Archeo n. 450, Agosto 2022

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GERUSALEMME AL COLOSSEO

NERONE INGLESE

ETRUSCHI DI CASENOVOLE

PALAFITTE DI LEDRO

SPECIALE SARDEGNA MEGALITICA

GROSSETO

ETRUSCHI DI FRONTIERA

o. i t

ESCLUSIVA

TRENTINO

LE PALAFITTE DI LEDRO

SARDEGNA ISOLA MEGALITICA

SPECIALE

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 AGOSTO 2022

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2022

Mens. Anno XXXVIII n. 450 agosto 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 450 AGOSTO

IL RITORNO DI NERONE

€ 6,50



EDITORIALE

TESTA CALDA La notizia è di qualche settimana fa: la secca del Tevere, meno drammatica di quella del Po e tuttavia rilevante, ha fatto riemergere i pochi resti di quello che viene comunemente chiamato il Ponte Neroniano. Si tratta delle fondamenta di uno dei quattro piloni della struttura che, in età romana, attraversava il fiume pochi metri a valle dell’attuale Ponte Vittorio Emanuele II (per i non Romani: il ponte che dal centro storico conduce al rione Borgo e alla basilica di S. Pietro) con un’angolazione spostata di qualche grado più a sud rispetto a quest’ultimo. L’evento non è cosa rara, i lettori possono rendersene conto facilmente recandosi di persona «sul luogo» con Google Maps. Nell’Ottocento, prima di essere rimossi per favorire il passaggio delle barche che risalivano il Tevere, i piloni emergevano ancora al di sopra della superficie dell’acqua. Il particolare della Nuova Topografia di Roma, di Giovan Battista Nolli (1748), riprodotto in questa pagina, raffigura tre di essi, bene in vista. Non abbiamo certezza circa l’effettiva paternità del ponte, alcuni lo attribuiscono allo zio materno di Nerone, Caligola. Fu quest’ultimo, infatti, a iniziare la costruzione del grande circo situato sulla riva destra del Tevere, più o meno in corrispondenza della basilica di S. Pietro che oggi ne ricopre le antiche vestigia. Rinominato circo di Nerone, fu qui che l’imperatore fece uccidere i cristiani accusati di aver appiccato il celebre incendio di Roma del luglio 64. È probabile che i Romani attraversassero proprio il nostro ponte per raggiungere il circo. Ponte «di Nerone», circo «di Nerone», incendio «di Nerone»: poco importa che il primo fosse anche il vecchio Pons Triumphalis (vi passava l’omonima via) o Pons Vaticanus (perché collegava la riva sinistra del Tevere con l’omonimo ager); che il secondo fosse stato voluto da Caligola; e che il terzo fosse stato forse causato da una pericolosa minoranza religiosa o, come aveva ipotizzato lo stesso Tacito, dal caso (si era a luglio e chissà quali erano, millenovecentocinquantotto anni fa, le temperature e il grado di siccità dell’Urbe...). L’ego – e il culto – di una delle teste più calde tra gli imperatori romani sfida i millenni e appena la nostra attenzione verso quello stravagante giovane, morto a trent’anni per suicidio assistito, tende ad affievolirsi, qualcosa riemerge dal passato per ricordarcelo: come i resti del vecchio ponte sul Tevere… o quel suo straordinario ritratto, riprodotto in copertina e di cui parliamo nell’articolo di apertura. Da dove proviene? Perché è rimasto nascosto per tutti questi secoli? Potrà un giorno tornare «a casa»? Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Testa calda

3

A TUTTO CAMPO Le regole dell’acqua

di Andreas M. Steiner

di Carlo Citter

Attualità

MOSTRE Un visore per Lascaux ARCHEOFILATELIA Duecento anni fa...

NOTIZIARIO

6

SCAVI Matelica prima di Matilica 6 di Giampiero Galasso

PASSEGGIATE NEL PArCo Gerusalemme ritrovata di Federica Rinaldi

PREMI «L’archeologia è nativa digitale»

28

30 32

di Luciano Calenda

RESTAURI 10

MOSTRE

Il paziente inglese

12

56 MUSEI

Ledro 50: l’avventura continua 72

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a cura di Alessandro Mandolesi e Alessandra Randazzo

MUSEI Tradizioni a confronto

56

di Giacomo Baldini, Andrea Barbieri, Federico Capriuoli, Valerj Del Segato, Alessandro Ferrari, Andrea Marcocci, Matteo Milletti, Stefano Ricci Cortili e Chiara Valdambrini

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di Marina Mattei, con un contributo di Alessandra Morelli e un reportage fotografico di Araldo De Luca

di Andreas M. Steiner

ALL’OMBRA DEL VULCANO Ai piedi del grande olivo

Una comunità di frontiera

di Stefano Mammini

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di Giampiero Galasso

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Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

www.archeo.it

Presidente

Federico Curti

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXVIII n. 450 agosto 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE SARDEGNA MEGALITICA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

PALAFITTE DI LEDRO

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

ETRUSCHI DI CASENOVOLE

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

In copertina testa ritratto di Nerone recentemente scoperta in una collezione inglese. € 6,50

NERONE INGLESE

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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GERUSALEMME AL COLOSSEO

Anno XXXVIII, n. 450 - agosto 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

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ARCHEO 450 AGOSTO

M SAR EG DE AL GN ITI A CA

di Dario Daffara

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IN EDICOLA IL 9 AGOSTO 2022

FRONTE DEL PORTO Una sentinella sul Tevere

ESCLUSIVA

IL RITORNO DI NERONE GROSSETO

ETRUSCHI DI FRONTIERA

arc450_Cop.indd 1

TRENTINO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

LE PALAFITTE DI LEDRO

SPECIALE

SARDEGNA ISOLA MEGALITICA

22/07/22 10:04

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Giacomo Baldini è co-curatore della mostra «Gli Etruschi di Casenovole», Grosseto. Andrea Barbieri è responsabile dell’infografica della mostra «Gli Etruschi di Casenovole», Grosseto. Stefano Borghini è funzionario architetto del Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Gianfrancesco Canino è archeologo. Federico Capriuoli ha curato per la società ACAS 3D i contenuti multimediali della mostra «Gli Etruschi di Casenovole», Grosseto. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Citter è professore associato di archeologia medievale all’Università degli Studi di Siena. Francesco Colotta è giornalista. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Valerj Del Segato è co-curatrice della mostra «Gli Etruschi di Casenovole», Grosseto. Federica Doria è funzionaria archeologa del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Alessandro Ferrari è progettista del percorso espositivo della mostra «Gli Etruschi di Casenovole», Grosseto. Giampiero Galasso è giornalista. Stefano Giuliani è direttore del Museo Archeologico Nazionale «Giorgio Asproni» di Nuoro. Elisabetta Grassi è direttrice del Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico «Giovanni Antonio Sanna» di Sassari. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Andrea Marcocci è co-curatore della mostra «Gli Etruschi di


Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA «Bionda e bellissima»

110

di Francesca Ceci

88 SPECIALE

110 LIBRI

Sardegna. L’isola delle pietre giganti 112

88

testi di Manuela Puddu, Gianfrancesco Canino, Elisabetta Grassi, Maria Letizia Pulcini, Federica Doria e Stefano Giuliani

Casenovole», Grosseto. Marina Mattei è archeologa. Matteo Milletti è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo. Alessandra Morelli è restauratrice. Manuela Puddu è funzionaria archeologa del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Maria Letizia Pulcini è direttrice del Museo archeologico nazionale della Laguna di Venezia. Alessandra Randazzo è giornalista. Stefano Ricci Cortili è è antropologo del Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Siena. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Chiara Valdambrini è direttrice del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto.

Illustrazioni e immagini: Araldo De Luca: copertina (e p. 51, in alto) e pp. 38/39, 44-47, 49, 50, 51 (basso), 52, 53 (alto) – Doc. red.: pp. 3, 40, 43, 78-81 – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Ancona, Pesaro e Urbino: pp. 6-9 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Cortesia Ufficio Stampa Fondazione Internazionale Balzan: pp. 1214 – Alessandra Randazzo: p. 16 (alto) – Parco archeologico di Pompei: pp. 16 (basso), 17 – Cortesia Museo archeologico statale di Ascoli Piceno: pp. 24 (centro), 25 (alto); Pierluigi Giorgi: pp. 20-21, 22 (basso, a sinistra e a destra), 23, 24 (basso), 25 (basso); Fabio Fornasari: p. 22 (alto); Massimo Gatto: p. 24 (alto) – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 26-27 – Cortesia Carlo Citter: pp. 28-29 – Cortesia Ufficio Stampa MUSEMuseo delle Scienze, Trento: pp. 30, 74-75, 76; Jacopo Salvi: pp. 72/73, 83, 84-85, 87 – da: Nero Caesar. Un ritratto inedito recuperato, Gangemi Editore: pp. 48, 53 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 56/57, 59, 60-71 – Stefano Mammini: pp. 77, 82/83 – Cortesia Villaggio Globale International: p. 109; Nicola Castangia: pp. 88/89, 96/97, 98-99, 100; Gianni AlvitoTeravista: pp. 90/91, 94/95, 101, 108; MiC-Museo Archeologico Nazionale di Cagliari/Luigi Corda: pp. 91, 92, 94 (basso), 96, 102-107 – Shutterstock: pp. 93 – Mondadori Portfolio: Album: p. 110 – National Gallery of Art, Washington: p. 111 – Cippigraphix: cartine alle pp. 58 (basso), 89. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito https://arretrati. pressdi.it L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Marche

MATELICA PRIMA DI MATILICA

L

a carta archeologica delle Marche si è ulteriormente e significativamente arricchita grazie alle recenti indagini preventive condotte nell’ambito dei cantieri Quadrilatero Marche-Umbria che collegano Fabriano con Muccia, in occasione della realizzazione della Strada Regionale Pedemontana delle Marche. Uno degli scavi archeologici piú estesi, in corrispondenza del nuovo svincolo di Matelica Ovest, su un’area di circa cinque ettari, ha restituito, nonostante l’intensa attività agricola protrattasi nel corso dei secoli, numerose testimonianze delle frequentazioni della zona tra la preistoria e l’età romana. A oggi, sono stati indagati un’area di abitato con buche di palo e capanne databili all’Eneolitico, capanne e resti di abitato databili tra l’VIII e il V secolo a.C., una necropoli con tombe a tumulo e fossato anulare riferibili al VI-V secolo a.C., una strada romana con orientamento est-ovest – di cui sono state riconosciute diverse fasi a partire dall’età repubblicana e presumibilmente in uso almeno fino al tardo-impero –, una piccola struttura votiva di età repubblicana-augustea, un impianto produttivo e un acquedotto di età romana. «All’età del Rame – spiega Tommaso Casci Ceccacci, funzionario archeologo responsabile di zona – può essere ricondotta una parte dell’abitato messo in luce, individuato nell’Area A3, testimoniato dalla presenza

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In alto: Matelica. Veduta aerea dell’Area A3, nella quale sono venuti alla luce i resti di un grande abitato. A sinistra: lastra di rivestimento in terracotta decorata a rilievo con palmette e spirali oblique. Nella pagina accanto, in alto: resti di una capanna dell’età del Rame. Nella pagina accanto, in basso: l’Area A2 in una ripresa da drone. In basso: planimetria degli scavi.

delle buche di alloggiamento dei pali attribuibili a una struttura a pianta rettangolare absidata. Tra i rinvenimenti piú importanti si segnalano un frammento di ceramica decorata a punti impressi, che trova confronti con il sito di Conelle di Arcevia e una punta di freccia in selce. Al periodo orientalizzante e arcaico e fino al V secolo a.C. risalgono poi una serie di strutture abitative sparse,

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n otiz iario

talvolta molto distanziate tra loro, che mostrano orientamenti e forme differenti: da quelle subrettangolari absidate a pianta molto allungata a quelle di forma ovale e rettangolare piú piccole. La copertura doveva essere straminea nelle strutture piú antiche e di tegole in quelle piú recenti. Frammenti di tegole associati a intonaco incannucciato e materiale ceramico sono stati rinvenuti, oltre che in alcune delle buche di palo, anche all’interno dei numerosi pozzetti e fosse legati alle attività domestiche e artigianali svolte negli spazi esterni in prossimità delle abitazioni. Una necropoli, in uso a partire dal VII-VI secolo a.C., era collocata a breve distanza dall’abitato. Sono stati individuati almeno tre fossati

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anulari, su uno dei quali si imposta una struttura risalente al V secolo a.C. L’area, allo stato attuale delle ricerche, sembra essere stata frequentata pressoché ininterrottamente fino alla piena romanizzazione, quando venne realizzata una strada di ghiaia, pietre e calce che, con andamento est-ovest, metteva in comunicazione il municipium di Matilica con il diverticolo della via Flaminia che risaliva la Valle del Potenza verso il municipium di Nucera Camellaria. La prima fase della strada, genericamente inquadrabile nell’età repubblicana, mostra vari rifacimenti non perfettamente sovrapposti tra loro, ma con spostamenti dell’asse anche di

alcuni metri. Al di sotto della strada sono venute alla luce grandi fosse realizzate per la cavatura del limo argilloso, che hanno restituito materiale ceramico in fase con l’abitato del V secolo a.C. L’attività di estrazione del limo argilloso è attestata anche nella fase romana in un’ampia area in prossimità del margine stradale, dove è emersa una grande area di cava. Sul margine nord della strada di età repubblicana è stato individuato un allineamento di una serie di buche di palo poste a distanza regolare, probabilmente riconducibili alla presenza di una struttura lignea di sostegno del taglio eseguito per regolarizzare il versante e delimitare l’asse viario. Sul lato merdionale del tracciato


In alto: un tratto dell’acquedotto romano individuato nell’Area A3. A destra, in alto: il pavimento in laterizi di una vasca pertinente a un edificio scoperto nell’Area A2. A sinistra, sulle due pagine: veduta dall’alto di un edificio di epoca romana nell’Area A2.

viario è stata poi messa in luce una piccola struttura votiva in muratura a pianta quadrangolare, aperta sul lato est. A testimonianza della defunzionalizzazione rituale avvenuta in antico, è stata rinvenuta una lastra di rivestimento in terracotta, decorata a rilievo con due palmette contrapposte e due spirali oblique, su cui era collocata una moneta in bronzo inquadrabile cronologicamente nell’ultimo quarto del I secolo a.C. La lastra poggiava a sua volta su un livello di tegole in frammenti, accanto ai quali è stata rinvenuta una piccola testa in terracotta parzialmente cava sul lato posteriore. Nello strato sottostante, piccoli chiodi-ribattini in ferro erano probabilmente riconducibili a un manufatto in materiale deperibile. Questo piccolo edificio di culto, dismesso in età augustea, insiste sugli stessi livelli su cui si imposta la strada di età repubblicana, rendendo plausibile una datazione alla stessa fase. Sul lato nord della strada, invece, si apriva un vasto edificio adibito ad attività produttive, conservato al livello delle fondazioni, di cui è stato scavato un solo settore di 200 mq. L’indagine ha messo in luce i resti di una piccola vasca con pavimentazione a mattoncini e due fornaci, di cui si conserva solo la parte relativa alla camera di combustione e ai praefurnia. I materiali rinvenuti negli strati archeologici di riempimento e nei butti immediatamente al di fuori della struttura permettono di collocare la vita di questo impianto tra il I secolo a.C. e il III d.C. L’edificio era sorto al di sopra di una parte dell’insediamento preromano, come testimoniano le

buche individuate al di sotto dei livelli romani. All’interno della stessa area è stato, infine, rinvenuto un acquedotto romano, che riforniva il municipium di Matilica, realizzato in trincea aperta con spallette in opera cementizia foderata di mattoni e fondo in mattoni. La struttura risulta spoliata in molte sue parti e priva della copertura». Le attività di indagine archeologica sono realizzate dalla società Kora s.r.l. sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Ancona e Pesaro Urbino. Giampiero Galasso

Errata corrige con riferimento all’articolo Tesori da una «Venezia di montagna», pubblicato nel n. 448 di «Archeo» (giugno 2022), desideriamo precisare che i caratteri dell’iscrizione incisa sul blocco di pietra riprodotto a p. 59 sono «retici» e non «runici», come indicato nella didascalia a p. 58. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori e con l’autore dell’articolo.

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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

GERUSALEMME RITROVATA GRAZIE AI RECENTI INTERVENTI DI RESTAURO, IL COLOSSEO HA SVELATO L’ENNESIMO TESORO NASCOSTO: UNA VEDUTA IDEALE DELLA CITTÀ SANTA DIPINTA NEL SEICENTO. E ORA VALORIZZATA DALLA REALIZZAZIONE DI UNA SUGGESTIVA INSTALLAZIONE MULTIMEDIALE

S

ull’arco di fondo della Porta Triumphalis del Colosseo, in corrispondenza dell’accesso occidentale al monumento, venne realizzato nel corso del XVII secolo uno straordinario dipinto murale raffigurante una veduta ideale della città di Gerusalemme. È una testimonianza importante di una fase di vita meno nota rispetto a quella di epoca romana, caratterizzata da un percorso che porta all’istituzione del Colosseo come chiesa pubblica da parte di

papa Benedetto XIV nel 1756. Gerusalemme è riprodotta con una veduta a volo d’uccello, in modo schematico e regolare, concepita come una raffigurazione di topografia storica unica e onnicomprensiva. Una cinta muraria di forma rettangolare perimetra la città, delineata al suo interno da alte mura e da edifici in prospetto lungo le vie e intorno agli isolati. In modo molto dettagliato è rappresentata la grande area rettangolare del Tempio di

Colosseo. Il dipinto murale con veduta di Gerusalemme nella illuminazione notturna (in alto) e diurna. Salomone, segnata da una serie di portici e mura concentriche. Al di fuori delle mura, invece, compare una sequenza di scene di natura diversa: le croci visibili in primo piano nell’angolo inferiore sinistro rappresentano il Gòlgota, in una sequenza temporale che racconta contemporaneamente tutte le fasi della Passione, dalla salita al Calvario, alla crocifissione, alla deposizione e resurrezione. Le altre scene extramuranee raffigurano, tra le altre, le sconfitte dei Filistei, l’accampamento dell’esercito di Erode e quello di Pompeo, l’assedio di Gerusalemme nel 70 d.C., e sono

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tutte raffigurate in maniera meno particolareggiata, segnate da pochi elementi topografici.

DUPLICE FRUIZIONE Lo schema iconografico, reso pienamente leggibile dal restauro condotto dal PArCo e conclusosi nell’estate 2020, ricalca una stampa del 1584-1585, successivamente riprodotta in Italia da parte del pittore e incisore Antonio Tempesta. Realizzato nel 1601 e oggi conservato all’Albertina di Vienna, il disegno fornisce il termine post quem per la datazione dell’opera. Il racconto diffuso raffigurato su questo dipinto è ulteriormente valorizzato da una installazione multimediale basata su una doppia modalità di fruizione, diurna e notturna (vedi box qui accanto); di giorno, a un impianto audio opportunamente spazializzato è demandato il compito di catturare l’attenzione del pubblico e Colosseo. La stampa di Antonio Tempesta proiettata sul fornice opposto a quello della Gerusalemme.

MULTIMEDIALITÀ

Gerusalemme di luce

L’applicazione multimediale pensata per valorizzare il dipinto di Gerusalemme ha affrontato difficoltà inedite per lo stesso Parco archeologico del Colosseo, che pure negli anni si è confrontato con molteplici soluzioni tecnologiche, declinate sulla base di diverse esigenze comunicative e delle svariate condizioni di contesto dei monumenti coinvolti. In questo caso il principale problema era quello di richiamare l’attenzione su un dipinto collocato sopra l’arco di accesso al monumento, posto alle spalle dei visitatori che entrano verso gli spazi interni dell’anfiteatro, naturalmente attratti dalla luce intensa dell’arena e quindi non incentivati a guardarsi alle spalle e verso l’alto. Per di piú le condizioni di illuminazione, caratterizzate dalla forte intensità della luce esterna e dal riflesso di questa sulle pareti e sulla pavimentazione del fornice, costituivano condizioni quasi proibitive per qualsiasi progetto di valorizzazione basato su un videomapping di tipo tradizionale. La soluzione adottata dalla società Karmachina – che ha realizzato l’applicazione, in collaborazione con i progettisti interni del Parco – è stata quella di distinguere nettamente le modalità di fruizione in relazione alle condizioni di luminosità del monumento e delle modalità di visita dello stesso. La versione diurna, caratterizzata dall’intensa luce esterna e dalla fruizione autonoma e «distratta» dei visitatori, si è concentrata sulla capacità del suono di catturare la tensione emotiva del pubblico. Il videomapping (che ha imposto, per garantirne la minima leggibilità, l’adozione di un potente proiettore da 25 000 ansilumen) si è limitato a individuare tre punti di attenzione – corrispondenti all’intera città, alla scena della crocifissione e agli assedi attorno alle mura – coadiuvati e sottolineati da un audio spazializzato il cui focus si concentra sui diffusori piú vicini al dipinto. Il suono associa inoltre rumori collegati alle immagini rappresentate, il cui scopo, ancora una volta, è quello di spingere il visitatore a fermarsi e a volgere lo sguardo nella direzione di provenienza degli stessi. La versione notturna, al contrario, non ha alcun vincolo legato alla leggibilità della proiezione, e per di piú è ulteriormente avvantaggiata dalla fruizione guidata del monumento, che conduce i visitatori direttamente di fronte al dipinto. Il videomapping in questo caso la fa da padrone, permettendo al racconto diacronico di snocciolare delicatamente tutti gli episodi vetero e neotestamentari rappresentati, illuminandoli uno per volta in un tappeto emotivo e sonoro di grande coinvolgimento. Per aumentare la leggibilità del dipinto, in alcuni tratti lacunoso e diafano, i dettagli corrispondenti dell’incisione di Antonio Tempesta (che si può osservare nella sua interezza sulla controfacciata del fornice) sono proiettati nel sottarco di destra piú prossimo al dipinto, in un rimando cognitivo semplice ed elegante, che sembra richiamare l’idea del «restauro mentale» che fu di Roberto Longhi. Stefano Borghini

incanalarla verso l’immagine di Gerusalemme, solo brevemente raccontata, con un videomapping di circa tre minuti, coadiuvato da didascalie testuali; di sera – in occasione delle visite guidate sotto la luna in programma fino alla fine del 2022 –, un videoracconto di maggior complessità basato sull’alternanza tra la messa in evidenza dei dettagli del dipinto e la

proiezione della pianta del Tempesta e dei suoi particolari inserisce il dipinto nella storia del Colosseo cristiano, ovvero in un racconto completamente diverso che merita una tensione comunicativa appositamente studiata, volta a deviare l’attenzione dalla ben piú nota vicenda del monumento antico. Federica Rinaldi

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n otiz iario

PREMI Svizzera

«L’ARCHEOLOGIA È NATIVA DIGITALE» Il Premio Balzan a Giorgio Buccellati e Marilyn Kelly Buccellati

B

erna, 1° luglio. «Per i successi ottenuti nello studio della cultura urrita e per aver rivelato la sua importanza come fondatrice di una grande civiltà urbana, tra le piú fiorenti del Vicino Oriente Antico nel terzo millennio a.C.; per aver promosso l’approccio digitale allo studio dell’archeologia; per aver coltivato gli approcci teorici a questa disciplina»: è la motivazione, sintetica ma eloquente, con la quale il prestigioso Premio Balzan 2021 è stato assegnato a una coppia assolutamente fuori dal comune, gli archeologi Giorgio Buccellati e Marilyn Kelly Buccellati.

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LA FONDAZIONE INTERNAZIONALE BALZAN

Per incoraggiare la cultura e la fratellanza tra i popoli La Fondazione Internazionale Balzan opera dal 1956 per promuovere nel mondo la cultura, le scienze e le piú meritevoli iniziative umanitarie, di pace e di fratellanza tra i popoli. Oggetto principale dell’attività della Fondazione è il conferimento dei Premi Balzan. Ogni anno i quattro Premi Balzan sono attribuiti a studiosi e scienziati che si sono distinti, a livello internazionale, nel campo in cui operano. Lo scopo dei Balzan è, infatti, quello di incoraggiare la cultura, le scienze e le piú meritevoli iniziative umanitarie, senza distinzioni di nazionalità, di razza e di religione. Le quattro materie premiande cambiano ogni anno e vengono scelte, come recita lo Statuto della Fondazione Balzan, tra «le lettere, le scienze morali e l’arte» e «le scienze fisiche, matematiche, naturali e la medicina». Tale rotazione consente di privilegiare filoni di ricerca nuovi o emergenti, e di sostenere ambiti

di studio importanti ma trascurati dagli altri grandi riconoscimenti internazionali. I premi hanno un valore di 750 000 franchi svizzeri (circa 740 000 euro) per ciascuna materia. Dal 2001, il Regolamento del Comitato Generale Premi impone ai premiati la destinazione di metà del Premio ricevuto al finanziamento di progetti di ricerca condotti da giovani studiosi. Quest’anno, insieme a Giorgio Buccellati e Marilyn Kelly Buccellati, premiati per Arte e archeologia del Vicino Oriente antico, il riconoscimento è andato a Alessandra Buonanno e Thibault Damour per Gravitazione: aspetti fisici e astrofisici, a Saul Friedländer per Studi sull’olocausto e sul genocidio, a Jeffrey Gordon per Microbioma in salute e malattia. Tra gli archeologi che in passato hanno ricevuto il premio figurano Mario Torelli (2014), Colin Renfrew (2004), Jean Leclat (1993) e Massimo Pallottino (1982).

Veduta di Tell Mozan, l’antica Urkesh, un insediamento dell’età del Bronzo nella Siria nord-orientale, scavato da Giorgio Buccellati e Marilyn Kelly Buccellati. Nella pagina accanto, in alto: un momento della presentazione dei Premi Balzan.

