Archeo n. 446, Aprile 2022

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TARQUINIA E CERVETERI

EL-ARAJ

CATACOMBE DI POZZUOLI

TEMPIO DI GERUSALEMME

CAMPANIA

LE CATACOMBE DI POZZUOLI

SPECIALE AIDA A TORINO

SPECIALE

L’«AIDA» AL MUSEO EGIZIO DI TORINO

G

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SALOMONE E I MISTERI DEL TEMPIO

L’INTERVISTA

UN PARCO PER TARQUINIA E CERVETERI

NELLA CITTÀ DEGLI APOSTOLI

ISRAELE

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 APRILE 2022

IL T

EM ERU PIO S A SC LEM OM M ww PA E w. RS a rc O h

2022

Mens. Anno XXXV n. 446 aprile 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 446 APRILE

LUOGHI DEL SACRO

€ 6,50



EDITORIALE

UNA SUGGESTIONE INFINITA L’edificio era «lungo sessanta cubiti, largo venti, alto trenta», sul fronte dello stesso «vi era un atrio lungo venti cubiti (…) ed esteso per dieci cubiti…». All’interno della costruzione era una cella «lunga venti cubiti e alta venti», rivestita di oro purissimo e con, al suo interno, un altare e «due cherubini di legno di ulivo, alti dieci cubiti». Se si considera che il cubito – l’antica unità di misura basata sulla distanza tra il gomito e il dito medio – corrisponde a una lunghezza variabile tra i 38 e i 51 cm, l’edificio appena descritto appare di dimensioni piuttosto modeste, di certo inversamente proporzionali alla sua fama, alla sua fortuna immateriale. I dati sopra citati sono tratti da quel minuzioso resoconto architettonico contenuto nel I libro biblico dei Re (6:1-38) e riferito alla costruzione del Tempio salomonico, il primo, eretto – su disposizione del Signore – dal leggendario re su un’altura nella città di Gerusalemme. In questa pagina vi proponiamo una delle infinite ricostruzioni immaginarie ispirate dai passi biblici. Immaginarie perché di quel santuario, e della sua nuova – e piú storicamente attestata – versione, voluta da Erode il Grande circa mezzo millennio piú tardi, non esiste piú traccia. La storia del Tempio gerosolimitano, infatti, è una storia di distruzioni, l’ultima delle quali risale al 70 d.C., anno fatidico in cui le truppe guidate dal futuro imperatore Tito mettono a

ferro e fuoco la Città Santa. Ma il ricordo del santuario sopravvivrà e sopravvive fino a oggi. In un illuminante saggio di Paolo Matthiae, Il Tempio di Gerusalemme: la suggestione infinita di una rovina scomparsa, l’archeologo e orientalista sottolinea il paradosso storico che ha investito la memoria di quel monumento, con il suo ruolo originario ridotto a completa rovina conservando, tuttavia, «un eccezionale prestigio lungo molti secoli» e esercitando una «sostanziale influenza, prolungatissima, su culture architettoniche e artistiche lontanissime, solo per l’incomparabile suggestione della sua funzione…» (in Relitti riletti, a cura di Marcello Barbanera, Bollati Boringhieri, Torino 2009). L’articolo di Fabio Porzia dedicato a quel santuario scomparso (alle pp. 72-90), conclude temporaneamente la nostra serie dedicata ai «Luoghi del sacro»: nell’immagine di apertura riconosciamo la vasta piattaforma su cui sorge un’altra meraviglia architettonica, la Cupola della Roccia. Fu costruita nel 69192 sotto il califfo Abd al-Malik intorno a una sacra pietra che affiora dal terreno e a cui è legata, come leggeremo, la memoria del Tempio. Diversamente da quest’ultimo, però, la Cupola della Roccia, la Moschea di al-Aqsa e gli altri edifici che oggi sorgono sul Monte del Tempio supereranno indenni la conquista crociata e le guerre dell’età moderna. Ricordava Teddy Kollek (1911-2007), storico sindaco di Gerusalemme, che nel giugno del 1967, dopo la conquista della città a conclusione della guerra dei Sei Giorni, il Monte del Tempio sarebbe potuto tornare al popolo ebraico. Ma «in segno di rispetto per i templi di un’altra fede che vi si era insediata (...) si decise non solo di non toccare le moschee, ma anche di lasciare l’amministrazione dei luoghi sacri nelle mani delle autorità religiose musulmane». Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Una suggestione infinita 3

NOTIZIARIO

SCAVI Trecentomila anni fa, nel Nord Africa

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di Luciano Calenda

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incontro con Vincenzo Bellelli, a cura di Flavia Marimpietri

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28 Sul Mare di Galilea/1

Cercando la città degli Apostoli

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TE GER M U PIO S A SC LEM OM M PA E RS O he

amministrazione@timelinepublishing.it

Mens. Anno XXXV n. 446 aprile 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE AIDA A TORINO

Amministrazione

TEMPIO DI GERUSALEMME

Impaginazione Davide Tesei

SALOMONE E I MISTERI DEL TEMPIO

CATACOMBE DI POZZUOLI

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

In copertina bozzetto di Girolamo Magnani per il Tempio di Vulcano e sotterraneo, Atto IV, Scena II, per la prima italiana dell’Aida di Giuseppe Verdi. 1872. Milano, Teatro alla Scala.

Federico Curti

LUOGHI DEL SACRO

EL-ARAJ

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

€ 6,50

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Presidente

TARQUINIA E CERVETERI

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

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di R. Steven Notley e Mordechai Aviam

2022

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

di Fabio Porzia

SCOPERTE

ARCHEO 446 APRILE

Anno XXXVIII, n. 446 - aprile 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Il grande tempio del «popolo geologico» 72

www.archeo.it

INCONTRI Quando la storia si fa a teatro 14 A TUTTO CAMPO Dal marmo ai pixels 16

LUOGHI DEL SACRO/13

IN EDICOLA IL 9 APRILE 2022

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di Marina Lo Blundo e Valeria Puccio

di Mara Sternini

58

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di Francesca Boldrighini e Fiorangela Fazio

FRONTE DEL PORTO Le vie della comunicazione

testi di Anna Russolillo, Salvatore Borrelli, Franco Foresta Martin e Roberto Della Rocca

L’INTERVISTA

di Giampiero Galasso

PASSEGGIATE NEL PArCo Quella magnifica dozzina

Cristo si è fermato a Puteoli 58

Due regine d’Etruria 28

di Emanuele Cancellieri

Da una città dell’antica Irpinia

SCAVI

di Giuseppe M. Della Fina

ARCHEOFILATELIA Un Parco per gli Etruschi

di Andreas M. Steiner

Attualità

FORMAZIONE Al servizio del patrimonio

Comitato Scientifico Internazionale

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

L’INTERVISTA

UN PARCO PER TARQUINIA E CERVETERI CAMPANIA

LE CATACOMBE DI POZZUOLI

ISRAELE

NELLA CITTÀ DEGLI APOSTOLI

SPECIALE

Comitato Scientifico Italiano

L’«AIDA» AL MUSEO EGIZIO DI TORINO

arc446_Cop.indd 1

30/03/22 12:52

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Johannes Auenmüller è curatore del Museo Egizio di Torino. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Francesca Boldrighini è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Salvatore Borrelli è archeologo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Emanuele Cancellieri è archeologo. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Roberto Della Rocca è direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi di Pozzuoli. Paolo Del Vesco è curatore del Museo Egizio di Torino. Alessia Fassone è curatrice del Museo Egizio di Torino. Fiorangela Fazio è funzionario restauratore del Parco archeologico del Colosseo. Enrico Ferraris è curatore del Museo Egizio di Torino. Franco Foresta Martin è geologo. Giampiero Galasso è giornalista. Christian Greco è direttore del Museo Egizio di Torino. Marina Lo Blundo è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Fabio Porzia è post-dottorando presso l’Università di Tolosa come storico del Levante antico. Valeria Puccio è funzionario per la comunicazione del Parco archeologico di Ostia antica. Anna Russolillo è architetto. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.


Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO

Quando le pietre parlano 110 di Andrea Augenti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Discendere da Quirino

112

di Francesca Ceci

92 SPECIALE

112 LIBRI

Quella magnifica ossessione 114

92

con testi di Christian Greco, Johannes Auenmüller, Paolo Del Vesco e Alessia Fassone e un’intervista a Enrico Ferraris

Illustrazioni e immagini: Ufficio stampa Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino: copertina e pp. 92, 97, 101, 102/107, 108 – Doc. red.: pp. 3, 32, 32/33, 60, 74, 76, 80, 82-83, 84, 85 (basso), 86 (basso), 87, 88-89, 90, 94/95, 100, 113 – Missione Archeologica nel Sahara «Sapienza» Università di Roma-INP, Tunisi: pp. 6-7 – Università degli Studi di Salerno-Soprintendenza ABAP per le province di Salerno e Avellino: p. 8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Cortesia Fondazione Prada: Attilio Maranzano: pp. 16, 17 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 17 (basso), 18, 29, 30, 31 (basso), 33 (alto), 34-39, 44/45, 46-55, 58/59, 64-71, 110-111 – Shutterstock: pp. 42/43, 56/57, 62-63, 72/73, 78/79, 98/99 – Cortesia Megan Sauter/Biblical Archaeological Society: p. 57 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 60/61, 77 (basso), 79, 81 (basso), 85 (alto), 112; Electa/Sergio Anelli: p. 77 (alto); Heritage Art/Heritage Images: p. 78; Mario De Biasi: p. 81 (alto) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 31, 45, 75 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 86. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito https://arretrati. pressdi.it L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Tunisia

TRECENTOMILA ANNI FA, NEL NORD AFRICA

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icerche condotte al margine settentrionale del Sahara, in Tunisia, un’area del Nord Africa finora scarsamente investigata, rivelano l’occupazione umana durante la fase antica della Middle Stone Age (definizione utilizzata negli studi di preistoria africana per indicare il periodo grosso modo corrispondente al Paleolitico Medio europeo, n.d.r.). Le indagini hanno interessato sequenze sedimentarie del tardo Pleistocene Medio, databili fra circa 300 000 e 130 000 anni fa, individuate lungo il corso dello Wadi Lazalim, circa 40 km a est della città tunisina di Douz. L’area di ricerca è stata dapprima identificata durante una breve missione sul campo nel 2015. Nelle stagioni successive sono

state condotte ricognizioni di superficie intensive lungo il corso principale dello wadi e i suoi affluenti, seguite dallo scavo stratigrafico di trincee in località selezionate, con l’obiettivo di ottenere dati geocronologici, paleoambientali e culturali da contesti stratificati. Le testimonianze archeologiche consistono in strumenti e residui di lavorazione della selce, che veniva reperita a poca distanza, presso i ricchi affioramenti della zona, e la cui qualità e profusione hanno attirato comunità umane anche in epoche piú recenti. I manufatti litici segnalano particolarità tecnologiche e culturali in cui si riconoscono i tratti innovativi che caratterizzano la Middle Stone Age fin dalle sue piú antiche attestazioni

Sulle due pagine: Wadi Lazalim, Tunisia. Immagini dello scavo stratigrafico e (in alto) uno degli strumenti in selce restituiti dalle indagini, che collocano la frequentazione del sito nella Middle Stone Age, fra 300 000 e 130 000 anni fa.

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in Africa. Questi comprendono, per esempio, metodi sofisticati per la produzione di schegge e lame, nonché strumenti indicativi della presenza di tecnologie composite, come per esempio alcune punte, che verosimilmente venivano immanicate, fissandole con stringhe e collanti. I siti investigati testimoniano dell’occupazione umana del Sahara settentrionale durante la antica Middle Stone Age in un periodo molto vicino a quello dei piú antichi contesti di questa fase, che in Africa orientale si attesta attualmente intorno ai 320 000 anni (Kenya), mentre in Africa settentrionale intorno ai 300 000 (Marocco). Secondo il gruppo di ricerca, coordinato da Savino di Lernia, direttore della Missione

Archeologica nel Sahara della «Sapienza» Università di Roma, e da chi scrive, i ritrovamenti hanno pertanto fornito elementi indispensabili per gettare nuova luce su tempi e modi del popolamento di una parte del Nord Africa, finora totalmente inesplorata, da parte di utilizzatori delle prime tecnologie della Middle Stone Age, probabilmente alcuni fra i piú antichi Homo sapiens, e rinforzano le ipotesi sulla loro precoce dispersione. La ricerca nello Wadi Lazalim,

sostenuta e coordinata da «Sapienza» Università di Roma, con il supporto del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e in stretta collaborazione con l’Institut National du Patrimoine di Tunisi e l’Università di Kairouan, coinvolge ricercatori da istituzioni in Italia (Università di Roma, Milano e Cagliari), Tunisia (INP, Università di Kairouan e Sousse), Francia (CNRS-Università di Bordeaux) e Spagna (CENIEH). Emanuele Cancellieri

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n otiz iario

SCAVI Campania

DA UNA CITTÀ DELL’ANTICA IRPINIA

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ecenti indagini archeologiche, condotte sulla Civita di Atripalda (Avellino), nell’ambito del progetto «Abellinum. Piano per la conoscenza, la tutela e la valorizzazione dell’antico centro irpino», hanno portato alla scoperta di nuovi tasselli per la ricostruzione del tessuto urbano della città romana. Gli scavi stratigrafici sono stati indirizzati nel quadrante nordorientale dell’insediamento, in cui insistono i principali monumenti della città oggi visibili: le mura sillane, le terme, la domus di Vipsanius Primigenius e un tratto basolato del decumano. «Lo scavo – dichiara Alfonso Santoriello, professore associato di archeologia dei paesaggi e metodologie della ricerca archeologica all’Università di Salerno – ha interessato l’area a ovest della domus. I due saggi, compresi in un’ampia area d’intervento (370 mq), che s’intende poi indagare in estensione, hanno messo in luce la prosecuzione verso ovest dell’asse stradale del decumano, la presenza di edifici sulla strada, e la parziale planimetria di un altro complesso costruttivo piú a nord, al limite con l’accentuarsi della pendenza di una vallecola. Il tratto stradale emerso ha orientamento est-ovest, con un’inversione della pendenza dopo l’innesto, sul lato meridionale, di un cardo nord-sud. Il tracciato del decumano, bordato da marciapiedi, era arricchito da elementi legati alla distribuzione delle acque. Contestuali alla fase di vita della strada sono i due edifici che si affacciano su di essa: un ambiente con soglia e pavimento in laterizi, a sud della strada, e due lacerti murari tra loro perpendicolari, a nord. Ancora piú a nord, all’interno

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Civita di Atripalda (Avellino). L’area di scavo con i resti delle strutture riferibili all’antica città di Abellinum e l’ubicazione degli ultimi saggi effettuati (1 e 2). del secondo saggio, è stata intercettata la porzione di un edificio articolato in almeno sei ambienti isorientati con il decumano e la domus. I vani si dispongono lungo un muro est/ovest, individuato per oltre 8 m, secondo uno schema regolare, come lasciavano intuire le prospezioni geofisiche eseguite nell’area. Le tecniche costruttive utilizzate sono molteplici e tutte trovano confronti con quelle messe in opera nella domus e nelle tabernae. Questi, al momento, sono solo alcuni dei numerosi spunti di riflessione emersi dalle indagini: essi meritano un adeguato approfondimento di studio e verifiche che arriveranno dalle attività previste dal progetto. Intanto, appare evidente che la posizione dell’incrocio, la presenza di edifici sul decumano e nell’isolato a nord di esso, insieme alla concordanza di orientamento tra essi, la domus e le tabernae, sia un dato tra i piú significativi per la comprensione dell’impianto urbanistico. Ciò ha consentito di avanzare alcune considerazioni sull’assetto paleotopografico del sito, sulla conformazione dei lotti e

sulla modularità della maglia urbana e, piú in generale, di configurare una preliminare ricostruzione del paesaggio urbano, che in questo punto doveva adeguarsi alla morfologia e alle pendenze del pianoro». Gli scavi sono stati condotti dal Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università di Salerno in convenzione e con il supporto della SABAP di Salerno e Avellino e il Comune di Atripalda. L’équipe di ricerca si è avvalsa della collaborazione del Dipartimento di Ingegneria Civile (Laboratorio Modelli) e del Dipartimento di Farmacia (Corso di Agraria) dello stesso Ateneo, dell’IMAA-CNR di Tito Scalo (PZ), del Dipartimento di Bioscienze e Territorio (Università del Molise), del Dipartimento di Scienze e Tecnologie (Università del Sannio) e della società NovatestTesting Solutions (Falconara Marittima, AN). Allo scavo hanno partecipato assegnisti di ricerca, dottorandi, studenti del corso di laurea magistrale in archeologia e culture antiche dell’ateneo salernitano. Giampiero Galasso



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

QUELLA MAGNIFICA DOZZINA AI PIEDI DEL CAMPIDOGLIO SPICCA UN MONUMENTO SINGOLARE: È IL PORTICO DELLE DODICI DIVINITÀ CHE PRESIEDEVANO ALLE AZIONI DEI COMUNI MORTALI. GIÀ RESTAURATO FRA L’OTTOCENTO E IL NOVECENTO, È STATO ORA OGGETTO DI UN NUOVO E IMPORTANTE INTERVENTO

S

alendo lungo il Clivo Capitolino verso il Campidoglio, si nota, sulla destra, un singolare edificio, composto da un portico di colonne in marmo cipollino, sormontate da insoliti capitelli figurati con motivi di armi, che piega ad angolo ottuso seguendo l’andamento del colle, e si apre sullo straordinario paesaggio del Foro Romano e, sullo sfondo, del Colosseo. Si tratta

A destra: Roma, Foro Romano, area nordoccidentale. Il Portico degli Dèi Consenti dopo i recenti restauri. A sinistra: particolare del fregio d’armi che orna un capitello del monumento. del cosiddetto «Portico degli Dèi Consenti», che doveva ospitare, come ricordano le fonti antiche e l’iscrizione ancora leggibile sull’architrave, le statue dorate dei dodici dèi consentes, il supremo consesso divino che presiedeva alle azioni degli uomini.

I PRIMI RESTAURI A partire dalla riscoperta, avvenuta nel 1833, il monumento è stato oggetto di massicci interventi di restauro. Oggi siamo in grado di datarne con certezza due: il primo è l’anastilosi del 1858, che ha comportato il riassemblaggio di molti frammenti ritrovati nell’area e attribuiti al monumento sui basamenti originali delle colonne, ancora conservati. In quegli anni il Portico fu ricostruito fino alla decima colonna, secondo un

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tracciato che da nord-est si dirige a sud, ricostruendo il particolare angolo ottuso aperto sul Foro Romano. Il secondo intervento è quello del 1942, che, restituendo al monumento le due colonne ancora mancanti e un considerevole tratto di trabeazione, è stato condotto con logica e tecniche legate soprattutto al recupero dell’immagine: le colonne sono infatti ricomposte da frammenti irregolari tenuti insieme da grandi integrazioni portanti e la trabeazione è una simulazione volumetrica realizzata in travertino, cava all’interno. A causa del degrado, che ne aveva interessato il sistema portante, il Portico è stato di recente oggetto di un nuovo intervento di restauro da parte del Parco: sotto la guida dell’architetto Maddalena Scoccianti, è stata condotta


Qui accanto: un particolare della trabeazione del Portico degli Dèi Consenti dopo il restauro. A destra: le cerchiature in metallo applicate su una colonna del monumento.

un’indagine tecnica e scientifica, per valutare solidità ed equilibrio strutturale del monumento, che ha portato all’analisi dei processi di degrado in atto e delle loro cause. Ne è scaturito un intervento complesso, di consolidamento strutturale e di restauro, che ha visto, per esempio, la sostituzione di molti elementi metallici, fratturati o indeboliti dalla ruggine, con altrettanti in acciaio, eseguiti in coerenza con quelli originari. Tra questi alcune cerchiature delle colonne e staffe di ancoraggio di epoca recente. Sono stati inoltre installati dispositivi di contenimento dei frammenti fratturati della trabeazione, che hanno scongiurato il loro possibile distacco ed evitato l’apposizione di nuovi perni metallici, sempre traumatica per i materiali. Molti sono stati anche gli interventi di conservazione preventiva, tra cui la collocazione di una protezione in piombo sull’estradosso, lungo tutta la sua estensione, sagomata per il deflusso controllato delle acque piovane; e inoltre l’utilizzo di un sistema innovativo per il restauro, l’esecuzione di una protezione catodica galvanica delle barre in ferro che sostengono la trabeazione, per la prevenzione dei processi di corrosione.

Un altro intervento significativo è stata la rimozione dai marmi delle «croste nere», patine spesse e consistenti causate dall’esposizione delle superfici alle piogge acide, ricche di inquinanti atmosferici. Al di sotto di queste sono stati infine recuperati i valori volumetrici dei capitelli, finemente scolpiti. Il marmo, estremamente degradato, è stato consolidato mediante l’utilizzo combinato di due principi attivi diversi, che hanno agito in sinergia e consentito il parziale recupero della consistenza di queste parti. La pulitura ha rispettato le antiche patine degli elementi originali e valorizzato il rapporto con le parti di restauro otto-novecentesche. Sono cosí emerse al meglio le superfici, con le iscrizioni, le tracce delle lavorazioni antiche e post-antiche e degli eventi che hanno caratterizzato la storia del Portico.

DETTAGLI INEDITI La realizzazione di un’impalcatura per il restauro ha offerto la possibilità di osservare da vicino tutti gli elementi dell’edificio, come non era mai avvenuto prima; i dati emersi dalle indagini preliminari e dai riscontri tecnici sono ora materiale prezioso per lo studio del «portico» – condotto da chi scrive e

da Sabrina Violante –, un monumento singolare e ancora in gran parte da decifrare, a partire dalla sua particolare forma architettonica (una aedes in forma di portico) sino alla sequenza delle fasi costruttive: se la fase meglio documentata è infatti quella di IV secolo, con l’intervento da parte del praefectus urbis Vettio Agorio Pretestato, restano da precisare non solo l’entità di questo intervento tardo, ma anche tutte le fasi precedenti, che sembrano risalire fino all’età repubblicana. Resta da definire in che modo la struttura architettonica dell’edificio mutò nel corso del tempo, cosí come la funzione delle tabernae in laterizio ancora conservate sul retro del portico. Per questo il Parco intende proseguire il lavoro: dopo aver messo in sicurezza il monumento, restituendo al paesaggio la sua magnifica architettura, continueremo le indagini e i lavori per restituire al pubblico una cifra maggiore, fatta di una conoscenza approfondita del monumento, e resa tangibile e fruibile anche tramite la valorizzazione del contesto e la creazione di un percorso di visita in questo luogo cosí suggestivo. Francesca Boldrighini e Fiorangela Fazio

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

LE VIE DELLA COMUNICAZIONE LA TUTELA E LA VALORIZZAZIONE NON POSSONO ESSERE SCISSE DALLA DIVULGAZIONE: UN PRINCIPIO CHE IL PARCO DI OSTIA ANTICA HA FATTO PROPRIO AVVALENDOSI DELLE NUOVE TECNOLOGIE, GRAZIE ALLE QUALI L’OFFERTA INFORMATIVA VIENE COSTANTEMENTE ARRICCHITA

S

in dalla sua costituzione, nel 2017, come Istituto dotato di autonomia speciale del Ministero della cultura, il Parco archeologico di Ostia antica ha avviato una strategia di comunicazione digitale integrata, una finestra aperta verso un ampio e variegato target di visitatori reali e potenziali dei suoi luoghi, da Ostia a Portus, fino al Museo delle Navi di Fiumicino. Una comunicazione declinata attraverso i canali istituzionali, il sito web, i social e YouTube, attraverso i quali il Parco costruisce il proprio racconto quotidiano, pubblicando e illustrando le

numerose attività che lo rendono vivo e sempre ricco di novità.

INFORMAZIONI PUNTUALI La comunicazione sul sito web (www.ostiaantica.beniculturali.it) ha carattere istituzionale e mira a fornire un’informazione puntuale, destinata in primis a un pubblico di «prossimità telematica», ma anche ad ampliare il bacino di utenza con la fidelizzazione di un pubblico stabile di riferimento. In questa direzione si muovono alcuni contenuti del sito web del Parco, quali la rubrica Ostia racconta, la digitalizzazione per il web dei

pannelli didattici e la mappa navigabile dell’area archeologica di Ostia antica. Inaugurata nel marzo 2020 e recentemente presentata con una nuova veste grafica, la rubrica Ostia racconta (www.ostiaantica.beniculturali.it/ it/ostia-racconta) raccoglie i contenuti di approfondimento su aspetti poco conosciuti dei siti del Parco. Concepita come una variante del classico blog, Ostia racconta è un luogo virtuale in costante aggiornamento: opere e monumenti, la storia degli scavi, le ricerche di antropologia e gli interventi di restauro in corso o L’homepage del sito web istituzionale. Nella pagina accanto in basso: riferimenti web e social del Parco.

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A sinistra: la sezione web Quartieri e monumenti di Ostia antica. I nuovi pannelli didattici dell’Area archeologica.

appena conclusi sono raccontati attraverso le voci degli «addetti ai lavori» e dei funzionari che lavorano quotidianamente nei luoghi del Parco. La comunicazione digitale non può che essere connessa alla fruizione del patrimonio culturale: in quest’ottica è stata realizzata la sezione web Quartieri e monumenti di Ostia antica (www.ostiaantica. beniculturali.it/it/pannelli-didattici/). Si tratta di uno strumento divulgativo e di accompagnamento alla visita, attualmente disponibile in italiano e in inglese, che consente al contempo un accesso virtuale all’area archeologica e la possibilità di approfondire i contenuti proposti, dedicati alla città e ai suoi quartieri, accedendo ai contenuti dei singoli pannelli didattici fisici già installati nell’area archeologica (vedi «Archeo» n. 432, febbraio 2021; anche on line su issuu.com). È quindi possibile, attivando il GPS sul proprio smartphone, accedere a mappe navigabili di Ostia antica, suddivise per «quartieri»: in tempo reale, cosí, ciascun visitatore può costruire il proprio percorso. D’altro canto, non può darsi oggi comunicazione dell’archeologia se non attraverso i social media. Ed è per questo che il Parco è molto attivo su Facebook,

Instagram e Twitter, con l’intento di coinvolgere e far crescere una community sempre piú numerosa e interessata ai temi proposti.

SCENE DI VITA QUOTIDIANA I contenuti dei social sono strettamente connessi sia col sito web, sia con l’attività quotidiana che si svolge nei luoghi del Parco: la comunicazione integrata ha come scopo non soltanto la promozione, ma innanzitutto la diffusione della conoscenza del Parco in un’ottica divulgativa. Pertanto, oltre a essere uno strumento di informazione su aperture e chiusure, restauri in corso e interventi straordinari, i canali social contengono rubriche fisse di approfondimenti che di volta in volta riguardano i mosaici (con #mosaicMonday), luoghi e monumenti meno noti di Ostia (con #nascOstia), l’antico porto di Claudio e di Traiano (con la rubrica Portus: un porto da record). Sul

neonato canale YouTube, invece, sono al momento presenti due playlist: «Play Ostia», la rubrica di approfondimenti video autoprodotti dal Parco e «Ostia antica per la scuola», che riunisce i videolaboratori e le videolezioni realizzati dai Servizi Educativi durante il lockdown del 2020. Poiché i social sono uno strumento di fondamentale interazione con il pubblico, la comunicazione è diversificata in funzione dei differenti canali e, di conseguenza, delle persone che seguono l’uno o l’altro account. Da questo punto di vista, riveste particolare importanza Instagram sul quale, attraverso la menzione nelle stories, le persone si trasformano in ambassador del Parco, ingenerando un circolo virtuoso nel quale Ostia antica (e con essa Portus, Isola Sacra e il Museo delle Navi) emerge grazie all’esperienza diretta di chi l’ha visitata. Marina Lo Blundo e Valeria Puccio

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ISRAELE

Gerusalemme chiama Roma La cerimonia di rimozione della prima pietra del pavimento della basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme ha segnato l’inizio delle attività di scavo archeologico coordinate dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità della «Sapienza» Università di Roma. Si tratta di uno scavo particolarmente complesso, che si svolgerà in modo continuativo per oltre due anni e mezzo, in orario notturno e diurno, senza interruzioni, per consentire il regolare lo svolgimento delle funzioni religiose e per non impedire il flusso dei pellegrini. Nel corso dello scavo le metodologie d’avanguardia saranno coniugate all’esigenza di garantire il rapido svolgimento dei lavori e di preservare la multifunzionalità degli spazi: questo difficile contesto ha richiesto infatti una preparazione particolarmente accurata, non solo dal punto di vista scientifico e tecnico, ma anche motivazionale e psicologico, ottenuta grazie alla disponibilità dei docenti dell’ateneo. Per la prima volta sarà possibile indagare archeologicamente un monumento unico al mondo – mai oggetto di scavi sistematici – che racchiude vicende dall’altissimo valore storico e simbolico e una stratificazione archeologica intensissima, che raccorda Oriente ed Occidente. Il coordinamento delle attività archeologiche è stato affidato a Francesca Romana Stasolla, professoressa ordinaria di archeologia cristiana e medievale della «Sapienza».

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INCONTRI Roma

QUANDO LA STORIA SI FA A TEATRO

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remiata dall’affluenza di un pubblico numeroso e attento, continua l’VIII edizione di «Luce sull’archeologia», i cui appuntamenti sono in programma al Teatro Argentina di Roma, la domenica mattina, alle 11,00. «Città Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico»: è questo il titolo della manifestazione e l’obiettivo è quello di mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. Da Roma, dove sogno e materia si fondono alla città celeste di sant’Agostino, alle città ideali della pittura rinascimentale. Come sempre, ciascun incontro è arricchito dai contributi di storia dell’arte di Claudio Strinati, dalle anteprime del passato curate dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, e viene introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, i prossimi appuntamenti. 3 aprile: Federico Marazzi, Città fra terra e cielo: San Vincenzo al Volturno e i grandi monasteri dell’Alto Medioevo; Umberto Roberto, Capitali d’Italia: Milano, Ravenna, Roma e l’imperatore; Francesco Sirano, Abitare a Ercolano antica nel I secolo d.C.

Viaggio sotto la cenere del Vesuvio. 8 maggio: Luciano Canfora, Platone e la Kallipolis; padre Giuseppe Caruso, Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia; Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta.

