Archeo n. 454, Dicembre 2022

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LUCE SULL’ARCHEOLOGIA

HAL SAFLIENI

QUARTO FLEGREO VETULONIA

CASTEL GOFFREDO

SPECIALE STANDARDIZZAZIONE

LETTERATURA

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M SPECIA AL LE TA

LA LUNGA NOTTE DI

HAL SAFLIENI

I MISTERI DI UN ANTICO SEPOLCRO

TUTTE LE COLPE DI NERONE VETULONIA

TESORI DALLA CITTÀ PERDUTA

ROMA E LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

SPECIALE

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 13 DICEMBRE 2022

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2022

Mens. Anno XXXVIII n. 454 dicembre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 454 DICEMBRE

CAMPI FLEGREI

€ 6,50



EDITORIALE

DENTRO IL SACRO È una fortuna poter dedicare l’ultimo editoriale dell’anno a un evento di cui noi – e anche i nostri lettori, naturalmente – avevano sentore da tempo: la scoperta, nel santuario etrusco e romano del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, di uno straordinario insieme di statue votive in bronzo, piú di venti, databili tra il II e il I secolo a.C. L’importanza e le potenzialità degli scavi del Bagno Grande erano evidenti sin dalle prime indagini (si vedano, a questo proposito, i nostri articoli pubblicati sui numeri 434, aprile 2021, e 440, ottobre 2021; anche on line su issuu.com). La notizia dei nuovi ritrovamenti risale agli inizi dello scorso novembre ed è stata diffusa con l’enfasi che merita. Ad «Archeo» spetterà il compito di presentare le scoperte del santuario in tutta la loro complessità, cosí da condividere un’esperienza che ha rappresentato – lo ricorda l’archeologa Ada Salvi – «un inestimabile momento di arricchimento culturale e umano». Per farlo, però, aspettiamo gli esiti delle indagini in corso sui reperti: verranno comunicate in un convegno che avrà luogo il 25 e 26 gennaio all’Università per Stranieri di Siena, dal titolo «Dentro il sacro: multiculturalismo e plurilinguismo nello scavo del Bagno Grande a San Casciano dei Bagni». Il racconto che sta per emergere da questa fortunata avventura archeologica è, infatti, intenso, affascinante e per tanti versi nuovo. In maniera impropria è stato evocato il parallelo con i Bronzi di Riace, di cui quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla scoperta. Quel ritrovamento fu, e rimane, un caso straordinario, anche per l’assenza di un contesto che ne avrebbe potuto accertare la provenienza, l’identità e la destinazione (vedi la nostra Monografia n. 50, agosto/settembre 2022). Contesto che, invece, nel caso del Bagno Grande esiste e ci permetterà – come annunciano il direttore del progetto scientifico Jacopo Tabolli e il direttore dello scavo, Emanuele Mariotti – «di comprendere il valore rituale delle offerte, la natura dell’antico luogo sacro, la sua complessa architettura destinata a raccogliere le potenti acque della sorgente». Agli archeologi di San Casciano dei Bagni, dunque, auguriamo di proseguire con successo il loro lavoro. E a voi, cari lettori, un Natale felice e un sereno Anno Nuovo. Andreas M. Steiner Dall’alto: prime operazioni di restauro su una delle statue emerse dal Bagno Grande; gli archeologi Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli (con la statuetta di un infante); i due archeologi con Agnese Carletti, sindaca di San Casciano dei Bagni.


SOMMARIO EDITORIALE

SCAVI I volti di un antico melting pot 6

INCONTRI L’arte come sentimento del sublime MOSTRE L’occhio di Horus e altre storie IN DIRETTA DA VULCI Tutti pazzi per Mitra

di Elisa Pompianu

di Carlo Casi

3

di Andreas M. Steiner

SCAVI Lungo l’antico fiume

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di Giampiero Galasso

PASSEGGIATE NEL PArCo La storia comincia dal basso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Una villa con tutti i comfort 12 a cura di Alessandra Randazzo

di Paola Francesca Rossi

ARCHEOFILATELIA Cosí esotici, cosí familiari...

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La memoria del sottosuolo

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M SPECIA AL LE TA

amministrazione@timelinepublishing.it

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Tesori dalla città perduta

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di Simona Rafanelli

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CAMPI FLEGREI

I MISTERI DI UN ANTICO SEPOLCRO

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In copertina la «Sleeping Lady», o «Dormiente», statuetta rinvenuta nella «Camera dipinta» dell’Ipogeo di Hal Saflieni. 3300-3000 a.C. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia.

Presidente

Federico Curti

LA LUNGA NOTTE DI

VETULONIA

TESORI DALLA CITTÀ PERDUTA

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXVIII n. 454 dicembre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE STANDARDIZZAZIONE

Amministrazione

CASTEL GOFFREDO

Impaginazione Davide Tesei

QUARTO FLEGREO VETULONIA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

€ 6,50

HAL SAFLIENI

HAL SAFLIENI

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

48 MOSTRE

di Andreas M. Steiner

LUCE SULL’ARCHEOLOGIA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

22

SCOPERTE

2022

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

21

di Flavia Marimpietri

ARCHEO 454 DICEMBRE

Anno XXXVIII, n. 454 - dicembre 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

di Raffaella Iovine e Maria Teresa Urso

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Salaria Vecchia, scoperte nuove

Una «piramide» nella Campania felix 48

di Luciano Calenda

di Giancarlo Sani e Franco Rossi

FRONTE DEL PORTO La memoria delle ossa

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di Stefano Bertoldi

di Martina Almonte e Federica Rinaldi

SCAVI L’eremita dal braccio forte

A TUTTO CAMPO Quel paesaggio fermo nel tempo

www.archeo.it

NOTIZIARIO

IN EDICOLA IL 13 DICEMBRE 2022

Attualità

o. it

Dentro il sacro

STORIA

LETTERATURA

TUTTE LE COLPE DI NERONE

arc454_Cop.indd 1

SPECIALE

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

ROMA E LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

30/11/22 18:00

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Martina Almonte è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa. Giampiero Galasso è giornalista. Raffaella Iovine è archeologa. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Elisa Pompianu è archeologa. Manuele Putti è borsista di ricerca all’Università degli Studi di Siena. Simona Rafanelli è direttrice del MuVet-Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. Alessandra Randazzo è giornalista. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Paola Francesca Rossi è funzionario antropologo del Parco archeologico di Ostia antica. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Giancarlo Sani è fondatore del Centro Arte Rupestre Toscano. Maria Teresa Urso è archeologa.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/3

«Condannato» all’abiezione 70 di Giuseppe M. Della Fina

70 MUSEI

La ricchezza dell’acqua 78 di Cristina Ferrari

Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Inganni d’autore

90 108

di Francesca Ceci

LIBRI

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SPECIALE

Un impero fatto in serie

90

di Flavio Russo

Illustrazioni e immagini: Alamy Stock Photo: copertina (e p. 44, in alto) e pp. 36/37, 42/43 – Cortesia Servizio Associato Comunicazione, Unione Comuni Valdichiana Senese: p. 3 – G. Alvito, Teravista: p. 6 – Elisa Pompianu: pp. 6/7 – Stefano Ricci: p. 7 (alto e basso) – Cortesia Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso: p. 8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14-16, 22, 48/49, 50 (basso), 51, 52, 54-59; A. Ferro: p. 53 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 18-19 – Manuele Putti: pp. 24, 25 (alto) – Studio Inklink, Firenze-Università di Siena: p. 25 (basso) – Cortesia Soprintendenza Speciale ABAP di Roma: pp. 26-29 – Doc. red.: pp. 38 (alto, a destra, centro e basso), 40 (alto), 44 (basso), 45, 70, 73, 74, 90/91, 95, 102/103, 106 (basso), 107 (basso), 108-109 – Daniel Cilia: pp. 40 (basso), 41 – Cortesia MuVet-Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi», Vetulonia: pp. 62, 64 (alto); Stefano Cocco Cantini: pp. 60, 68-69; Paolo Nannini/SABAP Siena, Grosseto e Arezzo: pp. 60/61, 63 (sinistra), 64/65, 66 (centro), 66/67, 67; Archivio MuVet: pp. 63 (basso), 66 (alto); Gabinetto fotografico Direzione Regionale dei Musei della Toscana: p. 64 (basso) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 71, 96-97, 101 (basso), 106 (alto), 107 (alto); Fine Art Images/Heritage Images: p. 75; Fototeca Gilardi: p. 76; Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 77; Electa/Antonio Quattrone: p. 87; Erich Lessing/K&K Archive: p. 90; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Paolo Manusardi: p. 92; Album/Pedro Carrión: p. 99; Electa/Sergio Anelli: pp. 100/101 – Shutterstock: pp. 72, 80 (basso) – Cortesia MAST, Museo di Arte, di Storia e del Territorio, Castel Goffredo: pp. 78/79, 81, 82-86, 88 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: p. 93 – Flavio Russo: ricostruzioni virtuali alle pp. 94, 101, 102 (basso), 103 (basso), 104-105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 38, 50, 80. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Sardegna

