PAPIRO DEL RE TEMPIO SOLARE DI ABUSIR
1922: L’ANNO DELLA GRANDE SCOPERTA
CHAMPOLLION
ZAHI HAWASS
SPECIALE TUTANKHAMON
Mens. Anno XXXVIII n. 453 novembre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
LANCKORONSKI
ESCLUSIVA
NELLA «CITTÀ DORATA» INTERVISTA A ZAHI HAWASS ABUSIR
ALLA RICERCA DEL TEMPIO PERDUTO
KAROL LANCKORONSKI
TORINO
IL PAPIRO DEL RE PARIGI
CHAMPOLLION E IL MISTERO DEI GEROGLIFICI
LA PASSIONE PER L’ANTICO
www.archeo.it
IN EDICOLA IL 10 NOVEMBRE 2022
2022
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EG SPECI IT ALE TO
ARCHEO 453 NOVEMBRE
TUTANKHAMON
€ 6,50
EDITORIALE
1822/1922 Due ricorrenze significative scandiscono il ritmo di questo numero: la decifrazione della celebre stele di Rosetta, avvenuta nel 1822 e che permise a Jean-François Champollion (e, in seguito, agli studiosi di tutto il mondo) di accedere alla comprensione delle due forme di scrittura dell’Egitto faraonico, la demotica e quella geroglifica (vedi alle pp. 74-83), e quella verificatasi cento anni dopo, nel 1922, ancora oggi definita la «scoperta del secolo» (una definizione a cui, ormai, dovremmo aggiungere la specifica di «scorso»). Parliamo del rinvenimento di un immenso tesoro archeologico, conservato per millenni all’interno di un’anonima tomba della Valle dei Re (vedi lo speciale alle pp. 84-109). Alla terra protagonista di questi due eventi epocali è dedicata, però, anche ampia parte delle restanti pagine del numero: a partire dalla presentazione di un celebre papiro, conservato al Museo Egizio di Torino, dove il prezioso reperto è nuovamente esposto, dopo un accurato restauro curato da un’équipe di studiosi internazionali (ne parliamo in apertura del Notiziario), e proseguendo con il racconto di una nuova avventura archeologica nella terra dei faraoni, intrapresa da archeologi italiani e polacchi e coronata da una scoperta sensazionale (vedi l’articolo alle pp. 32-53). Di altre, recenti rivelazioni ci riferisce, in un’intervista esclusiva, Zahi Hawass, protagonista indiscusso delle esplorazioni archeologiche degli ultimi decenni nella terra del Nilo. Nelle pagine dei libri, infine, la «voce» di una grande egittologa italiana, Edda Bresciani, ci introduce a un’impresa trentennale, compiuta da un viaggiatore ed esploratore d’eccezione e confluita in una documentazione storica e archeologica sulle terre del cosiddetto «Medio Egitto», oggi a disposizione di tutti. Egitto, dunque, ma non solo: un convegno internazionale che si svolgerà il prossimo dicembre a Roma ci offre, infatti, l’occasione di presentare, in anteprima per i nostri lettori, la figura e le imprese di un archeologo «dilettante» straordinario, esponente di una temperie culturale che dall’esplorazione delle antichità del Mediterraneo e dell’Oriente traeva la propria ragion d’essere (vedi alle pp. 56-73). Tornando alle ricorrenze, desideriamo ricordarne una terza, che ci riguarda molto da vicino: nello stesso anno, nel mese stesso in cui Howard Carter annunciava la sua scoperta, nacque a Roma Sabatino Moscati, destinato a diventare uno studioso delle antiche civiltà vicino-orientali e mediterranee tra i piú importanti del nostro Paese. Oggi, nel centenario della nascita, pensiamo con affetto al professor Moscati il quale, oltre ai numerosi ruoli svolti in ambito accademico e culturale, è stato anche il direttore scientifico della nostra rivista, sin dal primo numero. Andreas M. Steiner La tomba del faraone Tutankhamon, nella Valle dei Re, in Egitto. Il sepolcro fu scoperto da Howard Carter il 4 novembre 1922.
SOMMARIO EDITORIALE
1822/1922 3
A TUTTO CAMPO Protagonisti dell’invisibile
di Andreas M. Steiner
di Stefano Bertoldi
Attualità
ARCHEOFILATELIA Un anno per l’Egitto
NOTIZIARIO
RESTAURI Ecco il Papiro dei Re PASSEGGIATE NEL PArCo Torna a battere il cuore dell’Urbe
6 6
10
di Gabriella Strano
ALL’OMBRA DEL VULCANO Soto l’egida dei Lari
24
26
di Luciano Calenda
SCOPERTE
Il dio sole e la scoperta del tempio perduto 32 di Massimiliano Nuzzolo e Rosanna Pirelli
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a cura di Alessandra Randazzo
FRONTE DEL PORTO E ora riprendono gli scavi
16
di Luigi Caliò e Alessandro D’Alessio
MUSEI Una rocca per gli Etruschi
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PROTAGONISTI
di Giampiero Galasso
32 2022
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EG SPECIA IT LE TO
ARCHEO 453 NOVEMBRE
Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
SPECIALE TUTANKHAMON
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
ZAHI HAWASS
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
CHAMPOLLION
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
In copertina particolare di un sarcofago in miniatura avente funzioni di vaso canopo in oro e pietre preziose raffigurante Tutankhamon. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
Presidente
Federico Curti
1922: L’ANNO DELLA GRANDE SCOPERTA
Comitato Scientifico Internazionale
ESCLUSIVA
Mens. Anno XXXVIII n. 453 novembre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
LANCKORONSKI
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
€ 6,50
TUTANKHAMON
PAPIRO DEL RE TEMPIO SOLARE DI ABUSIR
Anno XXXVIII, n. 453 - novembre 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
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di Jerzy Miziołek, con un contributo di Jerzy Zelazowski
www.archeo.it
di Giampiero Galasso
Il senso del conte per l’antico
IN EDICOLA IL 10 NOVEMBRE 2022
IN DIRETTA DA VULCI Una continuità sorprendente 22
NELLA «CITTÀ DORATA» INTERVISTA A ZAHI HAWASS
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto
ABUSIR
ALLA RICERCA DEL TEMPIO PERDUTO
KAROL LANCKORONSKI
TORINO
IL PAPIRO DEL RE PARIGI
CHAMPOLLION E IL MISTERO DEI GEROGLIFICI
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LA PASSIONE PER L’ANTICO
28/10/22 12:47
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Carla Alfano è egittologa. Stefano Bertoldi è borsista di ricerca all’Università degli Studi di Siena. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Luigi Caliò è professore di archeologia classica presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco archeologico di Ostia Antica. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è giornalista. Jerzy Miziołek è storico dell’arte. Massimiliano Nuzzolo è direttore scientifico del Sun Temples Project. Rosanna Pirelli è professoressa associata di egittologia presso il Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo dell’Università degli Studi di Napoli, l’Orientale. Alessandra Randazzo è giornalista. Stefania Sofra è egittologa. Gabriella Strano è architetto paesaggista del Parco archeologico del Colosseo. Jerzy Żelazowski è archeologo.
MOSTRE
L’uomo dei segni
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di Daniela Fuganti
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74
SPECIALE
Cose meravigliose...
Rubriche LIBRI
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di Stefania Sofra, con contributi di Carla Alfano e un’intervista a Zahi Hawass
Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 66/67, 72/73, 87 (alto), 88 (alto), 90-91, 108 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa Museo Egizio, Torino: pp. 6-8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Parco archeologico di Pompei: pp. 12, 14 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 16-17 – Cortesia Museo Archeologico di Gonfienti, Campi Bisenzio: pp. 18-20 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 22-23 – Archivio Università degli Studi di Siena: pp. 24-25 – Cortesia Sun Temples Project-Missione archeologica italiana ad Abusir: pp. 32/33; Google Earth Image 2019: pp. 34/35; Massimiliano Nuzzolo: pp. 36 (alto, a sinistra), 36/37, 46 (basso, a sinistra), 53; Patrizia Zanfagna: planimetria alle pp. 36/37 e pp. 39 (basso), 42/43, 50-51; Mohamed Osman: pp. 37, 38/39, 40-41, 44, 46-47, 52 (alto); Patricia Mora: pp. 39 (alto), 48/49, 49 (centro, a sinistra e a destra); Egyptian Ministry of Tourism and Antiquities: pp. 44/45, 46 (basso, a destra), 49 (alto) – da: Ludwig Borchardt, Das Re-Heiligtum des Königs Ne-Woser-Re. I Bd. Der Bau, Berlin 1905, Tavola 1: p. 43 (basso) – da: Elmar Edel and Steffen Wenig, Die Jahreszeitenreliefs aus dem Sonnenheiligtum des Königs Ne-User-Re, Berlin 1974, tavola 24: p. 52 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 56-65, 68-71, 72 – Cortesia Ufficio Stampa Musée Louvre-Lens: p. 81 (basso); Ville de Grenoble-Musée de Grenoble/J.L. Lacroix: p. 74; RMN Grand Palais (Musée du Louvre)/Christian Larrieu: pp. 75, 83; RMN Grand Palais (Musée du Louvre)/Christian Décamps: pp. 76 (a sinistra), 80, 81 (alto); Musée Granet, Aix-en-Provence/ Hervé Lewandowski: p. 76 (a destra); RMN Grand Palais (Musée du Louvre)/Maurice et Pierre Chuzeville: p. 77; J.-C. Moschetti: p. 78 (alto); RMN Grand Palais (Musée du Louvre)/ Michel Urtado: p. 78 (basso, a sinistra); RMN Grand Palais (Musée du Louvre)/Georges Poncet: p. 78 (basso, a destra); Département de l’Isère/Musée Champollion: pp. 79, 82 – Doc. red.: pp. 84-85, 87 (basso), 88 (basso), 92-105, 108 (basso) – Alamy Stock Photo: pp. 106, 109 – Mondadori Portfolio: Werner Forman Archive/Ägyptisches Museum, Berlino/HeritageImages: p. 107 (alto); AKG Images: p. 107 (basso) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34 e 86. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it
L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova
n otiz iari o RESTAURI Torino
ECCO IL PAPIRO DEI RE
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orna in esposizione al Museo Egizio il Papiro dei Re, dopo un’opera di ricerca e restauro, frutto di una collaborazione internazionale tra Torino, Copenaghen e Berlino. Nell’anno in cui il mondo dell’egittologia, celebra il bicentenario della decifrazione dei geroglifici a opera di Jean-François Champollion (vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 74-83), il Museo Egizio accende i riflettori su uno dei papiri della sua collezione piú celebri al mondo, anche noto all’estero con il nome di «Turin King List». Si tratta dell’unica lista reale d’epoca faraonica scritta a mano su papiro giunta fino a noi. Esposto prima del restauro in ipogeo, nelle sale storiche del Museo, fino al 21 novembre il Papiro dei Re diventa protagonista assoluto di una nuova saletta al primo piano dell’Egizio. Un’installazione interattiva e un’infografica narrano l’evoluzione
Sulle due pagine: momenti del nuovo intervento di restauro del Papiro dei Re del Museo Egizio di Torino, che ha compreso anche l’inserimento nella trama del manoscritto di una trentina di nuovi frammenti.
6 archeo
del manoscritto, giunto a Torino nel 1824 con la collezione Drovetti e composto da circa 300 frammenti, assemblati in circa 200 anni, grazie all’impegno di diversi studiosi. Un nuovo allestimento temporaneo, reso possibile grazie al sostegno degli Scarabei, Associazione Sostenitori Museo Egizio e della Consulta per la Valorizzazione dei Beni artistici e Culturali di Torino. A dicembre il Papiro dei Re avrà una nuova collocazione: sarà infatti uno dei reperti di punta della mostra che l’Egizio dedicherà alla lingua e scrittura egiziana. Alla base del restauro, ci sono gli
studi pluriennali dell’egittologo dell’Università di Copenaghen, Kim Ryholt, che ha elaborato una nuova ricostruzione del manoscritto, lavorando a stretto contatto con Rob Demarée, egittologo dell’Università di Leida, sotto la supervisione di Susanne Töpfer, responsabile della Collezione Papiri del Museo Egizio. A mettere le mani sul Papiro dei Re per 10 settimane a Torino è stata una delle massime esperte al mondo di restauro di papiri, con all’attivo 46 anni di esperienza: Myriam Krutzsch dell’Ägyptisches Museum und Papyrussammlung der Stattlichen Museen zu Berlin,
museo diretto da Friederike Seyfried, membro del comitato scientifico del Museo Egizio, che ha sostenuto il progetto di restauro, distaccando a Torino la decana dei conservatori e restauratori della collezione tedesca di papiri. Tutti i frammenti del Papiro dei Re sono stati ripuliti e consolidati da Krutzsch, dopo l’ultimo restauro, eseguito nel 1930 da un altro berlinese, Hugo Ibscher, quando ancora si usavano inserti di seta di Lione. Nuovi frammenti, conservati anch’essi presso la Papiroteca del Museo Egizio, circa una trentina, sono stati inseriti nella trama del manoscritto, mentre alcuni sono stati riposizionati, alla luce dei nuovi studi condotti dal professor Ryholt, grazie al quale l’elenco dei faraoni, in ieratico, distribuiti su 11 colonne, è leggermente mutato. Il Papiro dei Re è un reperto che ha una storia «torinese» bicentenaria, che si incrocia con quella delle origini dell’egittologia. Tra i primi a riconoscerne l’importanza e a descriverlo ci fu proprio il padre dell’Egittologia, Jean-François Champollion, il quale, esattamente 200 anni fa, decifrò i geroglifici e che nel 1824 giunse a Torino dove si trattenne per nove mesi proprio per
archeo 7
n otiz iario L’équipe che ha condotto il nuovo intervento sul Papiro dei Re, diretto da Myriam Krutzsch (a sinistra, in primo piano). studiare le collezioni del Museo Egizio, allora agli albori. I frammenti su cui mise le mani Champollion quasi due secoli fa però erano circa una quarantina. Se il recto del papiro conserva un registro tributario datato al regno di Ramesse II, con numerosi alti funzionari dei templi di Sobek e di Amun e diversi sovrintendenti a capo delle fortezze disposte lungo il confine meridionale d’Egitto, è il verso, cioè il retro del manoscritto a rappresentare per gli storici un importante documento. Esso riporta infatti una lista cronologica di tutti i sovrani d’Egitto a partire dalla creazione del mondo per opera degli dèi. Di ciascun sovrano sono ricordati titolo, identità e durata del regno in anni, mesi e talvolta persino giorni. Secondo questo documento le divinità
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furono i primi sovrani d’Egitto. Il Papiro dei Re, quindi, inizia con i regni degli dèi Geb, Osiride, Horo, Seth, Maat. Il primo sovrano non divino è Menes/Narmer (3100 a.C.) il cui nome appare nella terza colonna di testo. La lista si conclude con l’ultimo sovrano del Secondo Periodo Intermedio (1650 a.C.). «Il Museo Egizio – ha dichiarato Evelina Christillin, presidente dell’istituzione – si conferma crocevia di studi internazionali e di ricerca, un’istituzione in continua evoluzione. Il nostro sguardo è proiettato al 2024, quando a celebrare il bicentenario sarà proprio il Museo Egizio, il piú antico al mondo nel suo genere. A partire da dicembre quando inaugureremo una grande mostra dedicata alla scrittura si darà avvio a una nuova metamorfosi del Museo, che
cambierà nuovamente volto», . «La collezione del Museo Egizio – ha ribadito Christian Greco, che ne è il direttore – unisce luoghi tra loro lontani e parla diverse lingue, cosí come molti dei curatori che lavorano all’Egizio e degli studiosi internazionali che il Museo richiama a Torino. Locale e globale si intrecciano in una rete che collega Torino non solo alle sponde del Nilo, ma alle principali città internazionali, nel segno della ricerca e dello scambio culturale. Riunire a Torino alcuni tra i migliori talenti internazionali della ricerca egittologica e del restauro per portare a nuova vita il Papiro dei Re è un modo per celebrare il bicentenario della nascita dei geroglifici e la nascita dell’egittologia». (red.)
PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
TORNA A BATTERE IL CUORE DELL’URBE FINO AGLI ANNI TRENTA DEL NOVECENTO, NELLA VALLE DEL COLOSSEO SI CONSERVAVA IL RUDERE DELLA META SUDANS. UNA FONTANA DALL’ALTO VALORE SIMBOLICO, CHE UN’INSTALLAZIONE IN ACCIAIO SI APPRESTA A FAR «RIVIVERE», RIPROPONENDO ANCHE L’ORIGINARIO GOCCIOLIO DELL’ACQUA
L’
area di competenza del Parco archeologico del Colosseo nella quale, insieme all’Anfiteatro Flavio e all’Arco di Costantino, si ergeva la fontana della Meta sudans, è oggi, come un tempo, il cuore monumentale identitario della città di Roma. Nel 1933 gli interventi di riassetto urbanistico della zona hanno cancellato dal sedime storico l’antica fontana, ancora presente in forma di rudere, generando una rilevante privazione nel palinsesto archeologico e nel paesaggio storico della piazza
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del Colosseo. Gli scavi svolti nell’area dal 1986 al 2003 dalla «Sapienza» Università di Roma, sotto la direzione scientifica di Clementina Panella, hanno portato alla scoperta della piú antica costruzione della fontana, attribuita a Ottaviano Augusto. La Meta, con la forma conica del saliente che trasudava acqua, cara all’iconografia augustea, era situata presso uno dei vertici del confine sacro della città romulea, nel punto di incontro di quattro Regiones urbane previste dall’organizzazione amministrativa attuata dell’imperatore tra il 6 e il 7 a.C. Nell’Ottocento la Meta divenne rudere struggente nei dipinti di paesaggio romani e nelle foto d’epoca, immagini nelle quali compare già priva dei marmi della sistemazione successiva realizzata da Domiziano, continuando a essere la «meta» intorno alla quale orbita la vita quotidiana di una Roma rurale e contadina. Oggi, oltre all’attività scientifica, il Parco del Colosseo propone l’installazione di un elemento iconico che rappresenti lo straordinario bene perduto, per rinnovare l’interesse e l’interazione sociale che aveva una volta. Il saliente, completamente rimovibile (principio cardine di tutti i progetti curati dalla scrivente), conico, trasudante acqua, come tramandano le fonti storiche fosse la Meta sudans, è composto da quattro lastre verticali che alternano vuoti e pieni in modo da creare assi visivi in quattro direzioni, ognuna focalizzata su un epicentro monumentale: il Colosseo, l’Arco di Costantino, l’Arco di Tito – che segna l’ingresso ai Fori romani – e il Colle Oppio che cela la Domus Aurea. L’installazione fa dei punti di visuale uno degli aspetti caratteristici dell’opera: focalizza gli elementi componenti il paesaggio archeologico e ambientale in modo
La Meta sudans in una foto del 1865. Nella pagina accanto, a sinistra: lastra fittile con fanciulle che ornano il bètilo apollineo. Età augustea.
Nella pagina accanto, a destra: schizzi preliminari del progetto per l’installazione che rievocherà la Meta sudans.
nuovo, li individua come elementi puntuali, ma, nello stesso tempo, li unisce in un gioco di prospettiva visiva nell’elemento conico che ritrova la sua funzione di Meta. La fontana contemporanea diventa nuova «meta», un opticon immediato, punto di congiunzione virtuale dell’area che, grazie alla tecnologia digitale, propone, raccoglie e trasmette informazioni archeologiche, ambientali, le collega e le trasmette al fruitore, nella lingua voluta. La vasca e il saliente catturano immediatamente l’attenzione e invitano a conoscere la storia della sua collocazione in quel punto e non al centro della piazza come un elemento di arredo urbano.
dall’antichità che comporranno la sistemazione a verde e scelte tra quelle con comprovata funzione antismog. Lo studio e la piantagione della vegetazione che ha la proprietà di assorbire il particolato atmosferico sta diventando prassi negli interventi a verde del Parco archeologico del Colosseo per un contributo al miglioramento ambientale. Tali benefici, insieme al suono dell’acqua stesso, permettono altresí una maggiore vicinanza percettiva a un pubblico in età infantile o a persone in condizione di svantaggio cognitivo, che reagiscono positivamente a stimoli sensoriali. La sostenibilità dell’intervento si esplica sulla metodologia di costruzione della struttura e con l’uso di materiali riciclabili: il metallo, materiale riciclabile per eccellenza, in questo caso acciaio corten, che meglio si addice per cromia ai resti in laterizio della struttura demolita; il risparmio d’acqua attraverso il ricircolo del volume necessario per il funzionamento della fontana e utilizzando la struttura stessa come serbatoio o vasca di calma; l’illuminazione con elementi a energia solare finalizzati alla riduzione dei costi di gestione. Gabriella Strano
UN CICLO VIRTUOSO La percezione degli elementi che la compongono permette di entrare immediatamente in contatto con l’opera, che diventa viva e non solo immagine di ciò che vuole evocare. La fontana diventa climatizzazione ambientale con l’acqua dell’impianto stesso che, per effetto del processo di evaporazione, torna nel ciclo idrologico dell’atmosfera sotto forma di vapore, mitigando la temperatura estiva, insieme all’evapotraspirazione delle piante filologicamente attinenti all’area fin
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ALL’OMBRA DEL VULCANO a cura di Alessandra Randazzo
SOTTO L’EGIDA DEI LARI I RECENTI SCAVI HANNO FATTO (E CONTINUANO A FARE) DELLA REGIO V DI POMPEI UNA AUTENTICA MINIERA DI TESORI E SORPRESE. FRA LE ACQUISIZIONI PIÚ IMPORTANTI, SPICCANO I MATERIALI RINVENUTI NELLA COSIDDETTA «DOMUS DEL LARARIO», CAPACE DI REGALARE EMOZIONANTI SQUARCI DI VITA QUOTIDIANA DELLA CITTÀ VESUVIANA
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eatro delle ultime scoperte compiute a Pompei è la già fortunata Regio V, dove, grazie ai lavori di manutenzione e messa in sicurezza dei fronti di scavo, nell’ambito del Grande Progetto Pompei, in un’area ancora inedita della città antica, sono emersi in questi anni edifici e monumenti che hanno permesso agli studiosi di ricavare informazioni preziose su zone ancora poco conosciute del sito archeologico. In un settore del quartiere con accesso dal vicolo di Lucrezio Frontone era emerso, nel 2018, un larario riccamente decorato con una nicchia dedicata al culto dei Lari, divinità che proteggevano la casa assieme a due serpenti agatodemoni, simbolo di prosperità e buon auspicio. I lavori di scavo e di ricerca sono continuati a partire dal 2021 con le indagini degli ambienti superiori al primo livello della domus e al piano terra e hanno portato all’individuazione di altri ambienti che custodivano ancora arredi e oggetti di uso quotidiano e da cui è stato possibile ricavare anche calchi, grazie al riempimento con gesso dei vuoti lasciati dalla decomposizione della materia organica negli strati di cinerite.
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In alto: uno degli ambienti situati alle spalle della «Domus del Larario» attualmente in corso di scavo. A destra: reperti rinvenuti nella «Domus del Larario» ancora in situ. Da un ambiente della cosiddetta «Domus del Larario» è riemerso dagli strati un letto di cui si conservano parti del telaio e da cui è stato possibile ricavare il volume del cuscino oltre che «leggerne» la trama del tessuto.
UNA SEMPLICE BRANDA La forma del letto è inoltre molto simile a quella dei tre letti individuati di recente a Civita Giuliana, area situata 700 m circa a nord-ovest delle mura dell’antica
Pompei, durante lo scavo della cosiddetta «Stanza degli schiavi». Si tratta di una branda molto semplice, priva di elementi decorativi, fatta su una rete di corde. Accanto vi è un baule bipartito aperto e su cui sono crollate travi e tavole del solaio soprastante. Il baule conservava un piattino di ceramica sigillata e una lucerna a doppio beccuccio con una scena in bassorilievo raffigurante la metamorfosi di Zeus in aquila. (segue a p. 14)
Nella stessa stanza è stato individuato un tavolino tripode circolare sul quale stavano una coppa in ceramica contenente due ampolline in vetro, un piattino di ceramica sigillata e un altro piattino in vetro; sia il mobilio che le ceramiche sono stati rinvenuti in Dall’alto in basso: borchie e altri intarsi in osso che decoravano la testata lignea di un letto; un bruciaprofumi in ceramica in forma di culla e un vaso in bronzo restituiti dagli scavi condotti nella cosiddetta «Domus del Larario».
giacimento primario, cioè nella posizione in cui si trovavano al momento dell’eruzione del 79 d.C. L’altro ambiente individuato sembra essere, invece, un deposito o un magazzino e infatti è l’unico a non avere pareti intonacate e a presentare un pavimento in semplice battuto di terra. Anche in questa stanza è stato possibile realizzare i calchi, tra cui quello di uno scaffale nel quale era stipato anforame vario, mentre un secondo calco ha restituito un accumulo di fasciame ligneo legato con corde. L’armadio ligneo, con almeno quattro ante, aveva la parte superiore compromessa dal crollo del solaio che ne ha sfondato il livello superiore, ma la sua forma è rimasta percettibile sul muro retrostante. Straordinaria è anche la quantità di materiale ceramico recuperato all’esterno dell’ambiente, in un angolo di disimpegno di fronte alla cucina.
LE TAVOLETTE CERATE Le indagini hanno inoltre permesso di riportare in luce il crollo dei piani superiori degli ambienti. Tra i materiali ritrovati e di estremo valore, vi sono alcune tavolette cerate, dalle quali, ancora una volta, è stato possibile ricavare un calco. Si tratta di un gruppo di sette trittici legati con un cordoncino e probabilmente conservati su uno scaffale assieme a oggetti in ceramica e bronzo
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ritrovati sempre nello strato di crollo. Oltre a forme ceramiche, vitree e bronzee, tra i preziosi oggetti figura anche un bruciaprofumi in forma di culla, in ottimo stato di conservazione. Sorprendente è la policromia del manufatto, che mostra molto bene i dettagli della testina, delle labbra, della barba e della capigliatura del soggetto, di sesso maschile.
A RIDOSSO DELLA DOMUS Mentre scriviamo, le indagini proseguono e stanno interessando una serie ambienti che si trovano alle spalle della «Domus del Larario» e sono pertinenti a un’altra unità abitativa. Gli ultimi scavi restituiscono informazioni e materiale, nonché il parziale crollo del controsoffitto da cui è stato possibile recuperare il volume dell’incannucciata contenuta nel controsoffitto stesso. E, ancora, il calco forse di una coperta arrotolata e di una zeppa che doveva stabilizzare una delle gambe di un letto presente nell’ambiente. Rilevati dalla colata di gesso anche borchie e sottili intarsi in osso che impreziosivano la testata lignea di uno dei letti addossata al muro. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.
FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
E ORA RIPRENDONO GLI SCAVI NEL PARCO DI OSTIA ANTICA LA RICERCA SUL CAMPO TORNA AD AFFIANCARE LA TUTELA, LA CONSERVAZIONE E LA VALORIZZAZIONE DELL’ESISTENTE. E I PRIMI RISULTATI DELLE INDAGINI, CONDOTTE IN DUE DIVERSE AREE DELLA CITTÀ, SONO PIÚ CHE PROMETTENTI
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l progetto Ostia Post Scriptum segna una svolta importante nella storia delle ricerche archeologiche condotte nel sito che, dopo una lunga interruzione, tornano finalmente a essere promosse, progettate e dirette dall’istituto titolare, oggi il Parco archeologico di Ostia antica, in stretta collaborazione con il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Fin dalla scelta del nome, il progetto intende riallacciarsi alla lunga tradizione di scavi che affonda le sue radici nelle indagini condotte a partire dagli anni Dieci del Novecento da Dante Vaglieri e proseguite nei decenni successivi da Guido Calza e Giovanni Becatti, ponendosi in ideale continuità con gli studi che confluirono nella collana Scavi di Ostia, della quale proprio in questi giorni si propone la riedizione nella medesima veste grafica, ma in un formato rinnovato. La prima campagna di scavo, svoltasi nello scorso settembre, ha interessato due distinti settori della città, il primo in un’area centrale, tra il piazzale delle Corporazioni e i Grandi Horrea, e il secondo piú periferico, nel cosiddetto Foro di
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Porta Marina. L’area centrale, a nord dei tempietti edificati da P. Lucilio Gamala e della Domus di Apuleio e mai in precedenza indagata, ha restituito un grande edificio che le prospezioni geofisiche a cura del
Dipartimento di Agricoltura, Ambiente e Alimenti dell’Università del Molise avevano già individuato. Lo scavo ha messo in luce una serie di strutture rasate in antico che delimitano tre ambienti, riempiti da
Veduta degli ambienti pavimentati a mosaico nell’area di scavo presso il piazzale delle Corporazioni. Nella pagina accanto: gli ambienti di servizio nell’area di scavo presso il piazzale delle Corporazioni. In basso: veduta dell’area di scavo nel cosiddetto Foro di Porta Marina. questa fase tarda, assai poco conosciuta per il quartiere centrale.