DOVE E QUANDO Luce sull’Archeologia «Città Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico» Roma, Teatro Argentina, largo di Torre Argentina, 52 Info tel. 06 684000314; e-mail: promozione@teatrodiroma.net; www.teatrodiroma.net



A TUTTO CAMPO Mara Sternini

DAL MARMO AI PIXELS IL DESIDERIO DEI RICCHI ROMANI DI POSSEDERE CAPOLAVORI PRESTIGIOSI INNESCÒ IL FENOMENO DELLA PRODUZIONE DELLE COPIE. METTENDO IN SECONDO PIANO IL PRINCIPIO DELL’UNICITÀ DELLE OPERE, OGGI INVECE RICERCATA, ANCHE NELLE FORME IMPALPABILI DELL’ARTE DIGITALE

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a figura di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) è fondamentale nella storia degli studi sul mondo classico perché, con il suo libro Storia dell’arte nell’antichità – la cui prima edizione in lingua tedesca risale al 1763 (ma pubblicata con data 1764) –, pone le basi per una storicizzazione dell’arte greca e romana. Per la prima volta, infatti, si cercava di mettere ordine tra le numerose opere allora conosciute (sculture, sarcofagi, rilievi), presenti in gran numero soprattutto nelle collezioni private dell’aristocrazia romana. Il volume ebbe un grande successo per due ragioni: per avere inserito le opere d’arte antica in una periodizzazione temporale, e per aver proposto una sorta di idealizzazione estetica dell’arte greca, che ha fortemente condizionato la storia degli studi fino a tutto l’Ottocento. Va tuttavia ricordato che Winckelmann aveva studiato le opere dei grandi artisti greci senza aver mai visto un originale di età classica, ma basandosi sulle fonti scritte e, soprattutto, sulle tante copie tardo-ellenistiche e romane rinvenute fino ad allora. Ma perché i Romani amavano circondarsi di copie e quando era

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In basso e nella pagina accanto, in alto: copie del Satiro versante di Prassitele e del Discobolo di Mirone, esposte nella mostra «Serial Classic. Multiplying Art in Greece and Rome», allestita nel 2015 a Milano, alla Fondazione Prada.


iniziata questa moda? Ora, sappiamo che nell’arte greca grandi sculture e rilievi erano di norma realizzati in un unico esemplare (offerte votive nei santuari, segnacoli di tombe, statue innalzate negli spazi pubblici delle città). La produzione di opere di grande formato in due o piú copie era legata a condizioni molto particolari, perciò molto rare. Le cose cominciano a cambiare nell’età ellenistica, quando il desiderio di riprodurre i capolavori dell’età classica prende sempre piú piede, anche se il fenomeno conosce una larghissima diffusione tra il I secolo a.C. e i primi due secoli dell’impero, con una proliferazione di botteghe di copisti dislocate in Italia e, in particolare, a Roma, dove si erano trasferiti diversi scultori di origine ateniese, attirati nell’Urbe da una committenza molto vivace.

QUESTIONI DI STATUS Per la classe dirigente romana esibire nella propria casa opere famose come il Discobolo di Mirone o il Doriforo di Policleto era infatti un modo per sottolineare

uno status sociale e un raffinato livello culturale: obiettivi raggiungibili anche per mezzo di copie degli originali piú o meno fedeli agli stessi. Alla base c’era un metodo di valutazione completamente diverso da quello in uso nella cultura contemporanea occidentale, dove la certificazione dell’unicità dell’opera è invece strettamente connessa con il valore della stessa. Una necessità espressa persino dall’arte digitale (che non produce opere materiali, ma solo virtuali), attraverso la cosiddetta Cripto-Arte, che, seppure nata da pochi anni, sta già cambiando rapidamente il settore. I cripto-artisti realizzano infatti opere digitali, che vengono immesse su una blockchain (una sorta di registro digitale organizzato per blocchi, condivisibile e non modificabile grazie all’uso di una crittografia), e che sono acquistabili solo con criptovaluta. Trattandosi di prodotti digitali, non esiste piú l’aspetto materico dell’opera: i lavori sono visibili a tutti in rete, anche se i diritti dell’autore e la proprietà dell’acquirente (e quindi anche la Everydays: The First 5000 Days, opera di Beeple. Si tratta di un collage di 5000 immagini (disegni e foto) realizzate dall’artista, una al giorno, dal 1° maggio 2007, e poi assemblate in ordine cronologico.

possibilità di metterla in vendita) sono garantiti mediante i Non Fungible Tokens (NFTs, cioè files non modificabili).

NUOVI SCENARI Al momento attuale, l’artista piú famoso del settore è certamente l’americano Beeple (nato a Fond du Lac, nel Wisconsin, nel 1981), che, tra i mesi di febbraio e marzo 2021 ha venduto la sua opera digitale Everydays: The First 5000 Days per 69 346 200 dollari: una cifra consistente, soprattutto se consideriamo che la base d’asta iniziale era di 100 dollari. Insomma, un’opera che è stata acquistata da un collezionista, ma che chiunque può vedere in qualsiasi momento, collegandosi alla rete. In tal caso la qualità della visione non dipenderà dal contesto in cui è inserita l’opera, ma solo da software e hardware utilizzati e dalla stabilità della connessione. Inutile dire che con Beeple è iniziata una nuova pagina della storia dell’arte, in termini di superamento dei concetti di originale, copia e replica, almeno nel senso che fino a oggi abbiamo attribuito a queste parole, rendendo al tempo stesso obsolete anche le tradizionali modalità di fruizione delle opere d’arte, con prospettive di sviluppo che ancora non riusciamo a immaginare e i cui esiti, tuttavia, potrebbero presentarsi presto davanti ai nostri occhi. (mara.sternini@unisi.it)

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VERONA

I piú antichi antenati di Giulietta e Romeo Nel Museo Nazionale Archeologico di Verona è stata inaugurata la prima parte dell’allestimento della sezione «Preistoria e Protostoria». La prima sezione è dedicata al Paleolitico, fase in cui anche il territorio veronese è testimone della piena espansione delle popolazioni neandertaliane e dell’Homo sapiens in Europa. Qui sono esposti preziosi reperti di due siti di grande rilevanza a livello europeo: la Grotta di Fumane, con le sue pietre dipinte – prima fra tutte, lo sciamano –, e Riparo Tagliente. Per il Neolitico, fase della preistoria segnata dall’avvento dell’economia produttiva, i reperti dal sito veronese di Lugo di Grezzana proietteranno i visitatori nella vita di un villaggio, mentre i rinvenimenti da altri siti veronesi documentano i rituali funebri e gli oggetti dedicati al culto. Nella successiva età del Rame, le comunità umane scoprono la possibilità di utilizzare un metallo – il rame, appunto – per armi e strumenti. E a questa fase si riferiscono, fra gli altri, statue-stele e preziosi corredi tombali. La quarta e ultima sezione, la piú articolata, riguarda l’età del Bronzo, momento in cui, oltre all’introduzione della lega che dà nome al periodo, cresce l’articolazione sociale dei gruppi. Il Museo racconta la vita di questi abili artigiani e costruttori e accoglie una vetrina dedicata alle tre palafitte UNESCO della provincia di Verona, oltre a reperti in legno dal sito di Vallese di Oppeano, eccezionalmente conservati.

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FORMAZIONE Umbria

AL SERVIZIO DEL PATRIMONIO

È

stata inaugurata a Gubbio la nuova sede della Scuola di specializzazione in Beni Storico-Artistici dell’Università degli Studi di Perugia, nell’ex monastero di S. Benedetto appena restaurato. In proposito, Cristina Galassi, direttore della Scuola, ha osservato: «Insegnare la storia dell’arte, ma anche la tutela, la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, in un luogo come questo – concesso nel 1388 ai Monaci Olivetani di San Donato della vicina località di Madonna del Ponte – significa lavorare immersi in ciò che cerchiamo di trasmettere e insegnare». Si tratta di una Scuola di alta formazione, consorziata con altri undici atenei italiani, a cui si può accedere a numero chiuso dopo avere conseguito la laurea triennale e magistrale. Il percorso formativo – articolato su due anni – prevede lo studio dell’arte antica, moderna e contemporanea, l’approfondimento delle tematiche relative alla tutela, alla valorizzazione, alla didattica museale e alle evidenze urbanistiche e territoriali. Spazio viene dato anche alla conservazione e al restauro, nonché

L’ex monastero di S. Benedetto, sede della Scuola di specializzazione in Beni Storico-Artistici di Gubbio. alla gestione di monumenti, musei ed eventi culturali. Attenzione viene prestata inoltre agli ordinamenti giuridici vigenti per il patrimonio storico-artistico. Gli specializzati dovranno essere in grado di lavorare, con funzioni di responsabilità elevata, nel Ministero della Cultura, nelle Regioni, nei Comuni e in altri Enti pubblici, come in fondazioni culturali e organismi privati quali imprese, studi professionali specialistici e cooperative di servizi. Tra i progetti futuri vi sono quelli di allargare ulteriormente la rete degli atenei consorziati, cosí da ampliare l’offerta formativa e d’istituire una Spring School. La sede verrà utilizzata pure per iniziative culturali ed espositive di alto livello in sinergia con la Regione Umbria, il Comune di Gubbio e la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. Sul sito web della Scuola (http:// benistoricoartistici.unipg.it) è possibile trovare tutte le informazioni relative ai requisiti necessari per l’ammissione. Giuseppe M. Della Fina


presenta

I

Longobardi IN ITALIA

L’ALBA DEL MEDIOEVO di Tommaso Indelli

L’età longobarda ha costituito un capitolo importante nella storia d’Italia e nel nuovo Dossier di «Medioevo» Tommaso Indelli ne ripercorre l’intera parabola, a partire da quando, nel 568, il re Alboino scese nella Penisola alla testa dei suoi guerrieri. Di quelle vicende sono oggi testimonianza numerosi monumenti, ai quali si sono aggiunti i significativi riscontri offerti dall’archeologia, grazie alle scoperte di cui sono state teatro tutte le aree nelle quali i Longobardi scelsero di insediarsi. Dall’avvento di Rotari, consegnato alla storia dalla promulgazione, nel 643, dell’Editto che porta il suo nome, a quello di Liutprando, sotto il cui regno l’Italia longobarda visse una delle sue stagioni piú fiorenti, il Dossier propone una rassegna ampia e puntuale, accompagnata da un ricco corredo iconografico e cartografico. Uno spazio importante è riservato anche al sito seriale «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)». Riconosciuto dall’UNESCO nel 2011, riunisce le piú importanti testimonianze monumentali longobarde, dal Nord al Sud della Penisola: l’area della Gastaldaga con il Tempietto Longobardo e il Complesso Episcopale a Cividale del Friuli (Udine); l’area monumentale con il complesso monastico di S. Salvatore-S. Giulia a Brescia; il castrum con la Torre di Torba e la chiesa di S. Maria foris portas a Castelseprio Torba (Varese); la basilica di S. Salvatore a Spoleto (Perugia); il Tempietto del Clitunno a Campello sul Clitunno (Perugia); il complesso di S. Sofia a Benevento; il santuario di S. Michele a Monte Sant’Angelo (Foggia).

ORA IN EDICOLA


i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

VECCHIE E NUOVE SINERGIE PER CONSOLIDARE IL RILANCIO

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a XXIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà a Paestum dal 27 al 30 ottobre. In questa intervista il suo Fondatore e Direttore, Ugo Picarelli, ne anticipa i contenuti. Direttore Picarelli, dallo scorso anno la BMTA finalmente ha la sua location definitiva... «Continua la grande sfida messa in campo dalla BMTA a favore del sito UNESCO e della sua destinazione, che il Comune di Capaccio Paestum ha saputo cogliere, riqualificando l’ex Tabacchificio Cafasso, un contenitore di archeologia industriale prestigioso per il suo valore identitario e che il Sindaco Franco Alfieri renderà ancora piú accogliente ed efficiente per l’edizione 2022». Quali sono le novità per addetti ai lavori e visitatori? «Gli operatori non vedono l’ora di ripartire con la loro offerta turistico-culturale ed enogastronomica, dopo due anni di alti e bassi con importanti decrementi dei flussi turistici. Partendo dal successo conseguito nel 2021, con gli alberghi completamente pieni, a fronte di 7000 visitatori con 550 relatori protagonisti nelle 100 conferenze, sarà proposto al Consorzio Albergatori di Paestum di mettere in campo un pacchetto per intercettare e invogliare la domanda nazionale per la concomitanza favorevole del ponte

Ugo Picarelli (primo a sinistra), insieme a Maurizio Di Stefano, Presidente ICOMOS Italia, Dana Firas, Presidente Petra National Trust, e Mounir Bouchenaki, Presidente Onorario della Borsa.

lungo, che dà l’opportunità di allungare la propria permanenza oltre il fine settimana della BMTA, includendo lunedí 31 ottobre e il festivo martedí 1° novembre. La promozione, rivolta a individuali e gruppi, sarà veicolata dalle principali riviste di viaggi e turismo e da una ampia campagna di comunicazione social, offrendo ingressi gratuiti ai siti culturali, degustazioni, tariffe scontate sui treni dell’alta velocità e regionali». Quali saranno i focus dell’edizione 2022? «La BMTA, consapevole di essere non solo strumento di relazioni, ma di avere il dovere di presentare buone pratiche che possano essere fattibili a breve-medio termine con una prospettiva di sviluppo locale e occupazione, si appresta a rinnovare questo approccio per un futuro immediato “new normal”, con la presentazione di tre proposte (internazionale, nazionale, locale) come già nel 2021. Protagonista del programma sarà sempre il turismo culturale all’insegna dell’esperienza unica e autentica, nonostante l’aspetto esperienziale sia già di per sé alla base dell’offerta e della sostenibilità che sarà declinato nelle tre visioni che la Borsa si ripropone di presentare annualmente». Cosa fa la BMTA per incrementare l’incoming in Italia? «La sezione ArcheoIncoming, nata nel 2019 per recuperare la domanda europea e i nostri connazionali, caratterizzerà la Borsa con la presenza dei principali tour operator specialisti del turismo archeologico, che inseriranno nella loro programmazione viaggi a tema nei giorni dell’evento con destinazione Paestum e Campania». Il Parco Archeologico di Paestum e Velia ha da poco il suo neodirettore, quali le impressioni? «La professoressa Tiziana D’Angelo, già tra i relatori della Borsa negli anni passati, conosce molto bene l’evento, per cui il suo apporto sarà fondamentale per una ulteriore crescita. Inoltre, grazie alla sua esperienza internazionale potrà rafforzare la nostra intuizione nelle edizioni passate di invitare Istituti e Università del mondo anglosassone a organizzare a Paestum campagne di scavo e masterclass per i loro studenti, in quanto questo fenomeno in tante destinazioni determina un notevole apporto di docenti e giovani a fini scientifici e formativi con un interessante indotto economico».

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UN PARCO PER GLI ETRUSCHI Nell’intervista che pubblichiamo in questo numero, Vincenzo Bellelli, chiamato a dirigere il Parco Archeologico di Tarquinia e Cerveteri, illustra i programmi e le iniziative tese a valorizzare una delle aree archeologiche piú importanti al mondo (vedi alle pp. 28-39). Dalle sue parole abbiamo tratto ispirazione per il nostro intervento, proponendo le riproduzioni filateliche di alcuni dei numerosi tesori artistici etruschi. La copertina spetta di diritto al Sarcofago degli sposi, capolavoro in terracotta proveniente dalla necropoli della Banditaccia a Cerveteri, conosciuto a livello planetario e qui raffigurato da varie amministrazioni postali: Italia (1), San Marino (2), Antingua e Barbuda (3) e Madagascar (4). Da Tarquinia provengono invece altri celebri reperti, come le pitture parietali funerarie, tra cui quella raffigurante musici e danzatori nella Tomba dei Leopardi (5) o l’altorilievo dei cavalli alati (6), che sui francobolli per l’espresso di Poste Italiane 10 faceva bella mostra di sé... al contrario! Ma oltre a queste superstar, l’arte etrusca ci ha lasciato un’infinità di opere altrettanto eccezionali ed eccone dunque una carrellata. Gioielli. La fibula a disco proveniente dalla Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri (7) o gli orecchini a bauletto di provenienza ignota (8). Sculture in terracotta e arte ceramica. Terracotta a testa di cavallo (9) e busto femminile (10) da Cerveteri; urna cineraria a capanna (11) e askos etrusco a forma di anatra (12). Sculture in bronzo. Statuetta di bambino seduto da Tarquinia (13) e Bronzetto votivo (14). Nell’ampia intervista, Vincenzo Bellelli ha anche sottolineato come l’accorpamento di Cerveteri e Tarquinia nel nuovo Parco non sia altro che la riproposizione del loro ruolo nell’antichità, in quanto erano i soli due centri importanti a nord di Roma e vicini al mare. Ha parlato anche della necessità di esporre i reperti che giacciono nei magazzini museali (15) dei due centri e dell’apertura di nuove aree archeologiche. Ha avuto, infine, parole di apprezzamento per la lotta agli scavi clandestini condotta dal Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri (16).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



IO NE

ED IZ IO N E

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LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

BISANZIO l’impero sul bosforo di Marco Di Branco


N

el maggio del 330 d.C. Costantino, l’imperatore «cristiano», inaugura la sua capitale, una città grandiosa che porta il suo nome, voluta come una seconda Roma, sulle rive del Bosforo. Oltre dieci secoli piú tardi, nel 1453, è ancora il mese di maggio a segnare il destino di quella splendida metropoli: Maometto II espugna Costantinopoli e pone fine alla sua gloriosa parabola. Gli studiosi hanno chiamato «bizantino» il millennio che separa i due eventi e in quei dieci secoli si sono succeduti episodi che hanno segnato momenti cruciali della storia universale, e l’impero d’Oriente, oltre ad affermarsi come una delle maggiori potenze del tempo, è stato anche la culla di una fioritura artistica eccezionale. Alle testimonianze e all’eredità di questa straordinaria vicenda è dedicata la nuova Monografia di «Archeo»: il suo autore, Marco Di Branco, propone un viaggio ideale nei luoghi che furono teatro degli eventi piú importanti e un altrettanto ideale incontro con gli uomini e le donne che ne furono protagonisti. Un racconto avvincente, corredato da splendide immagini e da un ricco e puntuale apparato cartografico.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Quel magnifico paradosso • COSTANTINO • L’impero e la croce • GIUSTINIANO • L’ultimo imperatore • ERACLIO • Una svolta epocale • DISPUTE RELIGIOSE • Un’epoca di cambiamenti • COSTANTINOPOLI • Il triangolo d’oro Particolare di uno dei mosaici pavimentali del Gran Palazzo (Magnum Palatium) di Costantinopoli. VI sec. Istanbul, Museo del Mosaico.

• BISANZIO E I TURCHI • L’invasione selgiuchide • LA IV CROCIATA • Lamento per Bisanzio • ZELOTI A TESSALONICA • Bagliori di rivolta • IL CREPUSCOLO • Gli ultimi fuochi

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CALENDARIO

Italia

CAPO DI PONTE (BRESCIA) Uno sguardo oltre le Alpi

ROMA Giacomo Boni

Materiali archeologici dal Museo Nazionale di Zurigo MUPRE-Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica fino al 29.05.22

L’alba della modernità Foro Romano e Palatino fino al 30.04.22

FAENZA Gioia di ber

Ceramiche da vino e da acqua in Italia dall’antichità classica al design MIC-Museo Internazionale delle Ceramiche fino al 30.04.22

Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22

FIRENZE A misura di bambino

Crescere nell’antica Roma Galleria degli Uffizi fino al 24.04.22

FOGGIA Arpi riemersa

Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22

Cursus Honorum

Il governo di Roma prima di Cesare Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 02.10.22

In basso: l’immagine guida della mostra «Cursus honorum».

MILANO Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino all’08.05.22 26 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

NAPOLI Gladiatori

Museo Archeologico Nazionale fino al 18.04.22

Giocare a regola d’arte

Museo Archeologico Nazionale fino al 04.06.22

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon

Sing Sing. Il corpo di Pompei

Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

Fotografie di Luigi Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.22

Francia

PARMA I Farnese

PARIGI Faraoni delle due terre

Architettura, Arte, Potere Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31.07.22

TORINO Aida, figlia di due mondi Museo Egizio fino al 05.06.22

Invito a Pompei

Palazzo Madama, Sala del Senato fino al 29.08.22

L’epopea africana dei re di Napata Museo del Louvre fino al 25.07.22 (dal 28.04.22) La Tazza Farnese. Epoca ellenistica.

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Faccia a faccia La visiera di un cavaliere romano Musée d’archéologie nationale fino al 09.05.22

Germania FRANCOFORTE Leoni, sfingi, mani d’argento

Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci Archäologische Museum fino al 10.04.22

Grecia VARESE La civiltà delle palafitte

L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22

VENEZIA Venetia 1600

Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 05.06.22

VERONA Vasi antichi

Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22

SALONICCO Sardegna Isola Megalitica Museo Archeologico di Salonicco fino al 15.05.22

Regno Unito LONDRA Il mondo di Stonehenge British Museum fino al 17.07.22

Svizzera BASILEA animalistico!

Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 27


L’INTERVISTA • IL PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA

DUE REGINE D’ETRURIA

FURONO TRA LE PIÚ IMPORTANTI CITTÀ ETRUSCHE E DEL LORO PASSATO HANNO LASCIATO TESTIMONIANZE SPETTACOLARI. OGGI I TESORI DI CERVETERI E TARQUINIA SONO RIUNITI IN UN NUOVO PARCO ARCHEOLOGICO, LA CUI DIREZIONE È STATA AFFIDATA A VINCENZO BELLELLI. LO ABBIAMO INCONTRATO PER FARCI SPIEGARE COME E PERCHÉ I DUE GRANDI CENTRI, UN TEMPO RIVALI, DOVRANNO DIVENTARE ALLEATI... a cura di Flavia Marimpietri

I

l Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia, uno dei nuovi istituti dotati di autonomia speciale e rilevante interesse nazionale creati in seno al Ministero della Cultura, riunisce in un’unica realtà due siti etruschi di primaria importanza. Alla sua guida è stato chiamato l’etruscologo Vincenzo Bellelli, dirigente di ricerca presso l’Istituto di scienze del patrimonio culturale del Cnr (CNR-Ispc) e responsabile scientifico degli scavi archeologici dello stesso CNR nell’area urbana di Cerveteri, che abbiamo intervistato in occasione del suo «battesimo». ♦ D ottor Bellelli, il nuovo Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia comprende la necropoli ceretana della Banditaccia e quella tarquiniese di Monterozzi – nominate sito UNESCO nel 2004 –, nonché il Museo Archeologico Nazionale Cerite e il Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia: una meta ambita per un etruscologo come lei, ma anche una realtà complessa da «governare». Come affronta questa sfida?

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«Il profilo del direttore di un istituto autonomo (che anni fa non esisteva) richiede capacità gestionali, ma non c’è dubbio che la conoscenza specifica della materia possa essere d’aiuto. Uno degli aspetti piú entusiasmanti di questa sfida è che i siti di Cerveteri e Tarquinia sono complementari: il parco nasce grazie a un’operazione coraggiosa della Direzione Generale Musei, che sancisce quanto l’UNESCO aveva già stabilito, poiché unisce due realtà archeologiche di pr imo piano in un unico organismo. Cosí oggi queste due grandi metropoli etrusche, un tempo rivali, devono diventare alleate». ♦ Perché Cerveteri e Tarquinia sono realtà archeologiche complementari? «L’UNESCO ha tracciato una direttrice di marcia ben precisa, affermando che siamo al cospetto di due testimonianze archeologiche uniche ma correlate: da un lato la pittura funeraria di Tarquinia, dall’altro l’architettura monumentale di Cerveteri. La prima fornisce una serie infinta di spunti sulla “città


La sala del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia nella quale è esposto l’altorilievo raffigurante una coppia di cavalli alati, che in origine apparteneva alla decorazione del frontone del tempio dell’Ara della Regina, in località Pian della Regina, nell’area della Civita, dove si conservano i resti della città etrusca. Metà del IV sec. a.C. Nella pagina accanto: Vincenzo Bellelli, neodirettore del Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia.

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L’INTERVISTA • IL PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA Un’immagine della Tomba dei Leopardi, nella necropoli tarquiniese di Monterozzi . 480-470 a.C. Da tempo, per garantire la conservazione delle pitture murali, le camere funerarie delle tombe dipinte sono chiuse da porte a tenuta stagna, che assicurano condizioni climatiche costanti.

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dei vivi”, ovvero sulla vita quotidiana, sulle credenze religiose, sugli agoni sportivi, sulle feste. La seconda dà informazioni sulla visione del mondo degli Etruschi sempre a partire dalla “città dei morti”, ma su un registro diverso. Visitando i due poli del nuovo parco, si potrà avere un’idea organica di questa antica civiltà. Si tratta di realtà molto diverse, che dovranno lavorare insieme per scrivere una storia unica. Il nuovo Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia, che comprende anche due musei territoriali già di per sé estremamente ricchi, diventerà il piú grande polo archeologico per la civiltà etrusca». ♦ Cerveteri e Tarquinia erano città molto importanti per il mondo etrusco, ma non solo. Ci vuole spiegare perché? «Sono due poli urbani di grandissimo rilievo, nell’Italia antica e non solo, due grandi città-stato molto prospere, diventate tali per la posizione geografica favorevole e per la ricchezza del proprio territorio. Non a caso, sono i primi due centri In alto: cartina della dodecapoli etrusca che si indell’Etruria. contrano sulla costa tirrenica a nord In basso: Palazzo di Roma. Entrambe sono vicino al Vitelleschi, sede mare e a corsi d’acqua, per cui condel Museo trollano le vie naturali. Hanno tutte Archeologico le premesse per un grande sviluppo, Nazionale di poiché nascono in luoghi privileTarquinia. giati dalla geografia e ricchi di beni primari (risorse minerarie, acqua, vicinanza dal mare e difendibilità dei pianori). Per questo diventano ben presto anche baricentri di bacini economici e vere e proprie capitali di cultura, protagoniste assolute della storia del Mediterraneo centrale. Hanno un rango pari a Cartagine, Siracusa e poche altre e conquistano una grande centralità nel mondo antico: i loro interlocutori, nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, sono Corinto, Atene e le maggiori città dell’Asia Minore. Sono metropoli che fondano empori, con un’economia fiorente che produce un surplus da esportare: hanno tutti i “numeri” dei grandi centri mercantili. Sono città le cui proiezioni sul mare non sono porti qualunque, come non lo fu il Pireo per Atene. Un parco che mette insieme due realtà archeologiche cosí fortemente caratterizzate è rivoluzionario».

♦ Nel momento di massima fioritura, quanti abitanti contavano queste due metropoli? «Le stime piú prudenti parlano per Cerveteri di 25mila abitanti, le piú alte (forse un po’ eccessive) di 80-100 mila (cifra ipotizzata da Raniero Mengarelli, l’archeologo che guidò le campagne di scavo nella necropoli della Banditaccia dal 1908 al 1933). La situazione per Tarquinia doveva essere simile. Per città di quel periodo

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L’INTERVISTA • IL PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA

sono grandi numeri, ben diversi dai contempo- to ci sono diversi modi, e si potrà puntare anche ranei insediamenti del Latium Vetus, che, non a sulle nuove tecnologie. Poi c’è l’aspetto della mobilità: bisognerà lavorare con le amministracaso, sono stati poi fagocitati da Roma». zioni locali per migliorare gli spostamenti tra le ♦ Quali problematiche si trova ad affrontare, stazioni ferroviarie e i siti archeologici, che non come direttore del neonato Parco archeologi- sono prossimi alla rete dei treni». co di Cerveteri e Tarquinia? «Il problema principale è, da un lato, salvaguar- ♦ Quali sono le sue idee sul fronte delle nuove tecnologie? dare un patrimonio cosí unico, ma al tempo stesso vulnerabile e, dall’altro, far conoscere al «A Cerveteri ci sono installazioni multimediali pubblico l’importanza di questi siti e dei due in parte obsolete, che possono essere attualizzamusei, a livello locale, ma anche nazionale e te. È in corso un progetto di valorizzazione del internazionale. Questa consapevolezza non è sito e del museo, non ancora concluso, che audiffusa nell’immaginario collettivo: è raro che spichiamo di poter inaugurare presto. Anche a un gruppo di turisti proveniente dal Nord Italia Tarquinia l’obiettivo è sfruttare in futuro le posoppure dall’estero, per esempio, programmi un sibilità offerte dalle nuove tecnologie per miweek end nel Lazio, proprio (e soltanto) per visi- gliorare la visita delle tombe dipinte che, essentare le città etrusche. Ma deve poter accadere. La do ipogee, pongono problemi particolari di acprima sfida è quindi la comunicazione. Dobbia- cesso e di sicurezza». mo riuscire a “rivelare” al pubblico l’importanza del patrimonio archeologico di Cerveteri e ♦ Amplierete il percorso di visita, aprendo aree adesso chiuse al pubblico? Tarquinia. Per potenziare le capacità di racconA sinistra: il magnifico cratere attico a figure rosse plasmato da Eussiteo e dipinto da Eufronio. 510 a.C. Cerveteri, Museo Archeologico Nazionale Cerite.

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«In entrambi i siti saranno certamente previste nuove aperture, compatibilmente con l’aumento del personale di custodia, che al momento è sotto organico. Speriamo di poter ampliare l’offerta con le nuove forze in arrivo». ♦Q uali nuove tombe renderete visitabili? «Il decreto istitutivo del parco ha notevolmente ampliato le aree archeologiche, sia a Cerveteri che a Tarquinia, ma sarà un processo graduale, poiché bisognerà garantire prima la sicurezza e realizzare recinzioni, cartellonistica e percorsi di visita». ♦Q uali sono le condizioni del verde nei due siti archeologici? «Attualmente buone. Per garantirne la manutenzione insisteremo molto sulla programmazione, ma le problematiche sono diverse tra i due siti. A Cerveteri ci sono i tumuli e una massiccia presenza di vegetazione, poiché nel corso del tempo c’è stato un ricorso al verde – ormai storicizzato – con piante decorative, cipressi e alberi decorativi ad alto fusto, piantati artificialmente prima della grande guerra. Il che conferisce al sito un aspetto paesaggistico gradevole, ma pone problemi di sicurezza e manutenzione. L’area archeologica di Tarquinia, invece, non ha questa criticità, poiché in superficie non si vedono i tumuli e manca la vegetazione. Ci sono, tuttavia, altri problemi, come quelli legati alla conservazione e al monitoraggio degli intonaci e degli apparati dipinti».

In alto: la kylix attica a figure rosse firmata da Eufronio e dipinta dal suo allievo Onesimo. 500-490 a.C. Cerveteri, Museo Archeologico Nazionale Cerite. Il vaso fu restituito all’Italia dal Getty Museum di Malibu nel 1999 e, piú tardi, il nucleo TPC dei Carabinieri ne recuperò un altro frammento, che si vede nella foto prima del suo reinserimento. In basso, sulle due pagine: frammento di lastra in terracotta dipinta con meandro, da Cerveteri. Questo genere di decorazioni architettoniche è una produzione tipica dell’antica città etrusca e si data fra il 530 e il 480 a.C.

♦ Come ha trovato lo stato conservazione delle pitture delle tombe di Tarquinia? «Le tombe sono state conservate con grande cura in passato dagli enti di tutela e dai funzionari della Direzione Regionale Musei del Lazio.