I VOLTI DI UN ANTICO MELTING POT

N

ella Sardegna centromeridionale, in corrispondenza del moderno centro di Villamar (provincia del Medio Campidano), si trova un insediamento punico del IV-III secolo a.C., che è un esempio di grande interesse per la conoscenza del popolamento rurale nei secoli dell’egemonia cartaginese sull’isola. Dal 2013 nel sito viene indagata la necropoli, che occupa un costone roccioso nel quale furono scavate tombe a camera ipogea, con altri spazi contermini utilizzati per deposizioni in fossa, alla cappuccina, a cassone e in enchytrismos, destinate ad accogliere inumati; dalla seconda metà del III secolo a.C. si diffusero poi nuovi costumi funerari con incinerazioni in anfora. La molteplicità delle soluzioni e delle ritualità funerarie a oggi documentate sembra in parte riflettere la peculiarità della composizione etnica e culturale della popolazione del sito, risultante anche dallo studio antropologico e biofisico dei defunti. Per esempio, grazie anche alle analisi genetiche, è stata

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accertata la presenza di individui di provenienza africana, come una donna nera (MtDNA L2), insieme ad altri caratterizzati da varie mescolanze genetiche, che rivelano aspetti di grande interesse per lo studio dei fenomeni migratori e di integrazione tra gruppi umani. Grazie a un progetto del Comune di Villamar cofinanziato della Fondazione di Sardegna (Bando Annuale «Arte, Attività e Beni Culturali» 2021) è in corso la ricostruzione facciale di alcuni volti della necropoli, a partire dai crani di due soggetti di sesso femminile, una caucasica e una subsahariana, provenienti da una tomba a camera In alto, sulle due pagine e in basso: vedute della necropoli in corso di scavo nel territorio di Villamar (Medio Campidano), dove è stato individuato un insediamento punico del IV-III sec. a.C.

ipogea con ingresso a pozzo verticale, utilizzata a lungo per numerose sepolture. La ricostruzione delle fattezze del volto delle due donne è stata ricavata a partire da una copia del cranio in resina fotopolimerica, ottenuta mediante la stampa 3D di un modello virtuale realizzato con scansione effettuata con tecnica fotogrammetrica (Teravista, software Metashape).


A destra: proiezione virtuale della ricostruzione facciale di uno dei crani sui quali è stata condotta l’operazione. A sinistra: una ricostruzione facciale in corso d’opera.

Per la ricostruzione facciale (Stefano Ricci, Università di Siena) si utilizza la metodologia nota come «protocollo di Manchester», che impiega sia gli spessori muscolari, sia la modellazione del volto attraverso la ricostruzione dei tessuti muscolari. La ricostruzione viene effettuata con materiale finemente modellabile (plastina); il risultato finale è ottenuto grazie a una replica in resina del modello in plastina, colorato e caratterizzato con capigliatura dell’epoca. Le indagini nella necropoli di Villamar sono svolte grazie alla concessione rilasciata dal Ministero della Cultura al Comune di Villamar e in collaborazione con l’Università di Sassari (Dissuf). La direzione scientifica degli scavi è affidata a chi scrive, affiancata dall’antropologa Clizia Murgia e dall’archeozoologo Gabriele Carenti. Elisa Pompianu

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n otiz iario

SCAVI Padova

LUNGO L’ANTICO FIUME

I

l Polo Ospedaliero patavino è stato interessato da indagini di archeologia preventiva condotte in vista dello scavo di fondazione dell’edificio destinato al reparto della nuova Pediatria. Non è la prima volta che l’area del nosocomio è oggetto di interventi archeologici: già negli anni Novanta del secolo scorso, nell’area prossima alla ex Pneumologia e alla vicina Clinica Ostetrica, alcuni saggi avevano delineato un quadro insediativo con una iniziale presenza a scopo coltivo, con canalizzazioni agrarie, databile tra la tarda età del Ferro e l’epoca della romanizzazione (III-I secolo a.C.), seguita in età romana imperiale dall’impostazione di settori di necropoli e di insediamenti a carattere artigianale-produttivo. Rispetto a quel quadro, le nuove indagini, pur in assenza di sepolture – salvo una tomba a inumazione infantile di epoca presumibilmente tardo-romana – hanno accertato la presenza di un corso d’acqua attivo in età preromana, che scorreva in senso ovest-est lungo tutta la fascia settentrionale del cantiere.

In alto e in basso: immagini dello scavo condotto nell’area del costruendo reparto di Pediatria del Polo Ospedaliero di Padova.

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«Sulla sponda meridionale del fiume, già sensibilmente ridotto di portata o addirittura interrato – spiega Cinzia Rossignoli, funzionario archeologo responsabile di zona – in età romana viene impostata una strada con manto in pezzame laterizio, giunta a noi in uno stato di conservazione molto residuale, limitato alle due opposte estremità del cantiere: lacerti dello stesso tracciato erano già stati messi in luce in alcuni sondaggi eseguiti in passato nella stessa area. Sull’asse viario si affacciavano, su entrambi i lati, strutture murarie, di cui rimangono tracce di fondazioni, probabilmente pertinenti a magazzini o a edifici artigianali e produttivi. Nell’area ovest, dove lo scavo è ancora in corso, è stato messo in luce, lungo il fronte meridionale della strada, un ampio edificio a pianta quadrangolare, suddiviso in vani, con presenza di prodotti di combustione (carbone, cenere), piccoli fornetti e alcuni drenaggi localizzati di anfore, che venivano collocati sotto i piani di calpestio con lo scopo di deumidificare e bloccare eventuali risalite dell’acqua di falda. Alcune “finestre stratigrafiche”, costituite da profonde fosse

moderne che, ripulite in parete, lasciano intravedere in parete e sul fondo gli strati piú antichi, sembrano mostrare la presenza di un deposito archeologico abbastanza spesso e stratificato. Come di prassi, le ricerche sul campo continueranno attraverso lo scavo manuale e la documentazione di quanto esposto, anche con l’ausilio di tecnologie avanzate come ortofotopiani, sorvoli con drone, consulenze e prelievi per analisi specialistiche. Non si segnala, al momento, il rinvenimento di manufatti di particolare rilievo funzionale o in stato di conservazione piú che frammentario, comprese le anfore utilizzate a scopo di bonifica. I reperti mobili verranno in ogni caso classificati e studiati al fine di ottenere una puntuale datazione delle fasi del sito». Lo scavo archeologico, diretto dalla Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso, è stato condotto dalla ditta Malvestio Diego & C. di Concordia Sagittaria (VE), con il coordinamento sul campo di Gaspare De Angeli. Il telerilevamento con l’ausilio di droni è curato dalla Archetipo di Padova. Giampiero Galasso



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

LA STORIA COMINCIA DAL BASSO I SOTTERRANEI DEL COLOSSEO SONO STATI NUOVAMENTE OGGETTO DI UN INTERVENTO CONDOTTO DA ARCHEOLOGI E SPELEOLOGI. I CUI RISULTATI HANNO FORNITO UNA PREZIOSA MOLE DI DATI SULLA VITA DELL’ANFITEATRO E LE ABITUDINI DEI SUOI FREQUENTATORI

«L

a comprensione della struttura idraulica di un monumento, se raggiunta, rappresenta un passo importante sulla strada della sua comprensione globale. Il sistema di adduzione e scarico rappresenta infatti la vera intelaiatura portante dell’edificio, ne riflette la vita, i restauri, i cambi d’uso; esso rappresenta la proiezione nel sottosuolo delle linee essenziali del progetto originario e, piú che in superficie, può evidenziare relazioni edilizie con eventuali fasi precedenti. (…) esso può essere considerato per cosí dire l’apparato radicale della sua costruzione. Questo è particolarmente vero e importante per il Colosseo, che viene a innestarsi su di un’area, quella degli stagna Neronis, già interessata da una situazione idraulica molto complessa». Cosí scrivevano Gianluca Schingo e Rossella Rea nel 1993 (Il progetto di restauro del Colosseo. I sotterranei: assetto idraulico e interventi strutturali tra XIX e XX secolo, in «Bollettino di Archeologia», 1993, pp. 65-86) e, a 30 anni esatti da parole che suonavano come una profezia, oggi – grazie ai lavori intrapresi

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nell’ambito del Grande Progetto Beni Culturali 2015-2016 – è possibile fornire alcuni dati fondamentali che contribuiranno all’avanzamento della ricerca.

DALLA VALLE AL FIUME

Sesterzio in oricalco di Marco Aurelio. 171-172 d.C. Al dritto, il profilo del principe; al rovescio, Marco Aurelio, velato, che compie un sacrificio.

