Archeo n. 452, Ottobre 2022

Page 1

w. ar

MISSIONE NELLE ANDE

LASCAUX UN SANTUARIO DELL’ARTE PREISTORICA

LASCAUX

ORGANO DI CTESIBIO

SPECIALE IMPERI DELL’ANTICO PERÚ

Mens. Anno XXXVIII n. 452 ottobre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MARGUERITE YOURCENAR

ESCLUSIVA

UNA MISSIONE ITALIANA NELLE ANDE LETTERATURA

MEMORIE DI UN IMPERATORE TECNOLOGIA

SUONARE CON CTESIBIO XXIV BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO IL PROGRAMMA COMPLETO

MILANO GLI IMPERI DELL’ANTICO PERÚ

www.archeo.it

IN EDICOLA L’11 OTTOBRE 2022

eo .it

ww

ch

PE RÚ

2022

SP EC IA LE

ARCHEO 452 OTTOBRE

RIVEDERE

€ 6,50



EDITORIALE

MILANO, PERÚ Non so quanti di voi si siano soffermati – tra le tante notizie che hanno tenuto in scacco la nostra attenzione durante la scorsa estate – su quella della morte di un uomo particolare. Era soprannominato Indio do Buraco, «l’indigeno della buca», poiché all’interno dei suoi alloggi – capanne che si costruiva da solo – usava scavare, ogni volta, una fossa. Aveva una sessantina d’anni e da circa ventisei viveva in totale solitudine, nella foresta pluviale brasiliana ai confini con la Bolivia, evitando ogni contatto con il mondo esterno. Era l’ultimo sopravvissuto di una tribú indigena dell’Amazzonia, i Tanaru, sterminata negli anni Novanta del secolo scorso. La regione è particolarmente nota per le sopraffazioni esercitate senza tregua contro le popolazioni indigene da parte delle grandi aziende di allevatori e minatori clandestini, determinati ad appropriarsi delle loro terre. Al momento del suo ritrovamento, l’uomo giaceva in un’amaca, il suo corpo – che non mostrava segni di violenza – era ricoperto di piume di pappagallo: sapeva di essere giunto alla fine dei suoi giorni. Nel solo stato del Brasile vivono oggi circa 800 000 indigeni, tra i quali alcuni gruppi ancora senza contatto con il mondo esterno. L’Indio do Buraco era uno di loro. Un nostro contemporaneo, eppure vissuto in un mondo distante da noi anni luce… La vicenda dell’ultimo dei Tanaru ci riporta a quello straordinario e per molti versi inafferrabile universo delle civiltà indigene delle Americhe e, di conseguenza, per associazione, a quello delle antiche culture precolombiane. Civiltà lontane perché «senza scrittura», prive dello strumento indispensabile per raccontarsi, per tramandare la propria storia (o, meglio, storie). A queste rivolgiamo la nostra attenzione – dopo un lungo, involontario «silenzio stampa» – grazie a due rilevanti notizie. Nell’articolo di apertura riferiamo di una missione italiana (intitolata al geografo e naturalista milanese e naturalizzato peruviano, Antonio Raimondi) attiva sulla

cordigliera andina con un programma che vede la popolazione locale coinvolta a riscoprire le testimonianze monumentali del loro antichissimo passato. Nello Speciale, invece, illustriamo in anteprima i contenuti di una notevole mostra appena inauguratasi al Museo delle Culture di Milano: «Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú» ripercorre i millenni che portarono alla fioritura del piú vasto e complesso impero della storia precolombiana delle Americhe. Il cui destino, val bene ricordarlo sempre, fu segnato dall’incontro con gli Europei. E dal loro famelico desiderio di ricchezza.

Una suggestiva veduta di Machu Picchu, la cittadella costruita dagli Inca nell’area di Cuzco (Perú) a oltre 2000 m di altitudine.

Andreas M. Steiner


SOMMARIO 3

NOTIZIARIO

6

SCAVI Nuove esplorazioni lungo la via Amerina

6

di Giampiero Galasso

10

di Nicola Saraceno

MOSTRE Gli eroi in posa ARCHEOFILATELIA Splendori precolombiani

28 30

di Luciano Calenda

14

a cura di Alessandro Mandolesi e Alessandra Randazzo

RESTITUZIONI Il ritorno del grande ammaliatore 16 FRONTE DEL PORTO Un triangolo per il papa 20

56 ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/2

SCAVI

Una piramide fra i giganti

40

Un uomo solo...

70

di Giuseppe M. Della Fina

di Carolina Orsini ed Elisa Benozzi

40

70

ARCHEO 452 OTTOBRE 2022

ww

€ 6,50

www.archeo.it

12

di Carolina Ascari Raccagni

ALL’OMBRA DEL VULCANO La storia tra i filari

di Marco Valenti

IN EDICOLA L’11 OTTOBRE 2022

SCAVI Verso il sole nascente

A TUTTO CAMPO Come smontare (e ricostruire!) una collina 26

o. it

PASSEGGIATE NEL PArCo In una luce nuova

di Stefano Mammini

22

di Giampiero Galasso

he

Attualità

Per rivedere Lascaux 56

MUSEI Terra d’incontri e di scambi

di Andreas M. Steiner

PE SPECIALE RÚ

Milano, Perú

MOSTRE

di Silvia Breccolotti e Tiziana Sorgoni

w.a rc

EDITORIALE

In copertina particolare della replica in scala 1:1 di uno degli ambienti della grotta di Lascaux visitabile all’interno di Lascaux IV, il facsimile del sito inaugurato nel 2016.

Presidente

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

ESCLUSIVA Mens. Anno XXXVIII n. 452 ottobre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE IMPERI DELL’ANTICO PERÚ

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

ORGANO DI CTESIBIO

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

MARGUERITE YOURCENAR

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Federico Curti

LASCAUX

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

MISSIONE NELLE ANDE

Anno XXXVIII, n. 452 - ottobre 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

RIVEDERE

LASCAUX

UN SANTUARIO DELL’ARTE PREISTORICA

UNA MISSIONE ITALIANA NELLE ANDE

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

LETTERATURA

MEMORIE DI UN IMPERATORE TECNOLOGIA

SUONARE CON CTESIBIO XXIV BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO IL PROGRAMMA COMPLETO

arc452_Cop.indd 1

MILANO GLI IMPERI DELL’ANTICO PERÚ

29/09/22 11:53

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Carolina Ascari Raccagni è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le provincie di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Elisa Benozzi è presidentessa della società cooperativa P.E.T.R.A. Silvia Breccolotti è funzionario architetto del Parco archeologico di Ostia Antica. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Carole Fraresso è curatrice della mostra «Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú». Giampiero Galasso è giornalista. Ulla Holmquist è curatrice della mostra «Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú». Daniele Manacorda è stato professore ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Carolina Orsini è conservatore delle Raccolte Extraeuropee, presso le Civiche Raccolte d’Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano. Alessandra Randazzo è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Nicola Saraceno è funzionario architetto del Parco archeologico del Colosseo. Tiziana Sorgoni è funzionario restauratore conservatore


ARCHEOTECNOLOGIA La «tastiera» di Ctesibio

104

di Flavio Russo

104 Rubriche

82

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

I diavoli del Colosseo 110 di Francesca Ceci

LIBRI

112

SPECIALE

Perú. Tesori da un altro mondo

82

di Ulla Holmquist e Carole Fraresso

del Parco archeologico di Ostia Antica. Marco Valenti è professore associato di archeologia medievale all’Università degli Studi di Siena.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Cortesia Lascaux IV: p. 65 (alto); Dan Courtice: copertina e p. 67 – Cortesia Ufficio Stampa 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE: pp. 3, 82-98 – Cortesia Soprintendenza ABAP dell’Umbria: pp. 6-8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le provincie di Modena, Reggio Emilia e Ferrara: p. 12 – Parco archeologico di Pompei: Alessandra Randazzo: pp. 14-15 – Cortesia Ministero della Cultura: Emanuele Antonio Minerva, Agnese Sbaffi: pp. 16, 16/17, 17 (alto, a sinistra, e basso, a destra) – Cortesia J. Paul Getty Trust/ Getty Museum: pp. 17 (alto, a destra), 18 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 20-21 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale della Basilicata «Dinu Adamesteanu», Poenza: pp. 22-24 – Archivio Università degli Studi di Siena: p. 26; Studio Inklink, Firenze: p. 27 – Luigi Spina: pp. 28-29 – Cortesia Missione A. Raimondi del Museo delle Culture di Milano: pp. 40/41, 42 (alto), 42/43, 46-52 – Shutterstock: pp. 44, 58/59, 66 (centro), 71, 76-77, 80/81, 100-103, 108 (basso) – Doc. red.: pp. 45, 60/61, 62/63, 64, 65 (basso), 66 (alto), 74, 78-79, 104, 106 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa MUSE-Museo delle Scienze, Trento: pp. 56/57, 63 (basso), 68-69 – Mondadori Portfolio: Album/Oronoz: p. 70; Album/Collection Kharbine Tapabor: p. 72; Album/Fine Art Images: p. 73; Erich Lessing/K&K Archive: p. 75; Electa: p. 105; AKG Images: p. 108 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 106 (alto), 109, 110-111 – Flavio Russo: p. 107 – Cippigraphix: cartine alle pp. 42, 58.

Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito https://arretrati. pressdi.it

Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno.

L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Umbria

NUOVE ESPLORAZIONI LUNGO LA VIA AMERINA

U

na complessa stratigrafia, che dall’età repubblicana arriva fino all’epoca moderna, è stata indagata in località il Trullo, nel territorio di Amelia (Terni), in un uliveto, che dista circa un chilometro dalle mura della città umbra. In età antica l’area ricadeva nel suburbio meridionale dell’abitato, attraversato dalla via publica Amerina, ed era già nota per il rudere di mausoleo romano conosciuto, appunto, come «il Trullo», punto di riferimento topografico nei secoli, da cui il nome all’intera zona. «Il sito – spiega Elena Roscini, funzionario archeologo e direttore dello scavo – offriva l’opportunità unica di indagare un tratto dell’antica via Amerina nel relativo contesto suburbano, in uno dei pochi spazi non edificati di questo settore della periferia di Amelia. L’elemento che caratterizza gli scavi è la strada, in corrispondenza della quale si concentrano le altre testimonianze archeologiche: un asse incassato nel banco geologico lungo un crinale di collina, di cui si conservano due carreggiate affiancate, relative a fasi diverse. La carreggiata piú antica, lastricata con basoli calcarei e ciottoli fluviali, viene in parte inglobata sul lato nord da una seconda con andamento sostanzialmente coincidente, ma impostata a una Amelia (Terni), località il Trullo. Il settore centrale dello scavo: sono visibili l’asse stradale con le due carreggiate, le fondazioni dei monumenti funerari e la calcara.

6 archeo

Sulle due pagine: Porto Torres (Sassari). Vedute dell’area del Ponte Romano in cui un intervento di archeologia preventiva ha riportato alla luce apprestamenti realizzati in antico per creare una valvola di sfogo in grado di garantire il deflusso delle acque nel caso di piene del Rio Mannu, nonché un argine a protezione della Colonia Iulia Turris Libisonis.


quota piú elevata e pavimentata con basoli ricavati dal parziale smantellamento dell’altra carreggiata, posti in opera di taglio, insieme a ghiaione e a grandi ciottoli. Il rifacimento della strada comporta la riorganizzazione dell’area, con la costruzione di strutture – rinvenute a livello di fondazione – affacciate sui due lati dell’asse viario, che vanno a tagliare la prima carreggiata, ormai fuori uso, e che sono identificabili con monumenti e sistemazioni a carattere funerario. Tale interpretazione, suggerita dallo stretto rapporto topografico con la via e dalle caratteristiche planimetriche e dimensionali, è confermata dal materiale

In alto: a sinistra, la carreggiata nord, piú recente, a destra la carreggiata sud e la calcara. A destra: la calcara in corso di scavo. In basso: la fondazione di un monumento funerario a pianta quadrata, delimitata da un filare in blocchi calcarei, in parte asportato dalle fosse di spoliazione.

archeo 7


n otiz iario In alto: frammento di una testa ritratto maschile in marmo lunense. Età tiberiano-claudia.

Qui sopra e in basso: frammenti architettonici recuperati negli strati di spoliazione: in alto, porzione di soffitto a cassettoni in marmo lunense; in basso, frammento di capitello corinzio in travertino (abaco). Età tardo-repubblicana/augustea.

8 archeo

architettonico, scultoreo e di arredo recuperato negli strati di spoliazione del sito. Lo studio di questi reperti – 420 frammenti – ha consentito di individuare un gruppo di monumenti funerari riconducibili a due fasi principali, l’una di età tardo-repubblicana/protoaugustea, l’altra della prima età giulio-claudia. Fra le tipologie architettoniche ricorrenti è l’edicola funeraria, in travertino e in marmo lunense, documentata da elementi di colonna, porzioni di soffitti a cassettoni e di statue di defunti, che mostrano l’intervento di maestranze provenienti da Roma. Su base stratigrafica la prima carreggiata stradale è genericamente inquadrabile in epoca medio/tardo-repubblicana, mentre la formazione della necropoli monumentale negli ultimi decenni dell’età repubblicana rappresenta un termine ante quem per la realizzazione della seconda. A partire dall’età tardo-antica, il contesto viene sottoposto a una spoliazione sistematica, finalizzata al recupero degli elementi architettonici e della decorazione scultorea per il riutilizzo in nuovi edifici e per la produzione di calce. Tale attività è attestata principalmente da uno strato composto quasi interamente da scarti dello spoglio, che si sovrappone alla strada utilizzata in età imperiale, formando il nuovo piano carrabile, e da una grande fornace da calce, impostata a ridosso dell’asse viario e perpendicolarmente a esso, di cui rimangono il prefurnio, la camera di combustione e parte della camera di cottura. Le due evidenze testimoniano allo stesso tempo la continuità d’uso del tracciato stradale, che si inquadra nella funzione strategica della via

Amerina all’epoca delle guerre greco-gotiche e come direttrice del Corridoio Bizantino (una stretta fascia di territorio, risparmiato dalle conquiste longobarde, che assicurava il collegamento fra Ravenna e Roma, n.d.r.). Private del rivestimento, le strutture della necropoli sono oggetto di una distruzione protrattasi a lungo nel tempo e connessa alla conversione dell’area in terreno agricolo. Un termine cronologico per l’obliterazione definitiva è lo strato che sigilla le rasature dei monumenti funerari e i resti della spoliazione, che per il contenuto in ceramica risulta essersi formato non prima del XVIII secolo. Fra il XVIII e il XIX secolo viene impiantato un vigneto, le cui trincee intaccano i livelli antichi e sono a loro volta tagliate da buche circolari riconducibili alla messa a dimora di un uliveto, coltivazione che si è mantenuta fino all’apertura del cantiere. I dati stratigrafici sulla scomparsa della necropoli e della strada e sullo sfruttamento agricolo moderno vengono confermati dalle fonti archivistiche e cartografiche, nonché dalle foto aeree scattate alla metà del Novecento, che mostrano il passaggio dal vigneto all’uliveto e la progressiva copertura della via poderale sovrappostasi all’Amerina, ultima sopravvivenza del tracciato romano». Gli scavi, finanziati dal Ministero della Cultura, sono stati condotti dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria fra il 2018 e il 2019 a seguito dell’individuazione di un lungo tratto della pavimentazione stradale della via Amerina durante verifiche archeologiche preventive eseguite in relazione al progetto di un’opera di pubblica utilità. Giampiero Galasso



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

IN UNA LUCE NUOVA SISTEMA DI GESTIONE DELL’ENERGIA, RINNOVAMENTO DEGLI IMPIANTI DI ILLUMINAZIONE E TETTOIE FOTOVOLTAICHE: SONO QUESTE LE TRE LINEE DEL PROGRAMMA DI EFFICIENTAMENTO ENERGETICO DEL PARCO DEL COLOSSEO NELL’AMBITO DEL PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA

I

l Parco archeologico del Colosseo ha avviato nel 2020 il progetto PArCO GREEN (vedi «Archeo» n. 435, maggio 2021: anche on line su issuu.com) al fine di declinare nel modo piú ampio tutti gli aspetti della transizione ecologica riferiti al patrimonio culturale. Insieme a molti interventi sul ricco patrimonio vegetale del Parco, è stata avviata

una riflessione sistematica sugli aspetti qualitativi e quantitativi dei consumi energetici. La prima questione rilevante è legata alla crescita delle attività di valorizzazione del patrimonio messe in atto dal Parco a partire dalla sua istituzione nel 2018, che si sono concretizzate nell’apertura al pubblico di nuovi spazi – molti dei quali dotati di

Le tettoie a protezione degli scavi del Palatino che saranno trasformate in superfici fotovoltaiche.

10 a r c h e o

apparecchiature di fruizione multimediale –, nell’attivazione di conferenze ed eventi non solo espositivi, nel rinnovamento di spazi museali e strutture di accoglienza e accessibilità. La crescita di queste attività, se non adeguatamente gestita, è perciò destinata ad aumentare in proporzione l’impronta ecologica del Parco, soprattutto in termini di


assorbimenti energetici. Tuttavia, in presenza di un aumento consistente dell’offerta culturale nei termini descritti (nonché della quantità di visitatori), l’efficientamento non si può misurare semplicemente dall’andamento dei consumi. L’obiettivo del Parco archeologico è dunque quello di mettere in relazione gli assorbimenti di energia con l’incremento di attività e di prestazioni erogate, al fine di fissare obiettivi di efficientamento realistici e chiari, tali da consentire il monitoraggio nel tempo e la realizzazione di un vero sviluppo sostenibile.

GLI AMBITI D’INTERVENTO Nell’ambito dell’attuazione degli interventi PNRR-Ministero della Cultura, il Parco archeologico del Colosseo sta dunque predisponendo un intervento di efficientamento energetico che agisce su diversi ambiti. Il primo ambito si riferisce alla creazione di un Sistema di gestione dell’energia,

secondo la norma ISO 50001, uno standard internazionale finalizzato a supportare le organizzazioni nel miglioramento continuo della prestazione energetica. La struttura della norma si basa sul ciclo di miglioramento continuo «plan-docheck-act» (programmazione, esecuzione del programma, controllo, azione/correzione), che consiste nel pianificare e agire sulla base degli obiettivi individuati, analizzando e valutando le principali criticità per poi definire scelte operative per la loro gestione. Dopo aver implementato le misure individuate, viene valutata l’efficienza di questi provvedimenti e vengono analizzati eventuali nuovi punti deboli. Sulla base di questa fase di controllo ricomincia il ciclo di pianificazione definendo nuovi obiettivi. Il secondo ambito dell’intervento finanziato dal PNRR è invece legato all’illuminazione del compendio archeologico del Foro RomanoPalatino, tema dai diversi risvolti: dall’illuminazione monumentale, volta a valorizzare le strutture antiche nel paesaggio notturno della città (anche in relazione a un’illuminazione diffusa, che punta alla riconnessione visiva di monumenti che spesso, seppur dotati di un impianto di illuminazione, emergono dall’oscurità, come elementi singolari e disparati), fino all’illuminazione funzionale, legata cioè alla fruizione notturna dei luoghi, sempre piú importante per un istituto che moltiplica le iniziative serali e le estende a sempre nuove aree. La dimensione e l’importanza di tale impianto, unita al citato incremento dei progetti di valorizzazione, costituisce un aspetto da porre sotto osservazione nell’ottica dell’efficientamento. A oggi, la tecnologia a LED è stata

adottata negli impianti piú recenti e in occasione di pochi interventi puntuali di sostituzione, mentre una parte consistente dell’intera illuminazione è basata su tecnologie obsolete e all’interno del Parco vi sono circa 450 corpi illuminanti che devono essere sostituiti con apparecchi piú efficienti, con un abbattimento atteso della potenza installata di circa il 50%.

ENERGIA DALLE TEGOLE Il terzo ambito d’intervento riguarda la collocazione sperimentale di impianti fotovoltaici al di sopra di molte tettoie poste a copertura di complessi archeologici che, sfruttando posizioni di soleggiamento favorevoli, potrebbero facilmente essere convertite in superfici produttive. Tali coperture sono attualmente rivestite con tegole ardesiate piatte, che potrebbero utilmente essere sostituite con tegole fotovoltaiche, con un impatto paesaggistico sostanzialmente nullo e con una potenza nominale installata, su quasi 1000 mq di superficie coperta, di circa 150 Kw. Al fine di minimizzare gli impatti dell’intervento, in questa fase sperimentale, sono state individuate aree d’intervento già provviste di coperture, quali l’area del Germalus sul Palatino, l’area di Vigna Barberini e alcune tettoie di misura minore all’interno del Foro Romano. Gli interventi proposti, dunque, finanziati dal PNRR per complessivi 2,5 Milioni di Euro, sono destinati non solo all’ottenimento di vantaggi economici ed ecologici immediati e tangibili bensí a innescare, attraverso il Sistema di gestione dell’energia, un processo rigoroso di monitoraggio nel tempo dei consumi e d’inquadramento virtuoso degli interventi di efficientamento energetico. Nicola Saraceno

a r c h e o 11


n otiz iario

SCAVI Emilia-Romagna

VERSO IL SOLE NASCENTE

A

Mirandola (Modena), durante i lavori di scavo previsti nell’ambito del progetto di ripristino post-terremoto e riqualificazione del complesso architettonico dell’ex convento di S. Francesco è stata intercettata la porzione di un sepolcreto, databile con tutta probabilità al Basso Medioevo, cioè all’epoca compresa convenzionalmente fra il 1000 e la scoperta dell’America. La Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le provincie di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, in accordo col Comune di Mirandola, aveva già attivato nei mesi scorsi il controllo archeologico in corso d’opera sulle operazioni di scavo. Gli archeologi della ditta ArcheoModena stanno mettendo in luce alcune sepolture databili in base alle indagini preliminari fra il XIV e il XVI secolo, rinvenute all’esterno del chiostro dell’ex convento. Si tratta di inumazioni infantili e di adulti, deposte in fosse scavate nel terreno: organizzate su piú livelli sovrapposti, le sepolture risultano tutte disposte in senso canonico, col capo posto a ovest e

rivolto verso est, idealmente volto verso il sole nascente, verso cioè la rinascita cristiana nell’aldilà. La sepoltura piú recente invece ha orientamento nord-sud ed è costituita da due inumati, deposti contemporaneamente, con caratteristiche ossee differenti rispetto agli altri corpi deposti. I defunti sono stati inumati senza alcun elemento di corredo funebre, come di consueto per le sepolture di quest’epoca: il rito cristiano infatti prevedeva che il defunto dovesse presentarsi dinnanzi a Dio privo di qualunque In alto e in basso: due momenti dello scavo di un sepolcreto bassomedievale recentemente venuto alla luce a Mirandola (Modena).

12 a r c h e o

ornamento terreno. La stretta collaborazione tra archeologi e antropologi, attivata già durante la fase di scavo, consentirà un’analisi approfondita e interdisciplinare del contesto, permettendo in particolare di analizzare e determinare con modalità scientifiche alcune caratteristiche dei defunti, come il sesso, l’età della morte, gli stili di vita e le principali patologie di cui erano eventualmente stati affetti. L’edificio del convento di S. Francesco venne edificato nel corso del XIII secolo, annesso alla chiesa omonima, una delle prime chiese francescane costruite in Emilia dall’Ordine dei Frati minori, la cui prima attestazione a Mirandola è del 1287. Uno studio storico e architettonico sul complesso di S. Francesco è stato pubblicato nel 2016 da Maurizio Calzolari del gruppo studi della Bassa Modenese. Rispetto alle conoscenze fino a oggi in nostro possesso, le indagini archeologiche in corso rappresentano una novità importante e degna di uno studio approfondito. Carolina Ascari Raccagni



ALL’OMBRA DEL VULCANO a cura di Alessandro Mandolesi e Alessandra Randazzo

LA STORIA TRA I FILARI AUTORI COME PLINIO IL VECCHIO E COLUMELLA HANNO DESCRITTO CON DOVIZIA DI PARTICOLARI LE TECNICHE DI VITICOLTURA ADOTTATE DAI ROMANI. OGGI GLI SCAVI DI POMPEI NE HANNO DATO PUNTUALI CONFERME

O

ttobre è il mese della vendemmia anche a Pompei e allora facciamo un salto indietro nei secoli per parlare della città antica e della sua produzione vinaria. La vendemmia era infatti una delle attività piú remunerative dell’area vesuviana, terra fertile e famosa sin dall’antichità per le uve pregiate e particolarmente redditizie. Nell’economia della città, oltre al garum, uno dei prodotti alimentari largamente diffusi era proprio il vino. E quelli prodotti dalle viti coltivate alle pendici del Vesuvio, dove il terreno ricco di macro- e microelementi

14 a r c h e o

favoriva la qualità e l’abbondanza dei raccolti, erano particolarmente pregiati e richiesti. Anche il naturalista Plinio il Vecchio ricorda la bontà dei vini prodotti a Pompei e racconta che raggiungevano il massimo pregio nell’arco di 10 anni, anche se risultavano particolarmente pesanti, tanto da procurare terribili mal di testa. Una delle tipologie di vite era denominata Murgentina, perché proveniente dalla città siciliana di Morgantina: fu trapiantata a Pompei e, da quel momento in poi, ebbe uno sviluppo tale da mutare addirittura il nome in Pompeiana.

