stretto contatto con il Liceo «Pilo Albertelli»: guidati dalla professoressa Michela Nocita, i ragazzi, dopo aver approfondito il tema dei viaggi verso Roma, anche con la lettura di epigrafi greche e latine che li raccontano, si sono dedicati allo studio delle comunità straniere a Roma e dei loro luoghi e modi di vita. Hanno poi individuato e studiato le «connessioni» con i monumenti di Roma e del Parco: dal VicusTuscus, legato agli Etruschi già in età arcaica, alTempio della Magna Mater, dedicato a una divinità straniera proprio nel luogo in cui
nacque Roma; dalla Curia Iulia, che ospitò fin dal I secolo d.C. senatori «provinciali», fino agli Horrea Piperataria, sede di numerosi medici della Roma antica, molti dei quali provenienti dall’Oriente, come il piú famoso di tutti, Galeno. E ancora la Basilica Emilia, dove operavano spesso negotiatores stranieri, che conserva il ricordo di una invasione di popoli lontani, questa volta «cruenta»: restano infatti sul pavimento le tracce delle monete fuse dall’incendio divampato nel 410 d.C., durante il sacco di Roma dei Goti di Alarico.
GENTI DI TUTTO IL MONDO E infine il Colosseo, il simbolo per eccellenza del multiculturalismo della Roma antica, anch’esso popolato di stranieri provenienti da ogni dove e parlanti lingue diverse, ma accomunati e uniti dalla loro vita nella capitale dell’impero e da uno dei «riti» allora piú popolari: gli spettacoli dell’anfiteatro. Proseguendo sulla linea del tempo, troviamo chiese dedicate a santi venuti da lontano, come quella dei Ss. Cosma e Damiano, votata già nel VI secolo ai medici «anargiri» di origine orientale; poi S. Sebastiano,
soldato romano della Gallia Narbonese, ucciso durante le persecuzioni di Diocleziano «ad gradus Elagabali», sui gradini del tempio di Elagabalo, presso l’attuale Vigna Barberini, dove sorge la chiesa a lui dedicata; e infine il beato Bonaventura, giunto sul Palatino dalla Catalogna nel XVII secolo, ma ribattezzato poi, dagli stessi romani «l’apostolo di Roma». A conclusione del lavoro, gli studenti hanno scritto brevi saggi e incontri immaginari con gli antichi stranieri di Roma, dal titolo «Stranger, where are you going?». Il progetto si concluderà con un incontro nella Curia Iulia, il 3 ottobre 2022, giornata nazionale della Memoria e dell’Accoglienza. Nella stessa occasione stiamo progettando di organizzare una mostra dei lavori realizzati dagli studenti nel corso del progetto. Dopo aver viaggiato per conoscere i loro colleghi europei, i ragazzi potranno cosí scambiarsi idee ed esperienze, comprendendo in prima persona le tante sfaccettature della cultura europea e l’importanza di cogliere al suo interno la relazione dinamica tra identità e diversità. Francesca Boldrighini
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RESTITUZIONI Grecia
SCAMBI ECCELLENTI
I
l Museo archeologico regionale «Antonino Salinas» di Palermo e il Museo dell’Acropoli di Atene hanno siglato un accordo di grande valore simbolico, grazie al quale la Grecia ottiene in prestito il frammento di una lastra del fregio orientale del Partenone, inviando, in cambio, due pregevoli manufatti. Il dibattito sulla possibile restituzione del frammento era stato avviato già tra il 2002 e il 2003, in occasione della visita di Stato in Grecia del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e in vista della realizzazione delle Olimpiadi ad Atene del 2004, ma solo adesso si è giunti alla positiva conclusione della vicenda. L’intesa prevede che per un periodo di quattro anni, rinnovabile una sola volta, il museo siciliano trasferisca al Museo dell’Acropoli il frammento appartenente al Partenone, attualmente conservato a Palermo. Il reperto archeologico, giunto all’inizio del XIX secolo nelle mani del console inglese Robert Fagan in circostanze non del tutto
In alto: il frammento di una lastra del fregio orientale del Partenone, raffigurante il piede o della dea Peitho o di Artemide, ceduto in prestito dal Museo archeologico regionale «Antonino Salinas» di Palermo al Museo dell’Acropoli di Atene. A destra: la statua acefala di Atena che il museo greco ha inviato in Italia insieme a un’anfora geometrica. Fine del V sec. a.C.
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chiarite, alla morte di questi fu lasciato in eredità alla moglie che, successivamente, lo vendette tra il 1818 e il 1820 al Regio Museo dell’Università di Palermo, di cui il Museo «Salinas» è l’odierno epigono. In cambio, da Atene arrivano a Palermo due importanti reperti, ciascuno per un periodo di quattro anni: una statua acefala di Atena, databile alla fine del V secolo a.C., e un’anfora geometrica della prima metà dell’VIII secolo a.C. L’accordo prevede anche l’organizzazione di iniziative in comune che saranno realizzate in partnership dai due musei su temi d’interesse culturale di respiro internazionale. La volontà della Sicilia, in realtà, è quella di un ritorno in Grecia a tempo indeterminato del reperto. A questo proposito, la Regione Siciliana, oltre a promuovere l’accordo culturale di valorizzazione reciproca fra le due realtà museali, ha chiesto al Ministero della Cultura della Repubblica Italiana un percorso che porti al felice esito di questa possibilità: la pratica è stata già incardinata ed è attualmente in discussione in seno al «Comitato per il recupero e la restituzione dei Beni Culturali» istituito presso il Ministero stesso. (red.)
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
ANCHE IN CASO DI AFFLUSSO RIDOTTO... UN PROGETTO DI CONOSCENZA E RESTAURO STA INDAGANDO LE OLTRE 40 FONTANE PUBBLICHE DI POMPEI. L’INIZIATIVA, SVOLTA IN COLLABORAZIONE CON L’OPIFICIO DELLE PIETRE DURE, EVIDENZIA ANCORA UNA VOLTA L’IMPORTANZA ATTRIBUITA DALL’AMMINISTRAZIONE DI ROMA ANTICA ALL’APPROVVIGIONAMENTO IDRICO DELLE CITTÀ
U
na delibera del Senato romano, ricordata dallo scrittore Sesto Giulio Frontino, già curator aquarum (sovrintendente agli acquedotti di Roma) nel 97 d.C., sotto l’imperatore Nerva, invitava le autorità a preoccuparsi affinché l’acqua corrente venisse fornita alle fontane pubbliche giorno e notte, per tutte le necessità del popolo. L’acqua era quindi un bene pubblico, e le amministrazioni cittadine si sforzavano di garantire un efficiente approvvigionamento di acqua potabile ogni giorno – a Roma si è calcolata un’offerta media pro capite di ben 500 litri circa –, destinato ad alimentare i circuiti pubblici di fontane e laghetti, bagni e stabilimenti termali, edifici pubblici e privati. Molte informazioni tecniche sull’approvvigionamento in età imperiale scaturiscono dal De aquis urbis Romae di Frontino, dal quale si ricava, per esempio, che gran parte del fabbisogno era a destinazione pubblica. La popolazione meno abbiente, residente nelle insulae a piú piani
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Due immagini dell’intervento che ha interessato una delle fontane pubbliche di Pompei, appartenente al tipo piú diffuso, che consiste in una vasca con blocco erogatore, in questo caso rifunzionalizzato.
non raggiunti dalla rete idrica, doveva attingere l’acqua per l’uso quotidiano da fontane (salientes) e serbatoi (lacus, labra) comodamente posizionati lungo le vie. Plinio il Vecchio ci informa che Roma, in età augustea, disponeva, grazie ad Agrippa, di oltre 700 vasche e 500 fontane. Si prestava inoltre molta attenzione all’igiene, e multe salatissime venivano inflitte a chi sporcava una fontana o un serbatoio.
DAL PUNTO PIÚ ALTO DELLA CITTÀ Pompei, certo, non era Roma. Nella città vesuviana si dovette necessariamente ottimizzare il servizio in caso di scarsità di
approvvigionamento dovuta a eventuali inconvenienti o guasti alla rete. L’acqua veniva distribuita dal Castellum aquae situato nel punto più alto di Pompei, presso Porta Vesuvio e, attraverso tre rami, posti a diverse altezze, veniva diffusa quasi capillarmente entro le mura urbane. Il ramo piú basso conduceva alle fonti pubbliche ubicate lungo le strade, in modo da garantire il servizio a tutti i cittadini, anche in caso di afflusso ridotto. Una volta assicurato il fabbisogno sociale, si rifornivano con i rami intermedi i bagni e gli edifici di rappresentanza, e infine le case private, dove, oltre al rifornimento pubblico, era disponibile un Ripulitura e documentazione del labrum, vale a dire di un bacino con supporto in marmo, situato nell’area del Foro Triangolare.
sistema interno organizzato in fonti e cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Il Parco Archeologico di Pompei ha avviato un progetto di conoscenza e restauro delle fontane pubbliche presenti in città, che ammontano a oltre 40. Prima del restauro conservativo, questi manufatti sono sottoposti al rilievo 3D e all’indagine archeologica, limitatamente a 15 di queste, interventi che permetteranno di esplorare il rapporto delle fontane con gli assi viari. Allo scavo spetta il compito di verificare le sequenze stratigrafiche connesse alla loro costruzione e la monumentalizzazione delle strade e dei marciapiedi su cui insistono, al fine di acquisire elementi utili per un corretto inquadramento cronologico dei manufatti.
ABLUZIONI SACRE Le fontane sono state già oggetto di studi specifici e di interventi di rifunzionalizzazione, integrandosi pienamente nei percorsi di visita. La maggior parte di queste è del tipo a vasca con blocco erogatore, talvolta costituito da un unico grande monolite inserito direttamente nel cordolo del marciapiede o impostato su di esso. Nell’area del Foro Triangolare si trova l’unico esempio di labrum, ossia un bacino con supporto in marmo, probabilmente usato per le abluzioni sacre connesse all’adiacente tempio. In collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure, si cercherà inoltre di comprendere la natura dei materiali usati per le fontane e gli agenti di degrado che agiscono su queste piccole ma «preziose» costruzioni. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.
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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
FRA LE MURA DI UN QUARTIERE ESCLUSIVO RIAPRE AL PUBBLICO LA SCHOLA DEL TRAIANO, UN IMPORTANTE COMPLESSO EDILIZIO SVILUPPATOSI SULLE VESTIGIA DI DUE TRA LE PIÚ ELEGANTI CASE OSTIENSI A OGGI CONOSCIUTE E TUTTORA IN CERCA DI IDENTITÀ
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ella porzione occidentale di Ostia antica, nel prestigioso quartiere che si sviluppa verso il litorale, si trova uno dei complessi edilizi piú interessanti della città, che riapre al pubblico dopo i restauri. Ci troviamo immediatamente fuori dal perimetro del castrum del IV secolo a.C., lungo la direttrice del Decumanus Maximus. A partire dall’età repubblicana e in particolar modo dopo l’erezione della nuova cinta muraria, nel I secolo a.C., l’area si caratterizza per la sua vocazione residenziale e poi commerciale, attirando le famiglie benestanti di Ostia che iniziano a risiedervi, dimostrando
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il loro elevato rango sociale. Una di queste famiglie è la proprietaria della raffinata Domus dei Bucrani costruita tra il 60 e il 50 a.C. sullo schema tradizionale tardo-repubblicano: ingresso (fauces) sulla via principale, atrio circondato da stanze (atrium et alae), sala da pranzo (tablinum) e cortile porticato (peristilium).
STUCCHI E PITTURE La dimora, che si estendeva per circa 750 mq, era impreziosita da pavimenti in opus signinum e mosaico, ma la sua vera ricchezza erano gli stucchi e le pitture che adornavano le stanze, eccezionalmente conservate, che
imitano lastre di marmo di varia provenienza e tipologia in un trionfo di colore e raffinatezza. Le pareti erano decorate anche da cornici vegetali e floreali, scherzosi cortei di nani e un fregio con paterae e bucrani che dà il nome alla domus. Verso la fine del I secolo a.C., lo scarso drenaggio del terreno di fondazione e i problemi di risalita della falda acquifera determinano la distruzione della domus e il suo interro: fenomeni che coinvolgono l’intero abitato, con conseguenti rialzamenti e ricostruzioni di gran parte degli edifici ostiensi. All’età augustea si data la costruzione, nella stessa area ma a una quota piú alta, di una
A destra: il settore orientale della Schola del Traiano con la ricostruzione parziale del peristilio della Domus omonima. Nella pagina accanto: la Schola del Traiano vista dall’alto. In basso: la sala per ricevimenti nella Schola del Traiano.
seconda domus, detta «del Peristilio», quasi identica per forme ed estensione a quella dei Bucrani. Di questa ricca abitazione possiamo appunto apprezzare una parte del peristilio: il portico colonnato che circondava un giardino, finemente rivestito con mosaici e affreschi. La nuova residenza sembra essere appartenuta ai Fabii, ricca e influente famiglia del panorama socio-politico ostiense di età augustea che ne rimane proprietaria, probabilmente, per oltre due secoli. La fortuita scoperta dell’identità del padrone di casa è avvenuta grazie a una delle condutture idrauliche, che riporta il nome del console C. Fabius Agrippinus, vissuto nel II secolo d.C. La facoltosa dinastia dei Fabii sembra aver avuto una fine repentina e ingloriosa: nei primi anni del III secolo d.C., l’ultimo esponente noto appoggiò la fazione avversa all’imperatore Elagabalo, che lo fece perciò assassinare e ne confiscò le proprietà. In questo periodo, divenuto ormai di proprietà imperiale, l’isolato cambia radicalmente aspetto: sulle vestigia della ricca abitazione sorge un edificio imponente, con ampio ingresso a esedra
direttamente sul Decumano, dietro il quale si sviluppa un vestibolo con nicchie laterali, una delle quali ospita la statua loricata dell’imperatore Traiano, che oggi dà nome al complesso. Il corpo principale dell’edificio è un ampio cortile colonnato con una vasca centrale. Le dimensioni totali sono di circa 2800 mq: bisogna immaginare, dunque, che al suo interno avessero sede importanti funzioni, a oggi ignote, che si riflettevano nell’imponenza della sua costruzione.
MOSAICI BIANCHI E NERI La qualificazione a Schola (sede di corporazione) non trova ancora alternative valide, sebbene non sussistano elementi sufficienti a identificarne la specificità. Durante il IV secolo, sul lato meridionale, si realizzano una sala conviviale e altre stanze di rappresentanza decorate con lastre marmoree sulle pareti, mosaici a tessere bianche e nere con ricchi repertori figurativi e pavimenti marmorei (opus sectile). Nel V secolo inizia l’abbandono del complesso, la cui riscoperta avvenne nel corso dei lavori per l’Esposizione Universale del 1942 e, precisamente, tra il 1938 e il 1939,
durante i quali fu scavata buona parte della Schola e della Domus del Peristilio: entrambe furono restaurate e parzialmente ricostruite, suggerendo la coesistenza, del tutto fittizia, tra due edifici che sono in realtà uno successivo all’altro. Scavi e ricerche condotte negli ultimi decenni, in particolare dall’Università di Liegi, hanno consentito di comprendere la storia dell’intero isolato. Grazie ai recenti interventi di conservazione e manutenzione sarà possibile tornare a visitare la Schola del Traiano e immergersi in uno dei luoghi piú affascinanti di Ostia, in un percorso di visita lungo cinque secoli. Giusy Castelli
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MUSEI Sicilia
I TESORI DI NOTO
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opo un lungo oblío, è stato riaperto al pubblico, con un nuovo allestimento nel Complesso Monumentale del SS. Salvatore, il Museo Archeologico di Noto, una delle piú importanti istituzioni culturali della Sicilia sud-orientale. L’operazione è frutto della sinergia attivata con successo tra il Comune di Noto, la Soprintendenza e il Parco Archeologico e Paesaggistico di Siracusa. Il percorso museale si articola in dieci sale e inizia al piano superiore dell’edificio, con reperti di carattere geologico e paleontologico (sala I), tra cui fossili di organismi e faune databili tra il Cretaceo e il Pleistocene (75 milioni-10 000 anni fa).
A destra: la sala IV del Museo Archeologico di Noto, dedicata ai materiali dell’età del Ferro provenienti dal sito di Monte Finocchito. A sinistra, in basso: statuetta fittile femminile rinvenuta in una delle fosse votive del Koreion di Eloro, connesso al culto di Demetra Thesmophoros. Tra l’Eneolitico e l’antica età del Bronzo (sala II) si datano una serie di ceramiche d’impasto, alcune delle quali decorate in rosso-ocra, nello stile San Cono-Piano Notaro, e una placchetta in scisto forata alle estremità provenienti dalle indagini svolte nella Grotta Sbriulia, ubicata nella media valle del fiume Tellaro. All’antica età del Bronzo (2200-1450 a.C.) risalgono anche i reperti provenienti da Castelluccio (sala III), sito eponimo del Bronzo Antico in Sicilia, dove sono state individuate circa 200 tombe a grotticella artificiale. Nelle vetrine si possono apprezzare vasi tipici della facies castellucciana, come un bicchiere «a clessidra», una grossa olla e pareti di bacini «a fruttiera», dipinti in bruno o in rosso su fondo chiaro, ma anche forme acrome, munite di anse e fori di sospensione. La vita quotidiana del villaggio è richiamata da strumenti e quasi 400 schegge in selce, resti ossei di cervus elaphus, caprovini, cinghiali, volpi e cani: in un femore di cervo si rileva un foro per l’estrazione del
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Olpe attica a figure nere con scena dionisiaca, da una tomba a fossa rettangolare della necropoli di Eloro. Inizi del V sec. a.C.
a grotticella artificiale indagate da Paolo Orsi. Nei corredi in esposizione anelli e fibule di bronzo si alternano a boccaletti, scodelle, ollette, askoi e oinochoai trilobate. Nella vetrina centrale della sala si distinguono un askòs con decorazioni geometriche incise e un artistico scodellone triansato decorato con incisioni a meandro del 730-670 a.C. Nella stessa sala tre anfore dello stile di Licodia In basso, a sinistra: scodellone triansato con incisioni a meandro, da Monte Finocchito. 730-670 a.C. Qui sotto: la testa femminile in marmo bianco rinvenuta in una cisterna del Santuario di Demetra. II sec. a.C. midollo. Non mancano frammenti di macine basaltiche che attestano la molitura dei cereali e fuseruole per la filatura della lana. Tra i pendagli sono una perla biconica in quarzite, difese di cinghiale e un raro canino di ursus spelaeus. Spicca un grande orcio quadriansato, che forse conteneva
olio di oliva, con tracce di ocra rossa sulle pareti e un foro alla base. L’età del Ferro è testimoniata da ceramiche di importazione e produzione indigena (sala IV) recuperate nel sito di Monte Finocchito, importante centro siculo lungo la media valle del fiume Tellaro, noto per le 600 tombe
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Eubea con decorazioni geometriche dialogano con un’anfora greca del tipo detto SOS (per via della decorazione che evoca la sigla) della sala di Eloro, attestando nel territorio la compresenza, seppur non duratura, dei Siculi e dei Greci. L’area urbana della greca Eloro, sub-colonia siracusana fondata alla fine dell’VIII secolo a.C., è protagonista del successivo ambiente espositivo (sala V): vi si notano ceramiche arcaiche, tra cui due frammenti di piatti con aironi di produzione caeretana della prima metà del VII secolo a.C., vasi attici, italioti e sicelioti. Un settore è dedicato alla coroplastica con statuine di Artemide e Demetra, «tanagrine», personaggi grotteschi e oggetti di vita quotidiana (pesi da telaio, spilli, trucchi, spatoline, giochi): spicca un prezioso anellino d’oro con lo scarabeo in corniola della fine del IV secolo a.C.
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Al centro della vetrina è una testa femminile di marmo bianco del II secolo a.C. rinvenuta in una cisterna del Santuario di Demetra: lacunosa del resto del corpo, oltre a richiamare influenze stilistiche prassiteliche, la scultura presenta una delicata decorazione policroma. Dal Koreion scoperto sulla spiaggia a nord di Eloro e connesso proprio con il culto di Demetra Thesmophoros (vi si celebravano le feste Tesmoforie) provengono le numerose offerte e statuette fittili scoperte sia all’interno sia all’esterno dell’edificio in oltre 60 fosse votive (sala VI). Un ampio spazio è stato quindi riservato alla suggestiva ricostruzione dell’Ambiente B del santuario. L’esposizione continua al piano terra (sala VII), che accoglie testimonianze recuperate grazie alle indagini compiute nell’ambito
In alto: protome in terracotta con volto femminile, dal Koreion di Eloro. In basso: la ricostruzione dell’Ambiente B del Koreion di Eloro.
