Archeo n. 448, Giugno 2022

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ORO DEGLI ANGLOSASSONI

GIUGNO 217 A.C.

ANNIBALE

MUSEO DI FELTRE

CONTRO ROMA

TARQUINIA ROMANA

SPECIALE BATTAGLIA DEL TRASIMENO

Mens. Anno XXXV n. 448 giugno 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

G.B. DE ROSSI

LA VERA STORIA DI UNA BATTAGLIA EPOCALE

SCOPERTE

L’ORO DEGLI ANGLOSASSONI ROMA

G.B. DE ROSSI E L’INVENZIONE DELL’ARCHEOLOGIA CRISTIANA

FELTRE

IL NUOVO MUSEO MULTIMEDIALE TARQUINIA

INDAGINI NELLA CITTÀ ROMANA

www.archeo.it

2022

IN EDICOLA IL 10 GIUGNO 2022

o. i t

TR SP AS ECI IM ALE ww EN w. a rc O he

ARCHEO 448 GIUGNO

€ 6,50



EDITORIALE

CIGNI NERI Immagino che molti di voi abbiano seguito – dapprima con apprensione e poi, man mano, con rassegnato sconforto – l’andamento delle vicende sui campi di battaglia dell’Ucraina, trasmesse dalle onnipresenti cartine che, a ritmo quotidiano, ci aggiornano su spostamenti di truppe, attacchi e bombardamenti, controffensive e corridoi umanitari. Sono diventate parte di quella «nuova normalità», alla quale, secondo la raccomandazione di economisti, analisti finanziari e sociologi, ci troviamo chiamati a rispondere facendo ricorso a un altro concetto-chiave, la «resilienza», neologismo solo in apparenza poiché mutuato dall’uso in campo medico (fu utilizzato per la prima volta negli anni Cinquanta/Sessanta, nell’ambito degli studi psicopatologici applicati alla schizofrenia infantile) e antropologico (fu introdotto dall’antropologo Roy A. Rappaport in un suo celebre studio sull’equilibrio socio-economico nelle società tribali delle isole Papua). Tornando alle cartine da cui siamo partiti, può confortarci la consapevolezza che, almeno sul piano della ricostruzione storica, esse ci permetteranno di raccontare – suffragate dalle riprese satellitari – il quotidiano andamento delle vicende belliche con una precisione inconfutabile, mai prima resa possibile. Molto diversamente da quanto accade allo storico del mondo antico, costretto a doversi accontentare delle testimonianze degli autori, piú o meno coevi agli avvenimenti indagati (con l’inevitabile componente «propagandistica» che sempre ne condiziona la stesura), e, nella migliore delle ipotesi, di qualche raro indizio emerso dalle indagini archeologiche. Un esempio eminente è rappresentato dal «caso Trasimeno», a cui è dedicato lo speciale di questo numero. La battaglia svoltasi tra Romani e Cartaginesi sulle rive del lago umbro nel giugno del 217 a.C. e la figura stessa del suo protagonista piú illustre, Annibale, sono stati, per decenni, al centro della ricerca dell’autore Giovanni Brizzi, professore emerito di storia romana all’Università di Bologna e nostro collaboratore (si veda L’Aquila e la Menorah, «Archeo» n. 373, marzo 2016; anche on line su issuu.com). Alla nuova ricostruzione di quell’evento catastrofico (per Roma) hanno concorso la rilettura delle fonti antiche, l’analisi critica della storiografia recente, una capillare «rivisitazione» geostorica e geofisica del lago e del suo litorale. Conoscere, oggi, lo svolgimento di quella battaglia (e della quale, curiosamente, nessuna fonte cartaginese sembra aver riferito) ci aiuta a comprendere meglio la nostra cronaca di guerra quotidiana e, forse, a sopportarne l’insopportabile? Suggerirei, in ogni caso, di intraprendere un viaggio sulle sponde di quel lago fatale. La sua imperturbabile e rassicurante bellezza – quella sí – potrebbe corroborare le nostre riserve di resilienza. In vista dei prossimi «cigni neri» della storia… Andreas M. Steiner Giugno 217 a.C.: la decapitazione di Caio Flaminio nel corso della battaglia del Trasimeno, in una tavola ricostruttiva di Giovanni Maisto.


SOMMARIO EDITORIALE

Cigni neri

3

A TUTTO CAMPO Tutta la forza del classico

PROTAGONISTI 26

di Andreas M. Steiner

di Mara Sternini

Attualità

INCONTRI Un arco per il consenso di tutti 30

NOTIZIARIO

6

SCAVI Ritorno a Priniàs

6

ARCHEOFILATELIA Annibale contro Roma di Luciano Calenda

PASSEGGIATE NEL PArCo Il mistero dei pozzetti «augurali» 12

MOSTRE

di Ivana Montali

di Andrea Augenti

32

I signori degli anelli 38

Tarquinia dopo gli Etruschi

76

di Attilio Mastrocinque

16

MUSEI

Tesori da una «Venezia di montagna» 56 di Giuseppe M. Della Fina

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2022

w.a rc

o. it

TR SP AS ECIA IM LE EN O he

ARCHEO 448 GIUGNO

€ 6,50

www.archeo.it

MUSEI L’impero dei marmi 20 IN DIRETTA DA VULCI Vulci caput mundi 22

38

IN EDICOLA IL 10 GIUGNO 2022

18

di Alberto Tulli

di Carlo Casi

66 SCAVI

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di Giampiero Galasso

RESTAURI Con la testa sul collo FRONTE DEL PORTO Un secolo di applausi

66

di Massimiliano Ghilardi

di Giampiero Galasso

di Giampiero Galasso

SCAVI Il duro lavoro dei campi

Quei «sogni» di un ragazzo prodigio

76

In copertina busto in marmo bianco del cosiddetto Annibale. Seconda metà del XVI sec. Roma, Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica.

Presidente

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

SPECIALE BATTAGLIA DEL TRASIMENO

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

TARQUINIA ROMANA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

ANNIBALE

Comitato Scientifico Internazionale

CONTRO ROMA LA VERA STORIA DI UNA BATTAGLIA EPOCALE

Mens. Anno XXXV n. 448 giugno 2022 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

G.B. DE ROSSI

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

GIUGNO 217 A.C.

MUSEO DI FELTRE

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Federico Curti

ORO DEGLI ANGLOSASSONI

Anno XXXVIII, n. 448 - giugno 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

SCOPERTE

L’ORO DEGLI ANGLOSASSONI ROMA

G.B. DE ROSSI E L’INVENZIONE DELL’ARCHEOLOGIA CRISTIANA

arc448_Cop.indd 1

FELTRE

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

IL NUOVO MUSEO MULTIMEDIALE TARQUINIA

INDAGINI NELLA CITTÀ ROMANA

27/05/22 16:45

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Giovanni Brizzi è professore emerito dell’Alma mater Studiorum dell’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è giornalista. Ermanno Gambini è responsabile tecnico del progetto ALLI-Atlante Linguistico dei Laghi Italiani dell’Università degli Studi di Perugia. Massimiliano Ghilardi è direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani. Attilio Mastrocinque è professore ordinario di storia romana all’Università di Verona. Ivana Montali è archeologa collaboratrice del Parco archeologico del Colosseo. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Alberto Tulli è responsabile del Servizio Valorizzazione del Parco archeologico di Ostia antica.


Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

In crociera con l’imperatore

110

di Francesca Ceci

84 SPECIALE

110 LIBRI

Battaglia del lago Trasimeno

Trappola nella nebbia 112

84

di Giovanni Brizzi ed Ermanno Gambini

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 26, 28 (alto), 30-31, 38/39, 41 (centro), 42 (alto e basso, a sinistra), 50, 52 (basso), 66/67, 72-73, 75, 78/79, 86, 88, 90-95, 103, 104-109, 110-111 – Cortesia Giovanni Maisto: pp. 3 (e pp. 96/97), 84/85 (alto), 89 (centro) – Cortesia Missione Archeologica Italiana a Priniàs: pp. 6-11 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 12-13 – Cortesia Soprintendenza ABAP Friuli-Venezia Giulia: pp. 14-15 – Cortesia Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma: p. 16 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: p. 19; Danilo D’Auria: p. 18 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 20 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 22-23 – Cortesia Moncler: p. 28 (basso) – National Trust Images: Robin Pattinson: pp. 40 (alto), 41 (alto), 45 (alto), 47 (basso, a sinistra) – Shutterstock: pp. 40/41, 42 (basso, a destra), 62-63, 84/85 (basso) – Barbican Research Associates: Chris Fern: tavole alle pp. 44, 45 (basso), 47 (alto); G. Evans, Chris Fern: p. 47 (basso, a destra); G. Speake: disegno a p. 52 – The Potteries Museum & Art Gallery, Stoke-on-Trent City Council: pp. 46, 49, 53 – Birmingham Museums Trust: p. 48 – Cortesia Studio Esseci: 56/57, 58 (basso), 59, 60-61, 64-65 – Alamy Stock Photo: pp. 68, 74 – Mondadori Portfolio: Album/Prisma: pp. 69, 71; Album/Quintlox: p. 102 (alto) – Bridgeman Images: p. 70 – Cortesia degli autori: pp. 76-77, 78 (alto), 79 (alto), 80-83, 97 (basso), 98-101, 102 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 43 – Cippigraphix: cartine alle pp. 58, 78, 87 e 89. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito https://arretrati. pressdi.it L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Creta

RITORNO A PRINIÀS

D

opo la sosta forzata imposta dalla pandemia, sono riprese le attività della Missione Archeologica Italiana a Priniàs (missione congiunta dell’ISPCCNR e dell’Università di Catania su concessione della Scuola Archeologica Italiana di Atene), diretta da Antonella Pautasso, dirigente di ricerca del CNR. Occupato stabilmente dalla fine dell’età del Bronzo ai primi decenni del VI secolo a.C., l’insediamento è ubicato su un vasto altopiano denominato Patela, che si erge a 690 m circa slm in posizione strategica al centro dell’isola di Creta, ai piedi del massiccio

montuoso dello Psiloritis. Dopo l’abbandono, il sito fu rioccupato nel tardo III secolo a.C. da una fortezza eretta sul versante orientale e probabilmente connessa alla linea difensiva della città di Cnosso. Circa 500 m a nord-ovest dell’altopiano, nella località chiamata Siderospilia, si trova una vasta necropoli che copre lo stesso arco di vita dell’abitato, cioè l’intera l’età del Ferro e l’epoca protoarcaica. Priniàs riveste un’importanza fondamentale nello studio dell’archeologia cretese post-minoica sotto diversi punti di vista: uno dei piú evidenti è

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono allo scavo condotto dalla Missione Archeologica Italiana a Priniàs (Creta). A destra: la foto, con in primo piano la punta nord dell’altopiano della Patela, mostra l’importanza strategica del sito di Priniàs, dal quale si controllava un ampio raggio di territorio. Dal lato settentrionale, la costa nord e la valle d’accesso all’interno dell’isola. In basso: una delle fosse con i cavalli nella necropoli di Siderospilia.

6 archeo


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n otiz iario

l’opportunità che il sito offre di esaminare lo sviluppo di un centro abitato nel corso dei secoli, cruciali per la formazione della pòlis greca. A ciò si aggiunge la possibilità di studiare in parallelo abitato e necropoli, circostanza non cosí frequente nei contesti archeologici: ed è proprio la necropoli che – per alcuni periodi sino a oggi poco rappresentati negli scavi dell’abitato – offre il quadro di un insediamento ricco e perfettamente

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

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A sinistra: la parte centrale dell’area scavata. Al centro, parte del piazzale; a sinistra, il grande edificio pubblico; a destra, con orientamento leggermente divergente, il tempio A.

In alto: sepoltura a incinerazione in pozzetto databile all’inizio dell’età del Ferro; il bacile bronzeo è un’importazione da Cipro.

Qui sopra: gioiello in oro dalla necropoli di Siderospilia. Sulle due pagine: il tempio A dopo il restauro conservativo.

inserito in una rete di traffici, come testimoniano i materiali di lusso (metalli, ceramiche), importati da altri siti di Creta, dalla Grecia, da Cipro e dall’Egitto. La Missione è attualmente impegnata in attività sul campo e, parallelamente in un progetto di ricerca volto alla pubblicazione

complessiva dalla grande necropoli di Siderospilia: le operazioni sul terreno hanno portato alla ripresa della fotogrammetria e si è inaugurata un’inedita campagna di indagini geofisiche, mai effettuate sulla Patela, per la conoscenza dell’estensione dell’insediamento, noto solo parzialmente, e per la

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n otiz iario

pianificazione di futuri scavi in aree ancora non esplorate. Grazie alle recenti indagini, inoltre, è stato possibile completare lo scavo sistematico di un grande edificio monumentale di età tardogeometrica (fine dell’VIII secolo a.C.), che aveva probabilmente una funzione pubblica e, nel vano di fondo, conservava un apprestamento trilitico di destinazione cultuale. Per gran

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parte del VII secolo a.C., questo edificio fu la struttura di maggior rilievo nella parte centrale dell’insediamento che si apriva su una piccola piazza, una sorta di protoagorà: quest’ultima, alla fine dello stesso secolo, diventa uno spazio funzionale al nuovo edificio di culto, il cosiddetto Tempio A, eretto in questo settore dell’area urbana, decorato da un apparato scultoreo e pertinente all’ultima

A destra: il grande edificio monumentale in corso di scavo. Al centro: le lastre con i cavalieri rinvenute agli inizi del XX secolo nell’area del tempio A e oggi esposte nel Museo Archeologico di Iraklion. In basso: l’équipe della Missione Archeologica nella campagna del 2021.


Una delle tombe a camera scavate nella roccia e completate all’interno da un sarcofago litico. fase costruttiva precedente l’abbandono del sito. Le indagini e gli studi si sono concentrate anche sull’analisi della necropoli, che negli anni ha già

restituito oltre 500 sepolture, con deposizioni rituali e resti di pire funebri. Fulcro dell’area sepolcrale è un tumulo al cui interno furono collocate le tombe piú antiche,

risalenti al momento di passaggio tra la fine dell’età del Bronzo e la prima età del Ferro, incinerazioni in pozzetto, una serie di tombe a camera scavate nella roccia di varie tipologie e dimensioni datate tra il X e il IX secolo a.C., alcuni monumenti funerari di VIII secolo a.C. e vari gruppi di incinerazioni comprese tra l’VIII e il VII secolo a.C., oltre a una ventina di sepolture di cavalli e cani che sono concentrate in una specifica area. La varietà delle tipologie tombali e dei corredi, la ricca produzione locale di ceramica, spesso figurata, la presenza di importazioni da diverse aree del Mediterraneo, concentrate soprattutto nei secoli della prima età del Ferro, rendono questa necropoli uno dei contesti piú rilevanti della Creta post-minoica. Giampiero Galasso

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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

IL MISTERO DEI POZZETTI «AUGURALI» RINVENUTE IN GRAN NUMERO DURANTE GLI SCAVI CONDOTTI NEL FORO DA GIACOMO BONI A CAVALLO TRA OTTO E NOVECENTO, LE STRUTTURE SEMBRANO ESSERE LEGATE A FUNZIONI DI ORDINE RELIGIOSO E AMMINISTRATIVO

T

ra le realtà meno conosciute del Foro Romano, perché non visibili durante la visita, figurano le opere per «irregimentare le acque» (cioè pozzi, canali, cisterne, cloache), citando il titolo di un convegno tenutosi di recente a Roma su questo argomento. Nelle indagini che l’allora direttore degli scavi, Giacomo Boni, condusse tra il 1899 e il 1901, furono individuati ed esplorati un’ottantina di pozzi nell’area compresa tra il Foro Romano e la summa Sacra Via (l’Arco di Tito). Lo stesso Boni distinse queste strutture per forma e funzione: pozzi idrici e pozzetti augurali. I primi, a loro volta, furono, e sono ancora oggi, distinti in repubblicani e medievali. Il Foro Romano nasce in una vallata che, fino all’ età regia, era attraversata da un rivo, lo Spinon, e dalla palude del Velabro, che dalle sponde del Tevere si estendeva almeno fino alle pendici del Palatino ed era alimentata nel suo tratto inferiore, Velabro Minor, dalle Lautulae, una sorgente di acque termali calde. Nell’area

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erano presenti sorgenti di acqua quali la Fonte di Giuturna e il Tullianum e, nel sottosuolo, una ricca circolazione idrica. Lo scavo dei pozzi idrici consentí di raggiungere e sfruttare la falda freatica di acqua dolce, fino a quando non vennero potenziati i grandi acquedotti cittadini, che permisero di soddisfare a pieno le esigenze della città.

RITORNO ALL’ANTICO Nel Medioevo, lo spopolamento di molti settori del centro urbano, l’ingente innalzamento dei livelli di calpestio, la dismissione di gran parte del sistema fognario e di quello di adduzione delle acque causarono, probabilmente, il ritorno all’utilizzo dei pozzi. Boni ne individuò 32 in un’area compresa tra la chiesa di S. Francesca Romana e il tempio di Antonino e Faustina: la loro esplorazione procedette, infatti, di pari passo, con lo scavo della via Sacra. Sono tutti caratterizzati da una sezione circolare e hanno dimensioni simili; quelli definiti come repubblicani

sono rivestiti con lastre di tufo che presentano le pedarole, ossia le fessure incise sulle pareti laterali per consentire una discesa e/o una risalita piú agevole. La loro profondità invece è diversa ed è legata alla quota della falda acquifera da raggiungere: i pozzi posti nella parte piú bassa della via Sacra (lungo il tempio di Antonino e Faustina e la Regia) hanno profondità comprese tra i 7 e 10 m; mentre, per esempio, lo scavo del pozzo denominato D, posto vicino alla chiesa di S. Francesca Romana, raggiunse i 24 m «senza toccarne il fondo» (come si legge nella scheda compilata da P. Picca nel maggio/giugno del 1900). Ai pozzi idrici scavati dal Boni si aggiunsero quelli individuati negli anni Venti del 900 durante le indagini della Basilica Emilia e i lavori della chiesa di S. Francesca Romana: nella pianta definitiva redatta da un anonimo autore nel 1931 ne compaiono 35. Queste scoperte, come molte altre nel Foro Romano, non vennero mai pubblicate; Boni avrebbe voluto


A destra: braciere bronzeo a forma di cofanetto trovato durante le indagini del pozzo 5 sulla via Sacra. Nella pagina accanto: pozzetti individuati di fronte alla Basilica Giulia e un tempo inseriti nel percorso di visita del Foro Romano. In basso: i pozzetti della Basilica Giulia in una foto d’archivio. dedicare alle indagini sui pozzi idrici una monografia, ma l’opera non vide mai la luce. Oggi si conservano la documentazione grafica, gli elenchi dei materiali rinvenuti in alcuni pozzi e la revisione di questi materiali, effettuata durante un’intensa campagna inventariale, promossa negli anni Cinquanta del secolo scorso dal Soprintendente Gian Filippo Carettoni e confluita in un catalogo dattiloscritto, conservato negli archivi del Parco del Colosseo.

VALENZE RITUALI Lo scavo dei pozzi ha restituito molti materiali, alcuni dei quali per qualità, selezione, quantità e stato di conservazione appaiono caratterizzati da una «valenza rituale»: sono stati interpretati come depositi di fondazione o, piú verosimilmente, di obliterazione, quando queste strutture venivano dismesse. Esisteva, infatti, nel mondo antico, una ritualità connessa agli atti che in qualche modo «violavano le acque», che alteravano, cioè, il normale ordine idrogeologico. Data la loro particolarità, alcuni di questi esemplari furono esposti nel vecchio Antiquarium forense, in una sala che ospitava anche un modello delle gallerie cesariane e altri materiali provenienti dai pozzetti augurali del Foro. Diversi per forma e dimensione rispetto ai pozzi idrici, questi pozzetti furono individuati sempre da Giacomo Boni su tre lati della piazza nel corso di varie indagini, svolte tra il 1899 e il 1904. I circa 52

pozzetti augurali, ricollegabili a diversi allineamenti, hanno forme diverse: la maggior parte sono rettangolari o quadrati, sono costruiti con blocchi di tufo, hanno una profondità compresa tra i 0,90 e 1,20 m e sono privi di pedarole. Per il loro scopritore questi piccoli pozzi, anomali e diversi per forma e posizione rispetto agli altri presenti nell’area forense, altro non erano che l’evidente riprova di una cerimonia sacra che avrebbe «consacrato» la piazza dell’Urbe come un templum in terris. Il loro reale utilizzo resta dubbio: sono stati interpretati come basamenti per «antenne» per reggere un velario in connessione con cerimonie che, secondo Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XIX, 23), Cesare aveva elargito nel Foro Romano, o è stata proposta l’idea di una loro funzione legata allo svolgimento delle assemblee popolari (comitia tributa) spostate dal Comizio al Foro nel 145 a.C. Pozzetti simili a quelli del Foro Romano si trovano in molte piazze

delle colonie: Cosa, Fregellae, Alba Fucens, Paestum, Ostia, Aquileia e Todi. Boni ipotizzò una cerimonia sacra anche per la creazione di questi pozzetti, che definí per questo motivo augurali, non solo per la loro forma e dimensione caratteristica, ma anche per la particolarità e l’abbondanza di alcuni materiali, soprattutto miniaturistici, in essi rinvenuti. Ivana Montali

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SCAVI Friuli-Venezia Giulia

IL DURO LAVORO DEI CAMPI

R

esti di un sepolcreto risalente all’Alto Medioevo sono venuti alla luce nel territorio del comune di Cordenons (Pordenone), in località Manera, grazie alla sorveglianza archeologica delle attività di sbancamento presso la cava Ghiaie Santa Fosca. Dopo l’iniziale ritrovamento di ossa riferibili a quattro inumazioni in fossa, in parte sconvolte dalle arature, l’ampliamento dell’indagine ha portato al recupero di 18 sepolture di età altomedievale. La piccola necropoli è stata intercettata nelle immediate vicinanze di una fattoria rurale di età romana, di cui sopravvive un ambiente seminterrato con pavimentazione in tegole e perimetrali in mattoni. «Tutte le tombe – spiega Serena Di Tonto, funzionario archeologo responsabile di zona – sono in semplice fossa terragna, alcune irregolarmente delimitate da grossi ciottoli. Sono per lo piú orientate sull’asse est-ovest e distribuite lungo una singola fila; mentre altre fanno rilevare un orientamento divergente e sembrano distribuite in maniera casuale. Tra i pochi

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A destra: Cordenons (Pordenone). Una delle tombe a fossa di età altomedievale venute alla luce in località Manera. In basso: resti della villa rustica nella quale si insediò la comunità altomedievale a cui sono riferibili le tombe e riportati alla luce in occasione delle indagini del 2004. A sinistra, il piano pavimentale di uno degli ambienti della residenza; a destra, veduta frontale del muro perimetrale in laterizi del medesimo ambiente.


Due degli scarsi elementi di corredo rinvenuti nelle deposizioni di epoca altomedievale. A sinistra, un elemento di collana; in basso, un pettine (frammentario).

elementi di corredo funerario sono stati individuati pettini in osso, fusi circolari da telaio, un orecchino di rame e una serie di frammenti di ceramica d’impasto grezzo. L’analisi antropologica ha finora permesso di stabilire il sesso degli inumati: si tratterebbe in massima

parte di donne adulte di varie età, che presentavano varie patologie, fratture e fenomeni di usura legati alle attività lavorative svolte. La tipologia della necropoli a fila e gli elementi di corredo permettono inoltre di sostenere che il gruppo degli inumati doveva far parte di

una piccola comunità di popolazione autoctona, insediatasi tra le rovine della vicina villa rustica romana, rinvenuta in scavi precedenti. Nel 2004, infatti, all’interno di un progetto per lo sfruttamento del sottosuolo, comprensivo della località Manera, e in seguito a segnalazioni riguardanti addensamenti di materiale fittile e a notizie di ritrovamenti di tombe nel territorio circostante, l’allora Soprintendenza per i beni archeologici del FriuliVenezia Giulia aveva predisposto un’indagine volta a sondare il potenziale archeologico del luogo. I lavori sono stati condotti dalla società CORA Ricerche Archeologiche s.n.c., sotto la direzione scientifica di Paola Ventura, funzionario archeologo della Soprintendenza. L’alta concentrazione di manufatti romani in effetti avrebbe come logica spiegazione la presenza remota di un impianto abitativo rurale, paragonabile a una pars rustica, ora non piú documentabile a seguito della rimozione sistematica di strutture murarie, fino alla completa demolizione di quanto soprastante al piano d’uso antico, probabilmente nel quadro di un’ottimizzazione dell’area a fini agricoli. Inoltre il rinvenimento dei due pesi da telaio avvalora, senza margini di dubbio, l’ipotesi di un’attività artigianale svolta nelle vicinanze». I lavori, condotti dalla società Ghiaie Santa Fosca s.r.l., si sono svolti in coordinamento con l’archeologo Pietro Riavez della ditta ArcheoTest s.r.l., con l’affiancamento dell’antropologa Lisa De Luca, e sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Friuli-Venezia Giulia. Giampiero Galasso

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RESTAURI Roma

CON LA TESTA SUL COLLO

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a preso il via, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, il cantiere di restauro della statua della Latona di Veio. Opera identitaria del Museo, si tratta di un’eccezionale scultura in terracotta policroma risalente al 510-500 a.C., appartenente al gruppo del santuario di Portonaccio e collocata sul colmo del tetto del Tempio assieme alle statue di Apollo, Eracle ed Hermes. L’intervento si è reso necessario perché, quando venne restaurata alla metà degli anni Cinquanta del XX secolo, l’opera fu riassemblata in decine di frammenti diversi. Oggi, quindi, si presenta estremamente lacunosa e bisognosa di numerose reintegrazioni a completare i panneggi, ma, soprattutto, la zona delle spalle e del collo, al fine di riposizionare correttamente il volto e la nuca. Il cantiere di restauro è stato allestito direttamente nella sala 40 del Museo che ospita il gruppo scultoreo di Portonaccio, cosí che il pubblico avrà l’opportunità di assistere in diretta a tutte le operazioni di restauro: dalla campagna fotografica digitale «ante operam» a quella diagnostica per identificare la natura degli ossidi metallici e/o dei pigmenti utilizzati e la composizione dell’argilla, dalle indagini radiografiche alle scansioni 3D che saranno effettuate anche sulle altre sculture veienti: Apollo, Ercole e Hermes. Ultimate queste operazioni, verrano eseguiti gli interventi diretti sull’opera che, oltre alla pulitura superficiale e alla rimozione del vecchio protettivo, comprenderanno la risistemazione della zona del collo e del mento per mezzo di una rimodellazione localizzata.

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La Latona di Veio, scultura in terracotta policroma appartenente alla decorazione del tempio di Portonaccio. 510-500 a.C. L’apertura del cantiere ha avuto luogo lo scorso 18 maggio, a ridosso di una data particolarmente significativa per il Museo e per la storia dell’archeologia. Il 19 maggio 1916, infatti, ebbe luogo l’eccezionale ritrovamento del gruppo scultoreo in terracotta – comprendente la Latona – che coronava la sommità del tempio di Portonaccio nella famosa città etrusca di Veio (oggi in buona parte coincidente con il territorio del Comune di Roma in prossimità di Isola Farnese). La scoperta destò grande attenzione di pubblico. L’Italia era in guerra e il recupero dei reperti – a opera di Giulio Quirino Giglioli – aveva avuto un effetto beneaugurante anche sulle sorti belliche della Nazione. La scoperta rivoluzionò le

conoscenze fino ad allora acquisite sull’arte degli Etruschi ed ebbe una straordinaria influenza sulla cultura e l’immaginario contemporanei. Molti artisti, infatti, trassero ispirazione dalle sculture veienti anche grazie al loro perfetto stato di conservazione e all’eccezionale policromia che dopo duemilacinquecento anni ancora le caratterizzava, quasi fossero state appena realizzate. L’Apollo, in particolare, incantò tutti ed entrò sin da subito nella rosa dei capolavori universali, opera di un maestro anonimo che nello stesso periodo dovette essere chiamato a Roma da Tarquinio il Superbo per la decorazione del tempio della triade capitolina sul Campidoglio, come attestano diverse fonti letterarie. (red.)