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n otiz iario Gli archeologi Giorgio Buccellati e Marilyn Kelly Buccellati, vincitori del Premio Balzan 2021 per Arte e Archeologia del Vicino Oriente antico. La cerimonia, tenutasi con un anno di ritardo per motivi legati alla pandemia, si è svolta lo scorso 1° luglio nel Palazzo federale della capitale svizzera, alla presenza della Presidente del Consiglio Nazionale della Confederazione, Iréne Kälin. Per circa cinquant’anni, il

sodalizio umano e scientifico dei due studiosi premiati ha avuto come teatro la Siria dove, nel decennio 1976/86, i Buccellati hanno scavato il leggendario sito di Terqa (Tell Ashara, città-stato di una provincia del regno di Mari e poi capitale del regno di Khana),

EUGENIO BALZAN

Un grande organizzatore

Eugenio Balzan nasce il 20 aprile 1874 a Badia Polesine, in provincia di Rovigo, da una famiglia di proprietari terrieri. Inizia la propria carriera giornalistica presso il quotidiano l’Arena di Verona come corrispondente locale. Nel 1897 si trasferisce a Milano entrando nella redazione del Corriere della Sera. La sua carriera all’interno del quotidiano di via Solferino è straordinaria: in breve tempo, da correttore di bozze diviene cronista e quindi, a soli 28 anni, direttore amministrativo. Le sue doti di organizzatore danno un grande contributo alla crescita e alla diffusione di quello che si sta imponendo come il principale organo di informazione italiano, di cui acquisisce anche una piccola partecipazione sotto la direzione dei fratelli Albertini. Nel 1933 decide di lasciare l’Italia, otto anni dopo che, a causa dell’avvento del fascismo, i fratelli Albertini sono costretti a vendere la proprietà del Corriere. Si trasferisce quindi in Svizzera, prima a Zurigo e poi a Lugano, dove muore il 15 luglio 1953. La Fondazione Internazionale Balzan sorge grazie alla generosità di Angela Lina Balzan che, alla morte del padre Eugenio e ispirandosi ai suoi propositi, destina il cospicuo patrimonio ereditato a un’opera per onorarne la memoria.

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per poi concentrarsi sul sito di Tell Mozan, l’antica Urkesh, un insediamento dell’età del Bronzo nella Siria nord-orientale (vicino alla frontiera con la Turchia), abitato dal tardo IV millennio fino alla metà del II millennio a.C. e, verosimilmente, di fondazione urrita («Urriti» o «Hurriti» è il nome della popolazione che nell’età del Bronzo era stanziata nel territorio compreso tra Anatolia, Siria e Mesopotamia settentrionale, n.d.r.). Tra i principali meriti dei due studiosi la giuria del premio ha sottolineato l’impegno nella protezione del sito attraverso il costante e attivo coinvolgimento della popolazione locale e, soprattutto, l’uso pionieristico della tecnologia digitale all’archeologia, approccio che ha portato all’intuizione delle «profonde implicazioni teoriche ed intellettuali insite nell’uso delle tecniche computazionali nel modellare l’informazione archeologica». La cerimonia è stata introdotta dalla presidente della Fondazione Balzan «Fondo», Gisèle Girgis-Musy, e dal presidente della Fondazione Balzan «Premio», Alberto Quadrio Curzio. Quest’ultimo, a conclusione dell’assegnazione del premio ha dichiarato che «a fronte delle tragedie di questi ultimi tre anni la fondazione ha continuato a operare per mantenere viva quella comunità scientifica internazionale che rappresenta un veicolo di dialogo e di pace. La scienza e la cultura possono unire e non devono mai rinunciare a questo ruolo umanitario senza il quale l’umanità stessa perderebbe una parte importante della propria esistenza». A. M. S.



ALL’OMBRA DEL VULCANO a cura di Alessandro Mandolesi e Alessandra Randazzo

AI PIEDI DEL GRANDE OLIVO ULTIMATI GLI INTERVENTI DI RESTAURO DEGLI AMBIENTI E DEL GIARDINO, È STATA RIAPERTA AL PUBBLICO LA CASA DI CERERE, ARRICCHENDO ULTERIORMENTE L’OFFERTA DI VISITA AL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI

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ituata nella Regio I, la Casa di Cerere deve il suo nome a un busto della divinità rinvenuto forse in un piccolo ambiente domestico dedicato al suo culto. Databile intorno al IV secolo a.C., L’immagine, raffigura la dea delle messi vestita con un chitone e il capo sormontato da un polos sotto il quale si intravede la capigliatura ondulata, divisa da una scriminatura centrale. A Pompei Cerere non era solo la dea dei campi coltivati e dell’agricoltura, ma anche la protettrice delle nascite e delle spose. In origine, come accennato, la statua era forse collocata in uno dei cubicoli (stanze da letto) aperti sull’atrio, ed era probabilmente il fulcro di un piccolo luogo di culto privato. Il busto rappresenta un tipo statuario databile alla fine del IV secolo a.C. e, verosimilmente, proveniva dal mercato antiquario, al quale il proprietario della casa si era rivolto per assicurarsi questo pezzo pregiato. In città però non mancano altri rinvenimenti riferibili a statue di Cerere, quasi tutte provenienti da abitazioni ristrutturate nell’ultimo periodo di vita di Pompei e che sembrano suggerire un’origine comune da un possibile luogo di culto cittadino, distrutto o in ristrutturazione dopo

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A destra: l’impluvium (vasca di raccolta dell’acqua piovana) di cui era dotata la Casa di Cerere. In basso: la statua in terracotta di Cerere che ha dato nome alla casa. Nella pagina accanto: in alto, il giardino della Casa di Cerere e, in basso, particolare della decorazione pittorica di uno degli ambienti. il sisma del 62 d.C., forse da identificare con il santuario di Fondo Iozzino, scoperto nell’area della moderna Pompei intorno agli anni Ottanta del Novecento e attribuito, grazie ai fortunati rinvenimenti, a Demetra-Ecate e a Giove Meilichio.

L’ORTO E IL GIARDINO La Casa di Cerere si affaccia su via di Castricio e presenta all’interno un piccolo hortus e un vasto giardino che, solo nell’ultima fase di vita della casa, venne monumentalizzato. Altri rifacimenti risalgono sempre al periodo imperiale, ma interessarono il tablino con il rifacimento delle decorazioni parietali in III stile. Dal I secolo a.C., inoltre, gli ambienti della casa furono decorati con pitture in II stile, tanto che la dimora è considerata uno dei complessi piú rappresentativi per questo stile in tutta l’antica Pompei. Gli scavi archeologici che portarono in luce il complesso abitativo vennero avviati tra il 1951 e il 1952 e, oltre agli ambienti della casa, emersero dagli strati di ceneri e lapilli anche i resti del giardino, indagato, sempre in quegli anni, dall’archeologa americana Wilhelmina Jashemski. Il viridario era disposto sul retro della casa e, seguendo il naturale declivio del terreno, era posto a un livello piú alto rispetto all’atrio. Il ripiano del giardino è contenuto da un muro decorato con pitture a motivi vegetali ancora leggibili e che hanno ispirato i progettisti del Parco nel rigenerare il nuovo

angolo verde. Anche questo spazio all’aperto trae spunto dagli elementi vegetali preesistenti, nonché da quanto emerso dagli scavi archeologici e dai reperti conservatisi, in una soggettiva interpretazione che tiene anche in considerazione il reinserimento di pratiche agronomiche antiche e di specie autoctone. Il progetto del giardino trae impulso da un grande olivo (Olea europea), vigoroso e carico di frutti, che sembra associarsi naturalmente alla suggestione della presenza della dea Cerere per un racconto dell’agricoltura antica. Una siepe di mirto (Myrtus communis subsp. tarentina), infatti, forma la base architettonica vegetale permanente che contiene ampi riquadri coltivati con orzo (Hordeum vulgare), farro (Triticum dicoccon) e grano tenero (Triticum aestivum). Cerere è la protettrice delle messi e le diverse specie di cereali, con i loro colori e varietà, stimolano un grande interesse visivo, dal momento della semina nei piccoli solchi geometrici fino al colore giallo oro della maturazione. Un covone di spighe riprende un elemento delle coltivazioni decorative antiche e canne di fiume sono accostate al grande ulivo e al muro di cinta, lasciate dal

giardiniere per raccogliere i frutti e governare l’olivo, secondo le indicazioni dell’agronomo latino Columella. Le stesse canne di fiume provenienti dai canneti del Parco sono utilizzate, sulla base degli studi agronomici antichi e degli affreschi pompeiani, per ricreare le leggere balaustre di delimitazione a treillage, con legature di rafia e filo di ferro filato. Parte delle piante utilizzate nel giardino della casa provengono dal Vivaio della Flora Pompeiana, da poco riattivato all’interno del sito, nella Regio VI. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

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INCONTRI Paestum

UN PREMIO PER NON DIMENTICARE

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a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum e la rivista «Archeo» hanno inteso dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche attraverso un Premio annuale, assegnato in collaborazione con le testate internazionali media partner della Borsa: Antike Welt (Germania), Archäologie in Deutschland (Germania), Archéologia (Francia), as. Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia). Il direttore della BMTA, Ugo Picarelli, e il direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, hanno condiviso questo cammino, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre piú un’importanza legata alla riscoperta delle identità, in una società globale che disperde sempre piú i suoi valori». Il Premio, dunque, si caratterizza per divulgare uno scambio di esperienze, rappresentato dalle scoperte internazionali, anche come buona prassi di dialogo interculturale e cooperazione tra i popoli. Giunto alla 8ª edizione, l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» è intitolato all’archeologo di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale. Si tratta dell’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato all’archeologia e in particolare ai suoi protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, dedizione e competenza affrontano quotidianamente il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio. Nelle passate edizioni, il Premio è stato assegnato a: Katerina Peristeri, responsabile degli scavi, per la scoperta della Tomba di Amphipolis (Grecia; 2015); INRAP Institut National de Recherches Archéologiques Préventives (Francia), nella persona del presidente Dominique Garcia, per la tomba celtica di Lavau (2016); Peter Pfälzner, direttore della missione archeologica,

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per la città dell’età del Bronzo presso il villaggio di Bassetki nel nord dell’Iraq (2017); Benjamin Clément, responsabile degli scavi, per la «piccola Pompei francese» di Vienne (2018); Jonathan Adams, Responsabile del Black Sea Maritime Archaeology Project (MAP), per la scoperta nel Mar Nero del piú antico relitto intatto del mondo (2019); Daniele Morandi Bonacossi, direttore della Missione Archeologica Italiana nel Kurdistan Iracheno e ordinario di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico dell’Università di Udine, per la scoperta di dieci rilievi rupestri assiri raffiguranti gli dèi dell’Antica Mesopotamia (2020); alla scoperta di «centinaia di sarcofagi nella necropoli di Saqqara in Egitto» (2021). Per l’edizione di quest’anno della Borsa, in programma a Paestum dal 27 al 30 ottobre 2022, il Premio, assegnato alla scoperta archeologica prima classificata, sarà selezionato tra le 5 finaliste segnalate dai direttori di ciascuna testata e sarà consegnato nella giornata di venerdí 28 ottobre in occasione della XXIV BMTA. Verrà inoltre attribuito uno «Special Award» alla scoperta, tra le cinque candidate, che, fino al prossimo settembre, avrà ricevuto i maggiori consensi espressi dal pubblico attraverso la pagina Facebook della Borsa (www.facebook.com/ borsamediterraneaturismoarcheologico). Le cinque scoperte archeologiche del 2021 finaliste dell’8ª edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» sono: Egitto: dal deserto riaffiora la città fondata da Amenhotep III a Luxor; Italia: Pompei, a Civita Giuliana scoperta la stanza degli schiavi; Pakistan: nella valle dello Swat, a Barikot, il piú antico tempio buddhista; Regno Unito: in Inghilterra, nella contea di Rutland, uno straordinario mosaico con scene dell’Iliade; Turchia: in Anatolia il sito di Karahantepe, un santuario rupestre di oltre 11mila anni fa. Per info: www.bmta.it



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MUSEI Marche

TRADIZIONI A CONFRONTO

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perto al pubblico nel 1982, il Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno è ospitato nel cinquecentesco Palazzo Panichi, nel centro storico della città marchigiana. Noto per l’importanza delle esclusive testimonianze picene che racchiude (vedi box a p. 21), il Museo nasce originariamente su un piccolo lascito che monsignor Alessandro Odoardi, vescovo di Perugia, fece alla sua città natale alla fine del XVII secolo: questo nucleo, negli anni successivi all’unità d’Italia, e a partire dagli anni Settanta del XIX secolo, fu

arricchito grazie a importanti lasciti, quali quelli di Candido Augusto Vecchi e Costanzo Mazzoni, e alla attività svolta sul territorio da Giulio Gabrielli, primo direttore della raccolta. Oggi, grazie a un complesso lavoro di allestimento, è stata riaperta la sua sezione romana dopo alcuni anni di chiusura. «Si tratta – afferma Sofia Cingolani, direttore archeologo del museo – di un primo traguardo importante, nell’ambito di un programma pluriennale volto a restituire al pubblico percorsi e zone del museo chiuse da tempo e, in generale, al In alto: testa-ritratto dell’imperatore Traiano dall’area delle domus del Palazzo di Giustizia di Ascoli Piceno. A sinistra: lastra marmorea a rilievo con raffigurazione delle horai (stagioni). Età augustea. In basso: un particolare del nuovo allestimento della Sala IV del Museo, dedicata al tema della domus.

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rinnovamento della struttura e della sua identità. Oltre allo studio scientifico dei contesti e dei materiali che compongono la sezione romana, ci si è concentrati, come detto, sulla nuova identità del Museo. Una particolare attenzione è stata rivolta, inoltre, agli aspetti dell’inclusività e dell’accessibilità, con un progetto cha ha previsto mappe tattili di orientamento all’interno di tutti i percorsi e nella sezione romana, dove le didascalie sono provviste di testo in braille e sono a disposizione brochure e disegni tattili di ausilio a non vedenti e ipovedenti ed è, infine, possibile l’esplorazione tattile di alcune delle opere fuori teca». Il percorso dedicato all’età romana si ricollega finalmente a quello della sezione picena, con l’obiettivo di raccontare ai visitatori come la città e il territorio caratterizzati dalla forte realtà identitaria del

A destra: testa di un monumentale acrolito di divinità femminile.

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n otiz iario In alto: la sala dei mosaici. Qui sopra: progetto di accessibilità al Museo, con testi in braille. A destra: rilievo raffigurante alcuni frombolieri. I sec. a.C.

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LA SEZIONE PICENA

I tesori delle aristocrazie

In questa pagina: veduta d’insieme e particolari dell’emblema a mosaico nel quale compare una composizione che, a seconda del punto di vista, mostra i volti di un giovane oppure di un uomo anziano. popolo piceno siano progressivamente mutati con l’arrivo dei Romani e a seguito delle vicende che hanno condotto alla nascita dell’Asculum imperiale. A testimoniare l’esito di una complessa stratificazione culturale

La sezione picena rappresenta il fulcro dell’intera collezione e offre una straordinaria panoramica archeologica del territorio ascolano a partire dall’età del Ferro e fino alle soglie della romanizzazione. Importante punto di riferimento per la conoscenza della civiltà picena, sono molti i siti esposti attraverso i quali è possibile approfondire gli aspetti della cultura picena che caratterizzano in modo particolare la zona piú meridionale del territorio. A partire dall’abitato dell’età del Ferro di Colli del Tronto-località Casale Superiore e dagli splendidi corredi funerari restituiti dal territorio, tra i quali spicca quello femminile di Monteprandone per arrivare a quello della signora di Montedinove. Un corredo, quest’ultimo, ricco di monili in ambra e oggetti pregiati che denotano la raffinatezza delle aristocrazie locali picene. Nel VI secolo a.C. la civiltà picena raggiunge il suo pieno apogeo, come ben rappresentato dalla ricchezza e dal numero di siti che hanno restituito testimonianze (Mozzano, Grottazzolina, Cupra Marittima, Montedinove). Di particolare interesse la necropoli di Colle Vaccaro costituita da circa 30 sepolture tra le quali quella della tomba 14, una sepoltura maschile nella quale il defunto giaceva insieme al suo corredo composto dalla sua armatura completa da guerriero e da vasellame e utensili per il banchetto.

che vede la realtà picena coesistere e dialogare, in un rapporto di scambio reciproco, con la tradizione romana sin dalle fasi precedenti la romanizzazione del territorio, i contesti esposti nella sala che apre il percorso della

sezione romana, in particolare quello di Colle dell’Annunziata e l’area sacra del Battente, entrambi caratterizzati, come testimoniato dal vasellame ceramico, dalla coesistenza di tradizioni picene e tradizioni romane.

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Di particolare interesse, ancora nella Sala I, la vetrina dedicata alle cosiddette ghiande-missili. Si tratta solo di una selezione effettuata sulla ricchissima raccolta del Museo. Le ghiande (glandes) erano proiettili di piombo utilizzati dai frombolieri, unità specializzate nell’uso della frombola (fionda) come attestato da un fregio figurato con frombolieri armati di fionda, probabilmente pertinente al monumento funerario di un partecipante alla guerra sociale. L’enorme quantità di ghiande restituite dal territorio risalgono alla guerra sociale e, nello specifico, agli anni dell’assedio di Asculum (91-89 a.C.). Proprio ad Asculum, infatti, prese l’avvio la guerra sociale a seguito dell’uccisione del pretore romano

Servilio causa scatenante dell’avvio delle operazioni belliche e dell’assedio della città, conclusosi con la disfatta per mano del generale romano Gneo Pompeo Strabone. Molte delle ghiande, realizzate in piombo fuso, e appartenenti a entrambe le coalizioni recano a rilievo epigrafi di varia natura, per esempio motti offensivi rivolti al nemico o il nome della legione di appartenenza. Nella seconda sala un’interessante base di donario dedicata alla Fortuna Respiciens, la dea che si volge indietro a portare soccorso, offre un’idea eloquente delle difficoltà che la città e i suoi abitanti si trovano ad attraversare al termine dell’assedio. A una fase successiva, quando la città è ormai divenuta colonia si riferiscono gli

In alto: visitatori di fronte a uno dei nuovi supporti esplicativi del Museo. Nella pagina accanto, in alto: l’inaugurazione della nuova sezione del Museo. Nella pagina accanto, in basso: trapezoforo (sostegno di tavolo) in marmo a zampa ferina con figura femminile alata. I sec. d.C. In basso: la vetrina nella quale sono riunite le ghiande-missili e un esemplare in piombo recante l’iscrizione FERI PICA. Fine del I sec. a.C.

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splendidi mosaici conservati nella Sala III. Provengono da un complesso edilizio, scavato negli anni 1939-40 e 1956-57, nell’area dell’ex Palazzo di Giustizia di Ascoli Piceno. Il complesso era costituito da due o forse tre domus, i cui ambienti si disponevano attorno a tre peristili. Il grande mosaico proviene dal triclinium che si affacciava sul peristilio orientale. Alla stanza si accedeva dalla soglia centrale, realizzata da tarsie marmoree, composte a formare un motivo geometrico. Una prima porzione di pavimento era decorata da un mosaico a tessere bianche e nere a formare un motivo a esagoni. Una fascia decorata da un tralcio vegetale separava questa zona dal centro della stanza dove si sviluppava la parte principale del tappeto musivo. Quest’ultimo ha un rosone centrale che, a sua volta, racchiude un medaglione, o emblema, realizzato con una tecnica ancora piú raffinata rispetto al resto. La figura, policroma, è realizzata in opus vermiculatum, un tipo di mosaico realizzato con tessere di pochi millimetri che consente di riprodurre le numerose gradazioni di colore del soggetto.


La raffinatezza dell’emblema, oltre che nell’esecuzione, è nel soggetto. Le fattezze della figura che vi è rappresentata, infatti, mutano a seconda del punto di osservazione dello spettatore. Cosí, oltrepassata la soglia del triclinio, l’ospite si sarebbe trovato di fronte la figura di un anziano calvo e con barba ma, una volta fatto il giro della stanza, la figura avrebbe assunto le sembianze di un giovane dalle guance glabre e dalla folta capigliatura. Attraversata la successiva Sala IV,

dedicata al tema alla domus romana, ai suoi arredi, alle suppellettili e alle attività che si svolgevano al suo interno, la Sala V è invece dedicata alla morte e al

rituale funerario. Qui è esposta una statua di togato acefala che doveva, con ogni probabilità, decorare un monumento funerario e numerose stele e cippi funerari oltre che una raffinata urna cineraria cilindrica dedicata dai genitori al figlio scomparso prematuramente all’età di tre anni. Alla sfera religiosa, nella sua declinazione pubblica e privata è dedicato il percorso che prosegue nella Sala VI, dove spicca con evidenza la testa di un monumentale acrolito di divinità femminile. La sala successiva è dedicata alla città con i suoi monumenti pubblici, tra i quali viene data evidenza ai sedili con iscrizioni provenienti dalla cavea del teatro di Asculum. L’uscita dalla sezione è segnata da un miliario che ricorda il restauro di un tratto della via Salaria a opera di Augusto, nell’11-10 a.C., e da un pannello che invita i visitatori ad avventurarsi all’esterno del Museo e visitare la città di Ascoli e i suoi monumenti. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno Ascoli Piceno, Palazzo Panichi Info tel. 0736 253562 oppure 389 2661227; e-mail: museoarcheologicoascolipiceno@ cultura.gov.it; www.musei.marche.beniculturali.it

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

UNA SENTINELLA SUL TEVERE FORSE VISTA DA DANTE ALIGHIERI DURANTE IL SUO VIAGGIO A ROMA, TOR BOACCIANA È UNA PRESENZA IMPONENTE NEL PAESAGGIO OSTIENSE. UN LUOGO CARICO DI STORIA, RIVITALIZZATO IN QUESTE SETTIMANE DA VISITE GUIDATE TEATRALIZZATE E ALTRE INIZIATIVE CULTURALI

L’

area di Tor Boacciana, a Ostia, oggi situata a tre chilometri dal mare per l’avanzamento della linea di costa, si trovava in antico presso la foce del Tevere. L’edificio si innalza su un basamento a pianta quadrangolare che reca traccia di vari interventi: l’esterno è rivestito con frammenti di marmi e tufi, mentre l’interno presenta un paramento laterizio piuttosto regolare, databile tra il III e il V secolo d.C. Sopra questo basamento sorge la torre vera e propria, realizzata in opera laterizia e suddivisa internamente su due livelli voltati a botte, con la sommità un tempo coronata da un parapetto merlato. Resti di murature nella parte bassa del monumento suggeriscono che fosse collegato ad altre strutture, delle quali al momento sfuggono l’entità e l’organizzazione. Nel terreno a sud della torre sono presenti resti di edifici antichi, tradizionalmente interpretati come magazzini d’età traianea (98-117 d.C.). Considerando la posizione del monumento, già nell’Ottocento si era ipotizzato che il basamento fosse parte di un faro o di una torre d’avvistamento romana, costruita per segnalare l’imboccatura del

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porto fluviale. Purtroppo, le fonti antiche non menzionano edifici alla foce del fiume: la prima citazione della torre risale probabilmente al 1190, quando re Riccardo I d’Inghilterra, detto Cuor di Leone, approdò alla foce del Tevere nel suo viaggio verso la Terra Santa, annotando la presenza di una torre molto bella, ma abbandonata (turris pulcerrima [sic], sed solitaria).

All’epoca la torre non si chiamava ancora Boacciana, nome che le venne probabilmente da Cencio della famiglia dei Bobaziani, il quale, nel 1221, costruí un fortilizio in questa zona per contrapporsi a Riccardo Conti, fratello di papa Innocenzo III (1198-1216). Un secolo piú tardi Dante Alighieri ambientò alla foce del Tevere il suo incontro con le anime in attesa di


imbarcarsi sulla nave angelica (Purg. II, 100-2); il poeta visitò certamente Roma nel 1301, ma non sappiamo se sia passato da Ostia e abbia visto la torre. Le prime attestazioni sicure del monumento si riferiscono ai restauri del 1406 e a una ricostruzione radicale operata nel 1420 da Martino V, che nello stesso periodo promosse la costruzione del mastio nel Castello ostiense. La torre attualmente visibile risale in buona parte al XV secolo e venne A sinistra: Tor Boacciana vista da ovest. In alto, a sinistra: veduta di Tor Boacciana nel XIX sec., incisione dall’Eneide di Virgilio volgarizzata da Annibal Caro, Firenze, 1836. In alto, a destra: Tor Boacciana in un’immagine d’inizio Novecento. Sulla destra, i resti di edifici interpretati come magazzini traianei.

realizzata con laterizi di spoglio, presi dalle rovine circostanti; nel secolo seguente furono aggiunte sui lati est e ovest due troniere, ossia le aperture per i pezzi d’artiglieria. Con la disastrosa alluvione del 1557, che allontanò definitivamente il corso del fiume dal Castello, la postazione doganale nella fortezza ostiense venne trasferita nella Tor Boacciana.