Il phylakterion rinvenuto nel vigneto della chiesa di S. Zosimo. Si tratta di un blocco di calcare su cui è incisa un’epigrafe, in greco, con un’invocazione a entità angeliche e al Cristo per allontanare i demoni. necropolare di Eloro: da una tomba a fossa rettangolare provengono uno skyphos e una preziosa olpe a figure nere di produzione attica degli inizi del V secolo a.C. con scena dionisiaca. Oltre ad amphoriskoi, aryballoi e pissidi, si notano due insoliti unguentari conformati a guerrieri della Collezione del Principe Nicolaci di Villadorata. Colpisce il grande cratere a figure rosse di Bimmisca con l’Amazzonomachia attribuita al Pittore di Orfeo del 440-430 a.C., in prestito dal Museo Archeologico Regionale di Siracusa. L’età romana è presentata nella sala VIII, con materiali provenienti dalla villa del Tellaro, un’estesa residenza signorile che ha restituito
vari pavimenti musivi policromi, alcuni dei quali figurati con scene teatrali, dionisiache e di caccia (seconda metà del IV secolo d.C.). Si segnalano un’anfora da trasporto africana a corpo cilindrico dall’ambiente 34 e un frammento di mosaico del peristilio con ghirlande di alloro. Dalle necropoli (ipogei, catacombe, tombe a edicola) intercettate in prossimità della Cittadella dei Maccari (Vendicari), centro portuale di età romana e bizantina (II-VIII secolo d.C.), provengono due coppe in sigillata africana e una serie di lucerne, tra cui si distingue quella ebraica con due menoroth pentalicni. All’antica Noto, che si trovava sul Monte Alveria prima della
distruzione e il successivo abbandono per il terremoto del 1693, appartiene un’importante iscrizione greca del II secolo a.C., a testimonianza di come durante il regno di Ierone II di Siracusa nella città venne impiantato un Ieroneion, un ginnasio cui erano legati «giovani ieronici» (sala IX). Unguentari fusiformi, coppette e lucerne di tipo ieroniano insieme a vasetti baccellati e pissidi a vernice nera costituiscono i corredi delle tombe del centro siculo ellenizzato. A questi materiali si aggiungono, nella sala successiva, una patera ombelicata, una statuetta del tipo tanagrina e una lastra calcarea con un serpente in bassorilievo di età ellenistica, provenienti dai recenti scavi archeologici dell’Università «Federico II» di Napoli. Alla Noto romana e altomedievale appartengono un epitaffio in greco su un altarino calcareo dedicato a una bambina di tre anni e un phylakterion, una piccola epigrafe calcarea in greco con un’invocazione a entità angeliche e al Cristo per allontanare i demoni dal vigneto della chiesa di S. Zosimo (sala X). All’interno del museo sono stati predisposti un percorso tattile per non vedenti con i testi in braille e una sala didattica con riproduzioni dei reperti piú rappresentativi della raccolta. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO MuCIAN-Museo Civico Archeologico di Noto Noto (Siracusa), corso Vittorio Emanuele 132 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 Info tel. 331 2496295; e-mail: museomucian@gmail.com; www.mucian.it; Ufficio Turismo Noto: tel. 0931 896264
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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
UNA TOMBA DA PRIMA FILA IL PREGEVOLE SEPOLCRO SCOPERTO IN UN SETTORE DELLA NECROPOLI DELL’OSTERIA È OGGETTO DI INTERVENTI GRAZIE AI QUALI SARÀ PRESTO POSSIBILE INSERIRLO NEL PERCORSO DI VISITA. E, NEL FRATTEMPO, SI È CONCLUSO IL RESTAURO DEL SUO RICCO CORREDO
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i sono recentemente conclusi i restauri del corredo di un importante contesto localizzato in un nuovo settore della necropoli vulcente dell’Osteria, rinominato Area D, posto a ridosso, in direzione nord, della celebre Tomba dei Soffitti Intagliati. E si sta tuttora provvedendo al consolidamento della roccia nella quale è intagliata la struttura funeraria e ai necessari apprestamenti (copertura, scala in ferro, ecc.) per renderla fruibile dal pubblico già nella tarda primavera. Il monumento in questione, scoperto esattamente un anno fa, è stato denominato Tomba 1 e
consiste in un ipogeo del tipo «a cassone vulcente», con dromos provvisto di undici stretti gradini. Sulla parete di fondo dell’ampio vestibolo a cielo aperto, in direzione est, sono ricavate due camere funerarie affiancate, di forma rettangolare. L’ingresso di quella di sinistra, rinominata tomba 1/B, era ancora parzialmente chiuso da blocchi parallelepipedi di siltite posizionati di taglio. La porzione superiore della tamponatura originaria, invece, era stata spinta all’interno dell’ipogeo da precedenti visitatori del contesto, il cui passaggio era da subito
Materiali appartenenti al corredo della Tomba 1 in corso di scavo. Si riconoscono grandi vasi in impasto, buccheri e unguentari.
apparso evidente per la presenza di un ampio strato di colore nero nella parte alta del vestibolo, all’interno del quale – vicino a un singolare allineamento di blocchi in tufo rosso di non chiara funzione – era stata rinvenuta una punta di lancia in ferro. Liberata la camera dalla terra di infiltrazione che l’aveva riempita, quasi fino al soffitto, sono stati messi in luce i restanti blocchi di tamponatura dell’accesso e i resti del corredo funerario risparmiati dall’azione di disturbo. Quest’ultima, considerando il numero dei reperti e il loro generale buono stato di conservazione, è da ricondurre a un periodo abbastanza lontano, verosimilmente al XIX secolo o addirittura prima.
VASI D’IMPORTAZIONE E DI PRODUZIONE LOCALE Il corredo funerario conservato, inquadrabile nell’ultimo trentennio del VII secolo a.C., è composto da ceramiche di importazione corinzia e greco-orientale, oltre che da produzione locali, come manufatti etrusco-corinzi, in bucchero, impasto e oggetti in metallo, principalmente in ferro. Tra le forme ceramiche emergono per quantità l’aryballos e l’alabastron, presenti con prodotti sia di importazione, come un interessante manufatto di
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A sinistra: fotopiano della Tomba 1 e della disposizione dei reperti trovati nelle camere di sepoltura. In basso: vasi in bucchero di varia forma e tipologia in corso di scavo.
forma miniaturistica realizzato a Rodi in faïence verde-azzurra, o di produzione locale, sia in bucchero che in ceramica etrusco-corinzia, originariamente appesi su due file sovrapposte sulla parete meridionale della camera, come suggeriscono le tracce di chiodi in ferro ancora infissi nella roccia. La presenza di almeno tre fuseruole in impasto permetterebbe di riferire il corredo a un individuo adulto di genere femminile, che doveva in origine essere stato deposto sulla bassa banchina visibile davanti la parete di fondo dell’ambiente, ma del quale tuttavia non sono stati rinvenuti i resti. Decisamente abbondanti, invece, sono le ossa animali recuperate nei livelli di interro, verosimilmente da ricondurre a offerte funerarie manomesse dall’azione dei
clandestini o, eventualmente, alla fase di obliterazione del contesto dopo il suo sconvolgimento cosí come già attestato, per esempio, nella tomba 25 dell’Area C.
LE TRACCE DELLA RAZZIA I saccheggiatori hanno infatti lasciato numerose tracce del loro passaggio. Le pareti nord ed est dell’ipogeo erano piene di fori, tutti dello stesso diametro e localizzati alla medesima altezza, prodotti da strumenti appuntiti utilizzati per sondare la presenza di altre sepolture nelle vicinanze. E proprio sul lato meridionale questa operazione ha permesso loro di individuare l’altra camera funeraria del contesto, la tomba 1/A, che è stata poi messa in luce con ancora in posto l’imponente blocco
monolitico di chiusura. Praticando un foro nel sottile tramezzo che divideva i due ambienti, i clandestini sono penetrati anche nell’altra camera. Anch’essa, di dimensione ridotta rispetto alla precedente, è stata poco sconvolta dall’azione di ruberia, confermando l’antichità della manomissione. Qui la banchina non era sulla parete di fondo (est), ma sul lato meridionale della camera, sovrapposta da una lastra calcare ricoperta da abbondanti tracce di bruciato sulla superficie superiore. Anche in questo caso il corredo, seppur meno abbondante, annoverava reperti integri o in buono stato di conservazione di produzione pressoché locale, con qualche oggetto di importazione corinzia e scarsi elementi in ferro. Lo scavo è stato diretto da Simona Carosi (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale) in collaborazione con chi scrive e ha visto la partecipazione di Carlo Regoli (Fondazione Vulci) anche nella realizzazione dei testi. La documentazione fotografica è stata curata da Massimo Legni (Studio Architutto Designer’s) mentre i restauri sono stati realizzati da Teresa Carta (Fondazione Vulci).
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A TUTTO CAMPO Edoardo Vanni
C’È VITA NELLA PALUDE LE LAGUNE COSTIERE SONO LUOGHI ED ECOSISTEMI PECULIARI NEI QUALI, NEL TEMPO, SONO STATE MESSE A PUNTO STRATEGIE DI SOPRAVVIVENZA ED ECONOMIE ALTERNATIVE ALL’AGRICOLTURA
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archeologia delle zone umide (la cosiddetta Wetlands Archaeology) è stata praticata soprattutto in contesti di area britannica e ha aperto prospettive stimolanti, non sempre recepite dalle pratiche archeologiche correnti nei Paesi mediterranei, spesso piú orientate in senso storico-antropologico. Lo studio delle zone umide è rimasto nella sostanza un ambito di ricerca chiuso in se stesso, che ha visto le wetlands come zone marginali e dunque prive di una vera profondità temporale, producendo quindi paesaggi «senza tempo». Di analoga marginalità, dovuta alle difficoltà di inquadramento storico, hanno patito varie pratiche di lunga durata, come la silvicoltura, la pastorizia e la pesca, in apparenza
Una veduta attuale della zona umida della Diaccia Botrona, relitto dell’antico Lago Prile.
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Villaggio di pastori con le tipiche capanne coniche di tipo appenninico sullo sfondo, alla Diaccia Botrona, presso Castiglione della Pescaia, nella Maremma grossetana. 1865.
prive di un collegamento visibile e documentabile con le trasformazioni dei paesaggi in cui erano state condotte, rimanendo cosí trascurate dalla ricerca archeologica.
PAESAGGI MARGINALI Questa tendenza è senz’altro ascrivibile alla piú generale contrapposizione tra economia dell’incolto ed economia agricola e alla contrapposizione tra aree umide e aree asciutte, con il risultato di considerare i paesaggi marginali come luoghi di scarso intervento antropico e dunque di scarso interesse storicoarcheologico. La «dittatura del grano» è anche dipesa, in larga misura, dai meccanismi di auto-
rappresentazione delle élites agrarie nel corso del tempo. A titolo di esempio, ricordiamo qui due di questi meccanismi, ma di senso opposto: nell’Irlanda medievale molte unità di misura si basavano su quantità specifiche di latte vaccino e, nel linguaggio giuridico, una persona di condizione libera era comunemente denominata bòaire, ovvero «pastore». L’allevamento e la transumanza avevano quindi un ruolo importante, quasi pari a quello dell’agricoltura, documentabile dal consumo quotidiano di pane e cereali. Tuttavia, il valore «simbolico» dei bovini sembra eccedere di gran lunga la loro importanza economica nella comunità di riferimento.
A destra: il sistema delle zone umide nell’Etruria costiera. In basso: gregge al pascolo intorno alla Laguna di Burano (Orbetello).
Il secondo esempio, di carattere antropologico, è fornito dalle comunità Nuer del Sudan meridionale, dove sono stati individuati circa cento lemmi per classificare i bovini in base al loro colore, segno dell’altissima considerazione per il valore e quindi il possesso degli animali. In realtà, da sempre l’economia dei Nuer è basata in prevalenza sulla coltivazione del miglio e sulla pesca: ancora una volta aspetti ideologici di auto-rapprentazione della comunità e aspetti economici sono virtualmente in opposizione. Questi processi di elaborazione ideologica e il loro grado di conflittualità con la realtà hanno agito anche nel caso della silvicoltura: il mondo romano tendeva a «occultare» lo spazio economico della foresta, rappresentandolo come nonculturale: il bosco assumeva cosí un significato di anti-città o anticultura, controllato da divinità di natura selvatica o ferina, con l’effetto di infondere alle selve un senso di insicurezza per le comunità che è durato a lungo, nel periodo tardo-antico e nel Medioevo. Giordane [o Iordanes?], storico bizantino vissuto nel VI
secolo d.C., scrive che per i popoli Caledoni (abitanti nell’attuale Scozia) silvae saepe sunt domus («i boschi sono spesso case»), mentre gli Sclavini (popolazione insediata nell’area balcanica) paludes sylvasque pro civitatibus habent («hanno paludi e boschi a disposizione per la cittadinanza»).
«VUOTI» DI CIVILTÀ Le zone umide sono dunque una delle espressioni piú paradigmatiche del «vuoto» di civiltà, che ha avuto conseguenze anche sulla ricerca archeologica: bisogna riconoscere che sul piano metodologico le aree di riva e le aree umide richiedono proprie e indubitabili specificità d’approccio e d’analisi, non sempre facili da mettere a punto. Da qui la generale e scarsa attenzione all’evoluzione e alla storia delle zone umide. Il loro ruolo emerge, infine, come fattore decisivo del popolamento antico nell’attivazione delle pratiche di transumanza, in co-relazione permanente e reciproca con le pratiche agrarie ed elemento esso stesso capace di indirizzare e modificare le geografie del popolamento e la mobilità. Le zone umide, nel significato piú
vasto di seascapes, cioè insieme di laghi, fiumi, coste e paludi, vanno in tal senso considerate nella classica accezione di terra inculta e dunque di zona marginale, ma anche nella loro qualità attiva di risorsa economica collettiva. La possibilità offerta dal paesaggio, inteso come contenitore e creatore di complessità, ci costringe a rimettere in discussione concetti come continuità o discontinuità di uso delle risorse naturali e ad ampliare le nostre strategie di approccio alla ricerca archeologica. È dunque ragionando in questi termini che possiamo trovare le risposte a particolari fenomeni di occupazione intermittente e continuata lungo i secoli, a rivedere la relazione tra demografia e pastoralismo, a ripensare il paesaggio in termini di pratiche integrate e infine a considerare il ruolo giocato dalle zone umide, non piú intese come aree al margine delle comunità. Un percorso difficile, ma non impossibile, in cui l’etnografia offre un campionario delle interazioni che dobbiamo applicare in maniera ragionata al contesto storico e geografico di volta in volta preso in esame. (edoardo.vanni@unisi.it)
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INCONTRI Roma
LA CITTÀ COME SPAZIO E COME CONCETTO
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opo il successo riscosso dagli incontri dello scorso mese di febbraio, prosegue spedita l’VIII edizione di «Luce sull’archeologia», i cui appuntamenti sono in programma al Teatro Argentina di Roma, la domenica mattina, alle 11,00. «Città Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico»: è questo
il titolo della manifestazione e l’obiettivo è quello di mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. Da Roma, dove sogno e materia si fondono alla città celeste di sant’Agostino, alle città ideali della pittura
rinascimentale. Come sempre, ciascun incontro è arricchito dai contributi di storia dell’arte di Claudio Strinati, dalle anteprime del passato curate dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, e viene introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, i prossimi appuntamenti. 6 marzo: Paolo Carafa, Un nuovo fondatore, una nuova città: Augusto e Roma; Francesca Cenerini, I luoghi delle donne nelle città degli uomini; Emanuela Prinzivalli, Quale spazio per una donna cristiana nelle città dell’impero romano? 20 marzo: Carmine Ampolo, La Segesta di Cicerone tra storia e archeologia: la città in età ellenisticoromana; Giuseppe Parello, Agrigentum. La città romana nelle fonti e nelle evidenze archeologiche; Emanuele Greco, Thuri e Poseidonia diventano Copia e Paestum. 3 aprile: Federico Marazzi, Città fra terra e cielo: San Vincenzo al Volturno e i grandi monasteri dell’Alto Medioevo; Umberto Roberto, Capitali d’Italia: Milano, Ravenna, Roma e l’imperatore; Francesco Sirano, Abitare a Ercolano antica nel I secolo d.C. Viaggio sotto la cenere del Vesuvio. 8 maggio: Luciano Canfora, Platone e la Kallipolis; padre Giuseppe Caruso, Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia; Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta.
DOVE E QUANDO Luce sull’Archeologia «Città Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico» Roma, Teatro Argentina, largo di Torre Argentina, 52 Info tel. 06 684000314; e-mail: promozione@teatrodiroma.net; www.teatrodiroma.net
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
L’ALBA DI VELIA E LE ARMI DI ATENA
LE ULTIME CAMPAGNE DI SCAVO NELLA CITTÀ FONDATA DAI COLONI FOCEI SONO STATE PREMIATE DA SCOPERTE ECCEZIONALI: TRA QUESTE, SPICCANO I REPERTI RIFERIBILI ALLA BATTAGLIA DI ALALIA, UNO SCONTRO DECISIVO NELLA STORIA DELL’ANTICO MEDITERRANEO
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lmi, scudi, spade e armature degli antichi Focei e dei loro nemici. Edifici arcaici in mattoni crudi e blocchi di pietra, grandi quantità di ceramica attica e corinzia. Sono solo alcune delle straordinarie scoperte emerse dai piú recenti scavi nel Parco archeologico di Velia, che gettano nuova luce sulla storia dell’antica Elea (in epoca romana Velia), città fondata intorno al 540 a.C. da coloni provenienti da Focea, città dell’Asia Minore (attuale Turchia), che lasciano la madrepatria poiché assediati dai Persiani. I risultati delle ultime indagini gettano nuova luce sulla fondazione e sui primi anni di vita dell’insediamento, come ci racconta Francesco Uliano Scelza, archeologo del Parco Archeologico di Paestum e Velia che – con l’allora direttore del parco Gabriel Zuchtriegel – ha progettato l’intervento e diretto i lavori... «È stata una continua opera di conoscenza. Ogni giorno il quadro si evolveva grazie alle informazioni che emergevano dal sottosuolo. È stata un’emozione profonda. I risultati della ricerca consentono di far luce sulle piú antiche e lacunose fasi di vita della città arcaica, ma non solo. Abbiamo svolto sondaggi mirati a chiarire
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questioni ancora aperte, tra cui alcune problematiche di tipo urbanistico, anche perché gli scavi archeologici condotti in passato sul promontorio di Velia (a partire dagli anni Venti del secolo scorso, poi con grandi campagne di scavo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, infine con interventi mirati fino agli
anni Novanta) non erano esaurienti. Bisognava ancora definire le prime fasi di sviluppo, i rapporti tra abitato e acropoli, le trasformazioni che portarono alla Velia del periodo classicoellenistico, con l’impianto regolare che il primo nucleo non aveva. Il gruppo delle abitazioni che
In alto: Francesco Uliano Scelza, archeologo del Parco archeologico di Paestum e Velia, che dirige gli scavi di Velia. A sinistra: uno dei vasi su cui è incisa la formula «IRE», «sacro».
Veduta dall’alto del cantiere di scavo, che ha interessato l’area dell’acropoli di Elea/Velia.
inizialmente sorgeva sull’acropoli, infatti, a un certo punto viene abbandonato e l’abitato si sviluppa a valle. Allora l’arce diventa una grande area pubblica su cui troneggia il santuario di Atena». Una delle acquisizioni piú importanti degli ultimi scavi riguarda l’edificio sacro arcaico antecedente al tempio maggiore dell’acropoli di Velia… «L’età arcaica era rimasta sepolta da coltri di terreno di epoca successiva. Avevamo una buona conoscenza dell’impianto residenziale di Velia, ma scarsa delle strutture sacre, di cui si supponeva l’esistenza sotto forma di templi e donari. In particolare, non si riusciva a localizzare il santuario piú antico e c’erano dubbi su datazione, planimetria e realizzazione della struttura. Anche A sinistra, in alto: un elmo in bronzo di tipo Negau in corso di scavo. Qui accanto: il muro settentrionale dell’edificio sacro di epoca arcaica.
la divinità a cui era dedicato il santuario era in dubbio. Avere scoperto l’edificio vero e proprio – o uno degli edifici – con pavimenti e muri perimetrali sotto vari crolli avvenuti nel tempo, ci dà un’immagine del prima e del dopo del santuario, ovvero delle sue fasi di costruzione, di vita e di obliterazione. L’edificio sacro si sviluppa con un perimetro rettangolare di almeno 7 x 18 m (forse 20: c’è un margine di incertezza sulle dimensioni poiché manca un lato). Sono stati messi in luce i muri perimetrali, costruiti con uno zoccolo in mattoni crudi ed elevato con doppia tecnica, in mattoni crudi e pisè (casseforme di argilla pressata), alternata all’utilizzo della pietra messa in opera con tecnica poligonale. Le pareti sono interamente rivestite da un fine strato di intonaco bianco. La tecnica è tipica della tradizione degli abitanti di Focea, fa parte del bagaglio di conoscenze costruttive importate dai luoghi di origine». E poi ci sono scudi, spade ed elmi… una mole di reperti di metallici pertinenti ad armi e armature, rinvenuti insieme a ceramiche dipinte, oltre a vasi con iscrizioni «IRE», ovvero «sacro». A chi appartenevano? «Ci sono armi di ogni genere: elmi,
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corazze, scudi, spade, para-braccia, punte di lancia, frecce, maschere per cavallo. Centinaia e centinaia di frammenti, scoperti, in posizione di crollo, all’interno dell’edificio arcaico, che si aggiungono a quelli già recuperati nel corso degli scavi passati, che non erano stati ricondotti ad alcuna struttura specifica. Cosí abbiamo “scavato” anche all’interno della vecchia documentazione, unendo nuove e vecchie conoscenze sul sito archeologico. Molti frammenti devono ancora essere recuperati, poiché – vista la fragilità del metallo – sono stati prelevati in pani di terra da scavare in laboratorio». Questo secondo intervento potrebbe quindi riservare nuove sorprese? «Sí certo, questa è una forte eventualità». A una prima lettura, a quando si possono datare i reperti? «Ci sono armi piú antiche e piú Un settore dello scavo in cui è ben leggibile la sequenza stratigrafica.
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recenti: grosso modo vanno dal 540-530 a.C. circa fino al primo venticinquennio del V secolo a.C. (480-475 a.C.). Non fotografano, quindi, un solo avvenimento, ma ben piú di uno. Cosa importantissima». Avete ipotizzato che il cumulo di armi sia riferibile alla battaglia navale di Alalia, nota dalle fonti antiche, che vide affrontarsi i profughi greci di Focea e una coalizione di Cartaginesi ed Etruschi, tra il 541 e il 535 a.C. circa, tra la Corsica e la Sardegna. È probabile che nell’edificio arcaico di Velia siano conservate le reliquie offerte alla dea Atena dopo lo scontro, non è vero? «Sí, possono essere le armi offerte dai Focei dopo la battaglia di Alalia, con la fondazione di Velia. Il tempio piú antico risale al 540-530 a.C., ovvero agli anni subito successivi alla battaglia di Alalia, mentre il tempio piú recente, che si credeva di età ellenistica, risale al 480-450 a.C. circa, per poi subire una ristrutturazione nel IV secolo a.C.». È possibile, quindi, che i Focei in fuga da Alalia abbiano innalzato il primo tempio subito dopo il loro arrivo a Velia? «Sí. Ma questa scoperta va oltre. L’ampiezza cronologica dei reperti ci dice che quello che abbiamo scoperto non è il sacrario della battaglia di Alalia, cioè il luogo nel quale si consacrarono le spoglie dei nemici, bensí il santuario principale della città piú antica in cui le armi dei Focei e dei loro nemici venivano offerte, armi provenienti probabilmente dai frequenti scontri avvenuti per lo piú in mare. In questo contesto si colloca anche la battaglia di Alalia, la cui causa scatenante, come ricorda Erodoto, fu l’accusa di pirateria rivolta ai Focei da Etruschi e Cartaginesi. In questo campionario di armi c’è il riflesso di tutta la vita dei primi anni dei Focei di Elea, dalla battaglia di
Alalia in poi. Nel santuario di Velia, dunque, vengono consacrate le armi con cui i coloni greci hanno fondato e conservato nel tempo la città. I Focei sono una delle potenze marinare di questo Mediterraneo piú antico e Velia sta raccontando tutto ciò. Abbiamo tra le mani il pezzo piú antico della storia di Elea. Una ricerca che dovrà riferirsi non a una, ma a cento battaglie, di cui Alalia è la piú nota». Gli elmi greci e etruschi potrebbero restituire iscrizioni, ora nascoste dalla terra… e quindi anche l’identità di chi li ha indossati? «È un’eventualità, poiché le iscrizioni sulle armi non sono infrequenti. La ricerca è attendere i dati, osservarli e interpretarli, non anticiparli o negarli a priori. Ciò che occorre sottolineare è che le scoperte di Velia non sono un rinvenimento fortuito, ma il frutto dell’attività programmata del Parco archeologico (statale), realizzata con fondi del proprio bilancio ordinario. Questo lavoro è il risultato di un investimento di risorse costruito ed eseguito con tempo e cura. A tal proposito occorre rimarcare l’impegno che ha profuso l’intera squadra del Parco archeologico, insieme con quello degli archeologi Jessica Elia, Ida Lombardi e Francesco Mele, che hanno seguito scavo e studio dei materiali, e quello della collega restauratrice Giovanna Manzo». Quali altre novità hanno restituito gli ultimi scavi di Velia? «Abbiamo trovato diversi depositi di materiali dell’età del Bronzo Medio e Finale, databili dal XV al XIII-XII secolo a.C., circa mille anni prima dell’arrivo dei Focei, che testimonia l’esistenza a Velia di un insediamento dell’età del Bronzo. Ma è ancora tutto da studiare. Adesso occorre approfondire, progettare e far vivere queste scoperte archeologiche. Siamo solo all’inizio!».
n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
LA PAROLA ALLE ARMI L’intervista a Marco Bettalli, con cui si apre questo numero, ci aiuta a comprendere quale fosse il reale 1 2 atteggiamento politico, militare e sociale della Greca e di Roma, nei confronti della guerra. Ecco allora una rassegna filatelica di alcune tra le piú note battaglie che, nel bene e nel male, hanno fatto la storia delle due civiltà. Se escludiamo la guerra di Troia, madre di tutti i conflitti antichi, i primi episodi famosi riguardano le guerre tra Greci e 3 4 5 Persiani succedutesi dal 499 al 479 a.C. con la vittoria a Maratona nel 490 a.C. (elmetto attribuito a Milziade, 1), la difesa delle Termopili nel 480 a.C., ricordata in Grecia come una vittoria nonostante la disfatta di Leonida (2) e dei suoi uomini (3), e la successiva vittoria dopo un mese nella battaglia 6 7 8 navale di Salamina (4), quando la flotta persiana fu praticamente distrutta dalle piú agili navi (5) di Temistocle (6) costringendo al ritiro gli invasori. Quasi 150 anni piú tardi fu Alessandro il Grande che, nella spedizione di conquista delle terre orientali, sconfisse ancora i Persiani in due celebri battaglie, a Isso (7) e Gaugamela. Per Roma, 9 10 curiosamente, le grandi campagne di espansione in Europa, in Africa e in Oriente, quasi sempre vittoriose, vengono ricordate meno di alcune sconfitte rimaste ancora oggi indelebili: l’umiliazione subita per mano dei Sanniti alle Forche Caudine, nel 321 a.C. (Caudium oggi Montesarchio, 8), e la sconfitta a Canne, nel 216 a.C. (9), contro Annibale, nella seconda guerra punica. Altro celebre scontro, questa volta navale, fu quello 11 12 di Azio (oggi Arta, 10) nel 312 a.C., che vide prevalere Ottaviano Augusto su Marco Antonio e Cleopatra e pose fine alla guerra civile. Altro ricordo infausto è la disfatta delle legioni romane di Varo nella selva di Teutoburgo, a opera di Arminio, nel 9 d.C. (11). Ha invece un valore positivo la battaglia di Ponte Milvio, a Roma, quando nel 312 d.C. Costantino I sconfisse 13 14 Massenzio (12) e all’indomani della quale riconobbe ufficialmente il cristianesimo. Fra le altre battaglie che hanno avuto una certa IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere influenza sulle vicende future vi sono quella del alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai faraone Ramesse II contro gli Ittiti a Qadesh nel seguenti indirizzi: 1274 a.C. (13) e quella di Alalia/Aleria nel 540 Segreteria c/o Luciano Calenda a.C. (14), quando i Cartaginesi ebbero la meglio Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa sui Focei che avevano fondato la città in Corsica, Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it ottenendo il controllo del Tirreno, altra causa del oppure www.cift.it futuro scontro con i Romani...