Ci riferiamo ai risultati scaturiti dallo scavo del collettore fognario cosiddetto «sud» del Colosseo, lungo 71,19 m, uno dei quattro collettori radiali che garantivano il deflusso delle acque e le convogliavano nella valle del Colosseo, da dove venivano quindi dirottate verso il Tevere. Ma ci riferiamo anche alle ispezioni speleologiche realizzate con il supporto di Roma Sotterranea, incaricata del servizio, in occasione delle quali siamo scesi lungo i tombini presenti sulla piazza, attraversando la rete di collettori esistenti al di sotto, in particolare lungo il versante meridionale rivolto verso il Celio, intercettandone le connessioni con il collettore sud attraverso ulteriori condotte. Obiettivo di queste ispezioni, mai tentate prima, era ed è quello di comprendere meglio dal punto di vista conoscitivo e funzionale le modalità di smaltimento delle acque del comparto ipogeo del monumento,


Il collettore sud del Colosseo in una foto scattata nel corso dell’intervento di scavo (maggio 2022). da sempre (dobbiamo tornare indietro fino agli inizi dell’Ottocento) un problema «irrisolto» o solo parzialmente «risolto», a volte anche con interventi che hanno comportato danneggiamenti all’edificio, basti pensare alla trasformazione del cosiddetto Passaggio di Commodo in fogna alla metà del XIX secolo. Le operazioni di scavo, svolte in maniera stratigrafica, con una metodologia appositamente affinata in cavità artificiali, hanno permesso di liberare circa 70 m di interro archeologico, consentendo di documentare le caratteristiche tecniche e morfologiche della condotta, realizzata in casseforme lignee per la gettata del conglomerato cementizio, con soffitto a doppio spiovente e pavimento in bipedali. Lo scavo ha anche permesso di raggiungere il punto di connessione della cloaca con preesistenti strutture,

attribuite in letteratura a epoca tardo-repubblicana. Il riscontro della presenza di bolli laterizi della metà/seconda metà del I secolo d.C. su questa struttura idraulica preesistente ci ha indotto a riconoscervi un’azione di rifunzionalizzazione in età neroniana, nell’ambito delle opere idrauliche realizzate per la costruzione dell’invaso dello stagnum e successivamente una continuità d’uso da parte dei Flavi per lo smaltimento delle acque dell’anfiteatro sin dai primi spettacoli sull’arena.

PULIZIE E MANUTENZIONE Particolarmente abbondanti si sono poi dimostrati i dati utili alla ricostruzione delle ultime fasi di uso e frequentazione del Colosseo. I materiali rinvenuti nello scavo del collettore sud rappresentano la fotografia di un contesto che, nella sua unitarietà funzionale, dovette

essere attivo ed essere mantenuto sgombro con frequenti pulizie per lungo tempo: raccontano della vita sugli spalti e degli spettacoli sull’arena le monete perdute, i dadi e le pedine da gioco, ma anche i pettini per le acconciature femminili o i frammenti di cuoio per l’abbigliamento degli uomini. Molto vari sono i resti carpologici (da gherigli di noci a semi di pesche e melone, fino alle more) che testimoniano il consumo di pasti sugli spalti, e le ossa di animali, da ricondurre, in particolare per quelle relative a specie di grandi dimensioni e non destinate ai consumi della tavola (leoni, leopardi, orsi), alle note venationes che si svolgevano sul piano dell’arena, in corso di studio nei laboratori di paleobotanica e archeozoologia rispettivamente delle Università «Sapienza» di Roma e del Salento. Martina Almonte, Federica Rinaldi

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ALL’OMBRA DEL VULCANO a cura di Alessandra Randazzo

UNA VILLA CON TUTTI I COMFORT UN INTERVENTO DI PULIZIA ARCHEOLOGICA IN UNA DELLE PIÚ RAFFINATE RESIDENZE DELL’ANTICA STABIAE HA FATTO EMERGERE I RESTI DI UN IMPIANTO IDRAULICO PERFETTAMENTE CONSERVATO. A CONFERMA DELLA SAPIENTE GESTIONE DELLE RISORSE IDRICHE NELLE CITTÀ VESUVIANE

D

a Villa Arianna, nel sito archeologico dell’antica Stabiae, durante nuovi lavori di pulizia archeologica connessi al progetto per il miglioramento della fruizione e l’abbattimento delle barriere archeologiche, riemergono elementi della vita quotidiana del vasto complesso residenziale. Villa Arianna, cosí

denominata dopo il ritrovamento di un affresco a soggetto mitologico nella parete di fondo di un triclinio, è il piú antico dei complessi residenziali della città, sorto, assieme a Villa San Marco e al cosiddetto Secondo Complesso, sul ciglio del pianoro di Varano a Castellammare di Stabia. Lo scavo quasi integrale della villa risale

all’epoca borbonica, quando, sotto la direzione dell’ingegnere Carlo Weber tra il 1757 e il 1762, diverse esplorazioni sotterranee portarono in luce decorazioni pittoriche, musive, statue e suppellettili varie. La villa si estende per circa 3000 mq e la sua pianta risulta molto articolata nei diversi quartieri di abitazione e di servizio che si adattano alla particolare conformazione non uniforme della collina e che sono riemersi grazie ai numerosi scavi successivi a quelli borbonici, tra i piú importanti dei quali vi sono quelli condotti da Libero D’Orsi a partire dal 1950.

GOVERNARE I FLUSSI Oggi, i lavori di pulizia archeologica hanno fatto riemergere una testimonianza degli scavi recenti con un oggetto che, nella sua semplicità, risulta eccezionale in quanto faceva parte in antico del sistema idrico della Villa. Nello specifico si tratta di un riduttore idraulico in piombo decorato già individuato nel luglio del 2010 dagli scavi della Fondazione «Restoring Ancient Stabiae» e dal Museo dell’Ermitage nel giardino del peristilio 91. Trovato in giacitura originaria e sfuggito agli scavatori borbonici che agirono dal gennaio del 1758, oltre alla particolarità

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tecnologica, il manufatto mantiene un ottimo stato di conservazione e, insieme ad altri pezzi rinvenuti, permette di apprezzarne la funzione, che era quella di ridurre la potenza dell’acqua in arrivo da una tubazione a gomito e ripartirne i flussi in due opposte fistulae. Collegate al cilindro principale, infatti, si dipartono le tre tubazioni di cui due in direzione del vicino quartiere termale e l’altra, sul lato opposto, verso l’impluvio, cioè la vasca centrale di raccolta delle acque piovane dalle coperture dell’atrio; le due tubazioni minori presentano

Il riduttore di pressione venuto alla luce nel corso del recente intervento di pulizia archeologica condotto nella Villa Arianna di Stabiae. Nella pagina accanto: una veduta esterna di Villa Arianna e l’ambiente in cui è stato trovato il riduttore.

La parete di fondo del triclinio di Villa Arianna, dominata dal grande quadro ad affresco che raffigura Arianna abbandonata da Teseo. I sec. d.C. ancora le due chiavi di arresto in bronzo, perfettamente conservate.

UN MARCHIO DI FABBRICA? Una decorazione con astragalo a rilievo decorava la superficie del cilindro del riduttore di pressione, tanto da fare ipotizzare che il manufatto potesse essere parzialmente a vista e non, come di consueto, disposto in un pozzetto interrato cosí da permettere l’agevole accesso alle due chiavi di

arresto per regolare il flusso dell’acqua o chiuderlo del tutto al fine di consentire la manutenzione degli impianti. L’astragalo ornamentale forse caratterizzava la bottega che l’ha prodotto, come una sorta di marchio di fabbrica o di qualità da lasciare a vista. Il ritrovamento del ripartitore durante la campagna di scavo del 2011, aveva aperto un possibile nuovo campo di studi per la migliore comprensione del sistema di approvvigionamento e gestione

idrica dei complessi delle Ville della collina del Varano e ora si auspica che l’averlo riportato nuovamente alla luce possa far riavviare le indagini conoscitive di questi temi ancora cosí poco conosciuti per il sito dell’antica Stabiae. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCAVI Toscana

L’EREMITA DAL BRACCIO FORTE

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perduta nei boschi di Poggio Lagacci, a pochi chilometri dall’abitato di Petroio (Siena), la Grotta (o Buca) del Romito fu parzialmente esplorata, nei primi anni Settanta del secolo scorso dall’Associazione Speleologica Senese e, a sorpresa, rivelò la presenza di una scultura in altorilievo con fattezze umane. Sul pavimento antistante la statua, mescolati a detriti, frammenti di ceramica acroma e di maiolica arcaica indicarono un orizzonte cronologico compreso tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento. Una dettagliata relazione, con rilievo e foto, venne consegnata al professor Antonio Mario Radmilli (Università di Pisa, Istituto di Antropologia) e alla competente Soprintendenza. Successivamente fu organizzato uno scavo, che permise di liberare completamente il corridoio d’accesso, scavato nella roccia naturale e provvisto di gradini, che immetteva nell’ambiente ipogeo, una camera quadrangolare quasi completamente occupata da depositi di terra, dai crolli di massi calcarei e detriti di varia natura per la maggioranza laterizi. Tra le strutture portate alla luce si segnalano un pilastro in mattoni, un piano orizzontale ricavato da una rientranza della parete e una costruzione, in parte crollata, riconducibile a un focolare date le tracce di bruciato e carboni. Nel suo complesso, l’ambiente sembrava potersi identificare con una tomba etrusca ricavata in una grotta carsica e riutilizzata in epoca medievale quale luogo di culto. Situata sulla parete destra della cavità, la scultura antropomorfa misura 2 m d’altezza ed è larga, all’altezza delle spalle, 70 cm; rispetto alla parete è rilevata di 4