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L’INTERVISTA • IL PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA

Patrimonio dei Carabinieri. Ma, soprattutto, per il Parco che sta nascendo è fondamentale il supporto della Direzione Generale Musei, che ha fortemente voluto il nuovo istituto autonomo. Questa sinergia aiuterà a creare il “sistema parco”. Sono convinto che ci sarà un’intesa perfetta, perché valorizzazione, ♦ Cosa può dirci dei rapporti con la Soprintenden- conservazione e conoscenza potranno viaggiare inza e con gli altri «attori» della tutela del patrimo- sieme solo con l’aiuto di tutti». nio archeologico? «Sono molto soddisfatto della disponibilità e delle ♦ E quale aiuto potrà dare il mondo universitario? collaborazioni istituzionali già in essere con le due «Possiamo ragionare in maniera organica sui due siti, amministrazioni comunali, la Soprintendenza arche- elaborando una progettualità sui quattro anni che valoologica, la Direzione Regionale Musei e – mi fa rizzi l’insieme dei due patrimoni, coinvolgendo anche piacere sottolinearlo – anche con il Nucleo Tutela le università e gli enti di ricerca. L’ambizione è quella di partire dai risultati dalle ricerche già in corso, ma anche avviare nuovi progetti. Auspichiamo infatti di coinvolgere le università, sia italiane che straniere, creando progetti che possano aiutarci a rinnovare l’allestimento dei musei e alimentare iniziative come mostre temporanee e non solo». È stato svolto un lavoro eccellente, anche con interventi mirati e con l’aiuto delle associazioni, laddove era piú urgente. Adesso speriamo di potenziare questo aspetto, anche con l’aiuto della ricerca che, soprattutto nell’ambito del restauro, è molto avanzata».

♦ Cerveteri e Tarquinia sono state le mete forse piú ambite della «grande razzia» da parte dei trafficanti di reperti archeologici, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e i vasi trafugati dai loro territori riempiono le sale dei musei di mezzo mondo… Qual è la situazione attuale? «Il fenomeno, ora, è sotto controllo. C’è una grande attività di prevenzione che frena il traffico di reperti archeologici. Non ci sono stati casi eclatanti ultimamente, anche se il fenomeno è endemico, anche culturalmente, come frutto di una mentalità che andrebbe estirpata. C’è l’idea della non gravità del furto di oggetti archeologici, che è invece una piaga, poiché si tratta di un furto di storia. Serve molta attenzione e il parco sarà impegnato con tutti gli strumenti, auspicabilmente anche con un accordo specifico con il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri. Negli ultimi anni sono stati fatti grandi passi in avanti per il recupero del nostro patrimonio. La prima idea di parco a Cerveteri e a Tarquinia nasce, tra gli anni 34 a r c h e o


sociale, come luoghi della cultura, che appartengono a tutti, ma ovviamente è obbligatorio continuare a tenere sotto controllo gli scavi clandestini. Il parco manterrà il suo ruolo di “guardiano”, in una lotta senza quartiere ai tombaroli».

Settanta e Novanta, proprio con l’obiettivo di fare da argine all’abusivismo edilizio e agli scavi clandestini. I parchi nascevano con questa grande spinta civica, per garantire la difesa e la salvaguardia del patrimonio. Oggi i parchi archeologici hanno anche un ruolo

♦ È previsto il ritorno «a casa» di reperti archeologici trafugati, come già in passato? «Sí, ma non posso dire molto di piú... Grazie al lavoro dei Carabinieri e della Soprintendenza torneranno a breve alcuni materiali riacquisiti da musei sia europei che d’oltreoceano, che provengono dalle aree di cui stiamo parlando. Molti beni archeologici frutto di traffico illecito sono stati recuperati negli anni passati e, dagli anni Duemila a oggi, i ritorni piú celebri hanno avuto per protagonisti reperti provenienti da Cerveteri. L’ultimo rientro di beni archeologici ceretani trafugati è quello delle lastre dipinte recentemente

In alto, sulle due pagine: una veduta della necropoli di Monterozzi, a Tarquinia, con le strutture costruite per proteggere i corridoi d’accesso alle tombe dipinte. A destra: il profilo di Velia Velcha, particolare di una delle pitture murali della Tomba dell’Orco I. Secondo quarto del IV sec. a.C. Tarquinia, Necropoli di Monterozzi. Nella pagina accanto: particolare di una delle pitture murali della Tomba delle Leonesse. 520 a.C. circa. Tarquinia, Necropoli di Monterozzi.

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L’INTERVISTA • IL PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA

esposte nella mostra “I colori degli etruschi”. Tutto il nucleo delle lastre che prima erano conservate al Ny Carlsberg Glypotek di Copenaghen, che le aveva comprate con incauto acquisto, è stato restituito a Cerveteri. Ora abbiamo un capitale enorme, avendo ricomposto il complesso delle pitture. Si tratta di materiale decontestualizzato, che però si riesce ad articolare in complessi omogenei. Questo tipo di lastre sono una specialità di Cerveteri: sono state rinvenute solo In alto: la sala superiore del Museo Archeologico Nazionale Cerite. Sulle due pagine: Cerveteri. L’interno della Tomba del Pilastro nella necropoli della Banditaccia. IV sec. a.C.

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legalmente al Metropolitan Museum di New a Cerveteri, Falerii, Veio e ora anche a Roma, dagli York. Dove è esposto, adesso? scavi sul Palatino, ma è un fenomeno che ha la sua «È tornato a casa, nelle sale del Museo Nazionale capitale a Cerveteri». Cerite, dove fa la “star” al primo piano. Fu il vaso piú ♦ Da Cerveteri viene anche il celebre cratere di pagato del mondo, quando venne acquistato dal MeEufronio, il reperto forse piú famoso (e prezioso) tropolitan per una cifra esorbitante. Il “vaso da un mai rientrato in Italia dall’estero, finito al centro milione di dollari” – cosí è passato alla storia – era di un celebre processo per traffico di beni arche- prezioso come oggi una tela impressionista… Si tratologici, poiché trafugato nel 1971 e venduto il- ta di un capolavoro dell’arte attica della fine del VI

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ti europei e statunitensi possiedono collezioni di antichità etrusche acquisite legalmente, in particolare nell’Ottocento. Allora le norme erano diverse e consentivano l’esportazione di reperti archeologici. Con lo Stato Pontificio, nel Lazio, i latifondisti potevano chiedere l’autorizzazione e scavare con risorse proprie: i reperti erano in parte trattenuti dal papa, in parte venduti. Con lo Stato unitario, invece, l’Italia si dota di leggi di tutela. Dal 1939 in poi non è piú possibile ♦ Molti vasi etruschi, tuttavia, sono esposti in tut- impossessarsi di reperti archeologici e avviarli al comto il mondo in maniera lecita. Come è possibile, mercio antiquario. Nel secondo dopoguerra tuttavia, se provengono inequivocabilmente da Cerveteri anche grazie all’evoluzione del gusto per le arti decorative e grazie allo sviluppo del mercato antiquario, tra o Tarquinia? «Sono arrivati a quei musei per vie legali. Molti istitu- Italia, Svizzera, Germania e Stati Uniti, c’è stata un’esecolo a.C., modellato dal vasaio Eussiteo e dipinto appunto da, Eufronio, il piú celebre ceramografo della Grecia antica. È rientrato in Italia nel 2008, qualche anno dopo la restituzione di un altro straordinario vaso di Eufronio, la kylix trafugata e finita al Getty Museum di Malibu, a Los Angeles. Al di là dell’aspetto finanziario, abbiamo a che fare con capolavori assoluti della pittura vascolare greca».

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splosione delle attività clandestine. I due fenomeni ni diagnostiche e – se ci saranno le premesse – qualprocedono di pari passo: il collezionismo privato ali- che intervento di scavo». menta scavi clandestini e viceversa». ♦ E dove vorrebbe scavare, ha già un’idea? ♦ Avete già in mente nuove scoperte da proporre «Sí, ma non posso rivelarla! Punteremo sulla ricerca, vista anche la mia provenienza di etruscologo che al pubblico? «Il parco si candida a ospitare sotto forma di esposi- opera sul campo da molti anni». zione temporanea e permanente i risultati dei nuovi scavi nell’area urbana sia di Cerveteri che di Tarqui- ♦ E poi c’è da scavare nei (ricchissimi) depositi dei nia, dove da decenni operano università anche stramusei di Cerveteri e di Tarquinia… niere. Vorremmo far conoscere al grande pubblico i «I depositi dei due musei sono un “museo dentro il risultati degli scavi archeologici che sono in corso sia museo”. Il museo di Tarquinia è nato cento anni fa ed nelle aree urbane, sia nelle necropoli. Anche noi – è quindi facile immaginare la stratificazione di reperti spero – avvieremo delle ricerche sul campo, indagi- archeologici che si è venuta a creare. A Cerveteri il

In alto: il Castello Ruspoli di Cerveteri, sede del Museo Archeologico Nazionale Cerite. A sinistra, sulle due pagine: veduta a volo d’uccello della necropoli della Banditaccia, a Cerveteri. Sulla sinistra l’area del Recinto, sulla destra uno dei Grandi Tumuli.

museo esiste da cinquant’anni, ma la quantità di reperti archeologici esposti è minima rispetto a quello che c’è nei depositi: veri e propri “tesori in soffitta” che noi porteremo alla luce grazie a iniziative mirate. Il museo di Tarquinia dispone di un deposito moderno, nel quale si può studiare e fare ricerca. Quello di Cerveteri è meno ordinato, ma ha potenzialità formidabili, poiché è ricco di materiale prevalentemente inedito proveniente anche dalla Civita, non solo dalle necropoli e dal territorio. I depositi “che vorrei” sono luoghi vitali, pieni di giovani studiosi che catalogano, disegnano o studiano reperti archeologici. Anche il pubblico dovrebbe essere coinvolto nella valorizzazione dei depositi, per comprendere il lavoro dell’archeologo, del restauratore o del curatore museale. Si può creare, poi, un ricambio nell’allestimento dei materiali, sostituendo alcuni reperti con oggetti nuovi, cosí da mostrare al pubblico i ritrovamenti piú recenti». a r c h e o 39


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SCOPERTE • SUL MARE DI GALILEA/1

CERCANDO LA CITTÀ DEGLI APOSTOLI

P

er 38 anni, dal 4 a.C. al 34 d.C., Erode Filippo II, figlio di Erode il Grande e noto anche come Filippo il Tetrarca, governò il Nord della Transgiordania, regione che si estende dal Monte Hermon (situato al confine tra l’attuale Libano e Siria) fino all’area orientale del Mare di Galilea (noto anche come Lago di Galilea, di Tiberiade o di Genesaret, dall’ebraico Kinneret, n.d.r.). Intorno al 30 d.C., Filippo fondò una città al confine meridionale della sua tetrarchia, proprio sulle coste del lago. La nuova città andò ad aggiungersi alla capitale amministrativa, Cesarea di Filippo (conosciuta an42 a r c h e o

che con il nome ellenistico di Banyas, dal greco Paneas, dovuto alla presenza di un tempio dedicato al dio Pan, n.d.r.), che Filippo aveva fondato già tre decenni prima, nel 3 a.C., nella parte settentrionale della tetrarchia, e dove suo padre aveva fatto costruire un tempio in onore di Augusto, come ci riferisce Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche (Ant. 15, 363). Per la costruzione di questa sua nuova polis meridionale, però, Filippo non iniziò da zero. Il figlio di Erode il Grande, infatti, scelse di trasformare in città un villaggio giudaico già esistente lunga la costa del lago, Betsaida, la «casa della pe-

sca» (o «della caccia»), rinominandolo Julia, in onore della vedova di Augusto e madre di Tiberio. La maggior parte di queste informazioni sfuggono ai lettori del Nuovo Testamento, che, infatti, menziona il nome del villaggio giudaico, ma non quello della polis che lo sostituí. Non è chiaro il motivo di tale omissione, considerando che, in altre parti, il Nuovo Testamento riporta i nomi delle città fondate durante la dinastia erodiana, tra cui, per esempio, Tiberiade (Giovanni, 6:23), Cesarea di Filippo (Matteo 16:13; Marco 8:27) e Antipatride (Atti 23:31). Inoltre, la collocazione esatta della


NELL’ANTICHITÀ, LE RIVE DEL MARE DI GALILEA – O LAGO DI TIBERIADE – ERANO SCANDITE DALLA PRESENZA DI VILLAGGI E CITTÀ I CUI NOMI RIEVOCANO LE VICENDE NARRATE NEL VANGELO: TIBERIADE, MAGDALA, CAFARNAO...E BETSAIDA, DOVE NACQUERO PIETRO, ANDREA E FILIPPO. DUE ARCHEOLOGI SI SONO MESSI ALLA RICERCA DELLE SUE VESTIGIA SCOMPARSE... di R. Steven Notley e Mordechai Aviam

città è rimasta un mistero fino a oggi, ma non si tratta di una circostanza eccezionale. Una delle sfide piú grandi dell’archeologia contemporanea, infatti, è quella di stabilire l’identità dei siti scavati, e il ritrovare un’iscrizione che ne confermi il nome accade solo raramente. Per lo piú, infatti, l’identificazione avviene mettendo insieme una serie di «prove indiziarie».

A DORSO DI CAVALLO La riscoperta delle città perdute menzionate nella Bibbia è stata, come sappiamo, un processo lento iniziato nel XIX secolo, quando viaggiatori europei e americani

raggiunsero luoghi del Levante fino a quel momento difficilmente accessibili. Edward Robinson (1794-1863), teologo e biblista dell’Union Theological Seminary di New York City, è stato tra i primi a tentare di individuare questi luoghi dimenticati. Accompagnato da Eli Smith, esperto di lingue semitiche, Robinson esplorò la regione negli anni Trenta e Cinquanta del XIX secolo, sempre rigorosamente a cavallo. I due studiosi si resero conto, cosí, che molti degli antichi nomi ebraici dei siti visitati si erano preservati nell’equivalente nome arabo moderno. Tuttavia, ancora oggi numerosi luo-

Il Mare di Galilea (noto anche come Lago di Tiberiade o di Genesaret, dall’ebraico Kinneret) in una veduta aerea da ovest verso est, verso le alture del Golan. A sinistra, prima dell’inizio delle alture, si riconosce la foce del Giordano nei cui pressi si trova il sito di el-Araj.

ghi nominati nelle fonti antiche rimangono senza una localizzazione precisa: e Betsaida-Julias è uno di questi. Secondo Robinson, il villaggio descritto nel Nuovo Testamento era da identificare con et-Tell, un sito che si trova su una piccola collina al confine della valle di Betsaida, a circa 2,5 km di distanza dalle a r c h e o 43


SCOPERTE • SUL MARE DI GALILEA/1

coste del Lago di Galilea, e scavato a partire dal 1987 da Rami Arav dell’University of Nebraska. Secondo gli archeologi che scavano a et-Tell, il loro sarebbe il sito dell’antica Betsaida. Eppure, già dai tempi di Robinson non tutti erano d’accordo con questa identificazione. Tra questi, Gottlieb Schumacher, un ingegnere civile e architetto americano trasferitosi a Haifa. Secondo Schumacher, il sito di et-Tell è troppo lontano dalle coste

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del lago per essere un villaggio di pescatori. Il sito di el-Araj, invece, considerata la sua vicinanza al lago e a numerosi ritrovamenti in superficie, gli sembrava un candidato assai piú valido. Le testimonianze storiche piú antiche riguardanti Betsaida/Julias forniscono numerosi dettagli a proposito della sua collocazione, del contesto naturale nonché sulla storia della sua formazione. Il villaggio è inizialmente menzionato

all’interno del Nuovo Testamento (Matteo 11:21; Marco 8:22) insieme ai siti di Cafarnao, Corazim e Nazaret, città che furono fondate, con tutta probabilità, nel corso dell’espansione di insediamenti nel nord del Paese, avvenuta durante il periodo della dinastia degli Asmonei (142-76 a.C.). Il Nuovo Testamento – ma anche lo storico Giuseppe Flavio – colloca Betsaida sulle coste del lago. E, secondo Marco (6:45), Gesú si recò


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Il limite orientale della storica regione della Galilea è segnata dalla presenza del Mare di Galilea (o Lago di Tiberiade, di Genesaret o Kinneret). È il piú profondo lago d’acqua dolce del mondo – si trova a 212 m sotto il livello del mare – nonché il piú grande d’Israele. Lungo 21 km e largo 12, è attraversato da nord a sud dal fiume Giordano. Nell’antichità, sulle sue rive si susseguirono numerose località, rese celebri dalla narrazione neotestamentaria, e alla cui riscoperta si sono dedicate generazioni di archeologi.

Tiro

Mar Mediterraneo

Sefforis rm Ya

Nazaret

Bet Shearim

Monte Tabor

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Hammat Gader

Megiddo Bet Alpha Bet Shean (Scitopoli)

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Samaria

In alto: le regioni settentrionali di Israele con l’indicazione del Mare di Galilea e i principali siti citati nel testo. A sinistra: il sito archeologico di el-Araj, sulla sponda est del Mare di Galilea, in prossimità di un meandro del Giordano che qui si immette nel lago.

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Il lago del Nuovo Testamento

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nella città viaggiando su di una barca, come fecero i rinforzi giudei provenienti da Taricheae (Magdala) agli inizi della prima rivolta giudaica contro Roma (GF, Vita 406). Giuseppe Flavio descrive il villaggio di Betsaida «vicino al lago» (A.G., 18.28) e, nel Vangelo secondo Giovanni, il villaggio viene descritto come abitato da pescatori (ovvero Pietro, Andrea e Filippo) elencati tra i seguaci di Gesú (Giovanni 1:44). Inoltre, le prime fonti rabbiniche menzionano piú volte l’attività ittica di Betsaida (Talmud di Gerusalemme, Sheqalim 6, 50a). Tra le descrizioni piú dettagliate della geografia del delta intorno a a r c h e o 45


SCOPERTE • SUL MARE DI GALILEA/1

Betsaida-Giulia vi è quella offerta da Flavio Giuseppe (Vita 398–406) nella sua cronaca dello scontro tra il contingente di Giudei da lui comandato e l’esercito di Agrippa II: i dettagli topografici forniti da Flavio Giuseppe riguardanti la posizione di Betsaida/Julias, vicina alle alle truppe nemiche, al fiume Giordano e al lago costituiscono indizi importanti per la ricerca del sito. Grazie alla testimonianza di Flavio Giuseppe sappiamo che le truppe di Agrippa II, assegnate a Sulla, comandante della sua guardia personale, erano stazionate a est del fiume Giordano, a circa 800 m (500 stadi) da Betsaida-Julias, lungo la strada che conduceva verso l’entroterra a est, in direzione di Seleucia e Gamala (Vita 398). L’obiettivo era infatti quello di isolare le città del basso Golan dai centri della rivolta in Galilea. Flavio Giuseppe rispose schierando 5000 dei suoi sulla sponda occidentale del fiume, a circa 150 m (100 stadi) da Betsaida. Secondo le misurazioni dello storico, le due fazioni opposte non erano molto distanti fra di loro ed erano separate solamente del fiume Giordano.

L’IMBOSCATA Flavio Giuseppe tentò di attirare le truppe mercenarie di Agrippa in un’imboscata, mandando una piccola unità dall’altro lato del fiume. Una volta giunti sulla sponda opposta, i Giudei finsero la ritirata e vennero inseguiti dalle truppe di Sulla. Durante lo scontro successivo, Flavio Giuseppe cadde da cavallo nel terreno fangoso, rimanendo ferito. Fu portato in salvo dai suoi, prima a Cafarnao e poi a Tarichee. Il mattino successivo, i rinforzi giudei, secondo quanto riferito da Flavio Giuseppe, salparono da Tarichee in direzione di Betsaida/Julias. Quest’ultimo episodio sembra sottolineare che Betsaida/Julias non fu il luogo nel quale si svolse la battaglia e, inoltre, che la città dovesse essere posizionata proprio sulle 46 a r c h e o


A sinistra: l’archeologo Yehoshua Dray mentre esegue le misurazioni dei livelli scavati a el-Araj. In basso: l’archeolgo Mordechai «Motti» Aviam mostra un vaso ricomposto, databile al XII-XIII sec., quando, in pieno periodo crociato, a el-Araj era attivo uno zuccherificio.

sponde del lago, dato che i rinforzi arrivarono per nave. Flavio Giuseppe rappresenta, tuttavia, l’unica fonte a conferma che proprio Filippo il Tetrarca avesse trasformato il villaggio di pescatori in una piccola città romana. L’unico passo in cui Flavio Giuseppe menziona il toponimo di Betsaida, successivamente cambiato in Julias, come lui stesso riporta, si trova nelle Antichità giudaiche: «…e la zona di Betsaida, sul lago di Genezaret la eresse al grado di città aumentandone gli abitanti e irrobustendone le fortificazioni; e la chiamò Giulia da nome della figlia di Cesare» (Ant. 18, 28). In tutte le altre occasioni, Flavio Giuseppe si riferisce a Betsaida con il suo nome ellenizzato: Julias. Malgrado l’attribuzione, larga parte della comunità scientifica ritie-

ne che lo storico abbia confuso Giulia, la figlia di Augusto, con Livia, moglie dell’imperatore, il cui nome venne cambiato in Giulia Augusta nel 14 d.C., quando entrò a far parte della gens imperiale. Essendo Giulia Augusta morta nel 29 d.C., è probabile dunque che la decisione di fondare Betsaida (Julias) da parte di Filippo fosse legata alla volontà di commemorare la madre di Tiberio. È plausibile, infatti, che Filippo abbia voluto seguire l’esempio del fratello Erode Antipa, il quale ribattezzò Betharamphtha, città della Transgiordania, in «Giulia dal nome della moglie dell’imperatore» (Ant. 18.27). Flavio Giuseppe riporta anche che Filippo morí a Julias e che da lí fu trasferito in processione funebre al suo mausoleo (Ant.18,108). Tuttavia, Flavio Giuseppe non specifica il luogo della tomba di Filippo, i cui resti rimangono a oggi sconosciuti.

LA TESTIMONIANZA DI EUSEBIO Betsaida/Julias continuò a esistere durante il periodo romano, come confermano due autori del tempo: Plinio il Vecchio (77 d.C., Storia Naturale, 5.15) e Claudio Tolomeo (150 d.C., Geografia, 5.15.3). A loro vanno poi aggiunte citazioni nella letteratura rabbinica antica, nelle quali appare il nome semitico Saidan. Dopo il II secolo d.C. Betsaida non è piú una città nota ai rabbini, mentre, intorno al 305 d.C., il vescovo Eusebio di Cesarea, nel suo catalogo dei luoghi menzionati nella Bibbia ebraica e nei Vangeli, descrive Betsaida con queste parole: «La città di Andrea, Pietro e Filippo. Posizionata in Galilea, vicino al lago di Genesaret» (Onomasticon 58.11). Eusebio ricavò tali informazioni dal Vangelo secondo Giovanni (Giovanni 1:44; 12:21) e dalla descrizione di Flavio Giuseppe (Ant.18.28). Dalla descrizione di Betsaida fornita da Eusebio non emergono nuovi dettagli sul luogo, la sua descrizione è a r c h e o 47


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una mera ripetizione di quanto riportavano le fonti note risalenti al I secolo. Ne possiamo dedurre che, verso la fine del III secolo d.C., la città natale degli Apostoli fosse stata ormai abbandonata. Eppure, come vedremo, il silenzio che riguarda Betsaida non è casuale. L’assenza di testimonianze potrebbe rivelarsi, in questo caso e con un gioco di parole, la «testimonianza di un’assenza». Il silenzio letterario, curiosamente, corrisponde alla mancanza di resti materiali nel sito di el-Araj, e per almeno due secoli all’inizio del periodo bizantino. La successiva menzione di Betsaida risale, infatti, a Teodosio, pellegrino bizantino in Terra Santa nel 530 d.C. Egli descrive brevemente il suo viaggio da Tiberiade a Paneas (Cesarea di Filippo): «Da Tiberiade a Magdala, dove nacque Maria, sono due miglia. Da Magdala a Tabgha, dove Gesú Cristo battezzò gli apostoli, e dove distribuí cinque pani e due pesci, sono due miglia. Da Tabgha a Cafarnao sono due miglia. Da Cafarnao sono sei miglia fino a Betsaida, dove sono nati gli apostoli Pietro, Andrea, Filippo e i figli di Zebedeo. Da Betsaida fino a Paneas sono 50 miglia. Qui, il Giordano nasce da due fonti, Jor e Dan» (da Paul

Geyer, Itinera Hierosolymitana saeculi III-VII, reconstruit et commentario critic instruxit,Vienna 1898). Il fatto che un pellegrino cristiano parli di una località chiamata Betsaida è una testimonianza chiave. Apparentemente, la posizione della città non era piú sconosciuta, anche se questo non significa automaticamente che la Betsaida di età bizantina corrispondesse alla città romana, come dimostrano i numerosi esempi di errata identificazione del tempo. Eppure, i cristiani del periodo bizantino, dopo circa due secoli, cominciarono nuovamente a parlare di una località chiamata Betsaida.

UN VESCOVO BAVARESE Nel descrivere il suo itinerario, Teodosio non fa alcuna menzione di chiese o santuari ma si riferisce solamente a eventi del Nuovo Testamento. Inoltre, la direzione e le tappe sul suo cammino non sembrano essere casuali o peculiari di Teodosio. Lo stesso tragitto, infatti, viene percorso due secoli dopo da Villibaldo, vescovo di Eichstätt in Baviera: «Da [Tiberiade] hanno circumnavigato il mare, dal villaggio di Magdala a quello di Cafarnao, dove nostro Signore crebbe la figlia del prin-

Resti di una lucerna (qui sotto) e un frammento di intonaco con tracce di rosso pompeiano (nella pagina accanto in basso) rinvenuti a el-Araj. I reperti suggeriscono la presenza di un insediamento importante in età romana.

cipe. Qui c’era una casa e un grande muro, la quale era, secondo gli abitanti del posto, la casa di Zebedeo e dei suoi figli Giovanni e Giacomo. Poi, [da Cafarnao], si recarono a Betsaida, da cui provenivano Pietro e Andrea. Qui c’è ora una chiesa dove prima sorgeva la loro casa. Sono rimasti qui una notte, e la mattina dopo si sono recati a Corazin, dove nostro Signore curò i demoniaci […] . Qui c’era una chiesa dei Cristiani. Dopo aver eseguito le loro preghiere, si recarono nel luogo delle due fonti, Jor e Dan, che sgorgano dalla terra e scorrono giú dalla montagna fino a unirsi e formare il fiume Giordano». 48 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

In alto: gli archeologi Achya Cohen-Tabor (a sinistra) e Steven Notley esaminano le probabili mura di un monastero di età bizantina, costruito vicino alla «Chiesa degli Apostoli». Le mura sono conservate per un’altezza di oltre 1,5 m.

Per molti studiosi, la menzione di Corazin da parte del vescovo Villibaldo è indice di una sua certa confusione: attraversare il fiume Giordano una prima volta per raggiungere Betsaida, una seconda per visitare Corazin e, infine, una terza e ultima volta per proseguire il viaggio verso nord non appare molto sensato. Per questo motivo ci si era convinti che Villibaldo abbia confuso Betsaida con la sempre vicina Cafarnao. Di conseguenza, la chiesa bizantina menzionata nella descrizione di Villibaldo è stata da alcuni «ricollocata» e identificata con la a r c h e o 49


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I frammenti di un edificio sacro Prima di trovare la «Chiesa degli Apostoli» vera e propria, un gran numero di frammenti architettonici avevano attirato l’attenzione degli archeologi di el-Araj. Tra questi figurano i resti di un pilastro in pietra calcare intagliato (a destra) e il frammento marmoreo di un capitello ionico. Durante recenti lavori di sterro è venuto in luce un grande frammento di basalto (nella pagina accanto, in alto a destra), forse un reliquiario.

chiesa bizantina che tutti conosciamo, quella di Cafarnao, appunto. Eppure, l’itinerario del vescovo non è affatto sbagliato.Villibaldo, infatti, ha riportato in ordine corretto i luoghi visitati: solo che ha confuso «Corazin» con «Kursi» (in latino Chorsia), la città munita di una chiesa bizantina e di un monastero, ma che si trova sulla riva orientale del lago. L’errore è evidenziato dal fatto che Villibaldo, riferendosi a Corazin, afferma che era il luogo dove «nostro Signore curò i demoniaci e mandò il diavolo all’interno di una mandria di porci». L’episodio dell’esorcismo, riportato nel Vangelo di Luca (8, 26-39), all’interno della tradizione cristiano-bizantina, è descritto come avvenuto a Kursi, mai a Corazin (l’odierna Khirbet Karazeh). Se interpretato correttamente, dunque, Villibaldo ci propone un altro itinerario di pellegrinaggio intorno al Lago di Tiberiade, non molto diverso da quello di Teodosio, ma con, in aggiunta, una serie di dettagli relativi a una chiesa costruita sopra la casa di Pietro e Andrea a Betsaida.

ciato dalle testimonianze letterarie non coincide con i risultati di oltre trent’anni di scavi nel sito di et-Tell. Ecco perché abbiamo iniziato a esplorare il sito di el-Araj, un candidato assai piú probabile per l’identificazione con Betsaida. Nel 2014, è stata organizzata una ripulitura della superficie di el-Araj (scavando e setacciando il suolo da diversi riquadri di 5 x 5 m e profondi circa 30 cm) per creare un profilo del sito e della storia del suo inUN CANDIDATO sediamento attraverso la datazione MOLTO PROBABILE Passiamo ora ai dati archeologici. Il offerta dalla ceramica. Cosí abbiamo quadro storico e geografico della trovato tracce di un insediamento in Betsaida/Julias di età romana trac- età romana, bizantina, islamica e 50 a r c h e o

perfino crociata, ovvero proprio i periodi in cui Betsaida appare nelle fonti letterarie. Nel 2016 poi, è stato lanciato l’«ElAraj Excavation Project». Dato il budget limitato, l’impegno iniziale fu relativamente ridotto. Se molte missioni di scavo richiedono cento o piú volontari per circa sei settimane, il team a el-Araj era composto da meno di 20 persone, impegnate per circa due settimane. Inizialmente gli scavi si sono concentrati attorno all’area delle rovine della «Bek’s House», una villa sulla costa del lago, costruita nel XIX secolo da Abdul Rahim Bek, ricco


In basso: ortofotografia dei resti della chiesa bizantina (V-VIII sec.) scoperta a el-Araj nel 2019 e denominata «Chiesa degli Apostoli», con riferimento all’edificio sacro del villaggio abitato dai discepoli Pietro, Andrea e Filippo.

proprietario terriero dell’intera Valle di Beteiha e di parte del Golan. Un ospite che vi aveva soggiornato nel 1929 afferma di aver visto un mosaico colorato che era stato portato alla luce proprio vicino alla casa. Da qui la nostra decisione di

indagare per stabilire se il mosaico appartenesse a una chiesa del periodo bizantino o se si riferisse a una struttura di età romana. Nello strato superiore degli scavi abbiamo trovato resti che testimoniano la produzione di zucchero

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durante il periodo dei crociati, i quali riutilizzarono in ampia parte le mura bizantine ancora in piedi. Nel 2017, gli scavi hanno permesso di identificare le strutture di un monastero bizantino che affiancava la chiesa. Si tratta di una combinazione piuttosto comune in Galilea, simile a quanto possiamo osservare nella città bizantina di Kursi. Anche se ancora non siamo stati in grado di individuare le mura della chiesa, la sua esistenza è segnalata senz’ombra di dubbio dalla presenza di numerose tessere di mosaico dorate, tipiche esclusivamente della decorazione musiva murale delle chiese dell’epoca. Da qui la decisione di effettuare due sondaggi per verificare la presenza di eventuali resti romani sotto i pavimenti di epoca bizantina. E infatti, sotto il pavimento bizantino – datato, grazie al rinvenimen-

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to di numerose monete, al V secolo d.C., probabile periodo di fondazione del monastero – abbiamo incontrato circa 1 m di differenti strati di limo proveniente dal fiume Giordano. Questo strato era totalmente privo di reperti archeologici, un’assenza che coincide con i due secoli di silenzio delle fonti letterarie e sembra confermare che in quel periodo, effettivamente, il sito fosse dunque abbandonato.