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

UN SECOLO DI APPLAUSI IL TEATRO ROMANO DI OSTIA ANTICA FESTEGGIA I PRIMI CENTO ANNI DELLA SUA SECONDA VITA. UN’ESPERIENZA CULTURALE DI ECCEZIONALE LIVELLO, CHE HA VISTO SALIRE IN SCENA CELEBRI ARTISTI ITALIANI E STRANIERI

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on la mostra «Chi è di scena!» il Parco archeologico di Ostia antica racconta, a cento anni dalla prima rappresentazione tenutasi in epoca contemporanea, l’appassionante storia degli spettacoli dal vivo e dei concerti che si sono svolti nell’arco di un secolo presso uno dei monumenti ostiensi piú iconici e noti: il teatro romano. Introdotto da una prima sezione che racconta la storia antica e tardo-antica del

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monumento e quella degli scavi, degli interventi di restauro e di ricostruzione che lo interessarono tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, il percorso di visita scandisce e illustra, attraverso le successive sezioni, i diversi periodi che hanno contrassegnato l’utilizzo del teatro in epoca moderna. Il visitatore può cosí scoprire che la prima rappresentazione tenutasi in epoca contemporanea al teatro romano è stata la messa in scena

della commedia plautina Aulularia (21 aprile e 20 maggio 1922), recitata dai bambini della Scuola elementare di Ostia antica, cosí come attestano le straordinarie fotografie d’archivio esposte in mostra; che a partire dall’estate del 1927, non appena concluso il primo intervento di restauro e ricostruzione della cavea avviato nel corso dell’anno precedente da Guido Calza, il teatro diventa il luogo di una programmazione


A sinistra: lavori di restauro e ricostruzione del teatro romano. 31 ottobre 1938. Nella pagina accanto: il concerto dei Kraftwerk. 27 giugno 2019. In basso: foto di scena dell’Aulularia di Plauto, rappresentata nel 1922 dai bambini della Scuola Elementare di Ostia antica.

estiva piuttosto regolare, contrassegnata almeno fino al 1969 dalla presenza dominante dell’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), che replica a Ostia (cosí come a Taormina, Fiesole e Gubbio) le trilogie rappresentate in quegli anni a Siracusa: straordinarie testimonianze di questo periodo, visibili lungo il percorso di visita, sono i manifesti, i costumi di scena, le fotografie, le maquettes e gli elementi delle scenografie degli spettacoli, tutti riconducibili all’opera e all’ingegno di Duilio Cambellotti, cosí come il manifesto e gli studi dei costumi degli spettacoli Medea e Ciclope, messi in scena nel 1949, realizzati da Mario Sironi, per finire con gli eccezionali documenti fotografici e audiovisivi messi a disposizione da Cinecittà-Archivio Luce.

NON SOLO PROSA Proseguendo nel percorso, si apprende che, nel ventennio 1970-1990, la consistenza delle rassegne estive ostiensi si fa via via piú frammentaria ed episodica, per poi risorgere in maniera quasi abbagliante nei successivi trent’anni (1991-2021), quando l’offerta culturale – fino ad allora connotata dalla presenza esclusiva dei soli spettacoli di prosa – si

articola in maniera progressivamente piú strutturata, aprendosi alle altre forme di spettacolo (balletto, musical, cabaret, musica classica, contemporanea, rock, jazz ed elettronica) e le assi del palcoscenico ostiense vengono calcate dai piú grandi artisti della scena nazionale e internazionale, tra cui val la pena di citare almeno – tra gli altri e in ordine volutamente sparso – Carmelo Bene, Ornella Vanoni, Franco Battiato, Giorgio Strehler, Jeff Beck, Carla Fracci, i Jethro Tull, Giorgio Albertazzi, Patti Smith, Mario Scaccia, i Kraftwerk, Angelo Branduardi, Joaquín Cortés, Francesco De Gregori, Raffaele Paganini, Vinicio Capossela, Uto Ughi e Massimo Popolizio. Il percorso di visita si snoda all’interno di quattro moduli site specific – collocati negli spazi esterni di quattro fornici del teatro stesso – la cui configurazione architettonica si ispira all’aspetto originario del monumento, e piú in particolare alla forma archetipica dell’architettura romana, quella dell’arco, mantenendo tuttavia il carattere contemporaneo, senza l’intenzione di ricostruire gli

elementi mancanti della struttura antica. I materiali e i documenti esposti in mostra sono il frutto della preziosa collaborazione del Parco con diversi prestatori, dall’Archivio dell’Opera di Duilio Cambellotti alla Galleria L’IMAGE, dall’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) alla Galleria Aleandri Arte Moderna, dalla Biblioteca Museo Teatrale SIAE alla già citata Cinecittà-Archivio Luce, per finire con Andrea SironiStraußwald e Stefano De Martis. Alberto Tulli

DOVE E QUANDO «Chi è di scena! Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022)» Roma, Parco archeologico di Ostia antica fino al 23 ottobre Orario fino al 30/09: ma-do, 8,30-19,00; 1-23/10: ma-do, 8,30-18,30; chiuso il lunedí Info tel. 06 56358036; www.ostiaantica.beniculturali.it

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n otiz iario

MUSEI Roma

L’IMPERO DEI MARMI

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Musei Capitolini arricchiscono la propria offerta accogliendo una preziosa selezione di oltre 660 marmi policromi di età imperiale provenienti dalla stessa collezione capitolina e dalla Fondazione Dino

ed Ernesta Santarelli. Frutto di un comodato gratuito decennale, l’allestimento offre una visione sull’immensa quantità di pietre importate a Roma: un’occasione da non perdere per ripercorrere,

Qui sotto: la sala in cui è esposta una testa di Dioniso montata su un busto femminile non pertinente. In basso: campioni appartenenti a varie tipologie di marmi: la nuova esposizione propone oltre 660 pezzi policromi, risalenti all’età imperiale.

attraverso forme, colori e fantasie, la storia millenaria della capitale dal punto di vista artistico, ma anche sotto il profilo socioculturale, politico ed economico. I materiali sono distribuiti in due sale. Nella prima sono esposti 82 frammenti policromi provenienti dalla Fondazione Santarelli; l’altra ospita due coppie di campionari, una del primo Ottocento con 422 pezzi, sempre della Fondazione, l’altra pertinente alla collezione capitolina, iniziata nella seconda metà del XIX secolo dalla famiglia Gui e costituita da 288 formelle. Nella stessa sala sono presenti anche una testa di Dioniso montata su busto non pertinente femminile (composta da otto tipologie marmoree diverse) e una selezione di strumenti per la lavorazione del marmo provenienti dalla bottega Fiorentini. In loop viene proiettato un documentario, a cura di Adriano Aymonino e Silvia Davoli, che ripercorre la storia di queste materie giunte a Roma in relazione alla politica di espansione dell’impero. L’esposizione documenta la stretta connessione tra la presenza di materiali nonautoctoni alla città di Roma e l’espansione politica, economica e geografica dell’impero, tracciando territori e reti geografiche attraverso la storia e la memoria. (red.)

DOVE E QUANDO «I Colori dell’Antico. Marmi Santarelli ai Musei Capitolini» Roma, Musei Capitolini, Palazzo Clementino Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

VULCI CAPUT MUNDI IL CALENDARIO DEI MESI ESTIVI SI ANNUNCIA FITTO DI APPUNTAMENTI PER IL PARCO VULCENTE: AI PROGETTI DI INDAGINE ARCHEOLOGICA CONDOTTI DA ISTITUTI ITALIANI E STRANIERI, SI AFFIANCA UN’INTENSA ATTIVITÀ NEL CAMPO DELLA DIVULGAZIONE, CON NUOVE E AFFASCINANTI ESPOSIZIONI

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ome accade ormai da qualche anno a partire dalla tarda primavera, Vulci si popola di ricercatori che provengono dalle piú svariate parti del mondo. Riprendono con entusiasmo le attività delle università che operano in varie aree della metropoli etrusca. Un primo punto della situazione inerente alle indagini è stato fatto all’interno del convegno «Vulci Work in Progress» tenutosi nei locali del Parco archeologico e naturalistico nello scorso dicembre. Nell’occasione la comunità scientifica del parco ha reso noti i risultati ottenuti nel corso delle ricerche degli ultimi anni e dei quali è stato dato conto di volta in volta anche al pubblico di «Archeo». La nuova stagione 2022 prevede gli interventi qui di seguito elencati, coordinati dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale in collaborazione con la Fondazione Vulci. Giugno Progetto Understanding Urban Identities dell’Università di Göteborg in Svezia diretto da Kristian Göransson e Serena Sabatini. Area est della città. Giugno e luglio Progetto Vulci 3000, della Duke University (USA), diretto

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da Maurizio Forte. Area del Foro Romano della città. Luglio Progetto Usi funerari preromani dell’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti Pescara, diretto da Vincenzo d’Ercole e Francesco di Gennaro. Area della necropoli settentrionale, località Poggio delle Urne. Agosto Progetto Vulci Cityscape delle Università di Friburgo e di Mainz (D), diretto da Mariachiara Franceschini e Paul P. Pasieka. Area della città nella zona del Tempio Grande. Settembre e ottobre Progetto All’origine di Vulci dell’Università di


Dall’alto, in senso orario: Ponte Rotto: fase di scavo (2021) delle sepolture a cremazione villanoviane; Poggio delle Urne, tomba a pozzetto villanoviana in corso di scavo; intervento conservativo in corso su una delle urne cinerarie villanoviane rinvenute nello scavo 2021 di Vulci-Ponte Rotto. Nella pagina accanto, dall’alto: Ponte Rotto: scavo (2020) dei resti scheletrici di una delle sepolture a inumazione in fossa d’età orientalizzante; Poggio delle Urne, l’area del sepolcreto in corso di scavo (2021).

Napoli «Federico II», diretto da Marco Pacciarelli. Area della necropoli orientale, località Ponte Rotto. Settembre, ottobre e novembre Progetto Work in Progress della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale in collaborazione con Fondazione Vulci, diretto da Simona Carosi e Carlo Casi. Necropoli settentrionale, località Poggio Mengarelli e Osteria. Ottobre e novembre Progetto Sustainable Vulci dell’University College London (Londra), diretto da Corinna Riva. Porti di Vulci, quello fluviale e quello di Regisvillae. Su richiesta, sarà possibile visitare tutti gli scavi in corso.

DA NON PERDERE Ma l’estate a Vulci non è solo scavi, infatti si prepara anche una calda estate espositiva. Terminata l’11 aprile la mostra «Leoni, Sfingi, Mani d’argento. Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci» al Museo Archeologico di Francoforte sul Meno, la mostra sarà trasferita al Museo Nazionale di Rocca Albornoz a Viterbo a partire dal 1 luglio. Al Museo di Francoforte, Vulci resta presente

con alcuni corredi (Tomba dello Scarabeo Dorato, Tomba 34 della Necropoli dell’Osteria, la Sfinge) nella mostra sull’età del Ferro in Assia («Kelten Land Hessen») inaugurata lo scorso 25 maggio. L’8 luglio verrà inaugurata al Museo Nazionale di Vulci la mostra «La nascita di Vulci», nella quale saranno presentati i piú recenti ritrovamenti protostorici effettuati nel territorio dell’antica città. Il 15 luglio sarà aperta al Museo «G. Camporeale» di Massa Marittima (GR) la mostra «Gli Ultimi Re di Vulci», mentre il 22 luglio al Museo Civico «Pietro e Turiddo Lotti» di Ischia di Castro verrà presentata la mostra «Il ritorno della Biga», che oltre a quella di Castro vedrà l’esposizione del currus della vulcente Tomba delle Mani d’Argento e del calesse del Tumulo della Regina di Tarquinia. Il 5 agosto (ancora da confermare) prenderà il via nel Complesso Monumentale di San Sisto a Montalto di Castro (VT) la mostra «Le vie del sacro a Vulci. Luoghi di culto, rituali e materiali della devozione». Il 24 novembre Vulci parteciperà con i reperti inerenti al famoso mitreo presso il Museo Archeologico di Francoforte al progetto europeo sul mitraismo.

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

LA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO SOTTERRANEO La BMTA, in occasione della XXIV edizione dal 27 al 30 ottobre 2022 a Paestum, presenterà nel ricco programma un progetto di valorizzazione del patrimonio archeologico sotterraneo, facendo leva sugli stakeholder delle destinazioni di interesse, in quanto attori primari per individuare contenuti e strumenti di una offerta contrassegnata da bellezza, unicità, percorsi emozionali, sostenibilità, dove città e territori sono protagonisti. In questo contesto la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, per il tramite delle Regioni protagoniste, l’Ufficio Nazionale per i Beni culturali ecclesiastici della CEI Conferenza Episcopale Italiana e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra saranno invitate proprio a farsi promotori del progetto di valenza interregionale. A sostegno di quanto sopra, non solo alcune Regioni dal 2000 in poi hanno sottoscritto protocolli con le rispettive Conferenze Episcopali in materia di valorizzazione, conoscenza, tutela, godimento e fruizione di beni culturali ecclesiastici o di interesse religioso presenti nei loro territori, ma nel 2017 è stato condiviso a livello nazionale un protocollo di intesa tra la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome e la CEI per «massimizzare le sinergie e la collaborazione a livello sia nazionale che regionale, attraverso la definizione di politiche e Una galleria della catacomba di Priscilla, cimitero sotterraneo situato sulla via Salaria, a Roma.

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iniziative concertate, finalizzate alla conoscenza e valorizzazione del patrimonio ecclesiastico e allo sviluppo del turismo religioso, nel pieno rispetto della tutela del patrimonio e delle esigenze proprie dei luoghi oggetto di culto e dei riti sacri ivi compiuti, delle feste e delle tradizioni religiose». L’eventuale partecipazione al progetto anche del Ministero della Cultura (la collaborazione in tema di salvaguardia e di valorizzazione è sancita dall’intesa del 2005 tra il Ministero dei Beni e Attività Culturali e la Conferenza Episcopale Italiana) e del Ministero del Turismo in collaborazione con l’ENIT sarà un valore aggiunto per una condivisione ampia e protesa allo sviluppo di nuove destinazioni, dove esperienza e narrazione saranno i principali contenuti di politiche di marketing locali volte a indirizzare nuove strategie turistiche. Invece, il Touring Club Italiano, che ha dedicato a 200 luoghi sorprendenti e in gran parte sconosciuti la guida «Meraviglie sotterranee», al fine di favorire un percorso di miglioramento dei territori potrebbe realizzare un programma di certificazione degli itinerari, alla stregua di quanto fatto per i «Cammini e Percorsi», oltre che dare un apporto mediatico notevole per il bacino di utenza e di rete territoriale che rappresenta. Il valore culturale dell’iniziativa trova fondamento nelle significative parole del Cardinale Ravasi, artefice del progetto «Catacombe d’Italia» a cura della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra: «In quegli spazi il visitatore, anche non credente o di altre fedi, diventa simile a un pellegrino, che scopre meraviglie architettoniche e artistiche, incontra storie di famiglie dei primi secoli cristiani. Per questo le catacombe non sono tristi bassi fondi oscuri, ma sono un mondo segreto che si apre al pellegrino e al turista con tutta la bellezza, la fede e la memoria di tante persone che hanno creduto in Cristo e nella sua parola di speranza. E l’hanno testimoniato attraverso queste vere e proprie meraviglie che ci parlano e vivono ancor oggi sotto il frastuono della nostra esistenza quotidiana». Agli operatori turistici il compito di esserne ambasciatori e di promuoverne la narrazione, offrendo un nuovo modo di viaggiare in totale coerenza con gli attuali trend della domanda, valorizzando le buone pratiche già in atto che vedono le Diocesi protagoniste, come a Perugia e Siracusa, in un percorso in comune con agenzie di viaggio e tour operator.



A TUTTO CAMPO Mara Sternini

TUTTA LA FORZA DEL CLASSICO LA TRAGICA VICENDA DI LAOCOONTE, IL SACERDOTE CHE AVEVA INTUITO L’INGANNO DEL CAVALLO DI TROIA, È ETERNATA DA UNO STRAORDINARIO GRUPPO STATUARIO. UN’OPERA DALL’IMPATTO INDISCUTIBILE, TRASFORMATA PERFINO IN «TESTIMONIAL» DI UN NOTO MARCHIO DELLA MODA

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l Laocoonte è un famoso gruppo scultoreo conservato nei Musei Vaticani, che rappresenta la morte del sacerdote troiano e dei suoi figli a opera di due serpenti. Il destino di questo personaggio viene narrato nel secondo libro dell’Eneide di Virgilio, quando Enea, fuggito da Troia in fiamme, approda a Cartagine. Invitato dalla regina Didone a narrare gli avvenimenti che hanno portato alla distruzione della sua città, Enea ripercorre tutta la storia, il cui momento cruciale si può riassumere nel modo seguente. Giunti al decimo anno di guerra, i Greci decidono di tentare la conquista della città con l’inganno; smontano l’accampamento e fingono di tornare in patria, nascondendosi in realtà con le navi nella vicina isoletta di Tènedo. Lasciano sul campo solo un enorme cavallo di legno, al cui interno sono nascosti alcuni fra i piú valorosi guerrieri, guidati da Ulisse. I Troiani decidono di condurre dentro la città il cavallo, ma Laocoonte si oppone, convinto che nasconda una qualche insidia. Interviene allora Atena che, sempre schierata dalla parte dei Greci, invia due serpenti che, usciti dal mare, si

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dirigono verso i due figli di Laocoonte e poi anche verso di lui, avvinghiandoli nelle loro spire fino a ucciderli. Impressionati dal

Laocoonte, gruppo scultoreo attribuito agli scultori Agesandro, Atanodoro e Polidoro, dall’Esquilino. 40-20 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.



prodigio i Troiani, ritenendo di obbedire alla volontà degli dèi, decidono di condurre dentro le mura il cavallo, decretando cosí la distruzione della loro città. Il gruppo scultoreo è stato trovato a Roma, sull’Esquilino, nel gennaio del 1506, e tra i primi ad accorrere Qui sotto: il gruppo del Laocoonte con il braccio destro teso, prima del restauro del 1959, eseguito dopo il ritrovamento dell’arto originale da parte di Ludwig Pollak. In basso: la vetrina del negozio nella galleria Vittorio Emanuele II a Milano, con una riproduzione del Laocoonte.

sul luogo della scoperta è ricordato persino Michelangelo, che ne rimase affascinato. Già poche settimane dopo il ritrovamento il gruppo è stato identificato con il Laocoonte descritto da Plinio il Vecchio, che aveva avuto occasione di vederlo nella casa dell’imperatore Tito, e che fornisce anche i nomi dei tre scultori di origine rodia che lo avevano scolpito e cioè Agesandro, Atanadoro e Polidoro. Nonostante le informazioni riportate da Plinio, ancora oggi le datazioni proposte dagli studiosi oscillano dalla metà del II secolo a.C. alla metà del I secolo d.C., anche se la piú probabile sembra essere quella compresa tra il 40 e il 20 a.C. Il problema nasce dal fatto che il gruppo potrebbe essere la copia di un modello in bronzo piú antico, stilisticamente molto vicino all’altare di Pergamo (iniziato intorno al 166 a.C.), come dimostrerebbe la forte somiglianza tra la figura di Laocoonte e quella del gigante Alcioneo, presente sul lato Est dell’altare. Oppure, dal momento che non sono conosciute altre riproduzioni di questo soggetto, potrebbe trattarsi di un originale ideato dai tre artisti ricordati da Plinio.

LA GIUSTA INTUIZIONE Il restauro del braccio destro di Laocoonte, mancante al momento della scoperta, è stato realizzato probabilmente nel 1532-33 da un allievo di Michelangelo, Giovanni Angelo Montorsoli (1507-1563), che completò la figura con un braccio levato, leggermente piegato in avanti. In seguito questa integrazione si è rivelata sbagliata grazie al ritrovamento del braccio originale, scoperto nel 1905 nella bottega di uno scalpellino di Roma dall’archeologo Ludwig Pollak (1868-1943), che ebbe la geniale intuizione di collegarlo al Laocoonte.

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Il successo del gruppo scultoreo, immediato e universale, continua ancora oggi, al punto che è diventato un’icona, cioè un’immagine ben radicata nel nostro immaginario collettivo. È cosí famoso da essere subito riconoscibile, e questo vale per la maggioranza delle persone, indipendentemente dal loro livello culturale. E come ogni icona è da sempre oggetto di citazioni, calchi, riproduzioni, imitazioni, parodie, rivisitazioni e riusi anche a fini commerciali. A questo proposito merita un cenno il recente allestimento del negozio di un famoso brand della moda nella galleria Vittorio Emanuele II di Milano. In una delle vetrine è stata sistemata una riproduzione del Laocoonte, attraversato da luci led, e vestito con un giubbotto, simbolo della maison. La scelta di proporlo con il braccio teso, invece che con il «braccio Pollak» è stata condizionata dagli spazi della vetrina, troppo stretti per accogliere la ricostruzione filologica. Ma perché progettare un allestimento in cui tutta la vetrina è occupata da una scultura greca? Perché l’inserimento del pezzo antico (anche se solo una riproduzione) crea un rapporto immediato con il nuovo contesto in cui è inserito, diffondendo la sua aura nello spazio intorno a sé. È la forza del classico, a cui, dopo tanti secoli, si continua a guardare come modello culturale di riferimento, come esempio di perfezione ed eccellenza, e questo vale anche per una boutique-museo. Al riguardo vale la pena ricordare che nell’antica Roma il termine classicus designava la classe piú elevata dei contribuenti e, visto il valore commerciale del giubbotto indossato da Laocoonte, il messaggio che si vuole dare con questo allestimento appare ancora piú chiaro.



n otiz iario

INCONTRI Rimini

UN ARCO PER IL CONSENSO DI TUTTI

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ON-SENSO è il tema della XXIV edizione del Festival del Mondo Antico. Antico/Presente di Rimini dal 6 al 31 luglio. In programma lezioni magistrali, presentazioni di libri, conferenze e tavole rotonde, spettacoli, esposizioni, visite guidate, ricostruzioni storiche, giochi e laboratori dedicati ai piú giovani. L’inaugurazione con Giovanni Brizzi e Gino Bandelli, sui simboli del consenso tra antico e moderno, sarà dedicata a Marcello Di Bella, ideatore del festival recentemente scomparso. Tra i protagonisti: Maurizio Bettini, Ivano Dionigi, David Ekserdjian, Francesco Filippi, Maria Giuseppina Muzzarelli, Paolo Rumiz, Giovanni Sassu, Giovanni C.F. Villa. Il festival è organizzato dal Comune di RiminiAssessorato alla Cultura-Musei Comunali con la Regione EmiliaRomagna e la Società editrice «il Mulino», in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Ravenna, Forlí-Cesena e Rimini.

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Qui anticipiamo parte dell’intervento «Consensus omnium» di Giovanni Brizzi, professore emerito all’Alma Mater Studiorum di Bologna, che, insieme al professor Gino Bandelli, inaugurerà il Festival il 6 luglio alle 21,00: «Pochi altri temi possono, io credo, meglio inserirsi nel panorama ideale della storia di Rimini di quello —Il consenso— scelto a strutturare il prossimo Festival del Mondo Antico. Ad Ariminum, porta di un mondo cisalpino che rappresentava lo sbocco auspicato delle sue clientele agrarie, avrebbe nel 217 a.C., secondo la voce calunniosa degli avversari politici, preso sacrileghi auspicia Caio Flaminio Nepote, console entrante, prima di pagare con la vita al Trasimeno questa e altre inosservanze religiose. Via d’accesso in direzione di Roma, la stessa città sarebbe divenuta, oltre un secolo dopo, arengo e palestra per acquisire sostegno alle proprie ambizioni da parte dei capi populares, fino allo stupro

consumato da Cesare nei confronti della linea sacra del pomerium, che correva poco distante a preservare l’Italia dalla guerra. Fronteggiava (e fronteggia tuttora…) quella linea l’arco di Augusto, un segnacolo che parla con accenti diversi. Il piú antico tra gli archi dell’Italia settentrionale è ricco di motivi simbolici, dai bucranî che ne adornano le chiavi, emblema coloniale, alle immagini divine nei clipei che lo decorano all’interno e all’esterno. I volti di Iuppiter-Giove, a ricordare il culto tradizionale, e di Apollo, il dio nuovo di Azio, orientati verso l’esterno, alludono alla politica religiosa del principe, conservatrice e innovatrice al tempo stesso. Apollo, in particolare, è celebrato sia per il favore concesso a Cesare Ottaviano nell’ultimo scontro, sia per l’approccio che consente a un mondo orientale non ancora pienamente allineato alle direttive politiche e ideologiche del principe. Quanto a Nettuno, la presenza del dio allude al mare nostrum; sottolinea quella


In alto e in basso: una veduta d’insieme e un particolare dell’iscrizione dell’arco di Augusto a Rimini, il piú antico monumento del genere in Italia settentrionale. Nella pagina accanto: un’immagine di una delle passate edizioni del Festival del Mondo Antico.

talassocrazia che, artefice Marco Agrippa, ha avuto un ruolo fondamentale non solo ad Azio, ma anche contro Sesto Pompeo. Infine, e forse soprattutto, la dea Roma, sempre piú costantemente associata in endiadi al princeps, garantisce la pax al mondo. Eretto in una temperie che è quella della vittoria su Cleopatra e Antonio a sostituire una precedente porta

urbica, l’arco richiama al consensus omnium, all’unanime adesione che ha sancito e sancisce tuttora l’opera del princeps; e sottolineando la Romana maiestas, la maestà di Roma, isolato com’è nello spazio e destinato a restare aperto, annulla ormai implicitamente la funzione stessa del pomerium, proclamando lo spalancarsi di un mondo italico destinato a raggiungere le Alpi. In particolare, tuttavia, e su ciò varrà forse la pena di insistere, Pax. Nelle mani dell’eirenophylax, come lo chiamerà Filone di Alessandria, del custode e garante di una pace a lungo sconvolta dalle guerre civili, è convenuto riporre, come sottolineerà Tacito, omnem potentiam (decisione necessaria, malgrado il biasimo che trapela dalla scelta tacitiana del termine…). Ora, è proprio di Pax e della valenza metafisica, cosmica addirittura di questo termine; e del lavoro di creazione del consenso, uno dei piú importanti della storia umama, compiuto dall’apparato di propaganda del principe che si parlerà, tra l’altro, in questa terra cosí ricca di echi augustei». (red.)

DOVE E QUANDO «CON-SENSO» XXIV Festival del Mondo Antico. Antico/Presente Rimini dal 6 al 31 luglio Info tel. 0541 793851; https://antico.comune.rimini.it

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

ANNIBALE CONTRO ROMA Lo Speciale di questo numero racconta la sconfitta subita dai Romani nel 217 a.C. al lago Trasimeno (1) per mano di Annibale 1 2 3 (2), il condottiero cartaginese che aveva sempre dichiarato di «odiare Roma fino alla morte» (vedi alle pp. 84-109). L’indagine è molto approfondita dal punto di vista storico e tecnico e tiene conto della morfologia della zona all’epoca dello 5 scontro ai fini della esatta comprensione di 6 quanto accaduto alle legioni romane. Qui, 4 come sempre, ripercorriamo filatelicamente la vicenda di Annibale, figura che segnò negativamente la storia di Roma nelle vicende iniziali della seconda guerra punica, che si combatté dal 202 al 218 a.C. Fin dall’inizio della sua carriera militare, iniziata a Cartagine (3), il disegno del Barcide era stato quello di sconfiggere Roma e la sua strategia iniziò con l’arrivo in Spagna e con la 7 8 9 presa di Sagunto, nel 219 a.C., all’epoca alleata dei Romani (4), come primo gesto provocatorio. Nella storia plurisecolare degli Spagnoli, l’episodio di Annibale e dei suoi elefanti in marcia verso le Alpi per puntare poi su Roma ha ancora un peso, tanto da essere ricordato, sia pure in modo scherzoso, con un francobollo del 2000 (5) 10 11 12 e da un annullo di Huesca del 2001 (6). Dopo la Spagna, è la Tunisia ad aver piú spesso ricordato il suo condottiero: nel 1967 con una serie sulla storia della Tunisia nella quale un francobollo raffigura Annibale (7) e un altro suo padre Amilcare (8), anch’egli generale e politico cartaginese, e, nel 1995, con un Blocco foglietto che rievoca alcune delle sue imprese (9), tra cui il valico 13 14 15 sulle Alpi con il suo ultimo elefante. Emblematico è poi un francobollo del 1985, nel quale Annibale è accostato ad Habib Bourghiba, fondatore della moderna Tunisia e suo primo Presidente per 30 anni (10): insomma, IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatedue condottieri della stessa terra ricordati insieme a lia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere distanza di piú di 2000 anni! Ma sono emblematici alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, anche i ricordi italiani della famosa vittoria di ai seguenti indirizzi: Annibale a Canne contro i Romani nel 216 a.C. Quasi Segreteria c/o Luciano Calenda ogni anno, infatti, l’evento viene ricordato con un Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa annullo del 2 agosto, con indicazione dell’anno Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it progressivo. E ne mostriamo dunque alcuni (11, 12, oppure www.cift.it 13, 14, 15), emessi tra il 1998 e il 2021...