Un’altra, denominata Holconia e che poi si diffuse anche in Etruria, prendeva il nome dall’importante famiglia degli Holconi, celebri viticoltori di origine pompeiana vissuti in età augustea. Anche la fortuna di un’altra celebre famiglia pompeiana, gli Eumachi, dipendeva in buona parte dalla coltivazione della vite oltre che dell’olivo.

UVE E API Ultimo, non certo per importanza, era il Fiano, uno tra i principali vitigni a bacca bianca coltivati ancora oggi in Campania, le cui origini sono tuttora controverse. Una prima possibile origine è legata agli Apuani, popolazione ligure stanziata sulle Alpi Apuane che, opponendosi all’espansionismo romano all’epoca della seconda guerra punica, dapprima sconfisse l’esercito capitolino e poi venne da questo sopraffatta e, nel 180 a.C., trasferita in Campania. Gli Apuani, dunque, avrebbero introdotto il vitigno Apuano, nome modificato nel corso del tempo in Apiano e infine in Afiano e Fiano. Una seconda ipotesi vedrebbe l’origine del nome dal latino apis, perché quell’uva sarebbe stata prediletta dalle api per la sua dolcezza e proveniente da un vitigno portato nell’Italia


meridionale dai coloni greci. Secondo Plinio e Columella: «Le api hanno dato il nome a quelle uve, che si chiamano apiane, perché questi animali ne sono molto ghiotti. Di queste ve ne sono due sorti: perché l’una matura piú tosto, ma l’altra non indugia però molto. Il vino loro da principio è dolce, e poi con gli anni piglia il brusco, e diventa rosso, e ancora è certo, ch’egli si fa d’uva, che i greci chiamano Stica, e noi Apiana». La tecnica della viticoltura era particolarmente articolata, cosí come la disposizione delle viti che, sempre secondo Plinio il Vecchio, doveva seguire regole ben precise. I filari erano cosí sostenuti da pergole (vitis compluviata) e posti a una distanza regolare, a poco meno di un metro e mezzo l’uno dall’altro.

LE FAVE NELLA VIGNA L’archeologia a Pompei, oltre a restituire meravigliose strutture e monumenti, ha anche riportato alla luce, grazie agli studi condotti dal Laboratorio di ricerche Applicate del Parco Archeologico di Pompei, le radici di alcune viti, consentendo cosí di ricostruire la disposizione interna dei filari antichi. Gli scavi hanno permesso inoltre di identificare piante di legumi, in genere fave, piantate tra le viti, non solo perché arricchivano il raccolto, ma anche perché fornivano al terreno sali minerali fissatori di azoto. Dopo il raccolto e la pigiatura con i piedi, i grappoli venivano portati tramite ceste al torchio dove si cercava di ricavare, attraverso la spremitura con la pressa, una maggiore quantità di succo. Il prodotto veniva poi raccolto in una canaletta e condotto nella cella vinaria sottostante. Alla fine del processo, il liquido si conservava in dolia di terracotta che venivano disposti in file e in parte interrati per evitare che gli sbalzi di temperatura potessero danneggiarne la fermentazione del

mosto, come si può vedere anche oggi nel sito archeologico di Villa Regina a Boscoreale. Comunque, non bisogna pensare al vino antico e a quello pompeiano come a una bevanda simile a quella che tutti conosciamo e apprezziamo; consueta era l’aggiunta di altri prodotti che ne trasformavano il gusto, come aromi, miele, spezie. Analisi condotte di recente sui materiali organici trovati all’interno di anfore nel Termopolio della Regio V di Pompei, hanno identificato residui di frammenti di fave che secondo Apicio, nel suo De Re Coquinaria (I, 5), dovevano servire a modificare il colore e il gusto del vino. Il commercio del vino prodotto a Pompei andava ben oltre i confini della Campania. Trasportato in anfore, dotate di una parte terminale appuntita per facilitare l’inserimento nelle stive delle navi a file alternate, il vino della Campania e soprattutto quello di Pompei è arrivato sulle tavole dei diversi Paesi mediterranei e dell’Africa settentrionale e non solo, come attestano i numerosi bolli anforari ritrovati negli scavi archeologici. Grazie all’analisi di questi marchi e alla loro provenienza, infatti, nel corso degli anni è stato possibile ricostruire il commercio del vino nel mondo antico.

UNA VASTA DIFFUSIONE I prodotti agricoli dell’ager pompeianus erano diffusi grazie ai rapporti d’affari tra gli stessi viticoltori e i negotiatores, grandi commercianti che portavano i loro traffici in tutto il bacino del Mediterraneo e ben oltre i confini italici. Bolli di viticoltori pompeiani, per esempio, sono stati rintracciati su anfore da trasporto in Gallia meridionale; famoso è il caso di Porcio, forse il M. Porcio ricordato da alcune iscrizioni per essere stato uno dei finanziatori della costruzione dell’Anfiteatro e

La ricostruzione di una pressa (torcularium) per la spremitura dell’uva, con il tronco a testa d’ariete, nella Villa dei Misteri. Nella pagina accanto: il vigneto impiantato nella Regio I. dell’Odeion di Pompei, nonché grande affarista. Il commercio del vino di Porcio seguiva un percorso molto interessante perché dalla Campania arrivava a Narbona, per poi giungere a Tolosa e infine a Bordeaux. Il vino prodotto dagli Eumachi – della cui famiglia faceva parte anche la sacerdotessa Eumachia, celebre per aver fatto costruire il Portico della Concordia Augusta nel Foro di Pompei – raggiungeva invece le coste dell’Africa, in particolare Cartagine, dove sono stati ritrovati anche numerosi bolli anforari della stessa famiglia che, oltre a produrre vino, era celebre anche per la fabbricazione di anfore da trasporto, attività nella quale era impegnata anche un’altra famiglia pompeiana, quella dei Lassi. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

a r c h e o 15


n otiz iario

RESTITUZIONI USA-Italia

IL RITORNO DEL GRANDE AMMALIATORE

I

l magnifico gruppo scultoreo in terracotta raffigurante Orfeo e le Sirene che presentiamo in queste pagine è recentemente rientrato in Italia, a coronamento dell’Operazione «Orpheus», condotta in Italia e all’estero dai Carabinieri della Sezione Archeologia del Reparto Operativo del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC). Il gruppo raffigura Orfeo – il mitico cantore che, con la sua voce, poteva domare persino Cerbero, il feroce cane degli Inferi – e due Sirene, spaventosi esseri mitologici dalla voce cosí incantevole da far impazzire i marinai che passavano accanto a loro. Secondo il mito, Orfeo avrebbe sconfitto le Sirene durante il viaggio di ritorno degli Argonauti, nei pressi di un’isola della Sicilia o dell’Italia del Sud. Quella vittoria rappresenta simbolicamente il trionfo dell’armonia musicale, un concetto chiave del pensiero filosofico e politico pitagorico, particolarmente diffuso nelle città della Magna Grecia. L’opera è stata prodotta proprio in questo ambiente greco d’Occidente, piú precisamente in un atelier di Taranto, dove in effetti sarebbe stata scoperta. Proveniente forse da un monumento funerario o da un santuario, si data alla fine del IV secolo a.C. Mirata a contrastare il traffico illecito di beni archeologici di provenienza italiana in ambito internazionale, l’indagine che ha portato al recupero è stata sviluppata a piú riprese ed è stata avviata quando i militari hanno scoperto che un noto indiziato di reati contro il patrimonio culturale aveva messo in atto una serie di traffici di reperti archeologici, provento di scavo clandestino nella provincia di Taranto, avvalendosi di

16 a r c h e o


Sulle due pagine: immagini del gruppo in terracotta raffigurante Orfeo e le Sirene, opera attribuita a un atelier attivo a Taranto. IV sec. a.C. In particolare, la foto in alto, a destra, mostra il gruppo quando era ancora in esposizione presso il Paul Getty Museum di Malibu (Los Angeles), che lo aveva acquistato da un mediatore svizzero, dopo che le sculture erano state trafugate negli anni Settanta del Novecento da un sito archeologico del Tarantino.

un’organizzazione con propaggini internazionali. Nel corso delle attività investigative è stato possibile appurare che il noto trafficante aveva avuto un ruolo nelle vicende relative allo scavo clandestino e all’esportazione illecita del gruppo scultoreo denominato Orfeo e le Sirene, avvenuto negli anni Settanta. I reperti erano stati scavati e rinvenuti in frammenti presso un sito tarantino da alcuni tombaroli del posto, i quali li avevano ceduti a un noto ricettatore locale, con

a r c h e o 17


n otiz iario Altre due opere restituite all’Italia dal Getty Museum insieme al gruppo scultoreo di Orfeo e le Sirene. In alto, L’oracolo, un olio su tela del pittore Camillo Miola, detto Biacca, attivo fra la seconda metà del XIX e gli inizi del XX sec. In basso, la testa colossale pertinente alla statua di una divinità, scolpita in marmo di Carrara e databile al II sec. d.C. contatti con la criminalità organizzata. Questi, a sua volta, li aveva ceduti a un altro ricettatore, con contatti internazionali e titolare di una galleria d’arte in Svizzera. Le sculture, in frammenti, vennero affidate a un altro soggetto specializzato nel trasferire beni culturali all’estero, che ne effettuò il trasporto in Svizzera: qui un restauratore li ricompose e ridiede forma alle opere. Dopo un periodo di giacenza nel Paese elvetico, le sculture furono acquistate dal The Paul Getty Museum di Malibu (Los Angeles, USA), grazie all’intermediazione di un funzionario di una banca svizzera. Le informazioni condivise con l’Assistant District Attorney Matthew Bogdanos del District Attorney’s Office di Manhattan (DAO) e la stretta collaborazione instaurata con quell’ufficio e con lo

18 a r c h e o

Homeland Security Investigations hanno infine consentito il sequestro del gruppo scultoreo. Con Orfeo e le Sirene sono tornati a casa 142

oggetti recuperati negli Stati Uniti d’America. Si tratta di beni databili tra il 2500 a.C. e il VI secolo d.C. risalenti alle civiltà romana, etrusca, apula e magno-greca. Fino al prossimo 15 ottobre il gruppo è esposto nel Museo dell’Arte Salvata, da dove poi tornerà nella sua terra d’origine, per entrare a far parte della collezione permanente del Museo Archeologico di Taranto (MArTA). (red.)

DOVE E QUANDO Museo dell’Arte Salvata Roma, Aula Ottagona del Museo Nazionale Romano, via Giuseppe Romita 8 Orario martedí-domenica, 11,00-18,00; lunedí chiuso Info https://museonazionaleromano. beniculturali.it/



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

UN TRIANGOLO PER IL PAPA IN VISTA DELLA SUA RIQUALIFICAZIONE, IL CASTELLO DI GIULIO II A OSTIA È STATO OGGETTO DI UNA VASTA CAMPAGNA DI INDAGINI PRELIMINARI. CHE HANNO RIVELATO IMPORTANTI E INEDITI DETTAGLI SULLA STORIA DELLA PODEROSA STRUTTURA PROGETTATA DA BACCIO PONTELLI

D

efinito «uno dei piú notevoli esempi di architettura rinascimentale nel Lazio», il Castello di Giulio II è realizzato dall’architetto fiorentino Baccio Pontelli tra il 1483 e il 1486 per volontà del vescovo di Ostia Giuliano della Rovere che nel 1503 sale al soglio pontificio con il nome di Giulio II. Il Castello appartiene a un consistente gruppo di fortezze «di transizione» sorte nello stesso periodo in Italia centrale, quale evoluzione dei sistemi difensivi in risposta all’introduzione dell’artiglieria. Potenti e ricchi committenti si affidano ai migliori architetti del periodo per costruire nuove fortificazioni o «ammodernare» quelle già esistenti. In questo contesto Giuliano della Rovere incarica Baccio Pontelli del rinnovamento e potenziamento

20 a r c h e o

delle preesistenti fortificazioni ostiensi, poste a difesa delle saline circostanti e dell’ingresso a Roma attraverso il fiume Tevere.

TRA IL FIUME E IL BORGO Il maestro fiorentino applica le teorie piú avanzate del dibattito culturale dell’epoca sulle architetture militari, sviluppate nel trattato di Francesco di Giorgio Martini: l’imponente e antica torre fatta costruire da Martino V viene rinforzata con l’ispessimento delle mura e la realizzazione di un bastione poligonale, altre

costruzioni sono inglobate nel progetto, due nuovi bastioni circolari sono costruiti alti quanto la cortina cosí da formare un camminamento di ronda continuo, l’ingresso viene protetto da un rivellino e tutt’intorno viene costruito un fossato. La struttura cosí rinnovata presenta un’originale pianta triangolare incastonata tra un ramo del Tevere, che ne lambiva il fossato, e il piccolo borgo murato di Ostia antica. Il castello e il borgo rappresentano un unicum di rara bellezza e di notevole interesse


culturale insieme alla chiesa di S. Aurea, anch’essa opera di Baccio Pontelli, e all’episcopio. Appena nominato pontefice, Giulio II dà impulso a un’altra fase costruttiva, che si traduce nell’edificazione degli appartamenti papali, articolati su tre piani e collegati da una cordonata interamente affrescata. Gli spazi architettonici sono scanditi da una decorazione a grottesche: nei riquadri sono rappresentate le fatiche di Ercole – allusione alle imprese militari di papa della Rovere – mentre i busti classici richiamano gli uomini illustri dell’antichità. È possibile riferire a Baldassarre Peruzzi e Jacopo Ripanda l’ideazione della composizione, anche per le

stringenti similitudini con l’episcopio di Ostia antica e la Villa Farnesina a Roma dove l’artista senese lavorava in quegli anni; per l’esecuzione della decorazione tra la folta schiera di aiuti spiccano Cesare da Sesto e Michele da Imola.

RICERCHE E SCOPERTE Gli interventi di riqualificazione e valorizzazione del bene architettonico – attualmente in fase di progettazione – sono stati preceduti da un’articolata campagna di indagini conoscitive non invasive, realizzate attraverso lo studio delle fondazioni, delle murature portanti, delle tecniche e delle fasi costruttive. Per quanto riguarda queste ultime è interessante segnalare In alto: immagine normale e termografica di una parete del cortile interno del castello di Giulio II a Ostia antica. A sinistra: tracce di pittura sotto la formazione di licheni. Nella pagina accanto: il Castello e il borgo di Ostia antica.

l’individuazione di strutture voltate sconosciute, che meritano ulteriori approfondimenti. La campagna di studio ha interessato anche gli affreschi della cordonata e gli intonaci del cortile, sui quali sono state condotte indagini stratigrafiche e multispettrali finalizzate al riconoscimento dei materiali costitutivi, alla definizione delle stratigrafie esistenti, all’individuazione di eventuali tracce di decorazioni originali come nel caso delle cosiddette «logge borgiane» realizzate da Alessandro VI e inglobate da Giulio II in altra costruzione e oggi non chiaramente identificabili. Nel cortile, al di sotto di una consistente alterazione di tipo biologico dovuta a licheni, sono state ritrovate tracce di incisioni e pittura originali; sulla cordonata, sotto la tinteggiatura recente, sono state rinvenute tracce di colore sovrapposte riferibili a epoche e interventi diversi. Gli esiti di questi studi aiutano a operare scelte progettuali consapevoli e rispettose del castello al quale si restituisce un ruolo centrale attraverso l’allestimento al suo interno del museo del territorio, in grado di raccontare la storia del luogo e diversificare l’offerta culturale locale. Silvia Breccolotti e Tiziana Sorgoni

a r c h e o 21


n otiz iario

MUSEI Basilicata

TERRA D’INCONTRI E DI SCAMBI

I

stituito nel 2005 e ospitato nel settecentesco Palazzo Loffredo, il Museo Archeologico Nazionale di Potenza presenta al pubblico i risultati delle importanti ricerche condotte nella Basilicata centro-settentrionale e, al tempo stesso, costituisce la vetrina della complessa realtà archeologica di una regione che è stata luogo privilegiato dell’incontro tra genti di stirpe e cultura diversa. Intitolato a Dinu Adamesteanu (1913-2004), fondatore dell’archeologia lucana e primo dirigente della Soprintendenza Archeologica della Basilicata nel 1964, il contenitore museale si articola su due piani, secondo un criterio cronologico e territoriale, per offrire il quadro archeologico dell’intera regione, dalla fase precedente alla colonizzazione greca sino alla conquista romana, con un approfondimento sul territorio di Potenza. Il percorso si apre, nella prima sala, con uno spaccato sulle popolazioni

della Basilicata antica attraverso l’allestimento dei ritrovamenti della prima età del Ferro provenienti dall’Incoronata-San Teodoro di Pisticci e da Santa Maria d’Anglona di Tursi, dove, tra il IX e l’VIII secolo a.C., popolazioni indigene (ChonesEnotri) occupano le fertili pianure della costa ionica lucana. Di particolare rilievo sono i complessi ornamenti di bronzo e oro e le spade con fodero di bronzo decorato con sottili incisioni. Nel corso del VII secolo a.C. lungo la costa ionica vengono fondate due importanti colonie greche: Metaponto, tra le foci dei fiumi Bradano e Basento, e Siris, nei

pressi del corso d’acqua omonimo, alla quale fa seguito, nel 433 a.C., la fondazione di Herakleia. In particolare, da Metaponto proviene un raffinato copricapo cilindrico appartenuto a un’aristocratica sacerdotessa, una straordinaria opera di oreficeria tarantina databile alla fine del VI secolo a.C. Le aree interne delle valli dei fiumi Agri e Sinni erano invece occupate, a partire dal IX-VIII secolo a.C., da genti di stirpe enotria: la maggior parte delle informazioni su questa popolazione proviene dallo scavo delle necropoli, caratterizzate da tombe a fossa con il defunto deposto in posizione supina, come In alto: diadema in oro, da Vaglio, località Braida, tomba 102. Fine del VI-inizi del V sec. a.C. A sinistra: modellino fittile di casa, da Guardia Perticara, località San Vito, tomba 259. Prima metà del VI sec. a.C. Qui accanto: bardatura equina in bronzo, da Vaglio, località Braida. Fine del VI-inizi del V sec. a.C.

22 a r c h e o


FIRENZE

Tornano gli «Incontri al Museo»

testimoniano i reperti esposti rinvenuti ad Aliano e Chiaromonte. Di notevole interesse è la necropoli di Guardia Perticara, in località San Vito, dalla quale provengono alcuni

modellini in terracotta dipinti, simbolica rappresentazione delle abitazioni indigene. Complesse parures con ornamenti in ambra e metalli preziosi, appartenenti a In alto: parure con vaghi e pendenti figurati in ambra, da Vaglio. Fine del VI-inizi del V sec. a.C. A sinistra: copricapo in lamina d’argento dorato, da Metaponto, località Crucinia, tomba 238. Fine del VI sec. a.C.

Si è aperta la X edizione di «Incontri al Museo», appuntamento ormai consolidato proposto dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Fino al prossimo 8 giugno 2023, le conferenze si svolgono presso la sede del Museo, in piazza Santissima Annunziata 9b, con inizio alle 17,00. Ecco i prossimi appuntamenti: 13 ottobre, Il continuo brusio degli dèi: dialoghi sulla costruzione del paesaggio sacro romano (Fabio Giorgio Cavallero); 27 ottobre, Il sacrificio umano in Etruria (Laura Ambrosini); 10 novembre: Etruschi e Greci nella Valle del Po: rapporti commerciali e dialettica culturale (Giuseppe Sassatelli); 15 dicembre: I Bronzi di Riace a Firenze: storia di un’emozione collettiva (Mario Iozzo); 19 gennaio 2023, Gemme antiche come gioielli per le dame de’ Medici (Riccardo Gennaioli); 16 febbraio, Nel mondo dipinto degli Etruschi: le tombe di Tarquinia (Vincenzo Bellelli); 9 marzo, Spina. Gli Etruschi sull’Adriatico (Elisabetta Govi); 30 marzo, Ritratto di signora: la Vibia Sabina di Villa Adriana (Benedetta Adembri); 13 aprile, Il colore dell’incarnato e la rappresentazione della figura umana nelle tombe macedoni (Anna Maria D’Onofrio); 27 aprile, Le feste Carnee e i culti di Apollo a Sparta fra politica e religione (Nicola Nenci); 11 maggio, Il «Partenone neroniano»: realtà o mistificazione? (Adalberto Magnelli). Info: tel. 055-2357717 – 2357744 – 2357768 – 2357704; www.polomusealetoscana. beniculturali.it

a r c h e o 23


n otiz iario

donne indigene di rango elevato, provano l’esistenza di rapporti commerciali tra la Lucania, il Mediterraneo orientale e le regioni del Mar Baltico. Particolare attenzione è riservata al sito di Vaglio Basilicata, in località Braida, da cui provengono ricchi corredi funerari databili tra la fine del VI e la metà del V secolo a.C. Le raffinate armature dalle tombe dei guerrieri e i preziosi gioielli dalle tombe femminili confermano la presenza di una vera e propria élite indigena che deteneva il controllo sul territorio già in età arcaica. Nel museo sono esposti i due corredi piú importanti di questo periodo: Un grifone in bronzo (qui sotto) e una sfinge in terracotta provenienti dal palazzo arcaico di Torre di Satriano.

24 a r c h e o

quello detto del «re», caratterizzato dalla bardatura da parata di due cavalli, da uno scudo di bronzo di grandi dimensioni e da un servizio di vasi attici a figure rosse; e quello della «principessa bambina», una piccola fanciulla di soli 7 anni, che porta con sé nel viaggio nell’aldilà una ricca parure in oro, argento e ambra, da indossare il giorno delle nozze ancora non compiute. Servizi di vasi di bronzo di produzione greca ed etrusco-campana, unitamente allo strumentario da banchetto e a ceramiche da mensa di importazione greca, rimandano ai pasti comuni celebrati tra membri della stessa élite alla maniera degli aristocratici greci. Altrettanto significativo è il rinvenimento su un pianoro alle pendici settentrionali dell’altura di Torre di Satriano di un palazzo arcaico, distrutto probabilmente da un evento tellurico agli inizi del V secolo a.C. Il palazzo prende a modello la contemporanea architettura templare greca per la messa in opera di uno straordinario tetto fittile, di cui è proposta nel museo una ricostruzione realizzata dopo le indagini archeologiche. Di eccezionale rilievo è anche il rinvenimento di una porta di legno di abete con decorazioni di bronzo rinvenuta al suo interno. Verso la fine del V secolo a.C. grandi trasformazioni segnano i territori dell’Italia meridionale: gruppi di stirpe osco-sannita provenienti dall’area centro-italica, i Lucani, occupano le città greche di Poseidonia e Cuma, in Campania, quindi, con ondate successive, prendono il controllo della parte interna della Basilicata: nasce cosí, nel corso del IV secolo a.C., quella che le fonti antiche denominano la «Grande Lucania», divisa, dopo il 356 a.C., in Lucania e Bruttium.

In costante conflitto con le colonie greche, i Lucani organizzano il proprio territorio con un sistema di insediamenti fortificati di altura e una fitta rete di fattorie lungo le vallate fluviali. A epoca lucana risale la realizzazione dell’area sacra di Rossano di Vaglio, parzialmente ricostruita nel museo. Ubicato in prossimità di una sorgente e dedicata alla dea osca Mefite, si trattava di un santuario federale frequentato da tutte le genti lucane a partite dal IV secolo a.C.: lamine sbalzate, frammenti di statue in bronzo, gioielli in oro e argento, statue di marmo e in terracotta costituiscono gli ex voto piú preziosi, esposti nel museo con un allestimento particolarmente suggestivo. Alla fine del IV secolo a.C. i Romani conquistano gran parte della regione: la fondazione delle colonie di Venusia e Grumentum ne sancisce il controllo militare e politico. Nella nuova organizzazione del territorio e fino al III-IV secolo d.C. le ville, residenze di senatori e di ricchi proprietari terrieri, acquistano un particolare rilievo: a titolo esemplificativo è stato ricostruito in una sala del museo un ninfeo con pavimento a mosaico rinvenuto a Cugno dei Vagni (oggi Nova Siri). Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale della Basilicata «Dinu Adamesteanu» Potenza, Palazzo Loffredo Orario ma-do, 9,00-20,00; chiuso il lunedí Info tel. 0971 21719; e-mail: drm-bas.museopotenza@cultura. gov.it; museodinuadamesteanu. beniculturali.it



A TUTTO CAMPO Marco Valenti

COME SMONTARE (E RICOSTRUIRE!) UNA COLLINA INDAGATO PER UN QUINDICENNIO, IL CASTELLO DI MIRANDUOLO HA RESTITUITO DATI PREZIOSI PER RICOSTRUIRE LA STORIA DELL’INSEDIAMENTO RURALE IN TOSCANA DAL VII AL XIV SECOLO: UN LUNGO ORIZZONTE, COMPRESO TRA IL REGNO LONGOBARDO E LA CRISI DEL TRECENTO

N

el Comune di Chiusdino (Siena) si trovano vari siti archeologici di età medievale, tra i quali Costa Castagnoli, posto a 390 m slm, poco distante dall’imponente abbazia cistercense di S. Galgano. Qui sorgeva il castello di Miranduolo dei conti Gherardeschi, noto a partire dall’anno 1004. Le indagini condotte dall’Università di Siena dal 2001 al 2016 hanno permesso di ricostruire una storia insediativa iniziata molto prima del Mille

e durata otto secoli. L’impegno della ricerca è stato imponente: 17 campagne di scavo con oltre 700 giorni di lavoro e centinaia di persone coinvolte, per un totale di 5125,29 mq scavati, 4096,97 dei quali nell’area occupata dal castello, studiato per il 95,48% della sua estensione. Caratterizzata dalla presenza di giacimenti metalliferi, l’area ospita nel VII secolo una «fabbrica», frequentata da una trentina di persone dedite alla produzione di

A sinistra: la collina di Costa Castagnoli (Chiusdino, Siena), al termine degli scavi nel 2017. A destra: l’area sommitale del castello di Miranduolo: l’immagine permette di cogliere la complessità cronologica

26 a r c h e o

ferro grezzo: vi sono state individuate due zone, una di estrazione e l’altra di prima lavorazione del minerale, con capanne seminterrate e a pianta quadrangolare o ellittica. La collina era evidentemente un sito pubblico, che doveva far parte dei beni regi convergenti sulla città di Volterra al tempo dei re longobardi Agilulfo (591-616 d.C.) e Cuniperto (660-700 d.C.). Nel corso dell’VIII secolo il sito si trasforma in insediamento agricolo,

dei depositi messi in luce dalle indagini archeologiche: 1. fosse granarie dell’VIII sec.; 2. buche di palo della palizzata del IX sec.; 3. fossato del IX sec.; 4. mura di cinta del XII sec.; 5. crolli del palazzo del XIII sec.


organizzato e strutturato su tre fasce sociali, come dimostrano le tracce emerse dal terreno. Al vertice erano due grandi nuclei recintati con palizzate (uno dei quali con chiesa in legno ad abside semicircolare), contenenti decine di silos, fosse granarie e magazzini alimentari. Accanto ai depositi sorgevano due abitazioni, delle quali una con laboratorio di fabbro, occupate da famiglie strettamente legate a questi complessi piú estesi. Piú in basso l’abitato accoglieva le semplici capanne dei contadini.

