LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
MUMMIE ROMANE
ELEFANTE SU VIA DELL’IMPERO
SPECIALE IL MONDO DI STONEHENGE
EGITTOMANIA
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SPECIALE
STONEHENGE MONDO
UN ELEFANTE SULLA VIA DELL’IMPERO
QUANDO LE ROMANE SI FECERO IMBALSAMARE
DI
ROMA
CHI HA DISTRUTTO LA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA?
L’INTERVISTA
www.archeo.it
IN EDICOLA IL 12 MAGGIO 2022
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2022
Mens. Anno XXXV n. 447 maggio 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 447 MAGGIO
IL € 6,50
EDITORIALE
I MIGLIORI AMICI DELL’UMANITÀ Esisteranno ancora i libri? Poche domande suscitano piú incertezze e risposte contraddittorie: la carta stampata soccomberà al predominio digitale; i volumi verranno sempre piú letti (se verranno letti) su supporti elettronici; il libro sopravvivrà (cosí come il cavallo all’automobile?), perché piú longevo e meno deperibile di un e-book. E poi, chi può predire il futuro? Divertente la conclusione di un dibattito on line (sic!) sull’argomento, di lapalissiana saggezza: «Finché vi saranno uomini e donne che scrivono libri e altrettanti che li leggono, la vita del libro è garantita». Cosí, alla prima domanda se ne aggiunge subito un’altra: ma, in futuro, ci saranno ancora lettori? Potremmo aggirare l’angosciante quesito rispondendo come sopra: «Finché ci saranno libri…». Non si tratta di una facile e inopportuna battuta. In una conferenza tenuta in apertura del Salone del Libro di Torino nel maggio del 2000, George Steiner (1929-2020) aveva concluso il suo intervento con un appello: oggi «piú che mai – ammoniva uno dei piú grandi pensatori del nostro tempo – abbiamo bisogno dei libri, ma anche i libri hanno bisogno di noi». E aveva ricordato l’ormai ineludibile tendenza alla memorizzazione/ trasmissione del sapere mediante strumenti informatici, con il rischio di perdere quell’intima
complicità fatta di silenzio e concentrazione che segna il rapporto dialettico tra «autore e lettore, tra il libro e la lettura». Chi avrebbe mai potuto immaginare che il futuro della conoscenza dovesse misurarsi con termini e concetti mutuati dalla termodinamica (come l’entropia, per esempio, secondo la quale – per dirla in maniera molto semplificata – la ridondanza dell’informazione non è affatto garanzia di chiarezza)? Eppure, anche la sua storia passata è segnata da vicende forse meno complesse ma altrettanto imprevedibili: basti pensare alla distruzione della biblioteca di Alessandria, ferita tra le piú drammatiche patite dalla civiltà fondata sul libro. La storia è stata analizzata e raccontata in un fortunato saggio di Luciano Canfora (La biblioteca scomparsa, Sellerio Editore, Palermo) apparso per la prima volta nel 1986 e giunto, nel 2000, alla sua 10a edizione. Ne abbiamo parlato con l’autore, in apertura del servizio dedicato ai libri e alle biblioteche nel mondo antico (alle pp. 38-65). A proposito: nel 2009 il saggio di Canfora è stato digitalizzato. Cosí si salverà almeno dalla furia incendiaria dei biblioclasti del futuro. Andreas M. Steiner
Copertina di Fahrenheit 451, romanzo di Ray Bradbury del 1953. La vicenda narra di un mondo futuro in cui sono vietati il possesso e la lettura dei libri. Il titolo fa riferimento alla presunta temperatura (233 °C) di autoignizione della carta.
SOMMARIO EDITORIALE
I migliori amici dell’umanità 3
A TUTTO CAMPO Le vie del bucchero
di Andreas M. Steiner
di Cristina Fornacelli, Angela Palmieri e Sara Rojo Muñoz
Attualità
MUSEI Un territorio si racconta
NOTIZIARIO
SCAVI Monete e lucerne per l’ultimo viaggio
6 6
STORIA 20
di Stefano Francocci
22
di Giampiero Galasso
RICERCA Cercando la poesia «sommersa» 26
di Giampiero Galasso
di Chiara Cenati
PASSEGGIATE NEL PArCo Sul colle della Grande Madre
INCONTRI Nel segno della valorizzazione 30
10
di Fulvio Coletti, Paola Quaranta e Andrea Schiappelli
MOSTRE Notizie da un villaggio barbarico
di Virginia Valente
ARCHEOFILATELIA Di megaliti, dischi e altri misteri...
32
di Luciano Calenda
14
di Egle Micheletto
Priscilla e gli aromi d’Oriente 68
68 MOSTRE
Quell’elefante sulla via dell’Impero
80
di Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Isabella Damiani, Stefania Fogagnolo e Massimiliano Munzi
L’INTERVISTA
FRONTE DEL PORTO Il bagnino vi dà il benvenuto! 18
I destini della biblioteca scomparsa 38
di Maria Bartoli, Tiziana Sorgoni e Claudia Tempesta
incontro con Luciano Canfora, Rosa Otranto e Nunzio Bianchi, a cura di Silvia Camisasca
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2022
www.archeo.it
w.a rc
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IN EDICOLA IL 12 MAGGIO 2022
ST SP ON EC EH IALE EN GE
ARCHEO 447 MAGGIO
€ 6,50
80
In copertina pendente solare in oro, dallo Shropshire. 1000-800 a.C. Londra, British Museum. In secondo piano, il circolo megalitico di Stonehenge (Wiltshire, Inghilterra sud-occidentale).
Presidente
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Mens. Anno XXXV n. 447 maggio 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE IL MONDO DI STONEHENGE
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
ELEFANTE SU VIA DELL’IMPERO
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
IL
MONDO
Federico Curti DI
STONEHENGE
Comitato Scientifico Internazionale
MUMMIE ROMANE
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
Anno XXXVIII, n. 447 - maggio 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
SPECIALE
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto
ROMA
UN ELEFANTE SULLA VIA DELL’IMPERO EGITTOMANIA
QUANDO LE ROMANE SI FECERO IMBALSAMARE
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L’INTERVISTA
CHI HA DISTRUTTO LA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA?
29/04/22 16:49
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Maria Bartoli è funzionario restauratore del Parco archeologico del Colosseo. Nicoletta Bernacchio è curatrice della mostra «1932, l’elefante e il colle perduto». Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Silvia Camisasca è giornalista. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Chiara Cenati è ricercatrice presso l’Università di Vienna e membro del Progetto MAPPOLA. Fulvio Coletti è assistente tecnico archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Francesco Colotta è giornalista. Isabella Damiani è curatrice della mostra «1932, l’elefante e il colle perduto». Stefania Fogagnolo è curatrice della mostra «1932, l’elefante e il colle perduto». Cristina Fornacelli è geologa. Stefano Francocci è direttore del Museo Civico di Nepi. Giampiero Galasso è giornalista. Duncan Garrow è professore di archeologia all’Università di Reading (UK). Egle Micheletto è stata Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Alessandria, Asti e Cuneo. Massimiliano Munzi è curatore della mostra «1932, l’elefante e il colle perduto». Angela Palmieri è archeologa. Claudio Parisi Presicce è curatore della mostra «1932, l’elefante e il colle perduto». Paola Quaranta è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Sara Rojo Muñoz è dottoranda in scienze dell’antichità e archeologia all’Università di Pisa. Andrea Schiappelli è funzionario archeologo
Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO La Cina è vicina
110
di Andrea Augenti
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Il senso di Giovanni per l’antico
112
di Francesca Ceci
92 SPECIALE
112 LIBRI
Nel mondo di Stonehenge 114
92
di Duncan Garrow e Neil Wilkin
presso il Parco archeologico del Colosseo. Tiziana Sorgoni è funzionario restauratore del Parco archeologico di Ostia antica. Claudia Tempesta è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Neil Wilkin è curatore delle collezioni dell’Europa antica presso il British Museum. Illustrazioni e immagini: Ufficio Stampa British Museum, Londra: The Trustees of the British Museum: copertina (e p. 109) e pp. 94 (basso), 96-97, 98, 101, 104; English Heritage: pp. 92/93, 107; Roberto Fortuna & Kira Ursem, National Museum of Denmark: p. 95; Historisches Museum der Pfalz Speyer: p. 99; Wiltshire Museum, Devizes: pp. 100, 108 (alto); LDA Sachsen-Anhalt, Juraj Lipták: pp. 104/105; Wendy George: p. 106; Le Strange Estate: pp. 106/107; Søren Greve, National Museum of Denmark: p. 108 (basso) – Cortesia Soprintendenza ABAP province di Ancona e Pesaro e Urbino: pp. 6-8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-12 – Ufficio Stampa mostra «Goti a Frascaro»: Cooperativa Archeologia: p. 14 (alto); Arkaia s.r.l.: p. 14 (basso, a sinistra e a destra); G. Lovera: pp. 15 (alto), 16 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 18-19 – Sara Rojo Muñoz: p. 20 – Cristina Fornacelli: p. 21 (alto) – Christie’s, New York: p. 21 (basso) – Cortesia Direzione Regionale Musei Marche: pp. 22-24 – Chiara Cenati: p. 26 – Victoria González Berdús: p. 27 (alto) – Tina Hobel, MAPPOLA: ricostruzione grafica a p. 27 – Cortesia degli autori: pp. 28, 68-73, 75, 112-113 – Progetto «Umbria Antica»: pp. 30-31 – Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: pp. 39, 62/63; AKG Images: pp. 54/55, 60 (basso), 76, 79; Mary Evans/AF Archive: pp. 56-57; National Museum of Wales/ Heritage Images: p. 59; Album/Oronoz: pp. 64/65 – Doc. red.: pp. 40-47, 50-51, 52-53, 61, 65, 74, 77; Capware-Tecnologie per la cultura: pp. 48/49 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 49 – Shutterstock: p. 78 – Cortesia Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Roma: pp. 80-88, 90/91; A. Aquiloni: p. 89 (alto); Z. Colantoni: p. 89 (basso) – Wessex Archaeology: pp. 102-103 – Ran Zhang: p. 110 – Alejandra Gutiérrez: p. 111; (disegni: da Heidenreich 2007; foto: J. Garrido/Museo de Zaragoza) – Cippigraphix: cartina a p. 94. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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n otiz iari o SCAVI Marche
MONETE E LUCERNE PER L’ULTIMO VIAGGIO
U
n esteso complesso funerario di epoca romana è venuto alla luce a San Severino Marche (Macerata), grazie a indagini di archeologia preventiva condotte sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Ancona e Pesaro e Urbino. Il contesto rinvenuto appartiene alla piú estesa necropoli occidentale della città romana di Septempeda, sviluppata
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all’esterno della cinta muraria cittadina in aderenza al percorso viario che la collegava alla città di Nuceria Cammellaria (Nocera Umbra) e alla Via Flaminia. «L’area sepolcrale portata alla luce – spiega il funzionario archeologo Tommaso Casci Ceccacci – si distingue per la presenza di 14 sepolture articolate lungo i margini meridionali del diverticolo Prolaquense della Flaminia, che attraversava, come decumano
A destra: San Severino Marche. Una delle tombe a cremazione venute alla luce grazie alle recenti indagini. In basso: la struttura formata da tegole di una tomba a cremazione indiretta.
In alto: lo scavo di una tomba a inumazione, con i resti del defunto e il corredo ancora in situ. A sinistra: specchio in bronzo con disco circolare in corso di scavo massimo, l’antico centro urbano sulla direttrice est-ovest. Nella sua organizzazione originaria, ascrivibile alla prima età imperiale, lo spazio funerario portato in luce ha uno sviluppo est-ovest, distribuendosi parallelamente all’asse viario lungo i margini di una scarpata naturale.
La cremazione è il rituale piú attestato, officiato sia in maniera diretta, ossia cremando il corpo del defunto all’interno della stessa fossa entro cui veniva deposto, sia indiretta, deponendo i resti combusti in un distinto spazio funerario. I sepolcri a cremazione diretta ospitano grosse pire lignee
(busta) su cui sono deposti e bruciati i defunti assieme ad alcuni oggetti di corredo. Una volta terminato il rogo funebre, i resti ossei vengono raccolti al centro della fossa terragna assieme a ulteriori oggetti di accompagno e l’intero spazio funerario viene sigillato ed enfatizzato dalla
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n otiz iario
costruzione di un vero e proprio sepolcro (sepulcrum). Alcune tombe conservavano ancora intatta la struttura sepolcrale composta da una o piú coppie di tegole contrapposte a spiovente e sormontate da coppi. Le sepolture a cremazione indiretta, invece, mostrano una struttura di minore impegno realizzativo: cassette di forma triangolare o rettangolare, composte con tegole appositamente spezzate. All’interno sono deposti i resti osteologici combusti, gli oggetti di corredo e i residui del rogo funebre. In questo caso la cremazione dei defunti doveva avvenire in settori marginali della necropoli, all’interno di spazi appositi, gli ustrina. È attestata anche l’inumazione, seppure in tre soli casi. Racchiusi in feretri lignei o avvolti in un sudario, i defunti sono stati deposti in semplici fosse colmate con sola terra. A rimarcare il carattere periurbano, e non marginale, del sepolcreto è anche la presenza di un basamento di forma rettangolare (che misura 3,50 x 2,50 m circa), realizzato con una gettata contro terra di
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In alto: uno dei numerosi unguentari in vetro rinvenuti all’interno delle tombe: il piccolo contenitore è integro, ma risulta deformato dal calore prodotto dal rogo funebre acceso per la cremazione del defunto. A sinistra: un’altra delle uniche tre tombe a inumazione scoperte. calcestruzzo e ciottoli di fiume, e certamente pertinente a una struttura funeraria avente un monumentale sviluppo in elevato. La maggior parte delle deposizioni presenta percentuali consistenti di oggetti riferibili a classi di materiali assai eterogenei. I singoli reperti sono deposti e bruciati all’atto della cremazione, ma sono anche aggiunti successivamente, durante la ripulitura del rogo funebre e la risistemazione delle ossa combuste. Tra i materiali combusti stupisce l’elevata presenza di unguentari vitrei, sia frammentari, sia integri, ma deformati dal calore. Da segnalare, inoltre, la presenza di oggetti in bronzo, tra cui uno splendido esemplare di specchio con disco circolare e impugnatura sagomata a balaustro e un anello digitale privo di castone. Un chiaro valore escatologico è assegnato, invece, all’atto consuetudinario e quindi rituale, di deporre monete e lucerne fittili,
puntualmente rinvenute in quasi tutti i sepolcri. Altre tipologie di materiali forniscono suggerimenti utili per determinare il sesso del defunto: per la componente femminile sono presenti aghi crinali per le acconciature e aghi da cucito, steli da fuso e fuseruole in osso che alludono alla tipica attività domestica della tessitura. Le tombe maschili, numericamente minori, sembrano essere contraddistinte da comuni utensili da lavoro quali coltelli e rasoiraschiatoi, sebbene in particolare i coltelli non possono essere considerati come utensile esclusivo di questo genere». Gli scavi sono stati condotti dalla ditta specializzata ArcheoLAB di Macerata sotto la direzione scientifica di Tommaso Casci Ceccacci per la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Ancona e Pesaro e Urbino. Giampiero Galasso
PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
SUL COLLE DELLA GRANDE MADRE IL GRANDIOSO COMPLESSO SACRO DELLA MAGNA MATER, SUL PALATINO E PARTE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO, VERRÀ PRESTO RIAPERTO AL PUBBLICO. IN QUESTE PAGINE ANTICIPIAMO LE IMPORTANTI NOVITÀ EMERSE DALLE RECENTI INDAGINI
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li scavi pluridecennali nel complesso sacro della Magna Mater, presso l’area sud-ovest del Palatino, corrispondente all’altura definita del Cermalus dalle fonti sono stati condotti dapprima dalla «Sapienza» Università di Roma, successivamente dalla Soprintendenza Archeologica di Roma e, dal 2018, dal Parco Archeologico del Colosseo, che sta ultimando i lavori in vista dell’apertura. Le indagini hanno consentito di riportare in luce oltre agli edifici templari della Magna Mater, di Victoria e del cosiddetto Auguratorium (A, H, L nella pianta a p. 11) anche differenti e articolati complessi architettonici alle dipendenze del grandioso santuario, disposti sulle diverse terrazze al di sotto della platea antistante il tempio e nel settore occidentale dello stesso. Volti alla tutela e alla valorizzazione dell’intero comparto sacro, le indagini stratigrafiche e i restauri hanno permesso di mettere in sicurezza la cella e l’area del pronao del tempio, il settore a esso antistante con parte del quartiere dei servizi al di sotto della platea e il percorso tra l’Auguratorium e il tempio metroaco (dedicato al culto della Magna Mater, dal greco
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Parco del Colosseo: in evidenza il Palatino e il santuario della Magna Mater. meter, madre, n.d.r.) che conduce a una leggera terrazza con vista sui resti di capanne dell’età del Ferro.
LE PROSSIME APERTURE Promosso dal Parco Archeologico del Colosseo, il cui impegno di promozione si è profuso sull’intero distretto occidentale del colle, comprendente cioè anche l’esteso
organismo architettonico della Domus Tiberiana di prossima riapertura al pubblico, il progetto di valorizzazione della Magna Mater prevede un significativo potenziamento dell’offerta di fruizione per i visitatori. Pertanto, oltre alla cella del tempio metroaco (A), sarà possibile percorrere la viabilità che attraversa il quartiere
Planimetria dell’area sud-ovest del Palatino: A. Tempio della Magna Mater; B. clivus Victoriae; B1-5. tabernae e latrina sul lato sud della Domus Tiberiana; C. Terme Imperiali; D. area della cosiddetta Casa Romuli; E. viabilità tra santuario della Magna Mater e Domus Tiberiana; F. temenos del santuario; G. fondazione del braccio di acquedotto; H1-18. vani lato sud della Domus Tiberiana; L. Auguratorium; M. Tempio della Vittoria; 1. sacello; 2-5. tabernae; 6-9. fulloniche; 10. vano di risulta; 11. vano scale; α-μ, ψ. ambienti di epoca augustea; n-p, torre d’acqua; r-s, strutture di epoca adrianea. diverse divinità associate a quella tutelare, nonché quartieri che accogliessero spazi a vocazione prettamente commerciale subordinati però alle esigenze liturgiche.
IL CULTO E I SERVIZI
dei servizi sotto la platea del tempio, il Clivus Victoriae o via tecta, e vedere le capanne protostoriche (già in parte possibile; nn. 2-3), entrare nei vani che si affacciano lungo il lato nord della percorrenza (nn. 3-9), alcuni dei quali saranno allestiti come sale museali che accoglieranno i reperti e i contesti piú rilevanti della vita millenaria di questo comparto cermalense, dall’età del Ferro all’abbandono dell’area sacra. Il grandioso complesso santuariale di Magna Mater (204-191 a.C.), Victoria (310-294 a.C.) e
Auguratorium (prima metà del II secolo) è ascrivibile allo stile architettonico dei grandi impianti ellenistico italici, occupanti generalmente le pendici dei colli (come il santuario di Fortuna a Praeneste o quello di Ercole Vincitore a Tivoli o ancora di Giove Anxur a Terracina, solo per citare i piú noti), dotati cioè di sistemi sostruiti con terrazze che, regolarizzando i pendii, estendevano esponenzialmente gli spazi fruiti, viabilità e percorsi coperti, luoghi ipogei nei quali officiare i riti spesso anche di
Quello del Palatino era un impianto architettonico articolato, che coniugava gli ambiti sacri ai servizi piú comunemente offerti ai pellegrini che numerosi frequentavano l’area sacra. I servizi avevano sede nel quartiere collocato sotto la platea del tempio che, come già anticipato, era attraversato dalla via tecta, ai lati della quale si dispongono una serie di strutture ricettive con vocazione commerciale: sul lato nord si disponevano, da est a ovest, quattro tabernae (nn. 2-5) e quattro fullonicae (nn. 6-9), mentre sul lato sud della viabilità vi era un piccolo edificio termale (M). Negli ultimi anni le indagini si sono concentrate nel settore occidentale del santuario. Si tratta di un grande complesso, che occupa un’area di 670 mq circa, edificato su due terrazze che si sviluppano in senso nord-sud, dalla strada adrianea (E) che separa il santuario dal lato sud della Domus Tiberiana, al Clivus Victoriae (B), a loro volta digradanti
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In alto: vano 9. Scavo degli scarichi della seconda metà del V secolo d.C. e allestimento murario ad anfore. A sinistra: ricostruzione assonometrica del complesso della Magna Mater.
verso ovest dal muro del temenos del santuario (F) fino alle strutture in cementizio e basaltina che si ergono dalle pendici occidentali del colle (G). Se il settore settentrionale si erge sulla terrazza piú elevata alla quota di 41,28 m circa, quello meridionale, invece, si imposta alla quota di 37,45m ed è costituito da due lunghi vani di sostruzione voltati (nn. 8-9), uno spazio di risulta di forma triangolare oltre il quale è un vano scala (nn. 10-11). Lo scavo stratigrafico ha permesso di individuare numerose fasi edilizie, che scandiscono i complessi livelli di fruizione in
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questo comparto architettonico a partire dal periodo augusteo o giulio-claudio con restauri, ricostruzioni e ristrutturazioni fino alla tarda antichità, momento dell’abbandono e della distruzione.
RESTI DI UNA CAPANNA Partendo con la nostra analisi dal settore settentrionale, va innanzitutto specificato che questo comparto ha restituito, al di sotto delle stratificazioni di epoca imperiale di uno dei vani (ζ), tracce archeologiche risalenti all’età del Ferro. Infatti, in questo settore si è rintracciato l’angolo sud-est di una
capanna di forma rettangolare appartenente alla Cultura Laziale III A-B (770-725 a.C.). Successivamente obliterata, sui suoi livelli di distruzione – inquadrabili nel VI secolo a.C. –, s’impostò un muro di terrazzamento in blocchi di cappellaccio piú tardi ristrutturato, nel tardo IV secolo, da un’analoga struttura, ma questa volta in possenti blocchi di tufo di Fidene. Sopra tale ulteriore struttura in blocchi, parzialmente smontata, si edificarono i vani del quartiere occidentale della Magna Mater. Le attuali indagini, insieme alla documentazione già acquisita sul nucleo storico di capanne scavato nella prima metà del XX secolo situato sotto la platea del tempio (nn. 2-3), nonché sul gruppo di capanne rinvenuto durante gli scavi della Soprintendenza nel 2003/04 presso la terrazza dell’angolo sudovest (Q), hanno permesso di accrescere le conoscenze sull’estensione del primigenio villaggio cermalense e sui livelli di vita che, già nella sua fase protourbana, conferirono a questo insediamento il primato sui coevi abitati del Lazio antico. Fulvio Coletti, Paola Quaranta e Andrea Schiappelli
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MOSTRE Piemonte
NOTIZIE DA UN VILLAGGIO BARBARICO
S
i inaugura in questi giorni, nel Civico Museo Archeologico di Acqui Terme (Alessandria), una mostra che presenta i risultati di ricerche condotte negli ultimi vent’anni nel territorio di Frascaro. Una variante della strada «di Valle Bormida» aveva messo in luce, nel 2000, le testimonianze di una lunga frequentazione del terrazzo fluviale, dall’età del Rame, al Bronzo Finale, sino alla media età del Ferro (metà del III millennio-VI secolo a.C.), a cui si aggiunse la scoperta di un cimitero della fine del V secolo d.C., con corredi riconducibili alla cultura gota. L’eccezionalità del ritrovamento indusse la Soprintendenza a programmare una campagna di scavo, che individuò un abitato di capanne in legno; nel 2007 e nel 2020, indagini preliminari all’arginatura del Bormida hanno confermato l’esistenza di altre sepolture. Al termine della lunga fase migratoria che sin dai primi secoli dell’impero aveva spinto i Goti a spostarsi progressivamente dall’attuale Polonia sino al Mar Nero e – dopo una serie di scorrerie all’inizio del V secolo – a entrare in Italia al seguito di Teodorico nel 489, un ristretto gruppo di nuclei familiari si insediò sui terreni di un’azienda agricola abbandonata dai proprietari romani di una villa rustica, documentata da
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ritrovamenti di superficie. Quel tratto di pianura non fu scelto a caso, dal momento che consentiva il controllo del tracciato stradale tra Aquae Statiellae (Acqui) e Forum Fulvii (Villa del Foro), i percorsi della pianura verso Vardacate (Casale Monferrato) e i porti sul Po, ancora vitali in età tardo-antica. Anche il dato storico conferma l’interesse di Teodorico per lo scacchiere nord-occidentale dell’Italia, a contrastare Burgundi e Franchi, attuato con il riuso delle fortificazioni tardo romane – il Tractus Italiae circa Alpes – e la corona di castelli lungo la catena alpina. Non mancò l’attenzione per la difesa delle città, come avvenuto a Tortona (non lontana da Frascaro), con l’esortazione a Goti e Romani a trovare rifugio nel ridotto fortificato sulla sommità dell’altura dominante l’abitato, come ricorda Cassiodoro in un passo delle In alto: Frascaro (Alessandria). Il pozzo del villaggio goto in corso di scavo. A destra: una veduta della necropoli. In basso: una sepoltura in tronco ligneo in corso di scavo.
Variae. I nuovi arrivati a Frascaro vissero separati dalla popolazione locale – ma non isolati, poiché intrattenevano con i Romani rapporti commerciali attestati dalla varietà dei materiali ceramici – mantenendo le proprie tradizioni, testimoniate da peculiari tecniche costruttive e dalle modalità di sepoltura. Le capanne del piccolo villaggio erano infatti seminterrate (il riferimento è alla Grubenhaus di tradizione germanica) e realizzate in legno e argilla.