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cm. A metà delle spalle inizia il collo, di forma leggermente trapezoidale, che si unisce alla testa circolare dal diametro di 40 cm. La lavorazione del manufatto ha richiesto un sensibile ribassamento dell’intera superficie parietale. Nella parte alta della scultura sono ancora visibili tracce di colore rosso, probabile pigmento ferroso, che identificano, in maniera schematica, un volto formato da due occhi circolari, un naso triangolare e, sotto, una linea orizzontale che rappresenta la bocca. Nel corpo si intravedono, a malapena, striature verticali che fanno pensare a una sorta di tunica. Da notare che la scultura è completamente ricoperta da velature di carbonato di calcio depositato dalla percolazione delle acque, mentre le tracce di pittura sono soprastanti la velatura e sono perciò piú recenti del manufatto antropomorfo. Alla base della scultura si vedono protuberanze che rimandano alla schematizzazione dei piedi appoggiati su uno scalino di pochi

Grotta (o Buca) del Romito (Petroio, Siena). Dall’alto, in senso orario, il dromos d’accesso; uno speleologo si cala nel vano inferiore; la vaschetta definita come «acquasantiera».


centimetri. Alla destra del manufatto è scolpita una «acquasantiera», cioè una piccola vasca emisferica con un bacile rientrante nella roccia. La tecnica di incisione, piú rozza, e la mancanza della velatura calcarea indirizzano in questo caso verso un’epoca diversa per la datazione. L’interpretazione data al contesto e agli elementi descritti, come già accennato, suggeriscono l’ipotesi che l’ipogeo fosse, in epoca medievale un luogo di culto. Il sito è conosciuto da tempo come Grotta del Romito e alcune leggende locali vogliono che fosse stata abitata da vari eremiti, fra i quali si annovera il piú noto nella zona, vale a dire Bartolomeo Carosi, detto Brandano, nato a Petroio nel 1486 e morto a Siena nel 1554. Di lui parlano molti scrittori dell’epoca e le loro testimonianze contribuiscono a tracciare il profilo di una figura alquanto complessa. Dopo un incidente durante il suo lavoro di contadino che lo rese cieco da un occhio, cambiò radicalmente il suo tenore di vita di uomo dissoluto e bestemmiatore. Vestiva con un rozzo saio e girava con un teschio sotto il braccio e un crocifisso infilato nella corda di canapa che gli cingeva la vita. Andava sempre scalzo, dormiva all’addiaccio; si straziava il petto con pietre e bastoni e, pur essendo analfabeta, predicava nei crocicchi e nelle piazze lanciando invettive contro i ricchi e i potenti. Bizzarra figura di profeta quasi biblico, assegnava a ogni paese del contado senese un’apposita profezia. Gli fu dato il soprannome di Brandano per la grande forza delle sue braccia, ma lui stesso precisava che il suo braccio era una grande spada (brando), dono di Dio per castigare i peccatori.

La scultura antropomorfa scolpita a rilievo su una delle pareti della grotta che, come si può vedere dalla foto, conserva tracce di colorazione rossastra.

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A sinistra: un altro momento della discesa nel vano sottostante della grotta. In basso: il nicchiotto interpretato come alloggiamento di una lucerna alimentata con grasso animale.

Oltre al comportamento e ad atteggiamenti comuni piú o meno a tutti gli eremiti, Brandano si distinse per il suo impegno politico: visse nel tormentato periodo delle guerre tra Siena e Firenze, Francia e Spagna. La sua venerazione per la patria senese lo portava a minacciose intemperanze contro il dominio spagnolo di Carlo V e Diego Mendoza; tanto che fu piú volte bastonato a sangue dai loro sgherri e gli fu vietato di mettere piede in terra senese. Esiliato a Firenze, si procurò un barroccio, lo colmò di terra fiorentina, vi salí sopra e, con questo ironico stratagemma, che gli conferiva un’apparente immunità, si fece

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trasportare a Siena al cospetto del governatore spagnolo davanti al quale proclamò una minacciosa profezia che poi si avverò perché i Senesi, stanchi del dominio, riuscirono a scacciare con la forza tutta la guarnigione. Nella prima indagine, effettuata dalla Società Cooperativa Archeologica A.R.A. per conto della Soprintendenza, l’unica traccia di vita all’interno della cavità fu il ritrovamento di un focolare in parte crollato, ma con evidenti residui di bruciato e carboni. Nessuna ipotesi venne formulata rispetto alla scultura se non quella di un generico utilizzo (o riutilizzo) del luogo come luogo di culto paleocristiano in epoca medievale. Di recente, abbiamo ripreso l’indagine dell’ipogeo allo scopo di individuare altre tracce antropiche, tali da suggerire nuove ipotesi sulla frequentazione del sito e sulla sua funzione. Siamo cosí riusciti a raggiungere un vano sottostante, già intravisto nelle prime ricognizioni, e, rimuovendo materiale di riempimento (pietre e laterizi), siamo riusciti a penetrarvi. Anche questo ambiente è stato fonte di non poche sorprese: in primo luogo per la sua ampiezza,

ma, soprattutto, perché appare con tutta evidenza che lo spazio riempito è sicuramente di dimensioni e profondità notevoli e che il riempimento è senza dubbio coevo di quello superiore rimosso dallo scavo e legato all’ultimo periodo di utilizzazione. Altrettanto evidenti sono le tracce della frequentazione da parte dell’uomo, poiché una parte della grotta appare regolarizzata e in un punto abbiamo localizzato un nicchiotto utilizzato per alloggiarvi una lucerna in cui, per fare luce, si bruciavano sostanze grasse. La parte bassa del nicchiotto è infatti annerita dal grasso e dalla fuliggine, e lungo la parete si nota l’arrossamento della roccia cotta dal calore della fiamma (abbiamo incontrato un gran numero di tracce dello stesso tipo sia nei sotterranei etruschi di Chiusi, sia nei bottini medievali di Siena). Infine, proprio sopra il nicchiotto per la lucerna, abbiamo rilevato la presenza di un foro che sbocca nel dromos di accesso alla camera principale della grotta, che avevamo inizialmente notato solo dall’interno, perché chiuso con due lastre di pietra e mimetizzato dalle foglie. Non è chiaro se sia di origine naturale, ma, in ogni caso, è riadattato e regolarizzato dalla mano dell’uomo, come provano vari segni di lavorazione ancora ben visibili. Il riempimento del suolo e la relativa inclinazione potrebbero essere indizio della presenza di una tomba di epoca etrusca, anche in considerazione del fatto che nella vicina zona di Trequanda sono stati rinvenuti sepolcri etruschi a camera datati al III secolo a.C. Solo ulteriori indagini e scavi potranno tuttavia confermarne la presenza. Giancarlo Sani e Franco Rossi



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

LA MEMORIA DELLE OSSA LO STUDIO DEGLI SCHELETRI RESTITUITI DAGLI SCAVI CONDOTTI NELL’AREA OSTIENSE OFFRE L’OPPORTUNITÀ DI ARRICCHIRE IN MANIERA SIGNIFICATIVA LA RICOSTRUZIONE DELLA STORIA DEI SUOI ANTICHI ABITANTI

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ostituiti da tessuti mineralizzati, i componenti dello scheletro – ossa e denti – hanno la capacità di registrare in forma di segni indelebili gli eventi che si succedono nel corso della vita di un individuo, trasformandosi cosí in veri e propri «archivi biologici». Per l’antropologo, quindi, lo scheletro umano è una preziosa fonte di informazione, leggibile come un libro che contiene caratteri diagnostici i quali, riconosciuti e correttamente interpretati, permettono di ricostruire le biografie individuali o, piú appropriamente, le osteobiografie. Il Parco archeologico di Ostia antica, sempre piú attivo nella tutela e nello studio del territorio di competenza, conserva nei suoi depositi i resti umani provenienti da scavi chiusi anche da molto tempo. Si stima la presenza di oltre 1000 individui scheletrici recuperati in sepolture a inumazione e incinerazione rinvenute nel territorio di Ostia e Portus e databili dall’età imperiale all’Alto Medioevo: un insieme osteologico molto consistente, e destinato a crescere con i futuri ritrovamenti, il cui studio può contribuire significativamente alla conoscenza del popolamento antico della zona.

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Avvalendosi anche delle piú avanzate metodologie di indagine, sempre piú puntuali e meno invasive, l’antropologia o bioarcheologia è oggi in grado di cogliere i dati piú reconditi insiti nei tessuti scheletrici e di fornire quindi preziose informazioni su abitudini alimentari, movimenti di popolazioni, mescolanze genetiche, insorgenza e diffusione di importanti malattie del passato, ecc. Ciò assume un’importanza L’inumato «NL1» sottoposto a TAC per evidenziare alterazioni nella struttura ossea. Nella pagina accanto, in alto: il giovane di via di Sant’Ippolito, «S.I. TXV». Età tardo-antica. Nella pagina accanto, in basso: mandibola dell’uomo della Tomba IX di via di S. Ippolito (epoca tardo-antica), con ipoplasie dello smalto, segni di problemi di salute in età infantile.

ancora maggiore nel contesto del territorio ostiense e portuense, principale accesso a Roma dal mare e dunque un luogo privilegiato di scambio di merci, uomini e culture.