MARMI BIANCHI E COLORATI
un unico strato in cui sono stati rinvenuti stucchi, intonaci dipinti, frammenti di mosaico, ma anche materiale ceramico, come anfore tarde, grandi bacini, ceramica comune e da fuoco, lucerne. L’impressione è che l’edificio sia stato smontato nelle sue emergenze, i muri rasati in modo omogeneo e i vuoti riempiti dai detriti delle strutture superiori per rialzare il piano di calpestio.
UNA QUESTIONE APERTA Per quale motivo questa operazione sia stata portata a termine non è ancora dato sapere, ma si può ipotizzare che essa fosse funzionale alla realizzazione di un piano di frequentazione diverso da quello precedentemente in uso. Questa attività potrebbe essere
messa in relazione anche con le tracce di calcinazione individuate immediatamente fuori dall’edificio e con la scomparsa di tutti gli elementi architettonici in marmo, come le soglie, che sono state sistematicamente strappate. Lo scavo dell’ambiente ha rivelato qualcosa di piú sulle funzioni della struttura che probabilmente doveva essere a carattere privato. Gli ambienti principali hanno restituito infatti tre diversi mosaici, uno con motivi a treccia e partitura geometrica e due con elementi decorativi campaniformi, mentre due ambienti stretti e allungati sono pertinenti all’area di servizio, come attestano la presenza di un forno circolare con camera di combustione inferiore, di una latrina e di una struttura interpretabile come un piano per la cottura. In uno dei due ambienti è stato rinvenuto anche l’attacco della scala che conduceva al piano superiore. Le strutture, molto ben conservate, appartengono a un grande edificio realizzato nella parte finale del III secolo d.C., che visse per almeno due secoli prima di essere smantellato, nel V secolo d.C. o nel successivo. Lo scavo costituisce una testimonianza importante della vita della città in
Lo scavo del cosiddetto Foro di Porta Marina si è concentrato in un’area già indagata a piú riprese. In questa prima campagna ci si è occupati principalmente di riscavare lo scavato per poter comprendere non solo la storia antica dell’area, ma anche gli interventi moderni. Questo approccio cognitivo ha permesso di lavorare soprattutto sulle architetture e sulle fasi del complesso, rimettendo in luce strutture antiche e restauri moderni. Costruito nel II secolo d.C., esso subí un importante restauro nell’ambito del IV secolo, quando la grande aula absidata fu monumentalizzata con la realizzazione di un pavimento in opus sectile e crustae marmoree sulle pareti. La varietà dei marmi bianchi e colorati testimonia la ricchezza dell’edificio in questa fase tarda della sua storia. La pulitura del riempimento del portico ha restituito un frammento dei Fasti Ostiensi che si aggiunge a quelli già rinvenuti nello stesso contesto negli anni Sessanta e arricchisce le conoscenze su questo importante documento epigrafico della città. I risultati estremamente incoraggianti hanno portato a programmare una seconda campagna di scavo nel prossimo mese di maggio, finalizzata ad ampliare l’area di indagine in entrambi gli edifici. Luigi Caliò, Alessandro D’Alessio
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n otiz iario
MUSEI Toscana
UNA ROCCA PER GLI ETRUSCHI
È
stato recentemente inaugurato il Museo Archeologico di Gonfienti, allestito nel suggestivo complesso monumentale della Rocca Strozzi di Campi Bisenzio (Firenze). Il nuovo contenitore culturale conserva ed espone reperti provenienti dal territorio comunale di Gonfienti, un’area di pianura compresa fra le alture della Calvana e il fiume Bisenzio, oggi collocata a cavallo dei comuni di Campi Bisenzio e Prato e abitata stabilmente almeno a partire dall’età del Bronzo e fino all’età romana imperiale. «La ricerca archeologica nel sito di Gonfienti, dettata da esigenze di tutela a seguito della realizzazione dell’Interporto della Toscana Centrale e di opere pubbliche a esso collegate – spiega Francesca Bertini, direttore del museo – è stata effettuata dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Firenze e per le Province di Pistoia e Prato dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso ed è tuttora in corso. Gli scavi hanno rivelato importanti testimonianze di contesti abitativi riferibili alle diverse epoche: per l’età etrusca, in
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particolare, è stato individuato un insediamento di nuova fondazione, coerentemente pianificato, caratterizzato da assi stradali ortogonali e complessi residenziali drenati da profondi canali perimetrali, che sembrano realizzati in forme modulari e organizzati secondo le piú note esemplificazioni della città etrusca di KainuaMarzabotto, dall’altra parte dell’Appennino, e di Roma arcaica». L’allestimento museale si sviluppa in tre sezioni che ripercorrono le principali fasi di frequentazione del sito archeologico finora identificate, secondo un criterio cronologico e nello stesso tempo tematico-funzionale. La prima sezione ospita le testimonianze dell’abitato dell’età del Bronzo (area del cosiddetto Scalo-Merci, area del nuovo asse stradale Mezzana-Perfetti Ricasoli di Campo Bisenzio), che, per l’ampiezza, la quantità e la ricchezza dei materiali costituisce al momento uno dei più estesi villaggi della Toscana settentrionale, entro un arco di tempo compreso fra il XVI e il XIII secolo a.C. In esposizione vi sono contenitori monoansati d’impasto
talvolta decorati (olle, situle, ciotole di varie dimensioni, attingitoi) e strumenti legati all’attività di tessitura e filatura della lana. Spiccano una situla d’impasto decorata con motivo a onde ricorrenti e un’olla d’impasto con motivo a rete del Bronzo Medio e Recente, ma anche una ciotola carenata con ansa ad apici divaricati e appiattiti, una patera ombelicata dotata di anse a nastro e un raro colino monoansato d’impasto sempre dello stesso periodo.
La seconda sezione, allestita nell’ex tinaia della Rocca Strozzi presenta uno dei piú significativi ritrovamenti archeologici degli ultimi decenni, con le testimonianze dell’abitato etrusco arcaico, fondato con funzione di controllo sulla viabilità transappenninica, che doveva unire l’Etruria propria con l’area padana e con i mercati dell’Adriatico, determinando scambi commerciali strategici. Tra le porzioni di abitato indagate fino a oggi, spicca il recupero del grande edificio residenziale del Lotto 14, che si sviluppa su una pianta rettangolare di oltre 1400 mq. Affacciato verso sud su
In alto: antefissa a testa femminile del tetto del portico dell’edificio residenziale etrusco. A sinistra e in basso: la sala multimediale e la sezione estrusca. Nella pagina accanto, in alto: la Rocca Strozzi di Campi Bisenzio. Nella pagina accanto, in basso: la sezione del museo dedicata ai materiali dell’età del Bronzo.
un’ampia strada glareata, è articolato in una serie di ambienti disposti attorno a un cortile interno, scoperto e delimitato sui quattro lati da un portico. L’allestimento museale, che include come parte integrante la ricostruzione di una porzione dell’originario tetto del portico etrusco sottoposto a un paziente intervento di restauro, caratterizza e rende unico questo spazio, evocando la sensazione di passeggiare all’interno di un’antica e raffinata dimora etrusca. La copertura era costituita da tegole, coppi con antefissa a palmetta, coppi di colmo sul columen del tetto e tegole converse trapezoidali in corrispondenza degli angoli, associate in posizione di caduta ad antefisse a testa femminile di pregevole fattura. Sotto la porzione di tetto ricollocata, trovano alloggio le differenti tipologie di reperti riemerse dagli scavi, suddivise in spazi che vogliono suggerire le
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diverse funzioni degli ambienti domestici, con le attività che vi si svolgevano, come la dispensa, la cucina, il magazzino, l’area destinata al banchetto. In esposizione una serie di forme vascolari sia d’impasto (olle con coperchi a campanaccio, brocche, ciotole), sia in argilla depurata decorate con motivi geometrici, ma anche buccheri di produzione locale, tra cui spicca un attingitoio con anse a corna tronche e cave raccordate da un motivo a traforo con la stilizzazione di una figura umana. Non mancano oggetti che richiamano alle attività tipiche della sfera femminile, come rocchetti e fuseruole d’impasto, e pesi da rete ad attestare la pratica della pesca, mentre tra gli oggetti di ornamento personale si segnala la presenza di uno scarabeo in corniola con incisa una Sfinge alata a testa umana. La terza sezione è dedicata all’età romana con una serie di reperti provenienti dalle indagini archeologiche eseguite presso lo
Scalo Merci dell’Interporto, ai limiti dell’area archeologica di Gonfienti: qui è stata intercettata una villa residenziale di età imperiale (I-IV secolo d.C.), che si articola in una serie di ambienti affacciati su un ampio cortile centrale. Al complesso, situato nelle vicinanze dell’antica via Cassia, nel tratto in cui la Tabula Peutingeriana registra la presenza della stazione di sosta denominata ad Solaria, sono connesse una In alto: due vasi dell’età del Bronzo: a sinistra, una situla in impasto decorata con motivi a onde ricorrenti; a destra, un’olla in impasto decorata con motivo a rete. A sinistra: sala etrusca: particolare dell’allestimento con ipotesi di porzione di alzato del grande edificio del Lotto 14 e dei reperti sotto la porzione di tetto ricostruita.
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piccola area artigianale e due sepolture a incinerazione, databili al I secolo d.C. I recenti interventi di restauro e in particolare l’allestimento del Museo di Gonfienti hanno restituito alla Rocca Strozzi un’immagine significativa quale riferimento storico e simbolico dell’antica presenza umana sul Bisenzio: area archeologica, il Mulino con i suoi laboratori e il Museo Archeologico costituiscono ora tre elementi che insieme e in armonia concorrono a promuovere la conoscenza, la tutela e la valorizzazione di questo territorio nell’antichità. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Museo Archeologico di Gonfienti Campi Bisenzio, Rocca Strozzi Orario invernale (01/10-31/05): me-ve, 9,00-13,00; gio-sa, 15,00-18,00; do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; estivo (01/06-30/09): me, 15,00-19,00; gio-ve, 9,00-13,00; sa-do, 10,00-13,00 e 15,30-18,30 Info tel. 055 8959701; e-mail: info@museogonfienti.it; www.museogonfienti.it
IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
UNA CONTINUITÀ SORPRENDENTE LE NUOVE INDAGINI NELLA NECROPOLI DI PONTE ROTTO HANNO RESTITUITO CONTESTI DI NOTEVOLE PREGIO. SOPRATTUTTO, PERÒ, HANNO OFFERTO INFORMAZIONI DI ESTREMO INTERESSE SULLA COMPOSIZIONE, NEL TEMPO, DELLE COMUNITÀ CHE UTILIZZARONO IL SEPOLCRETO NEL CRUCIALE PASSAGGIO TRA ETÀ VILLANOVIANA ED EPOCA ETRUSCA
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li Etruschi stati tra i protagonisti principali della storia del Mediterraneo antico e l’archeologia documenta con chiarezza sia la grande fioritura di questa civiltà, sia la sua spiccata originalità. E se il cosiddetto «mistero» degli Etruschi è un mito in gran parte da sfatare, è vero che molti aspetti rimangono da chiarire. Tra questi vi sono i problemi relativi alla formazione di questa civiltà e all’assetto sociale che andò via via definendosi. Un innovativo contributo a questi temi viene ora dal programma di scavo archeologico sviluppato tra il 2020 e il 2022 a Vulci, una delle città piú floride e potenti, ma anche meno indagate scientificamente. Lo scavo ha permesso di esplorare scientificamente un ampio settore della necropoli di Ponte Rotto, celebre per eccezionali sepolture come la tomba François e il tumulo della Cuccumella. Le oltre cento tombe indagate a Ponte Rotto dal 2020 offrono una grande quantità di nuove conoscenze. Per la prima volta, infatti, è stato possibile riconoscere un’organizzazione topografica per gruppi familiari, che si formano nella fase primigenia, detta villanoviana (vale a dire fra il IX e l’VIII secolo a.C.), e
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Qui sotto: Vulci, necropoli di Ponte Rotto. Un momento dello scavo di sepolture a cremazione di epoca villanoviana. In basso: veduta da drone del settore della necropoli di Ponte Rotto indagato nel corso della campagna condotta nel 2022. Nella pagina accanto, a sinistra: restauro di urna cineraria villanoviana.
continuano a svilupparsi nella fase orientalizzante (tra la fine dell’VIII e il VII secolo a.C.). Questi gruppi utilizzano con sorprendente continuità gli stessi appezzamenti per due-tre secoli, dunque per non meno di dieci generazioni. Nella fase villanoviana i resti ossei cremati dei defunti, prelevati dalla pira, erano deposti entro urne cinerarie coperte da una scodella e sepolte verticalmente in pozzetti cilindrici. Si è scoperto che per alcuni bambini le urne, piuttosto piccole, erano invece sistemate in posizione orizzontale. Le urne villanoviane recavano decorazioni incise geometriche ben codificate,
nelle quali spicca il motivo del riquadro (o metopa) con svastica inscritta, dal significato religioso di ancora oscura interpretazione. Il cosiddetto corredo, ovvero i manufatti deposti nella tomba, consentono di riconoscere il genere e il ruolo del defunto. Gli uomini hanno spesso il rasoio e talvolta le armi, e, in un caso, parte di un morso equino a forma di cavallino; le donne (anche le bambine) sono connotate da ornamenti quali collane e bracciali e da strumenti per la lavorazione dei filati e dei
tessuti. Un dato singolare, ma che trova riscontro anche altrove, è la quantità sensibilmente maggiore di sepolture di genere femminile.
I RITI FUNEBRI La comunità sepolta a Ponte Rotto mantiene un tenace attaccamento al rito della cremazione ancora fino alla fase orientalizzante, quando appaiono nuovi tipi tombali tra cui quello a cassetta di lastre litiche. Lo scavo ha permesso però di scoprire anche un significativo numero di sepolture a inumazione entro fossa, relative a individui che non seguono il rito tradizionale della cremazione e che per lo piú non sono accompagnati da manufatti di particolare pregio. Colpisce la notevole varietà dei rituali di deposizione, riconoscibili dalla posizione delle ossa. Piú di una sepoltura è di inumati distesi sul dorso, ma altre sono diverse e perfino anomale: una presenta un defunto deposto di fianco con gli arti fortemente rannicchiati, mentre in un altro caso il corpo è disteso ma adagiato su un fianco. Lo studio dei resti scheletrici, molto ben conservati, offrirà prospettive di conoscenza del tutto nuove. Carmen Esposito, che dopo la laurea presso l’Università Federico II di Napoli ha conseguito un dottorato di ricerca all’Università di Belfast, condurrà analisi volte a ricavare il DNA antico, che permetteranno di accertare il sesso e i rapporti di parentela, e anche di indagare il profilo genetico di questa comunità. Da altre analisi (anche sui resti cremati) si otterranno gli isotopi dello stronzio, considerati affidabili indicatori dell’area di nascita e dunque anche della mobilità degli individui. Da tutto ciò si potranno finalmente ricavare solidi elementi scientifici sulle origini e sulla composizione della prima società etrusca, che consentiranno di andare al di là degli stereotipi correnti.
In alto: scavo di una sepoltura con un inumato disteso sul dorso. Qui sopra: restauro di parte di morso equino in bronzo a forma di cavallino. Le ricerche nella necropoli di Ponte Rotto sono condotte dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli Federico II (direttore del Dipartimento: Andrea Mazzucchi; direttore dello scavo: Marco Pacciarelli che ha contribuito anche alla stesura del presente articolo), in collaborazione con la competente Soprintendenza (SABAP per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale) e con la Fondazione Vulci (nelle persone, rispettivamente, di Simona Carosi e Carlo Casi).
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A TUTTO CAMPO Stefano Bertoldi
PROTAGONISTI DELL’INVISIBILE IL PROGETTO CAPI (COLLINA ACCESSIBILE DI POGGIO IMPERIALE) È LA RIPROVA DI COME LA REALTÀ VIRTUALE PUÒ FARSI STRUMENTO DI RICERCA, DIDATTICA E DIVULGAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO
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el progresso tecnologico accade spesso che la teoria preceda di decenni le applicazioni pratiche; è il caso della realtà virtuale (VR), concetto formulato già agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso dal regista americano Morton L. Heilig (1926-1997). Solo in tempi recenti la VR ha conosciuto uno sviluppo consistente e un utilizzo di massa, soprattutto per due ragioni: l’abbassamento dei costi dei nuovi visori e lo sviluppo e
l’aggiornamento continuo delle applicazioni. Ma è corretto parlare di realtà virtuale nel settore dell’archeologia? Dal punto di vista etimologico è virtuale ciò che non è tangibile e materiale, ovvero è una finzione: quando viene applicata alla ricerca archeologica, tuttavia, la ricostruzione virtuale non è una simulazione di ciò che non è vero, ma di ciò che è stato e ora non esiste piú. Si tratta perciò di offrire all’utente una sorta di viaggio nel
tempo, in cui l’archeologo proietta le proprie conoscenze, acquisite dal dato materiale, e propone una «realtà ricostruita». L’applicazione di strumenti immersivi per la valorizzazione del patrimonio archeologico è parte del Progetto CAPI (acronimo di Collina Accessibile di Poggio Imperiale), messo a punto dal Comune di Poggibonsi, con la direzione scientifica dell’Università di Siena (Marco Valenti) e cofinanziato dall’Università, dalla
In alto: l’ambiente VR della chiesa di S. Agostino a Poggio Bonizio (Archeodromo di Poggibonsi). A sinistra: realtà virtuale di Poggio Bonizio (Archeodromo di Poggibonsi) attraverso il visore Oculus Quest 2.
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quando il podere Casone (come veniva chiamato il contesto), era abitato dalla famiglia del mezzadro Giovanni Petrucci, si risale nel tempo sino al cantiere medievale di Donnus Johannes e Ugolino di Maffeo. I visitatori vengono accompagnati nel viaggio da personaggi del passato che, collocati all’interno di ricostruzioni tridimensionali, raccontano le loro storie e lo svolgimento della vita quotidiana, introducendoli nella cultura materiale del passato. La ricostruzione del refettorio di S. Galgano spiegata dal monaco Ugolino (ricostruzione 3D di Manuele Putti). Regione Toscana, dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena, da Archeòtipo Srl e da Entertainment Game Apps Ltd. L’obiettivo consiste nel dare visibilità, attraverso l’esperienza digitale, all’insediamento di Poggio Bonizio (XII-XIII secolo), che rischiava di scomparire nel cono d’ombra creato dalla fisicità delle ricostruzioni in scala 1:1 delle capanne di età carolingia, realizzate all’interno dell’Archeodromo di Poggibonsi, e dal carattere monumentale della fortezza medicea di Poggio Imperiale (costruita tra il 1488 e il 1511), che lo ospita. Parallelamente, si è tentato l’abbattimento virtuale delle barriere architettoniche, ancora presenti in molti siti archeologici, spesso inaccessibili ai visitatori con difficoltà di deambulazione.
SOLUZIONI INCLUSIVE Il progetto si è rivelato comunque utile per elaborare un nuovo approccio anche al tema delle barriere cognitive, in particolare quelle legate all’autismo, offrendo la possibilità ai fruitori con tali disabilità di prendere confidenza con i temi del sito e di conoscerne il contesto prima della visita. Impiegando il rilievo
fotogrammetrico della collina di Poggio Imperiale, sono state a tal fine ricostruite le case a schiera e le botteghe dei fabbri, le grandi chiese di S. Agnese e S. Agostino e la viabilità che attraversa il pianoro. L’utente può quindi muoversi liberamente, in prima persona, passeggiando tra le ricostruzioni ed esplorando gli edifici, fino a vivere l’emozione provocata dal rinvenimento di reperti. I visori VR consentono infatti di calarsi all’interno della «scena» e di proiettarsi attivamente in uno spezzone del passato, senza esserne spettatore passivo. Un percorso di realtà virtuale che permette, inoltre, l’uso di sistemi di e-learning, ponendo domande e stimolando l’utente nella ricerca di oggetti all’interno delle ricostruzioni. È questo un ulteriore stimolo all’apprendimento attraverso la tecnica del problem solving e, in definitiva, una strada per mutuare la conoscenza in competenza. Le metodologie applicate al Progetto CAPI sono state sperimentate anche nell’abbazia di S. Galgano (Chiusdino, Siena), con l’obiettivo di creare un percorso a ritroso alla scoperta della complessa storia del sito: partendo dalla fase colonica ottocentesca,
LE NUOVE SFIDE Nel virtual tour di S. Galgano è stato privilegiato il principio «immersivo», dando forma a figure realmente esistite e di cui conosciamo la vita e le attività, grazie a documenti e fonti scritte: in questo caso non si tratta di un’esperienza di libero movimento, ma di una strada obbligata, che ricrea il percorso di un’esposizione museale tradizionale. Ma la ricerca non si ferma qui: quanto prima dovrà essere affrontata una nuova sfida, rappresentata dal Metaverso, ovvero da un mondo tridimensionale, multiutente e interattivo, in grado di creare un’esperienza il piú possibile «phygital», capace di fondere insieme la sfera fisica e quella digitale. Le ricostruzioni del sito di Poggio Bonizio e dell’abbazia di S. Galgano, in questo senso, potranno essere impiegate come grandi database tridimensionali, nei quali inserire anche reperti archeologici datati e tipologizzati. Uno strumento molto utile per i ricercatori, che vi potranno accedere per confrontarsi con altri studiosi; per gli studenti, che potranno prendere confidenza con gli strumenti dell’archeologo; e infine per i visitatori, che potranno entrare in contatto con un mondo che non esiste piú. (stefano.bertoldi@unisi.it)
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
UN ANNO PER L’EGITTO Questo numero di «Archeo» è all’insegna dell’Egitto e rievoca tre diversi capitoli della storia millenaria della civiltà fiorita sulle sponde del Nilo. Episodi tra loro lontani nel tempo, ma per combinazione accomunati in questo 2022. Andiamo a ritroso e partiamo dal piú recente, vale a dire l’eccezionale scoperta annunciata nello scorso luglio da una missione archeologica italo-polacca. Si tratta del ritrovamento di uno dei sei templi solari perduti della V dinastia situati ad Abusir, qui in una cartolina d’epoca (1), a poca distanza dal Cairo. Il ritrovamento e lo studio dei resti di questo tempio sarà determinante per comprendere scopi e funzionalità dei due complessi già archeologicamente noti nella stessa area, quelli dei faraoni Userkaf (2) e Nyuserra. Risaliamo quindi a un secolo fa, per ricordare che il 22 novembre del 1922 è una data d’importanza capitale per l’archeologia dell’Egitto e del mondo intero: la scoperta della tomba, quasi completante inviolata, di Tutankhamon, qui nel primo francobollo che lo raffigura, emesso nel 1947 (3). Il lungo articolo rievocativo parla dell’archeologo Howard Carter che scoprí la tomba, ricordato sulla copertina di un libretto inglese (4) e con un annullo del 1999 nel 60° anniversario della sua morte (5, con data errata, febbraio invece di marzo) e della sua emozione nel vedere dal primo squarcio delle camere interne della tomba «cose meravigliose» (6). Poi racconta della vita del faraone fanciullo (7), del padre Akhenaton, cultore della religione del dio Sole, e della sua famiglia (8), e dell’ascendente su di lui dei due personaggi che lo affiancarono nei primi anni di regno, il sommo sacerdote Ay e il generale Horemheb (9). C’è spazio anche per il mistero delle numerosi morti tra gli scopritori della tomba e anche di quella dello stesso faraone, a 19 anni. Qui presentatiamo anche l’unica emissione finora avutasi su questo centenario: si tratta di un foglietto ungherese che mostra i vari «strati» all’interno del sarcofago reale (10). Infine, torniamo indietro di un altro secolo per arrivare al settembre del 1822, quando Jean-François Champollion (11-12) annunciò al mondo di aver tradotto la famosa stele di Rosetta, trovata dagli archeologi francesi al seguito di Napoleone nel 1799 durante la campagna d’Egitto (13). Un’impresa che aprí la strada alla comprensione dei geroglifici.
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it
VI G TA IU , T LI RI O O C NF ES I E AR M E O RT E
LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
GIULIO CESARE L’ULTIMO DITTATORE
N
ato da una delle piú illustri famiglie di Roma, la gens Iulia, Gaio Giulio Cesare non tarda a far valere le sue eccezionali doti di stratega e uomo d’azione. I successi colti alla testa dei legionari lo proiettano da protagonista sulla scena politica capitolina e la sua ascesa sembra destinata a non incontrare ostacoli. In realtà, piú d’uno manifesta diffidenza, se non aperta ostilità, e le lotte intestine culminano nella guerra civile, preceduta dal fatidico passaggio del Rubicone. Uscito vincitore, Cesare diviene, di fatto, l’arbitro supremo dei destini della repubblica e ne rinsalda la supremazia sullo scacchiere mediterraneo. Riesce a superare indenne anche il malcontento generato dai favori concessi a Cleopatra, regina d’Egitto, ma nulla potrà contro la congiura infine ordita contro di lui. Il suo destino, preceduto da foschi segni premonitori, si compie nel marzo del 44 a.C., quando, colpito da ventitré pugnalate, si accascia nella Curia di Pompeo. La straordinaria parabola umana, politica e militare viene ripercorsa nella nuova Monografia di «Archeo»: il racconto avvincente delle gesta di un personaggio che piú di altri ha contribuito a fare la storia.
GLI ARGOMENTI
in edicola
• L’ASCESA
• LA CONQUISTA DELLA GALLIA
• GUERRA E POLITICA
• LA GUERRA CIVILE
• LA STORIA DELLA SCOPERTA
• LA FINE
CALENDARIO
Italia ROMA Vulci: il patrimonio disperso e ritrovato Dalle ricerche ottocentesche al digitale «Sapienza» Università di Roma, Museo di Antichità Etrusche e Italiche fino al 26.11.22
Colori dei Romani
I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.01.23
ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro
Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23
BARUMINI (SU) Al di là del Mare
Etruria e Sardegna in mille anni di storia Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «G. Lilliu»-Area archeologica «Su Nuraxi» fino al 31.12.22
BOLOGNA I Pittori di Pompei
Museo Civico Archeologico fino al 19.03.2023
Domiziano Imperatore
Odio e amore Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.01.23
FOGGIA Arpi riemersa
Roma medievale
Il volto perduto della città Museo di Roma-Palazzo Braschi fino al 05.02.23
Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22
MILANO Il suono oltre l’immagine La decifrazione dei geroglifici Civico Museo Archeologico fino all’08.01.23
L’Orante
(…nel tuo nome alzerò le mie mani…) Museo di Sant’Eustorgio e della Cappella Portinari fino al 15.01.23
Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú Mudec-Museo delle Culture fino al 19.02.23 30 a r c h e o
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
OSTIA ANTICA (ROMA) Chi è di scena! Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022) Parco archeologico di Ostia antica fino all’08.01.23 (prorogata)
POMPEI Arte e sensualità nelle case di Pompei Palestra Grande fino al 15.01.23
VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon
Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23
Francia PARIGI Oro e tesori
3000 anni di ornamenti cinesi L’École des Arts Joailliers fino al 14.04.23 (dal 01.12.22)
LENS Champollion
La via dei geroglifici Louvre Lens fino al 16.01.23
SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo PORTICI (NAPOLI) Materia
Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.10.23
PROCIDA, NAPOLI E BAIA
Museo Civico di Procida «Sebastiano Tusa» Museo Archeologico Nazionale di Napoli Parco Archeologico dei Campi Flegrei
I Greci prima dei Greci fino al 31.12.22
TORGIANO Bronzi e buccheri degli Dèi
Dai depositi del MANU alle sale del MUVIT MUVIT-Museo del Vino di Torgiano fino al 31.12.22
TREMEZZINA (COMO) Canova, novello Fidia Villa Carlotta fino all’11.12.22
TRENTO Lascaux Experience
La grotta dei racconti perduti MUSE-Museo delle Scienze fino al 12.02.23 (prorogata)
VETULONIA (GROSSETO) A tempo di danza
In Armonia, Grazia e Bellezza Museo Civico Archeologico di Vetulonia fino all’08.01.23 (prorogata)
«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23
Regno Unito LONDRA Geroglifici
L’antico Egitto rivelato British Museum fino al 19.02.23
Svizzera BASILEA Ave Caesar
Romani, Galli e tribú germaniche sul Reno Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 30.04.23
USA NEW YORK Chroma
La scultura antica a colori The Metroplitan Museum of Art fino al 26.03.23
Vite degli dèi
La divinità nell’arte dei Maya The Metroplitan Museum of Art fino al 02.04.23 (dal 22.11.22) a r c h e o 31
SCOPERTE • EGITTO
IL DIO SOLE E LA SCOPERTA DEL
TEMPIO PERDUTO Abu Ghurab (Abusir, Egitto). Veduta panoramica dell’area nella quale si trovano i resti del tempio solare fatto costruire da Nyuserra, uno dei faraoni della V dinastia (2454-2424 a.C.).