ROMA
Tutti a teatro per il gran finale Olle, catini-coperchio e vasi a listello con decorazione a pettine, oltre a pietra ollare, databili tra il tardo V secolo e il terzo venticinquennio del VI, restituiscono la vita quotidiana degli abitanti, a cui un pozzo, costruito recuperando tegole e mattoni dalle vicine strutture di età romana abbandonate garantiva l’approvvigionamento dell’acqua. Sul fondo venne alloggiata un’intelaiatura di travi in legno di ontano disposte su due livelli, che costituí la base rigida su cui appoggiare la canna del pozzo, all’interno del quale si sono conservati la catena e il manico in ferro del secchio per il prelievo dell’acqua e i cerchi metallici che trattenevano le doghe lignee, unitamente a una ciotola/ mestolo di ontano, oltre a fauna, frammenti ceramici e pietra ollare. Il cimitero della comunità venne posto a un centinaio di metri dall’abitato: le 35 tombe hanno fosse tagliate nel terreno argilloso e si dispongono su righe orientate est-ovest. Solo in un caso vi è una sovrapposizione tra due sepolture, a conferma di uno sviluppo orizzontale continuo del piccolo cimitero e della visibilità in superficie delle tombe mediante segnacoli, piccoli tumuli o strutture in legno. Gli inumati erano deposti in alcuni casi in casse di tronchi lignei, la cui presenza è stata riconosciuta grazie a tracce di materiale organico e alla peculiare disposizione della parte superiore dello scheletro; in altri casi in casse di tavole di legno a incastro, su semplice barella, o in piena terra entro un sudario. La costante alternanza di sepolture di bambini, adulti maschili e femminili riflette
Complementi di vestiario di una sepoltura femminile databile tra la fine del V e i primi decenni del VI sec.: vaghi di collana in vetro, fibule a staffa in argento dorato. l’esistenza di nuclei familiari ai quali erano riservati spazi predefiniti nel cimitero, separati da recinzioni lignee. Le peculiarità del rituale funerario, quale la sepoltura in tronchi lignei e la deformazione cranica artificiale, presente in due tombe femminili – frutto di una pratica diffusa nell’Europa centro-orientale tra V e VI secolo, presso gli Unni e le varie popolazioni dei «Germani orientali» che comprendono gli Ostrogoti – confermano i legami con forme di cultura tramandate ai Goti d’Italia dal perpetuarsi di consuetudini maturate prima dell’insediamento nella nostra Penisola. Le sepolture femminili hanno restituito molteplici complementi di vestiario: orecchini con pendenti in ambra e vetro, collane con vaghi in pasta vitrea (quella di una bambina aveva anche due zanne di lupo),
Si chiude l’VIII edizione di «Luce sull’archeologia», rassegna che ha inteso mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. L’ultimo appuntamento è in programma al Teatro Argentina di Roma, domenica 8 maggio, alle 11,00. Come sempre, l’incontro sarà arricchito dal contributo di storia dell’arte di Claudio Strinati, dall’anteprima del passato curata dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, e sarà introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, il programma degli interventi: Luciano Canfora, Platone e la Kallipolis; padre Giuseppe Caruso, Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia; Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta. Info: www.teatrodiroma.net
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n otiz iario
A sinistra: quarto di Siliqua in argento di Teodorico a nome di Anastasio (491-518). Qui accanto: pendente di cintura in bronzo, pasta vitrea e ambra, da una sepoltura femminile della prima metà del VI sec.
fibule a staffa in argento dorato, niellato e con almandini, fibbie di cintura ad anello in ferro o bronzo, elementi forati in ambra e vetro per la sospensione alla cintura. Una delle donne recava, oltre a una coppia di fibule poste all’altezza delle spalle per fissare il mantello all’abito, una fibbia di cintura in bronzo decorata a cloisonné con vetri colorati, a imitazione di esemplari piú ricchi in oro e pietre preziose. La coppia di fibule è presente in quest’unica tomba, mentre in altri casi ne compare una sola, in posizione
orizzontale, al centro del petto, secondo un costume di tradizione romana. Non mancano le fusaiole, a rammentare l’importanza della filatura per le donne. Le tombe maschili, finora individuate solo eccezionalmente in Italia, prive di armi secondo la tendenza diffusa presso i gruppi «germanicoorientali», recano un coltello e due fibbie, una in argento per la cintura e una in ferro per la sospensione della spada. Una moneta in argento (un quarto di siliqua) con il monogramma di re Teodorico è la conferma della datazione dell’insediamento agli anni del regno goto d’Italia (493-553). I tanti indicatori presenti a Frascaro, quali la tipologia della capanna seminterrata, la deposizione in
Contenitori ceramici provenienti dall’abitato e dalle tombe, databili tra la fine del V e la metà del VI sec.
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tronco d’albero, la deformazione intenzionale del cranio, unitamente alla peculiarità dei complementi dell’abito, attestano la discontinuità rispetto a contesti romanzi dello stesso periodo (V-VI secolo), a fronte dell’evidente parallelismo con quanto documentato in aree nord ed est-europee, permettendo di identificare gli occupanti del sito con rappresentanti di quell’aristocrazia militare gota giunta in Italia a seguito di Teodorico e sparsa sul territorio in piccoli nuclei di guerrieri con le loro famiglie, portatori di tradizioni di una cultura diverse da quelle romane. Egle Micheletto
DOVE E QUANDO «Goti a Frascaro. Archeologia di un villaggio barbarico» Acqui Terme (Alessandria), Civico Museo Archeologico fino al 27 maggio 2023 Orario martedí-domenica, 10,00-13,00 e 16,00-19,30; chiuso lunedí Info tel. 0144 57555; www.acquimusei.it
FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
IL BAGNINO VI DÀ IL BENVENUTO! EPICTETUS BUTICOSUS, RITRATTO A MOSAICO CON SECCHIO E STRIGILE, ACCOGLIEVA I FREQUENTATORI DEL PICCOLO IMPIANTO TERMALE CHE DA LUI HA PRESO NOME. UN COMPLESSO IMPREZIOSITO DA DECORAZIONI DI GRANDE PREGIO, TORNATE A SPLENDERE GRAZIE AL RECENTE RESTAURO
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razie al restauro, tornano finalmente a mostrarsi al pubblico le pregevoli decorazioni delle Terme di Buticoso, piccolo impianto termale situato lungo uno dei piú trafficati assi stradali (via degli Horrea Epagathiana) che congiungevano la banchina fluviale con l’area forense di Ostia. Costruito tra il 112 e il 115 d.C., l’edificio subí nel tempo diverse trasformazioni, che modificarono l’organizzazione e la funzione dei singoli ambienti, rinnovandone in parte anche gli apparati decorativi. L’articolazione degli spazi, connotata dall’assenza della palestra e dalla successione non canonica degli ambienti termali, risente dei condizionamenti imposti dalla presenza di edifici precedenti e dalle ridotte dimensioni; queste ultime sono caratteristiche dei balnea, impianti termali costruiti e gestiti da privati che, dietro pagamento di un modico biglietto di ingresso, contribuivano a soddisfare le necessità igieniche e sociali della popolazione residente e degli stranieri di passaggio, insieme alle grandi thermae pubbliche costruite per iniziativa imperiale. L’ingresso, tra due tabernae affacciate sulla strada, immetteva tramite un corridoio in un ampio
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A destra: l’intervento condotto sugli affreschi delle Terme di Buticoso. Nella pagina accanto, dall’alto: il calidarium prima e dopo il restauro: il mosaico di Epictetus Buticosus dopo il restauro. ambiente dotato di banchine laterali e nicchie lungo le pareti, con la duplice funzione di spogliatoio (apodyterium) e di raccordo tra i diversi ambienti.
ACQUA E ARIA CALDA Mentre alle estremità si trovavano il frigidarium e un piccolo ambiente di destinazione incerta, a metà del lato lungo, proprio di fronte al corridoio di ingresso, iniziava l’itinerario che conduceva agli ambienti caldi, consistenti in due tepidaria, un calidarium e un sudatorium, tutti provvisti di ipocausti e tubuli in terracotta, che consentivano la circolazione dell’aria calda sotto il pavimento e
lungo le pareti garantendo il riscaldamento ottimale. Il complesso termale era lussuosamente decorato: l’apodyterium e il piccolo ambiente adiacente avevano pareti ornate da affreschi, i cui motivi vegetali servivano a suggerire illusionisticamente la presenza di un giardino; negli ambienti caldi la tubulatio era celata da rivestimenti in marmo, che coprivano le vasche d’acqua calda e le sedute del calidarium e ne inquadravano la porta; semplici tappeti musivi bianchi riquadrati da cornici nere nei vani di passaggio lasciavano il posto, negli ambienti principali, a mosaici figurati in tessere bianche e
nere che alludevano al tema dell’acqua. Proprio questi apparati decorativi sono stati l’oggetto principale dei lavori di restauro (condotti dalla R.T.I. C. Fiorani, A. Borzomati, G. Di Gaetano) che hanno interessato il complesso, al fine di arrestare il progressivo degrado dovuto all’azione degli agenti atmosferici. L’intervento sulle decorazioni parietali dell’apodyterium e del piccolo vano adiacente, reso piú complesso dall’invasività dei restauri precedenti, ha consentito in primo luogo di restituire piena leggibilità agli affreschi dell’ultima fase (inizi del III secolo d.C.), decorati da scene di giardino, con cespi di foglie verdi alternati a grandi vasi gialli e zampilli d’acqua stagliati su un uniforme sfondo rosso.
DETTAGLI INEDITI Esso ha d’altra parte portato in luce dettagli in precedenza non visibili, come minute rosette bianche sovradipinte, e messo in evidenza pitture piú antiche, risalenti ad almeno due fasi precedenti: tra queste ultime, emergono un piccolo lacerto databile in età traianea dipinto con il prezioso pigmento di origine minerale noto come «blu egizio» e la delicata decorazione di una nicchia, realizzata nella seconda metà del secolo, con ghirlande rosse e verdi e motivi figurati, tra cui un delfino, su fondo bianco. Per quanto riguarda le superfici pavimentali, particolarmente impegnativo si è rivelato il restauro del mosaico del calidarium, in pessime condizioni di conservazione soprattutto per il degrado del supporto in cemento armato su cui era stato posizionato negli anni Cinquanta del Novecento. L’intervento, che ha comportato lo stacco integrale del mosaico, la riduzione del supporto e la ricollocazione in situ, ha consentito di riportare all’originario
splendore il tema decorativo, costituito da un tritone e una nereide circondati da mostri marini e pesci e attribuito, in base a precisi confronti iconografici e stilistici, all’opera degli stessi mosaicisti attivi nelle Terme di Nettuno. Oltre al restauro delle lastre marmoree e alla sistemazione dei piano di calpestio, i lavori hanno previsto anche la pulizia dei mosaici degli ambienti adiacenti: tra questi, l’inserto raffigurante il «bagnino» Epictetus Buticosus che, secchio e strigile alla mano, accoglie oggi i visitatori come faceva un tempo con gli avventori del balneum. Maria Bartoli, Tiziana Sorgoni e Claudia Tempesta
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A TUTTO CAMPO Cristina Fornacelli, Angela Palmieri e Sara Rojo Muñoz
LE VIE DEL BUCCHERO UNA RICERCA ARCHEOMETRICA DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA FA LUCE SULL’ATTIVITÀ DI UNA BOTTEGA DI CERAMISTI CHIUSINI, FORNENDO LE PROVE PER ATTRIBUIRE UNA PARTE DELLA SUA PRODUZIONE ALLA BASSA VALLE DELL’ALBEGNA
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na delle produzioni ceramiche etrusche piú note e diffuse nel Mediterraneo antico è il bucchero: il tipico colore nero dell’impasto ceramico è dovuto alle particolari condizioni di cottura in ambiente fortemente riducente (cioè in assenza di ossigeno); le superfici lucide e dai riflessi brillanti tradiscono l’intenzione di imitare i vasi metallici da mensa. Il bucchero ha sempre suscitato grande interesse tra gli studiosi, ma soltanto in anni recenti le indagini archeometriche ne hanno approfondito i caratteri tecnici, alla ricerca dei luoghi di manifattura, per fissarne anche le modalità di circolazione sui mercati. La classe viene inventata a Cerveteri all’inizio del VII secolo a.C., con servizi da vino dalle pareti molto sottili, per essere poi prodotta nei principali centri dell’Etruria propria e nelle aree di espansione etrusca: nel VI secolo a.C. Chiusi avvia su larga scala una manifattura nota come bucchero pesante, per le grandi dimensioni dei vasi e lo spessore consistente delle pareti. La nuova
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In alto e in basso: frammenti di pareti di vasi in bucchero pesante dal Tumulo Brizzi (VII-VI sec. a.C.) a Marsiliana d’Albegna, con figure di cavalieri armati al galoppo verso destra, anatidi alternati a motivi a goccia e leoni accovacciati (qui non visibili), disposti su registri diversi. tecnica prevede l’uso di matrici a cilindretto e di stampi nelle decorazioni, essenziali per individuare le botteghe dei ceramisti e i centri di produzione e scambio.
CAVALIERI AL GALOPPO Al bucchero pesante sono ascrivibili vari frammenti rinvenuti nello scavo del Tumulo Brizzi (VII-VI secolo a.C.) a Marsiliana d’Albegna (Manciano, Grosseto), in corso di studio e di prossima pubblicazione. Si tratta di almeno due grandi vasi (forse oinochoai?), che alternano sulla parete fasce delimitate in basso da linee a zig zag graffite, sulle quali sono impressi stampi a forma di cavalieri al galoppo, anatidi alternati a gocce e leoni accovacciati con la testa rivolta all’indietro, distribuiti su registri differenti. In particolare, gli stampi con i cavalieri permettono
Microfotografia ottenuta dalla sezione sottile attraverso microscopio ottico con luce polarizzata, ricavata dal frammento riprodotto a sinistra, in alto. Sono visibili abbondanti inclusi di quarzo monocristallino, insieme a quantità subordinate di plagioclasi, selce e frammenti litici in una matrice carbonatico-ferrica. La dimensione e la forma degli inclusi suggeriscono l’impiego di una sabbia come degrassante, aggiunta intenzionalmente dal vasaio. di attribuire i frammenti alla Bottega della Gorgone, ascritta a Chiusi quale sede principale di attività, con prodotti diffusi anche nel territorio vulcente. I frammenti dal Tumulo Brizzi sono stati quindi sottoposti a indagine archeometrica, frutto di una collaborazione tra il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali e l’Unità di Ricerca Conservazione dei Beni Culturali e Archeometria del Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena, autorizzata dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Siena, Grosseto e Arezzo. Le analisi sono state eseguite tramite microscopia ottica con luce polarizzata su campioni in sezione sottile, e hanno restituito una caratterizzazione mineralogicopetrografica degli impasti ceramici, grazie alla definizione della natura della frazione inerte (cosiddetto scheletro) e della matrice argillosa. Una oinochoe (vaso per contenere e servire il vino) in bucchero, prodotta probabilmente a Chiusi dalla Bottega della Gorgone (metà del VI sec. a.C. circa): si osservino gli stessi stampi con i cavalieri armati di Marsiliana (venduta da Christie’s nel 2001 a New York, oggi verosimilmente in collezione privata).
I risultati hanno fornito dati preziosi sulla tecnica di lavorazione dei vasi (temperatura, ambiente di cottura e/o aggiunta di degrassanti come la sabbia, per aumentare la plasticità dell’argilla), nonché indicazioni significative sulla provenienza delle materie prime. Le caratteristiche mineralogicopetrografiche dei frammenti sono state confrontate con la geologia delle aree contigue di Marsiliana e Doganella, nonché con l’impasto di anfore da trasporto etrusche tipo Py 3B (insieme a scarti di fornace e grumi concotti di argilla) di produzione certamente locale, le cui fornaci sono state individuate in prossimità di Marsiliana (vedi «Archeo» n. 439, settembre 2021; anche on line su issuu.com).
UN’OFFICINA LOCALE Fra i materiali di confronto sono stati, inoltre, sottoposti ad analisi sette frammenti di bucchero provenienti dalle necropoli di Chiusi. Lo studio ha quindi verificato la compatibilità delle materie prime impiegate nel bucchero dal Tumulo Brizzi con la geologia dell’areale compreso tra Marsiliana e Doganella, suggerendo l’esistenza di un’officina locale, mentre non sono state riscontrate analogie di sorta con i buccheri di produzione chiusina. Le
analisi hanno inoltre accertato l’impiego di due impasti di natura diversa, il primo strettamente legato alla geologia della zona (che si distingue per la presenza di argille azzurre e conglomerati poligenici), mentre il secondo presenta una composizione mineralogica peculiare, giustificata dall’esistenza di estesi affioramenti di calcare cavernoso nell’area a sud di Marsiliana, in prossimità del torrente Radicata e del fosso del Camerone. La stretta correlazione dei frammenti di bucchero pesante qui esaminati con Marsiliana e Doganella, ai quali si possono accostare altri vasi in bucchero dalla vicina necropoli di Banditella, in corredi ascrivibili alla fase piú recente del sepolcreto (metà del VI secolo a.C. circa), consente di fissare un terzo apice all’areale di produzione/distribuzione della Bottega della Gorgone, assimilabile a un triangolo formato da Chiusi e dal corso dei fiumi Albegna e Fiora. L’attività di artigiani chiusini a Marsiliana nella piena età arcaica conferma il quadro tracciato dalle ricerche in corso, che presume un rapporto stretto tra Chiusi e la bassa Valle dell’Albegna: in conclusione, le analisi hanno permesso di spostare l’attenzione dalla circolazione dei vasi alla circolazione delle persone, con nuove domande sull’organizzazione delle botteghe e sulle richieste del mercato, alla base dello spostamento di maestranze specializzate. (fornacelli@unisi.it, sara.rojomunoz@phd.unipi.it)
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MUSEI Marche
UN TERRITORIO SI RACCONTA
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iapre i battenti il Museo Archeologico Statale di Cingoli (Macerata), forte del nuovo allestimento curato dalla Direzione Regionale Musei Marche in sinergia con la Soprintendenza ABAP per le province di Ancona, Pesaro, Urbino e il Comune. Ospitato nel Palazzo Comunale, il museo è stato istituito nel 1994 per esporre e valorizzare gli importanti rinvenimenti restituiti dal giacimento archeologico di
Moscosi-Piano di Fonte Marcosa ed era stato già oggetto di un ampliamento nel 1997 con l’apertura della sezione preistorica e della sezione romana. I reperti presentati con il nuovo allestimento ripercorrono le vicende storiche del vasto comprensorio cingolano: dall’articolazione insediativa e territoriale alle relazioni commerciali e culturali che, nei secoli, hanno condizionato il
In alto: bifacciale da Staffolo, databile al Paleolitico Inferiore. Qui sopra: brocca in lamina di bronzo databile alla metà del V sec. a.C. A sinistra: una delle sale del museo, allestito nel Palazzo Comunale di Cingoli (Macerata).
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complesso rapporto tra l’uomo e l’ambiente, qualificando il contenitore culturale cingolano come museo del territorio. L’esposizione vede nella prima sala una serie di manufatti e tracce relativi ai gruppi umani che hanno frequentato il territorio sin dal Paleolitico Inferiore, nonché a quelli che in tale territorio si sono stanziati stabilmente nel corso delle successive fasi del Neolitico e dell’Eneolitico, coltivandone le terre, allevando animali e dando avvio alle prime attività economiche, artigianali e commerciali. Tra le industrie litiche piú antiche, prevalentemente in selce, spiccano un pregevole bifacciale da Staffolo, databile al Paleolitico Inferiore, mentre frutto delle progressivamente piú elevate capacità artigianali e commerciali che caratterizzano la successiva età neolitica (6200-3500 a.C.) sono l’ascia in pietra levigata da
Magliano e il nucleo con schegge in ossidiana da Castellano. Il percorso continua con i materiali dell’età del Bronzo relativi all’insediamento di Moscosi, sito frequentato e abitato senza soluzione di continuità dal Bronzo Medio fino alla prima età imperiale
A sinistra e in basso: frammenti di ciotole di tipo appenninico con decorazione geometrica. Età del Bronzo Medio. A destra: fondo di coppa a vernice nera con stampigli, da San Vittore di Cingoli. III-II sec. a.C.
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romana, da cui provengono forme ceramiche riferibili alla corrente culturale appenninica e subappenninica, come le ciotole con decorazione geometrica. Non mancano utensili di bronzo ed elementi che indicano la presenza di officine metallurgiche locali che producevano oggetti di pregio, come il pugnale «a lingua da presa» databile al Bronzo Recente (1365-1200 a.C.), mentre originale è la presenza di strumenti agricoli in corno di cervo. Di particolare interesse risulta la tipologia abitativa di tipo sub-palafitticolo attestata e documentata da lacerti di travi lignee conservati e visibili: tale tipologia, piú tipica delle zone dell’Italia settentrionale, rappresenta un unicum nelle Marche e doveva rispondere alla necessità di fornire adeguato isolamento alle abitazioni costruite a ridosso del fiume Musone. L’ultima sezione del museo riunisce reperti attraverso i quali è possibile leggere i segni tangibili della progressiva trasformazione
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A destra: un’altra sala del Museo Archeologico Statale di Cingoli. In basso: particolare di una statua raffigurante il dio Attis, divinità di origine frigia il cui culto era associato a quello di Cibele. II sec. d.C.
culturale, politica ed economica che interessa il repertorio cingolano a partire dall’età preromana (VI secolo a.C.) e fino alla piena età imperiale romana. Tra i materiali piú indicativi del livello di romanizzazione raggiunto da un dato territorio c’è il vasellame a vernice nera, di cui il museo conserva un ampio repertorio di forme, tra cui un fondo di coppa a vernice nera con stampigli (III-II secolo a.C.) da San Vittore di Cingoli. È quindi possibile osservare i rinvenimenti che attestano il progressivo costituirsi di centri abitati lungo le direttrici di fondovalle dei fiumi Musone e Potenza, importanti vie di collegamento tra l’entroterra cingolano e per il tramite del porto di Numana con l’Adriatico e l’Egeo. Si segnala il corredo orientalizzante proveniente da una tomba in località Torrone di Cingoli, composto da pochi ma interessanti oggetti, tra i quali spicca una brocca in lamina di bronzo databile alla metà del V secolo a.C. Si
conservano, infine, alcuni materiali relativi all’interessante contesto del santuario delle acque di San Vittore di Cingoli, probabile sede del municipio pliniano di Planina e ai centri di Pian della Pieve e di Borgo San Lorenzo. Tra i reperti che attestano la continuità di frequentazione dell’area santuariale di San Vittore di Cingoli tra il VI secolo a.C. e la prima età romana, segnaliamo la lekythos attica a figure nere (VI secolo a.C.), le testine fittili con polos di produzione magno-greca (V-IV secolo a.C.) e una statuina fittile panneggiata databile tra il III e il II secolo a.C. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Museo Archeologico Statale di Cingoli Cingoli, Piazza Vittorio Emanuele II Orario martedí-domenica, 8,15-13,15; lunedí chiuso Info tel. 0733 603399; e-mail: drm-mar.museocingoli@ beniculturali.it
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RICERCA Vienna
CERCANDO LA POESIA «SOMMERSA»
«O
dio e amo. Forse mi chiedi come io faccia. / Non lo so, ma sento che ciò accade, e mi tormento»: chi non ha letto almeno una volta questi versi d’amore? Sono di Catullo, poeta vissuto alla fine della Repubblica tra Roma e Verona, famoso per le sue brevi poesie rivolte a Lesbia, pseudonimo di Clodia, con la quale aveva avuto una relazione d’amore.
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«Stia bene chi ama, maledetto chi non sa amare / doppiamente maledetto chi proibisce l’amore»: questi versi sono invece graffiti su una parete delle Terme di Traiano a Roma e il loro autore era forse uno dei tanti abituali avventori dei bagni, un poeta di cui non sappiamo nulla. Ma facciamo un passo indietro e proviamo a pensare a quanti poeti latini conosciamo. Si contano sulle
dita di due mani o poco piú. Eppure la produzione poetica latina si estende per circa sette secoli su un territorio che, al tempo della massima espansione dell’impero romano, andava dall’Africa all’Olanda, dal Portogallo alla Romania. L’impero era caratterizzato da lingue, tradizioni e culture molto diverse tra loro. Ma perché questa diversità non sembra dunque rispecchiarsi nella produzione letteraria latina giunta fino a noi? Perché conosciamo cosí pochi poeti latini? La risposta in realtà è abbastanza semplice: la poesia latina che studiamo sui libri di scuola è frutto di una selezione durata secoli. I testi poetici sono passati attraverso gli innumerevoli filtri linguistici della tradizione manoscritta che hanno prodotto una lingua pura e una metrica perfetta. Eppure la poesia prodotta e consumata dai Romani non era esattamente cosí… In nessuna cultura la produzione poetica si riduce a un paio di autori famosi. Inventare ritmi, cantare, comporre rime sono forme d’arte innate nella natura umana e per di piú non costano niente. Bastano un po’ di immaginazione e creatività e il gioco è fatto. Questo vale anche per le civiltà antiche, incluso il mondo romano. La vita quotidiana dei Romani doveva essere immersa in un panorama sonoro ricco di voci, ritmi e musica, di cui non sappiamo quasi nulla. Filastrocche, rime, inni religiosi, canti popolari, cori teatrali, ninnenanne, proverbi, modi di dire e, naturalmente, poesie di autori a noi sconosciuti venivano tramandati oralmente di generazione in generazione o vedevano una rapida e breve fama per poi sparire.
La tradizione orale è difficile da ricostruire. Tuttavia, tracce della poesia e delle canzoni che circolavano tra gli abitanti comuni dell’Italia e delle province dell’impero romano sono sopravvissute fino a noi e non sono per nulla scarse. Versi piú o meno frammentari sono noti attraverso alcune migliaia di iscrizioni sparse per tutto l’impero e conservate sugli oggetti piú disparati, dalle stele funerarie ai gioielli, dai
sarcofagi ai muri di Pompei. Vediamone alcuni esempi. Il senso degli scioglilingua è sempre sfuggente. Ciò che importa è il gioco di parole e l’abilità di ripeterlo ad alta voce velocemente e senza fare errori. Nell’ultimo paio di migliaia di anni non è cambiato molto, come ci mostra un – intraducibile – esametro inciso sui muri di Pompei: Barbara barbaribus barbarant barbara barbis. Provando a ripeterlo ad alta voce, si In alto: il team MAPPOLA al lavoro. A sinistra: ricostruzione grafica dell’incipit dello scioglilingua di Pompei. Nella pagina accanto: l’iscrizione di Tibiscum (nell’odierna Romania).
avrà immediatamente un’idea del ritmo di un esametro latino e non lo si dimenticherà piú. Gli epitaffi sono invece le poesie epigrafiche piú diffuse. Sui monumenti sepolcrali i Romani non si limitavano a scrivere il nome dei defunti. I dati anagrafici erano sempre accompagnati da informazioni piú dettagliate sulla persona, come professione, tratti del carattere, rapporto con i dedicanti. Non di rado il dolore causato dal vuoto lasciato dai cari defunti veniva elaborato ed espresso in brevi componimenti poetici. È il caso di un semplice monumento sepolcrale, di cui resta solo la parte superiore, trovato a Tibiscum (oggi Caransebes in Romania), al confine orientale dell’impero: «Agli déi dell’Oltretomba. Il mio corpo lo ha la terra, una pietra il mio nome, la mia anima l’aria. Sarebbe stato meglio…». Il contenuto è universale, evocativo, commuovente. Il testo è inoltre reso enigmatico
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dall’interruzione brusca all’inizio della seconda frase, causata dalla frattura della lapide. Cosa «sarebbe stato meglio…»?. I testi tramandati su oggetti e monumenti sepolcrali presentano spesso ritmi che divergono da quelli canonici e a volte del tutto sconosciuti. In passato questi erano considerati dagli studiosi di lingua latina come errori dovuti all’inesperienza, se non all’ignoranza, di chi li componeva, insomma ben lontani dai versi perfetti di Virgilio, Orazio e Catullo. Ma è davvero cosí? Siamo sicuri di conoscere quel che gli antichi Romani percepivano come poesia? Per esempio, se ci si attenesse alle ferree regole della metrica latina, questo componimento non andrebbe considerato poetico: «Sotto questo monumento giace la dolcissima Secundilla. / Quando la morte la strappò ai genitori, lasciò dietro di sé solo dolore. / Era gradevole come le le erbe
Peter Kruschwitz e Alexander Gangoly durante le riprese del video The poetics of displacement: a conversation.
aromatiche / e desiderava una vita sempre dolce come il miele. / Visse 3 anni, 6 mesi e 16 giorni. / Aromation. C’est la vie». Il monumento è stato trovato ad Arles, in Francia, ed è dedicato alla piccola Secundilla, soprannominata dai suoi genitori Aromation (in greco: erbetta aromatica, spezia). Il componimento è quasi interamente scritto in latino, solo l’ultima riga, qui tradotta in francese, nel testo originale è in greco, forse la lingua madre dei genitori. L’effetto doveva essere piú o meno lo stesso della
Il team MAPPOLA. Da sinistra a destra: Victoria González Berdús, Tina Hobel, Alexander Gangoly, Peter Kruschwitz, Chiara Cenati e Denisa Murzea.