LA BONIFICA DELL’AGRO Qui la dogana rimase fino al 1568, quando fu spostata definitivamente alla vicina Tor San Michele, appena costruita. Da alloraTor Boacciana venne di fatto abbandonata e adibita a usi precari. Solo alla fine dell’Ottocento fu trasformata in abitazione daTancredi Chiaraluce, il battelliere della Scafa. Questo battello, che collegava Ostia e l’Isola Sacra, vide il passaggio di tanti «scariolanti» ravennati, gli eroici braccianti che bonificarono l’agro ostiense tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Passata in seguito al demanio statale, la torre è stata oggetto di un intervento di restauro nel 1986, ma fino a oggi non è mai stata aperta stabilmente al pubblico. In occasione dell’Estate Romana il Parco archeologico intende valorizzare il monumento con un calendario di aperture sperimentali: il 9 e il 10 agosto l’area diTor

Boacciana ospiterà le visite guidate teatralizzate di due attori delTeatro del Lido, che racconteranno la storia del monumento impersonando una levatrice romana e Dante Alighieri. Nell’ambito dello stesso ciclo di eventi, l’11 e il 12 agosto verranno invece illustrate l’epopea degli scariolanti e la straordinaria vita dell’archeologa Raissa Gourevich Calza nella chiesa di S. Ercolano presso il Cimitero di Ostia antica, un altro monumento identitario del territorio (vedi «Archeo» n. 441, novembre 2021; anche on line su issuu.com). In futuro si auspica di poter fare rete traTor Boacciana e la vicinaTor San Michele, di competenza della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. È suggestivo pensare che le due torri di Ostia siano legate alla figura di due poeti: Tor Boacciana a Dante, che descrisse «dove l’acqua di Tevero s’insala», Tor San Michele alla tragica fine di Pier Paolo Pasolini, ucciso nel vicino idroscalo. Forse tra non molto le torri di Ostia torneranno a dialogare e a raccontare questa e altre storie del territorio. Per informazioni e prenotazioni (obbligatorie) per le visite guidate a Tor Boacciana e S. Ercolano del 9,10, 11 e 12 agosto scrivere a: ferragostia.visite@gmail.com Dario Daffara

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A TUTTO CAMPO Carlo Citter

LE REGOLE DELL’ACQUA NEL FEUDO DI ARENA, IN CALABRIA, LE RISORSE IDRICHE ERANO GESTITE CON CRITERI TUTTORA RISPETTATI DAGLI AGRICOLTORI LOCALI. UN SISTEMA NATO, FORSE, AL TEMPO DELLA FONDAZIONE DEL CASTELLO NORMANNO

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ulle alte colline del Vibonese, non lontano dal monastero di Serre di San Bruno, sorge il castello di Arena, una fondazione normanna fiorita soprattutto nel periodo aragonese (1442-1502). Il castello e l’area circostante sono oggetto di una ricerca, frutto di un accordo di collaborazione fra le Università di Siena e della Basilicata, il Comune di Arena e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia. Insieme all’adiacente villaggio, il castello controllava un ampio distretto compreso nel feudo di Arena, oggi ripartito tra Comuni diversi. Il paesaggio attuale è dominato da un bosco di ricrescita

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recente, su tracce evidenti di terrazzamenti abbandonati, mentre le fonti orali confermano la pratica di colture intensive fino agli anni Settanta del Novecento. La morfologia locale è caratterizzata da ampi pianori, con scoscesi pendii fino ai fondovalle: tutta la zona era coltivata nel passato recente secondo criteri di sostenibilità, che sarebbero oggi in piena sintonia con l’Agenda Europea 2030. La vera ricchezza dell’intero comprensorio era ed è, tuttavia, l’acqua, che scorre abbondante anche nel periodo estivo dalle numerose sorgenti dislocate sui monti circostanti (le cui cime raggiungono i 1200 m lungo lo spartiacque fra i mari Tirreno e Ionio). Le comunità che

hanno utilizzato questa risorsa hanno costruito intorno a essa un sistema complesso, che metteva in connessione la montagna con la collina e la pianura con il mare. Sulla montagna la risorsa maggiore era il bosco, essenziale per il carbone di legna e per l’allevamento brado, insieme alle niviere (depositi per conservare la neve, ricavati in grotte, cantine o fosse scavate nel terreno). La collina utilizzava in modo piú intensivo l’acqua, canalizzata in quota mediante condutture ricavate nel terreno e nella roccia A sinistra: strutture murarie pertinenti al mulino del castello di Arena. A destra: la distribuzione dell’acqua ai pianori attraverso le prise.


In alto: il dongione normanno del castello di Arena. A sinistra: cartografia del pianoro di Fossa: il toponimo ha origine dalla prisa segnata in azzurro.

locale, munite di sbarramenti in legno: localmente sono chiamate prise (forse dal francese prise d’eau), oppure cunductu o fosse. Gli ultimi termini derivano dal latino e il loro uso differisce di luogo in luogo, come se in ogni pianoro o gruppo di pianori la diversa denominazione fosse intenzionale: la rete è comunque cosí fitta e capillare da raggiungere i singoli campi. L’acqua scorre grazie alla forza di gravità: in alcuni punti confluisce in una vasca, per poi defluire dal fondo della stessa. Queste vasche, chiamate gebbie, erano un tempo realizzate in terra e legno, mentre ora sono costruite in cemento. Il termine gebbia è attestato anche a Palermo, deriva dall’arabo e ha appunto il significato di vasca. Dai pianori l’acqua discendeva sui terrazzi, spesso coltivati a fagioli,

una pianta che necessita di irrigazioni frequenti ed era alla base di una dieta particolarmente austera, almeno a giudicare dalle fonti orali, relative al periodo fra la metà del XIX e la metà del XX secolo. La carne veniva consumata due volte l’anno, il formaggio mai, neppure dai pastori: la dieta corrente prevedeva erbe selvatiche, pane di miglio e fagioli, accompagnati da olio d’oliva. Irrigati i terrazzi, l’acqua discendeva in profondi canyons, dove si reimmetteva nei torrenti, che alimentavano mulini e frantoi, per confluire nei fiumi a valle.

L’ASSETTO GIURIDICO Meritano poi attenzione alcuni aspetti che distinguono questo sistema agricolo da altri praticati in area mediterranea: il piú rilevante è l’assetto giuridico delle prise. Le

grandi canalizzazioni a monte, che captano l’acqua dai torrenti e dalle sorgenti, sono infatti a gestione comunitaria e tutti i fruitori di un pianoro irrigato sono tenuti a collaborare alla manutenzione dei canali nel mese di maggio. Tale sistema, sebbene minacciato dagli interri accidentali e dal massiccio uso del cemento, è ancora attivo: la manutenzione dei tratti ricadenti nelle singole proprietà è di pertinenza di ciascun agricoltore. L’acqua, inoltre, viene distribuita a giorni e ore stabiliti e nessuno può derogare alla norma. Ma c’è di piú: se un campo non ha diritto all’uso dell’acqua, non può essere irrigato e non vi si può nemmeno scavare un pozzo. Il sistema sembra perciò incardinato su principi di proprietà collettiva (ma non sono registrati usi civici nel senso tradizionale del termine), di proprietà privata e anche di proprietà dello Stato, almeno nelle zone piú elevate e oggi ricoperte da boschi. La ricerca è iniziata da poco e quindi non abbiamo elementi che aiutino a inquadrare questo particolare sistema di accesso all’acqua: è possibile comunque fare ipotesi, da verificare in seguito. Gli elementi linguistici legati alle prise (latino, forse francese e arabo), orientano verso il periodo normanno (XI-inizi XII secolo?), coincidente con la fondazione del castello di Arena; il retaggio di beni collettivi potrebbe, tuttavia, rimandare a periodi molto piú antichi. La prima impressione è che si tratti di un sistema sviluppato durante un lungo arco di tempo, con modifiche introdotte in base a esigenze diverse: la coltivazione del fagiolo, infatti, non può essere anteriore al pieno XVI secolo e lo sviluppo dei sistemi di campi terrazzati in area mediterranea è attestato a partire dal 1000: il proseguimento della ricerca ci fornirà le risposte. (2 – continua) (carlo.citter@unisi.it)

a r c h e o 29


n otiz iario

MOSTRE Trento

UN VISORE PER LASCAUX

S

coperta per caso nel 1940 da quattro adolescenti, la Grotta di Lascaux, nei pressi di Montignac, in Dordogna (Francia), rivelò magnifiche pitture, realizzate oltre 15 000 anni fa, che ne hanno fatto uno dei monumenti piú celebri e spettacolari dell’arte preistorica. Dichiarata monumento nazionale nel dicembre 1940, la grotta di Lascaux fu attrezzata per la visita e aperta al pubblico il 13 luglio 1948. Dopo soli sette anni, tuttavia, si registrarono i

primi segni di degrado, causato dalle alterazioni dell’equilibrio climatico della cavità provocate dal massiccio afflusso dei visitatori (30 000 persone ogni anno). E quando l’affluenza dei visitatori si era ormai attestata su una media di 100 000 presenze l’anno – con picchi di 1800 persone al giorno nella stagione estiva –,giunse la decisione di André Malraux, all’epoca ministro della Cultura, di chiudere al pubblico la grotta. Era il 18 aprile 1963. Per cercare di ovviare alla perdita si mise mano alla realizzazione di una replica fedele di alcuni degli ambienti piú importanti della grotta originaria, Lascaux II, inaugurata nel 1983. Adesso, però, c’è un’ulteriore possibilità di ammirare le pitture A sinistra e in basso: particolari delle raffigurazioni di animali dipinte nella Grotta di Lascaux (Dordogna, Francia). Le pitture vengono datate alla cultura maddaleniana (Paleolitico superiore), fra i 17 000 e i 15 500 anni fa.

30 a r c h e o

grazie alla mostra «Lascaux Experience. La grotta dei racconti perduti», approdata al Museo delle Scienze di Trento. Cardine del percorso espositivo sono i visori Oculus, che permettono l’esplorazione virtuale e interattiva di Lascaux, rinnovando – tra raffigurazioni di cavalli, bisonti, felini e altre forme enigmatiche – la magia senza tempo di un luogo che ancora oggi non smette di stupire e stimolare la nostra immaginazione. Alla mostra dedicheremo un piú ampio articolo nel prossimo numero di «Archeo». (red.)

DOVE E QUANDO «Lascaux Experience. La grotta dei racconti perduti» Trento, MUSE-Museo delle Scienze fino all’8 gennaio 2023 Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0461 270311; e-mail: museinfo@muse.it; www.muse.it



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

DUECENTO ANNI FA... Nel 1822 nasceva Heinrich Schliemann e, ricollegandoci allo Speciale del mese scorso (vedi «Archeo» n. 449, luglio 2022), vogliamo qui presentare una scelta di 1 2 materiale filatelico che documenta alcuni eventi della sua vita e alcune delle sue molte avventure archeologiche. Schliemann nacque il 6 gennaio a Neubukow, nella Germania settentrionale, e nel 1972 le poste tedesche ne celebrarono il 150° anniversario (1-2). Da bambino era stato 4 3 conquistato dalla storia di Troia (3, annullo di Bonn del 2001) e il suo entusiasmo crebbe a tal punto che, da quel momento, lo scopo della sua vita diventò il «voler trovare» veramente quanto raccontato nel libro che aveva letto. Imparò 17 lingue, viaggiò in tutto il mondo ma 7 5 fu sempre attratto dall’area mediterranea, soprattutto Grecia, Turchia e Italia, e in particolare Napoli (4) per la vicinanza a Pompei 6 ed Ercolano e per il Museo Archeologico della città (5). Suo il merito di aver scoperto Troia e il cosiddetto Tesoro di Priamo (6, alcuni monili indossati dalla seconda moglie di Schliemann, Sofia Engastromenou), tesoro che ora è conservato nel 8 9 Museo Pushkin di Mosca (7). Schliemann acquisí ulteriore notorietà grazie alle scoperte fatte a Micene, sito già noto ai suoi tempi, dove trovò altre tombe regali (8) con molti oggetti d’oro tra cui la maschera che attribuí erroneamente ad Agamennone (9). Il desiderio di nuove scoperte lo spinse fino a Orchomenos, in Beozia, alla ricerca del 12 mitico tesoro di Minyas, e tornato nel Peloponneso scavò soprattutto a Tirinto 10 (10), tra Micene ed Epidauro. Poi rivolse la 11 sua attenzione a Creta, attratto dal mitico palazzo di Minosse e dell’altrettanto mitico labirinto del Minotauro (11, sul retro di un’antica moneta); ma qui subí la sua massima delusione non riuscendo ad 13 acquistare i terreni sui quali intendeva scavare, per cui decise di abbandonare l’impresa. Negli ultimi anni della sua vita si trovò ancora una volta a Napoli; ebbe un malore il giorno di Natale del 1890 e si spense IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si improvvisamente il giorno dopo, il 26 dicembre. può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per A Napoli, per una curiosa coincidenza, fu testimone qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: della sua morte il Premio Nobel polacco Henryk Segreteria c/o Luciano Calenda Sienkiewicz (12, autore del romanzo Quo Vadis!); la Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa salma fu trasportata ad Atene nella casa che si era fatto Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it costruire al ritorno dagli USA, l’Iliou Melathron, oggi oppure www.cift.it sede del Museo Numismatico Nazionale (13).

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IT TI TI

SP EC IA LE

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

ITTITI UNA CIVILTÀ RISCOPERTA a cura di Stefano de Martino, Massimiliano Marazzi e Clelia Mora


Hattusa. La «Porta del Re» o «del Guerriero».

L

a nuova Monografia di «Archeo» propone una sintesi della storia degli Ittiti puntuale e aggiornata alle scoperte piú recenti. La parabola di questa grande civiltà si snoda nell’arco di circa sei secoli, nel corso dei quali la terra «di Hatti» si struttura dapprima come regno e poi come un vero e proprio impero, ma, soprattutto, si impone come uno degli attori principali sulla scena mediterranea e vicino-orientale. Una potenza che giunse perfino a spaventare il pur temibile Egitto, come dimostrano le tensioni sfociate nella celebre battaglia di Qadesh, combattuta sulle sponde del fiume Oronte, in Siria, nel 1275 a.C. Gli Ittiti, però, non furono soltanto formidabili guerrieri, ma seppero elaborare un sistema amministrativo efficace, dotandosi di leggi che oggi conosciamo grazie alle testimonianze epigrafiche. E proprio la decifrazione della loro lingua ha costituito uno dei capitoli piú avvincenti nella storia moderna di questo popolo, che ebbe la sua svolta decisiva nel 1917, grazie allo studioso ceco Bedrich Hrozny, capace di decifrare le decine di tavolette iscritte in caratteri cuneiformi e, all’apparenza, incomprensibili. Di questo e di tutti gli altri aspetti salienti della cultura ittita dà conto la Monografia, in una rassegna curata dai piú autorevoli studiosi della materia.

GLI ARGOMENTI • LA STORIA • LE IMMAGINI DEL POTERE • L’ORGANIZZAZIONE

in edicola

DELLO STATO • LA LINGUA E LA SCRITTURA • LA MITOLOGIA E LA MAGIA • HATTUSA • IL SANTUARIO DI YAZILIKAYA • KARKEMISH • LA RISCOPERTA

a r c h e o 35


CALENDARIO

Italia ROMA 1932, l’elefante e il colle perduto

Mercati di Traiano- Museo dei Fori Imperiali. fino al 02.10.22

BARUMINI (SU) Al di là del Mare

Etruria e Sardegna in mille anni di storia Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «G. Lilliu»-Area archeologica «Su Nuraxi» fino al 31.12.22

COMACCHIO Spina 100

Dal mito alla scoperta» Galleria d’Arte di Palazzo Bellini fino al 16.10.22

FOGGIA Arpi riemersa

Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22

Cursus Honorum

Il governo di Roma prima di Cesare Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 02.10.22

Vulci: il patrimonio disperso e ritrovato

Dalle ricerche ottocentesche al digitale «Sapienza» Università di Roma, Museo di Antichità Etrusche e Italiche fino al 26.11.22

Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.01.23

GAIOLE IN CHIANTI (SIENA) I Romani nel Chianti ex Cantine Ricasoli fino al 18.09.22

Domiziano Imperatore

MASSA MARITTIMA (GROSSETO) Gli ultimi Re di Vulci

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro

MILANO I Marmi Torlonia

Odio e amore Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.01.23

Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23 36 a r c h e o

L’aristocrazia etrusca vulcente alle soglie della conquista romana Museo Archeologico «G. Camporeale» fino al 01.11.22

Collezionare Capolavori Gallerie d’Italia fino al 18.09.22


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

NAPOLI Sardegna Isola Megalitica

Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino all’11.09.22

OSTIA ANTICA (ROMA) Chi è di scena!

Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022) Parco archeologico di Ostia antica fino al 30.10.22

RIO NELL’ELBA (LIVORNO) Il ferro e l’oro

Rotte mediterranee tra Etruria e Oriente Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 02.10.22

VERONA Vasi antichi

Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22

VETULONIA (GROSSETO) A tempo di danza

In Armonia, Grazia e Bellezza Museo Civico Archeologico di Vetulonia fino al 06.11.22

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon

Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

Germania TORINO Il vaso Bes di Deir el-Medina

Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino al 21.08.22

Invito a Pompei

Palazzo Madama, Sala del Senato fino al 29.08.22

TRENTO Lascaux Experience

La grotta dei racconti perduti MUSE-Museo delle Scienze fino all’08.01.23

VARESE La civiltà delle palafitte

L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22

BERLINO I mondi di Schliemann

La sua vita, le sue scoperte, la sua eredità Staatliche Museen (James-Simon-Galerie e Neues Museum) fino al 06.11.22

Regno Unito SUTTON HOO Spade reali

Il tesoro dello Staffordshire a Sutton Hoo Exhibition Hall fino al 30.10.22

USA NEW YORK Chroma

La scultura antica a colori The Metroplitan Museum of Art fino al 26.03.23 a r c h e o 37


RESTAURI • NERONE

IL PAZIENTE

INGLESE

LA SEGNALAZIONE DI UN RITRATTO MARMOREO APPARTENENTE A UNA COLLEZIONE PRIVATA D’OLTREMANICA RICHIAMA L’ATTENZIONE DI UN TEAM DI STUDIOSI E RESTAURATORI ITALIANI. I QUALI, IN PIENA EMERGENZA SANITARIA, DECIDONO DI INDAGARE... ECCO LA STORIA DELL’INCONTRO CON UN MANUFATTO DI RARO – E STRAORDINARIO – VALORE STORICO-ARTISTICO di Marina Mattei, con un contributo di Alessandra Morelli e un reportage fotografico di Araldo De Luca

S

trano caso, quello di Nerone: quinto imperatore e ultimo esponente della dinastia giulio-claudia, fu sicuramente combattuto tra il riconoscersi nella gens dei Domitii Aenobarbi, piuttosto che come erede della famiglia giulioclaudia, della quale era entrato a far parte perché adottato dall’imperatore Claudio, che aveva sposato sua madre, Giulia Agrippina Minore (nipote di Marco Antonio, figlia di Germanico), pronipote di Augusto. Nato ad Anzio il 15 dicembre del 37, e, come detto, esponente della gens Domitia, di nobiltà plebea e importante già in età repubblicana per aver espresso otto consoli e aver solcato i mari, ricevette il nome di Lucius Domitius Ahenobarbus. 38 a r c h e o

La sua figura è tuttora oggetto di continue verifiche, che riguardano l’azione politica, militare, sociale, religiosa. Godette di una riconoscibilità e di un prestigio che ne hanno fatto uno dei personaggi trainanti della storia, di quelli che segnano e modificano i tempi. Considerato pazzo, sanguinario, perverso e, nella migliore delle ipotesi, stravagante e imprevedibile, è stato condannato, riabilitato, a volte persino esaltato. Il lavoro accurato di storici, archeologi, epigrafisti e filologi ha permesso di ritrovare tasselli di una vita e di un regno iniziato da adolescente e terminato, con il suicidio, ad appena 30 anni d’età. Il Senato, in un primo tempo favorevole, lo avversava per la

politica culturale e per la riforma monetaria che metteva a rischio gli ingenti guadagni delle compagnie dei pubblicani che riscuotevano le tasse. E cosí ogni pretesto venne usato per screditarlo. Ciononostante, il suo regno durò 14 anni scanditi da una propaganda serrata, che si ritrova nelle monete, nei cammei, nei rilievi e nelle statue rimaste, spesso rese illeggibili


La restauratrice Alessandra Morelli impegnata nell’intervento condotto sulla testa di Nerone recentemente scoperta in una collezione inglese. a r c h e o 39


RESTAURI • NERONE

da rilavorazioni, mutilazioni e danneggiamenti conseguenti alla damnatio memoriae. Lo studio degli autori antichi che parlano di lui, per la maggior parte di molto posteriori all’età neroniana, è stato integrato da documenti autografi e da nuove interpretazioni. Una consistente fetta di studiosi vede in Nerone il filosofo allievo di Seneca, un innovatore, un grande urbanista e un politico sapiente. Appare chiara la sua volontà di essere amato dal popolo e di avere prestigio in patria e nel mondo greco-orientale. Un programma realizzato attraverso la scelta diretta di 40 a r c h e o

immagini che annunciavano e ri- L’imperatore Nerone osserva il cordavano le sue gesta. cadavere della madre Agrippina per

UN MONDO INTIMO Strano davvero Nerone, amato piú di quanto si pensi, tanto che il popolo non volle credere al suo faticoso suicidio e molti continuarono a scorgere tanti «Neronetti». Cosí, ogni ritratto racconta la storia di una celebrazione, di un’impresa pubblica, ma svela anche il suo complesso mondo intimo. Le sue rappresentazioni erano continuamente rinnovate ed esposte e il potere era vicino alla gente. Per ogni avvenimento si elaborava-

suo comando uccisa, olio su tela di Antonio Rizzi. 1894. Cremona, Museo Civico Ala Ponzone.

no creazioni artistiche e nei teatri, nei fori, nei luoghi maggiormente frequentati a Roma – come nelle province – si poteva ammirare Nerone come capo di Stato, pontefice massimo, pacificatore, citaredo, perfino con la corona radiata a imitazione del sole. Eppure, di tanta produzione, resta pochissimo: 58 sculture in marmo e bronzo. Mentre sono stati riconosciuti 4 o 5


ALBERO GENEALOGICO DEI GIULIO CLAUDII Marzia, dei Regii

Caio Giulio Cesare Caio Mario Calpurnia

Giulia Caio Giulio Cesare Ditt. 49-44 a.C.

2

Cornelia Cinna

2

Sesto Giulio Cesare

3

Pompeia Sulla

Gneo Pompeo

Caio Giulio Cesare

Giulia

1

Caio Ottavio

Giulia

1

1

Azia

C. Claudio Marcello

Scribonia Claudio Marcello Marco Vipsanio Agrippa

Marco Azio Balbo

Giulia

2

Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto Imp. 27 a.C.-14 d.C. 2

3

2

Livia Drusilla

2 Augusta

Tiberio Claudio Nerone Imp. 14-37 d.C.

Lucio Cesare

1

Druso

Vipsania

Marco Antonio

Antonia

Giulia Livilla

Tiberio Gemello Agrippina

Livia Giulia Messalina

Germanico 4

Drusilla

2

Caio Cesare

Giulia

Lucio Cassio Longino

Ottavia

Tiberio Claudio Nerone

1

Druso Agrippa Postumo

1

Druso Cesare

Giulia Livilla

Agrippina

2

Gneo Domizio 1 Enobarbo

Tiberio Claudio Nerone Imp.41-51 d.C.

3

Nerone Cesare

Casonia

Caio Cesare

Caligola

Poppea Sabina 2

Tiberio Claudio Nerone Imp. 51-68 d.C.

Ottavia

Britannico

3

Imp. 37-41 d.C.

Statilia Messalina Giulia Drusilla

tipi di ritratto, a cominciare da quelli di lui bambino, forse fatti eseguire dopo l’investitura per restituirgli un’infanzia pubblica e cancellare l’immagine del Lucio orfano di padre a due anni e con la madre esiliata dal fratello Caligola.