IL RECINTO E I FOSSATI Un’ulteriore trasformazione si osserva a partire dal IX secolo, quando il dualismo potere ecclesiastico-potere laico vede prevalere il secondo, con conseguente inclusione della collina nel patrimonio di un’unica famiglia, che lo rende una sorta di villaggio-azienda. La sommità del sito viene perciò recintata con una palizzata e distaccata fisicamente dal resto dell’abitato da due fossati: vi si edificano una grande capanna residenziale, un paio di capanne occupate da dipendenti e alcuni magazzini, e il sito accoglie artigiani, tra cui un fabbro, mentre la preesistente chiesa in legno viene dotata di un’abside rettangolare. Un’ulteriore palizzata, riconoscibile per lunghi tratti, difendeva anche gli spazi destinati alle case contadine. In questa fase il luogo poteva accogliere fino a circa cento persone. Dalla metà del X secolo vengono introdotte nuove tecniche edilizie, con muri in terra e scheletro in legno, impostati su fondazioni in pietra. Pur con una nuova veste edilizia, la sommità continua a essere il centro dell’insediamento e il luogo di raccolta del surplus produttivo: vengono quindi rinnovate le difese, la residenza principale e molti edifici adibiti a magazzino. Miranduolo è ora un

A destra: riscostruzione parziale del castello di Miranduolo, cosí come doveva presentarsi tra il XII e il XIII sec. In basso: ricostruzione dell’area sommitale tra il IX e il X sec.

castello con il suo borgo, ma ospita una comunità piú ridotta, tornata ai livelli dell’VIII secolo. Intorno alla prima metà dell’XI secolo, una generale riprogettazione porta alla ricostruzione integrale in pietra, racchiudendo tutta la collina all’interno della nuova cinta muraria: la sommità si trasforma in una sorta di cassero con ampio palazzo piuttosto alto, affiancato da una torre e da una cisterna; sul versante settentrionale sorge una seconda torre e viene aperta la porta principale; la chiesa è interamente ricostruita e pavimentata con pezzame di pietra, mentre all’esterno si sviluppa l’area cimiteriale.

SOTTO ASSEDIO Agli inizi del XII secolo viene avviato un progetto di monumentalizzazione dell’intera area, grazie al quale il castello raggiunge la sua massima espansione; proprio in quegli anni i contrasti e le rivalità tra i conti Gherardeschi e il vescovo di Volterra portano a un pesante assedio, che causa gravi danni alle strutture. Nello spazio di alcuni decenni gli scenari politici cambiano con l’ingresso di Siena, alleata dei Gherardeschi, la cui ingerenza sul territorio era andata aumentando; a Miranduolo ha inizio una nuova stagione edilizia,

in cui la presenza senese si manifesta nel progetto di un’area edificabile delle stesse dimensioni del palazzo signorile, progetto che si interrompe quando gli interessi della casata si spostano sulla costa. Già dal 1255, definito castellare, il sito viene acquistato da una famiglia di Montieri, i Cantoni, che avviano grandi opere di trasformazione, interrotti dopo circa 50 anni: di lí a poco la collina sarà abbandonata in modo definitivo. Quella di Miranduolo è insomma una storia di potere e delle sue lunghe mutazioni, cosí articolata da rappresentare un campione di eccezionale valore: considerando le dimensioni estese dello scavo e l’elevato stato di conservazione dei depositi si propone, infatti, come un contesto al quale guardare con particolare interesse per la ricostruzione del quadro storico e delle vicende delle campagne toscane tra l’Alto e il Basso Medioevo. (marco.valenti@unisi.it)

a r c h e o 27


n otiz iario

MOSTRE Reggio Calabria

GLI EROI IN POSA

P

oco piú di cinquant’anni fa, il 16 agosto del 1972, il sub romano Stefano Mariottini si rese protagonista di una delle piú clamorose scoperte archeologiche di tutti i tempi: nel corso di un’immersione nelle acque di Riace Marina, in Calabria, ritrovò due magnifiche statue in bronzo, poi riconosciute come originali greci della metà del V secolo a.C., e ora universalmente note come Bronzi di Riace. L’anniversario della scoperta è stato festeggiato con numerose iniziative e ai lettori di «Archeo» – oltre a raccomandare l’acquisto della nuova Monografia dedicata alla storia antica e moderna degli «eroi venuti dal mare» (che presentiamo alle pp. 32-33) – segnaliamo volentieri

la mostra allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, che offre l’opportunità di mettere a confronto gli originali dei Bronzi con le immagini realizzate dal fotografo Luigi Spina. Come ha dichiarato Carmelo Malacrino, direttore del museo reggino, «Questa esposizione, nata in collaborazione con il noto fotografo d’arte Luigi Spina, è un tributo alla bellezza e alla potenza iconografica dei Bronzi di Riace, capolavori indiscussi dell’arte greca del V secolo a.C. Alla mostra, visitabile fino al prossimo 23 ottobre, si accompagna un prezioso catalogo, nel quale le immagini di Spina affiancano una narrazione storica e artistica sulle due statue,

28 a r c h e o


Sulle due pagine: immagini dei Bronzi di Riace, identificati come opere originali greche databili alla metà del V sec. a.C. e oggi conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Nella pagina accanto, la statua denominata A e, in questa pagina, la statua B.

che ho avuto il piacere di redigere insieme a Riccardo Di Cesare, archeologo e docente presso l’Università di Foggia. Una narrazione che immerge il lettore nella storia suggestiva dei Bronzi, tra verità scientifiche e domande rimaste ancora aperte». Sedici fotografie di grande formato propongono un dialogo visivo fra le due sculture. La sequenza di otto piú otto fotografie, dedicate rispettivamente alla statua A e alla statua B, mette in evidenza un lento movimento che, seppur incessante, crea pause e ritmo. Spiega Luigi Spina: «L’epidermide bronzea, diversa per ciascun soggetto, prende forma, densità e lucentezza, e il chiaroscurale dei corpi si tinge

dello spettro multiforme del bronzo che, al variare della luce, mostra superfici corporee che dialogano con l’occhio dell’osservatore». (red.)

DOVE E QUANDO «I Bronzi di Riace» Mostra fotografica di Luigi Spina Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale fino al 23 ottobre Info www.museoarcheologico reggiocalabria.it; www.fivecontinentseditions.com

a r c h e o 29


n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SPLENDORI PRECOLOMBIANI La mostra in corso al MUDEC-Museo delle Culture di Milano alla quale è dedicato lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 82-103) è l’occasione per un viaggio nella civiltà degli Inca, dalle origini fino alla sua massima espressione, la cittadella di Machu Picchu. L’allestimento permette di «vivere» la storia di questo popolo, tra il reale – ammirando dal vivo oltre 170 reperti tra gioielli, ceramiche, manufatti – e il virtuale, immergendosi in suggestive ricostruzioni della realtà andina. Come sempre, seguiamo il medesimo percorso della mostra, che parte proprio dalla fine, Machu Picchu, con il primo francobollo al mondo che raffigura la città imperiale, stampato nel 1949, ma non emesso (1); fu successivamente sovrastampato e quindi emesso nel 1951. Anche il secondo francobollo non è mai stato presentato nelle precedenti puntate «peruviane» di questa rubrica, pubblicate nel 2010 e 2011: si tratta del Tempio delle Tre Finestre (2) in una prospettiva insolita. La visita continua tra manufatti e monili provenienti delle varie civiltà succedutesi nel tempo, dalla piú antica, la preincaica Chavín, risalente al 1200 a.C., famosa per le tante ceramiche (3) e le sculture enormi come il Lazon, l’idolo del tempio che rappresentava la divinità principale (4), e piú piccole come le tante cabeza clava (5) che proteggevano le mura dello stesso tempio. Tra le civiltà successive importante è quella di Nazca, particolarmente famosa ancora per le ceramiche (6-7), per finire alla civiltà dei Moche e dei Chimu loro discendenti. Quest’ultima è quella che raggiunse i piú alti livelli di organizzazione e prosperità; testimonianza ne sono gli ori (8-9-10; nell’ultimo figurano manufatti in mostra a Milano), le ceramiche (11-12), i palazzi come quello della cittadella di Chan-Chan (13) e i templi come quello del Sole e della Luna (14). Un settore a sé, perché riguarda un elemento che ha accomunato tutte le civiltà susseguitesi nei secoli, è quello delle maschere d’oro o ceramica che hanno simboleggiato le numerose divinità degli Inca (15-16-17; l’ultimo francobollo è presentato in coppia con una varietà di dentellatura). Per finire, anche una delle cerimonie religiose piú importanti per questo popolo, l’Inti Raymi cioè la Festa del Sole, è stata piú volte ricordata filatelicamente, con annulli e francobolli tra i quali mostriamo l’ultimo, emesso nel 1998 (18).

30 a r c h e o

2 1

3

5

6

4

8 9 7

12 10

11

15 13

16

14

17 18

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it







SU ARC BA HEO CQ LOG UE IA A

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

I BRONZI DI RIACE

MERAVIGLIE DAL MEDITERRANEO a cura di Luigi Fozzati e Alessandra Ghelli


Il volto del Bronzo di Riace denominato B. Metà del V sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.

16

agosto 1972. Un chimico romano con la passione per la pesca subacquea, Stefano Mariottini, si tuffa nelle acque antistanti Riace Marina. Nuotando con l’occhio attento per scorgere possibili prede, vede, semisepolto dalla sabbia, «qualcosa che – come dichiarerà nel verbale redatto dai Carabinieri – somigliava vagamente a un gomito e braccio umano». Attirato dalla scoperta, smuove la sabbia e scopre una grande statua adagiata sul fondale; e non gli ci vuole molto per individuarne un’altra, a non molta distanza dalla prima… È l’inizio di una delle piú straordinarie avventure archeologiche di sempre: il recupero dei Bronzi di Riace, opere di splendida fattura, che oggi sappiamo essere originali greci della metà del V secolo a.C. e che fanno bella mostra di sé nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. A cinquant’anni dall’evento, la nuova Monografia di «Archeo» ripercorre l’intera vicenda, ma non solo, affiancando alla storia – antica e moderna – degli «eroi venuti dal mare», una rassegna delle piú importanti scoperte compiute nei mari e nelle acque interne della Penisola nell’arco di oltre cinque secoli. Una lunga e affascinante «immersione» nel mondo dell’archeologia subacquea, corredata da un apparato iconografico particolarmente ricco e spettacolare.

GLI ARGOMENTI

in edicola

• L’ARCHEOLOGIA SUBACQUEA IN ITALIA • I L MUSEO ARCHEOLOGICO DI REGGIO CALABRIA • LA STORIA DELLA SCOPERTA • L ’IDENTIFICAZIONE DEI BRONZI DI RIACE • UNA STATUA BRONZEA DA ARGO • FILMARE LA STORIA • CINQUECENTO ANNI DI RITROVAMENTI E DI STUDI: DA GENOVA AL FIUME PO

a r c h e o 37


CALENDARIO

Italia ROMA Vulci: il patrimonio disperso e ritrovato Dalle ricerche ottocentesche al digitale «Sapienza» Università di Roma, Museo di Antichità Etrusche e Italiche fino al 26.11.22

Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.01.23

FOGGIA Arpi riemersa

Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22

MASSA MARITTIMA(GROSSETO) Gli ultimi Re di Vulci L’aristocrazia etrusca vulcente alle soglie della conquista romana Museo Archeologico «G. Camporeale» fino al 01.11.22

Domiziano Imperatore

Odio e amore Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.01.23

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro

Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23

BARUMINI (SU) Al di là del Mare

Etruria e Sardegna in mille anni di storia Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «G. Lilliu»-Area archeologica «Su Nuraxi» fino al 31.12.22

MILANO Il suono oltre l’immagine La decifrazione dei geroglifici Civico Museo Archeologico fino all’08.01.23

BOLOGNA I Pittori di Pompei

Museo Civico Archeologico fino al 19.03.2023

L’Orante

(…nel tuo nome alzerò le mie mani…) Museo di Sant’Eustorgio e della Cappella Portinari fino al 15.01.23 (dal 13.10.22)

Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú Mudec-Museo delle Culture fino al 19.02.23

COMACCHIO Spina 100

Dal mito alla scoperta Galleria d’Arte di Palazzo Bellini fino al 16.10.22 38 a r c h e o

OSTIA ANTICA (ROMA) Chi è di scena!

Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022) Parco archeologico di Ostia antica fino al 30.10.22


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

POMPEI Arte e sensualità nelle case di Pompei Palestra Grande fino al 15.01.23

VETULONIA (GROSSETO) A tempo di danza

In Armonia, Grazia e Bellezza Museo Civico Archeologico di Vetulonia fino al 06.11.22

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon

Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

Francia SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo PORTICI (NAPOLI) Materia

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.10.23

REGGIO CALABRIA I Bronzi di Riace

Fotografie di Luigi Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 23.10.22

TORINO Champollion a Torino

Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino al 30.10.22

TREMEZZINA (COMO) Canova, novello Fidia Villa Carlotta fino all’11.12.22

TRENTO Lascaux Experience

La grotta dei racconti perduti MUSE-Museo delle Scienze fino all’08.01.23

«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23 (dal 22.10.22)

Germania BERLINO I mondi di Schliemann

La sua vita, le sue scoperte, la sua eredità Staatliche Museen (James-Simon-Galerie e Neues Museum) fino al 06.11.22

Regno Unito SUTTON HOO Spade reali Il tesoro dello Staffordshire a Sutton Hoo Exhibition Hall fino al 30.10.22

LONDRA Geroglifici

L’antico Egitto rivelato British Museum Particolare di un fino al 19.02.23 Libro dei Morti.

USA NEW YORK Chroma

La scultura antica a colori The Metroplitan Museum of Art fino al 26.03.23 a r c h e o 39


SCAVI • PERÚ

UNA PIRAMIDE FRA I GIGANTI SITUATO A OLTRE DUEMILA METRI DI QUOTA FRA LE CIME MAESTOSE DELLE ANDE, IL SITO PERUVIANO DI TUMSHUKAYKO È OGGETTO DELLE RICERCHE DELLA MISSIONE ARCHEOLOGICA INTITOLATA AL NATURALISTA MILANESE ANTONIO RAIMONDI. UN’IMPRESA AVVENTUROSA, AVVIATA GRAZIE ANCHE ALL’ATTIVA PARTECIPAZIONE DELLA POPOLAZIONE LOCALE, DA SEMPRE CUSTODE ATTENTA DEL PROPRIO PATRIMONIO STORICO… di Carolina Orsini ed Elisa Benozzi

N

egli anni Sessanta dell’Ottocento, quando l’esploratore e naturalista milanese Antonio Raimondi (vedi box a p. 45) raggiunse Caraz, nelle Ande peruviane, non mancò di notare la presenza di alcune grandi rovine che domi-

40 a r c h e o

navano il paesaggio. A distanza di quasi duecento anni, il sito archeologico di Tumshukayko – oggi circondato dalle costruzioni della cittadina moderna – continua a impressionare i viaggiatori che da qui partono per le escursioni di andinismo

in una delle zone piú affascinanti delle Cordigliera Bianca peruviana. Il sito è, non a caso, uno splendido balcone per osservare i «giganti» bianchi delle Ande: il Huascarán (la seconda montagna piú alta dell’America Latina), il Pisco, il Huandoy.


Tumshukayko è il piú esteso e meglio conservato sito archeologico della zona, frequentato per diversi millenni a partire dal 3000 a.C. e oggi in buona parte visitabile. La nostra prima visita al sito risale al 2012: l’occasione era quella di approfondire la conoscenza di un’area chiave per lo sviluppo delle antiche civiltà complesse, come, appunto, quella sviluppatasi nell’area di Caraz, limitrofa alle valli di Chacas e di Huari, nelle quali lavoravamo sin dal 1999, nell’ambito di una missione archeologica sostenuta dal Ministero degli Affari Esteri. In piena pandemia, nell’ottobre del 2020, abbiamo iniziato a progettare una ricerca di medio termine nella zona: l’obiettivo era quello di effettuare lavori sistematici, che comprendessero il sito «madre» di Tumshukayko e una prospezione nelle aree attigue. La prima campagna, con operazioni di ricognizione e di topografia, è stata effettuata nell’ottobre del 2021, mentre gli scavi veri e

propri hanno avuto inizio nello vanta, però, un’archeologa peruviana, Clide Valladolid, sfida scorso mese di giugno. la sorte e inizia le ricerche a Tumshukayko, ma deve interLE PRIME RICERCHE Grazie alla sua posizione geo- romperle quasi subito per mangrafica, in un corridoio natura- canza di fondi e per l’aggravarle di comunicazione tra la co- si della situazione locale. sta, l’area andina e la selva Le sue indagini saranno ripreamazzonica, con un clima mite se da lí a poco da uno dei suoi tutto l’anno e abbondanti ri- assistenti di scavo, non un arsorse idriche, la zona di Caraz cheologo ma un appassionato è stata abitata sin dal Paleoa- locale, Mariano Araya, il quale, coinvolgendo una quantità mericano (15 000 a.C.). Qui, nella vicina grotta del impressionante di volontari, Guitarrero, una missione statu- effettua uno sterro alla ricerca nitense scoprí, alla fine degli delle principali strutture muanni Settanta del Novecento, le rarie, lungo le quali si inizia a sementi domesticate piú anti- definire il percorso turistico che mai trovate sul continente che attualmente si snoda lun(8000 a.C.). In quegli anni furo- go le rovine. Si tratta di uno no avviate altre missioni inter- degli scavi «spontanei» piú lonnazionali che avevano lo scopo gevi e sistematici della storia di ampliare le ricerche sulle del continente americano, che fasi piú antiche delle civiltà an- ha lasciato un’impressione prodine, ma il clima di violenze fonda in tutta la popolazione. che caratterizzò la vita politica In Perú è il tempo delle rivendel Perú fra gli anni Ottanta e dicazioni indigeniste cominNovanta, causò l’interruzione ciate all’inizio del XX secolo, e di tutte le attività, fino alla se- il revival del passato preispaniconda metà dell’ultimo decen- co è piú che mai in voga. Eppure, i lavori vengono interrotnio del secolo scorso. Agli inizi degli stessi anni No- ti dalla locale soprintendenza

Tumshukayko (Caraz, Perú). Abitanti del luogo si riuniscono nell’area del sito archeologico per la cerimonia di consacrazione della ñusta, «principessa» nell’antica lingua quechua, che in questa festa folklorica incarna la tradizione preispanica.


SCAVI • PERÚ

dopo ben due anni di scavi. I successivi tentativi di ricerca nel sito, nei primi anni del nuovo millennio, questa volta portati avanti dall’Università San Marcos di Lima, vengono accolti male dalla popolazione, per la mancata valorizzazione del pregresso e per il fatto che gli scavi si svolgono senza nessun tentativo di coinvolgimento della comunità locale e di quelle famiglie che, per povertà e per difendersi dalle alluvioni (l’area archeologica è sopraelevata), avevano costruito abusivamente nel sito sin dagli anni Settanta. Da allora nessun’altra missione ha piú tentato l’impresa. Le nostre ricerche a Tumshukayko pongono dunque una doppia sfida: cercare di comprendere uno dei siti piú In alto: vista da drone del satellite B, una delle strutture individuate intorno al monticolo artificiale principale di Tumshukayko. A destra, sulle due pagine: veduta aerea del monticolo artificiale principale. In basso: cartina del Perú con, in evidenza, il sito di Tumshukayko.

Colombia

Ecuador

Cu rar ay

Put uma yo

i azzon lle Am e d Rio

Iquitos

Yunmaguas

Piura

Chiclayo Trujillo

Brasile Juruà

Pucallpa

Tumshukayko Chimbote

Oceano Pacifico

r a e l i yali a i g Uc r d C o

n año Mar

Uc ay ali

Pastas a

Tumbes

Huaraz

Perú

Caral

Purus

d

complessi ed estesi della Cordigliera andina e farlo in co-progettazione con le 13 famiglie che oggi abitano il sito: l’ultima occupazione su una traiettoria che dura da 5000 anni.

Huancayo

e Cuzco

A

Pisco Ica

n

Paracas

l

Machu Picchu

l

Ayacucho

e

Lima

Arequipa Matarani

N 0

42 a r c h e o

360 Km

d e

Nazca

Ilo Tacna

Bolivia

OBIETTIVI DEL PROGETTO Scopo del nostro progetto è lo studio della nascita e delle prime fasi dell’architettura monumentale nelle Ande. Le costruzioni monumentali hanno sempre attratto gli


a r c h e o 43


SCAVI • PERÚ

L’INIZIO DELLA MONUMENTALITÀ NELLE ANDE Con la scoperta del sito di Caral, negli anni Novanta del secolo scorso, nella valle del Supe (a nord di Lima), il Perú non è stato piú solo noto per le ardite architetture di pietra a incastri degli Inca. Nell’arida costa desertica del Paese, soprattutto nel cosiddetto Norte chico, si sono succeduti numerosi progetti di scavo che hanno svelato la presenza di enormi complessi, solitamente ubicati in zone di contatto tra le vallate a vocazione agricola e le pescose coste, costruiti e mantenuti da una popolazione crescente governata da élite politicoreligiose. In questa tappa (3000 a.C.) non si conosce la ceramica, e sono ancora poco note le usanze funerarie: i complessi sono piramidi dedicate al culto di una religione di matrice sciamanica, realizzati attraverso cerimonie in cui si bruciavano offerte di prodotti locali ed esotici, frutto di commerci a lunga distanza. Caral arrivò a occupare 66 ettari, comprendenti, nel suo periodo di massima espansione (2400-2200 a.C.), 32

44 a r c h e o

strutture pubbliche e diversi complessi residenziali, e un’area periferica, con complessi abitativi. Ma come si viveva a Caral? Come è arrivata la popolazione a costruire un sito cosí imponente? Secondo la scopritrice del sito, l’archeologa peruviana Ruth Shady, grazie a un’economia simbiotica dei siti della costa rispetto a quelli, come Caral, delle valli. Gli abitanti della costa pescavano e raccoglievano varie specie marine, principalmente acciughe e cozze. I contadini delle valli producevano cotone, mate (un tipo di zucca da cui si ricavano contenitori), e ancora fagioli, patate dolci, zucchine e peperoncino. Le popolazioni rafforzavano le loro capacità produttive con lo scambio: i pescatori avevano reti di cotone e gli agricoltori completavano la loro dieta consumando specie marine. La posizione centrale del territorio di Caral e la breve distanza dalla costa ne favorí la crescita e il sito divenne il centro catalizzatore di un ampio territorio.


archeologi: offrono molteplici possibilità di ricerca e di indagine sulla capacità organizzativa di una società in termini di risorse e organizzazione del lavoro, e quindi di stratificazione sociale. Intorno al 3000 a.C., gli uomini e le donne iniziano a costruire grandi complessi, a modificare in modo significativo il paesaggio, plasmare l’arte e creare organizzazioni socio-culturali. L’origine della complessità sociale e il suo legame con la monumentalità nelle Ande è stata oggetto di un lungo dibattito. Con la scoperta dei grandi centri cerimoniali della costa a nord di Lima, si è iniziato a paragonare le società andine con quelle dell’Egitto e della Mesopotamia. Se da vent’anni si parla di protourbanismo per il periodo conosciuto come Formativo Iniziale (3000/4000 a.C.) nell’area costiera, altrettanto non può dirsi per la zona montana, in particolare per quella in cui si svolge il nostro progetto, che ospita siti altrettanto monumentali e di grande antichità. Ma da dove nasce questa architettura monumentale nella sierra che è molto ben formalizzata e ha canoni estetici ben definiti? Come venivano costruiti i grandi monticelli artificiali che la caratterizzano e con quale scopo? E poi, che tipo di economia, religione e stratificazione sociale avevano queste popolazioni? Quali rapporti di corta e lunga distanza intrattenevano con i loro vicini della costa, della sierra e della zona amazzonica piú a est? Sono queste alcune delle domande a cui speriamo di rispondere, proprio grazie al nostro progetto.