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LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
BISANZIO l’impero sul bosforo di Marco Di Branco
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el maggio del 330 d.C. Costantino, l’imperatore «cristiano», inaugura la sua capitale, una città grandiosa che porta il suo nome, voluta come una seconda Roma, sulle rive del Bosforo. Oltre dieci secoli piú tardi, nel 1453, è ancora il mese di maggio a segnare il destino di quella splendida metropoli: Maometto II espugna Costantinopoli e pone fine alla sua gloriosa parabola. Gli studiosi hanno chiamato «bizantino» il millennio che separa i due eventi e in quei dieci secoli si sono succeduti episodi che hanno segnato momenti cruciali della storia universale, e l’impero d’Oriente, oltre ad affermarsi come una delle maggiori potenze del tempo, è stato anche la culla di una fioritura artistica eccezionale. Alle testimonianze e all’eredità di questa straordinaria vicenda è dedicata la nuova Monografia di «Archeo»: il suo autore, Marco Di Branco, propone un viaggio ideale nei luoghi che furono teatro degli eventi piú importanti e un altrettanto ideale incontro con gli uomini e le donne che ne furono protagonisti. Un racconto avvincente, corredato da splendide immagini e da un ricco e puntuale apparato cartografico.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Quel magnifico paradosso • COSTANTINO • L’impero e la croce • GIUSTINIANO • L’ultimo imperatore • ERACLIO • Una svolta epocale • DISPUTE RELIGIOSE • Un’epoca di cambiamenti • COSTANTINOPOLI • Il triangolo d’oro Particolare di uno dei mosaici pavimentali del Gran Palazzo (Magnum Palatium) di Costantinopoli. VI sec. Istanbul, Museo del Mosaico.
• BISANZIO E I TURCHI • L’invasione selgiuchide • LA IV CROCIATA • Lamento per Bisanzio • ZELOTI A TESSALONICA • Bagliori di rivolta • IL CREPUSCOLO • Gli ultimi fuochi
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CALENDARIO
Italia ROMA Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 03.04.22
FAENZA Gioia di ber
Ceramiche da vino e da acqua in Italia dall’antichità classica al design MIC-Museo Internazionale delle Ceramiche fino al 30.04.22
FIRENZE A misura di bambino
Crescere nell’antica Roma Galleria degli Uffizi fino al 24.04.22
FOGGIA Arpi riemersa
Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22
Giacomo Boni
L’alba della modernità Foro Romano e Palatino fino al 30.04.22
Colori dei Romani
I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22
MILANO Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino all’08.05.22
CAPO DI PONTE (BRESCIA) Uno sguardo oltre le Alpi
Materiali archeologici dal Museo Nazionale di Zurigo MUPRE-Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica fino al 29.05.22
NAPOLI Gladiatori
Museo Archeologico Nazionale fino al 18.04.22
Giocare a regola d’arte
Museo Archeologico Nazionale fino al 04.06.22
Sing Sing. Il corpo di Pompei
Fotografie di Luigi Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.22 34 a r c h e o
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
PARMA I Farnese
Architettura, Arte, Potere Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31.07.22 (dal 18.03.22)
La Tazza Farnese, una coppa in agata sardonica di epoca ellenistica.
Venetia 1600
Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25.03.22
VERONA Vasi antichi
Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22
Francia SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Faccia a faccia La visiera di un cavaliere romano Musée d’archéologie nationale fino al 09.05.22
TORINO Un santuario portatile per la dea Anuket Museo Egizio fino al 20.03.22
Germania FRANCOFORTE Leoni, sfingi, mani d’argento
Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci Archäologische Museum fino al 10.04.22
Grecia SALONICCO Sardegna Isola Megalitica Museo Archeologico di Salonicco fino al 15.05.22
Regno Unito VARESE La civiltà delle palafitte
L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22
VENEZIA Power & Prestige
Simboli del comando in Oceania Palazzo Franchetti fino al 13.03.22
LONDRA Il mondo di Stonehenge British Museum fino al 17.07.22
Svizzera BASILEA animalistico!
Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 35
L’INTERVISTA • GUERRA E VIOLENZA
UN MONDO IN GUERRA
L’ANTICHITÀ VIOLENTA DI ATENE E ROMA CONVINTI DI VIVERE IN UN MONDO DOMINATO DALLA VIOLENZA – CRIMINALE, BELLICA, DI CLASSE – TENDIAMO A IDEALIZZARE ACRITICAMENTE IL PASSATO. MA QUANTO INCIDEVA LA VIOLENZA SULLA VITA QUOTIDIANA AL TEMPO DI TUCIDIDE, DEMOSTENE, CATONE E CRASSO? NE ABBIAMO PARLATO CON MARCO BETTALLI, AUTORE DI UNA RECENTE INDAGINE SULL’UNICA VERA COSTANTE DEL MONDO ANTICO... a cura di Silvia Camisasca
L’armatura di un guerriero greco dipinta su una hydria (vaso per acqua) a figure rosse. 490-480 a.C. Parigi, Museo del Louvre. 36 a r c h e o
Nella pagina accanto: Marco Bettalli, professore ordinario di storia greca all’Università degli Studi di Siena.
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L’INTERVISTA • GUERRA E VIOLENZA
T
rasversale a tutte le epoche è la convinzione di vivere nel piú violento dei mondi possibili. In una prospettiva storica piú allargata e prendendo le distanze dalla contingenza, emerge l’infondatezza di una tale percezione, che vede intriso di sangue il proprio tempo. La quantità di omicidi e atti di violenza perpetrati a Londra, Parigi o Milano, per esempio, alla fine dell’Ottocento e alla metà del XX secolo, era ben superiore a quella odierna. Lo dicono chiaramente le statistiche e lo conferma il libro di Steven Pinker Oltre ogni ragionevole dubbio. Ai nostri giorni, un enorme numero di persone vive senza subire un solo atto violento nel corso della propria vita. Ma, come noto, il male fa infinitamente piú rumore del bene e molti politici ricavano la loro popolarità dall’instillare paure (un’affermazione meno vali-
da per gli USA, dove la smodata circolazione di armi richiederebbe un’analisi a parte). Cosa può dirci uno storico del mondo antico sul tema della violenza? Voce autorevole e fuori dal coro è quella di Marco Bettalli, professore di storia greca all’Università di Siena, tra i massimi esperti di guerra nell’antichità (Un mondo di ferro, Laterza 2019), autore di un fortunato manuale
accademico (giunto alla terza edizione) sulla materia. Lo abbiamo incontrato e, all’esordio della nostra conversazione, gli abbiamo chiesto di commentare questo brano di 2500 anni fa... Scrive Tucidide: «L’intera Grecia, infatti, portava le armi, dal momento che le abitazioni erano indifese e le relazioni tra gli uomini insicure, e si aveva l’abitudine di vivere in armi come i barbari. Le zone della Grecia
nelle quali si vive ancora cosí costituiscono un indizio relativo al costume che una volta era proprio di tutti senza distinzione» (Tucidide I 6)... «Come vede, vero è che Tucidide allude a un clima meno bellicoso, riferendosi al suo tempo, ma, per quanto riguarda il mondo antico – e con questa espressione mi riferisco all’antichità greco-romana: le civiltà del II millennio a.C. le lascio a qualcun altro – sono assolutamente convinto che, in termini generici, si trattasse di un universo fondamentalmente violento, nel quale le gerarchie sociali, il posto assegnato a ciascuno nella società, veniva fatto rispettare in modo coercitivo, con scarsissimo rispetto di quelli che oggi chiamiamo diritti umani. I quali, detto in una parola, semplicemente non esistevano». La decorazione esterna di una kylix (coppa a due manici) a figure rosse del Pittore di Makron con le immagini di guerrieri che indossano le armature. 480 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
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L’INTERVISTA • GUERRA E VIOLENZA
♦ Tuttavia, il concetto di humanitas nasce nel mondo antico, a cui è associata un’immagine diversa da quella che ci sta fornendo... «Chiariamoci: è vero che, all’interno delle classi sociali piú abbienti, tra gli happy few, circolavano i concetti dell’ospitalità, del rispetto o della solidarietà, ma il nodo era legato alla ripidità della scala sociale da salire: una scala dai gradini molto selettivi! Tra individui le disuguaglianze erano enormi: anzi, non è difficile pensare a un approccio storiografico all’antichità prescindendo dalla premessa che al mondo antico era totalmente estranea l’idea di uguaglianza. Ad Atene e a Roma, gli uomini non sono tutti uguali. O meglio, lo sono all’interno di gruppi privilegiati: gli Spartiati, per esempio, venivano chiamati Homoioi, “uguali” (anche se “simili” è una traduzione piú precisa) e l’ultimo degli Spartiati poteva rivolgersi al re da pari a pari. Ma, tra gradi diversi, il mantenimento dell’ordine sociale era affidato alla legge del piú forte. Meritano una riflessione le immortali parole, forse non “gradevoli”, di Tucidide, ripetute all’infinito. A parlare sono gli ambasciatori ateniesi, poco prima di massacrare a freddo tutti i maschi adulti della piccola comunità dell’isola di Melo, nel 416 aC: “Coloro che sono i piú forti sono anche coloro che, in virtú di una legge naturale, sempre comandano. Noi non siamo stati né i primi a istituire questa legge, né i
Le società antiche vivevano in una pressoché costante condizione di belligeranza
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primi a farne uso, una volta stabilita: essa era valida prima del nostro avvento e lo sarà sempre, anche dopo di noi, che la applichiamo ben sapendo che voi e altri, se vi foste trovati nella nostra stessa situazione di potenza, vi sareste comportati allo stesso modo” (Tucidide V 105). Persino la democrazia, come insegna Luciano Canfora, è una forma di violenza della massa, che impone il numero: non a caso, la parola è formata con il suffisso -kratos. Kratos e Bia, che accompagnavano ovunque Zeus, rappresentavano nell’immaginario mitologico dei Greci, appunto, il dominio e la prevaricazione, pur con qualche sfumatura: Kratos è, infatti, la forza esercitata come conseguenza della superiorità, ma conserva una parvenza di giustizia, a differenza di Bia, che è la forza bruta, senza regole. Leggiamo attentamente il mito, perché molto contiene dell’universo mentale di un popolo». ♦ In questa ottica è irrinunciabile l’esistenza della schiavitú. Anzi, non è contemplabile una società che la ripudi... «Certo. Infatti, sia Grecia che Roma erano società schiavistiche, dove la percentuale di individui totalmente privi di diritti, persino del diritto di essere considerati esseri umani, era estremamente elevata. Ad Atene, a Sparta, a Roma gli schiavi erano numericamente superiori rispetto alla popolazione libera: è diffuso il dibat-
tito sulla quantificazione degli schiavi in epoca antica. Gli antichi stessi avevano idee assai vaghe sull’argomento, non c’era la passione per le cifre che ci contraddistingue. Il rapporto tra liberi e schiavi, al di là di qualche storiellina edificante e di una percentuale – bassissima in Grecia, piú elevata a Roma – di schiavi che riuscivano a conquistare la libertà, era un rapporto fondato su prevaricazione, violenza e coercizione. Non credo che vivere fianco a fianco di migliaia di persone, a noi identiche, ma ritenute non umane, possa educare al rispetto e alla non-violenza. Sembra al piú una trama di un racconto di fantascienza. Rispetto a questo contesto straniante, nessun greco e nessun romano ha mai seriamente contestato l’esistenza e la “normalità” della schiavitú. Aristotele, che non era il primo venuto, quando nella Politica si imbarca nel tentativo di dimostrare come sia, appunto, naturale l’esistenza degli schiavi, naufraga piuttosto miseramente. Non c’era neppure la distinzione razziale: che, per carità, è insensata e aberrante, ma ha una sua perversa logica». ♦ Tra i liberi almeno la situazione era migliore? «La libertà è sempre preferibile alla schiavitú e allora non era diverso. Tuttavia, le barriere, anche all’interno della popolazione libera, erano impressionanti: quella tra cittadini e non cittadini costituiva probabilmente la A destra: calco di una statua di Demostene che è a sua volta la copia romana (oggi conservata nei Musei Vaticani) di un originale greco. XIX sec. Oxford, Ashmolean Museum.
In alto: disegno di un’unità di base della falange macedone: composta da 256 uomini, risultava in uno schieramento di 16 soldati per lato. a r c h e o 41
L’INTERVISTA • GUERRA E VIOLENZA
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Calco di un particolare del fregio della Colonna Traiana raffigurante un legionario e un barbaro durante l’attacco di un villaggio in Dacia. Il monumento fu eretto nel Foro di Traiano a Roma, nel 113 d.C., per celebrare le vittorie dell’imperatore sui Daci, nel 101-102 e nel 105-106 d.C.
piú radicale. Credo sia molto difficile per noi percepirla del tutto: con tutte le ipocrisie e le distorsioni del caso, in questo nostro mondo, una persona gode di determinati diritti, in quanto tale: che sia cittadino di una nazione o apolide, formalmente, non determina grosse differenze. Ad Atene e a Roma, i cittadini erano giuridicamente molto piú garantiti: non potevano essere imprigionati o, peggio, torturati senza regolare processo. Godevano di forme di assistenzialismo – si pensi alla distribuzione di grano o alle donazioni – e, al di là dei vantaggi materiali, erano e si sentivano superiori a quanti esclusi da questo club di privilegiati». ♦ Liberi/schiavi, cittadini/non cittadini, poi tante altre distinzioni… «A cominciare, per esempio, da quella di sempre: la distinzione fra donna e uomo. Il mondo antico fu terribilmente maschilista. La società ateniese, con tutto il meraviglioso rigoglio culturale dell’età periclea, è una delle società in cui le donne – soprattutto se di classi abbienti – godevano di minore libertà, finendo per vivere un’esistenza francamente orribile secondo i nostri parametri. A Roma, Catone (l’Uticense) prestava la moglie (incinta!) a Ortensio perché anche quest’ultimo potesse generare figli; noi non prestiamo neppure l’auto... Aggiungerei, piú banalmente, anche la barriera ricchi/poveri. La povera gente, di fronte ai soprusi costantemente subiti, aveva pochissime difese. Andrei oltre: l’esercizio della violenza era qualcosa di profondamente insito nella società. Meglio di una trattazione teorica, varrà un brano tratto da un’orazione di Demostene (Demostene XXI, Contro Midia: siamo piú o meno alla metà del IV secolo a.C): il grande oratore era stato colpito con un pugno in piena regola, in pubblico, da un certo Midia, ricco, di ottima famiglia e prepotente, come solo i ricchi di ottima famiglia sanno essere. Colto di sorpresa, non seppe reagire, limitandosi a denunciare l’aggressore. E qui viene il bello: Demostene sente la necessità di giustificare la sua mancanza di reazione immediata. E, in questa cornice, introduce il racconto della vicenda che ebbe per protagonista tal Eveone, cittadino ateniese di alto rango che, durante un banchetto, aveva ucciso un conoscente, colpevole di averlo colpito una volta sola, durante una lite, probabilmente in stato di ubriachezza. Demostene ricorda che il colpevole dell’omicidio fu condannato con un solo voto di scarto, segno che gli Ateniesi, di cui i 501 che lo giudicarono sono a r c h e o 43
L’INTERVISTA • GUERRA E VIOLENZA
senz’altro una autorevole rappresentanza, non consideravano certo come del tutto insensato reagire, e reagire anche in modo decisamente eccessivo. Lo stesso Demostene afferma (§ 74): “ho molta comprensione per Eveone e per tutti coloro che, disonorati, si sono difesi da soli”. Una dichiarazione forte, non del tutto in contraddizione, ma certo non in sintonia, con la scelta di adire le vie legali, rispetto alla vicenda personale con Midia. L’episodio è emblematico: Demostene, nelle sue orazioni, esalta mille volte il concetto astratto di giustizia e il popolo ateniese che, nei tribunali, la voleva trionfante. Ma, in un contesto palesemente a favore della composizione giudiziaria, non violenta, delle controversie, riserva una buona parte della sua arringa a spiegare il motivo per cui non aveva riempito di botte il suo avversario, facendosi cosí vendetta da solo. Gli Ateniesi sospettavano fortemente che non avesse reagito perché vigliacco: i suoi avversari, in tribunale e in assemblea, come Eschine, facevano spesso riferimento alla sua scarsa propensione allo scontro, anche in ambito militare. Questo dimostra che l’Atene classica era una società impregnata di machismo». ♦ Ma, proprio ad Atene, in età classica, si sviluppò un sistema giudiziario nel quale le sentenze erano veramente affidate al popolo, persino alle persone piú umili: ne ha appena citato un esempio... «È vero, ma escludo si trattasse di un sistema in grado di garantire l’equità nei confronti di tutti i cittadini. Le limitazioni erano moltissime e sarebbe troppo lungo spiegarle nei dettagli. Basti dire che non esisteva alcuna autorità che vigilasse sull’esecuzione delle sentenze. Lo Stato si limitava a stabilire torti e ragioni, ma come si regolavano i conti, in seguito, non era piú affare suo. Infatti, non esisteva la polizia. Senza considerare che la malavita era molto diffusa: esisteva una vasta massa di piccoli delinquenti – ladri, gente che faceva buchi nei muri per rubare nelle case, come nei Soliti ignoti – che, una volta colti in fragranza, venivano semplicemente eliminati, senza pubblicità, e, soprattutto, senza alcun processo». ♦ Passiamo alla violenza pianificata e organizzata, alla sua forma piú tragica e persistente nella storia umana: la guerra. Oggi è condannata da tutti, perfino – paradossalmente – dai generali di corpo d’armata. Questo non fa sí, però, che sia scomparsa (come ribadiscono, se ce ne fosse bisogno, i drammatici eventi di questi giorni), ma solo diversamente praticata. In quanto a guerre, come erano messi gli antichi? «Le società antiche erano profondamente immerse nella dimensione bellica. L’atteggiamento riguardo alla pace e alla guerra era invertito rispetto al nostro mon44 a r c h e o
do, in cui la condizione ottimale, di pace, viene, talvolta, interrotta da un evento bellico, che, seppur condannato, non è, tuttavia, scongiurato. Ad Atene o a Roma, ogni tanto, si faceva la pace, ma lo stato naturale prevedeva il conflitto, metodo, tra l’altro, esclusivo di risoluzione delle controversie. Come disse anni fa lo storico Yvon Garlan, la guerra era come il cattivo tempo: non fa piacere a nessuno, ma nessuno pensa alla possibilità di vivere in un mondo con il sole sempre alto in cielo. Ecco, nel mondo antico, il sole non splendeva quasi mai. Atene, nei 180 anni di regime democratico, in età classica, fu in guerra circa 2 anni su 3, con un tasso di vittime superiore a quello pagato dalla Francia nei cinque anni della I guerra mondiale, che ha rappresentato la carneficina piú impressionante delle guerre per le quali disponiamo di statistiche affidabili. A Roma il tempio di Giano, le cui porte venivano serrate in tempo di pace, rimase chiuso solo una volta in tutta l’epoca repubblicana, qualcosa come cinque secoli...». ♦ Perché, nonostante la consapevolezza, a livello individuale, della portata luttuosa e dolorosa della guerra, sul piano pubblico era impossibile rinunciarvi? «In primo luogo, perché la guerra era sí un fattore di distruzione, ma anche un potentissimo fattore acquisitivo. In una polis di poche migliaia di abitanti, dove le terre appartengono sempre agli stessi soggetti e non esiste alcuna innovazione tecnologica, come può progredire il livello di vita? O si scatena la guerra civile – vista come la peggiore sciagura possibile – portando avanti un programma basato sulla redistribuzione delle terre, oppure si cercano e prendono fuori i campi di altri. Sto semplificando, ovviamente, ma intendo fare presente quanto la guerra rappresentasse una grande opportunità. Il dominio e la conquista portavano a mangiare meglio. Moses Finley, uno dei piú grandi storici del Novecento, affermava che gli Ateniesi, con il loro piccolissimo impero del V secolo, migliorarono le proprie condizioni di vita ben piú degli Inglesi nell’Ottocento con un impero esteso per milioni e milioni di chilometri in tutto il mondo. In guerra, la cattura anche di un solo prigioniero da vendere come schiavo o da restituire pagando un forte riscatto (il ricavo era, solitamente, superiore al guadagno annuale di un salariato), sistemava una persona a lungo. Secondariamente, c’era una forte assuefazione alla morte, che, come ben sappiamo, è stata completamente anestetizzata e isolata dal nostro mondo, tanto che si può vivere tranquillamente per decenni senza mai vedere un morto, se non su Netflix. Noi fatichiamo perfino a nominarla. Nel mondo antico non era cosí, la morte accompagnava la vita, non incuteva paura come oggi: mediamente, 3 bambini su 4 morivano alla nascita, e
Stele funeraria degli opliti Chairedemos e Lykeas, armati di lancia e scudo, da Salamina. 420 a.C. circa. Il Pireo, Museo Archeologico. Dopo dieci anni dalla battaglia di Maratona, nel settembre del 480 a.C., di fronte al porto del Pireo, tra la terraferma e l’isola di Salamina, venne combattuto e vinto dalla Lega delle poleis greche lo scontro navale contro l’impero achemenide di Serse I.