LA SEGNALAZIONE Identificare con certezza Nerone nei marmi e bronzi rilavorati, trasformati e danneggiati è ardua impresa. E quando un collega segnalò la presenza di un ritratto in marmo in una collezione inglese e mi inviò le foto della testa, decisi di condurre un esame diretto, vista la

Figlio / figlia

Figlio adottivo

Matrimonio

singolarità del pezzo. Come in ogni «scavo», bisognava acquisire dati scientifici ed elementi che aiutassero nel riconoscimento del tipo e nella datazione. È stato, cosí, realizzato un programma in piena collaborazione tra eccellenze italiane che hanno operato sia in Inghilterra, sia in Italia, con il coinvolgimento di laboratori pubblici e privati e di personalità del restauro e della diagnostica archeologica. I risultati del restauro e delle indagini sono stati illuminanti e hanno permesso di acquisire tutte le conoscenze materiali (vedi box alle pp. 50-51). Alessandra Morelli

1, 2... Numero del matrimonio

mi ha affiancato, procedendo allo studio, alla documentazione e alle analisi e intraprendendo contestualmente gli interventi di conservazione e restauro. Il percorso scientifico ha visto presenti Matthias Bruno, Domenico Poggi, Paolo Pallante, Lorenzo Lazzarini e ogni minimo intervento è stato documentato fotograficamente da Araldo De Luca. La ricerca, condivisa con Laura Maria Vigna, è stata infine pubblicata nel volume Nero Caesar, edito da Gangemi. L’eccezionale qualità dell’esecuzione e il confronto stringente con la (segue a p. 44) a r c h e o 41


RESTAURI • NERONE

TRENT’ANNI DI GLORIE, ECCESSI E TRAGEDIE 37 D.C., 15 DICEMBRE Nerone nasce da Agrippina Minore (pronipote di Augusto perché figlia di Agrippina Maggiore, nata da Giulia, e di Germanico) e da Cneo Domizio Enobarbo, che lei, tredicenne, aveva sposato per volere di Tiberio nel 28 d.C. 49 D.C. Claudio sposa la nipote Agrippina Minore, vedova di Cneo Domizio Enobarbo (morto nel 40 d.C.) e madre di Nerone, che ha 12 anni. Seneca, richiamato dall’esilio, diviene il precettore di Nerone. 50 D.C. Adozione di Nerone (il cui nome era Lucio Domizio Enobarbo) da parte di Claudio. 51 D.C. L’Armenia, regione dipendente dall’impero, viene conquistata da Vologese, re dei Parti, per il fratello Tiridate. 53 D.C. Nerone sposa Ottavia, figlia di Claudio, con cui era da tempo fidanzato. 54 D.C. Muore Claudio, forse avvelenato dalla moglie Agrippina. Nerone diviene imperatore il 13 ottobre, superando nella successione Britannico, il figlio di Claudio. Lucio Anneo Seneca, il filosofo precettore, e Afranio Burro, il prefetto del pretorio, sono i consiglieri scelti da Agrippina per Nerone. Guerra di Roma contro Vologese e l’Armenia. 55 D.C. Muore Britannico, il figlio di Claudio, avvelenato per volere di Nerone. Nerone inizia la sua 42 a r c h e o

relazione con la liberta Atte. Il generale Gneo Domizio Corbulone vince la guerra contro Vologese e Tiridate re d’Armenia. Nerone viene acclamato imperator (cioè generale vincitore) senza essere neppure andato in Asia. 56-58 D.C. Avventure dissolute di Nerone nelle notti romane. Conosce Poppea Sabina, moglie di Marco Salvio Otone (uno dei giovani nobili dell’entourage neroniano), bellissima donna, se ne innamora e la prende come amante. 59 D.C. Agrippina, divenuta troppo invadente, viene uccisa da un sicario, Aniceto, per ordine di Nerone, dopo un tentativo andato a vuoto di farla affogare. 60 D.C. In Armenia Corbulone pone sul trono Tigrane. Ma Vologese tratta per il fratello Tiridate, che chiede di essere incoronato a Roma. 61 D.C. Insurrezione della Britannia, con a capo Budicca. 62 D.C. Nerone divorzia da Ottavia, che viene poco dopo uccisa, e sposa Poppea Sabina. 63 D.C. Nasce la figlia di Nerone e Poppea, Claudia Augusta, salutata dall’esultanza popolare, ma la bimba muore dopo quattro mesi. 64 D.C. Viaggio di Nerone a Napoli. Tiridate arriva a Napoli per farsi incoronare da Nerone re di Armenia. 19-28 luglio, scoppia l’incendio di

Roma, che in 10 giorni distrugge gran parte della città. Nerone progetta sulle rovine la nuova Domus Aurea. 65 D.C. Scoppia lo scandalo della congiura di Pisone (Caio Calpurnio Pisone, di antica stirpe patrizia): molti senatori e patrizi, coinvolti nella congiura, tra cui Seneca, sono condannati a morte e costretti a suicidarsi. Muore Poppea Sabina, che,


secondo alcune fonti, viene uccisa con un calcio dallo stesso Nerone, in un momento di rabbia. 66 D.C. Ribellione in Giudea. Nerone sposa Statilia Messalina. L’imperatore parte per la Grecia e il viaggio si protrae per piú di un anno. 67 D.C. Durante il viaggio in Grecia, Nerone

dà inizio ai lavori per il taglio dell’Istmo di Corinto, e concede alla Grecia la libertà e l’autonomia amministrativa. Corbulone si suicida. 68 D.C. Arrivano le notizie della ribellione di C. Giulio Vindice, governatore della Lugdunense in Gallia, che chiede l’impero non per sé ma per Servio Sulpicio Galba, governatore della Spagna; in aprile le truppe di stanza

Nerone a Baia, olio su tela di Jan Styka.1900 circa. Collezione privata.

in Spagna acclamano Galba imperatore. A Roma in giugno le rivolte militari decidono la rovina di Nerone, che è costretto a fuggire, ma è inseguito dai soldati durante la fuga. Egli, disperato, non osando farlo di persona, si fa uccidere da un liberto. Il senato proclama Galba imperatore. a r c h e o 43


RESTAURI • NERONE

Sulle due pagine: vedute di profilo e posteriore del ritratto di Nerone scoperto in Inghilterra. La testa appare in buone condizioni, salvo qualche scheggiatura e la mancanza della parte inferiore del naso. È verosimile ipotizzare che facesse parte di una statua dell’imperatore.

testa del Museo Capitolino non lasciavano dubbi che potesse trattarsi di un ritratto inedito di Nerone, di sorprendente realismo e pregevole fattura. Ben conservato, rappresenta l’imperatore in atteggiamento benevolo, appena girato verso sinistra, con le caratteristiche tipiche dei ritratti dell’ultima fase del principato, definiti, in base alla classificazio44 a r c h e o

ne accettata dalla maggior parte degli studiosi, del III/IV tipo. Priva di sostegno, la scultura mi è stata presentata adagiata su un panno nero. Ben conservata, fino all’imposta della spalla sinistra, è di dimensioni maggiori del vero (alt. 44,40 cm; largh. 28,97 cm ; prof. 27,73 cm), priva del naso e della parte esterna dell’orecchio destro.

Una frattura sul collo è conseguenza dello scasso praticato per l’inserimento di un perno in tempi recenti. La testa era dunque parte di una statua, facilmente ricostruibile come scultura ufficiale, con corazza. L’impostazione, infatti, è quasi del tutto frontale, con un leggero scarto verso sinistra. Il viso ha ovale squadrato e guance di proporzioni


massicce; gli zigomi sono larghi, ma non sporgenti. La resa plastica è di grande impatto: con sottili linee a scalpello e quasi inconsistente trapano, la capigliatura elaborata si raccorda con il chiaroscuro fra barba/basette/capelli e col pittoricismo dei peli sotto il collo. A una prima osservazione è stato possibile rilevare la presenza di residui terrosi e di colore nelle ciocche dei capelli e negli occhi, che hanno conservato traccia della pupilla e della linea dell’iride. Una patina che sembrava uniforme è stata confermata dalle indagini. Lo scasso sotto la testa ha probabilmente eliminato parte del marmo che serviva per l’inserimento nel corpo della statua, come si riscontra nella maggior parte delle teste-ritratto, che venivano eseguite a parte e spesso sostituite, anche in antico. È stata realizzata con strumenti di cui sono ancora visibili le tracce: subbia e scalpello, gradina sulla capigliatura e sul retro della testa; sul volto, all’al-

a r c h e o 45


RESTAURI • NERONE

tezza delle guance gradina incrociata piccola e unghietto. Nel punto in cui è stata resecata in modo grossolano, vi era forse traccia di una piega del paludamento. La lavorazione e molti altri particolari, l’uso di tecniche e strumenti antichi, unitamente alla patina e alle tracce di colore, riscontrate dalle analisi e dal restauro, oltre che dall’esame visivo diretto, insieme alle corrispondenze fisionomiche, assegnano alla testa un ruolo testimoniale importante: un ritratto completo di questo tipo è infatti noto unicamente dalle monete e dal busto del Museo Capitolino (vedi in seguito, alle pp. 49 e 52-53).

FISIONOMIE E MESSAGGI All’osservazione comparata delle due immagini del principe sono evidenti alcuni particolari comuni: occhi infossati e vicini segnati dalle occhiaie, sopracciglia ravvicinate e dritte, bocca ben disegnata, zigomi larghi e, soprattutto, mento arrotondato e assai prominente, orecchie sporgenti dalla testa. A queste costanti fisionomiche, piú o meno

46 a r c h e o

A destra: particolare della testa di Nerone che evidenzia la mancanza della parte inferiore del naso. In basso e nella pagina accanto: un particolare e una veduta d’insieme di una statua loricata di Nerone proveniente dal teatro di Caere (Cerveteri). Città del Vaticano, Museo Gregoriano. È probabile che la testa «inglese» appartenesse a una raffigurazione di Nerone di questo tipo, molto apprezzata dall’imperatore.


pronunciate a seconda dell’età, si accompagnano gli elementi che individuano il «tipo» rispetto agli eventi e al messaggio che si intendeva trasmettere. I dati del restauro fanno pensare che, come altre, la testa fosse alloggiata in una statua dalla quale fu rimossa e che abbia una storia complessa, segnata da un rinvenimento fortuito, senza scavo organizzato, e, poi, da un’esposizione non adeguata alla sua conservazione ottimale. La tipologia preferita dal principe era, indubbiamente, quella della statua loricata, visibile a un’altezza ridotta, spesso collocata in contesti rappresentativi e particolarmente scenografici. Le fonti ci informano che, alla morte di Nerone, molti sacrificavano, offrivano fiori e addirittura abbigliavano le sue numerosissime «riproduzioni». Le immagini furono rimosse e poi, in un secondo tempo, conservate in magazzini, anche per i secoli successivi. Si può dunque immaginare che non solo i luoghi in cui si amministrava il potere – ivi inclusi gli ambiti sacri e le residenze della famiglia augusta – ma tutta la città e, anzi, l’impero pullulassero di ritratti del principe, come risultato di una propaganda che lo legava al favore popolare, piuttosto che alla tradizione. La produzione d’immagini militari, aventi lo scopo di esaltare l’imperator vittorioso, l’iconografia solare e come auriga vincitore sono una scelta mirata, come dimostrano le statue loricate, pur con decorazioni e particolari diversi.

IL NERONE CAPITOLINO La testa inglese trova un confronto diretto con il Nerone del Museo Capitolino (inv. 427). Anche quest’ultimo ha una storia complessa: compare nella Sala degli Imperatori di Palazzo Nuovo, nei Musei Capitolini, proveniente dalla collezione Albani, dove era confluito in seguito alla vendita di numerose opere antiche dei a r c h e o 47


RESTAURI • NERONE Tavola disegnata da Joachim von Sandrart e incisa da Michel Natalis raffigurante due teste di Nerone: una fanciullo e l’altra adulto e barbato. 1634 circa. La prima rappresenta il Nerone della collezione Giustiniani, che, grazie alla successiva acquisizione da parte di papa Clemente XII, giunse nelle sale del Palazzo Nuovo, in Campidoglio e appartiene oggi ai Musei Capitolini. Nella pagina accanto: il profilo del Nerone Capitolino e, in basso, un particolare del retro della testa con inserzioni di parti antiche nella capigliatura, che è di restauro. L’intera testa è peraltro stata realizzata nel XVII sec., a partire da un frammento antico, comprendente la fronte con le ciocche dei capelli, gli occhi, il naso, il labbro superiore e una parte della guancia sinistra Roma, Musei Capitolini.


che dei capelli, gli occhi, il naso, il labbro superiore e una parte della guancia sinistra, per scolpire l’immagine di Nerone, con il volto decisamente ruotato verso sinistra. Questo prova che ci si ispirava a un marmo conosciuto, a un ritratto noto, del quale si era conservata memoria solo in cammei e monete.

UN DETTAGLIO INEDITO Un elemento importante, non citato finora dagli studiosi, è la presenza di altri due frammenti applicati sul retro della testa con resti di capigliatura (le sculture della celebre collezione Giustiniani hanno destato molto interesse fra gli artisti del Seicento, ma anche tra quelli dei secoli successivi, che hanno potuto vederle direttamente, per poi replicarle, rifacendosi ai prototipi). Il busto capitolino restò a lungo nella collezione Albani e fu trasferito in Campidoglio piú tardi. Del periodo precedente all’esposizione (segue a p. 52)

Giustiniani. La scultura ha subito un imponente intervento di restauro in data anteriore al 1631. Risale intorno al 1634, una tavola di Michel Natalis (incisore) e Joachim von Sandrart (disegnatore) restituisce due teste di Nerone: una fanciullo e l’altra adulto e barbato (vedi alla pagina precedente). Il ritratto maturo passò forse nella prima collezione del cardinale Alessandro Albani, quando ancora era collocata nel Palazzo già Nerli, oggi del Drago, in via Quattro Fontane, insieme alla

biblioteca contenente anche quella di Cassiano del Pozzo. Nel 1733 papa Clemente XII, decise di acquistare le opere del cardinale Alessandro Albani: nel febbraio del 1734 le sculture furono trasferite dal palazzo di famiglia, nelle sale del Palazzo Nuovo, ma il ritratto di Nerone fu posto nel Museo anni dopo, tra il 1755 e il 1768. Nel marmo bianco il restauratore seicentesco ha eseguito un intervento complesso: ha utilizzato un frammento antico, comprendente la fronte con le cioca r c h e o 49


RESTAURI • NERONE

RESTAURO, ARCHEOLOGIA E CONSERVAZIONE di Alessandra Morelli

S

in dal momento in cui Marina Mattei mi ha proposto di far parte del progetto «Nero Caesar» ho avuto la percezione di trovarmi di fronte a un’occasione unica. Quelle foto inviate dal cellulare erano sufficienti a trasmettere dati e caratteristiche di autenticità e prestigio della testa neroniana. Erano emozioni già provate in passato, ma che non mi aspettavo potessero riproporsi cosí all’improvviso e con queste modalità. Nell’ottobre 2020, in Inghilterra la pandemia superava di molto i livelli di rischio italiani, la trasferta era prevista di due settimane con alloggio in hotel, non al riparo quindi da rischi di contrarre l’infezione. Il materiale necessario per lo svolgimento del lavoro di restauro doveva essere limitato soltanto ad alcune tipologie di sostanze, il trasporto aereo ne controllava severamente quantità e composizione. In alto: la lacuna alla base della testa «inglese» in corrispondenza dell’innesto al corpo della statua.

Arrivati sul posto, la documentazione fotografica ha avuto i primi spazi di intervento. Contestualmente, l’osservazione diretta ha consentito di fare le prime valutazioni sulle condizioni di conservazione del manufatto. Il quadro fessurativo, l’osservazione delle superfici e delle tracce degli antichi strumenti di lavorazione hanno aperto la strada alle prime ipotesi sulle origini dell’opera e della sua collocazione, ovvero che la testa fosse parte integrante di una statua raffigurante l’imperatore. La testa è stata oggetto di collocazioni diverse nel corso del tempo, alcune delle quali, le piú recenti, hanno visto sacrificare porzioni di marmo originale e perforare in profondità la base marmorea per l’inserimento di un perno. Tale intervento ha causato lesioni gravi, oggi visibili sulla parte anteriore del collo. Gli strati sovrapposti, dai piú grossolani come la terra rossa che ricopriva le superfici, ai piú impalpabili e aderenti, sono stati osservati, rilevati al microscopio digitale e identificati attraverso indagini scientifiche mirate, che hanno confermato la presenza di tracce di policromia e patine originali. Le straordinarie caratteristiche del materiale costitutivo collocavano inizialmente la provenienza del marmo in area micro asiatica, ma gli studi successivi hanno attestato un marmo lunense di altissima qualità, proveniente da una cava identificata. Le condizioni in cui il lavoro è stato eseguito non sono 50 a r c h e o


Nella pagina accanto, in basso: la testa di Nerone in collezione inglese durante il restauro, quando era stata ultimata la pulitura di una metà del volto.

state ottimali. Il periodo di lockdown che il Regno Unito stava vivendo in quel momento e il tempo limitato che avevamo a disposizione ci impedivano di programmare ulteriori indagini conoscitive, che quindi si sarebbero dovute rimandare a una fase successiva. Era allora necessario provvedere a un intervento conservativo che comprendesse: la migliore documentazione fotografica, l’osservazione accurata del manufatto, il consolidamento, la pulitura e l’equilibratura cromatica utile a ridurre l’interferenza visiva delle parti abrase e delle lacune per facilitare la lettura dell’opera. Il Restauro italiano per il Nerone Inglese Potrei ritenere questo progetto emblematico per quanto riguarda gli interventi di conservazione su beni culturali di valore storico-artistico e archeologico. Il restauro italiano ci insegna ormai da molto tempo che l’approccio scientifico ha come prima finalità la conoscenza, quindi lo studio e la sua divulgazione. La stessa conoscenza oggi è in grado di metterci in condizione di individuare la giusta metodologia di intervento, quindi il rispetto di tutte le caratteristiche del manufatto oggetto del nostro lavoro, le tecniche di esecuzione, gli strati di finitura originali, gli strati sovrapposti in epoche successive. È importante che durante l’intervento conservativo tali peculiarità vengano salvaguardate una a una, poiché ognuna di esse contribuisce a mantenere la memoria del percorso che l’opera ha avuto nel tempo, come anche il contesto in cui è stata realizzata. In alto: la testa prima del restauro. A sinistra: il vertice della capigliatura della testa: sono qui riconoscibili tracce degli strumenti di lavorazione, eseguita alternando unghietto, scalpello e gradina.

Lasciare, inoltre, la possibilità di ulteriori approfondimenti scientifici futuri è un punto sempre fondamentale. La testa del Nerone inglese oggi conserva ogni traccia: gli interventi di conservazione a cui è stata sottoposta non ne hanno cancellato la memoria. La presentazione estetica, necessaria per favorire lo studio stilistico, è stata realizzata sin dai primi interventi di pulitura. Gli strati sovrapposti sono stati solo alleggeriti, mai rimossi del tutto: in questo modo l’equilibratura cromatica finale, realizzata ad acquarello, è stata rapidissima e mini invasiva. Questo approccio metodologico sembrerebbe oggi scontato, ma non è cosí. Non è raro entrare in musei dove sono esposte collezioni di sculture antiche e imbattersi in opere restaurate, violate e abusate da puliture eccessive. Sono danni irreversibili, che fanno male alla ricerca, alla cultura e alla bellezza. a r c h e o 51


RESTAURI • NERONE

nel Museo di Palazzo Nuovo non ci sono, tuttavia, notizie; non sembra figurare tra i restauri settecenteschi della Sala degli Imperatori, e nell’incisione un po’ caricaturale del Sandrart, non si percepiscono le integrazioni.

CONFRONTI E ATTRIBUZIONE Mettiamo a confronto il Nerone inglese con quello capitolino: dall’elaborazione fotografica, con indicazione delle misure del ritratto capitolino e di quello inglese, si desume che il frammento antico nel marmo già Giustiniani, presenta occhi piú allungati: da occhio a occhio, si osserva una differenza precisa di 1 cm e i tratti fisionomici risultano lievemente alterati. Si tratta della copia un modello del quale dovevano esistere piú repliche nell’antichità, come si desume dall’esistenza di varianti all’interno di uno stesso tipo, pur con costanti fisionomiche. Anche il Nerone che gli sta accanto, sullo scaffale della sala di Palazzo Nuovo, e che è stato ritrovato negli scavi ottocenteschi di Tuscolo, ha la mascherina degli occhi antica riassemblata con parti originali e integrazioni moderne. Ne consegue che proprio queste rappresentazioni, che dovevano essere continue e con molteplici varianti, siano quelle piú danneggiate, giunte fino a noi in modo discontinuo e quasi sempre rielaborate e reinterpretate. L’attenzione nel mantenere parti antiche, di difficile assemblaggio, chiarisce il principio del «risarcimento» contro la falsificazione, concetto informatore della collezione di Vincenzo Giustiniani, ribadito nei suoi scritti e nei discorsi riguardanti l’uso dell’antico. Il solo elemento che nella testa si discosta dai ritratti neroniani, catalogati all’interno del IV tipo, è la frangia ricadente sulla fronte, formata da ciocche piú corte e mosse. Poiché nel nostro ritratto non compaiono trac52 a r c h e o

ce di rilavorazione, si può supporre che esistesse un modello scultoreo, riconducibile al IV tipo, con corti riccioli, per lo piú con corona d’alloro o radiata, e capelli lunghi sul collo. Piú volte le fonti sottolineano come all’imperatore piacesse portare i capelli lunghi, soprattutto dopo il viaggio in Grecia «quando ha lasciato che crescessero molto anche indietro sul collo» (Suet. Nero, 51). Era noto l’amore di Nerone per la Grecia, ma anche per l’Oriente e l’Egitto. All’influenza della cultura greca ed egizia, rintracciabile nella promozione delle arti e per alcuni versi vissuta nella sua teoria politica, si può attribuire la volontà di far

Sulle due pagine, in alto: confronto tra le elaborazioni fotografiche con indicazioni delle misure del Nerone capitolino (in questa pagina) e del ritratto scoperto in Inghilterra.

sí che i giochi e le rappresentazioni fossero ufficiali e condivisi, senza spargimento di sangue. Questo costituí la spinta alla revisione dei criteri urbanistici e alla costruzione di complessi monumentali che si misuravano al resto dell’orbe per lusso e magnificenza. Il titolo di pater patriae, assunto in età giovanissima, aveva garantito, insieme al pontificato massimo, la rappresentatività dello Stato.


tanto attuare una rivoluzione sociale e intellettuale, ma anche rinsaldare i rapporti con civiltà a lui affini e alle quali era stato educato.

A destra: gemma con il profilo dell’imperatore Nerone.

La fedeltà agli schemi mantenuta nel corso degli anni, vede il principe ricorrere a immagini ufficiali, delle quali progetta i modelli che, in molti casi, sembrano condivisi con il Senato. Dal 64 in poi i mutamenti sono evidenti e la diversità può corrispondere a scelte piú autocratiche. La rappresentazione alla quale il ritratto inglese è associabile, forse replica – insieme al capitolino – di uno stesso tipo, è quella cronologicamente posteriore agli anni 65-66, periodo del viaggio in Grecia, con il quale Nerone intendeva non sol-

IL DOMINIO DEI MARI Il momento storico era proprio quello dell’apertura al mare, con il progetto del porto di Ostia e dell’istmo di Corinto. La barba, di moda, richiamo intellettuale ma anche segno inequivocabile degli Enobarbi, lo associava visivamente all’imperium sul mare ottenuto dai suoi antenati, ai quali si richiamava anche nelle forme note e simbolicamente traducibili. Nelle monete sulle quali compare Nero Caesar con legenda terramarique sono riportate le cariche e gli onori che lo identificano nelle istituzioni e nel governo. I gruppi dinastici con statue loricate e richiami a figure mitologiche ed eroiche dovevano essere noti e apprezzati. Cosí come per il tipo di «ascesa», noto in molti esemplari, quasi tutti delle stesse dimensioni, anche quello del Nerone capitolino doveva corrispondere a un modello piú volte replicato e del quale, come sembra, il Nerone inglese è un’ulteriore importante attestazione, unico esemplare ben conservato. Le indagini sulla vita e sulle immagini del principe e, soprattutto, il lavoro condotto dal team di ricerca e di conservazione hanno rivelato il volto di un imperatore cosmopolita e innnovatore, in un’opera di pregio inusitato, un raffinato marmo che Matthias Bruno e Paolo Pallante hanno individuato come lunense, proveniente dalla cava aper ta nell’anno 60, proprio in età neroniana. PER SAPERNE DI PIÚ Marina Mattei (a cura di), Nero Caesar. Un ritratto inedito recuperato, Gangemi Editore www.gangemieditore.com a r c h e o 53


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MOSTRE • TOSCANA


UNA COMUNITÀ DI FRONTIERA A CASENOVOLE, LOCALITÀ AL CONFINE TRA LE PROVINCE DI SIENA E DI GROSSETO, IN UNA TERRA SOLCATA DAL FIUME OMBRONE, È IN CORSO LO SCAVO DI UNA NECROPOLI ETRUSCA. UN’AVVENTURA INIZIATA NEL 2007, GRAZIE A UN GRUPPO DI ARCHEOLOGI VOLONTARI, E ORA RACCONTATA IN UNA MOSTRA AL MUSEO ARCHEOLOGICO E D’ARTE DELLA MAREMMA DI GROSSETO di Giacomo Baldini, Andrea Barbieri, Federico Capriuoli, Valerj Del Segato, Alessandro Ferrari, Andrea Marcocci, Matteo Milletti, Stefano Ricci Cortili e Chiara Valdambrini

Località Casenovole (Grosseto). Veduta zenitale del settore della necropoli denominato Saggio 1. Qui sono venuti alla luce i resti di un recinto semicircolare di pietre, al di fuori del quale sono state scoperte una tomba a fossa e una sepoltura a incinerazione.

Q

uando pensiamo agli Etruschi, la mente corre ai grandi sepolcreti di Vulci o alle necropoli di Tarquinia e Cerveteri, oppure tornano alla memoria i volti e gli sguardi delle urne etrusche che accompagnano il visitatore all’interno del Museo Guarnacci di Volterra. Grazie alle scoperte della seconda metà dell’Ottocento e del Novecento, anche la Maremma toscana ha conquistato la giusta importanza tra le località etrusche: la fascia litoranea tra Livorno e Cosa (Ansedonia) rappresenta ormai a r c h e o 57


MOSTRE • TOSCANA

l’anima stessa della civiltà etrusca, al punto che la zona tra Quercianella e Populonia è definita oggi «Costa degli Etruschi» e chi visita la Maremma vive la suggestione di essere tornato nell’antica terra degli Etruschi, come se tutto si fosse fermato al I secolo a.C.