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traduzione: un modo di dire in una lingua straniera, ma di immediata comprensione per tutti. E proprio le testimonianze dirette, scritte di pugno dai Romani, giunte fino a noi senza alcun filtro, ci svelano il vero mondo poetico latino. Il progetto europeo MAPPOLA, Mapping out the poetic landscape(s) of the Roman Empire, con sede all’Università di Vienna, intende fare luce sulla poesia popolare latina, evidenziandone le diversità etniche e regionali, studiando le pratiche diffuse tra persone di diversa estrazione sociale, ricostruendo le microstorie dei singoli e individuando i tratti peculiari di ogni produzione poetica. Lo scopo è di scoprire quale poesia, o meglio, quali poesie produceva e consumava la popolazione dell’impero romano, a quali immaginari attingeva. L’approccio è innovativo e non prevede l’utilizzo degli standard dei grandi poeti latini come metro di valutazione. Il risultato è sorprendente. La poesia dell’impero romano viene svelata per come era: variegata, fantasiosa, multilingue, sempre in evoluzione, talvolta imperfetta, sicuramente diversa da come l’abbiamo immaginata fino a oggi. Ulteriori informazioni sul progetto MAPPOLA sono disponibili all’indirizzo https://mappola.eu Chiara Cenati
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INCONTRI Umbria
NEL SEGNO DELLA VALORIZZAZIONE
L’
Umbria non è solo il cuore verde d’Italia: è la culla della storia antica del nostro Paese. In tremila anni Romani, Etruschi e Antichi Umbri hanno lasciato un patrimonio archeologico esteso, variegato e profondo. Un tesoro culturale apprezzato dagli esperti, ma spesso poco conosciuto e diffuso al grande pubblico. Per questo, da pochi mesi, è nato il progetto «Umbria Antica», un sito web multimediale e in piú lingue (www.festivalumbriantica.it) per valorizzare e far conoscere meglio con un linguaggio innovativo, fresco, ma non banale, 14 tra musei e siti archeologici umbri. Dalle Tavole Eugubine alle mura poligonali di Amelia, dalla Villa Romana dei Mosaici di Spello a Carsulae, fino al Porto dell’Olio sul Tevere e l’Antiquarium di Otricoli, ai luoghi di Annibale e della Battaglia del Trasimeno a Tuoro, alle Tane del Diavolo di Parrano e ai musei archeologici di Bettona e Colfiorito. Schede informative accattivanti per incuriosire i meno esperti, articoli di approfondimento di alto livello, podcast immersivi, walking tour video. Tanti e diversi tipi di contenuti per raccontare cos’è l’Umbria antica a pubblici diversi e specifici, per incuriosire chi ancora non la conosce e stimolare chi la ama già. Ma, soprattutto, per raggiungere quelle persone che non arrivano alla cultura dai canali tradizionali. Il progetto scommette sul potere della narrazione come strumento per creare comunità di luoghi e di interessi. E sulle potenzialità del digitale, in tutte le sue forme e linguaggi, per «mettere in rete» la cultura antica dell’Umbria ma anche, e soprattutto, per «fare rete», nella comunità degli appassionati
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A destra: Carsulae. Il fornice centrale della porta d’ingresso a nord dell’abitato. Nella pagina accanto: lo Zeus di Otricoli. Copia romana da un originale greco. I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. di storia, archeologia, arte e cultura. Umbria Antica non lavora solo on line, ma anche dal vivo, promuovendo e organizzando incontri e dibattiti con esperti di storia, archeologia e conservazione dei beni culturali. Parte integrante del progetto è il Festival dell’Umbria antica: un evento itinerante con lezioni di storia e archeologia di taglio divulgativo tenute nei musei e siti archeologici dell’Umbria. Per quattro week end, dal 4 al 26
giugno, il Festival farà tappa in sette luoghi che custodiscono la storia antica umbra: Amelia (4 giugno), Spello (5 giugno), Spoleto (10 giugno), Tuoro (18 giugno), Gubbio (19 giugno), Otricoli (25 giugno) e Carsulae (26 giugno). Archeologi, storici, scrittori e storici dell’arte, tra cui Giulio Guidorizzi, Giovanni Brizzi, Giovanni Alberto Cecconi, Livio Zerbini, Arnaldo Marcone, Valentino Nizzo e Augusto Ancillotti, saranno i protagonisti di
Gubbio. Uno scorcio delle arcate superstiti della galleria superiore del Teatro Romano; sullo sfondo, il Palazzo dei Consoli e il centro storico della città.
IL FESTIVAL DELL’UMBRIA ANTICA
Quattro week end da non perdere Ecco il calendario degli appuntamenti programmati per la prima edizione del Festival dell’Umbria Antica, che si svolgerà tra il 4 e il 26 giugno. Sabato 4 giugno Amelia, Museo Archeologico-Sala della Pinacoteca Dalle ore 17,00 Giulio Guidorizzi, Il grande racconto di Roma antica Valentino Nizzo, I misteriosi Pelasgi Alessandra Bravi, Le mura poligonali di Amelia Elena Trippini, Visita esperienziale al museo archeologico
lezioni di storia di taglio divulgativo, gratuite e aperte a tutti. Un grande laboratorio culturale e informativo che sia in grado di far circolare cultura e mettere in comunicazione luoghi e persone. Umbria Antica e Festival dell’Umbria antica è un progetto realizzato con il contributo della Regione Umbria POR FESR 2014-2020-Asse III-Azione 3.2.1 nell’ambito dell’azione «Supporto allo sviluppo di prodotti e servizi complementari alla valorizzazione di identificati attrattori e naturali del territorio, anche attraverso l’integrazione tra imprese delle filiere culturali, creative e dello spettacolo». Virginia Valente
Domenica 5 giugno Spello, Palazzo Comunale Dalle ore 17,00 Livio Zerbini, La guerra di Perugia e la rivalità tra Ottaviano e Antonio Gabriella Sabatini, La Villa dei Mosaici Enrico Zuddas, Il Rescritto di Spello Stefano Mammini, La musealizzazione dei mosaici di Spello Venerdí 10 giugno Spoleto, Rocca di Albornoz Dalle ore 17.00 Paola Mercurelli Salari, Verso il nuovo museo del Ducato di Spoleto Federico Marazzi, I ducati longobardi Elena Percivaldi, I luoghi dei Longobardi a Spoleto Sabato 18 giugno Tuoro, Teatro comunale Dalle ore 17,00 Giovanni Brizzi, La memoria di Annibale Ermanno Gambini, I luoghi della Battaglia del Trasimeno Augusto Ancillotti, Tarsminass, quello che si prosciuga Domenica 19 giugno Gubbio, Sala Trecentesca di Palazzo Pretorio Dalle ore 17,00 Augusto Ancillotti, Le Tavole di Gubbio e la confederazione Atiedia Giovanni Brizzi, Gli Umbri e Roma Francesco Marcattili, La Gubbio romana Roberto Borsellini, La memoria dell’Antico Sabato 25 giugno Ocriculum, Area Archeologica Dalle ore 17,00 Stefano Grilli, L’Area Archeologica Giovanni Alberto Cecconi, La romanizzazione dell’Italia tra IV e I secolo a.C. Luana Cenciaioli, Gli scavi a Ocriculum Enrico Zuddas, L’Umbria dei porti Domenica 26 giugno Carsulae, Area Archeologica Dalle ore 17,00 Silvia Casciarri, Carsulae Arnaldo Marcone, L’esercito di Augusto Paolo Braconi, Bacco, la vite e l’olmo a Carsulae Augusto Ancillotti, Il mondo italico
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
DI MEGALITI, DISCHI E ALTRI MISTERI... Il circolo megalitico di Stonehenge, nella contea dello Whiltshire (Inghilterra sud-occidentale), continua a essere almeno in parte avvolto da enigmi sui quali 1 dibattono studiosi e archeologi. Ancora si discute, insomma, sulla reale natura di queste celebri rovine, riprodotte su 4 francobolli di un foglietto della Liberia del 2015 (1). Che il monumento, la cui fase di utilizzo piú importante si colloca intorno al 2500 anni a.C., sia ciò che rimane di un osservatorio astronomico o di un tempio per l’adorazione del sole o di una sorta di «Lourdes» preistorica 2 3 resta da accertare. Le nuove indagini che sono state programmate, avvalendosi delle piú moderne e sofisticate attrezzature, e il progetto di uno scavo sotterraneo per verificare cosa effettivamente ci sia sotto la struttura preistorica (2) potranno forse fornire risposte piú precise. La carrellata di emissioni filateliche provenienti da numerosi 5 Paesi, per lo piú legate al riconoscimento del sito come 4 Patrimonio dell’Umanità da parte dell’UNESCO, ne testimonia la notorietà a livello mondiale (3, 4, 5, 6); divertente è anche il foglietto del Bhutan, che lo propone in chiave «fumettistica» (7). In questa ottica, la mostra in corso al British Museum fino al prossimo 17 luglio è la piú grande mai realizzata sull’argomento e pone al centro il sito, ma 7 6 con un approccio diverso e piú ampio, come il titolo lascia del resto intendere: «Il mondo di Stonehenge» (vedi alle pp. 92-109). Non si narra solo la storia del complesso e delle ricerche che lo hanno interessato, quindi, ma viene proposta un’ampia documentazione del contesto culturale in cui il monumento venne realizzato e nell’ambito di quanto 9 contemporaneamente accadeva in Europa. Il percorso espositivo abbraccia un orizzonte cronologico 8 grosso modo compreso fra il 4000 e il 1000 a.C., con molti prestiti importanti da altre realtà museali europee, fra cui, per esempio, alcune asce di pietra provenienti dalle Alpi italiane (8), monili d’oro e stupefacenti manufatti metallici come il famoso «disco di Nebra», qui riprodotto su un francobollo tedesco del 2008 (9). Questo oggetto 10 eccezionale, risalente all’età del Bronzo, è considerato come il piú antico ed evoluto modello rappresentativo IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia del cielo notturno come si vede dall’annullo Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere primo giorno di emissione (10) e, di alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai conseguenza, la prima raffigurazione del cosmo seguenti indirizzi: nella storia dell’umanità; ma, come per Segreteria c/o Luciano Calenda Stonehenge, anche per il disco persiste piú di Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa un interrogativo, almeno per ciò che comporta il Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it suo scopo e la sua utilizzazione... oppure
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INCONTRI Paestum
IL CAMMINO È INIZIATO
A
lla BIT (Borsa Internazionale del Turismo) di Milano, in occasione della conferenza stampa della Regione Campania con Felice Casucci Assessore alla Semplificazione Amministrativa e al Turismo e Rosanna Romano Direttore Generale per le Politiche Culturali e il Turismo, è stata presentata dall’Assessore del Comune di Capaccio Paestum Ettore Bellelli, in rappresentanza del Sindaco Franco Alfieri, e dal Fondatore e Direttore della BMTA Ugo Picarelli la XXIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, a Paestum presso il Tabacchificio Cafasso da giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2022. Ugo Picarelli ha sottolineato la grande attenzione che sta suscitando la prossima edizione, dopo il successo del novembre scorso, a seguito degli incontri avuti in BIT con gli Assessori Regionali al Turismo di Calabria, Lazio, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia e con i Direttori delle Agenzie Regionali del Turismo di Basilicata, Friuli e Toscana, che hanno assicurato la loro partecipazione nel Salone Espositivo. Inoltre, dai colloqui con il Ministro del Turismo Massimo Garavaglia (intervenuto con un saluto alla conferenza stampa presso lo Stand Campania) e con il Direttore Regione Europa dell’UNWTO, l’ONU del turismo con sede a Madrid, Alessandra Priante è emerso il loro
impegno a essere presenti alla BMTA 2022, mentre l’ENIT grazie al Presidente Giorgio Palmucci, all’Amministratore Delegato Roberta Garibaldi e al Consigliere di Amministrazione Sandro Pappalardo sta già lavorando con le proprie delegazioni estere per assicurare i 40 buyer europei che svolgeranno il Workshop con gli operatori turistici dell’offerta sabato 29 ottobre. Presenti in occasione della conferenza: Vincenzo Napoli Sindaco di Salerno, Alessandro Ferrara Assessore al Turismo del Comune di Salerno, Alfonso Andria Consigliere di Amministrazione Parco Archeologico di Paestum e Velia. Il Fondatore e Direttore Ugo Picarelli ha colto l’occasione per augurare al neodirettore del Parco Archeologico di Paestum e Velia Tiziana D’Angelo, insediatasi ufficialmente lo stesso giorno, un percorso professionale gratificante e straordinario, certo che le sue prestigiose competenze ed esperienze internazionali saranno un importante valore aggiunto per le prossime edizioni della BMTA. La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico è promossa da Regione Campania, Città di Capaccio Paestum e Parco Archeologico di Paestum e Velia e si svolge con il sostegno di: Ministero della Cultura, Ministero del Turismo, UNESCO e UNWTO.
Ugo Picarelli (a destra, in piedi) con Rosanna Romano e Felice Casucci durante la presentazione della XXIV edizione della BMTA di Paestum alla BIT di Milano.
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CO LO SS DE EO L
IL
LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
ARCHEOLOGIA NEL CUORE DI ROMA
PALATINO • COLOSSEO • FORO ROMANO • DOMUS AUREA
Un suggestivo scorcio del Foro Romano. Si riconoscono, da sinistra: il Tempio della Concordia, la chiesa dei Ss. Luca e Martina, l’Arco di Settimio Severo e il Tempio di Saturno.
I
quasi 80 ettari del Parco archeologico del Colosseo abbracciano l’area archeologica centrale di Roma e sono la testimonianza piú estesa e tangibile della città antica. Nei suoi confini, infatti, oltre al Foro Romano – cuore politico e amministrativo dell’Urbe – ricadono il Palatino – colle che conserva le memorie del mitico fondatore della città, Romolo, e poi dei suoi imperatori –, ma anche il Colosseo – icona universalmente nota della civiltà romana –, nonché le spettacolari vestigia della Domus Aurea, la grandiosa residenza voluta da Nerone. Il tutto in un dialogo ideale, ma anche fisico, con altri grandi poli della Roma antica, quali il colle del Campidoglio e l’area dei Fori Imperiali. A questo straordinario patrimonio è dedicata la nuova Monografia di «Archeo», nella quale, accanto alla storia dei vari complessi monumentali, si affianca una rassegna puntuale e completa degli interventi finora condotti e di quelli tuttora in corso che mirano ad accrescere la fruizione dei siti e a illustrarne il valore storico, artistico e documentario. Un racconto firmato in prima persona dagli archeologi e da tutti gli specialisti ai quali è affidato il compito di preservare e tramandare le spettacolari vestigia della capitale di uno dei piú grandi imperi dell’antichità.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Un grande museo diffuso • IL FORO ROMANO • IL PALATINO • IL COLOSSEO • LA DOMUS AUREA • GLI AUDITORIA DI ADRIANO
in edicola
• LA COLONNA TRAIANA
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CALENDARIO
Italia
BRESCIA Toccar con mano i Longobardi
ROMA 1932, l’elefante e il colle perduto
Museo di Santa Giulia fino al 29.05.22
Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali. fino al 24.05.22
CAPO DI PONTE (BRESCIA) Uno sguardo oltre le Alpi
Altari nella sabbia
L’area cultuale di Abu Ertelia Museo delle Civiltà fino al 12.06.22
Materiali archeologici dal Museo Nazionale di Zurigo MUPRE-Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica fino al 29.05.22
Colori dei Romani
I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22
CASTELSEPRIO E TORBA (VARESE) Trame Longobarde Tra Architettura e Tessuti Antiquarium e Monastero fino al 31.07.22
Giacomo Boni
L’alba della modernità Foro Romano e Palatino fino al 03.07.22 (prorogata)
FOGGIA Arpi riemersa
Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22
Cursus Honorum
Il governo di Roma prima di Cesare Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 02.10.22
ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23 (dal 14.05.22) 36 a r c h e o
Moneta in argento di Teodorico a nome di Anastasio (491-518).
MILANO Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino all’08.05.22
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
NAPOLI Giocare a regola d’arte
VERONA Vasi antichi
Sing Sing. Il corpo di Pompei
VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon
Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22
Museo Archeologico Nazionale fino al 04.06.22 Fotografie di Luigi Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.22
Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23
OSTIA ANTICA (ROMA) Chi è di scena! Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022) Parco archeologico di Ostia antica fino al 30.10.22 (dal 22.05.22)
Il teatro romano del Parco archeologico di Ostia antica.
Francia PARIGI Faraoni delle due terre
L’epopea africana dei re di Napata Museo del Louvre fino al 25.07.22
SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Faccia a faccia La visiera di un cavaliere romano Musée d’archéologie nationale fino al 09.05.22
PARMA I Farnese
Architettura, Arte, Potere Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31.07.22
TORINO Aida, figlia di due mondi Museo Egizio fino al 05.06.22
Il Libro dei Morti di Baki
Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino al 05.06.22
Invito a Pompei
Germania BERLINO Immagini sonore La musica nell’antica Grecia Altes Museum fino al 03.07.22
Rilievo funerario raffigurante un arpista cieco, da Tebe (Egitto).
Grecia SALONICCO Sardegna Isola Megalitica Museo Archeologico di Salonicco fino al 15.05.22
Palazzo Madama, Sala del Senato fino al 29.08.22
Regno Unito
VARESE La civiltà delle palafitte
LONDRA Il mondo di Stonehenge
L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22
VENEZIA Venetia 1600
Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 05.06.22
British Museum fino al 17.07.22
Svizzera BASILEA animalistico!
Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 37
L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
I DESTINI DELLA BIBLIOTECA SCOMPARSA VERSO LA FINE DEL VII SECOLO LA PRODUZIONE DI MATERIALE SCRITTO IN GRECO PROVENIENTE DALL’EGITTO SI INTERRUPPE, SEGNANDO UNA CESURA NETTA E IRRIMEDIABILE. FU CAUSATA ESCLUSIVAMENTE DALLA CONQUISTA ARABA DI ALESSANDRIA, DEL 642, E DALLA CONSEGUENTE DISTRUZIONE DEL SUO LEGGENDARIO PATRIMONIO LIBRARIO? LO ABBIAMO CHIESTO ALLO STORICO LUCIANO CANFORA... incontro con Luciano Canfora, Rosa Otranto e Nunzio Bianchi, a cura di Silvia Camisasca
T
ra il III e il II secolo a.C. tutto il sapere scientifico e letterario posto in essere dal mondo greco ed ellenistico era concentrato nella Grande Biblioteca di Alessandria, posta dentro l’aerea amplissima del Palazzo Reale della capitale dell’Egitto tolemaico. La cultura romana vi si abbeverò e l’ebbe anche a sua disposizione dopo l’annessione dell’Egitto all’impero (31 a.C.). Ne abbiamo parlato con uno dei massimi esperti e autorevoli studiosi delle vicende della Grande Biblioteca, il professor Luciano Canfora.
te, intorno alle cause. Ciclicamente si ripresentano due ipotesi: la catastrofe fu dovuta a Giulio Cesare, in alternativa, al fanatismo degli Arabi (in particolare del conquistatore di Alessandria, nel 642 d.C., ‘Amr ibn al-‘As). Quale è la sua valutazione in merito? «Che Cesare, nell’anno 48 a.C., sia stato assediato dentro il palazzo reale di Alessandria è fuor di dubbio. Ma la reggia, all’interno della quale erano compresi sia il Museo che la Biblioteca, era un intero quartiere, e dunque non è affatto chiaro quanta parte della reggia fosse stata ♦ Professore, la distruzione danneggiata dall’incendio della Biblioteca di Alesprovocato da Cesare per sandria è stata certamente una delle ferite piú grandi patite dalla civiltà, rompere l’assedio. Scherzosamente, George Bernard non solo occidentale. È questa la ragione per cui Shaw, nel secondo atto del suo Cesare e Cleopatra, imsi discute ancora, con passione e spirito di par- magina che Cesare riceva senza troppa pena la notizia
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La Grande Biblioteca di Alessandria cosí come veniva immaginata in una tavola della fine dell’Ottocento. Voluta dai Tolomei divenne la piú importante dell’antichità e si calcola che, al tempo del primo incendio che la devastò, nel 48 a.C., fosse arrivata a contenere 700 000 volumi. Nella pagina accanto: lo storico Luciano Canfora. a r c h e o 39
L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
“i libri stanno bruciando!” e reagisca anzi dicendo “che importa? Anch’io scrivo libri…”. Ma, appunto, è solo uno scherzo. È molto piú importante il fatto che né Cicerone nelle sue lettere di quel periodo, né l’autore del Bellum Alexandrinum, testimone oculare di quella vicenda, facciano cenno alla distruzione della Biblioteca come effetto del furioso conflitto esploso ad Alessandria all’arrivo di Giulio Cesare». ♦ Una notizia circostanziata compare in un frammento di Tito Livio, il quale era un bambino all’epoca di quei fatti… «Si tratta di alcune parole del grande storico padovano citate da Seneca (De tranquillitate animi, cap. IX). Livio parlava della distruzione di 40 000 rotoli librari andati in fumo: “un primo esempio della falsa equazione fra l’incendio di alcuni libri durante la campagna di Cesare e la distruzione totale della Grande Biblioteca”, come scrisse Alfred Schlesinger in proposito nell’edizione dell’opera di Tito Livio da
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a.C.), che determinò danni marginali; 2. la guerra di Aureliano (270-275 d.C.) contro Zenobia, nel corso della quale fu raso al suolo il quartiere alessandrino detto del Bruchion dove era la reggia e dunque la antica e gloriosa Biblioteca dei Tolomei (Ammiano Marcellino, XXII, 16, 15); 3. la distruzione del Serapeo e relativa biblioteca da parte del fanatico vescovo cristiano Teofilo (391 d.C.); 4. la conquista araba di Alessandria (642 d.C.) e la conseguente distruzione di quanto restava di una biblioteca che si era formata nel corso del V secolo intorno alla scuola filosofica di Alessandria. Anche il fanatismo cristiano aveva dato il suo contributo alla distruzione dei tesori librari di Alessandria. Il terribile vescovo Teofilo di Alessandria, invasato di odio contro la cultura greca, nell’anno 391 d.C. aveva guidato personalmente l’assalto contro il Serapeo, il tempio di Serapide dove aveva sede l’altra biblioteca di Alessandria, quella del Serapeo, detta «la figlia» (rispetto alla grande Biblioteca posta dentro il palazzo reale)». In alto e nella pagina accanto, in alto: medaglioni dipinti ad affresco raffiguranti due giovani che tengono in mano libri in forma di rotoli, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso: particolare di un affresco pompeiano nel quale sono raffigurati un rotolo e uno stilo. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
lui curata per la Loeb Classical Library. In realtà, anche se prendiamo per buona quella cifra tonda, si tratterebbe pur sempre di un piccolo danno rispetto agli almeno 250 000 rotoli presenti, secondo la tradizione, nella Biblioteca alessandrina già al tempo di Tolomeo II, intorno al 280 a.C». ♦ Un’altra fonte spesso chiamata in causa è la Vita di Cesare di Plutarco (vissuto 150 anni piú tardi)... «Sí, ma il verbo lí adoperato dal grande biografo può significare tanto “danneggiò” che “distrusse” (cap. 49, 3). E comunque l’unica narrazione superstite, dovuta a uno storico vissuto intorno al 200 d.C., Cassio Dione, fa capire che i libri distrutti erano nei depositi del porto: dunque doveva trattarsi di pregevole merce di esportazione, non già degli scaffali della Biblioteca».
♦ In effetti, di Teofilo, il grande storico Edward Gibbon, autore del celebre Declino e caduta dell’impero romano, tracciò un ritratto eloquente: «eterno nemico della pace e della virtú, uomo audace e cattivo, le cui mani furono alternativamente macchiate dal sangue e dall’oro»... «E il suo successore Cirillo si macchiò di un altro delitto: l’uccisione, con scempio del cadavere, della matematica e filosofa platonica Ipazia (siamo ormai nei primi anni del V secolo). A proposito dell’episodio di ‘Amr – il quale condanna i libri greci perché inutili se in contrasto col Corano e superflui se in accordo con esso – vale citare Jack Siler, il quale, nella parte finale di un suo romanzo, temo tuttora inedito (The Book), fa una osservazione ragionevole. Egli rileva che certamente la tradizione scritta araba sulla vicenda di ‘Amr ad Alessandria è tardiva rispetto ai fatti narrati, perché tardivo è l’inizio stesso di una storiografia araba. “Gli storici [dell’Egitto arabo] – egli scrive – cominciano ad apparire lentamente sulla scena nel IX, X e XI secolo, trasformando la tradizione orale in scrittura”. E pone in prima posizione, nella storia del tardivo destarsi di una storiografia araba su quelle vicende del VII secolo, Giovanni vescovo giacobita di Nikiou».
♦ Buona parte degli studiosi moderni, in realtà, ♦ L’idea centrale del romanzo di Siler è che ‘Amr non crede piú alla leggenda della distruzione salvò, oltre al Corano, anche la Bibbia, e che, per cesariana, salvo alcuni studiosi arabi (preoccuestirpare ogni altra tradizione scritta, abbia incipati, forse, dell’immagine di una distruzione tato tutti coloro che in Alessandria intendevano causata nel 642 dal fanatismo dei conquistatori continuare a copiare libri su pergamene o su arabi, dopo la presa di Alessandria)... papiri ad andar via dalla città... «La vera storia è un’altra e si sviluppa in diversi, suc- «In realtà, la trovata “romanzesca” vuole dar conto cessivi momenti: 1. l’incendio cesariano (48/47 del vuoto nella tradizione storiografica araba tra VII a r c h e o 41
L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
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e IX secolo. Ma l’autore si spinge oltre: afferma che materiali non catalogati conservati tuttora “nelle cantine del Vaticano”, a S. Caterina del Sinai o in “simili depositi nascosti”, ove resi accessibili, ci darebbero chiarimenti risolutivi sulla vicenda (parla di “misteri della guerra”). E mentre segnala che a S. Caterina è appena decollato un progetto di catalogazione e traduzione “degli scritti antichi”, subito soggiunge che l’accesso – se mai sarà integrale – non sarà certo questione di giorni». ♦ Anche Victor Hugo, alla metà dell’Ottocento, pensava fantasiosamente che le perdute tragedie di Eschilo si trovassero nei conventi del Monte Athos. E Stendhal pensava che il Vaticano nascondesse manoscritti preziosissimi... «Meglio soffermarsi sulle pacate pagine di Edward Alexander Parsons, The Alexandrian Library (Elsevier Press, Amsterdam 1952, cap. XVIII e appendici), dove la materia è bene ordinata e soppesata. È difficile negare
che quanto sopravviveva ad Alessandria delle antiche raccolte librarie greche abbia subito seri danni all’inizio dell’epoca araba. L’interrompersi, con la fine del VII secolo, di materiale scritto in greco proveniente dall’Egitto costituisce di per sé un indizio. È un dato statistico che rivela una cesura, dovuta appunto alla novità della conquista e del dominio arabo. Che in un secondo momento (IX secolo in avanti) gli Arabi abbiano recuperato un rapporto positivo con la cultura greca, soprattutto scientifica e filosofica, non fa che confermare lo iato di cui stiamo parlando». ♦ Perché è cosí arduo ammettere che anche i musulmani, al pari dei cristiani, siano entrati nella storia proponendo drastiche e iconoclastiche «rivoluzioni culturali» miranti a fare tabula rasa del passato? «Sta di fatto che entrambi, sia cristiani che musulmani, impiegarono del tempo a ravvedersi. Come del resto è accaduto, per fortuna, a ogni rivoluzione».
Nella pagina accanto: il monastero di S. Caterina sotto il monte Sinai in una litografia colorata di Louis Haghe, da un originale di David Roberts. 1849. In basso: Rachel Weisz nei panni di Ipazia in una scena del film Agora (2009) di Alejandro Amenabar, che, in chiave romanzesca, racconta la vita della celebre filosofa e matematica vissuta nel IV sec. d.C ad Alessandria d’Egitto.