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L’INTERVISTA • GUERRA E VIOLENZA
un numero non minore di donne moriva di parto; anche tra gli uomini, i makròbioi, gli ultrasettantenni, erano davvero pochi: Isocrate, che si lasciò morire di fame a 98 anni, era un’eccezione. Infine, potremmo aggiungere considerazioni di altro genere: per esempio, come disse Jacob Burckhardt 150 anni fa, l’uomo del mondo greco-romano è agonale. L’amore per la competizione, per lo scontro, è connaturato alla sua educazione. Si tratta ovviamente di un’ideologia aristocratica, ma è l’unica che esista nell’antichità: la democrazia ateniese è stata una vera rivoluzione, ma non ha creato una visione del mondo, non si è definita come cultura; si è limitata ad allargare a una cerchia molto piú vasta di individui l’ideologia, la forma mentis, i comportamenti e i tic degli aristocratici».
diffusissima. Nessun individuo, tranne qualche fanatico, amava davvero lasciare la propria famiglia con una sporta piena di focacce, formaggio e olive, sufficiente per una riserva di tre giorni, e andare a morire in qualche brulla pianura della Grecia o dell’Italia centrale. Ma tutto cambiava quando nelle assemblee si doveva decidere: lí si vedeva quanto fossero muscolari le comunità antiche. Un oratore che si esprimesse a favore della pace doveva scusarsi. Minimo veniva accusato di ignavia, vigliaccheria o inerzia. La pace era non-agire, la guerra era agire. I valori militari (onore, coraggio) erano tenuti in gran conto, anche se poi i vigliacchi erano tanti, come sempre. Solo in Euripide, un genio a volte divergente dal mainstream della sua epoca, leggiamo qualche considerazione intelligente sul tema: “Quando il popolo decide la guerra, nessuno pensa che ♦ Insomma, la guerra era ben accetta... potrebbe morire; la peggio tocca sempre agli altri. Se nel «Non esageriamo. Gli antichi non erano scemi. momento del voto si avesse la morte davanti agli occhi, Ad Atene sappiamo di infiniti modi messi in la Grecia non andrebbe mai in rovina per la smania di atto per evitare di andare in guerra, dai piú fan- guerra” (Supplici vv. 481-485)». tasiosi ai piú banali, come la classica bustarella, ♦ Si può dire altrettanto per Roma? «A maggior ragione. Roma era ben piú militarista di qualsiasi polis greca. Il dominio di poche gentes aristocratiche era interamente basato sulla A sinistra: askos (attingitoio) in terracotta in forma di ragazzo dai tratti africani (verosimilmente uno schiavo), che dorme appoggiato a un’anfora. IV sec. a.C. Oxford, Ashmolean Musuem. Nella pagina accanto: stele funeraria raffigurante un giovane atleta, con lo strigile in mano, di fronte al quale sta un servitore con la fiaschetta dell’olio. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
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forza militare e sulle imprese dei loro membri. Cosí forte era l’identificazione con la dimensione bellica della classe dirigente che, nel I secolo a.C., Crasso, l’uomo di gran lunga piú ricco di Roma (aveva fatto i soldi, tra l’altro, dando fuoco a interi quartieri dell’Urbe, per poi intervenire con gli idranti e ricomprare a prezzo stracciato le macerie delle case bruciate), poco marziale, si imbarcò a 60 anni in una grandiosa e fallimentare spedizione militare in Mesopotamia, finendo per essere ucciso insieme al figlio a Carre, in una delle piú disastrose pagine della storia militare romana. Persino Cicerone, uomo di molti pregi ma assai poco portato alla vita militare, a oltre 50 anni, come governatore della Cilicia, si mise a combattere le popolazioni del luogo (“Ma chi diavolo sono questi Pindenissiti?” si lamenta nelle sue lettere) in cerca di un improbabile trionfo da celebrare a Roma. Trionfo che, per altro, mai ottenne».
i cittadini a farla (anche se poi si diffusero, e non poco, i mercenari), e non esistevano eserciti stanziali, né caserme. Gli eserciti si formavano al momento del bisogno, cioè quasi sempre. E la preparazione specifica era, in realtà, molto modesta, quasi inesistente». ♦ Nel mondo greco, però, c’era anche Sparta, rimasta nei millenni, anche piú di Roma, un archetipo dello Stato militarista, dove la formazione giocava un ruolo rilevante... «Sparta rappresenta un mondo a parte. Ma è un errore considerarla una comunità rivolta interamente alla guerra. È vero che gli Spartiati, il gruppo di cittadini di pieno diritto, avevano alla base della loro educazione, fornita dallo
♦ La guerra degli antichi, per come la sta descrivendo, appare piú vicina alla vita quotidiana. È possibile un’affermazione del genere? «Esatto. È impossibile per noi capire che cosa volesse dire fare la guerra per un Greco o un Romano. Noi, oltre la morte, abbiamo anestetizzato anche la guerra e usiamo le metafore guerresche per le partite di calcio. Nella nostra fortunata Europa (ogni tanto dobbiamo ricordarlo, che siamo fortunati!) nessuno sa piú cosa sia davvero la guerra. Le operazioni militari sono definite peace-keeping. Tutto è edulcorato, da quando il Ministero della Guerra, nel Novecento, venne ribattezzato in tutte le nazioni occidentali Ministero della Difesa: molto piú politically correct, prima ancora che questa discutibile mania si diffondesse nell’universo. Le operazioni militari sono demandate a professionisti comandati da generali che, se interpellati, parlano solo di pace; i militari sono per lo piú invisibili (tranne quando, come nel mio caso, abitando vicino a una grande caserma, si vede qualche dozzina di ragazzi correre in tuta mimetica, la faccia annerita e pesanti armi al collo, spero scariche). Rimane, certo, la spesa per tutte le diavolerie tecnologiche che rendono quasi inutile l’uomo (i droni, ormai, ci vanno vicino): sono cifre onerose, mi rendo conto, ma ricordo che il 3-5% riservato da molte nazioni occidentali agli armamenti non è un granché rispetto al 75% del budget disponibile che Atene, nel IV secolo a.C., spendeva per la guerra. Nel mondo antico, la guerra era contigua alla vita quotidiana. Erano a r c h e o 47
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Stato, la preparazione alla guerra. Ma non la pratica della guerra. Perché gli Spartiati erano pochissimi (dai 9-10 000 degli inizi del V secolo, nel IV secolo scesero a 2-3000, per arrivare a meno di 1000 alla fine dell’età classica!) e spesso combattevano servendosi degli alleati, dei perieci, persino di una parte selezionata degli iloti. Non potevano permettersi troppe perdite. Il valore fondante della società spartana non era il combattere, era l’obbedienza. Ricordiamoci la stele in onore dei famosi caduti delle Termopili: “Straniero, annuncia ai Lacedemoni che qui noi giacciamo, in obbedienza alle loro leggi”. Obbedienza, non vittoria. Le Termopili – ogni tanto qualcuno se ne dimentica – sono una battaglia perduta, eppure rappresentano il simbolo stesso della città».
sotto il sole del Partenone, gente bene educata discettava di filosofia o, a Roma, progettava acquedotti e inventava il diritto. Mettere in risalto aspetti non propriamente meravigliosi fa parte di un mio modo di pormi nei confronti dell’antichità grecoromana, che pure amo: mi ci sono dedicato tutta la vita. Un po’, forse, perché ho sempre detestato i laudatores temporis acti. Il tempus, per cui proviamo nostalgia, può essere ieri, gli anni Cinquanta o l’antichità. Riguardo a quest’ultima, sarei pazzo a contestarne le conquiste intellettuali, le meraviglie artistiche. Ma furono, tutte e sempre, acquisizioni elaborate da un 2-3% di persone privilegiate che vissero in una straordinaria contingenza positiva, all’interno di una cornice in cui era normale conquistare una città, entrare dentro le mura ♦ Donne segregate, ricchi che spadroneggiano, stuprando donne e massacrando uomini, per vendere migliaia di schiavi disumanizzati, guerre conti- i superstiti come schiavi. Qualcuno storceva appena la nue, la morte onnipresente, senza contare malat- bocca, ma insomma, son cose che succedono...Non ho tie e carestie. Ma il mondo antico era orribile?! alcun desiderio di giudicare: l’anacronismo, l’applicare «È una questione complicata. Ovviamente no. Il fatto valori e idee nostre al remoto passato, è l’errore piú è che siamo un po’ schizofrenici. Di fronte a brutture grande che uno storico possa compiere. Ma neppure sconvolgenti diciamo: vabbé, 2000 anni fa, era norma- possiamo nascondere le cose, in nome di una idealizle. Poi, dimentichiamo tutto e pensiamo al mondo zazione che non fa bene a nessuno e, tanto meno, antico come a uno splendido parco-giochi in cui, giova alla comprensione del mondo antico».
PER SAPERNE DI PIÚ Al termine dell’incontro, abbiamo chiesto al professor Bettalli di indicarci quali fossero i titoli che riteneva di poter consigliare ai nostri lettori, soprattutto al fine di non cadere nei luoghi comuni sul mondo antico. Ecco dunque i suoi suggerimenti... «Apprezzo molto “Archeo” e dunque accolgo l’invito con gran piacere, limitandomi ai testi in italiano, originali o tradotti. In generale sul mondo greco-romano, Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario (Bologna, Il Mulino 2008), mostra grande competenza: le pagine dedicate al mondo greco sono però assai poche. Jon E. Lendon, Le ombre dei guerrieri. Strategie e battaglie nell’età antica (Torino, UTET, 2006), mostra grande intelligenza, ma non è per lettori della domenica. Piú di recente, Marco Bettalli-Giovanni Brizzi (a cura di), Guerre ed eserciti nell’antichità (Bologna, Il Mulino, 2019), con numerosi contributi. Molto bello un testo ormai non piú stampato, ma spero reperibile nelle biblioteche: Yvon Garlan, Guerra e società nel mondo antico (Bologna, Il Mulino, 1985). Il mio recente libro (Un mondo di ferro, Roma-Bari, Laterza, 2019) è piú incentrato sul 48 a r c h e o
mondo greco, ma cerca di arrivare fino alle guerre puniche, in una prospettiva mediterranea. Piú specialistici i volumi curati da Marta Sordi per l’Università Cattolica di Milano: Il pensiero sulla guerra nel mondo antico (Milano, Vita e Pensiero, 2001) e Guerra e diritto nel mondo greco e romano (ibid. 2002). Sostanzialmente da evitare, anche se ricco di testi antichi di argomento militare in traduzione, L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, a cura di Gastone Breccia (Torino, Einaudi, 2009). Mondo greco: Hans van Wees, La guerra dei Greci. Miti e realtà (Gorizia, LED, 2009) è senz’altro la migliore tra le sintesi, ma viene punito da una sciatta edizione italiana. Molto discutibile, ma capace di attirare l’attenzione e di appassionare come raramente succede a un libro di storia, Victor Davis Hanson, L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica (Milano, Mondadori, 1990), con successive ristampe; dello stesso Hanson, cfr. Una guerra diversa da tutte le altre. Come Atene e Sparta combattevano nel Peloponneso (Milano, Garzanti, 2008), sempre discutibile, ma sempre avvincente; l’edizione
In alto: affresco raffigurante Achille costretto a cedere Briseide ad Agamennone, dalla Casa del Poeta tragico a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: frammento di una kylix raffigurante un momento di intimità fra un uomo e una donna. 510-500 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
italiana ha la curiosa caratteristica di contenere un enorme errore già nel sottotitolo. Sempre sulla guerra del Peloponneso, un modello di chiarezza, intelligenza e sintesi è Ugo Fantasia, La guerra del Peloponneso (Roma, Carocci, 2012). Sulle grandi battaglie delle guerre persiane, basterà rimandare a Peter Krentz, La battaglia di Maratona (Bologna, Il Mulino, 2011) e, per la piú famosa delle battaglie navali, Barry Strauss, La forza e l’astuzia. I Greci, i Persiani, la battaglia di Salamina (Roma-Bari, Laterza, 2005). Su Sparta e la guerra, divulgativo ma da tener presente Sergio Valzania, Brodo nero. Sparta pacifica, il suo esercito, le sue guerre (Roma, Jouvence, 1999). Su Roma, la bibliografia è sterminata: una buona sintesi è quella di Gastone Breccia, I figli di Marte. L’arte della guerra nell’antica Roma (Milano, Mondadori, 2012); di recente, cfr. anche David J. Breeze, L’esercito romano (Bologna, Il Mulino, 2019), quasi tutto sull’impero. Un mirabile risultato ottenuto da un rappresentante della vasta categoria dei «dilettanti» appassionati è l’immenso lavoro di Giuseppe Cascarino sull’esercito romano e la sua organizzazione
(quattro volumi, Rimini, Il Cerchio, 2007-2012). Giovanni Brizzi ha scritto molto sulle guerre puniche: cfr. almeno Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma (Roma-Bari, Laterza, 2007); dello stesso autore, cfr. la monografia sulla battaglia di Canne, forse la piú famosa sconfitta romana: Giovanni Brizzi, Canne. La sconfitta che fece vincere Roma (Bologna, Il Mulino, 2016). Su un’altra sconfitta a cui abbiamo fatto cenno, quella di Carre, cfr. Giusto Traina, La resa di Roma. 9 giugno 53 a.C., battaglia a Carre (Roma-Bari, Laterza, 2010). Sulle legioni imperiali, cfr. almeno Yann Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del III secolo (Roma, Carocci, 2001). a r c h e o 49
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L’
antica città latina di Gabii, posta a 20 km a est di Roma, al XII miglio della via Prenestina antica, su un pianoro che domina il cratere vulcanico di Castiglione, è attualmente ricompresa in una vasta area archeologica alle porte della capitale, acquisita al Demanio dello Stato tra il 1986 e il 1991 e posta sotto la tutela della
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Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. Le fonti letterarie dipingono Gabii come una delle città piú importanti del Latium vetus prima dell’ascesa di Roma: le vicende leggendarie legate alla formazione di Romolo e Remo – che proprio a Gabii furono educati alle lettere, alla musica e alle armi greche (Dion. Hal. IV,53; Plut. Rom.
VI,1) – e la conquista con l’inganno da parte di Tarquinio il Superbo e del figlio Sesto (Liv. I, 53-54; Dion. Hal. IV,57; Ov. Fast. II,689-690) – con tutte le implicazioni che ne seguirono, fino alla cacciata dei Tarquini da Roma e dalla stessa Gabii tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. –, ne testimoniavano l’importanza anche quando, tra l’età re-
Montecelio Santa Lucia
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pubblicana e l’età imperiale, la sua fama era piuttosto legata alle cave della rinomata «pietra gabina» e alle sue acque termali. A partire dall’acquisizione dell’area, gli sforzi della Soprintendenza Speciale di Roma si sono indirizzati da un lato alla tutela delle importanti testimonianze archeologiche emerse – su tutte, la cella del santuario di
In alto: Gabii (Roma). I resti del santuario di Giunone Gabina, edificato alla metà del II sec. a.C. A destra: cartina di Gabii e del suo territorio.
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Giunone Gabina, la chiesa medievale di S. Primitivo, il casale e la torre di Castiglione – che tuttora ne delineano il paesaggio, dall’altro alla progressiva ripresa delle indagini archeologiche, che fino alla metà del secolo scorso non avevano mai avuto carattere di sistematicità.
STORIA E PAESAGGIO Il sito si presta infatti in modo particolare alla ricerca sul campo: il definitivo abbandono della città tra l’XI e il XII secolo, l’utilizzo dell’area a esclusivo uso agricolo e la tempestiva apposizione di vincoli archeologici e paesaggistici hanno consentito che si tutelassero le vestigia dell’antico centro abitato, perfettamente preservate nel sottosuolo e poste in un ambito paesaggistico che conserva ancora intatte le peculiari caratteristiche del suburbio ro-
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In alto, a sinistra: il cosiddetto Foro di Gabii, esplorato già nel Settecento da Gavin Hamilton. In alto, a destra e qui accanto: lacerti di pitture parietali nel Foro. A sinistra: veduta a volo d’uccello dell’area archeologica di Gabii: A. santuario di Giunone Gabina; B. area urbana; C. chiesa di S. Primitivo; D. regia; E. casale e torre di Castiglione.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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mano, tanto ambite all’epoca del Grand Tour ma altrove irrimediabilmente perdute. Tutto questo ha fatto sí che Gabii, a partire dalla sua riscoperta in età moderna, divenisse dapprima oggetto di indagini non sistematiche e scoperte casuali – come per esempio gli scavi settecenteschi di Gavin Hamilton presso il cosiddetto Foro, da cui provengono le numerose statue oggi conservate al Museo del Louvre, o gli sventramenti dovuti al passaggio dell’Acqua Marcia, che hanno distrutto numerose strutture di epoca antica – e successivamente luogo privilegiato per ricerche archeologiche mirate, a partire dalle attività della Escuela Española de Historia y Arqueología presso il santuario di Giunone Gabina nella metà del Novecento. Un rinnovato interesse del mondo accademico per le fasi piú antiche dell’urbanizzazione nell’Italia medio-tirrenica e le condizioni di conservazione di Gabii hanno rappresentato in tal senso, nell’ultimo cinquantennio, un caso quasi unico nel panorama archeologico laziale.
INDAGINI MIRATE Anche grazie alla fattiva collaborazione con importanti enti di ricerca italiani e stranieri (le piú recenti con ARPAE-Laboratorio di Archeologia dei Paesaggi Urbani dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata,
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A destra: i resti dell’edificio tripartito scoperto sull’arx di Gabii. Identificato come regia, venne defunzionalizzato tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C., forse per effetto del passaggio della città latina nella sfera d’influenza di Roma. In basso: materiali provenienti dalla regia. A sinistra, frammento di lastra architettonica con felini e personaggio con testa a forma di toro; a destra, frammento di grande contenitore in ceramica white on red.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici di Matera, CNR, Rheinische Friedrich-WilhelmsUniversität Bonn, University of Michigan-Kelsey Museum of Archaeology, Musée du Louvre) negli ultimi anni la Soprintendenza Speciale di Roma ha dunque potuto operare mediante indagini mirate in piú punti dell’area archeologica e delle piú immediate propaggini, per approfondire la conoscenza di alcuni dei complessi monumentali dell’antico abitato e delle sue principali fasi di frequentazione.
Oltre ad alcune testimonianze risalenti già all’età del Bronzo Medio, nuclei capannicoli ascrivibili all’età del Ferro sono stati individuati in piú punti dell’area archeologica, probabilmente in connessione con le due necropoli di Osteria dell’Osa e di Castiglione, rinvenute rispettivamente a ovest del pianoro e sul ciglio orientale del lago, che fino al XIX secolo occupava il cratere vulcanico.
fortificazione ad aggere lungo tutto il perimetro esterno del pianoro segnano, tra la fine dell’VIII e piú probabilmente nel VII secolo a.C., l’avvenuta formazione della città propriamente detta, che, nel corso del VI secolo a.C., sembra accrescere la propria importanza: lo testimoniano, oltre alle fonti letterarie, i piú recenti ritrovamenti archeologici, tra i quali spicca un edificio tripartito assimilabile per planimetria e LA NASCITA DELLA CITTÀ apparato decorativo a edifici coevi I primi edifici in materiale lapideo – con particolare riferimento alla e la realizzazione di una possente Regia di Roma – posto nella pora r c h e o 57
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zione nord-occidentale dell’abitato su un’area rilevata, interpretabile come arx e prospiciente l’antico cratere vulcanico. L’edificio fu defunzionalizzato, privato di coperture e decorazioni e tumulato intenzionalmente tra la fine del VI e i primi decenni del V secolo a.C. mediante la realizzazione di un imponente cumulo di pietre, che potrebbe essere ipoteticamente connesso con le vicende relative alla fine del dominio dei Tarquini a Roma e a Gabii, che dopo la battaglia del lago Regillo agli inizi del V secolo a.C. passò sotto l’influenza della città capitolina. Dopo una fase di stasi, una rinnovata attività edilizia si verifica tra la fine del V e il IV secolo a.C., quando la realizzazione di un impianto stradale quasi ortogonale – caratterizzato da almeno due direttrici principali che attraversano da ovest a est/nordest l’abitato e sono intersecate a intervalli piú o meno regolari da assi 58 a r c h e o
viari minori con orientamento nord/sud – sembra associarsi a un generale rifacimento della fortificazione in opera quadrata. Nel corso dell’età repubblicana, mentre il santuario di Giunone Gabina assurge a simbolo della città, con il suo tempio circondato da portici e fronteggiato da un teatro che sfrutta il naturale declivio del pianoro vulcanico, numerose cave della rinomata pietra gabina ne iniziano a caratterizzare la porzione centrale e settentrionale. L’abitato sembra dunque concentrarsi sempre piú verso sud, lungo la via Prenestina, dove sorgono complessi privati e pubblici di una certa importanza, come il cosiddetto Foro, indagato da Hamilton, o il complesso termale scoperto di recente e caratterizzato da una notevole decorazione musiva dei vani in cui è articolato. In età imperiale alcune porzioni dell’insediamento, dapprima destinate a funzioni abitative, vengono progressivamente utilizzate a scopo
agricolo o funerario; presso alcuni sepolcreti posti lungo la via Prenestina sorse successivamente, in età medievale, la chiesa di S. Primitivo, che anche in seguito al graduale abbandono della città tra l’XI e il XII secolo, ha continuato a caratterizzare il paesaggio di Gabii fino ai giorni nostri. Nei confronti di questo vasto patrimonio archeologico alle porte della capitale, la Soprintendenza Speciale di Roma sta orientando con rinnovato interesse la propria azione verso la ripresa dell’idea alla base dell’acquisizione dell’area al Demanio statale: un progetto per fare di Gabii un parco archeologico-naturalistico dotato di tutti i servizi necessari, con il fine di consentire la fruizione da parte dei visitatori di un sito, che con i suoi circa 70 ettari si configu-
ra come l’area archeologica demaniale piú estesa del territorio suburbano del Comune di Roma. Il progetto, ambizioso ma mai pienamente realizzato, è il cardine di tutte le attività di tutela, restauro, ricerca e valorizzazione intraprese dalla Soprintendenza Speciale, a partire dalla indispensabile manutenzione di tutta l’area archeologica e dalla ripresa delle indagini archeologiche nel 2020 presso l’importante complesso posto sull’arx gabina.
INSIEME PER GABII Un ulteriore passo verso la piena fruizione dell’area archeologica è stato compiuto di recente grazie a un protocollo d’intesa sottoscritto con il Municipio VI di Roma Capitale e con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, che nell’am-
Nella pagina accanto: ortofoto e planimetria dell’impianto termale, scoperto grazie alle indagini piú recenti e abbellito da pregevoli mosaici. In basso: uno scorcio dell’area urbana di Gabii, nella quale sono stati individuati complessi pubblici e privati di notevole rilievo.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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Pannello che illustra il nuovo percorso di visita dell’area archeologica di Gabii.