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LO SCORSO 30 LUGLIO 2022 IL MINISTERO EGIZIANO DEL TURISMO E DELLE ANTICHITÀ HA ANNUNCIATO IL RITROVAMENTO, A OPERA DI UNA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALO-POLACCA, DI UN ANTICHISSIMO MONUMENTO FRA LE SABBIE D’EGITTO. SI TRATTA DI UNO DEI TEMPLI SOLARI DELLA V DINASTIA (2500-2350 A.C. CIRCA), SITUATO NELLA NECROPOLI DI ABUSIR, UNA VENTINA DI CHILOMETRI A SUD DEL CAIRO. PRESENTIAMO, IN ESCLUSIVA PER «ARCHEO», IL RACCONTO DEI PROTAGONISTI DELLO STRAORDINARIO RINVENIMENTO di Massimiliano Nuzzolo e Rosanna Pirelli, con contributi di Mohamed Osman, Teodozja Rzeuska e Patrizia Zanfagna a r c h e o 33
SCOPERTE • EGITTO
N
Cairo
Abusir
E G I T TO
ilo
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L’area di Abu Ghurab (Abusir, Egitto) in un’immagine satellitare. L’area è oggetto delle indagini di una missione archeologica italo-polacca.
Mar Mediterraneo
N
essun culto è stato tanto centrale nella storia religiosa e nell’ideologia regale dell’Antico Egitto quanto quello del dio Ra. Alla divinità solare, nelle sue diverse manifestazioni, sono stati dedicati alcuni dei monumenti piú emblematici della civiltà dei faraoni: tra i piú noti, il grande complesso di Amon-Ra a Karnak – fondato nel Medio Regno (fine del III-prima metà del II millennio a.C.) e ampliato da tutti i sovrani fino in epoca romana – o i santuari fatti edificare nella seconda metà del XIV secolo a.C., da Amenhotep IV/Akhenaten, il cosiddetto «faraone eretico», in onore di una forma particolare della divinità, l’Aten (il «disco solare»), nella neo-fondata città di Akhet-Aten. Edifici monumentali elevati verso il cielo, che potremmo mettere in relazione con le prime formulazioni della teologia solare, possono essere già individuati nel corso delle prime quattro dinastie, ma le piú antiche evidenze archeologiche di santuari specificamente dedicati al culto del dio sole risalgono a non prima della V dinastia, ossia alla metà circa del III millennio a.C. Dalle fonti storiche coeve apprendiamo che sei dei nove sovrani attribuiti alla V dinastia (2510-2350 a.C.) costruirono «templi solari», in un arco cronologico assai breve, probabilmente non piú di un’ottantina di anni. Solo due di questi templi, tuttavia, sono stati rinvenuti archeologicamente: fatti erigere da Userkaf e Nyuserra, si collocano nel sito attualmente denominato Abu Ghurab, che occupa la propaggine piú settentrionale della necropoli regale di Abusir, 20 km circa a sud del Cairo. Fra i due templi, tuttavia, solo quello di Nyuserra è ancora oggi in condizioni conservative tali da permetterci di comprendere appieno le caratteristiche architettoniche di questi monumenti. Il tempio venne scoperto e scavato negli
Mar Rosso Lago Nasser
anni 1898-1901 dall’archeologo tedesco Ludwig Borchardt (18631938), anche noto al grande pubblico per la scoperta del famoso busto di Nefertiti, oggi conservato al Museo Egizio di Berlino. Dopo quello scavo, tuttavia, il tempio non è mai piú stato oggetto di indagini sistematiche fino al 2010, quando una missione archeologica italiana dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale ha ripreso le indagini sul sito, con l’obiettivo primario di ri-studiare questo fondamentale complesso templare e ri-contestualizzarlo nella storia del piú antico Egitto. In 12 anni di lavoro sul sito, la missione si è anche avvalsa di una serie di importanti partenariati scientifici che l’hanno vista cooperare, come missione congiunta, con prestigiose istituzioni straniere come l’Università Carlo IV di Praga (2016-19) e, a partire dal 2020, l’Accademia delle Scienze di Varsavia.
IL TEMPIO SOLARE Il tempio solare di Nyuserra rappresenta un monumento unico nel suo genere e assolutamente senza paralleli nell’antico Egitto. Pur non essendo monumentale nelle dimensioni, come le coeve e piú celebri piramidi, è caratterizzato
da elementi che lo rendono assai peculiare. Il tempio è strutturato come un enorme spazio a cielo aperto, delimitato da un muro di cinta di notevoli dimensioni (110 x 80 m), e dominato, sul lato occidentale, dalle rovine di quello che era una volta un grande obelisco dedicato al dio sole. Non dobbia-
mo però pensare a un obelisco monolitico, sottile e slanciato, come quelli che affiancano i portali di numerosi templi egiziani o quelli ri-eretti nelle piazze di molte delle capitali Europee (Roma, in primis, ma anche Parigi o Londra), quanto piuttosto a una struttura obeliscoide costituita da blocchi di
pietra rivestiti, dalla forte pendenza, appoggiata su una larga base tronco-piramidale. Di fronte a essa, sul lato est, è collocato un elegantissimo altare in alabastro, vero centro del culto quotidiano del santuario. L’altare è composto da 5 lastre monolitiche: 4 sono realizzate in forma di tavo-
la d’offerte – il segno geroglifico «hetep» – e sono perfettamente orientate verso i quattro punti cardinali; l’ultima lastra, posta al centro delle precedenti, è invece realizzata in forma circolare, e rappresenta il disco solare. Nel suo complesso, l’altare si profila dunque come una rappresentazione tridia r c h e o 35
SCAVI • XXXX XXXXXX
MAGAZZINI/STANZE DEL TESORO
«PICCOLO MACELLO»
CORRIDOIO NORD «GRANDE MACELLO» (PIENA DEL NILO) VESTIBOLO ALTARE
OBELISCO
CORTE CENTRALE
CAMERA DELLE STAGIONI
CAPPELLA
Sulle due pagine: planimetria generale del tempio solare di Nyuserra, con l’indicazione delle diverse strutture identificate nel corso degli scavi. In alto: il portale di accesso al settore del tempio identificato come area adibita a magazzino. 36 a r c h e o
CORRIDOIO SUD
BARCA SOLARE
TEMPIO A VALLE
RAMPA PROCESSIONALE
mensionale di una enorme tavola d’offerta posta dinnanzi al dio sole, di cui l’obelisco rappresentava l’emblema sulla terra. Sul lato nord del santuario si trova una vasta area adibita a magazzino, composta da 10 stanze parallele e di simili dimensioni, orientate lungo l’asse est-ovest ma aperte a sud, nelle quali probabilmente trovavano posto in parte le derrate alimentari stoccate nel tempio per le offerte di culto, in parte i cosiddetti «regalia», ossia tutto il complesso di corone, scettri e strumenti di culto utilizzati per i rituali quotidiani. Da quanto sappiamo dalle fonti storiche contemporanee, in particolare dai cosiddetti «Papiri di Abusir», il personale attivo nel tempio era numeroso e diversificato, ed era pagato in beni di consuIn alto: veduta dei resti della struttura convenzionalmente designata come «grande macello». In basso: veduta dall’alto dell’altare in alabastro, cuore del tempio solare.
mo primario, soprattutto forme di pane e giare di birra. Non è dunque da escludere che l’ampio spazio di immagazzinamento presente nel tempio servisse anche per rispondere a quelle che potremmo definire le «esigenze salariali» del personale addetto al tempio.
ALABASTRO E CALCARE BIANCO Immediatamente a sud dei magazzini e quasi in prossimità dell’altare, si trova l’area forse piú particolare e, al tempo stesso, piú enigmatica del santuario, convenzionalmente definita «il grande macello», e riproposta, nell’angolo nord-occidentale del cortile, nel cosiddetto «piccolo macello». Si tratta di due aree caratterizzate dalla presenza di grandi bacini lustrali circolari – costruiti rispettivamente in alabastro e calcare bianco e dotati di fori lungo l’orlo – associati a pavimenti scanalati, apparentemente atti a far defluire o raccogliere l’acqua dei bacini. I nomi convenzionali attribuiti a queste strutture si devono allo studioso tedesco che scoprí per primo il tempio. La sua idea era che qui venissero svolti numerosi sacrifici di animali, soprattutto bovini, la cui carne era poi consacrata al dio sole Ra (grande macello) e alla dea Hathor (piccolo macello), divinità femminile dai connotati solari nonché, secondo alcune versioni del mito, paredra del dio sole stesso. Oggi, a distanza di oltre un secolo dalla sua scoperta, le nostre indagini ci portano a pensare a qualcosa di molto diverso, come si vedrà piú avanti. Infine sul lato meridionale del tempio, direttamente addossate al basamento dell’obelisco, vi erano due stanze di culto, convenzionalmente definite «Cappella» e «Camera delle Stagioni». Si tratta di due stanze di piccole dimensioni (12 x 3 m circa) ma di grandissimo significato all’interno del santuaa r c h e o 37
SCOPERTE • EGITTO
rio. Le stanze erano infatti orientate nord-sud ed erano originariamente decorate con scene relative al giubileo regale (Cappella) – anche noto come «Festa Sed», la piú importante festa di rinnovamento del potere del faraone – e al ciclo della natura, raffigurato nell’arco delle tre stagioni in cui era diviso l’anno egiziano in epoca faraonica (da qui il nome di Camera delle Stagioni). Quasi tutte le grandi lastre decorate di queste due stanze furono all’epoca di Borchardt traslate in Germania, dove ancora oggi adornano alcuni dei piú importanti musei tedeschi come le collezioni egizie di Berlino e Monaco di Baviera.
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Dalla «Camera delle Stagioni» era possibile salire lungo una rampa ricavata nel basamento che sorreggeva la struttura obeliscoide e, dopo aver effettuato un giro completo al suo interno, uscire alla base dell’obelisco, sul lato orientale, di fronte all’altare e in perfetto allineamento con l’entrata principale del tempio.
LA RAMPA PROCESSIONALE Da questa altezza era anche possibile scorgere, verso la valle, il resto del complesso templare, che era caratterizzato, come le coeve piramidi, da una lunga rampa processionale che univa il tempio superiore al tempio inferiore, anche detto «tempio a
valle», che era probabilmente situato al margine fra la zona desertica e la vegetazione, circondato da un ampio insediamento. Una delle idee che piú aveva colpito la nostra attenzione all’inizio dei lavori sul campo nel 2010 era l’ipotesi avanzata da Borchardt sullo svolgimento di macellazioni rituali di bovini nel cosiddetto «grande macello». Che sacrifici di animali potessero essere svolti all’interno del santuario è testimoniato da alcuni rilievi provenienti dal quasi coevo tempio della piramide di Sahure. Che però tali sacrifici occupassero un’area cosí vasta e monumentalizzata del tempio solare, caratterizzata dall’impiego del pregiato alabastro e
In alto: pavimenti provvisti di scanalature realizzate per favorire lo scorrimento dell’acqua durante le cerimonie di cui si è ipotizzata la pratica nel tempio. A sinistra: i grandi bacini lustrali scoperti nell’area del «grande macello». In basso: ricostruzione 3D delle strutture facenti parte del cosiddetto «grande macello», verosimilmente destinate a riti di purificazione.
del raffinato calcare di Turah, sembra piuttosto improbabile. D’altra parte, sia durante gli scavi di fine Ottocento sia durante le nostre piú recenti indagini, non sono mai state rinvenute ossa bovine o strumenti rituali da taglio che sono invece tipici dei luoghi adibiti alle attività di macellazione. Una prova archeologica in tal senso ci arriva dalla coeva piramide del re Raneferef, probabilmente fratello maggiore
di Nyuserra, nel cui mattatoio tali evidenze archeologiche sono state trovate in gran numero.
PER LEGARE LE VITTIME Quello che possiamo dire, a seguito degli ultimi scavi, tuttavia, è che qualche forma rituale di sacrificio doveva essere comunque celebrata, come è testimoniato dal ritrovamento di un grande e spesso blocco di pietra di forma parallelepipe-
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SCOPERTE • EGITTO Ortofoto delle due stanze di culto, definite per convenzione «Cappella» e «Camera delle Stagioni». In basso, a sinistra: la pietra utilizzata per legare le vittime sacrificali prima che fosse loro tagliata la gola («tethering stone»).
da, dall’estremità arcuata e forato super ior mente (tecnicamente chiamata «tethering stone»), che serviva a legare la vittima del sacrificio prima del taglio della gola. Tutta l’area, tuttavia, potrebbe aver avuto, a nostro avviso, un ruolo ben piú pregnante, quale luogo di svolgimento di rituali collegati all’acqua, e piú precisamente all’acqua del Nilo. Quello che infatti maggiormente colpisce di questa vasta area a cielo aperto è la presenza dei
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grandi bacini lustrali in alabastro collegati al lunghissimo pavimento scanalato che, insieme, coprono interamente il quadrante nord-orientale del tempio e sono allineati lungo l’asse est-ovest. I bordi dei bacini sono attraversati da fori inclinati verso l’esterno, per cui non potevano servire, come ipotizzato in passato, per raccogliere e far defluire l’acqua e/o i liquidi animali durante il sacrificio, ma dovevano servire piuttosto per raccogliere l’acqua,
Frammenti delle lastre decorate che ornavano in origine la «Camera delle Stagioni». In basso: veduta dall’alto dell’area del «grande macello», con la «tethering stone» ancora in situ.
qui versata a mano tramite giare, e farla defluire proprio verso il pavimento scanalato. Si può ipotizzare che su tale pavimento venissero deposte le offerte che dovevano – o potevano – essere purificate sia dall’acqua che scorreva nelle canalette sia dal sole medesimo, nel suo percorso diurno, da est a ovest.
I «LAGHI SACRI» Riguardo a questo ampio spazio aperto, si potrebbe inoltre ipotizzare una funzione alternativa, seppur legata anch’essa alle sacre acque del Nilo. La zona del pavimento scanalato è infatti molto estesa (50 x 16 m circa) se immaginata solo per la
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SCOPERTE • EGITTO
purificazione di offerte, un’annotazione tanto piú vera se consideriamo anche l’area del cosiddetto «piccolo macello». Non dobbiamo dimenticare inoltre che bacini artificiali, i cosiddetti «laghi sacri», sono presenti in numerosissimi templi e in tutte le epoche della storia faraonica legati, simbolicamente, al Nilo. Potremmo quindi anche suggerire che una delle funzioni principali di quest’area fosse quella di mettere in scena la piena del Nilo, momento fondamentale, come tutti sanno, per l’esistenza stessa dell’Egitto. A una comunità del XXI secolo potrebbe forse apparire anomalo ed eccessivo dedicare, in un santuario, uno spazio cosi ampio a un’attività puramente simbolica, ma non dobbiamo dimenticare che i templi solari, come del resto tutti i monumenti in pietra dell’antico Egitto, avevano la funzione precipua di rendere effettivi e perpetuare i rituali celebrati nel tempio, e con essi il nome e il ricordo del sovrano che li svolgeva. Il carattere simbolico è dunque sempre preminente in qualsiasi monumento dell’antico Egitto. A tal proposito possiamo notare che i bacini lustrali del cosiddetto «piccolo macello» erano or ientati sull’asse nord-sud – dunque ortogonali ai bacini in alabastro del «grande macello» – ed erano caratterizzate da tre fori lungo il bordo, questi ultimi però inclinati verso l’interno, dunque adibiti a far (ri-)entrare l’acqua nei bacini, contrariamente a quanto avveniva per i bacini del «grande macello». Si potrebbe quindi suggerire che nel tempio si svolgesse ciclicamente un grande rituale atto a mettere in scena simbolicamente la piena del Nilo, con l’acqua che sgorgava dai bacini lustrali verso il pavimento scanalato del «grande macello» – cosí come avveniva con l’acqua del Nilo durante l’esondazione dovuta alla piena – per tornare poi nel suo alveo al termine della piena stessa, come l’acqua che rientrava all’in42 a r c h e o
Confronto tra la ricostruzione 3D del tempio solare di Nyuserra elaborata dalla missione italo-polacca e quella proposta da Ludwig Borchardt, che scoprí il complesso monumentale e ne scavò una parte fra il 1898 e il 1901.
terno dei bacini del «piccolo macello». Nel rituale andavano inoltre a incrociarsi i due assi portanti del pensiero religioso egizio: quello estovest che seguiva il corso del sole – qui nel tempio solare piú centrale che mai – e quello sud-nord lungo
il corso del Nilo, che sanciva il dominio del faraone sull’intero Paese, e, tramite esso, su tutto il cosmo.
LE NUOVE SCOPERTE A partire dal 2020, grazie anche al nuovo progetto di ricerca «Sun Tem-
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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SCOPERTE • EGITTO
Struttura 2 Fondazioni pavimentali del tempio solare
Struttura 1
Area dei magazzini del tempio solare
Muro 35
Fondazioni pavimentali in pietra del tempio solare
Corridoio d’ingresso Facciata
Muro 29
Corte Pavimento in fango battuto
Pavimento in fango battuto
Fondazioni dell’obelisco in pietra
Rampa
Planimetria e ortofoto (in alto) del piú antico edificio templare di Abu Ghurab, costruito in mattoni.
ples Project», la missione ha iniziato una nuova fase di lavoro sul sito rivolta all’indagine delle fasi di occupazione precedenti la costruzione del tempio solare, mai investigate prima. In molti punti, infatti, la pavimentazione originaria manca del tutto, probabilmente asportata già in antico, e questo ci ha permesso di 44 a r c h e o
effettuare un’indagine archeologica piú in profondità. Il punto di partenza è stata la ricerca dei templi solari mancanti. Come accennato prima, 4 dei 6 templi solari conosciuti dalle fonti storiche non sono ancora stati individuati archeologicamente anche se sappiamo dai documenti amministrativi
contemporanei (i già citati «Papiri di Abusir») che dovevano trovarsi tutti non lontanto dalle coeve piramidi, collocate nella necropoli di Abusir, a brevissima distanza da Abu Ghurab. Era dunque logico pensare che anche i templi mancanti fossero prossimi ai due finora conosciuti. Tuttavia, in superficie, non restava nulla che facesse pensare a un tempio in questa zona. Si poteva però ipotizzare che un tempio precedente potesse trovarsi sotto il tempio di Nyuserra… e cosí è stato. Le tracce di questo edificio piú antico, interamente costruito in mattoni, lasciano supporre che fosse monumentale. La struttura era
allineata sull’asse est-ovest, come il successivo tempio in pietra, e misurava almeno 60 x 20 m (tracce dei muri di cinta dell’edificio sono state trovate sui lati sud ed est e, almeno parzialmente, anche sul lato nord). I suoi muri avevano uno spessore che varia da 1,5 a 3 m ed erano tutti intonacati in bianco e nero, spesso con tracce di pittura blu e rossa e mostrano rifiniture adeguate a un edificio regale. Dal punto di vista architettonico, la struttura era composta da un ingresso monumentale, di cui restano una
soglia e due basi circolari in calcare bianco fine di Turah, le cui colonne furono probabilmente re-impiegate già in antico. Questo ingresso monumentale dava accesso, tramite uno stretto corridoio a forma di «L», a un ampio cortile centrale, pavimentato in fango battuto, con ulteriori spazi chiusi (stanze di culto?) verso ovest, che non è stato possibile investigare dal momento che su questa zona insiste ancora il pavimento originale del tempio in pietra di Nyuserra. Muovendosi ancora piú a ovest, la
L’area dello scavo nella quale sono venuti alla luce i resti del portico collocato all’ingresso del tempio in mattoni.
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SCOPERTE • EGITTO
UN PUZZLE DA COMPLETARE Durante le ultime settimane di scavo al tempio solare di Nyuserra nell’anno 1901 Ludwig Borchardt identificò i resti di una struttura in mattoni posta immediatamente al di sotto del tempio in pietra. La struttura, però, non fu indagata completamente, sia perché non rientrava negli interessi dello studioso, sia perché spesso si trovava subito sotto il livello pavimentale del successivo tempio in pietra. Inoltre, coma d’altronde accadeva in quegli anni, il contesto stratigrafico e la cultura materiale di questa parte significativa del monumento non furono né raccolti, né pubblicati. Le nuove indagini avviate dalla missione archeologica italiana, dunque, avevano – e hanno tuttora – come obiettivo primario lo scavo e l’analisi di queste parte mancanti del puzzle, al fine sia di completare quanto non indagato da Borchardt, sia di comprendere l’evoluzione dell’intero sito di Abu Ghurab prima della costruzione del tempio solare di Nyuserra. Dal punto di vista tecnico l’indagine di queste strutture in mattoni ha posto notevoli ostacoli, soprattutto per la presenza delle strutture sovrastanti del tempio in pietra. In molti casi esistono infatti solo pochi spazi vuoti tra tali strutture e i resti in mattoni crudi dell’edificio precedente. Il processo di documentazione e comprensione del monumento si è dunque spesso basato sui profili e/o sulle sezioni di scavo piú che sulle piante o sull’alzato vero e proprio. La principale metodologia di documentazione in tal senso è stata dunque la fotogrammetria collegata a dati di rilievo, al fine di creare un archivio 3D di tutte le caratteristiche rilevate. Da questi modelli è stato possibile estrarre piú livelli di dati, come ortofoto molto dettagliate e spazialmente accurate (foto senza distorsioni), illustrazioni, modelli di elevazione (Digital Elevation Models) e profili. Questa metodologia nella
Profilo generale del tempio solare di Nyuserra, ottenuto grazie alla combinazione dei dati emersi dallo scavo, dai rilievi e dalla loro combinazione per mezzo delle moderne tecnologie di documentazione e interpretazione.
Muri 29, 31
documentazione non sarebbe stata però completa senza l’applicazione di un protocollo di confronto e controllo manuale, che include la creazione di schizzi in scala e la correzione di tutti i modelli e le illustrazioni sul sito prima di considerare la loro documentazione finale. Il tutto è stato contestualmente inserito in un GIS (Geographic Information System) per la gestione integrata dei dati archeologico-stratigrafici con i dati della cultura materiale, particolarmente diversificata
A sinistra: blocchi in quarzite che componevano l’obelisco del tempio solare di Userkaf. A destra: deposito di ceramiche nel quale sono state trovate numerose giare per la birra.
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Area dei magazzini del tempio solare
Deposito delle cretule
Deposito delle giare per la birra Area del portico
Struttura all’esterno del complesso pre-templare
Muri superficiali
Muri 17, 21
Corte
Muro 7 Pavimentazione al di là della corte
Area della corte del tempio solare
per tipologia e cronologia ed estesa (finora) su 55 quadrati di scavo, per un’area complessiva di indagine di circa 1400 mq. Tale GIS è inoltre caratterizzato da elementi molto complessi e diversificati di definizione della cultura materiale, che mirano a integrare i dati ricavati sul terreno con i dati già disponibili per l’intera area menfita (e potenzialmente non solo) al fine di ampliare lo spettro delle nostre conoscenze in materia. Tale geo-database GIS era infine completato da
struttura risulta particolarmente danneggiata e di difficile lettura. Notevole è però la presenza di svariati blocchi di fine quarzite rossa di grandi dimensioni, tutti situati in quest’area e conficcati nella fondazione del pavimento dell’edificio in mattoni. Questi blocchi, sebbene danneggiati, mostrano ancora facce levigate e, anche a ragione della loro collocazione stratigrafica, non sembrano essere scarti di lavorazione del tempio successivo in pietra, che pure aveva utilizzato largamente la quarzite. Possiamo quindi pen-
un’indagine paesaggistica dell’intero sito di Abu Ghurab composta da un rilievo topografico di dettaglio unito a immagini satellitari ad altissima risoluzione. Queste ultime caratteristiche del GIS consentiranno in futuro ulteriori e piú approfondite analisi spaziali e archeologiche, combinate all’interno di piú layers cronologici e finalizzate alla definizione del quadro storico evolutivo del sito di Abu Ghurab. Mohamed Osman
sare che, in epoca precedente, qui si ergesse una struttura poi smantellata da Nyuserra, forse l’obelisco del tempio precedente.
IL VERO FULCRO DEL CULTO La conclusione potrebbe sembrare troppo affrettata sulla base dei soli dati archeologici ma il confronto con l’altro tempio solare sembra avvalorare la nostra ipotesi: il tempio solare di Userkaf, colui che in effetti introdusse questa nuova tipologia architettonica e di culto, fu
costruito interamente in mattoni, ma con alcuni elementi centrali in pietra, come appunto l’obelisco, vero fulcro del culto solare. L’obelisco, nel caso di Userkaf, era realizzato proprio in blocchi di quarzite, ancora parzialmente visibili oggi fra le macerie del tempio. Non possiamo dunque escludere che, come per Userkaf, anche l’edificio da noi scoperto potesse esser stato concepito con una simile architettura: mattone crudo per la struttura portante ed elementi in pietra (soglia e colonnato in calcare, obelisco – o struttura a r c h e o 47
SCOPERTE • EGITTO
simile – in quarzite) per le parti simbolicamente principali. Ci si potrebbe stupire che templi cosí importanti venissero costruiti in mattoni e non completamente in pietra, come invece nel caso di Nyuserra. Non siamo ancora in grado di dare risposte certe a questa ipotesi; appare comunque evidente che, alla sua salita al trono, Nyuserra abbia deciso di imprimere un piú incisivo e duraturo ruolo al proprio tempio solare, dando vita a un monumento totalmente edificato in pietra, la cui visione ancora oggi si impone nell’area sacra di Abusir.