«MATERIALI SENSIBILI» Il Parco ha recentemente avviato uno studio sistematico di questi «materiali sensibili», con l’obiettivo di perseguire la massima integrazione dei dati antropologici con quelli archeologici e di ottenere


laboratori specializzati in analisi molecolari o diagnostica per immagini. Particolarmente dense di informazioni sono le patologie dentarie, l’incidenza delle carie e degli ascessi, come pure la presenza del tartaro. Questo, cosí dannoso per la salute delle gengive, fornisce infatti dati utili su dieta e abitudini culturali/ alimentari piú in generale.

DALLA TERRA E NON DAL MARE

cosí la piena contestualizzazione degli individui scheletrici nel territorio di riferimento. La ricostruzione del profilo biologico individuale ha inizio in laboratorio con l’analisi morfologica dello scheletro. In questa fase si osserva, si misura, si documenta, si analizza al microscopio ottico per definire l’identikit dell’individuo determinandone il sesso, l’età, la

statura in vita. Si cercano sulle ossa e sui denti eventuali tracce di stress, cicatrici che restano dopo un’alterazione momentanea del normale ritmo metabolico (per esempio l’ipoplasia dello smalto sui denti), segni di trauma o patologie piú importanti. È questo il momento del lavoro in cui si individuano eventuali problematiche da approfondire, sia con ricerche bibliografiche, sia in

Quanto alle popolazioni ostiensi, un promettente aspetto della ricerca riguarda l’individuazione di piccoli solchi sulle superfici occlusali dei denti, caratteristica ricorrente in diversi soggetti e spia di possibili attività lavorative. Tramite l’analisi al microscopio ottico e l’ausilio del microscopio elettronico a scansione (S.E.M), si vanno a analizzare i particolari minuti di questi solchi per verificarne la natura «extramasticatoria» e ipotizzarne la correlazione con determinate attività o forme di artigianato conosciute nella zona. Anche la composizione chimica dell’osso, analizzabile attraverso complesse analisi di spettrometria di massa isotopica, restituisce informazioni sulle abitudini alimentari delle popolazioni. Un primo dato che sta emergendo dallo studio condotto sugli abitanti di Portus in età altomedievale è il fatto che, a dispetto dell’ubicazione della città, la loro dieta sembra essere basata prevalentemente sui prodotti della terra, piuttosto che su quelli provenienti dalla pesca. Questo risultato è attualmente oggetto di attento studio e sarà confrontato con quelli delle analisi isotopiche condotte su altri individui della stessa zona ma vissuti in epoche diverse, allo scopo di comprenderne le abitudini alimentari nel corso dei secoli ed evidenziare le eventuali variazioni. Paola Francesca Rossi

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INCONTRI Roma

L’ARTE COME SENTIMENTO DEL SUBLIME

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stato presentato il programma dell’edizione 2023 di «Luce sull’archeologia». La nona edizione della rassegna, intitolata «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», propone un percorso tematico di grande suggestione, che esamina l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche come segno di prestigio sia politico che personale. Non solo esplorando la vita di alcuni dei protagonisti di un momento storico eccezionale, forse irripetibile, come Augusto, Livia, Cleopatra, ma anche riconoscendo una documentazione archeologica straordinaria: pitture, tarsie, oro, mosaici, iscrizioni e la decorazione marmorea di ville e palazzi sono solo alcuni degli elementi distintivi della società romana tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale. Esigenze di

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La locandina della IX edizione di «Luce sull’archeologia», in programma dal 15 gennaio al 16 aprile 2023. In basso: la facciata del Teatro Argentina, che ospita gli incontri della rassegna.

rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime,

come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. «Luce sull’archeologia» è un progetto curato dal Teatro di RomaTeatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Com’è ormai consuetudine, gli incontri saranno arricchiti dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, il calendario completo degli incontri. 15 gennaio: Livia Capponi, Il lusso di Cleopatra e la rivoluzione romana; Paolo Carafa, Regge fuori dalla città: dalle residenze aristocratiche ai palazzi degli Imperatori.


MOSTRE Torino

L’OCCHIO DI HORUS E ALTRE STORIE 29 gennaio: Laura Pepe, Nunc est bibendum. Bere vino in Grecia e a Roma; Francesco Sirano, Marte ama il giusto. I luoghi del banchetto e il lusso a tavola nelle case romane. 12 febbraio: Francesca Cenerini, I molti volti del «potere» di Livia, moglie di Augusto; Paolo Giulierini, Eleganza e cultura tra Pompei ed Ercolano nelle collezioni del MANN; Francesca Rohr Vio, La «pace insanguinata» di Augusto. Saper governare anche grazie al dissenso. 26 febbraio: Patrimonio culturale: tutela, conservazione, valorizzazione, intervengono Massimo Osanna, Gottardo Pallastrelli, Claudio Strinati e Stéphane Verger. 12 marzo: Piero Bartoloni, Miniere, metalli e gioielli nel mondo fenicio; Pier Giovanni Guzzo, Oro e potere nel Lazio arcaico. 26 marzo: Giovanna Di Giacomo, Oro, gemme e perle. Artigiani e vetrine del lusso nella Roma imperiale; Alessandro D’Alessio, Stefano Borghini, Il sofisticato lusso del potere: la cena rotonda della Domus Aurea. 16 aprile: Maurizio Bettini, Una parola magnifica e potente; Paolo Di Paolo, La parola oltre il sipario; Adriano La Regina, Teatro: spazio urbano della politica e del consenso. (red.)

DOVE E QUANDO «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato» Luce sull’archeologia-IX edizione Roma, Teatro Argentina dal 15 gennaio al 16 aprile 2023 Orario inizio degli incontri, 11,00 Info www.teatrodiroma.net

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ono gli amuleti i protagonisti dell’ultimo appuntamento dell’anno de «Nel laboratorio dello studioso», il ciclo di mostre che accompagna i visitatori dietro le quinte del Museo Egizio, alla scoperta dell’attività scientifica condotta dai curatori e dagli egittologi del Dipartimento Collezione e Ricerca del museo. Una selezione di 61 amuleti permette di compiere un viaggio tra le credenze, i desideri e le paure degli antichi Egizi e di approfondirne la mentalità e le pratiche magiche e religiose. Fulcro del progetto espositivo è un occhio udjat, realizzato in faïence, che risale al Terzo Periodo Intermedio (1076-722 a.C.), accompagnato da altri tre occhi udjat, realizzati nello stesso materiale, ma con caratteristiche diverse. L’udjat è uno dei simboli piú diffusi in forma di amuleto, che compare già a partire dall’Antico Regno (2592-2118 a.C.) e rimane in uso per moltissimo tempo. È legato al racconto mitologico di Horus e Seth, incarnazione del bene e del male, dell’ordine e del Caos. Horus, nella battaglia contro Seth, viene ferito a un occhio e poi guarito dalle abilità magiche e mediche di Thot. Il nome del segno, infatti, significa «integro». L’amuleto conferiva quindi una protezione magica, in grado di garantire l’integrità fisica e la rinascita di chi lo indossava sia in vita sia dopo la morte. In esposizione anche una selezione di oggetti realizzati in faïence, un materiale ricavato artificialmente, ampiamente apprezzato per le sue superfici colorate e brillanti e le sue

caratteristiche simboliche. Particolare attenzione è data alle tecniche di lavorazione di questo materiale e alle modalità di realizzazione degli oggetti. Gli amuleti e le tecniche per produrli, infatti, sono ancora un aspetto poco indagato. Nel 2021 il Museo Egizio, in collaborazione con il CNR di Catania, il MIT di Boston e l’Università di Torino, ha avviato indagini archeometriche, tuttora in corso, sugli amuleti realizzati in faïence, finalizzate ad analizzare i processi di produzione e le loro trasformazioni nel tempo. Tra i ricercatori coinvolti c’è la curatrice della mostra, l’egittologa Martina Terzoli, che ha curato un progetto di digitalizzazione della collezione degli amuleti del museo. Circa 2mila amuleti sono stati oggetto di uno studio approfondito, che ha dato luogo alla revisione scientifica della collezione, dalla datazione alle caratteristiche morfologiche dei reperti. Gli aspetti materici, in particolare gli amuleti realizzati in pietre dure, sono stati indagati grazie anche alla collaborazione con l’Università di Torino. Catalogati e digitalizzati, ora gli amuleti sono accessibili on line a disposizione della comunità scientifica e dei visitatori. (red.)