A sinistra: un’immagine dell’installazione temporanea 100 panchine per Roma, che riproduce il simbolo del Terzo Paradiso ideato dall’artista Michelangelo Pistoletto.
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La medievale torre di Castiglione, innalzata intorno alla metà del XIII sec.
bito del progetto «Gabiinsieme» svoltosi nel 2021 ha consentito di definire e mettere in sicurezza un primo percorso di visita dell’area, fruibile grazie a nuova pannellistica, visite guidate, laboratori per bambini e famiglie e installazioni di arte contemporanea – come l’opera 100 Panchine per Roma, realizzata da parte di Cittadellarte-Fondazione Pistoletto (sponsorizzazione Enel, partnership Preco System srl): cento panchine in plastica riciclata da PET e riciclabile, che riproducono il simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto e che a partire dalla manifestazione «IperFestival delle Periferie» del 23 maggio 2021 per tutta la durata del progetto hanno caratterizzato il paesaggio dell’antica città latina. La Soprintendenza Speciale è stata particolarmente lieta di accogliere a Gabii l’installazione del maestro Pistoletto. La realizzazione del Terzo Paradiso con le 100 Panchine per Roma sottolinea anzi ancor di piú il messaggio veicolato dall’opera: quella forte e armonica connessione tra l’elemento antropico e la natura, che ne rappresenta il senso, e che è uno degli obiettivi che l’istituto si prefigge nelle quotidiane attività di tutela e valorizzazione dell’area archeologica. Le giornate di visita sono state inoltre incrementate da ulteriori aperture straordinarie grazie al progetto di valorizzazione per il 2021, e costituiscono la premessa per il definitivo reinserimento dell’area archeologica nel circuito di visite della Soprintendenza Spe-
ciale, restituendone finalmente la fruizione alla collettività. Per l’immediato futuro, continuando a mettere in atto tutte le possibili forme di collaborazione con le istituzioni operanti sul territorio e con gli altri enti di ricerca che lavorano a Gabii o che hanno intenzione di investire nella ricerca sul sito, obiettivo principale della Soprintendenza Speciale di Roma sarà dunque rendere Gabii un polo at-
trezzato di notevole interesse archeologico e ambientale, intermedio fra le aree archeologiche romana, tiburtina e prenestina che, oltre a garantire la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali presenti, faccia finalmente da traino anche per l’avvio di una generale riqualificazione ambientale della periferia orientale della città. DOVE E QUANDO Area Archeologica di Gabii Responsabili Chiara Andreotti, Rocco Bochicchio Roma, via Prenestina Nuova km 2 Orario aperta su richiesta e in occasione di eventi; per informazioni scrivere a: ss-abap-rm.gabii@beniculturali.it Info www. soprintendenzaspecialeroma.it
PER SAPERNE DI PIÚ Martín Almagro Gorbea (a cura di), El santuario de Juno en Gabii. Excavaciones 1956-1969, Roma 1982 Cristina D’Agostini, Stefano Musco, Nuovi dati dalle Terme Pubbliche di Gabii, in Chiara Cecalupo, Marco Emilio Erba (a cura di), Atti del XXV Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Roma 2020, pp. 775-788 Marco Fabbri, La regia di Gabii nell’età dei Tarquini, in Patricia S. Lulof, Christopher J. Smith (a cura di), The age of Tarquinius Superbus: Central Italy in the late 6th century (Proceedings of the Conference The age of Tarquinius Superbus, A paradigm shift?, Rome, 7-9 November 2013), Babesch Supplements 29, 2017, pp. 225-239 Marco Fabbri, Stefano Musco, Nuove ricerche sulle fortificazioni di Gabii. I tratti nord-orientale e settentrionale, in Paul Fontaine, Sophie Helas (a cura di), Le fortificazioni arcaiche del Latium vetus e dell’Etruria meridionale (IX-VI secolo a.C.). Stratigrafia, cronologia e urbanizzazione (Atti delle Giornate di Studio, Roma, Academia Belgica, 19-20 settembre 2013), Bruxelles-Roma 2016, pp. 71-90 Steve Glisoni, Gabies-Campagne de 2019 du Musée du Louvre, https://journals.openedition.org/cefr/4672 Virgilio Majerini, Stefano Musco, Gabii. Indagini archeologiche: area urbana, area della chiesa di San Primitivo e area del Santuario extraurbano orientale, in Fedora Filippi (a cura di), Archeologia e Giubileo. Gli interventi a Roma e nel Lazio nel Piano per il Grande Giubileo del 2000, Napoli 2001, pp. 490-499 Nicola Terrenato, Anna Gallone, Jeffrey A. Becker, Stephen Kay, Urbanistica ortogonale a Gabii. Risultati delle nuove prospezioni geofisiche e prospettive per il futuro, in Giuseppina Ghini (a cura di), Lazio e Sabina 6, Roma 2010, pp. 237-248 a r c h e o 61
62 a r c h e o
NELLA TERRA DELLE COLLINE DI PIETRA UNA CITTÀ DAL PASSATO LEGGENDARIO, LEGATA ALLA MEMORIA DI ABRAMO, AL DOMINIO CROCIATO E A UNA MISTERIOSA IMMAGINE DEL CRISTO, UNA DISTESA DI BRULLE COLLINE CALCAREE, SPAZZATE DAL VENTO E DEPOSITARIE DEI PIÚ ANTICHI MONUMENTI DELL’UMANITÀ, UN MAGNIFICO MUSEO CHE NE RACCONTA I MILLENNI: ECCO LA CRONACA DI UN VIAGGIO NELLA TURCHIA SUD-ORIENTALE, SULLE TRACCE DI 12 000 ANNI DI STORIA... di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale
Sulle due pagine: il paesaggio dei monti Tek Tek, nei pressi del sito neolitico di Karahan Tepe (Provincia di Sanliurfa, Anatolia sud-orientale). Nella pagina accanto: scultura in pietra di una testa umana, da Karahan Tepe, 9400-8200 a.C. Sanliurfa, Museo Archeologico. a r c h e o 63
REPORTAGE • TURCHIA
D
all’aeroporto, la via per raggiungere il centro di Urfa attraversa una tipica periferia delle città di questa parte dell’Anatolia: edifici moderni, dall’intonaco chiaro e senza particolare pregio architettonico, strade mediamente trafficate, insegne pubblicitarie, negozi, mercatini che si affacciano sui marciapiedi… niente, dunque, che potrebbe appagare le aspettative del visitatore che, per la prima volta, si avventuri in questa parte remota della Turchia sud-orientale, mosso da lontane reminiscenze evocate dal nome. Urfa – o Sanliurfa (si pronuncia «scianliurfa», «la gloriosa Urfa», secondo appellativo onorifico conferito alla città per la resistenza opposta dai suoi abitanti alle truppe
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A destra: cartina della Turchia. Nella cartina della pagina accanto, in alto: la regione delle Hilly Flanks, le propaggini collinose intorno a Urfa, con i principali siti neolitici citati nel testo in corso di scavo.
Mar Nero Istanbul Tokat Sivas
Ankara
Kız ılır ma k
Kayseri
Sanliurfa
Antalya
N
Mar Mediterraneo
d’occupazione della Triplice Intesa dopo la prima guerra mondiale – vanta, infatti, una storia antichissima e magnifica, a cui possiamo solo accennare (vedi box alle pp. 66/67).
NO
NE
SO
SE
O
E
S
Arrivati nella città vecchia di Urfa, di quella originaria magnificenza, compromessa dalle continue e drammatiche distruzioni, si hanno scarsissime tracce. Eppure, i pochi
monumenti storici, le eleganti moschee e i vicoli del grande bazaar (tra i piú estesi del Vicino Oriente, secondo, per dimensioni, solo a quello di Aleppo), dominati dalla collina su cui si intravedono i resti della cittadella e che oggi è segnata dalla presenza di due colonne di età bizantina, compongono un insieme di indubbia e piacevole suggestione (complice anche il fatto che Urfa, per la sua posizione periferica, non è meta di grandi flussi turistici); e fanno di questa città di frontiera – ci troviamo a una quarantina di chilometri dal confine siriano – il punto di partenza ideale per raggiungere i numerosi siti archeologici di questa parte dell’alta Mesopotamia. (segue a p. 68)
TURCHIA Kilisik Nevali Çori Diga di Atatürk
Tasli Tepe
Göbekli Tepe Urfa
Sefer Tepe Pianura di Harran
Karahan Tepe Harbetsuvan
Eu
fra
te
SIRIA
Sulle due pagine: le «colline rocciose» nei pressi del sito neolitico di Göbekli Tepe. a r c h e o 65
TEMI E PROBLEMI • XXXX XXXXXX
NELLA CITTÀ GLORIOSA di Autore Autore
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Forse da identificare con l’urrita Urshu menzionata nei testi cuneiformi sumerici, accadici e, successivamente, ittiti, in età ellenistica Urfa fu rinominata Edessa da Seleuco I, con riferimento all’antica residenza dei reali macedoni. Divenuta colonia romana tra il 212 e il 213, nella «battaglia di Edessa» (del 260 d.C.) il re sasanide Shapur sconfisse l’imperatore Valeriano, fatto prigioniero e portato a morire, cosí si dice, in schiavitú alla corte persiana. Con il nome di Edessa la città acquistò fama in epoca medievale: conquistata dai Selgiuchidi nel corso della prima crociata, divenne capitale dell’omonima contea; fino al 1144, quando capitolò davanti ai guerrieri della dinastia musulmana degli Zengidi. Secoli dopo, Edessa venne assorbita dall’impero ottomano. In Occidente, il ricordo della città rimarrà legata al Mandylion,
A sinistra: Cittadella di Urfa. Particolare delle fortificazioni di epoca abbaside.
l’«autentica» icona del Cristo, qui conservata prima di cadere nelle mani degli Arabi (nel 641). Oggi Urfa (o Sanliurfa, la «gloriosa Urfa») è una metropoli con piú di 2 milioni di abitanti e capitale amministrativa dell’omonima provincia. Il centro storico si estende ai piedi di una collina su cui sorgono i resti delle fortificazioni costruite in età abbaside (814 d.C), insieme a due solitarie colonne corinzie risalenti al III secolo d.C. Un importante luogo di pellegrinaggio è la cosiddetta «grotta di Abramo», nei cui pressi si trovano la moschea Mevlid-i Halil, di epoca ottomana, un elegante roseto e le vasche ornamentali che accolgono una numerosissima popolazione di carpe «sacre». Nello spettacolare bazaar della città, inoltre, si possono acquistare le varietà locali di peperoncino, tra cui quella nota come isot, poco piccante ma estremamente aromatica. Una veduta della citta con, in primo piano, la moschea Mavlid-i Halil. Nella foto qui sopra: le due colonne corinzie poste in cima alla cittadella. Nella pagina accanto: uno scorcio del centro storico e un negozio del bazaar con, in vendita, diverse varietà del tipico «peperoncino di Urfa».
a r c h e o 67
REPORTAGE • TURCHIA
La ricchezza archeologica di questa terra è fuori discussione: basti pensare agli scavi di Harran, la biblica città natale di Abramo, situata nell’omonima pianura a sud-est di Urfa, da cui dista meno di un’ora di macchina (per i musulmani, invece, il «profeta» Ibrahim vide la luce proprio a Urfa, dove una moschea, una grotta e due laghetti artificiali – popolati da innumerevoli carpe «sacre» e intoccabili –, ne celebrano le leggendarie gesta). Come i nostri lettori però ricorderanno, il territorio di Urfa è assurto alla cronaca archeologica in anni recenti, grazie a una serie di indagiIl sito neolitico di Göbekli Tepe come si presenta ai visitatori oggi: i monumenti che compongono i quattro circoli megalitici sono protetti da una grande tensostruttura e la visita è facilitata grazie alla presenza di passarelle in legno che circondano l’intero complesso.
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Nevali Çori, il sito scomparso Il sito archeologico di Nevali Çori, oggi ricoperto dai flutti del lago Atatürk, sorgeva sulle rive del torrente Kantara Çay, 3 km circa a sud dai banchi dell’Eufrate. L’archeologo dell’Università di Heidelberg, Harald Hauptmann, vi scavò 30 abitazioni neolitiche e alcuni «edifici di culto»: uno di questi conteneva 12 pilastri monolitici con capitelli a forma di «T» e due pilastri posti al centro. Il complesso, datato tra l’8500 e l’8000 a.C., è stato asportato e ricomposto nel Museo Archeologico di Sanliurfa (vedi la foto e il disegno ricostruttivo in questa pagina).
ni la cui portata può, a buon diritto, definirsi «rivoluzionaria». Ci riferiamo alle scoperte effettuate dalla missione di scavo diretta dall’archeologo tedesco Klaus Schmidt (19532014) nel sito di Göbekli Tepe – la «collina panciuta» – negli anni tra il 1995 e il 2000 e resi noti nel 2007
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
grazie a una grande mostra al museo di Karlsruhe (in Germania) intitolata «12 000 anni fa in Anatolia. I piú antichi monumenti dell’umanità» (vedi «Archeo» nn. 279 e 395, maggio 2008 e gennaio 2018; anche on line su issuu.com). Per la prima volta, il grande pubblico venne messo a
conoscenza della scoperta di un «misterioso» sito monumentale risalente al X millennio a.C., composto da quattro strutture circolari, formate da muri in fango essiccato e frammenti di pietra, in cui erano inserite grandi stele monolitiche (se ne contano 44) alte da 1,5 a 6 m, scolpite a r c h e o 69
REPORTAGE • TURCHIA
Un museo per 12 000 anni di storia Le immagini sulle due pagine si riferiscono al nuovo Museo Archeologico di Urfa. Inaugurato nel 2015, è stato appositamente progettato per documentare la storia di questa parte dell’Anatolia sud-orientale, dalla preistoria fino all’età islamica. Da sinistra, in senso orario: l’ingresso al Museo; il professor Necmi Karul vicino alla
con immagini di animali e, in alcuni casi, di esseri umani. Vale la pena riassumere, a grandi linee, il contesto storico-geografico di quella scoperta, insieme al suo principale «messaggio» scientifico e alla sua ricezione: Urfa – dove, all’interno di un palazzo del centro storico, aveva sede la missione di Schmidt – si trova ai margini settentrionali di quella che chiamiamo la «Mezzaluna fertile» (termine coniato nel 1938 dall’egittologo James H. Breadsted), la vastissima area che dal Levante si estende a forma di mezzaluna, appunto, fino alla confluenza dei due grandi fiumi, l’Eufrate e il Tigri, nei pressi del Golfo Persico e che fu teatro della cosiddetta «Rivoluzione neolitica» (secondo l’espressione coniata dall’archeologo preistorico Vere Gordon Childe), ovvero il passaggio dall’età paleolitica – caratterizzata da una società di cacciatori/raccoglitori – a quella neolitica, segnata dall’avvento di una 70 a r c h e o
grande scultura raffigurante un felino (leopardo?) sulle spalle di un essere umano, da Karahan Tepe; l’archeologo accanto alla scultura di due teste umane affiancate, sempre da Karahan Tepe; la statua dell’«Uomo di Urfa», 9000 a.C. circa; visitatori del museo tra i monumenti monolitici, ricostruiti in scala 1:1, del Circolo D di Göbekli Tepe; uno dei pilastri ricostruiti nel Museo di Urfa.
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REPORTAGE • TURCHIA
società sedentaria di contadini agricoltori e allevatori, futuri inventori della scrittura e della… civiltà.
UNA PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA Ora, le scoperte di Göbekli Tepe, definite dallo stesso Schmidt – con tutte le cautele del caso – «i piú antichi templi dell’umanità» (e sul primato cronologico non ci sono dubbi, se consideriamo che i manufatti di Göbekli Tepe precedono di millenni le Piramidi di Giza, i santuari megalitici dell’isola di Malta, nonché lo stesso sito neolitico di Stonehenge, datato al 2500 a.C.) suggeriscono, per la comprensione di quel «passaggio di epoche», una prospettiva completamente nuova, rivoluzionaria. Quelle immagini, mute eppure cosí elo72 a r c h e o
quenti, scolpite nei monumentali circoli di pietra, parlano di potere e predominio, di stratificazione sociale, di capacità organizzativa, di ideologia e di religione; implicano la presenza di leader carismatici – sacerdoti, stregoni? – in grado di organizzare e gestire il potere al punto
Karahan Tepe (monti Tek Tek, provincia di Sanliurfa). Veduta dello scavo del sito neolitico (a sinistra un’immagine zenitale) con, in evidenza, i grandi circoli con strutture megalitiche e, intorno a essi, gli ambienti minori, forse da interpretare come abitazioni. 9400-8200 a.C.
Uno dei pilastri monolitici su cui si riconosce la decorazione scolpita di braccia e mani.
tale da sovrintendere alla costruzione di «luoghi di aggregazione» cosí importanti, preposti – come sembrano suggerire le piú recenti indagini nel sito – a una forma di venerazione o culto degli antenati. Il dato piú sconvolgente, però, è che tutto ciò si verificò verso la fine del X millennio a.C., al termine dell’era glaciale, protagonista una società di cacciatori paleolitici che non conosceva ancora la ceramica, né l’agricoltura e che, fino a ieri, immaginavamo inesorabilmente «primitiva», incapace di pensare ad altro che non fosse il quotidiano sostentamento fisico. Grazie al quadro proposto da Childe, ci eravamo abituati a pensare le prime comunità di agricoltori del Vicino Oriente antico come società statiche, egualitarie, quasi «comunistiche», nelle quali la stratificazione sociale stentava ad affermarsi, per palesarsi solo dopo millenni, con l’arrivo delle tecnologie dei metalli, dell’accumulo produttivo e delle prime forme di contabilità e di scrittura. Invece le cose, con ogni probabilità, andarono diversamente: i monumenti di Göbekli Tepe, infatti, sono il risultato di una volontà e di uno sforzo collettivi fino a ieri inimmaginabili se riferiti a una popolazione di «semplici» cacciatori-raccoglitori vissuti 12 000 anni fa…
INCONTRI RAVVICINATI Oggi Göbekli Tepe è un sito UNESCO, protetto da una tensostruttura dall’aspetto avveniristico e aperto al pubblico. Un centro visite accoglie i turisti, passerelle in legno circondano l’intero complesso dei quattro circoli, consentendone la vista «dall’alto». A chi, invece, voglia sperimentare un incontro piú ravvicinato con le misteriose stele scolpite – e piú evocativo delle vicende che nel sito dovettero svolgersi 12 000 anni fa – suggeriamo la visita al nuovo Museo Archeologico di Urfa, inaugurato nel 2015. Allestito secondo un rigoroso criterio croa r c h e o 73
REPORTAGE • TURCHIA
nologico (dalla preistoria al periodo islamico), il museo dedica un’intera sala alla ricostruzione, in scala 1:1, del circolo D (il meglio conservato) di Göbekli Tepe: camminando tra le stele, come lo fecero i loro costruttori e primi frequentatori, aggiunge una percezione intuitiva di quei straordinari manufatti di indubbia efficacia (vedi box alle pp. 70-71). La visita al museo di Urfa, però, as74 a r c h e o
solve a un ulteriore, fondamentale compito. Senza voler togliere nulla alla legittima suggestione suscitata nell’immaginario occidentale dall’«unicità» della scoperta di Schmidt, altri reperti esposti rivelano al visitatore una realtà ancora piú sorprendente. Göbekli Tepe, ecco la rivelazione a cui abbiamo già avuto modo di accennare (vedi ancora «Archeo» n. 279, maggio 2008), non
è sola. In un’apposita sala del nuovo museo possiamo ammirare la ricostruzione – questa volta però mediante l’impiego dei materiali originali – di un altro, coevo sito neolitico, caratterizzato dalla presenza di stele megalitiche: quello di Nevali Çori («la valle della peste»), una cinquantina di chilometri a nordovest di Göbekli Tepe. Il sito fu scoperto già nel 1979 e indagato
sistematicamente dagli archeologi Adnan Misir e Harald Hauptmann a partire dal 1983. Le stele e altri reperti scultori del sito – destinato ad essere sommerso, a partire dall’inverno del 1991/92, dalle acque del lago Atatürk, l’invaso artificiale creato con la grande diga sull’Eufrate – vennero asportati dal luogo d’origine e sono oggi ricomposti nel museo. A Nevali Çori, dunque, spetta il primato nell’avventurosa storia – in ampia parte ancora da
scrivere, come vedremo – dell’archeologia delle Hilly Flanks, le «propaggini collinose», termine con il quale gli studiosi Robert e Linda Braidwood hanno chiamato il brullo territorio montagnoso che chiude il margine settentrionale della Mezzaluna Fertile, noto anche con la denominazione turca di Tas Tepeler, le «colline di pietra». A guidarci nella piú recente sezione del museo di Urfa è l’archeologo Necmi Karul, professore dell’Uni-
Sulle due pagine: l’ambiente denominato Struttura AB, adiacente alla principale Struttura AD di Karahan Tepe, caratterizzato dalla presenza di dieci pilastri a forma di fallo, interamente scavati nella roccia, e da una scultura, sulla parete ovest dell’ambiente, raffigurante una testa umana. A destra: l’archeologo Necmi Karul a Karahan Tepe. a r c h e o 75
REPORTAGE • TURCHIA
versità di Istanbul e ideale prosecutore del lavoro svolto dallo scopritore di Göbekli Tepe, Klaus Schmidt, prematuramente scomparso nel 2014. Passiamo velocemente accanto all’enigmatica scultura che introduce il percorso museale, raffigurante un personaggio dallo sguardo fisso e le mani giunte. Il manufatto fu scoperto nel 1993, in quattro pezzi, durante lavori stradali a nord del laghetto sacro della città. Datato al 9000 a.C. circa, all’età del Neolitico preceramico, è contem-
poraneo a Nevali Çori e alla «collina panciuta»: l’«Uomo di Urfa» è considerata la piú antica rappresentazione a grandezza naturale di un essere umano a oggi nota.
LE ULTIME SCOPERTE Arriviamo alle sale appena allestite del museo, dedicate interamente alle ultime scoperte effettuate da Karul nel sito di Karahan Tepe, una delle tante colline di pietra calcare ed erose dalle intemperie, facenti parte (come il sito gemello di
L’ingresso al sito di Karahan Tepe e alcune immagini del circostante paesaggio dei monti Tek Tek. Un nuovo progetto di ricerca, chiamato Tas Tepeler (colline di pietra), prevede lo scavo di altri 7 siti neolitici individuati nell’area.