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L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
NELLE PIAZZE DEL SAPERE DALLA PRIMA BIBLIOTECA PUBBLICA PROGETTATA DA GIULIO CESARE ALLA PIATTAFORMA EUROPEANA, LA LUNGA STORIA DEL COMMERCIO DEI LIBRI, TRA FALSI E FURTI, ROGHI E CENSURE incontro con Rosa Otranto
C
on il termine biblioteca (bibliotheke in greco, bibliotheca in latino) gli antichi intendevano sia la raccolta libraria in quanto tale, sia l’edificio o il locale in cui essa era conservata: è quanto scrive il grammatico latino Festo (attivo nel II secolo d.C.) nel De verborum significatione («Bibliothecae et apud Graecos et apud nos tam librorum magnus per se numerus, quam locus ipse in quo libri conlocati sunt, appellatur»). E le prime testimonianze di biblioteche appaiono nelle immagini vascolari. Risale all’inizio del V secolo a.C. il vaso del ceramografo Onesimo che raffigura un lettore che ha dinanzi a sé una capsa colma di libri, da cui ne ha estratto uno (vedi foto a p. 47): la scena documenta l’esistenza di una piccola bibliotheke, cioè di una raccolta di libri. Per studiare le biblioteche antiche è necessario integrare i dati archeologici con le fonti letterarie, epigrafiche e papirologiche. Accanto ai resti materiali, notizie sulla loro gestione, utenza, posseduto, si possono infatti ricavare dall’epigrafia, che spesso documenta donazioni di libri, mentre le fonti papirologiche ci hanno talvolta restituito quanto di piú simile possiamo immaginare ai cataloghi di biblioteca. L’unica biblioteca antica di cui si sia conservato, ancorché parzialmente, il patrimonio librario (rotoli greci e in parte anche latini) è quella della Villa dei Papiri a Ercolano, un’importante raccolta privata, specializzata in testi della filosofia epicurea, sepolta nel 79 d.C. dalla lava del Vesuvio. In Grecia e a Roma, le prime biblioteche sono raccol44 a r c h e o
Efeso, Turchia. La facciata monumentale della biblioteca costruita da Tiberio Giulio Aquila in onore del padre Tiberio Giulio Celso Polemeano, ultimata nel 135 d.C. In alto: la filologa Rosa Otranto.
te private, spesso legate al collezionismo di proprietari facoltosi o all’attività di dotti e intellettuali per i quali il libro era strumento di lavoro. Ne abbiamo parlato con Rosa Otranto, professoressa associata di filologia classica all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro: «All’inizio dei Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati, un’opera miscellanea di età imperiale in 15 libri, l’au-
tore – spiega Rosa Otranto – fa riferimento alla ricca biblioteca del protagonista, un certo Larense, che “aveva acquistato una tale quantità di libri antichi greci da superare tutti quelli che erano stati ammirati per le loro raccolte”. Segue una testimonianza preziosissima, che suona come una rudimentale ricostruzione della storia delle biblioteche, l’ultima delle quali è la biblio-
teca par excellence, ovvero quella di Alessandria, dove forse l’autore aveva lavorato per la stesura della sua preziosa opera. Nell’elenco di collezionisti di libri superati da Larense figurano: il tiranno Policrate di Samo, Pisistrato, tiranno di Atene, Euclide, anche lui ateniese, Nicocrate di Cipro, e inoltre i re di Pergamo, il poeta Euripide, il filosofo Aristotele, Teofrasto, e Neleo, che a r c h e o 45
L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
conservò i libri di costoro; da lui li comprò tutti, dice, il nostro conterraneo, il re Tolomeo chiamato Filadelfo, assieme a quelli provenienti da Atene e da Rodi, e li fece arrivare nella bella Alessandria» (I, 3a-b). Testimonianze di ricche biblioteche private si incontrano sparse qua e là nelle fonti letterarie: «Un esempio – prosegue Rosa Otranto – è rappresentato dalla raccolta di scritti, per lo piú tecnici, in possesso del giovane Eutidemo (Senofonte, Mem. IV, 2, 8 e sgg.): libri di medicina, di architettura, geometria, astronomia, accanto alla raccolta completa (e, si potrebbe dire, ovvia) dei versi di Omero. Del resto la presunta biblioteca di Pisistrato, appena menzionata, e di cui favoleggiavano gli antichi, corrispondeva evidentemente alla raccolta di poemi omerici».
In alto: rotolo di papiro carbonizzato, dalla Villa dei Papiri a Ercolano. Napoli, Biblioteca Nazionale. A sinistra: una ragazza con un rotolo in un affresco da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Come riferisce Ateneo (Hip. 451-452), anche Euripide dovette possedere una ricca biblioteca, di cui si prende gioco Aristofane (Ran. 943). «L’elenco potrebbe continuare: basti pensare ancora ad Aristofane, Platone, Aristotele, Isocrate. Per questi studiosi e intellettuali – sottolinea Rosa Otranto – la biblioteca era necessario e imprescindibile strumento di lavoro. La nascita di raccolte librarie nel mondo greco, peraltro, è strettamente collegata all’aumento di usi e funzioni del libro che, nel IV secolo a.C., è ormai diventato consapevole strumento di conservazione, circolazione e diffusione delle idee. Non a caso, tra le piú antiche (e meglio documentate) biblioteche annoveriamo quella di Aristotele, fondatore e scolarca del Peripato (una delle grandi scuole filosofiche greche, n.d.r.), la cui storia – ben nota (anche se non priva di punti oscuri) dai racconti di Strabone (XIII, 1, 54), Plutarco (Sull. 26, 2) e Ateneo (I, 3a-b e V, 214e) – intreccia quella di tre cruciali biblioteche antiche: la biblioteca di Alessandria, quella di Pergamo e quella privata di Silla, frequentata anche da Cicerone (De finibus III, 7 e sgg.)». 46 a r c h e o
♦ E a Roma, quando nascono le biblioteche? «La nascita delle biblioteche a Roma avviene in concomitanza dell’affermazione di un’identità culturale: fino a quando mancò la consapevolezza di una letteratura sentita come propria e di cui serbare memoria, mancò anche la struttura finalizzata alla sua conservazione. Almeno a partire dal III secolo a.C., a Roma la letteratura greca fu l’unica in grado di offrire modelli forti da imitare ed emulare: modelli che si rivelarono funzionali alla nascita della letteratura latina. Qui la presenza di libri greci si può ricostruire sia dalle notizie esplicitamente fornite dagli autori, sia dall’analisi delle opere che rivelano l’uso di fonti e di modelli greci». ♦ Non è casuale, peraltro, che le prime biblioteche di cui abbiamo notizia siano private e siano costituite da testi greci, bottino delle guerre di conquista condotte in Oriente nel II secolo a.C... In basso: particolare di una lekythos a figure rosse dipinta da Onesimo in cui si vede un giovane che legge un rotolo di papiro. 500-490 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Altes Museum.
«Esatto: la biblioteca di Perseo, re di Macedonia, giunse a Roma nel 168 a.C., a seguito della vittoria della guerra di Lucio Emilio Paolo a Pidna (Plutarco, Aem. 28); quella di Apellicone di Teo, un ricco mecenate greco, che conteneva un nucleo della biblioteca di Aristotele, fu scelta da Silla come bottino dopo la conquista di Atene (86 a.C.) (Plutarco, Sull. 26 e Luciano, Adv. ind. 4); infine quella di Mitridate, re del Ponto, fu portata a Roma da Lucullo nel 66 a.C. (Plutarco, Luc. 42)». ♦ Le biblioteche pubbliche a Roma nacquero centoventi anni dopo che i libri di Perseo erano giunti a Roma… «Infatti: si deve a Giulio Cesare il progetto di fondare la prima biblioteca pubblica, che avrebbe dovuto avere, cosí come le biblioteche private, una sezione Graeca e una Latina (Svetonio, Iul. 44, 2). Il progetto non andò a buon fine a causa dell’uccisione di Cesare e la prima biblioteca pubblica, allestita con il ricavato del bottino della guerra contro i Partini (un’antica popolazione dell’Illiria meridionale, n.d.r.), fu fondata dopo il 39 a.C. da Gaio Asinio Pollione nell’Atrium Libertatis». ♦ Un tempo, come oggi, il nesso tra biblioteche e commercio librario era molto stretto (anzi per Eupoli bibliotheke è il luogo in cui si acquistano i libri [Giulio Polluce, Onomasticon IX, 47])...
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«Naturalmente, perché le biblioteche si rifornivano anche presso i mercati librari dei grandi centri di cultura. Una preziosa fonte menziona i bibliopolai, i “venditori di libri”, insieme ai venditori di sementi, sardine, carbone, focacce, ecc. (Ateneo III, 126 e-f) e conferma che anche i venditori di libri avevano al mercato una bancarella e che questa si trovava insieme a quelle di prodotti di varia natura. Molte sono le fonti sul commercio librario: ne menzioneremo 48 a r c h e o
qui solo qualcuna di maggiore rilievo. Senofonte (An. VII, 5, 14) racconta che quando, nel corso del viaggio in Asia Minore, giunse con i suoi diecimila mercenari greci a Salmidesso, sulla costa tracia del Mar Nero, vide che lí erano arenate delle navi e tra i vari oggetti depositati c’erano anche “molti rotoli scritti”, senz’altro destinati a territori di confine del mondo greco. E Dionigi di Alicarnasso (Isocr. 18) narra che all’epoca di Aristotele i commercianti di
libri andavano in giro con interi fasci di discorsi giudiziari di Isocrate. Anche dalle sabbie grecoegizie riemergono qua e là notizie interessanti su commercio librario e biblioteche. Per esempio, nel poscritto di una lettera privata di II secolo (P. Oxy. 2192), sono precisate alcune dinamiche di acquisizione, trasmissione e circolazione libraria. Chi scrive, tra l’altro, spiega al destinatario come procurarsi i libri a cui è interessato, e gli suggerisce di cercarli sia presso alcuni privati, che ne sono in possesso, sia presso il bibliopoles Demetrio. In un’altra lettera, sempre del II secolo (P. Petaus 30), è documentata l’esistenza di un libraio ambulante, tale Deio, che mostra a Giulio Placido (il mittente della lettera) 14 libri in forma di codice, ad alcuni dei quali Giulio Placido è interessato al punto da pagare per poterli collezionare». ♦ I libri venivano venduti per lo piú nelle botteghe librarie... «A tal proposito, le fonti ci restituiscono gustose scene di vita quotidiana: per esempio, la visita in un negozio di libri fu folgorante per il filosofo Zenone, il quale, a seguito di un naufragio, recatosi in una libreria, catturato dall’ascolto della lettura del II libro dei Memorabili di Senofonte, decise di rinunciare al commercio per dedicarsi del tutto alla filosofia (Diogene Laerzio VII, 2-3). A Roma, per esempio, oltre alle numerose botteghe testimoniate dalle fonti, sappiamo che esistevano mercati specializzati nella vendita di libri: tra gli altri, uno nel quartiere dei Sigillari e uno nel vicus Sandaliarius, nei pressi del Templum Pacis, dove aveva sede una delle biblioteche piú importanti dell’epoca imperiale. A margine, possiamo osservare che spesso tali botteghe si trovavano nei pressi delle biblioteche, sia per consentire a esse stesse di rifornirsi di libri, sia pure, all’opposto, per dare la possibilità, a chi lo voleva, di procurarsi libri sfogliati o studiati in biblioteca. E, non di rado, poteva accadere di imbattersi anche in falsi. Talvolta i libri
venivano fatti copiare sulla base degli interessi dei committenti: il medico e filosofo Galeno di Pergamo, per esempio, racconta che il re Tolomeo Filadelfo, desideroso di incrementare il fondo librario della grande biblioteca di Alessandria, aveva chiesto in prestito ad Atene, dietro pagamento di una cauzione, le copie ufficiali delle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide; una volta che i libri furono ad Alessandria, decise di trat- Nella pagina tenerli, restituendo copie al posto accanto: degli originali (In Hipp. Epid. III ricostruzione comm. II, 4). Allo stesso modo ad virtuale della Alessandria, per potenziare la bi- biblioteca della blioteca, fu allestito il fondo cosid- Villa dei Papiri di detto “delle navi”, costituito da di Ercolano. tutti i libri che, una volta “appro- In basso: dati” per mare nella città egiziana, frammento di venivano copiati: gli originali en- papiro con versi travano a far parte del patrimonio dell’Odissea. della biblioteca e la copia veniva 285-250 a.C. circa. restituita ai proprietari». New York, The Metropolitan
♦ Anche per l’antichità, dunque, Museum of Art. si può parlare di un mercato di «falsi»? «La rivalità tra le due piú importanti biblioteche del mondo antico (Alessandria e Pergamo), che gareggiavano per procurarsi libri antichi e rari fu, secondo Galeno, anche alle origini della nascita dei falsi. Osserva il medico pergameno: “Prima che ad Alessandria e a Pergamo i re cominciassero a gareggiare tra loro nell’acquisto di libri antichi non si era mai visto un nome falso di autore su un libro” (Comm. In Hipp. de nat. hom. I, 44). Accade cosí che libri autentici e falsi cominciano a coesistere nelle biblioteche, e i filologi iniziano a studiare criticamente le opere letterarie, a esaminarle approfonditamente, a discernere quello che è autentico da quello che non lo è: tutto questo affidandosi agli strumenti critici della filologia, nonché giovandosi di strumenti quali i Pinakes callimachei (Indici di tutti coloro che furono eminenti in ogni a r c h e o 49
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campo della cultura e dei loro scritti, in 120 libri), il piú grande catalogo bio-bibliografico di cui siamo a conoscenza per il mondo antico. Di quest’opera antica non si sono conservati che pochi frammenti per tradizione indiretta, da cui ricaviamo che la materia era ordinata per argomento e gli autori disposti alfabeticamente con una breve notizia biografica, i titoli delle opere composte, i relativi incipit e le note sticometriche (il modo in cui si calcolava la lunghezza delle opere letterarie antiche, n.d.r.), di particolare importanza proprio per accertare autenticità e integrità delle copie. Siamo cioè dinanzi al prodotto tipico della filologia alessandrina, un’opera che nel raccogliere, classificare, attribuire e approfondire criticamente lo studio di opere letterarie, offriva in qualche modo un bilancio della cultura passata».
strare le ragioni che lo hanno spinto a comporre il trattato in cui presenta le sue opere in ordine cronologico di composizione, chiarendo i contenuti e le circostanze in cui sono nate. Una sorta di catalogo ragionato delle sue opere, utile anche ai fini della protezione dei “diritti d’autore”, in un’epoca in cui i testi, soprattutto se tecnico-scientifici, una volta pubblicati (o piú semplicemente messi in circolazione attraverso letture, dimostrazioni, ecc.), sfuggivano a qualsiasi forma di controllo: letti, recitati, copiati, trascritti, talvolta – come nel caso dei libri galenici – anche usati come testi di studio, veri e propri manuali. L’ambizione di preservare il proprio patrimonio letterario e scientifico è per noi preziosa perché antica e rara testimonianza di consapevole tutela d’autore, la quale ha permesso forse di scongiurare ulteriori perdite».
♦ Tornando ai falsi, il problema della loro proliferazione è ben noto allo stesso Galeno, che scrive il trattato Sui propri libri, una sorta di guida alla sua produzione scientifica e letteraria… «Infatti. L’opportunità gli viene offerta da un episodio che si verifica proprio nel vico Sandaliario, la strada ricca di botteghe librarie. Dinanzi a una di esse egli assiste a una vivace discussione sulla paternità galenica di una certa opera, ciò che gli offre l’occasione di illu-
♦ Professoressa, gli antichi erano consapevoli del ruolo della biblioteca, intesa come luogo in cui si raccoglie, organizza e preserva il sapere, e nel quale si conserva e si tutela la memoria? «Gli antichi avevano ben inteso che si trattasse di uno spazio cruciale, anche dal punto di vista politico: la legittimazione politica passa per la conoscenza, in particolare del passato. Non a caso, la biblioteca di Alessandria è uno snodo strategico della città, essendo
A sinistra: bustino in bronzo di Zenone, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra: rilievo gallo-romano raffigurante l’interno di un archivio o di una biblioteca. Bruxelles, Musées royaux d’Art et d’Histoire.
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Epigrafe di Filosseno Giuliano, responsabile della sezione greca della biblioteca del Portico d’Ottavia. Prima età imperiale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
parte essenziale di un programma propagandistico che mirava ad accrescere il prestigio della dinastia dei Lagidi e a marcarne l’identità greca. In tal senso basti pensare alla forte valenza della scelta di far realizzare traduzioni in lingua greca di opere straniere: oltre che una importante scelta culturale, si trattò di un espediente politico, necessario per rafforzare la presenza
greca in Egitto, conoscere la cultura di popoli altri e favorirne la necessaria integrazione. È anche in questa cornice che si inserisce la scelta di tradurre in greco la Bibbia, raccontata nella Lettera di Aristea». ♦ È la stessa ragione per cui la censura – o la sua espressione piú radicale, la deliberata distruzione
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Disegno ricostruttivo del Tempio della Pace, che comprendeva la bibliotheca Pacis.
Lastra di loculo iscritta di un addetto alla biblioteca, da Roma, colombario degli Statili. Prima metà del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.
dei libri – risponde allo scopo di annientare, cancellare la memoria... «Molti sono gli episodi di esplicite distruzioni di libri, o di intere raccolte di libri, che si leggono nelle fonti antiche, a cominciare dalla testimonianza sul rogo dei testi del filosofo Empedocle, avvenuto, racconta Aristotele nella Poetica (fr. 17 Gigon), all’interno di un contesto familiare, forse per ragioni religiose (una delle matrici piú diffuse alla base di questi episodi). A Sparta, per esempio, furono bandite le poesie di Ar52 a r c h e o
chiloco (Valerio Massimo VI, 3, ext. 1), la cui lettura era ritenuta “poco vereconda e pudica”. Anche Protagora di Abdera fu vittima di censura: a causa dell’incipit del suo trattato Sugli dèi, in cui, riguardo alle divinità, affermava di non sapere “né che sono né che non sono”, venne allontanato da Atene e i suoi libri vennero requisiti di casa in casa e bruciati in piazza (Diogene Laerzio IX, 52); se ne salvò tuttavia una copia, visto che alla sua morte, avvenuta nel corso di un naufragio, fu trovato in possesso di un esemplare
completo della sua opera (Cicerone, Nat. deor. I, 23, 63). Persino Platone – stando ancora a Diogene Laerzio (III, 5 e IX, 40) – pare essere stato contagiato dalla furia biblioclasta nei confronti di alcuni scritti di Socrate e di Democrito. Le fonti ci restituiscono anche un Ippocrate che appicca il fuoco al Tempio della Salute che si trovava a Cnido e che ospitava una biblioteca medica: secondo alcuni per scongiurare che i libri finissero nelle mani di chi non poteva intenderli, secondo altri per evitare di essere accusato
di plagio. Anche il filosofo Bione, che aveva ereditato i libri dell’oratore al quale era stato venduto, decise di bruciarli tutti prima di recarsi ad Atene, dove avrebbe studiato filosofia (Diogene Laerzio IV, 47). E Luciano racconta una storia di distruzione di libri nel pamphlet intitolato Alessandro o il falso profeta: Alessandro, disistimatore delle dottrine di Epicuro, trovò le Massime capitali del filosofo, e, dopo aver portato il libro nella piazza del mercato, ne fece un rogo con legno di fico e buttò le ceneri in mare. Insomma, la a r c h e o 53
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forma piú violenta e radicale di censura, la distruzione dei libri, risale a epoche molto antiche. Trasferendoci a Roma, tra le piú celebri vittime di censura vale la pena ricordare Ovidio, che fu colpito da un provvedimento di relegatio perpetua a causa di duo crimina (un carmen e un error) di cui si era macchiato agli occhi dell’imperatore: i suoi libri furono banditi dalle biblioteche pubbliche di Roma. Nei Tristia (III 1, 1 sgg.) egli mette in scena un libro personificato che intraprende il viaggio dalla città di Tomi, dove scontava l’esilio, a Roma, dove spera di essere accolto in una delle biblioteche pubbliche da cui è stato bandito: nel frattempo, si accontenta di trovar posto in qualche biblioteca privata (v. 79: interea, quoniam statio mihi publica clausa est, privato liceat delituisse loco). Gli scritti dello storico Aulo Cremuzio Cordo, colpevole di aver definito Bruto e Cassio “gli ultimi veri romani” (Svetonio, Tib. 61, 3), vennero fatti sparire e riabilitati sotto Caligola. A Roma alcune forme di censura colpivano anche scritti esoterici e di magia, nonché strane usanze religiose. Tra gli esempi piú noti ricordiamo le misure adottate nel 186 a.C. contro il culto di Bacco: una di queste prevedeva che i libri rituali venissero dati alle fiamme (Livio XXXIX, 16, 8)». ♦ Nel celebre romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451, pubblicato nel 1953, il protagonista, Guy Montag, è un vigile del fuoco che antifrasticamente dà fuoco alle case di coloro che leggono e/o possiedono i libri, un bene considerato illegale perché attivatore del libero pensiero, del pensiero critico... «Lo stesso Montag – sconvolto dall’incontro con una donna che, piuttosto che lasciar bruciare i suoi libri, si lascia bruciare con essi, e spinto da curiosità – comincerà a interessarsi ai libri e a leggerli, vivendo, a sua volta, nell’illegalità. Nel finale di questo racconto fantascientifico e apocalittico, intriso di elementi classici, riletti e raccontati con spirito visionario, Montag si unisce a un gruppo di uomini che, per scongiurare la perdita dei libri e garantirne la sopravvivenza, li (tra) manda a memoria. E tuttavia, pur in uno scenario desolato, in cui la città viene distrutta da un ordigno nucleare, un cauto ottimismo sembra serpeggiare nel romanzo: non soltanto il libro che Montag mette in salvo dalla biblioteca della donna è il libro-biblioteca per eccellenza, la Bibbia, forse l’ultima rimasta in circolazione, ma poi, nel finale, il gruppo di lettori a cui egli si unisce, si dirige verso la città bombardata e desolata con l’idea di contribuire alla sua ricostruzioIl poeta preferito, olio su tavola di Lawrence Alma-Tadema. 1888. Port Sunlight, Lady Lever Art Gallery. 54 a r c h e o
Qui accanto: Alfonsina Russo nel suo ufficio di direttrice del Parco archeologico del Colosseo. Sulle due pagine: una veduta panoramica del Foro Romano, con il Colosseo sullo sfondo. Sulla destra, le pendici del Palatino.
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L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
Sulle due pagine: scene dal film di François Truffaut Fahrenheit 451 (1966), tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury. La vicenda è ambientata in una società in cui leggere o possedere libri è considerato un reato e per contrastare il quale è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare ogni tipo di volume.
ne. Si tratta di un romanzo incredibilmente moderno, attuale e premonitore nel racconto di una società allora vista come distopica, ma che oggi si è invece materializzata, al di là di ogni immaginazione». ♦ Tra le innumerevoli funzioni della biblioteca antica, luogo di raccolta, conservazione e studio, vi è anche quella di un altro «luogo di cura dell’anima»... «Diodoro Siculo riferisce che lo storico Ecateo di 56 a r c h e o
Mileto, recatosi in Egitto, visitando il Ramesseum, il grande tempio fatto costruire dal re guerriero Ramesse II (XIII secolo a.C.), si imbatté nella biblioteca sacra, che riportava l’iscrizione “luogo di cura dell’anima” (I, 49, 3). Inoltre disponiamo, per l’età imperiale, di alcune testimonianze epigrafiche che documentano l’esistenza di biblioteche connesse agli Asclepieia, i santuari dedicati ad Asclepio; sebbene sia plausibile che tali biblioteche ospitassero per lo piú raccolte di terapie prescritte, oracoli e tavolette votive, è possibi-
le che vi fossero anche libri, a riprova della fondamentale importanza assunta progressivamente dal libro nella nascita della medicina razionale, che intendeva smarcarsi da quella praticata nei templi, occasionale e miracolosa. Nei tre principali centri di culto di Asclepio – Cos, Epidauro e Pergamo – sono state rinvenute altrettante epigrafi che documentano l’esistenza di biblioteche specialistiche legate ai santuari. E questa dimensione “lenitiva” del libro, visto come rimedio e come cura, si incontra anche in alcuni recenti libri: penso, a titolo di esempio, a Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno, di Ella Berthoud e Susan Elderkin (Sellerio, 2013), in cui le biblioterapeute propongono un prontuario letterario nella forma di ricettario contro disturbi di vario genere, tutti registrati in un utile indice tematico; o ai due libriccini di Miro Silvera, Libroterapia e Libroterapia due (Salani Editore, 2007, 2012)». ♦ Considerata questa dimensione «sacrale» del libro, quanto erano diffusi i furti di libri? «Le fonti letterarie (e non solo) documentano il fenomeno. Al grammatico Lucio Elio, per esempio, che fu insegnante di Varrone e Cicerone, venne rubata dal genero Servio Clodio, un’opera non ancora pubblicata. La sua rabbia fu tale che egli ripudiò il genero, e questi, per la vergogna, abbandonò Roma (Svetonio, gramm. 3). Uno degli schiavi di Cicerone derubò la biblioteca del suo padrone e fuggí con i libri in Dalmazia (Cicerone, Fam. XIII, 77, 3). Anche il retore Libanio, nel discorso intitolato Fortuna e sfortuna nella mia vita, descrive un furto di cui egli stesso era rimasto vittima (I, 148): gli era stato sottratto un esemplare calligrafico di Tucidide, un libro che, dopo molte ricerche, riuscí a recuperare con grande gioia. Una straordinaria testimonianza proviene da Atene: qui, nella zona dell’Agorà, nella Biblioteca di Pantaino, munifico “sacerdote delle Muse”, che donò alla città e all’imperatore Traiano “i portici esterni, il peristilio, la biblioteca con i libri e tutto l’arredamento interno” (Agora Inscriptions I, 848),
è stata rinvenuta un’iscrizione che invita a non sottrarre libri e, di seguito, riporta gli orari di apertura: “Nessun libro dovrà essere portato fuori, perché noi lo abbiamo giurato. La biblioteca deve rimanere aperta dalla prima alla sesta ora” (Agora Inscriptions I, 2729). Evidentemente il problema dei furti di libri in biblioteca, allora come oggi, dev’essere stato particolarmente gravoso. Ricordo qui, en passant, la recente vicenda della Biblioteca Oratoriana dei Girolamini di Napoli, saccheggiata dal suo direttore Massimo De Caro, condannato nel 2013 a sette anni, per aver trafugato migliaia di volumi pronti per essere battuti all’asta. La vicenda di questa importante biblioteca, violata e depredata, è stata ricostruita di recente in un interesa r c h e o 57
L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
sante libro di Sergio Luzzatto (Max Fox o le relazioni pericolose, Einaudi, 2019)». ♦ Biblioteche e distruzioni di libri, un binomio spesso esiziale... «Certamente. Incendi, depredazioni, spoliazioni: sono queste le ragioni che hanno portato alla scomparsa o alla distruzione di tutte le numerose biblioteche del mondo antico, e con esse anche del relativo patrimonio librario. Con l’eccezione di Ercolano, di cui abbiamo parlato in apertura, quello che di antico si è conservato, nella forma di frammenti di rotoli papiracei, talvolta anche minuscoli, riemersi a partire dal XIX secolo dalle sabbie egiziane, non è che una minima parte della produzione letteraria antica, greca e latina. E, per lo piú, non è riconducibile a biblioteche pubbliche. Si tratta di esemplari conservatisi per caso, grazie a condizioni ambientali favorevoli. A tal proposito, ben osservava Luciano Canfora alcuni anni orsono: “Vista nel suo insieme, la storia delle biblioteche antiche è una catena di fondazioni, rifondazioni e catastrofi. Un filo sottile collega i vari, e in parte vani, sforzi del mondo ellenistico-romano di mettere in salvo i propri libri. Tutto comincia con Alessandria: Pergamo, Antiochia, Roma, Atene non sono che delle repliche. Distruzioni, saccheggi, incendi colpirono immancabilmente i grandi addensamenti di libri. Neanche le biblioteche di Bisanzio fecero eccezione. Perciò quello che alla fine è rimasto non proviene se non mediatamente dai grandi centri (in genere i piú colpiti), bensí piuttosto dai luoghi marginali” (Libri e biblioteche, nello Spazio Letterario della Grecia Antica, Salerno, Roma 1995, p. 18)». ♦ Professoressa Otranto, dall’antichità a oggi, come è cambiato il ruolo della biblioteca? «È profondamente mutato, innanzi tutto per quel che attiene all’organizzazione, ma anche per quanto riguarda gli aspetti strutturali, i grandi cambiamenti socioculturali e le scoperte tecnologiche: penso, per esempio, all’incremento dei livelli di alfabetizzazione o di scolarizzazione, che ha comportato, oggi come in passato, l’aumento delle informazioni e del sapere da veicolare e conservare; o alle grandi invenzioni, come la stampa, i nuovi mezzi di comunicazione, i supporti tecnologici, tutti entrati da protagonisti nelle nostre biblioteche. Le nuove tecnologie del mondo globalizzato hanno portato alla ridefinizione e al ripensamento dei ruoli e dei servizi offerti dalle biblioteche a un pubblico sempre piú ampio e diversificato. In una società in cui il libro, surclassato da tanti altri media, è un bene di sempre minor appeal, soprattutto per le nuove generazioni, ripensare il ruolo delle biblioteche, reinterpretandole come “piazze del sapere”, come ha suggerito Antonel58 a r c h e o
la Agnoli (Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Laterza, Roma 2009), può fare la differenza: l’idea è quella che la biblioteca pubblica, al pari di una piazza, si apra al territorio, offrendosi come luogo di incontro, scambio e condivisione dei saperi. Dunque, le biblioteche (in particolare quelle civiche), intese come “piazze del sapere”, non sono piú solo luoghi in cui si studia, o si prendono in prestito, o si consultano i libri, ma ambienti che favoriscono interrelazione, processi di socializzazione e integrazione e, quindi, svolgono una funzione di coesione territoriale e sociale, oltre che di crescita culturale. A ciò si aggiunga che è mutato proprio il concetto di biblioteca, che non sempre corrisponde necessariamente a uno spazio fisico, ma è anche uno spazio virtuale. Come per gli antichi la biblioteca era sia la raccolta libraria in quanto tale, che l’edificio o il locale in cui essa era conservata, anche noi oggi non esitiamo a parlare di biblioteca sia per le raccolte librarie allocate in edifici, che per le biblioteche virtuali. Notevole negli ultimi anni è il progetto – non privo di tratti utopistici – “Europeana” (https://www.europeana.eu/it), una piattaforma digitale che, a partire dal 2008, ha raccolto il materiale relativo al patrimonio culturale europeo digitalizzato e proveniente da gallerie, biblioteche, archivi e musei europei dei ventisette Paesi membri dell’Unione Europea in ventitré lingue. L’idea è quella di consentire l’accesso all’enorme patrimonio culturale europeo (oltre 58 milioni di risorse tra libri, manoscritti, mappe, giornali, dipinti, film, ecc.) alla gente comune, oltre che a studenti, ricercatori e professori, nella convinzione che possa generare un impatto positivo a livello collettivo. Il grande sogno di Borges di una biblioteca universale e labirintica ha preso corpo in uno spazio indefinito e inesistente quale il web, generando una immensa biblioteca senza confini. Osservava il grande scrittore argentino nel racconto dedicato alla Biblioteca di Babele (1941): “La biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine)”. A buona ragione, nel 1999, Antonio Tabucchi cosí si espresse a proposito di questo racconto: “Cosa di piú agghiacciantemente ‘realistico’ del racconto cosiddetto ‘fantastico’ intitolato La biblioteca di Babele? (...) E che cosa di piú realistico, oggi, di quei suoi labirinti che solo pochi anni fa sembravano immaginari, di fronte al nostro labirinto on line di tutti questi casi e fili che oggi avvolgono il nostro globo?”». La prosa, olio su tavola di Lawrence Alma-Tadema. 1879. Cardiff, National Museum Wales.