210 METRI SOTTO IL MARE Immediatamente sotto lo strato alluvionale abbiamo rinvenuto uno strato compatto con presenza di ceramica e monete di età romana, ma senza alcun oggetto di età bizantina. Inoltre, abbiamo portato alla luce parte di un mosaico a pavimento a circa 210 m sotto il livello del mare, un dato che corrisponde a una profondità di ben 3 m in-

feriore a quello che viene generalmente considerato il livello del lago nel I secolo d.C. (cosí, l’esito dei nostri scavi ha portato non solo a riconsiderare la questione degli insediamenti lungo le rive del Lago di Tiberiade nel periodo del Nuovo Testamento, ma ha anche suggerito di riesaminare la questione del livello del lago – il piú basso serbatoio di acqua dolce sulla terra – nel periodo romano). Il pavimento a mosaico era composto da tessere bianche e nere, articolate secondo un disegno a meandro, simile a quello del pavimento della sinagoga di Magdala, recentemente scoperta, e a quello delle terme della prima età romana, sempre di Magdala. Possiamo dedurne che il nostro mosaico appartenesse a una terma di tipo romano, come attestato dalla presenza di mattoni di ceramica e tubuli, intonaco colorato,


Mosaici in bianco e nero e policromi ricoprivano la navata centrale (a sinistra) della chiesa bizantina scoperta a el-Araj. L’iscrizione musiva della foto in alto è una delle due rinvenute durante la campagna di scavo del 2020.

marmo, mattonelle di pietra colorata e tegole. Un ulteriore indizio dell’appartenenza di questo strato all’età romana è offerto dal ritrovamento di una moneta neroniana datata al 63 d.C. La presenza di terme romane è la prima prova del processo di urbanizzazione in questa regione, non essendo una caratteristica riconducibile al periodo giudaico.Tuttavia, come sappiamo già dalle cronache di Flavio Giuseppe, Erode Filippo trasformò il villaggio di Betsaida in una città romana rinominandola «Giulia». Le terme, dunque, riflettono bene quel processo di riconversione urbana operato dal tetrarca a Betsaida/Julias.

TRACCE DEI CROCIATI Le nuove scoperte avevano incoraggiato la nostra missione ad allargare l’estensione dello scavo. Cosí, nel 2018, è stata presa in esame e scavata un’area esterna 48 m circa a nord-est rispetto all’area principale di scavo. Nei nuovi quadrati di scavo non sono stati rinvenuti resti di età

crociata e solo pochi elementi riconducibili all’epoca bizantina. Abbiamo trovato mura, ceramica e monete di età romana, insieme a numerose lucerne a forma di disco, ceramiche del tipo denominato «di Kfar Hananya» e intonaco di mura affrescate in rosso pompeiano. Nel 2019 l’area di scavo è stata ulteriormente ingrandita, allo scopo di localizzare le mura della chiesa bizantina. Sono stati cosí rinvenuti altri due frammenti di pietra decorata provenienti dalla chiesa, un frammento di marmo appartenente all’iconostasi, decorata con una corona, insieme al frammento in pietra calcarea di un tavolo decorato con la raffigurazione di una croce e ornamenti floreali. E cosí, finalmente, dopo tre stagioni di scavi, la chiesa bizantina è stata localizzata! Essa presenta una navata sud che si estende per circa 15 m di lunghezza, con un pavimento di mosaico colorato, decorato con un motivo geometrico. Negli ultimi giorni della campagna di scavo abbiamo portato alla luce i margini di a r c h e o 53


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un variopinto mosaico proveniente dal pavimento della navata centrale. Il disegno a tre elementi intrecciati nel mosaico assomiglia ai numerosi ritrovati all’interno di altre chiese bizantine. In totale, sembra che la chiesa misuri circa 30 x 20 m. Ci siamo chiesti quale fosse il ruolo, il vero significato di quella che è stata subito chiamata la «Chiesa degli Apostoli», dal momento che la presenza di una chiesa bizantina in questo luogo non può, di per sé, essere considerata una prova incontrovertibile per identificare la posizione della cittadina di Betsaida del I secolo.Tuttavia, se sommata alle sempre piú numerose prove archeologiche relative alla prima età romana rinvenute nel sito di el-Araj, la chiesa assume sicuramente un’importanza rilevante. Siamo convinti, infatti, che, quando, nel V secolo, una comunità cristiana si insediò nuovamente nel sito di el-Araj, essa non abbia affatto perso la memoria di dove si trovasse la città natale degli apostoli Pietro, Andrea e Filippo. Per quanto riguarda la chiesa in sé,

erano in molti ad aver dubitato della sua esistenza a el-Araj. Molti colleghi sostenevano che avessimo mal interpretato i racconti dei pellegrini. Sostenevano che il vescovo bavarese Villibaldo si fosse confuso quando riferiva della sua visita, nel 725, a una chiesa a Betsaida, costruita sopra le rovine della casa di Pietro e Andrea. Secondo loro,Villibaldo avrebbe visitato la chiesa bizantina, a pianta ottagonale di Cafarnao. Affermazioni che ora, però, alla luce delle recenti scoperte, dovranno essere riviste. Il cortile lastricato e le stanze attorno la chiesa a el-Araj, insieme alle numerose monete rinvenute su piú piani dei pavimenti e datate per lo piú tra il VI e l’VIII secolo suggeriscono, inoltre, la presenza di un monastero. In due sezioni sono stati effettuati campionamenti sotto il pavimento bizantino e sono stati trovati mura e resti del periodo romano, con ceramica e monete databili tra il I e il III secolo d.C. Tra questi rinvenimenti figura anche uno stampo in pietra calcare che serviva alla fusione dei piombi

I pesi dei pescatori Situata sulla riva del Mare di Galilea, el-Araj era un luogo ideale per la pesca. Ne sono la riprova i numerosi pesi di piombo rinvenuti, usati in antico per appesantire le reti (nella foto qui sotto, nella foto a destra una replica in piombo fatta eseguire da Yehoshua Dray) e la scoperta di uno stampo in pietra calcare (nella pagina accanto) per la fusione di piombi decorati.

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decorati utilizzati come pesi per le reti da pesca. Questo reperto, insieme ai numerosi pesi di piombo rinvenuti, suggerisce la presenza di una vivace industria ittica a el-Araj

DOPO LA PANDEMIA Nel 2020, le restrizioni agli spostamenti imposte dalla pandemia da Covid-19 non ci hanno permesso il prosieguo degli scavi. L’anno scorso, però, abbiamo deciso di continuare le nostre indagini. I nostri sforzi si sono concentrati sulla «Chiesa degli Apostoli»: le mura meridionali e occidentali della chiesa sono state interamente portate alla luce, insieme a parti delle mura settentrionali e orientali che includevano l’abside della basilica. Sono venuti alla luce piú parti del mosaico pavimentale a motivi floreali della chiesa, insieme alla fascia musiva scoperta in precedenza e che segnava il passaggio dalla navata ai corridoi laterali. Di rilevante importanza sono le due iscrizioni musive rinvenute: la piú piccola, posta vicino all’abside, menziona un diacono e una piccola comunità, la maggiore celebra il


restauro della chiesa con la menzione di un vescovo (anonimo), forse il promotore dei lavori. Un aspetto curioso emerso dalle indagini dello scorso anno è l’assenza di porte d’accesso alla chiesa. Abbiamo le mura, ma nessuna indicazione degli accessi. Si tratta di una questione ancora irrisolta, che potremmo svelare solo procedendo con gli scavi. Durante i lavori di rimozione dei detriti pavimentali della «Bek’s House», eseguiti con una scavatrice meccanica, abbiamo identificato un pesante frammento di basalto, caratterizzato da tre avallamenti sulla superficie. La parte inferio-

re del frammento è stata scolpita in maniera rozza, mentre la superficie superiore, con gli avvallamenti, è liscia, racchiusa da una bassa cornice che le corre intorno. Potremmo ipotizzare, con tutte le cautele del caso e sulla base della somiglianza con reperti simili, che si tratti di un reliquiario, spostato dalla sua collocazione originaria quando l’abside centrale venne scavata in epoca crociata.

MONETE E LUCERNE Già nel 2019 era stata aperta una nuova area di scavo, 100 m circa a nord del cantiere principale, al fine di poter determinare l’estensione

dell’insediamento. Già in superficie trovammo resti di ceramica romana e monete. A circa 30 cm sotto la superficie vennero alla luce sezioni superiori di mura, tra cui alcune conservate fino a 20 m circa di altezza. Sono stati individuati due piani: quello superiore, composto da pietre piane è databile al III secolo d.C., mentre quello inferiore è composto da uno strato di pietra calcarea contenente ceramica databile tra il I e il II secolo d.C. Tra le monete rinvenute in quest’area, sedici sono datate al I secolo d.C. (tra cui tre che potrebbero risalire al I secolo a.C.), dodici sono datate al II secolo d.C., tre al III e una al IV. Abbiamo anche trovato frammenti di recipienti in pietra (gesso) tipici della tradizione giudaica, insieme a pezzi di lucerne, anch’esse in uso tra la popolazione ebraica del I secolo. A un livello inferiore, poi, sono emerse ceramiche datate al I secolo a.C. e, con nostra grande sorpresa, anche ceramica dell’età del Ferro e della prima età del Bronzo. Tutti questi ritrovamenti concorrono a testimoniare la presenza di una popolazione giudaica a el-Araj. È sempre piú evidente che la storia di el-Araj sia quella di una comunità giudaica riunita in un piccolo villaggio, poi trasformato in città durante l’età romana, esattamente come viene descritto nel Nuovo Testamento e nelle piú antiche fonti giudaiche. E certamente non si trovava a 4 m sotto il livello del lago nel periodo romano, come sostenuto in precedenza dagli archeologi che hanno scavato il sito di et-Tell. I primi risultati dell’indagine elettromagnetica per immagini mostrano la presenza di costruzioni domestiche e anche quella di un potenziale edificio pubblico che aspettano di essere scavati. Se l’insediamento di el-Araj venne formandosi nel periodo del Nuovo Testamento, la sua collocazione era tra le sponde del Lago di Galilea e a r c h e o 55


SCOPERTE • SUL MARE DI GALILEA/1

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In alto: gli autori del presente articolo e responsabili dello scavo di el-Araj, Steven Notley (a sinistra) e Mordechai Aviam (cortesia Megan Sauter/Biblical Archaeological Society). Sulle due pagine: una veduta del Mare di Galilea in direzione sud-ovest.

la collina di et-Tell. Ovvero, la posizione piú probabile per un villaggio di pescatori del I secolo, cosí come Betsaida/Julias viene descritta nelle fonti letterarie. Per il prossimo anno è prevista una campagna di scavo estesa alle zone circostanti, alla ricerca delle tracce materiali di el-Araj in età romana. A oggi, tutte le campagne di scavo ci hanno rinforzato nella convinzione che el-Araj sia da identificare con Betsaida, e finora non sono emersi elementi che possano provare il contrario. Anche se nessuno ha dichiarato conclusa la ricerca della vera Betsaida/Julias, le prove crescenti hanno reso el-Araj il candidato ideale per la perduta «città degli Apostoli». «Archeo» ringrazia Victoria Mesistrano per la preziosa collaborazione. a r c h e o 57


SCAVI • POZZUOLI

CRISTO SI È

FERMATO A PUTEOLI NON SOLO UN PORTO FAMOSO E APERTO AL MONDO, MA ANCHE UN CENTRO DI DIFFUSIONE DELLA RELIGIONE CRISTIANA. È QUANTO CONFERMANO LE SCOPERTE NELLA NECROPOLI DI S. VITO, A POZZUOLI. E DI CUI VI PROPONIAMO L’AVVINCENTE RACCONTO, CORONATO DA UNA SORPRESA ANCORA IN VIA DI ESSERE CONFERMATA… testi di Anna Russolillo, Salvatore Borrelli, Franco Foresta Martin e Roberto Della Rocca 58 a r c h e o


Pozzuoli, necropoli di S. Vito, ambiente G. La tomba ad arcosolio decorata da una pittura al centro della quale si vede una figura maschile, affiancata da due pecore, che si è proposto di identificare con un’immagine del Buon Pastore. a r c h e o 59


SCAVI • POZZUOLI

P

rima della scoperta di Ercolano e Pompei, «viaggiatori, poeti ed eruditi non mancavano di associare al viaggio a Napoli la visita alle antichità e curiosità del golfo di Pozzuoli»: cosí scr iveva il grande archeologo Amedeo Maiuri (1886-1963), in uno dei testi riuniti nella raccolta Itinerario flegreo (pubblicata postuma nel 1984), specificando che i luoghi piú visitati delle antichità campane erano la grotta dell’Averno, mitico ingresso degli inferi, «le sale pantanose» delle Terme di Baia e i «sotterranei ancora interrati dell’Anfiteatro puteolano». Poi, quando i resti di Ercolano e Pompei cominciarono a essere dissepolti, caddero nell’oblio Cuma – la piú importante colonia greca del Tirreno –, Pozzuoli – il primo grande porto marittimo di Roma e della Campania –, Miseno – base navale dell’impero romano – e Baia, stazione balneare e termale dei patrizi di Roma. Finí cosí nel dimenticatoio, come scrisse ancora Maiuri, «la grande zona storica della Campania antica, la vera culla di Napoli, quella che gli antichi chiamarono Campi Phlegraei», perché ardenti del «fuoco sotterraneo della terra». E anche il Vesuvio, con le sue lave e le sue fumate, contribuí a far dimenticare Ischia, la Solfatara e i crateri disseminati nel golfo puteolano «che un tempo avevano fiammeggiato tra le acque e le selve». Dalla seconda metà del Cinquecento e fino all’Ottocento a Pozzuoli e ai suoi dintorni furono dedicate oltre cento fra guide, manoscritti e incisioni. La maggior parte dei testi comprende mappe in cui è indicata l’antica via consolare Campana, che si raggiunge lasciando a sud la città e proseguendo verso nord. Si trattava dell’arter ia pr incipale che nell’antichità collegava la costa all’entroterra campano. Lunga 21 miglia a partire dall’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli fino a Capua, da dove si innestava sulla via Appia, la

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strada era fiancheggiata da mausolei funerari collocati, com’era norma, fuori dai centri abitati o lungo le vie extraurbane.

UN DETTAGLIO PREZIOSO Fra i nuclei sepolcrali piú cospicui affacciati sulla consolare, vi è la necropoli di S.Vito. Al complesso appartengono i sepolcri che Francesco Antonio Letizia, un giovane disegnatore pugliese, documentò in un manoscritto del 1774 rimasto a lungo inedito, L’antichità di Pozzuolo, e pubblicato nel 1991. I disegni a inchiostro dei monumenti sono corredati dall’indicazione «dirimpetto alla Chiesa del Glorioso Martire S. Vito» e proprio da questa preziosa testimonianza presero avvio gli scavi guidati da Amedeo Maiuri negli anni Trenta del Novecento e le successive indagini condotte tra il 2000 e il 2006. Di fronte alla necropoli ed esattamente alle spalle della chiesa di S. Vito, si trova un’antica masseria –

A sinistra: Altra veduta del Sepolcro a Pozzuoli. Nella strada Campana detta San Vito, incisione realizzata per l’opera di Paolo Antonio Paoli Avanzi delle antichita esistenti a Pozzuoli Cuma e Baja. 1768.


oggi trasformata in struttura ricettiva – che, dal 2006 al 2009, fu oggetto di lavori di restauro durante i quali venne alla luce una necropoli paleocristiana, definita «di notevolissimo interesse» dall’allora Direttore Regionale del Ministero per i Beni e le Attività culturali, Stefano De Caro, e che, a giudizio di Fabrizio Bisconti, Soprintendente delle Catacombe d’Italia presso la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, rappresenta «una delle scoperte piú importanti per quanto attiene i monumenti tardo-antichi

Mappa di Pozzuoli e del suo territorio realizzata dall’editore, stampatore e mercante di incisioni Claudio Duchetti (Claude Duchet). 1586. Londra, British Library. Sulla mappa è evidenziata la via Campana (qui denominata Capuana), lungo la quale erano allineati numerosi mausolei e fu anche impiantata la necropoli di S. Vito.

di Pozzuoli». I primi saggi permisero di individuare resti monumentali, che furono quindi interessati da una campagna di scavi sistematici. Le indagini hanno portato in luce un ampio complesso funerario, con diverse tipologie sepolcrali che, in base alla tecnica di costruzione, alla decorazione pittorica e agli oggetti

rinvenuti, si può ritenere sia stato utilizzato dalla fine del II fino agli inizi del VI secolo d.C. La necropoli comprende mausolei, sepolcri a camera del tipo ipogeo, organizzati in loculi sovrapposti e tombe ad arcosolio come quelle individuate nella necropoli cristiana (segue a p. 64) a r c h e o 61


SCAVI • POZZUOLI

UNO SCALO IMPORTANTE E COSMOPOLITA Per estensione, geologia e storia Pozzuoli è il centro piú importante dei Campi Flegrei. Chiamata dai Greci «Dicearchia», per il grammatico Stefano di Bisanzio era la «città della Tirrenia fondata da Samii». San Girolamo conferma la fondazione dei Samii e la data un anno prima dell’Olimpiade LXIII (528) «Sami Dicaearchiam condiderunt, quam nunc Puteolos vocant». Strabone, vissuto in età augustea,

indica «Potioloi» come approdo cumano «epineion ton Kymaion», cioè posto «su un’altura» (V, 4,6). Secondo lo storico tedesco Julius Beloch (1854-1929), l’insediamento degli esuli samii ebbe il consenso del governo cumano, a cui rimase sempre dipendente. Questo spiegherebbe anche perché Strabone designi Puteoli come un porto dei Cumani e perché Dionisio di Alicarnasso «riscontri nel

possesso dei porti di Misenum e Puteoli una delle cause fondamentali della prosperità di Kýme (Cuma) nel VI secolo». Di Dicearchia, «giusto governo», in contrapposizione al governo tirannico della madrepatria, fondata da aristocratici samii che sfuggivano la tirannia di Policrate accolti dal governo di Cuma, finora non sono emerse testimonianze archeologiche significative. È invece documentato che, nel 338 a.C., Roma assoggettò Pozzuoli contemporaneamente a Capua e che entrambe ottennero la Civitas sine suffragio; dal 318 al 194 a.C. Puteoli fu sottoposta alla giurisdizione dei praefecti Capuam Cumas. A segnare una svolta nella storia di Puteoli è la seconda guerra punica, in quanto la città, «uno dei principali siti di approvvigionamento dell’esercito romano in Campania, venne fortificata e presidiata da 6000 uomini» (Beloch) guidati dal console Quinto Fabio Massimo per impedire che Annibale se ne impadronisse. Anfiteatro di Pozzuoli. Costruito nella seconda metà del I sec. d.C., è uno dei maggiori d’Italia, terzo, per grandezza, dopo il Colosseo e quello di Santa Maria Capua Vetere.

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In alto, sulle due pagine: veduta del golfo di Pozzuoli dal Rione Terra. A destra: i resti del macellum (mercato) dell’antica Puteoli, impropriamente denominato tempio di Serapide. II sec. d.C.

Sconfitto Annibale a Zama nel 202 a.C., per scongiurare il nuovo pericolo rappresentato da Antioco di Siria, nel 197 a.C., il Senato romano votò una legge che autorizzava la deduzione, attuata tre anni piú tardi, di colonie romane di trecento uomini nei principali porti tirrenici e ionici, da Castelvolturno (Volturnum), a Pozzuoli (Puteoli), a Literno (Liternum), a Salerno (Salernum), a Policastro (Buxentum), a Sibari (Copia Thurii). Puteoli venne dedotta per fini militari, ma anche commerciali, a ridosso del porto, utilizzato già dai Romani dal 215 a.C. per far giungere i rifornimenti bellici di grano dalla Sardegna e dall’Etruria. Saldati i rapporti tra Roma e i Campi Flegrei con l’istituzione, nel 211 a.C., della praefectura Capuam-Cumas, con la costruzione della via Consularis Campana e il restauro dell’antica via Antiniana, e mancando buoni approdi sulle coste del Lazio, Pozzuoli divenne il porto di Roma. Le merci destinate a questo scalo erano le piú svariate: grano dall’Egitto e dalla Sicilia, vino e olio dalla Grecia, lane, sete, tessuti pregiati dall’Asia, legname dall’Africa, perle e spezie dall’India e dall’Arabia, schiavi, miele, argento e salsa di pesce dalla

Spagna, marmi e pietre preziose da tutte le regioni del mondo antico. Già nel 126-125 a.C., secondo il poeta Lucilio, Pozzuoli era una piccola Delo. Decaduta quest’ultima, la città campana divenne il centro dei rapporti tra Roma e l’Oriente. Ben poche città romane ebbero il carattere cosmopolita di Pozzuoli: tutte le lingue e tutte le religioni del mondo vi si trovavano; tutte le popolazioni dell’Oriente avevano qui delle stationes commerciali. Si può dire che l’intero commercio mondiale dell’antichità si concentrò a Pozzuoli e, soprattutto dal II secolo a.C. al I secolo d.C., la città godette di uno straordinario splendore. E anche con la costruzione del porto marittimo di Ostia (iniziato da Claudio nel 42 d.C. e terminato nel 64 d.C. sotto Nerone) che affiancò quello di Pozzuoli, la città campana riuscí a mantenere per secoli il suo splendore: ne è prova il fatto che i monumenti puteolani furono realizzati in massima parte in età imperiale, fra l’età di Vespasiano e quella di Adriano. La città prosperò in ogni caso a lungo, grazie alle numerose industrie locali, come quelle del vetro, della ceramica e della preparazione dei colori, alle esportazioni di zolfo e di allume, e alle cave di pozzolana.

In precedenza, in età augustea, Pozzuoli aveva subito una profonda trasformazione, le cui tracce monumentali sono ben leggibili nel Rione Terra, grazie agli scavi condotti dal 1993. Le indagini hanno messo in luce la colonia romana, con le insulae e l’impianto viario, organizzato per cardini e decumani. In questa fase, contemporaneamente alla costruzione del Tempio marmoreo, Pozzuoli fu interessata da una fervente attività edilizia. Accanto al nucleo urbano di Puteoli vanno ricordati: l’Anfiteatro Maggiore, eretto sulla terrazza mesourbana, dove, nella piena età imperiale, sorse anche l’imponente impianto termale (il cosiddetto Tempio di Nettuno), e uno Stadio innalzato da Antonino Pio in memoria del padre Adriano. Cicerone attesta il nome di Emporium per la città bassa di Pozzuoli, dove domina il Macellum del II secolo d.C. (detto impropriamente Tempio di Serapide). Sulla sommità delle colline ha sede il quartiere signorile di Puteoli, con due anfiteatri, il teatro, le terme, ville e palazzi. Lungo le strade extraurbane si seppelliscono i morti nelle necropoli di Via Celle e di S. Vito costituite per lo piú da colombari su piú livelli in opera reticolata. a r c h e o 63


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di Cimitile, presso Nola (Napoli). Sono state inoltre rinvenute tombe in fossa terragna con copertura alla cappuccina ubicate all’interno di recinti, mausolei con tombe a cassa ricavate nel pavimento – formae – e tombe in nicchie che terminano ad arco – arcosolia – ricavate in strutture murarie. Su queste strutture, alla fine del XIX secolo, venne edificata la masseria, con un assetto planimetrico sviluppato in 12 ambienti, alcuni dei quali sfruttano l’alzato delle strutture antiche, mentre altri furono costruiti ex novo e racchiudono sotto il piano di calpestio testimonianze archeologiche. Per convenzione, ciascun ambiente moderno è stato identificato da una lettera, partendo dalla A, che definisce lo spazio nel quale, nel 2006, ebbero inizio i lavori.

COSTRUZIONI EX NOVO E RIUSI In particolare, gli ambienti A e B sono costituiti interamente dai mausolei del complesso funerario; l’ambiente C è costruito ex novo, ma racchiude quella che era l’area sepolcrale con deposizione in formae. Anche gli ambienti D, E, F, G e H sono costruiti ex novo, ma riutilizzano come fondazioni le strutture murarie con arcosolia appositamente rasate. Infine, gli ambienti indicati con le lettere I, L, M ed N, costruiti anch’essi ex novo, insistono sull’area sepolcrale nella quale sono situate tombe in fossa terragna (vedi planimetria a p. 66). I primi scavi, arrestatisi con l’indagine nell’ambiente L, hanno individuato sette vani, compresi in cinque ambienti della costruzione moderna nei quali sono state rinvenute numerose tombe a inumazione in formae o in arcosolia. Queste hanno restituito oggetti di corredo, iscrizioni, numerose lucerne – tra cui una a becco tondo decorata da giri di perline – e una moneta databile al 228 d.C. che, come detto, consentono di datare l’utilizzo del 64 a r c h e o

complesso funerario a partire dal II secolo d.C. e la fase del suo abbandono all’inizio del VI secolo d.C. La datazione è confermata dall’opera vittata impiegata nella costruzione degli ambienti e dalla decorazione pittorica delle pareti, caratterizzata da riquadri con cornice rossa e rombo verde centrale, con immagi-

In alto: foto satellitare dell’area in cui, alle spalle della chiesa di S. Vito ricade l’omonima necropoli paleocristiana, sulla quale, alla fine del XIX sec., fu costruita una masseria. In basso: mappa catastale dell’area di S. Vito, nella quale sono indicate le pertinenze dei vari settori della necropoli.


Due immagini della masseria sorta nell’area della necropoli paleocristiana: prima (a sinistra) e dopo il restauro. Alcuni ambienti dell’edificio vennero costruiti sfruttando gli alzati dei sottostanti complessi funerari.

ni di delfini, pavoni, melograni, funghi e di pesci inscritti e, in un caso, la figura maschile con le pecore, della quale si dirà piú avanti. Nel 2009, gli scavi sono ripresi dall’ambiente L. Qui, nel settore meridionale, è stato rinvenuto un muro in opera reticolata e, sotto la sua fondazione, sono state rinvenute due tombe, l’una orientata a ovest e l’altra a est. Nella tomba 1, a semplice fossa terragna, all’altezza del mento dell’inumato – un bambino dall’età di 3 o 4 anni circa – è stata rinvenuta una moneta che trova confronto con il sesterzio coniato da Marco Aurelio a nome della moglie Faustina Minore, tra il 161-176 d.C. A circa 2 m di distanza è stata localizzata la tomba 2, che accoglieva l’inumazione di un individuo adulto, con copertura a unico spiovente addossato al muro in reticolato, e priva di corredo. A ovest dell’ambiente L sono stati indagati due piccoli ambienti - M, N -, nei quali sono state rinvenute due tombe alla cappuccina indicate da un segnacolo composto da un

conglomerato di laterizi e frammenti di tufo Di queste, solo nella tomba 17, femminile, sono stati rinvenuti elementi di corredo funebre, fra cui sei spilloni in osso, uno dei quali ha la sommità in oro.

TOMBE SENZA CORREDI Nell’ambiente I sono stati portati in luce due tratti murari in opera reticolata, conservati per una lunghezza di 13 m che, orientati N-S, sono disposti parallelamente fra loro, a una distanza di 2,50 m. Oltre ai muri, qui sono state individuate 9 tombe alla cappuccina e una a enchytrismos (consistente nel seppellimento dei resti all’interno di un’anfora, n.d.r.). Le prime, una delle quali accoglie lo scheletro di un cane, hanno la copertura di tegole a doppio o a singolo spiovente e risultano tagliate nella nuda terra, ma solo in due casi sono foderate da spallette di cubilia (i blocchetti che compongono l’opera reticolata, n.d.r.) e tufelli posti in opera a secco. Nessuna di queste deposizioni è accompagnata dal corredo e soltan-

to in due sepolture, all’altezza del mento dell’inumato, sono state rinvenute altrettante monete. Le successive indagini negli ambienti H-G-F hanno portato alla luce un setto murario in opera reticolata che per fattura, orientamento e posizione potrebbe essere il seguito del muro in reticolato individuato nell’ambiente I e appena descritto. Alla parete est di questa muratura è addossata una struttura in opera vittata nella quale si colloca, per tutta la lunghezza visibile, una fila di sette arcosolia, con una fila precedente alle spalle. Di questi, solo quello centrale – nell’ambiente G – risulta integro nella struttura e nella decorazione parietale. Quest’ultima reca l’immagine di un ambiente rupestre al centro del quale è la già citata figura maschile, accompagnata da due pecore (vedi foto in apertura, alle pp. 58/59 e a p. 67, in basso). In un approfondimento eseguito nel settore nord dell’ambiente E sono state recuperate una moneta all’interno di una tomba a inumazione in forma, parzialmente alterata da crolli, a r c h e o 65


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e altre 8 monete, non direttamente riconducibili, però, alle numerose tombe, di cui in situ sono state documentate soltanto poche strutture. I dati acquisiti grazie allo scavo permettono di fornire, in via preliminare, alcuni cenni interpretativi e di distinguere varie fasi di frequenta-

zione. Nella prima fase – età imperiale: ambienti I, L, M, N –, le deposizioni funerarie sembrano disporre di lotti recintati da muri in opera reticolata, con ampia zona di accesso alle aree sepolcrali. Infatti in fase con i muri di recinzione è stato rinvenuto, orientato sull’asse N-S e

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I Fase II Fase III Fase

Età imperiale Età tardo-imperiale (284-476 d.C.) Epoca paleocristiana (III-VI sec. d.C.)

Planimetria dell’area archeologica con l’indicazione delle tre fasi di utilizzo della necropoli. Sono anche evidenziati gli ambienti esplorati nel corso degli scavi ai quali si riferiscono le foto. 1. Tomba 1: il cranio di un bambino di 3 o 4 anni, accanto al quale è stato rinvenuto un sesterzio coniato da Marco Aurelio a nome della moglie Faustina Minore (161-176 d.C.). 2. La Tomba 2, con copertura a unico spiovente, che accoglieva i resti di un inumato adulto. 3. Riquadri dipinti con figure di pesci nell’ambiente A. 4. La probabile immagine del Buon Pastore dipinta in una delle tombe ad arcosolio dell’ambiente G.