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Göbekli Tepe, da cui dista una quarantina di chilometri a est) della catena dei monti Tek Tek nelle «propaggini collinose». Il professor Karul si sofferma su alcune grandi sculture esposte, rinvenute nella struttura principale di Karahan Tepe: quella di una persona con, sulle spalle, un grande felino, in apparenza vivo; la scultura a tutto tondo di due teste umane affiancate (in origine facenti parte, forse, di un unico corpo); una stele munita di lunghe braccia ai lati (come quelle di Göbekli Tepe) e con l’immagine di due volpi che si affrontano… Con Karahan Tepe ci troviamo, davvero, di fronte a una seconda «collina panciuta»? «Le datazioni al radiocarbonio di cui disponiamo – spiega Karul, mentre guidiamo in direzione dei monti Tek Tek – sono ancora poche, ma abbiamo la certezza che Karahan Tepe, la cui struttura piú antica risale al 9400 a.C., è contemporanea a Göbekli Tepe». Dopo un’ora di viaggio arriviamo sul sito. Un forte vento spazza la collina, la luce plumbea del cielo esalta il colore ocra del terreno appena scavato. «Abbiamo iniziato le indagini nel 2019, l’area esplorata a oggi è di circa 2500 mq» specifica Karul, mentre illustra i monumenti emersi dopo un sonno durato circa 8000 anni. Per circa duemila anni, infatti, queste strutture furono in
uso, ma poi «vennero intenzionalmente interrate, riempite di pietrisco e ricoperte». I segni dell’interramento sono ancora evidenti nella struttura piú grande del sito, denominata AD, un circolo del diametro di circa 23 m, di dimensioni simili al Circolo D di Göbekli Tepe. Panchine di pietra, ottenute mediante il riutilizzo di stele appartenute a una struttura precedente (una di esse riporta l’immagine di un felino, forse un leopardo) ne segnano il perimetro, a sua volta intervallato da stele. In origine, al centro erano posti due grandi pilastri affrontati.
L’UOMO-SERPENTE Immediatamente adiacente alla struttura AD, un passaggio a gradini raggiunge un secondo edificio, dalle caratteristiche questa volta uniche: all’interno di uno spazio ovale, di 6 x 8 m, si ergono dieci pilastri a forma di fallo, interamente scavati nella roccia. Su una parete della struttura, affacciata sulle stele, appare l’immagine di un volto umano, verosimilmente maschile, a giudicare da quella che potrebbe sembrare una barba triangolare sotto il mento. Si tratta della parte terminale di un corpo di serpente, del quale si riconoscono ancora alcuni tratti scolpiti in orizzontale lungo la parete. «Sappiamo che anche questo edificio venne interrato e ricoperto», commenta
Karul mentre ci segnala una serie di piccoli ambienti circolari, articolati intorno alla grande struttura AB: «Ancora non conosciamo la funzione esatta di queste strutture – prosegue Karul –, né il rapporto cronologico che le lega agli edifici maggiori. Se dovessero risultare contemporanee a esse, potrebbe trattarsi delle abitazioni delle persone che costruirono il complesso». Il sole sta calando e dobbiamo lasciare Karahan Tepe. Prima di salutarci, il professor Karul ci conferma che un progetto del Ministero della Cultura Turco, denominato Tas Tepeler, le «colline di pietra», prevede l’esplorazione di altri sette siti neolitici sparsi nelle propaggini collinose a suo tempo indagate dai coniugi Braidwood. È molto verosimile,
dunque, che presto ci troveremo confrontati con altre enigmatiche scoperte. Ma sapremo mai, ci chiediamo mentre riprendiamo la via per Urfa, cosa esattamente si svolgeva in quei luoghi cosí pieni di simboli e messaggi nascosti? Con l’inquietante immag ine dell’uomo-serpente ancora viva negli occhi ritornano in mente le parole del grande paleontologo André Leroi-Gourhan: mettendo in guardia gli studiosi dal proiettare sulle manifestazioni della spiritualità preistorica le proprie convinzioni, aveva affermato che «la preistoria è una specie di colosso dalla testa d’argilla, la cui fragilità si accentua man mano che dalla terra si risale verso il cervello». (1 – continua)
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SCOPERTE • CAPESTRANO
DUE FRATELLI E MOLTI MISTERI
IL CELEBRE «GUERRIERO DI CAPESTRANO» FU SCOPERTO NEL 1934 E, DA ALLORA, RAPPRESENTA IL VANTO DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI CHIETI, NONCHÉ DELL’INTERO ABRUZZO. IN QUESTE PAGINE, VINCENZO D’ERCOLE, STUDIOSO E PROFONDO CONOSCITORE DELLA REALTÀ STORICO-ARCHEOLOGICA DI QUEL TERRITORIO, RIVELA UNA SERIE DI ACCADIMENTI VERIFICATISI CONTESTUALMENTE AL FORTUITO RINVENIMENTO, MA ANCHE IN TEMPI RECENTI (E DI CUI NESSUNO AVEVA, FINO AD ORA, COLTO IL NESSO), IN GRADO DI ILLUMINARE LA STORIA DI UNA DINASTIA ITALICA DEL VI SECOLO A.C. di Vincenzo d’Ercole
G
li inizi di questa storia sono semplici: nel settembre del 1934, facendo lo scassato per le vigne in un suo terreno, il contadino di Capestrano Giuseppe Castagna trova due frammenti di una statua in pietra da allora nota come Guerriero di Capestrano. Poco dopo, nel dicembre dello stesso anno, Giovanni Annibaldi, ispettore archeologo della Regia Soprintendenza alle Antichità di Roma, allora competente per il territorio aquilano, effettua nell’area del rinvenimento del Guerriero una campagna di scavo che porta all’identificazione del copricapo della statua rinvenuta in precedenza e della porzione superiore, priva della testa, di una seconda scultura raffigurante una giovane donna (vedi foto a p. 80, in basso). Vengono inoltre portate alla luce 28 sepolture a inumazione, databili fra VII e II secolo
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a.C., e 5 a incinerazione, riferibili alla prima età imperiale, allineate con un asse stradale. La sepoltura a cui le statue sembrano fare riferimento è la numero 3, che rappresenta il centro di un tumulo di 14 m circa di diametro; all’interno Cartina dell’Abruzzo con l’ubicazione di Capestrano in evidenza. Nella pagina accanto: il Guerriero di Capestrano, statua in pietra a tutto tondo che raffigura appunto un personaggio in armi. Secondo quarto del VI sec. a.C. Chieti, Museo Archeologico Nazionale.
del tumulo erano deposte, in modo radiale, anche 11 tombe a fossa, databili fra l’età arcaica e quella ellenistica. La tomba 3 è l’unica orientata a nord; le altre del medesimo periodo guardano verso il sorgere del sole, a est; quelle piú
Marche
Alba Adriatica Tortoreto Giulianova
Teramo Monte Gorzano 2458
Roseto degli Abruzzi Pineto
Atri Città Sant’Angelo
Corno Grande 2912
L’Aquila Fossa
Lazio Monte Velino 2486
Penne Cepagatti
C es Cap e ran est no
Pescara
Francavilla al Mare San Giovanni Teatino
Chieti Ortona Lanciano
Mare Adriatico
Abruzzo Sulmona
Avezzano
Silvi Montesilvano
Vasto
Monte Amaro San Salvo 2793 Atessa
Monte Viglio 2156 Monte Greco 2285
Molise
recenti sono rivolte verso il tramonto del sole, a ovest. Ma l’orientamento verso nord non è l’unica particolarità di questa sepoltura; la tomba 3, infatti, è costituita da due fosse sepolcrali affiancate: una contiene i resti ossei di un individuo adulto con una grande spada in ferro deposta sul fianco sinistro, la seconda fossa appare piú larga e corta, è priva dei resti di un defunto e ha un ricco corredo, composto dall’equipaggiamento bellico in ferro (spada, testa di mazza, coppia di lance, calzature chiodate, rasoio) e dal servizio per il banchetto: grattugia in bronzo per insaporire le bevande, alari e spiedi in ferro per cuocere la carne, vasi in lamina di bronzo per mangiare e bere il vino contenuto nel grande dolio in ceramica.
I MITICI GEMELLI La spada effigiata sulla statua in pietra mostra due guerrieri sull’impugnatura e coppie di cavalli al galoppo sulla guardia e sul manico del coltello-cote (vedi foto a p. 84). Il riferimento mitologico ai Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce, fratelli di Elena di Sparta, sorge spontaneo. La rilevanza delle figure dei due mitici cavalieri nell’Italia centrale è testimoniata anche da Tito Livio che ne racconta il ruolo decisivo nella battaglia tra Roma e Latini combattuta agli inizi del V secolo a.C. al Lago Regillo (bacino prosciugato nel XVII secolo e la cui collocazione precisa è tuttora incerta, ma dovrebbe comunque ricadere nell’agro tuscolano, n.d.r.). Alla presenza di cavalieri ci riportano anche i tipi di armi raffigurate sul Guerriero di Capestrano e nella tomba 3 (spada
SCOPERTE • CAPESTRANO
lunga e coppia di lance corte) che mostrano come i guerrieri montati a cavallo stiano sostituendo, a partire dal VI secolo a.C., le fanterie orientalizzanti armate di lance lunghe e spade corte. Nell’estate del 1937 Annibaldi torna a scavare nella necropoli di Capestrano: l’area di indag ine si allarga verso ovest, portando alla luce altre 13 tombe a inumazione e una a incinerazione posta 4-5 m 80 a r c h e o
circa a sud dell’allineamento di urne cinerarie messe in luce nella campagna precedente. Di questa seconda campagna non esiste purtroppo pubblicazione, fatta eccezione per appunti manoscr itti conservati nell’Archivio di Stato e un riferimento in una lettera inviata il 1° luglio 1937 dal Soprintendente alle Antichità di Roma, Giuseppe Moretti, alla Direzione Generale Antichità e Belle Ar-
ti del Ministero della EducaA destra: la zione Nazionale: «Dopo pochi lettera scritta il giorni dall’inizio degli scavi si 1° luglio 1937 da sono rinvenute due basi di sta- Giuseppe Moretti; tue con piedi, della stessa pie- unico documento tra e dello stesso stile di quelli esistente sulla già rinvenuti. Una è fornita di seconda pilastri come quelli del guercampagna di riero con presumibili tracce di scavi condotta a lettere per quello di destra; la Capestrano. seconda piú piccola sembra Nella pagina dovere appartenere al torsetto accanto, in alto: il muliebre già scoperto». Guerriero di
UN APPELLO INASCOLTATO Quando, nel 1939, Giovanni Annibaldi viene incaricato di dirigere la neonata Soprintendenza alle Antichità dell’Abruzzo e del Molise, scrive alla Direzione Generale del Ministero citando il rinvenimento dei basamenti di altre due sta-
Capestrano nell’allestimento ideato dall’artista Mimmo Paladino all’interno del Museo Archeologico Nazionale di Chieti.
A sinistra: i popoli italici attestati dalle fonti nelle regioni della Sabina e del Sannio, fra i quali compaiono i Vestini. Nella pagina accanto, al centro: due immagini del copricapo del Guerriero di Capestrano. Nella pagina accanto, in basso: il torso della statua femminile rinvenuto a Capestrano in occasione del primo intervento di scavo, nel 1934. Chieti, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 81
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tue e chiede risorse e attenzione per il sito archeologico di Capestrano. Si lamenta anche degli scavi clandestini che si sono sviluppati a seguito del clamore suscitato dal premio di ritrovamento per le due statue rinvenute nel 1934. Ma ormai è tardi: la lettera viene inviata da Chieti il 4 settembre 1940 e dal 10 giugno di quell’anno l’Italia è entrata nella seconda guerra mondiale.
SCOMPARSE O DIMENTICATE? Comincia ora uno dei principali enigmi di questa storia: che fine hanno fatto i due basamenti di statue trovati nel 1937? I materiali archeologici dello stesso scavo (vasellame fittile, armi e oggetti in metallo) sono confluiti, sia pure perdendo i contesti di pertinenza, nel 1945 nelle collezioni del Museo di Villa Giulia a Roma, ma le statue, di cui non sembra esistere neanche un’immagine fotografica, sono finite, ignote e ignorate da 76 anni, in qualche anfratto del Museo Etrusco oppure sono rimaste, anche dopo la fine della guerra, prive di documentazione e memoria, nel Museo delle Terme di Diocleziano? O, ancora – ipotesi meno credibile – non hanno mai lasciato Capestrano dal loro rinvenimento nel 1937? Un secondo momento buio in questa vicenda è il 1992: in primavera, la Provincia de L’Aquila effettua lavori per la rete idrica nell’area della necropoli in conseguenza dei quali, nel mese di settembre, la Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo conduce scavi di emergenza che portano alla luce resti neolitici e tre tombe arcaiche; a dicembre, la sede di New York della casa d’aste Sotheby’s vende, per un importo di 231 000 dollari, un torsetto in pietra del tutto simile al Guerriero di Capestrano (vedi foto in queste pagine). Naturalmente, senza un esame autoptico della statua e senza adeguate analisi è impossibile esprimersi sull’eventuale autenticità del reper82 a r c h e o
to; tuttavia, le circostanze concatenate di scavi non controllati sul sito archeologico di Capestrano, rinvenimenti di sepolture arcaiche nei mesi immediatamente precedenti la comparsa del manufatto sul mercato e la relativamente cospicua quotazione raggiunta dal pezzo (con base d’asta fissata a 100 000-150 000
dollari) lasciano aperti tutti i dubbi e le possibilità. Usciamo ora dalla cronaca e vediamo quali sono i dati archeologici disponibili per questo contesto: a partire dal X secolo a.C. si configurano, nel territorio dell’attuale regione Abruzzo, una decina di entità cantonali, di quasi 1000 km2 ognu-
Un torsetto da 231 000 dollari Le foto in questa pagina e nella pagina accanto, in alto, riproducono la fronte e il retro di un torso in pietra venduto all’asta nel 1992 dalla Sotheby’s di New York: l’opera è messa a confronto con un particolare del Guerriero di Capestrano e appaiono piú che evidenti le similitudini nella lavorazione della materia prima e nella resa dei dettagli. Appare dunque lecito ipotizzare che il manufatto fosse stato trovato in occasione di scavi clandestini condotti nell’area del sito abruzzese nella primavera dello stesso anno.
na, che corrispondono, in una certa misura, ai popoli indicati dalle fonti storiche romane a partire dal IV secolo a.C. (vedi cartina a p. 81). Nell’area attualmente compresa fra L’Aquila e Capestrano si colloca il popolo dei Vestini Cismontani, oggi ben noto grazie agli scavi estensivi condotti dagli anni Novanta del secolo scorso in alcune, grandi, necropoli come Bazzano/L’Aquila, Fossa, Varranone/Poggio Picenze, Peltuinum/Prata D’Ansidonia, Colli Bianchi/San Pio delle Camere, Cinturelli/Caporciano, Navelli e Capestrano (vedi «Archeo» n. 438, agosto 2021; anche on line su issuu.com).
TERRA DI PASTORI L’economia era totalmente basata sulla pastorizia con transumanza verticale, utilizzando i pascoli estivi del Gran Sasso a nord-est e del Velino-Sirente a sud-ovest. Il territorio era puntualmente controllato da insediamenti in altura naturalmente e artificialmente difesi. La pianura centrale era utilizzata per ospitare i luoghi identitari come le monumentali «città dei morti» e i pascoli invernali che ben convivevano con le coperture erbacee dei tumuli che ne aumentavano l’estensione. A partire dal VI secolo a.C. gli elementi archeologici fra il territorio vestino montano e quello transmontano, al di là del Gran Sasso per chi viene da Roma, cioè nell’area tra Penne e Loreto Aprutino, divengono assolutamente omogenei. Questa integrazione porterà i Vestini ad ampliare le possibilità di pascoli invernali, a disporre delle saline costiere e a usufruire di uno sbocco, non solo commerciale, sul Mare Adriatico. L’interpretazione maggiormente condivisa dell’iscrizione incisa sulla statua del Guerriero di Capestrano è quella proposta da Adriano La Regina che recita: «Me bella immagine fece Aninis per il re Nevio Pompuleio (o Pompuledio)». Quale impresa piú meritevole per un re che ampliare i propri possedimenti, portana r c h e o 83
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done i confini sul Mare Mediterraneo e, quindi, obliterando qualsiasi limite territoriale? Per giunta, un re probabilmente nato, o comunque sepolto, in quella che sarà la Aufinum di età romana, posta sulla cerniera fra i Vestini montani e quelli costieri. Ma è stata opera di un singolo sovrano o di una coppia di fratelli, come farebbero supporre elementi quali il riferimento iconografico ai Dioscuri, la doppia sepoltura, la seconda statua, quella rinvenuta nel 1937 con iscrizione e ormai scomparsa?
LA SPADA DEL RE Se di due fratelli si dovesse trattare, ambedue Pompulei, il re Nevio è quello il cui corpo è stato sepolto nel VI secolo a.C. a Capestrano con solamente una spada (la spada del re parlerebbe da sola); oppure è l’altro, quello morto lontano dalla sua terra, per il quale è stato realizzato il cenotafio (monumento funerario innalzato in memoria di un personaggio illustre, ma che non ne contiene le spoglie, n.d.r.) con un corredo completo, ma deposto in maniera non funzionale. Peraltro, la consuetudine di realizzare cenotafi, nella necropoli di Capestrano risulta piuttosto diffusa, visto che, negli scavi da me condotti nel sito tra il 2003 e il 2011, sono stati documentati dieci casi su 346 sepolture portate alla luce. Si tratta, comunque, dell’unico personaggio della storia medio-adriatica precedente le guerre sannitiche (343-290 a.C.) di cui conosciamo l’epoca, il nome, la funzione e, probabilmente, anche la provenienza.
A destra: restituzione grafica della parte superiore del Guerriero di Capestrano nella quale è evidenziato il corredo di armi e accessori del re. Nella pagina accanto: il particolare dell’impugnatura della spada del Guerriero di Capestrano, sulla quale sono raffigurati due guerrieri, che potrebbero alludere ai Dioscuri. In basso: la spada, provvista di fodero, che potrebbe aver fatto parte del corredo del re Nevio Pompuleio.
Armi come quelle del Guerriero di Capestrano provano la graduale sostituzione, dal VI secolo a.C., dei guerrieri appiedati con i cavalieri a r c h e o 85
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Contemporaneamente ai fratelli Pompulei, fra l’Etruria e Roma operavano i vulcenti Celio e Aulo Vibenna, compagni d’arme del piú celebre Servio Tullio, Macstarna, sesto re di Roma, come ricordato dall’imperatore Claudio nel suo discorso tenuto al Senato nel 48 d. C. e come visibile sulle pareti dipinte della Tomba François a Vulci (metà del IV secolo a.C.; vedi foto qui sopra). All’inizio del VI secolo a.C. il gruppo di statue, verosimilmente erette sul lato esterno occidentale della crepidine del tumulo 3, doveva
comprendere le due raffigurazioni a grandezza naturale, molto simili fra loro, dei fratelli Pompulei; poi, a scalare (come i menhir di Fossa in epoca piú antica), la statua femminile e, se autentica, quella maschile venduta negli USA.
CANCELLARE IL NOME E IL RICORDO È suggestiva l’ipotesi che le due statue di minori dimensioni, poste in fondo alla fila, potrebbero rappresentare la «progenie reale» della dinastia dei Pompulei. Quello che
In alto: una delle pitture murali realizzate per la Tomba François, a Vulci, raffiguranti lotte tra eroi etruschi ed episodi e personaggi tratti dal ciclo della guerra di Troia. 350-325 a.C. Roma, Villa Albani. Da sinistra, Lars Ulthes (nome di origine chiusina) trafigge con la sua spada Laris Papathanas Velznach (di Volsinii); Rasce Vipinas (della gens dei Vibenna) uccide Pesna Arcmsnas Sveamach (di Sovana?); il falisco (?) Venthicau, caduto in ginocchio, viene afferrato da dietro e trafitto con la spada da Aule Vipinas. Nella pagina accanto, a sinistra: il Guerriero di Glauberg. V sec. a.C. Darmstadt, Hessisches Landesmuseum. Nella pagina accanto, a destra: il Guerriero di Hirschlanden. 500 a.C. circa. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum.
appare certo è che il gruppo scultoreo venisse, a un certo punto della sua storia, abbattuto e danneggiato con rabbia e violenza. Come accade anche per i suoi simili centroeuropei, quali Hirschlanden e Glauberg (vedi foto alla pagina precedente), sono evidenti gli accaniti colpi di mazza inferti e concentrati sulle caviglie delle figure maschili per procurarne il conseguente crollo e, nel caso del Guerriero di Capestrano, la volontà di obliterare il nome (abolitio nominis) del re defunto, colpendo l’iscrizione in una vera e propria damnatio memoriae. Il Re è morto! In ambiente medio adriatico un cambio di regime politico e sociale cosí forte, sentito e generalizzato, può essere ipotizzato solo con il passaggio fra i regimi monarchici precedenti e le repubbliche con cariche elettive, avvenuto verosimilmente nel corso del V secolo, forse non molto tempo dopo la data tradizionale (509 a.C.) della cacciata dei re etruschi da Roma. a r c h e o 87
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UN VENEZIANO
«PRINCIPE DEL FORO» CHI FU VERAMENTE L’ARTEFICE DI SCOPERTE TRA LE PIÚ IMPORTANTI MAI COMPIUTE NELL’AREA ARCHEOLOGICA CENTRALE DI ROMA? UNA GRANDE MOSTRA RIEVOCA LA STRAORDINARIA VITA DI GIACOMO BONI, TRA INNOVAZIONE SCIENTIFICA, ESOTERISMO E CULTO DELLA PERSONALITÀ di Stefano Mammini
In alto: Giacomo Boni posa accanto a una delle tombe del sepolcreto arcaico da lui scoperto nei pressi del tempio di Antonino e Faustina. A sinistra, sulle due pagine: una veduta del Foro Romano.
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er definizione, l’archeologia mira alla ricostruzione della storia delle civiltà antiche e ci si potrebbe allora chiedere perché la mostra dedicata dal Parco archeologico del Colosseo a Giacomo Boni abbia come sottotitolo «L’alba della modernità». La risposta giunge immediata fin dalla prima tappa del percorso – che si articola tra Foro Romano e Palatino ed è descritto in maniera piú analitica nella seconda parte di questo Speciale (vedi alle pp. 106-109) –, poiché subito emerge il tratto distintivo dell’operato di Boni, il quale, chiamato a guidare gli scavi del Foro, ebbe l’intuizione di applicare, con dea r c h e o 89
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cenni di anticipo su quella che sarebbe poi divenuta una prassi abituale e consolidata: il metodo dell’indagine stratigrafica, affiancato dalla documentazione sistematica dei contesti e dalla considerazione di ogni tipo di reperto che la terra poteva restituire. Un approccio che l’esposizione documenta in maniera puntuale e che altrettanto puntualmente fu illustrato dallo stesso Boni
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nell’articolo Il metodo negli scavi archeologici, pubblicato nel 1901 sulla rivista Nuova Antologia. Uno scritto breve, ripreso in forma piú ampia nel 1913 (vedi box alle pp. 94-97) e che ancora oggi indica con estrema chiarezza la via scelta da colui che arrivò a essere definito il «principe del Foro», senza nel suo caso sottintendere la frequentazione delle aule di giustizia.
Sulle due pagine: il Palazzo Ducale di Venezia prima dei restauri, con alcune delle arcate ancora occluse.
Giacomo Boni nacque a Venezia il 25 aprile del 1859 e crebbe dunque in anni cruciali: dopo che, dieci anni prima, la breve parabola della Repubblica di San Marco era stata stroncata dall’Austria, si avvicinava la svolta impressa dalla terza guerra d’indipendenza, all’indomani della quale, nel 1866, il Veneto fu annesso al neonato Regno d’Italia. Un anno piú tardi, Giacomo rimase orfano del padre e l’evento ebbe un peso decisivo nella sua formazione, poiché, appena tredicenne, dovette abbandonare gli studi regolari e sua madre si adoperò affinché venisse assunto come assistente disegnatore presso l’impresa edile di cui era titolare l’ingegner Sebastiano Cadel, un amico di famiglia.