DOVE E QUANDO «Esplorare il mondo della magia: amuleti e faïence» Torino, Museo Egizio fino all’8 gennaio 2023 Orario ma-do, 9,00-18,30; lu, 9,00-14,00 Info www.museoegizio.it

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

TUTTI PAZZI PER MITRA VULCI, CON IL SUO MITREO, È COINVOLTA IN UN PRESTIGIOSO PROGETTO INTERNAZIONALE, INCENTRATO SUL CULTO DEL DIO DI ORIGINE IRANICA. E CHE HA FRA I SUOI OBIETTIVI LA DOCUMENTAZIONE DELLA VASTA DIFFUSIONE DELL’ANTICA DOTTRINA MISTERICA A NORD E A SUD DELLE ALPI

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el Museo Archeologico di Francoforte è stata inaugurata la mostra «I misteri di Mitra», organizzata in collaborazione con il Musée royal de Mariemont (Morlanwelz, Belgio) e il Musée Saint-Raymond di Tolosa (Francia), frutto di un progetto finanziato dal programma

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«Europa Creativa» dell’Unione Europea (https://mithra-project. eu). Per la prima volta, tre musei europei hanno unito le forze per presentare un’esposizione dedicata al mitraismo, uno dei culti piú affascinanti dell’antichità. Grazie a numerosi partner di cooperazione internazionale

(Germania, Italia, Belgio, Francia, Croazia, Ungheria, Romania), è possibile presentare i risultati delle ricerche attualmente in corso, e gettare uno sguardo sulla storia della ricezione del culto del dio d’origine iranica fino ai tempi moderni. In questo modo, è stato possibile offrire una visione insolita


Disegno ricostruttivo dello svolgimento di un rito in un mitreo. Nella pagina accanto: scultura in marmo raffigurante il dio Mitra che uccide il toro, denominata Gruppo Maggiore, dal mitreo di Vulci. III-V sec. d.C. Vulci, Museo Archeologico Nazionale. e nuova di questa divinità e del suo culto, che ancora oggi lascia domande aperte in molti ambiti. Ciascuno dei partner coinvolti nel progetto ha proposto un focus tematico e geografico diverso nella propria versione della mostra. A Mariemont, dove la mostra è stata allestita dal novembre 2021 all’aprile 2022, l’attenzione si è concentrata sugli studi religiosi, sulla storia della ricerca, con particolare attenzione per la figura di Franz Cumont (1868–1947) e per la Gallia, metre a Tolosa, l’obiettivo è stato puntato sulla Gallia meridionale e sulla Spagna.

DAI SANTUARI DELLA GERMANIA SUPERIOR La versione del Museo Archeologico di Francoforte si concentra invece sull’archeologia del culto di Mitra e, grazie alla sua posizione geografica, sui santuari di Mitra lungo il limes e nel Nord della Germania Superior. E proprio il museo tedesco possiede nella sua collezione un’ampia e significativa quantità di reperti provenienti dai santuari di Mitra della regione. Si tratta di monumenti in pietra

provenienti da tre santuari, scavati nel XIX secolo in quello che oggi è il distretto di FrankfurtHeddernheim, la Nida romana, «capitale» della Civitas Taunensium, e che da allora occupano un posto importante nella ricerca sulla diffusione del mitraismo nelle province nordoccidentali dell’impero romano. Di conseguenza, diversi monumenti in pietra provenienti dai templi di Mitra di Nida/FrancoforteHeddernheim fanno parte del nucleo comune della mostra. Nei mesi scorsi, per la prima volta dalla loro creazione, 1800 anni fa circa, e dalla loro riscoperta, avvenuta 200 anni fa, i due rilievi del Mitreo I e III, del peso di varie tonnellate e raffiguranti la tauroctonia, hanno lasciato Francoforte per recarsi in Belgio e nella Francia meridionale. In Germania vengono riuniti per la prima volta insieme altri santuari di Mitra provenienti dalla parte settentrionale della provincia della Germania superiore, l’entroterra del limes. L’obiettivo è quello di evidenziare la particolare ricchezza e diversità di questa regione, anche e soprattutto per quanto riguarda i monumenti del culto di Mitra, che fu significativamente influenzata dall’esercito romano. Ciascuno degli oggetti provenienti dai santuari è esposto nel contesto del suo luogo di ritrovamento. Inoltre, a Francoforte, la vista sulle Alpi si rivolge verso sud. Nell’ambito della collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale e la Fondazione Vulci, che tanto successo ha riscosso negli ultimi anni, è nata presto l’idea comune di presentare a Francoforte il mitreo di Vulci (vedi «Archeo» n. 378, agosto 2016; anche on line su issuu.com), finora poco conosciuto al di fuori dell’Italia, poiché non solo il

santuario e i reperti in esso recuperati, ma anche il contesto scientificamente documentato, l’inserimento nella città romana, possono essere considerati esemplari e di importanza sovraregionale. Questo vale anche per la questione della datazione della fine dell’uso dei santuari di Mitra all’inizio del V secolo.

NELL’ANTICO REFETTORIO Il transetto della chiesa carmelitana e il refettorio dell’ex convento dei Carmelitani di Francoforte sono utilizzati come spazi espositivi. Lí, nel refettorio, dove si è svolta la mostra «Leoni-Sfingi-Mani d’argento. Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci» (2 novembre 2021-8 aprile 2022), i reperti del mitreo di Vulci sono presentati in posizione centrale. La mostra, che gode del patrocinio del Console Generale d’Italia a Francoforte, Andrea Esteban Sama, sarà visitabile fino al 10 aprile 2023 ed è accompagnata da un ampio programma educativo e da conferenze scientifiche pubbliche organizzate in collaborazione con il Consolato Generale d’Italia a Francoforte. Curatore scientifico del progetto espositivo è il direttore del Museo Archeologico di Francoforte, Wolfgang David, che ha contribuito anche alla stesura del presente articolo e si è avvalso della collaborazione della SABAP per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale (nella persona di Simona Carosi) e della Fondazione Vulci (nella persona di chi scrive).

DOVE E QUANDO «I misteri di Mitra: un culto romano visto da vicino» Francoforte, Museo Archeologico fino al 10 aprile 2023 Info www.archaeologischesmuseum-frankfurt.de/

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A TUTTO CAMPO Manuele Putti

QUEL PAESAGGIO FERMO NEL TEMPO IL PROGETTO DI RICERCA SULL’INSEDIAMENTO DI MIRANDUOLO RIVELA LA STRAORDINARIA PERSISTENZA DEI CRITERI DI GESTIONE DELLE TERRE MESSI A PUNTO IN EPOCA MEDIEVALE

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iranduolo (Chiusdino, Siena) è un insediamento posto nella Val di Merse, sul limite orientale delle Colline Metallifere: è stato oggetto di uno scavo condotto dall’Università di Siena dal 2001 al 2016, con lo scopo di ricostruire la storia del sito e l’aspetto del paesaggio nel periodo medievale. Il luogo nasce nel VII secolo come centro minerario, per poi trasformarsi in un villaggio rurale con economia incentrata sulla produzione agricola e sullo sfruttamento delle risorse naturali. Nel corso del tempo ebbe un’evoluzione da insediamento di capanne a borgo in pietra, alle dipendenze della famiglia nobiliare dei Gherardeschi. Fu abbandonato definitivamente nel XIV secolo e da quel momento l’intera zona non fece piú registrare alcuna presenza insediativa, né nella forma di villaggio, né di podere sparso. L’assenza di interventi significativi da parte dell’uomo sull’ambiente, dopo il Medioevo, ha costituito uno degli aspetti piú interessanti e promettenti della ricerca. Lo studio dell’area è stato quindi condotto con approcci multidisciplinari, attinenti all’archeologia, alla

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A sinistra: veduta a volo d’uccello del contesto di Miranduolo visto da nord: in primo piano i terrazzi fluviali; in secondo piano il Poggio Fogari, sulle cui pendici è collocato il villaggio. A destra: una delle piante monumentali del castagneto secolare. geologia e alla geografia storica: il paesaggio è stato cosí scomposto e analizzato da vari punti di vista, giungendo finalmente a una visione d’insieme, che ha permesso di ricostruirne la formazione e la storia tra i secoli VIII e IX.

IL RETICOLO DEI CAMPI Il quadro che ne emerge è quello di un territorio statico, in cui sono ancora percepibili alcuni tratti dell’impronta data dal sito di Miranduolo nei primi secoli di vita, ed è caratterizzato da due aspetti.

Il primo riguarda i terrazzi fluviali che separano il poggio, dove sorge il sito, dal fiume Merse: qui il reticolo dei campi sembra essersi cristallizzato e molte delle divisioni visibili nelle fotografie aeree di metà Novecento sono già presenti nelle mappe di inizio Ottocento. Questi campi presentano misure compatibili con quelle adottate per le divisioni agrarie medievali. Non tutto è rimasto invariato, ma almeno parte dell’assetto conferito al paesaggio durante il Medioevo sembra essere fissato in modo


indelebile nel comprensorio; lungo i confini dei campi emergono tuttora tracce di un lungo passato di pratiche agrarie come piante secolari, muri a secco, fossi. Elementi che, considerati in modo separato, non sono necessariamente risalenti al periodo medievale: proposti, invece, attraverso una lettura globale del paesaggio contemporaneo, sono interpretabili come tracce di divisioni antiche. Il secondo aspetto da collegare alla vita di Miranduolo si cela nel bosco posto a monte del villaggio: qui si conserva un enorme castagneto fossile, composto da quasi 170 piante secolari, ormai morte o morenti, spesso cave al centro, che coronano tutto il poggio, concentrandosi in particolare nella fascia piú vicina al sito. Le vestigia del bosco sono imponenti, con alberi il cui

diametro arriva a sfiorare i 10 m. I frutti di queste piante sono stati recuperati in quantità all’interno dei magazzini altomedievali scavati nel sito, confermando il legame tra la nascita del castagneto e la vita del villaggio. Tale dato non deve sorprendere: proprio la lettura delle molte fonti storiche che descrivono queste zone, aree marginali della Toscana meridionale, aveva suggerito l’idea di un territorio con una perdita di centralità e di importanza iniziata già nel Basso Medioevo, sempre piú accentuata con il passare del tempo.