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CO LO SS DE EO L

IL

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

ARCHEOLOGIA NEL CUORE DI ROMA

PALATINO • COLOSSEO • FORO ROMANO • DOMUS AUREA


Un suggestivo scorcio del Foro Romano. Si riconoscono, da sinistra: il Tempio della Concordia, la chiesa dei Ss. Luca e Martina, l’Arco di Settimio Severo e il Tempio di Saturno.

I

quasi 80 ettari del Parco archeologico del Colosseo abbracciano l’area archeologica centrale di Roma e sono la testimonianza piú estesa e tangibile della città antica. Nei suoi confini, infatti, oltre al Foro Romano – cuore politico e amministrativo dell’Urbe – ricadono il Palatino – colle che conserva le memorie del mitico fondatore della città, Romolo, e poi dei suoi imperatori –, ma anche il Colosseo – icona universalmente nota della civiltà romana –, nonché le spettacolari vestigia della Domus Aurea, la grandiosa residenza voluta da Nerone. Il tutto in un dialogo ideale, ma anche fisico, con altri grandi poli della Roma antica, quali il colle del Campidoglio e l’area dei Fori Imperiali. A questo straordinario patrimonio è dedicata la nuova Monografia di «Archeo», nella quale, accanto alla storia dei vari complessi monumentali, si affianca una rassegna puntuale e completa degli interventi finora condotti e di quelli tuttora in corso che mirano ad accrescere la fruizione dei siti e a illustrarne il valore storico, artistico e documentario. Un racconto firmato in prima persona dagli archeologi e da tutti gli specialisti ai quali è affidato il compito di preservare e tramandare le spettacolari vestigia della capitale di uno dei piú grandi imperi dell’antichità.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Un grande museo diffuso • IL FORO ROMANO • IL PALATINO • IL COLOSSEO • LA DOMUS AUREA • GLI AUDITORIA DI ADRIANO

in edicola

• LA COLONNA TRAIANA

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CALENDARIO

Italia ROMA Altari nella sabbia

L’area cultuale di Abu Ertelia Museo delle Civiltà fino al 12.06.22

Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22

Vulci: il patrimonio disperso e ritrovato

Dalle ricerche ottocentesche al digitale «Sapienza» Università di Roma, Museo di Antichità Etrusche e Italiche fino al 26.11.22

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23

BARUMINI (SU) Al di là del Mare

Etruria e Sardegna in mille anni di storia Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «G. Lilliu»-Area archeologica «Su Nuraxi» fino al 31.12.22

CASTELSEPRIO E TORBA (VARESE) Trame Longobarde Tra Architettura e Tessuti Antiquarium e Monastero fino al 31.07.22

Segnati

Vita e morte dalla cultura etrusca al terzo millennio Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 26.06.22

FOGGIA Arpi riemersa

Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22

Giacomo Boni

L’alba della modernità Foro Romano e Palatino fino al 03.07.22

1932, l’elefante e il colle perduto

Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali. fino al 02.10.22 (prorogata)

Cursus Honorum

Il governo di Roma prima di Cesare Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 02.10.22 36 a r c h e o

MILANO I Marmi Torlonia

Collezionare Capolavori Gallerie d’Italia fino al 18.09.22

NAPOLI Sing Sing. Il corpo di Pompei Fotografie di Luigi Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.22


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Sardegna Isola Megalitica

Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino all’11.09.22

OSTIA ANTICA (ROMA) Chi è di scena!

Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022) Parco archeologico di Ostia antica fino al 30.10.22

VERONA Vasi antichi

Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

Francia PARIGI Faraoni delle due terre

PARMA I Farnese

L’epopea africana dei re di Napata Museo del Louvre fino al 25.07.22

Architettura, Arte, Potere Complesso Monumentale della Pilotta fino al 31.07.22

Germania

TORINO Il vaso Bes di Deir el-Medina

BERLINO Immagini sonore

Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino al 21.08.22 (dal 13.06.22)

La musica nell’antica Grecia Altes Museum fino al 03.07.22

Invito a Pompei

Palazzo Madama, Sala del Senato fino al 29.08.22

Regno Unito

VARESE La civiltà delle palafitte

LONDRA Il mondo di Stonehenge

L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22

Quadretto ad affresco, da Pompei. I sec.d.C.

Figurina fittile di suonatrice di lira. IV sec. d.C.

British Museum fino al 17.07.22

SUTTON HOO Spade reali

Il tesoro dello Staffordshire a Sutton Hoo Exhibition Hall fino al 30.10.22

Svizzera BASILEA animalistico!

Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 37


I SIGNORI DEGLI ANELLI

Sulle due pagine: oggetti del tesoro dello Staffordshire. Al centro, la lamina aurea su cui è iscritta la frase «Sorgi, Signore, e siano dispersi i tuoi nemici e fuggano da te coloro che ti odiano», tratta da un passo del Libro dei Numeri.

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IL TUMULO 1 DI SUTTON HOO E IL TESORO DELLO STAFFORDSHIRE FIGURANO TRA LE PIÚ IMPORTANTI SCOPERTE ARCHEOLOGICHE MAI COMPIUTE IN INGHILTERRA. OGGI, UNA MOSTRA LE METTE A CONFRONTO PER RIVELARNE IL DENOMINATORE COMUNE. RIPORTANDOCI A UN’EPOCA DI CRISI E DI PASSAGGIO, SEGNATA DALLA FINE DEL DOMINIO DI ROMA E DALL’AVVENTO DEI NUOVI PADRONI DELL’ISOLA…

Q

uando si pensa all’archeologia britannica, viene subito in mente il circolo megalitico di Stonehenge: il monumento piú famoso di quella terra, un caso straordinario di architettura preistor ica e un luogo dal grande fascino, che da secoli ha catturato l’attenzione di studiosi e di milioni di turisti (e al quale è peraltro dedicata la mostra del British Museum di cui ci siamo occupati nel mese scorso; vedi «Archeo» n. di Andrea Augenti 447; on line su issuu.com). a r c h e o 39


MOSTRE • REGNO UNITO

Tuttavia, il sottosuolo della Gran Bretagna ha nel tempo riservato all’archeologia altre sorprese notevoli. Gli Inglesi ritengono che la piú grande scoperta di sempre sul loro territorio sia quella di Sutton Hoo, nel Suffolk. Qui, nel 1939, in aperta campagna, sotto il piú grande tra i molti tumuli di uno stesso campo (il n. 1), sono venuti alla luce i resti di una sepoltura in barca, con un corredo funebre impressionante. Questo ritrovamento, e le successive scoperte nella zona circostante, hanno aiutato a mettere a fuoco lo scenario politico e sociale dell’Inghilterra del VII secolo, l’epoca in cui si colloca la sepoltura di Sutton Hoo. A settant’anni esatti da quel ritrovamento, un nuovo episodio ha sconvolto la scena archeologica britannica. Nel 2009 un appassionato di ricerche con il metal detector, Terry Herbert, ha portato alla luce, nel cuore dell’Inghilterra, uno straordinario complesso di oggetti in oro, argento e pietre preziose: è il tesoro dello Staffordshire, una scoperta che si è guadagnata da subito l’attenzione dei media, ed è già stata messa in mostra piú volte, in piccole dosi, mentre veniva portato avanti il restauro complessivo di tutti i reperti. Questi due episodi fondamentali della storia dell’archeologia rimanIn alto: un particolare dell’allestimento della mostra «Swords of Kingdoms». Sulle due pagine: il tumulo n. 1 di Sutton Hoo.

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dano alla tarda antichità: il periodo a cavallo della caduta dell’impero romano, i secoli che vanno dal IV fino al VII. Un’epoca che è sempre stata percepita come caotica, anzi apocalittica: l’età della decadenza, delle invasioni…

TUTTO CAMBIA Invece, al di là degli aspetti catastrofici (che pure ci furono, e non si possono ignorare), si tratta di un periodo particolarmente interessante, in cui tutte le carte vengono abbondantemente rimescolate: entrano in gioco forze nuove, si ridiscutono gli equilibri, le culture si

confrontano e si intersecano tra loro fino a generare nuove tradizioni e stili di vita. E tutto cambia: la politica e l’economia, i modi di abitare e le usanze funerarie, e molto altro. L’archeologia sta dicendo sempre di piú su questo periodo, indicando chiaramente che si è trattato di un momento cruciale della storia del nostro continente, molto piú complesso di quanto non avessimo ipotizzato fino a poco tempo fa. Adesso, proprio a Sutton Hoo, è stata allestita una mostra che racconta quest’epoca, servendosi dei reperti del tumulo 1 e del tesoro dello Staffordshire. L’esposizione


A sinistra: fermaglio decorato a cloisonné con paste vitree e granati, dal tumulo n. 1 di Sutton Hoo. Mostra un motivo in stile animalistico simile a quelli presenti su oggetti del tesoro dello Staffordshire.

A destra: ripercorre le vicende dell’Inghilterl’archeologo ra all’alba del Medioevo e ne scatudilettante Basil risce un quadro davvero impressionante: una sorta di età dell’oro in Brown in una foto una terra attraversata da re, principi, scattata all’epoca soldati e sacerdoti, un’area in cui la dello scavo del tradizione affonda nei miti di origitumulo n. 1 di ni nordiche, intrecciati con l’emerSutton Hoo. gente fede cristiana. Siamo insom-

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MOSTRE • REGNO UNITO

ma all’incrocio tra Il trono di spade, Beowulf e il Signore degli anelli: il fascino è servito, tra storia e leggenda.

UNA CURIOSA SIGNORA INGLESE La storia della scoperta di Sutton Hoo è straordinaria, rocambolesca e diluita nel tempo. Tutto inizia nel 1938. Edith May Pretty abita in una grande casa di fronte a un campo punteggiato da numerosi tumuli, basse colline, di origine palesemente artificiale. Affascinata e incuriosita da questo dettaglio, la signora Pretty vuole vederci piú chiaro e si rivolge a Basil Brown, un archeologo locale dilettante – ma capace –, dotato di grande perspicacia, che ha già lavorato in molti siti della zona. Brown inizia a scavare il tumulo 1, il piú grande e promettente. E molto presto ha una felice intuizione: dal suolo iniziano ad affiorare alcuni rivetti, gli elementi in metallo che tengono insieme il fasciame delle navi, e Basil ne deduce che sotto il tumulo dev’esserci una barca, antica. Del resto, sa di cosa si tratta, poiché ne ha già sentito parlare: a Snape,

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L‘INGHILTERRA ANGLOSASSONE (SEC. V-X)

Lindisfarne

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A destra: l’assetto geopolitico dell’Inghilterra in epoca anglosassone, con, in evidenza, l’ubicazione di Sutton Hoo e della località in cui è stato trovato il tesoro dello Staffordshire. Nella pagina accanto, in alto: la nave funeraria del tumulo n. 1 di Sutton Hoo in corso di scavo. Nella pagina accanto, in basso: l’originale (a sinistra) e una replica (con la ricostruzione delle parti mancanti) dell’elmo di Sutton Hoo, rinvenuto nel 1939 nel tumulo n. 1. VII sec. Londra, British Museum. Fa parte del corredo funebre di una nave funeraria nella quale potrebbe essere stato deposto Raedwald, re di East Anglia.

Chichester

Wareham

TI La Manica

REGNO SASSONE DI EGBERTO DI WESSEX (802-839) LINEA DI SPARTIZIONE TRA DANESI E SASSONI (886) COLONIE DANESI DALL’877 AL 942

L‘INGHILTERRA NEL IX SEC: REGNO DI WESSEX DUCATO DI MERCIA IL “DANELAW” DUCATO DI NORTHUMBRIA

un’altra località del Suffolk, è venuto alla luce qualcosa di simile e il tumulo 1 di Sutton Hoo non può non nascondere una sepoltura in barca. Nel 1939 la voce di questa potenziale, sensazionale scoperta arriva

fino a Cambridge, e l’università mette assieme una équipe di studiosi guidati da Charles Phillips, una delle figure piú autorevoli della scena archeologica britannica. Inizia il vero scavo scientifico (molto indi-

rizzato, è giusto dirlo, dalle intuizioni e dalla sensibilità di Basil Brown). Gli archeologi scavano con grande intensità per svariati giorni, e lottano contro le intemperie, tra cui un forte vento che fa volare via i repera r c h e o 43


MOSTRE • REGNO UNITO

ti in foglia d’oro, suscitando lo sconforto generale; e contro il tempo, perché ne hanno poco: la situazione è critica, gli equilibri dell’Europa franano velocemente, perché Hitler sta invadendo la Polonia e loro sentono che presto dovranno partire per il fronte. Poi, improvvisamente, iniziano ad affiorare gli oggetti piú straordinari. Un fermaglio per mantello, in oro e pietre preziose; una fibbia di cintura in oro massiccio, pesantissima, interamente decorata con motivi a intreccio e raffigurazioni di animali; una spada; le decorazioni di uno scudo; uno scettro e molti altri reperti. Non ci sono piú dubbi: il tumulo 1 nascondeva una tomba, aveva ragione Basil Brown. Gli archeologi scavano accuratamente la zona centrale della barca, dove si trovava la camera funeraria. Sulla base della cronologia dei reperti, un filologo in visita allo scavo propone un nome per il titolare della tomba: dovrebbe trattarsi di Raedwald, il sovrano del regno di East Anglia, noto attraverso i testi e morto nel 625. Nessuna conferma per questa ipotesi, che resta però a tutt’oggi la piú logica e attendibile. Tutti i reperti vengono inscatolati e spediti a Londra, al British Museum. Resta solo un dubbio, perché non è stato trovato lo scheletro del morto: è possibile che la grande sepoltura di Sutton Hoo fosse in realtà un cenotafio, cioè un monumento/ memoriale dedicato a un defunto illustre – forse il re Raedwald – morto lontano da lí e le cui spoglie non fecero mai ritorno a casa?

LE NUOVE INDAGINI Il secondo capitolo della vicenda di Sutton Hoo si colloca tra il 1965 e il 1971. È un lavoro certosino di approfondimento, e di maggiore contestualizzazione dei dati, che dobbiamo all’archeologo Rupert Bruce-Mitford, conservatore presso il British Museum. Lo studioso passa interi anni ad analizzare e 44 a r c h e o

restaurare i reperti delle indagini del 1939, e riesce a ridare vita ad alcuni oggetti ridotti in minimi frammenti: primo tra tutti l’elmo, il reperto piú impressionante della sepoltura. E poi decide di passare all’azione, sul campo: torna a Sutton Hoo, dove dà il via a uno scavo piú accurato dell’intera barca, di

cui non era ancora stata eseguita una planimetria generale. Bruce-Mitford allarga lo sguardo, cambia la prospettiva sul sito. Ma, soprattutto, coglie un elemento fondamentale della storia: il tumulo 1 di Sutton Hoo non è affatto un cenotafio. Il morto c’era, ma gli archeologi guidati da Phillips non lo

L’area della scoperta In questa pagina sono riportate un mappa di distribuzione degli oggetti del tesoro dello Stafforshire (in alto), localizzati all’interno della quadrettatura elaborata dagli archeologi dell’Università di Birmingham, e una pianta semplificata dell’area esplorata da Terry Herbert con il metal detector.


avevano visto, perché il terreno del campo ha un forte tasso di acidità che nel corso dei secoli ha letteralmente polverizzato le ossa. BruceMitford arriva a questa conclusione per un puro caso, ispirato dai delitti di un serial killer che in quel momento funestava l’Inghilterra sciogliendo le sue vittime nell’acido. Il mistero è dunque chiarito e, grazie all’approccio analitico dell’archeologo del British Museum, le ricerche a Sutton Hoo si fanno piú sistematiche, entrando nei dettagli, lavorando sugli oggetti e sul sito; si fruga con successo tra le pieghe della storia, proponendo nuovi orizzonti, nuove soluzioni a interrogativi fino ad allora rimasti senza risposta.

In alto: elementi d’ornamento in oro con granati appartenenti a un seax (piccola spada) del tesoro dello Staffordshire. A sinistra: disegno ricostruttivo dell’arma a partire dalle decorazioni superstiti, messo a confronto con altri esemplari di seax.

UN CIMITERO REALE? Sutton Hoo, però, ha ancora molto da raccontare. Fino a quel momento, l’attenzione è stata quasi esclusivamente indirizzata verso il tumulo 1, ma in quel campo ce ne sono altri 17! Che cos’è allora Sutton Hoo? Un cimitero di re? Quali altri personaggi storici sono sepolti sotto quelle collinette artificiali? Appare evidente la necessità di uno sguardo ancora piú ampio, di un progetto di maggior respiro, cosicché viene bandito un concorso, vinto da uno dei piú grandi archeologi del nostro tempo: Martin O.H. Carver, in forza all’Università di York. Il progetto di Carver (1983-1992) è il primo a prevedere indagini articolate su piú tumuli, tutti a nord del n. 1, e anche nelle zone fra un tumulo e l’altro. È, inoltre, un progetto animato da una forte tensione etica: Sutton Hoo è un sito unico al mondo, e l’archeologia è distruzione. E allora quale diritto abbiamo di scavare, e dunque distruggere, sia pure per conoscere? Gli strumenti di cui disponiamo oggi sono molto piú avanzati di quelli di trenta o cinquanta anni fa (come per esempio il magnetometro, a cui Carver fa ampio ricorso), ma quanto e come lo saranno quelli che potranno usare le a r c h e o 45


MOSTRE • REGNO UNITO

generazioni del futuro? E quali domande potranno fare quegli archeologi al terreno, nuove e diverse rispetto alle nostre? Ispirato da queste riflessioni, il progetto di Carver non prevede lo scavo integrale del grande campo di Sutton Hoo, ma solo di una sua parte. Il resto viene lasciato ai posteri, che sapranno trovare nuove chiavi e nuove modalità di indagine. Martin Carver si dedica però anche al riesame di tutti i risultati raggiunti dagli scavi precedenti e produce cartografie precise dell’intero contesto topografico. Getta le basi, insomma, per una conoscenza estesa e approfondita del sito. I suoi nuovi scavi tracciano un quadro molto diverso da quello noto fino ad allora. Il campo di Sutton Hoo è stato frequentato in età preistorica, poi probabilmente sfruttato per scopi agricoli in età romana e, nel V secolo, iniziano le sepolture. Prima vengono le deposizioni a incinerazione, e solo in un secondo momento, in questo ciLa parte superiore di un pomello in argento con tracce di doratura.

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mitero già esistente, iniziano le sepolture regie. La tomba 1, prima di tutto, forse quella di Raedwald. E poi altre, tra cui quella del tumulo 2, anche questa in barca (ma con la camera funeraria sotto la barca, non dentro lo scafo).

ECCESSO DI SFARZO La tomba 1 è incredibilmente ricca. Per spiegare questa ricchezza non basta dire che si tratta della tomba di un re. È quella che in gergo si chiama «stravaganza funeraria», un eccesso di sfarzo rispetto all’allestimento: un enorme quantitativo di armi e oggetti preziosi. Secondo Carver, l’uso stesso del tumulo, la tipologia della sepoltura in barca (per niente comune, in Inghilterra), il fatto che alcuni di questi oggetti

provengano da fabbriche situate nelle attuali Svezia e Germania… tutto sembra indicare che qui si faccia riferimento – in maniera molto forte, molto accentuata – a un sostrato culturale comune «pangermanico», e questa scelta potrebbe essere dettata da una circostanza incombente, e preoccupante: l’avvento del cristianesimo. Insomma, nell’interpretazione di Carver le grandi tombe regali di Sutton Hoo sarebbero una sorta di reazione del mondo pagano alla minaccia della nuova ideologia che si avviava a dominare anche quei luoghi, dopo essersi affermata nel bacino del Mediterraneo. Ma c’è di piú. Grazie ai suoi scavi, Carver dimostra che il cimitero di Sutton Hoo, un luogo centrale della regalità


Ipotesi ricostruttiva della collocazione dei pomelli e di altri ornamenti rispetto all’elsa di una spada o di altre armi del genere.

tardo-antica, viene utilizzato nel tempo in maniera diversa, attribuendogli nuove valenze. Tra l’VIII e il X secolo, quel sito, cosí legato a un passato pagano, viene percepito come un luogo del male, e perciò scelto come teatro di esecuzioni pubbliche. Qui vengono eretti patiboli, qui vengono giustiziati alcuni fuorilegge. E Carver ha ritrovato sia le tracce dei patiboli, sia le sepolture dei

giustiziati, scheletri che mostrano spesso fratture in corrispondenza del collo. Il merito principale del progetto di Carver sta nell’aver ampliato notevolmente la prospettiva sul campo di Sutton Hoo, sia in orizzontale, per aver indagato aree mai esplorate prima; sia in verticale, raccontando la vicenda del sito sulla lunga durata. Sutton Hoo non ha finito di raccontare la sua storia, ma

A destra: una delle croci del tesoro dello Staffordshire con gli elementi che in origine facevano parte della sua decorazione. In basso: pomo di spada in oro con decorazione a cloisonné, dal tesoro dello Staffordshire.

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MOSTRE • REGNO UNITO

ora, grazie a Martin Carver, ne ab- non lontano da Birmingham. È una biamo compresa senza dubbio una bella mattinata di sole e, come al parte piuttosto rilevante. solito, Terry Herbert esce presto di casa. Terry è disoccupato e ha una grande passione: il metal detector. PasIN UN MATTINO sa intere giornate nei campi della DI LUGLIO... 5 luglio 2009, domenica. Siamo sua zona, camminando e cercando nella contea dello Staffordshire, piú segnali che rivelino la presenza di o meno al centro dell’Inghilterra, oggetti di metallo nel sottosuolo.

Questa volta ha deciso di andare a fare un giro sui campi di un suo vecchio amico, Fred Johnson, proprietario di una piccola fattoria in una località chiamata Oagley Hay: tipica campagna inglese, nessun monumento antico, un paesaggio familiare. Niente lascia presagire ciò che sta per accadere. Nella pagina accanto: colletto dell’elsa di un seax in oro lavorato a cloisonné, dal tesoro dello Staffordshire. In questa pagina: la parte superiore di un copricapo riccamente decorato, dal tesoro dello Staffordshire.

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A un certo punto Terry si inerpica su per una collina e lí, improvvisamente, il metal detector inizia a mandare segnali forti, sembra quasi impazzito. Terry porta sempre con sé una pala e comincia a scavare. A pochi centimetri di profondità dalla superficie del campo, iniziano ad affiorare gli oggetti. Sono molti, decine e decine, e la maggior parte è in oro, argento e pietre preziose. L’uomo non crede ai suoi occhi: gli sembra di vivere un sogno; comincia a metterli in sacchetti di plastica, e poi corre giú, verso la fattoria. E dà la notizia a Fred: «Ho trovato un tesoro! Un tesoro anglosassone!». Questa è una giornata storica, il giorno in cui è tornato alla luce il Tesoro dello Staffordshire (vedi «Archeo» n. 296, ottobre 2009). L’avventura è appena cominciata. Dopo quel 5 di luglio Terry Herbert torna nello stesso luogo per altri quattro giorni, e continua a cercare e a scavare. Alla fine porterà a casa moltissimi reperti. Poi decide di avvertire i funzionari del Museo

di Birmingham, e prendono il via le indagini sistematiche. Si scava per circa un mese, e si scoprono altri 571 oggetti preziosi. A quel punto il bilancio è di 1350 oggetti, ma anche molte zolle di terreno contengono altri reperti. Scavate in laboratorio e separati gli oggetti che si erano attaccati l’un l’altro sottoterra, oggi sappiamo che il tesoro comprende circa 4600 frammenti di metallo prezioso. In totale, per quanto riguarda i materiali, abbiamo: 4 chili d’oro, piú di 1,5 d’argento e 3 chili e mezzo di granati (una pietra rossa, lucente, molto usata nei gioielli antichi). Viene fatto un calcolo accurato: il valore del tesoro è pari a 3 285 000 sterline, cioè circa 3 700 000 euro. Una cifra enorme, che nel 2010, i due musei piú vicini all’area del ritrovamento, quelli di Birmingham e della città di Stoke-on-Trent, riescono a mettere insieme. Terry diventa ricco, e il tesoro diviene proprietà pubblica. Inizia un lungo lavoro di restauro, ma la gente è an-

siosa di vederlo, cosicché, da subito, vengono allestite mostre al British Museum, a Londra, e poi nei due musei che lo hanno comprato. Piú di 90 000 persone accorrono ad ammirare alcune selezioni di quegli oggetti antichi e misteriosi, a volte dopo una fila di ben 5 ore!

IDENTIKIT DI UN TESORO Ma vediamo piú da vicino che tipo di oggetti compongono il tesoro. Come detto sono circa 4600, molti dei quali, però, sono frammenti molto piccoli, la cui funzione spesso non è comprensibile. Concentriamoci allora sugli oggetti interi, i piú grandi (e i piú sorprendenti). Dirò subito che la maggior parte del tesoro, piú dell’80% degli elementi identificati (che sono in tutto 700), è costituita da oggetti di tipo militare. Ci sono molti elementi relativi a spade e ad altre armi bianche, tra cui il seax, uno spadino in uso soprattutto dopo la fine dell’impero romano tra i popoli germanici. a r c h e o 49


MOSTRE • REGNO UNITO

«VEDERE» L’ALTO MEDIOEVO L’Alto Medioevo, cioè i secoli dal V al X, non è mai stato particolarmente al centro delle produzioni cinematografiche. I registi hanno sempre preferito il segmento successivo: il Basso Medioevo, l’età dei cavalieri, dei tornei e delle crociate. Il motivo è abbastanza evidente: ne sappiamo di piú, e c’è piú spazio per la spettacolarità delle immagini. Ma le cose stanno davvero cosí? Alcuni film e serie tv sembrano dimostrare il contrario. Addirittura, è dedicato non all’Alto Medioevo in senso proprio, ma a uno scavo archeologico, uno dei migliori film di questo genere visti l’anno scorso: La nave sepolta (The Dig), che racconta l’epopea della scoperta della tomba 1 di Sutton Hoo. Grazie alle straordinarie interpretazioni di attori come Ralph Fiennes (Basil Brown) e Carey Mulligan (Mrs Pretty), possiamo ora rivivere quei giorni gloriosi del 1939, e tutto il

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fascino di una delle piú grandi scoperte della storia dell’archeologia. E con grande attenzione al versante scientifico di quel ritrovamento, garantito dalla consulenza dell’archeologo Martin Carver, che a Sutton Hoo ha scavato per anni con risultati davvero importanti. Una curiosità: da quando è apparso il film, le visite al sito archeologico di Sutton Hoo sono aumentate in maniera esponenziale. Piú recentemente è arrivata sugli schermi un’altra pellicola, questa volta interamente ambientata nel X secolo: The Northman. Il film racconta la vicenda di Hamlet, la vendetta di un principe: è una leggenda scandinava che poi Shakespeare rivisiterà nella sua nota tragedia; ma The Northman la racconta in chiave molto filologica, con grande cura per l’ambientazione e per gli oggetti, e lascia molto spazio ai rituali e alle credenze, proiettando completamente gli spettatori nella cultura e nella religione dei Vichinghi. Anche in questo caso, l’ottima riuscita del film dipende in buona parte dal ricorso a un consulente di altissimo livello: si tratta di Neil Price, un archeologo inglese che insegna all’università di Uppsala, tra i massimi studiosi dei Vichinghi del nostro tempo. The Northman è un film da vedere assolutamente al cinema, dove si può apprezzare al meglio tutto il potenziale di immagini davvero straordinarie, spesso ipnotiche. L’Alto Medioevo come non lo avete mai visto.