GIARE PER LA BIRRA Una scoperta altrettanto interessante è stata fatta nell’angolo nordorientale della parte da noi scavata dell’edificio in mattoni, che corrisponde (probabilmente non a caso) anche all’angolo nord-orientale del recinto sacro del tempio di Nyuserra. In questa zona – accessibile direttamente dal corridoio di accesso a L di cui abbiamo detto in precedenza e caratterizzata da una serie di ambienti paralleli, probabilmente adibiti a magazzini – abbiamo trovato un enorme accumulo di ceramica, composto da decine di giare per la birra, molte delle quali completamente intatte, ma anche da forme squisitamente rifinite di ceramica rossa (tecnicamente chiamata «red-slipped ware») o anche le cosiddette «Meidum Bowls». Particolarmente interessante è il fatto che molte giare fossero state riempite di fango del Nilo, sicuramente inteso a espletare alcuni rituali religiosi prima della loro sepoltura in questa parte dell’edificio, come ci è noto da numerosi altri contesti archeologici come per esempio molte delle tombe della V dinastia situate nella zona meridionale di Abusir. La ceramica appare deposta in maniera accurata e intenzionale, e non gettata alla rinfusa, e può essere datata con una certa precisione alla prima metà 48 a r c h e o
UNO SPECCHIO FEDELE DELLA VITA QUOTIDIANA Quando si visita un sito archeologico in Egitto l’immagine che forse piú resta impressa nella nostra memoria è quella di un accumulo senza fine, e spesso informe, di frammenti di ceramica. È come se gli antichi abitanti del Nilo non facessero altro che fare giare, pentole e padelle per poi romperle! Abu Ghurab, dove opera la nostra missione, non fa eccezione. Anche qui si possono trovare enormi quantità di cocci. Per un ceramologo – un archeologo specializzato nello studio della ceramica – questo è il paradiso e l’inferno insieme. Paradiso, perché la ceramica è una fonte di informazioni insostituibile, difficile
da ottenere da altre fonti; inferno, perché i reperti restituiti dallo scavo sono... troppi! Il materiale ceramico di Abu Ghurab è dominato da due tipologie: le giare per la birra (tecnicamente chiamate «beer jars o beer jugs») e gli stampi per il pane («bread moulds»). Sia il pane che la birra, che assomigliava piú a una «zuppa di birra» densa e a basso contenuto alcolico che a una bevanda moderna, erano gli alimenti base e piú importanti degli Egizi. Non c’è da stupirsi, quindi, che ogni abitante dell’Egitto volesse ricevere «migliaia di pani e migliaia di boccali di birra» dopo
In basso: operazioni di documentazione del deposito di ceramiche. Nella pagina accanto, dall’alto: il deposito in corso di scavo; una giara per la birra riempita di fango (a sinistra); uno stampo per il pane.
la sua morte, nell’aldilà, per non soffrire la fame. Le enormi quantità di tali vasi, che scopriamo ogni anno nel tempio, confermano la popolarità del pane e della birra e chiariscono anche che tali offerte furono fatte al dio solare Ra nel tempio. Anche se a noi può sembrare paradossale, secondo gli antichi anche un dio aveva bisogno del nutrimento quotidiano di pane e birra! Per questo motivo, i sacrifici, che venivano offerti in modo simbolico – dopo tutto il dio non li mangiava – venivano poi molto probabilmente distribuiti tra i sacerdoti e i vari inservienti che lavoravano nel tempio. Gli Egizi dovevano essere amanti della birra, poiché i testi ci dicono che molti tipi di birra venivano prodotti durante il periodo delle piramidi (il cosiddetto «Antico
Regno», III millennio a.C.). Gli archeologi suppongono che questa diversità possa essersi riflessa nelle varie dimensioni e forme delle brocche di birra, nonché nei vari modi in cui è stata trattata la loro superficie, proprio come succede oggi, in cui ogni marca di prodotti è caratterizzata da una specifica bottiglia o lattina, per non parlare delle etichette. Esistono boccali da birra grandi, alti oltre 35 cm, e piccoli, alti circa 15 cm; cilindrici e a forma di fuso; con fondo tondo o appuntito. Infine, ci sono le brocche di birra – e ovviamente anche altre tipologie di ceramica – con la superficie ingubbiata di colore rosso («red slip ware»).
Grazie a questa diversità tipologica, che riflette ovviamente una evoluzione cronologica ben precisa, i boccali di birra, e la ceramica in genere, sono ottimi indicatori per la datazione di uno strato archeologico perché consentono agli studiosi di determinare quando un particolare edificio potrebbe essere stato costruito, per quanto tempo è stato in uso, e quando è stato abbandonato. Anche nel caso del tempio di Nyuserra, la ceramica si è rivelata uno strumento molto importante, rivelando pagine della storia di questo monumento finora completamente sconosciute e permettendo di stabilire come l’attività umana nell’area di Abu Ghurab sia antecedente alla creazione del tempio solare stesso. Teodozja Rzeuska
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SCOPERTE • EGITTO
della V dinastia, dunque a un periodo sicuramente precedente al regno di Nyuserra. Tutti questi elementi ci fanno quindi pensare a una qualche sorta di deposito di fondazione – o, forse meglio, a un «accumulo rituale di ceramica» – effettuato quando il piú antico tempio venne smantellato da Nyuserra per costruirvi sopra il nuovo santuario. Appare infatti chiaro che Nyuserrra abbia in piú punti riutilizzato il tempio precedente come fondazione per il suo edificio, come si evince soprattutto nella zona dei bacini lustrali in ala-
bastro. Questi hanno un peso notevole e avrebbero certo richiesto, in termini architettonici, proprie fondazioni che invece mancano del tutto. Nonostante le notevoli dimensioni e la monumentalità del nuovo tempio sembra quindi chiaro che Nyuserra abbia preferito in alcuni punti riutilizzare quello che già esisteva in loco, ottimizzando i tempi e risparmiando sulle fasi e sul materiale da costruzione. A poca distanza dal deposito/accumulo di ceramica, nuovamente all’interno della pavimentazione del tempio in pietra, è stata trovata
un’altra piccola fossa che ha restituito altri inaspettati ritrovamenti. Insieme a un accumulo di numerosissime perline di faïence, sparse alla rinfusa, sono stati trovati svariati coltelli di selce, alcuni anche molto ben rifiniti e dunque probabilmente rituali, e soprattutto decine di cretule di argilla, con relative impronte di sigilli, che recano iscritti i nomi di sovrani della V e VI dinastia. Fra di esse, particolarmente sorprendente è l’impronta di sigillo con il nome del re Shepseskara, un sovrano della V dinastia che rimane a oggi ancora quasi del tutto scono-
SUL CAMPO CON LE TECNOLOGIE PIÚ AVANZATE Negli ultimi anni la missione archeologica al tempio solare di Nyuserra ha sperimentato svariate tecnologie di documentazione, catalogazione ed elaborazione dei dati archeologici. Una di queste è il BIM, Building Information Modeling. Nato nei primi anni 2000, il BIM è stato originariamente pensato per utilizzi in ambito costruttivo-edilizio e ingegneristico al fine di gestire dalla A alla Z il flusso informativo tra i diversi attori coinvolti nel processo di progettazione e costruzione di un edificio. Il BIM infatti unisce le funzioni di un GIS (Geographic Information System) tradizionale con quelle del CAD (Computer-Aided Design), tradizionale strumento di disegno 3D in architettura. Applicato all’archeologia, il BIM permette di restituire un modello 3D di un dato edificio, in cui ogni singola componente dell’edificio stesso trascina con sé tutti i metadati a esso associati (volume, peso) in un database GIS di riferimento. Il BIM è dunque un GIS-3D, che consente di sistematizzare topografia, rilievo architettonico e dato archeologico in un unico contesto di lavoro.
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Ricostruzione virtuale del tempio solare di Nyuserra ottenuta grazie all’impiego della tecnologia BIM, Building Information Modeling.
Dal punto di vista tecnologicometodologico la caratteristica principale di un BIM è quella di basarsi su «librerie» di oggetti standardizzati e modulari, ricavati dai dati storico-archeologici e disegnati sulla base delle evidenze architettoniche disponibili. Questo rende dunque perfetta l’applicazione del BIM all’architettura egizia, soprattutto quella del III Millennio a.C., che era in effetti caratterizzata da grande modularità e semplicità delle componenti architettoniche.
Nel nostro caso, l’idea di applicare il BIM al tempio solare di Nyuserra nasceva fra l’altro da due necessità primarie: la prima, di natura archeologica, era la necessità di comprendere e ricostruire, in alzato, l’originaria volumetria del tempio, in particolare della struttura obeliscoide, dato il suo forte stato di degrado; la seconda, di carattere pratico, era la necessità di gestire, in modo univoco ed efficiente, la mole sempre crescente delle informazioni provenienti dal lavoro
Il tempio solare di Nyuserra, (in basso) nel piú ampio contesto di Abusir in un HBIM (Historical Building Information Modeling). In basso: ricostruzione 3D del tempio di Nyuserra con le piramidi di Giza sullo sfondo.
sul campo, informazioni, come abbiamo visto, concettualmente molto diversificate. A partire dal 2014 la missione ha dunque deciso di utilizzare il BIM come strumento di gestione dello scavo. Ogni elemento è stato documentato per mezzo di tecnologia laser-scanner o fotogrammetria, in modo da ottenere la geometria dei singoli componenti. Su questo primo, grezzo modello 3D – fatto di nuvole di punti (pixel) e che costituisce lo stato di fatto dell’esistente – si è potuta poi
iniziare la modellazione di ricostruzione 3D, trasformando i dati 3D dei singoli elementi costruttivi in volumi e solidi, che come tanti mattoncini vanno infine a (ri) comporre l’edificio. A questo che potremmo definire lo stato di fatto si aggiunge il rilievo dei dati archeologici costantemente conseguiti nelle varie fasi di scavo, il tutto posizionato su una base georiferita topograficamente. Tutto ciò permette un costante processo di composizione e scomposizione degli elementi
architettonici che possono essere analizzati sia su base teorica che pratica, restituendo per ognuno di essi le informazioni primarie (materiale, peso, volume, massa, decorazione, ecc.) atte alla modellazione 3D finale. L’intero processo può essere infine sovrapposto a una base cartografica specifica, legata permanenze Didascalia da farealle Ibusdae evendipsam, officte storiche di un dato erupit sito o antesto edificio, taturi cum ilitailaut quatiur restrum in trasformando BIM tradizionale eicaectur, testo blaborenes ium un HBIM (Historical Building quasped quosModeling) non etur reius nonem Information che permette quam expercipsunt del quosmonumento rest magni un inquadramento autatur apic teces. dal punto di teces vista enditibus cronologico, spaziale e paesaggistico. Attualmente, nel tempio solare di Nyuserra, stiamo raggiungendo con il BIM la fase di ricostruzione virtuale 3D finale, dove dal modello generale – che inquadra l’edificio templare e tutto il contesto paesaggistico e monumentale in cui si inserisce – si procede a un livello di definizione sempre piú dettagliato e particolare, dove è possibile esplorare i singoli spazi e volumi che compongono il tempio con tutti i relativi metadati associati (decorazione, arredamento, apparato di culto, ecc.). Patrizia Zanfagna
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SCOPERTE • EGITTO
sciuto, al punto che non sappiamo neppure dove sia stato sepolto e quando esattamente abbia regnato. Secondo la maggior parte degli studiosi, Shepseskara avrebbe regnato subito prima di Nyuserra; tuttavia, alla luce del ritrovamento dei suoi sigilli insieme ad altri della VI dinastia, appare adesso molto piú probabile che egli abbia potuto succedere direttamente a Nyuserra. In ogni caso, la presenza del nome di Shepseskara nel sito di Abu Ghurab apre scenari inattesi sulla storia della V dinastia e attesta che il re fu attivo nell’area oggi occupata dal tempio di Nyuserra. E se non fu l’effimero sovrano Shepseskara a edificare questo tempio in mattoni, possiamo ipotizzare che si trattò del già ricor-
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dato fratello maggiore di Nyuserra, Raneferef. A differenza di tutti gli altri templi solari (e soprattutto di quello di Nyuserra), piú volte menzionati nelle fonti del tempo, il tempio solare di Raneferef è citato nelle fonti coeve solo una volta, nella mastaba del potente funzionario Ty a Saqqara. Nella sua dettagliata autobiografia, incisa sulle pareti della sua tomba, Ty dice di essere stato soprintendente («imy-ra» in antico egiziano) alla costruzione di questo tempio, denominato «Sia soddisfatto Ra». Sappiamo però, grazie alle ricerche svolte dagli archeologi dell’Università Carlo IV di Praga presso la sua piramide di Abusir, che Raneferef regnò solo 1 o 2 anni, morendo improvvisamente e molto giovane, e
lasciando incompiuta la sua piramide che fu infatti terminata, in fretta e furia, proprio dal fratello Nyuserra. Una delle caratteristiche dell’edificio in mattoni da noi ritrovato ad Abu Ghurab è che appare spianato a un livello che farebbe pensare che non sia mai stato ultimato, tanto che Nyuserra, come già detto, lo utilizzò direttamente come fondazione del suo tempio successivo.
LE PROSPETTIVE FUTURE. È ancora presto per tirare le somme e dare risposte certe a tutti i quesiti aperti finora. Altre campagne di scavo ci aspettano e una è in corso proprio mentre scriviamo. Per il momento possiamo dire che, alla sua ascesa al trono, Nyuserra completò il complesso fune-
rario (ossia la piramide) del fratello Raneferef, dandogli una degna sepoltura e, soprattutto, dedicandogli il dovuto e fondamentale culto funerario. Allo stesso tempo, fece probabilmente spianare il costruendo tempio solare del fratello, riutilizzando per se stesso l’intera area, dove ancora oggi si staglia il suo monumentale tempio solare, nel quale la sua regalità veniva celebrata insieme al culto quotidiano al dio sole Ra. Ciò che piú stupisce del tempio solare di Nyuserra è infatti proprio il ruolo marginale che sembra avere il dio sole, almeno a livello decorativo. Delle centinaia di metri quadrati di decorazione di cui il tempio era originariamente dotato, ci resta solo un’immagine della divinità solare, proveniente dalla parte terminale (ovest) della «Camera delle Stagioni». La scena, alquanto frammentaria, mostra il dio seduto in trono – per la prima volta nella storia egiziana raffigurato in forma antro-
I sostenitori del progetto Principali partner della missione del progetto sono: Constructing the sacred landscape in Third Millennium BC Egypt, finanziato dal National Science Center of Poland (direttore scientifico: Massimiliano Nuzzolo, Institute of Mediterranean and Oriental Cultures, Polish Academy of Sciences, Varsavia); Ricostruzione virtuale del tempio di Niuserra ad Abu Ghurab, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (direttore scientifico: Rosanna Pirelli, Università di Napoli, L’Orientale). A questi si è aggiunto, nel 2022, un nuovo progetto: «COSSAE. Costruire lo spazio sacro nell’antico Egitto. Costruzione, percezione, uso e riappropriazione dello spazio sacro nel suo contesto archeologico, paesaggistico e socio-culturale. Il caso studio dei templi solari della V dinastia egiziana», finanziato dall’Università di Napoli, L’Orientale (direttore scientifico Rosanna Pirelli). Per maggiori informazioni si veda anche: www.suntemplesproject.org Si ringrazia il Ministero del Turismo e delle Antichità Egiziane per le concessioni di lavoro sul sito, nonché l’Ispettorato di Saqqara per il prezioso e costante supporto alle attività sul campo. Oltre agli studiosi che hanno partecipato alla stesura del testo, si ringraziano anche tutti gli altri specialisti, studiosi e dottorandi che a vario titolo, e nel corso degli anni, hanno partecipato alla missione. In ordine alfabetico: Katarina Arias, Angela Bosco, Emanuele Brienza, Andrea D’Andrea, Ikram Gabriel, Giancarlo Iannone, Jaromir Krejci, Maksim Lebedev, Shebl Mahmoud Donkel, Katarzyna Molga, Agata Momot, Patricia Mora, Malgorata Radomska, Paulina Wolodzko.
Impronta di sigillo con il nome del re Shepseskara. Nella pagina accanto, in alto: frammento di una cretula sulla quale è impresso un sigillo. Nella pagina accanto, in basso: restituzione grafica dell’unica immagine del dio Sole restituita dal tempio di Nyuserra, proveniente dalla «Camera delle Stagioni».
pomorfa – mentre riceve il faraone, inginocchiato, alla testa di una lunga processione di figure divine impersonanti le varie province d’Egitto. Si tratta certamente di una scena molto pregnante dal punto di vista simbolico e ideologico, che marca la posizione gerarchica secondaria del re rispetto al dio. Pur tuttavia, questa era probabilmente una delle pochissime raffigurazioni, se non l‘unica, del dio sole, quasi celata nella parte piú intima del santuario, laddove la stragrande maggioranza della decorazione del tempio ci mostra il sovrano, soprattutto durante il momento cruciale del rinnovamento del suo potere tramite il giubileo regale o festa Sed. Sotto l’imponente simbolo del dio sole, l’obelisco, non si celebrava quindi solo il dio Ra, ma anche la sacralità della funzione regale, che da lui proveniva, e che era incarnata dal sovrano dell’Alto e Basso Egitto, Nyuserra. a r c h e o 53
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PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI
IL SENSO DEL CONTE PER L’ANTICO NELLA PRIMA SETTIMANA DI DICEMBRE, ROMA OSPITA UN CONVEGNO INTERNAZIONALE DEDICATO AI CONTI POLACCHI KAROL E KAROLINA LANCKORONSKI, PADRE E FIGLIA. L’INCONTRO HA LUOGO NELLE PRESTIGIOSE SEDI DELLA CURIA IULIA, AI MUSEI CAPITOLINI, ALLA FONDAZIONE CAETANI E ALL’ISTITUTO DI STUDI ROMANI. UN’OCCASIONE PER CONOSCERE STUDIOSI DI STORIA DELL’ARTE E D’ARCHEOLOGIA ITALIANA E INTERNAZIONALE DI GRANDISSIMA IMPORTANZA di Jerzy Miziołek
P
ersonaggio oggi poco noto in Italia, nell’Ottocento il conte polacco Karol Lanckoronski era invece famoso in tutta Europa per la sua passione per l’antico e l’archeologia. Amava in particolar modo l’Italia e la sua capitale, fece scavi archeologici ad Aquileia e in altri siti del Mediterraneo; creò una collezione d’arte classica e italiana con numerosi dipinti ispirati dall’antico, oggi conservati ai castelli reali di Cracovia e Varsavia. «Chi sono io per il mondo? Non sono stato né un ministro, né un artista, né un professore. O forse sono stato un po’ di tutto questo. Ma chi sono stato veramente? Un dilettante, un collezionista, niente di piú... forse solamente un uomo ricco 56 a r c h e o
Incisione raffigurante un rilievo rinvenuto a Sagalassos (Turchia), dal volume Le città di Panfilia e Pisidia, 1890.
Nella pagina accanto: il conte Karol Lanckoronski in età matura in un dipinto di Kazimierz Pochwalski. 1906, Cracovia, Castello del Wawel.
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PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI
con un’alta posizione sociale, che amava i poeti antichi e ha vissuto circondato da opere d’arte»: cosí si definiva il Conte in un’intervista rilasciata a Vienna cinque anni prima della sua morte avvenuta nel
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1933, quando il mondo dei suoi Giove pittore di farfalle (particolare), tempi, quello dell’imperatore Fran- olio su tela di Dosso Dossi. 1525 circa. cesco Giuseppe, era ormai scom- Cracovia, Castello reale del Wawel. parso da quasi vent’anni. Egli parla del suo amore per il collezionismo e per i poeti antichi, ma non parla
Il conte Karol Lanckoronski con la figlia Karolina, in una foto scattata nel 1918. In basso: cartolina postale che mostra l’interno del Palazzo Lanckoronski a Vienna.
Karol Lanckoronski si addottorò in giurisprudenza all’Università di Vienna. Studiando legge, si appassionò all’archeologia classica, alla storia dell’arte e alla letteratura, fino a eccellervi come erudito, collezionista, archeologo, ricercatore e coltissimo viaggiatore.
della Polonia nella seconda metà del Settecento i Lanckoronski si stabilirono a Vienna, ma non dimenticarono di essere polacchi né di servire il proprio Paese. Al riguardo spiccano i meriti di Karol Lanckoronski e dei suoi figli, soprattutto quelli di Karolina, docente universitaria, studiosa di Michelangelo, ultima della famiglia morta e sepolta a Roma. Nel 1873, poco piú che ventenne,
mo, in un quadro di Rudolf von Alt, barbuto, conversare con il giovane allievo nella residenza viennese dei Lanckoronski in Schenkenstrasse 10 (vedi la foto a p. 60, in basso). Grande fu anche l’amicizia con von Warsberg, autore di due libri all’epoca molto famosi: Homerische Landschaften (1884) e Odysseische Landschaften (1887). Lanckoronski gli dedicò la monumentale pubbli-
I SUOI MAESTRI Nei suoi primi studi venne validamente assistito da Alexander von Warsberg e Wilhelm von Hartel (1839-1905). Von Hartel, esimio filologo classico viennese, prima maestro, quindi cordiale amico di Lanckoronski e membro della spedizione archeologica nel Medio Oriente organizzata dal conte negli anni Ottanta dell’Ottocento, nel 1900-1905 fu ministro della cultura e dell’istruzione pubblica: lo vedia-
di archeologia, che fu invece una grande passione per gran parte della sua esistenza.
NATALI ILLUSTRI Karol Lanckoronski (18481933) era polacco, figlio di Kazimierz Lanckoronski e di Leonia Potocka, ma nacque e si formò a Vienna, in parte anche a Parigi. Il suo casato poteva vantare origini che risalgono fino al Duecento. Tra i suoi membri vi furono comandanti in capo, senatori (ben 16) e alti magistrati della Repubblica Nobiliare Polacco-Lituana, provetti patrioti, mecenati di scienze e cultura, benefattori dell’Università Jagellonica, donatori di eccellenti opere d’arte destinate ad abbellire la vecchia capitale Cracovia, cofondatori della Commissione per l’educazione nazionale. Al pari di tanti aristocratici originari della Galizia, dopo le spartizioni
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PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI
cazione in due volumi Le città di Panfilia e Pisidia: «Alla memoria di Alessandro barone von Warsberg, compianto amico, cultore appassionato dell’antichità». Il rapporto di Lanckoronski con il mondo dell’arte e l’archeologia si deve anche all’influenza di numerosi amici artisti e studiosi.Tre di questi artisti, Hans Makart, Ludwik Hans Fischer e Jacek Malczewski non solo lavorarono per lui e ne dipinsero alcuni ritratti, ma lo accompagnarono in lunghi viaggi per i Paesi del Mediterraneo e in India. Con archeologi, antropologi, architetti e storici dell’arte, tra cui Max Dvoràk, Marian Sokołowski, Otto Benndorf, Eugen Petersen, Karl Maria Swoboda, Felix Luschan e Georg Niemann, condusse indagini archeologiche a Rodi, nelle città di Panfilia e Pisidia (nell’odierna Turchia) e infine ad Aquileia. Un altro dipinto di Rudolf von Alt mostra la ricca biblioteca del palazzo di Riemergasse 8, mentre in una tela firmata da Jacek Malczewski vediamo il conte tra pile di libri nel suo studio a Rozdół (nelle vicinanze di Leopoli; vedi la foto a p. 65) e ci appare cosí come l’avrebbe descritto un suo conoscente: «Alto, prestante, la barba bionda e rigogliosa, sembrava un dotto professore». Altri
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suoi amici, come Dvoràk, famoso Sulle due pagine: il Foro Romano nella professore viennese, lo considerava- seconda metà del XIX sec. no un grande conoscitore dell’Italia. In basso, a sinistra: Wilhelm von
VIAGGIO A ROMA Nel 1875 Lanckoronski, che veniva in Italia già dagli anni Sessanta, giunse a Roma all’inizio di febbraio e vi si fermò sino alla fine di marzo. Scrisse un interessantissimo diario del soggiorno, rimasto inedito sino a tempi recenti. La quantità di visite che fece, in gran parte archeologiche, fu tale che a chiunque altro non sarebbero bastati due anni di permanenza per effettuarne altrettante. Imbevuto di cultura classica, e ancora non troppo affetto dalla «Quattrocentosi» (questo era il nome dato spiritosamente in famiglia alla sua passione per l’arte italiana del Quattrocento), Lanckoronski a Roma si recò subito al Foro. Poi non passò neanche un giorno senza una visita ai monumenti della città antica. «La domenica (scriveva il 7 febbraio) il Foro e gli scavi sono aperti. Ho camminato a lungo sotto l’arco di Settimio Severo e per i luoghi in cui un tempo si ergeva la basilica Giulia. Dopo la mia ultima visita vi hanno rinvenuto due pannelli con rilievi da ambo le parti. Entrambi i pannelli sono di marmo, un marmo
Hartel (a sinistra) e il conte nel salone di Palazzo Lanckoronski a Vienna in un dipinto di Rudolf von Alt. 1869.
chiarissimo, entrambi sono illustrati: tre animali sacrificali – maiale, agnello e toro – da un lato, scene di comizi, purtroppo incomplete, dall’altro. Tutto di ottima fattura, specie gli animali».Visitando il Co-
losseo notava che «i nuovi scavi hanno portato alla luce, alla profondità di un piano, le fondamenta di pietra e mattone». Il giovane conte si aggirava per Roma ricercando i panorami archeolo-
gici e i dipinti dei tempi di Augusto e Nerone. «Ho visitato ancora una volta il Palatino per il grande piacere che esso offre: là dove probabilmente v’era un tempo la Domus Aurea, si ha oggi un panorama che
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI
non ha uguali al mondo: il Colosseo, sopra il Colosseo i colli, sotto il Foro. Ho ammirato di nuovo le pitture murali della cosiddetta Casa di Livia... Stupendi i minuscoli paesaggi dell’ultima stanza, tutti in giallo: sono in alto, sopra il rosso della parete. Un gruppo di disegni a sinistra dell’ingresso li ricostruisce
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fedelmente, consentendo di coglierne anche i dettagli: il mare, l’ambiente fluviale, i particolari». Il 13 febbraio dopo una lunga visita al Museo delle Sculture del Vaticano, osservava: «La testa del giovane Ottaviano Augusto è inimitabile: per buona che sia, nessuna copia riesce a renderne il naso arcuato».
Il 10 marzo si reca di nuovo al Palatino: «Trascorro il pomeriggio nei palazzi imperiali, piú precisamente nella parte posteriore che dà sull’Aventino. Il governo pontificio decise di farvi iniziare gli scavi, dal 1870 alquanto rallentati. I resti del Palazzo di Domiziano sono imponenti. Qua e là anche il circo si è difeso
bene: in una gran nicchia si sono Nella pagina parzialmente conservate perfino le accanto: una pitture». Il giorno seguente «di volta della Domus buon mattino» raggiunge le cata- Aurea con il foro combe di S. Callisto, dove è colpito praticato in da un dipinto raffigurante la Ma- antico per calarsi donna con il Bambino «quasi un all’interno. richiamo delle cose viste a Pompei». A destra: copia
UN FASCINO IRRESISTIBILE Lanckoronski a Roma si appassiona sempre piú ai ruderi e trova affascinante la zona presso Porta Metronia, che non conosceva prima: «Tornando verso le terme di Caracalla, ho visitato il colombario presso l’arco di Druso, il sepolcro degli Scipioni e una manciata di piccole chiese: dei Santi Nereo e Achilleo, di San Cesareo, di San Giovanni a Porta Latina e di San Giovanni in Oleo: contigua a questo tempietto è una vigna con il piú bel colombario che io abbia mai visto, il colombario dei liberti di Ottavia: urne a forma di conchiglia, pitture ben conservate, mosaici, stuccature. Quindi mi sono spinto fino alla chiesa di Santo Stefano Rotondo; poi ho proseguito per Santa Maria in Domnica in Piazza della Navicella. Tutta questa parte di Roma, che finora ignoravo, ha un gran fascino». Visitando di nuovo il Foro Romano il conte ammira la facciata della chiesa di S. Francesca Romana con il suo campanile medievale e cosí conclude la sua descrizione: «Le colonne dell’antico tempio pagano sono il maggior vanto di Santa Francesca e anche una preziosa testimonianza di come sulle ceneri del paganesimo fu impiantata la Chiesa di Cristo. Qui con appendici e ornamenti si trasformò un fabbricato semplice e rudimentale in una sala sfarzosa consona piuttosto a un lusso tutto mondano che a venerare in umiltà il Signore». La volontà di rappresentare il vero fascino di Roma antica del nostro dottore in legge – che di lí a poco organizzò indagini archeologiche a
della testa del Laocoonte attribuita a Gian Lorenzo Bernini, già nella collezione Lanckoronski. In basso: Jacek Malczewski, disegno della documentazione archeologica a Sagalassos. 1884.