CASTAGNE E MAIALI All’inizio dell’Ottocento solo qualche seccatoio per castagne e sparute porcilaie punteggiano il poggio dove una volta sorgeva Miranduolo, nel frattempo sepolto dal bosco e dimenticato, in attesa di

In alto: archeologi, geologi e botanici impegnati nelle ricognizioni territoriali condotte nei dintorni del sito di Miranduolo. In basso: disegno ricostruttivo del paesaggio di Miranduolo visto da ovest: in primo piano, le aree estrattive di Colle Beccaio (1); al centro, il villaggio (2); sullo sfondo, il fumo della ferriera del Castelluccio (3); sulla sinistra, i terreni agricoli (4) sono attraversati dal fiume Merse e dal torrente Cona (5), suo affluente.

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essere riscoperto dagli archeologi. Neanche un podere ha riempito il vuoto, una circostanza assai rara nella Toscana della mezzadria. Ma se la memoria del villaggio è scomparsa, sul suo territorio si registra il processo opposto. Qui le tracce lasciate dagli abitanti di Miranduolo perdurano sino a oggi. È stato cosí possibile proporre una restituzione storica del paesaggio, strutturato quasi attraverso una divisione in fasce. Nell’area piú bassa, ai piedi del poggio, era collocato il distretto rurale, diviso in due aree, una delle quali quasi contigua e controllabile a vista, e una piú lontana, verso est, con specie che richiedevano minor cura quotidiana. Vi si coltivava prevalentemente il frumento, ma vi trovavano spazio anche la segale e, in misura minore, il farro, l’orzo, l’avena e il paníco. Accanto, o alternati a essi, erano coltivati legumi come la cicerchia e il favino. Sulle prime pendici si collocava parte dei vigneti, oltre ad aree destinate a orto; piú a est trovavano spazio gli ulivi e gli alberi da frutto, ma anche noci, peschi e fragole. Infine, a monte dello scavo, il castagneto già descritto e l’area di alta collina, in grado di fornire legname in abbondanza, impiegato come materiale edilizio e combustibile. Poche le zone adatte al pascolo: per l’allevamento di capre, pecore e maiali venivano probabilmente utilizzate con profitto le zone di media e bassa collina. (manuele.putti@gmail.com)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

SALARIA VECCHIA, SCOPERTE NUOVE IL SOTTOSUOLO DI ROMA NON CESSA DI STUPIRE: INDAGINI PREVENTIVE CONDOTTE NON LONTANO DA VILLA BORGHESE HANNO RIVELATO UNA STRADA ROMANA BASOLATA E UN MAUSOLEO. NE PARLIAMO CON FABRIZIO SANTI, L’ARCHEOLOGO INCARICATO DELLO SCAVO

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asoli in leucitite perfettamente conservati, muretti per contenere il passaggio dei carri, marciapiedi per i pedoni. Straordinaria è la scoperta di cui è stato teatro il quartiere Parioli, a Roma, poche decine di centimetri sotto l’asfalto moderno, dove ogni giorno sfrecciano automobili e motorini: in piazza Pitagora è venuto alla luce un tratto

eccezionalmente ben conservato di una strada romana basolata, fiancheggiata da un monumento funerario. Il rinvenimento ha avuto luogo nel corso delle indagini archeologiche condotte sotto la direzione della Soprintendenza Speciale di Roma nell’ambito dei lavori di Terna S.p.A. per la realizzazione della nuova linea elettrica in cavo interrato

Nomentana-Villa Borghese e getta nuova luce sulla topografia di Roma e sul tracciato delle sue antiche arterie stradali. Come ha dichiarato Daniela Porro, Soprintendente Speciale di Roma, «Ancora una volta abbiamo la possibilità di assistere a un ritrovamento di grande rilievo grazie alla sinergia tra la Soprintendenza e Terna.

Ortofoto della strada basolata venuta recentemente alla luce nel corso di scavi condotti a Roma, in piazza Pitagora, in previsione della posa in opera di una linea elettrica.

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Altre immagini della strada basolata, perfettamente conservata, rinvenuta a Roma e forse identificabile con un tratto della Salaria Vetus. Una delle molte collaborazioni virtuose che permettono alla cittadinanza di essere testimone di come si possano far convivere armoniosamente servizi per l’utenza e la tutela del patrimonio archeologico e culturale di Roma». Ci siamo dunque recati sul posto, mentre le indagini archeologiche erano in corso e lo splendido basolato romano a vista, per farci raccontare del ritrovamento dal direttore scientifico dello scavo, Fabrizio Santi, funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma. Dottor Santi, perché si tratta di una scoperta cosí importante? «È un rinvenimento eccezionale innanzitutto perché è emerso a una quota superficiale rispetto al piano dell’asfalto, a circa 1-1,5 m di profondità, e il saggio di scavo, anche se relativamente piccolo, ha restituito un’alta concentrazione di evidenze archeologiche. La scoperta è di grande effetto anche perché i basoli della strada sono molto ben conservati, pur trovandosi in un’area fortemente urbanizzata di Roma». Vi aspettavate di trovare una strada romana in quel punto della città? «Si tratta di un’area con importanti evidenze antiche. In piazza Pitagora, all’altezza dell’incrocio con via Bertoloni, si trovano le catacombe di S. Ermete. Alcuni metri piú in basso, a livello sotterraneo, passa l’acquedotto Vergine (che proviene dall’area di Villa Ada e viale Romania). In passato, inoltre, erano emersi altri tratti di basolato stradale lungo la direttrice di via Bertoloni». Ma non immaginavate, forse, di scoprire un basolato cosí imponente…

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«Si tratta di un tracciato stradale importante, con un basolato in leucitite (basalto vulcanico) largo 4 m, la larghezza tipica delle strade consolari romane, che permetteva il flusso dei carri nei due sensi di marcia. Si conservano i marciapiedi laterali per i pedoni, le cosiddette “crepidini”, e i blocchi di pietra chiamati “gomphi”, che delimitavano la carreggiata evitando che i carri occupassero il marciapiede. Sul basolato sono visibili i solchi dovuti al passaggio continuo delle ruote dei carri, rattoppati nel tempo anche con malta. Il monumento funerario, tipico delle grandi vie consolari, si affacciava direttamente sulla via lungo il suo lato orientale». Avete già un’idea in merito alla datazione della strada? «Il basolato è databile all’età imperiale, genericamente tra il I secolo d.C. e la prima metà del II. A mio avviso va ricondotto al I d.C. Disponiamo infatti di un terminus ante quem, rappresentato dal monumento funerario che, sul lato est, “taglia” i livelli di preparazione del basolato, occupando in parte il marciapiede. La struttura funeraria è divisa da un setto murario in due ambienti: all’interno di una camera abbiamo trovato una tomba a cassone che presentava parte del riempimento originario, dove abbiamo rinvenuto due lucerne pressoché integre databili tra l’ultimo quarto del II secolo e il primo quarto del III secolo d.C. (175-225 d.C.). Abbiamo trovato anche una moneta tardo-antica tra le fasi di frequentazione della strada: in quest’epoca, infatti, il tracciato fu molto usato». E veniamo al punto cruciale. Di quale strada si tratta? Potrebbe essere la Salaria Vetus nota dalle fonti tardo-antiche? «La questione è complessa e il tracciato stradale di questa strada è oggetto di dibattito tra gli studiosi da anni. Una cosa è certa: il nome