Si tratta per lo piú di parti delle impugnature, come pomelli ed elementi a forma di anello. Questi oggetti sono in oro, realizzati nel tipico stile dell’arte orafa tardo-antica: a cloisonnée, cioè a cellette che accolgono pietre preziose, i granati. Queste ultime sono particolarmente lucenti, ma le analisi al microscopio hanno rivelato che dentro le cellette che li accoglievano veniva inserita una sottilissima foglia d’oro con la superficie lavorata per renderla granulosa, zigrinata: in questo modo la pietra, una volta incastonata nella celletta, trattiene la luce e la riflette con maggior forza, cosí come fanno i catarifrangenti delle nostre automobili. Ma la decorazione non consiste solo nell’associazione tra oro e pietre preziose: le superfici dell’oro sono anche lavorate con motivi a nastri intrecciati, oppure con figure di animali, scomposti in parti e pure queste intrecciate. Draghi e serpenti mostruosi si rincorrono e si mordono, dando vita a fregi senza inizio e senza fine, che sembrano disegnati dalla mano di Escher. E poi, molti degli oggetti sono decorati con la tecnica della filigrana.

UNA QUESTIONE COMPLESSA Stabilire la datazione del tesoro non è facile, ma le caratteristiche dei pezzi indicano un’unica direzione: siamo nella tarda antichità, un paio di secoli dopo la caduta dell’impero romano. Piú precisamente, il tesoro dovrebbe essere frutto dell’accumulo di oggetti prodotti nell’arco di circa cento anni. Il tutto deve essere poi stato nascosto verso la metà del VII secolo, tra il 650 e il 675. Ma vediamo cosa altro comprende il tesoro. Abbiamo i resti di un elmo che con grande pazienza i restauratori e gli studiosi hanno ricompoNella pagina accanto, dall’alto: scene tratte, rispettivamente, da The Northman (2022) e The Dig (2021).

sto, nonostante fosse ridotto in frammenti molto minuti. Basti pensare che dei 4600 elementi in metallo che costituiscono il tesoro, piú di un terzo sono riconducibili a questo elmo e che la sua ricomposizione ha richiesto ben 18 mesi! Doveva essere un manufatto splendido, come finora ne sono stati trovati ben pochi. Il confronto migliore è l’elmo del re sepolto a Sutton Hoo. Quello dello Staffordshire comprendeva, oltre alla calotta, i paraguance e il paranaso (vedi disegno ricostruttivo a p. 52, in alto); ed era interamente decorato con scene di vario tipo: cortei di guerrieri nudi con scudo e lancia, un cavaliere (forse un re) che sferra un attacco lancia in resta, mentre un nemico trafigge il suo destriero; e ancora, file e file di guerrieri, ognuno con un’armatura diversa. L’elmo doveva essere sormontato da una cresta, come quelle dei tipici copricapi dei soldati romani. Probabilmente era l’elmo di un capo, forse di un grande re. E poi fanno parte del tesoro alcuni oggetti a carattere cristiano, tra cui due croci. La prima è una croce da processione (o forse da altare), in oro, decorata con grandi gemme alle estremità; è stata ritrovata piegata in maniera intenzionale, tutta contorta. A una seconda croce apparteneva una striscia di metallo (sempre oro) piuttosto lunga, che su due lati porta la stessa iscrizione in latino, che tradotta suona: «Sorgi, signore, e siano dispersi i tuoi nemici e fuggano da te coloro che ti odiano». Sono versi tratti dall’Antico Testamento, dal Libro dei Numeri. Non si può escludere, vista la natura militare della maggior parte degli altri oggetti, che questa croce venisse portata in guerra, con un intento apotropaico: doveva, cioè, aiutare l’esercito a vincere la battaglia, magicamente. Piú in generale, non deve stupire la presenza di reperti di questo tipo, a cui si affianca un elemento di un copricapo probabilmente relativo

all’abito di un vescovo. Nell’Alto Medioevo era previsto che sacerdoti e monaci fossero presenti in battaglia, per intercedere a favore del proprio esercito con canti e preghiere.

IL TESORO: INTERPRETAZIONE Fin dal momento della scoperta, gli studiosi hanno dovuto faticare per cercare di dare un senso a tutto questo. Perché il tesoro pone un solo, ma grave problema: manca il contesto di riferimento. Subito dopo la scoperta, due squadre diverse di archeologi hanno scavato e indagato quel campo, ma si è capito che lo hanno fatto con troppa fretta, e inseguendo principalmente uno scopo: recuperare tutto il tesoro, per evitare che cadesse nelle mani dei tombaroli. L’indagine non è stata pianificata come si dovrebbe e cosí si sono persi molti dati. Sembra, per esempio, che alcuni oggetti fossero dentro borse di cuoio, le cui tracce però si sono dissolte perché scavate senza troppa cura. E forse, con piú attenzione, si sarebbe potuto capire se il tesoro fosse connesso a una qualche struttura, come per esempio una abitazione costruita interamente in legno. Una circostanza che potremmo in qualche modo paragonare a un episodio della serie televisiva CSI, nel quale fosse arrivata sulla scena del delitto una squadra un po’ inesperta, molto attenta non tanto a recuperare tutti gli indizi, quanto a trovare solo i piú evidenti, senza preoccuparsi del resto. Suggestioni poliziesche a parte, il risultato finale è che per il tesoro dello Staffordshire ci troviamo alle prese con un gran numero di oggetti, interi e in pezzi, e nient’altro. Risolvere un rompicapo del genere è difficile, ma non per questo ci si deve arrendere. Una delle interpretazioni possibili, visto che il tesoro comprende 74 pomi di spade (la parte terminale dell’impugnatura), è che si tratti di una riserva che si trovava nella dia r c h e o 51


MOSTRE • REGNO UNITO

sponibilità della guarnigione di un nobile, del suo esercito personale. Sebbene si tratti della piú ingente massa di oggetti preziosi mai trovati in Gran Bretagna, il suo valore complessivo è pari a 800 solidi d’oro. Il che vuol dire: il costo di 80 cavalli, perché un cavallo in questo periodo vale 10 solidi. Ma per equipaggiare un valido esercito, occorreva ben altro: ci voleva l’equivalente di ben 50 tesori come questo!

UN BOTTINO DI GUERRA? Questo dato, dal punto di vista storico ed economico, ridimensiona notevolmente la scoperta. Ma ci lascia comunque incuriositi, con le stesse domande di prima. E allora, una possibilità è che il tesoro dello Staffordshire sia un bottino di guerra, un trofeo raccolto dopo uno scontro tra gli eserciti di due re o nobili diversi. I vincitori avrebbero strappato le armi ai perdenti, e sotterrato gli oggetti piú preziosi per poi recuperarli, e magari fonderli, per creare altre ricchezze. Ciò spiegherebbe perché delle spade sono stati trovati i pomi, e altre decorazioni delle impugnature e delle cinture (le parti piú ricche e preziose), ma mancano completamente le lame, sulla cui sorte non sappiamo nulla. Oppure, potremmo interpretare il tesoro come una collezione di oggetti messi insieme da un nobile, pronti per essere donati al suo piccolo esercito in cambio della fedeltà. O ancora, potrebbe essere il tesoro di un re: forse il re di Mercia, un regno che nasce proprio in questo periodo e di cui fa parte la zona del ritrovamento. Altrimenti è possibile pensare che si tratti del tesoro di un altro re, di cui in qualche modo (per furto? Come bottino di guerra?) era entrato in possesso il re di Mercia. E allora, in questo 52 a r c h e o

Disegno ricostruttivo dell’elmo a cui appartiene oltre un terzo degli oggetti che compongono il tesoro dello Staffordshire e, in basso, uno dei paraguance del magnifico copricapo.

scenario possiamo inquadrare due indizi piuttosto importanti. Il primo è che svariati oggetti del tesoro trovano riscontri in alcuni reperti della tomba 1 di Sutton Hoo, il che rende possibile pensare che siano stati prodotti proprio nel regno di East Anglia. Il secondo, tramandato dai testi, è che, verso la metà del VII secolo, un re di Mercia, Penda, attaccò e sconfisse uno degli eredi di Raedwald. Se fosse cosí, avremmo il nome del personaggio storico a cui riferire l’episodio. E saremmo proprio agli albori del regno di Mercia, che nasce piú tardi di altri e guadagna spazio in breve tempo grazie a scontri e aggressioni a spese dei vicini. Questo, dunque, è il punto d’arrivo.


Qui le due storie si fondono e risulta piú chiaro lo spirito che ha animato la realizzazione della mostra. Un progetto concepito per spiegare l’età dell’oro dell’Inghilterra postromana. In questi luoghi, dopo l’abbandono dell’esercito imperiale nel

410, il panorama cambia in maniera sensibile, e rapidamente. La situazione si fa magmatica, con i signori locali che progressivamente assumono lo status di re, e che devono garantire le difese per sé e i propri sudditi, perché lo stato di guerra è

UN’ACCOPPIATA VINCENTE La mostra «Swords of Kingdoms» («Spade reali») è allestita a Sutton Hoo, presso il centro gestito dal National Trust. Presenta una selezione di oggetti dagli scavi di Sutton Hoo e dal tesoro dello Staffordshire, per la prima volta affiancati. Sono inoltre esposti altri reperti del periodo anglosassone, conservati presso il Norwich Castle Museum. L’idea è vincente, perché prende le mosse dalle forti similitudini tra gli oggetti dei due contesti: armi, gioielli, accessori che potrebbero essere stati prodotti, nel VII secolo, da un’officina altamente specializzata del regno di East Anglia, il territorio di cui era sovrano proprio quel Raedwald sepolto nella barca sotto il tumulo 1 di Sutton Hoo. Spade, elmi, selle da cavallo, fibbie, fermagli, le grandi croci e altri oggetti, come gli straordinari elementi a tronco di piramide: questi i reperti esposti, realizzati in oro, argento e granati rossi sfavillanti. Attraverso gli oggetti scaturisce un quadro dal grande fascino, quello di un’Inghilterra tardo-antica nel pieno della sua costruzione. Un vero cantiere politico e istituzionale, dominato da re, signori, vescovi, che si muovono e agiscono in uno scenario di guerra incessante. Ma non pensate ai soliti luoghi comuni sui barbari rozzi e sanguinari, né al facile catastrofismo legato alla fine dell’impero romano, perché la mostra è stata concepita e realizzata in modo intelligente e istruttivo dall’archeologo che piú ha lavorato sul tesoro dello Staffordshire: Chris Fern, un grande conoscitore della cultura materiale tardo-antica. Una vera garanzia, come conferma la splendida edizione definitiva del tesoro da lui curata (assieme a Tania Dickinson e Leslie Webster): The Staffordshire Hoard, un poderoso libro che analizza nel dettaglio il tesoro, pezzo per pezzo, con splendidi disegni e fotografie, e si conclude con una densa discussione critica sul ritrovamento. Elemento ornamentale in oro, lavorato a filigrana, con terminazione in forma di testa equina.

praticamente endemico, incessante. Le due scoperte straordinarie che dialogano tra loro nella mostra, i tumuli di Sutton Hoo e il tesoro dello Staffordshire, ci offrono due angolazioni diverse dello stesso mondo: un universo di Stati in formazione, i cui sovrani e le popolazioni condividono credenze e ispirazioni comuni, con forti riferimenti al mondo germanico; e, al tempo stesso, illuminano un’epoca molto particolare, in cui il cristianesimo inizia ad affermarsi, inizialmente incontra resistenze anche notevoli (come a Sutton Hoo), ma poi, piuttosto rapidamente, riesce a permeare le varie sfere della società e della vita quotidiana. È un universo in trasformazione, dove i simboli del potere sono le spade, le cinture, gli anelli, come racconta il poema Beowulf e come, molto piú tardi, racconterà (trasfigurato nella sfera fantasy) il grande J.R.R. Tolkien, che non a caso, prima di essere un romanziere, era soprattutto un grande studioso della letteratura anglosassone; e successivamente diventeranno simboli del potere anche le croci, per la sfera ecclesiastica di quella società. Il sovrano del tesoro dello Staffordshire (forse Penda, re di Mercia) e quello del tumulo 1 di Sutton Hoo (forse Raedwald, re di East Anglia) erano autentici «signori degli anelli», come dimostrano le spade con il pomo impreziosito da un anello che ritroviamo in entrambi i contesti. Sono loro, i due personaggi che idealmente si danno la mano in questa mostra, gli ultimi protagonisti di uno snodo fondamentale della storia d’Inghilterra: da pagana a cristiana, da romana ad anglosassone. DOVE E QUANDO «Spade reali. Il tesoro dello Staffordshire a Sutton Hoo» Sutton Hoo, Exhibition Hall fino al 30.10.22 Info www.nationaltrust.org.uk a r c h e o 53


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TESORI DA UNA «VENEZIA DI MONTAGNA» LA CITTADINA DI FELTRE, POSTA ALLE PENDICI DELLE DOLOMITI TRA BELLUNO E TRENTO, FU OPPIDUM RETICO E, POI, IMPORTANTE MUNICIPIUM ROMANO. UN NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO – APPENA INAUGURATO – NE RACCONTA LA STORIA, GRAZIE ANCHE ALL’IMPIEGO DI TECNOLOGIE MULTIMEDIALI IN GRADO DI ESALTARE IL VALORE DEI SUOI PREZIOSI REPERTI di Giuseppe M. Della Fina

L’ Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono alle opere e all’allestimento del Museo Archeologico di Feltre. Statua monumentale in marmo greco di Esculapio, dall’area antistante il Duomo.

apertura al pubblico del Museo Archeologico di Feltre (Belluno) ha aggiunto un nuovo e importante tassello al patrimonio museale del Veneto. Le collezioni del museo sono ospitate nel suggestivo pianterreno di Palazzo Villabruna, che già accoglieva il Museo Civico con la sua preziosa pinacoteca e una serie di arredi, ceramiche e suppellettili databili tra il Quattrocento e l’Ottocento (vedi box a p. 63, in basso). Il palazzo stesso riveste un interesse notevole, tanto da essere stato definito «l’esempio piú raffinato dell’edilizia cinquecentesca urbana feltrino» (Andrea Bona e Tiziana Conte, Feltre. Architetture della città storica, 1999). Edificato probabilmente già nel Quattrocento con la funzione di palazzofondaco, venne pesantemente dan-

neggiato e, quindi, ricostruito nel linguaggio rinascimentale. Al termine della prima guerra mondiale fu acquistato dal Comune di Feltre e destinato a sede museale. Un restauro finalizzato a renderlo piú idoneo alla nuova destinazione fu realizzato negli anni Venti del Novecento, sotto la direzione dell’architetto Alberto Alpago Novello. Il nuovo museo è nato per iniziativa dell’amministrazione comunale in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso e in sinergia con le altre realtà significative, sia archeologiche che storico-artistiche, presenti sul territorio. Il percorso espositivo prende avvio dalle sale del museo, ma si estende – grazie a soa r c h e o 57


MUSEI • VENETO

luzioni all’avanguardia di approfondimento digitale – ai luoghi di rinvenimento dei reperti esposti arrivando a creare una mappa della collocazione dei principali monumenti della città antica. Ogni opera esposta è corredata da un QRCode che consente al visitatore di ricevere, sul proprio smartphone, le informazioni necessarie a farla comprendere e a inserirla nel contesto archeologico di provenienza. Il racconto proposto consente di seguire la storia della città antica dai

suoi inizi – da ricollegare alla civiltà dei Reti – agli sviluppi del municipium di epoca romana, istituito nel 39 a.C., che arrivò a esercitare un ruolo di primo piano nelle vallate alpine comprese tra Belluno e Trento, come suggerisce, tra l’altro, un’iscrizione scolpita a oltre 2000 m di altitudine sul Monte Pergol nella catena del Lagorai. Il percorso espositivo propone quindi la fase legata alla caduta dell’impero romano: un evento storico che sconvolse gli equilibri raggiunti.

Cortina d’Ampezzo Trentino Alto Adige

Belluno

Friuli Venezia Giulia

Feltre Lago di Garda

Vicenza

Treviso Padova

Venezia

Verona Rovigo Emilia Romagna

A sinistra: ara votiva in pietra calcarea del Cansiglio dedicata ad Anna Perenna, fu rinvenuta nel 1922 a sud del Duomo durante lo scavo per le fondazioni della canonica. I sec. d.C. Reca al centro l’iscrizione dedicatoria: ANNA(E) PERENNA(E), ovvero «Ad Anna Perenna». Nella pagina accanto: blocco di pietra sul quale è incisa un’iscrizione in caratteri retici.

ANNA PERENNA Due tradizioni raccontano la dea Anna Perenna: una – valorizzata, in particolare, da Ovidio (Fasti, III, 543-654) – vuole che sia la sorella di Didone. La giovane donna, dopo il suicidio della sorella abbandonata da Enea, fu costretta a lasciare Cartagine. Dopo varie peregrinazioni giunse sulle coste del Lazio, dove venne osteggiata da Lavinia che non vedeva di buon occhio la testimone di un grande amore del passato di colui che era divenuto suo marito. Anna fuggí di nuovo e Numicio, il dio di un fiume, l’accolse. Un’altra tradizione riconosce, invece, in lei una donna anziana di buon cuore che era stata vicina ai plebei di Roma durante i tumulti del 494 a.C. preparando focacce per loro. Per questo i plebei vollero tributarle onori divini. La sua festa coincideva con l’inizio della primavera e cadeva nella giornata del 15 marzo.

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Tra le opere esposte – pur invitando a non perdere il filo che lega mille anni di storia della città – ci si soffermerà su alcune di esse per il loro particolare interesse storico o artistico o per la loro singolarità. Si può partire da una monumentale statua del dio della medicina Esculapio – quasi un’icona del museo – realizzata in marmo greco e alta 220-230 cm (vedi foto a p. 56). Fu scoperta – ridotta in oltre duecento frammenti, considerando i minori – nel 1974 nell’area antistante al Duomo. L’accentuato stato frammentario della statua ha fatto pensare alla volontà di frantumarla, per ricavarne calcina o con intenti iconoclasti. Quale che sia stata l’intenzione, fortunatamente non si è riusciti a distruggerla completamente e un attento lavoro di restauro, avviato nel 2015 ed eseguito nel laboratorio di Diego Mal-

vestio, ha portato alla sua ricomposizione. Il dio è raffigurato in piedi, col peso del corpo caricato sulla gamba destra, mentre la sinistra è leggermente flessa; il busto mostra una lieve torsione. Il braccio sinistro è piegato e la mano è posta sul fianco relativo; quello destro – ora mancante – scendeva lungo la figura. Esculapio indossa l’himation e aveva con sé il corto bastone a cui era avvolto un serpente, che caratterizzava la divinità. La statua di Feltre rientra nel tipo statuario noto come «Museo Nuovo» e attestato da una quindicina di esemplari, tutti databili in età imperiale. In origine era sicuramente policroma.

dente): venne scoperta nel 1922 a sud della cattedrale durante uno scavo per le fondazioni della canonica. L’ara risulta frammentaria nella zona superiore destra, sul lato destro e nella parte inferiore; presenta una modanatura aggettante all’estremità superiore. Sulla fronte dell’ara è incisa, in lettere capitali, l’iscrizione ANNA(E) PERENNA(E), ovvero «Ad Anna Perenna» (vedi foto alla pagina precedente). Al momento, l’ara rinvenuta a Feltre è l’unica testimonianza del culto della dea fuori da Roma. È databile nell’ambito del I secolo d.C. Un altro reperto assai singolare è la stele funeraria che ricorda Lucius Oclatius Florentinus, un pretoriano originario del municipium di Feltria, UN CASO UNICO Dall’area del Duomo proviene an- in servizio presso la prima coorte che un’ara dedicata alla divinità An- pretoria e morto all’età di 24 anni. na Perenna (vedi box alla pagina prece- La singolarità è data dal fatto che lo

Il percorso espositivo del museo documenta la storia di Feltre, dai suoi esordi legati alla civiltà dei Reti fino all’istituzione del municipium, nel 39 a.C.

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stesso personaggio è ricordato in A destra: un’altra stele sempre funeraria sco- maschera comica perta a Roma, come se l’uomo fosin pietra se stato sepolto due volte. Ma pro- rinvenuta nel 1903 cediamo con ordine: la prima stele presso il funeraria venne scoperta a Feltre, Convento delle insieme ad altri quattro importanti Dimesse. reperti, a seguito di un nubifragio e I sec. d.C. della conseguente esondazione del Nella pagina torrente Colmeda, tra la fine di giuaccanto: un gno e i primi di luglio del 1564. particolare

I VIAGGI DI UNA STELE Dopo il ritiro delle acque, la stele, che probabilmente era stata utilizzata come materiale di riuso in uno dei ponti crollati, venne rinvenuta nei terreni di un tale Daniele Tomitano, nei pressi del Ponte delle Tezze. Compresa subito l’importanza della scoperta per la storia della città, la stele venne portata nella Platea Maior e posizionata nel cuore dell’insediamento, a breve distanza dal Palazzo Pretorio, da quello della Ragione e dalla chiesa di S. Stefano.

dell’allestimento del museo. In basso: testa in marmo di satiro, trovata nel 1935 nel corso di uno scavo occasionale condotto nel centro cittadino. Seconda metà del I sec. d.C.

L’USO DELLA MASCHERA Le maschere che venivano utilizzate negli spettacoli teatrali romani erano di legno o di tela, ricoprivano la testa per intero e presentavano capelli posticci. I tratti somatici erano generici, seppure fortemente caratterizzati, e permettevano quindi a uno stesso attore d’interpretare personaggi diversi. Le maschere, che s’ispiravano a quelle già in uso nel teatro greco e in quello etrusco, avevano anche la funzione di amplificare la voce come dei megafoni. L’uso della maschera – obbligatorio nella tragedia – venne introdotto piú tardi nella commedia. La svolta viene attribuita al capocomico Minucio Protimo nel 130 a.C. Un attore che ne favorí la diffusione fu il celebre Quinto Roscio.

In seguito fu venduta a Federico Contarini e trasferita prima a Venezia, poi a Padova e quindi a Este, nelle collezioni del Museo Nazionale Atesino. Da lí è tornata a Este nel 1949. L’epigrafe che la caratterizza ricorda che venne commissionata da Lucius Oclatius Rocianus in memoria del padre Lucius Oclatius Tertius e del fratello Lucius Ocla-

tius Florentinus, il giovane pretoriano appena ricordato. Tutti e tre erano originari di Feltre in quanto indicati come appartenenti alla tribú Menenia, alla quale il municipium di Feltria faceva riferimento. Si trattava di esponenti di una famiglia importante della città: il dedicante aveva esercitato diverse magistrature sul posto, mentre il a r c h e o 61


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UN SEMPLICE INCANTO Alcune righe riescono a restituire bene l’immagine di Feltre e a suggerire la funzione svolta dalla città rispetto al suo territorio di pertinenza. Si devono al pittore e scrittore Anselmo Bucci e vennero pubblicate sul Corriere della Sera nel 1955: «Feltre vecchia è una piccola Venezia rupestre, sul crinale del colle; si riassume in una via illustre in salita e in discesa tra due porte della città; coronata nel sommo da una piazza monumentale, a gradinate e a quinte, a porticati e a logge. È un semplice incanto. Qui Venezia è ristretta, irrobustita, semplificata; è fatta montanina».

fratello, che aveva scelto di trasferirsi a Roma, aveva militato nella guardia d’élite dell’imperatore. Potrebbe trattarsi di una storia interessante, che racconta personaggi e vicende della provincia in epoca romana imperiale, ma, in questo caso, c’è qualcosa di piú. Infatti a Roma nel 1911, «a circa 70 metri a ovest dell’imbocco della via Cassia», durante dei lavori di sterro per la costruzione di un poligono di tiro a segno della Farnesina, venne rinvenuta una necropoli che restituí un sarcofago pregevolissimo, un’olla funeraria in marmo greco e una cinquantina di iscrizioni di carattere funerario. Una di esse era una stele che menzionava sempre Lucius Oclatius Florentinus, e a dedicarla erano stati i fratelli Statutus e Tertius. L’iscrizione rinvenuta Roma è molto dettagliata: si ricorda che il defunto era figlio di Lucius Oclatius Tertius, aveva fatto parte della tribú Menenia ed era originario di Feltre. Non solo ricorda la coorte nella quale aveva militato, ma anche la centuria e il suo comandante, un tale Verus. Inoltre suggerisce che era stato arruolato a 18 anni. Tali informazioni consentono d’ipotizzare che il giovane sia vissuto nella prima metà del I secolo d.C. È interessante notare, inoltre, come tre fratelli si fossero trasferiti a Roma almeno per un periodo della loro 62 a r c h e o


L’AREA ARCHEOLOGICA STATALE Visitato il museo, si può raggiungere l’area archeologica portata alla luce grazie a campagne di scavo iniziate nel 1970 nella zona del piazzale del Duomo di Feltre. L’area aperta al pubblico dal 1995 offre l’occasione per effettuare un viaggio a ritroso nella storia della città dal periodo romano a quello medievale. In particolare, le strutture romane visibili testimoniano un settore di

un quartiere urbano di Feltria nella fase di maggiore splendore del centro tra il II e il IV secolo d.C. con alcune botteghe e la sede di alcune associazioni professionali della città. La fase medievale è indicata invece dai resti di un edificio, connesso probabilmente con l’antico complesso episcopale (VIII-IX secolo), e da un battistero a pianta circolare (XI-XII secolo).

vita, mentre uno Lucius Oclatius Rocianus era rimasto a Feltre. Il ricordo del giovane pretoriano era caro evidentemente all’intera famiglia.

In alto: la Piazza Maggiore di Feltre, cuore della cittadina veneta. Nella pagina accanto: la statua, posta in Piazza Maggiore, di Vittorino da

Feltre, importante umanista ed educatore di alcune delle piú nobili famiglie italiane. In basso: Palazzo Villabruna.

AERONIA, MOGLIE DOLCISSIMA Due sale del nuovo museo sono dedicate al culto dei morti in epoca romana. Al loro interno si segnalano un frammento di sarcofago rinvenuto nel 2002 a Palazzo Bizzarrini e una sepoltura rinvenuta negli anni Cinquanta del Novecento in località Murada, a Sovramonte. All’inter-

no di quest’ultima vi era un’urna con coperchio in pietra contenente ossa incinerate e un’iscrizione, databile nel II secolo d.C., che ricorda Aeronia Maxima, una donna scomparsa a 35 anni e definita «moglie dolcissima e madre». Si è conservato anche il suo corredo per il viaggio verso l’oltretomba: cinque monete, una fusaiola in osso decorata, cinque

frammenti di bracciali, un’armilla in bronzo e un ago. Alcuni degli oggetti – la fusaiola, l’ago – sembrano rinviare alle sue occupazioni. Da un contesto diverso proviene la raffigurazione di un satiro che accoglie il visitatore nella seconda sala, dedicata alla piccola scultura (vedi foto a p. 61, in basso). Il rinvenimento avvenne nel 1935 durante

IL MUSEO CIVICO Palazzo Villabruna ospita storicamente il Museo Civico di Feltre, che si caratterizza soprattutto per la sua interessante pinacoteca. Essa accoglie opere di pittori di alto livello: Gentile Bellini, Vittore Belliniano, Giambattista Cima da Conegliano, Jacopo Palma il Giovane, Pietro Liberi, Gregorio Lazzarini e Pietro della Vecchia. Un interesse particolare rivestono anche le sculture lignee policrome del Cinquecento, del Seicento e del Settecento. Sempre in legno è un modello di fontana realizzato da Valentino Panciera Besarei (1863).

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MUSEI • VENETO

Sulle due pagine: altri particolari dell’allestimento del nuovo Museo Archeologico di Feltre.

uno scavo occasionale al raccordo tra via Mezzaterra e piazzetta Trento e Trieste, presso i Portici. La zona ricadeva nell’area di sviluppo del municipium di Feltria e le indagini archeologiche condotte nei decenni successivi hanno suggerito che fosse occupata da un quartiere residenziale. Proprio da una domus urbana proviene il satiro, che si trovava probabilmente in un giardino, cosí come una fontanella in marmo rinvenuta sempre nei pressi ed esposta nella stessa sala. Realizzata in marmo di Luni, la testa di satiro è lievemente inclinata e in torsione verso sinistra, presenta 64 a r c h e o

un naso camuso e orecchie con la tipica terminazione a punta, un viso ovale, una fronte ampia e liscia con capelli resi a ciocche corpose trattenuti da una benda. Gli occhi presentano un incavo che originariamente doveva essere colmato da pasta vitrea colorata. È caratterizzato, inoltre, da una ricca corona vegetale conservata solo in parte. Va segnalato che la testa è priva della calotta cranica, che doveva essere stata realizzata separatamente già in antico secondo una tecnica ampiamente attestata, e, nella parte inferiore, termina in un perno troncoconico che ne doveva facilitare l’in-

serimento nel corpo di una statua. Il deciso movimento della testa ha fatto pensare che la statua del satiro potesse essere stata affiancata a un’altra scultura che avrebbe potuto raffigurare un bambino, una pantera o un grappolo d’uva. A lungo si è ritenuto il satiro un’opera moderna, oggi si tende a datarlo nella seconda metà del I secolo d.C.