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interamente portato in luce, un tratto di viabilità in battuto. Alla seconda fase – età tardo-imperiale (284-476 d.C.): ambienti A, B, C – sono da attribuire i mausolei che occupano la zona centrale della masseria, a sud di uno dei recinti della fase precedente. La terza fase – età paleocristiana (III -VI secolo d.C.): ambienti D, E, F, G, H – è stata documentata grazie alle indagini condotte nella zona meridionale della masseria, dove è stato portato in luce il muro in opera vittata, caratterizzato

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dalla presenza di numerosi arcosolia con decorazione parietale, che trova il suo corrispondente nel muro in opera vittata e arcosolia addossato al muro in opera reticolata pertinente alla prima fase. In questa fase i defunti venivano disposti negli arcosolia; esaurito lo spazio programmato per queste deposizioni, l’area antistante viene suddivisa in sei settori da stretti muri in opera vittata e disposti in senso E-O. Essi definiscono aree rettangolari nelle quali si dispongono sepolture a inumazione in formae, in una delle quali è stata

recuperata una moneta datata all’ultimo quarto del III secolo d.C.

PITTURE DI ISPIRAZIONE RELIGIOSA Gli ambienti sono affrescati con decorazioni che, come ha scritto Fabr izio Bisconti, r iprendono «l’immaginario funerario di ispirazione religiosa del momento tardoantico». In particolare, una tomba ad arcosolio rinvenuta nell’ambiente G è affrescata con uno scenario bucolico, immagini di frutta, reti, pesci, uccelli, e, al centro di quest’apparato decorativo, si staglia una figura ritta in piedi, tra due pecore, che regge in mano quello che sembra essere un contenitore, forse una rete o un sacchetto con del formaggio. Il volto giovane e senza barba, la tunica bianca con due strisce rosse, stretta in vita, e gli alti stivali, nonché la postura e il (segue a p. 70) 4

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SAN PAOLO A POZZUOLI Nel I secolo d.C., Pozzuoli, come affermò papa Giovanni Paolo II durante la visita compiuta nel 1990, fu la «porta del cristianesimo in Occidente» e fu «una importante tappa dell’itinerario di san Paolo», che condusse alla diffusione della nuova dottrina. L’approdo dell’apostolo «dei Gentili», in un giorno di marzo del 61 d.C., è riferito negli Atti degli Apostoli dal discepolo che l’accompagnava, Luca: «Arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli i quali ci

Una veduta delle tombe comprese nell’ambiente B. L’utilizzo di questo settore della necropoli si colloca in epoca tardo-imperiale. 68 a r c h e o

invitarono a restare con loro una settimana» (At 28,1314). Paolo, era stato arrestato nel tempio di Gerusalemme con l’accusa di provocare «disordini fra tutti i Giudei che sono nel mondo», di essere capo della setta dei Nazorei e di aver tentato di profanare il tempio (At 24,5-6-11-12). Il prigioniero in viaggio verso la capitale, poiché come cittadino romano doveva essere giudicato a Roma, fu accolto a Pozzuoli da una comunità cristiana,


presso la quale si trattenne per sette giorni prima di proseguire verso l’Urbe. Secondo Fabrizio Bisconti, è assai probabile che i «fratelli» che accolsero Paolo in questo centro cosmopolita e porto del Mediterraneo «provenissero dall’ambiente giudaico che, a Pozzuoli, aveva una comunità forte e numerosa» e non esclude che i «fratelli» incontrati da Paolo fossero Ebrei che avevano accolto «la buona novella dai giudei convertiti alla nuova fede».

A oggi, non si hanno indizi tali da confermare che l’antica e ricca comunità cristiana fosse organizzata a Pozzuoli già in età apostolica. Altrettanto può dirsi per l’Italia, dove testimonianze archeologiche si concentrano dalla fine del II e fino gli inizi del III secolo d.C.: ne sono un esempio la necropoli di Cimitile, le catacombe di Napoli, le catacombe di Cagliari e di Siracusa. Un patrimonio al quale, grazie alle nuove scoperte, possiamo ora aggiungere la città di Pozzuoli.

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Tombe ad arcosolio riferibili alla fase paleocristiana della necropoli.

contesto bucolico concorrono a identificare il personaggio con un pastore. Ci si è dunque chiesti se potesse trattarsi di un simbolo cristiano e il contesto in cui la raffigurazione è inserita offre piú di un elemento utile al riguardo. Questa scoperta, insieme ad altri importanti rinvenimenti – tra cui lucerne fittili coeve e iscrizioni cristiane –, ha permesso di attribuire la tomba a una committenza cristiana. Fra gli elementi probanti si segnalano una lastra di marmo con l’immagine simbolica del Buon Pastore, con la data della deposizione e la dedica dei genitori «(VIIII kal[endas]) sep / tembres / Rogatianus et Sta[...] / (parentes)», e un’altra dedicata 70 a r c h e o

alla cristiana Iulia Susanna («Iu- contesti multireligiosi, dove il lia Susan / na hic de / posita est)». cristianesimo non è cultura prevalente» (Bisconti). Risulta ancor piú significativo il BELLO E BUONO Appare insomma lecito affer- fatto che la scoperta di questa mare che quella venuta alla luce necropoli paleocristiana sia ava Pozzuoli è una necropoli in venuta a pochi metri dalla chieuna delle cui tombe è stato raf- sa di S. Vito, che potrebbe essefigurato Cristo, cosí come lo re in continuità con un edificio definisce il Vangelo secondo di culto sorto, verosimilmente, Giovanni (Gv 10), per il quale è nei pressi della sepoltura del il bello e buon Pastore che gui- martire puteolano Artema, perda le pecore, che ascoltano la sonaggio di cui si ha memoria sua voce, alla pienezza della vita. attraverso una tarda passio, proSi tratta di un’acquisizione di babilmente redatta nel X seconotevole importanza, che ci lo. Secondo questo racconto, parla della «lenta cristianizza- Artema nacque a Pozzuoli in zione» di Pozzuoli, «agli esordi, una nobile famiglia cristiana. Il nel senso che agli esordi del III suo maestro, Catigeta, colpito secolo d.C. i cristiani, come in dell’acutezza dell’ingegno del altri centri tardo-antichi, orga- ragazzo, gli affidò l’educazione nizzano le loro sepolture in degli altri discepoli. Artema,


però, non si limitò a insegnare le lettere, ma diffuse anche i fondamenti della fede cristiana e Catigeta lo fece perciò condannare a morte. Il giovane fu ucciso dai suoi stessi discepoli a colpi di stilo e seppellito nella notte tra il 25 e il 26 gennaio del 250 nel luogo detto «Campana», distante 24 stadi, cioè 3 miglia, dal centro di Pozzuoli.

stata confermata l’ipotesi che la necropoli paleocristiana sia pertinente a un antico luogo di culto cristiano, sorto come accadde a Cimitile, in relazione a una tomba illustre, forse quella del martire e primo santo della chiesa puteolana, S. Artema, dalla cui passio sappiamo che fu sepolto “nel luogo che si chiama Via Campana”. La datazione del primo impianto della necropoli cristiana alla metà del III secolo d.C. potrebbe confermare la cronologia del martirio dello stesso santo, durante la persecuzione di Decio».

UN ANTICO LUOGO DI CULTO Il quadro fin qui delineato ha avuto un riscontro significativo nel resoconto del sopralluogo effettuato nel 2007 dal vescovo di Pozzuoli, monsignor Gennaro Pascarella, insieme a Gli scavi nella necropoli paleocriStefano De Caro e Fabrizio stiana si sono svolti grazie all’impeBisconti, in cui si legge che «è gno e ai fondi dei proprietari del

terreno in cui ricade il sito. Le indagini sono state condotte sotto la direzione di Costanza Gialanella, Ispettrice responsabile dell’area per la Soprintendenza Archeologica, e di Stefano De Caro, Direttore Regionale per i Beni Culturali della Campania, e sono state guidate sul campo dagli archeologi Salvatore Borrelli e Annamaria Illiano. DOVE E QUANDO Necropoli paleocristiana di Villa Elvira Pozzuoli, via San Vito 9 Note il sito è visitabile gratuitamente; per prenotare, si può scrivere all’indirizzo mail: villaggioletterario@gmail.com oppure contattare la struttura, dopo le 17,00, allo 081 2785007 a r c h e o 71


LUOGHI DEL SACRO/13

IL GRANDE TEMPIO DEL

«POPOLO GEOLOGICO» SUL LUOGO DOVE UN TEMPO ERA SORTO, OGGI RISPLENDONO I COLORI DI UN GIOIELLO DELL’ARCHITETTURA ISLAMICA. PER RICORDARLO E VENERARLO, I FEDELI SI ACCALCANO DI FRONTE AI RESTI DELLE IMPONENTI SOSTRUZIONI CHE CINGONO LA VASTA PIATTAFORMA SU CUI TRONEGGIAVA. MA COSA SAPPIAMO, VERAMENTE, DI QUEL LEGGENDARIO SANTUARIO SCOMPARSO, LEGATO ALLA MEMORIA DI SALOMONE ED ERODE IL GRANDE? di Fabio Porzia 72 a r c h e o


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hiunque abbia vissuto l’esperienza di perdersi nei dedali della Città Vecchia di Gerusalemme sa quanto sia estraniante passare dalla frenesia del Suq alla quiete surreale della Spianata delle Moschee. I vicoli bui e angusti della Città Vecchia, ingombra di gente, la loro aria intrisa di odori e aromi pungenti di spezie e incensi che si mescolano al caffè appena macinato e al sangue lasciato scolare a terra davanti alle macellerie, si aprono improvvisamente al fulgore del marmo tiepido, dell’oro, delle piastrelle multicolori, dei cipressi e degli ulivi che punteggiano la spianata. Di colpo, il cielo riprende possesso della città sulla sommità di quello che i testi biblici chiamano Monte Moriah, Monte Sion o piú semplicemente Monte del Tempio

(Har HaBait), anche se, con i suoi 740 m di altezza, noi forse lo chiameremmo piuttosto una collina. Tradizioni diverse raccontano che su questo luogo sia salito Abramo per offrire in sacrificio il figlio Isacco (Genesi 22) e che, nello stesso punto, molti secoli dopo, verso il 621, fu trasportato di notte il profeta Maometto per salire al cielo e ottenere la rivelazione dei precetti e dei riti dell’Islam.Tale, infatti, è l’interpretazione che si è imposta dell’incipit della Sura 17 del Corano, che situa l’estasi mistica del Profeta presso «la moschea lontana», da cui deriva il nome della Moschea al-Aqsa qui costruita dai califfi omayyadi Abd al-Malik e suo figlio al-Walid I, e terminata verso il 705. Questo luogo, peraltro non lontano dal Santo Sepolcro dei cristiani,

Gerusalemme al tramonto. Al centro, in primo piano, il Monte del Tempio o Spianata delle Moschee: qui sorgeva, fino alla distruzione operata da Tito nel 70 d.C., il grande Tempio voluto da Erode il Grande (73 circa-4 a.C.).

è la ragione che fa di Gerusalemme il centro nevralgico delle tre religioni abramitiche – giudaismo, cristianesimo e Islam – tre dei maggiori monoteismi della nostra epoca. Luogo conteso e disputato sin dall’antichità, non è oggetto di consenso nemmeno a proposito del nome con cui chiamarlo: Monte del Tempio o Spianata delle Moschee rischiano, infatti, di rinviare a una narrazione univoca e faziosa. Tutta la storia di Gerusalemme, invece, giustamente definita di recente da Vincent Lemire come una a r c h e o 73


LUOGHI DEL SACRO/13

«città epilettica», una «città-mondo», depone a favore dell’unica chiave di lettura possibile per questo lembo martoriato di Vicino Oriente: la polifonia, il rispetto della storia altrui che deve diventare storia condivisa.

PIETRE DI GERUSALEMME Il poeta israeliano Yehuda Amichai, nel componimento Gli ebrei (1989), scrisse i seguenti versi: «Gli ebrei non sono un popolo storico / Neanche un popolo archeologico sono, gli ebrei / sono un popolo geologico fatto di falde. / Crolli e strati e lava incandescente. / Le loro cronistorie vanno misurate / secondo una diversa scala di misura». Ciò non è dovuto soltanto alla storia plurimillenaria del popolo d’Israele, forse l’unico in qualche modo scampato al generale naufragio dei popoli antichi (vedi «Archeo» n. 407, gennaio 2019; anche on line su issuu.com); la dimensione geologica

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Nella pagina accanto: l’antico Israele al tempo di David e Salomone secondo la narrazione biblica. In basso: Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Sala dell’Arca. Particolare del ciclo realizzato nel 1816 da Luigi Ademollo, che rappresenta la Processione di David e degli Ebrei per il ritorno dell’Arca dell’Alleanza.

UNA STORIA INVEROSIMILE PER ESORCIZZARE UN TRAUMA Nei secoli, la distruzione del Tempio di Gerusalemme è diventata oggetto di speculazioni di ordine simbolico. I primi a farlo furono gli Evangelisti, in particolare Giovanni, subito seguiti dai primi Rabbi. Nel Vangelo di Giovanni, Gesú stesso avrebbe dichiarato «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (2,19). Per i cristiani della prima ora, che restavano pur sempre ebrei, il trauma della distruzione del Tempio viene assorbito sostituendolo con il miracolo del corpo «restaurato» del Messia che, a differenza del Tempio, Dio non permise che andasse perduto. Con la consueta ironia rabbinica, il Talmud offre letture piú scanzonate. Un esempio è quello contenuto in una serie di resoconti del trattato Gittin (55b-57a), altrimenti dedicato alle leggi sul divorzio. Il primo di questi racconti sostiene che «Gerusalemme fu distrutta a causa di Kamtza e Bar Kamtza». La storia racconta che un uomo dava un banchetto, e invece di invitare il suo amico Kamtza, mandò accidentalmente un invito al suo nemico, l’omologo Bar Kamtza. Trovando il suo nemico alla festa, egli insistette pubblicamente affinché Bar Kamtza se ne andasse, arrivando a farlo buttare di peso fuori di casa. Bar Kamtza fu oltraggiato da questo maltrattamento e dal fatto che nessuno dei saggi presenti fece nulla per protestare. Per vendicarsi, decise d’incastrare i sacerdoti del Tempio, mutilando deliberatamente un vitello che doveva essere sacrificato per conto dell’imperatore. Quando i sacerdoti, ravvisando l’imperfezione sul labbro superiore del vitello, si rifiutarono di sacrificarlo, i Romani videro questo come un’aperta disobbedienza, e cosí iniziò la guerra che portò non solo alla distruzione del Tempio, ma anche alla cessazione dei sacrifici nel mondo giudaico. La storiella, evidentemente, non è per nulla plausibile, ma trasforma una tragedia storica in una risorsa pedagogica. Lo storico Giuseppe Flavio, contemporaneo delle vicende storiche che culminarono nella distruzione del Tempio, offre resoconti piú verosimili delle effettive tensioni politiche che portarono allo scontro, soprattutto nell’opera intitolata Guerra giudaica. Ma come lezione morale valida per il giudaismo senza Tempio e diasporico, la storia di Kamtza e Bar Kamtza mostra bene quanto la discordia all’interno del popolo porti alla sua rovina: il popolo è ciò che il Dio biblico ha lasciato dietro di sé sulla terra e va perciò preservato a tutti i costi, pena la morte stessa di Dio.


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LUOGHI DEL SACRO/13

paradossale. Noto per le sue vicende – gloriose e al tempo stesso drammatiche – dall’antichità alle cronache dei nostri giornali, è chiamato dalla tradizione ebraica HaMaqom, «il luogo». Luogo per eccellenza, dunque, ma luogo che, di fatto, non esiste piú da due millenni, dalla fatidica data del 70 d.C.

Il Muro del Pianto, olio su tela di Gustav Bauernfeind. 1887. Collezione privata.

è fondamentale anche per comprendere la storia locale e i suoi luoghi sacri. Gerusalemme stessa sorge su un gruppo di colline, speroni rocciosi e avvallamenti di cui il visitatore non fa fatica a rendersi conto salendo e scendendo per i vicoli della Città Vecchia. Inoltre, le facciate in pietra locale, una pietra calcarea chiamata meleche, «regale», caratterizzano l’architettura urbana. La roccia è centrale anche nei luoghi sacri: i massi squadrati del «Muro del Pianto» sono quel che resta del Tempio degli ebrei; la Moschea della Cupola della Roccia è costruita attorno alla roccia dalla quale sarebbe salito al cielo il profe76 a r c h e o

ta Maometto; il Santo Sepolcro, a sua volta, è un edificio religioso che si dipana su piú piani costruito per inglobare diversi siti della città antica fra i quali, al piano rialzato, la roccia del Golgota sulla quale la croce di Gesú sarebbe stata conficcata; infine, la Basilica delle Nazioni, ai piedi del Monte degli Ulivi, esibisce al centro la piattaforma rocciosa testimone dell’agonia di Gesú. I tre monoteismi della città sono, dunque, saldamente fondati sul suo sostrato roccioso, geologico. Dei tre, il giudaismo è quello di cui sono rimaste meno tracce. Da questo punto di vista, il Tempio di Gerusalemme è un luogo del sacro ben

SOPRA OGNI GIOIA Inoltre, con la perdita simultanea della capitale politica e del suo centro religioso, città e tempio sono andati sempre piú identificandosi. Per esempio, ancora oggi nei matrimoni di rito ebraico si rompe un bicchiere in ricordo della distruzione del Tempio e si recitano i seguenti versetti: «Se ti dimentico, Gerusalemme, / si paralizzi la mia destra; / mi si attacchi la lingua al palato / se lascio cadere il tuo ricordo, / se non metto Gerusalemme / al di sopra di ogni mia gioia» (Salmo 137, 5-6). Ma il Tempio di Gerusalemme non è soltanto un’idea fissa ebraica. Il santuario, che da vari secoli non esisteva piú in quanto costruzione, è servito al cristianesimo e all’Islam per affermare, da un lato, la continuità con il giudaismo – che costituisce il tronco comune da cui le due altre religioni si sono distaccate – e, dall’altro, la discontinuità con quest’ultimo. Se la Cappella Sistina, per esempio, riproduce a Roma i volumi del Tempio di Gerusalemme riportati dal testo biblico, la ben piú imponente basilica di S. Pietro riprende nelle colonne tortili del baldacchino berniniano le colonne della facciata del Tempio ebraico. La Moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia, invece, sorgono, come già accennato, sullo stesso sito del Tempio ebraico. In entrambi i casi, le nuove costruzioni volevano sancire il superamento del giudaismo come religione particolare, relegata al passato e all’oblio, o, quanto meno, a una forma di sussistenza minoritaria, non monumentale e quindi discretamente tollerata.


Il vuoto lasciato dal Tempio di Gerusalemme è stato dunque presto riempito da nuove costruzioni, ma, nella memoria del popolo d’Israele, è diventato un luogo immaginato, simbolizzato, trasfigurato: un vero e proprio punto di fuga verso il quale converge l’intera storia culturale e politica del popolo d’Israele, una tela o uno schermo sul quale la sua saga millenaria continua a dipanarsi. Questa doveva anche essere l’idea di coloro che orchestrarono una vera e propria musealizzazione del Muro del Pianto, all’indomani della conquista di Gerusalemme nel 1967. Demolendo il fitto quartiere abitativo che vi era sorto a ridosso come in tutto il resto della Città Vecchia di Gerusalemme, quella racchiusa dalle mura di Solimano «il Magnifico» del 1540, le

In alto: rappresentazione schematica del Tempio di Gerusalemme, miniata nel Codex Amiatinus. VII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. In basso: il Tempio di Gerusalemme su una moneta battuta al tempo della rivolta di Bar Kokhba. 134 d.C.

autorità dello Stato d’Israele fecero di questo luogo una suggestiva scenografia. E con questa scenografia sullo sfondo, vollero che il mondo vedesse che la storia ebraica continua e che nonostante secoli di antisemitismo, nonostante la Shoah, il popolo d’Israele esiste ancora. Nonostante tutto.

BREVE STORIA DI UN SIMBOLO Le diverse fasi del Tempio scandiscono, inoltre, la storia di questo «popolo geologico». La fase precedente alla sua costruzione, per esempio, corrisponde, grosso modo, a quella non israelitica della città, quando a capo del pantheon locale doveva troneggiare una divinità solare come nel mondo egiziano che a lungo aveva dominato nell’area. In questo pea r c h e o 77


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riodo, il popolo d’Israele non occupava ancora la città di Gerusalemme, ma viveva quella che il testo biblico descrive come un’esistenza nomadica in continuo movimento, con le epopee dei patriarchi e poi con quella di Mosè, e poi in fase di sedentarizzazione con le storie del Libro dei Giudici. Durante quest’epoca, sempre secondo il testo bilico, il popolo è stato oggetto dell’elezione divina e ha ricevuto le proprie tradizioni. Si tratta di un tempo nel quale Dio guidava le sorti del popolo direttamente, oppure mediante personaggi carismatici.

SULLA ROCCIA PIÚ ALTA La costruzione del Tempio segna, invece, l’inizio di una nuova fase nella storia d’Israele, in cui Dio acconsente che a guidare il suo popolo sia un re. Non a caso, l’idea di costruire un Tempio viene fatta risalire a Davide, anche se la costruzione avverrà soltanto con suo figlio Salomone. Il luogo prescelto per la sua edificazione è dunque lo sperone roccioso piú alto della lingua di terra chiamata Ophel, nucleo originario dal quale la città non aveva cessato di svilupparsi dal II millennio a.C. Da questa posizione, il Tempio dominava la piccola città arroccata, assicurando alla divinità che vi abitava visibilità e vicinanza al cielo. D’altronde, il Dio biblico continua la tradizione locale configurandosi come una divinità solare o, comunque, responsabile dei fenomeni atmosferici. Si inaugura cosí l’epoca conosciuta come quella del «Primo Tempio», in cui si consuma la fiducia di Dio nei confronti dei vari re che si succedono nell’arco di qualche secolo. Questa fase si conclude con la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio attorno all’anno 586 a.C. e 78 a r c h e o

Qui sotto: il Monte del Tempio in una fotografia del 1857. In basso, sulle due pagine: il Muro del Pianto o Muro Occidentale (a destra) e la Cupola della Roccia (a sinistra).

il conseguente esilio a Babilonia della classe dirigente della capitale. Il ritorno in patria nel 538, dovuto al cambio di politica impresso dalla nuova superpotenza vicino-orientale costituita dall’impero persiano, permise la riedificazione del Tempio, riconsacrato nel 515 e noto come «Secondo Tempio», ma in uno scenario in cui l’autorità politica è in mano all’impero e ai suoi rappresentanti. Soltanto con l’età ellenistica, la gestione effettiva della Giudea, contesa fra il potere seleucide in Siria e quello lagide in Egitto, fu demandata alla classe sacerdotale gerosolimitana. In quest’epoca, il Tempio è ancora al centro della geopolitica re-


gionale, quando, stando almeno al racconto dei Libri dei Maccabei, il re seleucide Antioco IV «Epifane» (215-164 a.C.) ne avrebbe violato la santità, imponendo sacrifici secondo l’uso greco, dedicando il culto a Zeus Olimpio ed erigendovi una statua, uno sfregio impensabile nel luogo dedicato alla divinità la cui immagine non si può rappresentare e il cui nome non si può nemmeno pronunciare.

DUE VISIONI DI UN CREDO Benché sia inverosimile che il monarca ellenistico abbia perseguito i Giudei come raccontano alcuni testi biblici, certo è che la Giudea fu lo scenario di una guerra civile che oppose due visioni del giudaismo: una di sostanziale apertura al mondo circostante e abbandono delle pratiche piú «eccentriche» (assenza In alto: il Muro del Pianto in una foto del 1875. L’opera, costruita con poderosi blocchi squadrati, corrisponde a parte della facciata occidentale del podio monumentale sulla cui spianata venne innalzato il tempio di Erode.

di immagini, circoncisione, osservanza dello shabbat, pratiche alimentari, ecc.) e un’altra di tipo conservatore. I maggior i attivisti di quest’ultima fazione furono alcuni esponenti della famiglia dei Maccabei, già parte dell’élite sacerdotale della capitale. Dal loro successo prese origine la dinastia degli Asmonei, al tempo stesso re e sommi sacerdoti, con i quali la Giudea ritrovò uno slancio espansionistico importante e l’indipendenza, almeno fino all’intromissione romana. Riportato alle consuetudini ebraiche grazie ai Maccabei, il Secondo Tempio conobbe importanti lavori nei giorni di Erode il Grande (73-4 a.C.). Sebbene già poggiasse su un podio destinato a livellare la sommità dell’altura sulla quale sorgeva, la piattaforma elevata da Erode, che corrisponde grosso modo all’odierna Spianata delle Moschee, doveva costituire un notevole colpo d’occhio nella Gerusalemme di età romana. Il tempio occupava soltanto la parte centrale della vasta piattaforma, che comprendeva vari ingressi e corti progressive, per filtrare l’accesa r c h e o 79


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so ai luoghi piú interni. Tuttavia, il tempio erodiano, che doveva costituire uno dei grandi luoghi di culto dell’età romana, durò pochi decenni. La cosiddetta «Prima guerra giudaica» (66-70 d.C.) portò alla distruzione definitiva del Secondo Tempio. Nel 70 d.C., infatti, l’esercito romano guidato da Tito cancellò il monumento, che sopravvisse unicamente nei rilievi dell’arco trionfale dell’imperatore innalzato a Roma. Sul posto, oggi, rimane soltanto il «Muro del Pianto», noto anche come «Muro Occidentale», ossia una parte della monumentale muratura che cingeva il podio della spianata su cui sorgeva il tempio di Erode. La distruzione del 70 d.C. non è che l’ultima cesura nella storiografia del popolo. Il Primo Tempio aveva già segnato l’esperimento fallimentare della monarchia, e il Secondo Tempio l’epoca degli imperi suc80 a r c h e o

cessivi (persiano, ellenistico e infine romano). Tuttavia, l’ultima distruzione del Tempio di Gerusalemme sancisce da una parte la fine dell’esistenza di uno Stato ebraico – per il quale si dovrà attendere il 1948 con la creazione dello Stato di Israele – e, dall’altra, una radicale mutazione del culto.

UNA NUOVA ETÀ SENZA SACRIFICI Secondo la formula di Guy Stroumsa, si inaugura dapprima nel mondo ebraico e poi in quello cristiano, la «fine del sacrificio». Il sacrificio animale aveva caratterizzato per millenni, infatti, il culto delle religioni del bacino mediterraneo, tanto quelle politeiste quanto, per esempio, il rigido monoteismo dei Maccabei. Pur nelle differenze fra gli animali sacrificabili, tutti questi culti riconoscevano nel sacrificio la forma

La distruzione del Tempio di Gerusalemme, olio su tela di Francesco Hayez. 1867. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

preferenziale di contatto fra l’umano e il divino. L’altare, ossia la tavola alla quale il divino era convitato, simboleggiava questo contatto anche nel mondo israelitico: Dio, infatti, aveva promesso «verrò a te e ti benedirò» su ogni altare su cui sarebbero stati offerti sacrifici in suo nome (Esodo 20, 24). La drammatica fine del culto sacrificale nel mondo ebraico avrebbe quindi gettato le basi per due fondamentali sviluppi del mondo moderno: da un lato la nascita del giudaismo rabbinico, fondato sullo studio della Torah e sugli insegnamenti dei saggi (codificati poi nel Talmud) e, dall’altro, sul sacrificio trasfigurato della liturgia cristiana, che al sangue


e al pane sostituirà il vino e l’ostia. Nell’ambito ebraico, la sostituzione forzata del sacrificio con la lettura e lo studio della Torah sancisce la centralità della sinagoga, un’istituzione che era già apparsa come «casa di preghiera» per le comunità diasporiche del mondo ellenistico, ma che non aveva surrogato pratiche come il pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme o il pagamento della tassa per finanziarne i sacrifici.

QUEL NOME SEGRETO... Con la fine del culto sacrificale nel Tempio di Gerusalemme, il giudaismo rabbinico riconosce la fine della possibilità di avere un contatto rituale con il divino. Nei giorni in cui il Tempio esisteva, la classe sacerdotale ne amministrava i sacrifici quotidiani e nella sua cella, il «Santo dei Santi», soltanto il sommo sacerdote aveva il diritto di entrare una volta l’anno, nel giorno di Yom Kippur, e pronunciare, solo in quell’occasione, il nome segreto di Dio, YHWH. Pur limitata nel tempo e nello spazio, la comunica-

In alto: la Cupola della Roccia e il Muro del Pianto in una foto del 1969. In basso: Gerusalemme. Modello ricostruttivo del Tempio di Erode nel grande plastico della città antica realizzato dall’Israel Museum.

zione con il divino era quotidianamente intrattenuta e assicurata da una classe di specialisti. Il nome di Dio, una perifrasi che dice al contempo l’assenza di una statua che lo rappresenti e che sco-

raggia una comprensione troppo letterale dell’espressione, abitava in mezzo al suo popolo. Una volta che il tempio è distrutto, Dio si ritrae dal mondo, la sua presenza, la shekinah dei testi biblici e rabbinici, non

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è piú localizzabile in un luogo particolare e visibile. Essa si realizza allora in una forma nuova: è ormai il popolo a costituire le ultime vestigia di Dio sulla terra. Questa nuova modalità della sua presenza significa la fine dell’attività diretta di Dio sul mondo: in altri termini, non c’è piú spazio per i miracoli. Dio diventa muto, anche di fronte alle piú atroci persecuzioni subite dal suo popolo. Non ha piú voce propria: la sua voce si identifica ormai con la voce della maggioranza.

Per questa ragione l’interpretazione rabbinica si fonda sul dialogo e sulla conta delle opinioni: si tratta di un’interpretazione che si sagoma e si impone «a colpi di maggioranza».

DEMOCRAZIA O DOGMA Un tale approccio ermeneutico, che fa volontariamente a meno della nozione di verità assoluta, è diametralmente opposto a quello che prevale nei primi secoli del cristianesimo, dove i concili ecumenici, per esempio, promuovono le nozioni di «ve-

rità rivelata» e di «dogma». La democrazia verbosa e financo logorroica dei rabbini si oppone al verticalismo autoritario della Chiesa. La cesura storiografica della distruzione del Tempio di Gerusalemme per mano romana non fu, quindi, la fine di una storia, bensí l’inizio di una nuova fase, gravida di conseguenze. Fra queste, si annovera ormai l’anelito per la costruzione del Terzo Tempio. In questo senso va interpretata la rivolta di Simon Bar Kokhba,

Altare monumentale rinvenuto a Beer Sheva, forse da un tempio cittadino contemporaneo al Primo Tempio di Gerusalemme. Gerusalemme, Israel Museum.