UN SITO COMPLESSO Tumshukayko è il piú imponente sito monumentale del Formativo Iniziale della zona della sierra peruviana centro-settentrionale. La posizione del complesso è particolarmente significativa: al centro del cosiddetto Callejón de Huaylas,

LA «SCOPERTA» DELL’ARCHEOLOGIA DEL PERÚ Il 28 luglio 1850 giunge al porto peruviano di Callao un giovane naturalista ed esule politico milanese, Antonio Raimondi (1824-1890). Spinto dalla sete di esplorazione e deluso dal fallimento dei moti risorgimentali, a cui aveva preso parte, il giovane si stabilisce a Lima e, dopo soli tre anni, viene incaricato dal governo peruviano di partecipare a una missione di studio volta ad analizzare i giacimenti di salnitro della regione di Tarapacá, nel Sud del Paese. La missione durò fino ai primi mesi del 1854 e Raimondi ne approfittò per effettuare esplorazioni che andavano oltre il suo incarico: scoprí miniere e catalogò minerali ancora sconosciuti, raccolse informazioni geografiche, mineralogiche, botaniche, e studiò le mummie delle antiche culture precolombiane nei deserti del Perú meridionale. A questo viaggio ne seguirono molti altri: Raimondi realizzò la piú sistematica esplorazione dell’enorme territorio peruviano mai effettuata, con una vera e propria mappatura delle risorse del Paese. Forte dei 45 000 chilometri percorsi a piedi, a cavallo, in canoa, in battello, lo studioso raccolse migliaia di esemplari botanici, di fossili, di campioni minerali, di reperti archeologici ed etnografici, di ossa umane e lasciò ben 195 taccuini di viaggio. A lui si devono la prima ubicazione in

un’ampia vallata che corre parallela alle Ande, e dalla quale partono diversi cammini che la collegano alla costa. Il sito si trova tra due fiumi: il Llullán, che nasce dalla laguna Parón, alimentato direttamente dal sistema glaciale della Cordigliera Bianca, e il

mappa del sito di Machu Picchu e la prima cartografia completa del Paese, frutto di una precoce metodologia di approccio globale allo studio del territorio, visto come frutto della trasformazione antropica che continua a perpetrarsi nel presente, anche quando, nell’attualità, il ricercatore lo ripercorre per registrare i dati sul campo. In alto: l’esploratore e naturalista Antonio Raimondi (1824-1890). Nella pagina accanto: il sito di Caral, nella valle del Supe. L’insediamento arrivò a occupare una superficie di oltre 60 ettari, con numerosi complessi pubblici e aree residenziali. a r c h e o 45


SCAVI • PERÚ

grande Santa, il piú importante fiume che scorre a ovest della Cordigliera andina e sfocia nell’Oceano Pacifico.Tumshukayko è formato da una piramide tronca principale e da alcune strutture che la circondano, dominando ampi territori agricoli (oggi in parte urbanizzati) sfruttati già allora in maniera intensiva grazie alla costruzione di numerosi canali di irrigazioni, alcuni dei quali di antichissima origine. Il monticolo artificiale principale, esteso per circa 2 ettari e alto 50 m, non è una struttura unica, bensí l’insieme di varie piattaforme sovrapposte, rimodellate durante il tempo, a pianta quadrangolare con gli angoli arrotondati. I muri, alcuni dei quali conservati per diversi me46 a r c h e o

I PROTAGONISTI DELLA RICERCA La ricerca, diretta da chi scrive (Carolina Orsini con Elisa Benozzi) per la parte italiana e da José Samuel Queravalú Ulloa per la parte peruviana, è sostenuta dal Mudec-Museo delle Culture di Milano (nell’ambito di quelle dedicate al «padre» delle raccolte del museo, Antonio Raimondi), dal Ministero degli Affari Esteri, dall’Università IULM, dall’Università di Modena e Reggio Emilia (Francesco Mancini e Paolo Rossi), dal Municipio di Caraz e si svolge in collaborazione con l’associazione locale Caraz Cultura (ACCU), costituita da cittadini che da molti anni cercano di promuovere l’area archeologica di Tumshukayko. Molte sono le collaborazioni istituzionali: con il laboratorio di Archeometria dell’Università degli Studi di Milano Bicocca per la diagnostica e per la parte di educazione al patrimonio (Claudia Fredella); con l’Università della Florida per lo studio del paleoambiente; e, per quel che riguarda le ricerche nell’ambito sociale, con il FNRS belga, nella persona dell’antropologa Emanuela Canghiari, specializzata in rapporti tra comunità native e patrimonio archeologico.


tri (ma fonti antiche riportano un’altezza fino a 14 m) e in parte decorati con pietre aggettanti che formano il motivo del triangolo invertito, sono stati costruiti con una tecnica ben riconoscibile: pietre di grosse dimensioni a faccia rettangolare e con profilo triangolare nei cui interstizi venivano poste pietre piú piccole, una soluzione che, con molte varianti, avrà una lunga fortuna nelle Ande e che viene definita huanca/pachilla.

UN’IMPRESA COLLETTIVA La costruzione delle piattaforme deve aver coinvolto migliaia di persone, provenienti da tutta la vallata, necessarie per la lavorazione delle pietre, al trasporto e allo spostamento di enormi volumi di materiali per la costruzione dei terrapieni contenuti dai muri monumentali, gli stessi che danno al sito l’aspetto di una grande collina artificiale. Alcune scalinate, due delle quali ancora conservate, collegavano le diverse piattaforme. Si sa, poi che doveva esserci almeno una gal-

leria sotterranea (ma gli anziani ne ricordano anche tre), oggi chiusa da una grande massa di detriti – portati da una alluvione che ha colpito l’area alla fine degli anni Novanta – sulla quale si affacciavano diverse camere sotterranee. Ma il sito non si limita al complesso principale, dichiarato monumento nazionale. Osservando una foto del 1948, quando Caraz era poco piú di un villaggio, si nota che il monticolo artificiale principale era circondato da altre collinette: sappiamo che almeno una, il cosiddetto Satellite B, è una struttura simile alla piattaforma principale, con muri coevi, ma di dimensioni molto ridotte. Inoltre, alcune foto d’epoca mostrano la presenza di mura dall’apparato regolare e dall’andamento curvilineo presenti anche sotto l’attuale via di accesso al sito, a indicare un’estensione molto maggiore in antico anche del complesso di piattaforme principale. I nostri scavi hanno permesso di studiare meglio la costruzione delle piattaforme, ridefinirne il numero

A sinistra: la preparazione del rilievo fotogrammetrico di una delle murature del sito di Tumshukayko.

In basso: il monticolo artificiale principale individuato dalla missione italiana, visto dal Satellite B.

a r c h e o 47


SCAVI • PERÚ

In alto: particolare di una scala di collegamento che univa le diverse piattaforme che formano il monticolo artificiale principale. A destra, sulle due pagine: vista dei ghiacciai della cordigliera bianca dal sito.

rispetto a quello che si riteneva in passato, e individuare una serie di strutture posteriori che ci parlano di una lunga cronologia di rioccupazione post Formativo Iniziale, le cui fasi piú importanti andarono dal I millennio a.C. fino al 1000 d.C. circa, con una progressiva secolarizzazione della funzione del sito: nelle piattaforme usate per il culto, sorgono case di modeste dimensioni. Dopo la conquista spagnola, il sito sarà ancora sfruttato come zona abitativa: le strutture non interrate saranno in gran parte smontate e usate come materiale da costruzione per le abitazioni di epoca coloniale prima, e repubblicana poi, nonché per edificare la chiesa che oggi domina la piazza di Caraz.

CENTRI CERIMONIALI Ma qual era, in origine, la funzione di Tumshukayko? Purtroppo si sa ancora molto poco su questo sito e su altri simili che punteggiano il territorio del Callejón de Huaylas. 48 a r c h e o

Sappiamo che alcuni edifici coevi e dall’impianto analogo – anche se di dimensioni molto minori e costruiti con tecniche differenti – erano grandi centri cerimoniali in cui si facevano sacrifici con il fuoco per propiziare il raccolto. Questi centri fungevano da catalizzatori per riunire le popolazioni disperse altresí su ampi territori, che pagavano il loro tributo in termini di turni di lavoro per il mantenimento delle piattaforme del sito. Le cerimonie assicuravano a tutta la comunità la clemenza delle forze naturali (siamo in una zona soggetta a frequenti alluvioni e terremoti) e la fertilità dei campi. Non abbiamo sufficienti elementi per applicare una teoria simile a Tumshukayko, anche se alcune caratteristiche del sito (le dimensioni platealmente monumentali, la centralità della posizione rispetto alle risorse agricole, la posizione privilegiata per l’osservazione dei ghiacciai – la fonte di acqua primaria per


a r c h e o 49


SCAVI • PERÚ

50 a r c h e o


In alto: un gallo, uno dei numerosi animali da cortile delle famiglie che vivono nel sito, «sorveglia» le strutture del sito archeologico. A sinistra, sulle due pagine: un momento delle operazioni di rilievo delle strutture del sito.

alimentare l’irrigazione della zona nonché la sede delle divinità naturali – la grande forza lavoro impiegata per costruirlo) potrebbero indicare funzioni simili.

IL COINVOLGIMENTO DEI NATIVI Luoghi potenti, al centro di rivendicazioni e di negoziazioni epocali, i siti archeologici sono da sempre oggetto di dibattito sociale. Nelle Americhe, come tentativo di riparazione ai torti coloniali, in Paesi nei quali sono presenti ampie fasce di popolazione originaria (come la Bolivia e il Perú, ma anche l’Argentina) le comunità native sono spesso chiamate a esprimere il loro parere rispetto ai lavori che riguardano monumenti considerati patrimonio degli antenati. Lo scavo di un sito a r c h e o 51


SCAVI • PERÚ

archeologico può avere conseguenze molto concrete: definire un diritto ancestrale su un territorio o su determinate risorse. Il monumento di Tumshukayko ha sempre rivestito un ruolo centrale nella comunità locale: utilizzato e abitato senza soluzione di continuità per millenni, fu utilizzato come cimitero per alcune persone che persero la vita sotto le valanghe di fango della grande alluvione del 1970. Proprio a causa di quell’evento catastrofico, alcune famiglie decisero di andare ad abitare sul sito in virtú della sua posizione sopraelevata rispetto al letto del fiume. Di quel gruppo originario, 13 famiglie vivono ancora lí. Tra panni stesi e animali da cortile, oggi sfilano truppe di turisti e si svolgono moltissime celebrazioni pubbliche, la piú sentita delle quali è l’elezione della ñusta, una sorta di miss Caraz che dovrebbe rappresentare i valori tradizionali della comunità. 52 a r c h e o

A Tumshukayko, intere generazioni di cittadini sono cresciute in simbiosi con le rovine. Queste persone si sentono i veri eredi del sito, e sono le piú direttamente interessate alla sua conservazione e gestione. Tuttavia, consci del fatto che non potranno mai avere case di proprietà e con servizi «regolari», molti, pur desiderando ancora «contare» nelle scelte che riguardano il monumento che sentono come casa loro, chiedono di essere ricollocati a spese del Comune.

PER UN’ARCHEOLOGIA «SOCIALE» Con queste premesse, e forti di un lavoro di gestione comunitaria di siti archeologici – condotto in Argentina con un altro progetto – abbiamo posto come obiettivo fondamentale della missione la gestione del sito e la progettazione degli scavi con le famiglie residenti nell’area, integrando nell’équipe un’antropologa (Emanuela Canghiari) e due

Una riunione con le famiglie che abitano nella zona archeologica.

persone dell’associazione culturale locale Caraz Cultura (Rosario Pajuelo e Ricardo Espinoza). Dopo diverse riunioni, abbiamo definito una serie di obiettivi non solo rispetto all’intervento archeologico, ma anche in merito alle aspettative che i residenti potevano ragionevolmente avere sui lavori stessi. Abbiamo inoltre facilitato il dialogo istituzionale e, mentre scriviamo, il sindaco di Caraz sta avviando le pratiche per acquistare un terreno da destinare a quelle famiglie che vorranno costruirsi nuove case lontane dal monumento. Il lavoro è solo all’inizio: in qualità di protagonisti dell’ultima fase di occupazione del sito, le famiglie di Tumshukayko, attraverso le loro esperienze e loro emozioni riguardo alle rovine, contribuiranno in maniera determinante alla nostra ricerca.



ALLA SCOPERTA DEI GRANDI TESORI DELL’ANTICHITÀ

Ogni numero di Archeo è una rivelazione: scopri fiorenti civiltà, ti appassioni con reperti straordinari, leggi testimonianze attualissime, ti stupisci con segreti svelati... Non perdere un appuntamento così importante: abbonati subito.

€ 6,50

www.a rcheo.it

2022 IN EDICOLA IL 9 AGOSTO

it

ch

eo.

ARCHEO 450 AGOSTO

ME SAR GA DEG LIT NA ww IC w. a A r

ABBONATI ADESSO!

2022

EO GERUSALEMME AL COLOSS

4

NUMERI GRATIS

ESC LUS IVA

LI ITA ’ L L DE

22/07/22 10:04

€ 6,50

PORTO TORRES

SPEC IALE

MUSEO DI PROCIDA

conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ANZICHÉ 78,00

SCONTO

LA CITTÀ DEI PITTOR I

RAM FILM FESTIVAL MIKA WALTARI SPECIALE PITTORI DI POMPEI

2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P . - D.L. 353/2003

51

,00

( + 4,90 EURO SPESE DI SPEDIZIONE )

POMPEI

ROMANIZZAZIONE DELL’ITAL IA Mens. Anno XXXVIII n. 451 settembre

www.archeo.it

ch

w. ar

2022

arc450_Cop.indd 1

SPEC IALE

SARDEGNA ISOLA MEGALITICA

eo .it

U NQ ETRUSCHI A CO L DI FRONTI ERA

GROSSETO

TRENTINO

LE PALAFITTE DI LEDRO

IN EDICOLA L’ 8 SETTEMBRE 2022

ARCHEO 451 SETTEMBR E

MEGALITICA SPECIALE SARDEGNA

IL RITORNO NE DI NERO A IST A ww

353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1,

PALAFITTE DI LEDRO

in A.P. - D.L. 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped.

VOLE ETRUSCHI DI CASENO

c. 1, LO/MI.

NERONE INGLESE Mens. Anno XXXVIII n. 450 agosto

e avrai

35 DEL

ROVERETO

L’ARCHEOLOGI A SUL GRANDE SCHERMO ROMA

LA VERA STORIA DELLA CONQUI STA D’ITALI A

LETTERATURA

UN FINLANDESE SULLE TRAC CE DEGL I ANTI CHI PROCI DA

UN NUOVO MUSEO PER I MILLENNI DELL’ISOLA

arc451_Cop.indd 1 05/08/22 14:09

Chiama lo 02 49 572 016

(da lunedì a venerdì ore 9/18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario)

Scrivi a abbonamenti@directchannel.it Collegati a www.abbonamenti.it/archeo (se desideri pagare con carta di credito) Invia un fax allo 030 7772387

Invia il coupon in busta chiusa a: Direct Channel SpA - Casella Postale 97 - Via Dalmazia 13 - 25126 Brescia (BS)

%

LE GARANZIE DEL TUO ABBONAMENTO • RISPARMIO

• PREZZO BLOCCATO • NESSUN NUMERO PERSO • RIMBORSO ASSICURATO



MOSTRE • TRENTO

Grotta di Lascaux (Montignac, Dordogna, Francia). Figure di bisonti dipinte sulla parete sinistra della Navata. A oggi, le pitture della grotta sono state variamente datate, comunque nell’ambito del Paleolitico Superiore (vedi box alle pp. 62-63).

PER RIVEDERE

LASCAUX 56 a r c h e o


LA NECESSITÀ DI PRESERVARE L’INTEGRITÀ DELLE SUE MAGNIFICHE PITTURE PARIETALI HA, DA TEMPO, IMPOSTO LA CHIUSURA AL PUBBLICO DELLA GROTTA FRANCESE. OGGI, UN PROGETTO ESPOSITIVO PRESENTATO AL MUSEO DELLE SCIENZE DI TRENTO OFFRE UNA NUOVA, SPETTACOLARE OPPORTUNITÀ PER VISITARE QUESTO VERO E PROPRIO SANTUARIO DELL’ARTE PREISTORICA di Stefano Mammini a r c h e o 57


MOSTRE • TRENTO

L

a storia della scoperta della grotta di Lascaux è, molto probabilmente, troppo suggestiva per essere vera. È questa la prima rivelazione che apre il percorso espositivo di «Lascaux Experience», la mostra allestita al MUSE-Museo delle Scienze di Trento. Da oltre ottant’anni, infatti, si narra che una domenica, l’8 settembre del 1940, a Montignac, in Dordogna, un apprendista meccanico di diciotto anni, Marcel Ravidat, era andato a passeggiare nei boschi circostanti il paese insieme al suo cane, Robot, e che quest’ultimo, a

58 a r c h e o

Inghilterra un certo punto, si era lanciato Germania dentro una buca, forse nella speranza di stanare o catturare un coParigi niglio. Marcel aveva seguito il suo amico a quattro zampe e, incurioFrancia sito, aveva gettato alcuni ciottoli all’interno della cavità, constatan- Oceano Grotta Lione Italia di Lascaux do che il rumore del loro atterrag- Atlantico gio gli era giunto molto attutito, Bordeaux segno che i sassi dovevano essere precipitati per diversi metri. Corsica Mar Quattro giorni dopo, il ragazzo torSpagna Mediterraneo nò sul posto con tre amici – Jacques Marsal, George Agniel e Simon Coencas – e tutti insieme si erano luce tremolante di una lampada a calati nella buca: dopo un po’, alla petrolio, si erano parate davanti a loro le vivaci raffigurazioni di tori e altri animali, dipinte sulle pareti della grotta. Il 12 settembre del 1940, dunque, cominciava la storia moderna del piú celebre complesso d’arte preistorica a oggi noto, rea-


lizzato 20 000 anni fa circa, nel corso del Paleolitico Superiore (vedi box alle pp. 62-63). In effetti, ed è questa l’opinione sempre piú diffusa tra gli studiosi, la vicenda ha contorni degni di una favola di Esopo – il cagnolino curioso, i ragazzi… – e sembra perciò piú verosimile credere che l’esistenza della cavità fosse da tempo nota agli abitanti di Montignac e del circondario, ma che nessuno l’avesse esplorata o che magari, pur essendovi entrato, non avesse visto le pitture o non vi avesse piú di tanto dato peso. Fatto sta che i quattro «scopritori» informarono dell’accaduto un professore in pensione del paese, Léon Laval, il quale, dopo essersi recato insieme a loro sul sito per un ulteriore sopralluogo, segnalò a sua vol-

ta la scoperta all’abate Henri Breuil (1877-1961) – uno dei padri dei moderni studi di preistoria –, che fu il primo a esaminare scientificamente le pitture e a catalogarle. E, alla fine dello stesso anno, la grotta di Lascaux fu dichiarata monumento d’interesse nazionale.

L’APERTURA AL PUBBLICO La vicenda, è bene ricordarlo, si svolge in un momento particolarmente drammatico: l’Europa è sconvolta dalla seconda guerra mondiale e in Francia, dopo che l’invasione tedesca ha annichilito il Paese, obbligandolo alla resa, si è insediato il governo collaborazionista di Vichy, retto dal maresciallo Pétain. Non è dunque un caso che di Lascaux, nonostante il sito abbia

suscitato curiosità e interesse, si torni a parlare soprattutto all’indomani del conflitto e, dopo alcuni interventi di sistemazione, la grotta viene aperta al pubblico nel 1948. Il successo è clamoroso e le pitture richiamano un pubblico che va ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori e degli appassionati: in poco piú di vent’anni, tra il 1940 e il 1963, Lascaux viene visitata da oltre 1 milione di persone: nel 1962, per esempio, furono oltre 100 000, con picchi di 1800 presenze al giorno nella stagione estiva. Come si può intuire, il sito è però un contesto estremamente fragile e paga ben presto lo scotto della sua notorietà: già nel 1955 vengono rilevate le prime alterazioni delle superfici dipinte, causate dall’eccessivo afflusso di anidride carbonica

Il paese di Montignac, in Dordogna, che sorge sulle rive della Vézère: nella valle attraversata da questo fiume, oltre a Lascaux, si contano altri importanti siti preistorici e la circostanza è alla base della risoluzione votata dall’UNESCO dal 1979, con la quale la regione è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità.

a r c h e o 59


MOSTRE • TRENTO

innescato dall’andirivieni dei visitatori e, pochi anni piú tardi, si osserva la comparsa di macchie di colore verde e biancastro, le prime dovute a colonie di alghe e le seconde alla formazione di calcite. Tra il 1957 e il 1958 si cerca di rimediare installando un impianto di aerazione all’interno della grotta, ma senza successo. Cosicché, nell’aprile del 1963, André Malraux, allora ministro della Cultura, si vede costretto a disporre la chiusura al pubblico del sito. Alle istanze della conservazione si affianca però la volontà di non rinunciare alla fruizione di un simile

patrimonio e si fa quindi strada l’idea di crearne una replica fedele. Progetto che prende il via nel 1972, dopo che la grotta di Lascaux è stata donata allo Stato francese.

LA PRIMA REPLICA A circa 200 m dall’originale, viene creata la riproduzione di una parte degli ambienti nei quali si conservano le straordinarie testimonianze d’arte parietale, battezzata Lascaux II, che apre le sue porte al pubblico nel 1983. Nel frattempo, l’UNESCO, nel 1979, ha inserito fra i beni del Patrimonio Mondiale dell’Umanità i siti preistorici e le grotte

Nelle viscere della collina quest’ultimo si passa, verso sud, alla Navata e al Diverticolo dei Felini, e, a ovest, all’Abside e ai Pozzi. Sulle pareti si rincorrono figure di tori, di cervi, di cavalli, che, soprattutto nella Sala dei Tori, testimoniano di capacità tecniche ed espressive straordinarie: in questo ambiente piú che negli altri, infatti, si coglie la vivacità delle figure rappresentate che, grazie alla loro distribuzione, sembrano quasi animarsi in una corsa impetuosa.

Sebbene venga chiamato «grotta», il complesso di Lascaux si articola in piú ambienti: superato l’ingresso si incontra la Sala dei Tori, che dà accesso al Diverticolo assiale e, sulla destra, alla galleria denominata Passaggio; da

Condotto terminale Diverticolo assiale Sala dei Tori

Navata

Passaggio

Galleria di Mondmilch Diverticolo dei Felini

Vestibolo

Abside Pozzi Sala insabbiata

Ingresso

60 a r c h e o


con testimonianze d’arte parietale della valle della Vézère, area nella quale è compresa Lascaux. La scelta di Lascaux II si rivela vincente, poiché nel giro di pochi anni la replica diviene la meta turistica piú battuta della Dordogna, segno del richiamo che le pitture preistoriche continuano a esercitare. E che porta alla realizzazione di un nuovo progetto destinato a diffonderne ulteriormente la conoscenza: nasce «Lascaux révélé», una mostra interattiva itinerante per la quale si producono le repliche di settori della grotta non riprodotti in Lascaux II. Nota anche come Lascaux III, l’esposizione viene proposta con successo in tutto il mondo e, nel gen-

naio 2020, approda al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove la sua permanenza viene però bruscamente interrotta dallo scoppio della pandemia da Covid-19. Il seme gettato con Lascaux III riesce comunque a germogliare, perché proprio da quel progetto nasce «Lascaux Experience», la mostra che il Museo delle Scienze di Trento ha accolto e propone fino al prossimo 8 gennaio 2023.