IL TEATRO CHE NON C’ERA Colpisce poi una maschera comica in pietra databile nel I secolo d.C. e rinvenuta presso il Convento delle Dimessse, vicino al vecchio Ospe-


dale di Ognissanti (poi Ospedale psichiatrico; vedi foto a p. 61, in alto). La sua scoperta ha suggerito che nella zona potesse trovarsi il teatro romano della città. Le stesse caratteristiche dell’area lo facevano ritenere possibile: l’andamento morfologico digradante del colle e l’esposizione al sole idonea per le esigenze degli attori e degli spettatori. Tuttavia, un recente intervento di archeologia urbana, realizzato in occasione della ristrutturazione di alcuni edifici, sembra escluderlo o, almeno, metterlo in dubbio. La maschera raffigura un volto maschile con la bocca spalancata, il

mento presenta una barba a corti riccioli, mentre la fronte aggrottata è sovrastata da una acconciatura femminile a diadema. La visita del nuovo Museo Archeologico di Feltre – di cui è previsto un ulteriore ampliamento – consente di conoscere la vita di un vivace municipum romano sorto in un distretto territoriale di grande interesse, di gettare uno sguardo ancora piú indietro nel tempo andando alla ricerca delle sue origini retiche e, al contempo, di ripercorrere le vicende della riscoperta, segnata da ritrovamenti casuali e da indagini archeologiche sistematiche.

DOVE E QUANDO Museo Archeologico di Feltre Feltre (BL), Palazzo Villabruna Orario gen-lug e ott-dic: venerdí, sabato, domenica e festivi, 10,30-13,00 e 15,00-18,00; ago-set: venerdí, sabato, domenica, lunedí e festivi, 10,00-18,00; chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info tel. 0439-885241; e-mail: museifeltre@ aqua-naturaecultura.com

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PROTAGONISTI • GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI

QUEI «SOGNI» DI UN RAGAZZO PRODIGIO 66 a r c h e o


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econdo quanto tramandato dall’archeologo Rodolfo Lanciani (1845-1929), nel 1861, all’indomani della pubblicazione del primo volume delle Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores di Giovanni Battista de Rossi, l’insigne storico tedesco Theodor Mommsen (1817-1903), nel presentare in Campidoglio l’opera ai soci dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica ebbe a dire: «Oggi termina il periodo dell’eclettismo e del dilettantismo nell’archeologia cristiana, ed incomincia la vera scienza». Con poche ma incisive parole, dunque, il celebre studioso nativo di Garding poneva de Rossi – che, piú tardi, nel 1873, egli stesso avrebbe definito Italiae lumen – al centro della scena culturale internazionale del tempo, designandolo senza mezzi termini quale iniziatore dell’archeologia cristiana, una vera disciplina scientifica e non piú, come era stato sino a quei giorni, solo un passatempo dotto per antiquari dilettanti o uno strumento di propaganda apologetica Stampa a colori raffigurante Giovanni Battista de Rossi che illustra a papa Pio IX la Cripta dei Papi da lui scoperta nel 1854 nelle catacombe di S. Callisto. L’archeologo trovò nel pontefice un sostenitore appassionato delle sue ricerche e poté giovarsi anche di cospicui finanziamenti per il loro svolgimento.

DUECENTO ANNI FA NASCEVA A ROMA GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI, «INVENTORE» DELL’ARCHEOLOGIA CRISTIANA. ANIMATO DA UNA PASSIONE MATURATA FIN DA GIOVANISSIMO, ELABORÒ UN APPROCCIO SCIENTIFICO PER LO STUDIO DELLE TESTIMONIANZE LASCIATE DAI PRIMI FEDELI DELLA DOTTRINA DI CRISTO. E RENDENDOSI COSÍ PROTAGONISTA DI SCOPERTE DI ECCEZIONALE IMPORTANZA di Massimiliano Ghilardi

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PROTAGONISTI • GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI

di derivazione post-tridentina per ecclesiastici eruditi. Nato a Roma il 23 febbraio del 1822, de Rossi non aveva allora ancora compiuto quarant’anni e, soprattutto, non aveva ancora dato alla luce le principali opere per le quali oggi è universalmente celebrato, eppure già si era imposto a livello internazionale per la rilevanza delle scoperte archeologiche effettuate e per la rivoluzionaria impostazione metodologica applicata alle proprie ricerche. Uno studioso, dunque, di completa rottura con il mondo culturale che lo aveva preceduto e che lo circondava e, in particolar modo, un ricercatore talentuoso e precoce.

UN REGALO SPECIALE Due aneddoti, narrati dai suoi biografi e pubblicati quando de Rossi era ancora vivente, illustrano in modo assai significativo la straordinaria precocità del giovane Giovanni Battista. Il primo, tramandato da Paul Maria Baumgarten nella biografia donata allo studioso nel 1892, in occasione del suo settantesimo genetliaco, ci rimanda al 1833, allorquando, per il compimento dell’undicesimo anno di età, Giovanni Battista, pur senza però poterla ricevere perché già allora introvabile sul mercato antiquario, avrebbe chiesto ai genitori in dono una copia della monumentale Roma sotterranea di Antonio Bosio, opera pubblicata in folio nel 1632 e ancora oggi considerata la base di partenza insostituibile per le ricerche sulle catacombe romane. Il secondo aneddoto, assai piú celebre del primo, rimanderebbe al principio del 1838: Giovanni Battista, allora sedicenne, in attesa che il padre, il commendatore Camillo Luigi, già segretario del nunzio apostolico Lorenzo Caleppi e poi segretario del cardinale segretario di Stato Ercole Consalvi, sbrigasse alcune pratiche in Segreteria di Stato, si mise a trascrivere in un taccuino 68 a r c h e o

L’iscrizione frammentaria riferibile a papa Cornelio (al centro) in una tavola tratta dal primo volume dell’opera La Roma sotterranea cristiana, pubblicato da Giovanni Battista de Rossi nel 1864. Nella pagina accanto: affresco raffigurante papa Cornelio e Cipriano di Cartagine. III sec. Roma, catacombe di S. Callisto.

alcune iscrizioni greche murate lungo le pareti della Galleria Lapidaria della Biblioteca Vaticana, attirando l’attenzione di Angelo Mai, già primo custode della Biblioteca Vaticana, da poco elevato alla porpora cardinalizia. Incuriosito dall’insolita scena, il dotto cardinale lombardo chiese al giovinetto se fosse in grado di comprendere correttamente i non semplici dettati epigrafici in caratteri greci, offrendogli allo stesso tempo

un eventuale aiuto per la trascrizione e l’interpretazione dei passaggi piú complessi. Il ragazzo accolse con piacere il cortese invito per decifrare un passo di controversa lettura, tuttavia Mai non poté offrire l’aiuto promesso, perché il testo presentava anche per lui, illustrissimo filologo, difficoltà esegetiche epigrafiche impreviste. Al di là dell’attendibilità storica dell’episodio, certo è che de Rossi aveva mostrato assai presto un inte-


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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PROTAGONISTI • GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI

resse non comune verso la cultura epigrafica. Il cardinale Mai, del resto, non fu l’unico incontro importante della vita di Giovanni Battista mediato dai documenti epigrafici. Il 20 luglio del 1842, infatti, nella vigilia della memoria liturgica di Santa Prassede, mentre il ventenne de Rossi si trovava nella cripta della basilica esquilina dedicata alla martire romana intento a trascrivere iscrizioni paleocristiane, ebbe luogo lo storico incontro con il celebre gesuita padre Giuseppe Marchi, allora impegnato a censire testi iscritti per la redazione di un volume che fosse il complemento epigrafico della sua opera, intitola70 a r c h e o

ta Monumenti delle arti cristiane pri- vocazione sin dalla prima infanzia. mitive nella metropoli del cristianesimo, L’occasione per intraprendere gli uscita due anni piú tardi. studi da sempre sognati gli venne fornita, al principio del 1844, dalla chiamata del cardinale bibliotecario UNA VOCAZIONE Luigi Lambruschini alla Biblioteca DI ANTICA DATA L’incontro con il dotto gesuita rap- Vaticana, dove de Rossi entrò in presentò una svolta fondamentale qualità di coadiutore, con futura per Giovanni Battista che, conse- successione, di Sebastiano Santucci, guita l’anno successivo la laurea in scriptor latinus. Le impegnative manutroque iure (letteralmente, «nell’uno sioni di scrittore latino non distole nell’altro diritto», civile e canoni- sero, tuttavia, il ventiduenne Gioco, n.d.r.) all’Università La Sapien- vanni Battista dalle antichità cristiaza, decise allora di dedicarsi a tem- ne e, piú in particolare, dalle catapo pieno allo studio del mondo combe della campagna romana, che antico, per il quale nutriva, come aveva iniziato ad indagare in comsoleva piú tardi ripetere spesso ai pagnia di padre Marchi a partire propri allievi, una vera e propria dall’autunno di due anni prima.


E proprio nell’estate del 1844, in compagnia del fratello Michele Stefano, allora di soli dieci anni di età – e poi celebre geofisico –, Giovanni Battista effettuò la sua prima importante scoperta lungo la via Appia antica, all’interno della allora Vigna Molinari. Forte dell’impareggiabile padronanza delle fonti cristiane antiche che da anni compulsava con acribia – e, in particolare, grazie alla conoscenza puntuale degli antichi itinerari dei pellegrini altomedievali, che in quell’area a piú riprese segnalavano la presenza di venerabili reliquie –, de Rossi riconobbe nei ruderi di due edifici polilobati ridotti a uso agricolo – uno era stato

Nella pagina accanto: catacombe di S. Callisto (Roma), la Cripta dei Papi, nella quale furono sepolti 9 pontefici del III sec.: Ponziano, Anterote, Fabiano, Lucio, Stefano, Sisto II, Dionisio, Felice ed Eutichiano.

In alto: catacombe di S. Callisto, la Cripta di S. Cecilia. Secondo una tradizione leggendaria, qui fu sepolta la martire romana. Nella nicchia è una copia della statua della santa realizzata da Stefano Maderno nel 1599.

trasformato in stalla, l’altro in cellaio per la conservazione delle botti di vino – altrettanti antichi santuari martiriali. Secondo un approccio metodologico del tutto rivoluzionario per le ricerche di quel tempo, de Rossi – leggendo in modo sinottico fonti letterarie e resti archeologici – compiva dunque una vera e propria storicizzazione di quei preziosi monumenti del primitivo cri-

stianesimo, riscattandoli dall’oblio che per secoli li aveva avvolti. Cinque anni piú tardi, nell’autunno del 1849, appena conclusasi la complessa stagione della Repubblica Romana, in quello stesso luogo che riveste un ruolo incipitario per la grande avventura archeologica di Giovanni Battista de Rossi, il giovane archeologo romano compí una nuova sensazionale e fortuita scoa r c h e o 71


PROTAGONISTI • GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI

perta: ispezionando alcune lastre di marmo accatastate dal proprietario della vigna accanto a uno dei due edifici triabsidati, de Rossi rinvenne il frammento di un’iscrizione latina mutila recante le lettere RNELIUS MARTYR, che immediatamente intuí essere parte della lastra di chiusura del loculo funerario del pontefice Cornelio, morto esule a Centumcellae nel giugno dell’anno 253 e poi, come documentato dal Liber Pontificalis, traslato alcuni decenni piú tardi a Roma.

«TRATTATO DA PAZZO...» Tuttavia, la sua intuizione immediata, come egli stesso soleva piú tardi ripetere con una certa frequenza, non venne accolta favorevolmente dagli studiosi del tempo, che lo additarono quale inguaribile sognatore: «Avvicinatomi, dopo molti giri e avvolgimenti nella rete sotterranea – sto citando dalle memorie derossiane –, (…) con piglio fermo e risoluto gridai: “quando un giorno mi si darà ascolto e saranno estratti questi cumuli di macerie, sotto essi troveremo i sepolcri di Sisto e di Cecilia, con tutta la nobile corte, che loro assegnano la storia ed i

topografi”. Fui trattato da pazzo: consigliato a calmarmi per non espormi al rischio di far ridere di me e dell’archeologia». Data l’evidente importanza della lapide casualmente riscoperta nella vigna dell’Appia, l’archeologo romano – atteso il rientro di Pio IX dal lungo esilio seguito all’uccisione di Pellegrino Rossi (l’economista e uomo politico che il papa aveva nominato ministro dell’Interno e della Polizia, con l’interim alle Finanze, n.d.r.), accoltellato a morte il 15 novembre del 1848 a Roma sulle scale del Palazzo della Cancelleria – chiese allora udienza al pontefice per supplicarlo di acquistare quel terreno, perché, a suo avviso, se vi fossero stati condotti scavi programmatici, si sarebbero potute rinvenire in quel sottosuolo le piú preziose vestigia del primo cristianesimo romano. Ascoltate le accorate richieste, il pontefice si congedò dal de Rossi dicendogli che una cosí piccola prova documentaria – ovvero una lapide in marmo incompleta – non poteva consentire un tanto grande investimento economico, essendo la sua ricostruzione a tutti gli effetti

A sinistra: la collezione epigrafica di Giovanni Battista de Rossi, donata nel 1928 al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana di Roma, presso il quale è oggi conservata. La raccolta si compone di 163 iscrizioni, in grande maggioranza pagane (otto solo sono le cristiane e una giudaica), databili per lo piú tra il I e il III sec. 72 a r c h e o


Incisione di Giovanni Battista Piranesi raffigurante, al centro, il Palazzo del Laterano dove de Rossi inaugurò, nel 1854, il Museo Cristiano.

solo un «sogno degli archeologi». Tuttavia, appena uscito de Rossi dal suo studio, Pio IX – sto seguendo ancora il racconto come da lui stesso tramandato nelle sue memorie – convocò il proprio cameriere segreto Frédéric-François-Xavier Ghislain de Mérode al quale, ridendo, avrebbe giocosamente detto:

«Ho cacciato via il de Rossi come un gatto frustato, ma nondimeno comprerò la vigna». Ottenuto da Pio IX l’acquisto del terreno e presto iniziati in quel luogo gli scavi, nel marzo del 1852 – ovvero pochi mesi dopo l’istituzione della Commissione di Sagra Archeologia, fondata il 6 gennaio

del 1852 – de Rossi poté penetrare in un ambiente ipogeo e rinvenire, ancora in situ, il resto dell’iscrizione che, ricomposta con il primitivo frammento, permetteva di localizzare in quel luogo e senza alcun rischio di errore la sepoltura del papa Cornelio. La sensazionale scoperta, come è a r c h e o 73


PROTAGONISTI • GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI

comprensibile, suscitò una vasta eco nella comunità scientifica internazionale del tempo e – minuta spigolatura che, tuttavia, è il sensore eloquente dell’importanza del rinvenimento – finí per essere ricordata anche nelle pagine del piú celebre romanzo dell’Inghilterra vittoriana, ovvero Fabiola, or the Church of the Catacombs del cardinale Nicholas Wiseman, la cui prima edizione londinese è del 1854. Anno in cui, si verificò – ancora grazie al de Rossi – una delle piú importanti scoperte archeologiche di ogni tempo. Nel marzo di quell’anno, infatti, in quello stesso labirinto di gallerie sottostanti la vigna ex Molinari tornò in luce la Cripta dei Papi, uno dei luoghi piú sacri della prima età cristiana per avere ospitato le sepolture di nove pontefici del III secolo, dei quali in parte era ancora possibile leggere i nomi incisi sulle epigrafi che un tempo chiudevano i loculi. A terra sul pavimento, rotta in centoventisei frammenti, de Rossi rinvenne anche un’iscrizione metrica di papa Damaso in onore dei santi venerati in quel luogo.

LA VISITA DEL PAPA Informato di tali scoperte, sulle quali egli stesso chiedeva di essere costantemente aggiornato, Pio IX – alter Damasus, come ebbe a definirlo de Rossi nella dedica del primo volume de La Roma sotterranea cristiana – l’11 maggio del 1854 volle visitare lo scavo ancora in corso. Emozionatosi sino alle lacrime nel leggere e toccare con mano i nomi dei propri predecessori, il papa chiese a de Rossi se tutto ciò fosse stato vero e non ci fossero possibilità di errori interpretativi. Memore dei dubbi un tempo manifestati dal pontefice a proposito delle indagini da eseguirsi in quella vigna, l’archeologo romano gli avrebbe allora ironicamente risposto: «Ma sono tutti so74 a r c h e o

gni, Padre Santo, sono tutti sogni!». Al momento di questa eccezionale scoperta, de Rossi aveva solo trentadue anni, ma il suo nome – quell’anno legato anche all’inaugurazione del Museo Cristiano nel Palazzo del Laterano – circolava ormai in modo sempre piú prepotente negli ambienti culturali di tutta Europa. Ne è testimonianza, ad esempio, il ricchissimo epistolario – circa 27 000 lettere – che di lui si conserva alla Biblioteca Vaticana e che vede, tra i numerosissimi corrispondenti non italiani, personalità del calibro di Prosper Guéranger, Edmond-Frédéric Le Blant e Louis Duchesne, solo per menzionare alcuni nomi di studiosi sul versante transalpino, oppure, solo per citarne alcuni altri di lingua tedesca, Alexander Christian Leopold Conze, Johann Heinrich Wilhelm Henzen e, soprattutto, il già ricordato Theodor Mommsen. Proprio quest’ultimo, in quello stesso anno 1854, richiese la collabora-

L’archeologo ed epigrafista Giovanni Battista de Rossi (1822-1894).

zione di de Rossi, assieme a quella di Henzen, all’epoca vicesegretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica, per realizzare la monumentale impresa del Corpus Inscriptionum Latinarum. Non fu questa, tuttavia, l’unica impresa editoriale di carattere internazionale nella quale de Rossi venne coinvolto: sei anni dopo la cooptazione al Corpus berolinense, nell’agosto del 1860, fu chiamato dall’Académie des inscriptions et belles lettres di Parigi per fare parte, insieme con Léon Renier, Adolphe Noël des Vergers ed Ernest Desjardins, della Commissione incaricata da Napoleone III della pubblicazione delle opere complete di Bartolomeo Borghesi, morto da poco meno di quattro mesi.

UN’OPERA MONUMENTALE Non ancora quarantenne, de Rossi era allora nel pieno della sua mirabile e inarrivabile carriera scientifica e si avviava a pubblicare alcune delle sue piú importanti opere: come detto in apertura, nel 1861, nello stesso anno della proclamazione dell’Unità d’Italia, dava infatti alle stampe il primo volume delle Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores; due anni piú tardi, nel 1863, iniziava la pubblicazione del «Bullettino di archeologia cristiana» che, redigendo in completa autonomia, continuò a stampare, in cinque serie, per circa trent’anni; e l’anno successivo, nel 1864, lo stesso anno in cui Jules Verne a Parigi pubblicava il suo celebre romanzo di fantascienza sotterranea Voyage au centre de la Terre, de Rossi dava alla luce il primo volume della sua monumentale Roma sotterranea cristiana. Il secondo volume uscí nel 1867, anno della battaglia di Mentana, e il terzo e ultimo volume – dopo la


Lapide che commemora il ritrovamento delle tombe dei papi Caio ed Eusebio da parte di de Rossi nelle catacombe di S. Callisto; l’iscrizione ricorda anche l’idea di dar vita a un gruppo dedito alla promozione del culto dei martiri cristiani.

pausa seguita agli sconvolgimenti politici legati agli eventi del 20 settembre del 1870 – vide la luce dieci anni piú tardi, nel 1877, stesso anno in cui, a Mosca, Leone Tolstoj dava alle stampe uno dei capolavori assoluti della letteratura europea del XIX secolo, Anna Karenina. Al principio dell’anno seguente, il 7 febbraio del 1878, si concludeva la parentesi terrena di Pio IX, irriducibile mecenate delle ricerche del de Rossi. La sua morte rappresentò, senza alcun dubbio, una cesura significativa per l’archeologia cristiana. L’elezione al soglio pontificio di Leone XIII confermò i timori degli archeologi, perché il neoeletto pontefice, pur nominando de Rossi Prefetto del Museo Cristiano annesso alla Biblioteca Vaticana e pur manifestando apertamente ai cultori delle antichità cristiane il proprio plauso per le ricerche allora in corso, ridimensionò in modo sensibile i finanziamenti pontifici destinati alle indagini e ai restauri da condursi nelle catacombe, riducendoli di circa il 70% rispetto alle erogazioni del precedente pontificato. Il ridimensionamento economico non va tuttavia inteso come il segno di un improvviso cedimento finan-

ziario della Sede petrina, ma solo come il cambio di orizzonte culturale della nuova élite vaticana: de Rossi e i suoi discepoli guardavano all’antichità cristiana ricercandone, soprattutto nei cimiteri, le testimonianze materiali, mentre la cultura storica leonina, come del resto la storiografia neoguelfa italiana, era tutta proiettata sul Medioevo quale epoca della piú alta affermazione del cattolicesimo romano.

MESSAGGI AUGURALI DA TUTTO IL MONDO De Rossi, tuttavia, coadiuvato da una eletta schiera di collaboratori – tra i quali bisogna ricordare almeno Mariano Armellini, Enrico Stevenson e Orazio Marucchi –, continuava a essere universalmente celebrato quale iniziatore di una nuova scienza, l’archeologia cristiana. Ne sono prova eloquente i numerosi messaggi che gli furono inviati in occasione delle celebrazioni per il sessantesimo e settantesimo anno di età. Dotti di ogni parte del mondo fecero allora a gara per celebrare le sue impareggiabili doti umane e di studioso. Tra le centinaia di testimonianze di stima e affetto manifestate al grande archeologo romano in

occasione di tali festose ricorrenze, è significativo riportare solo quella dettata dal piú volte citato Theodor Mommsen che, nel frontespizio del supplemento al VII volume del Corpus Inscriptionum Latinarum, nel 1892 salutò de Rossi quale archaeologiae christianae fundator. La salute del «Principe della sacra archeologia», dal 1871 Presidente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia e dal 1888 anche Magister del Collegium Cultorum Martyrum, però, venne di lí a breve seriamente compromessa. Colpito, nel maggio del 1893, da una grave emiplegia, che gli inibí le funzioni motorie del lato destro del corpo, de Rossi, nel primo pomeriggio del 20 settembre del 1894, invocata la protezione dei santi martiri, si spense serenamente in un appartamento del Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, messogli a disposizione da Leone XIII come segno di riconoscenza per i grandi servigi che aveva reso alla Chiesa coi suoi studi e le sue scoperte. Il lascito intellettuale di de Rossi fu immenso e i suoi allievi, nel solco profondo dell’innovativo approccio metodologico, proseguirono nel suo nome le r icerche nell’ambito dell’archeologia cristiana, portando la disciplina sino ai nostri giorni. Profetico, in tal senso, quanto l’abate Louis Duchesne scrisse a de Rossi da Parigi il 24 giugno del 1894, tre mesi prima che l’archeologo romano morisse, confortandolo sull’inesauribile eredità che si apprestava a lasciare: «Ce qui se fera après vous sera toujours votre œuvre» («Quel che si farà dopo di voi, sarà sempre opera vostra»). A duecento anni di distanza dalla nascita del de Rossi, ancora valido è questo rapido motto del Duchesne, celeberrimo storico francese, del quale quest’anno, per un curioso corto circuito cronologico, mentre celebriamo il bicentenario della nascita di de Rossi ricorre il centenario della morte. a r c h e o 75


SCAVI • TARQUINIA

TARQUINIA DOPO GLI ETRUSCHI GIÀ CENTRO IMPORTANTE DELLA DODECAPOLI – LA LEGA DELLE DODICI CITTÀ ETRUSCHE –, IL GRANDE SITO SULLA COSTA TIRRENICA VANTA UNA STORIA RILEVANTE ANCHE A ROMANIZZAZIONE AVVENUTA. LO DIMOSTRANO IL RECUPERO (FORTUITO) DI UNA STRAORDINARIA STATUA DEL DIO MITRA E GLI SCAVI IN CORSO, CONDOTTI DAGLI ARCHEOLOGI DELL’UNIVERSITÀ DI VERONA di Attilio Mastrocinque

Un settore del cantiere di scavo dell’Università di Verona nell’area dell’antica città di Tarquinia (Viterbo). 76 a r c h e o

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.


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rmai da alcuni anni, l’Università di Verona, grazie alla Soprintendenza Archeologica, conduce scavi archeologici a Tarquinia (Viterbo), nella cosiddetta domus del Mitreo e nella zona dell’Ara della Regina. La città antica si trova a circa 7 km dall’abitato moderno, che nel Medioevo si chiamava Corneto e solo nel 1922 assunse definitivamente la denominazione di Tarquinia. Gran parte di quel che si sapeva sulla Tarquinia romana si deve agli studi di Mario Torelli (1937-2020). Le nuove ricerche sono partite in seguito al recupero di una statua del dio Mitra (vedi foto alle pp. 78/79) da parte del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e al primo scavo della Soprintendenza, nel 2014, nel luogo indicato dal tombarolo. Il ritrovamento del cane pertinente alla statua ha confermato il luogo del rinvenimento (vedi «Archeo» n. 376, giugno 2016; anche on line su issuu. com). Lo scavo è proseguito sotto A sinistra: antefissa rinvenuta nel livello di spianamento delle macerie della fontana della domus del Mitreo. II sec. a.C. In basso: vite in ferro con testa di forma simile a quella di un chiodo. Età romana.

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SCAVI • TARQUINIA

la direzione di chi scrive, coadiuvato da Fiammetta Soriano, e ha messo in luce un grande complesso edilizio, la cui natura non è stata ancora accertata. Quella che si pensava fosse una domus, si è rivelata essere una serie di decine di stanze, affiancate da molti cortili, posti su terrazzamenti del terreno, situato a nord dell’Ara della Regina, vicino alle mura della città. Il luogo di culto di Mitra non è stato ancora localizzato e la statua del dio, ora al Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, è risultato essere stata posta sopra strati archeologici del V secolo d.C., e probabilmente vi era stata portata in tempi non molto antichi. A oggi, è venuto alla luce solo un piccolo triclinio, con spazio per tre letti, mentre dai vari ambienti sono emersi molti reperti che si riferiscono ad attività lavorative e commerciali,

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quali mortai e pestelli, tavolette litiche per impastare medicinali o cosmetici, pesi fino a 100 libbre, alcune scorie ferrose, oltre ad ambienti certamente usati per lavorare e immagazzinare. Un reperto eccezionale è costituito da una vite in ferro antica, col solco elicoidale, ma la testa simile a quella di un chiodo. Finora non erano conosciute vite di epoca romana.

SEDE DI UN COLLEGIO? Ancora non sono stati individuati i limiti certi del complesso, che potrebbe essere interpretato come la sede di un collegio professionale. Come nel caso delle sedi di collegi romani, anche qui c’erano spazi destinati al culto, e in particolare un pozzo sacro, riempito deponendo vari oggetti votivi, fra cui varie armi in ferro, e, nei pressi del pozzo, un piccolo spazio quadrato, nel quale sta-

Poggio Cavalluccio Poggio Cacciatalunga

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In alto: testina votiva, dal pozzo sacro pertinente al complesso forse identificabile come sede di un collegio professionale. A sinistra: cartina di Tarquinia e del suo territorio con le aree archeologiche piú importanti. Sulle due pagine: il gruppo statuario del dio Mitra recuperato nel 2014. II sec. d.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

vano alcune statuette votive frammentarie. Grazie allo scavo della cosiddetta domus del Mitreo si comprendono meglio le infrastrutture della città antica. Presso una grande cisterna, collassata in antico, si trovano i resti di una latrina, le cui condutture portano verso sud, dove ora corre una stradina sterrata e dove si potrebbe ipotizzare la presenza di una cloaca antica. Le indagini condotte in passato, e specialmente quelle dell’Università di Milano, avevano messo in luce molte cisterne e molti pozzi,


che erano necessari anche in età romana, dato che non risulta che Tarquinia fosse servita da un acquedotto, come nel caso della maggior parte delle altre città dell’impero.