Rodi e in Turchia – si evince dalle sue parole su uno dei monumenti piú affascinanti dell’Urbe, la Domus Aurea: «Ho fatto ancora in tempo a visitare le terme di Tito, uno dei monumenti piú singolari dell’epoca imperiale. Del palazzo di Nerone sono rimaste delle enormi volte con tracce di pitture e stuccature, cui
Raffaello attinse diversi motivi per decorare le Logge». Sembra che Lanckoronski non sapesse che, nel Settecento, il pittore Francesco Smuglewicz, suo connazionale, aveva realizzato una pregevole documentazione di queste «tracce di pitture», collaborando con Ludovico Mirri e Vincenzo Brenna.
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PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI
sorilievi e opere di architettura, quali templi, teatri, sepolcri, in maggioranza risalenti all’impero romano, «eclissò – per citare il celebre archeologo Otto Benndorf – tutto quello che si era fatto in precedenza e indusse il collegio filosofico dell’Università di Berlino a conferire a Lanckoronski il titolo di dottore honoris causa (1890), una decisione rara, per la quale era richiesta l’unanimità». Va notato che, prima di giungere nelle città di Panfilia e Pisidia, il conte promosse anche gli scavi a Rodi. Numerosi oggetti sia provenienti da Rodi che da città come Sagalassos e Perge (tra cui un sarcofago) e numerose statue adornavano fino alla seconda guerra mondiale il Palazzo Lanckoronski a Vienna (sfortunatamente non piú esistente) e la residenza a Rozdół. Nella primavera del 1884, poco prima della seconda spedizione in Turchia, Lanckoronski fece un viaggio nel Midi della Francia, raccontato in un libretto pubbliUN’OPERA MEMORABILE cato l’anno stesso in polacco. PasAlla spedizione turca finanziata dal sò per Vienne, Orange, Avignone, conte, che durò due anni, parteciparono, oltre ad archeologi austriaVirgilio, dipinto ci e tedeschi, anche i polacchi Maattribuito alla rian Sokołowski, primo cattedrati- cerchia di Giulio co polacco di storia dell’arte, e il Romano. Primo pittore Jacek Malczewski. Per quarto del quest’ultimo fu un’esperienza di XVI sec. Cracovia, grande impatto, che lasciò traccia Castello del nella sua arte e nella sua visione del Wawel. mondo. Piú che da archeologo diNella pagina segnatore, vi partecipò da cronista, accanto, in alto: raccontandola in ottimi disegni di dipinto di Jacek grande bellezza e valore. PubblicaMalczewski che ti in tedesco, francese e polacco, i mostra Karol due volumi de Le città di Panfilia e Lanckoronski nel Pisidia vengono ancora oggi ricorsuo studio a dati dagli studiosi e il loro stupenRozdół. 1892. do apparato illustrativo inciso, baCracovia, sato sulle fotografie e i calchi di Castello di gesso è tuttora oggetto di riproduWawel. zioni, anche in Italia. La pubblicazione del primo volume, esemplare nell’esposizione di un gran numero di iscrizioni, bas-
Come già accennato, il conte era un grande appassionato di viaggi. Aveva visitato quasi tutta l’Europa ancor prima di laurearsi e negli anni Settanta e Ottanta cominciò a esplorare il Medio Oriente. Nel 1874 si recò in Siria e negli anni successivi in Egitto e nel Nord Africa, facendone descrizioni di grande interesse. Risale al 1882 il suo primo viaggio in Turchia, seguito, nel 1884-1885, da una grandiosa spedizione scientifica in Asia Minore rimasta celebre negli annali di archeologia. «In gita tra le rovine – ricorda uno dei suoi compagni di quella trasferta – notò con stupore nel raggio di poche miglia una grande abbondanza di reperti, pressoché non smossi dal tempo e in attesa di essere raccolti. Ma ancor piú fu incantato dallo splendore di quella zona, piú bella di qualsiasi altra vista in tanti viaggi, salvo forse la campagna romana». Anche negli scritti di Lanckoronski i riferimenti all’Italia ricorrono numerosissimi.
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Nîmes, Arles, parimenti curioso di antichità e di architetture medioevali, specie se ispirate al classico, come la celebre chiesa romanica di Saint-Trophime di Arles. In quello stesso periodo continuò a dedicarsi con immutato diletto ai maestri italiani, riflettendo spesso in dotti discorsi sulle peculiarità del loro carattere umano e della loro arte, tra Dante e Petrarca, tra Giotto e Simone Martini.
GLI SCAVI AD AQUILEIA Nel 1893 Lanckoronski vestí nuovamente i panni dell’archeologo, avviando i lavori di scavo e conservazione a ridosso della celebre cattedrale di Aquileia. Leggiamo in proposito un appunto dell’archeologo Giuseppe Bovini: «Verso la fine del secolo scorso, e piú precisamente nel 1893, il mecenate polacco conte Karol von Lanckoronski fece iniziare ad Aquilea degli scavi a breve distanza dal campanile della grande basilica popponiana, durante i quali furono riportati alla luce alcuni tratti di due grandi aule di culto cristiano, rispettivamente de-
nominate, data la loro posizione parallela, aula nord e aula sud». Seguí nel 1906 un libro con la dotta prefazione del conte, la cui splendida edizione italiana è stata pubblicata a Gorizia nel 2007. La fama di Lanckoronski quale studioso dell’arte antica e italiana era ormai assodata e riconosciuta. Nel 1906 Aquileia lo iscriveva tra i suoi cittadini onorari. Il 31 marzo 1907 il professor Max Dvoràk si rivolgeva al conte in questo modo: «La Commissione di Aquileia si riunirà sabato 13 aprile prima di mezzogiorno. (...) Per me sarebbe assai importante, e ne sarei felicissimo, se l’Eccellenza Vostra, scopritore della bellezza di Aquileia e pregevolissimo patrono di questo monumento, volesse partecipare al sopralluogo». I magnifici mosaci paleocristiani di Aquileia sotto la basilica poppo-
niana furono scoperti dopo la pubblicazione del libro edito a cura del conte polacco, ma il suo grandioso lavoro negli anni 18931906 aprí la strada al loro ritrovamento, contributo ben evidenziato nell’edizione italiana. Un anno dopo l’iscrizione nella lista dei cittadini onorari di Aquileia, a Lanckoronski fu conferito da parte dell’Università Jagellonica di Cracovia il titolo di dottore honoris causa. Il nostro, che era membro dell’Akademie der Wissenschaften, dell’Akademie der Bildende Künste, dell’Österreichisches Archäologische Institut (tutti e tre a Vienna) e del Kunsthistorisches Institut di Firenze, divenne quindi, dopo queste due nomine – di Berlino e Cracovia – professore di archeologia, anche se senza cattedra.
La copertina dell’edizione dell’opera di Karol Lanckoronski La basilica di Aquileia, ripubblicata nel 2007 a Gorizia per i tipi della LEG. a r c h e o 65
PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI Il teatro romano di Termessos, una delle piú importanti città della Pisidia, regione storica dell’Asia Minore, oggi compresa nei confini della Turchia.
UN «DILETTANTE» RIGOROSO E PIENO DI PASSIONE
Sul finire dell’Ottocento, il conte Karol Lanckoronski organizza, finanzia e guida una missione in Asia Minore: un’impresa ancora oggi memorabile, documentata in maniera esemplare di Jerzy Zelazowski 66 a r c h e o
L’
iniziativa della spedizione scientifica degli anni 18841885 nelle regioni di Panfilia e Pisidia, nella Turchia sudoccidentale, intrapresa e finanziata dal conte Karol Lanckoronski
(1848-1933) s’iscriveva bene nel generale interesse per l’Asia Minore della secondà metà dell’Ottocento, anche a Vienna, grazie soprattutto all’attività archeologica di Otto Benndorf (1838-1907).
E oggi, a quasi centocinquant’anni di distanza, desta ancora ammirazione il risultato della spedizione, pubblicato nei due volumi intitolati Le città di Panfilia e Pisidia, che videro la luce negli anni 1890a r c h e o 67
PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI Tavole tratte dall’opera Le città di Panfilia e Pisidia (1890-1896). Sulle due pagine, sezione, prospetto e pianta del teatro di Termessos; in basso, ricostruzione grafica del tempio corinzio di Termessos.
1896, in ben tre versioni: in tedesco, francese e polacco. La scelta del campo di ricerca non era casuale e fu preceduta dai viaggi di Lanckoronski in Turchia nel 18821883, ispirati dalla sua ammirazione per i monumenti della regione di Panfilia e Pisidia, soprattutto
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della zona costiera, piú volte paragonata alla Campania. Per esempio, nell’introduzione del primo volume dedicato alla Panfilia possiamo leggere: «Se lasciamo Adalia (Antalya) nella direzione nordorientale, oltrepassando sobborghi e giardini accanto a mulini ad acqua e
a baracche mercantili, ci troviamo piú o meno dopo un’ora di strada su una pianura aperta. Quello che ci colpisce dapprima è la straordinaria rassomiglianza con la Campania romana: lo stesso spazio vasto, il cielo simile, anche se piú bello, le sagome simili delle nobili montagne in lontananza azzurre come quelle sabine, soltanto che qui tutto ha dimensioni piú grandi». «Troviamo anche il Soratte di fronte, che salta all’occhio come un gruppo separato a nord-ovest. Bella è la pianura in un giorno sereno, bella anche quando la tempesta si abbatte su di essa, muovendosi da nord oppure da ovest e infuriando con violenza tropicale. Ancor piú bella mi sembrava una notte di ottobre, quando l’ho attraversata a cavallo per alcune ore con la luna piena e il delicato colore verdastro del cielo, mescolandosi con i riflessi viola delle montagne e creando sfumature di colore mai viste prima» (p. XI). D’altronde, Lanckoronski viaggia-
va molto, fece anche un viaggio intorno al mondo negli anni 18881889, e disponeva di una notevole sensibilità e curiosità per le diverse culture contemporanee e passate, s’interessava alla gente come ai paesaggi, e di sicuro il gusto dell’avventura non gli era estraneo.Tuttavia, la sua profonda ammirazione per la cultura antica, almeno in parte, gli era stata trasmessa a Vienna dal filologo classico e suo amico Wilhelm von Hartel (1839-1907).
UN GENEROSO MECENATE Probabilmente l’idea della ricerca topografica in Anatolia si sviluppò in Lanckoronski grazie a Benndorf, e all’architetto George Niemann (1841-1912), e ai loro viaggi in Licia e Caria di quegli anni, oppure all’antropologo, medico e viaggiatore Felix von Luschan. Si deve comunque rilevare la rinuncia agli scavi da parte di Lanckoronski, per esempio nell’isola di Rodi, per condurre indagini piú ampie in zone meno conosciute. È altrettanto opportuno ricordare che già nel 1881 Lanckoronski aveva finanziato in modo consistente l’attività della società viennese per la a r c h e o 69
PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI
tiamo però, perchè a destra e a sinistra, davanti e dietro di noi abbiamo tante nuove sensazioni curiose e inaspettate, che pure a volte ci rammentano qualcosa di conosciuto, testimoniando il legame nel tempo e nello spazio di tutte le cose terrene. Qui una casa spaziosa e comoda, tutta in legno, con un particolare porticato intorno al cortile, con una raffinata grata di legno alle finestre che danno sulla strada, che protegge dal sole e dallo sguardo curioso degli sconosciuti».
ricerca in Asia Minore e aveva partecipato nel 1882 alla spedizione di Benndorf in Licia. Durante i viaggi preparativi per la spedizione vera e propria in Panfilia e Pisidia Lanckoronski s’innamorò della costa e soprattutto della città portuale di Antalya, lasciando testimonianza della sua ammirazione ancora una volta nell’introduzione al primo volume: «Quando sbarchiamo tra la confusione, 70 a r c h e o
consueta in questi paesi, di mozzi e facchini bianchi, bruni, neri che gridano e bestemmiano, e saliamo dal porto sulle vie mal pavimentate e faticose verso la città alta, allora spunteranno ai nostri occhi con tutta la loro ricchezza le immagini piú pittoresche e originali. Le infinite carovane di cammelli, cariche di sacchi e casse, bestie legate l’una all’altra con corde ci chiudono a ogni passo la strada; non ci lamen-
LE GLORIE DEL PASSATO «Sotto la porta oppure sulla via passeggiano a due a due le Greche, vestite vistosamente, ingioiellate, con i capelli e le sopracciglia tinte di rosso, che adesso qui va di moda come una volta a Roma prima del XIII secolo e anche a Venezia in epoca rinascimentale. Un sarcofago greco con bassorilievo cancellato in modo irriconoscibile dall’umidità e dalla barbarie umana serve come pozzo, mentre nella facciata di una scuola turca sono inserite delle colonne romane, provenienti da un tempio oppure da un arco trionfale. Altrove un’epigrafe sul marmo racconta il suo contenuto in scrittura araba, incisa in modo degno di ammirazione; piú avanti un leone di pietra, che richiama l’arte persiana oppure assira, parla del passato splendore dei Selgiuchidi, mentre in un altro luogo un leone sopra la scacchiera di uno stemma testimonia delle guerre dei crociati. Qui incontriamo una chiesa bizantina trasformata adesso in moschea con la cornice delle finestre stranamente delicata, là una porta araba, il cui l’ornamento può avere la meglio con decorazioni simili al Cairo, piú avanti una torre rotonda romana come il mausoleo di Cecilia Metella, e i minareti svettanti come a Konya. Un monumento ancora piú importante è la splendida porta dei tempi di Adriano recentemente scoperta» (p. IX).
Sulle due pagine: altre tavole tratte da Le città di Panfilia e Pisidia e raffiguranti mausolei monumentali di Termessos.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Tuttavia Lanckoronski non era soltanto un ricco viaggiatore romantico, ma aveva la mentalità di uno scienziato e di un organizzatore metodico. Questo si vede già nell’accurata scelta dei membri della spedizione, specialisti ed esperti. Forse citandoli tutti ci dilungheremmo troppo, ma oltre ai già menzionati Niemann e von Luschan, occorre sottolineare la presenza dell’archeologo Eugen Petersen
(1836-1919). Lanckoronski non dimenticò neanche i Polacchi e basti ricordare almeno lo storico dell’arte Marian Sokołowski (1839-1911) dell’Università di Cracovia e il pittore Jacek Malczewski (1854-1929).
plare dei monumenti architettonici, figurativi, oppure delle iscrizioni con disegni, piante, ma anche fotografie. Lanckoronski pensò a tutto e, vista l’assicurazione data alle autorità turche di non portare altrove i monumenti, provvedette anche ai calchi in gesso, miracolosamente A CIASCUNO sopravvissuti e alla fine nel 1960 LA SUA PARTE Tutti i partecipanti avevano ruoli donati all’Università di Vienna, oltre ben precisi, il che permise di com- a quelli portati a Cracovia. pilare una documentazione esem- La spedizione aveva un programma a r c h e o 71
PROTAGONISTI • KAROL LANCKORONSKI A destra: incisione raffigurante il tempio di Antonino Pio a Sagalassos. In basso, sulle due pagine: Sagalassos. Il ninfeo di età antonina.
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decisamente ambizioso, vista la quantità di città antiche sulla costa della Panfilia (per esempio Attaleia, Perge, Aspendos, Side), ma anche
nell’interno montuoso anatolico (Sagalassos, Termessos e altre). Tutto sommato i lavori si svolsero in pochi mesi nell’autunno del 1884
e continuarono nell’estate dell’anno successivo, anche senza la presenza sul campo di Lanckoronski. I membri della spedizione lavorarono molto e velocemente, non senza diverse complicazioni, come malattie, problemi di trasporto e, a volte, l’ostilità della popolazione e dell’amministrazione locale. Stupisce in ogni caso che in poco tempo sia stata realizzata una documentazione cosí vasta, corredata da precise descrizioni, che per lungo tempo e, di fatto, fino a oggi è considerata esemplare nella ricerca topografica. Nell’opera si nota l’attenzione per la localizzazione delle città antiche e le condizioni geografiche, ma, soprattutto, i monumenti sono considerati nel loro contesto. In piú vengono descritti i cambiamenti e le trasformazioni dei singoli edifici nel tempo per evidenziare meglio la storia delle città. Praticamente ogni capitolo dei volumi contiene una piccola monografia dei siti con la discussione delle diverse fonti, anche scritte.
RICONOSCIMENTI PRESTIGIOSI Ancor prima della pubblicazione i risultati furono presentati da Petersen, von Luschan e Niemann durante lezioni pubbliche e alla fine nel 1890, all’uscita del primo volume dedicato alla Panfilia, Lanckoronski ottenne a Berlino il titolo di dottore honoris causa, e cosí pure in seguito nel 1907 a Cracovia. Durante i suoi viaggi Lanckoronski raccolse numerosi monumenti antichi per la sua collezione privata attraverso acquisti, per esempio ad Atene, ed è significativo il fatto che, quando a Vienna, nel 1885, fu organizzata una mostra, vennero presentati anche oggetti orientali e musulmani, dimostrando ancora una volta l’apertura del conte polacco a mondi diversi passati e presenti e la sua enorme erudizione e passione che sapeva trasmettere alla famiglia, agli amici e ai collaboratori. a r c h e o 73
MOSTRE • CHAMPOLLION E LA STELE DI ROSETTA
L’UOMO DEI SEGNI NEL IV SECOLO, IL CRISTIANESIMO IN EGITTO CONDANNA A MORTE LA MADRE DELLE CIVILTÀ. I SUOI QUATTROMILA ANNI DI STORIA SONO SPAZZATI VIA DAL FLAGELLO DELL’INTOLLERANZA. E ANCHE LA LINGUA SI PERDE E SI SPEGNE CON GLI ULTIMI SACERDOTI DELL’ANTICHITÀ FARAONICA. PIÚ NESSUNO AL MONDO È IN GRADO DI DECIFRARLA. UNA VOLTA SCOMPARSA, L’IDEA CHE LA SCRITTURA GEROGLIFICA FOSSE STATA SOLO SIMBOLICA E NON ESPRIMESSE SUONI NE HA A LUNGO OSTACOLATO LA DECIFRAZIONE. FINO A QUANDO, NEL 1822, UN GIOVANE FRANCESE... di Daniela Fuganti
I
n occasione del bicentenario della decifrazione dei geroglifici, il Museo del Louvre, della cui sezione egizia (creata nel 1827) Jean-François Champollion fu il primo direttore, rende omaggio al geniale personaggio. Un evento celebrato a Lens, a nord di Parigi, dove nel 2012 ha aperto i battenti una succursale dell’istituto parigino, nel cuore della vecchia zona mineraria, oggi patrimonio UNESCO. Il cele-
Elemento facente parte di un capitello hathorico in pietra calcarea, da Dendera, forse dal tempio di Hathor. Epoca tolemaica (332-30 a.C.). Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: statua che ritrae Jean-François Champollion, opera di Auguste Bartholdi. 1867. Grenoble, Musée de Grenoble.
bre Scriba seduto, emblema del Dipartimento delle antichità egizie del Louvre, scoperto da Auguste Mariette nel 1850 a Saqqara, invita il visitatore a penetrare il misterioso sistema di scrittura che agli occhi degli Egizi rappresentava la parola stessa degli dèi. Insieme alle 350 opere selezionate per l’occasione – sculture, pitture, oggetti d’arte, documenti – l’esposizione del Louvre-Lens racconta la
storia di Champollion. Ne restituisce il contesto intellettuale, scientifico, culturale, archeologico e politico, sullo sfondo della campagna d’Egitto e delle rivalità franco-britanniche. Mostra le difficoltà, le invidie e i pregiudizi che l’erudito ha dovuto superare per arrivare alla scoperta che ha liberato l’Egitto faraonico dalle zone d’ombra e dai miti che lo circondavano. In effetti, alla fine del Settecento, si
conosceva l’Egitto principalmente attraverso gli autori classici – Erodoto, Diodoro Siculo e Strabone – che lo descrivevano con ammirazione. I cristiani, invece, vedevano l’Egitto attraverso la Bibbia, che racconta di come gli Ebrei vi fossero stati condotti per costruire le piramidi, e di come ne fossero fuggiti, con la protezione di Dio, per attraversare il Mar Rosso, che poi si richiuse sulle truppe del faraone… Nel Rinascia r c h e o 75
MOSTRE • CHAMPOLLION E LA STELE DI ROSETTA
mento infine, che fa tornare di moda l’antichità, si va a Roma per vedere l’Egitto attraverso i monumenti che da lí gli imperatori e poi i papi avevano fatto trasportare. L’Egitto rimane il garante muto, rassicurante del passato dell’umanità, fino a quando la lettura dei geroglifici non inizia a fissare date precise per la civiltà nata sulle rive del Nilo. Cosí questa antichità profonda, che si scopre a poco a poco, entra sempre piú palesemente in concorrenza con la versione biblica della storia, e la decifrazione dei geroglifici diventa argomento di contesa nei dibattiti politici fra monarchici e repubblicani all’epoca della Restaurazione. In mostra si possono seguire le pe-
regrinazioni di «Champollion il Giovane», cosí chiamato per distinguerlo dal fratello e mentore Jacques-Joseph, attraverso i papiri, le stele incise e gli ostraca disegnati con tratti delicati: un’immersione totale nell’enigmatico idioma geroglifico, ma anche nelle scritture corsive – lo ieratico e il demotico – e in testi d’ogni genere. Champollion aveva passato la vita a raccogliere iscrizioni che gli permettessero di verificare le sue ipotesi. Scriveva al fratello: «La scultura e la pittura non furono mai in Egitto che dei veri e propri rami della scrittura. Una statua non fu in realtà che un semplice segno, un vero carattere di scrittura…». Ma chi è in realtà Jean-François Champollion? Figlio della Rivolu-
Bracciale in oro e inserti in alabastro con figure di grifoni. Nuovo Regno (?). Già Collezione Drovetti. Parigi, Museo del Louvre.
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zione, nato a Figeac, in Occitania, il 23 dicembre 1790 in una famiglia di quattro figli, studente dotato, ma tuttavia piuttosto difficile e intollerante. Fra il 1804 e il 1807, è al liceo di Grenoble in collegio, e vive quei tre anni come un inferno. Solo la passione per le lingue orientali gli permette di resistere. La notte, al lume di candela, legge avidamente i testi in caldaico, siriaco ed ebraico procurati dal fratello, al quale scrive: «Dovresti togliermi da questo liceo… Se resto qui ancora a lungo, non ti prometto di continuare a vivere!».
FRATELLI INSEPARABILI Il percorso di Jean-François è inseparabile da quello del fratello Jacques-Joseph, di dodici anni piú vecchio. Antiquario, professore di paleografia, bibliotecario, è il padrino, il protettore, il «manager» di JeanFrançois. Attraverso le sue relazioni nel mondo scientifico, la sua influenza intellettuale, il suo sostegno incrollabile, gioca un ruolo decisivo nel destino del suo cadetto. La presenza a Grenoble di Joseph Fourier è un elemento decisivo nella vita dei due Champollion. L’influente matematico e prefetto
Sedia in legno con inserti in oro e avorio, forse da Deir el-Medina. Nuovo Regno (1550-1069 a.C.). Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, a destra: stele in pietra calcare dipinta e dorata di Isetemdinakht, forse da Abido, Fine della XXV dinastia (prima metà del VII sec. a.C.). Aix-en-Provence, Musée Granet.
dell’Isère, ingaggiato nella spedizione napoleonica e incaricato di redigere la prefazione della spettacolare Description de l’Égypte (che si può ammirare in mostra), introduce i due fratelli nel mondo che conta. In una delle serate mondane dei circoli intellettuali di Grenoble, il giovane Jean-François conosce Dom Raphaël de Monachis: questo monaco melchita, che ha partecipato alla campagna d’Egitto, gli spiega la necessità di padroneggiare il copto per poter studiare la lingua e le scritture degli antichi Egizi. Nel 1807 Champollion frequenta i corsi di caldaico, siriano ed ebraico al Collège de France di Parigi, e la Scuola speciale di lingue orientali
fondata da Louis Langlès. Tuttavia Jean-François non apprezza affatto la vita di studente nella capitale francese e cosí torna a Grenoble, vicino al fratello, dove viene nominato (a 19 anni!) professore di storia antica alla facoltà di Lettere.
LA SVOLTA DECISIVA La corsa alla decifrazione, dopo la diffusione delle copie della stele di Rosetta trovata nel 1799 sul delta del Nilo (vedi box a p. 82), non si era mai interrotta. Ma la competizione fra i ricercatori raggiunge il suo punto massimo nel 1822, quando vengono diffuse alcune copie delle iscrizioni del famoso obelisco di File, di proprietà del collezionista inglese William John
Bankes, scritte in caratteri greci e geroglifici. Esse permettono di identificare il cartiglio di Cleopatra e di aggiungere elementi alla stele di Rosetta. A questo punto, quando ha sotto gli occhi anche la copia del cartiglio di Ramesse portata dall’Egitto dall’architetto Nicolas Huyot, Champollion riesce a comporre un alfabeto completo. La lettera che invia urgentemente, per paura di essere anticipato da altre pubblicazioni, a Bon-Joseph Dacier (Lettre a M Dacier), segretario perpetuo dell’Accademia di Iscrizioni e Belle Lettere, nella quale – il 27 settembre 1822 – espone i principi del funzionamento della scrittura geroglifica, è diventata il testo fondatore della decifrazione dei geroglifici. Esso viene criticato da vari orientalisti, ma gli attacchi piú decisi vengono dall’inglese Thomas Young, il quale, già nel 1819, aveva avanzato per primo l’ipotesi di un approccio fonetico ai geroglifici, limitato ai nomi stranieri, e proposto una lettura dei cartigli di Tolomeo e Berenice. Lo scienziato inglese rivendica, se non la paternità della decifrazione dei geroglifici, almeno il merito di aver messo Champollion sulla buona strada. Nel mondo scientifico ci si schiera ormai pro o contro Champollion. Se la Francia gli è ostile e il mondo accademico si rifiuta di accoglierlo, in Italia diventa il simbolo dei Lumi, da contrapporre all’oscurantismo esagonale. Le accademie della Penisola, quella di Torino in particolare, lo invitano a tutte le loro sedute in occasione dei suoi viaggi in Italia. Durante i lunghi mesi passati a Torino per studiare la celebre collezione Drovetti del Museo Egizio, si rende tuttavia inviso al conservatore, Guido Cordero di San Quintino, irritato dalla sua ingerenza e dalla sua popolarità nel mondo scientifico locale… In effetti Champollion aveva scovato nel sottotetto del museo un docu(segue a p. 82) a r c h e o 77
MOSTRE • CHAMPOLLION E LA STELE DI ROSETTA
IL VALORE ANTROPOLOGICO DELLA DECIFRAZIONE Incontro con Hélène Bouillon Dottore di ricerca in egittologia, direttrice delle esposizioni e delle pubblicazioni del Louvre-Lens, Hélène Bouillon, insieme a Vincent Rondot, ha curato la realizzazione della mostra «Champollion. La via dei geroglifici». A lei abbiamo chiesto di parlarci del progetto espositivo, ma anche della personalità del suo protagonista.
◆ Dottoressa Bouillon, chi era
Jean-François Champollion? «Figlio della Rivoluzione e acceso bonapartista, Champollion era un autentico genio che, grazie alla precoce passione per le lingue antiche orientali e alla sua incredibile “intelligenza logica”, riesce a penetrare la vera natura dell’idioma egizio, opponendosi alle teorie e ai metodi legati al pensiero dominante nella sua epoca. All’inizio del XIX secolo, l’Egitto è concepito come una civiltà densa di misteri, che si ritrova nel Flauto magico di Mozart, o nei simboli della massoneria da una parte e nella Bibbia dall’altra. Jean-François fa vacillare ogni certezza.
Lui e suo fratello si scontrano principalmente con gli intellettuali convinti che i geroglifici non siano una forma di scrittura, ma simboli. Quanto alla Chiesa cattolica, essa teme che, decifrando l’antica lingua del Nilo, si possa confutare la cronologia biblica».