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A sinistra: un gruppo delle cosiddette Judean Pillar Figurines, statuine in terracotta di donne a seno scoperto, forse identificabili con una divinità. In basso: il Sancta Sanctorum del tempio di Tel Arad.

anche nota come «Terza guerra giudaica» (132-136 d.C.). Pretendente Messia, Bar Kokhba si prefiggeva l’obiettivo di riprendere possesso di Gerusalemme, ristabilirne il Tempio e tornare alla tradizione. Il suo progetto terminò in un bagno di sangue: lo storico Cassio Dione parla di 580mila vittime sul fronte giudaico e del territorio della Giudea ridotto a deserto e macerie con oltre mille siti razziati o distrutti. Persino il nome della provincia romana di «Giudea» fu abbandonato dall’amministrazione imperiale in favore

del nome «Palestina». Al di là dell’esattezza delle cifre, il trauma fu talmente forte nel mondo giudaico sopravvissuto che la venuta del Messia e la realizzazione del Terzo Tempio furono respinte verso un orizzonte escatologico. L’aver posto il Terzo Tempio alla fine dei giorni – a prescindere dalle dispute rabbiniche tuttora in corso se questo santuario debba essere costruito da mano d’uomo oppure scendere miracolosamente dal cielo –, contribuisce all’aver fortemente sbilanciato in avanti la storia ebraica, in tensione verso un

obiettivo che continua a motivarla e mantenerla in moto.

IL TEMPIO COME UNA CASA Si è già avuto modo di evocare che l’istituzione del Tempio, i suoi sacrifici e le caratteristiche della divinità ospitata erano elementi comuni a tutto il Vicino Oriente antico. In tale contesto, il tempio costituiva la casa della divinità: in tutte le lingue semitiche uno stesso termine, bayt nella sua forma ebraica, designava al contempo la casa degli esseri umani e quella delle divinità. La costruzione e la manutenzione del tempio spettavano al re, rappresentante della divinità sulla terra. Vari indizi mostrano la vicinanza tra la figura del re e quella delle divinità: entrambi abitano nello stesso quartiere centrale della città, spesso nella parte piú alta (quella che in greco si chiamerebbe l’acropoli), l’iconografia del re e quella delle divinità sono spesso molto simili e, d’altronde, varie divinità non sono altro che un re ancestrale divinizzato. L’esempio piú chiaro in tal senso è il dio principale di Tiro, Melqart, il cui stesso nome significa, in fenicio, «re della città». a r c h e o 83


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Frammento di papiro con testi relativi alla festività di Pesach, da Elefantina (Egitto). 419 a.C. Berlino, Staatliche Museen.

Il re prendeva parte ad alcuni rituali, come quello dell’inizio del nuovo anno, festa di cui la Bibbia ebraica ha conservato alcune tracce nella liturgia di un salmo nel quale Dio dice del re: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Salmo 2,7). La cura quotidiana degli inquilini del tempio, ossia le divinità, era invece demandata alla classe dei sacerdoti. Poiché, normalmente, piú divinità coabitavano nello stesso tempio, ai sacerdoti spettava la cura delle loro statue come se fossero le divinità in persona, e quindi lavandole, vestendole e nutrendole. Tale doveva essere anche la situazione del Primo Tempio di Gerusalemme, quello precedente all’esilio. In questa fase, il Dio d’Israele non era altro che una delle tante divinità levantine, un dio legato alla sfera celeste e a un territorio preciso, la cui statua doveva troneggiare nel tempio, come descritto, al di là delle esagerazioni del caso, in alcune visioni profetiche: «Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio» (Isaia 6,1). Ma, soprattutto, non era «celibe»: varie iscrizioni dell’epoca menzionano, infatti, YHWH e Ashera, ossia la divinità sua con84 a r c h e o

sorte. Le statuine in terracotta di una figura femminile spesso col seno scoperto, rinvenute in centinaia di esemplari in tutta la Giudea fino all’età persiana, potrebbero rappresentare questa divinità, anche se il dibattito fra gli studiosi è ancora aperto.

IL SOLO E UNICO DIO È, invece, certo che il celibato di YHWH, la sua dimensione cosmica e non piú locale sono sviluppi databili a partire dal VI secolo a.C. e che vanno di pari passo col rafforzamento del monoteismo biblico. Quest’ultimo conobbe, a sua volta, differenti sfumature, dal riconoscere la superiorità del Dio biblico sulle altre divinità («Chi è come te fra gli dèi, Signore?», Esodo 15, 11) alla dichiarazione che YHWH è il solo Dio («Io sono il Signore e non v’è alcun altro; fuori di me non c’è dio», Isaia 45,5). Ma come spiegare questo sviluppo rivoluzionario? A ben guardare, il monoteismo biblico, ossia la relazione d’amore esclusiva fra YHWH e il proprio popolo, fu la risposta geniale di un gruppo di «scampati alla spada» (Geremia 31,2) che preferirono trovare una spiegazione alternativa a quella

di credere il proprio Dio sconfitto dagli eventi storici. La soluzione all’impasse dell’esilio fu, dunque, quella di pensare che il Dio di un insignificante gruppo di perdenti fosse in realtà il Signore dell’universo, che aveva scelto di non tradire il suo popolo non per meriti particolari, ma per amore e per fedeltà alla propria scelta e promessa. Per la prima volta, la forza di un dio era inversamente proporzionale alla forza del suo popolo. Questo capovolgimento di tutta la teologia vicino-orientale, nella quale il peso delle divinità corrispondeva direttamente al peso geopolitico degli Stati di cui erano a capo, spiega come il culto di YHWH abbia potuto attraversare i secoli. Al moltiplicarsi delle affermazioni monoteiste si aggiunsero anche il divieto di rappresentare l’immagine di Dio e di menzionarne il nome, come esplicitamente enunciato all’inizio del testo dei cosiddetti «dieci comandamenti» (Esodo 20,47 e Deuteronomio 5,8-11). Soltanto in questa fase matura della riflessione teologica della classe sacerdotale, successiva alla prima distruzione del tempio, l’istituzione templare cominciò a costituire un problema per gli autori biblici. Come giustificare che il Dio dell’universo abiti una sperduta città della Giudea? O che il Creatore dell’universo abbia bisogno di essere nutrito con sacrifici quotidiani? In una parola, le pratiche in uso per tutti gli altri dèi dovevano essere dichiarate desuete per il Dio biblico. In questo senso, il Tempio di Gerusalemme si volle fare interprete di un modo nuovo, esclusivo di rap-


porto col divino. Pur mantenendo l’edificio con i suoi sacrifici, la loro interpretazione divenne via via allegorica: nel tempio non abita Dio, bensí il suo Nome oppure la sua Gloria, e il Dio biblico preferisce il sacrificio personale, ossia l’impegno etico, al sacrificio tradizionale.

UNA RIFORMA TUTTA DA... VERIFICARE L’unicità del Dio d’Israele che cominciò a imporsi soltanto all’indomani della distruzione del regno di Giuda nel 586, fu anche all’origine di un mito importante, quello dell’unicità del Tempio di Gerusalemme. In realtà, la stessa Bibbia ebraica contiene una contraddizione: da un lato, un testo come quello di Deuteronomio 12 prevede la centralizzazione del culto israelitico in un solo luogo; dall’altra, le narrazioni dell’epoca monarchica mostrano che in Israele e in Giudea esisteva una molteplicità di luoghi di culto. I capitoli 22 e 23 del Secondo Libro dei Re ricordano che fu la «riforma di Giosia» (648-609) a porre un freno alla loro proliferazione. Due elementi meritano di essere considerati. Il primo è che il passaggio del libro del Deuteronomio non menziona la città di Gerusalemme: «lo cercherete nella sua dimora, nel luogo

che il Signore vostro Dio avrà scelto fra tutte le vostre tribú, per stabilirvi il suo nome; là andrete» (12,4). D’altronde, Gerusalemme non è mai menzionata in tutta la Torah, ossia i primi cinque libri – i piú importanti – della Bibbia ebraica. Per quanto sorprendente possa sembrare, soprattutto alla luce dell’importanza della città nella storia del giudaismo, tale assenza si spiega col fatto che la Torah è un prodotto dell’esilio: aver esplicitamente menzionato la città appena distrutta e perduta avrebbe rischiato di confondere gli animi piuttosto che rincuorarli. La finzione narrativa di retrodatare la

conquista della Terra Promessa all’epoca dell’uscita dall’Egitto sotto la guida di Mosè, non era altro che un incoraggiamento per gli esiliati a rivalicare il Giordano, questa volta non provenendo dall’Egitto bensí da Babilonia. Il secondo aspetto da considerare è che anche la riforma del re Giosia, che avrebbe distrutto tutti gli altri luoghi di culto del suo regno, è piuttosto un manifesto programmatico per coloro che sarebbero rientrati dall’esilio. L’effettiva esistenza della riforma di Giosia è, infatti, puntualmente contestata dall’archeologia. Da un lato, per esempio, un

Qui sotto: un’ipotesi ricostruttiva del Primo Tempio di Gerusalemme. In basso: resti del tempio di Ain Dara, la cui articolazione è con ogni probabilità affine a quella che dobbiamo immaginare per il coevo santuario gerosolimitano.

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santuario contro il quale il re si sarebbe scagliato con veemenza, quello di Betel, qualche chilometro a nord di Gerusalemme, sembra essere stato ancora ben funzionante alla sua epoca e, anzi, avrebbe addirittura sostituito, in seguito, il Tempio di Gerusalemme nel periodo fra la sua distruzione (587) e la sua ricostruzione (536-515). Dall’altro, le distruzioni attestate in vari luoghi di culto della Giudea vanno comprese come il risultato delle scorribande nemiche, neo-assire alla fine dell’VIII secolo e neo-babilonesi nel VI secolo, piuttosto che come la pia iniziativa di un re. La centralizzazione, quindi, fu in parte una necessità, ma, soprattutto, si trattò di una centralizzazione relativa.

ALTARI MONUMENTALI Nella fase del Primo Tempio, dunque, esistevano vari santuari, anche importanti, nelle città principali, quali Dan, Samaria o BeerSheva, come sembra dimostrare un altare monumentale qui ritrovato (vedi foto a p. 82). Ma luoghi di culto ben articolati sono attestati anche in centri di minore importanza, come il sito agricolo di Tel Motza alle porte di Gerusalemme, oppure all’interno di fortezze militari come Tel Arad (vedi foto a p. 83). Gli studiosi discutono, per esempio, se quest’ultimo sito, In alto: cartina della Città Vecchia di Gerusalemme, con i monumenti principali. attivo per larga parte dell’ottavo se- A sinistra: sterri condotti nel 1999, sulla Spianata delle Moschee, per la colo e con piú fasi costruttive, sia costruzione della moschea sotterranea di al-Marwani.

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stato distrutto all’epoca di Sennacherib (740-681) oppure dalla presunta riforma di Giosia. A ogni modo, il tempio prevedeva uno spazio aperto con l’altare per i sacrifici, spazi annessi per la preparazione e cottura delle offerte, e la cella, leggermente rialzata e contenente due bruciaprofumi sulla soglia e, all’interno, due stele di pietra prive di immagini o iscrizioni (vedi ancora foto a p. 83). Se le due stele sono state interpretate come un possibile indizio della venerazione di due divinità (YHWH e Ashera?), le analisi dei resti presenti sulla sommità dei bruciaprofumi, pubblicate di recente da alcuni studiosi israeliani, hanno riservato una sorpresa che costringe a ripensare alcuni aspetti del culto yahvista. Si è infatti compreso che non solo aromi e incensi venivano bruciati, ma anche sostanze psicotrope come la cannabis!

LA CASA DI YHWH Inoltre, fra gli ostraca (plurale di ostracon, frammento di ceramica usato come supporto scrittorio, n.d.r.) rivenuti nel sito, si è trovata la piú antica attestazione epigrafica che citi «il tempio (casa) di YHWH», anche se non è chiaro se si tratti del tempio locale, di quello di Gerusalemme oppure di un altro ancora. Anche durante il periodo del Secondo Tempio continuarono a esistere templi alternativi o addirittura ne furono creati di nuovi in concorrenza con quello di Gerusalemme. Un primo caso è il tempio di Dan, nel Nord del Paese. Fondato nel IX secolo, si tratta probabilmente del luogo di culto piú longevo della regione, sopravvissuto, nonostante le fasi di occupazione alterne, fino all’età romana. Un’inscrizione bilingue in greco e aramaico dell’età ellenistica riporta un voto fatto da un certo Zoilos «al dio che è a Dan»; difficile dire se sia una perifrasi per evitare di nominare il nome di YHWH, oppure se si tratti semplicemente di un’altra divinità.

In alto: foto aerea del Monte del Tempio. In primo piano, la Moschea di al-Aqsa. Nella pagina accanto, in basso, a destra: setacciatura della terra di riporto dagli scavi per la moschea sotterranea nell’ambito del Temple Mount Sifting Project.

Sempre nel Nord del Paese non si può dimenticare il tempio dei Samaritani. Che YHWH fosse la divinità principale e dinastica del regno di Israele è fuori discussione. Non soltanto le iscrizioni di VIII secolo rinvenute a Kuntillet ‘Ajrud, un caravanserraglio nella penisola del Sinai, menzionano l’esistenza di un «YHWH di Samaria», ma anche l’onomastica regale porta le tracce del culto yahwista dalla metà del IX secolo a.C. in poi (Acazia, Ioram, Jehu, Ioacaz, Geroboamo, Zaccaria…). La capitale Samaria, fondata dal re Omri (884-873), certamente ospitava un tempio dedicato a YHWH, ma probabilmente aperto, com’era consuetudine all’epoca, anche ad altre divinità.

D’altronde, le espressioni culturali di questo regno (chiamato regno di Samaria o del Nord, in contrapposizione con il regno di Giuda, che si trova a sud, n.d.r.) comportano elementi di due realtà geograficamente equidistanti da Samaria: da un lato Gerusalemme e, dall’altro, il ben piú ricco e importante mondo fenicio, in particolare la vicina città di Tiro. Il carattere eclettico delle tradizioni di questo territorio continuò quando, all’indomani della caduta di Samaria nel 722, i neoassiri deportarono parte della popolazione locale e installarono nella regione appena conquistata popolazioni provenienti da altre parti dell’impero. Agli occhi dell’élite di Gerusalemme, il territorio di Samaria che già aveva a r c h e o 87


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simpatie nei confronti del mondo fenicio, divenne un crogiuolo di tradizioni eterogenee e quindi decisamente eterodosse.

SUL MONTE DEI SAMARITANI Di questi pregiudizi si nutre la rivalità fra le tradizioni giudaiche, legate al Monte Sion, e quelle samaritane, rimaste fedeli attraverso i secoli al proprio culto sul Monte Garizim (nei pressi dell’odierna Nablus, in Cisgiordania, n.d.r.). Nonostante le vicissitudini, infatti, la religione yahwista perdurò nella regione: durante l’epoca persiana e poi ellenistica, un tempio importante dedicato a YHWH sorse sul Garizim, e i testi della Torah rimasero centrali per la comunità nella versione del cosiddetto «Pentateuco samaritano». In sostanza, infatti, Giudei e Samaritani condividono gli stessi testi sacri, in particolar modo la Torah, ma non concordano sul luogo scelto da Dio per il proprio culto: il Monte Sion per i primi, o il Monte Garizim per i secondi. Ancora oggi una piccola minoranza samaritana vive in Israele. Malgrado la distruzione del tempio, le cui vicende archeologiche poco interessano ai Samaritani contemporanei, ogni anno questa comunità si reca al Garizim per celebrare la Pasqua e, a differenza degli Ebrei che hanno sostituito i sacrifici pasquali con un pasto rituale ma domestico, i samaritani effettuano gli stessi sacrifici nelle modalità prescritte dalla Torah. L’età persiana ed ellenistica offre altri due esempi in territorio egiziano. Il primo è il tempio di Elefantina, una piccola isola del Nilo situata in Alto Egitto, nella quale sin dal VII secolo era stanziata una guarnigione di militari provenienti dalla Giudea. Le pratiche religiose attestate nei papiri di questa comunità (vedi foto a p. 84) sono al contempo simili ma diverse da quelle degli abitanti della Giudea: se la festa della Pasqua resta88 a r c h e o

va ancora centrale a Elefantina, come testimonia una lettera inviata da Gerusalemme per fornire precisioni sulla data e le pratiche da seguire, i coloni di quest’isola veneravano non solo YHWH, attestato nella pronuncia «Yahu», ma anche la divinità femminile «Anat di Yahu». Inoltre, come lamentano in una lettera indirizzata al governatore della Giudea e al sommo sacerdote di Gerusalemme, il tempio locale, sede dei sacrifici e fulcro della comunità, fu distrutto verso il 410 su istigazione dei sacerdoti del vicino tempio di Khnum. Nulla lascia pensare che il clero di Gerusalemme fosse scandalizzato dalle pratiche poco ortodosse degli abitanti di Elefantina, né dal fatto che intrattenessero un tempio e dei sacrifici. L’altro esempio è quello di Leontopoli, in Basso Egitto, a una trentina di chilometri dal Cairo, un sito oggi noto come «la collina dei Giudei» (Tell el-Yehudiyeh), a memoria del tempio qui edificato e in funzione tra il 170 a.C. e il 73 d.C. La sua edificazione va compresa all’interno delle contese del Levante meridionale tra il potere lagide e quello seleucide. Fu, infatti, la dinastia lagide a sponsorizzare la fondazione del tempio di Leontopoli con a capo il sommo sacerdote di Gerusalemme, Onia III, rifugiato in Egitto quando la Giudea passò fermamente in mano seleucide con Antioco IV. Piú che per l’aspetto religioso, questo tempio era importante per il valore politico, volendo proporsi come modello alternativo a Gerusalemme per il mondo diasporico. In realtà quest’operazione politica non diede grandi risultati e il tempio, che avrebbe potuto trarre enorme vantaggio dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., fu a sua volta distrutto tre anni dopo da Vespasiano. Ma torniamo a Gerusalemme. Che cosa può dire, dunque, l’archeologia di un Tempio che esiste sostanzialmente solo nei testi e il cui sito è

una vera polveriera per gli scontri di religione, al punto che è anche solo impensabile effettuarvi uno scavo? Del Primo Tempio, l’archeologia può dire poco o nulla, in effetti. O meglio, può verificare se le descrizioni contenute nel testo biblico (in particolare nei capitoli 5 e 6 del Primo Libro dei Re) corrispondano agli edifici che gli archeologi hanno potuto scavare.

UN MODELLO DIFFUSO Questi testi, tuttavia, presentano un problema preliminare: le costruzioni di Salomone sull’acropoli di Gerusalemme comprendono, com’era normale, la casa del Dio e quella del re. Ora, il Primo Tempio è descritto come un edificio a pianta longitudinale, suddiviso in tre ambienti, di cui l’ultimo è la cella, il «santo dei Santi», circondato da un corridoio con spazi di servizio (peribolo), e dotato di un ingresso sul lato corto, reso monumentale da due colonne


Gerusalemme. Visitatori nel tunnel che corre lungo la parte del Muro Occidentale sommersa sotto la Città Vecchia (vedi pianta a p. 86). Nella pagina accanto, in basso: Gerusalemme. La cosiddetta «Via dei Pellegrini» che, dalla Città di David conduce verso il Monte del Tempio.

non portanti.Tale modello è piuttosto ben attestato in tutta la regione levantina su un lungo periodo, dal XVIII al VI secolo a.C., con esempi a Ebla, Alalakh, Hazor, Ain Dara (vedi foto a p. 84, in basso),Tell Ta‘ynat o ancora Tell Afis. È tuttavia la descrizione del palazzo del re a offrire un aggancio cronologico piú preciso. La parte destinata all’attività pubblica del sovrano, infatti, è chiamata la «foresta del Libano» (1 Re 7,1-12), a causa del fitto reticolo di colonne. Ora, il modello architettonico della sala ipostila è tipico dell’architettura imperiale persiana, dove prende il nome di «apadana», ed è attestato in maniera monumentale a Susa e Persepoli. In altri termini, è impensabile che Salomone abbia potuto far costruire nel X secolo a.C. una sala identica a quelle che si sarebbero fatte soltanto tra il VI e il V secolo a.C. Il testo biblico, in altri termini, non può essere utilizzato per rico-

struire le sembianze del Primo Tempio ma semmai quelle del Secondo, ossia del periodo in cui molti dei testi biblici furono redatti o comunque rimaneggiati. Per esaltare la continuità fra il Primo e il Secondo Tempio, gli autori biblici hanno insomma fatto risalire a un passato mitico e a un re leggendario la fondazione del loro Tempio.

LA LEGGENDA DEL RE COSTRUTTORE Occorre inoltre ammettere che i recenti sviluppi dell’archeologia israeliana hanno fortemente ridimensionato la figura e le attività di Salomone, re di cui fu leggendaria non soltanto la saggezza, ma anche l’attività edilizia. I maggiori siti che Salomone avrebbe costruito o sviluppato, in particolare quelli nel Nord del Paese (Megiddo, Gezer e Hazor; 1 Re 9,15), sono stati datati dagli archeologi ad almeno un secolo dopo, e in particolare all’epoca della dina-

stia omride, la stessa che fondò Samaria e fece del regno d’Israele una potenza a livello regionale. La grandezza del regno di Salomone, tanto decantata dal testo biblico, diventa evanescente di fronte alla ricerca archeologica, secondo la quale Gerusalemme visse fino all’VIII secolo sostanzialmente all’ombra di Samaria. Non è da escludere, tuttavia, che un Tempio abbia potuto ergersi sul Monte Sion, ma doveva trattarsi di una costruzione ben piú modesta di quella descritta nella Bibbia. Altrettanto può dirsi per le ipotesi di identificazione del quartiere reale sull’acropoli. A oggi, mancano prove del fatto che l’acropoli di Gerusalemme fosse particolarmente importante nel X secolo a.C. e che potesse, quindi, essere la capitale del vasto regno di Davide e Salomone. Invece, il periodo d’oro di Gerusalemme fu senza dubbio l’VIII secolo a.C., a seguito dell’ana r c h e o 89


LUOGHI DEL SACRO/13

Iscrizione in lingua greca che vieta l’ingresso al Tempio di Gerusalemme agli stranieri. Epoca erodiana. Gerusalemme, Israel Museum.

nientamento di Samaria, di cui Gerusalemme si considerò degna erede. A quest’epoca è lecito immaginare che il Tempio locale abbia guadagnato in importanza, un’importanza che si affermerà ancor piú con il ritorno dall’esilio.

DISTRUZIONI E SCAVI CLANDESTINI Nemmeno del Secondo Tempio, però, restano tracce molto evidenti. Verso l’angolo sud-est della facciata orientale della Spianata delle Moschee, quella che si affaccia sul Monte degli Ulivi, la muratura presenta una chiara discontinuità e si appoggia su una struttura preesistente. Il bugnato dei blocchi e la loro taglia sono differenti da quelli del podio erodiano ed è quindi pos90 a r c h e o

sibile che emerga qui una parte del podio di età persiana, ossia quello su cui sorgeva il Secondo Tempio. Nell’impossibilità di effettuare scavi, quest’ipotesi resta non verificata. L’intera area del Monte del Tempio o Spianata delle Moschee è protetta, infatti, dallo statuto giuridico dello status quo fra le autorità israeliane e quelle del Waqf giordano, l’organizzazione preposta a gestire i luoghi sacri dell’Islam. Benché proibisca le indagini archeologiche e soprattutto le iniziative unilaterali, violazioni dello status quo sono state perpetrate a piú riprese da entrambe le parti. Nel 1996, per esempio, il Waqf intraprese importanti lavori nel sottosuolo della Spianata in uno spazio già noto come «le stalle di Salomone». Il risultato fu la costruzione della Moschea el-Marwani, con una capienza di 7000 persone, destinata a raccogliere i fedeli nei giorni di pioggia durante il Ramadan. Successivamente, nel 1999, nuovi lavori furono intrapresi per assicurare al sito un’uscita di sicurezza, ma senza alcuna supervisione archeologica, e quindi perdendo un’occasione unica per effettuare un sondaggio nel riempimento stesso della Spianata. Ciononostante, le autorità israeliane attivarono un progetto di archeologia di salvataggio, il Temple Mount Sifting Project, con il compito di setacciare le 9000 tonnellate di terra rimossa dalla Spianata alla ricerca di qualsiasi tipo di resto archeologico, dai manufatti all’immondizia dell’epoca (vedi foto a p. 86). Questo tipo di ricerca restituisce informazioni molto interessanti sui costumi alimentari o cultuali antichi e comporta talora scoperte importanti, come recentemente quella di un piccolo ciottolo con l’iscrizione beka in lettere paleo-ebraiche. Si tratta del peso che corrispondeva al mezzo siclo che ogni israelita pagava prima di entrare nel Tempio (Esodo 38,26). Il reperto, assieme ad altri frammenti ceramici e ossei, ri-

sale all’epoca del cosiddetto Primo Tempio, di cui, benché indirettamente, attesta l’esistenza. I resti piú evidenti del tempio gerosolimitano appartengono, comunque, all’età erodiana. Nel 1871 e nel 1936, per esempio, due iscrizioni in greco sono state ritrovate riutilizzate nei pressi della Spianata. Entrambe provenivano da alcune balaustre delle corti esterne del Tempio e annunciavano ai visitatori stranieri (cioè non ebrei) che un eventuale ingresso sarebbe stato punito con la morte. Inoltre, questa volta da parte israeliana, scavi sotterranei «clandestini» e aperti al pubblico nel 1996, hanno scoperto per tutta la sua lunghezza il Muro Occidentale, ossia la continuazione del Muro del Pianto nascosta sotto i quartieri della Città Vecchia (vedi foto a p. 89). Tra attaccamento retorico alle vestigia del passato e poco rispetto per la storia altrui, le vicende archeologiche attorno al Monte del Tempio/Spianata delle Moschee continuano con toni da schermaglia politica e dispetti reciproci, piú che essere mosse da interessi scientifici. Paradossalmente, la città cosí ricca di storia, diventa una città senza memoria, schiacciata sulle drammatiche urgenze del presente e che, cosí, perde di vista anche il futuro. Le pietre di Gerusalemme, che parlano molte lingue, dicono chiaramente la «diversa scala di misura» del poeta Yehuda Amichai, e dichiarano come fallimentare la millenaria lotta dei tentativi di sopraffare l’altro, chiunque esso sia. PER SAPERNE DI PIÚ Vincent Lemire (a cura di), Gerusalemme. Storia di una cittàmondo, Einaudi, Torino 2017 Simon Goldhill, Il tempio di Gerusalemme. Storia e letteratura del luogo piú sacro del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009 Israele e il Libro, Limes, Rivista italiana di geopolitica, 10 (2015)



SPECIALE • AIDA

QUELLA MAGNIFICA

OSSESSIONE

FIN DALL’ANTICHITÀ, LA STORIA DELLA CIVILTÀ EGIZIANA E LE SUE GRANDIOSE TESTIMONIANZE MONUMENTALI HANNO ESERCITATO UN FASCINO STRAORDINARIO E DIVENUTO IRRESISTIBILE IN ETÀ MODERNA, SOPRATTUTTO ALL’INDOMANI DELLA CAMPAGNA DI NAPOLEONE NEL PAESE DEL NILO. E NELL’ONDA LUNGA DI QUESTA MALÍA SI INSERISCE AIDA, IL MELODRAMMA COMPOSTO DA GIUSEPPE VERDI, ORA «IN SCENA» AL MUSEO EGIZIO DI TORINO con testi di Christian Greco, Johannes Auenmüller, Paolo Del Vesco e Alessia Fassone e un’intervista a Enrico Ferraris 92 a r c h e o


Nella pagina accanto: uno degli ingressi della città di Tebe, in un bozzetto di Girolamo Magnani per la prima italiana dell’Aida di Giuseppe Verdi, messa in scena a Milano al Teatro alla Scala nel 1872.

L

a presenza materiale e intellettuale dell’Egitto antico è profondamente connessa con la nostra storia. Ognuno di noi può affermare di avere un rapporto intimo con l’antica cultura che si è sviluppata sulla sponda meridionale del Mediterraneo, relazione che uno dei massimi artisti del nostro tempo, William Kentridge, ha definito «geografia interiore». Questo ci spinge a riflettere su come le diverse interpretazioni soggettive si possano allineare attorno a un’esperienza comune per produrre espressioni di significato condiviso. A una prima osservazione, sembra che gli oggetti sopravvissuti al flusso della Storia siano legati al passato, e non tutti sono consapevoli della loro forza e dell’influenza che esercitano all’interno della società attuale. Sono proprio le generazioni contemporanee che ne fanno uso e che ne determinano l’utilizzo all’interno della società, rendendo i manufatti, seppure antichi, sempre comprensibili e addirittura flessibili alle necessità dettate dalla contingenza. L’Egitto ha prodotto una cultura materiale che ha continuato ad avere una lunga storia anche dopo che la società che l’ha creata è venuta meno. In uno sforzo ermeneutico che ci permetta di comprendere questo fenomeno è indispensabile tener conto di una serie di fattori. Si deve certamente analizzare lo spazio e il tempo, ma anche cercare di comprendere il ruolo fondamentale che hanno svolto gli oggetti con la loro «agency». La disseminazione di artefatti egizi è attestata fin dall’età del Bronzo nel Vicino Oriente e nell’intero bacino del Mediterraneo. Gli aegyptiaca erano talmente diffusi da venire definiti la piú popolare merce di scambio globale dell’epoca. È importante essere consapevoli di questo per comprendere come, ben prima di Erodoto e delle sue Storie, vi fosse una presenza culturale dell’Egitto. Già nel mondo classico è interessante notare come questa civiltà venisse considerata e rispettata per le sue antiche radici, il luogo di origine e quindi il fondamento di una storia e di una sapienza radicata comune. Al contempo, però, l’Egitto veniva anche identificato come la quintessenza dell’Altro. Questo essere familiare e diverso allo stesso tempo gli ha sempre conferito una posizione liminale, e l’apparente contraddizione conse-

guente risulta tutt’oggi fondamentale per comprendere il ruolo dell’Egitto all’interno della società occidentale. La civiltà sorta sulle sponde del Nilo ha suscitato un grande fascino, che a volte è sfociato nell’ossessione, ed è stata all’origine di ricostruzioni fantastiche e misteriche. Si è arrivati pertanto a distinguere fra quella che viene definita «egittologia», che si basa sul logos, sulla razionalità, sullo studio e sulla disamina delle fonti antiche, da ciò che viene giudicata, invece, «egittomania» e che ci racconta del fascino «irrazionale» suscitato in varie epoche da questa antica cultura.