PER LA FRESCURA DEGLI OSPITI Oltre a molti pozzi e cisterne, la «domus» era dotata di una fontana del tutto particolare, unica nel suo genere. Essa aveva un serbatoio d’acqua all’interno di tre dei suoi muri per imetrali, era alimentata Una delle strutture indagate nel corso degli ultimi scavi condotti dall’Università di Verona.

dall’acqua piovana e dotata di un bacino di marmo su alto piede con rubinetti per controllare il flusso dell’acqua. Quando entravano i padroni di casa, gli ospiti e i clienti potevano rinfrescarsi, lavarsi e sguazzare nel centro del pavimento, dove c’era sempre acqua a disposizione. All’esterno la fontana era dipinta di rosso. Quando il monumento crollò, nella tarda antichità, anche altri edifici e strutture sotterranee collassarono e nel riempi-

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SCAVI • TARQUINIA

mento per spianare il suolo è venuta alla luce un’antefissa del II secolo a.C., che dunque era rimasta al suo posto per circa sette secoli (vedi foto a p. 77, a sinistra). Al II secolo d.C. risale la strutturazione del complesso edilizio, che poi subí vari rimaneggiamenti, fino all’evento distruttivo, avvenuto nel IV secolo d.C. avanzato, forse un terremoto, che non segnò la fine della vita nel sito, ma l’inizio di una fase in tono minore, che andò sempre piú scemando fino al VII secolo, quando ormai la cisterna presso la fontana era divenuta una discarica e l’acqua poteva servire solo per la coltivazione di piante. Ci sono indizi che suggeriscono anche un collasso del sistema fognario, come nel caso di vari altri centri urbani dell’Italia tardo-antica e altomedievale.

LE INDAGINI GEOFISICHE In parallelo con lo scavo, sono state condotte indagini geofisiche con il magnetometro, per mappare le strutture che sussistono nel sottosuolo. La Civita attualmente è abbandonata e i pochi visitatori

non si possono rendere conto dell’enorme patrimonio archeologico che ancora giace sotto terra, mentre i tombaroli non smettono mai di scavare per trovare qualche oggettino, spesso danneggiando pavimenti antichi. I risultati delle misurazioni strumentali hanno permesso di identificare, oltre alle terme e alcune strade, già evidenziate da precedenti prospezioni, anche gli isolati, le mura, le porte urbiche, gli ampi spazi non edificati entro le mura, il macellum e, cosa piú importante delle altre, il Foro romano di Tarquinia. Sul terreno si vedevano cunei di terracotta con cui erano fatte molte colonne di epoca romana (i cunei erano come fette di torta per creare il nucleo delle colonne, che erano poi rivestite di stucco, per renderle simili al marmo) e un blocco di pietra con scanalatura, che faceva parte della canaletta che circondava la piazza. In seguito a una discussione con Daniele Maras, responsabile archeologo della Soprintendenza per il territorio, si è dato l’avvio a una prima campagna di scavo nella

A destra, sulle due pagine: ortofoto dell’area indagata con i resti delle strutture messe in luce, riferibili al Foro romano dell’antica Tarquinia. In basso: ricostruzione 3D della fontana della domus del Mitreo. Nella pagina accanto, in basso: la pavimentazione a squame di una delle strutture individuate, parzialmente lesionata dalle arature moderne.

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zona del Foro, ed è venuto alla luce un tratto della canaletta, come previsto, che convogliava l’acqua che spioveva dal tetto del portico. I materiali rinvenuti permettono di ipotizzare come fossero fatti il pavimento del portico e la decorazione fittile della trabeazione. Ma la piazza risulta in gran parte priva del suo basolato originario, e forse la spoliazione avvenne dopo l’evento traumatico che ha distrutto le strutture della «domus», ma non è chiaro dove fossero stati riutilizzati i blocchi di nenfro con cui era fatto il pavimento della piazza. Essa era lunga circa 70 m e larga, piú o meno, altrettanto, ed è situata poco a Sud dell’Ara della Regina, su un piano regolarizzato in epoca romana. Gli scavi, finora, sono volti, prima di tutto, a conoscere le fasi tarde della città, ma l’assenza del pavi-


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SCAVI • TARQUINIA

mento ha permesso di scavare sotto il livello del Foro romano, dove sono emerse alcune stanze tardo-repubblicane, decorate da begli affreschi, di cui restano le parti basse, e pavimenti di buona qualità. Ciò permette di capire che sotto il Foro di epoca romana non ne esisteva uno di epoca precedente, repubblicano o etrusco. Da qui derivano molti quesiti:

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come si raccordava il Foro con lo spiazzo libero situato davanti all’Ara della Regina, il maggiore tempio di Tarquinia? Tale spiazzo si trova a una quota piú bassa rispetto al Foro romano. Come è stato riutilizzato il Foro in epoca tardo-antica e alto-medievale? Infatti si sono trovati muri pertinenti ad ambienti sorti dopo la spoliazione del basolato e alla probabile defun-


zionalizzazione del Foro cittadino. Una struttura individuata dalle prospezioni geomagnetiche accanto al Foro, sul lato ovest, dovrebbe essere verosimilmente la basilica,

con una pianta trapezoidale, che si adattava alla morfologia del terreno e sfruttava tutta l’area disponibile. Di quali altre strutture era dotato il Foro? Sembra che il portico, a due

Nella pagina accanto, in alto: tondo in opus sectile. In alto: l’area del Foro associata a un’immagine ricavata dalle indagini geofisiche che mostra le principali anomalie, indizi di altrettante strutture. A sinistra: la prospezione dell’area della Civita con l’indicazione delle zone indagate.

navate, lo circondasse su tutti i quattro lati, e sembrerebbe che ci fosse una fontana, alimentata da cisterne esterne alla piazza.

LEGGERE LE ANOMALIE Ma le prospezioni mostrano molti elementi che «disturbano» le geometrie del Foro romano, e potrebbero dipendere da strutture o materiali d’accumulo di epoca tarda, ma non è escluso che si tratti di elementi che stanno in strati piú bassi, visto che le misurazioni magnetometriche non indicano la profondità delle anomalie. Specialmente la zona a Nord delle prospezioni è difficilmente leggibile, ed è quella che porta verso l’Ara della Regina. La prosecuzione degli scavi sarà vitale per la ricostruzione della storia di Tarquinia, soprattutto della storia della fase romana, che non è affatto un momento di declino e di perdita dell’identità etrusca, poiché sembra che Tarquinia fosse diventata la maggiore erede della tradizione etrusca, fra tutte le città dell’antica dodecapoli. Doveva essere la sede del collegio degli aruspici, fra i quali anche gli imperatori sceglievano i loro consiglieri in ambito rituale e religioso, e preservava la tradizione antica delle cisterne e dei pozzi, come ai tempi delle origini. Ancora nella tarda antichità vi si potevano vedere case e palazzi con le antiche decorazioni fittili di epoca repubblicana. Non c’è dubbio che, per lo meno nell’ambito religioso e rituale, la lingua etrusca fosse gelosamente conservata, almeno nel linguaggio tecnico dell’aruspicina. Per finire, basta ricordare che l’aruspice che accompagnava l’imperatore Diocleziano, quando diede inizio alla grande persecuzione dei cristiani, si chiamava Tages, il nome stesso del mitico fondatore dell’arte della divinazione e del sapere degli aruspici, che sarebbe nato dalla terra, nella stessa Tarquinia. a r c h e o 83


SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

TRAPPOLA NELLA NEBBIA

21 GIUGNO 217 A.C.: SUL LAGO TRASIMENO IL SOLE È SORTO DA POCO E L’ESERCITO ROMANO, GUIDATO DAL CONSOLE CAIO FLAMINIO, SI RIMETTE IN MARCIA PER AFFRONTARE ANNIBALE E LE SUE TRUPPE. IGNORA CHE IL CONDOTTIERO CARTAGINESE È APPOSTATO A RIDOSSO DEL VALLONE NEL QUALE I LEGIONARI SI STANNO INFILANDO... DUE TRA I MASSIMI CONOSCITORI DEI PROTAGONISTI E DEI LUOGHI DELLA VICENDA RIVELANO, IN ESCLUSIVA PER «ARCHEO», LA VERITÀ SU QUELLA «PAGINA NERA» DELLA STORIA DI ROMA di Giovanni Brizzi ed Ermanno Gambini

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a ricostruzione della battaglia del lago Trasimeno proposta in queste pagine è opera congiunta di chi scrive e dell’amico (nonché conoscitore principe del lago umbro…) Ermanno Gambini, dell’Università di Perugia; ma non avrebbe potuto raggiungere i risultati esposti senza l’inestimabile contributo del dottor Luca Gasperini e della équipe, da lui guidata, del CNR di Bologna. Le indagini di questo gruppo di ricercatori hanno portato a evidenziare come il lago, il cui livello è mutato in misura anche significativa nel corso dei secoli, presentasse però, al momento dello scontro, uno specchio d’ac-

In alto, sulle due pagine: disegno ricostruttivo di una fase della battaglia del lago Trasimeno. In basso, sulle due pagine: una veduta della sponda nord-orientale del lago Trasimeno.

qua dalle dimensioni praticamente identiche a quelle odierne, o meglio solo leggermente inferiori. Questa certezza ha costituito, come vedremo, la chiave indispensabile per raggiungere alcune valutazioni conclusive circa l’asserto delle fonti antiche. Per definire nei dettagli schieramenti e sviluppo di questo episodio bellico occorre, in effetti, conoscere a fondo il teatro in cui esso si svolse. Costantemente collocato da quasi tutta la storiografia moderna sulla costa settentrionale del lago Trasimeno – in Umbria, nell’odierna provincia di Perugia – prima tra Monte Gualandro e Passignano, poi tra Passi-

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SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

gnano,Torricella e Montecolognola, il campo di battaglia è stato in seguito opportunamente limitato entro il circuito di colli compreso tra Monte Gualandro e Montigeto, dove si è collocato il campo cartaginese.

UN NOME EVOCATIVO Decisivo per l’ambientazione dello scontro, l’angusto varco tra le ultime propaggini dei montes Cortonenses e il lago, che Annibale superò il giorno avanti la battaglia, è stato ormai identificato oltre ogni dubbio, a oriente di Borghetto, con la strettoia a cui Cipriano Piccolpasso, un erudito del XVI secolo, assegnava già il nome (carico forse di echi lontani e infausti?) di «Malpasso». Tra gli studiosi piú eminenti che si sono occupati della battaglia, solo Johannes Kromayer (1859-1934) ha escluso questa identificazione, ritenendo a causa di una fallace valutazione dei luoghi e di nozioni erronee di idrologia, che la strettoia non fosse transitabile in età romana; ha finito cosí per cercare un altro ingresso al vallone dell’agguato, affermando di averlo trovato piú a oriente, a Montigeto-Passignano e collocando perciò lo scontro tra questa località e Montecolognola. Al di là della ricostruzione topografica, non mancano, rispetto al dato delle fonti, scelte tali da inficiare ulteriormente la sua ipotesi, dalla distanza rispetto ai montes Cortonenses menzionati invece esplicitamente da Livio alla conformazione della valle in cui avrebbe avuto luogo l’agguato, che non presenta, come invece sostiene Livio (22, 4, 4: in patentiorem campum), lo spazio per allargarsi in aperto oltre il passaggio; fino alla scelta, attribuita ad Annibale, di lasciare i suoi cavalieri al di fuori dell’imbocco. Il Malpasso, dunque, punto sicuro; e la valle che, al di là di esso, si estende fino a Montigeto, parzialmente interrotta al centro dallo sprone di Tuoro, che, pur senza raggiungere il lago, si spinge verso la sponda, formando una sorta di quinta, fino quasi a sdoppiare, in sostanza, lo spazio in due ambiti succes86 a r c h e o

Nella pagina accanto: l’estensione dei territori controllati da Cartagine all’inizio delle ostilità con Roma. In basso: busto in marmo bianco del cosiddetto Annibale. Seconda metà del XVI sec. Roma, Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica.

sivi. È questo, dunque, il teatro della battaglia; ma le forze contrapposte occuparono entrambe le conche, da Borghetto fino a Passignano e Montigeto? Oppure gli schieramenti e lo scontro coinvolsero solo il primo settore, cioè quello compreso tra Borghetto e Tuoro, che prende il nome da quest’ultimo centro (o da Sanguineto, la cerchia di bassi colli che lo racchiude)? Tra le teorie residue che godono di maggiore credibilità solo l’ultima, quella di Giancarlo Susini, su cui torneremo, restringe l’evento unicamente alla valle di Sanguineto.

LE PRIME IPOTESI AL VAGLIO Le altre ricostruzioni – quella formulata da Heinrich Nissen (1867) e quelle, che presentano molti punti di contatto, variamente rielaborate da Josef Fuchs (1904 e 1911), da Luigi Pareti (1912) e da Gaetano De Sanctis (1917) – mettono in evidenza, tutte, molteplici e significative aporie rispetto al dato delle fonti; aporie che, partendo dall’autopsia del campo di battaglia, Ermanno Gambini e io abbiamo verificato in dettaglio in precedenti lavori. Per riandare a qualche particolare soltanto, Nissen forza a dir poco il dato circa la disposizione sul campo di frombolieri balearici e truppe annibaliche levis armaturae (fanteria leggera), ai quali la posizione proposta avrebbe di fatto impedito di intervenire; e soprattutto quella della cavalleria punica. Quest’ultima sarebbe stata schierata sulle pendici occidentali del Monte Gualandro, scoscese e dunque impraticabili per qualsiasi montura. Oppure, ipotesi ancor piú bizzarra, sarebbe stata lasciata a operare addirittura al di fuori del Malpasso, nella piana di Borghetto. A sconfessare in proposito lo studioso tedesco basta il fatto, certo, che Caio Flaminio sia stato ucciso da un Insuber eques, da un cavaliere gallico; sicché pare evidente che queste forze fossero all’interno del vallone. In parte soltanto? Soltanto quelle galliche? Sembra impossibile che il Cartaginese abbia diviso i suoi cavalieri, vanifi-


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Il dominio cartaginese all’inizio dello scontro con Roma Territori cartaginesi nel 265 a.C.

Conquiste dei Barcidi in Spagna fino al 219 a.C.

Territorio di Massalia (Marsiglia)

Territori persi da Cartagine dopo il 238 a.C.

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Limite delle zone d’influenza secondo i trattati del 348 e 306 a.C. tra Roma e Cartagine

Leptis Magna (Lebda) Charax Arae Philaenorum

Il dominio cartaginese all’inizio dello scontro con Roma LE DATETerritori DI UN ODIO SECOLARE cartaginesi nel 265 a.C.

Conquiste dei Barcidi in Spagna fino al 219 a.C.

Territorio di Massalia (Marsiglia)

persi da Cartagine405 dopoI ilSiracusani 238 a.C. Domini romani 814 a.C. DataTerritori tradizionale 225 I Romani sconfiggono i Massinissa 216 Annibale vince a Regno di (201-148 a.C.)Canne; trattati con Capua e della fondazione di zone d’influenza riconoscono Gallie Cartagine a Talamone Limite delle secondo i trattatiindelun 348trattato e 306 a.C. itra Roma Cartagine possedimenti punici in altre comunità italiche Sicilia 221 Annibale, figlio di 600 I Focesi emigrati Amilcare, succede ad 209 Publio Cornelio dall'Asia Minore fondano 264-241 Prima guerra Asdrubale, morto Scipione, detto l'Africano, Marsiglia e sconfiggono i punica; con il trattato di assassinato occupa Cartagena Cartaginesi in mare pace Roma costringe Cartagine ad abbandonare 219 Annibale espugna 206 Asdrubale, fratello 540 Cartaginesi ed Etruschi la Sicilia Sagunto: l’evento causa lo minore di Annibale, vincono i Greci ad Alalía, in scoppio della seconda accorre in Italia in aiuto Corsica 241 Vittoria romana alle guerra punica dei Cartaginesi, ma è isole Egadi sconfitto e ucciso nella 509 Primo trattato 218-217 Annibale sconfigge battaglia del Metauro commerciale tra Romani e 238 La Corsica e la i Romani presso il Ticino, la Cartaginesi Sardegna sono cedute dai Trebbia e al lago 202 Scipione l'Africano Cartaginesi ai Romani Trasimeno. I Romani vince i Cartaginesi a Zama 480 I Cartaginesi affidano le operazioni vengono sconfitti a 237 Il cartaginese Amilcare militari al dittatore Quinto 149-146 Terza guerra Imera da Gerone di Barca inizia la conquista Fabio Massimo, detto il punica vinta da Scipione Siracusa della Spagna Temporeggiatore Emiliano

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SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO A sinistra: Annibale sulle Alpi, olio su tela di Benedict Masson. 1881. Chambéry, Musée des Beaux Arts.

cando la loro preziosa superiorità numerica; Sulle In basso, o li abbia addirittura lasciati integralmente sulle due pagine: all’esterno della conca, separati dal resto lo svolgersi dell’esercito. Si tratta di un’ipotesi che – aven- della seconda dola trovata già in Kromayer – ha confutato guerra punica per primo De Sanctis: nell’un caso «la caval- (218-202 a.C.). leria (…) l’arma su cui i Cartaginesi piú fidaLa II guerra punica vano, era perduta se i Romani, avvedutisi in tempo dell’imboscata, avessero chiuso,(218-202 com’e- a.C.) ra sommamente facile, il passaggio (…)Roma e e i suoi La alleati II guerra punica avessero attaccato con forze soverchianti tutti all’inizio della guerra (218-202 a.C.) quelli che ne erano rimasti fuori, (…) ossia Cartagine e i suoi domini

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IN CERCA DI SCAMPO Spedizione di Magone 206 (206-203 a.C.) 203 Azioni Assai simili fra loro, le teorie elaborate da e vittorie romane (e data) 203 Azioni e vittorie romane Fuchs, Pareti e De Sanctis differiscono per (e data) Spedizione di Scipione alcuni punti soltanto, sicché si potrà control’Africano in Spagna 207 Spedizione di Scipione (210-206 a.C.) Africa in Spagna 207 e inl’Africano batterle in un’unica analisi critica. Per la via (204-202 a.C.) (210-206 a.C.) e in Africa di fuga dei 6mila risulta almeno in parte a.C.) Spedizione fallita(204-202 di Filippo V accettabile l’ipotesi di Luigi Pareti, che penSpedizione fallita di Filippo V di Macedonia in aiuto di Macedonia in aiuto sa a una immediata salita dei Romani diinAnnibale (214 a.C.) di Annibale (214 a.C.) cerca di scampo salendo verso il Pischello, 88 a r c h e o

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Roma e i suoi alleati all’inizio della guerra per l’appunto i cavalieri nemici». Infine la via all’inizio della guerra Territori in rivolta di fuga seguita dai 6mila dell’avanguardia roCartagine e i suoi domini contro Roma all’inizio della guerra mana, fuga per la quale, dopo avere sfondato Territori persi da Territori Cartagine in rivolta dopo la guerra contro Roma le linee puniche, avrebbero costeggiato il lago Territorio controllato in direzione di Passignano prima di cercare Territori persi da Cartagine da Annibale dopo la guerra scampo in altura: ove cosí si fossero condotti, e città sue alleate (216 a.C.) Territorio controllato non avrebbero poi trovato sul loro cammino Annibale Basi e piazzefortida romane e città sue alleate (216 a.C.) piú alcun punto da cui – come ricordano Spedizione di Annibale 216 (219-202 a.C.) e vittorie Basi e piazzeforti romane Polibio (3, 84, 11-14) e Livio (22, 6, 8-9) – cartaginesi (con data) Spedizione di Annibale scorgere alle spalle il campo disseminato dei 216 (219-202 a.C.) e vittorie Spedizione di Asdrubale 208 cartaginesi (con data) loro caduti. (208-207 a.C.)

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mentre lo sfondamento verso Passignano, soluzione comune agli altri due autori, già esposta alla stessa obiezione avanzata nei confronti di Nissen, risulta ancor meno credibile se si accetta che qui, in prossimità del campo, fossero schierate le fanterie veterane di Libi e Spagnoli (Livio 22, 4, 3: cum Afris modo Hispanisque…). In effetti, è la disposizione proposta per le

A destra: un’altra ricostruzione ipotetica di un momento della battaglia della Trebbia, combattuta il 18 dicembre del 218 a.C. Anche questo scontro aveva fatto registrare una pesante sconfitta di Roma a opera di Annibale.

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truppe puniche in agguato a risultare particolarmente discutibile. I Baleari e i leggeri, innanzitutto: se fossero stati schierati alle spalle di Tuoro, tra questa zona e il Torale, sarebbero stati troppo dispersi per poter essere controllati da Annibale. Se poi, in conformità con la testimonianza di Livio (22, 4, 3), la loro posizione fosse stata addirittura post montes, allargata in questo caso lungo l’arco

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SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

collinare alle spalle di Tuoro e verso Sanguineto, sarebbero rimasti troppo lontani dal campo di battaglia vero e proprio, e privi dunque di ogni autentica prontezza operativa; mentre le maglie del loro schieramento sarebbero risultate troppo larghe per contenere qualsiasi spinta massiccia da parte romana. Infine, l’accampamento presso il quale tutti e tre gli autori situano le fanterie pesanti è stato concordemente da loro collocato a Montigeto: certo non un luogo in aperto, dove sia possibile essere visti; e ancor meno vedere, alla distanza di otto chilometri in linea d’aria, l’ingresso del nemico nella trappola onde poter dare «signum omnibus (…) simul invadendi» («dare a tutti il segnale di attaccare insieme»; Livio 22, 4, 5).

LA DATA DELLO SCONTRO Al di là di tutte queste considerazioni, un ragionamento si impone però come del tutto dirimente, e obbliga a rifiutare le ricostruzioni fin qui proposte. Ove ci si rivolga a quella che è forse la piú obiettiva, certo la piú particolareggiata tra le nostre fonti, dello scontro riusciamo a stabilire perfettamente i tempi. Ci si vedeva appena – vixdum certa luce (Livio 22, 4, 4) – quando, in un’alba nebbiosa (Livio 22, 4, 6), Caio Flaminio uscí dal campo varcando la strettoia del Malpasso per inseguire Annibale. Poiché la data riportata da Ovidio (Fast. 6, 765-768) è quella del 21 giugno, che secondo il calendario astronomico corrisponderebbe in realtà, per il 217 a.C., al 9 maggio, possiamo plausibilmente ipotizzare che l’esercito romano si sia mosso poco prima delle 6 del mattino. Conosciamo altresí con buona approssimazione l’ora ultima dello scontro. Quando, sgusciate nella caligine oltre le linee puniche e giunte momentaneamente al sicuro in altura, le avanguardie di Flaminio si volsero indietro, poterono, al dissolversi della nebbia incalescente sole, scorgere il campo 90 a r c h e o

In alto: tridramma in argento recante un profilo maschile forse identificabile con Amilcare Barca, padre di Annibale. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

costellato di uccisi e l’ultima vana resistenza dei loro commilitoni, «perditas res stratamque (…) foede aciem» (Livio 22, 6, 9). Si doveva esser giunti poco oltre le 10, quando comincia a far caldo. Una terza informazione, sempre da Livio (22, 6, 1), completa il quadro: «tres ferme horas pugnatum est» («si combattè per circa tre ore»). Conosciamo dunque la durata effettiva dello scontro, e possiamo stabilire l’ora approssimativa in cui cominciò la battaglia: le 7 circa del mattino. Mattino nel quale le legioni furono costrette a marciare verso la loro sorte in mezzo alla nebbia che ancora incombeva sulla valle: quando si scatenò l’attacco «dal clamore che si levò da ogni parte i Romani seppero di essere circondati prima ancora di aver visto il nemico». Non vi erano strade su cui marciare; e prima di giungere di fronte al colle di Tuoro avevano probabilmente dovuto (fatto su cui torneremo…) assottigliare progressivamente lo schieramento in corrispondenza della strettoia del Malpasso, per poi riordinarlo e riprendere il precedente assetto appena ne furono usciti giungendo là dove il terreno si faceva paulo latior («leggermente piú largo»).