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L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
COME REPERTORI DEI LIBRI ALTRUI DIODORO SICULO E, UN MILLENNIO PIÚ TARDI, IL PATRIARCA BIZANTINO FOZIO, SONO GLI AUTORI DI UNA PARTICOLARE E PREZIOSISSIMA PRODUZIONE LETTERARIA: IL «LIBRO-BIBLIOTECA» incontro con Nunzio Bianchi
L
a funzione di raccolta e conservazione dei libri assolta dalle biblioteche è talora attuata dai libr i stessi, in particolare da quelli che ambiscono a racchiudere, se non tutto, almeno buona parte del sapere. Questi libri, peculiari per intento e impianto, si fanno essi stessi biblioteche di e per altri libri, diventano cioè libri-biblioteca, in quanto conservano al loro interno lineamenti e forme di altri libri, sotto specie
Il filologo Nunzio Bianchi.
di citazioni, rimandi, riadattamenti e parafrasi, di estratti testuali ed epitomi. Un libro-biblioteca è insomma un collettore di scritture e saperi e, come tale, ambisce a preservare un patrimonio di notizie e conoscenze – trascritte, discusse e, talvolta, rettificate. «A suo modo – spiega il filologo Nunzio Bianchi, esperto di testi greci e latini, in particolare di romanzi antichi, del Dipartimento di Ricerca e Innovazione UmaPapiro con la trascrizione della traduzione in greco della Bibbia detta «dei Settanta», perché sarebbe stata affidata a 72 saggi di Gerusalemme, che avrebbero compiuto l’opera in 70 giorni. Nella pagina accanto: pagina di un’edizione manoscritta della Biblioteca Storica di Diodoro Siculo. XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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nistica dell’Università di Bari Aldo Moro – anche la Bibbia è un libro-biblioteca: tale la riteneva Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo d.C.), il quale, nelle sue Etymologiae, annovera proprio i ventidue rotoli che costituiscono l’Antico Testamento come esempio insigne di biblioteca, conformemente al senso piú tecnico che il termine biblion theke ha in greco e librorum repositio ha in latino». ♦ Professor Bianchi, allestire un libro-biblioteca
ha, dunque, un valore che trascende la stessa operazione scrittoria con significative implicazioni che vanno al di là degli stretti confini della pagina scritta? «È operazione tanto piú consapevole e rilevante quanto piú il titolo del libro-biblioteca si fa esso stesso biblioteca, con declinazione onomastica e dichiarazione programmatica fin dall’inizio. Celebre e antico esempio in tal senso è la Biblioteca storica di Diodoro Siculo (I secolo a.C.), al quale già gli antichi (Plinio il Vecchio in testa, autore, a suo modo, di un altro libro-biblioteca enciclopedico quale la Naturalis historia) riconoscevano originalità di intitolazione. La Biblioteca storica è una grande raccolta di fonti storiche, un ampio repertorio di libri altrui, dei quali Diodoro si fa tramite e interprete. Eusebio di Cesarea (III-IV secolo d.C.), iniziatore in età giustinianea della storiografia ecclesiastica e dotto conoscitore di questioni di storia e cronologia, aveva efficacemente colto il senso dell’operazione di Diodoro, a cui riconosceva il merito di aver raccolto nella sua opera “tutte le biblioteche” come in un “unico emporio” (omnes bibliothecas in unum idemque emporium summatim collegit, secondo la traduzione latina della versione armena di un passo del Chronicon eusebiano). E appunto l’idea di emporium, di deposito contro le dispersioni e le perdite inflitte dal tempo e dagli uomini, è quella che troviamo nella Biblioteca storica, che attinge al sapere antico e lo riconsegna ai posteri attraverso il racconto onnicomprensivo e universalistico della storia fin dalle sue pretese origini». ♦ Da storico libresco qual era, Diodoro non poteva non attingere alle collezioni librarie e alle biblioteche del tempo, da quelle romane a quela r c h e o 61
L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
le della città dei libri per antonomasia, vale a dire Alessandria... «Non vi è dubbio che ogniqualvolta si avverta il bisogno di raccogliere, recuperare e serbare il sapere del passato, è segno che qualcosa si possa perdere o si stia perdendo o, peggio, che sia già andato perduto. Percezione della perdita e premura della conservazione sono temi presenti anche nella Biblioteca storica di Diodoro, il quale non tralascia di segnalare quel che non riesce piú a leggere o a reperire. È il caso, per esempio, dell’opera di Teopompo (IV secolo a.C.) sulle vicende di Filippo di Macedonia, della quale Diodoro ammette di non riuscire a reperire alcune sezioni». ♦ Nello sforzo di rendere accessibile il maggior numero di conoscenze in maniera ordinata e chiara, Diodoro non è tuttavia riuscito a tutelare la sua opera... «In effetti, ebbe ben altra sorte: dei quaranta libri di cui la Biblioteca storica era composta, solo quindici sono giunti a noi (i primi cinque e quelli dall’undicesimo al Miniatura raffigurante l’interno di una scuola al tempo dell’imperatore Costantino VII, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
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ventesimo), oltre a un certo numero di frammenti e a una serie di collezioni di estratti di epoca bizantina, tra i quali i piú rilevanti sono quelli detti “costantiniani”, dal nome dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (913 [di fatto 945]-959) che sostenne, promosse e incoraggiò questa raccolta. Ben magra consolazione a fronte del molto altro che è andato perduto». ♦ E ancora prima che a questi Excerpta Constantiniana – veri e propri libri-biblioteca organizzati secondo criteri tematici – la sopravvivenza (indiretta) dell’opera diodorea è affidata a un altro ponderoso libro-biblioteca... «Sí, nel IX secolo, nel cuore di Bisanzio, il patriarca Fozio (820-891 circa) poteva ancora leggere i quaranta libri dell’opera diodorea, di cui fornisce non solo un breve giudizio critico con annesso abrégé, ma anche una lunga sequenza di estratti ricavati da alcuni libri non pervenutici, e per questo tanto piú preziosi. Ed è significativo che parti della Biblioteca storica di Diodoro si siano appunto conservate, pur in forme indirette e parziali, nell’opera foziana che siamo soliti denomi-
nare – e non a caso – con il titolo di Biblioteca, trattandosi appunto di un grande libro-biblioteca, anzi del piú eloquente caso di libro-biblioteca per mole e contenuto. E “biblioteca”, infatti, non lo è solo di nome, ma anche di fatto, in quanto in essa vi si trovano trattate, descritte, riassunte, e perfino piú o meno lungamente e fedelmente trascritte, centinaia di opere (non poche di queste, per giunta, per noi perdute, delle quali il patriarca è unico o ultimo testimone). Opere antiche e medievali, cristiane e profane, sono passate in rassegna nella Biblioteca, nel corso di ben 280 capitoli (tradizionalmente e impropriamente designati “codici”, quasi ogni capitolo fosse un manoscritto custodito in questa biblioteca) che hanno la piú varia estensione (da qualche parola a centinaia di pagine) e trattano di opere di tutti i tempi (dall’età di Erodoto, al cap. 60, fino a due pressoché contemporanei dello stesso Fozio: Niceforo di Costantinopoli e Sergio il Confessore, ai capp. 66 e 67)».
profani censiti e 157 i cristiani; gli autori «recenti» (dal IV secolo in poi) sono in maggioranza… «Assolutamente. Quanto, poi, ai generi letterari, si noti che la poesia non trova quasi spazio, a parte le metafrasi bibliche in esametri dell’imperatrice Eudocia (capp. 183-184) o il martirio in versi della protomartire Tecla di Basilio di Seleucia (cap. 168) e qualche epigramma citato (capp. 128, 186, 266). Tra gli autori profani, inoltre, una parte rilevante è occupata dalla storiografia (31 autori), ancorché siano assenti i grandi storici (Tucidide, Senofonte, Polibio). L’interesse foziano si concentra in particolare su eloquenza e retorica (i dieci oratori attici del canone alessandrino, i retori di età imperiale ecc.): un interesse legato a esigenze anche di carattere didattico e formativo (retorica ed eloquenza sono alla base della formazione dei funzionari della burocrazia imperiale bizantina). Poco rappresentata è la filosofia (che ampio spazio troverà in un’opera foziana successiva, gli Amphilochia) e assenti ♦ Qualche altro dato può dare un’idea piú circo- sono i grandi filosofi, Platone e stanziata della Biblioteca foziana: 122 gli autori Ar istotele. Maggior interesse
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L’INTERVISTA • LIBRI E BIBLIOTECHE NEL MONDO ANTICO
sembrano suscitare i testi paradossografici e i romanzi antichi, ai quali ultimi sono dedicate anche valutazioni di ordine letterario e stilistico, nonostante il filtro moraleggiante che sorregge il modus legendi del patriarca: come lettore e studioso di romanzi Fozio non ha rivali in tutto il millennio bizantino!».
lettura, spezzoni e sequenze tematiche, riflessi forse di uno stadio iniziale del lavoro che Fozio dovette portare avanti per buona parte della sua esistenza, in alcune circostanze piuttosto travagliata: uomo di vaste letture e teologo, due volte patriarca ecumenico, osteggiato dalla Chiesa di Roma (pose le basi teologiche per il grande scisma che si consumò nel 1054) come dall’ala ♦ Questa imponente ed eterogenea quantità di oltranzista della Chiesa d’Oriente, Fozio fu figura emimateriali – dalla semplice scheda bio-biblio- nente – sul piano religioso, non meno che politico e grafica a piú estese note di lettura, da citazioni soprattutto culturale – nella Bisanzio del IX secolo». a sinossi, da epitomi ad ampie trascrizioni verbali di estese sezioni testuali – è assemblata ♦ Pur nella sintesi, si comprende perché il grande secondo criteri e scelte, però, che in gran parbizantinista Karl Krumbacher abbia definito la te ci sfuggono... Biblioteca di Fozio «la piú importante opera stori«Non c’è ordine cronologico, tematico o d’altro tipo co-letteraria del Medioevo»... nel susseguirsi dei capitoli, benché taluni sembrino «E si dovrà precisare pure che, per sua stessa natura, raggruppati per affinità e, di tanto in tanto, si riesca cosí come è dato di leggerla, la Biblioteca non è un’opure di intravedere possibili sequenze e gerarchie di pera a tutti gli effetti, e probabilmente non è mai esistita come tale, non essendo forse neppure nei progetti di Fozio la sua divulgazione e circolazione, ma è piuttosto una “non-opera”, secondo l’efficace
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definizione data da Luciano Canfora. Oscuri e complessi restano infatti molti aspetti che la riguardano: dalla genesi redazionale – come e quando sarebbe stata concepita; a chi appartengono e donde provengono i libri schedati – alle modalità di composizione – originarie schede di lavoro forse assemblate in forme e modalità non dipendenti dalla diretta volontà di Fozio – dalla facies testuale – capitoli assai brevi e schematici si alternano ad altri costituiti da lunghe serie di estratti; capitoli che denunciano un visibile stato di incompletezza e provvisorietà a fronte di altri piú compiuti e rifiniti – alla stessa tradizione manoscritta, che consta di due codici, apparentemente indipendenti l’uno dall’altro, il piú antico dei quali parrebbe risalire agli stessi anni in cui il patriarca era ancora in vita. Ciononostante, e in forza anche di ciò, nella storia dei testi antichi, tardoantichi e medievali, oltre che in quella della cultura bizantina, la Biblioteca di Fozio resta una tappa obbligata e imprescindibile».
In alto: pagina di un’edizione della Biblioteca di Fozio. Metà del XVI sec. Londra, British Library. A sinistra, sulle due pagine: il sinodo dell’861 si pronuncia in favore di Fozio, in un’altra miniatura tratta dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
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STORIA • MUMMIE ROMANE
PRISCILLA E GLI AROMI D’ORIENTE SEBBENE NON FOSSE CONFORME AL COSTUME ROMANO, LA PRATICA DELLA MUMMIFICAZIONE TROVA ATTESTAZIONI SIGNIFICATIVE NELL’URBE, A PARTIRE DAL CASO DI POPPEA, LA MOGLIE «IMBALSAMATA» DI NERONE. QUELL’USO STRANIERO, PERÒ, SI DIFFONDERÀ IN PARTICOLARE TRA I SECOLI II E IV, QUANDO A ROMA SI AFFERMANO SU AMPIA SCALA I CULTI DEDICATI ALLE DIVINITÀ DELL’ANTICO EGITTO... di Stefano Francocci 68 a r c h e o
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li scavi di Pompei hanno recentemente portato alla luce, presso la necropoli di Porta Sarno, una tomba all’interno della quale sono state rinvenute le spoglie del proprietario, Marcus Venerius Secundio, ancora parzialmente conservate (vedi «Archeo» n. 440, ottobre 2021; anche on line su issuu.com). Quanto rimaneva del corpo, apparentemente mummificato, evidenziava un eccezionale stato di conservazione dello scheletro, resti della capigliatura e di un orecchio. Analisi di laboratorio riveleranno se la preservazione dei tessuti corporei sia stata dovuta solo a eccezionali condizioni ambientali o piuttosto a uno specifico trattamento degli stessi. La scoperta ha posto nuovamente l’attenzione sull’interessante tema della diffusione dell’uso della mummificazione nel mondo romano. In età antica, la pratica di conservare il corpo dopo la morte ha come esempio piú tangibile quello che ci viene dall’Egitto. Nel paese del Nilo la mummificazione, inizialmente riservata al solo faraone, fu estesa progressivamente a un numero sempre maggiore di individui. Ne sono testimonianza le migliaia di mummie recuperate nel corso degli scavi, ma anche le fonti scritte. Alcuni papiri del periodo grecoromano, in particolare, illustrano il lungo rituale che caratterizzava il processo di imbalsamazione. Fra gli autori classici, Erodoto fornisce la testimonianza piú nota a riguardo nel libro II delle Storie, risalente al V secolo a.C., nel quale descrive in maniera dettagliata le varie tecniche di mummificazione in uso a quel
Il sepolcro di Priscilla sulla via Appia Antica, in un disegno di Giovanni Battista Piranesi, da Le antichità Romane, Tomo II, tav. XXVIII, in Opere di Giovanni Battista Piranesi, Francesco Piranesi e d’altri, Firmin Didot Freres, Parigi 1835-1839. a r c h e o 69
STORIA • MUMMIE ROMANE
tempo. Le fonti letterarie ci informano pure sul fatto che l’usanza di imbalsamare i defunti non fu prerogativa dei soli Egizi, ma anche di altre popolazioni, quali gli Etiopi, i Persiani e gli Sciti, seppur con l’ausilio di procedimenti differenti. Anche nel mondo greco e ellenistico emergono testimonianze che lasciano intendere la conoscenza e l’uso di questa pratica funeraria. Già Omero, nell’Iliade (XIX, 39), narra
che Teti, madre di Achille, instillò l’ambrosia nelle narici di Patroclo per preservarne il corpo. Secondo varie fonti, la salma del re spartano Agesilao, morto in Libia nel 360 a.C., fu sottoposta all’imbalsamazione con l’utilizzo di miele o cera, prima di essere riportata in patria. Curzio Rufo (Hist. Alex., X, 10, 13) riferisce che il corpo di Alessandro Magno fu affidato ai sacerdoti egizi e caldei affinché fosse purificato
Disegno di un manoscritto di Bartholomaeus Fontius relativo alla scoperta, nel 1485, del corpo intatto della cosiddetta «Tulliola». Oxford, Bodleian Library.
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secondo le loro usanze. La stessa sorte ebbe, inoltre, Marco Antonio, il quale, dopo la morte, fu imbalsamato per poi essere seppellito insieme a Cleopatra.
ALLA MANIERA DI UN RE STRANIERO A Roma, i casi di imbalsamazione maggiormente noti dalla letteratura sono quello di Poppea, moglie dell’imperatore Nerone, e di Priscilla, moglie di Abascanto. Per Poppea, Tacito (Ann., XVI, 6) racconta che il corpo non fu cremato secondo il costume romano, ma, come consuetudine dei re stranieri, differtum odoribus conditur, ovvero fu imbalsamato. Priscilla, moglie del liberto di Domiziano Tito Flavio Abascanto, è, invece, ricordata nei versi del poeta Stazio (Silv.,V, 1, 225-231), che descrivono come la donna, dopo essere stata imbalsamata, fu avvolta con vesti di porpora e deposta all’interno di un sarcofago in marmo. La sua sepoltura fu identificata con i ruderi del mausoleo eretto di fronte alla chiesa del Domine quo vadis. Nelle fonti non vengono descritte le tecniche usate per l’imbalsamazione, ma è riportato un elenco dei profumi e delle resine che erano impiegate: cassia, mirra, zafferano e altre essenze e balsami provenienti dall’Oriente. Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XII, 83) osserva, con ironia, che durante il funerale di Poppea furono utilizzate piú spezie di quante l’Arabia era solita produrne nell’arco di un anno. In effetti, l’uso di aromi durante le cerimonie è ampiamente attestato, sia per profumare e preservare i corpi dei defunti destinati a essere esposti al pubblico per piú giorni, sia come offerta da gettare sul rogo funebre. Balsamari contenenti profumi erano, inoltre, collocati all’interno della tomba ed è noto anche l’uso di versare sostanze resinose direttamente sui resti combusti del defunto. Accanto alle testimonianze scritte,
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Il sepolcro di Priscilla sulla via Appia Antica, nel suo aspetto attuale. Situato di fronte alla chiesa del Domine quo vadis, il monumento funerario accolse il corpo imbalsamato della moglie del liberto di Domiziano Tito Flavio Abascanto. a r c h e o 71
STORIA • MUMMIE ROMANE
capelli sono lunghi e folti; le ciglia, gli Un ritrovamento analogo è ricordaocchi, il naso e le orecchie sono imma- to nel XVI secolo da Pirro Ligorio colate, al pari delle unghie». che narra della scoperta, al IX miglio della via Cassia, di una coppia ECCITAZIONE POPOLARE di sarcofagi in marmo contenenti le Anche altri osservatori confermano spoglie di una donna e di una fanche il cadavere era ricoperto da uno ciulla. Il primo dei due sarcofagi: strato spesso alcuni centimetri com- «era di marmo chiuso, et indorato dentro, posto da spezie, variamente identi- e la donna oltre al balzamo che havea, ficate come mirra, incenso e aloe, e era ancho essa tutta indorata nella faccia da olio di cedro. All’epoca alcuni e nelle mani». L’altro sarcofago, di riconobbero la defunta come Tullio- dimensioni minori, presentava la la, figlia di Cicerone, ma la sua iden- particolarità di avere un coperchio tità rimane ancora oggi sconosciuta. forato in corrispondenza del capo Il corpo fu trasportato al Palazzo dei che, attraverso un vetro, permetteva Conservatori, dove venne esposto al di vedere il volto della fanciulla. pubblico, in modo da poter essere Anche il corpo della giovane viene ammirato da un numero sempre descritto «indorato», come quello crescente di visitatori. L’eccitazione della donna. Il fatto che nel resodella folla fu tale che papa Innocen- conto non si accenni alla presenza zo VIII, dopo alcuni giorni, dispose di una maschera porta a escludere che la salma fosse seppellita in se- che la doratura descritta sia riferibile al cosiddetto «cartonnage», ovvero greto fuori Porta Salaria. alla maschera funeraria realizzata con fibre vegetali e stucco e poi In basso: il sarcofago della «mummia di Grottarossa». Seconda metà del dipinta o dorata, comunemente difII sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Realizzata in marmo lunense, l’arca è riccamente decorata con scene di caccia. fusa nelle sepolture egizie. Piuttosto, è possibile pensare che il corpo, Nella pagina accanto, dall’alto: la «mummia di Grottarossa» e la bambola in forse solo in corrispondenza del avorio facente parte del corredo deposto insieme alla piccola defunta.
la presenza di corpi imbalsamati nell’antica Roma è documentata da alcuni ritrovamenti effettuati nel suburbio a partire dal XV secolo. Risale, infatti, al 1485 una delle piú straordinarie scoperte avvenute lungo il percorso della via Appia, a circa cinque miglia dalla città. Alcuni muratori che stavano cavando il marmo dai monumenti sepolcrali trovarono alla base di uno di questi un sarcofago marmoreo sigillato, all’interno del quale giaceva il corpo intatto di una fanciulla. L’eccezionale stato di conservazione del cadavere era tale che la notizia del ritrovamento fu riportata da vari eruditi. Scrive nel suo diario Antonio di Vaseli che: «il corpo sembra essere ricoperto da una sostanza gelatinosa, un miscuglio di mirra ed altri unguenti pregiati, che attraggono sciami di api. I
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capo e delle estremità degli arti, fosse stato dipinto o ricoperto da una foglia d’oro secondo una pratica attestata in Egitto già nel periodo dinastico e documentata sino al IIIIV secolo d.C. A non molta distanza dal rinvenimento narrato da Pirro Ligorio, vale a dire alla confluenza della via di Grottarossa con la moderna via Cassia, nel 1964 venne fatta un’altra importante scoperta: lavori edili, infatti, portarono casualmente alla luce la cosiddetta «mummia di Grottarossa». Fu ritrovata all’inter-
no di un sarcofago marmoreo, decorato con scene raffiguranti la caccia di Enea e Didone. La cassa fu deposta in una fossa scavata nel banco tufaceo e coperta da una massicciata, composta da frammenti di tufo e malta, che doveva costituire la fondazione per un monumento funebre. Purtroppo, durante lo scavo il sarcofago non fu riconosciuto come tale e venne danneggiato dall’escavatore, per poi essere gettato insieme alla terra in uno scarico. Solo il giorno dopo fu accertata la presenza della mummia e se ne organizzò il recupero. Questo lasso di tempo incise sullo stato di conservazione della salma che, al contatto dell’aria, iniziò a decomporsi.