GRUPPO DI FAMIGLIA All’inizio del percorso si viene accolti da una donna e da un anziano, membri di una ipotetica famiglia di Lascaux, creati dall’artista Elisabeth Daynes a partire dal cranio fossile di

Henri Breuil (primo a destra) in visita alla grotta di Lascaux subito dopo la sua scoperta, nel 1940. Ad accompagnare il celebre studioso ci sono, da sinistra, Léon Laval, Marcel Ravidat e Jacques Marsal.

un Homo sapiens vissuto in quell’epoca, facente parte delle collezioni del Museo nazionale di preistoria di Les-Eyzies-de-Tayac. Alla stessa famiglia appartengono, piú avanti, una donna e un ragazzo, rappresentati mentre la prima sta decorando il volto del secondo, servendosi di una sorta di pennello, che possiamo immaginare simile a quelli utilizzati per realizzare le pitture parietali. E proprio allo strumentario è dedia r c h e o 61


MOSTRE • TRENTO

QUANTO SONO ANTICHE LE PITTURE DI LASCAUX? All’indomani della scoperta, le pitture della grotta di Lascaux furono analizzate e studiate da Henri Breuil e da un altro autorevole paletnologo francese, Denis Peyrony, ed entrambi le attribuirono al Gravettiano, una fase del Paleolitico Superiore databile fra i 27 000 e i 25 000 anni fa. Altri studiosi si dissero piú propensi a risalire nel tempo, suggerendo un inquadramento tra le fasi del Solutreano e del Maddaleniano. La proposta sembrò trovare conferma nelle prime analisi al 14C condotte nel 1951 su campioni di legno provenienti dai Pozzi di Lascaux: gli esami, eseguiti a Chicago, nel laboratorio di Frank Libby, l’inventore del radiocarbonio, indicarono infatti in circa 15 500 anni da oggi la data dei campioni, collocandoli dunque nell’ambito del Maddaleniano. Nuove determinazioni furono quindi disposte da André Glory su alcuni

cata una delle sezioni iniziali dell’esposizione, mirata a offrire un quadro del contesto culturale in cui collocare la grotta di Lascaux. Sono dunque riuniti oggetti originali e repliche, che comprendono utensili, accessori, nonché strumenti impiegati dagli antichi e anonimi artisti che operarono all’interno della cavità. Fra questi ultimi, per esempio, è compresa la lampada ricavata da un blocchetto 62 a r c h e o

campioni di carbone di legna da lui raccolti nel corso di indagini svolte nel Passaggio e nei Pozzi della grotta: ne risultò una sostanziale conferma delle indicazioni precedenti, poiché la forchetta cronologica oscillava fra i 17 190 ± 140 e i 16 000 ± 500 anni fa, mantenendosi quindi nella fase maddaleniana. Un altro eminente studioso di preistoria, André Leroi-Gourhan, propose, sulla base di confronti stilistici con altri contesti, di riportare le pitture di Lascaux al Solutreano. Ma, dopo le ricerche condotte da Glory e altri, tornò sui suoi passi, concludendo che la frequentazione della grotta e la realizzazione delle pitture andavano collocate in un momento da lui indicato come Maddaleniano II. La questione fu riaperta nel 1998 e poi nel 2002 da due datazioni al 14C ricavate da frammenti di corno di

In alto, sulle due pagine: particolare delle pitture della Sala dei Tori della grotta di Lascaux, l’ambiente piú spettacolare dell’intero complesso.

Nella pagina accanto, in basso: particolare del fregio detto dei «cervi che nuotano», dipinto sulla parete sinistra della Navata.

di calcare rosa nota come «lampada di Lascaux». Progenitrici delle lucerne di epoca classica, queste lampade erano alimentate da grasso animale e risultarono piú efficienti delle torce vegetali, dal momento che garantivano un’illuminazione

piú stabile e potevano essere rifornite con maggiore facilità. È al tremolio di quelle fiammelle che si deve dunque immaginare la creazione delle splendide teorie di animali che si rincorrono lungo le pareti della grotta.


renna provenienti dagli scavi condotti da Henri Breuil e Séverin Blanc: le nuove date ottenute, 18 600 e 18 900 anni da oggi, fecero infatti ridiscendere nel tempo l’inquadramento del contesto, riconducendolo al Solutreano. Un’ipotesi che veniva corroborata anche dallo studio delle associazioni di specie animali nell’ambito delle raffigurazioni e dalla loro comparazione con le testimonianze osservate in altre grotte decorate. Il permanere, di fatto, di posizioni diverse ha dunque indotto una équipe interdisciplinare guidata da Mathieu Langlais e Sylvain Ducasse a varare un nuovo progetto di datazione della grotta di Lascaux, battezzato LAsCo, a partire dai reperti che essa ha restituito. Fra il 2018 e il 2020 sono stati perciò sottoposti ad analisi 5 resti di renna, provenienti dai

Pozzi, dalla Navata, dal Diverticolo assiale e dal Passaggio. Il 14C ha permesso di stabilire che i materiali erano il frutto di una o piú fasi di occupazione, collocabili fra i 21 500 e i 21 000 anni fa. Queste nuove date fissano la frequentazione di Lascaux in un momento di passaggio fra il Badegouliano (o Protomaddaleniano) e il Maddaleniano, in accordo con l’industria litica rinvenuta nel sito ed escludono che l’evento possa avere avuto luogo nel corso del Solutreano, come suggerito dalle analisi su campioni di strumenti in osso condotte alla fine degli anni Novanta. Il progetto LAsCo è, in ogni caso, tuttora in corso e nuove analisi saranno eseguite su strumenti in corno di cervo, con l’obiettivo di trovare ulteriori conferme del quadro che sembra dunque emergere.

a r c h e o 63


MOSTRE • TRENTO

DALLA SCOPERTA ALLE REPLICHE 1940, 8 settembre Portando a spasso il suo cane Robot, Marcel Ravidat, un apprendista meccanico, scopre una buca nella collina di Lascaux. 1940, 12 settembre Marcel torna sul posto con tre amici: Jacques Marsal, George Agniel e Simon Coencas. Scoprono le pitture e legano per sempre il loro nome al ritrovamento. 1940, 27 dicembre La grotta viene dichiarata monumento nazionale. 1948, 13 luglio Dopo una prima

64 a r c h e o

sistemazione, la grotta viene resa visitabile. 1955 Vengono rilevate le prime tracce di alterazione sulle pareti, causate da un eccesso di anidride carbonica legato al numero dei visitatori, che ha già raggiunto le 30 000 presenze all’anno. 1960 Si sviluppano la «malattia verde», causata dalle alghe, e la «malattia bianca», legata al diffondersi della calcite. Entrambe le forme di degrado vengono identificate dal conservatore della grotta, Max Sarradet.

1962 Le macchie verdi causate dalla proliferazione delle colonie di alghe si estendono. In quell’anno si registrano 100 000 presenze, con picchi di 1800 persone al giorno in estate. 1963, 20 aprile L’allora Ministro della cultura, André Malraux, dispone la chiusura della grotta ne vieta l’accesso al pubblico a causa del degrado che quest’ultimo determina. 1972 La grotta di Lascaux viene donata allo Stato, conservandone i diritti di riproduzione per

trent’anni. In seguito all’accordo, la Francia decide di realizzare una replica del monumento. 1972-1983 Realizzazione di Lascaux II. 1979, ottobre L’UNESCO dichiara la Grotta di Lascaux Patrimonio dell’Umanità. 1983, 18 luglio Situata a 200 m dalla grotta originale, viene aperta al pubblico Lascaux II. 2012 Viene presentata l’esposizione itinerante «Lascaux révélé», nota anche come Lascaux III.


A sinistra: l’ingresso di Lascaux II, la replica (parziale) della grotta originale inaugurata nel 1983. In basso: un grande toro nero dipinto sulla parete sinistra del Diverticolo Assiale. Nella pagina accanto: Grotta di Lascaux, 28 ottobre 1940. Henri Breuil (a sinistra) e il conte Henri Bégouën esaminano alcune pitture.

Si tratta di facsimili delle scene dipinte nella navata della grotta, non riprodotte in Lascaux II. La mostra fa il giro del mondo. Da questo progetto, scaturisce «Lascaux Experience».

2012, 18 ottobre Lo studio norvegese Snøhetta viene scelto fra oltre 80 architetti di tutto il mondo per dare vita a Lascaux IV e presenta il progetto in dicembre.

2016 Il presidente della Repubblica francese, François Hollande, inaugura Lascaux IV il 10 dicembre. Il nuovo complesso si estende su oltre 11 000 mq e

comprende anche un centro di documentazione e interpretazione dell’arte preistorica. 2019 Lascaux IV accoglie il suo milionesimo visitatore.

Un’efficace immagine di come le pitture abbiano preso corpo è fornita dal modello in scala 1:10 della grotta, realizzato a partire dalla scansione laser in 3D del complesso. Ne è scaturita una replica in miniatura eccezionalmente fedele, successivamente animata dall’inserimento di personaggi intenti a dipingere su una delle pareti. Come hanno dimostrato gli studi condotti fin dalla scoperta del sito, chi si dedicò all’impresa, oltre ad avere grande maestria nella gestione dei pigmenti e delle tecniche pittoriche, seppe adeguare le varie a r c h e o 65


MOSTRE • TRENTO

raffigurazioni alla conformazione del supporto roccioso, tenendo conto delle irregolarità e, ove necessario, alterando deliberatamente le proporzioni delle figure, in modo che, all’occhio dell’osservatore, esse risultassero invece corrette e realistiche. Si può dunque affermare che, con migliaia d’anni d’anticipo, i pittori di Lascaux avevano messo a punto accorgimenti analoghi a quelli dei ceramografi greci ai quali si devono i celebri vasi a figure rosse e nere… Questi e altri temi vengono sviluppati nelle sezioni successive, che descrivono anche le tecniche di

UN OSSERVATORIO PER L’ARTE PREISTORICA Racconta Germinal Peiro, presidente del Consiglio dipartimentale della Dordogna, che abbiamo incontrato in occasione dell’inaugurazione della mostra: «Nel 1963, quando la grotta di Lascaux è stata chiusa al pubblico, il Dipartimento ha deciso di realizzarne un facsimile. In realtà, la decisione era stata presa da un privato, il conte de La Rochefoucauld, proprietario dei terreni in cui era compreso il sito, che ebbe l’idea di produrre la replica. Avviò i lavori, ma poi, per problemi economici, dovette sospenderli e, a quel punto, nel 1978, intervenne il Dipartimento, che acquisí il sito. A quel momento era già stato realizzata la galleria che dava accesso alla replica, che fu inaugurata nel 1983. Dopo una ventina d’anni si sono manifestati nuovi problemi: le pitture hanno cominciato a presentare segni di degrado e, soprattutto, il facsimile ha avuto un successo notevole – con medie di oltre 250 000 visitatori all’anno – ma, essendo stato costruito sulla sommità della collina, a circa 200 m dall’originale, faceva sí che, nei momenti di maggior affollamento, potevano esserci fino a un migliaio di automobili parcheggiate proprio al di sopra del sito originale, mettendone a rischio l’incolumità e, per esempio, trasformandosi in possibili cause di incendi per il bosco circostante. A quel punto lo Stato ha imposto di trovare una soluzione alternativa, perseguendo al contempo l’obiettivo di fare di Lascaux un santuario della preistoria. Da qui è nata l’idea di dare vita a due progetti: un’esposizione itinerante (di cui è figlia anche “Lascaux Experience”) e un nuovo facsimile, Lascaux IV. Quest’ultimo, in realtà, è molto piú di una replica, poiché consiste in un vero e proprio centro per

66 a r c h e o

la documentazione e l’interpretazione dell’arte preistorica. Nel contempo, si è scelto di non chiudere al pubblico Lascaux II, ma di trovare un’area alternativa per il parcheggio delle auto dei visitatori, a valle della grotta. E la scelta è stata premiata, perché la replica continua a essere meta di un pubblico numeroso: nel 2021 i visitatori sono stati oltre 70 000. Inaugurato nel 2016, Lascaux IV offre una riproduzione ancor piú estesa, perché comprende anche la replica di un diverticolo assente nel primo facsimile. Inoltre, rispetto ad altre esperienze simili – come per esempio nel caso della replica della grotta Chauvet – a Lascaux IV è stato possibile proporre una riproduzione in scala 1:1. A ciò si aggiungono l’esposizione di opere realizzate nella stessa epoca delle pitture, una sala nella quale viene raccontata la storia della preistoria, una sala cinema in cui si proietta l’elaborazione in 3D della grotta, nonché la Galleria dell’Immaginario, nella quale le pitture di Lascaux sono messe a confronto con opere d’arte moderna e contemporanea». Info: www.lascaux.fr


Un settore di Lascaux IV, replica in scala 1:1 della grotta originale. Nella pagina accanto, in alto: l’unica figura umana rappresentata nella grotta di Lascaux, su una parete dei Pozzi, fra un toro e un uccello. Nella pagina accanto, al centro: l’edificio che accoglie Lascaux IV e che, oltre al facsimile della grotta, comprende un centro di documentazione sulla preistoria e le sue manifestazioni artistiche. a r c h e o 67


MOSTRE • TRENTO

documentazione di testimonianze quali l’arte parietale e i criteri applicati nello studio delle diverse manifestazioni. Tenendo presente, com’è facile intuire, che di fronte a complessi come Lascaux, l’analisi puramente estetica delle varie raffigurazioni non può essere disgiunta dal proporne l’interpretazione: scegliere di decorare metri e metri di parete rocciosa con tori, bisonti, cavalli o cervi, dovette infatti essere un gesto carico di un suo significato ben preciso, la cui natura, però, è da sempre oggetto di dibattito fra gli studiosi. Solo per fare un esempio, la tesi secondo la quale simili composizioni nascevano allo scopo di propiziare il buon esito delle battute di caccia è stata nel tempo quasi unanimemente accantonata, ma una ri68 a r c h e o


sposta certa e definitiva è probabilmente destinata a non arrivare mai. È infatti opportuno considerare che nemmeno le piú avanzate metodologie d’indagine potranno mai permetterci di entrare nella mente dei nostri antenati paleolitici e scoprire che cosa li avesse indotti a manifestarsi in quel modo.

«DENTRO LA GROTTA» Momento clou della mostra è invece la possibilità di «entrare» nella grotta di Lascaux, grazie alla realtà virtuale. Indossando un visore basato sulla tecnologia Oculus, si viene

proiettati all’interno del complesso e, per una quindicina di minuti, si ha la possibilità di sperimentare un’emozione simile a quella che dovettero provare i primi scopritori del sito e che poi hanno provato quanti hanno avuto la fortuna di visitarlo prima della chiusura. L’esperienza è davvero coinvolgente, anche perché il visore non si limita a mostrare una sequenza di immagini, ma invita a muoversi all’interno dei vari ambienti, a «toccare» le pareti rocciose e perfino a dipingere, soffiando del colore nero su una superficie non interes-

sata da altre pitture. Si rinnova cosí la magia della grotta di Lascaux: testimonianza straordinaria della nostra storia piú antica, ma, soprattutto, silenziosa custode di un’emozione senza tempo. DOVE E QUANDO «Lascaux Experience» Trento, MUSE-Museo delle Scienze fino all’8 gennaio 2023 Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0461 270311; e-mail: museinfo@muse.it; www.muse.it Sulle due pagine: immagini della mostra «Lascaux Experience». In particolare, la foto nella pagina accanto, in alto, documenta l’utilizzo dei visori Oculus, che, grazie alla realtà virtuale, permettono di «visitare» il sito e «muoversi» all’interno dei diversi ambienti che lo compongono.

a r c h e o 69


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/2

UN UOMO SOLO... «QUANDO GLI DÈI NON C’ERANO PIÚ E CRISTO NON ANCORA»

POTEVA, UNO DEGLI UOMINI PUBBLICI PIÚ POTENTI DEL II SECOLO D.C., DIVENTARE PROTAGONISTA DI UN’AUTOBIOGRAFIA «MODERNA», TANTO INTIMA E SPREGIUDICATA? LA DOMANDA – INEVITABILE – ACCOMPAGNÒ LE PRIME, TRAVAGLIATE STESURE E POI LA PUBBLICAZIONE STESSA DI UNO DEI PIÚ CELEBRI ROMANZI STORICI DI TUTTI I TEMPI: LE MEMORIE D’ADRIANO DI MARGUERITE YOURCENAR di Giuseppe M. Della Fina

M

emoires d’Hadrien (Memorie di Adriano) di Marguerite Yourcenar (1903-1987) fu pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1951 dalla Libraire Plon ed ebbe subito un successo notevole. In Italia fu segnalato da Guido Piovene sul Corriere della Sera: l’autore del Viaggio in Italia ne era stato colpito, come ricorda la scrittrice Lidia Storoni Mazzolani – che curò la traduzione dell’opera (vedi box a p. 74, a destra) – nell’appendice a una delle edizioni italiane del romanzo (Einaudi, 1988). Sono pagine interessanti, poiché l’autrice rammenta gli incontri, le conversazioni, gli scambi epistolari con Yourcenar, di cui poi divenne amica. Vi sono raccontate, in particolare, le controverse vicende editoriali della prima edizione italiana del libro, intitolata Le memorie di Adriano imperatore, per l’editore Richter di Napoli nel dicembre 1953 (vedi box a p. 74, a sinistra) e vi sono esposte alcune considerazioni di fondo sul romanzo storico.

UNA DONNA TACITURNA Il primo incontro avvenne a Roma, a casa della scrittrice italiana, che cosí descrive Marguerite Yourcenar: «Era una donna un po’ pesante, vestita con grande semplicità, taciturna; mentre prendeva il tè, guardava 70 a r c h e o


Statua dell’imperatore Adriano, da Perge (Panfilia). 118-130 d.C. Antalya, Museo Archeologico. Il principe indossa una corazza, ha un cingulum intorno alla vita e sul capo una corona di foglie di quercia. Nella pagina accanto: la scrittrice Marguerite Yourcenar (1903-1987).

a r c h e o 71


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/2

PER VOCE SOLA Nei Taccuini di appunti, che ricordano la gestazione delle Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar rammenta che fu incerta sul taglio da dare al libro: un solo personaggio che racconta un’epoca, o piú personaggi che la narrano? Cosí scrive: «Per molto tempo, immaginai il lavoro sotto forma d’una serie di dialoghi, nei quali si sarebbero fatte sentire tutte le voci dell’epoca (...) Sotto tutte quelle grida, la voce di Adriano si perdeva. Non riuscivo a dar vita a quel mondo come l’aveva visto e compreso un uomo». La copertina della prima edizione delle Memoires d’Hadrien, pubblicata a Parigi nel 1951.

72 a r c h e o


il Mausoleo di Adriano incorniciato dalla mia finestra. Forse, quella presenza al di là del Tevere le sembrò un segno propizio». In quell’incontro le due scrittrici ebbero modo di confrontarsi e Storoni Mazzolani ricorda di averle fatto una domanda scomoda: riteneva plausibile che a un uomo del II secolo d.C. si potesse attribuire un’autobiografia cosí intima e spregiudicata? Yourcenar rispose che lo era: «Siamo alla vigilia dei Ricordi di Marco Aurelio, delle Confessioni (per l’esattezza, posteriori di 200 anni) di

CON LA GRECIA NEL CUORE Marguerite Yourcenar, pseudonimo di Marguerite de Crayencour, nasce nel 1903 a Bruxelles, da genitori francesi. Rimasta orfana della madre, viene cresciuta nel segno dell’indipendenza e delle discipline umanistiche dal padre, un aristocratico «che ama le lettere» e che coinvolge la figlia nel suo cosmopolitismo, insegnandole il latino e il greco, facendole conoscere il teatro e trasmettendole la passione per la cultura. Conseguito il baccalaureato in latino e greco a Nizza, nel 1920, Yourcenar muove i primi passi nel mondo della letteratura pubblicando alcune raccolte di poesie, poi, nel 1926, porta a termine una biografia di Pindaro che viene data alle stampe nel 1932. Fine ellenista, nel 1939 firma una Presentazione critica di Konstantinos Kavafis, che nel 1958 viene ripubblicata insieme alla traduzione delle opere del poeta greco, mentre nel 1979, ne La corona e la lira, riunisce le traduzioni di versi di poeti greci dell’antichità. I campi d’interesse sono numerosi e la produzione letteraria di Yourcenar è altrettanto vasta e variegata. È però l’attività di romanziera a darle la fama maggiore: alla prima prova, Alexis ou le Traité du vain combat (1929), fanno seguito numerosi titoli,

Marguerite Yourcenar in una foto del 1930.

piú d’uno dei quali viene tradotto anche in italiano. Nel 1937, a Parigi, incontra l’accademica e traduttrice statunitense Grace Frick, che diventerà la sua compagna. Nel 1939 si trasferisce negli Stati Uniti d’America, Paese del quale ottiene la cittadinanza nel 1947, e, nel 1950, compra, insieme a Frick, la Petite Plaisance, una casa sull’isola di Mount Desert, nel golfo del Maine, che diventa la loro residenza.

La pubblicazione delle Memorie di Adriano, nel 1951, segna la consacrazione internazionale di Yourcenar, che negli anni successivi arricchisce la propria produzione con altri romanzi, novelle, saggi e traduzioni. Nel 1980, Marguerite Yourcenar è la prima donna a essere accolta come membro dell’Académie française. Si spegne il 17 dicembre 1987, a Mount Desert. (red.) a r c h e o 73


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/2

sant’Agostino…». Molti anni dopo, nel 1988, quella risposta continuava a non soddisfare Storoni Mazzolani – nel frattempo divenuta a sua volta autrice di romanzi a sfondo storico –, che osservò: «Nelle Memorie di Adriano la profondità del pensiero, la disponibilità intellettuale, le intuizioni presaghe ne fanno non una ricostruzione erudita della mentalità di un uomo del mondo antico, ma un libro dei nostri giorni».

QUELLO «SCRITTORE ESPERIMENTATO»... La prima edizione italiana delle Memoires d’Hadrien, intitolata Le memorie di Adriano imperatore, fu pubblicata per i tipi dell’editore Richter di Napoli (dicembre 1953). La traduzione venne affidata a Lidia Storoni Mazzolani, ma la casa editrice impose numerosi interventi redazionali per rendere il testo accessibile a un pubblico piú vasto. Alle rimostranze della traduttrice, venne risposto che le modifiche erano state apportate da «uno scrittore esperimentato». Ne seguí un’azione giudiziaria e Yourcenar fu vicina a Storoni Mazzolani: quell’episodio fu alla base dell’amicizia che nacque tra le due donne. 74 a r c h e o

Queste parole toccano il cuore del problema: un romanzo storico – quando è ben scritto – non è una ricostruzione erudita, bensí un libro dei nostri giorni. Il passato – o un personaggio del passato, come in questo caso – diviene lo spunto per parlare del tempo dello scrittore. Uno scrittore – se di valore – è il mago che riesce a conciliare passato e presente. Ciò non significa che si possa essere superficiali e fare a meno di studiare – uso consapevolmente questo termine – il momento, o la figura del passato che si vuole raccontare. Un romanzo storico riuscito nasce solo da un profondo lavoro di ricerca e la sua eventuale assenza si coglie subito: elimina profondità e distanza, introduce banalità, toglie plausibilità.

UNA SCELTA MOTIVATA E nel caso di Marguerite Yourcenar basta leggere i Taccuini di appunti (Carnets de notes de Mémoires d’Hadrien), riproposti nell’edizione italiana di Einaudi, per avere un’idea del suo interesse profondo per l’imperatore Adriano portato avanti negli anni attraverso letture aggiornate e viaggi. La prima domanda che possiamo porci è il motivo per cui la sua attenzione si fosse indirizzata

IL VALORE ETICO DELLA TRADUZIONE Lidia Storoni Mazzolani ha curato la traduzione italiana delle Memoires d’Hadrien. Nata a Roma nel 1911, aveva frequentato il Liceo Classico «Ennio Quirino Visconti» e si era laureata in lettere presso l’Università di Roma «La Sapienza». Ha alternato l’attività di traduttrice di classici latini, inglesi e francesi, a quella di giornalista – collaborando con varie testate, tra cui La Stampa, la Repubblica e Il Sole 24 Ore – e di scrittrice. Tra i suoi numerosi libri si possono ricordare Sul mare della vita (1969), Vita di Galla Placidia (1975), Tiberio o la spirale del potere (1981), Una moglie (1982), Sant’Agostino e i pagani (1987), Ambrogio vescovo. Chiesa e Impero nel IV secolo (1992). È morta a Roma nel 2006. Nel ricordo, pubblicato sulla Stampa (12 settembre 2006), Silvia Ronchey rammenta il suo imperativo etico: «Tradurre gli antichi, difenderli dai barbari».


IL PRINCIPE VIAGGIATORE Adriano nacque a Italica in Spagna nel 76 d.C. da un’importante famiglia dell’aristocrazia provinciale imparentata con Traiano, che ne seguí la formazione. Piú tardi sposò una nipote dell’imperatore. Nel 117 d.C., subito dopo essere stato adottato da Traiano – spinto a questo passo anche dalla

moglie Plotina – alla sua morte, salí al trono. Dopo un soggiorno a Roma (118-121 d.C.), iniziò una serie di viaggi nelle province dell’impero per conoscerne la realtà da vicino (121-134 d.C.). Nel 134 tornò a Roma per non allontanarsi piú dall’Italia. Morí a Baia nel 138 d.C. Il suo successore fu Antonino Pio.

Ritratto di Adriano in età giovanile. Ostia, Museo Ostiense. Nella pagina accanto, a sinistra: la copertina della prima edizione italiana dell’opera di Marguerite Yourcenar, a cui fu dato il titolo di Le memorie di Adriano imperatore e che venne pubblicata a Napoli nel 1953. Nella pagina accanto, a destra: Lidia Storoni Mazzolani (1911-2006), traduttrice, giornalista e scrittrice.

verso l’epoca di Adriano e sulla sua figura. È lei stessa a rispondere nei Taccuini: era rimasta colpita nel 1927 da una frase presente in un volume della corrispondenza dello scrittore Gustave Flaubert: «Quando gli dèi non c’erano piú e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo». Adriano, in particolare, le sembrò un personaggio che avesse incarnato bene quell’arco di tempo.Va sottolineato che Memorie di Adriano si apre con un colloquiale: «Mio caro Marco» e quel Marco era Marco Aurelio, l’imperatore che, secondo Flaubert, segna la fine di una fase della storia del mondo occidentale.