I FUOCHI DI ANNIBALE Che in questo quadro un esercito il quale, anche in condizioni ottimali, arrivava a coprire non oltre dieci o dodici miglia al giorno abbia potuto percorrere in nemmeno due ore i dodici chilometri circa che separano sul terreno Borghetto da Passignano è dunque assolutamente impossibile. Il punto massimo a cui giunsero le avanguardie, quando, alzando gli occhi, scorsero non tanto il campo nemico, quanto i fuochi che Annibale aveva acceso a bella posta in alto, deve per forza collocarsi al di qua dello sprone di Tuoro. Questa constatazione offre dunque una risposta in sé conclusiva al quesito che ci siamo posti sopra: il


corso degli eventi deve essere per forza interamente ambientato nella valle di Sanguineto. E ci riconduce, come punto di partenza, a chi ha meglio elaborato questa ricostruzione: Giancarlo Susini (1960; storico dell’antichità e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, Giancarlo Susini [1927-2000] è stato uno dei massimi studiosi internazionali di epigrafia latina e per oltre un trentennio ha insegnato storia romana nell’università di Bologna). Il mio maestro non è stato il primo a porsi su questa via: lo avevano preceduto George Beardoe Grundy, Emil Sadée, Friedrich Reuss. Certo però ha affrontato il cammino in modo assai piú approfondito, poiché nella sua indagine ha seguito un approccio di tipo multidisciplinare, chiamando a soccorrerlo l’idrologia e l’archeologia, l’aerofotogrammetria e persino la toponomastica. Forse proprio la prima di queste scienze, pur da ultimo inducendolo parzialmente in errore, lo condusse tuttavia piú vicino di chiunque altro alla verità, orientandolo a limitare il teatro della battaglia alla sola con-

In alto: Giuramento di Annibale contro i Romani, acquaforte di Valentine Green. 1773. Brescia, Musei Civici di Arte e Storia, Gabinetto Disegni e Stampe. Nella pagina accanto, in basso: medaglia in bronzo di Alessandro Cesati con veduta fantastica di Cartagine. 1565. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum, Münzkabinett.

ca di Sanguineto. Affidandosi di preferenza, secondo la scelta abituale in quegli anni, al resoconto di Polibio, Susini fu sedotto dall’idea di rintracciare sul terreno una sorta di simmetria, in realtà inesistente, che coglieva nel testo dello storico greco. Immaginò dunque, un lago dalle acque molto piú alte, che si spingeva fin sotto lo sprone di Tuoro, formando una stenosi opposta e speculare rispetto a quella occidentale, fino a costiture un secondo «Malpasso di levante»; e determinando cosí sul terreno una separazione non solo visiva ma di fatto tra le due conche, tale da rendere praticamente impossibile una gestione unitaria dello scontro. Lo confortavano in apparenza, nella sua idea, tanto l’idrologia, in cui vigeva allora l’ipotesi che riteneva il lago soggetto nel tempo a un abbassamento progressivo a causa sia dell’interrimento, sia della messa in opera di emissari artificiali; quanto la fotografia aerea, che sembrava attestare l’interrompersi sul terreno delle linee di centuriazione. Ciò indusse Susini a fissare l’antica linea di costa a r c h e o 91


SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO A sinistra: Annibale in Italia, particolare, affresco attribuito al pittore bolognese Jacopo Ripanda. Inizi del XVI sec. Roma, Musei Capitolini, Appartamento dei Conservatori, Sala di Annibale.

molto a monte di quella attuale, facendola coincidere di fatto con il tracciato della Strada Statale 75 bis del Trasimeno. L’una e l’altra sua congettura erano però destinate a rivelarsi fallaci. L’archeologia sembrò, in effetti, dargli ragione grazie alla scoperta, avviata da lui stesso, di un gran numero di ustrina, invasi con tracce di combustione emersi a decine sotto Sanguineto. Al loro interno questi rivelarono – secondo l’analisi condotta presso l’Istituto di Chimica dell’Università di Perugia – non solo la presenza frequente di ceneri organiche, ma restituirono anche le punte spezzate di armi da lancio dall’evidente tipologia. Per contro, però, l’indagine portò alla luce, in tempi successivi, una cospicua serie, rimasta ovviamente a lui ignota, sia di reperti archeologici di età etrusca, sia di materiali ceramici risalenti al periodo imperiale anche all’interno dello specchio lacustre; ciò che ha permesso di attribuire la scomparsa delle linee di centuriazione all’azione delle acque in epoche successive e in particolare probabilmente, alle imponenti ed estese piene di età medievale e moderna. Quanto ai cicli del lago, nelle sue vicende non solo recenti il fattore determinante sembra essere stato sempre non quello dell’interrimento, ma quello climatico, secondo il variare delle precipitazioni. Cosí, decisiva per la definizione delle linee di 92 a r c h e o


UN «CARRO ARMATO» A QUATTRO ZAMPE Una delle imprese che piú hanno alimentato il mito moderno di Annibale è senza dubbio il valico delle Alpi alla testa del suo esercito, del quale facevano parte anche gli elefanti. Tuttavia, l’impiego bellico dei pachidermi non era una novità, come dimostra un celebre piatto di produzione campana rinvenuto a Capena e oggi conservato nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (vedi foto qui accanto). Il medaglione centrale mostra un’elefantessa, seguita dal piccolo che allaccia la proboscide alla sua coda. L’elefante piú grande presenta una bardatura da combattimento: sul dorso, sopra una gualdrappa, è montata, retta da cinghie che si allacciano al corpo, una torretta merlata, occupata da due arcieri pronti a colpire con armi da getto gli avversari; sulla nuca è seduto un conduttore che pungola l’animale. Come provato dalle fonti, l’immagine fa riferimento alle campagne condotte in Italia, nel 280 a.C., da Pirro, re dell’Epiro. Da lui i Cartaginesi appresero l’uso di questa «macchina da guerra», impiegando però una varietà africana ora estinta, il cosiddetto elefante delle

foreste (Loxodonta Africana cyclotis). Piú piccolo dell’indiano, quest’ultimo non era in grado di reggere una torretta, ma era montato e guidata in battaglia da un solo cornac. Forse solo il leggendario Surus – quello che Plinio il Vecchio, citando Catone, ricorda come il pachiderma piú resistente e valoroso della guerra annibalica – era un elefante indiano venuto, come sembra indicare il suo nome, attraverso la Siria.

costa (e assolutamente inestimabile al fine di confermare le soluzioni proposte nella ricerca di Ermanno Gambini e mia…) si è rivelata l’indagine condotta dall’équipe del CNR, di cui Luca Gasperini ha dato conto in una pubblicazione recente nella quale il suo nome è associato al nostro: nel momento della battaglia, lo specchio lacustre aveva dimensioni sostanzialmente coincidenti con le attuali. Non è mai esistito un «Malpasso di levante», una seconda strettoia formata dalle pendici del monte immediatamente digradanti verso il lago.

sgusciare oltre il nemico, Susini prospetta una via di fuga assolutamente plausibile, tra le ultime linee dei Celti e le pendici di TuoIL CAMPO CARTAGINESE ro, varco che li portò verso il monte CastelE tuttavia la soluzione offerta da Giancarlo luccio, dove trovarono un momentaneo Susini rimane di gran lunga la piú attendiscampo all’interno di un villaggio etrusco bile. Conforme alle fonti è la sua proposta di Nella pagina collocare sulle pendici dello sprone su cui accanto, in basso: identificabile con il luogo a cui gli umanisti sorge Tuoro sia il campo cartaginese, reso elmo in bronzo da hanno dato il nome di «Trasimena». Del pari accettabile (e del resto accertata visibile malgrado la nebbia dai fuochi lascia- Canosa. Fine tramite Polibio…) è la posizione occupata ti accesi onde attirare l’attenzione dei Ro- del IV-inizi dai Galli, schierati a semicerchio dall’ala mani in marcia; sia le fanterie pesanti vete- del III sec. a.C. estrema, sulle rocce che sovrastano il Malrane, Libi e Iberi, rimaste a presidiarlo. Per i Firenze, Museo passo, dove attesero acquattati nella nebbia il 6mila all’avanguardia, che probabilmente Archeologico passaggio delle legioni, fino alla zona sotto senza quasi rendersene conto riuscirono a di Firenze. a r c h e o 93


SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

Sanguineto; mentre meno definita appare in lui la posizione della cavalleria, che, seguendo ancora Polibio, dispone a semicerchio in parallelo alla linea di marcia seguita dai Romani. I Baleari e i leggeri, infine. Secondo Livio e Polibio, Annibale li condusse ad appostarsi post montes, oltre le alture situate sul fianco del vallone, avanzandoli poi per chiudere ai Romani ogni via di scampo; Susini – per il quale la strettoia a oriente rendeva superflua questa manovra – propone una disposizione a semicerchio tra Sanguineto, l’altura di Tuoro e, oltre, la sponda del lago. Restano, nella sua ricostruzione, alcuni punti deboli; la risposta ai quali può tuttavia, per paradosso, essere fornita almeno in parte proprio a partire dalla conformazione del terreno, diversa rispetto a quella da lui immaginata. L’obiezione piú seria, forse la sola, è quella che – emersa già in qualche modo nelle stime di tutti coloro che si sono occupati del problema, da Nissen e Fuchs, da Pareti e De

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Sanctis – è stata ripresa anche di recente da recensori e studiosi di età successiva come Frank William Walbank e Serge Lancel: la conca di Sanguineto poteva contenere, si è detto, una parte soltanto dell’esercito di Caio Flaminio, mentre per l’armata di Annibale, assai piú numerosa, sarebbe stato addirittura impossibile dispiegarsi efficacemente per intero lungo le pendici delle alture che cingevano il vallone.

In alto: torquis in argento di produzione celtica, da Carpenedolo (BS). Brescia, Museo di Santa Giulia.

QUESTIONI IRRISOLTE Altre due questioni restavano poi irrisolte. Qual era la collocazione reale dei Baleari e dei fanti levis armaturae? E Polibio e Livio, pur partendo da opposti punti di vista – il primo osserva il campo da oriente, il secondo lo guarda da occidente – affermano per caso la stessa cosa, intendendo riferirsi alla disposizione di queste truppe nello schieramento? E infine, tenendo conto della particolare linea di marcia dei Romani lungo la sponda del lago, come può accettarsi l’affermazione, pre-


sente tanto in Polibio (3, 84, 3) quanto in Livio (22, 4, 7), secondo cui in una particolare fase dello scontro le truppe di Flaminio furono attaccate su entrambi i lati? Se al momento della battaglia tra le ultime pendici dello sprone di Tuoro e la sponda del lago non esistevano strettoie, e, anzi, vi si apriva come oggi una superficie emersa della profondità media di 1500 m circa, ciò presupporrebbe non solo l’esistenza di uno spazio molto maggiore a disposizione dei combattenti, ma anche l’aprirsi di un varco lungo la linea di marcia delle legioni, una via di scampo che Annibale doveva per forza chiudere. Questo spazio, e dunque questa esigenza, manca del tutto nella ricostruzione proposta da Susini; che quindi finisce per sovrapporre in parte la posizione dei fanti leggeri punici a quella di Libi e Spagnoli, assegnando loro un ruolo in fondo a dir poco secondario. È probabile, invece, che la disposizione post montes alluda a un loro schieramento concentrato, oltre il monte di Tuoro, all’imbocco di due valloni orientati verso il lago, quello percorso dal torrente Navaccia e quello, successivo, dietro il colle di Mariottella; di qui, al comando simul invadendi (Livio 22, 4, 5), sarebbe calata una cortina di uomini. Pur leggeri, questi avrebbero potuto bloccare le avanguardie nemiche; tanto piú che queste, nella circostanza, sarebbero state presumibilmente traumatizzate e quasi allo sbando. Oltre ai Baleari, infatti, ne faceva forse parte anche un nucleo di lonchophoroi, come li chiama Polibio: una versatile e temibilissima schiera di montanari iberici, cosí definiti dalla lonche – probabilmente il soliferreum, un giavellotto interamente metallico –, impareggiabili combattenti di spada, la terribile falcata iberica, e in grado di battersi alla pari anche contro fanterie pesanti. In una fase ben precisa dello scontro proprio queste truppe, lo vedremo, si trovarono sulla destra delle prime linee romane. Chiede ancora una risposta l’altra obiezione, senza alcun dubbio la piú imbarazzante; risposta in parte fornita però già dallo stesso Susini, ricordando come non tutte le forze di Caio Flaminio fossero entrate nella trappola. Gli scampati sarebbero stati piuttosto nume-

In basso: testina barbata raffigurante un Celta, da Casteggio (PV). II-inizi del I sec. a.C. Casteggio, Civico Museo Archeologico.

rosi; e sulle perdite romane torneremo. Certo è che alcuni giorni dopo, sparsa fuga (Livio 22, 7, 2), alla spicciolata, furono almeno 10mila i superstiti che raggiunsero Roma. Già De Sanctis osserva che, quando l’avanguardia romana «giunse all’altezza di Tuoro, la metà almeno della colonna romana doveva essere ancora fuori dell’aulòn (vallone)».

RALLENTARE LA MARCIA Non proprio la metà, forse; ma, certo, quando le forze puniche passarono all’attacco, 10mila uomini circa non erano ancora entrati nella trappola. All’interno del vallone dovevano trovarsi in quel momento forse neppure 15mila uomini. All’uscita dalla brevissima strettoia del Malpasso – un budello lungo non piú di 200 m – che dunque non potevano percorrere piú di 450 o 500 uomini al massimo, l’agmen, la formazione che era stato costretta a procedere su tre file al massimo, dovette senz’altro rallentare la marcia; era infatti necessario pandi, «allargarsi» (Livio 22, 4, 4) e non su sei od otto linee soltanto, ma – credo – su uno schieramento molto piú profondo. Sebbene non avesse alcuna intenzione di accettare battaglia, prevedendo di potersi trovare a breve a contatto con la retroguardia nemica, il console cercò probabilmente di premunirsi, assumendo una formazione difensiva, di quelle note e attuate normalmente dall’esercito romano. Dovette quindi, per tornare a quanto detto sopra, sacrificare altro tempo oltre a quello che aveva già perduto, sia disponendo già la cavalleria in posizione di fiancheggiamento, sia incaricando tribuni e centurioni di riordinare i ranghi man mano che superavano la strettoia e cercando un assetto che potesse eventualmente passare in fretta, con una semNella pagina accanto, in basso: plice conversione, dall’ordine di marcia a quello di battaglia. Venendo via via che enghianda missile trava nel vallone a disporsi in un agmen triper(di età piú tarda rispetto all’epoca titum, su tre scaglioni, l’esercito romano prese ad assumere probabilmente, con ciò stesso, della battaglia una formazione su linee molto piú profonde del Trasimeno) – dieci uomini e oltre – di quelle iniziali. con iscrizione Il console non riuscí, a ogni modo, a comCAES IMP da un pletare lo schieramento. Mentre ancora mollato e LEG VII ti Romani, avanzando da Borghetto, contidall’altro. a r c h e o 95


SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

nuavano a procedere incolonnati verso il Malpasso per poi assottigliare le linee e inoltrarsi nella strettoia, le avanguardie, che avevano scoperto dai fuochi accesi in altura la vicinanza del nemico, piegarono istintivamente verso nord-ovest; e cominciarono probabilmente ad aprirsi in linea di fronte, per assumere una posizione di difesa. I primi tra questi uomini trovarono, probabilmente senza cercarlo, uno scampo verso ovest, forse incuneandosi nel varco a fianco delle linee dei Celti, lasciato libero dalle cavallerie puniche scese a precipizio a investire il fianco delle legioni in marcia. Qui, non verso est, dove le aveva previste in cerca di sfondamento Annibale; e dove dai valloni aggettanti sul lago, calavano frattanto i Baleari e i leggeri, che effettivamente aggredirono i Romani ek tôn plagíon (Polibio 3, 84, 3), in latera (Livio 22, 4, 7), su entrambi i fianchi

ALL’IMBOCCO DEL VALLONE Questo per quanto concerne i Romani. Circa le forze puniche, onde definirne consistenza e impiego sul campo resta da risolvere preliminarmente il problema delle cavallerie; per le quali non credo a Tito Livio. Chi abbia ispezionato il declivio che, da Monte Gualandro, chiude il vallone di Sanguineto da occidente non può accettare che Annibale abbia schierato equites ad ipsas fauces saltus (22, 4, 3) «all’imbocco stesso del vallone». Qui la natura del terreno, estremamente dirupato, avrebbe infatti non solo impedito una carica, ma ostacolato persino i movimenti piú semplici dei cavalli, rischiando di nuocer loro alle zampe. Piú convincente mi pare la soluzione offerta da Polibio (3, 83, 4), secondo il quale il Bar96 a r c h e o

cide schierò Celti e cavallerie su una linea continua, gli uni accanto agli altri, in modo che i fanti si trovassero all’imbocco del vallone. Piú che a un’improbabile (e forse inopportuna…) commistione di corpi differenti lungo tutto il fronte, credo si possa ritenere che l’insieme delle forze montate puniche (comprendente anche i cavalieri gallici, uno dei quali fu tra i protagonisti dello scontro…) fosse disposto oltre l’arco dei Celti, piú verso Tuoro; e fosse scaglionato in profondità, forse lungo le direttrici del Fosso delle Cerrete e soprattutto del Rio Macerone, là dove l’allargarsi della valle avrebbe permesso loro di muoversi meglio e di prendere lungo il declivio lo slancio necessario per una carica. Fu forse nel varco lasciato aperto da queste truppe che poterono infiltrarsi i 6mila dell’avanguardia. Tornando ora alla seconda parte dell’obiezione mossa a Susini, allo schieramento punico vanno sottratti i forse 15mila Libi e Iberi che componevano le fanterie pesanti veterane venute dalla Spagna; che, concentrati in un’area ristretta nei pressi del campo, forono secondo me addirittura risparmiati. Vanno sottratti altresí i 5-8mila leggeri, imboscati post montes; sicché lungo il circuito dei colli che corre attorno al lago dovettero trovar posto meno di 25mila uomini, 10mila dei quali, i cavalieri, erano oltretutto allungati lungo il doppio vettore del rio Macerone e del Fosso delle Cerrete. Va forse ricordato che quanto esposto in queste pagine viene restituito in tutta evidenza sui luoghi stessi in cui si svolse nell’itinerario della battaglia allestito a cura di chi scrive per conto del Comune di Tuoro sul Trasimeno (vedi box a p. 103).

Sulle due pagine: ricostruzione ipotetica della decapitazione di Caio Flaminio, avvenuta dopo che il console era stato abbattuto da un cavaliere celta. Nella pagina accanto, in basso: piano ricostruttivo della battaglia del lago Trasimeno secondo Giancarlo Susini (1927-2000). Lo studioso aveva ipotizzato un percorso della linea costiera arretrato rispetto a quello attuale.


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PROTAGONISTI ED EVENTI

L

a parte finale dell’anno 218 a.C. era stata per Roma il primo momento, già particolarmente infausto, di una guerra, la seconda contro Cartagine, che sarebbe stata lunga e atroce. Battute per ben due volte da Annibale, prima al Ticino, poi ancor piú gravemente sul corso del Trebbia, le quattro legioni di quell’anno avevano convogliato i superstiti a svernare presso le nuove colonie sorte lungo il corso del Po, due a Piacenza, agli ordini di Sempronio Longo, due a Cremona, affidate al pretore Caio Atilio Serrano. Con la nuova stagione le prime passarono l’Appennino; e qui, integrate con i contingenti di reclute, furono raggiunte presso Arretium-Arezzo, dal primo dei nuovi consoli, Caio Flaminio Nepote. Questo notevole personaggio, protagonista sfortunato dell’evento in esame, merita qualche accenno ulteriore. Eletto alla somma

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magistratura per la seconda volta probabilmente poco dopo la disfatta del Trebbia, questo homo novus abile, energico e spregiudicato era il capo piú risoluto della fazione contadina. Impegnato già come tribuno della plebe a favorire i ceti meno abbienti, Flaminio aveva proposto (232 a.C.) la lex de agro Gallico Piceno viritim dividundo, il disegno di lottizzazione del territorio appartenente ai Galli Senoni, da destinarsi a nuovi coloni provenienti dal Centro Italia; ed era poi riuscito a imporre la messa in atto di questa vera e propria pulizia etnica malgrado l’opposizione degli ambienti conservatori, che non avevano esitato a ricorrere a ogni mezzo pur di dissuaderlo. Questo personaggio, che le fonti romane hanno dipinto in seguito come una sorta di popularis ante litteram, aveva sostenuto in seguito altri provvedimenti innovatori ancora,

Lo sprone alla cui estremità si trova oggi il paese di Tuoro sul Trasimeno: qui Annibale pose il suo accampamento e da qui era possibile controllare l’intera vallata settentrionale del lago.


La foto mostra in primo piano, a valle della località Sanguineto, il luogo in cui Annibale dispose i reparti di cavalleria. Sullo sfondo, si riconosce la vallata percorsa dai reparti montati dell’esercito punico che colpirono sul fianco sinistro la colonna romana in marcia.

volti a richiamare i membri del senato a quella che per lui doveva essere la loro naturale vocazione agraria. Se la lex Claudia, cosí chiamata dal nome del tribuno che l’aveva promossa, vietava ai patres di possedere navi di portata superiore alle trecento anfore, e mirava quindi a impedire loro di intraprendere il commercio transmarino, un successivo provvedimento era volto addirittura a escluderli dalla partecipazione agli appalti.

DIFFIDENZA E SOSPETTI Malgrado la cautela apparentemente mostrata nei suoi confronti persino dai suoi compagni di fazione – e, tra loro, di moderati illustri come Quinto Fabio Massimo Gurgite Verrucoso, il futuro Cunctator (il Temporeggiatore), e Marco Claudio Marcello… –, che ne temevano le ottiche estreme e forse lo sospettavano in fondo anch’essi di voler estendere a dismisura le sue clientele tra i nuovi coloni, questo focoso protagonista aveva continuato a guardare verso le terre galliche di settentrione come a uno sbocco per le masse contadine della Penisola. Dopo la pretura in Sicilia, di

cui era stato il primo governatore, Flaminio aveva raggiunto il consolato nel 223 malgrado l’opposizione ancora una volta esasperata degli avversari politici; che non avevano esitato a ricorrere addirittura all’arma degli auspici per cercare di invalidare la sua stessa elezione. All’inseguimento di quei nemici gallici che, vinti due anni avanti a Talamone, erano stati ricacciati oltre il Po, non aveva esitato a passare il fiume a sua volta insieme al collega Publio Furio Filone, invadendo il territorio degli Insubri, attaccandoli malgrado la diffida del senato e sconfiggendoli sul corso del Clusius-Chiese. La proiezione offensiva della sua politica, che puntava apertamente all’occupazione dell’intera Gallia cisalpina, vide come tappa ulteriore la creazione, da lui fortemente voluta durante l’anno della sua censura (220), della via Flaminia, tra Roma e Sena Gallica-Senigallia, «la strada delle conquiste della plebe rurale» (Fraccaro); e infine la fondazione delle colonie di Placentia-Piacenza e Cremona. Terminali di un formidabile impianto strategico creato in funzione della strada e della proget-

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SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO Schema della prima fase della battaglia del lago Trasimeno.

tata rincorsa verso le Alpi, queste garantivano l’accesso romano alla Transpadana. Piacenza teneva aperto l’ultimo guado possibile lungo il corso del Po e proteggeva a un tempo sul fianco orientale il valico di Stradella, da e per l’Etruria settentrionale; Cremona, la piú meridionale tra le città sorte lungo il fiume, copriva da nord l’intero impianto, propugnaculum adversus Gallos trans Padum agentes et si qua vis per Alpes rueret, «bastione contro i Galli operanti al di là del Po e contro qualunque forza irrompesse attraverso le Alpi» (Tacito, Historiae III, 34). Nel suo insieme, inoltre, il territorio delle due colonie isolava – in proiezio100 a r c h e o

ne offensiva – l’ager Boiorum dall’ager Insubrium, ostacolando collusioni e concentramenti di forze tra le due potenti tribú celtiche ostili; e collegava in funzione difensiva, le terre degli Anares gallici a quelle dei Cenomani, gli uni e gli altri alleati di Roma. Ora però l’arrivo di Annibale, chiamato in Italia dai Boi, e le sue vittorie dell’inverno passato rendevano palese la volontà del giovane generale punico di continuare la marcia verso sud; sicché anche Caio Flaminio si rassegnò, sia pur forse a malincuore, ad abbandonare la terra che tanto aveva desiderato annettere. Insieme con Caio Flaminio ai fasci era giun-


Schema della seconda fase della battaglia del lago Trasimeno.

to il patrizio Cneo Servilio Gemino. Ai suoi ordini si posero, integrate a loro volta con nuovi contingenti, le due unità che, dopo avere svernato a Cremona, avevano disceso il Po fino al mare, raggiungendo AriminumRimini. Incerti circa la strada che il Barcide avrebbe scelto per scendere nella Penisola, i consoli si disposero a presidiarne separatamente entrambi i versanti; a disposizione di ciascuno stava, verosimilmente, un’armata consolare composta di due legioni «forti», e cioè a effettivi accresciuti in vista della forza del nemico e del teatro in cui questi avrebbe operato, e di due alae sociorum, di due unità alleate di analoga consistenza numerica, per una forza complessiva di 25mila uomini ciascuna. Contavano, una volta che il Cartaginese avesse scelto la via, di riunirsi, muovendosi lungo l’asse che, in chiara funzione anticeltica,

correva da Rimini ad Arezzo lungo la valle del Marecchia, oppure lungo la Flaminia, anch’essa raggiungibile senza difficoltà.

LA DIRETTRICE OCCIDENTALE Evidentemente ben informato dai suoi contatti gallici, Annibale rinunciò, almeno inizialmente, a muovere verso sud lungo la via di Levante; che lo avebbe portato prima ad addentrarsi nell’ager Gallicus lottizzato, da una moltitudine di coloni e poi a infilarsi nella strettoia sotto il Conero, limitandone e rendendone prevedibili i movimenti. Come affermano implicitamente Polibio e Livio, lungo questa direttrice il nemico avrebbe inoltre potuto, sia pur molto a sud di Rimini, concentrare le sue forze per intercettarlo piú rapidamente. Scelse dunque il versante occidentale della Penisola, rispetto al quale il a r c h e o 101


SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO A sinistra: la battaglia del lago Trasimeno in un’incisione settecentesca. In basso: una delle aree attrezzate con pannelli nei luoghi in cui si svolse la battaglia. Nella pagina accanto: una sala del Centro di documentazione della Battaglia del Trasimeno e Annibale a Tuoro sul Trasimeno.

controllo del territorio boico e i molteplici valichi dell’Appennino rendevano impossibile prevedere donde sarebbe calato. Sul finire della primavera, probabilmente a maggio, il Cartaginese si mosse dal suo campo, nel cuore del territorio boico, puntando verso le pendici dell’Appennino: lo seguiva un’armata di 40mila uomini circa, 20mila dei quali erano Celti, fanti e cavalieri; erano soprattutto Insubri. Assai minore doveva essere, al contrario, la presenza boica: piú acculturati dei loro consanguinei transalpini, certo piú prudenti di loro, i Boi vedevano probabilmente di buon occhio la partenza di un alleato nei cui confronti non erano mancati dissensi e incomprensioni e scelsero inoltre di starsene, come di consueto, rintanati all’interno delle

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loro foreste da cui si sentivano protetti. Cosí Annibale superò l’Appennino. Circa il valico prescelto si discute ancora; e se l’opinione forse sempre prevalente pensa al passo di Collina, altri scelgono uno dei transiti nell’Appennino modenese. Il Cartaginese sbucò, pare, sul medio corso dell’Arno; e qui, malgrado il concludersi del disgelo rendesse meglio transitabili i fiumi, le vaste paludi collocate nel tratto acquitrinoso tra Pistoia a Fiesole rappresentarono un ostacolo complicato e sgradevole. Quattro giorni e tre notti durò la traversata, compiuta, in condizioni estreme, con l’acqua alla vita e in quasi totale mancanza di sonno. A differenza delle Alpi, poche fuono le vittime umane; assai piú gravi le perdite in animali e


SULLE ORME DI ANNIBALE A Tuoro sul Trasimeno, in piazza Garibaldi, ha sede il Centro di documentazione sulla Battaglia del Trasimeno e Annibale, che presenta un allestimento aggiornato sugli studi, con soluzioni tecniche innovative. La cittadina umbra ha inoltre ideato un percorso, Sulle orme di Annibale, che si snoda per 7,2 km, di bassa difficoltà, attraversando i luoghi piú notevoli del campo di battaglia. L’itinerario parte da Tuoro sul Trasimeno, piazza Garibaldi, magnifico punto panoramico verso il lago Trasimeno e attraversa il centro storico; poco dopo averlo lasciato si raggiunge una piazzola di sosta, detta dell’Arringatore, visto che in sito è stata posta la copia del celebre bronzo etrusco (ora al Museo Archeologico di Firenze) ritrovato

proprio nelle vicinanze nel XVI secolo. Da qui si osserva la valle da quello che era il punto di vista del condottiero punico, visto che si ritiene che l’accampamento cartaginese avesse sede su questo colle. Si prosegue su una strada a mezza costa in direzione Sanguineto, luogo dal nome fatale, legato al sangue dei Romani vinti che scorreva nel torrente locale. Raggiunto il borgo si può visitare il monumento ivi posto nel 1921 in memoria dell’evento bellico. Si scende quindi verso valle lungo il viale affiancato da cipressi, asse viario di epoca etrusco-romana, al termine del quale si gira verso est, in direzione di Tuoro, attraversando il vallone di traverso fino a trovarsi davanti la colonna donata dal Comune di Roma in ricordo della

battaglia. Dopo un breve tratto in salita su via Annibale Cartaginese, si svolta a sinistra in via del Fornello, dove si può vedere un esemplare di ustrinum (uno dei molti a oggi ritrovati), nome latino delle fosse a incinerazione dove al termine dello scontro vennero bruciati e poi ricoperti di terra i corpi dei caduti. Proseguendo oltre si raggiunge l’ingresso di Palazzo del Capra, vera e propria testimonianza della storia della civilizzazione nell’area (etrusca, romana, medievale, rinascimentale), che un tempo si riteneva ospitasse la tomba del comandante romano caduto nell’imboscata, Caio Flaminio. Immettendosi su via del Palazzo si raggiunge Tuoro e il punto di arrivo. Info www. prolocotuorosultrasimeno.it

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SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

salmerie. Proprio Annibale pagò un prezzo molto alto: afflitto verosimilmente da oftalmia purulenta, il Barcide perdette la vista a un occhio, probabilmente il destro; e, febbricitante, dovette concludere il tragitto sul dorso dell’ultimo elefante sopravvissuto, quel Surus – il piú fiero dei suoi pachidermi, un elefante indiano? – il cui nome è riportato da Plinio il Vecchio. Si formò ora, celebrata nell’epos successivo, un’immagine potente: era venuto il tempo, ricorda Marziale, cum Gaetula ducem portaret belua luscum, «quando la belva getulica trasportava il generale monoftalmo». La «leggenda nera» di Annibale acquista ora una delle sue caratterizzazioni piú suggestive e intense. Il Barcide imboccò cosí la fertile Val di Chiana. Sul Romano che lo attendeva accampato non lungi da Arezzo, uno dei personaggi piú detestati da gran parte della sua stessa storiografia, le fonti si sono accanite in ogni modo, tacciandolo di empietà e leggerezza, di temerità e incompetenza. Gli è stata rivolta l’accusa di avere replicato, questa volta con esito nefasto, la stessa sacrilega noncuranza verso i prodigi mostrata contro i Celti. Peggio, di aver ceduto alla tentazione di venire a giornata con Annibale cercando lo scontro, malgrado le sue forze fossero gravemente inferiori; e addirittura, secondo Polibio, di aver poi finito, sopraffatto dagli eventi, per lasciarsi uccidere, costernato e attonito, da un gruppo di guerrieri celti. Se da quest’ultima accusa lo purga Tito Livio, che ne elogia coraggio e iniziativa fino al momento della morte (e Annibale, che, ammirato, ne fece cercare le spoglie…), anche per quanto riguarda le sue intenzioni i fatti provano un ben diverso atteggiamento. Conscio dell’inferiorità delle sue forze, Flaminio mandò senz’altro a informare il collega circa la direzione presa dal nemico, invitandolo a raggiungerlo e a mandargli innanzitutto incontro le sue forze montate, preziose contro un nemico che proprio in quella componente particolarmente lo sopravanzava. In effetti Flaminio non intendeva assolutamente attaccare battaglia contro l’esercito nemico; e Annibale, che ne era perfettamente conscio, tentò in ogni modo di provocarlo, devastando al passaggio senza pietà i campi d’Etruria; e offrendogli con simulata imprudenza il fianco mentre sfilava in vista di Arezzo. Anche allora il console si limitò a uscire dal campo, seguendo a distanza il nemico che 104 a r c h e o

scendeva verso Cortona: gli premeva di evitare almeno in parte l’accusa di inerzia da parte degli affranti alleati etruschi e forse, soprattutto, di impedire che il collega – il quale, sceso a soccorrerlo da Rimini, avrebbe probabilmente scelto la Flaminia per sopravanzare il Barcide, prendendolo tra due fuochi – incappasse, lui assente, nell’armata cartaginese e ne fosse annientato. Seguito da Flaminio, a cui il fumo degli incendi appiccati dai Punici permetteva di tenersi a prudente distanza, senza perdere contatto col nemico ma anche senza correre rischio alcuno, Annibale decise di cambiare tattica. Fece dunque cessare il saccheggio e, accelerata la marcia, abbandonò la via verso Roma che pareva intenzionato a seguire, puntando di colpo a oriente; e, tenendo a mancina i montes Cortonenses, scomparve bruscamente con tutto l’esercito oltre una strettoia tra le alture e la sponda settentrionale del lago Trasimeno. Il Barcide usciva cosí dalla Val di Chiana; e non certo perché pensasse di poter far perdere le proprie tracce, tanto piú che, appena fuori vista a sua volta, provvide ad accamparsi.