Antic

ROVINE STUPENDE Sono lontane leCarrara parole del diploA lp iGeorAppenn SS67 matico e viaggiatore Massainglese A p u a n e diBagni Lucca SS64 Barberino Vaiano i n o di Mugello ge Dennis (1814-1898), il quale nel Borgo a Mozzano S e tt Seravezza Pistoia Montemurlo Pietrasanta Borgo Vicchio ent Serravalle suo The Cities and cemeteries of Camaiore EtruMercato A1 San Lorenzo Pistoiese E80 r i o n Saraceno Pescia Monte ria, titolo del suo diario di viaggio,Montecatini-Terme Agliana Prato E76 a l e Nov Massarosa Quarrata Falterona Viareggio a proposito di Roselle scriveva: Capannori Calenzano Sesto Rufina Fiorentino Lucca Bagno SS1 sua «Vive selvaggia e isolata nella E76 Campi Altopascio di Romagna Monte Fiesole Pontassieve Vinci Bisenzio San Giuliano rovina, abitata solo dalla volpe, dal Fumaiolo Vecchiano Arn Terme Firenze o Scandicci Fucecchio Empoli cinghiale, dal rettile velenoso. È Poppi SS3bis Arno Mar Pisa Cascina San Miniato solo battuta dal pecoraio. Questi Reggello Arno Calcinaia Bibbiena Ligure sdraiato sull’erba Pontedera passa la giornata San Casciano S A1 in Val di Pesa del prato che nasconde le stupende Castelfiorentino Ponsacco Collesalvetti o litorale

Sansepolcro

Certaldo E80

Montevarchi

Poggibonsi

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Colle di Val d’Elsa

Monteriggioni

Casale di Pari

Campiglia Marittima

Piombino

Gavorrano Follonica

Città della Pieve

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Castiglione della Pescaia Grosseto

Capoliveri

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Orbetello Monte Argentario Cosa

Bolsena

Pitigliano

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Tuscania Vulci

Isola del Giglio

Montalto di Castro Tarquinia

58 a r c h e o

Isola di Giannutri

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Lago di Bolsena

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Marsiliana d’Albegna

Orvieto

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Isola di Montecristo

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Mar Tirreno

Acquapendente

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Isola di Pianosa

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Roselle

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Campo nell’Elba

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Isola d’Elba

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Portoferraio

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Arcipelago Toscano

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Roccastrada

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Torrita di Siena

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Massa Marittima

Rapolano Terme

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Monteroni d’Arbia Murlo

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Città di Caste

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Colline Metallifere

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Rosignano Marittimo

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Isola di Gorgona

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Ronciglio Blera Capranica Barbarano Romano Sutri

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Civitavecchia

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Tolfa

San Giovenale

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A sinistra: la tomba a incinerazione in prossimità del recinto. In basso: la Tomba delle Uova in corso di scavo. Nella pagina accanto, in alto: pianta della necropoli di Casenovole. Nella pagina accanto, in basso: cartina della Maremma toscana con l’indicazione delle località citate nel testo.

rovine di Roselle, e non ne conosce né il nome, né la storia». Oggi Roselle è un Parco Archeologico, non sono piú semplici rovine, come recitava il cartello turistico che indirizzava i visitatori fino a non troppo tempo fa (vedi «Archeo» n. 422, aprile 2020; anche on line su issuu.com). Le mura, recuperate e restaurate, sono tornate a cingere la città, ben visibili anche da lontano, una corona di pietra che impreziosisce la vetta di questo piccolo rilievo, le cui pendici un tempo erano coperte da boschi cosí densi da impedire la vista della stessa cortina muraria, che, molto irregolare, «spuntava di tanto in tanto dal ciglio del colle», per utilizzare ancora parole e immagini di Dennis. Può sembrare strano, ma in un territorio cosí connotato, in cui l’archeologia e il senso di appartenenza a una lunga storia e a una consolidata tradizione sono valori identitari delle popolazioni locali, esistono ancora parti in cui il passato stenta a trovare il proprio posto, confinato solo nella meraviglia per qualche castello medievale na-

scosto tra colline coperte di boschi o nella memoria di favolosi quanto improbabili tesori, rimasti vivi nelle leggende locali e amplificati dalla tradizione popolare.

UN BORGO DALL’ANTICO PASSATO Casale di Pari è un piccolo ma suggestivo centro del comune di Civitella Paganico (Grosseto), nascosto tra i rilievi che caratterizzano il paesaggio dell’entroterra grossetano, dominato dalla mole austera del Monte Amiata e solcato da fiumi e corsi d’acqua che serpeggiano fino al Tirreno. Luogo di nascita di Galep, al secolo Aurelio Galleppini, per tutti noto come il padre di Tex (vedi box a p. 61), rappresenta, insieme a Pari, l’altro agglomerato di case arrampicato sul-


MOSTRE • TOSCANA Una vetrina della mostra in corso al MAAM di Grosseto nella quale sono esposti alcuni crani rinvenuti nelle tombe e per i quali è stato possibile stabilire i rapporti di parentela.

le pendici del rilievo che fronteggia Casale, una apprezzata meta di villeggiatura scelta come buen retiro da molti professionisti e artisti in cerca di pace e tranquillità.

RITROVAMENTI SPORADICI Fino al 2007 questo appartato fazzoletto di terra era poco noto alle cronache archeolog iche. Nel 1927, dalle colonne della prestigiosa rivista senese La Balzana, Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) pubblicava la notizia del ritrovamento di una tomba a camera in località Podernuovo. Individuata nel 1906 e trovata già devastata, aveva restituito un importante contesto (oggi disperso) composto da sei urne in pietra e alcuni oggetti di corredo in metallo, tra cui quattro monete in bronzo, due romane repubblicane, una di Vatl (Vetulonia) e una di Velathri (Volterra). Fu questa l’occasione per il giovane studioso senese per tracciare una prima ipotesi di popolamento basata sui ritrovamenti conosciuti della zona, dall’età arcaica fino alla piena romanizzazione, inquadramento che, fino ad anni recenti, è 60 a r c h e o

rimasto l’unico punto di riferimento. Sono ricordate le località di Monteacuto, dove venne trovato un frammento (oggi disperso) di anfora attica a figure nere che confluí nel Museo Chigi, e di Casenovole. Nel 1876, nei pressi di quest’ultima località, avvenne il ritrovamento fortuito di una «tomba a camera contenente vasi in bucchero figurati e un pendente d’oro a forma di cornucopia desinente in testina di animale ornata a granulazione». Proprio da Casenovole, dallo scavo di una piccola necropoli ellenistica, parte questo nuovo viaggio. Il luogo è particolarmente significativo, perché, pur essendo piuttosto vicino alla città di Roselle, facilmente raggiungibile a meridione grazie all’Ombrone, era ben collegato a nord-ovest con il territorio dipendente da Volterra e a est con quello di Chiusi. La posizione garantí relazioni e traffici: lo dimostrano le importazioni di materiali da questi centri, come le ricche ceramiche di produzione volterrana e le urne in pietra di matrice chiusina. A oggi sono state indagate undici sepolture, poste lungo il fronte orientale del rilievo, che al mo-

mento datano l’utilizzo della necropoli tra l’inizio del IV e il II secolo a.C. Oltre alle tombe atte ad accogliere una sola deposizione (del tipo a fossa, a pozzetto e a nicchiotto), finora sono state rinvenute cinque tombe a camera scavate nella roccia, caratterizzate da un lungo corridoio che conduce a un ambiente ipogeo generalmente quadrangolare, munito di banchine, destinato a ospitare le deposizioni dell’intero nucleo familiare. Purtroppo, resta ignota l’esatta collocazione dell’abitato della comunità che utilizzava questa necropoli: probabilmente doveva occupare una delle alture vicine, come quella del Castellare o quella dove sorge il castello medievale di Casenovole, posta a controllo delle principali vie d’acqua, l’Ombrone e il Merse. Giacomo Baldini, Matteo Milletti, Chiara Valdambrini

LA PRIMA SORPRESA Tutto inizia nell’agosto del 2007, grazie all’interessamento di alcuni giovani archeologi locali che, dopo aver fondato l’Associazione Odysseus (vedi box a p. 62), chiedono le regolari autorizzazioni all’allora So-


NEL SOLCO DELLA TRADIZIONE: CASENOVOLE A FUMETTI Aurelio Galleppini, in arte Galep, nacque a Casale di Pari il 28 agosto del 1917, da genitori sardi. Disegnatore autodidatta e illustratore di racconti, storie e fumetti, divenne famoso dagli anni Cinquanta per essere stato il creatore grafico di Tex Willer, il leggendario eroe del Texas che ha fatto sognare intere generazioni di Italiani. Buona parte del successo di questa fortunata e longeva serie del fumetto italiano, scritta da Giovanni Luigi Bonelli e pubblicata a partire dal 1948 dalla casa editrice «l’Audace» di Milano (oggi divenuta «Sergio Bonelli Editore») è senza dubbio da attribuire alle illustrazioni realizzate da questo artista di origini maremmane. Sono di Galep, infatti, tutte le copertine di Tex, dalla numero 1 alla 400, cosí come i disegni di tutte le storie pubblicate

fino al 1967. Negli anni successivi venne affiancato da un numero sempre maggiore di disegnatori, continuando però a lavorare al personaggio di Tex fino alla morte, avvenuta a Chiavari il 10 marzo 1994. Dal 2007 l’Associazione Archeoloigica Odysseus organizza periodicamente manifestazioni sul fumetto dedicate a Galep, durante le quali vengono esposte le tavole sue e quelle di altri importanti fumettisti italiani. Grazie all’esperienza maturata in questo settore e a un’idea di Matteo Milletti, all’interno della mostra sono esposte la copertina e alcune vignette realizzate dal disegnatore grossetano Carlo Rispoli, anteprima di un progetto editoriale riguardante una storia a fumetti sugli Etruschi di Casenovole. Andrea Barbieri, Andrea Marcocci

La copertina e alcune vignette del fumetto su Casenovole disegnato da Carlo Rispoli.

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MOSTRE • TOSCANA

DALLA MAREMMA ALLA GRANDE MELA Il 13 luglio 2007 nasceva l’Associazione Archeologica Odysseus, un piccolo ente di ricerca fondato a Casale di Pari (Grosseto) da alcuni giovani archeologi e appassionati di storia locale. Fin dalle origini, le attività del gruppo sono state coordinate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, in collaborazione con il Comune di Civitella Paganico. In questo contesto il 4 agosto dello stesso anno prese avvio il Progetto Primus, finalizzato allo scavo e al recupero di una piccola tomba a camera, individuata presso l’area di Casenovole. «La fortuna aiuta gli audaci», dicevano i Romani e, forse, anche i principianti. Il sepolcro, contro ogni previsione, era inviolato e conteneva ventinove sepolture rimaste intatte per oltre 2000 anni. La tomba per qualche giorno divenne una meta molto frequentata: cittadini, curiosi, oltre naturalmente agli archeologi, si recarono in pellegrinaggio in quel luogo magico, per affacciarsi anche solo un momento sulla piccola voragine spalancata su quell’antico (quanto inaspettato) passato. Non mancarono i giornalisti, di tutte le testate locali. Tra l’incredulità degli archeologi arrivò anche la corrispondente del New York Times che, proprio in quei giorni, stava effettuando un’inchiesta sui traffici illeciti tra l’Italia e il Getty Museum. Il giorno dopo, la storia della scoperta della Tomba del Tasso di Casenovole comparve sulle colonne e sulle pagine web del prestigioso quotidiano americano, dando una visibilità inaspettata. Da allora le attività dell’associazione si sono ampliate: dalla ricerca allo scavo, dalla manutenzione dei siti di interesse storicoarcheologico fino alla loro valorizzazione, con una particolare attenzione all’organizzazione di eventi culturali, realizzati grazie a finanziamenti pubblici e privati, nonché al rapporto stretto con le università toscane e internazionali, con i Comuni, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo e il Polo Museale della Toscana. Andrea Marcocci, Andrea Barbieri La Tomba 1 o del Tasso al momento della scoperta (agosto 2007).

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printendenza per i Beni Archeologici della Toscana per ripulire un’area, da loro stessi individuata, caratterizzata da una piccola buca e da alcuni frammenti di ceramica affioranti dal terreno. Iniziò cosí lo scavo della Tomba 1, denominata «del Tasso» (vedi box alle pp. 66-67) per il ritrovamento nel riempimento del dromos della tana di questo animale. Dopo lo scavo del lungo corridoio di accesso alla camera, la sorpresa: la tomba era inviolata. Le banchine della piccola cella conservavano tutti i materiali nella stessa posizione nella quale furono collocati oltre 2000 anni prima: i ricercatori si trovarono di fronte un intero nucleo familiare, composto da ventinove individui, cremati e ricoverati in cinerari ceramici, metallici o di pietra, spesso accompagnati da pochi ma significativi elementi di corredo, che hanno consentito di datare il complesso tra la fine del III e la prima metà del II secolo a.C. Di particolare interesse sono i me-


talli: oltre a tre cinerari in lamina di bronzo, ad alcune oreficerie ed elementi in ferro, si segnalano tre specchi bronzei con Lasa incisa sul lato non riflettente e trentadue monete trovate in associazione alle sepolture. Notevole poi è la presenza di iscrizioni, che permettono di attribuire il sepolcro alla gens Lecne, anche se la ricorrenza su un’urna del genti-

lizio Ulfnei denuncia precise strategie matrimoniali tese a rafforzare i rapporti tra le grandi famiglie (vedi box alle pp. 64-65). A seguito del primo fortunato scavo, le ricerche sono continuate anche grazie a mirate indagini diagnostiche non invasive. Tra le altre, nel 2009 fu individuata la Tomba 3, un ipogeo a camera con pianta rettan-

A sinistra: urna cineraria in pietra decorata da un motivo a rosone. Qui sotto: modello di una tomba esplorabile in realtà virtuale immersiva con l’utilizzo di visore. In basso: rilievo delle tombe con laser scanner e fotogrammetria per la creazione di ambienti 3D.

IL RACCONTO DI CAILE LECNE E LARTHI ULFNEI Avvicinare il visitatore alla ricerca, rendendolo partecipe della scoperta ma, soprattutto, raccontando la storia in modo semplice e diretto, come esperienza. Questa è l’archeologia pubblica. Per questo motivo l’allestimento della mostra ha privilegiato una esposizione immersiva attraverso le ricostruzioni dei contesti sepolcrali. Inoltre sono stati predisposti apparati multimediali immersivi grazie alla collaborazione con la società

Acas3d, spin off dell’Università di Pisa, che, dopo aver digitalizzato i reperti trovati, ha ottenuto modelli 3d ad altissima risoluzione, con rigoroso controllo e misurazione del colore per renderli il piú possibile reali. I modelli cosí ottenuti sono stati poi collocati all’interno dei sepolcri, rilevati con laser scanner e fotogrammetria per la creazione di ambienti 3d, poi resi esplorabili con

visori di realtà virtuale immersiva: per rivivere l’emozione dello scavo! Con la stessa tecnica sono stati scansionati anche due crani trovati nella Tomba dello Scarabeo, un uomo e una donna. Incrociando i modelli ottenuti con i dati degli antropologi, grazie all’impiego di moderni engine grafici, è stato ricostruito il loro volto. Il risultato è straordinario: due Etruschi, che sono stati chiamati Caile Lecne e Larthi Ulfnei in virtú delle epigrafi attestate nella necropoli, raccontano al visitatore la loro vita lungo il fiume Ombrone… gli Etruschi, diversi nell’aspetto, ma molto simili a noi! Giacomo Baldini, Federico Capriuoli

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golare e banchina di deposizione continua, preceduta da un lungo corridoio di accesso. La cella, pesantemente violata da scavi clandestini, accoglieva le deposizioni con i relativi corredi, concentrate soprattutto nella banchina di sinistra. Lo studio dei resti osteologici ha permesso di individuare almeno ventuno inumazioni, purtroppo non in giacitura primaria, e un numero non definito di incinerazioni, testimoniate da urne in pietra e da diversi vasi fittili estremamente incompleti.

TOMBAROLI FRETTOLOSI Nonostante l’elevato indice di frammentazione dei reperti, sono stati recuperati numerosi oggetti di accompagno: alcuni vasetti miniaturistici, vaghi di collana e ceramiche dipinte. Tra quest’ultime spicca un sontuoso skyphos riferibile alla piú antica produzione etrusca a figure rosse, che denota il prestigio

del nucleo familiare. Del resto, la ricchezza della gens è testimoniata anche da un altro oggetto «dimenticato» dai clandestini, un anello in oro con gemma girevole a forma di scarabeo, purtroppo privo di decorazione intagliata sulla faccia liscia. L’utilizzo di quest’ultimo sepolcro, che dal ritrovamento dell’anello è detto anche Tomba dello Scarabeo, si pone almeno tra i primi decenni del IV e la prima metà del III se64 a r c h e o

STORIE DI FAMIGLIA Oltre a essere l’unico sepolcro a camera inviolato della necropoli di Casenovole, la Tomba del Tasso è la sola ad aver tramandato il nome della famiglia a cui appartenne. Infatti, grazie all’intuizione di Maria Angela Turchetti, che ha interpretato correttamente tre iscrizioni graffite su vasi, sappiamo che uno degli individui deposti nella camera si chiamava Vel Lecne, figura altrimenti ignota, ma appartenente a una gens dell’aristocrazia rurale ellenistica che deteneva grandi possedimenti terrieri tra l’Orcia e l’Ombrone. Secondo una pratica non insolita, le grandi famiglie rafforzavano i loro rapporti anche con mirate politiche matrimoniali: forse per questo nella tomba dei Lecne troviamo una donna della famiglia Ulfnei identificata solo dal nomen gentilicium. L’analisi

colo a.C., ma la presenza di una coppa in bucchero databile tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. suggerisce una piú antica fase di frequentazione della tomba e della necropoli.

UN RECINTO MISTERIOSO Proprio le ultime campagne di scavo hanno evidenziato riti e modalità di sepoltura che richiamano pratiche di età arcaica.Tra il 2019 e

il 2020, in un settore denominato Saggio 1, lo scavo (non ancora terminato) ha documentato un piccolo recinto semicircolare in pietre, al di fuori del quale è stata rinvenuta una sepoltura a incinerazione, racchiusa in un’olla, all’interno della quale, come elemento di accompagno, è stata rinvenuta una fibula in ferro tipo La Tène (cultura dell’età del Ferro cosí denominata dal sito scoperto in Svizzera, nei pressi di


dei corredi ha rivelato, inoltre, importanti elementi legati a riti e usanze dell’epoca: infatti oltre alle trentadue monete in bronzo di zecca romana, per la maggior parte offerte come obolo di Caronte per garantirsi un passaggio nell’aldilà, sono stati trovati tre specchi, un oggetto muliebre spesso associato al conubium: non a caso, infatti, tutti e tre gli esemplari ritrovati nella tomba esibiscono sul lato non riflettente una Lasa, figura legata al corteggio di Afrodite/Turan. Uno, in

particolare, potrebbe testimoniare anche un’altra pratica: lo specchio presentava il disco piegato da entrambi i lati. Poiché la tomba è stata trovata inviolata e non aveva subito cedimenti strutturali, è probabile che, al momento della deposizione, quest’oggetto personale, legato al vissuto della donna, sia stato volontariamente defunzionalizzato per legarlo ritualmente alla defunta, rendendolo del tutto inutilizzabile. Giacomo Baldini

In alto: carta di distribuzione del gentilizio Lecne lungo l’Ombrone. Nella pagina accanto, in alto: lo specchio in bronzo, piegato ritualmente per renderlo inutilizzabile, rinvenuto nella Tomba del Tasso. Nella pagina accanto, in basso: l’urna in pietra sulla quale è inciso il gentilizio Ulfnei, dalla Tomba del Tasso.

Neuchâtel e attestata fra il V e il I secolo a.C., n.d.r.), elementi che consentono di datare la deposizione al IV secolo a.C. In attesa del completamento dello scavo, non è possibile fornire una lettura chiara del recinto, anche se affascina l’ipotesti che il circolo di pietre possa costituire il limite esterno di una deposizione a tumulo di età arcaica, in relazione alla quale, in età piú recente, sono

stati sepolti altri membri del clan. Questa interpretazione permetterebbe di spiegare non solo la tomba a pozzetto precedentemente richiamata, ma anche una tomba a fossa scavata in prossimità del tumulo dove era deposto un individuo adulto di sesso maschile, privo di corredo, che indossava una fedina in bronzo nella mano sinistra. La sequenza stratigrafica collega la sepoltura a un’offerta funebre conte-

nuta in una olla in impasto grezzo e coperta da un piattello in ceramica grigia. Questi elementi ci permettono di datare il contesto tra la seconda metà del IV e gli inizi del III secolo a.C.

RIFLESSI DI CREDENZE ULTRATERRENE La necropoli ha restituito elementi utili per ricostruire le credenze religiose degli antichi abitanti di quest’area. Tra il 2014 e il 2015 venne indagata la Tomba 7, un ipogeo a camera quadrangolare con banchine disposte lungo i lati della cella, accessibile da un lungo corridoio, chiuso in corrispondenza dell’ingresso da una lastra in pietra, sulla quale sono ancora visibili tracce di pigmento scuro e alcuni segni graffiti. La tomba, al cui interno furono accolti almeno dieci individui, in parte inumati (e successivamente ridotti) e in parte incinerati, è stata violata in epoca non meglio precisata, attraverso un pozzo di ruberia praticato nella volta della camera. Nonostante la devastazione, è stato possibile identificare parte dei corredi, disposti, insieme alle urne, nelle banchine nord e ovest. Nella banchina est, invece, si concentravano i resti ossei esito delle riduzioni, accuratamente separati: ossa lunghe da un lato e crani dall’altro. Tra i reperti spiccano le produzioni del piú pregevole artigianato volterrano: oltre al vasellame a vernice nera, è stato recuperato un cinerario a figure rosse (kelebe) con trofeo di palmette e pigmeo con bende, uno skyphos sovradipinto in rosso con cigno stilizzato e una coppa per il consumo del vino (kylix) a figure rosse sovradipinte, impreziosita sul fondo da una scena del culto di Dioniso. Forse legato a pratiche funerarie ultraterrene, o semplice ma potente simbolo di eroizzazione e (segue a p. 70) a r c h e o 65


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PER UN IDENTIKIT DEGLI ETRUSCHI DI CASENOVOLE La Tomba del Tasso ha restituito 24 cinerari contenenti resti umani cremati. Le urne esaminate, quasi del tutto integre, contengono per lo piú un solo soggetto, mentre 5 di queste sono risultate bisome, per un totale di 29 individui. Di questi, solo 5 risultano essere soggetti immaturi: due adolescenti di età compresa tra i 15 e 20 anni, un bambino di età compresa tra i 6 e i 12 anni, un bambino di circa 4 anni di età e un bambino deceduto prematuramente

i cui resti molto degradati non permettono di esser piú puntuali sull’età alla morte. Per i restanti 24 individui, la frammentarietà dei reperti non ha permesso di definire intervalli di età attendibili; perciò, sono stati considerati

A destra: skyphos etrusco a figure rosse, dalla Tomba 3, o dello Scarabeo. In basso: i resti umani rinvenuti nella Tomba dello Scarabeo, accumulati sul lato occidentale della camera.

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genericamente come «adulti». Solo in un caso, l’avanzata degenerazione artrosica a carico della colonna vertebrale e degli arti inferiori fa supporre che l’individuo in questione fosse una persona di età avanzata. La frammentarietà elevata

e l’alterazione strutturale delle ossa indotta dalle alte temperature della pira rendono difficile determinare il sesso degli individui. Dal grado di robustezza delle ossa si può ipotizzare, con un certo margine di errore, la presenza di almeno 4


individui maschili (piú robusti) e 5 soggetti femminili. Le analisi delle alterazioni cromatiche e strutturali delle ossa combuste hanno permesso di stimare le temperature delle pire che sembrano variare tra i 400 e i 700 gradi, variabilità che potrebbe essere imputata a una assenza di standardizzazione del processo di cremazione o a normali fenomeni climatico/ambientali. Tomba dello Scarabeo All’interno della tomba tutti gli individui, privi di connessione anatomica, si trovavano nella quasi totalità disposti in un grande accumulo sul lato

occidentale della camera. I resti scheletrici sembrano appartenere ad almeno 20 individui adulti e uno subadulto. Sono state rinvenute anche alcune urne cinerarie risultate vuote. I resti umani della Tomba dello Scarabeo sono stati inseriti in un progetto internazionale di ricerca volto a indagare l’origine degli Etruschi. Le analisi paleogenetiche eseguite su un corposo campione che comprende resti umani italiani datati tra l’800 a.C. e il 1000 d.C. hanno messo in evidenza l’origine locale degli etruschi, a partire da popolazioni giunte nel nostro continente nei

In alto: cinerario con motivo a zig zag e palmette graffiti, associato a una ciotola coperchio con la sigla la, dalla Tomba del Tasso.

In basso: particolare dell’anello in oro con gemma girevole a forma di scarabeo, che ha dato nome alla Tomba 3.

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In alto: piede di una cista in bronzo con l’immagine di un satiro. A sinistra: una tomba a fossa con deposizione maschile in corso di scavo. A destra: lo scavo della Tomba delle Foglie d’Oro.

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millenni precedenti. Pur dotati di lingua e cultura diverse da quelle dei Romani, gli Etruschi erano imparentati con questi ultimi ben piú di quanto supposto fino a ora. Solo in seguito all’espansione dell’area di influenza romana al di fuori della nostra penisola si inizia a individuare, nei siti archeologici italiani, la chiara presenza di genti immigrate da altre zone. Le analisi molecolari hanno altresí evidenziato il

legame genetico degli individui di Casenovole, a testimonianza che si trattava probabilmente di una tomba di famiglia. Tomba delle Foglie d’Oro Tutti gli individui inumati nella tomba giacevano senza alcuna connessione anatomica sul lato orientale della camera. I resti scheletrici sono pertinenti ad almeno 7 individui adulti. Andrea Marcocci, Stefano Ricci Cortili

A destra: reperti rinvenuti nella Tomba delle Foglie d’Oro: in alto, particolare di una kylix a figure rosse sovradipinte; in basso, kelebe a figure rosse, con trofeo di palmette e pigmeo con bende.