◆ Che tipo di personalità aveva
Champollion? Sembra che avesse un carattere difficile… «Sí, non era un tipo conciliante. Senza la protezione del fratello maggiore, Jacques-Joseph, abilissimo nel tenere i rapporti con le istituzioni e con il mondo accademico, il suo solo talento non gli sarebbe bastato a raggiungere il successo. Il sostegno del prefetto di Ritratto di JeanFrançois Champollion, detto Champollion il Giovane, olio su tela di Léon Cogniet. 1834. Parigi, Museo del Louvre. A destra: coperchio in diorite del sarcofago di Djedhor, da Saqqara. IV sec. a.C. (XXX dinastia o inizi dell’epoca tolemaica). Parigi, Museo del Louvre.
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Grenoble, Joseph Fourier, già direttore dell’Istituto d’Egitto al Cairo, è fondamentale per i due fratelli: facilita l’ingresso di Champollion “il Vecchio” fra i dotti della Commissione d’Egitto, e gli permette di accedere a Grenoble alle funzioni piú prestigiose, come bibliotecario,
professore di greco e responsabile del giornale locale… Il fratello piú giovane sa approfittare di questa rapida carriera: la prima relazione (communication) di Jean-François viene letta davanti alla Società letteraria di Grenoble ancor prima della sua ammissione; a 17 anni il ragazzo è dispensato dal frequentare l’ultimo anno al liceo Imperiale, e viene iscritto come “jeune de langues” nelle grandi scuole di Parigi; infine, a soli 19 anni, occupa la cattedra di lettere di Grenoble!».
◆ Champollion era, come si
dice, un «mangiapreti». Qual era la sua reale posizione nei confronti della Chiesa? «“Ho dei risultati – scrive al fratello durante il suo viaggio in Egitto – estremamente imbarazzanti, che bisognerà trattare con i guanti di un certo colore”. In effetti a File, all’interno della cappella di Osiride nel tempio di Iside, si era trovato davanti a una stupefacente scena di resurrezione che non era stata, come molti bassorilievi dei templi, cancellata dai cristiani. Un’evocazione della resurrezione di Cristo! Uno dei tanti elementi che Jean-François accumula nel corso del viaggio e che lo portano ad acquisire una chiarezza d’analisi, che però esita a condividere con gli altri membri della Commissione. Fino alla fine della sua vita, si asterrà dal divulgare ogni scoperta che possa rimettere in discussione la cronologia sacra».
Mantello in lana e seta appartenuto a Jean-François Champollion. Prima metà del XIX sec. Già collezione Chateauminois. Vif, Musée Champollion.
◆ Proprio per questo il papa lo
amava molto… «Leone XII era sollevato per la piega positiva presa dall’affaire Dendera, che si era risolto in maniera inaspettata dopo che Champollion aveva dimostrato come il famoso zodiaco, strappato al pronao della cappella di Osiride nel tempio di Hathor a Dendera, che si credeva essere di epoca antidiluviana (ossia piú antico del Diluvio), fosse in effetti databile al I secolo a.C. La benevolenza del pontefice era fondamentale per JeanFrançois, perché gli permetteva di compiere le sue ricerche a Roma, sulle numerose iscrizioni che si trovavano nella Capitale. A Roma, l’ammirazione per l’Egitto, trasmessa dai Greci, appariva in maniera eclatante. Dopo gli imperatori, i papi e i cardinali vi avevano collezionato opere di valore e portata eccezionali. “Chi cerca l’Egitto, lo trova a Roma”, si diceva!».
◆ In realtà, dopo il
viaggio in Egitto Champollion era giunto a conclusioni ancora piú estreme – che certo non aveva condiviso con il papa – ossia che nonostante la profusione di divinità quella egizia fosse una religione fondamentalmente monoteista. «Sí, ha fatto parte degli studiosi che consideravano la religione egizia come un monoteismo mascherato. I lavori di Erik Hornung (autore di un libro
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◆ La corsa alla decifrazione dei
intitolato L’uno e il multiplo), e di Jan Assmann hanno dimostrato la complessità del pensiero egizio, che non può essere interpretato semplicemente in termini di monoteismo o politeismo».
◆ Come si svolse la famosa
spedizione franco-toscana in Egitto, e quale influenza ebbe sullo sviluppo degli studi di Champollion? «Lo scopo della spedizione, costituita da due commissioni, una francese e una toscana, che Champollion dirigeva con disciplina militare, e con qualche sbalzo di umore legato al suo carattere, era principalmente quello di registrare il maggior numero possibile di iscrizioni, per verificare le varie teorie. Al rientro, tuttavia, fu Ippolito Rosellini, che guidava il gruppo toscano, a pubblicare per primo
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le iscrizioni rilevate nel viaggio che li aveva portati a risalire il Nilo fino alla Nubia».
◆ Possiamo dire che i geroglifici,
oggi, non hanno piú segreti? «Gli epigrafisti si pongono ancora molte questioni sul significato delle parole e sulle regole grammaticali. Le scoperte sono costanti. Per esempio, gli Egizi ricorrevano a vari termini per qualificare la forza del faraone. Per noi, questo ricco vocabolario è difficile da interpretare con precisione. E quando ci capita di comprenderne il senso esatto, facciamo non solo progressi lessicali, ma anche antropologici perché accediamo a una valutazione piú fine dello spirito degli antichi. Abbiamo ancora testi da scoprire, magari sepolti in collezioni private. E ci sono delle tombe che ancora non sono venute alla luce…».
geroglifici era una sfida che aveva coinvolto tutto il mondo scientifico dell’epoca. Come riuscí Champollion a battere tutti sul tempo? «Occorre premettere che, al di là delle competizioni linguistiche e scientifiche, l’azione fondatrice della decifrazione si sviluppa su un groviglio di sfide personali, nazionali e internazionali, accelerate dalla spedizione napoleonica in Egitto e dalla scoperta della stele di Rosetta. Champollion arriva primo per varie ragioni. Naturalmente non si era basato solo sulla decifrazione della stele di Rosetta. Era persuaso che l’antica lingua egizia fosse l’antenata di quella copta, idioma che lui conosceva perfettamente. Ha saputo stabilire le equivalenze fonetiche esatte, cosa che non era riuscita al suo rivale inglese Thomas Young. Figlio dei lumi, si interessava a tutte le lingue orientali, cinese compreso. E il cinese gli ha fornito l’intuizione che fonogrammi e ideogrammi possono coesistere».
◆ Dopo la scomparsa dell’antica
scrittura egizia nel IV secolo, ci sono stati, nell’attesa di Champollion, altri tentativi di decifrarla? «Erodoto, Strabone, Diodoro Siculo di sicuro sapevano leggere i geroglifici. Ci descrivono l’Egitto, dato che le loro conoscenze sul Paese sono molto vaste, ma ce le tramandano ovviamente in greco! Tutto diventa piú complicato per l’età tarda. L’acquisto di un manoscritto sull’isola di Andros nelle Cicladi, nel 1419, da parte del prete fiorentino Cristoforo Buondelmonti (una copia del testo greco degli Hieroglyphica di Orapollo) avrebbe potuto modificare la visione che si aveva di questa misteriosa scrittura. Ma cosí non fu. Orapollo, vissuto in Egitto alla fine del V secolo, apparteneva a una
Papiro Reverseaux III, dal Fayyum. XIX dinastia, regno di Ramesse II (1279-1213 a.C. circa). Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: Scriba seduto, statua in calcare dipinto con inserti in rame, calcite, cristallo di rocca e legno, da Saqqara. IV dinastia (2620-2500 a.C.). Parigi, Museo del Louvre. In basso: un particolare dell’allestimento della mostra.
famiglia di intellettuali eruditi politeisti di Panapolis (oggi Akhmim), una della ultime città in cui ancora si studiavano i geroglifici. Orapollo ha potuto ispirarsi ad altri Hieroglyphica, come quelli di Cheramone, membro della scuola di grammatica di Alessandria e precettore di Nerone. L’opera di Cheramone oggi andata perduta, è conosciuta solo attraverso brevi citazioni di autori antichi. Orapollo torna in voga nel Rinascimento, ma solo per l’aspetto simbolico che attribuisce ai geroglifici, in sintonia con l’interesse per l’occultismo dell’epoca. Ci si appassiona ai geroglifici e se ne inventano addirittura di nuovi, si cita Orapollo. Poi, nel Settecento, l’abate Barthélemy, al quale dobbiamo la decifrazione dell’alfabeto palmireno, ragiona sull’idea che i geroglifici possano avere valenze fonetiche e si interessa
al vocabolario della lingua copta. Formula l’ipotesi che i segni iscritti nei cartigli siano nomi di sovrani, ma sottolinea anche il problema della mancanza di un testo bilingue…».
◆ Quali sono le sue opere
preferite fra quelle esposte?
«Accanto alle opere oggettivamente piú importanti, mi soffermerei su quelle piú intime e personali, che mi emozionano di piú. Per esempio la molletta per capelli di epoca ramesside: un gioiello bellissimo! La sezione dedicata ai geroglifici ospita invece un’opera acquistata nel 2019 dalla famiglia Reverseaux. Ed è stato emozionante veder srotolare in occasione dell’esposizione i tre papiri inediti, per la prima volta letti e decifrati da Christophe Barbotin: si tratta di antologie di scribi di epoca ramesside. E poi, ci sono le opere acquisite dallo stesso Champollion durante il viaggio in Egitto: per esempio, il sarcofago femminile di Djedhor, un’assoluta meraviglia. “Ho comprato al Cairo – scrive al fratello – il piú bello dei sarcofagi presenti, passati e futuri”! Ma anche il sarcofago dalla testa dorata di Tamoutnefret, scoperto in Nubia, proprio durante il soggiorno in Egitto, e portato alla luce in presenza di Champollion e Rosellini. Il ricordo dell’istante in cui i due amici penetrano nella tomba ci è rappresentato da Nestor L’Hôte, uno dei pittori al seguito della missione, che fu testimone della scoperta».
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MOSTRE • CHAMPOLLION E LA STELE DI ROSETTA
GLORIA A TOLOMEO La stele di Rosetta fu scoperta nel 1799 nella località omonima, non lontano da Alessandria, dall’ufficiale francese Pierre Bouchard, durante i lavori di riparazione di un forte turco. Sul frammento della pietra, datata 196 a.C., è inciso un testo redatto in tre alfabeti (geroglifico, demotico e greco), che elenca gli onori dovuti al re Tolomeo V Epifane. Si ritiene oggi che il blocco in basalto provenisse da Sais, città situata 60 km piú a sud, molto importante in epoca faraonica. Ma nel V secolo, in seguito all’ordine di chiusura dei santuari egizi emanato dalle autorità cristiane, i templi dell’antico sito furono smantellati e reimpiegati. In età islamica i blocchi dei monumenti di Sais venivano caricati su chiatte e trasportati fino al delta del Nilo dove erano utilizzati per erigere forti lungo la costa. Le forze napoleoniche furono sconfitte degli Inglesi a Canopo prima di poter inviare il prezioso reperto in Francia. Il comandante francese scrisse al generale britannico Hutchinson: «Sono effettivamente in possesso di una pietra che reca tre diverse iscrizioni. Sarà vostra perché siete i piú forti». Hutchinson, che rimproverava ai Francesi di aver saccheggiato i tesori d’arte di mezza Europa negli anni precedenti, era stato irremovibile: «Ve l’ho detto dieci volte, e ve lo ripeto, voglio tutti quei reperti». Da allora la stele è conservata a Londra, nel British Museum.
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mento insperato, scritto in demotico, e ridotto in frammenti, che lui pazientemente ricompone: era il Papiro dei Re (vedi anche, in questo numero, la notizia alle pp. 6-8), la fantastica tavola cronologica che copre praticamente tutte le dinastie, e rivela i nomi dei faraoni succedutisi nei secoli, nomi di sovrani dei quali la storia aveva perso la memoria, e che Jean-François provò a «resuscitare» nel suo soggiorno in Egitto, cercando conferme della loro esistenza sulle piramidi e nei testi delle iscrizioni che andava scoprendo. In Italia Champollion stringe solidi rapporti di amicizia, per esem-
pio con Ippolito Rosellini, che lo introduce alla corte del granduca Leopoldo di Toscana. Colto e aperto, il granduca si dichiara pronto a sostenere le spese della tanto desiderata spedizione sulle rive del Nilo. Piú difficile sarà ottenere il finanziamento del re di Francia Carlo X, che lo costringerà a confrontarsi con le «microscopiche idee dei nostri giganti politici».
COME NOVELLI ARGONAUTI Vengono cosí costituite due commissioni: sette francesi e sette toscani, ribattezzati gli Argonauti! Insieme a Rosellini, Jean-François parte
dunque per l’Egitto, con l’obiettivo di individuare iscrizioni e monumenti che possano confermare le sue ipotesi di studio. Il viaggio conduce gli Argonauti in varie regioni del Paese e la missione risale il Nilo fino alla Nubia. Un dipinto presentato nell’esposizione ritrae un personaggio fondamentale: Mehemet Ali, il potente signore dell’Egitto ottomano, che concede il firman con il quale autorizza le commissioni a visitare il Paese. Il pacha è impegnato nella modernizzazione dell’Egitto con il Statua di Ramesse II, nota come «Horus Albani», frutto dell’assemblaggio di un pezzo originale antico (la parte inferiore) e di una rilavorazione moderna (la parte superiore). Già collezione Albani. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: rilievo della stele di Rosetta. Vif, Musée Champollion.
supporto di esperti europei, principalmente francesi. «In un quarto di secolo Mehemet Ali ha distrutto piú monumenti che i persiani, i romani, i cristiani e i musulmani messi insieme», scriverà Jean-François al fratello. In effetti pietre e colonne dei templi antichi furono impiegati per costruire raffinerie di zucchero, manifatture di seta o fabbriche di armi. Paragonando le tavole della Description de l’Égypte dell’epoca napoleonica con ciò che si presenta ai suoi occhi, Champollion si
rende conto della tragica distruzione dei reperti antichi, della rapidità con cui tutto sparisce nell’indifferenza di un governo contento di arricchirsi grazie a un passato di cui non si cura.
UN VIAGGIO MASSACRANTE Ad Alessandria, gli Argonauti furono ricevuti dal console di Francia Bernardino Drovetti il quale, in un paese, come detto, indifferente a un passato che non considera proprio, ha costituito prestigiose collezioni, destinate a essere vendute a peso d’oro. Il viaggio si svolge in condizioni spartane: sfiniti dal caldo soffocante, dal cibo rancido e dalle febbri violente, i partecipanti alla spedizione debbono fare i conti con i salti di umore di Champollion che, come raccontano i suoi biografi, già da bambino poteva lasciarsi andare ad accessi d’ira furiosa quando la cose non andavano abbastanza in fretta.Voleva che si copiassero tutte le iscrizioni possibili, non voleva lasciarsi sfuggire niente. Lavorava fino allo sfinimento, nonostante gli attacchi di gotta e le crisi di diabete che lo tormentavano. Se si confrontano le due Commissioni, si conclude che la maggior parte dei rilievi eseguiti in condizioni cosí difficili è opera della missione toscana. I suoi componenti sono piú resistenti, piú tranquilli, meno stizzosi, meglio preparati a questo lungo lavoro stancante e difficile. Sono loro che, al rientro in Italia, redigeranno le prime sintesi storico-archeologiche relative all’antico Egitto. DOVE E QUANDO «Champollion. La via dei geroglifici» Lens, Louvre-Lens fino al 16 gennaio 2023 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info www.louvrelens.fr a r c h e o 83
Particolare della maschera funeraria di Tutankhamon in oro e pietre preziose. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio. Il volto è ricavato da un’unica foglia d’oro intarsiata con lapislazzuli, turchesi, cornalina, feldspato e pasta vitrea. Nella pagina accanto: sarcofago in miniatura avente funzioni di vaso canopo in oro e pietre preziose raffigurante Tutankhamon e con dediche ad Amseti (uno dei «figli di Horo») e Iside, dalla camera del tesoro. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
COSE MERAVIGLIOSE... COSÍ HOWARD CARTER, NEL NOVEMBRE DI CENTO ANNI FA, DESCRISSE LO SPETTACOLO RIVELATOSI AI SUOI OCCHI DOPO AVER APERTO UNA BRECCIA NEL MURO DELLA TOMBA DI TUTANKHAMON, SCOPERTA NELLA VALLE DEI RE: PER LA PRIMA VOLTA, INFATTI, IL SEPOLCRO DI UN FARAONE ERA VENUTO ALLA LUCE PRESSOCHÉ INTATTO, CON IL SUO SPETTACOLARE CORREDO FUNERARIO. MA CHI FU IL GIOVANE SOVRANO DEL QUALE, FINO AD ALLORA, SI CONOSCEVA SOLO IL NOME? E PERCHÉ IL RITROVAMENTO DELLA SUA ULTIMA DIMORA È GIUSTAMENTE CONSIDERATO UN FATTO EPOCALE? di Stefania Sofra, con contributi di Carla Alfano e un’intervista a Zahi Hawass
N
el nostro immaginario collettivo,Tutankhamon, reso immortale dalle infinite – e talvolta bizzarre – leggende nate intorno alla sua figura, rappresenta senza dubbio «il Faraone» per antonomasia. È stata la scoperta della sua tomba, avvenuta il 4 novembre 1922, grazie all’intuito e all’intraprendenza dell’egittologo britannico Howard Carter, congiuntamente al suo finanziatore Lord George Herbert, V conte di Carnarvon, a far sí che Tutankhamon divenisse famoso, soprattutto per l’immenso tesoro custodito nella sua tomba, l’unica ritrovata pressoché intatta dopo millenni di oblio. Ed è proprio la scoperta di questa tomba inviolata a darci l’esatta misura di quali e quante ricchezze sono state sepolte con i faraoni nella Valle dei Re. Sappiamo che il saccheggio delle tombe dei re sepolti nella Valle avvenne soprattutto durante il regno di Ramesse IX, ovvero durante la XX dinastia (1186-1069 a.C.). La situazione dei furti divenne cosí grave che furono gli stessi sovrani regnanti a ordinare la frettolosa risepoltura delle mummie risparmiate dalle spoliazioni dei gioielli e dei simboli regali posti tra le bende. I corpi di
quei grandi antenati furono bendati, deposti in sarcofagi, spesso di riutilizzo, e sepolti non piú in tombe sfarzose, ma in un semplice nascondiglio tra le rocce della montagna tebana presso la località di Deir el-Bahari.
LA TOMBA DIMENTICATA Alla luce dei numerosi trafugamenti, sembra quasi incredibile che dei circa 30 faraoni sepolti nella Valle dei Re solo il sepolcro di Tutankhamon non sia stato violato e che, dopo 33 secoli, quello che era stato solo un nome, accompagnato da una ricerca appassionata, fosse ancora lí, nascosto ai ricercatori. Anche la tomba del giovane sovrano subí almeno tre incursioni pochi anni dopo la sua sepoltura. I ladri entrarono in ogni stanza, come dimostrano le condizioni in cui venne ritrovata la tomba nel 1922, con oggetti sparsi sul pavimento del corridoio d’ingresso. Probabilmente rubarono solo piccoli oggetti, poiché il pertugio attraverso il quale erano entrati era troppo piccolo per far passare manufatti ingombranti. Infine, la tomba venne dimenticata e scampò quindi ai diversi e sistematici saccheggi delle epoche successive; ana r c h e o 85
SPECIALE • TUTANKHAMON
Necropoli di Tebe (Valle dei Re) Mar Mediterraneo
Cairo
Sinai
ARABIA S A U D I TA N ilo
Pianta della Valle dei Re (Biban el-Muluk), toponimo che designa la necropoli regale dell’antica Tebe, alla sinistra della Valle del Nilo; contiene 62 tombe di sovrani delle dinastie XVIII-XX.
1 (Ramesse VII)
2 (Ramesse IV)
Valle dei Re
E G I T TO Lago Nasser
Mar Rosso
3 62 (Tutankhamon) 8 (Merneptah)
46 (Yuya and Tuya)
7 (Ramesse II)
che le tracce dell’ingresso an6 (Ramesse IX) (Ramesse VI) 55 9 darono perse, forse per il fatto 56 che gli operai di una tomba 58 12 (Horemheb) adiacente, di epoca successiva, 57 35 10 (Amenhotep II) vi costruirono sopra le loro 48 (Amenmeses) 16 11 (Amenemipet) (Ramesse III) 17 (Ramesse III) abitazioni, nascondendone pra(Sethi I) 18 54 ticamente l’entrata. Una circo(Ramesse X) 36 (Mei-her-peri) 61 stanza che, senza dubbio, pro13 29 tesse la tomba di Tutankhamon dai ladri e, per lungo tempo, (Tewosret) 14 47 anche dagli stessi archeologi: (Siptah) 40 38 fino a quando Howard Carter (Thutmosi 26 I) decise di concentrare le sue ri30 59 15 cerche proprio in questa zona 31 (Sethi II) non scavata in precedenza. 37 32 Carter era convinto che la tom42 ba dovesse trovarsi in quell’area circoscritta grazie al ritrovamento di alcuni reperti di pre34 (Thutmosi III) cedenti campagne archeologiche, condotte dal 1902 al 1914 da Theodore Davis, un magnate ameri- zona a ridosso della tomba di Ramesse cano appassionato di archeologia: una VI. Il 4 novembre 1922 venne scoperto coppa in ceramica con il nome di Tu- un gradino scavato nella roccia viva del tankhamon, una cassetta di legno rotta fondovalle e da quel momento entusiache conteneva foglioline d’oro recanti il smo e febbrile emozione condussero suo nome e vasi in terracotta con bende Carter e i suoi operai a proseguire il di lino appartenenti alla sua mummifi- lavoro. Fu portata alla luce una scalinacazione. Tutti oggetti legati al funerale ta di sedici gradini che conduceva a una del giovane re e che erano stati ritual- tomba ad appena quattro metri piú in mente deposti vicino alla sua tomba. basso rispetto alla sovrastante tomba di Ramesse VI. Carter avvisò subito Lord Carnarvon dell’entusiasmante scoperta: SEDICI GRADINI Carter iniziò a scavare in modo siste- nel suo telegramma si leggeva «Fatta matico tra le tombe di Ramesse II, Me- straordinaria scoperta nella Valle dei Re. renptah e Ramesse VI: eliminò le capan- Grandiosa scoperta di tomba con sigilne degli operai, i detriti degli scavi di li intatti. Ricoperto tutto fino vostra altre tombe e fece sgomberare tutta la venuta. Congratulazioni». 86 a r c h e o
4 (Ramesse XI)
5
45 (Userhet) 44 28 27 21
60 (Hatshepsut) 20 19 (Mentu-her-khepshef)
43 (Thutmosi IV)
N 0
75 m
Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione del corredo funebre di Tutankhamon realizzata in occasione di una mostra dedicata al faraone. Nella pagina accanto, in basso: la tomba di Tutankhamon sorvegliata dai militari, come richiesto da Howard Carter.
Carter e Carnarvon esaminarono l’accesso alla tomba e notarono subito che nella tomba erano evidenti i segni di due brecce, poi richiuse, a riprova del fatto che i ladri erano entrati. Inoltre, era altrettanto evidente che i sigilli di Tutankhamon erano stati apposti nuovamente dopo la chiusura dell’effrazione del muro, suggerendo che la tomba non fosse stata depredata completamente, ma solo dimenticata. Per la presenza di detriti e ceramiche con i nomi di Akhenaton, Smenkhara, Tutankhamon e Amenhotep III, Carter temette di trovarsi di fronte a un deposito, anziché a una tomba individuale, ma i sigilli riportavano il nome solo di Tutankhamon e questo lasciava ben sperare. Fu cosí che, accompagnato da Lord Carnarvon e dalla figlia, Carter rimosse i detriti, poté aprire una breccia nell’angolo superiore sinistro del muro e introdusse una luce nella stanza per vedere cosa ci fosse.
La tenacia di Howard Carter fu premiata quando affiorò una scala scavata nella roccia...
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SPECIALE • TUTANKHAMON
Particolare di una statua in legno dorato della dea Selket che protegge la piccola cappella, anch’essa in legno dorato, nella quale furono deposte le viscere di Tutankhamon. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
Man mano che i suoi occhi si abituavano al buio e al bagliore della candela, cominciò a distinguere sempre piú dettagliatamente il contenuto dell’ambiente. Carter rimase a guardare ammutolito, finché Lord Carnarvon lo scosse domandandogli se riuscisse a vedere qualcosa: «Yes, wonderful things» («Sí, cose meravigliose»), fu la risposta. In effetti aveva davanti a sé una visione unica: era entrato dopo tremila anni in una stanza sigillata riempita con una profusione di oggetti che sembrava infinita: era la tomba del re. Tutto brillava d’oro e si scorgevano figure di animali, statue dalle dimensioni umane, mobili, letti funerari, una moltitudine di oggetti 88 a r c h e o
Ascendenze illustri Dal 1387 al 1348 a.C. Amenhotep III
Tiye
Dal 1348 al 1331 a.C.
Kiya
Young Lady Amenhotep IV Akhenaton
Nefertiti
Dal 1334 al 1332/1328 a.C.
Dal 1328 al 1318 a.C.
Smenkhara
Tutankhamon
di raffinata fattura, insomma, un tesoro immenso. Catalogare, imballare, classificare, preparare, conservare, fotografare, documentare l’insieme degli oggetti scoperti fu un compito laborioso e impegnativo per Howard Carter. Nessuno fino a quel momento aveva mai dovuto gestire la scoperta di una tomba intatta con un corredo funerario cosí vasto. La documentazione fotografica fu riconosciuta da subito di primaria necessità e per eseguirla venne scelto il fotografo americano Harry Burton: prima di spostare uno qualunque degli oggetti bisognava fotografare la stanza e la posizione di ogni singolo reperto.
UNA VITA BREVE Grazie agli esami effettuati su campioni di DNA siamo oggi in grado di affermare che il padre di Tutankhamon fu Akhenaton, figlio di Amonehotep III, la cui mummia venne ritrovata nella tomba KV55 (la sigla KV sta per
Meritaton
Ankhesenamon
La famiglia reale di Tutankhamon. Nella pagina accanto, in basso: Howard Carter (in ginocchio), il suo assistente Arthur Callender (a destra) e un operaio egiziano durante l’apertura di una delle quattro cappelle sepolcrali che proteggevano i sarcofagi di Tutankhamon.
King Valley, ovvero Valle dei Re, n.d.r.), mentre la madre fu verosimilmente la cosiddetta «Young Lady» ritrovata nella tomba KV35. Tutankhamon nacque intorno al 1341 a.C. ad Akhetaton (oggi Amarna), la nuova capitale dell’Egitto, fondata da Akhenaton. Alcuni anni dopo la scomparsa del padre, ad appena 9 anni, fu nominato dodicesimo faraone della XVIII dinastia (1543-1292 a.C.). Com’era in uso nell’Antico Egitto, Tutankhamon sposò la sorellastra Ankhesenamon, terzogenita di Akhenaton e Nefertiti. Data la sua giovanissima età, il regno fu inizialmente guidato da Ay, sommo sacerdote e già funzionario alla corte di Akhenaton, succedendogli poi sul trono. Nella camera sepolcrale di Tutankhamon, Ay è raffigurato già con le insegne reali e la corona, mentre compie il rito dell’apertura della bocca durante i funerali del faraone. Tutankhamon regnò nel difficile momento di a r c h e o 89
passaggio dalla fallita rivoluzione religiosa del padre Akhenaton alla restaurazione voluta dal potente clero di Amon. Amenhotep IV aveva cambiato il proprio nome in quello di Akhenaton, «Colui che giova ad Aton», e aveva trasferito la capitale ad Akhetaton, «Orizzonte di Aton», da lui fondata nel Medio Egitto. Con il cambio di nome Akhenaton elevò a divinità principale il dio Aton, rappresentato dal disco solare. Da allora Akhenaton ridusse il potere dei sacerdoti di Amon e chiuse i templi a Tebe, dando inzio a una rivoluzione culturale, sociale, politica e religiosa alla quale, forse, l’Egitto non era preparato. È in questo contesto che, alla sua nascita, il faraone-bam90 a r c h e o
bino venne chiamato Tutankhaton, ovvero «immagine vivente di Aton». Alla morte di Akhenaton, la sua nuova «visione del mondo» venne ben presto abbandonata e lo stesso regnante passo alla storia come il faraone eretico. Quando salí al trono, Tutankhaton aveva solo nove anni, e i due maggiori funzionari del regno, il già citato Ay e il generale Horemheb, presero le redini del governo, ripristinando l’ordine e le antiche tradizioni, soprattutto in campo religioso. Fu ristabilito l’ordine divino di Amon e dopo un anno di regno il nome del giovane faraone fu cambiato da Tutankhaton a Tutankhamon «immagine vivente di Amon»; stessa cosa av-
In alto: l’esterno della tomba di Tutankhamon. A sinistra: una veduta della Valle dei Re.
venne per il nome della moglie: Ankhesenpaton divenne Ankhesenamon, ponendo cosí fine all’«eresia amarniana» del dio unico Aton.