riscontrata l’estrazione del cervello o di altri organi interni. La conservazione delle spoglie era stata affidata, quindi, esclusivamente alle spezie, introdotte all’interno del cadavere e utilizzate per impregnare le bende. L’efficacia del procedimento è documentata dallo straordinario stato di conservazione del corpo, che, malgrado le vicissitudini della scoperta, al momento del recupero presentava ancora ben visibili le fattezze del volto. All’interno della fasciatura furono rinvenuti gli ornamenti personali
SOSTANZE AROMATICHE Gli esami di laboratorio hanno permesso di appurare che il corpo apparteneva a una bambina dell’età di circa 8 anni, con pregresse infezioni e carenze nutrizionali, morta a causa di una fibrosi pleurica bilaterale. Il cadavere era avvolto in un doppio sudario di seta e stretto con bende di lino intrise con sostanze aromatiche. Oltre alla presenza di mirra, le analisi polliniche hanno infatti permesso di individuare tracce di pino, di ginepro e di altre piante con proprietà antisettiche. La bambina non era stata oggetto di un vero e proprio processo di mummificazione, non risultando il corpo disidratato, né essendo stata a r c h e o 73
STORIA • MUMMIE ROMANE
indossati dalla defunta: una coppia di orecchini d’oro a cerchietto, una piccola collana d’oro con zaffiri e un anello inciso recante una figura di vittoria alata con palma e corona. Degli oggetti del corredo furono recuperati alcuni vasetti d’ambra e una bambola in avorio, dalle articolazioni mobili, simile a quella piú famosa di Crepereia Tryphaena rinvenuta da Rodolfo Lanciani nel 1889 durante i lavori di fondazione del Palazzo di Giustizia di Roma. L’analisi del sarcofago e del corredo ha permesso di collocare la sepoltura in età antonina, fra il 160 e il 180 d.C. Oggi la mummia, insieme ai gioielli e al corredo, è conservata presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
L’IPOGEO DELLE GHIRLANDE Di un altro eccezionale ritrovamento fu teatro, nel 2000, la località ad Decimum, poco a sud di Roma, nel Comune di Grottaferrata. Qui, scavi per la rimozione di un traliccio portarono alla casuale scoperta di un ipogeo, che sarà poi denominato «Ipogeo delle ghirlande», composto da un dromos e da una cella sepolcrale. All’interno della camera, il cui ingresso era ancora sigillato, furono rinvenuti due sarcofagi marmorei, le cui epigrafi permisero di identificarne i proprietari, Aebutia Quarta e Titus Carvilius Gemellus. Lo stato di conservazione dei corpi indicava chiaramente l’impiego di procedimenti imbalsamatori, confermato in seguito dall’individuazione di tracce di mirra e di colofonia. Di Ebuzia, purtroppo, rimaneva solo lo scheletro, probabilmente per In questa pagina, dall’alto: l’ingresso della tomba di Aebutia Quarta, scoperta nel 2000 in località ad Decimum, poco a sud di Roma, nel Comune di Grottaferrata; l’interno della camera sepolcrale, con i sarcofagi della donna e di Titus Carvilius Gemellus. 74 a r c h e o
QUANDO SI DICE «MUMMIFICAZIONE»... I termini «mummificare» e «imbalsamare» sono diventati per noi sinonimi, ma in realtà indicano due distinti processi di conservazione del corpo del defunto. Nel primo dei due, il cadavere veniva eviscerato, con la possibile asportazione anche del cervello, disidratato, attraverso l’utilizzo di sali, e infine bendato. È questo il procedimento canonico adoperato in Egitto per la sepoltura dei sovrani, dei membri della famiglia reale e dei personaggi di alto rango. Come ricordano Erodoto e altri autori classici, quali Diodoro Siculo e Porfirio, questo processo nel tempo subí variazioni e, essendo il piú costoso, in età greco-romana era spesso sostituito da procedimenti piú semplici che si limitavano all’asportazione delle viscere tramite l’inserimento di olio di cedro o anche alla sola purificazione delle stesse senza estrarle dal corpo. In quest’ultimo caso si può parlare piú propriamente di imbalsamazione, essendo questa tecnica tesa a preservare lo stato della salma lasciandola intatta e affidando la sua conservazione solo all’utilizzo di resine e di erbe con proprietà antisettiche.
il fatto che il coperchio del sarcofago era stato danneggiato al momento della sepoltura. La defunta era coperta da centinaia di piccole ghirlande, composte da fiori di rosa, viola e giglio. Il corpo doveva essere stato avvolto da un tessuto in seta e, forse, da una veste in cotone dei quali rimanevano solo tracce; mentre abbastanza ben conservata appariva l’eccezionale parrucca, realizzata con capelli umani, crini animali e
Immagini di mummie egizie tratte dall’opera di Athanasius Kircher Oedipus Aegyptiacus, edita in tre volumi fra il 1652 e il 1654.
fibre vegetali, intessuta con una sottilissima reticella in oro. Gli ornamenti della defunta erano costituiti da un solo anello in oro che presentava la particolarità di recare un ritratto al vero, finemente realizzato in microrilievo, al quale era sovrapposto un castone in cristallo di rocca lavorato a cabochon. Il personaggio raffigurato nell’anello sarebbe da identificare con lo stesso Carvilio, figlio di
Ebuzia e scomparso prematuramente all’età di 18 anni e 3 mesi, secondo quanto riportato nel suo epitaffio. Il corpo del giovane era in migliore stato di conservazione e ricoperto, anch’esso, dai resti di un sudario e da uno strato di fiori. Le radiografie hanno evidenziato la frattura di uno dei femori; a questo trauma potrebbe essere ricondotta la causa del decesso. Se il personaggio del ritratto fosse effettivamente a r c h e o 75
STORIA • MUMMIE ROMANE
Carvilio, sarebbe logico pensare che Ebuzia sia morta successivamente. Fu, infatti, la figlia Antestia Balbina, nata da un altro matrimonio, a occuparsi della sua sepoltura, avvenuta in età flavia (69-96 d.C.).
UN’ESCLUSIVA DELL’ARISTOCRAZIA Quelli citati sono solo alcuni dei piú conosciuti ritrovamenti di corpi mummificati, ma decine di altri casi sono noti per l’Urbe e per altre località del mondo romano, considerando anche quelli per i quali sono solo le fonti documentarie a suggerire l’adozione di tale pratica funeraria. Ma chi erano queste persone e perché sarebbe stato scelto di riservare loro questo trattamento post mortem? Indubbiamente la ricchezza degli ornamenti personali e dei corredi recuperati all’interno delle sepolture, alcuni dei quali di eccezionale valore, come l’anello raffigurante Carvilio, testimonia la loro elevata posizione sociale. Nel caso di Ebuzia, l’appartenenza alla classe aristocratica è documentata dall’epigrafe funeraria che attesta il legame con gli Antestii, antica famiglia imparentata con il senatore Lucius Funisulanus Vettonianus, morto nel 94 d.C. e sepolto nella stessa località di ad Decimum. Qui, come anche negli altri luoghi citati del suburbio romano, sorgevano infatti sontuose ville patrizie i cui proprietari hanno lasciato traccia di sé negli imponenti sepolcri che si affacciavano a poca distanza dai principali percorsi viari. L’usanza di preservare il corpo dopo la morte tramite l’imbalsamazione non può essere considerata, come ricorda Tacito, conforme al costume romano; è, quindi, opinione comune che questa scelta sia da ricollegare ai rapporti con i culti egizi che si propagarono a Roma almeno dalla fine dell’età repubblicana. In effetti, l’adesione alla religione isiaca da parte delle élites locali trova conferma dalle fonti e anche da 76 a r c h e o
Severi, furono gli stessi imperatori a promuovere la religione egizia. Le fonti epigrafiche e le altre testimonianze archeologiche indicano come in età tardo-antica l’aristocrazia romana avesse abbracciato un pluralismo religioso, all’interno del quale la devozione alle divinità tradizionali era spesso affiancata a culti misterici di origine orientale.
In alto: la ricostruzione dell’Iseo del Campo Marzio, a Roma, proposta da Athanasius Kircher nell’opera Obelisci Aegyptiaci, Nuper Inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica. Roma 1666. Nella pagina accanto: statua marmorea della dea Iside. Età adrianea (117-138 d.C.). Roma, Musei Capitolini.
vari ritrovamenti, alcuni dei quali sicuramente riferibili ai sacra privata, ovvero le pratiche religiose private svolte all’interno di spazi specificatamente adibiti nelle abitazioni, domus o ville, o in strutture esterne. Alle prime manifestazioni della presenza del culto isiaco a Roma deve essere, appunto, ricondotta l’edificazione di un santuario privato, il cosiddetto «Iseo Metelli-
no», fatto costruire probabilmente tra il 72 e il 64 a.C. da Quintus Caecilius Metellus Pius. La diffusione dei culti egizi a Roma ebbe impulso dopo la conquista dell’Egitto e si intensificò in età imperiale. A partire dalla dinastia flavia, a cui si deve la ricostruzione del piú grande tempio dedicato a Iside e Serapide, quello del Campo Marzio, poi con Adriano e con i
DA MUCO A CENERE Non è forse, quindi, casuale che il maggior numero dei corpi imbalsamati rinvenuti sia databile fra la seconda metà del II e il IV secolo d.C., periodo in cui la religione egizia era ormai pienamente integrata nella società romana. D’altro canto, deve essere ricordato che dal II secolo d.C. si assiste al progressivo affermarsi dell’inumazione a discapito dell’incinerazione e che, quindi, diversamente da quanto affermato da Tacito, seppellire il corpo piuttosto che cremarlo finisce per divenire una pratica ordinaria, come testimonia anche Marco Aurelio nei suoi Ricordi (IV, 48): «Bisogna sempre guardare dall’alto le vicende umane come effimere e da poco: ieri muco seminale, domani mummia o cenere». Quale sia la ragione di questo cambiamento non è ancora chiaro, ma una delle ipotesi è che si debba all’influenza di correnti religiose di origine orientale, fra le quali deve essere inserita anche la religione cristiana. A riguardo, le testimonianze letterarie e quelle archeologiche hanno evidenziato come fra le prime sepolture cristiane, accanto a quelle ordinarie, ne siano state individuate alcune che suggeriscono l’uso di tecniche imbalsamatorie. Nella sua opera Roma sotterranea, edita nel 1632, Antonio Bosio, uno fra i primi studiosi di antichità cristiane, dedica uno specifico capitolo al «Rito di ungere e condire i corpi», cosí pure all’uso di «Involgere e fasciare i corpi». Secondo l’autore, l’usanza di ungere e, da come egli lascia intendere, cospargere il corpo di sostanze a r c h e o 77
STORIA • MUMMIE ROMANE
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aromatiche, sarebbe passata, tramite gli Egizi, agli Ebrei e poi ai cristiani. Forse, grazie anche a particolari condizioni climatiche, questo procedimento, accompagnato dalla fasciatura con bende impregnate di resine, avrebbe avuto il risultato di conservare i cadaveri molto a lungo. L’archeologo ed epigrafista Giovanni Battista de Rossi (1822-1894), fondatore dello studio scientifico delle antichità cristiane, visitando il complesso di Callisto intorno alla metà dell’Ottocento, ebbe modo di osservare «tre sarcofagi chiusi con i cadaveri in istato di mirabile conservazione; due involti a guisa di mummie, uno coperto d’una semplice tela stretta con fettucce intorno al corpo». Scoperte di questo tipo furono fatte anche in altre catacombe e nei cimiteri subdiali di Roma a partire dal Quattrocento, anche se in numero limitato. L’impossibilità di analizzare i corpi rinvenuti non
Nella pagina accanto: Roma. L’Iseo Metellino, cosí chiamato perché la sua costruzione fu probabilmente voluta, tra il 72 e il 64 a.C., da Quintus Caecilius Metellus Pius.
In alto: ritratto di una principessa tolemaica acconciata come Iside, da alcuni identificata con Cleopatra, dall’Iseo Metellino. Età ellenistica. Roma, Centrale Montemartini.
permette di affermare se le tecniche di conservazione utilizzate siano, in qualche caso, riconducibili a uno dei metodi descritti da Erodoto.
Indipendentemente dalle motivazioni religiose che possono aver determinato la scelta di preservare le spoglie dopo la morte, il fatto che una larga percentuale dei corpi imbalsamati rinvenuti appartenga a soggetti, spesso di sesso femminile, morti in età infantile o prematuramente, non può non lasciare spazio all’idea che il volerne preservare il corpo possa spesso essere interpretato come un’ultima manifestazione d’amore verso il defunto. Come scrive il poeta Stazio, riferendosi alla moglie di Abascanto: «Gli anni non potranno arrecare nessun danno al corpo di Priscilla, che rimarrà preservato nel tempo all’interno della sua tomba di marmo».
UNA TECNICA «SEMPLICE» È verosimile che nel mondo romano si sia diffusa prevalentemente una tecnica imbalsamatoria «semplice», del tipo descritto da Bosio, e che questa sia stata adottata sia in ambito pagano, sia in quello cristiano da esponenti di famiglie aristocratiche. Fra i casi illustrati, infatti, l’unico che trova piú stretta attinenza con le pratiche di mummificazione in uso in Egitto è quello della «mummia di Grottarossa».
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MOSTRE • ROMA
QUELL’ELEFANTE SULLA VIA
POCO MENO DI UN SECOLO FA, UN’AREA DI ROMA DALL’IMMENSO VALORE ARTISTICO E ARCHEOLOGICO VENNE SACRIFICATA PER LA COSTRUZIONE DI UNA STRADA MONUMENTALE, FUNZIONALE ALLA RETORICA DI REGIME. GLI STERRI DI UN’INTERA COLLINA FECERO SCOMPARIRE EDIFICI E GIARDINI SEICENTESCHI, INSIEME AI MAGNIFICI RESTI DI UNA DOMUS ROMANA. OGGI, UNA RAFFINATA MOSTRA ALLESTITA AI MERCATI DI TRAIANO DOCUMENTA QUELL’IMPRESA. CON ACQUERELLI, FILMATI D’EPOCA E RESTI SORPRENDENTI DI UN TESTIMONE... INVOLONTARIO di Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Isabella Damiani, Stefania Fogagnolo e Massimiliano Munzi 80 a r c h e o
DELL’IMPERO
Elefante preistorico fra sabbie marine rinvenuto per lo scavo per la via dei Colli (via dell’Impero). Impressione dal vero, 24 maggio 1932, matita e acquerello su carta di Maria Barosso. Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe.
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novant’anni dalla scoperta, sono stati restaurati i resti fossili di un esemplare di Elephas (Palaeoloxodon) antiquus trovati alla base della Velia, la collina che a Roma si estendeva tra le pendici dell’Oppio e le propaggini del Palatino, separando l’area dei Fori Imperiali dal Colosseo. L’intervento
ha costituito l’occasione per esporre un insieme di opere che gettano luce su un settore dell’area archeologica centrale di Roma interessato negli anni Trenta del Novecento da distruzioni e trasformazioni urbanistiche profonde: reperti archeologici, progetti grafici e opere d’arte, interamente provenienti dalle colle-
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Veduta della sommità della Velia, a destra della basilica di Massenzio, nel Panorama di Roma dal campanile di Santa Maria Nova di Luigi Rossini. 1827. Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe.
zioni capitoline, e in alcuni casi identificati in occasione di recenti ricerche ed esposti al pubblico per la prima volta, compongono la mostra «1932, l’elefante e il colle perduto», aperta ai Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali.
UNA STRADA «SCENOGRAFICA» Il colle della Velia venne sbancato in soli due anni, tra il 1931 e il 1932. L’intervento da un lato risolveva la necessità di collegare piazza Venezia, via Cavour e i nuovi rioni del Celio e dell’Esquilino, dall’altro consentiva la realizzazione di una strada monumentale e scenografica da piazza Venezia al Colosseo. Si trattava di una passeggiata unica al mondo, fiancheggiata dai monumenti della città antica che si anda82 a r c h e o
vano recuperando con le demolizioni del Quartiere Alessandrino, in atto dal 1924. La nuova arteria cittadina, che prese il nome di via dell’Impero (l’attuale via dei Fori Imperiali), fu inaugurata il 28 ottobre 1932 in occasione della celebrazione del decennale della Marcia su Roma, divenendo da quel momento luogo privilegiato delle parate e dei riti del regime. Il prezzo pagato dal patrimonio artistico e archeologico, a causa di questo sbancamento, fu altissimo. Si iniziò con lo smantellamento pressoché totale del giardino di Villa Rivaldi, esteso sulla sommità del colle fino alle spalle della basilica di Massenzio. Ne fu, quindi, intaccata la stratificazione archeologica, rivelatasi ricchissima
di testimonianze di epoca romana, in particolare per i resti di una domus con affreschi ben conservati e numerose statue. Articolata in quattro sezioni, la mostra illustra in un viaggio a ritroso nel tempo alcune importanti tappe di questa storia: l’intervento di sbancamento con i progetti di sistemazione architettonica e le modalità di raccolta dei materiali archeologici rinvenuti; il complesso monumentale di Villa Rivaldi, fortemente manomesso dai lavori; le testimonianze di una ricca domus rimasta in uso per lungo tempo in epoca imperiale; la scoperta dei resti dell’Elephas antiquus. In questo racconto, oltre ai reperti archeologici, progetti grafici e oggetti d’arte, vengono proposti al pubblico filmati d’epoca conservati negli archivi dell’Istituto Luce e un
ispettore della X Ripartizione Antichità e Belle Arti del Governatorato di Roma, si rivolsero al professor Gioacchino De Angelis d’Ossat. Il rinvenimento, riferito dai quotidiani, suscitò grande stupore. Lo stesso Muñoz, mentre minimizzava l’entità dei rinvenimenti archeologici, sottolineava l’importanza della scoperta paleontologica, giungendo ad affermare: «qui, sotto la collina della Velia era il giardino zoologico video con immagini dagli archivi della Sovrintendenza Capitolina, utili a illustrare i temi trattati.
UN GIARDINO ZOOLOGICO PREISTORICO Un rinvenimento inaspettato si verificò, il 20 maggio 1932, nel corso della frenetica attività di sbancamento della Velia, parte di una piú ampia operazione di rimodellamento morfologico e urbanistico del cuore dell’Urbe, finalizzata alla realizzazione della via dell’Impero. Alla base della sella veliense, allora in corso di asportazione, gli scavatori raggiunsero un giacimento risalente all’epoca pleistocenica. Immersi nei sedimenti sabbiosi vennero alla luce numerosi resti paleo-faunistici, tra i quali il cranio e la zanna di un Elephas antiquus. Per la documentazione e lo studio di tali reperti Antonio Muñoz e Antonio Maria Colini, rispettivamente direttore e
della Roma preistorica». Anche Benito Mussolini ne parlò in un’intervista rilasciata a un giornalista francese: «Sapete che cosa si è ritrovato nella terra, rimuovendo il giardino dietro la basilica di Massenzio? Un mammut, uno scheletro quasi intatto; era là, nessuno l’aveva disturbato, arenato nel fango, tranquillamente, come era morto, forse 20 000 anni fa». Per Giuseppe Marchetti Longhi, l’Elephas antiquus si trasfigurava
In alto: Antonio Muñoz e Cesare Valle, Progetto del muro di contenimento del giardino di Villa Rivaldi, fotolitografia. 1932. Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe. In basso: resti dell’Elephas antiquus, inquadrati in direzione del Colosseo: è riconoscibile il livello di terreno risparmiato per sostenere la zanna.
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invece in una sorta di ideale deposito di fondazione della predestinata grandezza imperiale di Roma e, in prospettiva, dell’Italia fascista. L’archeologo, noto per lo scavo dei templi repubblicani di largo Argentina, giunse a proporre di decorare il muro realizzato da Muñoz a
sostegno di ciò che rimaneva di Villa Rivaldi con una colossale protome marmorea o bronzea di elefante primigenio, «una specie di trofeo nel salotto di un cacciatore» commenterà l’archeologo, giornalista e ambientalista Antonio Cederna (1921-1996).
Ma come fu eseguito l’intervento di recupero? Certamente in gran fretta, vista la necessità di inaugurare la via dell’Impero il 28 ottobre 1932. Lo rivelano le fonti d’archivio: nelle liste settimanali degli operai dell’impresa costruzioni Soc. An. Ing. C. Bonomi & G. Federici, per esempio, le lavorazioni riguardanti l’elefante sono registrate soltanto per i giorni 20 e 21 maggio. De Angelis d’Ossat non riuscí a celare un certo disappunto su come si erano svolte le operazioni e la fretta della rimozione comportò infatti il danneggiamento del reperto. Sbrigativamente recuperato, l’elephas venne trasportato nell’AntiA sinistra: una veduta di Villa Rivaldi (Palais de la Vigne du Cardinal Pie, proche le Colisée), incisione di Israel Silvestre. 1650. Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe.
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Il «Teatro Prospettico» di Villa Rivaldi poco prima della sua demolizione in una foto del 1932. Roma, Museo di Roma, Archivio Fotografico. Nella pagina accanto, in basso: Villa Rivaldi. Veduta del «Teatro Prospettico» del Vasanzio, acquerello su cartoncino di Odoardo Ferretti. 1932. Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe.
quarium Comunale del Celio, «dove è stato dimenticato» avrebbe poi aggiunto Cederna. Anche per saldare questo debito di conoscenza, a novant’anni dalla scoperta e non lontano dal luogo di giacitura, torniamo a raccontare la storia della perduta Velia e del suo elefante.
UN AGRUMETO CON VISTA SUL COLOSSEO Con lo sbancamento della Velia nel 1932 andò quasi del tutto perduto il giardino di Villa Rivaldi, monumentale complesso che prende nome da monsignor Ascanio Rivaldi: fu infatti grazie al lascito testamen-
tario di questo prelato che il Conservatorio delle Zitelle Mendicanti, pia istituzione per la cura delle bambine abbandonate nata verso la metà del XVII secolo, poté acquistare la villa nel 1660. La villa aveva però una storia piú antica e davvero complessa, iniziata nel 1542 quando Eurialo Silvestri, Cameriere Segreto di papa Paolo III Farnese (1534-1549) e in odore di porpora cardinalizia, acquistò un terreno dai monaci di S. Maria Nova per costruirvi una lussuosa residenza, degna di un futuro principe della Chiesa. Il terreno si estendeva proprio sulla
sommità della Velia, fino alla basilica di Massenzio, ed era articolato in terrazze da cui si godeva uno splendido panorama su Colosseo, Foro Romano e Palatino. Svaniti i sogni di carriera di Eurialo con la morte del papa nel 1549, la villa fu abbandonata per diversi anni, finché i suoi eredi, nel 1577, non la concessero vita natural durante ad Alessandro de’ Medici, arcivescovo di Firenze e poi papa – per meno di un mese – nel 1605 con il nome di Leone XI. Nel 1609 la dimora sulla Velia fu acquistata dal cardinale Lanfranco Margotti, che chiamò a lavorare nel
LO SGUARDO DEGLI ARTISTI A restituire con la propria arte gli ultimi istanti di vita del giardino di Villa Rivaldi, lo sbancamento della Velia e i conseguenti ritrovamenti archeologici (compreso quello dell’elefante!) il Governatorato di Roma chiamò, tra gli altri, Maria Barosso (1879-1960), Odoardo Ferretti (1871-1941) e Lucilio Cartocci (1879-1952). Il lavoro fu loro affidato secondo una prassi diffusa in quel periodo: si riteneva, infatti, che la pittura fosse decisamente piú
adeguata della fotografia – considerata un semplice metodo meccanico di riproduzione di immagini – a rendere con occhio d’artista la malinconia di scorci della città che sarebbero scomparsi per sempre, ad attestare il fervore dei lavori in corso e a documentare in maniera appropriata i frequenti rinvenimenti di antichità. In mostra sono esposti alcuni di questi dipinti, dallo straordinario valore artistico e documentario.
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giardino l’architetto di origine fiamminga Giovanni Vasanzio (1550-1621). A lui si deve il «Teatro Prospettico», un ninfeo a parete decorato con statue e stucchi, demolito nel 1932 e noto da fotografie e da un dipinto di Odoardo Ferretti, esposto in mostra. Nel 1626 arriva nella villa un nuovo proprietario, il cardinale Carlo Emanuele Pio di Savoia, con il quale l’intero complesso raggiunse il suo maggior splendore. Carlo Emanuele, infatti, non solo abbellí il giardino con la creazione di nuove fontane, ma lo ampliò verso il Colosseo, impiantando un magnifico agrumeto ammirato dai contemporanei, chiuso verso il monumento piú famoso di Roma da un «casino di delizie». Il nipote, cardinale Carlo Pio di Savoia, ereditò la villa nel 1641 ma, non amandola quanto lo zio, nel 1660 la vendette al Conservatorio delle Zitelle Mendicanti. In alto: il livello inferiore della zona del peristilio della domus scoperta nell’area della Velia nel rilievo di Italo Gismondi (1932), qui rielaborato per evidenziare il criptoportico (in giallo) e il ninfeo (in azzurro). Roma, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Archivio Disegni. In basso: il versante della Velia presso la basilica di Massenzio con, in primo piano, le poderose sostruzioni in conglomerato cementizio di epoca neroniana, rinvenute negli sbancamenti del 1931-1932. Roma, Museo di Roma, Archivio Fotografico.
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GLI AFFRESCHI DEL CRIPTOPORTICO NEGLI ACQUERELLI DI ODOARDO FERRETTI La riproduzione ad acquerello di Odoardo Ferretti delle pitture conservate nel criptoportico ha permesso uno studio piú approfondito delle due fasi pittoriche. In mostra sono presentati per la prima volta alcuni lacerti di affresco, conservati presso l’Antiquarium, attribuiti alla domus della Velia grazie al confronto con la documentazione grafica e fotografica. Lo schema utilizzato nella decorazione del corridoio ipogeo risulta simile in entrambi gli strati di intonaco, applicati uno sull’altro, caratterizzati dalla linearità della composizione tripartita che suddivide la parete in pannellature sovrapposte, rese su fondo bianco per meglio favorire l’illuminazione degli ambienti. Nello strato piú antico (fine I-inizi II secolo d.C.) i pannelli erano separati nella fila inferiore da colonnine in ocra con capitelli ionici e, nella parte superiore, da candelabri rossi e azzurri avvolti da tralci di edera. Nella decorazione successiva (fine II-inizi III secolo d.C.) i pannelli bordati in rosso, nella fascia mediana e superiore, si alternano in forma quadrata e ricurva. Al centro di ciascuno di essi erano figure maschili e femminili, animali, cesti di fiori, maschere, secondo un repertorio ampiamente diffuso nella pittura romana. In alto: Affresco con figura femminile, forse una menade, recuperato prima della demolizione del criptoportico e recentemente identificato. Fine del II-inizi del III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Antiquarium. A sinistra: Acquerello di Odoardo Ferretti relativo a un tratto scoperto del criptoportico. Sono visibili i due strati di intonaco sovrapposti. 1932. Roma, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Archivio Disegni. a r c h e o 87
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LA SECONDA VITA DELL’ELEFANTE Il restauro dei resti dell’Elephas (Palaeoloxodon) antiquus è stato effettuato nel 2021 in occasione della mostra «La Scienza di Roma. Passato, presente e futuro di una città» (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 12 ottobre 2021-27 febbraio 2022). L’intervento, rivelatosi di notevole complessità a causa dello stato critico dei resti fossili e degli apparati di gesso, legno e mattoni che li sostenevano, è stato realizzato dal Laboratorio di Restauro del Museo
Paleontologico dell’Accademia Valdarnese del Poggio (Montevarchi, Arezzo), su progetto della Sovrintendenza Capitolina. Data la fragilità dei resti del cranio e dei relativi supporti in gesso, si è preferito mantenere la base di legno originaria, che è stata anch’essa oggetto di intervento conservativo. Il cranio, che a causa della parziale disgregazione della struttura di sostegno era collassato sul tavolato di base con numerose fratturazioni, è stato riportato alla
posizione originaria. La zanna, frammentata in sei parti, è stata ricomposta per una lunghezza di quasi 2 m, ricongiungendo tra loro cinque porzioni; per il sesto frammento è stato possibile individuare la provenienza all’interno dell’alveo mascellare, dove è stato ricollocato. Tra quest’ultimo e il resto della difesa non sono stati identificati punti di contatto, cosicché il blocco con il cranio e l’alveo mascellare è stato montato su una base separata rispetto alla zanna.
Demolizioni per l’apertura di via dell’Impero con i resti dell’elefante preistorico, olio su cartone di Odoardo Ferretti. 1932. Roma, Museo di Roma.
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In alto: base in gesso ricostruita e stuccature applicate nelle giunzioni tra la difesa e l’alveo mascellare dell’Elephas antiquus. Roma, Musei Capitolini, Antiquarium. A sinistra: resti fossili comprendenti parte del cranio e la zanna sinistra di Elephas (Palaeoloxodon) antiquus. Pleistocene medio. Roma, Musei Capitolini, Antiquarium.
Il complesso iniziò dunque la trasformazione da prestigiosa residenza a sede di un istituto femminile: il palazzo fu adattato ad accogliere le giovani ospiti insieme al personale di servizio, in alcuni ambienti fu installata una fabbrica di lana e filati, mentre il giardino venne adibito a orto e a vivaio. Della villa, inutilizzata dagli anni Ottanta del secolo scorso, oggi rimangono il palazzo, ad angolo tra via del Colosseo e via della Pace, e una piccola parte di quel giardino tanto amato dai cardinali che avevano deciso di abitare sulla Velia.