REINVENTARE IL PASSATO Gli studi fondamentali di Jan e Aleida Assmann (rispettivamente un egittologo e un’esperta di scienze culturali e della letteratura, n.d.r.) hanno introdotto un’altra importante categoria, ovvero quella della «mnemostoria». A differenza della Storia, questa branca del sapere si interessa di come il passato viene ricordato, cioè recepito e trasmesso alle generazioni successive. Tale processo, però, non è passivo: il presente stesso può rimodellare e addirittura reinventare il passato.Vi sono stati momenti in cui si poteva affermare che ci fosse un’ossessione occidentale nei confronti dell’Egitto e, in quell’aspetto dicotomico del familiare e del diverso, la cultura nilotica ha continuato a essere percepita come fonte di un passato comune in quanto aveva profondamente intercettato le vicende di Israele, della Grecia e di Roma, ovvero le fondamenta stesse della cultura occidentale. E questo restituisce quindi all’Egitto un ruolo particolare rispetto all’orientalismo in generale. Quello che ancora manca è però un resoconto completo che sappia dare ragione dell’incontro fra l’Occidente e l’Egitto. Il libro di Siegfried Morenz del 1968, Die Begegnung Europas mit Ägypten (L’incontro dell’Europa con l’Egitto) identifica tre livelli in questo processo di conoscenza: una prima fase che dura fino all’epoca tardo-antica, un momento in cui la cultura egizia era ancora vivente e produttiva; un secondo periodo che si interseca con il precedente, che comincia in epoca romana e che si accentra attorno al culto di Iside, interpretato in modalità diversa rispetto alla funzione teologica della dea all’interno della civiltà nilotica; un terzo livello euristico, a r c h e o 93


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infine, finalizzato alla comprensione delle peculiarità dell’Egitto antico, stimolato dalle teorie di Winckelmann e Herder. L’importantissimo volume di Morenz non riesce però a cogliere in pieno il valore della memoria culturale, ridotta a fase preliminare dell’egittologia scientifica. Nell’attesa di un’opera omnicomprensiva che dia dignità alla storia della ricezione dell’Antico Egitto nelle sue multiformi sfaccettature, Aida costituisce un magnifico caso di studio.

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Nella mostra inaugurata al Museo Egizio e nel volume che l’accompagna, è possibile affrontare un viaggio fra Europa e Impero ottomano nell’Ottocento; seguendo i risultati della spedizione napoleonica, cogliere l’importanza dell’incontro fra due mondi. Scoprire il fermento egiziano durante il suo rinascimento, la Nahda avviata da Mohammed Ali e portata avanti con determinazione da Ismail. Scoprire non solo il dinamismo del khedivé nel rafforzare il suo impero in Africa, nel

Cerimonia di inaugurazione del Canale di Suez a Porto Said, 17 novembre 1869, olio su tela di Édouard Riou, 1896. Compiègne, Museo Nazionale del palazzo di Compiègne.


completare il canale di Suez, nel progettare una Cairo à la parisienne, ma soprattutto la volontà di definire una propria identità. La costruzione di un rapporto con l’antico nasce attraverso il lavoro di Auguste Mariette, ma trova eco e radicamento grazie alle pagine di Rifa‘a al-Tahtawi che si dedica alla storia dell’Egitto pre-islamico. È in questa temperie culturale in cui le due sponde del Mediterraneo sembrano avvicinarsi (era stato proprio al-Tahtawi a documentare, per la prima volta

in arabo, non solo la vita della capitale francese ma anche gli avvenimenti rivoluzionari del 1830 che portarono all’esilio di Carlo X), che si deve collocare e comprendere la vicenda musicale di Aida. Dagli scavi di Jebel Barkal all’Esposizione universale di Parigi del 1867, dalla spedizione napoleonica alla fondazione del Museo di Bulaq, la vicenda dell’opera verdiana si dipana fra Storia, memoria culturale e agency degli oggetti. Christian Greco

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UN MESSAGGIO DI AFFERMAZIONE IDENTITARIA Incontro con Enrico Ferraris Egittologo in forza al Museo Egizio di Torino, Enrico Ferraris è il curatore della mostra «Aida, figlia di due mondi», aperta fino al 5 giugno. Un’iniziativa originale e di grande fascino, che gli abbiamo chiesto di illustrare ai nostri lettori.

◆ Dottor Ferraris, al di là della

ricorrenza dei 150 anni dalla prima italiana dell’opera, che cosa l’ha spinta a ideare il progetto espositivo di «Aida, figlia di due mondi»? «Nel 2015, il Teatro Regio di Torino omaggiò l’inaugurazione del nuovo allestimento del Museo Egizio aprendo la stagione lirica con Aida e, piú precisamente, portando in scena la produzione firmata dal regista William Friedkin di cui avevo fatto persino parte come comparsa molti anni prima ai tempi dell’università. In quella circostanza il regista chiese al Museo di intervenire con alcune rifiniture di scena e di movimenti che potessero riflettere meglio il mondo egizio. Fu probabilmente nel corso degli interessantissimi scambi con Friedkin su questo argomento che, involontariamente, si ripresentò quel dialogo stretto, tra egittologia e lirica, che aveva portato alla nascita di Aida e che sarebbe presto stata dimenticata e declassata a mera aneddotica di sapore orientalista. L’attenzione sulla genesi compositiva dell’opera, da parte di Verdi e Ghislanzoni, ha infatti dominato il discorso storico su Aida fin dalla sua prima rappresentazione a Milano, nel 1872, mentre sono cadute del tutto nell’oblio le ragioni ideologiche e politiche alla base della sua committenza, da parte del viceré d’Egitto, Ismail Pascià, e il ruolo fondamentale che le antichità faraoniche e la mediazione tra scienza e mise-en-scène dell’egittologo Auguste Mariette

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hanno avuto nel ridisegnare allora l’immagine internazionale dell’Egitto moderno. Dopo aver stupito il mondo con i suoi padiglioni all’Esposizione Universale di Parigi (1867) e con le imponenti celebrazioni per l’inaugurazione del canale di Suez (1869), l’Egitto affidava infatti alla lirica, potente mass media del XIX secolo, un messaggio di affermazione identitaria che ammiccava all’Europa e ribadiva un desiderio di emancipazione dall’impero ottomano di cui era ancora, all’epoca, una delle piú ricche province. Il concept della mostra si era cosí materializzato praticamente da solo a partire da queste correnti

convergenti; analogamente era chiaro a tutti noi che l’occasione ideale per realizzare quel progetto espositivo sarebbe stato l’anniversario per i 150 anni di Aida, nel 2021/22».

◆ Come possiamo giudicare, oggi,

la visione dell’Egitto che il melodramma verdiano ha veicolato? «Oggi, quando parliamo di Aida, ci riferiamo piú o meno in maniera inconsapevole soltanto alla musica e alla poesia del libretto perché, a fronte dei tanti allestimenti che si sono avvicendati nel tempo, essi rappresentano la parte – per cosí dire – invariabile dell’opera. Che l’opera lirica sia, tuttavia, una forma d’arte di sintesi in cui convergono molteplici tensioni artistiche (musica, poesia, letteratura, poesia, danza, ecc.) è particolarmente evidente nel caso di Aida. Il soggetto, che colpí l’attenzione di Verdi, e il primo allestimento scenico sono stati infatti concepiti da Auguste Mariette con il preciso intento di restituire al pubblico la nuova immagine dell’Antico Egitto – certo opportunamente mediato dalla convenzione scenica – restituita dagli scavi archeologici che per decenni egli aveva condotto per il viceré d’Egitto, Ismail Pascià, nella Valle del Nilo, in qualità di Direttore delle Antichità. È in quel contesto che occorre allora collocare lo storicismo di Verdi, che, infatti, mostra un acuto interesse per la verosimiglianza storica delle ambientazioni, delle situazioni e dei personaggi di Aida.


Nel corso del flusso costante di lettere con Giulio Ricordi, chiede informazioni sulle divinità egizie, sull’esistenza o meno del sacerdozio femminile nei templi, sulle distanze in leghe tra Tebe e Menfi o, ancora, sul tipo di preghiere che gli Egizi rivolgevano ai propri morti. Una valutazione sulla visione dell’opera, veicolata oggi da Aida, dovrebbe infine tenere conto dei due

volti di Aida. Ebbe infatti due première, una al Teatro Khediviale dell’Opera del Cairo (24 dicembre 1871) e l’altra al Teatro alla Scala di Milano (8 febbraio 1872): mentre al Cairo l’opera voluta da Ismail condensava e veicolava un’idea di progresso, modernità e orgoglio nazionale, a Milano infiammava il pubblico per l’esotismo della musica e delle sue scene. I figurini per i costumi di Aida (nella pagina accanto) e Radamès disegnati dallo scenografo Girolamo Magnani per la prima italiana dell’Aida. 1872. Milano, Archivio Storico Ricordi.

◆ Come si legge nel catalogo,

all’Aida, nonostante la distruzione degli archivi del Teatro dell’Opera del Cairo, è toccata la sorte, benigna, di vedere conservata una considerevole mole di documenti relativi alla sua genesi e alla sua composizione: da questo punto di vista, quali sono i materiali a suo avviso piú importanti, fra quelli riuniti per l’esposizione al Museo Egizio? «Sono molti i preziosi testimoni che oggi ci permettono di ricostruire la straordinaria storia dietro la produzione di Aida. Tra questi hanno certamente un grandissimo valore i prestiti dall’Archivio Storico Ricordi, nostro main partner, che annoverano le lettere della corrispondenza di Verdi con Giulio Ricordi, i bozzetti di scene e costumi della prima milanese e, soprattutto, la partitura autografa di Aida vergata dalla mano del compositore. Dall’Archivio di Stato di Parma giungono poi documenti di eccezionale importanza, esposti al pubblico per la prima volta in assoluto: si tratta degli abbozzi musicali e delle bozze del libretto di Aida nei quali possiamo osservare le stenografiche annotazioni del maestro fissate nel momento preciso della composizione creativa dell’opera. Sono documenti di valore inestimabile che mostrano non solo le fasi di sviluppo del libretto a partire dal testo di Mariette, ma documentano anche la prima nascita di arie celebri come Celeste Aida, sperimentazioni musicali poi riviste dall’autore e persino un diverso e, forse, piú accorato e personale finale d’opera cantato da Amneris».

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SPECIALE • AIDA

IL «SOGNO A OCCHI APERTI» DI UN EGITTOLOGO di Johannes Auenmüller

A

ida, l’apice dell’orientalismo nell’ambito della musica nel XIX secolo, rappresenta un collegamento fra la curiosità scientifica verso l’Oriente, in particolare l’Egitto, e l’entusiasmo orientalistico e l’egittomania contemporanei, di cui era preda l’Europa occidentale dopo la pubblicazione di Description de l’Égypte nel 1809-1829. Quando Auguste Mariette concepí il canovaccio per quello che sarebbe diventato il libretto di Aida, lo studio scientifico dell’Egitto stava attraversando una trasformazione, passando dall’essere una scarna materia preuniversitaria a una disciplina pienamente istituzionalizzata, con particolare interesse per gli studi storici e filologici e gli scavi archeologici. Lo stesso Mariette è una figura chiave in questa transizione e il suo canovaccio per l’Aida, scritto nel 1869-1870, si colloca esattamente fra questi due poli. La principessa Aida incarna l’idea orientalistica di un’Etiopia nera, esotica ed erotica, mentre tutte le scenografie storiche dell’opera «all’epoca del dominio dei faraoni» hanno l’obiettivo di dipingere un’immagine universale di un Antico Egitto ancorato alla comprensione contemporanea delle fonti antiche, allo stesso modo in cui ne era al contempo ispirato. L’immagine dell’antico Stato egiziano governato da cerimonie arcaiche e regole rigide si basa ancora sull’interpretazione di Mariette degli autori classici. Inoltre, il canovaccio dell’Aida presenta diverse inesattezze storiche, delle quali Mariette era sicuramente consapevole. L’intero canovaccio, pertanto, nasce dalla sua personale fantasia orientalista, nella quale l’ambientazione in un Antico Egitto universale si fonde con una travolgente, seppur tragica, storia d’amore. Mariette non aveva a disposizione soltanto gli autori classici e i racconti dei viaggiatori. Essendo egli stesso egittologo e addetto agli scavi, poteva avvalersi della letteratura scienti-

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Statue in granito di arieti nell’area del tempio di Amon ai piedi del Gebel Barkal, presso Napata (oggi in Sudan).

fica disponibile e della sua esperienza personale in scavi e reperti. Quando Mariette scrisse il canovaccio dell’Aida, i dettagli della storia d’Egitto erano ancora solo parzialmente conosciuti. Le conoscenze acquisite sino a quel momento derivavano principalmente dagli autori classici che la catalogazione di monumenti e nuovi rinvenimenti permetteva di integrare man mano. Molte nozioni erano in continua evoluzione e ogni nuova scoperta poteva confutare le ipotesi formulate in precedenza. L’atmosfera di studio e ricerca durante la quale fu concepito il canovaccio dell’Aida era dunque caratterizzata dall’entusiasmo per le nuove scoperte, che spesso andavano a trasformare le conoscenze precedenti.

LE FONTI D’ISPIRAZIONE Ultimamente, è stato ribadito che il canovaccio dell’Aida si basa, per diversi aspetti, sul romanzo greco Le etiopiche di Eliodoro di Emesa. Cariclea, figlia dei sovrani di Etiopia Idaspe e Persinna, è esposta dalla madre a causa del suo albinismo.Ancora in fasce, viene portata prima


in Egitto e poi a Delfi, dove diventa sacerdotessa di Artemide. Teagene, nobile della Tessaglia, se ne innamora e i due fuggono insieme. Durante la loro fuga tornano in Egitto e in Etiopia, esponendosi a numerosi pericoli. Alla fine, giungono a Meroe, dove viene rivelato che Cariclea è figlia del re etiope, proprio quando quest’ultimo è sul punto di sacrificarla agli dèi. Cosí, viene risparmiata la vita anche a Teagene. Contrariamente a quanto prevede la trama dell’Aida, nessuno dei due amanti muore. Ciononostante, sono diversi gli aspetti che sembrano aver ispirato Mariette, in particolare le scene ambientate in Egitto. Le altre possibili fonti di ispirazione spesso citate sono La Nitteti di Metastasio (Milano, 1756), Bajazet di Racine (Parigi, 1672) o anche il romanzo incompiuto La Fiancée du Nil del fratello di Mariette, Édouard. Recentemente, è stato anche stabilito che il contesto politico del canovaccio trae ispirazione da un ritrovamento di Mariette a Karnak. Nel 1859 Mariette scopre la grande iscrizione storica del re Merenptah (1213

a.C. 1203 a.C.) nel Grande Tempio di Amon (vedi tavola a p. 104). L’iscrizione che reca descrive l’invasione dell’Egitto da parte di gruppi libici, riportata al faraone da un messaggero. Il re pianifica una riscossa; un oracolo di Amon prevede un esito positivo. Il dio Ptah appare in sogno al re e lo omaggia con la scimitarra per la battaglia vittoriosa contro i Libici. Durante la battaglia, il comandante libico fugge vigliaccamente in patria. Dopo la vittoria, l’esercito egiziano marcia verso casa con un ricco bottino e un carico di prigionieri, fra i quali vi è la famiglia del re libico. L’Egitto esulta, i prigionieri e il bottino sono offerti in dono e il re è lodato per la vittoria. Questa storia presenta molti punti in comune con l’ambientazione generale del canovaccio, con la differenza che nell’Aida i Libici sono sostituiti dagli «Etiopi». Un’altra teoria sulle fonti di ispirazione di Mariette è stata recentemente proposta da Thomas Schneider. Quest’ultimo crede che l’idea di alcuni elementi dell’Aida nasca dalla (segue a p. 104) a r c h e o 99


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AUGUSTE MARIETTE. ALLA RICERCA DELL’EGITTO SEPOLTO Quando nel 1850 Auguste Mariette (1821-1881) giunge per la prima volta in Egitto è un giovane uomo di ventinove anni, sicuro di sé e determinato, con una grande passione per l’antica civiltà di questo Paese e, da poco piú di un anno, con un contratto temporaneo e mal retribuito presso il Museo del Louvre. La passione per l’Antico Egitto era scaturita improvvisa e imprevista nel giovane Auguste solo otto anni prima, interrompendo sul nascere quella che sembrava dovesse essere una carriera piuttosto ordinaria come insegnante di scuola. Nel 1842, Auguste aveva avuto modo di scoprire e appassionarsi alla civiltà egizia attraverso le note, le lettere e i disegni contenuti nelle carte, che si era ritrovato a dover riordinare, appartenenti al pittore, artista e suo lontano cugino Nestor L’Hôte, improvvisamente deceduto. L’Hôte aveva viaggiato lungo il Nilo prima come membro della spedizione scientifica francotoscana del 1828-1829, co-diretta da Jean-François Champollion e Ippolito Rosellini, e poi per proprio conto in due altre occasioni (1838-1839 e 18401841). A partire da quel primo incontro indiretto con i paesaggi esotici e le antichità dell’Egitto, Auguste Mariette aveva deciso di dedicarsi agli studi egittologici, imparando il geroglifico da autodidatta e vagheggiando di potersi recare finalmente un giorno in quel Paese sulle orme degli illustri connazionali che lo avevano preceduto. Dopotutto, l’Antico Egitto e i suoi resti materiali 100 a r c h e o

erano all’epoca considerati un ambito di ricerca, se non perfino una proprietà scientifica, dei Francesi. Caccia alle antichità Le rivalità politiche fra le varie potenze europee fanno, in questi anni, da sfondo all’accaparramento indiscriminato di antichità egizie che vede coinvolte tutte le principali istituzioni museali occidentali. Nel contesto di tali rivalità ben si comprende il consiglio dato dal celebre professore di archeologia Charles Lenormant (1802-1859) ad Auguste Mariette nel 1850: al

momento di presentare nuovamente richiesta di essere inviato in missione in Egitto, dopo due precedenti rifiuti, al Ministero della Pubblica Istruzione, il professore gli suggerisce di motivare la domanda con il progetto di cercare e acquisire manoscritti copti, siriaci e aramaici per arricchire le collezioni della Bibliothèque nationale de France, che in tale ambito erano state nettamente superate dalle collezioni inglesi grazie a una serie di recenti spregiudicate acquisizioni a opera di Robert Curzon e Henry Tattam. Nella sua lettera di appoggio alla richiesta di Mariette, Lenormant fa volutamente leva su un sentimento di orgoglio nazionale: «Per quanto riguarda i manoscritti copti, la povertà della nostra biblioteca nazionale è quasi umiliante, se la paragoniamo alle collezioni pubbliche e private di Roma e dell’Inghilterra». Poco dopo il suo arrivo in Egitto, tuttavia, Mariette si rende conto che la missione affidatagli dal governo francese non può essere portata a termine per il netto rifiuto dei monaci di separarsi da altri manoscritti dopo tutti quelli che erano già stati sottratti, a volte con la forza, dagli Inglesi. Decide dunque di dedicarsi a quello che lo aveva spinto, otto anni prima, a intraprendere quella nuova strada: il sogno di scoprire le tracce dell’antica civiltà faraonica. Acquista una tenda e delle provviste, noleggia dei muli da soma e degli asini e inizia la sua avventura. Partecipa dapprincipio a degli scavi illegali di beduini a Giza, e poi si sposta a Saqqara, dove intraprende scavi per conto


In basso: veduta interna del Serapeum, da Auguste Mariette, Scelta di monumenti e disegni, scoperti o eseguiti durante lo sgombero del Serapeo a Menfi (Gide et Baudry, 1856). Nella pagina accanto: Auguste Mariette come pascià, busto di Alfred Jacquemart. 1888. Boulogne-sur-Mer, Castello.

proprio ingaggiando una trentina di lavoratori egiziani, ma senza alcun permesso ufficiale da parte del governo egiziano. La legislazione sulla protezione delle antichità era all’epoca ferma all’ordinanza emanata dal viceré Mohammed Ali il 15 agosto del 1835: una normativa sulla carta assolutamente innovativa per i tempi, che prevedeva il divieto di esportazione di qualsiasi oggetto e controllava gli scavi, ma che era rimasta fondamentalmente inapplicata. Nonostante ciò, chi intendeva eseguire scavi doveva comunque fare richiesta, attraverso il rappresentante diplomatico del proprio Paese, di un apposito permesso, o firmano, rilasciato dal viceré egiziano. Fra il 1850 e il 1853, fra mille peripezie e sotterfugi, con l’appoggio del console di Francia e senza disdegnare in alcuni casi l’utilizzo della dinamite, Mariette fa eseguire scavi a Saqqara e a Giza che lo portano alla sensazionale scoperta del Serapeum, cioè il complesso funerario con le sepolture dei sacri tori Api, del

cosiddetto «tempio a valle» del faraone Chefren e di innumerevoli tombe a mastaba di privati. Il francese riesce poi a far uscire dal Paese e far giungere al Louvre piú di 7000 reperti di grande valore storico e artistico, fra cui anche la statua di scriba seduto che è oggi uno degli oggetti piú iconici di quel museo. Il rientro in Francia Nel luglio del 1854 il viceré egiziano Abbas è assassinato in circostanze oscure e gli succede lo zio Said, che dimostrerà un atteggiamento molto favorevole nei confronti della Francia e affiderà la realizzazione del Canale di Suez al diplomatico e imprenditore Ferdinand de Lesseps, sua vecchia conoscenza. A corto di fondi per continuare gli scavi, Mariette ritorna in Francia, dove viene accolto con tutti gli onori, nel settembre del 1854; nel febbraio 1855 viene nominato Conservatore Aggiunto al Museo del Louvre, con uno stipendio annuo di tutto rispetto di 4000 franchi. Lí, si dedica alla catalogazione dei reperti

acquisiti dal museo grazie ai suoi scavi. Mariette compie visite di studio presso le collezioni egittologiche di Berlino (1855) e di Torino (1857), dove riceve l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro dal re di Sardegna e la nomina a «Socio Corrispondente» dell’Accademia delle Scienze. Nonostante i successi ottenuti l’egittologo non ha in patria alcuna prospettiva di carriera poiché il posto di Conservatore al Louvre al quale ambisce è occupato da Emmanuel de Rougé, di soli dieci anni piú vecchio. Inoltre, Auguste è ossessionato dal desiderio di tornare all’esplorazione di monumenti sepolti e pozzi funerari, e come confesserà piú tardi: «Sarei morto o diventato pazzo, se non avessi avuto l’occasione di tornare presto in Egitto». Il francese, dunque, si crea tale occasione, riuscendo ad avere un incontro con Ferdinand de Lesseps a Parigi ed esponendogli un progetto di salvaguardia del patrimonio archeologico egiziano. Il diplomatico, in ottimi termini con il viceré Said e ben inserito alla corte di Napoleone III, ottiene che Mariette si rechi in Egitto con l’incarico di compiere scavi e raccogliere una collezione da presentare poi al principe Napoléon-Jérôme Bonaparte, cugino dell’imperatore, in occasione di un suo viaggio ufficiale in quel Paese. Nel novembre del 1857 Auguste Mariette è nuovamente in Egitto in missione ufficiale per conto del governo francese e realizza scavi a Elefantina, Tebe, Abido, Saqqara e Giza. Quando alla fine del gennaio 1858 la visita del principe Bonaparte, che Mariette avrebbe dovuto a r c h e o 101


accompagnare, è annullata e in febbraio dal Louvre giunge il sollecito a rientrare in patria, l’egittologo ricorre a tutte le proprie conoscenze per posticipare il ritorno. Il principe, in compensazione per il mancato viaggio, propone di acquistare le antichità raccolte da Mariette, provocando la diplomatica risposta del viceré egiziano, che insiste per offrirgliele in dono. NapoléonJérôme accetta e, chiedendo a Mariette di porgere i propri sentiti ringraziamenti, lo incarica di far sapere al viceré che qualora avesse avuto intenzione di richiedere alla Francia il supporto di uno studioso 102 a r c h e o

per la creazione di un «musée égyptien», il governo francese avrebbe sicuramente designato per tale compito lo stesso Mariette. Alla guida degli scavi A questo punto, il 4 luglio 1858, il viceré Said nomina il francese Mamur (Direttore) delle Antichità Egiziane, con l’incarico di viaggiare lungo il Nilo, compiere scavi, proteggere i siti e i monumenti e raccogliere tutte le antichità cosí recuperate in vista della costituzione di un museo nazionale. In una lettera dell’aprile 1859 scritta al collega e amico Heinrich Brugsch, è lo stesso Mariette a

sintetizzare in cosa consistesse il proprio incarico di Directeur des Monuments Historiques de l’Égypte, aggiungendo inoltre un riferimento all’assai generoso salario accordatogli dal viceré: «Il mio incarico in Egitto consiste nel controllare che i monumenti antichi non vengano distrutti e, al contempo, nel creare un museo per il vicerè. Un egittologo non potrebbe avere doveri piú piacevoli da rispettare e dal momento che ho un appannaggio di 18mila franchi all’anno, capirete che sono al colmo della felicità». Viene cosí istituito il Service de conservation des antiquités de


Un momento dei lavori di allestimento della mostra «Aida, figlia di due mondi».

ritrovati migliaia di reperti di enorme valore storico e artistico che andranno ad arricchire la collezione, ancora oggi unica al mondo, del Museo Egizio del Cairo, inaugurato, nella sua prima sede nel quartiere di Bulaq, da Mariette il 16 ottobre del 1863.

l’Égypte – la cui gestione rimarrà, dopo Mariette, saldamente in mano ai Francesi fino al 1952 – che passando attraverso riorganizzazioni e denominazioni diverse (Service des antiquités de l’Égypte, Egyptian Antiquities Organization, Supreme Council of Antiquities, Ministry of State for Antiquities, Ministry of Tourism and Antiquities) è ancora oggi l’istituzione governativa che si occupa della conservazione e tutela del patrimonio archeologico egiziano e della regolamentazione e controllo delle numerose missioni archeologiche attive nel Paese. Per il proprio incarico Mariette ha a disposizione un battello a vapore, il

Samanoud, trasformato in vera e propria residenza galleggiante, che utilizza per spostarsi lungo il Nilo e ispezionare i vari siti. Ha la facoltà di scavare in qualsiasi località e il diritto di ricorrere al sistema, allora ancora in vigore, delle corvée (lavoro non retribuito obbligatoriamente prestato dai contadini egiziani); può disporre quindi per le sue attività archeologiche di una forza-lavoro di migliaia di persone. Fra il 1858 e il 1881, anno della morte dell’egittologo francese, vengono eseguiti lavori di scavo o di sgombero in piú di 35 siti, fra cui Edfu, Medinet Habu, Deir el-Bahari, Karnak, Dendera e Abido, e vengono

Scoperte epocali Fra le piú importanti scoperte di questo periodo spiccano quelle della sepoltura e dei gioielli della regina Ahhotep, della statua lignea di Ka-aper e della mastaba di Ti a Saqqara, della celebre statua del faraone Chefren protetto dal falco, della tomba e dei pannelli lignei di Hesyre e delle meravigliose statue in grovacca dalla tomba di Psammetico a Saqqara, delle statue del principe Rahotep e di sua moglie Nofret e della decorazione a intarsio e dipinta della tomba di Nefermaat e Itet a Meidum. Se le critiche maggiori all’operato di Auguste Mariette sono incentrate sulla mancanza di informazioni piú dettagliate sui contesti di provenienza degli oggetti e sulla scarsezza delle pubblicazioni dei risultati delle sue ricerche, bisogna però ricordare che molte delle sue note e dei suoi appunti andarono distrutti in occasione della catastrofica piena del Nilo del 1878. Nonostante le critiche, non vi sono dubbi che Auguste Mariette meriti un posto di assoluta rilevanza nella storia della disciplina egittologica e non stupisce che sia molto presto entrato a far parte a buon diritto agli occhi dei Francesi, insieme alla spedizione napoleonica e alla decifrazione del geroglifico da parte di Champollion, delle inconfutabili ragioni per considerare l’egittologia «une science française». Paolo Del Vesco a r c h e o 103


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anche sull’Egitto. A quei tempi, l’Egitto era stato conquistato da re Assurbanipal ed era dunque parte dell’impero neo-assiro. Tanutamon, sostenuto da Amon di Gebel Barkal, si dirige verso nord e conquista l’Alto Egitto senza incontrare resistenza, mentre il Basso Egitto è piú difficile da sottomettere. Il trionfo di Tanutamon, tuttavia, non dura a lungo, poiché gli Assiri riconquistano l’Egitto subito dopo, ponendo cosí fine al regno kushita con la ritirata di Tanutamon a Napata. Mariette può aver preso qualche spunto dalla narrazione storica della conquista dell’Egitto da parte di entrambi gli eserciti «etiopi» di Piankhi e di Tanutamon per il canovaccio dell’Aida: «Sí: corre voce che l’Etiope ardisca sfidarci ancora, e del Nilo la valle e Tebe minacciar». E che Mariette avesse effettivamente in mente i sovrani nubiani diventa chiaro quando Radamès svela ad Aida la via di fuga piú sicura per raggiungere il suo Paese di origine: «Le gole di Nàpata».

scoperta delle cinque stele di Napata a Gebel Barkal nel 1862 e dall’analisi e lo studio delle loro iscrizioni da parte di Rougé e Mariette. Effettivamente, le stele forniscono informazioni totalmente inedite e dettagliate sulla storia politica e militare del primo millennio a.C. e sui rapporti tra Egiziani e Nubiani. Lo stesso Mariette definisce come segue l’enorme importanza di queste stele, aprendo nuove prospettive sui re kushiti di Napata: «Ciò che conoscevamo finora della civiltà etiope, figlia e al contempo spesso fortunata rivale dell’Egitto, si riduce a poco; le nostre stele ci aiuteranno a fare passi avanti in questa misteriosa storia» (Mariette, Quatre pages des archives officielles de l’Éthiopie, «Revue archéologique», 12, 1865, p. 179). Insieme alla Stele della vittoria di Piankhi, al contempo documento storico e testo letterario sulla conquista dell’Egitto da parte di Piankhi che testimonia la dominazione del regno nubiano sotto i re della XXV Dinastia (747-656 a.C.) sull’intero Egitto, sembra che sia la Stele del sogno di Tanutamon (664-656 a.C.) ad aver avuto il maggior impatto sul canovaccio di Mariette (vedi tavola alla pagina accanto). La stele racconta il sogno premonitore del re sul suo ruolo non solo sul Kush, ma 104 a r c h e o

La prima parte della grande iscrizione storica del re Merenptah di Karnak in una tavola dell’opera di Auguste Mariette Karnak: étude topographique et archéologique, Planches (Lipsia, 1875).