LUNGHE INDAGINI La gestazione delle Memorie è stata lunga: l’idea e una prima stesura risalgono agli anni tra il 1924 e il 1929, ma la scrittrice ricorda: «quei manoscritti sono stati tutti distrutti. Meritavano di esserlo». Il lavoro venne ripreso nel 1934, accompagnato da lunghe indagini: si tradusse nella stesura di una quindicina di pagine, ma fu nuovamente abbandonato e ripreso piú volte tra il 1934 e il 1937. Avendo deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, la scrittrice lasciò il manoscritto in Europa insieme alla maggior parte degli appunti, ma non aveva del tutto reciso il legame con quel testo.Yourcenar confida di avere portato con sé una carta dell’impero romano alla morte di a r c h e o 75


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/2

UNA SPLENDIDA INCOMPIUTA L’attività dell’imperatore Adriano è caratterizzata dall’intensa attività edilizia promossa a Roma e in altri centri dell’impero. Villa Adriana a Tivoli e il Mausoleo a Roma (oggi Castel Sant’Angelo) costituiscono – nel quadro di tale attività – due episodi d’interesse particolare in quanto rappresentano veri monumenti dell’imperatore a sé stesso e al suo modello culturale di riferimento. La villa sorse su un’area che era stata occupata già da una costruzione del II secolo a.C., ma la residenza imperiale venne edificata sulla

76 a r c h e o

base di un progetto fortemente innovativo che si caratterizza per le dimensioni eccezionali e per la volontà di riprodurvi idealmente luoghi celebri dell’antichità greca. Vi si possono osservare anche scelte planimetriche e soluzioni tecniche innovative, come l’uso diffuso delle piante mistilinee e non piú quadrate o rettangolari come da tradizione. Sapiente risulta anche l’uso della prospettiva ottica tesa a istituire rapporti suggestivi tra le diverse parti della villa. Alla morte di Adriano (138 d.C.), la residenza era ancora incompiuta.

Traiano e un profilo di Antinoo acquistato a Firenze nel 1926. Afferma anche che, tra il 1939 e il 1948, pensò piú volte a quel testo, ma con scoraggiamento: «provavo un poco di vergogna, per aver potuto tentare un’impresa simile». Nei Taccuini di appunti continua cosí il racconto della genesi del libro: «Nel dicembre 1948, ricevetti dalla Svizzera – dove l’avevo depositata durante la guerra – una valigia piena di carte di famiglia e lettere di dieci anni prima». Tra quelle carte rinvenne quattro o cinque fogli dattiloscritti: «la carta era ingiallita. Lessi l’attestazione: «Mio caro Marco…». Di quale amico, di quale amante, di quale lontano parente si


trattava? Non ricordavo quel nome. Mi ci volle qualche momento perché mi tornasse alla mente che Marco stava per Marco Aurelio e che avevo sotto gli occhi un frammento del manoscritto perduto». In quel momento la scrittrice decise che il romanzo andava assolutamente portato a termine e la prima edizione del libro, come già ricordato, apparve a Parigi nel 1951.

RICORDI E RIFLESSIONI Sulla base della conoscenza profonda della documentazione letteraria, epigrafica e archeologica sul personaggio allora disponibile, il romanzo ripercorre la formazione e le scelte culturali e politiche dell’im-

UNO STUDIO SUL DESTINO UMANO Dopo l’edizione italiana delle Memorie di Adriano pubblicata da Einaudi nel 1963, Marguerite Yourcenar cosí commenta le prime recensioni in una lettera indirizzata a Lidia Storoni Mazzolani: «Mi sorprende sempre constatare quanti rari siano, soprattutto in Italia, i lettori disposti ad accettare questo libro per quello che è: uno studio sul destino umano, l’immagine di un uomo che delle sue virtú e dei suoi difetti, delle sue esperienze personali e della sua cultura poco a poco si compone una sorta di saggezza pragmatica d’amministratore e di principe». In alto: uno scorcio delle Grandi Terme di Villa Adriana. La grandiosa residenza voluta dall’imperatore, rimasta incompiuta, si estendeva su una superficie di oltre 100 ettari. Sulle due pagine: il Canopo di Villa Adriana. Si tratta di uno dei luoghi piú suggestivi del complesso, consistente in una piscina lunga oltre 100 m, ornata da statue e da un colonnato. a r c h e o 77


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/2 Sulle due pagine: i Centauri Furietti, cosí chiamati perché rinvenuti nella villa di Adriano a Tivoli negli scavi di monsignor Giuseppe Alessandro Furietti nel dicembre 1736. Le due sculture, in marmo bigio morato, sono opera degli scultori Aristeas e Papias. Età adrianea. Roma, Musei Capitolini. A sinistra, un particolare del Centauro Vecchio; nella pagina accanto, il Centauro Giovane.

peratore, immaginando di dare la parola direttamente allo stesso Adriano. Il quale arriva ad affrontare il tema del potere: il suo significato profondo, le sfide che impone, le regole e i compromessi che presiedono alla sua gestione. In proposito, si ricordi che il libro venne scritto, in piú fasi, in anni cruciali per la storia dell’Europa e del mondo. Non basta ancora: nel suo «monologo» l’imperatore affronta tematiche etiche, come il senso della vita e l’approccio verso la morte.

IL PUBBLICO E IL PRIVATO Vi sono narrate – sempre idealmente e in prima persona da un Adriano avanti negli anni e malato – le esperienze giovanili e il tirocinio militare che ne forgiarono il carattere; l’incontro con l’imperatore Traiano, di cui era parente e del 78 a r c h e o

quale piú tardi sposò la nipote; l’amore per la cultura greca; la vicinanza intellettuale con Plotina, la moglie dell’imperatore in carica; la diversa visione politica rispetto a Traiano pur in un quadro di accettazione sostanziale delle sue scelte; la successione faticosa e favorita da Plotina; gli anni di governo trascorsi in gran parte visitando le regioni dell’impero; il legame con Antinoo; la politica di rafforzamento dell’impero entro i suoi confini senza andare alla conquista di nuovi territori, anzi abbandonando quelli che era divenuto troppo oneroso controllare, come la Mesopotamia, l’Assiria e l’Armenia, divenuta, quest’ultima, uno Stato vassallo; la repressione violenta di rivolte come quella giudaica; l’adeguamento della macchina amministrativa alle nuove esigenze; l’avvio di una politica favo-

CAPOLAVORI IN VILLA Nella villa di Tivoli Adriano aveva raccolto numerose opere d’arte: originali greci, copie romane di pitture e sculture anch’esse greche, capolavori delle arti minori. Quell’insieme unico è andato in gran parte perduto, ma alcune opere sono giunte sino a noi: è il caso di due splendidi centauri in marmo bigio morato firmati dagli scultori Aristeas e Papias, originari di Afrodisiade in Caria, e ora conservati a Roma nei Musei Capitolini. Particolarmente ricca era la collezione di copie romane di ritratti di pensatori greci, a suggerire gli interessi filosofici dell’imperatore.


a r c h e o 79


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/2 Un tratto del vallo di Adriano con i resti di uno dei forti disposti a distanze regolari lungo il tracciato della barriera difensiva.

80 a r c h e o


SEPARARE I ROMANI DAI BARBARI Intorno al 121-122 d.C., Adriano visitò la Britannia e si rese conto della necessità di proteggere i territori conquistati facendo costruire una barriera «per separare i Romani dai barbari», come si ricorda nella biografia a lui dedicata e presente nella Historia Augusta. La muraglia era lunga 80 miglia romane e la sua costruzione iniziò con lo scavo di un vallum vero e proprio, ovvero di un ampio fossato che aveva già una funzione difensiva. Poi fu eretta una poderosa protezione in muratura, alta in origine 4,50 m circa. Il vallo era rinforzato da forti, castelli e torrette. Sulla sommità del muro di cinta era presente un camminamento di ronda. Su questa realizzazione Marguerite Yourcenar, nel suo romanzo, fa dire all’imperatore Adriano: «Quel baluardo divenne l’emblema della mia rinuncia alla politica di conquista».

revole allo sviluppo dell’attività edilizia e delle infrastrutture nelle città e nei territori dell’impero. Sino al racconto degli ultimi anni, quando: «mi adorano tutti; mi venerano troppo per volermi bene» e quando: «L’avvenire del mondo non mi angustia piú; non mi affatico piú per calcolare angosciosamente la durata, piú o meno lunga, della pace romana; m’affido agli dèi (...) Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine. La pace s’instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d’infondervi». NELLA PROSSIMA PUNTATA • Dezsó Kosztolányi a r c h e o 81


SPECIALE • PERÚ

TESORI DA UN ALTRO MONDO Veduta di Machu Picchu, città sacra degli Inca, situata sull’altopiano meridionale della Valle dell’Urubamba. 1450-1572 d.C.

82 a r c h e o


INTORNO ALLA METÀ DEL XIII SECOLO GLI INCA FANNO LA LORO COMPARSA NELLA VALLATA PERUVIANA DI CUZCO. NEL GIRO DI DUE SECOLI, SI IMPONGONO COME POTENZA EGEMONE, DANDO VITA A UN VASTO IMPERO, TRA I CUI SIMBOLI SPICCA LA GRANDIOSA CITTÀ SACRA DI MACHU PICCHU. QUELLA STRAORDINARIA PARABOLA, TESTIMONIATA DA UNA PRODUZIONE ARTISTICA RICCHISSIMA, VIENE ORA RIPERCORSA DAL MUSEO DELLE CULTURE DI MILANO IN UNA MOSTRA SPETTACOLARE di Ulla Holmquist e Carole Fraresso

a r c h e o 83


SPECIALE • PERÚ

U

na delle meraviglie del Nuovo Mondo, Machu Picchu, la grande cittadella inca annidata tra le montagne della Valle Sacra di Cuzco, in Perú, attende l’arrivo di migliaia di visitatori desiderosi di scoprire uno dei paesaggi culturali piú originali e speciali del pianeta. In un ambiente ricchissimo di biodiversità, i colibrí volteggiano sopra le orchidee, mentre le nuvole circondano questa struttura impressionante costruita circa 600 anni fa dall’Inca Pachacuti. Il Tawantinsuyu, l’impero che una volta occupava gran parte dell’America del Sud, rappresenta la fusione dello sviluppo culturale in questa area del mondo, il cui nucleo corrisponde, in gran parte, all’odierno Perú. La regione andina fu una delle ultime aree del Nuovo Mondo a essere popolata. Dopo la

84 a r c h e o

loro comparsa in Africa, centinaia di migliaia di anni fa, gli umani moderni cominciarono a popolare Asia ed Europa mescolandosi ad altre specie umane. Durante la fase finale dell’era glaciale, tra 25 000 e 12 500 anni fa, diversi gruppi umani di cacciatori e raccoglitori approfittarono del ponte di terra formatosi tra Alaska e Siberia per attraversare il continente americano. Intorno all’anno 12 500 a.C., questi gruppi umani si erano già stabiliti nei luoghi piú meridionali del Sudamerica, fino a Monte Verde (Cile). Queste comunità di cacciatori e raccoglitori svilupparono nuovi utensili e, affrontando la sfida relativa a una geografia complessa, si adattarono alla diversità degli ambienti e approfittarono delle varie risorse presenti in questa regione del mondo.

Copricapo frontale con pennacchi in oro e sodalite, Cultura chimu, 1100-1470 d.C. Lima, Museo Larco.


Cartina del Perú con l’indicazione dei piú importanti siti archeologici a oggi noti. In basso: bottiglia in ceramica decorata con un motivo a spirale. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco.

«Le rovine di Machu Picchu sono appollaiate in cima a una cresta ripida nell’angolo piú inaccessibile della zona piú inaccessibile delle Ande centrali. Nessuna regione degli altipiani peruviani è protetta in modo migliore da bastioni naturali – un canyon stupendo il cui bordo di granito si trova piú di un miglio sopra al fiume, con precipizi che sono spesso alti mille piedi» (Hiram Bingham)

Con i cambiamenti ambientali che corrispondono all’inizio dell’epoca attuale (Olocene) e la graduale acquisizione delle conoscenze, tra cui la comprensione vitale dei cicli naturali, si avviò una grande rivoluzione che cambiò per sempre l’umanità: lo sviluppo dell’agricoltura. Questo cambiamento non fu tuttavia semplice; le semine e i raccolti richiedevano cura costante e lunghi, faticosi giorni di lavoro. Molte comunità cominciarono a vivere insieme in modo permanente, accanto alle zone coltivate per dividersi il lavoro dei campi. Cosí, nell’area andina dell’odierno Perú, si svilupparono le società economicamente e politicamente piú complesse del Sudamerica. a r c h e o 85


SPECIALE • PERÚ

8000-2000 a.C.

2000-1250 a.C.

1250 a.C. 1 d.C.

1-800 d.C.

800-1300 d.C.

1300-1532 d.C.

1532 d.C.

PRE-CERAMICO

CERAMICO INIZIALE

FORMATIVO

APOGEO

FUSIONALE

IMPERIALE

CONQUISTA

COSTA NORD

HUACA PRIETA PAMPA DE LOS FOSILES PAIJAN

QUENETO

VICUS SALINAR VIRU CUPISNIQUE

MOCHE

LAMBAYEQUE HUARI NORD

CHIMU-INCA INCA CHIMU

COLONIALE

COSTA ORIENTALE

CHILLON SUPE

ANCON

BIANCO SU ROSSO PITTURA NEGATIVA

LIMA

HUARI CENTRO NIEVERIA

CHANCAY-INCA INCA CHANCAY ICHMA

COLONIALE

COSTA SUD

LA PALOMA

CURAYACO

PARACAS CAVERNAS

NAZCA PARACASNECROPOLIS

HUARI SUD

CHINCHA-INCA INCA CHINCHA

COLONIALE

ALTIPIANI

LE EPOCHE DEL’ANTICO PERÚ

GUITARRERO LAURICOCHA TOQUEPALA

HUARI PUKARA INCA CAJAMARCA CHACHAPOYAS CHAVIN HUARI CHACHAPOYAS SANTA-RECUAY PACOPAMPA TIAHUANACO

COLONIALE

MITO-KOTOSH

Circa 5000 anni fa, con l’aiuto di favorevoli condizioni climatiche, si svilupparono molto intensamente i processi di domesticazione degli animali e delle piante e la formazione di comunità, fino a costituire entità sociali molto complesse, in sei aree del mondo che chiamiamo «culle della civiltà». In Medio Oriente, nella zona tra il fiume Tigri e l’Eufrate nota come Mesopotamia, sorse la civiltà 86 a r c h e o

sumera. In Nord Africa, le terre rese fertili dal fiume Nilo furono lo scenario in cui si sviluppò l’antico impero egizio. In Asia, la civiltà fiorí sulle rive del fiume Indo e le prime grandi città dell’antica Cina furono costruite sulle rive del Fiume Giallo. Nel continente americano le prime civiltà nacquero in Mesoamerica e nelle Ande centrali. Nella regione andina, gli abitanti dei primi


In alto: bottiglia in ceramica con beccuccio a staffa in forma di animale lunare rampante o Drago delle Ande. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco. A destra: stele in pietra con l’immagine di una dea dalla vagina dentata. Cultura chavin, 1250 a.C.-100 d.C. Lima, Museo Larco. Nella pagina accanto: orecchino in oro, conchiglie di strombo e turchese con ornamento a mosaico raffigurante lucertole. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco.

villaggi agricoli costruirono collettivamente grandi complessi di architettura monumentale, come Caral, in cui si celebravano le cerimonie e si amministravano le comunità. Le comunità costiere beneficiarono della generosità del mare e crearono valli nel deserto; i gruppi che popolavano le valli montane e gli altipiani approfittarono della varietà delle risorse presenti a differenti livelli di altitudine. Vi fu, e continua a esservi, un continuo scambio di idee e di prodotti tra questi gruppi (segue a p. 90)


SPECIALE • PERÚ

IN CONTATTO CON IL «MONDO DI SOPRA»: LA COSMOVISIONE ANDINA

O

ggi molti di noi vivono in società di «consumo», ma questo modus vivendi esiste solo da poco piú di 200 anni. In tutte le società umane, per migliaia di anni, la maggior parte della popolazione occupava il proprio tempo a lavorare la terra e, quindi, aveva preoccupazioni simili, doveva risolvere problemi affini come la comprensione dei cicli naturali; solo grazie a essa era possibile gestire la coltivazione delle piante da cui gli animali e gli esseri umani dipendevano per il loro nutrimento. Le società dell’antico Perú erano, per lo piú, principalmente agricole e nel corso di migliaia di anni, tra tentativi ed errori, hanno accumulato esperienza e conoscenza dei cicli della natura che documentavano su vari materiali. Avevano osservato un mondo «di sopra», abitato dal Sole e da altri corpi celesti, le piogge, i venti, le tempeste e tutte le forze «superiori» che determinano la produzione e la vita, che hanno un loro ordine e sulle quali gli esseri umani non hanno alcun controllo. Era necessario essere in contatto permanente con questo mondo di sopra, perché lí si potevano «leggere» le informazioni necessarie per organizzare i tempi di lavoro e la vita comunitaria. Leggendo il cielo, gli osservatori specializzati (i primi «astronomi») sapevano quando le piogge sarebbero arrivate, se sarebbero state abbondanti o leggere e se i fiumi avrebbero portato l’acqua necessaria per irrigare i campi. Per trasmettere queste conoscenze e monitorare tali fenomeni stagionali o ciclici, era anche molto importante documentare i momenti in cui essi si verificavano, le loro caratteristiche e quali indicatori naturali erano collegati a essi. In tal modo, potevano «prevederli» o annunciarli, organizzare attività e cerimonie comunitarie in onore di questi potenti esseri «celesti» e propiziare, con rituali, gli equilibri della natura. Il «mondo di sopra», Hanan Pacha, è simboleggiato da esseri che hanno la capacità di volare verso di esso dalla terra: gli uccelli. Come il grembo materno Nella cosmovisione andina del mondo, il «mondo di sopra» esiste in costante relazione con un «mondo di sotto»: Uku Pacha. Questo è un mondo sotterraneo, dove si seminano e germogliano i semi, dove le radici delle piante crescono e si diffondono. È un mondo interiore, scuro e umido come il grembo

88 a r c h e o


Copricapo frontale in foglia d’oro con figure di felini e condor. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco.

materno dove si concepisce una nuova vita. La sua manifestazione fisica è Pachamama o Madre Terra, fertile e produttiva. Uku Pacha è anche dove vivono i morti che, una volta sepolti tornano al loro luogo d’origine e dove la vita viene (ri)generata. Il concetto di morte nelle Ande è diverso da quello del mondo occidentale; è inteso piuttosto come uno spazio abitato da individui che hanno attraversato la soglia della morte per tornare allo spazio primordiale, (ri)entrando da questo spazio da cui sono venuti e «usciti» al momento della nascita. Il mondo di sotto è associato anche all’acqua, che permette la vita, che ha origine all’interno della terra e si manifesta nei puquios o le sorgenti, i fiumi e le lagune. Nelle Ande l’Uku Pacha era simboleggiato da esseri che potevano entrarvi: i serpenti. Gli esseri umani vivono sulla superficie di contatto tra il mondo di sopra e quello di sotto. Lo spazio e il tempo dell’esperienza umana, il «qui e ora», è conosciuto come Kay Pacha, che è uno spazio di connessione o tinkuy, dove forze opposte e complementari interagiscono. È dove si stabiliscono le relazioni che generano la vita come l’unione della luce del sole con l’acqua e la terra che permette alle piante di germogliare. È anche l’ambito in cui si svolge il lavoro agricolo che contribuisce alla produttività della terra e dove avvengono le unioni sessuali che perpetuano la vita umana. Vivere su questa terra richiede sforzi e offerte costanti. Prendere la vita degli altri Per questo motivo il potere necessario per vivere nel Kay Pacha era simboleggiato dai grandi felini come il giaguaro e il puma, i principali predatori della regione andinoamazzonica che prendono la vita di altri esseri per continuare a vivere. Cosí, i felini rappresentano il Kay Pacha, gli uccelli l’Hanan Pacha, e i serpenti l’Uku Pacha. Questi sono i tre animali sacri dell’antico Perú. Il mondo di sopra e il mondo di sotto, cosí come lo spazio di contatto tra i due, hanno una propria organizzazione. Lo spazio, il tempo e le relazioni sociali sono organizzati in coppie di opposti complementari o yanantin, il cui incontro, o tinkuy, produce la vita e assicura la continuità. Le categorie binarie utilizzate nella suddivisione del tempo e dello spazio derivano dal modello riproduttivo della coppia umana. Data la «simmetria speculare», si potrebbero identificare categorie comparabili: il giorno, il mondo esterno o «di sopra», la stagione secca e il Sole sarebbero maschili, mentre la notte, il mondo interno o «di sotto», la stagione umida e la Luna sono femminili. Anche la geografia è intesa in questi termini: le colline e gli altipiani andini o Puna sono maschili, mentre l’interno della terra e le valli sono femminili. a r c h e o 89


SPECIALE • PERÚ

In basso: tamburo in ceramica sul quale è dipinta la figura di uno sciamano. Cultura nazca, 100-600 d.C. Lima, Museo Larco.

agricoli che condividevano sforzi collettivi enormi e una grande conoscenza dei cicli dell’acqua.

LEGGERE GLI OGGETTI Per spiegare il significato contenuto negli oggetti che le società indigene delle Ande centrali ci hanno lasciato dobbiamo ricorrere al contributo di diverse discipline tra cui l’antropologia, l’etnostoria, la linguistica e la storia dell’arte. Esse ci forniscono un quadro interpretativo che ci aiuta a capire i contesti e l’utilizzo degli spazi e dei manufatti recuperati dall’archeologia. È importante ricordare che la stragrande maggioranza delle idee sulle varie cosmologie originali sono state costruite in base a concetti, nozioni e categorie che, in un primo momento, sono stati interpretati da cronisti spagnoli per diffonderli nel Vecchio Mondo, dalle testimonianze etnostoriche e dalla documentazione dell’im90 a r c h e o


Ornamento per il naso in oro e turchese raffigurante un uomo con corda. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco.

pero Inca e del primo Per iodo coloniale (XVI secolo d.C.) e, successivamente, reinterpretate con studi disciplinari in tempi piú recenti. Inoltre è fondamentale tenere a mente che si tratta di uno sviluppo storico avvenuto in migliaia di anni e in un territorio vasto. Perciò bisogna capire ciò che intendiamo per cosmovisione andina (vedi box alle pp. 88-89), come un’idea non monolitica e che potrebbe differire da altre precedenti prospettive, dato che stiamo cercando di descrivere un periodo di circa 3000 anni della storia andina. Fortemente dipendenti dall’agricoltura per la loro sussistenza, le antiche società del Perú credevano che il loro mondo terrestre fosse popolato da esseri, umani e non umani, che interagivano tra di loro, ma anche con gli abitanti del mondo sotterraneo e con quelli dell’aldilà. In «questo mondo» (Kay Pacha, in quechua, il mondo del «qui e ora»), si lavora

la terra, si costruiscono e puliscono i canali, si erigono terrazze agricole, si scavano e puliscono canali d’irrigazione e si arano i solchi per seminare. Qui non succede nulla se non c’è una convergenza favorevole di forze che vengono «dall’alto» (da Hanan Pacha, il mondo esterno, superiore, celeste, visibile) che permette la vita: la luce e il calore del sole. Queste forze devono lavorare in modo complementare con l’acqua e col substrato fertile del «mondo sotterraneo» (Uku Pacha, il mondo che è interno, nascosto, umido e buio) per far germinare le piante. Nella cosmovisione andina, in questo mondo dell’esperienza umana convivono forze che si incontrano e, in questo incontro, generano movimenti nuovi, crescita e vita. Secondo questa visione del mondo, la vita personale, soprattutto la vita della comunità, è possibile solo grazie alle offerte agli dèi del mondo di sopra e all’adorazione dei defunti del mondo di sotto. In questo modo, si stabilisce un rapporto di mutuo impegno che assicura la presenza del Sole – che dà il calore e la luce necessari alla vita – e dell’acqua, che deve arrivare a irrigare i campi e a fertilizzare la terra. La vita umana si svolge cosí in una costante ricerca di equilibri de(segue a p. 102 ) a r c h e o 91


SPECIALE • PERÚ

FACCIA DA FELINO E CINTURA DI SERPENTE: LA MISTERIOSA IDENTITÀ DI UN EROE CIVILIZZATORE

L

a mitologia delle società precolombiane ci è giunta attraverso l’iconografia presente negli edifici e sui diversi oggetti realizzati dagli antichi Peruviani che sono stati utilizzati nei rituali e che facevano parte delle offerte funerarie dei capi politico-religiosi. Questi oggetti raffigurano simboli, personaggi, azioni rituali e persino episodi di saghe eroiche. Una delle narrazioni mitologiche che possiamo ricostruire ruota intorno a un personaggio della cultura moche (costa settentrionale del Perú, 100800 d.C.). Si tratta di un personaggio umano caratterizzato da attributi

animaleschi, molto attivo, capace di molteplici prodezze e di partecipare a numerose attività sulla terra, nel mondo di sopra e in quello degli antenati. È un personaggio eroico, un eroe civilizzatore, colui che, probabilmente, diede forma all’identità moche. Un personaggio senza nome Di questo mito non abbiamo sentito parlare da nessun Moche vivente, non l’abbiamo trovato scritto e non conosciamo nemmeno il nome di questo eroe, ma abbiamo scelto di chiamarlo Ai Apaec, termine preso in prestito dalla lingua muchik.