LE CAUSE DELLA MORTE Le radiografie eseguite nel 1968 presso l’Università di Liverpool evidenziarono la presenza di un grumo di sangue alla base della testa e un foro praticato nella parte posteriore del suo cranio: bastarono questi due elementi per sostenere che Tutankhamon fosse stato assassinato, probabilmente in un complotto di corte, con un colpo inferto alla testa. La tomografia assiale computerizzata, effettuata in tempi piú recenti dall’egittologo
Zahi Hawass e dalla sua équipe, ha dimostrato che non vi era alcuna frattura alla nuca: i frammenti ossei erano stati causati dal processo di imbalsamazione che aveva determinato le fratture ossee e i raggi X avevano «letto» uno spesso strato di resina come un grumo di sangue, mentre il foro circolare alla base della nuca era stato appositamente creato dagli imbalsamatori per eliminare il cervello. Tutankhamon, dunque, non morí assassinato, ma per le conseguenze della caduta da un carro, verosimilmente durante una battuta di caccia, a causa della quale riportò, inoltre, una grave frattura alla gamba sinistra, che provocò un’infezione che lo condusse in pochi giorni alla morte per setticemia. Una morte, dunque, del tutto accidentale. L’ipotesi appena descritta è oggetto di studio da parte di Zahi Hawass, che presto annuncerà i risultati degli ultimi esami effettuati per confermare se Tutankhamon morí davvero a causa di quella infezione. Di certo, quella di Tutankhamon fu una morte del tutto inaspettata e il giovane faraone venne seppellito in una tomba originariamente non destinata a lui. La mummia del faraone-fanciullo era protetta da tre sarcofagi antropomorfi custoditi all’interno di un grande sarcofago in pietra. Quando Carter aprí i tre sarcofagi, apparve la mummia del giovane faraone con la celebre maschera d’oro che gli copriva il viso. Purtroppo, il corpo si presentava in pessime condizioni, a causa dell’eccesso di balsami resinosi che ritualmente erano stati versati su tutto il corpo. La maschera e la mummia si erano incollate al fondo della a r c h e o 91
SPECIALE • TUTANKHAMON Howard Carter presso la tomba di Tutankhamon, in una foto del marzo 1923.
cassa: l’ossidazione dei composti resinosi, però, aveva carbonizzato i tessuti e le ossa. Non possiamo infine tacere sulle storie fantastiche diffusesi in seguito alla scoperta del 1922, tra le quali quella della «maledizione» che avrebbe colpito i violatori della tomba (vedi anche il box alle pp. 96-97). Molti di coloro che parteciparono alla scoperta della tomba di Tutankhamon morirono in circostanze misteriose, tra cui proprio Lord Carnarvon, ancor prima che venisse scoperto l’ultimo sarcofago che conteneva la mummia di Tutankhamon. La causa sembra essere stata la puntura di una zanzara, ma si sparse la notizia che fosse rimasto vittima della «maledizione». Poco tempo dopo morí Georges Benedite, capo conservatore delle Antichità Egizie al Museo del Louvre, mentre soggiornava nella Valle dei Re; poi fu la volta del segretario di Carter e di alcuni suoi amici che avevano partecipato agli scavi nella tomba di Tutankhamon. Nel 1924 venne a mancare Archibald Douglas Reed, incaricato di radiografare la mummia, e la stessa sorte toccò a Douglas E. Derry che aveva compiuto ricerche anatomiche sulla mummia.
UN FUNGO TOSSICO? Al riguardo di quelle «morti misteriose» sono state formulate varie ipotesi, di cui possiamo prendere in considerazione la piú plausibile dal punto di vista scientifico: nel 1962 un biologo identificò sulle pareti della tomba un fungo tossico, l’Aspergillus Niger, presente anche tra le bende della mummia. Il fungo è portatore di sostanze tossiche per l’uomo e provocherebbe un morbo con sintomi affini a quelli manifestati da alcune vittime che parteciparono all’esumazione della mummia di Tutankhamon: tutti furono colpiti da una sintomatologia analoga, come prurito, irritazione della pelle, bruciore alla gola e infezione alle vie respiratorie. Potremmo forse ritenere responsabili quei microrganismi vissuti per secoli nella tomba sigillata di Tutankhamon e che, quando fu riaperta la tomba, una volta a contatto con l’ossigeno hanno generato muffe invisibili ma letali. Un fungo tanto potente da causare la morte di chi partecipò ai lavori della scoperta della tomba e lo respirò: quasi una sorte di maledizione biologica. 92 a r c h e o
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SPECIALE • TUTANKHAMON
CHI ERA TUTANKHAMON? UNA TOMBA MUTA di Carla Alfano
Statuetta in legno dorato raffigurante Tutankhamon con la corona bianca, simbolo dell’Alto Egitto. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
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ella tomba non c’era nulla che parlasse di lui, nulla! Non un’iscrizione, un papiro o una dedica, non una presentazione delle sue imprese o delle sue opere, neanche un cenno alla sua vita privata e alla sua precoce morte. Nemmeno la sua completa identità era stata svelata. Non si sapeva chi fosse stata sua madre e soprattutto suo padre. La sua tomba intatta rimaneva desolatamente muta. Quel re era vissuto nel breve periodo dell’epilogo della rivoluzione religiosa, amministrativa e artistica voluta da Amenhotep IV/Akhenaton. Un periodo, intorno alla metà del 1300 a.C., tanto fondamentale quanto difficile da ricostruire e ancora tutto da indagare. Vissuto e morto tra la fine del breve sogno amarniano e la restaurazione tebana: chi, se non lui e il suo sepolcro, avrebbero potuto svelare capitoli interi di quella storia complicata? Eppure, quella sua tomba intatta, traboccante di cosí tanti oggetti, raccontava, invece, solo un fatto: che Tutankhamon era morto ed era stato sepolto con tutti gli onori dovuti a un re di un periodo prospero. Null’altro. Ma chi fosse questo giovane diventato faraone senza essere mai stato citato o raffigurato come principe ed erede della casa reale di Amarna è ancora incerto. Il suo era stato solo un nome riportato su pochi cartigli ed era pressoché sconosciuto tra gli egittologi dei primi anni del Novecento. Carter aveva cercato la tomba del re per molti anni, ostinatamente, senza mai arrendersi, perché era convinto che quel faraone amarniano fosse stato sepolto nella Valle, al pari di altri, in quanto
Flabello e scettro di Tutankhamon in oro, lega di rame, pasta vitrea, legno e cornalina, dalla camera del tesoro. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
era stato proprio lui ad aver ripristinato il culto degli antichi dèi e abbandonato Aton, tornando a Tebe. La tomba doveva essere lí, da qualche parte. L’intuito di Carter, la sua profonda conoscenza di ogni anfratto, di ogni collinetta e soprattutto gli indizi che Davis aveva trascurato, lo portarono a individuare l’ingresso di quel sepolcro.
UN’OCCASIONE UNICA Dopo l’ebbrezza della scoperta della tomba pressoché intatta, Carter cercò nelle migliaia di oggetti che formavano il sontuoso corredo funebre del re il racconto della sua vita. Sapeva bene che non c’era da aspettarsi nulla dalle pitture parietali, che nelle tombe reali riportano solo testi e scene del rituale funerario. Solo le tombe dei privati hanno un repertorio iconografico con scene di vita quotidiana e notizie sulla biografia del defunto. proprietario della tomba. Ma ora, per la prima volta, si aveva a disposizione un intero corredo funerario, che doveva pur raccontare qualcosa!
Che cosa raccontavano dunque gli oggetti? Certamente mostravano il forte legame tra il giovane faraone e la sua regina, romanticamente rappresentati in momenti di svago secondo lo stile amarniano che, per la prima volta nella millenaria iconografia faraonica, aveva messo in evidenza emozioni e manifestazioni di affetto. Era un giovane alto ma molto magro, con braccia e polsi esili e camminava appoggiandosi ai bastoni che a centinaia sono stati trovati nella tomba perché aveva bisogno di sostenersi in quanto affetto dalla nascita da una deformità al piede. Bastoni di varie misure, adatti alle diverse età del re che salí al trono a circa 9 anni. Tra questi bastoni anche uno semplicissimo con la scritta «giunco tagliato da sua maestà con le proprie mani». E la sua famiglia? Conservava come una reliquia una ciocca della bella capigliatura di sua nonna, la regina Tiye, grande sposa reale di Amenhotep III e madre dell’eretico Akhenaton. Era indubbiamente un principe di sangue reale, figlio probabilmente di Akhenaton e di una moglie secondaria, per questo la legittimazione al trono fu assicurata dal matrimonio con la sorellastra Ankhesenamon, figlia della grande sposa reale Nefertiti. Il faraone morí tra i 18 e i 19 anni, improvvisamente e tragicamente, anche se in vita non doveva aver goduto di una salute robusta. «Partecipavo a un lutto antico di 3000 anni», era questa la forte sensazione che ebbe Carter aggirandosi tra gli oggetti piú intimi appartenuti al giovane sovrano. La commozione si fece piú forte quando, tagliate le bende e tolta la maschera d’oro che copriva il volto, fu al cospetto del re: «davanti a noi giaceva tutto ciò che era rimasto del giovane faraone che finora per noi era stato solo l’ombra di un nome». «Abbiamo mosso le ombre del sipario, ma non siamo riusciti ad alzarlo del tutto» scrisse Carter dopo aver tolto dalla tomba l’ultimo oggetto che non aveva rivelato molto su Tutankhamon, la cui vita «giace ancora nel mistero». a r c h e o 95
SPECIALE • TUTANKHAMON
RAPPORTI CON LA STAMPA, FAKE NEWS E LA MALEDIZIONE CHE NON C’È di Carla Alfano
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egli anni Venti del Novecento, in un’opinione pubblica da sempre affascinata dall’antico Egitto, la notizia della scoperta di una tomba faraonica intatta deflagrò in tutto il mondo in un turbine di interesse, entusiasmo e fame di informazioni. I giornali non solo riportarono la notizia della scoperta, ma pubblicarono come servizi di prima pagina ogni avanzamento dei lavori nella tomba. Si trattava infatti di una scoperta in progress, che prometteva quasi quotidianamente novità esaltanti con ritrovamenti mai visti prima in tutti gli scavi archeologici. Con ritmi da suspence, si susseguirono prima la notizia del ritrovamento di una tomba regale intatta, poi l’apertura delle porte murate e sigillate, quindi il ritrovamento di un corredo che, come disse l’egittologo Jean Capart, avrebbe fatto apparire «un ammasso di rottami» tutte le opere già esposte nei musei, poi ancora una seconda camera colma di suppellettili e tesori, successivamente un’altra ancora con oggetti sacri che mai erano stati ritrovati né visti prima, e, infine, la camera del sarcofago che avrebbe svelato il rituale di sepoltura di un re. E poi ancora una sorpresa dopo l’altra: tre sacelli dorati che proteggevano il sarcofago di pietra, poi tre sarcofagi antropomorfi e infine la mummia coperta dalla maschera d’oro, un capolavoro assoluto. Tutto ammantato da una parola assolutamente magica per il pubblico, «oro». Oro che ricopriva gli oggetti del corredo, oro dei sacelli, oro delle bare, oro nei gioielli! Ce n’era abbastanza perché si scatenasse intorno al fragile ingresso della Tom96 a r c h e o
Una foto apparsa sul quotidiano inglese The Times nel 1923: da sinistra, Lord Carnarvon con la figlia Lady Evelyn Herbert e Howard Carter all’ingresso della tomba di Tutankhamon. Nella pagina accanto: figurina in oro del dio Horo come falcone solare, dall’anticamera della tomba di Tutankhamon. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
ba nella Valle dei Re una ressa di cronisti, curiosi, visitatori e viaggiatori, una folla che oscillava paurosamente, appoggiandosi al muretto di contenimento, ogni volta che Carter o un membro del suo staff uscivano all’aperto, salendo la ripida scala. La folla sostava per ore, addirittura giorni. Le signore si accomodavano su sgabelli e sedie di fortuna, conversando o ricamando, novelle tricoteuse, in attesa del brivido della scoperta quotidiana anche per potersi vantare nei salotti di essere state presenti!
UN’AMBITA ESCLUSIVA Lord Carnarvon aveva deciso di affidare al Times l’esclusiva sulla scoperta. Sembrava un’ottima idea, perché la testata era seria e con una diffusione internazionale; inoltre, Carter e i suoi collaboratori avrebbero avuto a che fare per il resoconto quotidiano solo con un giornalista, che poteva essere controllato in quell’ambiente del sepolcro cosí piccolo per la quantità di oggetti delicatissimi sparsi ovunque.
Carnarvon aveva anche sapientemente concordato con il Times un compenso che poteva assicurare un po’ di ossigeno alle sue finanze provate da tanti anni di scavi. Questa esclusiva al Times, però, anziché aiutare il lavoro nella tomba, scatenò la rabbia degli altri giornali e delle agenzie, esclusi dalla fonte diretta di informazione, in quanto tutti dovevano aspettare gli articoli del Times per poter scrivere qualcosa. La ricerca di un’indiscrezione, di un commento, di una foto divenne spasmodica. Inoltre, Carter era comunque costretto spesso a interrompere il lavoro per via delle visite ufficiali di notabili egiziani ed europei, principi e regine, magnati, funzionari e visitatori di alto rango sociale; visite imposte dalla politica delle buone relazioni. In questo contesto, in assenza di notizie e dati certi, nasceva una valanga di fake news che servivano a soddisfare la curiosità dei lettori. Si favoleggiò addirittura di aerei decollati con voli notturni carichi di tesori e diretti a Londra o in America, scatenando la furia dei nazionalisti egiziani diffidenti e sospettosi verso gli Inglesi che scavavano il patrimonio dell’Egitto. Si diffondevano notizie su maledizioni scritte nel sepolcro. Ci fu poi il quasi anatema lanciato contro Carnarvon da un archeologo fallito e riconvertito giornalista, escluso dall’accesso «se scende nella tomba con quello spirito gli do al massimo sei settimane di vita» e, ahimè, la tragica profezia si avverò! Tanto si è scritto sulla tragedia di questa morte, che però non fu né improvvisa, né imprevista. Carnar-
von aveva un fisico fragile, compromesso da incidenti giovanili e minato da successive malattie che lo stavano progressivamente indebolendo e portando alla degenerazione delle difese immunitarie. La setticemia scatenata da un semplice taglio fu il tragico epilogo di un corpo già compromesso. Ma inevitabilmente la sua morte scatenò un’ondata di convinzioni sulla maledizione e sulle sue conseguenze. Il British Museum ricevette numerosi pacchetti con reliquie e souvenir acquistati in Egitto di cui i proprietari volevano sbarazzarsi per paura della maledizione! Arthur Conan Doyle, seguace dell’occultismo, padre di Sherlock Holmes, incrementò la storia della maledizione, dichiarando che gli antichi Egizi erano esperti di magia e che probabilmente era stato uno di quegli spiriti maligni ad aver colpito a morte il povero Carnarvon. Ovviamente, sono tutte coincidenze facilmente smontabili, come la morte di Arthur Mace, stretto collaboratore di Carter, avvenuta alcuni anni dopo la scoperta della tomba per una patologia polmonare contratta molti anni prima dell’avventura con Tutankhamon; oppure dell’assassinio di un principe orientale, turista forse nella Valle dei Re, per mano della moglie francese nell’Hotel Savoy di Londra! Molti giornali fecero quasi a gara nel collegare la morte di visitatori della tomba alla maledizione di Tutankhamon, in una forma di isteria generale, tanto che ancora oggi c’è chi osserva che, incredibilmente, la maledizione sia diventata quasi piú famosa della stessa scoperta della tomba. a r c h e o 97
SPECIALE • TUTANKHAMON
CARTER E LA SUA SQUADRA: UN MODELLO DI PROFESSIONALITÀ SCIENTIFICA di Carla Alfano
«U
na ricerca archeologica, condotta sotto gli occhi del mondo intero, è un’esperienza del tutto nuova e piuttosto sconcertante»: pur nella sobrietà tipicamente anglosassone, queste parole di Howard Carter tradivano il peso dell’enorme responsabilità per la scoperta archeologica piú importante di tutti i tempi. Carter se ne rese subito conto: «Avevamo avuto il privilegio di trovare la piú grande raccolta di antichità egizie e stava a noi dimostrare di esserne all’altezza». James Breasted e Alan Gardiner, eminenti egittologi, furono immediata-
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mente chiamati per partecipare ai lavori per quella eccezionale scoperta, come se si fosse spalancata una finestra sul mondo dei faraoni. Breasted affermò che ciò che aveva visto era uno spettacolo incredibile, quasi impossibile, una scoperta colossale. Furono incaricati di decifrare i geroglifici presenti sugli oggetti, sulle pareti della camera del sarcofago, sui sigilli. In attesa di eventuali papiri, il loro lavoro si concentrò soprattutto sui geroglifici dei sigilli, sulle iscrizioni presenti sul mobilio. Carter intuí che solo quanto era contenuto nell’Anticamera e nell’Annesso lo
Un’immagine del trasporto degli oggetti del corredo di Tutankhamon al di fuori della tomba.
Tavola a colori che mostra Howard Carter e Lord Carnarvon all’interno della camera sepolcrale di Tutankhamon durante il sollevamento del coperchio del sarcofago del faraone. In realtà, il nobile inglese morí nell’aprile del 1923, senza avere avuto la soddisfazione di assistere a uno dei momenti piú emozionanti dell’impresa che aveva finanziato.
avrebbe impegnato per almeno dieci anni! Un decennio sarebbe stato necessario solo per abbozzare la documentazione scientifica, la catalogazione e un primo intervento conservativo per stabilizzare gli oggetti usciti a respirare aria e variazioni di umidità dopo tre millenni di permanenza in locali sigillati.
QUASI COME UN DIARIO I tre volumi che Carter pubblicò sono, infatti, una sorta di commovente diario di quanto accadde, la cronaca della scoperta. Tutta la precisa e meticolosa documentazione, i disegni, le fotografie, le descrizioni delle migliaia di oggetti, insieme con i giornali di scavo, sono conservati, silenti e non pubblicati, negli archivi del Museo del Cairo, in quelli del Metropolitan Museum di New York e nel Gr iffith Institute dell’Università di Oxford. Carter aveva innate qualità artistiche e giovanissimo era andato in Egitto dove aveva iniziato il lavoro di documentazione grafica e pittorica di importanti siti archeologici. Imparò tecniche e affinò la sua capacità di indagine archeologica fatta di intuizione, metodo, riflessione, ricerca.
Amava dire che se non fosse diventato archeologo, sarebbe stato un ottimo detective. Proprio come un moderno detective fu l’antesignano di un metodo di scavo archeologico fondato su rigorose basi scientifiche, a cominciare dalla quadrettatura del sito di scavo, simile ai metodi utilizzati in guerra dall’artiglieria, dove ogni zona, con eventuali ritrovamenti, era rigorosamente registrata e identificata all’interno di un reticolo predisposto. Sosteneva l’importanza della registrazione dei reperti nel loro contesto, la necessità di documentare con disegni e foto lo stato del ritrovamento per capire le relazioni, per «far parlare» opere che altrimenti sarebbero rimaste mute. Howard Carter fu un grande archeologo e, fortunatamente per Tutankhamon, fu lui a trovare la sua tomba e il suo corredo. Ben altra sorte avrebbero avuto quei tesori se altri l’avessero scoperta, archeologi frettolosi e meno preparati, piú inclini ad ascoltare i loro mecenati che gli interessi della scienza. Carter difese a ogni costo la sicurezza di tutti i reperti della tomba dalla folla di curiosi e di visitatori che pretendevano di entrare, forti di pressioni politiche. a r c h e o 99
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Diede con grande correttezza la precedenza a tutti gli egittologi perché «avevano tutto il diritto di visitare la tomba» anche se, come scrisse Albert Lythgoe «il povero Carter è stato sepolto sotto questo peso di responsabilità e, tra un’infinità di problemi e seccature, si è visto arrivare agli scavi tutti gli egittologi che esistono sulla terra!».
CANCELLI E GUARDIANI In attesa dell’arrivo di Carnarvon dall’Inghilterra, Carter mise subito in sicurezza l’ingresso della tomba appena scoperta, sbarrandola con un pesante cancello di acciaio e predisponendo un efficientissimo sistema di sorveglianza con tre squadre di operai locali. L’organizzazione del lavoro fu dunque la sua principale preoccupazione. Era consapevole di non poter certamente condurre da solo quel lavoro. Doveva acquistare una quantità incredibile di materiale necessario per procedere allo scavo e chiamare aiuti qualificati per formare una squadra affiatata e funzionale. Anche in questo mostrò grandi capacità nel selezionare le persone giuste. Albert Lythgoe, direttore della sezione egizia del Metropolitan Museum di New York, offrí ogni collaborazione a Lord Carnarvon e convenne che la squadra messa su da Carter era «la piú perfetta macchina da lavoro mai impiegata in tutta la storia dell’archeologia egizia». Carter si rivolse agli Americani del Metropolitan, aiutato dal suo amico egittologo Herbert Winlock, e ingaggiò Harry Burton, una autorità nel campo della fotografia. A lui fu assegnato tutto il lavoro di documentazione delle opere e del contesto nel quale venivano a trovarsi. Burton seppe fissare nelle lastre tutto il corredo di Tutankhamon e le fasi salienti dello scavo con una capacità scientifica e insieme artistica insuperate. Carter utilizzò nuove tecniche archeologiche per trattare le migliaia di opere 100 a r c h e o
e manufatti che venivano alla luce. «Il lavoro sul campo è fondamentale», sosteneva. «Se ogni scavo fosse condotto nel modo giusto, con coscienza e sistema, si avrebbe dell’archeologia egizia una conoscenza almeno del 50% maggiore. Nei depositi dei nostri musei giacciono reperti abbandonati che potrebbero dirci tanto se solo si sapesse da dove provengono; casse su casse di frammenti che potrebbero raccontare tanto se solo al momento della loro scoperta si fossero prese alcune note». Il primo della squadra di esperti ad arrivare fu Arthur Callender, grande amico di Carter. Ingegnere ed ex dipendente delle ferrovie egiziane, era capace di
Sulle due pagine: altre immagini del trasporto degli oggetti del tesoro di Tutankhamon. Howard Carter ottenne dalle autorità egiziane l’autorizzazione a utilizzare come magazzino e laboratorio di primo restauro la tomba di Sethi II, situata anch’essa nella Valle dei Re, ma non troppo vicina a quella del faraone ragazzo, cosí da potervi lavorare nella massima tranquillità.
risolvere ogni problema legato alla messa in sicurezza dello scavo, all’installazione della luce elettrica, allo smontaggio dei complessi sacelli che uno dentro l’altro circondavano il sarcofago, al sollevamento del pesante coperchio di arenaria, al sistema per il trasporto delle casse colme degli oggetti imballati da portare al Museo del Cairo con un sistema di ferrovia Décauville attraverso il deserto fino al Nilo. Grazie alla sua rara competenza, non si verificò alcun incidente e tutti i reperti arrivarono integri a destinazione.
UNA DOCUMENTAZIONE METICOLOSA Carter non permise che alcun oggetto fosse toccato e tantomeno rimosso prima di venire fotografato, documentando la sua posizione in riferimento agli altri oggetti e al contesto. Provvide a numerarli con cartellini per poter poi piú facilmente procedere alla catalogazione. Lindsley Hall e Walter Hauser, tra i migliori disegnatori del Metropolitan, furono immediatamente autorizzati a unirsi allo staff di Carter. Ma soprattutto la presenza di Arthur Mace, archeologo, esperto anche di conservazione e dotato di grande senso pratico, si rivelò piú che preziosa. Un vero colpo di fortuna fu il coinvolgimento di Alfred Lucas, direttore del Dipartimento di Chimica al Cairo, appena andato in pensione! La sua competenza professionale fu indispensabile
per la messa in sicurezza delle preziose e fragili opere che venivano recuperate, procedendo a un primo intervento conservativo, se non a un vero restauro. Carter riuscí a farsi concedere l’utilizzo di una tomba nella Valle dei Re da adibire a magazzino e laboratorio di restauro per Lucas. La scelta cadde su quella di Sethi II, un po’ lontana da quella di Tutankhamon, in un’area laterale della Valle, non frequentata dai turisti. Lo spazio aperto davanti all’ingresso fu utilizzato anche da Burton per le sue foto. I danni provocati dell’aria esterna che penetrava in quelle stanze sigillate da tre millenni erano tragicamente visibili. I colori ancora vivi dei serti dei fiori svanivano, i tessuti si sbriciolavano senza che venissero toccati. Gli abiti erano ricamati con migliaia di perline, decorazioni d’oro e pietre dure che si disperdevano al minimo tocco, mentre il tessuto si dissolveva. Anche per questo occorreva trovare una soluzione. Nessun archeologo era mai stato messo di fronte alla risoluzione di problemi cosí complessi e diversificati. Tutti i procedimenti erano necessariamente sperimentali, ma tutto doveva essere protetto rapidamente e senza provocare danni. Ci si doveva organizzare per rimuovere oggetti piccolissimi e altri pesanti fino a 750 chili, come i pannelli dei sacelli, per di piú in uno spazio piccolo e angusto e con una temperatura che poteva raggiungere anche i 40 gradi. Esposto all’aria, persino il legno delle numerose suppellettili gemeva con inquietanti sibili spaccando lo stucco e la lamina d’oro che lo rivestiva. Per la prima volta si mise a punto e si sperimentò un rigoroso metodo scientifico per salvare quei tesori unici. Nella storia dell’archeologia Carter è giustamente ricordato per l’incredibile e non casuale scoperta della tomba di Tutankhamon, ma meriterebbe, altrettanto giustamente, di essere ricordato anche per l’originalità, la scientificità e la modernità del suo metodo di ricerca che ha fatto da scuola per tanti archeologi. a r c h e o 101
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PROFANAZIONE E FURTI DELLA TOMBA «INTATTA» di Carla Alfano
«Q
uanto è caduco e ingannevole l’omaggio dell’uomo: tutte le tombe erano state saccheggiate, tutte avevano subito violazioni e oltraggi» (Howard Carter). Dalla macchia sull’intonaco
del muro della porta di accesso era evidente che il sepolcro era stato profanato. Quella cicatrice indicava chiaramente che gli antichi ladri avevano aperto un piccolo varco ed erano penetrati nella tomba. Ma la scena che si PRIMA INTRUSIONE SECONDA INTRUSIONE INTRUSIONE DI CARTER
CAMERA DEL SARCOFAGO CAMERA DEL TESORO
PORTA 4 CAMERA LATERALE
CORRIDOIO
ANTICAMERA
PORTA 2 PORTA 3 DETRITI PORTA 1
Camera del sarcofago
Porta 4
Camera laterale
Porta 3
Corridoio
Anticamera Porta 2
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Camera del tesoro
Porta 1
In alto: pendente in oro di Amenofi III, scoperto insieme a una ciocca di capelli della sua sposa principale, la regina Ty. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio. Il monile faceva parte del tesoro di Tutankhamon. Sulle due pagine: assonometrie della tomba di Tutankhamon e schema delle violazioni subite dal sepolcro. Secondo Carter, i saccheggi, compiuti in età antica, avrebbero avuto luogo a una quindicina d’anni di distanza l’uno dall’altro.
presentò agli occhi degli scopritori fu quella di un disastroso saccheggio, bruscamente interrotto: «Non c’era oggetto che non portasse traccia del saccheggio e addirittura sul coperchio di un cofano erano ancora ben visibili le impronte dell’ultimo intruso». Tutti gli oggetti del corredo erano stati spostati, rovistati, talvolta frantumati e privati delle decorazioni in oro; i tanti cofani erano stati aperti e il loro contenuto gettato ovunque. Gli abiti e gli altri indumenti del re erano sparsi o ammassati miseramente, molti gioielli erano stati rotti nel tentativo di recuperare le parti con metalli preziosi. Il vasellame aperto e svuotato del contenuto pregiato. Le frecce, private della punta di bronzo, gli archi e gli innumerevoli bastoni erano stati sparsi come in un gigantesco shanghai. Un magnifico e prezioso corsaletto del faraone, di una tipologia conosciuta dagli egittologi solo dalle raffigurazioni, era stato rotto in piú pezzi, forse dalla furia avida di un litigio, e abbandonato. La concitazione e il nervosismo dei ladri si riconoscevano ovunque, come testimoniavano alcune parti di collari sbattuti contro il muro e lí rimasti incastrati per millenni. I ladri erano penetrati in tutti gli ambienti e avevano frugato ovunque. Erano arrivati persino a spezzare i sigilli del primo dei quattro sacelli dorati che circondavano il sarcofago di quarzite e, per fortuna, si erano fermati lí.