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prestigio di una sepoltura tra le piú antiche, era il diadema in oro, le cui foglie, che hanno dato il nome alla tomba, conosciuta anche come Tomba delle Foglie d’Oro, sono state rinvenute sparse nel corridoio e nella camera. L’analisi del materiale permette di datare l’utilizzo della tomba tra il IV e il III secolo a.C. Senza dubbio connesso a credenze escatologiche è il complesso recuperato nella Tomba 6: la piccola

camera, trovata ancora sigillata da una lastra di pietra, ha restituito un cinerario in ceramica comune (al cui interno erano deposti i resti di un uomo adulto) e, come unico elemento di corredo, un askos a vernice nera, che permettono di inquadrare il complesso al II secolo a.C.Vicino al cinerario erano adagiati tre gusci di uova di gallina, probabile elemento di culto legato a rituali di rinascita, un’evidenza cosí potente che ha suggerito agli

archeologici di chiamare questo sepolcro Tomba delle Uova. Lungo il fronte piú settentrionale della necropoli, oltre alla già citata Tomba delle Uova, è venuta in luce un’altra sepoltura dello stesso tipo, a nicchiotto, anch’essa caratterizzata da una piccola camera scavata nel terreno preceduta da un breve corridoio destinata ad accogliere un’unica deposizione, evidente riproduzione miniaturizzata delle strutture gentilizie. Stiamo parlan-

LA MOSTRA AL MAAM DI GROSSETO Si chiama «Gli Etruschi di Casenovole. Passato remoto di una comunità» la mostra ospitata nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto, visitabile fino all’8 gennaio 2023. Come ogni anno, il MAAM opera e investe in eventi e attività che avvicinino tutti alla scoperta del territorio maremmano, al fine di divulgare una storia identitaria che passa spesso troppo inosservata. Corredato di supporti informativi e infografica, reperti e approfondimenti multimediali, il percorso di visita permette di ripercorrere lo sviluppo della necropoli di Casenovole dal IV al II secolo a.C. nel contesto della Valle

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dell’Ombrone e dei territori limitrofi, in relazione alla dinamiche di occupazione territoriale delle grandi città etrusche (Roselle, Chiusi e Volterra). Quattro le sale espositive in cui si snoda il viaggio; la prima sala, quella di ingresso, indica le principali informazioni sulla necropoli all’interno del periodo storico di riferimento, l’età ellenistica, unitamente ad altre informazioni circa il contesto storico e geografico preso in esame. Il percorso prosegue, poi, nella sala 2, a destra dell’ingresso, dove troviamo le ricostruzioni, con tanto di dromoi, della tomba 3 (o dello Scarabeo), e della tomba 7 (o delle


do della Tomba 10, databile alla prima metà del II secolo a.C., che al momento dello scavo presentava l’ingresso ancora sigillato da uno strato di terreno compatto tenuto da un allineamento di pietre. La camera accoglieva un cinerario a vernice nera e come unico elemento di corredo un recipiente in ceramica depurata acroma. Il percorso della mostra racconta la storia di questa piccola comunità dall’inizio del IV fino al II secolo

Sulle due pagine, in alto e in basso: immagini dell’allestimento della mostra «Gli Etruschi di Casenovole», visitabile nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto fino all’8 gennaio 2023.

Foglie d’Oro), e la tomba 11, tutte di IV-III secolo a.C. Nel caso delle tombe 3 e 7 il visitatore viene portato a entrare e vedere, attraverso un vetro, i corredi disposti sulle banchine di deposizione. Un allestimento nato con l’obiettivo di creare una suggestione e richiamare l’abitudine degli Etruschi al passaggio per lunghi e profondi corridoi di ingresso per raggiungere le camere sepolcrali. La sala 3, a sinistra dell’ingresso, dedicata invece ai ritrovamenti di III-II secolo a.C., ha un doppio registro di visita: nelle vetrine a muro sono esposti i reperti delle

tombe 6, 9 e 10, mentre la Tomba 1 (o del Tasso) viene presentata attraverso una ricostruzione in scala 1:1, il tutto accompagnato da un contributo multimediale con interviste a storici, archeologi, volontari o semplici appassionati che hanno partecipato al progetto. Chiude il percorso un video con il volto ricostruito di due individui (uomo e donna) e un tour in realtà aumentata che, indossando degli oculus, permette a tutti, seppur virtualmente, di entrare in uno stargate e visitare le tombe nel momento del loro utilizzo. Alessandro Ferrari, Andrea Marcocci, Chiara Valdambrini

a.C. Per cercare di trasmettere al meglio tutto questo, con un linguaggio semplice, empatico, che restituisca al visitatore anche la sensazione della scoperta, l’allestimento ha previsto la ricostruzione dei contesti funerari come sono stati rinvenuti al momento dello scavo, operazione che permette di vedere l’esatta disposizione dei corredi nei sepolcri inviolati e la dispersione caotica delle suppellettili nei contesti depredati. Alla ricostruzione filologica sono affiancati apparati multimediali e contenuti immersivi per una migliore comprensione dell’allestimento, per rendere il visitatore piú partecipe del percorso espositivo, con l’obiettivo di suscitare curiosità e interesse, soprattutto tra le giovani generazioni (vedi box in queste pagine). Giacomo Baldini,Valerj Del Segato, Andrea Marcocci DOVE E QUANDO «Gli Etruschi di Casenovole. Passato remoto di una comunità» Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma fino al 15 settembre Orario tutti i giorni, escluso il lunedí, dalle 10,30 alle 18,30; giovedí apertura prolungata sino alle 23,00 Info tel. 0564 488752; e-mail: accoglienzamaam@gmail.com; https://maam.comune.grosseto.it; www.museidimaremma.it; https://odysseus2007.it a r c h e o 71


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LEDRO 50: L’AVVENTURA CONTINUA IL MUSEO DELLE PALAFITTE DEL LAGO DI LEDRO FESTEGGIA I SUOI PRIMI CINQUANT’ANNI. UN TRAGUARDO SIGNIFICATIVO PER UN’ISTITUZIONE VOLUTA, FIN DALL’INIZIO, PER CONSERVARE E VALORIZZARE – ATTRAVERSO LA DIVULGAZIONE, LA SPERIMENTAZIONE E IL COINVOLGIMENTO DEL PUBBLICO – UN PATRIMONIO DI STRAORDINARIA IMPORTANZA di Stefano Mammini


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Molina di Ledro (Trento). Veduta panoramica che abbraccia il Museo delle Palafitte del lago di Ledro (sulla sinistra), una delle ricostruzioni in scala 1:1 di una abitazione palafitticola e, sullo sfondo, la sponda orientale del bacino ledrense: in questo punto affiorarono i pali di legno che rivelarono la presenza del villaggio sorto nell’età del Bronzo.

oco piú di 5000 m separano, in linea d’aria, il lago di Ledro dal Garda, mentre il dislivello tra i due bacini è pari a 600 m circa. E proprio questa combinazione fra una distanza contenuta e un salto di quota considerevole fu alla base di quella che il periodico inglese The Illustrated London News definí «la piú grande scoperta italiana di archeologia preistorica fatta in questo secolo»: il villaggio palafitticolo in località Molina di Ledro (Trento). a r c h e o 73


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In alto: una cartolina a colori del 1906 che mostra l’area dell’insediamento palafitticolo prima che questo venisse scoperto in seguito all’abbassamento del livello delle acque del lago. A sinistra: l’esplosione della mina che, facendo saltare l’ultimo diaframma, rese operativo il condotto che collegava il lago di Ledro alla sottostante centrale idroelettrica di Riva del Garda.

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Bolzano

Trento

Lago di Ledro

Tutto ebbe inizio negli anni Venti Lago di Garda del Novecento, quando si pensò di sfruttare il particolare rapporto fra i laghi di Ledro e del Garda per dare vita a una centrale idroelettrica, le cui turbine sarebbero state alimentate proprio dalla pressione dell’acPeschiera del Garda qua del primo. Furono quindi avviati imponenti lavori di sbancamento e canalizzazione – oggi impensabili, se valutati in termini di impatto ambientale – e, nel 1929, venne fatta brillare la mina che sbriciolò l’ultimo diaframma rimasto, cuni interventi di scavo, condotti da aprendo il condotto che da Ledro Ettore Ghislanzoni (1873-1964), scende fino alla centrale. ma solo dieci anni piú tardi, nel 1937, Raffaello Battaglia (18961958) diede avvio alle prime esploUNA «FORESTA» DI PALI Il livello delle acque cominciò a razioni sistematiche. Queste furono scendere e, sulla sua sponda orienta- intraprese all’indomani di un altro le, il lago rivelò il suo «segreto»: af- eccezionale abbassamento del livelfiorarono infatti oltre 10 000 pali, lo del lago, le cui acque scesero di conservati dallo strato torboso nel 18 m rispetto alla quota abituale. quale giacevano. Quella «foresta» L’area dell’abitato fu ampiamente era la prima e spettacolare testimo- indagata, riportando alla luce una nianza dell’insediamento palafitti- superficie di oltre 4000 mq, nella colo che, nell’età del Bronzo, era quale si concentravano oltre 12 000 stato fondato in corrispondenza pali, di lunghezza spesso compresa tra i 4 e i 5 m, e che restituí una dell’emissario del lago. Al ritrovamento fecero seguito al- quantità ingente di reperti archeo-

MUSE

Riva del Garda

Verona

Modena

logici, resti faunistici e botanici, recuperati in condizioni altrove impossibili. Contesti di natura torbosa come quello di Ledro favoriscono infatti la creazione di un ambiente anaerobico, cioè privo di ossigeno, che dunque permette la conservazione anche di materiali organici, come per esempio legno o fibre vegetali e tessili. Se, dunque, l’importanza della scoperta apparve subito chiara – a tutt’oggi, quello di Ledro è uno dei piú importanti siti palafitticoli dell’intera Europa, tanto da essere stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 2011 (vedi a r c h e o 75


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box a p. 82) –, altrettanto forte fu il desiderio di condividere e valorizzare quel che l’archeologia aveva rivelato. I primi segnali furono, negli anni Quaranta e poi negli anni Sessanta, le ricostruzioni di una palafitta, divenuta emblema della comunità ledrense, ai quali fece poi seguito l’idea di creare un museo nel quale raccontare la stor ia dell’antico abitato ed esporre una selezione dei materiali rinvenuti nel corso degli scavi. La progettazione del museo, pro-

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mossa dall’allora Museo Tridentino di Scienze Naturali, l’odierno MUSE-Museo delle Scienze, venne affidata all’architetto veneziano Marcello Piovan e i lavori ebbero inizio nel 1968, per concludersi, quattro anni piú tardi, con l’inaugurazione ufficiale del Museo delle Palafitte del lago di Ledro, il 24 settembre 1972. In questo 2022, quindi, la struttura festeggia i suoi primi cinquant’anni di attività, scanditi da un’intensa attività di ricerca e divulgazione, che gli attuali responsabili

del museo intendono continuare a promuovere e incrementare. Salendo a Molina di Ledro da Trento, le indicazioni per il Museo non mancano e, arrivati a destinazione, la sua sagoma ariosa cattura subito l’attenzione. Piovan ha infatti disegnato una costruzione semplice e In basso: il Museo delle Palafitte poco dopo il completamento dei lavori di costruzione. Il progetto dell’edificio, inaugurato nel 1972, si deve all’architetto Marcello Piovan.


genio e ha permesso di ricavare uno spazio multifunzionale, utilizzato, per esempio, per piccole esposizioni o laboratori didattici.

In questa pagina: l’aspetto attuale del museo. Ai recenti interventi si deve anche la creazione della Piazza Preistoria, un’area aperta antistante l’ingresso utilizzata per varie attività.

che si integra armoniosamente con il paesaggio circostante, soprattutto grazie all’ampio uso del vetro. Quest’ultimo fa dell’edificio un volume leggero e assicura le trasparenze che, come si può sperimentare nel corso della visita, ne rappresentano uno dei punti di forza. Rispetto alla configurazione originaria, dal 2019 è stata aggiuna un’appendice: un cubo, vetrato anch’esso (e ribattezzato QBO), che ha rispettato le linee e l’estetica del nucleo primi-

UN DIALOGO COSTANTE Il primo allestimento del Museo delle Palafitte fu curato da Gino Tomasi, allora direttore del Museo Tridentino di Scienze Naturali, e da Bernardino Bagolini, figura chiave negli studi di preistoria, che qualche tempo dopo, nel 1980, fu anche nominato coordinatore scientifico della Commissione per lo studio della Palafitta di Ledro. Fin dall’inizio, l’allestimento ebbe come stella polare l’idea di dare vita a una raccolta di materiali archeologici posta in un dialogo costante con il contesto archeologico nel quale i reperti erano stati rinvenuti e, a tale scopo, fu essenziale la scelta architettonica – già richiamata in precedenza – di concepire l’edificio museale come una sorta di scatola trasparente, cosí da permettere il confronto visivo con il sottostante lago e, dunque, con il sito del villaggio palafitticolo. (segue a p. 82)

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MUSEI • TRENTINO

LA «QUESTIONE» PALAFITTICOLA F

in dalla preistoria, una porzione assai vasta del continente europeo, dalla Scandinavia alla regione alpina, passando per le Isole Britanniche, fu interessata dalla diffusione di insediamenti fatti di case costruite sulle sponde dei laghi e, spesso, nell’acqua stessa. Abitazioni che hanno preso il nome di «palafitte» e che, ancora oggi, nonostante le ricerche in materia abbiano una storia ormai ultracentenaria, rappresentano uno dei fenomeni a cui spesso si guarda con la convinzione che debba esserci qualcosa di misterioso e inspiegabile in una scelta abitativa all’apparenza cosí bizzarra. In realtà, oltre un secolo di ricerche ha dimostrato che non ci sono misteri di sorta, ma che, anche nell’interpretare il fenomeno delle palafitte, si tratta, come sempre, di adottare l’approccio piú adeguato.

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Lo ha per esempio ribadito, alcuni anni fa, Francesco Menotti, il quale scrive: «Le aree umide furono abitate e/o sfruttate per ragioni diverse, ma, al di là degli scopi per cui fu compiuta una scelta del genere, esse non furono mai considerate come entità isolate. In altre parole, i luoghi umidi furono (e in alcune regioni del mondo ancora sono) una componente importante di un contesto socio-economico e geografico piú ampio, che non può essere compreso se ne vengono esclusi i luoghi umidi stessi e la loro eredità culturale» (Wetland Archaeology and Beyond, 2012). Palafitte e affini, insomma, non furono una scelta esclusiva, ma rappresentarono una delle soluzioni possibili al problema dell’insediamento. La storia moderna di questi abitati iniziò nell’inverno del 1853/54: in

quei mesi l’Europa continentale fu colpita da una breve crisi climatica, che ebbe tra i suoi effetti un considerevole abbassamento del livello delle acque dei laghi. In uno di essi, quello di Zurigo, nella località di Obermeilen (sobborgo della cittadina di Meilen), il fenomeno portò allo scoperto un «campo di pali», utensili in pietra e frammenti di ceramica. E pochi mesi piú tardi, nell’agosto del 1854, ancora in Svizzera, a Morges, nel cantone di Vaud, Adolf von Morlot effettuò un pioneristico scavo subacqueo sulla sponda settentrionale del lago Lemano, localizzando i resti di un altro villaggio palafitticolo. I materiali recuperati a Obermeilen furono portati al maestro del villaggio, Johannes Aeppli, il quale, a sua volta, segnalò la scoperta all’Associazione Antiquaria della


città elvetica (Antiquarische Gesellschaft in Zürich), che diede incarico all’archeologo Ferdinand Keller (1800-1881) di occuparsi del ritrovamento. Keller raccolse l’invito con sollecitudine e, nello stesso 1854, pubblicò un dettagliato resoconto delle sue esplorazioni, Die keltischen Pfahlbauten in den Schweizerseen, che, oltre a far registrare la nascita del termine «palafitta» (Pfahlbau, da Pfahl, palo, e Bau, costruzione) di fatto, segna l’inizio di quella che potremmo chiamare la «questione palafitticola» e, senza che lo studioso potesse certo auspicarlo, aprí la strada alle fantasiose congetture su come potessero essere organizzati i villaggi del presunto popolo delle palafitte. L’eco della scoperta di Obermeilen fu molto vasta, anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, e, solo per fare un esempio della popolarità incontrata dai «campi di pali», molti artisti, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo si cimentarono con suggestive ricostruzioni. Parallelamente, i ritrovamenti compiuti nel lago di Zurigo scatenarono nella stessa Confederazione elvetica, ma, piú in generale, in tutta la regione alpina, una vera e propria caccia al tesoro da parte di scavatori clandestini, che saccheggiarono, devastandoli, numerosi insediamenti: gli utensili e il vasellame tipici delle culture palafitticole divennero infatti assai ambiti da parte di collezionisti, ma, non di rado, anche da parte dei musei, soprattutto in ragione del loro eccezionale stato di conservazione. Fin dall’inizio, infatti, si comprese che le particolari condizioni di giacitura dei siti e dei materiali a essi associati restituivano oggetti

L’archeologo svizzero Ferdinand Keller (1800-1881) in un ritratto eseguito nel 1838. Nella pagina accanto: disegno acquerellato che mostra l’intervento di scavo subacqueo condotto da Adolf von Morlot a Morges, sul lago Lemano, nell’agosto del 1854.

altrove introvabili, come, per esempio, arnesi e contenitori in legno o manufatti realizzati con fibre vegetali o cuoio. A mettere a repentaglio l’integrità dei siti palafitticoli concorse poi un altro fattore: in molti casi, i laghi sui quali erano sorti gli insediamenti si erano, nel tempo, trasformati in torbiere e l’estrazione della torba – sfruttata come combustibile e utilizzata anche per la produzione di ammoniaca e fertilizzanti – causò danni ingenti. Danni solo in parte compensati dal fatto che molti scavi di siti palafitticoli presero il via proprio dalla scoperta accidentale di pali e altri materiali venuti alla luce in seguito alle escavazioni compiute dai cercatori di torba. Fin dall’inizio, Keller ipotizzò che quanto era stato recuperato a Obermeilen apparteneva a insediamenti costituiti da abitazioni

sospese sull’acqua, poiché i pali che erano emersi nei laghi alpini e «che si trovavano in fitta serie coperti da travi e da tavole formanti una solida piattaforma costituivano la struttura su cui erano state costruite delle abitazioni». Le conclusioni dello studioso svizzero erano state in larga misura influenzate dai resoconti dell’ammiraglio ed esploratore francese Jules Dumont d’Urville (1790-1842), che, nel suo Voyage pittoresque autour du monde, aveva descritto e illustrato numerosi villaggi palafitticoli della Nuova Guinea e delle Isole Celebes. La definizione di palafitta era pertanto applicabile a qualunque tipo di costruzione sopraelevata, isolata dall’acqua, in zone lacustri e perilacustri, paludi e torbiere. Questa impostazione del problema fu a r c h e o 79


MUSEI • TRENTINO Sera in villaggio lacustre, olio su tela di Hippolyte Coutau. 1896. Ginevra, Musée d’art et d’histoire.

a lungo e ampiamente condivisa dalla comunità scientifica internazionale e ancora oggi il contributo di Ferdinand Keller, nonostante le numerose revisioni critiche, è considerato una tappa essenziale nello sviluppo delle ricerche sulle palafitte. Una prima parziale rilettura di quelle teorie si ebbe sul finire del XIX secolo. In Francia, i primi interventi sulla rete idrografica del Giura (1873-1888) causarono un sensibile abbassamento delle acque e portarono a nuove scoperte. La messa a punto di metodi di indagine piú approfonditi e rigorosi aprí la strada a una nuova 80 a r c h e o

interpretazione dei villaggi palafitticoli, meno rigorosa ed esclusiva di quella di Keller. Cominciò infatti a diffondersi la convinzione che non fossero esistiti abitati costituiti unicamente da case sospese sull’acqua, ma che l’uomo, in condizioni ambientali particolari, avesse fatto ricorso, oltre che a capanne di tipo tradizionale, «anche» a palafitte. L’inizio del XX secolo segnò un’altra importante acquisizione. A seguito dello sfruttamento intensivo della torba furono infatti rinvenuti molti nuovi insediamenti, localizzati in torbiere che si erano formate

all’interno di antichi bacini lacustri. Keller, che aveva comunque seguito questo nuovo corso, di fronte alla scoperta di intere pavimentazioni di case costruite a livello del terreno e rivestite d’argilla per il focolare, ritenne di trovarsi di fronte ad abitazioni galleggianti, interpretando i pali conficcati nel terreno non piú come sostegni di piattaforme aeree, ma come ancoraggi per i tronchi che costituivano lo scheletro su cui poggiavano queste costruzioni. Le teorie di Keller cominciarono a essere messe seriamente in discussione negli anni Venti del Novecento, parallelamente all’evoluzione dei sistemi di indagine. Dagli scavi condotti, fra gli altri, da Hans Reinhert a Federsee, in Germania, emerse infatti una ulteriore realtà. In molti insediamenti localizzati sulle rive dei laghi furono infatti individuati resti di palafitte innalzate in zone asciutte. Veniva cosí a cadere il presupposto fondamentale di Keller, quello della palafitta vista come dimora sospesa sull’acqua, e si ipotizzò che queste case poggiassero su una piattaforma lignea per scampare alle possibili inondazioni causate dall’innalzamento del livello delle acque del lago. Qualche decennio piú tardi il quadro si fece ancora piú chiaro e si arricchí di nuovi elementi. Nel 1942, l’archeologo tedesco Oscar Paret (1889-1972), nel suo Le mythe des cités lacustres, aveva considerato come ormai acquisita la nozione dell’esistenza di abitati perilacustri composti da strutture localizzate a livello del piano di campagna. Nel 1951, ricerche compiute a Egolzwil (Lucerna, Svizzera) accertarono la presenza di un


villaggio situato sulle rive del lago e formato da capanne direttamente poggianti sul terreno e, nello stesso periodo, gli scavi di Josef Speck al lago di Zug (Svizzera) acquisirono le prove tangibili dell’esistenza di case realizzate su piattaforme di tronchi incrociati tra loro, ma anch’esse

ancorate direttamente al suolo. Un secolo dopo l’affascinante ricostruzione di comunità stanziate in villaggi sospesi sull’acqua, il problema delle palafitte entrava finalmente in una prospettiva piú corretta e meglio documentata. E oggi, anche grazie al contributo

della New Archaeology (corrente di studi sviluppatasi dagli anni Cinquanta del Novecento, che si fonda sull’uso di procedimenti scientifici in archeologia), sono state accantonate le controversie su palafitte in acqua e palafitte all’asciutto.

In alto: ricostruzione ipotetica di un villaggio palafitticolo elaborata da Ferdinand Keller sulla scorta delle scoperte compiute a Obermeilen.

In basso: le palafitte e i materiali tipici di questi insediamenti in una tavola dell’enciclopedia Meyers Konversations-Lexikon. 1885-1890.

Gli studiosi concordano, infatti, nell’accettare il fatto che l’uomo elaborò soluzioni diverse in funzione delle differenti condizioni ambientali, scegliendo di volta in volta la struttura ritenuta piú adatta: palafitta in acqua, case su piattaforme aeree all’asciutto o case a livello del terreno sulle rive dei laghi. Rispetto alle teorie di Keller, il fenomeno degli insediamenti palafitticoli si è arricchito di molte articolazioni e varianti e anche il termine «palafitta» non può piú corrispondere a un solo e unico tipo di struttura. Al di là dell’affinità delle situazioni ambientali – ambienti umidi, aree lacustri o fluviali, ecc. –, ogni abitato è espressione di una scelta ben definita e, sebbene la loro diffusione sia riferibile ad alcune epoche e culture ben precise (Neolitico ed età del Bronzo), gli studiosi hanno a che fare ogni volta con una storia diversa. a r c h e o 81


MUSEI • TRENTINO

A poco piú di vent’anni dall’inaugurazione, il Museo delle Palafitte del lago di Ledro fece un primo e significativo salto di qualità: nel 1995 viene organizzata la prima «merenda preistorica», evento che segna l’avvio delle attività di archeologia imitativa destinata alle scolaresche e ai turisti. E se oggi la replica di antiche pratiche artigianali e di momenti della vita quotodiana è entrata a far parte dell’offerta di un numero sempre crescente di musei grandi e piccoli, all’epoca in cui venne realizzata a Ledro si trattava di uno dei primi esperimenti italiani di quella che oggi definiremmo archeologia pubblica. Quella merenda fece da apripista a una serie di iniziative che, nel tempo, si sono moltiplicate, arricchendo costantemente l’offerta del museo: nel 1997 si svolse la prima edizione di Palafittando (vedi box a p. 86), nel 2001 fu inaugurato Ledrolab, uno

spazio didattico per le scuole, e, nel 2006, fu realizzato il villaggio preistorico-imitativo che, da allora, è divenuto un segno inconfondibile dello skyline ledrense.

REPLICHE FEDELI Riprendendo, idealmente, il testimone delle ricostruzioni effettuate nel secondo dopoguerra, negli spazi esterni alla struttura espositiva venne creato un vero e proprio «quartiere», composto inizialmente da tre ricostruzioni in scala reale di strutture palafitticole (alle quali se ne è poi aggiunta una quarta), aventi una superficie pari a 11, 15 e 20 mq e rispettivamente immaginate come ripostiglio, come capanna di un artigiano e come casa vera e propria. Le strutture sono state realizzate seguendo fedelmente i criteri costruttivi attestati dai resti di capanne individuati nel corso degli scavi e piú volte simulati e verificati nel

L’UNESCO PER LE PALAFITTE Nel 2011 l’UNESCO ha iscritto nella Lista del Patrimonio dell’Umanità i siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino: si tratta di 111 insediamenti – dislocati in Svizzera, Austria, Francia, Germania, Italia e Slovenia –, scelti per la loro importanza fra gli oltre 1000 a oggi noti. Di questi, 19 sono quelli italiani, distribuiti in Lombardia (Lavagnone, San Sivio, Lugana Vecchia, Lucone, Lagazzi del Vho, Bande, Castellaro Lagusello, Isolino Virginia, Bodio Centrale o Delle Monete, Il Sabbione o settentrionale), Veneto (Belvedere, Frassino, Tombola, Laghetto della Costa), Piemonte (Viverone, Mercurago), Friuli-Venezia Giulia (Palú di Livenza), e Trentino-Alto Adige (Molina di Ledro, Fiavé). L’istituzione culturale delle Nazioni Unite ha assunto tale decisione per varie motivazioni, a partire dalla scarsa rappresentanza, nel Patrimonio Mondiale, della preistoria, rispetto alla quale le palafitte sono un fenomeno tra i piú appariscenti, molto noto al grande pubblico e, nel contempo, ricco di testimonianze di valore storico. I villaggi palafitticoli sono infatti una delle piú importanti fonti archeologiche per lo studio delle comunità umane europee tra il 5000 e il 500 a.C. Le condizioni di conservazione in ambiente umido hanno permesso la sopravvivenza di materiali organici che contribuiscono in modo straordinario a comprendere il Neolitico, ovvero l’avvento delle prime società agrarie, e l’età del Bronzo, caratterizzata dalla diffusione di tecnologie complesse come la metallurgia e gli scambi su lunga distanza, e, infine, le interazioni fra gruppi umani e territorio a fronte dell’impatto dei cambiamenti climatici.