In realtà, non abbiamo certezza del modo in cui gli antichi abitanti delle valli del Nord chiamassero questo personaggio. Inoltre non sappiamo se il popolo di cultura moche parlasse muchik o un’altra lingua come la quingnam o lingua dei pescatori. L’archeologia, la linguistica e altre discipline continuano a cercare indizi e forse un giorno avremo delle risposte piú precise a tali quesiti. Quindi, perché chiamiamo questa figura Ai Apaec? Perché circa 80 anni fa, Rafael Larco Hoyle lo identificò nell’arte moche, descrivendone le caratteristiche e le

Ornamento per il naso in lega di Tumbaga (argento, oro, rame) raffigurante un granchio. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco.

92 a r c h e o


Bottiglia in ceramica con beccuccio a staffa raffigurante il leggendario Ai Apaec come granchio. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco.

azioni, e lo «battezzò» con questa parola muchik. Il termine, Ai Apaec, insieme a Chicopaec e altri, è incluso nella sezione delle preghiere nel glossario muchik del libro del missionario Fernando de la Carrera, in cui appare associato al termine «esecutore», cioè «uno che fa le cose», alludendo forse a una caratteristica del dio cattolico, durante l’epoca di evangelizzazione della popolazione indigena delle valli del Nord. Oggi il nome Ai Apaec si è affermato nell’archeologia dei Moche, ma è stato assegnato a varie figure mitologiche

o divine. Infatti, alcuni ricercatori usano altri nomi per riferirsi al personaggio che Larco Hoyle chiamò originariamente Ai Apaec, come «Faccia di rughe» o Quismique, che significa «vecchio», riferendosi al fatto che il personaggio invecchia nel corso delle sue avventure, o «Decapitatore» o «Tagliatore di gole», anche se in realtà esistono numerose divinità che compiono tali azioni. Pur consapevoli dell’origine di questo «soprannome» abbiamo scelto di utilizzare Ai Apaec che Rafael Larco Hoyle ha proposto, in quanto come ricercatore ha

a r c h e o 93


NUOVE IDENTITÀ Nell’antico Perú, le maschere avevano un’importanza particolare durante le cerimonie. Talvolta, la maschera poteva temporaneamente cambiare il volto e trasformare l’identità di sacerdoti che assumevano ruoli divini. In altre occasioni, come nei rituali funerari, la maschera copriva il volto del defunto per indicare la sua trasformazione in essere mitico e per rendere eterna la nuova identità che avrebbe portato con sè nell’altro mondo (Uku Pacha). Questa maschera funeraria, realizzata da una lastra di rame deformata, raffigura il volto divinizzato dell’eroe moche, Ai Apaec. Gli occhi e la bocca sono evidenziati dagli intarsi su conchiglie di Strombus per accentuare il carattere sacro dell’identità del defunto, mentre gli orecchini circolari fissati sulle orecchie indicano il suo status elevato. Infine, i fori situati sul bordo superiore dell’ornamento indicano che la maschera era cucita all’involucro contenente la mummia, sopra il volto del defunto, per rappresentare un’incarnazione post mortem di Ai Apaec. Il colore verde è dovuto agli effetti di ossidazione del rame, mentre il colore rosso originale potrebbe evocare le trasformazioni astrali legate ai cicli lunari, come quello della Luna rossa. Questo fenomeno astronomico, noto come «eclissi lunare totale», si verifica quando il sole, la terra e la luna sono perfettamente allineati. Tale inquietante fenomeno, come la morte di un leader, simboleggia il disordine. Per esempio, i Maya credevano che la Luna rossa segnalasse «una guerra tra gli dèi», mentre gli Aztechi credevano che fosse una battaglia tra il giorno e la notte; era un evento terrificante per le popolazioni che temevano di non vedere piú la luce del sole.

94 a r c h e o

dedicato molto tempo all’identificazione e all’analisi iconografica del nostro personaggio. Tuttavia, l’importanza di tale personaggio trascende davvero il suo nome. Ai Apaec è colui che ci accompagna alla scoperta di tutto ciò che è stato raccontato dagli antichi peruviani nella loro arte: i miti e le storie sulle origini delle società precolombiane, i cicli naturali e i riti relativi e, soprattutto, la vita e le avventure dei loro dèi e antenati. Come possiamo riconoscere questo personaggio? Ai Apaec ha le zanne e la corona di un felino ornata di piume di uccelli e orecchini che raffigurano serpenti. Vive in una valle fertile nel mondo del «qui e ora». Le zanne e la corona con la faccia di felino esprimono il suo potere terreno. Le piume sulla corona gli conferiscono il potere di viaggiare nel mondo di sopra. Gli orecchini, insieme alla cintura a forma di serpente, gli permettono di entrare nel mondo di sotto e il motivo a scalini sulla camicia ci


Particolare della decorazione di una ciotola in ceramica raffigurante episodi della saga di Ai Apaec. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco. Il personaggio, al centro della scena, è identificabile grazie alla camicia decorata da un motivo a gradini e alla cintura di serpenti.

indica che egli è in grado di passare attraverso questi mondi. Brevemente, il suo viaggio eroico è il seguente. L’eroe parte in missione da Kay Pacha, questa terra, e vola verso il mondo di sopra, Hanan Pacha, alla ricerca del Sole che sprofonda improvvisamente nel mare. Allora, l’eroe viaggia verso il mondo oscuro e profondo del mare, affrontando pericolosi avversari sulla riva e nelle profondità del mare. Poi, il nostro eroe muore ed entra nel mondo di sotto, Uku Pacha. Tuttavia, assistito da forze ancestrali, riesce a rinascere e a recuperare il suo potere. Riuscirà a salvare il Sole dalle tenebre e gli permetterà di tornare a brillare, assicurando cibo e sussistenza alla sua comunità. Il viaggio eroico di Ai Apaec è un viaggio individuale e collettivo; è il sogno personale trasformato in mito e un mito collettivo che diventa il simbolo di ogni esperienza individuale. Nel corso della storia ritroviamo personaggi eroici di questo tipo in ogni società del mondo: Gilgamesh

(Mesopotamia), Orfeo (Grecia), Ercole (Roma) e Gesú Cristo (Israele) hanno incarnato l’eroe mitologico civilizzatore che attraversa i mondi, affronta le sfide, muore e rinasce portando messaggi, insegnamenti e speranza di una costante rigenerazione al suo popolo. Questa interpretazione ipotetica del ciclo mitologico di Ai Apaec si basa sulle evidenze degli oggetti di ceramica scultorea e sui disegni dipinti o raffigurati in rilievo su altri vasi di ceramica. Ognuno di questi vasi può essere «letto», identificando i dettagli che presentano e comprenderli come capitoli di una narrazione piú ampia. Personaggi gemelli? È importante notare, tuttavia, che questa ricostruzione è stata realizzata prendendo in considerazione studi da un ampio corpus di rappresentazioni moche, prodotte in un lungo periodo di circa 500 anni. È probabile che il mito abbia subíto variazioni nel tempo e forse, assemblandoli, offriamo una

lettura che maschera o rende invisibili queste variazioni. Per esempio, alcune raffigurazioni si riferiscono a una coppia mitica di personaggi molto simili, che sono stati interpretati come una coppia di gemelli: uno di loro è legato al mondo terrestre, mentre l’altro è legato all’acqua. Troviamo alcuni riferimenti artistici collegati a essi nel periodo della cultura cupisnica, prima dello sviluppo di quella moche. Anche se alcune azioni di questa coppia mitica si intrecciano con quelle di Ai Apaec, col tempo la presenza dei gemelli svolge un ruolo secondario rispetto alla narrazione primaria che è invece incentrata sull’eroe Ai Apaec. Allo stesso modo, nelle fasi successive della cultura moche, alcuni episodi di combattimento da cui l’eroe è inizialmente uscito vittorioso sono presentati come vicende in cui viene sconfitto. Ciò mostrerebbe una variazione nel significato del mito che potrebbe corrispondere a importanti cambiamenti sociali come le crisi climatiche e politiche. a r c h e o 95


SPECIALE • PERÚ

VITE CHE DIVENTANO SACRE

P

er le società precolombiane i sacrifici servivano a mantenere l’ordine del mondo e che aiutassero a frenare i disastri naturali, come quelli causati dai terremoti o dalle piogge torrenziali del fenomeno El Niño. I sacrifici umani e animali sono sempre stati una pratica ricorrente nelle società antiche. Il sacrificio consisteva nell’offrire una vittima per placare la furia degli dèi, degli spiriti o delle forze cosmiche. La morte, lo spargimento di sangue o la mutilazione corporale trasformavano ritualmente la vittima. Cosí, la vita offerta, trasformandosi, diventava sacra (sacrum facere). In Mesoamerica, gli Aztechi praticavano la «Guerra dei fiori» che terminava con il sacrificio dei guerrieri sconfitti. Tra i Maya, il rituale del «Gioco della palla» sembrava concludersi col sacrificio di alcuni giocatori. La preparazione delle vittime Il sacrificio umano è l’atto centrale di quasi tutte le religioni. In Perú, lo studio delle immagini moche ha permesso di ricostruire la sequenza cerimoniale piú importante di questa società. Comincia con un combattimento rituale e termina con il sacrificio dei guerrieri sconfitti nello scontro. Lo scopo principale del combattimento rituale era quello di ottenere vittime per i sacrifici, che poi venivano accuratamente preparate nel contesto di azioni

96 a r c h e o

ritualizzate. Il perdente veniva spogliato e legato con le mani dietro la schiena; la sua raffigurazione con una frangia corta indica che gli venivano tagliati i capelli. I prigionieri sono raffigurati nudi, ancora forti e sessualmente potenti, alcuni conservano gli orecchini come segno distintivo del loro alto rango. I loro corpi venivano dipinti con vari simboli come il motivo della scala, che esprime la connessione tra i mondi, e quello della spirale che esprime la continuità dei cicli e la rigenerazione della vita. Le loro armi e i loro vestiti venivano confiscati come bottino da trasportare al tempio durante la processione dei guerrieri prigionieri. Attraverso tutte queste azioni, i prigionieri perdevano simbolicamente la loro identità, cessando di essere ciò che erano per diventare i depositari del sangue sacro offerto in cambio agli dèi. Nell’arte moche, l’atto finale del sacrificio è illustrato in maniera dettagliata su una ceramica dipinta del Museo Larco, grazie alla rappresentazione di una delle scene mitologiche piú importanti di questa società. Le scoperte archeologiche in varie tombe moche hanno permesso di identificare gli ornamenti e gli oggetti associati agli attori del rituale sacrificale, confermando che alcuni signori e signore di questa società avevano un ruolo secolare nello svolgimento di

questa grande cerimonia. In questa ceramica, che ha per tema il sacrificio, lo spazio scenico è diviso in due da un serpente bicefalo con due teste feline. Conosciuto anche come Amaru, questo essere mitologico, associato all’arcobaleno, simboleggia l’incontro delle stagioni secca e umida ed è l’elemento di collegamento tra il mondo di sopra, degli dèi, e il mondo terreno, degli uomini. Nella parte inferiore, gli officianti divinizzati, come il felino antropomorfo, tagliano la gola dei prigionieri con un coltello cerimoniale a forma di mezzaluna, chiamato tumi. Il sangue delle vittime veniva ottenuto sgozzandole in spazi chiusi all’interno dei templi e in un ambiente riservato esclusivamente a sacerdoti, sciamani e capi moche. L’offerta della coppa Raccolto in una coppa cerimoniale da una sacerdotessa dalle lunghe trecce o dalla Dea della Luna, il liquido sacro veniva poi trasportato in cima ai templi, nel mondo di sopra o degli dèi, su una lettiga a forma di serpente con due teste feline. Il trasporto del sangue era una tappa fondamentale del rituale che permetteva di collegare gli eventi del mondo terreno con le azioni che le divinità dovevano compiere per assicurare l’inizio di un nuovo ciclo. Nel mondo di sopra, si svolge la scena dell’offerta cerimoniale della coppa, in cui sono rappresentate le principali divinità moche. Cosí, il Dio Radioso riceve la coppa contenente il sangue del sacrificato dalle mani dell’UccelloGuerriero, accompagnato dalla Dea della Luna e dal Dio Gufo. In questo atto finale, gli dèi o i loro rappresentanti sulla terra ricevono l’offerta suprema in cambio del ripristino dell’ordine del mondo.


Bottiglia in ceramica sulla quale è raffigurata la cerimonia del sacrificio e presentazione della coppa. Cultura moche, 100-800 d.C. Lima, Museo Larco.

Nella pagina accanto: restituzione grafica della decorazione di una bottiglia in ceramica simile a quella qui riprodotta, raffigurante anch’essa la cerimonia del sacrificio e presentazione della coppa.

a r c h e o 97


SPECIALE • PERÚ

ORO E ARGENTO PER I NOBILI CHIMU

I

l declino della società moche e la perdita di credibilità dei loro capi regionali spinsero le popolazioni, fin dall’800 d.C., a cercare nuove ideologie su cui basarsi. Tutto nasceva dall’incontro con le tradizioni andine del Sud e coincideva con l’espansione della cultura huari, originaria della regione di Ayacucho. Cosí, i territori costieri del Nord del Perú videro l’emergere dei regni Lambayeque (800-1100 d.C.) e Chimu (900-1532 d.C.), che avevano un carattere piú imperiale. Il loro sviluppo coincise con la piena ripresa della produzione di oro e la comparsa di numerosi gioielli d’argento sul

mercato cerimoniale. Questo fenomeno è legato allo sfruttamento delle ricchezze minerarie delle montagne del Nord e a un cambiamento significativo del panorama politico e religioso. Verso il monoteismo In particolare, l’ornamento conobbe un nuovo impulso con la «riforma» istituita dalla religione dell’impero chimu. Le divinità mitologiche della tradizione moche furono abbandonate per le principali divinità astrali del Sole e della Luna, arrivando perfino a stabilire una forma di monoteismo. La religione chimu era dominata dalle divinità femminili della luna, Shi, e del mare, Ni, simboleggiate dall’argento e da rappresentazioni ricorrenti di motivi marini come il pesce, il pellicano, le onde, e lo Spondylus o mullu. Per i Chimu, la Luna, che appare di giorno e di notte e influenza le In alto: manufatti in oro facenti parte di un corredo funerario imperiale. Cultura chimu, 1100-1470 d.C. Lima, Museo Larco.

98 a r c h e o

Sulle due pagine: ornamenti d’argento dei signori chimu. Cultura chimu, 1100-1470 d.C. Lima, Museo Larco.


maree e la crescita delle piante, era una divinità piú potente del Sole. Jiang, il venerato Sole, era associato alle pietre sacre chiamate alaecpong che i Chimu consideravano come antenati regionali discendenti dal Sole. Gli orafi e gli argentieri chimu esprimono la loro raffinatezza in composizioni strutturate: i gioielli diventano piú architettonici. La linea retta disegna forme geometriche i cui piani giocano su opposizioni e contrasti; cosí, le superfici piene si oppongono armoniosamente a quelle vuote. Linee e curve cesellate si combinano con delicatezza ed eleganza per creare scene complesse. I Chimu amavano le decorazioni in rilievo, traforate e cesellate, che combinavano abilmente nel metallo per ottenere decorazioni dettagliate. Le montature dei gioielli diventano piú pesanti e il sistema di fissaggio degli ornamenti per il naso cambia con l’uso di fili d’argento piegati, alla maniera di una «pinza da naso». Questo periodo vide una serie di miglioramenti e di nuove tecniche di decorazione: l’incisione perforata, che consisteva in punti perforati

sulla lamina, e la timbratura, che rendeva possibile riprodurre lo stesso motivo martellando la lamina sul retro con una matrice. Questi perfezionamenti tecnici furono accompagnati da una rivoluzione artistica: le rappresentazioni umane dominarono e diventarono piú realistiche. Gioielli e copricapi maestosi L’iconografia chimu si limita ora a figure stereotipate eseguite in ripetizione sulla superficie degli ornamenti. Cosí, le raffigurazioni osservate sono per lo piú associate al mondo marino e alla figura del sovrano o dell’antenato. Per esempio, le narigueras mostrano la figura di un uomo rappresentato al centro di un’architettura a gradini che si riferisce alle piattaforme funerarie dove venivano sepolti i sovrani e dove risiedono gli antenati. Gli individui della nobiltà sono rappresentati sempre in una posizione privilegiata, adornati con maestosi copricapi piumati, abiti e orecchini: vengono trasportati su lettighe o tengono in mano pesci o coppe cerimoniali. Infine, sono associati ad attività di acquisizione

di beni esotici come la raccolta di Spondylus princeps dal mare. Nell’antico Perú, il valore simbolico di questo mollusco endemico delle calde acque ecuadoriane era associato al culto della fertilità e ai rituali di propiziazione della vitalità ancestrale. La progressiva conquista dei territori del Nord, allora abitati dalle società lambayeque per controllare le rotte commerciali, non è estranea all’acquisizione di questa conchiglia sacra: il mullu è il cibo degli dèi. Infine, altri ornamenti, come orecchini e copricapi frontali, mostrano simboli ricorrenti della cosmovisione andina: motivi a gradini e a spirale, rappresentazioni di animali divini indicano la connessione tra i mondi.

a r c h e o 99


SPECIALE • PERÚ

AGRICOLTURA D’ALTA QUOTA

L

e grandi città e i santuari del Perú antico testimoniano la complessità delle società precolombiane. Si tratta per lo piú di società agricole che, nel corso di migliaia di anni, hanno sviluppato conoscenze e tecnologie che hanno permesso loro di lavorare la terra in modo efficiente e produrre una grande diversità di colture. Considerando quanto preziosa fosse l’acqua, indispensabile per l’agricoltura, gli abitanti del Perú antico si preoccupavano di comprendere i suoi cicli, di imparare a gestirne la forza e, soprattutto, di usarla correttamente. Nel corso della storia precolombiana, la gestione delle conoscenze idrologiche e astronomiche, insieme alla varietà di risorse rese disponibili attraverso le relazioni sociali, determinò la formazione di leadership e di vari sistemi politici, come signorie, Stati e imperi. Gli abitanti dell’antico Perú crearono sistemi ingegnosi per trattenere l’acqua piovana dagli altipiani e lagune artificiali, chiamate cochas. Canali e terrazzamenti Costruivano canali sotterranei e acquedotti, sfruttavano le sorgenti, o puquios, e catturavano l’acqua dalle cime andine attraverso un sistema, detto amuna, che raccoglieva l’acqua dalle sorgenti naturali e la reindirizzava alle pendici della montagna. Allo stesso modo, costruivano imponenti terrazzamenti, andenes, gestendo il suolo, le pendenze e l’insolazione, tanto da trasformare queste aree in veri e propri laboratori per ottenere i migliori rendimenti da una grande diversità di colture. Riuscivano a coltivare con successo in zone costantemente minacciate dal freddo e dal gelo, grazie a un ingegnoso sistema di campi rialzati,

100 a r c h e o

i camellones o waru-waru, che evitava il congelamento delle colture e allo stesso tempo riusciva a sfruttare la forte luce del sole accumulata durante il giorno e il calore emesso durante la notte. Ancora oggi queste tecniche agricole sopravvivono e mostrano la loro efficacia in un territorio sempre piú vulnerabile per la scarsità

d’acqua causata dal riscaldamento globale. Nella regione andina, queste conoscenze agricole e idrauliche hanno permesso il rapido aumento delle scorte di prodotti derivanti dalla domesticazione agricola. Senza prodotti come la patata nella sua grande diversità, quinoa, kiwicha, mais e vari tipi di legumi che alimentavano la


I terrazzi agricoli (andenes) di Moray, nella Valle sacra degli Inca. Le grandi terrazze circolari concentriche, disposte a «imbuto» all’interno di una serie ravvicinata di depressioni naturali del terreno, opportunamente scavate e rimodellate.

popolazione che abitava tutte le zone altitudinali della zona andina centrale nel corso dei millenni, non potremmo nemmeno concepire l’alimentazione del mondo di oggi. Garanzia di sussistenza La produzione della terra che assicurava la sussistenza e la riproduzione delle comunità era

organizzata collettivamente. Attività come la preparazione della terra, la pulizia dei canali e degli acquedotti, la semina, la cura delle piante in germinazione e la raccolta si svolgevano nell’ambito di festeggiamenti o rituali segnati nel calendario agricolo della comunità. Nel caso di formazioni politiche piú complesse, come signorie, stati o

imperi, erano le élites politicoreligiose a esercitare un controllo piú diretto sullo svolgimento di alcuni di questi rituali, in quanto ciò assicurava la coesione dell’entità politica e ne legittimava il potere, poiché diventavano esse stesse intermediari importanti e necessari tra gli abitanti di questa terra, gli dèi e gli antenati.

a r c h e o 101


SPECIALE • PERÚ

siderati, in un mondo in cui tuttavia sorgono frequentemente squilibri, come quelli prodotti ogni tanto da piogge torrenziali causate dall’effetto di El Niño, o da gravi siccità o terremoti devastanti. Gli oggetti archeologici che oggi possiamo vedere esposti nelle vetrine dei musei provengono principalmente dalle sepolture di governanti, sacerdoti e sacerdotesse del Perú antico. Alcuni di questi oggetti, sepolti nelle tombe, erano utilizzati in varie cerimonie, o erano gli indumenti che i capi politico-religiosi indossavano durante la vita e che poi venivano sepolti con essi. Perciò hanno la funzione di comunicare le identità dei loro utilizzatori sia quelle terrestri sia quelle che avrebbero assunto dopo la morte, per indicare le gerarchie ed esprimere i rapporti di potere esistenti nella società. Questi oggetti sono stati creati per stabilire dei canali tra i vivi e i morti, tra umani e forze della natura, perché nella visione del mondo delle società originarie delle Ande centrali, gli oggetti potevano essere considerati esseri animati in un mondo in cui inte102 a r c h e o

ragivano con gli altri. I loro messaggi agivano nel contesto specifico a cui prendevano parte – che si trattasse di una festa, di una cerimonia o di un rituale domestico o comunitario – e in accordo con gli agenti sociali che li mettevano in azione. Tutti gli oggetti sono espressione del potere creativo di chi li ha prodotti e condividono un’essenza animata comune: la forza vitale che ispira ogni cosa esistente sulla Terra, che nella lingua quechua si chiama camaquen.