NESSUN RISPETTO PER LE SPOGLIE REALI Carter dedusse da numerose prove raccolte che le intrusioni e i furti nella tomba fossero avvenuti solo pochi anni dopo la morte di Tutankhamon. Dopodiché il sepolcro era fortunosamente sfuggito ai devastanti saccheggi che avevano dissacrato ogni mummia reale e trafugato ogni corredo funerario nei turbolenti anni intorno al 1000 a.C. tra la XX e la XXI dinastia. Ci sono i verbali che riportano quanto fu fatto, per ordine del sovrano allora regnante, per salvare almeno i corpi, o quello che ne restava, dei faraoni defunti e tentare di assicurare loro la prosecuzione della vita eterna. Quei verbali attestavano come le mummie fossero state private non solo del corredo funerario, ma che erano state sbendate per strappare i gioielli indossati e le maschere d’oro che ricoprivano i volti. Piea r c h e o 103
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tosamente riavvolte in fasce di lino e poste in sarcofagi di seconda mano, successivamente furono tolte dalle tombe originarie e tutte insieme nascoste nella tomba di Amenhotep II e soprattutto nella cachette di Deir el Bahari, dove rimasero al sicuro per secoli. Carter aveva letto e riletto quei documenti: Tutankhamon non era mai stato nominato, né la sua tomba compariva negli elenchi dei furti, né la sua mummia era tra quelle dei re ricomposti. Era già scomparso dalla memoria
Una delle statue deposte nella tomba del faraone e aventi la funzione di vegliare sull’eterno riposo di Tutankhamon. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
della storia appena trecento anni dopo la sua morte! Quello fu un indizio fondamentale, che lo convinse a credere tenacemente non solo che la tomba fosse nella Valle, ma che probabilmente fosse ancora intatta. Durante il meticoloso sgombero del corredo funerario, Carter raccolse le prove su quante intrusioni fossero avvenute, sulla sequenza dei furti e su cosa fosse stato portato via dai ladri. Dedusse che le intrusioni erano state due, forse tre. Riteneva probabile che la prima effrazione fosse avvenuta poco tempo dopo il funerale, quando il corridoio, tra la prima porta murata in fondo alla rampa di scale e quella di accesso alla prima stanza, detta l’Anticamera, era sgombro. Solo dopo il furto, per rendere inaccessibile l’ingresso, fu riempito il corridoio fino al soffitto con scaglie di calcare, ghiaia e pietrame. Infatti, proprio sotto quelle macerie, sul pavimento e sui gradini della scala interrata, Carter aveva trovato alcuni oggetti e frammenti del corredo, evidentemente abbandonati o perduti dai ladri in fuga. In un secondo momento i ladri erano penetrati nella tomba, forse in due ondate successive, scavando un tunnel in quel riempimento sconnesso, proprio vicino al soffitto del corridoio dove era possibile trovare spazi liberi. In quella seconda e terza effrazione riuscirono a entrare in tutte le stanze e a trafugare gli oggetti piú preziosi, ma necessariamente i piú piccoli, a causa delle anguste dimensioni del tunnel.
UN INTERVENTO FRETTOLOSO Dopo i furti, seguí un approssimativo intervento degli addetti alla necropoli e dei sacerdoti che provvidero a risistemare il corredo del faraone. Il lavoro di riordino fu eseguito in fretta e male. Gli oggetti che durante il funerale erano stati sistemati negli ambienti secondo una ben determinata collocazione rituale, furono accatastati senza troppi riguardi, dove capitava, con buona pace della loro precisa funzione nell’aldilà. Gli indumenti del re non furono ripiegati ma arrotolati e pigiati nei cofani senza badare al minuzioso elenco che sui coperchi ne descriveva il contenuto. Stessa sorte toccò ai sandali e agli oggetti della vita privata del faraone. I gioielli erano stati quasi totalmente trafugati, lasciando vuoti gli scrigni che li contenevano, sempre con un dettagliato elenco! Nel locale definito «Annesso» le suppellettili era104 a r c h e o
no talmente ammassate una sopra l’altra da rendere quasi impossibile la rimozione senza che avvenisse un crollo disastroso. Carter addirittura si fece sostenere in equilibrio con un’imbracatura di corde per raggiungere e rimuovere alcuni oggetti che incombevano, pericolanti, sospesi in bilico nello spazio e nel tempo cosí come li aveva stipati la maldestra squadra di riordinatori. Carter, con una certa ironia, sottolineò che, pur avendo eseguito un lavoro trasandato e frettoloso, almeno erano stati onesti in quanto nessun oggetto piccolo e prezioso, rimasto dal saccheggio, era stato sottratto. I pochi gioielli superstiti erano stati rimessi al loro posto. Dal minuzioso esame che l’archeologo fece di ogni pezzo recuperato, dalla posizione in cui era stato trovato e dalla relazione con gli altri oggetti, riuscí anche a ipotizzare la sequenza delle intrusioni e quanto e cosa fosse stato rubato. Dai pochi resti di oggetti appartenuti a corredi funerari di altre tombe e anche dalle confessioni dei ladri tramandate dai papiri, si sa che i saccheggiatori arrivavano a bruciare gli oggetti di legno per poter recuperare l’oro! La sacrilega cupidigia li spingeva ad aprire i sarcofagi, a trascinare fuori le mummie e a farle a pezzi per arrivare a recuperare tutti i gioielli e gli amuleti che ornavano il corpo del defunto. Tutankhamon fu risparmiato da questo scempio: il suo sarcofago era rimasto intatto. Quando tutto fu compiuto, come ultimo atto di rispetto, quasi un segno di riparazione, Carter volle che la mummia, danneggiata e spogliata da tutte le bende e da tutti i suoi gioielli piú cari e preziosi, fosse almeno lasciata nel sarcofago, nella tomba. Non volle rimuovere né un pettorale né un semplice e delicato copricapo e una fascia d’oro che gli cingeva le tempie. Un ultimo atto di pietà e di omaggio alla regalità del faraone. Purtroppo, questi ornamenti non ci sono piú, scomparsi anche con lo sterno del giovane re, profanati, non si sa quando, da moderne mani sacrileghe. «Risalimmo, con gli occhi bassi, quei sedici gradini che dovevano riportarci sotto la volta azzurra del cielo dove il sole è signore» ricordò Howard Carter «ma nel nostro intimo eravamo avvolti dallo splendore di quel faraone scomparso, con il suo ultimo appello scritto sul sarcofago: Madre Nut! Apri le tue ali su di me come le Stelle Imperiture».
Statuetta in legno dorato raffigurante Tutankhamon su una piccola barca mentre caccia con un arpione, dalla camera del tesoro. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio.
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GRANDI SCOPERTE E NUOVE RIVELAZIONI Incontro con Zahi Hawass Nei giorni in cui questo numero è stato stampato, il Sonesta St. George Hotel di Luxor ha ospitato un incontro internazionale, organizzato dall’American Research Center in Egypt in sinergia con il Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano, in occasione del centenario della scoperta della tomba di Tutankhamon, «Transcending Eternity: the centennial Tutankhamun Conference». Alla conferenza, che ha visto la presenza Lord George Carnarvon e Lady Fiona Carnarvon, discendenti di George Herbert, V conte di Carnarvon, finanziatore degli scavi condotti da Howard Carter, ha partecipato Zahi Hawass, rivelando le cause della morte del faraone-bambino e ripercorrendo la storia della sua vita. Qualche giorno prima, abbiamo incontrato l’archeologo egiziano, che in questa intervista esclusiva concessa alla nostra rivista, ha anticipato alcune delle novità e ha anche fatto il punto sulle sue ultime scoperte, tra cui quella della «Città Dorata» di Amenhotep III, che gli è valso l’8° International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», consegnatogli in occasione della XXIV Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum.
◆ Professor Hawass, come mai
l’insediamento che avete scoperto – e che avete ribattezzato «Città Dorata» – è stato voluto da Amenhotep III sulla riva occidentale del Nilo, terra riservata alle sepolture e al culto dei morti? «Amenhotep III fu un sovrano
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importante, forse il piú importante della XVIII dinastia. Disponeva di un palazzo a Malqata e di un tempio funerario a Kom el-Hettan, in funzione dei quali fece sorgere il nuovo insediamento, perché lí sarebbero stati realizzati gli oggetti destinati al palazzo e al tempio. E poiché Malqata e Kom el-Hettan si trovano entrambi sulla riva occidentale del Nilo, è logico che anche il nuovo nucleo si trovasse su quella sponda».
◆ Il nome dato alla città – Tjehen-
Aten, o Aton «abbagliante» – e la sua posizione che guarda a est, al sorgere del sole, possono far pensare a un inizio del culto di Aton prima di Akhenaton? «Sí, siamo dell’opinione che il culto di Aton sia stato creato da Amenhotep III. In uno dei palazzi è stata trovata una grande rappresentazione dell’Aton e la città è denominata l’“Aton abbagliante”, cosí come il palazzo a Malqata era
detto “Palazzo dell’Aton abbagliante”. Amnhotep III adorò Aton, ma ebbe la sagacia di non ripudiare le altre divinità. Quando Akhenaton trasferí la sua capitale ad Amarna, disse che aveva fondato la nuova città per suo padre, l’Aton, il dio del disco solare, ma anche padre vero e proprio, Amenhotop III».
◆ Per quanto tempo la città fu
abitata? Quanti abitanti contava? Si può ipotizzare che questo eccezionale ritrovamento urbano possa far parte di una città piú grande (che inglobava anche l’insediamento scavato e documentato nella metà degli anni Trenta da Clément Robichon e Alexandre Varille)? «Possediamo iscrizioni relative alla terza festa Sed celebrata nel trentasettesimo anno di regno di Amenhotep III. Ciò permette di affermare che Amenhotep III utilizzò la città almeno nell’ultima parte del suo regno. Crediamo che Akhenaton abbia abitato nella città fino al suo quarto anno di regno, quando cominciò a trasferirne gli abitanti ad Amarna. Abbiamo osservato che le case della città furono chiuse quando ebbe inizio il trasferimento. E vi sono anche iscrizioni del tempo di Smenkhara, che regnò dopo Akhenaton, dalle quali si evince che la città tornò a essere abitata dopo il regno di quest’ultimo. Quel che abbiamo trovato è solo una parte di un insediamento ben piú esteso. La Città Dorata si estende anche a ovest e sud verso Medinet Habu. Quel che abbiamo finora riportato alla luce non è che un terzo, a mio avviso, dell’intera città, il che ne fa, comunque, il piú vasto nucleo urbano a oggi noto in Egitto».
◆ Perché il grande
faraone Amenhotep III
In alto: testa in ebano, gesso e oro della regina Tiye, moglie di Amenhotep III e madre di Amenhotep IV/Akhenaton. Berlino, Museo Egizio. Nella pagina accanto: l’archeologo egiziano Zahi Hawass e, sullo sfondo, i resti di Tjehen-Aten, o Aton «abbagliante», ribattezzata la «Città Dorata». In basso: placchetta raffigurante Amenhotep III con la regina consorte Tiye e le figlie. 1387-1348 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
non si fece costruire la tomba nella Valle dei Re, optando per una valle adiacente, ma secondaria? «Credo che Amenhotep III avesse intenzione di dare vita a una nuova valle funeraria per sé e per i membri della sua famiglia. A oggi, in quest’area sono state individuate solo poche tombe: conosciamo quella di Ay (KV 23); la KV 65, nella quale furono depositati gli oggetti
utilizzati per costruire i monumenti funerari; la KV 25, in origine destinata ad accogliere le spoglie di Akhenaton; e la KV 24, il cui proprietario è sconosciuto. È probabile che la valle fosse riservata solo a persone legate ad Amenhotep III e crediamo che qui debba trovarsi il sepolcro di Nefertiti. Una parte della valle non è stata scavata e speriamo di trovare nuove tombe».
◆ I suoi scavi nella Valle
Occidentale ci fanno capire che è alla ricerca di altre tombe importanti, della regina Tiye e forse della stessa Nefertiti, quali sono le prossime ricerche? «La regina Tiye fu probabilmente sepolta ad
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Amarna. Amenhotep III volle che parte del suo sepolcro le fosse riservato, ma, come ho detto, è piú probabile che sia stata sepolta ad Amarna, mentre regnava Akhenaton. Tuttavia, la mummia della regina venne successivamente spostata nella Valle dei Re e fu trovata nella tomba KV 35, in una cachette insieme ad altre mummie reali. Come accennavo, nella Valle siamo alla ricerca del sepolcro di Nefertiti. Nel contempo, stiamo esplorando anche la Valle Orientale, nella quale speriamo di trovare le tombe di Thutmosi II, Amenhotep I o Ramesse VIII. Stiamo inoltre effettuando indagini nell’area che si trova a ridosso della tomba di Hathsepsut, con la speranza di imbatterci nei sepolcri di regine e principi della XVIII dinastia,
quando la Valle delle Regine non era ancora stata utilizzata».
◆ Quando è prevista l’inaugurazione
del GEM, Great Egyptian Museum, il nuovo Museo di antichità egizie del Cairo? «A oggi, purtroppo, è impossibile dirlo. Si tratta di una decisione che spetta alle massime autorità nazionali e comunque c’è ancora molto lavoro da fare. In particolare, si deve provvedere alla pavimentazione dell’area antistante il museo per ricavare un parcheggio e un percorso pedonale che colleghi il museo alle piramidi. Penso comunque che l’inaugurazione potrà avere luogo nel 2023».
Il celebre busto di Nefertiti, in pietra calcarea e stucco dipinto, alto 47 cm, da Tell el-Amarna. XVIII dinastia, regno di Akhenaton (1348-1331 a.C.). Berlino, Neues Museum.
◆ Le bare dei faraoni, già portate al GEM, saranno riunite ai corredi funerari o ci sarà una nuova Sala delle Mummie?
«La maggior parte delle mummie non si trova al GEM. È possibile che Tutankhamon vi venga portato, ma la decisione non è stata ancora presa. Tutti gli oggetti trovati nella tomba del giovane faraone verranno in ogni caso riuniti per la prima volta nel nuovo museo, compresi i sarcofagi».
◆ Qual è lo stato degli studi sul
DNA degli ultimi faraoni della XVIII dinastia? «Negli anni ho dato conto nelle mie pubblicazioni dell’identificazione di Akhenaton, di un’anziana donna trovata nella KV 35 che si è rivelata essere la regina Tiye, di una donna piú giovane come madre di Tutankhamon e figlia di Amenhotep III. Attualmente stiamo lavorando all’identificazione dei resti di Nefertiti e Ankhesenamon (moglie di Tutankhamon, n.d.r.). Abbiamo prelevato campioni di DNA da tutte le mummie della XVIII dinastia e li stiamo mettendo a confronto con quelli delle altre mummie
identificate. Tuttavia, al momento non posso dire quando sarà possibile pubblicare i risultati di queste ricerche».
◆ Di chi era figlio Tutankhamon? «Era figlio di Akhenaton e della giovane donna trovata nella KV 35, della quale ignoriamo il nome, ma sappiamo che era figlia di Amenhotep III e Tiye. Sappiamo che la coppia ebbe cinque figlie e dunque una di loro doveva essere la madre di Tutankhamon». ◆ Come si è arrivati ad attribuire ad
Akhenaton lo scheletro ritrovato nella tomba KV55? «La tomografia ci ha fornito l’età della mummia, che è risultata compatibile con gli anni del regno di Akhenaton. L’analisi del DNA ha quindi confermato che si trattava del figlio di Amenhotep III e della donna
identificata come Tiye, nonché padre di Tutankhamon».
◆ Come è morto Tutankhamon? «Le tomografie eseguite sulla mummia di Tutankhamon hanno rivelato che il giovane sovrano era afflitto da numerosi problemi fisici. Aveva un piede deforme e aveva contratto la malaria. Sappiamo anche che due giorni prima di morire si era ferito ad una gamba ed è probabile sia morto a causa di questo incidente. Al momento stiamo effettuando l’analisi del DNA per stabilire se la ferita riportata avesse provocato un’infezione e se quest’ultima possa essere stata la causa della morte». ◆ La mummia di Tutankhamon sarà
portata al Cairo, al GEM, o rimarrà nella tomba dove l’aveva lasciata Howard Carter?
Nella pagina accanto, in basso: Howard Carter esamina il sarcofago di Tutankhamon e, qui sotto, Zahi Hawass compie la medesima operazione sulla mummia del faraone, morto a soli 19 anni di età.
«Una decisione in tal senso non è stata ancora presa. Le autorità che sovrintendono al sito di Luxor vorrebbero che la mummia non venisse trasferita, ma personalmente credo che sarebbe opportuno portarla al GEM, che ha già accolto tutti i materiali rinvenuti nella tomba del faraone. Credo inoltre che il nuovo museo garantirebbe migliori condizioni di conservazione della mummia».
◆ Professore, ha in programma
nuove campagne di scavo? «Al momento stiamo conducendo indagini nella Valle Orientale, ma ci sono almeno 60 aree nelle quali contiamo di operare, la maggior parte delle quali non sono state mai scavate. Continueremo anche il lavoro nella Città Dorata, rispetto alla quale sono di particolare interesse nuove scoperte riguardanti il lago e le prove della presenza del faraone Smenkhara, che ritengo possa essere in realtà Nefertiti che regnò dopo Akhenaton. La mia équipe è impegnata anche nella tomba di Ramesse II, la piú grande della Valle dei Re: abbiamo accertato che la sua costruzione ebbe inizio nel primo anno di regno del faraone e trovato cartigli che recano una versione piú antica del suo nome. Il pozzo del sepolcro fu decorato adottando uno stile inedito prima dell’avvento di Ramesse II. Con i suoi 175 m di lunghezza, il monumento è il piú vasto della Valle e custodisce la piú lunga versione a oggi nota del Libro dei Morti e l’ora quinta e sesta del Libro delle Porte. Infine, il mio team opera anche a Saqqara, nei pressi delle piramidi: in quest’area abbiamo compiuto molte scoperte di notevole interesse, fra cui le statue trovate a Gisr el-Mudir».
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Maurizio Zulian, Graziano Tavan
NELLA TERRA DI PAKHET Carnet de voyage nelle province centrali dell’Alto Egitto. Appunti di trent’anni di esplorazioni Marsilio Arte, Venezia, 576 pp., ill. col. 65,00 euro ISBN 979-12-546-3040-2 www.marsilioeditori.it
Un diario di viaggio trentennale nelle terre dell’Egitto Centrale, lontano dai percorsi turistici, volto alla documentazione di una vera terra incognita preclusa, spesso, agli stessi studiosi, una guida scientifica ma anche un racconto di emozioni, incontri, riflessioni: le quasi seicento pagine di Maurizio Zulian, corredate da piú di ottocento magnifiche fotografie scattate da lui stesso e da un ricco strumentario di approfondimento (bibliografia, indice analitico, glossari, cartine e tavole cronologiche) curato da Graziano Tavan, rappresentano uno strumento di conoscenza unico e straordinario delle 110 a r c h e o
antichità conservate in quello che gli egittologi chiamano «Medio Egitto». Pubblichiamo, per gentile concessione degli autori e dell’editore, la prefazione al volume, firmata dall’archeologa e egittologa Edda Bresciani. Questo bel libro può essere inteso nella pratica, e come indicato subito nel volume stesso, come una «guida» archeologica del Medio Egitto, tra la zona centrale del Cairo e la zona dell’Alto Egitto, tra Beni Suef e Sohag, un’ ampia regione che trova la sua espressione «mitologica» nel titolo principale del libro: «Nella terra di Pakhet»; Pakhet era una dea leonessa, un
felino potente «grande di magia», con caratteri che l’avvicinavano sia a Bastet-la-gatta sia a Sekhmet-la-leonessa, e la cui area di culto era appunto nel Medio Egitto. Ma a me piace molto il sottotitolo: «Carnet de voyage nelle province centrali dell’Alto Egitto. Appunti di trent’anni di viaggi», ed è questo spirito di esplorazione che sostiene e fa originali le relazioni di viaggio di Maurizio Zulian, fornendo un manuale che gli amanti di archeologia egiziana avranno sempre accanto, come opera di consultazione, di confronto, di aiuto anche bibliografico, grazie alle schede dei siti e all’elenco dei riferimenti,
utilmente disposti in ordine cronologico alla fine del volume. Ho conosciuto l’autore molti anni fa, a Rovereto, in occasione di una delle rassegne internazionali del cinema archeologico, e mi aveva molto impressionato la sua passione manifesta per i luoghi meno noti del Medio Egitto, da lui fotografati e schedati; ho seguito poi, lungo gli anni, i suoi fruttuosi rapporti con il Museo Civico di Rovereto, al quale ha donato la banca dati dell’intera documentazione, e del quale è stato fatto «Conservatore Onorario». Durante vari decenni (e inch’Allah avverrà ancora per altrettanti...)
la «Terra di Pakhet» ha visto Maurizio Zulian passare, col cuore saldo del viaggiatore solitario, da luogo in luogo archeologico, di volta in volta il piú remoto e il piú irraggiungibile, da un taftish all’altro, da un bicchiere di the all’altro bevuto con gli ispettori, i protettori delle antichità fuori dai circuiti turistici, tutti amici del visitatore franghi, cosí competente ed esperto da essere lui molte volte a far da guida, lui a mostrare la locazione di tombe e di monumenti A sinistra: la luna rossa sul deserto occidentale. In basso: bassorilievo dipinto raffigurante un cane nella tomba di Pepi-ankh a Quseir el Amarna.
spesso dimenticati. O troppo remoti... Dai viaggi e dalle ripetute visite dello Zulian, con la macchina fotografica sempre all’erta, col taccuino di appunti sempre pronto, è nato questo libro ricco di quasi 600 pagine, che illustra ben trentun siti archeologici; pagine ricche di mappe, foto d’insieme e di particolari, a colori, che sono da ammirare oltre che da leggere e consultare; sono descrizioni e foto di monumenti spesso poco reperibili altrove, tombe spesso non nominate se non in una specialissima bibliografia, visitate magari da viaggiatori di due o tre secoli fa (Pococke, Wilkinson,
Lepsius…), e qui invece narrate per il lettore moderno con semplicità e con amore. Che Maurizio Zulian sia da avvicinare a un viaggiatore «poeta» dell’800, Gustave Flaubert, mi sembra una giusta e condivisibile proposta del suo amico e collaboratore Graziano Tavan. Certamente nelle pagine del volume, dopo minuziose e puntigliose descrizioni di scene dipinte in tombe troppo spesso in stato di degrado o di distruzione, incontriamo osservazioni che nascono non da letture ottuse, ma dal muoversi col cuore fra le rovine, nelle oscure stanze di tombe antiche, direi da un viaggiare dal quale lo
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Zulian ricava emozioni, sospiri, ricordi, desideri. Mi piace molto anche che in qualche sito archeologico risuoni una voce, antica o recente, dell’Italia: el Hiba, Ossirinco, Qau el Kebir, Antinoe… Lungo il viaggio, da Beni Suef verso Sud, ci sono molti luoghi speciali, per l’archeologia ma non soltanto; penso a Deir el Bersha di cui scrive lo Zulian: «Il sole, una palla di fuoco, sta tramontando a Ovest sulla sponda opposta e con i suoi raggi sembra incendiare quest’arsa falesia. Da quassú il panorama è splendido e mentre ammiro la Valle del Nilo mi sovviene un breve testo, unico nella letteratura funeraria
dell’Antico Egitto, scritto su sei sarcofagi lignei del Medio Regno rinvenuti in questa necropoli e che mi ha affascinato da quando lo lessi la prima volta. È un breve testo che riporta le parole del demiurgo e fa riferimento all’eguaglianza degli uomini. Concetti che erano già patrimonio di questa civiltà oltre 4000 anni fa». Naturalmente, c’è Amarna. Il nome, già da solo, ha una suggestione inevitabile (Aton, Ekhnaton, Nefertiti, Akhetaten, lo scultore Thutmosi, le lettere cuneiformi dei sovrani ittiti…), e si apprezzano le quasi 80 pagine dedicate nel volume a questa immensa riserva archeologica; e non si
può tacere della loro illustrazione fotografica, unica, introvabile, preziosa. Di Amarna lo Zulian conosce, e ce le descrive grazie al suo obbiettivo e alla sua cultura storica e archeologica, le piú segrete eccellenze. Spesse volte si concorda con lo Zulian nel lamento sull’Egitto del passato; cosí a el Hammamiya: «Ogni volta che torno in siti archeologici che ebbi modo di visitare in altre stagioni, forse piú fortunate, constato spesso cambiamenti che non mi appassionano». Le Tombe di Fraser suscitano nell’autore impressioni pittoriche che ci incantano: «Giunto in prossimità del sito, scendo dall’automobile
Un tipico paesaggio lungo il corso del Nilo.
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per osservare in assoluta tranquillità il paesaggio: il netto e forte contrasto tra il verde intenso dei campi coltivati e il colore della nuda roccia dell’arsa falesia che ospita la necropoli non manca di affascinare il visitatore. Sembra una metafora dell’esistenza». Con quanto piacere ho letto le pagine di Maurizio Zulian, quante volte ho ritrovato i sentimenti di chi, come me, ha passato ben oltre quarant’anni in Egitto, conoscendo e amando il paese. Chiudo con alcune parole dello stesso Maurizio Zulian, il solitario fotografo dell’Egitto eterno: «Nelle mie vecchie fotografie dell’Egitto vedo quello che non c’è piú o non ci sarà piú».
presenta
VICHINGHI UNA STORIA EUROPEA di Tommaso Indelli Sul finire dell’VIII secolo, l’Inghilterra viene investita per la prima volta dalle incursioni di gruppi provenienti dal Grande Nord: sono i Vichinghi, un popolo che, da quel momento in poi, farà molto parlare di sé, soprattutto perché la loro comparsa sulla scena della storia è segnata da razzie e violenze. Nel tempo, tuttavia, l’espansione di questi abili navigatori e temibili guerrieri assume connotazioni diverse e le genti vichinghe si insediano stabilmente in molte regioni del Vecchio Continente e la loro cultura si fonde con quella delle genti autoctone. Ecco perché, oggi, possiamo a buon diritto considerarli fra gli attori principali degli eventi che scandiscono i secoli dell’Alto Medioevo europeo e non soltanto di quello scandinavo. Alla loro parabola è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», nel quale Tommaso Indelli ripercorre l’intera vicenda di questa popolazione e sottolinea l’eredità che essa ha lasciato, permettendoci di scoprire, per esempio, che anche l’Italia, almeno per quanto riguarda le sue regioni meridionali, ha avuto un importante passato «vichingo». Storie come sempre accompagnate da un ricco apparato iconografico e cartografico, che contribuisce a inquadrare nel modo migliore i caratteri salienti dell’era vichinga.
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