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Il cubo vetrato, denominato QBO, aggiunto alla struttura originaria del museo, che ha permesso di acquisire un ampio spazio polifunzionale. Nella pagina accanto, in basso: l’area espositiva del museo. Il nuovo allestimento si articola in quattro aree tematiche che possono essere visitate liberamente, senza dover rispettare un percorso prestabilito.

corso delle attività di archeologia sperimentale svolte dal museo. Piú di recente, nel 2019, oltre alla costruzione del già citato QBO, si è infine scelto di ripensare l’allestimento del museo, facendogli assumere l’abito con il quale si appresta a festeggiare i suoi primi cinquant’anni. L’operazione non ha tradito lo spirito dell’assetto scelto al tempo della prima inaugurazione e lo ha reso semmai piú duttile, offrendo al visitatore la possibilità di una fruizione totalmente libera, senza percorsi obbligati e rinnovando il valore del rapporto spaziale e visivo con il lago e l’area del sito. Unica tappa suggerita, subito dopo l’ingresso, è il pannello nel quale sono elencate dieci affermazioni utili a evitare equivoci sull’interpretazione del contesto di cui il museo racconta la storia e sui reperti che il suo scavo ha restituito (vedi box a p. 85). E, poco sotto, viene appunto specificato che, non esistendo un percorso di visita predefinito, ciascuno può scegliere di cominciare la


visita dal punto di vista che preferisce. Gli spazi del museo e, di conseguenza, le vetrine con i reperti sono infatti articolati in quattro aree tematiche, che, come scrivono i curatori, «sono organizzate su una linea che va dal globale al locale, dal Mondo al singolo individuo».

UN’EPOCA DI SVOLTE La «prima» area tematica, Dove e quando, inquadra storicamente della diffusione degli insediamenti palafitticoli, che, a livello europeo, ha inizio nel corso del Neolitico, mentre nel caso di Ledro la nascita del villaggio risale all’età del Bronzo, intorno al 2200 a.C. È un’epoca di importanti sviluppi sociali e culturali, nella quale si sperimentano nuove tecnologie – fra cui quella che porta alla realizzazione della lega di rame e stagno da cui questa fase della storia prende nome – e l’assetto delle comunità umane si fa sempre piú articolato, ponendo le basi per il successivo avvento dei (segue a p. 86) a r c h e o 83


MUSEI • TRENTINO

In alto: particolare di un diadema in bronzo che potrebbe essere stato indossato a mo’ di corona dal capovillaggio della palafitta di Ledro. Si tratta, in ogni caso, di un oggetto voluto come simbolo di potere e la sua presenza lascia intuire che la società palafitticola fosse già articolata secondo precise gerarchie. A sinistra: vasellame in ceramica di varia foggia e tipologia.

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I «DIECI COMANDAMENTI» Una delle scelte piú significative fra quelle compiute in occasione del riallestimento del museo è stata quella di proporre una sorta di decalogo, che riportiamo qui di seguito, con l’intento di sgombrare il campo dai possibili equivoci sull’interpretazione della civiltà palafitticola e sulla lettura dei reperti esposti nelle vetrine. • La palafitta non serviva a difendersi dagli «animali feroci». • Gli abitanti della palafitta erano Homo sapiens… come noi. • Gli abitanti della palafitta erano principalmente contadini e allevatori. • I palafitticoli indossavano vestiti di lino e pelli. • I palafitticoli usavano un linguaggio completo e complesso, come il nostro. • I palafitticoli inumavano o cremavano i loro morti. • La palafitta di Ledro non è dell’età della Pietra. • I resti della palafitta si sono conservati per 4000 anni. • Gli oggetti qui esposti sono stati ritrovati scavando la sponda del lago fra il museo e la riva attuale. • Le palafitte visibili nel parco archeologico sono ricostruzioni ipotetiche, mentre i pali che affiorano dall’acqua del lago sono reperti originali. Qui accanto: un pezzo di pane carbonizzato restituito dagli scavi. Le analisi microscopiche permetteranno di accertarne la composizione, ma è probabile che fosse preparato senza lievito, con una farina di frumento macinata. A sinistra: particolare di un raffinato pugnale in bronzo che appartenne senza dubbio a un personaggio di spicco della comunità palafitticola di Ledro.

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MUSEI • TRENTINO

UN’ESTATE AL MUSEO Il cinquantenario del Museo delle Palafitte del lago di Ledro è al centro anche della 26a edizione di Palafittando, la rassegna estiva che si è ormai affermata come una tradizione consolidata. Le rive del lago di Ledro e il territorio circostante – nel quale sono dislocati i siti di interesse storico, archeologico e naturalistico che compongono la Rete Museale Ledro (ReLED) – si animano grazie a eventi musicali, visite guidate (in italiano e tedesco), laboratori «biodiversi» e approfondimenti storici e scientifici. Momento clou della rassegna sarà il ponte di Ferragosto, con un doppio appuntamento: domenica 14 agosto, alle 22,00, l’evento «Time Machine-La preistoria sull’acqua», spettacolo con schermi d’acqua e premiazione del concorso «Vinci una notte in palafitta!». Lunedí 15 agosto, alle 14,30, invece, è in programma un grande caccia tesoro preistorica per le famiglie. Sono inoltre in programma le domeniche in Piazza Preistoria – l’area open air del museo inaugurata nel 2020 –, che prevedono: il 7 agosto

laboratori e musica live dalle 16,00, e, alle 22,00, la visita del museo in notturna; il 21 agosto, dopo le attività in museo, ci si sposta all’Arboreto di Arco per «Sinfonia Verde» con la Vegetable Orchestra; domenica 28 agosto, alle 14,30, il gran finale con il duo «Sogni dell’Adige». Della Rete ReLED, la rete museale della valle di Ledro, fanno parte anche: Biotopo del Lago d’Ampola (Tiarno di Sopra), Museo Garibaldino e della Grande Guerra (Bezzecca), Ossario del Colle Santo Stefano, Tremalzo e Stazione Inanellamento Casèt, Museo Farmaceutico Foletto, Ledro Land Art. A questi si è aggiunto il Castello di Bondone, sopra il lago d’Idro, che ospita la mostra «Human Habitat-Paesaggi dell’Antropocene», nata dalla collaborazione fra MUSE, Fondazione Museo Storico del Trentino e Associazione Acropoli. La Rete Museale organizza i propri eventi in collaborazione con la Rete di Riserve delle Alpi Ledrensi. Il programma completo e aggiornato è disponibile all’indirizzo www.palafitteledro.it

Museo Garibaldino e della Grande Guerra BEZZECCA Museo Farmaceutico Foletto PIEVE DI LEDRO

Lago di Ledro

Lago d’Ampola

Castello San Giovanni Bondone

Biotopo del Lago d’Ampola TIARNO DI SOPRA

Ledro Land Art PUR Centro Visitatori Mons. Ferrari Stazione Inanellamento Casèt Percorso artistico The Lost Tale

RIVA DEL GARDA Museo delle Palafitte del Lago di Ledro MOLINA DI LEDRO

Fucina delle Broche PRÈ DI LEDRO Lago di Garda

TREMALZO

primi insediamenti urbani veri e propri. Nella stessa sezione viene riservato spazio anche alla storia moderna delle palafitte, che muove i suoi primi passi alla metà dell’Ottocento, all’indomani delle ricerche di Ferdinand Keller, e, fin da subito, alimenta un vivace dibattito su come i resti che sempre piú numerosi venivano alla luce dovessero essere interpretati (vedi box alle pp. 78-81). Per ogni area tematica, è stato messo in evidenza un oggetto di parti86 a r c h e o

colare rilievo e, nel caso di Dove e quando, è stato scelto un magnifico pugnale in bronzo, finemente lavorato e decorato, che, con ogni probabilità, non venne forgiato per essere effettivamente utilizzato come arma, ma ebbe funzione di emblema dello status del personaggio al quale appartenne (vedi foto a p. 85, in basso, a sinistra). Paesaggi preistorici sviluppa invece il tema del rapporto fra le comunità umane e la natura, rispetto al quale

il villaggio palafitticolo di Ledro costituisce un osservatorio privilegiato, soprattutto grazie all’eccezionale stato di conservazione degli strumenti e delle suppellettili dei suoi abitanti. Come già ricordato, la natura anaerobica del deposito archeologico ha permesso di recuperare un repertorio pressoché completo, comprendente, oltre a ceramica e metalli, anche manufatti in legno, osso e altre materie d’origine animale e vegetale. Le aree temati-


Le capanne del villaggio preistorico imitativodidattico, realizzato nel 2006 nel Parco del museo. In basso: un momento di una attività didattica svolta all’interno di una delle capanne.

che Da villaggio a sito archeologico e Io palafitticolo offrono l’opportunità di avvicinarsi ancor di piú alla realtà quotidiana di chi, quattromila anni fa, si insediò sulle sponde del lago di Ledro. Un avvicinamento reso possibile dagli studi condotti sulle varie tipologie di materiali e dalle attività di archeologia sperimentale che il Museo delle Palafitte del lago di Ledro svolge ormai da anni. Rinnovando il successo di una formula che, dopo cinquant’anni, si conferma vincente.

DOVE E QUANDO Museo delle Palafitte del lago di Ledro Ledro, via al Lago 1 Orario tutti i giorni: mar-giu, 9,00-17,00; lug-ago, 10,00-18,00; set-nov, 9,00-17,00 Info tel. 0464 508182; e-mail: museo.ledro@muse.it; www.palafitteledro.it a r c h e o 87


SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

L’ISOLA DELLE PIETRE GIGANTI MENHIR, TOMBE «DI GIGANTI», «CASE DELLE FATE», NURAGHI: SONO GLI INCONFONDIBILI MONUMENTI PRE- E PROTOSTORICI DELLA SARDEGNA, TESTIMONI DI UN UNIVERSO CULTURALE ANCORA AL CENTRO DI STUDI, SCAVI E RICERCHE. OGGI, I MILLENNI DELL’ISOLA MEDITERRANEA SONO RACCONTATI IN UNA GRANDE MOSTRA INTERNAZIONALE APPRODATA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI testi di Manuela Puddu, Gianfrancesco Canino, Elisabetta Grassi, Maria Letizia Pulcini, Federica Doria e Stefano Giuliani 88 a r c h e o


Il menhir di Gedilis, presso Laconi (Oristano). Simili apprestamenti sono una delle espressioni piú caratteristiche del megalitismo e sono ampiamente diffusi nel territorio sardo. Santa Teresa di Gallura Li Muri

Arzachena

Li Lolghi Porto Torres

Monte d’Accoddi

Olbia

Sassari Alghero

Mar di Sardegna

Nuraghe Losa

Mont’e Prama

Nuoro Abini

Dorgali

Abbasanta Sorgono

Cabras

Oristano Santa Vittoria di Serri

Barumini

Orroli

Mar Tirreno

Arrubiu Suelli

Iglesias

Cagliari Quartu Sant’Elena Sant’Antioco

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SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

IL PRIMO MEGALITISMO di Manuela Puddu

L

a comparsa del megalitismo in Sardegna lega strettamente l’isola alle coeve prime manifestazioni del fenomeno in Europa occidentale. La teoria convenzionale, sviluppata nel XIX secolo, riteneva che il megalitismo si fosse diffuso in Europa a partire dal Vicino Oriente attraverso il Mediterraneo e la costa atlantica, una visione che fu messa in discussione solo a partire dagli anni settanta, con la prima applicazione del metodo del radiocarbonio ai contesti megalitici. L’evoluzione di questo genere di ricerche e il moltiplicarsi dei siti oggetto di datazione al radiocarbonio (14C) hanno condotto a una completa riformulazione della teoria delle origini del megalitismo europeo e mediterraneo: è oggi assodato che le prime manifestazioni abbiano avuto luogo in una molteplicità di luoghi nel-

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la seconda metà del V millennio a.C.Tra queste regioni, accanto alla Francia nord-occidentale, alle isole del Canale, alla Catalogna e alla Corsica, si annovera la Sardegna. Le piú antiche attestazioni si hanno in Gallura, dove alla fine del Neolitico medio si diffuse la cultura di Arzachena, caratterizzata da ciste litiche sepolcrali, circondate da circoli di pietre infisse verticalmente, come a Li Muri.

MONOLITI E «CASE DELLE FATE» A partire dal Neolitico recente, l’isola conobbe una diffusione massiccia di dolmen (almeno 152) e allée couverte («galleria coperta», 29), oltre a un certo numero di tombe a cista litica e a centinaia di menhir (oltre 740) e di statuemenhir (110 circa). Inoltre, anche una trentina delle oltre 2000 sepolture in grotta artificiale

Il dolmen di Ciuledda, in località Ladas, presso Luras (Sassari). Si tratta di una tomba costruita su un bancone di roccia granitica, al cui interno era ospitata una sepoltura.


In alto, a destra: collana con vaghi di pietra, dalla necropoli di Li Muri (Arzachena, Sassari). Neolitico Medio. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. A destra: testina di dea madre, da località sconosciuta. Neolitico Medio. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale

cosí caratteristiche del Neolitico recente e dell’Eneolitico sardo, le domus de janas (espressione sarda che significa «case delle fate»), furono dotate in facciata di un «corridoio dolmenico», cioè monumentalizzate con il medesimo principio trilitico dei dolmen. L’intero periodo che va dal Neolitico recente all’età del Bronzo antico è contraddistinto dalla continuità d’uso di questa tipologia sepolcrale, con soluzioni planimetriche e decorative estremamente varie, e dal susseguirsi di monumenti megalitici: dalla cultura di Ozieri a quella di Bonnanaro (Bronzo antico), passando per la cultura di Abealzu-Filigosa, quella di Monte Claro e quella campaniforme, per quasi due millenni fiorirono in Sardegna monumenti megalitici «tradizionali», quindi dolmen, menhir e allée couverte, ma anche muraglie monumentali (come a Monte Baranta, Olmedo) e altari monumentali (come a Monte d’Accoddi, Sassari), costruzioni definite in opera ciclopica che si pongono come un preludio all’esplosione di monumenti megalitici costruiti con la medesima tecnica, che sono la vera cifra distintiva della civiltà nuragica. a r c h e o 91


SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

IL MEGALITISMO NELLA SARDEGNA PRENURAGICA di Gianfrancesco Canino

L’

aggettivo «megalitico», e quindi il concetto di megalitismo, comincia a circolare nell’ambiente scientifico nel 1849, diffondendosi velocemente nei decenni successivi, quando alcuni studiosi inglesi descr ivono monumenti di g randi «pietre grezze» (megas, grande, lithos, pietra). Ben presto la scoperta di monumenti simili nelle diverse parti del mondo (per esempio in Algeria, Tunisia, Etiopia, Caucaso, Iran, India, fino a Sumatra, Giappone, isole del Pacifico e al Madagascar) generò confusione e l’assurda convinzione tra gli studiosi di una comune genesi del fenomeno, delle relazioni tra regioni e comunità diverse, e si arrivò a ipotizzare l’esistenza di una religione e di un popolo megalitici. Il perfezionamento delle analisi scientifiche rivelò tuttavia una differente cronologia per le diverse manifestazioni, tra loro distanti anche seimila anni, smontando le tesi migrazioniste e diffusioniste. Il megalitismo è perciò un fenomeno che ricorre autonomamente in diverse comunità del nostro pianeta, in vari periodi, e che utilizza materiale litico di grandi dimensioni, grosse lastre erette sul terreno (ortostati), talvolta disposte a formare delle camere, per lo piú quadrangolari e coperte a trabeazione o a piattabanda con altre lastre di pietra (principio del trilite); in taluni casi le strutture fungono da supporto per un elevato a filari, come nelle tombe a falsa volta dell’Andalusia e dell’Irlanda o nei tumuli bretoni, in altri gli ortostati hanno lo scopo di intelaiare i muri a secco come nei tumuli della Loira, nei muri perimetrali dei dolmen della Danimarca o in alcuni monumenti funerari delle Orcadi. Nella tradizione il termine è applicato 92 a r c h e o

Nella pagina accanto: il santuario di Monte d’Accoddi (Sassari). IV-III mill. a.C. In basso: statuetta in marmo, lavorata a traforo, di dea madre, dalla necropoli di Cuccuru Is Arrius (Cabras, Oristano). Eneolitico. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


L’ARCHITETTURA RELIGIOSA Mentre a Malta il fenomeno del megalitismo offre complessi cerimoniali imponenti e articolati, in Sardegna è rappresentato da espressioni di minore monumentalità ma pur sempre ricchi di fascino. A Biru ’e Concas, nel territorio del comune di Sorgono, in quello che secondo alcuni è il centro geografico della Sardegna – in un valico ricco di incanto e spiritualità, poco distante dalla chiesa campestre di S. Mauro, frequentata da pellegrini provenienti dai centri vicini –, un complesso di monoliti con menhir aniconici, protoantropomorfi, antropomorfi e statue-menhir occupa un modesto rilievo, protetto da una muraglia. Realizzato verosimilmente a partire dal Neolitico recente, il complesso fu frequentato sicuramente fino alle fasi finali dell’età del Rame, se non oltre. Tuttavia il santuario prenuragico piú conosciuto è quello di Monte d’Accoddi (Sassari). L’edificio si

compone di una struttura troncopiramidale a rampa, terrazzato nella seconda fase di edificazione, sulla cui sommità è realizzato un sacello rettangolare con le pareti interne intonacate di rosso. Costruito con pietrame di media pezzatura, disposto senza l’uso di leganti, anche se non appartiene in senso stretto all’architettura megalitica, il monumento è accompagnato da menhir, strutture trilitiche non funerarie (tavole da offerta), blocchi sferoidali cosparsi di piccole coppelle, statue-menhir o statue-stele. La «ziqqurat» è circondata da strutture di abitazione realizzate durante l’Eneolitico, alcune delle quali destinate verosimilmente a manifatture specializzate, quali i prodotti della tessitura e della metallurgia. Poco piú di mezzo millennio dopo, a Biriai, una località del territorio di Oliena, si edifica un «luogo alto» con muri perimetrali di blocchi,

oggi molto rovinati, integrati dalle formazioni rocciose affioranti. Il tempio, che ha l’aspetto di una collinetta, forse gradonato come l’edificio sassarese, accessibile con rampa semiellissoidale, fu dotato verosimilmente di un’edicola nella parte alta del rilievo artificiale, dove si osservano anche alcuni menhir spezzati, presenti altresí alla base del monumento. Altri menhir, alti oltre 3 m, si trovano nel pianoro, nei pressi di un masso tondeggiante e di un’area pavimentata con lastroni, mentre a sud-est del «luogo alto», undici monoliti, tre dei quali ancora in piedi, facevano parte di quello che è stato interpretato come un cromlech calendariale del diametro di 97 m circa. Intorno al complesso megalitico è stato individuato e indagato un villaggio esteso otto ettari, pertinente alle fasi tarde dell’Eneolitico isolano (facies di Monte Claro). (G. C.)

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SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

anche a monumenti costruiti con tecniche litico quello di Monte d’Accoddi, costruito A sinistra: architettoniche differenti, cosí che in Sarde- con pietrame di media pezzatura a secco, una brassard in gna, ad esempio, si considera un altare mega- muraglia megalitica quella di Monte Baranta pietra, dalla necropoli di Is Loccis Santus (San Giovanni Suergiu, Sud Sardegna). Eneolitico. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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In alto: veduta dall’alto degli allineamenti megalitici di Biru ’e Concas (Sorgono, Nuoro), IV-III mill. a.C.

ed edifici megalitici le torri nuragiche, edificate invece con tecnica ciclopica. L’origine del fenomeno nel nostro continente è stata attribuita, tra le tante tesi, alla mutazione del clima e alla scomparsa di vaste superfici di copertura boschiva, con la conseguente necessità di sostituire strutture lignee (palizzate o edifici funerari a camera) con un materiale maggiormente disponibile, le grandi pietre erette verticalmente; ma se questo processo può essere valido per l’Europa atlantica, forse non è applicabile alla regione mediterranea occidentale, in cui il fenomeno si sviluppa autonomamente nello stesso lasso di tempo. Al di là del problema genetico e terminologico, lo si deve considerare soprattutto un fenomeno sociale, legato alla necessità delle comunità

neo-eneolitiche di dare visibilità e risalto ai monumenti funerari – ma non solo funerari –, che nel loro sviluppo verticale ebbero lo scopo di esaltare e rappresentare la comunità, il clan, il lignaggio, svolgendo la funzione di marcatori territoriali, punti di riferimento e di coesione sociale. Il megalitismo in Sardegna è un fenomeno complesso e di lunga durata che occupa circa tremila anni, dalla fase terminale del Neolitico medio (facies di San Ciriaco), attraverso il Neolitico recente e l’età del Rame, almeno fino al Bronzo medio nuragico. È perciò arduo riassumere in queste poche pagine tutti i suoi aspetti, che comprendono le sfere funeraria, religiosa, civile e domestica, con la costruzione ed erezione di dolmen, allée couverte, menhir e altri monumenti. a r c h e o 95


SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

I NURAGHI di Elisabetta Grassi

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a civiltà nuragica trova la sua massima espressione architettonica nei nuraghi, gli imponenti edifici in pietra che caratterizzano il paesaggio della Sardegna. Attualmente si stimano circa 7000 nuraghi, dislocati sul territorio con aree di maggiore o minore concentrazione. Dietro un’apparente omogeneità di schemi planimetrici e soluzioni architettoniche, si riscontra una varietà riconducibile alle risorse disponibili, alla morfologia del terreno e alla funzione svolta nel proprio sistema territoriale. Nella sua forma piú nota, successiva a quella del protonuraghe o nuraghe arcaico, il nuraghe appare come una costruzione di forma troncoconica, a pianta generalmente circolare, costruita per accumulo di grossi massi a secco. La torre

presenta all’interno una camera o cella circolare con una copertura a tholos o falsa cupola, ottenuta cioè dal progressivo restringersi, dalla base verso la sommità, dei vari anelli orizzontali di pietra. I nuraghi complessi si contraddistinguono per la presenza di piú torri, spesso aggiunte successivamente a una costruzione isolata. Il rapporto con l’ambiente e con le risorse circostanti influisce indubbiamente sulle attività produttive e sui diversi aspetti della vita 96 a r c h e o

A sinistra: bronzetto di arciere saettante, dal santuario di Santa Vittoria (Serri, Sud Sardegna). Età del Ferro. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


Il Su Nuraxi di Barumini (Medio Campidano), complesso nuragico che fu in uso dall’età del Bronzo Medio all’età del Ferro.

quotidiana. L’allevamento e l’agricoltura, integrati da raccolta, caccia e pesca, erano alla base dell’economia. Del resto anche i bronzi figurati, ascrivibili a una fase in cui pur nella continuità di utilizzo di quelli esistenti i nuraghi non vengono piú edificati, rimandano di frequente a un profondo legame con l’ambiente naturale. Tra le rappresentazioni animali, spesso di significato simbolico o religioso, compaiono bovini, arieti, mufloni, cervi e cinghiali. Dalla fonte sacra di Monte Ultana

(Laerru, Sassari) proviene un bronzetto raffigurante un ariete con corna ritorte all’indietro e corpo cilindrico recante una serie di incisioni parallele che riproducono il pelame. Lo sfruttamento delle risorse animali è confermato dal rinvenimento di utensili, ornamenti e manici in corno o osso, quali i quattro frammenti decorati a incisione provenienti dal complesso di Palmavera (Alghero) che dovevano costituire l’immanicatura di piccoli arnesi metallici. a r c h e o 97


SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

Le produzioni artigianali, in particolar modo quella ceramica, riflettono le trasformazioni economiche e sociali. A partire dal Bronzo recente, con il consolidarsi dei rapporti fra il Mediterraneo orientale e occidentale, compaiono nuove forme e tecniche di produzione. La brocca askoide era presumibilmente adibita alla conservazione e al consumo del vino. Dal complesso nuragico di La Prisgiona (Arzachena) proviene un esemplare con ansa decorata a tacche e punti impressi.

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Oltre che nei contesti abitativi, tale forma è presente nei luoghi di culto, negli ambienti di riunione e nei contesti funerari d’oltremare, suggerendo l’affermarsi di nuove forme di ritualità e commensalità fra élite. I contatti con il Mediterraneo orientale, in particolare con Cipro, contribuiscono allo sviluppo locale della metallurgia, caratterizzata da un’articolata produzione di utensili e attrezzi funzionali alle varie attività economiche.

Sulle due pagine: particolari delle architetture interne del complesso nuragico di Piscu (Suelli, Sud Sardegna). Frequentato in varie fasi, tra il 1400 e il 1000 a.C., si tratta di un maestoso nuraghe complesso, formato da una torre principale a cui fu aggiunto un bastione con quattro torri angolari.


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LE TOMBE DI GIGANTI di Maria Letizia Pulcini


Nella pagina accanto: l’interno della tomba di giganti di s’Ena ‘e Thomes (Dorgali, Nuoro). Età del Bronzo Antico. In questa pagina: veduta dall’alto della tomba di giganti di Li Lolghi, presso Arzachena (Sassari).

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e tombe di giganti sono monumenti megalitici esclusivi della Sardegna che prendono il nome dalla credenza popolare secondo cui al loro interno ospitassero le spoglie di un gigante. Si tratta invece di tombe collettive, che costituiscono la modalità di sepoltura caratteristica dell’età nuragica. Se ne contano circa 800, tutte utilizzate a lungo, in cui veniva creato spazio per le nuove deposizioni spostando le ossa degli «antenati». La struttura è costituita, nella quasi totalità dei casi, da una camera sepolcrale di forma rettangolare con lato posteriore curvilineo (abside), la cui copertura è realizzata con lastroni orizzontali poggianti sulle pareti. Nella parte anteriore, invece, un’apertura di piccole dimensioni realizzata su una grande stele centrale funge da ingresso (simbolico e non funzionale) che si apre su uno spazio approssimativamente semicircolare delimitato da una facciata monumentale (esedra; in alcuni casi lo spazio antistante può addirittura assumere una forma circolare, quasi a voler ricreare uno spazio chiuso, avvolgente e protetto). L’esedra era uno spazio destinato allo svolgimento di riti comunitari, verosimilmente legati al culto degli antenati.