In basso, a destra: il Palazzo Ducale di Venezia cosí come si presenta oggi.
Vista, sezione e pianta del campanile di S. Marco prima del crollo del 1902, tavola di Dionisio Moretti per La Piazza di San Marco in Venezia di Antonio Quadri. 1831.
LA FORMAZIONE SUL CAMPO Il precoce avviamento al lavoro permise a Boni di respirare l’atmosfera dei cantieri ed egli stesso avrebbe piú tardi rivendicato l’importanza di quella gavetta, che l’aveva portato, ancora ragazzo, ad apprendere nozioni di carpenteria, restauro ed edilizia, che considerava perfino piú preziose di una cultura fondata soltanto sullo studio di libri e manuali. Non per questo, in ogni caso, smise di studiare, sia come autodidatta, sia frequentando il Regio Istituto Industriale e Professionale, presso il quale conseguí il diploma in stenografia, dedicandosi anche all’apprendimento della lingua inglese. Nel 1879 Cadel raccomandò Boni ad Annibale Forcellini, architetto al quale era stato
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affidato il cantiere di restauro di Palazzo Ducale, e per il futuro scavatore del Foro il nuovo incarico fu un trampolino di lancio. Oltre ad avere l’opportunità di far valere le proprie doti di disegnatore – pratica per la quale ave-
va mostrato un talento precocissimo –, Boni poté infatti mettere a frutto le esperienze maturate negli anni precedenti e, soprattutto, entrare in contatto con lo scrittore e critico (segue a p. 98)
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Nella pagina accanto, in alto: i resti del Lapis Niger subito dopo essere stati riportati alla luce. La scoperta ebbe luogo nel gennaio del 1899 e fu una delle piú importanti fra quelle di cui Giacomo Boni fu artefice. In alto: veduta del Foro Romano cosí come si presentava prima degli scavi avviati dalla fine dell’Ottocento. A sinistra, sulle due pagine: planimetria del Foro Romano, con l’indicazione dei monumenti principali, la cui conoscenza fu considerevolmente accresciuta dalle scoperte e dalle ricerche di Boni: 1. Portico degli Dèi Consenti; 2. Tempio di Vespasiano; 3. Tempio della Concordia; 4. Arco di Settimio Severo; 5. Ara di Saturno e Umbilicus Urbis; 6. Rostra di epoca cesariano-augustea; 7. Tempio di Saturno; 8. Lapis Niger; 9. Colonna di Foca; 10. Basilica Giulia; 11. Lacus Curtius; 12. Curia Iulia; 13. Equus Domitiani (monumento equestre di Domiziano); 14. Rostra del tempio del Divo Giulio; 15. Porticus Iulia; 16. Basilica Emilia; 17. Tempio dei Castori; 18. Fonte Giuturna; 19. Tempio di Vesta; 20. Tempio del Divo Giulio; 21. Regia; 22. Tempio di Antonino e Faustina; 23. Casa delle Vestali; 24. Domus Publica; 25. Tempio di Romolo; 26. Basilica di Massenzio; 27. Arco di Tito; 28. S. Francesca Romana; 29. Tempio di Venere e Roma.
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UNA QUESTIONE DI METODO Porta la data del 1901 Il metodo negli scavi archeologici, vero e proprio manifesto dei criteri ai quali Giacomo Boni si attenne nel corso della sua attività di archeologo. In forma ampliata, il testo fu ripubblicato nel 1913, sul Bollettino d’Arte, con il titolo Il «metodo» nelle esplorazioni archeologiche. Eccone alcuni dei passaggi piú significativi. Cosí esordisce l’archeologo veneziano: «Le tenebre che il tempo addensa sulle memorie del passato diventano piú fitte ed impenetrabili per chi presume rischiararle di un tratto col lume artificiale del proprio sapere; vede dinnanzi a sè fantasmi immaginari e li prende per realtà; si sente allettato dalla facilità di generalizzare osservazioni parziali, basate talvolta sopra definizioni incerte, e va allontanandosi sempre piú dal raziocinio e si smarrisce. Mentre chi si occupa di uno studio con intensità e si accosta umilmente all’ignoto cercando la verità, non la conferma di preconcetti, vive a poco a poco nell’ambiente sconosciuto, si avvezza alla penombra, intravede, distingue, tocca con mano, non si stanca di raccogliere dati positivi ed elementi di critica, ne nutrisce il proprio cervello, che li elabora da sè e gli offre, forse istintivamente, già risoluto un problema, o gli indica dove compiere un’esplorazione decisiva per risolverlo». E, piú avanti: «Se in tutte le ricerche scientifiche è necessario procedere con un metodo ben determinato, lo è molto piú in questi scavi (il riferimento è alle indagini nella valle del Foro, n.d.r.), sia per la diversa natura dei monumenti da investigare e la confusa tradizione dei piú antichi fra essi, sia per la molteplicità e la compenetrazione degli strati, rappresentanti oltre a venti secoli di vita dei progenitori 94 a r c h e o
Sulle due pagine: esempi della accurata documentazione grafica e fotografica che Giacomo Boni raccolse nel corso delle sue indagini. Si tratta, in questo caso, di sezioni e planimetrie riferibili al sepolcreto arcaico e si può osservare come all’archeologo veneziano fosse chiara l’importanza di procedere in funzione della stratigrafia.
nostri, e sia finalmente per le difficoltà del terreno in piú guise accidentato». E ancora: «Coloro i quali consacrano la vita a fare dell’archeologia una scienza, sanno quanto un fatto valga piú di cento supposte teorie, e come queste siano maggiormente sospette quanto piú sono difese. Non si neghi per ciò l’ausilio della ricostruzione congetturale». Se, fin qui, s’intuisce, almeno in parte, la vena «esoterica» a cui Boni fu piú volte accusato d’indulgere, piú oltre vengono elencate raccomandazioni di carattere metodologico ancora oggi pienamente condivisibili. Appare, per esempio, lampante l’intuizione di quale importanza potessero avere gli scavi condotti in estensione, che si poneva in netta discontinuità con i criteri adottati nei grandi sterri che avevano interessato la stessa Roma,
all’indomani della sua proclamazione a capitale d’Italia: «Per riconoscere la parte sepolta od i fondamenti di antichi ruderi, va iniziata l’indagine con piccoli scavi laterali. Incontrando altri ruderi, va proseguita l’esplorazione in senso orizzontale, sino a trovarne il limite, e continuata allora la discesa fino al terreno vergine. Le sezioni giovano a ben determinare il numero e la qualità degli strati da esplorare, nonché il carattere dei materiali componenti ogni singolo strato, e questa conoscenza è di sommo aiuto quando lo scavo deve poi farsi su vasta scala. È consigliabile utilizzare, se possibile, per le esplorazioni iniziali, le fosse derivanti sia scavi precedenti, nel qual caso bisogna ripulire in senso verticale le pareti, finché la stratificazione del terreno apparisca. (…) Giova esaurire, per
quanto è possibile, l’esplorazione di uno strato; di allontanare dall’orlo dello scavo le terre smosse e i frammenti diversi che potrebbero generare confusione, e di non passare al taglio di uno strato inferiore senza averne prima raschiato e diligentemente spazzolato la superficie o averla lavata con una spugna. Di ciascuno strato vanno scomposte le zolle e separati i materiali caratteristici, mediante accurata tritatura, vagliatura asciutta o lavaggio fatto col crivello (apparecchio che serve a dividere, in due o piú classi di pezzatura, materiale incoerente in frammenti o in polvere, n.d.r.) entro una tinozza d’acqua, avvolgendo in carta solida i frammentini piú minuti e chiudendoli in speciali cassette con tutte le indicazioni topografiche ed altimetriche necessarie. Ogni serie di queste cassette rappresenta
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SPECIALE • ROMA In basso: Giacomo Boni al suo tavolo di lavoro. Nella pagina accanto: il sepolcreto arcaico del Foro in corso di scavo. Le indagini portarono alla scoperta di 41 tombe, collocabili fra la prima età del Ferro (X sec. a.C. circa) e il VI-V sec. a.C., per le quali risultò attestato sia il rito dell’incinerazione che quello dell’inumazione.
un’opera in più volumi e il complesso della serie costituisce l’archivio stratigrafico dell’esplorazione compiuta». «L’analisi, le fotografie ed i rilievi grafici documentano ed illustrano ogni particolare del terreno esplorato, ed offrono una base severamente scientifica per stabilire l’ordine cronologico nel raggruppamento e successione di questo insigne sepolcreto latino (con riferimento alla necropoli
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arcaica scoperta presso il tempio di Antonino e Faustina, n.d.r.)». «L’analisi stratigrafica, giunta che sia a far conoscere i materiali di cui gli abitatori primitivi di un territorio potevano disporre, offre il primo dato per separare gli elementi tradizionali e gli evolutivi secondo l’impiego fattone; offre il mezzo di conoscere l’età di ogni strato che inviluppa e porta i monumenti tornati in luce, e di servirsene come scala nel tempo. Ripetuta in punti tipici, fornisce
materiali statistici la cui natura non muta ripetendo le analisi all’infinito. Distingue l’accidente passeggero dal fatto assiduo della vita di un popolo che, vivendo per secoli ad un determinato livello d’una determinata località della crosta terrestre, non può a meno di lasciarvi qualche orma, nei successivi rialzamenti del terreno, nelle colmature dei pozzi o delle cloache». Non manca un ampio paragrafo
dedicato alla conservazione «dei ruderi ed oggetti di scavo»: «Norma precipua dell’esploratore sia quella di rispettare l’autenticità delle cose scavate. L’autenticità non costituisce il pregio principale dei monumenti, ma è condizione necessaria di ogni pregio che essi possono avere. Le cose rimaste sepolte per secoli si presentano al momento dello scavo in stato di conservazione apparentemente mirabile, ma hanno subìto nel loro più intimo organismo alterazioni che ne affrettano il disgregamento. E per tal motivo anche chi è già pratico
del modo di comportarsi dei materiali e delle strutture rimaste per secoli esposte alle intemperie, si trova disorientato quando ha da provvedere alla conservazione di ruderi od oggetti di scavo. Molti sono i materiali adoperati dagli antichi, molte sono le strutture nelle quali li troviamo combinati; svariatissime le cause che hanno alterato, in modo quasi mai uniforme, la loro compagine; piú svariati ancora i mezzi adottati per arrestare o rallentare il progressivo deterioramento delle opere monumentali».
E infine, a riprova di come Boni prendesse in considerazione ogni tipologia di reperti, si legge: «La conservazione degli oggetti rinvenuti negli scavi archeologici va considerata in rapporto ai diversi materiali che l’indagine stratigrafica rimette in luce e che vanno man mano raggruppati e classificati». Indicazione alla quale seguono specifiche raccomandazioni per: «intonachi e stucchi dipinti, sculture in marmo, terrecotte, ferro, rame e bronzo, argento, oro, vetri, legnami ed avanzi vegetali, ossa ed avanzi animali». a r c h e o 97
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d’arte John Ruskin e altri studiosi inglesi che in quegli anni si erano interessati agli interventi di restauro promossi a Venezia con l’intento di rinnovarne il tessuto urbanistico e ridisegnare l’aspetto di molti dei suoi monumenti. Di fatto, la laguna divenne teatro dello scontro fra chi – sulla scia delle esperienze condotte in Francia da Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc – sosteneva la necessità di ripristinare e, se necessario, completare con ricostruzioni moderne gli antichi edifici e chi, invece, come Ruskin e poi Boni, riven98 a r c h e o
Veduta da pallone frenato dell’area occidentale del Foro Romano. Si riconoscono, fra gli altri l’arco di Settimio Severo (1), la colonna di Foca (2), la basilica Giulia (3) e il tempio di Saturno (4).
dicava il dovere di conservare l’autenticità del manufatto e il suo carattere storico.
UN RAPPORTO PRIVILEGIATO Negli anni successivi, oltre all’iscrizione all’Accademia di Belle Arti nel 1880, l’attività di Giacomo Boni si fece particolarmente intensa e all’impegno sul campo si affiancò la pubblicazione di articoli e di veri e propri saggi, sempre incentrati sul restauro dei monumenti e sulle scelte metodologiche alle quali esso doveva sottostare, che, nella visione
A destra: Giacomo Boni osserva le rovine del campanile veneziano di S. Marco, crollato nel 1902. In basso: la copertina che la Domenica del Corriere dedicò all’evento. Boni fu chiamato d’urgenza a dirigere i lavori di messa in sicurezza e sgombero dei resti del monumento.
di Boni, s’inserivano nella scia di quanto già teorizzato da Ruskin e da altri inglesi, riflesso del sempre piú stretto rapporto con il mondo anglosassone, che l’aveva peraltro gratificato con la nomina, nel 1885, a socio corrispondente del Royal Institute of British Architects. In quello stesso 1885, Boni condusse il suo primo intervento di carattere archeologico: ebbe infatti l’occasione di indagare stratigraficamente le fondazioni del campanile di S. Marco e di altri antichi edifici veneziani. Tuttavia, l’impegno profuso in quegli anni fu tanto incessante quanto insoddisfacente, soprattutto per la sostanziale precarietà della posizione professionale, cosicché Boni s’impegnò a cercare aiuti e appoggi capaci di proiettarlo in una dimensione piú stabile e onorevole: l’operazione si risolse positivamente nel 1888, quando, grazie ai buoni uffici di Carlo Alberto Pisani Dossi e Primo Levi, l’allora ministro dell’Istruzione, Paolo Boselli, si interessò al suo caso e lo fece trasferire a Roma, ottenendone l’inserimento nei quadri del suo dicastero. Come scrisse egli a r c h e o 99
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MAGO, PROFETA, COMMENDATORE... La notorietà di Giacomo Boni andò ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori, anche perché, come ha osservato Alessio De Cristofaro, «Col trasferimento della residenza del Boni sul Palatino, l’area archeologica centrale diventa una sorta di salotto en plein air della cultura europea; spigolando tra le carte del Boni, si resta impressionati dal numero e dalla qualità dei visitatori coi quali Boni ha consuetudine o intrattiene rapporti di ospitalità, facendosi cicerone e padrone di casa amatissimo» (da: Un archeologo simbolista: Giacomo Boni da Venezia, in Medietrranea, XIV, 2017). Ecco dunque una piccola antologia di alcuni dei giudizi e dei commenti piú celebri: Benedetto Croce disse che «il Boni prese aspetto di mago e di veggente, là, su quelle antiche pietre, il mago del Foro, l’eremita del Palatino, come egli stesso finí col chiamarsi» e annotò anche che «sue zelanti ammiratrici di ogni parte del mondo venivano in pellegrinaggio nel Foro e sul Palatino»; la grande attrice Eleonora Duse lo definí «profeta della vita civile»; per lo scrittore e giornalista Ugo Ojetti era
stesso, Boni lasciava la «città madre» per la «città nonna» e, nei dieci anni successivi, si dedicò con rinnovata energia all’ispezione dei monumenti antichi, soprattutto medievali e con un’attenzione particolare per quelli dell’Italia meridionale. Altrettanto importanti furono le proposte avanzate in materia di norme per la conservazione e il restauro oppure al fine di creare istituti per la catalogazione dei beni e la loro documentazione fotografica. Nel luglio del 1898, su proposta del ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli, Giacomo Boni ricevette l’incarico di direttore dell’Ufficio Scavi del Foro Romano. Il fine originario della scelta, in realtà, era quello di ottenere il riordino dei materiali scavati negli anni precedenti – nell’area forense, tra il 1877 e il 1884, era già intervenuto Rodolfo Lanciani, l’archeologo che, per inciso, guardò sempre con astio e disistima a Boni –, ma presto si estese alla conduzione di nuove esplorazioni, fortemente volute e sostenute dallo stesso ministro Baccelli. Soprattutto nei primi anni di attività, le ricerche furono premiate da risultati sensazionali: (segue a p. 104) 100 a r c h e o
«uno degli uomini piú singolari e affascinanti di questo secolo»; Sibilla Aleramo, scrittrice e poetessa, che ne divenne amica, cosí lo ricordava: «Ed ecco mi assale il ricordo della testa rosso argentea di Giacomo Boni, quando lo conobbi e frequentai: sano, diritto, bellissimo… la giovane donna purissima ch’io ero subiva il fascino di quella chiara e intensa bellezza e Boni doveva saperlo… che mi sorrideva silenzioso come un mago nimbato di mistero». È lecito immaginare che l’interessato, oltre a essere consapevole di simili entusiasmi ne fosse anche lusingato, ma certo non doveva mancare d’ironia, come quando annotò: «Pare che la Tomba di Romolo mi abbia ringiovanito, perché ieri sera la contessa Ersilia Caetani Lovatelli mi diceva: “cosí giovane e già cosí commendatore”». Decisamente piú asciutto il ricordo dello scrittore John Dos Passos, testimone della visita del Foro Romano organizzata nel 1919 per il presidente degli USA Thomas Woodrow
Wilson: «Un ometto coi baffi indicava le rovine del Tempio di Romolo al presidente americano Wilson». In tempi piú recenti cadde su di lui il pesante giudizio di Ranuccio Bianchi Bandinelli, che, nella Prefazione all’edizione italiana di Civiltà sepolte (1955) di C.W. Ceram, lamentando la poca considerazione di cui gli archeologi avevano sempre goduto in Italia anche per l’assenza di personaggi capaci di «colpire l’attenzione di un vasto pubblico», aggiunse: «L’unico nome che ebbe risonanza fu quello di Giacomo Boni, che fu, soprattutto, un retore, e la cui opera scientifica si è ridotta a nulla in pochi anni». Senza dubbio Boni aveva proposto teorie e ricostruzioni storiche lontane dalla visione e dall’ideologia dello studioso senese, ma va detto che quelle parole hanno a lungo frenato la rivalutazione di una vicenda decisiva nella storia dell’archeologia, a cui la mostra realizzata dal Parco archeologico del Colosseo ha ora offerto un contributo significativo.
Nella pagina accanto, in alto: Giacomo Boni, lo scrittore e drammaturgo Maksim Gor´kij, lo scrittore Giovanni Cena e l’attrice Marija Andreeva sotto l’Arco di Tito. 1907.
Nella pagina accanto, in basso: La contessa Anna de Noailles, olio su tela di Philip Alexius de Laszlo. 1913. Parigi, Musée d’Orsay.
A destra: Giacomo Boni, di spalle, illustra a Vittorio Emanuele III, al principe ereditario Guglielmo di Prussia e alla consorte Cecilia di MeclemburgoSchwerin (a Roma per il 50° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia) i Plutei di Traiano, scoperti da Rodolfo Lanciani nel 1872 e ancora collocati in mezzo alla piazza del Foro. 1911.
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SPECIALE • ROMA
UN’IDEA LUNGA UN SECOLO Il Parco archeologico del Colosseo, creato nel 2017 quale istituto autonomo del Ministero della Cultura, coincide con l’area già definita dall’accordo stipulato il 21 aprile 2015 tra l’allora Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e Roma Capitale l’«insieme per l’area archeologica urbana piú importante del mondo e finalizzato alla costituzione del Consorzio per i Fori di Roma»: un’unica cabina di regia per coordinare le attività di valorizzazione dell’area archeologica centrale di Roma, estesa settantasette ettari e comprendente straordinari complessi monumentali quali il Colosseo, il Foro Romano, il Palatino e la Domus Aurea, oltre ai Fori Imperiali. Una storia recente, dunque, che si rifà a un’idea remota, quella di costituire un parco nell’area archeologica centrale di Roma, che trova i suoi presupposti già agli inizi del XIX secolo e si articola con una serie di progetti realizzati, in modo discontinuo, nei due secoli successivi. L’aspetto con il quale oggi si presentano le aree monumentali del Parco è, dunque, il risultato di una serie progressiva di interventi, spesso non coordinati, quale conseguenza della diversa
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visione di coloro che, nel corso del tempo, sono intervenuti sull’area. E, in questo senso, una delle figure di maggior spicco è rappresentata da Giacomo Boni, architetto e archeologo, che ha dedicato gran parte della sua attività tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento alle ricerche archeologiche e ai progetti di «valorizzazione» (adottando un termine attuale) nell’area archeologica centrale di Roma. Studioso eclettico, al centro di un confronto costante con i principali intellettuali italiani ed europei sui temi della tutela e del recupero del patrimonio culturale, e negli anni della formazione in rapporto particolarmente intenso con John Ruskin (da cui derivarono le sue teorie su un restauro che dovesse essere prettamente conservativo), Giacomo Boni, nella sua attività, affronta, con una modernità di pensiero e in maniera sistematica, i problemi della gestione del patrimonio culturale, cosí come ben
sintetizzato da Myriam Pilutti Namer nelle pagine del suo volume: «un sano rapporto tra cura, fruizione (per la quale sono necessarie forme di promozione che mettano in relazione i beni culturali conservati al tempo presente) e proprietà privata; la necessità di conoscere e comunicare il patrimonio ad un vasto pubblico; il bisogno di elaborare progetti di scavo che seguissero il sito interessato dal primo colpo di vanga all’apertura ai visitatori; una ragionevole gestione economica capace di coniugare lavoro retribuito, volontariato e donazioni; la concezione del museo come strumento anziché fine; la progettazione di parchi archeologici e la manutenzione del verde» (da: Giacomo Boni. Storia memoria archeonomia, Roma 2019). Alla base del suo pensiero vi era la necessità di predisporre un regolamento puntuale a tutela del patrimonio culturale, che avesse, quale necessario complemento, un censimento di tutti i beni da tutelare.
A sinistra: prospetto del Lapis Niger e dell’area sacra ipogea disegnato da Guido Cirilli. 1899. Nella pagina accanto: Alfonsina Russo, direttore del PArCo. In basso: i resti dell’edificio identificato con la Regia.