CAMBIO DI DIREZIONE Disperando, evidentemente, di poter ormai indurre Flaminio allo scontro in acie, Annibale meditava – ai danni, come aveva detto al fratello, di un hostem che sapeva caecum ad has belli artes (Livio 21, 34, 3) – un’insidia che avrebbe avuto, questa volta, un peso persino piú decisivo che non sul campo del Trebbia. Grazie all’inatteso cambio di direzione il Cartaginese aveva inoltre guadagnato il vantaggio necessario. Quando, ore dopo, Caio Flaminio raggiunse il passaggio solis occasu, «al tramonto», l’esercito punico era ormai da tempo al di là; e anzi Annibale aveva probabilmente ormai provveduto a schierarlo, preparando l’imboscata del giorno dopo. Il console scelse allora, per la notte, di accamparsi all’esterno, non lungi dall’attuale Borghetto, in attesa di riprendere l’inseguimento il mattino seguente. Risolte tutte le aporie circa la definizione del terreno, veniamo ora allo svolgimento vero e proprio della battaglia. La mattina del 21 giugno 217 a.C., pur dovendo operare all’interno di loca nata insidiis (Livio 22, 4, 2) «luoghi fatti apposta per un’imboscata», Caio Flaminio vi si addentrò inexplorato (Livio 22, 4, 4), «senza aver compiuto alcuna ricognizione». Una decisione che, di fronte alla

Battaglia del lago Trasimeno, affresco nella camera di Ascanio II in Palazzo della Corgna a Castiglione del Lago (Perugia). Seconda metà del XVI sec.


superiore cavalleria punica, è stata giustificata (De Sanctis) col timore del console di perdere le sue forze montate. Spiegazione che però non regge, trattandosi di scegliere tra l’eventuale sacrificio di poche centinaia di cavalieri – i quali, se certo avrebbero potuto non fare ritorno, avrebbero però scoperto l’agguato – e la catastrofe per un intero esercito. Apparentemente inconcepibile in un uomo dell’esperienza anche bellica di Caio Flaminio, la scelta si spiega solo con l’istintivo rispetto di un’etica tuttora cogente per i Romani del tempo, che li induceva a rifiutare la guerra per insidie, inducendoli,

in presenza di un iustus hostis, di un nemico ritenuto regolare, persino di concepire lo stratagemma come prassi bellica: come Sempronio Longo al Trebbia, anche Flaminio era hostem caecum ad has belli artes (Livio 21, 34, 3). Nel momento stesso in cui i manipoli all’avanguardia, scoperta dai fuochi in altura la presenza del nemico, piegavano verso nord-ovest, cercando allo stesso tempo di aprirsi, Annibale diede il segnale di attacco. Non tutti i nemici avevano superato il Malpasso, sicché la coda dell’armata romana, pur tagliata fuori e impotente a (segue a p. 108) a r c h e o 105


SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

UN PATRIMONIO DA SCOPRIRE L’Umbria non è solo il cuore verde d’Italia: è la culla della storia antica del nostro Paese. In tremila anni Romani, Etruschi e Antichi Umbri hanno lasciato un patrimonio archeologico esteso, variegato e profondo. Un tesoro culturale apprezzato dagli esperti, ma spesso poco conosciuto e diffuso al grande pubblico.

Per questo è nato il progetto «Umbria Antica», un sito web multimediale e in piú lingue (www. festivalumbriantica.it) per valorizzare e far conoscere meglio con un linguaggio innovativo, fresco, ma non banale, 14 tra musei e siti archeologici umbri. Dalle Tavole Eugubine alle mura poligonali di Amelia, dalla Villa Romana dei Mosaici di Spello a

Carsulae, fino al Porto dell’Olio sul Tevere e l’Antiquarium di Otricoli, ai luoghi di Annibale e della Battaglia del Trasimeno a Tuoro, alle Tane del Diavolo di Parrano e ai musei archeologici di Bettona e Colfiorito. Schede informative accattivanti per incuriosire i meno esperti, articoli di approfondimento di alto livello, podcast immersivi, walking tour, video. Tanti e diversi tipi di contenuti per raccontare cos’è l’Umbria antica a pubblici diversi e specifici, per incuriosire chi ancora non la conosce e stimolare chi la ama già. Ma, soprattutto, per raggiungere quelle persone che non arrivano alla cultura dai canali tradizionali. Il progetto

di Virginia Valente

scommette sul potere della narrazione come strumento per creare comunità di luoghi e di interessi. E sulle potenzialità del digitale, in tutte le sue forme e linguaggi, per «mettere in rete» la cultura antica dell’Umbria ma anche, e soprattutto, per «fare rete», nella comunità degli appassionati di storia, archeologia, arte e cultura. Umbria Antica non lavora solo on line, ma anche dal vivo, promuovendo e organizzando incontri e dibattiti con esperti di storia, archeologia e conservazione dei beni culturali. Parte integrante del progetto è il Festival dell’Umbria antica: un evento itinerante con lezioni di storia e archeologia di taglio divulgativo tenute nei

A sinistra: Carsulae. Il fornice centrale della porta d’ingresso a nord dell’abitato. In basso: Gubbio. Uno scorcio del Teatro Romano.

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Spello. La decorazione pavimentale della Stanza delle Anfore della Villa dei Mosaici di Spello.

FESTIVAL DELL’UMBRIA ANTICA 4-26 giugno 2022 Sabato 4 giugno Amelia, Museo ArcheologicoSala della Pinacoteca Dalle ore 17,00 Giulio Guidorizzi Il grande racconto di Roma antica Valentino Nizzo I misteriosi Pelasgi Alessandra Bravi Le mura poligonali di Amelia Elena Trippini Visita esperienziale al museo archeologico

musei e siti archeologici dell’Umbria. Per quattro week end, dal 4 al 26 giugno, il Festival farà tappa in sette luoghi che custodiscono la storia antica umbra: Amelia (4 giugno), Spello (5 giugno), Spoleto (10 giugno), Tuoro (18 giugno), Gubbio (19 giugno), Otricoli (25 giugno) e Carsulae (26 giugno). Archeologi, storici, scrittori e storici dell’arte, tra cui Giulio Guidorizzi, Giovanni Brizzi, Giovanni Alberto Cecconi, Livio Zerbini, Arnaldo Marcone, Valentino Nizzo e Augusto Ancillotti, saranno i protagonisti di lezioni di storia di taglio divulgativo, gratuite e aperte a tutti. Un grande laboratorio culturale e informativo che sia in grado di far circolare cultura e mettere in

comunicazione luoghi e persone. Umbria Antica e Festival dell’Umbria antica è un progetto realizzato con il contributo della Regione Umbria POR FESR 2014-2020-Asse III-Azione 3.2.1 nell’ambito dell’azione «Supporto allo sviluppo di prodotti e servizi complementari alla valorizzazione di identificati attrattori e naturali del territorio, anche attraverso l’integrazione tra imprese delle filiere culturali, creative e dello spettacolo».

Domenica 5 giugno Spello, Palazzo Comunale Dalle ore 17,00 Livio Zerbini La guerra di Perugia e la rivalità tra Ottaviano e Antonio Gabriella Sabatini La Villa dei Mosaici Enrico Zuddas Il Rescritto di Spello Stefano Mammini La musealizzazione dei mosaici di Spello Venerdì 10 giugno Spoleto, Rocca Albornoz Dalle ore 16,30 Paola Mercurelli Salari Verso il nuovo museo del Ducato di Spoleto Federico Marazzi I ducati longobardi Elena Percivaldi I luoghi dei Longobardi a Spoleto Sabato 18 giugno Tuoro, Teatro comunale Dalle ore 17,00 Giovanni Brizzi La memoria di Annibale

Ermanno Gambini I luoghi della Battaglia del Trasimeno Augusto Ancillotti Tarsminass, quello che si prosciuga Domenica 19 giugno Gubbio, Sala Trecentesca di Palazzo Pretorio Dalle ore 10,00 Augusto Ancillotti Le Tavole di Gubbio e la confederazione Atiedia Giovanni Brizzi Gli Umbri e Roma Francesco Marcattili La Gubbio romana Sabato 25 giugno Otricoli, Area archeologica Dalle ore 17,00 Stefano Grilli Il Parco Archeologico Giovanni Alberto Cecconi La romanizzazione dell’Italia tra IV e I secolo a.C. Luana Cenciaioli Gli scavi a Ocriculum Enrico Zuddas L’Umbria dei porti Domenica 26 giugno Carsulae, Area archeologica Dalle ore 17,00 Silvia Casciarri Carsulae Arnaldo Marcone Le regiones di Augusto Paolo Braconi Bacco, la vite e l’olmo a Carsulae Augusto Ancillotti Il mondo italico a r c h e o 107


SPECIALE • BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO

intervenire, potè salvarsi. Attaccate lungo l’intera lunghezza della loro formazione, le sventurate truppe di Flaminio, prima ancora di aver visto i Punici, seppero di essere circondate dall’improvviso clamore. Con il lago prima sul fianco destro, poi, per quanti di loro erano riusciti a far fronte al nemico, anche alle spalle, sbigottiti per la sorpresa, gravemente svantaggiati dalla posizione e sensibilmente inferiori di numero, i Romani compresero probabilmente subito che la battaglia era perduta prima ancora di cominciare. Se l’ordine di marcia era stato probabilmente previsto per mutarsi in fretta in assetto di battaglia, mancò ugualmente il tempo, poiché l’attacco era stato troppo repentino e la formazione, ancora estesa nella valle, era per di piú incompleta. Difficile era, per la disposizione sul campo, il caos e la nebbia, la trasmissione dei comandi

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come anche la resistenza organizzata; eppure gli ufficiali reagirono superbamente, prodigandosi a incoraggiare gli uomini e cercando di riordinare un esercito piombato nel caos. Cadde ora Caio Flaminio, e sulla sua morte la versione liviana è senz’altro da preferire a quella di Polibio, legato agli Scipioni e a lui ostile. Attorno al console, che, insignem armis, «riconoscibile a causa delle sue armi» (Livio 22, 6, 3), si batteva circondato dagli uomini migliori e interveniva con coraggio dovunque fosse necessario, piú feroce infuriò a lungo la mischia; fino a che Flaminio cadde sotto la lancia di un cavaliere degli Insubri, a nome Ducario, che votò ai Mani massacrati dai suoi conterranei l’anima dell’odiato nemico (22, 5, 1 ; 6, 1-4). Fatto cercare da Annibale in persona, il corpo dell’eroico comandante non venne ritrovato: lo confemano Plutarco (Fab. Max. 3) e in parte Valerio Mas-

La clemenza di Annibale, in un altro affresco della camera di Ascanio II in Palazzo della Corgna a Castiglione del Lago. Seconda metà del XVI sec.


simo (1, 6, 6). Livio, che per primo vi accenna, si decide infine a rivelare altresí, in omaggio a una verità pure sgradita, il destino post mortem di Flaminio; che, spogliato e decapitato, scomparve confuso tra le molte vittime dei Galli, mentre la testa venne conservata come preda ambita da colui che lo aveva ucciso.

LA DISFATTA Dal canto loro i legionari si batterono con disperato coraggio, resistendo tres ferme horas, «per tre ore circa» (Livio 22, 6, 1); e riuscirono in parte, nella loro spinta in avanti, a raggiungere le prime pendici dei colli, là dove trovarono la morte e dove, quindi, piú nutrita è la presenza degli ustrina, le fosse scavate sul campo di battaglia per cremarvi i caduti. In parte furono invece respinti verso il lago, cercandovi scampo; e annegarono trascinati a fondo dalle armature o furono raggiunti e massacrati dalla cavalleria che li inseguí nelle acque basse. Seimila uomini dell’avangurdia riuscirono addirittura, forse senza volerlo, né rendersene conto, a rompere l’accerchiamento, avanzando senza incontrare resistenza probabilmente nel punto in cui, ai piedi del colle di Tuoro, anche per il balzo in avanti delle cavallerie puniche, le linee dei Celti mancarono di saldarsi a quelle dei veterani di Spagna, attestati presso l’accampamento. Presero dunque a salire, fino a che, allo svanir della nebbia, scorsero, volgendosi indietro, le ultime resistenze dei commilitoni e il campo cosparso di caduti. Cercarono allora scampo in altura, rifugiandosi in un villaggio etrusco che sorgeva verso la sommità del colle. Il solo di cui si siano trovate tracce archeologiche e toponomastiche è visibile nel luogo a cui gli umanisti hanno dato il nome di Trasimena. Alcuni giorni dopo gli ultimi superstiti dell’esercito di Flaminio furono però raggiunti e circondati dagli Iberi e dai leggeri, agli ordini di Maarbale; e si arresero a patto di avere vita salva e libertà. Annibale disattese però la parola data loro dal suo luogotenente; rilasciò quindi, come dopo la vittoria dell’anno precedente, i socii, gli alleati rimasti in sua mano, dicendo di essere venuto in Italia a combattere contro Roma per loro, e trattenne in prigionia i Romani. Secondo il dato delle fonti questi sarebbero poi stati giustiziati prima di attuare lo stratagemma notturno dei buoi che permise al Barcide di uscire dall’agro Falerno.

Affidandosi forse a una fonte cartaginese, che non solo accresceva alquanto l’organico dell’armata romana, ma riteneva che essa fosse stata annientata, Polibio fa salire il computo delle perdite romane a 15mila caduti e altrettanti prigionieri. Ancora una volta la fonte piú attendibile è Tito Livio. Secondo lo storico latino furono ben 10mila i superstiti che raggiunsero alla spicciolata la città entro pochi giorni, mentre almeno 6mila – gli uomini dell’avanguardia catturati da Maarbale – furono i prigionieri; sicché il totale dei caduti non dovette superare i nove o diecimila in tutto. L’armata punica perdette, secondo le differenti stime, 1500 o 2500 uomini, soprattutto Galli. Alcuni giorni dopo giunse a Roma l’annuncio di una nuova sconfitta. Servilio aveva distaccato a precederlo, in soccorso del collega, una parte dei cavalieri, 4mila uomini al comando di Caio Centenio. Il Barcide inviò allora a intercettare questo contingente le sue forze montate e i fanti leggeri, agli ordini di Maarbale. Agganciato e costretto a combattere da truppe piú numerose ed efficienti, il reparto romano fu in parte distrutto, in parte accerchiato e costretto alla resa. La sede dello scontro fu o il lacus Umber e la piana del Topino, sotto Assisi (De Sanctis) o l’altopiano di Colfiorito, sede dell’umbra Plestia, S. Maria di Pistia (Alfieri). All’indomani dello scontro al Trasimeno il risultato politico non era stato quello che il Cartaginese sperava. Non cedette alle lusinghe Assisi, non cedette Perugia; che chiusero le porte preparandosi alla difesa. «Un distaccamento punico tentò un improvviso assalto contro la colonia latina di Spoleto» (De Sanctis), senza esito. Diretto all’altro versante della Penisola, Annibale toccò probabilmente la Flaminia proprio qui. Dovette poi, secondo logica, decidere anche di seguirla, almeno fino a Fulginium-Foligno e forse fino al passo della Scheggia: appresa la vittoria di Maarbale, sapeva ormai che Servilio aveva perduto i suoi cavalieri ed era privo di mezzi adeguati per la ricognizione lontana e dunque sostanzialmente cieco e ridotto sulla difensiva. PER SAPERNE DI PIÚ Giovanni Brizzi, Ermanno Gambini, Luca Gasperini, Annibale al Trasimeno. Indagine su una battaglia, Lombardi Editore, 2018 a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IN CROCIERA CON L’IMPERATORE VELE SPIEGATE E VENTO IN POPPA: LE GALEE RAFFIGURATE SU ALCUNE, RARE, MONETE DI ETÀ ADRIANEA INNEGGIANO ALLA FORTUNA DEL PRINCIPE E DEL SUO GOVERNO

E

dito a Londra nel 1889, il Dictionary of Roman Coins di Seth William Stevenson (disponibile on line) è un’opera fondamentale anche per il ricco apparato di oltre 700 disegni che corredano le monete descritte, come nel caso della voce FELICITATI AVG, illustrata con un magnifico sesterzio di Adriano che mostra l’elaborata raffigurazione di una nave con equipaggio. Un disegno simile ricorre anche nel catalogo di Henry Cohen, Description historique des monnaies frappées sous l’Empire romain, con le monete di Adriano (1882, II, vol., p. 166). Sono molte le emissioni in bronzo e argento battute sotto il regno di Adriano che adottano come tipo una galea con file di rematori, timone e altri particolari che si alternano in numerose varianti. Tali esemplari, che si datano tra il 119 e il 136, sono generalmente ricollegate ai due lunghi viaggi intrapresi dall’imperatore: il primo, dal 119 al 126 d.C., nel quale visitò quasi tutte le provincie dall’Africa alla Britannia, e il secondo, nel 128-131 d.C., che toccò le coste del Mediterraneo dalla Cappadocia alla Mauritania.

legenda FELICITATI AVG (felicitati Augusti, «per la fortuna di Augusto») chiaro augurio per la prosperità, la fortuna, il successo sia dell’imperatore, ma anche del suo popolo e, in particolare, delle città e regioni toccate nei suoi viaggi, che avevano ricevuto dalle visite benefici di vario genere, sempre degni della munificenza di un imperatore. Va considerato anche il significato simbolico dell’immagine, in cui il buon governo dello Stato, equiparabile a un battello in mare, è assicurato dalle qualità e capacità dell’Augusto, comandante e nocchiero della naveimpero. Sono invece molto poche le monete dove la galea ha le vele spiegate e il vento in poppa e ancora piú rare quelle dove sulle vele è apposto, come un sigillo, il motto FELICITATI AVG. In questi esemplari, come quello riprodotto nell’opera di Stevenson ricordata in apertura, la nave, in mare, ha un equipaggio composto da una

SIMBOLO DEL BUON GOVERNO

Ritratto dell’imperatore Adriano. II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

Su alcuni sesterzi emessi negli anni 132/135 d.C. la galea pretoriana dei rovesci adrianei arriva ad assumere forme monumentali e celebrative, sormontata o circondata dalla

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doppia fila di otto rematori, con i remi posti a solcare l’acqua e un grande timone. A poppa c’è un acrostolium, (dal greco akrostolion, composto di akros, «estremo», e stolion, «ornamento»), ovvero un prolungamento in alto del dritto di prora, di solito spiraliforme e volto all’indietro, al quale si affiancano un vexillum e un’insegna con


l’aquila legionaria. Sottostante vi è una cabina con l’hortator, ovvero colui che batte il tempo per sincronizzare i movimenti dei rematori. A prua si erge una statua di Nettuno con tridente, e al centro si innalza l’albero maestro con le sue funi e la vela a campana spiegata decorata dal motto beneaugurante. In esergo la titolatura COS III PP (Consulis tertium Patris Patriae, «console per la terza volta, padre della patria»), databile a partire dal 128 d.C., quando appunto Adriano ricevette il titolo di Pater Patriae, e

infine la consueta sigla SC (Senatus consulto, «per deliberazione del Senato»).

OMAGGIO A ROMA La bellezza e la qualità artistica di questi sesterzi adrianei non sfuggirono all’eccellente incisore e medaglista padovano Giovanni da Cavino (1500-1570), già noto ai nostri lettori, profondo ammiratore ed erudito conoscitore delle monete romane e delle loro iconografie da omaggiarle, per cosí dire, con una celebre serie di sesterzi «all’antica» a esse ispirati. In alto: sesterzio in bronzo di Adriano realizzato da Giovanni da Cavino. XVI sec. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, galea a vele spiegate. A sinistra: disegno di un sesterzio in bronzo di Adriano (132-135 d.C.), da A Dictionary of Roman Coins (Londra 1889).

Come già abbiamo sottolineato, questa serie non va considerata come una volontaria falsificazione fraudolenta, ma come un’imitazione perfetta, un’emulazione dell’antico secondo la moda e l’atteggiamento culturale rinascimentale, alla quale si affiancavano esemplari che univano dritti e rovesci di monete diverse o, ancora, emissioni ispirate ai tipi romani, ma con leggere varianti d’invenzione. La perfezione raggiunta dall’incisore patavino fece sí che nel corso del tempo molte sue creazioni furono prese per originali antichi, entrando a far parte delle maggiori collezioni numismatiche. Giovanni ricreò quindi il sesterzio di Adriano con vele spiegate e motto beneagurante, distinguendosi dall’esemplare originale solo nel maggior numero di rematori riprodotti e nella mancanza dell’aquila legionaria sulla punta dell’insegna. La stima e l’ottima reputazione di cui godettero gli imitatori di medaglie antiche cinquecenteschi, ritenuti capaci di realizzare opere anche migliori di quelle originali, sono testimoniate, tra gli altri contemporanei, da Enea Vico (Discorso sopra le medaglie degli antichi..., Venezia 1555) che lodò l’abilità imitativa del Cavino e di altri medaglisti, e da un passo di Giorgio Vasari, che nelle sue Vite (1550, cap. X, p. 61) dice: «Di questa arte [coniare] vediamo oggi molti artefici moderni che l’hanno fatta divinissimamente e piú di loro si può dire di avere di tal cosa veduto meglio di perfezione con tutta quella grazia che gli antichi diedero alle cose loro, e con piú begli caratteri di lettere e meglio misurate».

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Alberto Cazzella, Giulia Recchia

ALLE ORIGINI DELLE DISUGUAGLIANZE Dall’affermazione dell’economia produttiva alle prime forme di stratificazione in Italia e nelle isole adiacenti (6000-1000 a.C.) Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 335 pp., ill. b/n 22,00 euro ISBN 978-88-99168-56-8 www.edizionidistoria.com

Come titolo e sottotitolo lasciano intuire, quest’opera scritta a quattro mani da Alberto Cazzella e Giulia Recchia ripercorre vicende comprese in un orizzonte cronologico cruciale per la storia del genere umano. Gli estremi della trattazione sono infatti il Neolitico – epoca che, non a caso, Vere Gordon Childe paragonò a una rivoluzione per via del formidabile impatto dell’avvento dell’economia produttiva 112 a r c h e o

sul modus vivendi delle comunità preistoriche – e l’età del Bronzo, momento nel quale maturano i presupposti economici, politici e culturali di quella che, per convenzione, chiamiamo storia. Nell’arco di circa cinquemila anni si sussegono eventi di notevole rilevanza, che gli autori ripercorrono puntualmente, avendo sempre cura di contestualizzare i fenomeni di volta in volta illustrati, anche se locali, all’interno del piú vasto contesto italiano ed europeo. Quel che emerge, infatti, già nel Neolitico, è l’esistenza di una fitta rete di contatti e di scambi, che, naturalmente, non furono soltanto legati alla circolazione delle materie prime, ma veicolarono saperi tecnologici, idee e, non da ultimo, credenze religiose. Il volume propone insomma una serie di quadri riepilogativi e potrà perciò rivelarsi particolarmente utile per quanti vogliano avvicinarsi allo studio della preistoria.

finalmente facendosi strada il desiderio di «dare un odore alla storia» e cosí, soprattutto per merito di studiosi francesi, vanno moltiplicandosi le indagini sui profumi dell’antichità. Un ambito solo all’apparenza secondario, se si pensa, per esempio, alle implicazioni economiche della produzione delle essenze, ma anche al ruolo svolto dai profumi in frangenti destinati a lasciare un segno, come nel caso degli episodi di cui fu protagonista Cleopatra, dapprima con Marco Antonio e poi con Cesare, scelti come «pretesto» dell’intera operazione. L’autore ha

Giuseppe Squillace

dunque riunito nel volume un’antologia di testi greci e latini, con traduzione a fronte, nei quali compaiano testimonianze sulla preparazione e l’uso dei prodotti in voga. Una silloge a cui, per motivi di spazio, non si affianca la rassegna dei dati archeologici, di cui viene comunque suggerita la bibliografia.

GLI INGANNI DI CLEOPATRA Fonti per lo studio dei profumi antichi Leo S. Olschki, Firenze, 192 pp., ill. col e b/n 22,00 euro ISBN 978-88-222-6812-9 www.olschki.it

Come scrive Giuseppe Squillace nell’Introduzione, sta

DALL’ESTERO Claudia Speciale

HUMAN-ENVIRONMENT DYNAMICS IN THE AEOLIAN ISLANDS DURING THE BRONZE AGE A palaeodemographic model BAR International Series 3052, BAR Publishing, Oxford, 156 pp., ill. b/n e col. 43,00 GBP ISBN 978-1-4073-5798-0 www.barpublishing.com

Opera di taglio specialistico, il volume nasce dalla ricerca compiuta dall’autrice per la sua tesi di dottorato. L’indagine si è basata sul riesame dei dati archeobotanici e paleoambientali restituiti da alcuni villaggi dell’età del Bronzo e ha avuto per obiettivo l’elaborazione di nuove stime sulla loro possibile consistenza demografica. Lo studio ha peraltro suggerito che, in alcuni momenti, l’arcipelago si avvalesse di risorse esterne. (a cura di Stefano Mammini)



presenta

ORVIETO

LA STORIA, I MONUMENTI, L’ARTE di Giuseppe M. Della Fina Città di antica e nobile fondazione, Orvieto visse nei secoli dell’età di Mezzo una stagione di grande fioritura e questa considerazione ha ispirato la realizzazione del nuovo Dossier di «Medioevo». In realtà, la storia della «regina della rupe» è ben piú lunga e fin dall’età preromana il centro umbro ebbe un ruolo di notevole rilevanza, come conferma, del resto, la presenza, ai piedi dell’abitato, del grande santuario confederale etrusco del Fanum Voltumnae, a cui è dedicato uno dei capitoli iniziali dell’opera. A partire da quegli esordi, Giuseppe M. Della Fina, autore del Dossier, ripercorre quindi tutti i capitoli salienti di una vicenda plurisecolare, testimoniata da opere straordinarie, come il magnifico Duomo e gli altri insigni monumenti tuttora racchiusi nella cerchia delle mura cittadine. E c’è spazio anche per importanti interventi di restauro – come quello condotto sui mosaici della facciata della chiesa cattedrale – o per la scoperta di un inedito Dante Alighieri con barba e baffi. Né mancano riflessioni sulla società orvietana nel millennio medievale, di cui gli studi piú recenti hanno accertato la predisposizione all’accoglienza, in virtú della quale la città si popolò di una folta comunità di forestieri. Un ritratto, dunque, vivace ed esauriente, che, forte di un ricco corredo iconografico, vuol essere un invito alla conoscenza o alla riscoperta di una delle gemme della Penisola.

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