Tale ipotesi sembra confermata dai rinvenimenti materiali: ceramiche utilizzate per offerte di cibo e/o bevande ai defunti oppure durante banchetti rituali, ma soprattutto i betili in pietra lavorata di grandi dimensioni, a cui da sempre si attribuisce una funzione sacra. Gli studiosi ritengono che queste tombe ospitassero tutti i membri di una comunità, sia perché tra i defunti non si osserva alcuna distinzione per sesso e/o età alla morte – per quanto i reperti osteologici si presentino di difficile lettura, in quanto sparsi e frammentari nella maggior parte dei casi – sia per l’assenza quasi totale e generalizzata di corredi (fatta eccezione per alcuni rari bronzi o ceramiche), imputata alla mancanza di un’organizzazione sociale complessa. In anni recenti, tuttavia, soprattutto attraverso analisi mirate e/o il confronto con ciò che accade altrove (nelle terramare, per esempio), si è fatta strada l’ipotesi che queste costruzioni fossero riservate solo a una parte della comunità, verosimilmente l’élite, e che l’assenza di corredi non sia altro che un espediente per nascondere, almeno in apparenza, le differenze sociali esistenti, che emergeranno in maniera piú chiara nelle fasi successive.

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I SANTUARI di Federica Doria

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a sfera del sacro nel mondo antico è da sempre uno degli aspetti piú oscuri da indagare, ma al contempo uno dei piú affascinanti. La religiosità è infatti ciò che in qualche modo costituisce il tramite tra la dimensione mortale e quella divina, tra il piano terreno e quello superno, tra l’uomo e il dio. Ciò che rende possibile la conoscenza di una civiltà oggi scomparsa è anche la codificazione delle complesse dinamiche regolanti tali relazioni e le valenze simboliche a esse sottese. La civiltà nuragica non fa eccezione, anzi ci riporta a una multiformità e molteplicità di luoghi, rituali, oggetti tale da apparire assolutamente peculiare nel panorama dell’età del Bronzo e soprattutto del primo Ferro nel Mediterraneo. La religiosità nuragica della prima età del Ferro, a partire all’incirca dal X secolo a.C., risulta contraddistinta dalla grande diffusione dei santuari, proprio in un momento in cui invece la costruzione dei nuraghi si è ormai avviata al tramonto, segno questo di significativi cambiamenti sociali, politici e organizzativi. La sezione della mostra dedicata a questo tema ha come finalità primaria proprio il tentativo di leggere e comunicare particolari aspetti, come la funzione, il significato simbolico ma anche la valenza costruttiva dei grandi santuari nuragici. L’esigenza di rispondere a differenti necessità cultuali, ad esempio, spiega l’esistenza di diverse strutture architettoniche disseminate nell’isola, strutture che testimoniano l’insistente influenza del megalitismo anche nella sfera sacra. Templi a megaron, rotonde, pozzi e fonti sacre costellano tutto il territorio

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Piccolo gruppo in bronzo raffigurante una donna seduta con figlio, dal santuario di Santa Vittoria (Serri, Sud Sardegna). Età del Ferro. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


della Sardegna, come maestosi indicatori, solo apparentemente silenziosi, ma che tanto possono raccontare mediante l’aspetto strutturale, ma specialmente attraverso gli oggetti rinvenuti in questi luoghi.

IL VALORE RELIGIOSO DELL’ACQUA I reperti che compongono questa sezione ci raccontano una profonda religiosità legata al culto dell’acqua, come i tipici vasi piriformi e le brocche askoidi rinvenuti nei pozzi sacri, spesso finemente decorati e destinati a contenere liquidi (acqua o vino) durante i rituali di libagione: un buon esempio può essere costituito dall’anforetta piriforme

A sinistra: pugnale a elsa gammata, dalla grotta di Su Benatzu (Santadi, Sud Sardegna). Età del Bronzo Finale-età del Ferro. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Qui accanto: bronzetto raffigurante un soldato con stocco e scudo, da località sconosciuta (Padria, Sassari). Età del Ferro. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

proveniente da Sardara, mirabilmente ornata con linee incise e cerchielli concentrici a comporre la figurazione di un imponente nuraghe con alto mastio centrale. I reperti in bronzo testimoniano l’esistenza di particolari dinamiche di offerta e rifunzionalizzazione in chiave rituale degli oggetti dedicati; piú spesso tuttavia si è in presenza di piani ermeneutici complessi che si sovrappongono, portando alla realizzazione di armi e altri manufatti non solo privi della funzione originaria, ma anche creati ex novo in qualità di oggetti che, caricati di ulteriori valenze simboliche, svolgono la funzione di indicatori di status sociale e di mediatori tra i mortali e la divinità. Ciò è ben dimostrato dalle armi dedicate nei santuari, in particolare le spade votive e i pugnali, ma non solo. Basti pensare ai bacili rinvenuti nel complesso santuariale di Sant’Anastasia di Sardara, che si contraddistinguono per la singolarità delle anse a maniglia, arricchite da ornamenti sempre 104 a r c h e o

A sinistra: bronzetto raffigurante una navicella, da località sconosciuta (Mandas, Sud Sardegna). Età del Bronzo Finale. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: bronzetto raffigurante un guerriero con due scudi, dal santuario di Abini (Teti, Nuoro). Età del Ferro. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. In basso, a sinistra: bronzetto raffigurante una testa maschile con alto copricapo turrito o piumato, identificata con il Sardus Pater, da località sconosciuta (Decimoputzu, Sud Sardegna). Età del Ferro. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


diversi: decorazioni in filo di bronzo organizzato in spirali, fiori di loto, placchette e ribattini caratterizzano in maniera peculiare ogni singolo esemplare. I santuari nuragici sono spesso luoghi di rinvenimenti straordinari, che ci riportano con l’immaginazione a epoche di intensi contatti commerciali e culturali. È il caso delle pregevoli collane in ambra importata dal Baltico, provenienti dal santuario di Romanzesu (Bitti) e conservate al Museo Archeologico Nazionale «G. Asproni» di Nuoro. In questa sezione della mostra possiamo apprezzarne un esempio, un monile composto da diciassette vaghi, verosimilmente dono votivo dedicato nel santuario da un ricco offerente.

I BRONZETTI Tra gli altri reperti presenti è possibile ammirare anche i celebri «bronzetti», statuine raffiguranti una molteplicità di diversi soggetti, che costituiscono forse la manifestazione piú evidente della devozione del popolo nuragico nei confronti delle divinità. La presenza di questi particolari ex voto marca in maniera indelebile e inequivocabile i contesti votivi nuragici. Immancabili sono i guerrieri: l’arciere (vedi foto a p. 96), il soldato armato con scudo e stocco (vedi foto a p. 103), il guerriero con due scudi (vedi foto in questa pagina), sono i rappresentanti di una élite aristocratica che in questa straordinaria ed efficace maniera si autorappresenta. Significativa è la raffigurazione della madre con figlio, dal santuario di Santa Vittoria di Serri (vedi foto a p. 102): il gruppo, una sorta di Pietà ante litteram, rappresenta una donna assisa che stringe il giovane figlio morto o malato. Questi sono solo alcuni degli esemplari che è possibile ammirare nella sezione della mostra dedicata ai santuari, da visitare e considerare nell’ottica del piú ampio contesto del percorso espositivo, essendo la sfera cultuale strettamente legata agli aspetti sociali, economici e commerciali della civiltà di cui è espressione. a r c h e o 105


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L’EREDITÀ NURAGICA

di Stefano Giuliani

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a principale eredità lasciata dalla civiltà nuragica è sicuramente costituita dal paesaggio, ancora oggi costellato dai resti di migliaia di nuraghi. Quasi tutti ebbero diverse fasi di riutilizzo con svariate funzioni sin dall’età punica e romana, come mostrato ad esempio da un tesoretto di monete di datazione varia, dall’età repubblicana al VII secolo d.C., rinvenuto presso il nuraghe Losa (Abbasanta) ed esposto in questa sezione. Nonostante una facies archeologica chiaramente nuragica non sia piú riconoscibile dopo il VI secolo a.C., il popolamento della Sardegna rimase caratterizzato per secoli da genti principalmente di ascendenza nuragica, che acquisirono poi le strutture culturali puniche e romane e attraversarono notevoli cambiamenti politici, sociali ed economici, in alcuni casi con persistenze o fenomeni di ibridazione culturale. Ne sono un esempio i depositi votivi ellenistici, i cui materiali mostrano una convergenza tra il mondo fenicio-punico o romano e quello nuragico. Da fonti storiografiche, archeologiche, epigrafiche e linguistiche possiamo ricostruire il quadro di un popolamento della Sardegna in età storica con diversi livelli di romanizzazione: pienamente integrati nella koinè romana gli abitanti dei centri urbani, quasi tutti costieri, che restituiscono comunque anche reperti ceramici di tradizione locale, probabilmente relativi a indigeni urbanizzati; piú legati a tradizioni indigene i componenti di quelle che Plinio il Vecchio definisce Civitates Barbariae, comunità non urbanizzate che popolavano l’interno dell’isola, note anche epigraficamente e ancora turbolente nel VI secolo d.C., se Giustiniano dovette spostare a Forum Traiani la sede del 106 a r c h e o


IL TRAMONTO DEL MEGALITISMO La società sarda dell’età del Ferro, rispetto ai secoli precedenti, appare molto diversa e basata su nuove forme di organizzazione sociale. Il sistema territoriale incentrato sui nuraghi entra in crisi e si ampliano gli insediamenti non direttamente connessi a un nuraghe. Il cambiamento progressivo è imputabile a dinamiche già presenti all’interno della società, accelerate dal contatto sempre piú frequente con altre civiltà. A partire dal IX secolo a.C., infatti, il materiale nuragico è presente nei corredi funebri in Etruria, e già dall’VIII i Fenici sono stabilmente stanziati sulle coste sarde. Lo specchio del popolamento della Sardegna dell’età del Ferro è costituito dalle figure riprodotte nei bronzetti, che raffigurano le varie componenti della società, e vengono deposti con frequenza come ex voto soprattutto nei santuari, su basi come quella che è possibile vedere nella sezione della mostra dedicata all’argomento. All’inizio dell’età del Ferro (X secolo a.C.) il nuraghe è diventato un simbolo culturale e politico rappresentativo del gruppo eminente, e per questo la sua forma viene riprodotta in oggetti di diverso tipo, sia funzionali sia esclusivamente decorativi, diventando allo stesso tempo oggetto di culto e offerta alla divinità. È il caso del collo di una fiasca del pellegrino proveniente da Romanzesu (Bitti), che allude alla forma di un nuraghe mediante la raffigurazione tramite tratti scanalati dei mensoloni che ne reggevano il terrazzo. Altri oggetti dell’età del Ferro spesso modellati a forma di nuraghe sono i cosiddetti bottoni in bronzo, in realtà verosimilmente amuleti destinati al santuario e non al corredo personale dell’offerente, come quelli provenienti da Sa Carcaredda (Villagrande Strisaili) e Abini (Teti), qui esposti. Sebbene l’attività di costruzione dei nuraghi sia ormai cessata almeno dal XII secolo, la maggior parte di quelli costruiti nei secoli precedenti è ancora funzionale e in molti casi l’uso continua o viene riconvertito con diverse destinazioni. Molti nuraghi attraversano cosí una fase di riutilizzo in chiave cultuale. Tra questi, il nuraghe Nurdole di Orani, trasformato in santuario intorno al 1200 a.C., che, oltre a un’importante quantità di bronzi figurati, ha restituito i conci che ne costituivano il coronamento, decorati con incisioni a losanghe, a zig-zag e ad altri motivi geometrici, che costituiscono un unicum nell’intera isola. (S. G.) Nella pagina accanto: statua in calcare di pugilatore, da Mont’e Prama (Cabras, Oristano). Prima Età del Ferro. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

comandante militare della provincia per tentare di controllarle. Ancora nel 594 papa Gregorio Magno fa riferimento, nel suo epistolario, a una Sardegna in cui erano venerate pietre e legni, in riferimento a culti preromani in cui sono forse da vedere menhir, betili o pali totemici, se non addirittura alberi di boschi sacri, come il Nemus Sorabensis presso Fonni, in cui ancora i Romani praticavano il culto del dio dei boschi Silvano.

Moneta punica in bronzo, dal nuraghe Losa (Abbasanta, Oristano). 300-264 a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Al dritto, kore; al rovescio, protome equina e palma.

Il pantheon romano accolse ufficialmente il Sardus Pater come divinità, a simboleggiare l’accoglimento delle credenze e tradizioni religiose indigene.Altre persistenze culturali si ebbero per esempio nella toponomastica, nell’onomastica (si veda il contributo di Piergiorgio Floris nel catalogo della mostra), nella cultura materiale e forse anche nell’organizzazione sociale delle popolazioni non urbanizzate, che ebbero frequenti episodi di ribellismo contro l’autorità romana, come mostrato a r c h e o 107


SPECIALE • SARDEGNA MEGALITICA

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UN PROGETTO INTERNAZIONALE «Sardegna, isola megalitica», in corso al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, rappresenta l’ultima tappa di un lungo percorso espositivo, iniziato nel giugno del 2021 al Museo per la Preistoria e Protostoria di Berlino, poi proseguito al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo (19 ottobre 2021-16 gennaio 2022) e al Museo Archeologico Nazionale di Salonicco (11 febbraio-15 maggio 2022). La mostra è promossa dalla Regione Sardegna-Assessorato del Turismo, Artigianato e Commercio con il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e la Direzione Regionale Musei della Sardegna, con il Patrocinio del MAECI e del MIC, la collaborazione della Fondazione di Sardegna e il coordinamento generale di Villaggio Globale International.

In alto: un particolare dell’allestimento della mostra. Nella pagina accanto: veduta dall’alto del nuraghe Arrubiu (Orroli, Sud Sardegna).

dai frequenti trionfi sui Sardi concessi ai consoli romani della tarda repubblica. Uno dei cippi di confine tra popolazioni, che indica l’etnonimo prelatino di Uddadhaddar(itani), può essere visto in questa sezione della mostra. L’acquisizione della cultura materiale romana a ogni modo non fu ostacolata dalla persistenza di utilizzo dei monumenti nuragici in età romana imperiale, come evidenziato dal materiale romano rinvenuto in abbondanza presso il deposito votivo del santuario nuragico di Orulu (Orgosolo), come gli attingitoi in bronzo esposti in mostra. I testi che compongono questo Speciale sono tratti dal catalogo della mostra e appaiono per gentile concessione degli organizzatori e degli editori Skira e il Il Cigno CG Edizioni.

DOVE E QUANDO «Sardegna, isola megalitica Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino all’11 settembre Orario tutti i giorni, eccetto martedí, dalle 9,00 alle 19,30; il giovedí la mostra è aperta anche dalle 20,00 alle 23,00 Info https://mostrainternazionalesardegna.it; https://mann-napoli.it; Facebook: MANNapoli, Sardegna-Isola-Megalitica; Instagram: @museoarcheologiconapoli; @sardegna_isola_megalitica a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

«BIONDA E BELLISSIMA» VOSÍ VIRGILIO DEFINÍ DIDONE, REGINA DI CARTAGINE, RITRATTA NEL CINQUECENTO DAL GRECHETTO, UN INCISORE DI TALENTO, FORSE ISPIRATO DA SANDRO BOTTICELLI

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iorgio Vasari (1511-1574), il celeberrimo autore delle Vite dei piú eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri (edite per la prima volta nel 1550), racconta quale testimone oculare di quando Michelangelo, vedendo una medaglia realizzata per papa Paolo III da Alessandro Cesati, ne rimase talmente colpito da esclamare d’«esser venuta l’ora della morte nell’arte, non pensando poter veder meglio» (Vite, III parte, 864). Ma chi era dunque questo mirabile incisore, capace di impressionare addirittura l’autore della Cappella Sistina? Alessandro Cesati nacque a Cipro, in una data imprecisata agli inizi del Cinquecento, e lí morí intorno agli anni Settanta dello stesso secolo. Detto «il Grechetto» per via della sua origine, si trasferí ben presto a Roma, dove si fece conoscere per le capacità di ottimo incisore, intagliatore e medaglista, stringendo una lunga e proficua amicizia con Annibal Caro. Questi, appassionato collezionista e dotto umanista, lo introdusse alla corte pontificia retta allora dai Farnese, essendo Caro legato ad alcuni membri della

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potente famiglia e, in particolare, al «Gran Cardinale» Alessandro, per il quale suggerí, tra l’altro, i temi degli affreschi nel celebre Palazzo Farnese di Caprarola. Cesati fu attivo a Roma tra gli anni 1538-61, dove svolse le funzioni di Maestro della Zecca Pontificia, ricevendo nel contempo commissioni dalla famiglia Farnese e operando in seguito anche in Piemonte, richiesto dai duchi di Savoia.

e la testa, sede intellettuale ed elemento fondamentale che cattura l’attenzione dell’osservatore, anche piú dell’abbigliamento.

ICONA DI BELLEZZA

TRA MITO E STORIA Come quasi tutti gli incisori della sua epoca, si dedicò anche alla creazione di medaglie ispirate alla monetazione romana e, piú in generale, al mondo classico, realizzando una bella serie anonima distinta sul dritto dai busti di celebri figure del mito e della storia antica, quali Priamo, Didone, Alessandro Magno, Artemisia di Alicarnasso, Cicerone, Antinoo. Sul rovescio compaiono immagini riferibili al personaggio, come Cartagine per Didone e Troia per Priamo, mentre al dritto essi sono raffigurati secondo le modalità stilistiche degli esemplari antichi, eccezion fatta per la splendida medaglia dedicata a Didone, con leggenda scritta in greco (lingua padroneggiata dal Grechetto): Dido basilissa, ovvero Didone Regina. La sovrana fenicia è effigiata in tutto il suo regale splendore, abbigliata con una sottile tunica contraddistinta da morbide pieghe che ricordano la seta, sulla quale indossa una mantella, appuntata con una bulla sulle spalle e che le ricade lateralmente sul petto.

Dritto di una medaglia in bronzo di Alessandro Cesati con il ritratto di Didone. XVI sec. Washington, National Gallery of Art. Nella pagina accanto: ritratto di una giovane donna tradizionalmente identificata con Simonetta Vespucci, tempera su tavola di Sandro Botticelli. 1480-1485. Francoforte sul Meno, Städel Museum. Il nobile e aulico profilo è incoronato da una splendida e ricca acconciatura, che le scende leggermente arricciata sulle spalle, con il capo coronato da un diadema, forse composto da stoffe ritorte, che risalta sulla fronte e sulla nuca fermato sul sommo della testa da una altra banda, e che simboleggia in maniera immediata la regalità della donna. Anche nei ritratti femminili di epoca rinascimentale le acconciature svolgono un ruolo rilevante esaltando, nell’ambito della raffigurazione del soggetto, il volto

Si pensi, per esempio, alla semplice ma raffinata pettinatura a chioma sciolta nel ritratto conservato al Louvre di Isabella d’Este Gonzaga, una vera e propria icona della moda del suo tempo, che lascia i capelli aperti sulle spalle, racchiusi sul capo soltanto da una sottile striscia di stoffa. I capelli infatti venivano spesso avvolti in striscioline di seta che permettono la creazione di elaborate acconciature, realizzate anche con posticci o elementi di coronamento simili a diademi. Non è dunque un caso che la sofisticata chioma della Didone di Cesati sembri voler echeggiare il magnifico dipinto di Sandro Botticelli tradizionalmente identificato con un ritratto di Simonetta Vespucci, celebrata come una delle donne piú belle del Rinascimento. La giovane appare coronata da una elaboratissima e preziosa capigliatura, il cui effetto quasi naturale sottende invece una attenta composizione realizzata da eccellenti parrucchieri al servizio delle nobildonne delle illustri casate italiane. La fama immortale di Didone è legata alla poesia di Virgilio, il quale, narrando della sua tragica storia d’amore, ne descrive l’aspetto bellissimo (pulcherrima), permettendoci di conoscere anche il colore dei suoi capelli, che sono, naturalmente, biondi.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Carolina Megale, Stefano Monti

MANUALE DI MANAGEMENT PER L’ARCHEOLOGIA Processi e procedure per l’archeologia nella società contemporanea McGraw-Hill Education, Milano, 216 pp. 25,00 euro ISBN 978-88-386-5497-8 www.mheducation.it

Scrive Stefano Monti nella Premessa che questo volume, scritto con Carolina Megale, «non è un libro di archeologia, è un libro di “archeologia contemporanea”»: un’asserzione che può, sulle prime, disorientare e indurre il lettore a chiedersi che cosa possa intendersi per archeologia «contemporanea», ma che trova la sua giustificazione quando si passa alla trattazione vera e propria del tema prescelto dagli autori. Che, in estrema sintesi, è quello della collocazione professionale dell’archeologo e, soprattutto, dei passi che deve intraprendere per poter operare. In questo senso si fa perciò piú comprensibile il concetto della contemporaneità, dal momento che, rispetto a un passato ancora recente, lo scenario in cui si trova a muoversi chiunque ambisca a lavorare nel mondo dei beni culturali è notevolmente mutato, per effetto di nuove normative e riforme. Megale e Monti hanno 112 a r c h e o

articolato la trattazione in tre macro-sezioni – dedicate a ricerca, tutela e valorizzazione –, precedute e seguite da due sezioni nelle quali vengono proposte riflessioni di carattere piú generale. L’esordio è affidato all’analisi delle strategie ritenute essenziali per scegliere il proprio campo di operazione che dunque passano innanzi tutto attraverso l’esame del territorio nel quale verranno svolte le attività. Si passa quindi alla rassegna delle forme nelle quali può inquadrarsi la pratica della professione archeologica, l’ambito nel quale, alla luce delle riforme degli ultimi anni, si sono registrate le innovazioni piú rilevanti. Il ventaglio delle potenziali opportunità si è infatti ampliato considerevolmente, dal tradizionale rapporto di collaborazione con enti e istituzioni a livello di singolo individuo fino alla creazione di società e imprese, anche aperte al contributo di

figure diverse da quella dell’archeologo. Nella sezione dedicata alla ricerca vengono quindi descritti gli aspetti economici, logistici e normativi legati a un cantiere di scavo, offrendo un riepilogo puntuale e sistematico delle numerose istanze che in questo caso debbono essere soddisfatte. Quanto alla tutela, che resta appannaggio dello Stato, ne vengono indicate le linee guida e i principi, sottolineando come, nel rispetto dei ruoli, essa possa naturalmente giovarsi della collaborazione dei cittadini. Il tema della valorizzazione è certamente fra quelli centrali, soprattutto in una realtà come quella dell’Italia di oggi, che ancora sconta il ritardo con il quale è stata posta al centro delle politiche culturali e che ha invece un ruolo cruciale nella gestione del patrimonio. L’epilogo entra nel vivo della questione, ovvero illustrando i criteri da seguire nell’elaborare il business plan di un’impresa archeologica: una visione, questa sí, contemporanea, che finalmente sgombra il campo dalle visioni romantiche della disciplina, che certo non hanno giovato alla sua affermazione sociale. Destinatari naturali del manuale sono insomma tutti i giovani aspiranti archeologi, ma sarebbe bello che sulle sue

pagine si soffermassero quanti insistono nel credere che con la cultura non si mangi. Stefano Mammini Marta Ragozzino, Ida Gennarelli, Anna Maria Romano (a cura di)

I SEGNI DEL PAESAGGIO La via Appia e i castelli della Campania Electa, Milano, 168 pp., ill. col. 25,00 euro ISBN 9788892821934 www.electa.it

La via Appia è molto piú di una strada, né è soltanto la regina viarum: l’antica consolare è un mondo e lungo il suo tracciato si è sedimentato un patrimonio di straordinaria ricchezza. Del quale il volume offre un saggio piú che eloquente, soffermandosi, in particolare, sui numerosi castelli sorti in territorio campano. Esito di un processo che inizia già in età longobarda e si sviluppa in maniera significativa nei secoli del Medioevo, ma continua ininterrotto fino all’epoca dell’Unità d’Italia. S. M.



presenta

TEMPLARI

STORIA

LEGGENDA

MEMORIA

di Federico Canaccini Nel 1095, a Clermont Ferrand, papa Urbano II pronuncia il fatidico discorso con il quale esorta la cristianità a strappare il Santo Sepolcro di Gerusalemme dalle mani degli «infedeli»: le sue infuocate parole danno l’avvio all’epopea delle crociate ed è questa l’atmosfera nella quale germoglia il glorioso Ordine del Tempio, protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo». Gli uomini che ricamano sulle loro bianche uniformi la croce rossa si dedicano, inizialmente, all’assistenza dei pellegrini diretti verso i luoghi santi, ma presto scelgono di imbracciare le armi e danno cosí vita a una congregazione di veri e propri monaci-cavalieri, di cui Bernardo di Chiaravalle esalta le virtú. L’ascesa dei Templari diviene inarrestabile, anche grazie all’accumulo di ricchezze sempre piú consistenti, che consentono loro di moltiplicare le sedi, non piú soltanto in Oriente, ma, soprattutto, li fanno entrare a pieno titolo nei grandi giochi finanziari del tempo. E proprio questa svolta sarà all’origine della fine: agli occhi di molti l’Ordine del Tempio si è trasformato in una potenza pericolosa e incontrollabile e cosí, fomentata dal re di Francia Filippo il Bello, ha inizio una campagna denigratoria che assume in poco tempo i contorni della persecuzione. Si susseguono arresti, torture, condanne a morte e, con l’avallo di papa Clemente V, nel 1312, la nobile confraternita viene definitivamente soppressa. Una storia dapprima gloriosa e poi sempre piú fosca che il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre passo dopo passo, fino ai non pochi tentativi di rivitalizzare l’Ordine templare in età moderna.

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