LA GRANDE DOMUS Frequentata fin dall’epoca arcaica, la collina della Velia si caratterizzò sin dall’età repubblicana per un’occupazione soprattutto di tipo residenziale, con l’impianto di ricche domus. Con Nerone la collina fu inglobata nei piani architettonicomonumentali, mai conclusi, della nuova residenza imperiale e che diedero l’avvio a interventi di progressiva riduzione e obliterazione delle pendici collinari. Durante i lavori di sbancamento degli anni 1931-1932, nella zona tra la basilica di Massenzio e il Pio Istituto Rivaldi fu intercettata parte di a r c h e o 89
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una domus forse risalente alla metà del I secolo d.C., con ampliamenti dell’inizio del II secolo. I considerevoli resti, dopo una rapida documentazione, vennero completamenti distrutti. La domus fu sacrificata alla necessità del tracciato lineare di via dell’Impero; il suo rinvenimento 90 a r c h e o
rimase avvolto da un’insolita assenza di risonanza pubblica rispetto ad altre scoperte archeologiche effettuate durante il taglio della collina. Il settore della villa messo in luce e distrutto durante i lavori apparteneva alla zona del peristilio. Articolato su due livelli, con un criptoportico
in origine a quattro bracci, presentava ancora parte della decorazione affrescata e un ninfeo sul lato corto orientale. Al di sopra, quasi a livello della sommità della collina, si impostava un cortile porticato delimitante uno spazio aperto, forse un giardino. Parte del criptoportico era già
Stratificazione geologica. Durante i lavori per via dell’Impero, matita e acquerello su carta di Maria Barosso. 1932. Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe.
del II e III secolo) venuti in luce nell’area a partire dal XVII-XVIII secolo. La lunga occupazione della dimora è testimoniata dal rifacimento dell’apparato pittorico del corridoio ipogeo tra la fine del II e l’inizio del III secolo e da strutture attribuite a epoca tardo-antica. Agli inizi del IV secolo la costruzione della basilica di Massenzio causò la distruzione del lato occidentale del criptoportico, determinando soprattutto in questo settore interventi di trasformazione della domus, che mantenne comunque la sua funzione residenziale. Il ritrovamento, nel XVIII secolo, di basi onorarie, dedicate a personaggi di spicco della vita politica del IV secolo appartenenti alla famiglia degli Insteii, ha suggerito l’identificazione del complesso residenziale di questa fase come domus Insteiorum.
visibile nel XVI secolo, dal momento che alcuni tratti furono integrati e resi accessibili nella sistemazione della Villa Rivaldi. La domus doveva appartenere a proprietari di rango sociale elevato, come attestano anche i numerosi rinvenimenti scultorei (tra cui diversi ritratti imperiali
UN RICCO GIACIMENTO A ottant’anni dalla chiusura dell’Antiquarium Comunale al Celio, dove furono esposti subito dopo il rinvenimento, il cranio e la difesa (zanna) sinistra di Elephas (Palaeoloxodon) antiquus sono di nuovo tornati nella disponibilità del pubblico e degli studiosi. I resti, come già accennato, facevano parte di un ricco giacimento paleontologico – posto in corrispondenza del punto di congiungimento tra la basilica di Massenzio e il tempio di Venere e Roma – che comprendeva resti pertinenti a piú esemplari di elefanti (Palaeoloxodon antiquus), a cervidi (Cervus elaphus), a bovidi (Bos primigenius) e a ippopotamo (Hippopotamus amphibius). La vasta documentazione fotografica, insieme ai dipinti di Maria Barosso e di Odoardo Ferretti esposti in mostra, danno la misura di quale interesse si fosse scatenato intorno a questo ritrovamento, ma forniscono
anche importanti informazioni sulle modalità di giacitura e di recupero del cranio e della difesa. Questi stessi dipinti, eseguiti tra maggio e agosto del 1932, costituiscono una particolare fonte documentaria che illustra sia la collocazione stratigrafica dei resti fossili, rinvenuti circa 11 metri al di sotto dello strato geologico sommitale, sia le stratificazioni geologiche della Velia. Come già accennato, l’intervento di recupero dei resti fossili fu effettuato in gran fretta per non ostacolare il proseguimento dei lavori di sterro per la realizzazione della strada, ma se ne tentò comunque un consolidamento. I restauri, eseguiti presso l’Antiquarium al Celio, non diedero però i risultati sperati, dato che non fu possibile ricomporre il cranio per intero. Successivamente alla chiusura dell’Antiquarium, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, i materiali fino a quel momento lí conservati furono trasferiti presso altri depositi della Sovrintendenza Capitolina, e i resti dell’elefante non sono stati visibili, insieme a moltissimi altri, per lunghi anni. Solo il recente restauro ne ha consentito la ricomposizione che permette di riconoscere, nei resti esposti, il reperto ritratto negli anni Trenta del secolo scorso. DOVE E QUANDO «1932, l’elefante e il colle perduto» Roma, Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 24 maggio Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel 060608; www.mercatiditraiano.it Catalogo Campisano Editore Note mostra e catalogo a cura di Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Isabella Damiani, Stefania Fogagnolo e Massimiliano Munzi a r c h e o 91
SPECIALE • STONEHENGE
NEL MONDO DI
STONEHENGE LO SPETTACOLARE CIRCOLO MEGALITICO INGLESE È UN’ICONA DELL’ARCHEOLOGIA, MA, PER QUANTO ECCEZIONALE, NON FU L’ESITO DI UN’INIZIATIVA ISOLATA. ESSO PRESE FORMA, INFATTI, NEL PIÚ AMPIO CONTESTO CULTURALE DELL’ETÀ DEL BRONZO, INSERENDOSI IN UN UNIVERSO IDEOLOGICO CHE ACCOMUNA L’INGHILTERRA ALL’EUROPA CONTINENTALE. UNA MOSTRA IN CORSO AL BRITISH MUSEUM FA IL PUNTO SULL’ARGOMENTO di Duncan Garrow e Neil Wilkin
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l circolo megalitico di Stonehenge fu costruito 4500 anni fa, all’incirca nello stesso momento in cui, in Egitto, furono realizzate la Sfinge e la Grande Piramide di Giza. In quel medesimo periodo nel Cimitero Reale di Ur (nell’odierno Iraq) venivano deposti preziosi corredi funebri, con oggetti importati da tutto il mondo allora conosciuto. Al di là delle specifiche differenze, questi tre siti, cosí distanti fra loro, hanno qualcosa in comune. Innanzi tutto la volontà e la capacità di riunire, superando spesso notevoli distanze, le persone, le materie prime, gli oggetti e le idee necessari per dare forma a creazioni che hanno conservato intatto per millenni il loro fascino e la loro forza. Monumenti del genere non sono
Il circolo megalitico di Stonehenge (Wiltshire, Inghilterra sudoccidentale). Il monumento ha avuto varie fasi di costruzione e di utilizzo, ma la forma che oggi si vede è quella conferitagli nell’età del Bronzo, intorno al 2500 a.C.
luoghi circoscritti o statici, ma affondano le proprie radici nei mutamenti del sentimento religioso, della politica e della società verificatisi all’epoca della loro realizzazione. Per cercare di svelare i misteri che tuttora custodiscono, questi siti vanno dunque collocati nel piú ampio contesto del loro tempo. William Stukeley – antiquario, erudito e tra i fondatori del British Museum – fu tra primi a muoversi in tal senso. Egli condusse vaste esplorazioni a Stonehenge negli anni Venti del Settecento, effettuando ricognizioni di superficie e annotando i suoi ritrovamenti in taccuini, schizzi, disegni e opere a stampa. Stabilí che il monumento si trova al centro di un paesaggio articolato, comprendente molti elementi rilevanti: la Stonehenge
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SPECIALE • STONEHENGE
Avenue, che provava le funzioni religiose e cerimoniali del sito, nonché un grande cursus, parola latina che indica, letteralmente, un ippodromo e che, in questo caso, fu scelta per definire un allineamento di megaliti.
INTUIZIONI CORRETTE E NON Stukeley fu uno dei primi studiosi moderni a scoprire gli allineamenti astronomici seguiti nell’architettura di Stonehenge, una circostanza di cui intuí l’importanza ai fini dell’interpretazione del sito e della sua datazione. Al tempo stesso, però, contribuí ad alimentare il mito secondo il quale i circoli megalitici britannici sarebbero stati opera dei druidi. Se, dunque, ebbe ragione nell’affermare che simili monumenti avevano preceduto l’invasione romana, si sbagliò di alcune migliaia d’anni nell’attribuirne la realizzazione ai sacedtori celtici. Negli ultimi decenni, la conoscenza del A destra: cartina della contea dello Wiltshire. Le ricerche a tutt’oggi condotte hanno dimostrato che nel territorio di Stonehenge vi sono molte altre presenze archeologiche, fra le quali si segnalano numerosi tumuli funerari. In basso: un particolare della mostra attualmente in corso al British Museum.
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Cricklade Malmesbury
Swindon
Sherston Londra Chippenham Calne Corsnam
Marlborough
Lacock
Bath
Melksham Bradford-on Winsley -Avon Devizes Stourhead Trowbridge Beckington Westbury Frome
Warminster
Pewsey
Shrewton
Stonehenge
Stapleford Hanging Langford Mere
Hindon
Ludgershall
Dinton
Netheravon Amesbury Cholderton
Woodford Valley Wilton
Salisbury
Laverstock Burcombe Sutton Mandeville Britford Whiteparish Broad Chalke Coombe Bissett Redlynch Woodfalls Landford Handley
contesto archeologico di Stonehenge si è considerevolmente arricchita. Gli scavi condotti dallo Stonehenge Riverside Project fra il 2003 e il 2009 hanno precisato i rapporti cronologici, fisici e simbolici fra i molteplici monumenti esistenti nel piú ampio paesaggio della zona. E, grazie a queste ricerche, è stato anche individuato un circolo di pietre finora sconosciuto vicino alle rive dell’Avon, ribattezzato Bluestonehenge. Una seconda e piú recente ricerca, l’Hidden Landscape Project, ha fatto ricor-
Placca appartenente a un cinturone femminile in bronzo, riccamente decorata con motivi a spirale, da Langstrup (Danimarca). 1400 a.C. circa. Copenaghen, Museo Nazionale.
so a prospezioni archeologiche geofisiche per indagare sotto la superficie una vasta porzione del terreno circostante Stonehenge senza dover ricorrere a interventi di scavo. Queste indagini hanno permesso di localizzare numerosi siti non altrimenti visibili, aggiungendo un nuovo tassello alla nostra conoscenza di un ambiente complesso e densamente frequentato. Studi recenti sulla datazione di Stonehenge e dei monumenti a esso legati hanno permesso di definire una cronoa r c h e o 95
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logia del circolo megalitico e della sua complessa sequenza di fasi d’utilizzo. Come hanno osservato gli archeologi John Barrette e Michael Boyd, «la sequenza costruttiva [di Stonehenge] non ha molto significato dal punto di vista storico se non si comprende il tipo di mondo nel quale ebbe a svilupparsi». Per loro, la sfida non consiste nello spiegare il significato di Stonehenge, ma piuttosto nel chiedersi quale ambito culturale potrebbe, e certamente volle, aver deciso di costruire un monumento del genere. In altre parole, per trovare una soluzione ai molti enigmi che tuttora avvolgono Stonehenge è indispensabile esplorare il piú vasto universo nel quale prese forma. Un simile approccio può essere ulteriormente esteso, prendendo in considerazione i monumenti coevi e simili noti in Gran Bretagna, Irlanda ed Europa nord-occidentale. Gli esempi so-
no numerosi e non includono unicamente circoli megalitici – come quelli nel Peak District, nelle isole Orcadi o nell’Aberdeenshire –, ma anche monumenti sepolcrali della stessa epoca, soprattutto le spettacolari tombe a corridoio attestate ai margini del versante atlantico. Al di là della Manica, risultano particolarmente significativi i monumenti della Bretagna, fra i quali spiccano gli allineamenti della zona di Carnac, molti dei quali precedono Stonehenge di alcuni secoli. Questi contesti sono la prova di come molte delle innovazioni sperimentate a Stonehenge furono portate in Inghilterra e in Irlanda dall’Europa continentale. L’orizzonte cronologico in cui la vicenda si colloca è molto ampio: dai circa 12 000 ai circa 3000 anni da oggi. E si deve anche considerare che
Piú approfondiamo la conoscenza di Stonehenge e piú ci rendiamo conto di quanto fosse straordinario già all’epoca in cui fu costruito. Il suo significato, e le sue origini, non ci parlano soltanto della piana di Salisbury, né del Wessex, né dell’Inghilterra meridionale. È una creazione delle isole, di generazioni di un popolo (…) È un memoriale che definisce un’era della cultura e della storia britannica. È un’identità di 2500 anni, una rovina che domina su miglia e miglia di vite sepolte che ora vengono portate alla luce come mai prima d’ora. (Mike Pitts, 2019) 96 a r c h e o
In alto: un altro particolare dell’allestimento dell’esposizione londinese, il cui obiettivo è quello di documentare il contesto culturale nel quale fu costruito il circolo megalitico di Stonehenge. Nella pagina accanto: ascia levigata fabbricata con giadeitite originaria delle Alpi italiane, dalla Scozia. 4500-3500 a.C. Edimburgo, National Museum.
nei 1500 anni in cui l’attività a Stonehenge fu piú intensa, fra 5000 e 3500 anni fa, operarono circa cento generazioni. A quell’epoca, in Inghilterra e in Irlanda l’uso della scrittura era sconosciuto e dunque le uniche fonti per noi disponibili sono gli oggetti, i monumenti e i dati che la ricerca archeologica può restituire. La possibilità di ricostruire in maniera coerente la storia di un numero cosí consistente di persone deriva dal succedersi di società capaci di tramandarsi modi di vita, tecniche e idee tipici dei cacciatori-raccoglitori prima e delle comunità agricole poi, nonché oggetti a cui, di generazione in generazione, veniva attribuito un valore particolare. In assenza della scrittura, le nozioni venivano trasmesse in via piú diretta e, verosimilmente, in una dimensione piú intima, che poteva con ogni probabilità ricorrere alla rappresentazione e alla narrazione. Società che potrebbero sembrare materialmente povere e prive di testimonianze scritte possono avere tradizioni orali ricche, consapevoli della propria storia e delle proprie origini,
e possedere un altrettanto ricco bagaglio di storie, poesie, aforismi, leggi e credenze religiose. Esplorare il mondo di Stonehenge equivale quindi a descrivere periodi segnati da trasformazioni straordinarie, dall’interconnessione, da una notevole stabilità e da tradizioni consolidate e durature.
L’IMPORTANZA (RELATIVA) DELLE CLASSIFICAZIONI Le fasi interessate dal fenomeno sono tradizionalmente note come Mesolitico (12 000-6000 anni fa circa), Neolitico (6000-4500 anni fa circa) ed età del Bronzo (4500-2800 anni fa circa). Termini che per i curatori dei musei e per gli archeologi possono rivelarsi un’utile scorciatoia per etichettare e raggruppare insiemi di caratteristiche sociali non sempre coerenti fra loro. E dietro queste definizioni può celarsi un grado elevato di complessità, sovrapposizione e variabilità nel tempo e nello spazio. Tale dato emerge con particolare evidenza se esaminiamo il panorama culturale a livello europeo. L’utilizzo dei metalli ebbe inizio nel continente con un mia r c h e o 97
Cosí grande! Cosí meraviglioso! Cosí incomprensibile! (Sir Richard Colt Hoare, 1812) gliaio d’anni d’anticipo rispetto all’Inghilterra o all’Irlanda. Ecco perché, nel caso di Stonehenge e del suo mondo, è sembrato preferibile evitare le suddette classificazioni, privilegiando la spiegazione dei contesti in cui le varie realtà esaminate vissero la propria vita. Lo stesso Stonehenge può costituire un utile percorso e un punto di riferimento per analizzare la cronologia dell’antico universo a cui appartenne.
IL RITORNO DEI CACCIATORI Intorno ai 15 000 anni da oggi, alla fine dell’ultima glaciazione, il clima si fece piú caldo e il paesaggio britannico ridivenne abitabile, favorendo il ritorno dei cacciatori, che si spinsero fino in Irlanda intorno ai 12 000 anni fa. Già a questa data alcuni siti vennero fisicamente contrassegnati come luoghi speciali e sacri, e di questo fenomeno fu teatro, fra gli 98 a r c h e o
altri, il territorio destinato a veder sorgere il circolo di Stonehenge. A quell’epoca la popolazione europea aveva una consistenza relativamente limitata e l’impatto delle comunità umane sull’ambiente era minimo. La caccia e la raccolta sopperivano alle esigenze delle società e, nonostante le sfide determinate da eventi avversi – quali epidemie o disastri naturali –, i loro modelli di sussistenza si rivelarono efficaci. Questa considerazione è tutt’altro che secondaria, poiché si è spesso portati a credere che solo la pratica dell’agricoltura o la costruzione di monumenti (nonché la scrittura o la creazione delle prime città) siano sinonimi di progresso ed evoluzione. La caccia e la raccolta soddisfacevano i bisogni materiali e spirituali delle comunità umane, con un impatto ambientale alquanto limitato. L’agricoltura favorí un modus vivendi ben diverso, piú stabile e destinato ad avere un impatto sul paesaggio di lunga durata. All’epoca in cui il circolo megalitico di Stonehenge venne innalzato, 5000 anni fa, il paesaggio circostante era già un luogo ben caratterizzato. Il vicino recinto monumentale di Larkhill è la prova di come la capacità di alli-
Nella pagina accanto, in alto: la sezione della mostra nella quale sono riuniti pregiati manufatti in oro, illustrati in dettaglio nelle foto inserite a piè di pagina. Nella pagina accanto, in basso: cappa in lamina aurea da Mold (Flintshire, Galles). 1900-1600 a.C. circa. Londra, British Museum. I fori lungo i bordi dell’oggetto suggeriscono che dovesse appunto costituire una sorta di mantellina, cucita su un abito in stoffa, che non si è conservato. A sinistra: un cono d’oro rinvenuto a Schifferstadt (Germania). 1600 a.C. Spira, Historisches Museum der Pfalz. È stato ipotizzato che simili manufatti venissero utilizzati come copricapi da sacerdoti o altri addetti alla celebrazione di particolari riti.
nearsi al solstizio fosse stata acquisita già nel 3750-3650 a.C. Questa nozione potrebbe aver ispirato la costruzione del «primo» Stonehenge, utilizzando le pietre azzurre portate dal Galles occidentale, esito di un viaggio epico o di una serie di avventure che potrebbero essere state raccontate e tramandate un’infinità di volte intorno ai focolari degli accampamenti durante le missioni organizzate per recuperare quella esotica materia prima. Numerosi complessi cerimoniali aventi le stesse caratteristiche sono attestati nello stesso periodo in Inghilterra e in Irlanda. Anche oggetti ben caratterizzati, motivi decorativi e manufatti artistici di questa epoca contribuirono a veicolare nuove pratiche religiose e sociali e nuove ideologie.
UN SINGOLARE PARADOSSO Nel corso del III millennio a.C. furono costruiti numerosi monumenti, che in alcuni casi consistono in circoli di pietre (se ne contano circa 1300 fra Inghilterra, Irlanda e Bretagna), ma che, altrettanto spesso, furono realizzati con legname e terra e dei quali ci sono quindi giunte solo le tracce individuate grazie agli scavi. Pochi erano gli henges, un termine coniato nei primi anni Trenta del Novecento da Thomas Kendrick, conservatore presso il British Museum, per designare monumenti cerimoniali caratterizzati da fossati e terrapieni, piuttosto che da monoliti eretti in posizione verticale. A questo proposito, per un curioso paradosso, Stonehenge, a dispetto del nome, non appartiene alla categoria degli henges cosí intesi, ma, anzi, costituiva un esempio diametralmente opposto. A riprova di come le scelte terminologiche operate per classificarli possano rivelarsi scarsamente significative rispetto al ruolo sociale e religioso svolto da questi importanti monumenti. La fase segnata dall’impiego di blocchi di sarsen (un tipo di arenaria) a Stonehenge fu ultimata intorno ai 4500 anni da oggi. Una data che segna la massima diffusione delle costruzioni monumentali in tutto il territorio bria r c h e o 99
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e alla creazione di recinti temporanei per facilitare la pratica venatoria, non avevano sviluppato il concetto della proprietà. Salvo rare eccezioni, i loro siti erano in genere accampamenti stagionali, dal momento che venivano fissati in funzione degli spostamenti degli uccelli, dei pesci o dei mammiferi marini e, nel periodo invernale, ciò poteva causare una drastica diminuzione delle risorse alimentari. Per contro, gli animali allevati e le derrate coltivate potevano appartenere a singoli individui e trasformarsi in beni NUOVE IDEOLOGIE Intorno ai 4000 anni fa, il valore simbo- identitari e ricchezze. Beni che era nelico di Stonehenge mutò radicalmente, cessario custodire e curare, evitando poiché il sito arrivò ad affermarsi come che il bestiame potesse muoversi incentro nevralgico di un sistema in cui controllato ed essere vittima di predaerano stati eretti centinaia di tumuli tori o che potesse danneggiare i raccolti. L’attenta gestione degli animali ne sepolcrali. In questo periodo, in Infaceva una risorsa alimentare dispoghilterra e in Irlanda, cresce considenibile in qualsiasi momento dell’anrevolmente il valore della morte e no e, parallelamente, la coltivazione dei corredi funebri come portatori delle piante obbligava i gruppi a di ideologie e identità. Poco piú insediarsi stabilmente in un detertardi, 3500 anni fa circa, i manufatminato luogo per un periodo proti in metallo divennero una comlungato, nel quale, dopo aver ricaponente vitale della vita economivato appezzamenti di terreno graca e sociale e, a partire da questo zie al diboscamento e allo spietramomento, le offerte di armi in mento, occorreva tenere gli uccelbronzo in luoghi naturali, nei quali lontani dai semi, attendere che li non vi erano monumenti né i cereali maturassero e poi iminsediamenti, possono essere inmagazzinare il raccolto con soterpretate come scambi simbolici luzioni capaci di preservarlo fra comunità umane e poteri sodall’umidità e dai roditori. L’imvrannaturali. Tali mutamenti ripegno richiesto era dunque flettono la crescente rilevanza considerevole, ma i benefici asdelle regioni situate a sud della sicurati in termini di risorse Piana di Salisbury e, in particoalimentari e la sedentarietà falare, di quelle che via terra e via vorirono la crescita demografiume davano accesso al mare fica e posero i presupposti per e, di conseguenza, ai metalli e un nuovo modo di relazionarai beni di pregio provenienti si con i luoghi, le altre comudal continente europeo. nità umane e gli oggetti. Quello di Stonehenge può esL’ecosistema continuò ad avesere considerato come un re un ruolo centrale: i primi mondo basato sulle connessioagricoltori misero a punto anni, che rivestirono un ruolo deche un’oculata gestione delle cisivo. Si tratta, in primo luogo, foreste, sfruttate per ricavarne il di rapporti legati al mondo nalegname. Ciononostante, le turale. I cacciatori-raccoglitori modifiche apportate al paesagtendevano a considerarsi come gio attraverso la pratica dell’auna realtà unitaria, appartenengricoltura potrebbero aver te alla natura. Sebbene potescontribuito a far diminuire la sero ricorrere a diboscamenti tannico e che può essere letta come una risposta al fenomeno dell’immigrazione dal continente europeo di gruppi con credenze religiose e conoscenze metallotecniche tali da innescare una rivoluzione sociale e culturale. Il momento del loro arrivo coincise con una crescita significativa nella scala e nelle ambizioni delle costruzioni monumentali, cosí come delle innovazioni nella cultura materiale, fra cui, appunto, le prime forme di lavorazione dei metalli.
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In un mondo che non conosceva l’inquinamento luminoso, né aveva nozioni astronomiche di tipo scientifico, la visione del cielo notturno stellato costituiva senza dubbio uno spettacolo straordinario. Nelle ore diurne, e in particolare nelle piú brevi giornate invernali, il sole dettava i ritmi quotidiani e stagioIL FASCINO DELLE STELLE Al secondo tipo di connessione si pos- nali, soprattutto per gli agricoltori che sono ascrivere i rapporti delle comunità basavano la propria sussistenza sul buon umane con il mondo ultraterreno. Già esito dei raccolti. dall’epoca di William Stukeley, il legame Intorno ai 4000 anni fa si verificò un fra Stonehenge e il cielo ha costituito cambiamento significativo: dalla couna delle ragioni principali del fascino struzione di monumenti concepiti in esercitato dal sito e, in effetti, si tratta di funzione dei corpi celesti, come il sole una questione essenziale per compren- o la luna, si passò alla produzione di dere quale fosse il suo reale significato. oggetti mobili, soprattutto in bronzo e fertilità dei suoli ed è possibile che questi nuovi scenari abbiano indotto i gruppi a passare dalla costruzione dei monumenti a pratiche che sembrano riflettere una venerazione del paesaggio nel suo insieme.
Lunula (ornamento a forma di mezzaluna) in oro, da Blessington (Irlanda). 2400-2000 a.C. circa. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in basso: pugnale in bronzo (integrato da una replica moderna dell’impugnatura) facente parte del corredo rinvenuto nel tumulo di Bush Barrow, scoperto 1 km circa a sud-ovest di Stonehenge. 1950-1600 a.C. Devizes, Wiltshire Museum.
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UN FORESTIERO ILLUSTRE Nel maggio del 2002, pochi chilometri a sud-est di Stonehenge, ad Amesbury, è stata scoperta la sepoltura di un uomo deposto con un corredo eccezionalmente ricco, ora esposto, in parte, a Londra. Spiccava, fra le altre, la presenza di una quindicina di punte di freccia, che hanno fruttato al personaggio il soprannome di «Arciere di Amesbury». Gli studi condotti sui resti dell’individuo hanno accertato la sua provenienza dall’Europa centrale e si pensa che possa essere stato l’esponente di un rango sociale elevato e che possa avere preso parte ai lavori di costruzione del circolo megalitico.
nuove ideologie, tecnologie (fra cui la metallurgia) e credenze religiose. Questa transizione non deve tuttavia essere letta come il riflesso dell’avvento di società piú marcatamente individualistiche, poiché la crescita delle diseguaglianze e il diffondersi della violenza potrebbero essere invece state determinate dall’aumento degli scambi di meoro, che davano modo di rendere omag- talli, sia in forma di prodotti finiti, sia gio al sole e al cielo con modalità che si in forma di materia prima grezza. adattavano al nuovo ordine mondiale determinato dal commercio e dallo QUALE STONEHENGE CI scambio dei metalli. MERITIAMO (O DESIDERIAMO)? È infine importante considerare le re- All’epoca della sua costruzione, ma anlazioni stabilite fra un gruppo umano e che nei secoli successivi e fino all’età l’altro e la formazione dell’identità moderna, il circolo megalitico di Stodella propria comunità e dei gruppi nehenge è stato una sorta di catalizzaparentelari. L’insorgere di nuove moda- tore e di specchio delle preoccupazioni lità è chiaramente attestato dai muta- e delle angosce delle comunità umane menti osservabili nelle pratiche funera- insediate nel suo territorio, ma non rie. Per esempio, i primi monumenti solo. Nel 1967, l’archeologa Jacquetta funerari collettivi sono attestati, in In- Hawkes scrisse che «ogni epoca ha la ghilterra e in Irlanda, intorno ai 6000 Stonehenge che si merita – o desidera». anni fa, e la loro costruzione era frutto In occasione di conferenze tenute in dell’impegno dell’intera comunità, che proposito, Hawkes mostrava diapositive vedeva rafforzata la propria coesione che provavano come il sito fosse stato da simili realizzazioni. Il successivo variamente rappresentato da generapassaggio dalle sepolture di gruppo a zioni differenti, ciascuna delle quali quelle singole, che si colloca intorno ai proiettava sul monumento le proprie 4500 anni fa, coincise con l’arrivo dal inquietudini e i propri interessi. continente di nuovi gruppi, portatori di La scrittrice Charlotte Higgins riprese 102 a r c h e o
Da sinistra, in senso orario: lame di pugnali in rame, punte di freccia e fermatrecce appartenenti al corredo funebre dell’Arciere di Amesbury. 2500-2400 a.C. Salisbury, Salisbury Museum.