LA SPEDIZIONE IN NUBIA Si pensa che l’idea di uno degli elementi chiave del canovaccio dell’Aida concepito da Mariette, la campagna militare egiziana contro l’«Etiopia» (cioè la Nubia o il Kush) condotta da Radamès, possa essere scaturita da un altro evento storico. Il regno dei sovrani kushiti in Egitto durante la XXV Dinastia si concluse nel 664 a.C. con la XXVI Dinastia, che regnò ancora sul territorio egiziano dopo aver esiliato gli Assiri a nord e i Kushiti a sud. Il terzo sovrano della XXVI Dinastia, Psammetico II (595-589 a.C.), condusse una campagna militare contro il re kushita Aspelta (593-568 a.C.), che potrebbe addirittura aver raggiunto Napata. All’epoca di Mariette, questa spedizione nubiana era famosa per il racconto di Erodoto (Historiae II, 161) e per i graffiti ad Abu Simbel dei mercenari greci e della Caria che parteciparono alla campagna. Oggi sono disponibili piú fonti per questo evento storico, che può a sua volta aver contribuito a ispirare Mariette. Le stele di Gebel Barkal potrebbero aver fornito a Mariette ancora piú spunti per il suo canovaccio. La Stele dell’incoronazione descrive il processo che ha portato Aspelta a essere eletto sovrano dei Kush. Inizialmente, sono presentati al dio Amon di Gebel Barkal diversi candidati al trono, senza che sia però nominato alcun ufficiale dell’esercito o fun-


zionario civile di alto rango. In un secondo momento, per via della sua discendenza, la scelta ricade su Aspelta, incoronato dalla divinità. Questo racconto ricorda l’investitura a nuovo comandante in capo del capitano delle guardie Radamès, per volontà divina di Iside. L’ispirazione per la sentenza di condanna a morte di Radamès per alto tradimento potrebbe derivare dalla Stele dell’esilio di Aspelta. Le iscrizioni sulla stele narrano l’esecuzione di alcuni sacerdoti del tempio di Amon, arsi vivi, poiché avevano pianificato di uccidere un uomo innocente. Questa sentenza serve anche da monito per tutte le future condotte illecite da parte di sacerdoti. Nell’Aida, Radamès è processato per tradimento dal Gran Sacerdote Ramfis e condannato a morte. Per rappresentare una storia d’amore e morte alla Tristano e Isotta, tuttavia, Mariette decide che Radamès sarà sepolto vivo in una cripta del tempio di Ptah, nella quale si nasconde anche Aida all’insaputa di tutti. Nonostante l’ambientazione storica dell’Aida «all’epoca del dominio dei faraoni» sia piuttosto indefinita, il ricorso a diversi testi ed eventi storici da parte di Mariette mostra che l’opera si ispira al Periodo Tardo, che include dalla XXV alla XXXI Dinastia (747-332 a.C.). È l’epoca in cui Napata a Gebel Barkal è la capitale del Regno di Kush, chiamato «Etiopia» da Mariette secondo l’usanza di quei tempi. I nomi di alcuni protagonisti confermano tale ipotesi, sebbene le tragedie personali dei personaggi siano ambientate in un «Antico Egitto» astorico. Comunque, per il pubblico dell’opera, i nomi dei protagonisti erano e sono essenziali per la loro identificazione e «autenticità etnica». Curiosamente, al sovrano d’Egitto, Il Re, non viene dato un nome. L’egittologo Mariette avrebbe potuto facilmente usare il nome di un faraone noto per aver combattuto una guerra contro la Nubia.Tuttavia, un riferimento cosí concreto avrebbe minato l’universalità di un’ambientazione che non aveva alcuna pretesa di autenticità o esattezza storica.

ALLE ORIGINI DEI NOMI Il nome Aida è da sempre al centro di dibattiti con punti di vista divergenti. Mariette era convinto di volere un nome originale: «Aida è un nome egiziano. Dovrebbe di regola essere Aïta, ma il nome sarebbe troppo duro e i cantanti l’addolcirebbero inevitabilmente in

La Stele del sogno di Tanutamon, in una tavola dell’opera di Auguste Mariette Monuments Divers (Parigi, 1872).

Aida» (Lettera a Du Locle, 27 aprile 1870). Sulla base di tale affermazione, si pensa che il nome possa avere due derivazioni dall’Antico Egitto: la prima è il nome femminile egiziano popolare dell’Antico Regno It(it), la cui sequenza di consonanti era, secondo le convenzioni dell’epoca, trasformata in A( j)ita( jt) = Aita; la seconda, Iïti, è una forma coniugata del verbo egiziano antico iï(y), «venire», convertita seguendo le stesse regole, che potrebbe significare sia «Sei venuta» nel senso di «Benvenuta!», sia «È venuta». È stata formulata una terza interpretazione, che non tiene conto delle affermazioni di Mariette stesso sull’«autenticità» del nome. Secondo tale ipotesi, Aida sarebbe un nome di origini arabe nato da una concubina favorita del khedivé Ismail. (segue a p. 108) a r c h e o 105


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L’ARCHEOLOGIA DIPINTA DI LAWRENCE ALMA-TADEMA Nella cultura visiva vittoriana, molte opere d’arte sono ispirate all’antichità classica e orientale, in parte come eredità dello «Stile Impero» che dominava le arti decorative e la moda all’inizio del XIX secolo in Francia. Se quest’ultima, tuttavia, rivelava una percezione idealizzata del passato, dalla metà del XIX secolo l’archeologia ebbe un grande impulso e migliorarono le

conoscenze sulle civiltà antiche, offrendo cosí innumerevoli suggestioni agli artisti. I musei europei arricchirono le loro collezioni attraverso gli scavi e le acquisizioni sul mercato delle antichità, rendendo dunque i reperti originali disponibili per lo studio e per il pubblico, grazie alle accurate pubblicazioni di storici, archeologi e viaggiatori. A differenza di altri artisti prima di lui, Lawrence Alma-

Tadema (1836-1912) era profondamente interessato alla vita quotidiana e alla cultura materiale antiche, soprattutto egizie. Nato nelle Fiandre, crebbe e studiò circondato da testimonianze archeologiche, e sviluppò un forte interesse verso le civiltà classiche, in particolare nelle loro espressioni visive. All’Accademia d’Arte di Anversa praticò, grazie ai suoi docenti e alle loro biblioteche


The Finding of Moses (Il ritrovamento di Mosè), olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1904. Collezione privata.

archeologiche, la pittura di scene di genere ambientate nel mondo antico. Durante i viaggi a Londra, in Italia e in Francia negli anni 1862-1864 visitò musei e scavi, per poi ambientare alcuni eventi storici, a volte, in una cornice narrativa fantasiosa, in luoghi caratterizzati da dettagli ispirati a oggetti autentici. Si collocano in questo contesto alcune opere di genere, in cui si nota anche una cura nei dettagli architettonici.

Pastime in Ancient Egypt (1863), per esempio, è ambientato in una sala sorretta da colonne papiriformi, dove suonatori e danzatori intrattengono un gruppo di dame e signori con ospiti nubiani. Sedie, poggiapiedi, abiti e parrucche sono chiaramente ispirati al banchetto dipinto nella tomba di Nebamon a Tebe, conservata al British Museum. L’arrivo in Gran Bretagna Trasferitosi in Gran Bretagna dal 1870, Alma-Tadema ebbe a disposizione le collezioni del British Museum e visitò le numerose mostre organizzate nel Paese, arricchendo moltissimo il suo repertorio iconografico, già nutrito dalle pubblicazioni di Ippolito Rosellini (I Monumenti dell’Egitto e della Nubia, 1832-1844), John Wilkinson (Manners and Costumes of the Ancient Egyptians, 1837-1841), Karl Richard Lepsius (Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien, 1849-1859) e altri egittologi attivi fin dagli anni intorno al 1830. I motivi decorativi egizi, per lo piú tratti da dipinti del Nuovo Regno, erano considerati espressione di simmetria e perfezione, e utilizzati come completamento delle scene. Un altro riferimento esplicito si ritrova in Joseph, Overseer of Pharaoh’s Granary (1874): il rivestimento della sedia e del poggiapiedi sono decorati con un motivo geometrico floreale, molto in voga per la decorazione di vasi e oggetti di arredamento durante il Nuovo Regno. Inoltre, sul muro un motivo tipico della XVIII Dinastia è copiato dalle tombe tebane, con stelle a rosetta e onde correnti a spirale. Sullo sfondo, è riprodotta fedelmente una scena tratta ancora dalle pitture della tomba di Nebamon. Gli oggetti di uso quotidiano sono spesso inseriti nelle scene narrative,

copiati da reperti originali del British Museum, come la tavola da gioco del senet in Egyptian Chess Players (1865), gli sgabelli e i vasi in The Death of the Firstborn Son (1872) e le grandi giare del Nuovo Regno con i loro supporti in The Finding of Moses (vedi foto sulle due pagine). Molte scene includono grandi paesaggi scenografici, come in Anthony and Cleopatra (1885), che probabilmente traggono spunto anche dai dipinti di David Roberts. Il pittore scozzese viaggiò in Egitto e nel Levante nel 1838-1839, e pubblicò numerose vedute ad acquerello, facendo conoscere panorami e monumenti del Nord Africa e del Vicino Oriente in Europa. Negli anni Ottanta Alma-Tadema fu coinvolto in allestimenti teatrali di spettacoli di argomento storico ambientati nell’antichità classica e nordeuropea. Soltanto nel 1902 partí per un viaggio in Egitto, che gli ispirò l’ultimo quadro su cui stava lavorando prima di morire, Cleopatra at Philae, rimasto incompiuto. Alma-Tadema prestò grande attenzione alla cultura materiale, poiché per lui era l’espressione piú genuina della vita degli antichi. Questa è la conseguenza del mutato atteggiamento degli studiosi verso l’archeologia: si cercavano non piú soltanto capolavori eccezionali ma anche frammenti della storia sociale ed economica. Gli oggetti quotidiani acquisirono un ruolo chiave nella comprensione della storia nel suo complesso, cosí gli artisti si riferirono a essi come prove della realtà, piú che come un semplice elemento decorativo. La percezione dell’antico Egitto passò dalla contemplazione estetica alla consapevolezza dell’importanza di un serio metodo archeologico per la conoscenza del passato. Alessia Fassone a r c h e o 107


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Il Gran Sacerdote Ramfis ha un nome teoforico fittizio creato da una base egiziana poi grecizzata. La base antica è Ra-hetep, «Ra (Il dio sole) è soddisfatto», o Ra-nefer, «Ra è bello», trasformata in Ramfis grecizzando Imenhetep come Amenophis, o la capitale Men-nefef in Memphis. L’elemento principale contenuto in Radamès è il nome del dio del sole. Il suffisso «-mès» ricorda anche il re Ra-mes-su, «Ra lo ha creato», come Ramesse, mentre la sillaba «da» è stata aggiunta forse per renderlo piú musicale e facile da cantare. Se questa etimologia è corretta, è interessante notare che Mariette ha usato il nome del re Ramesse come modello per scegliere come chiamare il capitano delle guardie, poi nominato comandante in capo, e quindi non un sovrano.

Contrariamente a tutti gli altri protagonisti, la principessa egiziana Amneris e il re etiope Amonasro si chiamano come due figure storiche. L’antico nome egiziano Imen-ir-di-es, «Data da Amon», che ai tempi di Mariette si pronunciava Am(é)néritès, è la base per la principessa Amneris. Amenardis I era la figlia del re kushita Kashta (760-747 a.C.), padre di Piankhi, eletta dallo stesso Divina sposa di Amon a Karnak, un titolo quasi reale associato a un notevole potere politico e relig ioso nell’Alto Egitto. Nel 1858, Mariette aveva scoperto a Karnak una statua di Amenardis I in alabastro calcareo quasi a grandezza naturale (vedi immagine alla pagina precedente), che divenne il pezzo forte del nuovo Veduta laterale e frontale della statua di Amenardis I, rinvenuta a Karnak, in una tavola dell’opera di Émile Prisse d’Avennes Histoire de l’art égyptienne, Atlas 2 (Parigi, 1878). L’originale della scultura è conservato al Cairo, nel Museo Egizio.

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Museo di Bulaq. La statua potrebbe essere alcun interesse al rispetto della veridicità stostata una fonte di ispirazione per il nome rica. Il suo obiettivo principale era piuttosto impregnare l’ambientazione e i personaggi di della principessa egiziana Amneris. una «atmosfera e promessa di autenticità», in grado di ammaliare il pubblico. UN PERSONAGGIO L’opera Aida è stata descritta come il «sogno STORICAMENTE ATTESTATO L’unica figura storica, sia per il nome, sia per a occhi aperti di un egittologo», capace di il ruolo, è il re etiope Amonasro. Era il so- animare le rovine con figure fittizie che vivrano dell’impero meroitico di Kush (260- vono amori, tragedie e patriottismo portati 250 a.C. circa), ed è sepolto in una piramide in scena partendo da una storia drammatica, a Begrawiya, la necropoli reale che si trova la cui ambientazione è contemporaneamenvicino alla capitale Meroe. Richard Lepsius te storica e astorica. Mariette ha miscelato pronunciava il suo nome Amen-asru, men- diverse fonti di ispirazione. L’Aida è un’opetre oggi la pronuncia è Amanislo. Probabil- ra egittologica e allo stesso tempo non lo è. mente Mariette lo conosceva per i Leoni La fantasia orientalistica e le conoscenze Prudhoe del British Museum, una coppia di scientifiche si fondono. Il passato e l’espeleoni monumentali provenienti da Gebel rienza di Mariette nel disegno e nel giornaBarkal e portati a Londra da Lord Prudhoe lismo gli hanno forse permesso di staccarsi nel 1835. Le statue erano originariamente da una visione troppo accademica e creare destinate al Tempio di Soleb del faraone un’ambientazione ricca di fascino, mettendo Amenhotep III (1390-1352 a.C.), per poi in scena un’opera grandiosa per l’epoca. Le essere trasferite a Gebel Barkal, dove il re sue conoscenze sull’Antico Egitto gli hanno Amanislo aggiunse i suoi nomi un millen- fornito le fonti necessarie a raggiungere nio piú tardi. Grazie ai Leoni Prudhoe, un’autenticità e un’atmosfera perfette per Amanislo fu il primo sovrano nubiano a rapire il pubblico. Sebbene Mariette volesse essere conosciuto nel mondo accademico- mantenere l’anonimato per la scrittura del scientifico moderno tramite oggetti reali e canovaccio dell’Aida, sono state la sua fantanon soltanto per essere stato tramandato sia e la sua creatività a combinare sapientemediante tradizione storica. Inoltre, il nome mente tutti gli elementi per dare vita a una Amonasro potrebbe essere stato portato storia e un’ambientazione incantevoli. Se da all’attenzione di Mar iette anche dal un lato può essere molto facile identificare Denkmäler di Lepsius o, ancor piú probabil- diverse fonti che hanno ispirato l’Aida, mente, dal suo Königsbuch der alten Ägypter dall’altro lato il modo in cui Mariette le ha (Berlino 1858). Qui, nell’elenco di «re etio- utilizzate per forgiare la storia e il contesto pi», il nome Asro Miamun appare due volte storico rivela tutto il suo genio creativo. come proprietario di una piramide a Meroe (Begrawiya) e dei due leoni di Gebel Barkal I testi di questo Speciale sono stati tratti dal volume realizzato in occasione già al British Museum. Analizzando i nomi e la loro storicità, si rile- della mostra e qui appaiono vano diversi anacronismi: fra Amneris e Amo- per gentile concessione dell’Enasro vi sono circa 400 anni di distanza e ditore Franco Cosimo Panini e anche gli altri nomi, sebbene per lo piú in- della Fondazione Museo delle ventati, appartengono a epoche divise da di- Antichità Egizie di Torino. versi secoli, o addirittura millenni. Infine, occorre sottolineare una profonda discrepan- DOVE E QUANDO za: Mariette ha attribuito alla schiava e principessa «etiope» Aida un nome egiziano, men- «Aida, figlia di due mondi» tre la principessa egiziana Amneris si chiama Torino, Museo Egizio come una principessa nubiana di Napata, fino al 5 giugno appartenente alla famiglia reale dei sovrani Orario ma-do, 9,00-18,30; lu, 9,00-14,00 Kashta e Piankhi, capostipite del regno kushi- Info tel. 011 5617776; e-mail: ta in Egitto durante la XXV Dinastia. Tutte info@museoegizio.it; https://museoegizio.it; queste osservazioni portano nuovamente a https://aida.museoegizio.it concludere che Mariette non avesse di fatto Catalogo Franco Cosimo Panini Editore a r c h e o 109


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

QUANDO LE PIETRE PARLANO L’INGLESE JOHN AUBREY PUÒ ESSERE CONSIDERATO (A SUA INSAPUTA...) UNO DEI PADRI DELL’ARCHEOLOGIA MEDIEVALE. IL SUO APPROCCIO ALLO STUDIO DEI MONUMENTI ANTICHI, BASATO SUL RICONOSCIMENTO DI TIPOLOGIE E SERIAZIONI, PRECORRE INFATTI IL METODO CHE OGGI RAPPRESENTA UNO DEI CARDINI DELLA DISCIPLINA

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l mio genio mi fece inclinare fin dalla mia gioventú verso l’amore per le antichità, e il mio fato mi fece nascere in un paese particolarmente adatto per questo tipo di studi». Cosí scrive John Aubrey intorno al 1670 nella sua opera piú famosa, il manoscritto intitolato Monumenta Britannica. Con lui siamo alle origini dell’archeologia, e anche alle origini dell’archeologia medievale. Nato in Inghilterra nel 1626, John Aubrey, figlio di un avvocato, studia alTrinity College di Oxford e diventa ben presto uno degli intellettuali piú eminenti della scena britannica, membro e fondatore della Royal Society of London, amico di studiosi e scienziati illustri come il filosofo Thomas Hobbes e l’astronomo Edmund Halley (divenuto celebre per le ricerche sulle comete e, in particolare, su quella che porta il suo nome). Come voleva la cultura dell’epoca, Aubrey guadagna competenze in molte discipline, senza confini tra scienze dure e materie umanistiche: matematica, astronomia, letteratura, geologia. Ma ha una predilezione soprattutto per la storia, e un atteggiamento del tutto particolare rispetto al passato: i libri gli interessano, ma lo

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appassiona ancora di piú il contatto diretto con i luoghi, il recupero delle informazioni di prima mano. Interroga i paesaggi e i monumenti antichi. E cosí scivoliamo verso l’archeologia. Aubrey si occupa di monumenti ben noti e, per farlo, li visita e li indaga di persona. Stonehenge in questo periodo è al centro di un acceso dibattito, soprattutto riguardo ai suoi ideatori e alla cronologia.

UN’IMPRESA RIVOLUZIONARIA Si brancola nel buio: secondo alcuni sarebbe una creazione dei Romani, e nella struttura del monumento vengono individuate strampalate geometrie. Aubrey fa qualcosa di rivoluzionario: nel 1666 va a Stonehenge e ne misura ogni pietra con precisione, eseguendo la prima pianta attendibile del complesso, che attribuisce a una popolazione locale.

E scrive: «Bisogna fare in modo che le pietre parlino da sole». In un’altra occasione, durante una battuta di caccia, scopre il sito di Avebury, un insediamento preistorico particolarmente ben conservato, circondato da un fossato e un terrapieno ancora visibili, che renderà famoso proprio grazie alle sue osservazioni puntuali e ai suoi disegni. Ma Aubrey fa anche qualcosa in piú, perché ha una visione ampia: a lui interessa ricostruire la storia, l’evoluzione di interi territori, di vaste zone della sua nazione. Lo fa


nella regione del Wiltshire e anche altrove. Armato di mappe, cammina, osserva, misura, prende appunti e traccia schizzi sui suoi taccuini. Insomma: John Aubrey è senza dubbio uno dei fondatori di quella che oggi chiamiamo «archeologia dei paesaggi».

DETTAGLI SIGNIFICATIVI E qui arriviamo al punto che ci interessa. Nel corso delle sue perlustrazioni, Aubrey considera tutte le tracce del passato, di qualsiasi epoca. E quindi si sofferma anche sui monumenti del Medioevo: chiese, torri, monasteri e altro. Ma non si limita a descriverli, comincia ad appuntare la sua attenzione su dettagli che giudica particolarmente significativi: le finestre, in particolare. Aubrey intuisce, e scrive a chiare lettere, che la forma delle finestre (monofore, bifore, trifore) è un indizio fondamentale per ricostruire la cronologia di un

A destra: la seriazione dei portali di una valle della Liguria realizzata in uno studio italiano del 1978, che ha un significativo precedente in un’operazione simile compiuta da John Aubrey nel XVII sec. (vedi tavola in basso). Nella pagina accanto: la prima pianta dettagliata del circolo megalitico di Stonehenge, disegnata da John Aubrey nel 1666.

edificio. E, nel 1671, redige un piccolo trattato: Chronologia Architectonica, nel quale descrive piú di 80 edifici e ne disegna 50 finestre, acquarellate di suo pugno. Attraverso i suoi schizzi – bellissimi, e molto efficaci – Aubrey documenta la progressione dalle architetture altomedievali al romanico, fino al gotico: archi, forme e decorazioni di tipi differenti a seconda delle epoche. Si tratta di un’operazione straordinaria: siamo nel XVII secolo, e questa è la nascita del metodo comparativo, della tipologia, della classificazione archeologica in ambito monumentale.

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Ed è ancor piú straordinario osservare che tutto questo accada nel campo di un’archeologia – quella medievale – che impiegherà piú tempo delle altre ad affermarsi. In fondo, però, non c’è da stupirsi: John Aubrey muore nel 1697, povero in canna e dopo una vita burrascosa, senza aver dato alle stampe quest’opera, che si trova ancora alla Bodleian Library di Oxford in attesa di pubblicazione. Insomma, la mancata diffusione della Chronologia Architectonica rappresenta un’occasione perduta per il progresso degli studi, ma Aubrey ha il merito di aver compreso un principio fondamentale dell’approccio ai resti del passato, e per questo dobbiamo considerarlo un vero pioniere dell’archeologia, e dell’archeologia medievale.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

DISCENDERE DA QUIRINO NELL’ANTICA ROMA AVERE ANTENATI ILLUSTRI ERA UN’AMBIZIONE DIFFUSA E ACCAMPATA ANCHE ATTRAVERSO LA CONIAZIONE DELLE MONETE. UN COSTUME RIPRESO IN EPOCA RINASCIMENTALE, PER ESEMPIO A VENEZIA...

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sservando i tipi che compaiono sui denari emessi dai magistrati monetari della Roma repubblicana, appare evidente la valenza propagandistica e celebrativa dell’oggetto moneta, che permetteva di esaltare la gens del magistrato ricreando legami fittizi con divinità, protagonisti del mito (per noi) e della storia romana piú antica. In particolare, per ricostruire genealogie mitistoriche piú o meno eclatanti, si utilizzavano le assonanze dei nomi gentilizi con

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quelli legati all’origine stessa dell’Urbe. Si pensi, per tutti, ai denari a nome di Giulio Cesare, battuti a partire dal 48 a.C., al cui dritto compare la testa di Venere e al rovescio Enea, con il padre Anchise e il Palladio. Un «ritratto di famiglia» degli avi di Cesare e della sua gens Iulia, che si voleva discendesse da Iulo figlio di Enea, e quindi dalla «nonna» Venere. Per inciso, sulle monete di Antonio Pio al gruppo si aggiunge anche Ascanio-Iulo.

Il formidabile potere propagandistico della moneta perdura nel corso dei secoli e acquista rinnovata vitalità in età rinascimentale, quando il progredire e la conoscenza dell’apprezzata scienza numismatica andava sempre piú diffondendosi presso l’élite culturale e politica europea. Poter far risalire la propria famiglia ad antenati illustri, se non addirittura semidivini, del mondo classico era un’aspirazione


aristocratica diffusa, suffragata dagli studi iconologici, dalle scoperte archeologiche e dai letterati al servizio delle casate piú illustri, che ricreavano genealogie ab urbe condita particolarmente gradite e ricercate, diffuse ed eternate attraverso pubblicazioni encomiastiche a stampa, e quindi potenzialmente innumerevoli, capaci di sfidare i secoli.

I 1600 ANNI DI VENEZIA E cosí è avvenuto. Lo scorso anno si sono celebrati i natali di una città unica al mondo, Venezia, a 1600 anni dalla fondazione (datata tradizionalmente al 421) a opera di un nucleo di insigni famiglie patrizie che ancor oggi ne continuano il retaggio. Tra queste, si annovera la nobile casata Quirini (o Querini), che ha dato eminenti personaggi alla Repubblica quali tribuni, dogi, comandanti e anche poeti ed esploratori. I genealogisti e panegiricisti fanno risalire l’origine della famiglia alla gens Sulpitia Galbaia Quirina, della quale si voleva facesse parte anche l’imperatore Galba. Un Quirino, «Cavalliere Padovano, oriundo delli Sulpitij Romani, et Capitano de’ Padovani contro Attila re degli Ungarj, si trasferisce in Torcello» nel 453 (Girolamo Alessandro Capellari Vivaro, Campidoglio Veneto, III, 17, 1737), divenendo capostipite della famiglia veneziana considerata tra le piú antiche famiglie «tribunizie» fondatrici di Venezia. Nel volume del nobile erudito Giacomo Zabarella intitolato Il Galba, overo Historia della sereniss. fameglia Quirina, edito a Padova nel 1671 (vedi «Archeo» n. 445, marzo 2022; anche on line su issuu.com), dedicato alla genealogia della famiglia con le sue glorie, nella prima parte il testo è accompagnato da bei disegni di monete romane che dovevano corroborare l’origine anticoromana della famiglia veneta: «Tutti

A destra: denari di invenzione riferiti a Sex. Pom. Fostulus e a P. Sulpicius, in Giacomo Zabarella, Il Galba, overo Historia della sereniss. fameglia Quirina (Padova, 1671). Nella pagina accanto: ritratto di Francesco Querini, olio su tela di Marco Vecellio. Venezia, Pinacoteca Querini-Stampalia. li scrittori delle fameglie nobili di Venetia asseriscono che la Serenissima Fameglia Querini habbi havuto origine dall’alma Città di Roma» e, in particolare, dalla gens Sulpitia, nella quale si annovera l’imperatore Galba, che giustifica il nome del trattato genealogico-encomiastico.

MONETE INVENTATE L’autore illustra tutti i membri romani della gens legati al ramo con cognome Quirinus e affianca al testo numerose riproduzioni di monete romane repubblicane e imperiali, riprese dal vero ma anche inventate, giustapponendo in alcuni casi dritti e rovesci diversi per assecondare con l’immagine quanto scritto. Molto interessante, per il processo celebrativo che sottende, è il denario creato ad hoc con la testa del dio Quirinus ripresa dal dritto di un’emissione battuta nel 56 a.C. da C. Memmius con il volto della divinità, assimilata in età repubblicana a Romolo divinizzato, e legenda QVIRINUS, mentre al rovescio si vede la celeberrima scena del ritrovamento della lupa con i gemelli da parte del pastore Faustolo emessa sui denari di Sex.

Pompeius Faustutlus nel 137 d.C., con legenda SEX. POM. FOSTVLVS REX e ROMA in esergo. La moneta cosí creata celebra la famiglia Quirini con una doppia immagine, che unisce in un unico esemplare la lupa e Quirino-Romolo, ovvero l’origine stessa della città. Nel Galba compare un altro denario, stavolta del tutto inventato da Zabarella: al dritto compare la testa femminile con diadema e orecchino descritta come Roma, con leggenda IIIVIR QVIRINVS e, al rovescio, la lupa con i gemelli, immersi in un paesaggio formato dai sette colli di Roma sullo sfondo e dalle onde di un fiume in basso, il Tevere, con leggenda P SVLPICVS PF. Una composizione interessante e originale nella quale all’elemento ideologico si affianca quello iconografico, creando uno scenario immaginario dal sapore vagamente baroccheggiante che celebra i Querini veneti e la loro antica e magnifica ascendenza.

PER SAPERNE DI PIÚ Debora Gusson, Delle nobilissime Famiglie Quirini e Zanotto. Un breve saggio storico, disponibile on line

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Francesco Maria Cifarelli, Marina Marcelli (a cura di)

AQUA TRAIANA. LE INDAGINI FRA VICARELLO E TREVIGNANO ROMANO Nuove acquisizioni e prospettive di studio sull’acquedotto Traiano-Paolo Gangemi Editore, Roma, 256 pp., ill. col. 48,00 euro ISBN 9788849241129 www.gangemieditore.com

L’eccezionale stato di conservazione fa dell’acquedotto TraianoPaolo un caso eccezionale. Costruito da Traiano nel 109 d.C. per rifornire l’area del Trastevere e caduto in parziale abbandono nel Medioevo, fu riattivato dagli ingegneri pontifici sotto Paolo V nel 1612, a beneficio del Vaticano. L’acquedotto è alimentato da un sistema di captazione delle sorgenti del bacino del lago di Bracciano, da cui, con un percorso di oltre 57 km, giunge a Roma sul Gianicolo, al Fontanone. Da qui, attraverso una rete di condotti sotterranei l’acqua viene distribuita 114 a r c h e o

fino al centro storico, alimentando le piú celebri fontane monumentali. E un suo ramo ancora oggi rifornisce lo Stato della Città del Vaticano e le sue 100 fontane. La sua straordinaria importanza, non compresa fino a tempi recentissimi, sta riemergendo grazie all’impegno della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e di ACEA SpA, che hanno concordato un programma di ricerca volto alla conoscenza dell’intero sistema idraulico. Infatti, nonostante il già ricordato stato di conservazione, l’acquedotto Traiano non aveva ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato. Il monumento era noto quasi solo per le strutture in alzato, tutte per lo piú pertinenti alla fase seicentesca, quali il viadotto degli Arcacci, mentre le strutture di età traianea, nascoste nel sottosuolo e mai esplorate, rimanevano sconosciute. Lo studio condotto dalla Sovrintendenza ha dunque portato alla riscoperta dell’acquedotto antico per quasi tutto il suo lungo percorso, da Bracciano fino al Gianicolo. L’operazione è l’esito del progetto attuato dalla Sovrintendenza Capitolina e ACEA SpA, con il contributo del Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio e dell’Associazione Roma Sotterranea, su un tratto campione dell’acquedotto

nella zona al confine fra i comuni di Bracciano e Trevignano. Sono stati esplorarti e documentati dall’interno quasi 6 km di condotti e di camere di presa. Per farlo, sono stati necessari quasi due anni di lavoro: ne è risultata una documentazione che restituisce nel dettaglio l’immagine di un acquedotto antico ancora in funzione. Il volume dà conto dei risultati del progetto, corredati dall’alta qualità della documentazione fotografica. Un risultato importante, esempio di una ricerca progettata, condotta sul campo e infine giunta a edizione, funzionale alla conoscenza e valorizzazione di una straordinaria macchina giuntaci pressoché intatta dall’antichità. Francesca Ceci Gabriel Zuchtriegel

PAESTUM I luoghi dell’archeologia, Carocci editore, Roma, 144 pp., ill. b/n. 13,00 euro ISBN 978-88-290-1227-5 www.carocci.it

Debutta con questo titolo una collana pensata per illustrare i luoghi dell’archeologia e «restituire il senso della loro importanza nel mondo contemporaneo». L’esordio è stato affidato a Gabriel Zuchtriegel, il quale, forte anche dell’esperienza maturata negli anni scorsi come direttore del Parco archeologico di Paestum,

ripercorre la storia della grande città campana, nata come colonia greca intorno al 600 a.C. Nel farlo, l’autore si sofferma inizialmente sul mito moderno del sito, innescato dalla sua riscoperta, e poi sul non facile intrico di notizie relative alle sue prime fasi di vita: informazioni scarne, a volte oscure e non di rado contraddittorie. Pagine dalle quali emerge la cifra distintiva dell’intera trattazione, che, pur nella sua concisione, non si limita a descrivere i luoghi e riepilogare gli eventi, ma offre un costante richiamo al contesto storico e culturale nel quale le varie vicende si succedettero. Un percorso che trova la sua naturale conclusione nell’epilogo, dedicato al concetto di archeologia circolare, della quale, come ricorda Zuchtriegel fu lanciato il Manifesto in occasione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum del 2019. Stefano Mammini




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