E in questo senso si adopera, durante il suo incarico come ispettore ai musei, gallerie, scavi presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione (1888–1898), affinché venga redatto un catalogo dei monumenti e venga istituito un gabinetto fotografico, nel convincimento che, per completezza
di documentazione, le schede cartacee dei beni da tutelare debbano essere accompagnate da un’adeguata documentazione. Quando nel 1898 assume la direzione dell’Ufficio Scavi del Foro Romano (cui si aggiunge nel 1907 la direzione del Palatino) avvia importanti ed estese ricerche, del tutto innovative in quanto condotte per la prima volta
con il metodo dello scavo stratigrafico e documentate anche con l’utilizzo del pallone frenato e del dirigibile (le prime esperienze di aerofotografia in ambito archeologico); ricerche che riguardarono alcuni tra i piú importanti monumenti dell’area archeologica centrale (Tempio di Cesare, Tempio di Vesta, Tempio di Antonino e Faustina, Arco di Settimio Severo, area del Comizio, scavo della Regia, Horrea Agrippiana, Sepolcreto arcaico e il cosiddetto Carcere sul fianco della Via Sacra, presso il Tempio di Antonino e Faustina) e portarono, tra l’altro, all’eccezionale scoperta, nel 1899, del Lapis Niger. A lui si deve anche l’immagine, ormai storicizzata, del Foro Romano e del Palatino, caratterizzata da un’integrazione di grande fascino ed estremamente armonica tra strutture archeologiche ed elementi naturalistici. E l’armonia che questi luoghi unici dell’antichità offrono ancora oggi ai visitatori è il risultato della meticolosa e appassionata attenzione di Giacomo Boni, nella progettazione del verde, che ha come presupposto lo studio dei resti vegetali rinvenuti nel corso degli scavi e la selezione di piante attestate, in età romana, dalle fonti sia letterarie che artistiche. Per tutti questi motivi, a quasi cento anni dalla sua morte, è sembrato doveroso ricordarne la figura, quale precursore illuminato della missione oggi affidata al Parco archeologico del Colosseo, a conclusione di un succedersi di eventi di almeno due secoli. Alfonsina Russo Direttore del Parco archeologico del Colosseo
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dalla scoperta del Lapis Niger (vedi foto a p. 92) a quella del sepolcreto arcaico localizzato nei pressi del tempio di Antonino e Faustina (vedi foto a p. 97), dalle indagini nell’area del santuario di Vesta alla (ri)scoperta della chiesa di S. Maria Antiqua e dell’oratorio dei Quaranta Martiri… Un vero e proprio turbinio di ritrovamenti, che, tuttavia, non impedí a Boni di prestare le sue competenze al capezzale del campanile di S. Marco, crollato il 14 luglio 1902 (vedi foto a p. 99). Appena due giorni piú tardi, infatti, venne nominato direttore dei lavori di messa in sicurezza e di sgombero e, dopo altre quarantott’ore, fu anche chiamato a sostituire Federico Berchet come direttore dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti del Veneto. Al di là degli oggettivi risultati scientifici scaturiti dagli scavi, Giacomo Boni si dimostrò assai abile nel divulgare e dare risalto alle sue imprese, prestando alla comunicazione un’attenzione che, anche in questo caso, ne fa un vero precursore. Basti pensare, fra le molte testimonianze a riguardo, all’esclamazione della poetessa francese Anne de Noailles, in visita a Roma: «Corriamo verso il Foro, vale a dire verso Boni. Il Foro è Boni!» (vedi foto a p. 100). Agli occhi di molti, l’identificzione fu dunque totale e una simile popolarità di certo non attenuò la malcelata sopportazione con cui gran parte del mondo accademico guardò sempre al Veneziano, al quale, per esempio, venne sempre negata l’ammissione all’Accademia dei Lincei. Un atteggiamento che, se possibile, si fece ancor piú sprezzante quando a Boni, nel 1907, venne affidata anche la direzione degli scavi sul Palatino, dove, nel 1910, andò anche ad abitare, insediandosi nelle Uccelliere Farnesiane, che il suo prede104 a r c h e o
cessore, Pietro Rosa, già aveva trasformato in abitazione. Gli esiti delle indagini condotte sul colle furono meno clamorosi, ma non incrinarono la fama acquisita da Boni, al quale, al contempo, furono anche assegnati nuovi incarichi istituzionali.
IL DECLINO Lo scoppio della prima guerra mondiale causò la sospensione degli scavi e Boni partí per Venezia, da dove poi raggiunse il fronte. Qui, fra l’altro, ideò una veste mimetica per i soldati chiamati a combattere sulla neve e una controscarpa impermeabile disegnata sulla falsariga della caliga romana. Al rientro dal fronte, nel gennaio del 1916, l’archeologo fu colpito da un ictus, che gli causò la paralisi temporanea del lato destro e che, negli anni successivi, ne ridusse considere-
In alto, a sinistra: Giacomo Boni in una foto a colori scattata sul Palatino il 27 maggio 1922. In alto, a destra: le Uccelliere Farnesiane, che, trasformate in abitazione da Pietro Rosa, furono la residenza di Boni dal 1910 fino alla morte.
volmente l’attività. Nel suo buen retiro sul Palatino, Boni si dedicò a studi sulla flora e sulla fauna, impegnandosi al contempo in iniziative educative e sociali. Di fronte alla marea montante del fascismo, Giacomo Boni si fece dapprima interprete di generiche esortazioni alla moderazione e alla pacificazione interna, ma che in breve si trasformarono in un’adesione convinta. Anche perché, all’indomani della marcia su Roma, proprio a lui si rivolse il nuovo governo per chiedergli di ricostruire un modello filologicamente attendibile del fascio littorio, scelto come simbolo del partito e del regime, che si voleva imprimere sulle nuove monete da 2 lire. L’esito dell’operazione fu giudicato piú che soddisfacente e valse a Boni la nomina a senatore del Regno, conferita nell’aprile del 1923. Due anni piú tardi, il 10 luglio del 1925, dopo essere stato colto da un secondo ictus, Giacomo Boni, non ancora settantenne, chiuse la sua esistenza terrena. Sebbene la sua stella fosse andata almeno in parte offuscandosi, la notizia destò notevole impressione – «Una gran luce si è spenta: è morto Giacomo Boni», titolò Il Messaggero – e la proposta di concedergli l’onore d’essere sepolto sul Palatino fu accolta con un consenso unanime. E cosí ancora oggi, fra le siepi del giardino che si apre a ridosso delle «sue» Uccelliere, si può vedere il semplice cippo che ha accolto le spoglie dell’archeologo.
In alto: un momento della solenne cerimonia con la quale le spoglie di Giacomo Boni furono trasportate sul Palatino. A destra: la tomba dell’archeologo, costituita da un semplice cippo di pietra, collocata nei giardini che si estendono a ridosso delle Uccelliere. a r c h e o 105
SPECIALE • ROMA Una sala della sezione della mostra allestita nel complesso di S. Maria Nova, con materiali dal santuario di Vesta e dal deposito votivo presso il Clivo Capitolino.
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I «SUOI» LUOGHI PER UNA MOSTRA
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a mostra «Giacomo Boni. L’alba della modernità» si articola in quattro sezioni, allestite in altrettanti luoghi del Foro Romano e del Palatino: il complesso di S. Maria Nova, il tempio di Romolo, la chiesa di S. Maria Antiqua e le Uccelliere Farnesiane. Negli spazi dell’ex convento di S. Francesca Romana/S. Maria Nova predominano il Boni archeologo e poi anche divulgatore: già nel 1908, infatti, lo scavatore del Foro volle qui far allestire il Museo Forense, pensato per dare immediata visibilità ai risultati delle sue ricerche, anche, e soprattutto, a beneficio del pubblico e non solo degli addetti ai lavori. Forte di un allestimento lineare ed essenziale, la rassegna si apre con la documentazione delle indagini che, in un’area compresa fra il tempio di Antonino e Faustina, la via Sacra e una muratura d’epoca imperiale, portarono alla scoperta di un sepolcreto d’età arcaica. Furono individuate in tutto 41 tombe, databili fra la prima età del Ferro (fase Laziale IIA, X secolo a.C. circa) e il VI-V secolo a.C. e che dovevano verosimilmente essere il residuo di una piú vasta necropoli, impian-
tata in questo settore della valle del Foro prima del suo utilizzo a scopo abitativo. Le deposizioni attestano sia la pratica dell’incinerazione che quella dell’inumazione e nelle vetrine è riunita una selezione significativa dei materiali di corredo, fra i quali spiccano le urne cinerarie in forma di capanna e vasi d’impasto.
In alto: urna a capanna, dal sepolcreto arcaico. X sec. a.C. circa. In basso: particolare del fregio della basilica Emilia con la punizione inflitta a Tarpea. I sec. a.C.
IL VALORE DELLA DOCUMENTAZIONE Soprattutto, però, merita attenzione la scelta di disegni e fotografie esposta a corredo dei reperti: al di là dello straordinario livello qualitativo degli elaborati, si tratta di una documentazione che dà prova di quanta importanza Giacomo Boni avesse fin dall’inizio assegnato a questo momento fondamentale dello scavo archeologico. Quest’ultimo, infatti, è per sua natura un intervento distrutttivo – perché comunque altera una situazione fino ad allora cristallizzatasi nel tempo – ed è perciò essenziale registrare anche i dettagli piú minuti per poter in seguito procedere all’interpretazione del contesto e alla ricostruzione della sua storia. Da segnalare anche la presenza del grande plastico del sepolcreto, la cui realizzazione è uno dei
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molti esiti del desiderio di Boni di dare vita a un museo «parlante» e accessibile. Le sale successive sono dedicate alla scoperta del Lacus Iuturnae, la fonte presso la quale, secondo la tradizione, Castore e Polluce, avrebbero annunciato a Roma la vittoria del lago Regillo sui Latini (conseguita nel 499 o 496 a.C.), e agli interventi condotti nella basilica Emilia, dove Boni riordinò i materiali recuperati grazie a precedenti interventi, liberò dalla terra i marmi che giacevano sparsi e riportò alla luce altre parti dell’edificio. Fra queste due tappe si ha la possibilità di uscire all’aperto e ritrovarsi in uno degli ambienti principali del tempio di Venere e Roma: la cella dedicata alla seconda titolare del santuario, che tornò a essere praticabile grazie ai lavori avviati da Boni nel 1901.
A sinistra: la navicella di un pallone aerostatico esposta nel tempio di Romolo. A destra: un momento di una delle campagne fotografiche da pallone frenato realizzate da Giacomo Boni.
Tornati all’interno, si arriva al cospetto dei materiali riferibili alla scoperta forse piú clamorosa fra le molte compiute dall’archeologo veneziano, quella del Lapis Niger, i cui resti tornarono alla luce nei suoi primissimi mesi di attività nel Foro, nel gennaio del 1899. Agli occhi di Boni e dei suoi operai apparve una pavimentazione composta da lastre di pietra nera (da cui il nome del monumento), racchiusa da un recinto di marmo bianco e che la tradizione antica identificava come il luogo in cui sarebbe stato ucciso Romolo: un’interpretazione certo suggestiva, ma che gli studi successivi hanno rigettato, giungendo alla
conclusione che la struttura sia un luogo di culto all’aperto dedicato al dio Vulcano. Sotto di essa, Boni trovò quindi un insieme di strutture ancora piú antiche, fra le quali spicca un cippo iscritto – di cui in mostra è esposta la replica – che conserva la piú antica iscrizione latina di carattere pubblico a oggi nota. Non minore suggestione suscitarono le altre esplorazioni di cui dà conto questa sezione 108 a r c h e o
della mostra e, in particolare, quelle di cui furono oggetto la Regia e il santuario di Vesta. Anche in questo caso, infatti, si tratta di luoghi legati alla storia piú antica e illustre di Roma: il primo rimandava alla semimitica tradizione dei re della città, e il culto praticato nel secondo era fra i piú importanti dell’Urbe, per di piú nobilitato dalla presenza delle sacerdotesse incaricate della sua gestione.
SONO BONI, RISOLVO PROBLEMI... Nella sezione allestita nel tempio di Romolo si è invece scelto di ripercorrere soprattutto la vicenda biografica di Giacomo Boni (alla quale è dedicata la prima parte di questo Speciale), con un taglio reso particolarmente gradevole dalla scelta di evitare toni
In questa pagina, dall’alto: uno scorcio dell’interno della chiesa di S. Maria Antiqua cosí come si presenta oggi e una foto del monumento all’indomani dell’intervento condotto da Boni, che portò alla sua riscoperta.
troppo formali o paludati, fino a ricorrere a un’efficace parallelo fra l’archeologo e il Mr Wolf di tarantiniana memoria («Sono il signor Boni, risolvo problemi»…) per raccontare del decennio in cui – fra il 1888 e il 1898 – il primo fu chiamato a Roma, alla Direzione Generale Antichità e Belle Arti. Al centro della sala, troneggia, spettacolare, la navicella in vimini di un pallone aerostatico del tipo di quello utilizzato da Boni per le sue riprese dall’alto del Foro Romano: un’intuizione davvero geniale, alla quale si deve una documentazione di altissima qualità dell’area archeologica e che, di fatto, anticipò di un secolo una prassi oggi abituale grazie all’introduzione dei droni. Terzo polo della mostra è la chiesa di S. Maria Antiqua, scelta perché, anche nel suo caso, di deve a Giacomo Boni la possibilità di ammirarne le strutture e gli affreschi che la impreziosiscono. Tutto avvenne fra il 1900 e il 1902, grazie alla demolizione della seicentesca chiesa di S. Maria Liberatrice, innalzata in sostituzione del piú antico edificio e per il cui abbattimento le cautele dello scavo stratigrafico lasciarono in questo caso spazio anche all’uso della dinamite. L’epilogo del percorso assume una chiave quasi intima, poiché conduce alle Uccelliere Farnesiane, che, a partire dal 1910, divennero la residenza di Giacomo Boni. Sono qui riuniti arredi che facevano parte dello studio dell’archeologo, assieme ai quali sono esposte opere d’arte e suppellettili scelti per dare un’idea del contesto storico e culturale nel qua- le egli si trovò a operare, ma anche per testimoniare le suggestioni dello stesso Boni, che, al pragmatismo dello scavatore, affiancò letture e interpretazioni dell’antico in chiave simbolista. DOVE E QUANDO «Giacomo Boni. L’alba della modernità» Roma, Foro Romano e Palatino fino al 30 aprile Orario fino al 26/03: tutti i giorni, 9,00-16,00; 27/03-30/04: tutti i giorni, 9,00-18,30 Info www.parcocolosseo.it Catalogo Electa a r c h e o 109
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
LA LUNGA VITA DEI SESTERZI IL RINASCIMENTO FU SEGNATO DAL DESIDERIO DI EVOCARE I FASTI DELL’ETÀ ANTICA. COME TESTIMONIA ANCHE LA PRODUZIONE DELLE MEDAGLIE COMMEMORATIVE ISPIRATE AI TIPI DELLA MONETAZIONE ROMANA
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e si vuole assegnare una «data di nascita» alla numismatica intesa come studio scientifico della moneta in tutti i suoi aspetti – compreso il collezionismo –, si deve risalire all’età medievale, sebbene vi siano testimonianze che attestano l’interesse per la raccolta e lo studio delle monete già in epoca greca e romana. Di certo, il concetto di esemplare antico o importato era comunque ben presente: Svetonio (I, 75), per esempio, racconta come Augusto, in occasione dei Saturnali, facesse distribuire a suo piacimento, «ora monete di ogni conio, anche antiche, del tempo dei re, o straniere».
LE PASSIONI DI UN NOTAIO Le prime attestazioni sulla raccolta e lo studio scientifico delle monete antiche ricorrono, come accennato, a partire dal XIV secolo, con personaggi quali il trevigiano Oliviero Forzetta (1300?-1373), ricchissimo notaio, prestatore di contanti e appassionato collezionista di antichità andate purtroppo disperse, tra le quali si annoveravano anche «medaglie», ovvero monete antiche. Tra i padri della numismatica primeggia poi Francesco Petrarca
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Didramma romano-campano in argento, coniato a Roma. 269-265 a.C. Londra, British Museum. Al dritto, testa di Eracle con clava; al rovescio, la lupa e i due gemelli.
(1304-1374), il quale, grazie alla sua profonda conoscenza dei testi classici, affronta lo studio dell’antico utilizzando anche l’iconografia delle emissioni romane, in particolare quelle d’età imperiale, per identificare senza dubbi i ritratti scultorei confrontandoli con i conii nei quali compaiono il nome e le titolature del regnante e dei membri della famiglia imperiale. La passione per le monete ricorre anche nei suoi scritti, come nella lettera a Francesco Nelli, priore della chiesa romana dei Ss. Apostoli, dove racconta (in latino, Fam. Lib., XVIII, 8): «Spesso a Roma mi vidi venire innanzi un lavoratore di vigna con in mano un’antica gemma o una moneta d’argento o d’oro che mostrava fresco il solco della mazza o dell’aratro, affinché la comperassi e riuscissi a riconoscere il volto sopra scolpito». Da allora in poi gli studi numismatici si diffusero enormemente, portando alla formazione di collezioni di eccezionale rilevanza, riunite da nobili, ricchi possidenti, pontefici e regnanti e che favorirono lo studio delle immagini, nonché la creazione di medaglie «all’antica», sia di pura riproduzione (quando non si trattava di veri e propri falsi per il commercio), sia
riproponendo i tipi romani di dritti e rovesci, riferendoli però a eminenti personaggi contemporanei che amavano raffigurarsi secondo i canoni stilistici imperiali e con temi di chiara derivazione dagli esemplari antichi. Insieme ai collezionisti e agli studiosi, il Rinascimento vide operare orafi e medaglisti che si dedicarono all’emulazione dell’antico o che vi si ispirarono, creando veri e propri capolavori dell’arte medaglistica, basti pensare al Pisanello e a Benvenuto Cellini. Coevo di quest’ultimo ma meno noto, è il padovano Giovanni Cavino (1500-1570), celebre per una bella serie di «sesterzi» conservata nelle Civiche Raccolte Numismatiche di Milano che ripropongono i conii imperiali. L’intento, in questo caso, non era quello di produrre falsi, ma vere e proprie riproduzioni dettate dalla venerazione per l’arte della moneta romana, sebbene non manchino tipi di pura invenzione. Cavino ritrasse molti eminenti personaggi veneziani e padovani, ponendo a volte sul rovescio un tipo «romano», cosí da equiparare i suoi soggetti agli imperatori. Tra questi esemplari spicca la medaglia in bronzo di Francesco, patrizio, senatore e cavaliere figlio di Giovanni, della
nobile famiglia Querini. Al dritto campeggia il busto del protagonista, abbigliato «alla romana» con una tunica, capigliatura a riccioli e corta barba, mentre il rovescio è dedicato alla lupa che allatta Romolo e Remo, il cui modello ricalca fedelmente quello dei didrammi romanocampani del III secolo a.C. con Eracle al dritto. Mentre in queste ultime la legenda che compare in esergo è ROMANO, nell’esemplare realizzato da Cavino al dritto compare il nome FRANC QVIRINVS e, al rovescio, PERPETVA SOBOLES, ovvero «eterna progenie».
AMBIZIONI IMPERIALI Questa sorta di motto può ricollegarsi alla supposta origine della famiglia Querini (o anche a volte Quirini), fra le casate piú prestigiose di Venezia, legata alla fondazione stessa della città. Una genealogia «favolosa» creata ad hoc, basandosi sulla semplice omonimia e assonanza, legava i Querini alla gens romana dei Sulpici, un cui ramo aveva come cognome Quirino, sino a farla risalire all’imperatore Sulpicio Galba. In un volume sulla genealogia della famiglia redatto dal conte ed erudito Giacomo Zabarella e significativamente
Medaglia in bronzo di Giovanni Cavino per Francesco Querini. 1544. Washington, National Gallery of Art. Al dritto, il profilo del nobile veneziano; al rovescio, la lupa con i gemelli e la legenda PERPETUA SOBOLES (eterna progenie). intitolato Il Galba, overo Historia della sereniss. fameglia Quirina (Padova 1671), compare una moneta repubblicana «inventata», con al dritto la testa del dio Quirinus ripresa da un denario repubblicano di C. Memmius battuto nel 56 a.C. e, al rovescio, la scena del ritrovamento della lupa con i gemelli da parte del pastore Faustolo emessa sui denari di Sex. Pompeius Faustulus nel 137 a.C. La medaglia di Cavino per Francesco Querini con la lupa e la legenda latina traducibile con «eterna progenie» voleva dunque legare l’origine remota e prestigiosissima della famiglia veneta a quella della nascita stessa di Roma.
PER SAPERNE DI PIÚ Cesare Johnson, Rodolfo Martini, Milano. Civiche raccolte numismatiche. Le medaglie del secolo XVI. Cavino, Monografie Bollettino di Numismatica, IPZS, Roma 1990
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Antonio Pecci
INTRODUZIONE ALL’UTILIZZO DEI DRONI IN ARCHEOLOGIA Arbor Sapientiae Editore, Roma, 187 pp., ill. col. e b/n 75,00 euro ISBN 978-88-31341-66-0 www.arborsapientiae.com
L’introduzione dei droni nella ricerca archeologica ha positivamente rivoluzionato la pratica della disciplina, in particolare per quel che riguarda il momento, essenziale, della documentazione dei contesti indagati. Si tratta di un fenomeno ancora giovane, ma la cui diffusione è stata straordinariamente veloce, al punto che le immagini ricavabili dall’uso dei Sistemi Aeromobili a Pilotaggio Remoto (SAPR) – perché questa, a voler essere pecisi, sarebbe la definizione ufficiale di simili apparecchi – appaiono ormai del tutto normali e, anzi, indispensabili nel corredo fotografico di una 112 a r c h e o
campagna di scavo o ricognizione. Da questi e altri presupposti nasce il volume di Antonio Pecci, a cui va il merito di aver saputo compendiare in maniera chiara ed esauriente tutti gli aspetti peculiari di questa prassi. Dopo una ampia introduzione storica, che rivela come gli antesignani dei moderni droni – almeno concettualmente – spiccarono il volo oltre cento anni fa, l’autore illustra i principi che determinano il funzionamento di un SAPR e il suo comportamento nel corso di un volo. Si entra quindi nel vivo del tema, ripercorrendo la storia dell’impiego dei droni in archeologia per concludere con una significativa rassegna di applicazioni e casi di studio, scelti fra quelli a oggi piú rilevanti. Al tutto fanno da corredo una vasta bibliografia e un altrettanto ricco corredo iconografico. Un volume, insomma, di sicuro interesse e davvero irrinunciabile per chiunque abbia intenzione di avvalersi dei SAPR nel condurre le proprie ricerche sul campo, anche perché Pecci non manca di fornire preziose indicazioni e raccomandazioni su come gestire al meglio, e senza rischi per sé e per gli altri (!), questi preziosi velivoli. Stefano Mammini
DALL’ESTERO Anne Augereau
FEMMES NÉOLITHIQUES Le genre dans les premières sociétés agricoles CNRS Éditions, Parigi, 302 pp., ill. b/n 24,00 euro ISBN 978-2-271-13727-2 www.cnrseditions.fr
Opera di taglio specialistico, il volume di Anne Augereau va ad arricchire la letteratura degli studi di genere che, anche in archeologia, costituiscono da tempo uno dei percorsi piú battuti da specialisti di tutte le diverse branche della disciplina. In questo caso, l’obiettivo è puntato sull’età neolitica e, in particolare, su una delle sue espressioni piú note, la cultura della ceramica lineare che, fra il 5500 e il 5000 a.C. circa, si diffuse in un’area molto vasta, che, comprendendo l’intera Europa centrale, arrivò a toccare anche la regione dell’odierna Parigi. In apertura, l’autrice propone un’ampia riflessione sulle questioni di genere e su come sia possibile seguirne gli indizi in ambito archeologico. Vengono quindi illustrate le caratteristiche salienti delle comunità neolitiche ascrivibili alla cultura della ceramica lineare, la cui scelta, spiega Fougerau, nasce dalla possibilità di lavorare su un repertorio di dati particolarmente ricco: le
indagini condotte a partire dagli anni Sessanta del Novecento hanno infatti portato alla scoperta di un numero elevato di abitati e necropoli e queste ultime hanno restituito le deposizioni di almeno 3000 individui. Si passa quindi all’esame dettagliato della cultura, evidenziando, appunto, il contributo decisivo dei materiali deposti nelle tombe come corredo funerario, che risultano chiaramente «parlanti» ai fini della ricostruzione del genere dei defunti e, soprattutto, del loro ruolo nel gruppo. La trattazione si fa sempre piú articolata, con spunti di sicuro interesse, che trovano il loro logico corollario nelle conclusioni finali, dalle quali emerge, fra le altre, la constatazione di come la parità di genere fosse ancora estranea al modus vivendi di comunità che pure sono state spesso descritte come consessi di genti pacifiche, capaci di vivere in una sorta di idilliaca armonia. S. M.