MOLTEPLICI LINGUAGGI VISIVI Tutti gli oggetti che fanno parte di questa mostra esprimono il modo di intendere e di rappresentare la comprensione del mondo delle società che li hanno creati, il modo in cui essi identificavano e capivano gli esseri che abitavano i diversi mondi e come spiegavano le relazioni tra di essi. I vasi e le figure di ceramica, gli oggetti tessuti o ricoperti di piume, i contenitori e gli ornamenti corporei di metallo, di osso e conchiglia, come pure le sculture di legno e pietra, sono manufatti attraverso cui i loro creatori han-

Un’altra veduta dei grandiosi terrazzamenti agricoli realizzati dagli Inca nella Valle sacra, presso Moray, una trentina di chilometri a nordovest di Cuzco.


no costruito un discorso narrativo all’interno dei loro rispettivi sistemi culturali. Nell’antico Perú, le forme tradizionali di espressione si concentravano sulla visualità e sulla materialità degli oggetti. Questo si può ancora vedere nella produzione artistica contemporanea in varie regioni del Perú e nelle varie espressioni della cultura comunitaria viva nel paese. In tal senso, gli oggetti artistici erano parte di sistemi visivi di comunicazione, altamente simbolici. Tuttavia, a causa della diversità etnica e linguistica presente nelle Ande, probabilmente non esisteva solo un linguaggio visivo ma diversi, ognuno con le proprie strutture e regole di composizione e costituito da segni ed enunciati i cui significati dipendevano non solo dalle scene iconografiche, dai disegni e dai personaggi, ma anche dai materiali, dai metodi di assemblaggio e dai contesti in cui venivano creati e utilizzati. Proprio come nel Perú moderno, nel Perú antico esisteva una grande diversità culturale e, in vari momenti della storia andina, si sono verificati processi di integrazione politico-

religiosa che hanno coinvolto diverse popolazioni e che hanno anche permesso di condividere nozioni culturali espresse in repertori visivi simili. L’espansione dell’impero Inca, o Tawantinsuyu, durante il XV secolo d.C., fu probabilmente uno dei momenti di massima integrazione, ma ce ne erano stati altri in precedenza, sia durante il consolidamento della cultura moche sulla costa settentrionale del Perú negli anni 400-700 d.C. circa, sia nel periodo di espansione della cultura huari sulla costa meridionale e negli altipiani tra gli anni 600 e 900 d.C. A causa di questi processi, certi simboli e regole di composizione del linguaggio visivo si erano trasformati in una sorta di lingua franca in alcune regioni, attraverso la quale era possibile condividere contenuti con individui che appartenevano a diversi gruppi etnici e che parlavano lingue diverse. In alcuni casi, certi simboli e disegni sono stati resi popolari attraverso sforzi intenzionali da parte delle élites al potere o da coloro che si occupavano dell’espansione e della conquista, ma in generale l’interazione e lo scambio costante di beni e informazioni tra i diversi gruppi etnici, vissuti fianco a fianco in questi territori per migliaia di anni, avevano portato allo sviluppo di alcune nozioni cosmologiche condivise (categorie di organizzazione del tempo e dello spazio) e regole condivise di comunicazione visiva. Tutto questo si esprime negli oggetti, in particolare quelli utilizzati in contesti rituali o pubblici nel corso della storia della civiltà andina. I testi di questo Speciale sono tratti dal catalogo della mostra e appaiono per gentile concessione degli organizzatori e dell’editore Laboratoriorosso. DOVE E QUANDO «Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú» Milano, MUDEC-Museo delle Culture fino al 19 febbraio 2023 Orario lunedí, 14,30-19,30; martedídomenica, 9,30-19,30 (giovedí e sabato, apertura serale fino alle 22,30) Info tel. 02 54917; e-mail: helpdesk@ ticket24ore.it; www.mudec.it a r c h e o 103


ARCHEOTECNOLOGIA • ORGANO IDRAULICO

LA «TASTIERA» DI CTESIBIO NOTO COME HYDRAULIS, L’ORGANO IDRAULICO RAPPRESENTA UNA DELLE GENIALI INVENZIONI ATTRIBUITE ALL’INGEGNERE VISSUTO AD ALESSANDRIA NELLA PRIMA METÀ DEL III SECOLO A.C. LO STRUMENTO, UN SISTEMA COMPLESSO DI SERBATOI E CONDUTTURE, FUNZIONAVA SOPRATTUTTO GRAZIE A UN’INTUIZIONE CHE AVREBBE FATTO SCUOLA NEI MILLENNI A SEGUIRE… di Flavio Russo

L’

invenzione dell’organo, lo strumento musicale piú complesso e voluminoso, viene attribuita a Ctesibio di Alessandria, ingegnere greco attivo nel III secolo a.C., e la sua creazione, con il nome di hydraulis, non differiva granché, almeno concettualmente, dalla versione odierna. Analoghe erano le canne metalliche affiancate, di vario diametro e altezza, analoga era la loro attivazione tramite l’aria compressa e analoga anche la tastiera che la distribuiva. In realtà, l’organo alessandrino era un concentrato di molte invenzioni a partire dal mantice bicilindrico, un congegno attribuito anch’esso a Ctesibio (ma che forse già allora non era del tutto ignoto), i cui due stantuffi, abbassandosi, comprimevano l’aria e, sollevandosi, l’aspiravano. L’indiscutibile componente originale, invece, priva di premesse e, per contro, la piú presente nel nostro vissuto quotidiano, fu la tastiera. Quest’ultima consentiva di scegliere la canna da far vibra-

104 a r c h e o

Qui accanto: resti del piú antico organo idraulico a oggi noto, rinvenuto in Grecia, nei pressi della città di Dion. I sec. a.C. Dion, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: gruppo in marmo raffigurante Pan, dio delle montagne e della vita agreste, che insegna al giovane Dafni a suonare un flauto a canne. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


a r c h e o 105


ARCHEOTECNOLOGIA

re, una soluzione che ricompare, circa quindici secoli piú tardi, negli organi trecenteschi e quattrocenteschi, assurgendo, da quel momento, a comando onnipresente, sia pure con diversi adattamenti. Una tastiera molto simile a quella dell’organo, per esempio, fu messa a punto per le prime macchine da scrivere agli inizi dell’Ottocento, tanto che la macchina venne denominata «cembalo scrivano». Ebbe poi la sua tastiera anche il combinatore telefonico, che nei modelli piú recenti è tornata a far corrispondere un preciso suono a ciascun tasto, ma l’apoteosi fu raggiunta con i computer, imponendosi in svariate fogge, ma sempre di uguali funzioni. Se il criterio informatore della tastiera di Ctesibio era lo stesso della nostra, non cosí lo fu però il sistema di movimentazione dei tasti, in particolare del loro rientro dal momento che ancora non si conosceva la molla. Alcuni secoli piú tardi, del resto, la stessa tecnologia romana la In alto: uno zampognaro e un suonatore di flauto in un dipinto settecentesco. A sinistra: piccolo gruppo in terracotta raffigurante una suonatrice di organo e un suonatore di tuba, da Alessandria. Età ellenistica. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: spaccato assonometrico ricostruttivo di un organo idraulico romano.

106 a r c h e o

ignorava, se non in forme embrionali per le serrature. A ogni tasto fu perciò vincolato un piccolo peso, che, sollevato dalla battuta, lo riportava in posizione orizzontale ricadendo al suo cessare.

IL FLAUTO DI PAN Sotto il profilo musicale, l’organo si può considerare il perfezionamento della siringa dei pastori: una fuga di canne di diversi diametri e lunghezze, strettamente affiancate fra loro in modo tale che, soffiando, ora nell’una ora nell’altra, se ne ricava un diverso suono. Per la mitologia fu lo strumento del dio Pan (e infatti è conosciuto anche come flauto di Pan), dalla cui immagine, con le corna e gli zoccoli caprini, il cristanesimo trasse quella del demonio. Se nella siringa, per ottenere una sequenza armonica, è necessario far scorrere dinanzi alle labbra le canne, fungendo le gote rigonfie da compressore pneumatico, nell’organo


sarebbe occorso un equivalente meccanico che, aumentata la pressione dell’aria, ne avrebbe poi consentito lo smistamento alle canne. Compiti svolti dal suddetto compressore bicilindrico di bronzo e dalla tastiera: la regolazione della pressione ottenuta variando il turgore delle gote, o, nel caso della zampogna, premendo la sua vescica con l’avambraccio sinistro, richiese nell’organo un apposito dispositivo per stabilizzarla. L’aria prodotta dai due mantici, dapprima a soffietto e poi cilindrici, giungeva alle canne, per lo piú di stagno o

piú raramente di bronzo, tramite piccoli condotti, deviata secondo la necessità con apposite chiavette. La maggiore deficienza di un dispositivo siffatto, infatti, se da una parte era il ritardo fra la pressione del tasto e l’emissione del suono, era, dall’altra, proprio l’ampia escursione della pressione dell’aria in assenza di un efficace stabilizzatore. In sua assenza, infatti, questa dipendeva dal minore o maggiore prelievo delle canne, in funzione, a sua volta, del brano musicale e del suo volume. Nei casi peggiori, da un certo momento in poi, non ve ne era piú a sufficienza, soprattutto impiegando mantici a soffietto. La produzione dell’aria compressa può avvenire, ora come allora, soltanto facendo diminuire il volume del suo contenitore, per cui la procedura piú semplice consisteva nello schiacciare un otre o una vescica di adeguate dimensioni, ovviamente in modo da potergli far riassumere la forma iniziale.

GUANCE DI LEGNO La soluzione arcaica fu trovata accoppiando ermeticamente, con una fascia di pelle, due guance di legno munite di manici e di due aperture. La prima, ampia e al centro di una guancia, la seconda stretta e conica in corrispondenza della cerniera. Per entrambe, due sottili lingue mobili fungevano da valvole: divaricando le guance, si chiudeva l’apertura conica e si apriva la centrale, consentendo l’aspirazione dell’aria; avvicinando le guance si chiudeva quest’ultima e s’apriva la precedente, costringendo l’aria a fuoriuscire con una discreta pressione. Quel modesto congegno, prodotto in tutte le fogge e in tutte le grandezze, trovò innumerevoli ulteriori impieghi: se ne realizzarono di minuscoli per il focolare domestico, di enormi per la metallurgia e dal XIV secolo in poi, anche per gli organi. a r c h e o 107


ARCHEOTECNOLOGIA • ORGANO IDRAULICO

L’aria compressa serviva ad attizzare i forni fusori e le forge dei fabbri ferrai: da tempo si sapeva che insufflando aria sulla brace questa sviluppava una piú alta temperatura, manifestata anche dalla maggiore luminosità della fiamma. Vi era però, soprattutto nelle attività siderurgiche, un penalizzante inconveniente nell’impiego del mantice, ovvero la mancata emissione del flusso d’aria durante la fase di aspirazione. L’aria compressa si manifestava, perciò, con un regime in-

termittente, che, se non proprio sfasamenti durante la manovra, si deleterio, risultava di certo limitati- fissassero bilancieri presso le oppovo per le suddette applicazioni. ste estremità dei manici che ne impedivano l’azionamento contemporaneo nel medesimo verso. UN FLUSSO CONTINUO Tale deficienza venne eliminata ac- Di gran lunga piú semplice da imcoppiando due mantici in modo piegare, sebbene piú complesso da tale da poterli far funzionare in ma- costruire, era il mantice a due cilinniera alternativa, per cui, quando dri con stantuffi, azionati alternatiuno si alzava per aspirare, l’altro si vamente con apposite leve. Di stretabbassava per comprimere, fornen- ta derivazione dalla pompa di Ctedo cosí un flusso, se non proprio sibio, rinomata come Ctesibica Macostante, almeno pulsante, ma con- china, consentiva di imprimere tinuo. È probabile che, per evitare all’acqua aspirata una cospicua presIn alto: mosaico raffigurante gladiatori e musicanti, tra i quali si riconosce un suonatore di organo idraulico, da Leptis Magna (Tripolitania, Libia). III sec. d.C. Tripoli, Museo Archeologico. A sinistra: Istanbul. La faccia della base dell’obelisco di Teodosio nel cui registro inferiore compare, fra gli altri, un suonatore di organo idraulico (sulla sinistra). IV sec. d.C.

108 a r c h e o


sione che accresciuta dal ristretto ugello di scarico forniva un getto violento, utilizzato soprattutto per domare gli incendi. Ben presto si vide che, oltre all’acqua, con la stessa macchina si poteva, riducendone le tolleranze con opportune guarnizioni, comprimere anche l’aria, esattamente come un tradizionale mantice. È pressoché impossibile indicare le infinite applicazioni di quel congegno: basti solo ricordare che grazie a esso funzionano i nostri motori termici, gli attuatori idraulici, le siringhe per uso medico, ecc.

MANTICI PRIMITIVI Ed esattamente come nei mantici a soffietto, per evitare che l’emissione fosse intermittente, si accoppiarono due cilindri fissando i relativi stantuffi a un bilanciere, in modo che uno si sollevasse quando l’altro si abbassava. Concettualmente, il compressore bicilindrico non era una gran novità, poiché, a livello embrionale, si può rintracciarlo in alcuni mantici primitivi, realizzati con canne di bambú, utilizzati per l’attività siderurgica presso alcune comunità antiche. In questo caso l’aria necessaria alla forgia viene insufflata tramite un mantice costruito con due canne di bambú o di legno, munite di rozze valvole a lamelle e di stantuffi sempre di legno. Le relative bielle, che consistono in semplici aste rigide, vengono alzate e abbassate con entrambe le mani, in modo ritmico, a orecchio, mancando il bilanciere. È probabile che questo congegno fosse stato in qualche modo osservato e studiato dagli scienziati al seguito di Alessandro prima di giungere a conoscenza di Ctesibio. Un mantice, quindi, molto piú piccolo ma capace di produrre un notevole flusso di aria compressa e, dettaglio significativo in uno strumento musicale, senza l’ansimare del mantice a soffietto. Si spiega forse cosí l’adozione nell’organo ad acqua, di una Ctesi-

Mosaico della villa romana scoperta a Nennig (Germania) raffigurante un suonatore di organo idraulico e uno di corno. III sec. d.C.

bica Machina, un compressore a due cilindri e stantuffi dal movimento alternato, collocato come tutte le rappresentazioni per venuteci dell’organo confermano, su entrambi i fianchi della sua cassa. Questo, infatti, non solo poteva fornire piú aria a parità d’ingombro, ma poteva anche incrementarla sensibilmente, aumentando la corsa degli stantuffi o il diametro dei cilindri. Il vantaggio, pertanto, nelle attività industriali fu subito evidente, tanto che Polibio (Storie XXI, 28, 15), in un suo brano, ricorda il diffondersi di un mantice diverso dal tradizionale, alludendo verosimilmente proprio al suddetto. Non bastava però produrre in quantità sufficiente l’aria compressa, ma per far funzionare l’organo occorreva anche stabilizzarne la pressione e disporre di una discreta quantità di riserva di quest’ultima. Questo ruolo nella zampogna è svolto dall’otre, la cui pressione

viene regolata dallo zampognaro, come accennato, tramite la pressione del suo braccio sullo stesso. L’idea in qualche modo ispirò il costruttore dell’organo per cui, dopo le valvole di non ritorno dei cilindri, mandò i due tubi a una sorta di campana posta all’interno di un serbatoio parzialmente colmo d’acqua. Dalla campana usciva un terzo tubo che portava l’aria alla tastiera, da dove era distribuita tramite tasti e chiavette alle canne. Agendo sui mantici, la pressione dell’aria all’interno della campana sarebbe aumentata se l’acqua, abbassandosi di livello, non l’avesse diminuita. Il prelievo da parte delle canne, invece, l’avrebbe ridotta ma il sollevarsi dell’acqua l’avrebbe riportata al suo valore. L’acqua, pertanto, variando continuamente il suo livello manteneva la pressione sostanzialmente costante, per cui si comportava per l’aria da stabilizzatore e da serbatoio. a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

I DIAVOLI DEL COLOSSEO SIMBOLO DELLA GRANDEZZA DI ROMA, L’ANFITEATRO FLAVIO FIGURA SU VARIE EMISSIONI IMPERIALI. MA, DOPO L’ABBANDONO, LA SUA MOLE DIRUTA SI TRASFORMA NELLA SEDE DI DIVINITÀ PAGANE, DEMONI E ANIME PERSE

L’

Anfiteatro Flavio è universalmente piú noto con la denominazione di Colosseo, che ricorre a partire dall’VIII secolo, quando per primo la utilizzò – almeno cosí si ritiene – il dottore della Chiesa e santo Beda il Venerabile (672 o 673-735), monaco e storico anglosassone. Famosa è la sua frase «Quamdiu stabit Colyseus stabit et Roma; quando cadet Colyseus cadet et Roma; quando cadet Roma cadet et mundus»: «Fin quando ci sarà il Colosseo ci sarà anche Roma; quando cadrà il Colosseo cadrà anche Roma e quando Roma cadrà,

cadrà anche il mondo» (Beda, in Excerptis seu Collectaneis apud Ducange Glossar, II, p. 407).

VIAGGIATORI ANGLOSASSONI Benché diruta, la mole dell’anfiteatro che ancora si poteva ammirare nell’VIII secolo è qui considerata come emblema della passata grandezza imperiale e Beda, che non venne mai a Roma, doveva conoscere questa profezia già antica, forse riportata da

viaggiatori anglosassoni, che vedeva nel monumento il fondamento dell’eternità dell’Urbe. Ricchissimo è il repertorio delle immagini, su ogni tipo di supporto, che vedono protagonista l’anfiteatro, a cominciare dalle monete battute per la sua inaugurazione, avvenuta il 21 aprile dell’80 d.C. sotto Tito. L’imperatore emise nell’80-81 d.C. una

Sesterzio emesso dall’imperatore Tito. 80-81 d.C. Su un lato, il principe seduto su sella curule con ramo e volumen nelle mani, attorniata da spoglie d’armi; sull’altro, l’Anfiteatro Flavio.

110 a r c h e o


interessante serie di sesterzi che recavano su un lato l’immagine del principe seduto su sella curule con ramo e volumen nelle mani, attorniata da spoglie d’armi (legenda IMP T CAES VESP AVG P M TR P P P COS VIII e SC: Imperatore Tito Cesare Vespasiano Augusto, Pontefice Massimo, Potestà Tribunizia, Padre della Patria, Console per l’ottava volta, per Senato Consulto) e, sull’altro. l’anfiteatro affiancato dalla fontana detta Meta Sudans (oggi non piú esistente) e da un portico a doppio ordine, che potrebbe rappresentare le vicine Terme di Tito oppure il porticato che univa l’arena alle terme stesse. L’edificio è raffigurato con dovizia di particolari sia nelle gradinate interne che all’esterno, con le varie arcate decorate da statue e da una quadriga probabilmente sovrastante l’ingresso. Il tutto pullula di cerchielli, a indicare le teste degli spettatori affollati sulle gradinate. Domiziano nell’81-82 d.C. usò gli stessi tipi degli esemplari di Tito, ma adattando la legenda per Tito deificato (DIVO AVG T DIVI VESP F VESPASIAN SC). Per inciso, va ricordato che esiste tra gli studiosi un dibattito su quale sia il lato principale dei sesterzi flavi, dal

momento che manca il consueto dritto con la testa del regnante e la sigla S(enatus) C(onsulto), prevista per il rovescio, si trova invece accanto all’immagine dell’imperatore; altrettanto discussa è l’ipotesi secondo la quale queste emissioni potrebbero essere state usate come donativi piuttosto che come vera e propria moneta.

IL FULMINE NELL’ARENA Dopo i Flavi, soltanto due imperatori scelsero per i propri conii l’immagine del Colosseo. Il primo è Severo Alessandro che nel 223 ne celebrò la riapertura dopo cinque anni di restauri dovuti a un incendio scoppiato per la deflagrazione di un fulmine nell’arena durante il regno di Macrino. Nei suoi sesterzi, diversi tra di loro nei particolari, il monumento è reso dettagliatamente: nell’arena si svolge un combattimento tra due gladiatori, mentre all’esterno si trovano, di volta in volta, la fontana, varie costruzioni, probabilmente il colosso di Nerone-Sol e figurine che potrebbero riferirsi alle cerimonie celebrative della riapertura. Infine l’anfiteatro campeggia sui rari medaglioni di Gordiano III (238-244) che ne L’Anfiteatro Flavio su un medaglione di Gordiano III (238-244). Si vedono nell’arena un toro e un elefante montato da un uomo che si combattono, mentre all’esterno si riconoscono la statua radiata del Sol, la Meta Sudans e la struttura porticata.

completò il restauro insieme a tutte le altre strutture del complesso flavio, e la cui munificenza è celebrata nella legenda del rovescio: MUNIFICENTIA GORDIANI AVG(usti). Qui si combattono nell’arena un toro e un elefante montato da un uomo, mentre all’esterno lo affiancano la statua radiata del Sol, la Meta Sudans e la struttura porticata. E per completezza occorre fare un salto cronologico di circa 1700 anni per giungere all’ultima raffigurazione numismatica del Colosseo, protagonista dei 5 centesimi di euro in Italia. A parte la condanna di Seneca per i crudeli e sanguinari «giochi» gladiatori in generale, l’apologeta e scrittore cristiano Tertulliano (attivo fra la metà del II e il III secolo d.C.) fu il primo a identificare nell’Anfiteatro Flavio e nei suoi violenti spettacoli non il simbolo della grandezza di Roma ma un luogo di dolore, sangue e morte, dove i piú bassi istinti umani trovano il loro godimento: «Che cosa concludere su quell’orrido luogo che neppure i falsi giuramenti riescono a contenere? L’anfiteatro, infatti, è consacrato a esseri piú numerosi e piú terribili del Campidoglio, è il tempio di tutti i demoni. Tanti spiriti impuri vi dimorano quanti uomini vi contiene» (de Spectaculis, 12.7). A partire dall’età medievale, dismessa la sua funzione originaria, l’anfiteatro cadde progressivamente in abbandono, subendo anche i danni causati da terremoti succedutisi a partire dal VII secolo. E da lí ebbe inizio la sua nuova storia, che lo trasformò per un periodo in luogo spaventoso, sede di incantesimi, maghi e invocazioni necromantiche di demoni, che videro protagonisti, tra gli altri, Virgilio nella sua veste popolare di Mago, e, in un episodio di vita vissuta, persino Benvenuto Cellini.

a r c h e o 111


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Giulio Del Buono,

L’ISOLA TIBERINA E L’AREA DEL FORO BOARIO A ROMA: TOPOGRAFIA E TOPONOMASTICA DELLE CHIESE NEL MEDIOEVO Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma, 390 pp., 42 ill., 2 tavv. f.t. 45,00 euro ISBN 978-88-31445-14-6 www.isime.it

I nomi dei luoghi sono come fossili di un uso passato dello spazio, che restituiscono funzioni e caratteri non piú riconoscibili, eppure ricostruibili. Questo poderoso volume ha innanzitutto il merito di restituire dignità di fonte eccezionale anche alla toponomastica, troppo negletta da una tradizione di studi spesso pavida, e qualche volta sterilmente ancorata al dato. Il volume vuole dimostrare, e ci riesce, che i nomi e cognomi delle chiese hanno conservato notizie interessanti per la storia di Roma medievale e rappresentano un 112 a r c h e o

potenziale ancora inespresso. Tranne rare eccezioni tutte le chiese romane hanno infatti cambiato denominazione almeno una volta (e spesso molte di piú). L’area presa a campione per questo assunto corrisponde alla sponda orientale del Tevere compresa fra Campidoglio e Aventino. È un luogo centrale per la storia di Roma, per il suo legame con il fiume (il guado, i primi ponti, il porto, i mulini), per la densità della popolazione e la vivacità dei commerci, per la costante presenza di tracce di cultura orientale. È un pezzo di Roma che ha subito stravolgimenti epocali, in particolare negli anni del fascismo, che lo hanno trasformato in uno «strampalato museo a cielo aperto, senza criterio e senza ordine», in un «non luogo» usato come parcheggio o passaggio per andare altrove. Guardarla non basta, occorre studiarla a fondo. La ricerca di Del Buono – molto minuziosa e ben documentata – è solo apparentemente di carattere antiquario. Lo studio fa tesoro della stagione di studi eruditi che hanno scandagliato le fonti oltre un secolo fa, ma si fa forte degli approcci propri dell’archeologia urbana (anche la toponomastica si modella a strati), del metodo regressivo e dell’uso intelligente del GIS. Nella impossibilità di

usare planimetrie urbane d’epoca (mancanti fino a tutto il XV secolo), ha anche il merito di aver costruito una nuova base cartografica, punto di partenza per dare un luogo ai nomi e sviluppare ricerche topografiche future grazie ai tanti nuovi spunti sulla presenza degli insediamenti aristocratici ed ecclesiastici nella zona nel corso dei secoli. L’autore ironicamente si domanda se le conclusioni della sua lunga ricerca abbiano un senso. Ce l’hanno, eccome! I nomi dei luoghi sono un relitto e una spia: non potremo mai credere soltanto al loro racconto (le spie sono per definizione sospette), ma da quei racconti potremo sempre prendere le mosse alla ricerca di riscontri sorprendenti. Il volume ne è pieno. Daniele Manacorda Jacopo De Grossi Mazzorin, Claudia Minniti

GLI ANIMALI A ROMA Tre millenni di interazione con l’uomo All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 342 pp., ill. col. e b/n 42,00 euro ISBN 978-88-9285-106-1 www.insegnadelgiglio.it

Lo studio dei reperti faunistici è una prassi da tempo consolidata negli studi di archeologia e, come sottolineano sia gli autori del volume che Carmine Ampolo nella Presentazione, la presenza degli animali nei contesti frequentati

dall’uomo non va intesa soltanto come traccia del loro utilizzo a scopo alimentare. Date queste premesse, il libro scritto a quattro mani da De Grossi Mazzorin e Minniti presenta un corposo atlante dei materiali rinvenuti a Roma e nel suburbio e studiati nell’arco di oltre quarant’anni di attività: si tratta di ben 66 000 resti, che abbracciano un orizzonte cronologico compreso tra la prima età del Ferro (IX secolo a.C.) e l’età moderna. Dopo l’elenco dei contesti presi in considerazione, si apre la trattazione sistematica dei resti che essi hanno restituito e, coerentemente con quanto detto all’inizio, la suddivisione dei capitoli è stata operata in funzione del ruolo che le diverse specie avevano di volta in volta assunto ed evidenziando il loro valore di indizio, per esempio, della pratica di specifiche attività artigianali o del desiderio di procurarsi animali esotici. Stefano Mammini



presenta

VICHINGHI UNA STORIA EUROPEA di Tommaso Indelli Sul finire dell’VIII secolo, l’Inghilterra viene investita per la prima volta dalle incursioni di gruppi provenienti dal Grande Nord: sono i Vichinghi, un popolo che, da quel momento in poi, farà molto parlare di sé, soprattutto perché la loro comparsa sulla scena della storia è segnata da razzie e violenze. Nel tempo, tuttavia, l’espansione di questi abili navigatori e temibili guerrieri assume connotazioni diverse e le genti vichinghe si insediano stabilmente in molte regioni del Vecchio Continente e la loro cultura si fonde con quella delle genti autoctone. Ecco perché, oggi, possiamo a buon diritto considerarli fra gli attori principali degli eventi che scandiscono i secoli dell’Alto Medioevo europeo e non soltanto di quello scandinavo. Alla loro parabola è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», nel quale Tommaso Indelli ripercorre l’intera vicenda di questa popolazione e sottolinea l’eredità che essa ha lasciato, permettendoci di scoprire, per esempio, che anche l’Italia, almeno per quanto riguarda le sue regioni meridionali, ha avuto un importante passato «vichingo». Storie come sempre accompagnate da un ricco apparato iconografico e cartografico, che contribuisce a inquadrare nel modo migliore i caratteri salienti dell’era vichinga.

ORA IN EDICOLA




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.