In alto: la sepoltura dell’Arciere di Amesbury in corso di scavo. A destra: ricostruzione grafica del possibile aspetto dell’Arciere.
questa tesi e la sviluppò ulteriormente, ammantandola di una connotazione «psicologica» e arrivando a sostenere che «per via della sua fama, delle sue dimensioni, del suo senso di mistero e perfino della sua prominenza fisica su una delle piú importanti arterie stradali che collegano l’Inghilterra sud-occidentale a quella sud-orientale, Stonehenge ha sempre calamitato i desideri e le fantasie britannici».
MOVIMENTI DI PERSONE E DI COSE Ma quale mondo si proietta oggi su Stonehenge? Alcune risposte possono venire da quattro dei temi principali fra quelli affrontati dall’esposizione, il primo dei quali è l’importanza dei viaggi e dei movimenti di persone nel mondo di Stonehenge. È un aspetto decisivo per ricostruire le dinamiche delle migrazioni e della mobilità di
gruppi umani, oggetti e materiali, che a Stonehenge è reso particolarmente evidente dal fatto che le pietre azzurre furono trasportate sul sito dal Galles occidentale. Piú in generale, la navigazione su lunghe distanze richiedeva coraggio e la conoscenza di nozioni attinte dalla memoria e trasmesse dalla tradizione orale. Poteva altresí trattarsi di processi piú episodici, che comportavano notevoli capacità di coordinamento e cooperazione, con numerose fasi fra la movimentazione della materia prima, la creazione e lo scambio dei prodotti finiti. Un’ascia fabbricata con una pietra proveniente dalle Alpi italiane fu deposta ai bordi di una delle piú antiche trackways (sentieri costruiti con pali e assi di legno) del Somerset, datata al 3807-3806 a.C., che fu realizzata per consentire agli agricoltori della zona di spostarsi attraverso le aree paludose. L’associazione fra oggetti esotici e nuovi sistemi di comunicazione riassume dunque in maniera emblematica l’importanza dello spostamento, capace di innescare un mutamento del modus vivendi verso modelli basati sull’agricoltura. Il valore che (segue a p. 108) a r c h e o 103
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DAL CIELO AL MARE Per la mostra dedicata al mondo di Stonehenge, il British Museum ha riunito una selezione di oltre 400 oggetti, due terzi dei quali sono giunti a Londra grazie a importanti prestiti concessi non solo da altri musei inglesi e irlandesi, ma anche da Paesi quali Francia, Germania, Italia, Danimarca e Svizzera. Fra tutti, spiccano il disco di Nebra – considerato la piú antica mappa astrale del mondo – e il cosiddetto Seahenge, uno spettacolare circolo composto da pali di legno, riemerso dalle sabbie di una spiaggia del Norfolk nel 1998. La struttura, risalente all’età del Bronzo e databile intorno ai 4000 anni fa circa, è composta da un grande albero di quercia capovolto, intorno al quale sono disposti in cerchio 54 pali, lunghi anche fino a 3 m. Il
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circolo aveva uno stretto accesso, allineato al sole sorgente di mezza estate ed è opinione corrente che il monumento venisse utilizzato a scopo rituale. Del Seahenge sono esposti alcuni degli elementi principali, fra cui vari pali: il loro inserimento nella mostra serve a documentare l’esistenza di credenze religiose comuni e condivise fra le comunità del tempo, che furono espresse anche attraverso la realizzazione di numerosi monumenti in Inghilterra, Irlanda e non solo. Come ha detto Jennifer Wexler, uno dei curatori del progetto espositivo, «Se Stonehenge è uno degli esempi piú spettacolari di circolo megalitico, il Seahenge ne rappresenta l’equivalente in legno. Tuttavia, poiché la sua scoperta è avvenuta solo nel 1998, il secondo
A destra: il disco di Nebra. 1600 a.C. circa. Halle, Museo Preistorico. In basso: una sezione della mostra con strumenti e manufatti tipici dell’età di Stonehenge.
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deve ancora rivelare molti dei suoi misteri. Ne conosciamo alcuni aspetti e abbiamo, per esempio accertato, che la sua costruzione ebbe luogo fra la primavera e l’estate del 2049 a.C., utilizzando grandi tronchi di quercia. Ma ancora molto ci sfugge, compresa l’esatta funzione del circolo». Altrettanto significativa è la presenza di molti dei piú importanti reperti a tutt’oggi rinvenuti nel territorio di Stonehenge. Dal Wiltshire Museum proviene l’intero tesoro di manufatti deposto nella sepoltura nota come Bush Barrow: ne fanno parte, tra gli altri, una «losanga d’oro» considerata come il piú raffinato prodotto dell’oreficeria britannica dell’età del Bronzo (vedi foto a p. 108, in alto), che fu adagiata sul petto del capo sepolto nella tomba. Un contesto che evoca alcune delle piú ricche sepolture scoperte nella Francia settentrionale, nella Germania orientale, ma anche in Grecia, a riprova dell’esistenza di rapporti ad ampio raggio. Di grande pregio sono anche i tesori che accompagnavano 106 a r c h e o
il già citato Arciere di Amesbury, un uomo seppellito con un corredo eccezionale. Nella sua tomba è stato trovato il piú ricco insieme di oggetti dell’età del Bronzo finora scoperto in Gran Bretagna e una quarantina di essi – fra cui coltelli di rame, ornamenti aurei e utensili in selce – si offrono all’ammirazione dei visitatori della mostra (vedi foto alle pp. 102-103). Da rilevare come l’arciere fosse stato sepolto nei pressi di Stonehenge, ma provenisse da una regione che gli studiosi collocano in un’area oggi appartenente alla Svizzera o alla Germania. È stato inoltre ipotizzato che l’uomo abbia preso parte alla costruzione della fase piú monumentale del circolo megalitico.
DOVE E QUANDO «Il mondo di Stonehenge» Londra, British Museum fino al 17 luglio Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 (venerdí apertura prolungata fino alle 20,30) Info www.britishmuseum.org
Nella pagina accanto e in basso: due immagini del Seahenge, una struttura lignea affiorata dalle sabbie di una spiaggia del Norfolk nel 1998 e che, concettualmente, presenta evidenti affinità con il circolo megalitico di Stonehenge (nella foto qui accanto).
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in questo periodo gli spostamenti assumono dal punto di vista sociale e religioso appare particolarmente evidente nella costruzione di grandi monumenti che sembrano voler replicare i percorsi piú battuti, come nel caso del grande cursus di Stonehenge e della Avenue che mette in comunicazione il circolo megalitico con il fiume Avon. Il secondo punto r iguarda le metodologie scientifiche di indagine che sono in grado di aiutarci a trovare una risposta agli interrogativi e agli enigmi che da sempre avvolgono Stonehenge e il suo mondo. Nuove datazioni radiocarboniche per i monumenti e le sepolture, unitamente ai modelli matematici elaborati a partire da questi dati, hanno fornito griglie cronologiche assai piú affidabili. Oggi è possibile ricostruire con precisione le fasi di vita del monumento – costruzione, uso e abbandono – e proporre una storia del periodo con un dettaglio prima impensabile. Al contempo, le analisi scientifiche sugli isotopi e sul DNA antico gettano nuova luce sulla natura e sugli eventi della vita delle comunità umane, dalla dieta alimentare ai modelli di mobilità, lungo l’intero corso della loro esistenza. L’assenza di fonti scritte non è piú un ostacolo alla ricostruzione dei viaggi intrapresi da questi gruppi o dei cibi che consumavano e siamo in grado di stabilire se gli individui sepolti fossero originari della terra che fu la loro ultima dimora o se venissero da terre lontane. Ne è un esempio emblematico la vicenda del cosiddetto Arciere di Amesbury (vedi box alle pp. 102-103), un uomo immigrato in Inghilterra e sepolto con un ricco corredo fune108 a r c h e o
rario nei pressi di Stonehenge, l’analisi del cui DNA ha permesso di studiarne le relazioni genetiche. La possibilità di stabilire se e come singoli individui fossero tra loro legati apre orizzonti inediti e di grande respiro per comprendere quali fossero le gerarchie in un gruppo, i rapporti di parentela e quanto i corredi funerari avessero valore di cimeli e fossero espressione di una precisa identità.
In alto: «losanga» in oro, dal tumulo di Bush Barrow. 1950-1600 a.C. Devizes, Wiltshire Museum.
NUOVI STILI DI VITA Altrettanto importanti risultano gli stretti legami fra società, monumenti e artefatti. Utensili come le asce hanno favorito l’avvio delle attività rurali, mentre l’agricoltura, dal canto suo, richiese la creazione di oggetti nuovi, che portarono a significativi mutamenti degli stili di vita. Analogamente, le espressioni artistiche che si diffondono nel territorio britannico intorno ai 5000 anni fa si servono di un variegato repertorio di supporti: le ceramiche utilizzate in occasione delle cerimonie, le pietre con cui si costruivano le tombe o anche manufatti mobili. La fluidità con cui si applicano tali manifestazioni costituisce un aspetto chiave del significato sociale e religioso che il fenomeno assume in questo periodo. La costruzione dei tumuli funerari disseminati nel territorio di Stonehenge, soprattutto fra i 4000 e i 3500 anni fa, sottolinea la necessità di coniugare la valutazione del paesaggio, della monumentalità e degli oggetti al fine di comprendere in che modo questi nuovi mondi fossero stati creati a partire da resti di quelli che li avevano preceduti. Il fatto che, intorno ai 3500 anni fa, la rilevanza
di Stonehenge avesse iniziato a declinare può essere spiegato con l’aumento dell’importanza del bronzo e di nuove organizzazioni sociali che si svilupparono per effetto della crescente richiesta di metalli.
SIMBOLI DEL POTERE Occorre infine esaminare a quali artefatti e a quali siti archeologici si è dato maggior risalto nei resoconti del passato. Le maggiori attenzioni si sono concentrate sui manufatti piú rari, fabbricati con materiali preziosi, e sui monumenti che risultano essere i piú grandi, i piú raffinati o i piú spettacolari nel loro genere, soprattutto circoli megalitici e tombe a camera o a corridoio. Oggetti curiosi sono stati solitamente presentati come simboli del potere e la maggior parte di essi proviene da tombe. Senza dubbio, sono esempi eloquenti delle capacità e dell’inventiva delle classi artigianali e del successo delle società a cui appartenevano. Tuttavia, alcuni dei reperti e dei monumenti di maggior spicco sono quelli che si distinguono per il loro stato di conservazione e che offrono una connessione diretta con le comunità vissute migliaia d’anni fa, delle quali restituiscono una sorta di istantanea. Un caso emblematico è il circolo di pali lignei di Holme-next-the-Sea, nel Norfolk, che si data a 4000 anni fa e presenta una grande quercia rovesciata al centro, con le radici rivolte verso il cielo. Ribattezzato popolarmente Seahenge, questo eccezionale monumento di legno si è casualmente conservato grazie all’innalzamento del livello delle acque del mare. Alcuni secoli dopo la costruzione del Seahenge, a Dartmoor, una donna venne sepolta insieme a un ricco corredo di beni in materiale organico. In questo caso, l’eccezionalità del ritrovamento non deriva dallo stato di conservazione, reso possibile dalla natura torbosa del terreno, ma dalla scelta di
Nella pagina accanto, in basso: bronzo in forma di un essere ibrido, formato da un cavallo e un serpente accoppiati, da Kallerup (Danimarca). 1200-1000 a.C. Copenaghen, Museo Nazionale. È probabile che l’oggetto fosse la terminazione di un bastone cerimoniale. In basso: pendente solare in oro, dallo Shropshire. 1000-800 a.C. Londra, British Museum.
materiali poveri per la realizzazione del corredo: peli animali, legno, calcare e argilla. E la vita quotidiana vissuta al tempo di Stonehenge appare rappresentata con efficacia molto maggiore da umili oggetti come questi, piú che dai tesori di oggetti in oro. Simili reperti servono a ricordarci quanto poco sia giunto fino a noi di quel lontano passato e quanto facilmente si possa sottostimarne la complessità. Il progetto espositivo realizzato al British Museum ha dunque inteso porre all’attenzione del pubblico quanto di grande, spettacolare e talvolta misterioso appartenga al mondo di Stonehenge, ma, al tempo stesso, ha voluto offrire una documentazione di quanto di piccolo, commovente, intimo e personale fosse proprio di quell’universo. Un obiettivo perseguito facendo luce sulle storie, gli oggetti e le persone che si celano dietro un monumento oggi collocato ai margini dell’immaginario collettivo, ma che fu invece il cuore di un mondo lontano. Il testo di questo Speciale è tratto dal volume pubblicato in occasione della mostra «The World of Stonehenge» e compare su concessione dei Trustees of the British Museum.
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
LA CINA È VICINA LO STUDIO DEL PASSATO PUÒ SVELARE SCENARI INASPETTATI E DIMOSTRARE COME LA STESSA GLOBALIZZAZIONE ABBIA UN... CUORE ANTICO
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uò sembrare un’affermazione sorprendente, ma durante il Medioevo il nostro pianeta era davvero interconnesso e se c’è una disciplina in grado di dimostrarlo oltre ogni aspettativa, quella è proprio l’archeologia. L’ennesima riprova viene da una recente scoperta, che getta nuova luce sui rapporti tra Oriente e Occidente. Una squadra di ricercatori britannici e cinesi (Università di Durham, Inghilterra; Istituto di Archeologia di Pechino) ha riesaminato i dati di alcuni scavi, piú e meno recenti, ed è giunta a nuove conclusioni rispetto a un
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tema di cui finora si era parlato davvero poco: la presenza in Spagna di oggetti in ceramica prodotti in Cina. Si tratta di particolari tipi di ceramiche: la porcellana e il celadon. Sono produzioni molto resistenti e ricercate: la porcellana si distingue per il colore bianco, lucente, mentre il celadon è rivestito da una invetriatura verde/ blu, piuttosto opaca. Gli abili vasai cinesi producono il celadon fin dal I secolo d.C. e la porcellana non prima del VI-VII. Fino a poco tempo fa, sapevamo che questi oggetti iniziarono ad arrivare in Europa
solo a partire dal pieno Medioevo, verso il XIII-XIV secolo, ma il quadro ora cambia radicalmente: nuovi scavi, e la ricerca appena terminata da parte di questo team anglo-cinese, raccontano una storia molto diversa.
NUOVE DATAZIONI Innanzitutto, ci sono novità sostanziali sul piano delle cronologie. Ormai è appurato: molti siti scavati di recente dimostrano che queste ceramiche iniziano a comparire in Spagna già dal IX secolo. Cambia tutto, dicevo: cambia il contesto politico, economico e culturale in cui si muovono queste ceramiche. Nel IX secolo la Penisola Iberica è saldamente nelle mani dei musulmani. Ad Almería, nel Sud
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INDIA YEMEN
Sri Lanka Oceano Indiano
Le importazioni nel IX-X sec. Ceramiche cinesi Porcellana bianca
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Cartina che mostra la distribuzione delle ceramiche di produzione cinese nel IX-X sec. Nella pagina accanto: disegni e fotografie di porcellane cinesi rinvenute in Spagna: Almería (1-4), Valencia (5–6), fortezza di Cullera (7-8) e Saragozza (10a-b).
della Spagna, in strati del IX secolo sono stati trovati alcuni frammenti di porcellane bianche prodotte nel Nord della Cina; e Almería, in quel periodo, è il porto piú importante della Spagna islamica, il punto di arrivo di flussi commerciali che provengono da tutto il Mediterraneo. Ma i ritrovamenti di ceramiche cinesi non riguardano solo Almería: ne abbiamo anche a Valencia (sia porcellane che celadon), nella fortezza di Cullera (a 40 chilometri da Valencia), nel castello di Albarracin, a Saragozza. Ma di quali ceramiche si tratta? Non sono anfore, ovviamente, né altri tipi di contenitori da trasporto. Sono soprattutto coppe. Oggetti rari (alla fine i ritrovamenti non sono molti), dal gusto esotico. Alcune coppe in celadon sono molto elaborate e raffinate, con decorazioni a rilievo di altissima qualità; mentre la porcellana colpiva per il suo colore bianco
lucente, mai visto prima su oggetti di quel genere. Un frammento, in particolare, mostra un’aggiunta: un’iscrizione color oro, che recita una frase spesso dipinta sui prodotti dei vasai islamici: «Solo a Dio appartiene il potere».
SULLE TAVOLE IMBANDITE Insomma; questi oggetti erano davvero «Cose meravigliose», come disse Howard Carter appena entrato nella tomba di Tutankhamon. Status symbol, molto probabilmente, da esibire sulle tavole imbandite. Il che risulta confermato dai luoghi dei ritrovamenti: fortezze, palazzi del potere e residenze della piú alta aristocrazia musulmana. Resta da farsi una domanda: come arrivavano in Spagna questi contenitori cosí speciali, quali rotte commerciali seguivano? La prima opzione che viene in mente è – naturalmente – la Via della Seta,
attraverso l’Asia Centrale. Ma i risultati di questa indagine hanno messo a fuoco tutto un altro circuito: le coppe in porcellana e celadon lasciavano i porti della Cina e, via mare, già dal IX-X secolo passavano per India, Sri Lanka e poi per il Golfo Persico; e quindi, attraverso l’Egitto e i porti dell’Africa settentrionale, giungevano in Spagna, attesi con trepidazione dai membri delle piú potenti élites. In cambio, la Spagna riforniva il mercato cinese di tessuti, mercurio, cinabro e fichi secchi. E l’Italia? Il nostro Paese non rientrava in questo circuito commerciale, è una storia che non ci riguarda fino al XIII secolo. Nel IX secolo le aristocrazie italiane non avevano i mezzi per bere il vino nelle preziose coppe cinesi e a Roma, per esempio, dovevano accontentarsi della piú semplice (e neanche troppo bella) ceramica a vetrina pesante.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
IL SENSO DI GIOVANNI PER L’ANTICO NEL RINASCIMENTO ESPLODE UNA VERA E PROPRIA PASSIONE PER LE MONETE ROMANE. RICERCATE, STUDIATE E RIPRODOTTE IN GRAN NUMERO DA INSIGNI ARTISTI DEL CESELLO
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al Medioevo in poi, i grandi personaggi della storia romana hanno sempre costituito un modello esemplare che mirava a esaltare e legittimare le azioni e le origini ancestrali dei potenti come quelle delle città e financo delle nazioni, propagandando ascendenze talvolta fantasiose, ma sempre ricreate con grande serietà da panegiristi e letterati di corte. Nel vero e proprio boom della riscoperta dell’antico che caratterizza il Rinascimento, il mondo classico diviene un ideale da raggiungere e imitare che coinvolge tutte le sfere della cultura e dell’opera artistica. In questo contesto culturale spicca l’Università di Padova, importante centro di studio che favorí la realizzazione di numerose opere d’arte all’antica, talmente perfette da venire spesso considerate come originali. Il fascino esercitato dalla monetazione romana, che unisce al realismo dei ritratti coadiuvati dal nome del personaggio sul dritto le innumerevoli figurazioni del
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rovescio – che possono spaziare dalle immagini di divinità alle vedute a volo d’uccello realizzate con calligrafica maestria –, fa dell’oggetto moneta un «articolo» richiestissimo e alla moda.
IMITAZIONI, NON FALSI Il progredire degli studi numismatici e i ritrovamenti stessi favorirono il fiorire di una scuola medaglistica italiana ispirata direttamente alle monete antiche, soprattutto i sesterzi, che permise agli artisti dell’epoca di ricreare
esemplari praticamente perfetti. Queste medaglie, da considerarsi non come falsi, ma come volute imitazioni, erano particolarmente ricercate dai collezionisti e dalle nobili casate, e si legano strettamente alla storia del collezionismo antiquario. Spesso, inoltre, erano i personaggi piú in vista delle corti europee, compresa quella pontificia, e anche professori universitari e dotti notabili, a richiedere la creazione di pezzi con il proprio ritratto sul dritto e temi di ispirazione «romana» al rovescio,
che andavano a corroborare la ricercata ascendenza di una famiglia nobiliare da supposti avi di illustre antichità o a simboleggiare il culto del mondo classico da parte del committente. Ancora, gli incisori stessi potevano creare nuove medaglie dedicate a figure eroiche improntandole al modello classico-rinascimentale. Tra i principali artisti dell’epoca spicca l’opera di Giovanni da Cavino (1500-1570), orefice, scultore e incisore padovano che realizzò una celebre serie di monete redatte sui sesterzi imperiali, in alcuni casi di perfetta imitazione, conservate in gran numero nei
maggiori musei internazionali e note come «Padovane», da considerarsi a tutti gli effetti opere d’arte rinascimentali. La serie conobbe grandissimo successo, tanto da essere replicata nel corso dei secoli e creare difficoltà nel distinguere gli originali cinquecenteschi sia da quelli veramente romani come da quelli riprodotti in gran numero dopo la morte del da Cavino.
ARTISTA ED ERUDITO L’artista patavino, ricercato dai suoi contemporanei per i ritratti di grande bellezza che sapeva produrre, per la profonda
Sulle due pagine: medaglia in bronzo fuso di Giovanni da Cavino, Padova. Al dritto, i busti aggiogati dell’artefice e di Alessandro da Bassiano; al rovescio Cerere con libro e cornucopia, a terra una testa di suino.
conoscenza delle iconografie classiche intagliate con rara maestria e per la capacità di inventare immagini perfettamente aderenti a quelle antiche, realizzò ritratti commissionatigli da illustri personaggi insieme a riproduzioni fedeli di originali romani, altri di invenzione e altri ancora addirittura riconiati su veri sesterzi (vedi «Archeo» n. 446, aprile 2022; anche on line su issuu.com). Cultore del mondo romano, Giovanni da Cavino si avvaleva anche della collaborazione di umanisti della sua cerchia, in primis Alessandro da Bassiano, dotto antiquario e collezionista di monete padovano, che scrisse l’Interpretatio historiarum ac signorum in numismatibus excussarum excussorumne duodecim primorum Caesarum, e che, con buona probabilità, fu il nume ispiratore dei suoi conii all’antica. L’amicizia e la collaborazione tra i due è celebrata in una bella medaglia in bronzo, dove i loro profili barbuti sono aggiogati e vestiti alla romana con tunica appuntata sulla spalla, sul modello delle monete dei sovrani ellenistici (anche se in quel caso si tratta per lo piú della coppia regnante), mentre al rovescio si staglia la dea Cerere riccamente abbigliata, con cornucopia e un libro in mano, con una macabra testa di suino ai piedi, posata sulla netta linea d’esergo. La leggenda LEGIFERAE CERERI celebra la divinità nella sua veste di legislatrice (Thesmophóras, «che dà leggi»), epiteto riferito alla funzione «civilizzatrice» di Demetra-Cerere, avendo la dea sottratto gli esseri umani alla barbarie insegnando loro la cerealicoltura e rendendoli cosí partecipi del vivere civile, che nel mondo greco era strettamente legato all’attività agricola.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Iames Tirabassi, William Formella, Mauro Cremaschi (a cura di)
LA TANA DELLA MUSSINA DI BORZANO Dallo scavo pioneristico dell’Ottocento agli studi scientifici del Ventunesimo secolo FSRER Editore, Bologna, 440 pp., ill. col. e b/n s.i.p. ISBN 978-88-943271-7-5 https://sabapbo. beniculturali.it
ipotizzare che la cavità fosse stata teatro di riti piuttosto macabri, se non, addirittura, della pratica del cannibalismo. Da queste premesse è nato il riesame del contesto, ora pubblicato, con il quale si è voluto, innanzi tutto, riorganizzare e sistematizzare i reperti e i dati di scavo. Ne sono scaturite indicazioni di notevole interesse che, oltre a confermare l’inquadramento cronologico della Tana, riferibile all’età del Rame, non escludono del tutto che al suo interno si fossero effettivamente consumati atti di violenza. Anche se, solo l’eventuale ripresa delle ricerche potrebbe offrire risposte definitive e dirimenti. Giuseppe Castellana
LA SICILIA DEL TARDO BRONZO
Rinvenuta nel 1871, la Tana della Mussina è una grotta situata nel territorio di Borzano (Reggio Emilia) e fu oggetto di brevi indagini, condotte dallo scopritore del sito, don Antonio Ferretti, e poi dagli archeologi don Gaetano Chierici – uno dei padri degli studi di preistoria in Italia – e dal suo allievo Pio Mantovani. Fin da subito, l’attenzione degli studiosi venne attratta dal ritrovamento di ossa umane che presentavano segni evidenti di violenza e la circostanza indusse a 114 a r c h e o
Genti culture risorse e commerci Associazione Villaggio Letterario, Ustica (PA), 304 pp., ill. col. 29,00 euro ISBN 978-88-945489-3-8 www.villaggioletterario.it
L’età del Bronzo è unanimemente considerata l’epoca nella quale collocare le tracce storiche di molte grandi saghe dell’antichità, quali quelle legate alle genti dell’area egea o ai Popoli del Mare. La Sicilia e le Eolie costituiscono in tal senso un osservatorio privilegiato, come rivelarono le scoperte compiute, in particolare, da Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier a Lipari e nelle isole vicine. Da allora, le ricerche si sono moltiplicate, arricchendo notevolmente il bagaglio delle conoscenze e offrendo riscontri sempre piú consistenti alle ipotesi via via formulate. Di tutto questo dà conto Giuseppe Castellana, ripercorrendo quelle vicende in una trattazione che mette a confronto i dati archeologici con le notizie tramandate dalle fonti. Ne scaturisce un quadro di notevole interesse, che mostra la vivacità della realtà culturale siciliana, pienamente inserita nel piú vasto contesto del Mediterraneo antico. Giuseppe Nocca
ALIEUTICA Biodiversità ittica e Pesca ecosostenibile nel Mediterraneo antico Arbor sapientiae editore, Roma, 351 pp., ill. col. 65,00 euro ISBN 978-88-31341-63-9 www.arborsapientiae.com
Giuseppe Nocca aggiunge un tassello all’indagine
sulla nutrizione nel mondo antico che da tempo conduce, ricostruendo quadri di notevole interesse, soprattutto perché frutto della sapiente integrazione fra dati archeologici, fonti scritte e riscontri scientifici. In questo nuovo volume l’obiettivo è puntato su un aspetto di straordinaria importanza nella storia delle antiche civiltà mediterranee, vale a dire la pesca. Per farlo, sceglie di imperniare la sua trattazione sugli Alieutica (L’arte della pesca) di Oppiano, poema in cinque libri, dedicato al mondo marino, che il suo autore compose nel II secolo d.C., dedicandola a Marco Aurelio e, probabilmente, anche al figlio Commodo. Dell’opera viene fornito il testo originale greco, con traduzione a fronte, intorno al quale si sviluppa l’ampio apparato di schede e commenti, attraverso i quali emerge l’eccezionale valore documentario dei suoi 3500 esametri. (a cura di Stefano Mammini)