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In alto: una lucerna fittile restituita dagli scavi in piazza Pitagora. In basso: un’altra immagine della strada basolata in corso di scavo. Nella pagina accanto: una tomba scoperta in prossimità della strada. Salaria Vetus è attestato solamente nelle fonti tardo-antiche e altomedievali. Nel IV secolo, infatti, il calendario liturgico Depositio Martirum ricorda “Sant’Ermete sepolto nel cimitero di Bassilla lungo la Salaria Vetus”. Sul percorso di questa strada sono attestati altri importanti complessi catacombali, oggetto dei pellegrinaggi cristiani: nella zona dei Parioli, oltre alle catacombe di S. Ermete (presso cui si trova la nostra strada), sono documentate quelle di Panfilo su via Paisiello e quelle note con il nome di ad clivum cucumeris, tra via Denza e via Barnaba Oriani». Erano noti altri tratti di basolato

presumibilmente appartenenti a questa strada? «Nei decenni passati erano stati messi in luce alcuni tratti di basolato su via Bertoloni, tra via Rossini e piazza Pitagora e, piú avanti, all’incrocio con via Secchi. La nostra scoperta è una prova ulteriore dell’esistenza di questo tracciato diretto verso il Tevere e la via Flaminia». Quale tassello aggiunge la vostra scoperta al «rebus» sul percorso della Salaria Vetus, da molti anni oggetto di dibattito tra gli studiosi? «Gli studiosi hanno a lungo discusso sul percorso della Salaria Vetus. Intanto questo tracciato è diverso da quello della cosiddetta Salaria Nova, che corrisponde alla via Salaria odierna – lungo villa Ada – diretta verso la Sabina e comunque molto antica. La Salaria Vetus invece doveva uscire – almeno alla fine del III secolo d.C. – dalla Porta Pinciana delle Mura Aureliane e ricalcare il percorso delle attuali via Pinciana e via Paisiello. A questo punto esistono due ipotesi di tracciato. Alcuni ritengono che la strada, arrivata all’incirca all’altezza di viale Rossini, piegasse verso nord-est in direzione dell’antico centro latino di Antemnae, l’attuale Monte Antenne, quasi parallelamente alla Salaria Nova – ma sull’altro

versante della collina – con la quale si sarebbe ricongiunta prima dell’Aniene. Altri ipotizzano, invece, che la strada costeggiasse la collina dei Parioli, seguendo la direttrice di via Bertoloni e via Denza fino al Tevere e alla via Flaminia». La vostra scoperta sembra indicare che la Salaria Vetus seguisse quest’ultimo tracciato in direzione del Tevere… «Sembrerebbe l’ipotesi piú verosimile, anche se le indagini sono in una fase del tutto preliminare. Di fatto, il basolato rinvenuto fa parte di un tracciato diretto verso il Tevere e, se della Salaria Vetus si tratta, confermerebbe quest’idea. Qualora si volesse seguire, invece, l’ipotesi del tracciato alternativo (ossia che la strada piegasse verso Monte Antenne), il basolato da noi scoperto non apparterrebbe alla Salaria Vetus, ma a un’altra strada. C’è però un dato di fatto: le fonti tarde nominano la Salaria Vetus in relazione alla tomba di sant’Ermete. Il che sembra rendere piú attendibile l’ipotesi che la nostra strada sia la Salaria Vetus». Quindi il rebus ancora non è sciolto… e se fosse un diverticolo? «Ci sono ancora molti elementi sui quali occorre fare luce, compreso il motivo per cui la strada si chiamasse vetus: il nome potrebbe essere stato dato in epoca tarda, per indicare con approssimazione un tracciato piú antico. Sicuramente si tratta di una strada importante perché basolata, larga 4 m e diretta fuori dalla città… non ha certo l’aspetto di un diverticolo secondario. Dobbiamo ragionare su tutte le complesse questioni topografiche a cui abbiamo accennato. Di fatto, il tracciato lungo via Bertoloni documentato da questo e da altri rinvenimenti archeologici dimostra che esisteva una strada di una certa importanza, che molto probabilmente possiamo identificare con la Salaria Vetus».

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

COSÍ ESOTICI, COSÍ FAMILIARI... Le feste natalizie possono essere l’occasione di una gita di 1 qualche giorno per godere delle bellezze artistiche delle nostre città e, in questa chiave, ci permettiamo anche noi, appassionati di archeofilatelia, di fare una proposta ai nostri lettori. Suggeriamo loro, infatti, di venire a Roma per ammirare una collezione unica al mondo: i 13 obelischi dislocati 2 3 4 nelle piazze e nelle ville romane, 8 dei quali originali egizi mentre i rimanenti sono di epoca romana a imitazione di quelli egiziani e a volte realizzati con lo stesso granito proveniente dall’Egitto. È una parte di quel museo a cielo aperto che è la capitale, e come anteprima li mostriamo (quasi) tutti grazie ai francobolli 5 6 che li riproducono, iniziando con gli egiziani. Il primo è quello «Vaticano» posto in piazza S. Pietro al centro del 7 maestoso colonnato nel 1586: è l’unico obelisco che non è mai caduto (1). In piazza della Rotonda, davanti al Pantheon, c’è l’obelisco Macuteo (dal nome della piazza San Macuto dove venne rinvenuto) risalente all’epoca di Ramesse II (2). Poco distante, in piazza della Minerva, c’è il piú piccolo obelisco di Roma alto solo 5,47 m, proveniente dalla necropoli di Sais, giunto a Roma insieme a quello 8 9 del Pantheon e montato su un basamento costituito dalla 10 statua di un elefantino realizzata dal Bernini (3). Poi c’è il Flaminio a piazza del Popolo (4) proveniente dal tempio di Amon a Eliopoli e voluto a Roma da Augusto insieme a quello di Montecitorio (5) e infine quello di S. Giovanni in Laterano il piú alto di tutti, con i suoi 32 m, e 11 che merita due immagini per poterne apprezzare l’importanza (6-7). Gli ultimi due obelischi egiziani non hanno mai avuto l’onore di un francobollo e li mostriamo 13 in riproduzione fotografica: quello di Villa Celimontana, la cui parte superiore soltanto è originale (8), e quello delle 12 Terme di Diocleziano, detto di Dogali per commemorare i caduti dell’omonima battaglia in Eritrea (9), arrivato a Roma insieme a quelli del Pantheon e della Minerva. Ora è la volta degli obelischi fatti erigere dai Romani su imitazione di quelli egiziani; a volte i geroglifici sono stati riprodotti in modo errato o addirittura fantasioso. Cominciamo con quello di piazza Navona (10) detto 14 Domiziano perché portato a Roma per volere dell’imperatore con i due gemelli Esquilino a Piazza IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, Santa Maria Maggiore (11) e quello situato nella Piazza si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche del Quirinale (12). Gli ultimi due sono a Trinità dei Monti, per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: quello Sallustiano (13) che ricopia geroglifici dei Luciano Calenda Segreteria c/o faraoni Seti I e Ramesse II, e nei giardini del Pincio C.P. 17037 - Grottarossa Sergio De Benedictis l’altro, voluto all’epoca da Adriano in onore di 00189 Roma Corso Cavour, 60 - 70121 Bari Antinoo del quale porta il nome e che qui è lcalenda@yahoo.it segreteria@cift.club riprodotto solo in fotografia (14). www.cift.it oppure

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VI G TA IU , T LI RI O O C NF ES I E AR M E O RT E

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

GIULIO CESARE L’ULTIMO DITTATORE


Vercingetorige al cospetto di Cesare (o Vercingetorige getta le sue armi ai piedi di Cesare), olio su tela di Lionel Royer. 1899. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier.

N

ato da una delle piú illustri famiglie di Roma, la gens Iulia, Gaio Giulio Cesare non tarda a far valere le sue eccezionali doti di stratega e uomo d’azione. I successi colti alla testa dei legionari lo proiettano da protagonista sulla scena politica capitolina e la sua ascesa sembra destinata a non incontrare ostacoli. In realtà, piú d’uno manifesta diffidenza, se non aperta ostilità, e le lotte intestine culminano nella guerra civile, preceduta dal fatidico passaggio del Rubicone, in occasione del quale avrebbe pronunciato la celebre frase Alea iacta est («Il dado è tratto»). Uscito vincitore, Cesare diviene, di fatto, l’arbitro supremo dei destini della repubblica e ne rinsalda la supremazia sullo scacchiere mediterraneo. Riesce a superare indenne anche il malcontento generato dai favori concessi a Cleopatra, regina d’Egitto, ma nulla potrà contro la congiura infine ordita contro di lui. Il suo destino, preceduto da foschi segni premonitori, si compie nel marzo del 44 a.C., quando, colpito da ventitré pugnalate, si accascia nella Curia di Pompeo. La nuova Monografia di «Archeo» ripercorre la straordinaria parabola umana, politica e militare di un personaggio che piú di altri ha contribuito a fare la storia.

GLI ARGOMENTI • L’ASCESA • GUERRA E POLITICA • LA STORIA DELLA SCOPERTA • LA CONQUISTA DELLA GALLIA • L A GUERRA CIVILE

in edicola

• LA FINE

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CALENDARIO

Italia ROMA Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.01.23

Domiziano Imperatore

Odio e amore Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.01.23

Roma medievale

Il volto perduto della città Museo di Roma-Palazzo Braschi fino al 05.02.23

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro

Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23

BARUMINI (SU) Al di là del Mare

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23 (dal 18.12.22)

NAPOLI Bizantini

Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario Museo Archeologico Nazionale fino all’13.02.23 (dal 22.12.22)

OSTIA ANTICA (ROMA) Chi è di scena! Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022) Parco archeologico di Ostia antica fino all’08.01.23

POMPEI Arte e sensualità nelle case di Pompei Palestra Grande fino al 15.01.23

Etruria e Sardegna in mille anni di storia Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «G. Lilliu»-Area archeologica «Su Nuraxi» fino al 31.12.22

PORTICI (NAPOLI) Materia

BOLOGNA I Pittori di Pompei

PROCIDA, NAPOLI E BAIA

Museo Civico Archeologico fino al 19.03.2023

FOGGIA Arpi riemersa

Dalla rete idrica alla scoperta delle necropoli (Scavi 1991-1992) Museo del Territorio fino al 31.12.22

MILANO Il suono oltre l’immagine La decifrazione dei geroglifici Civico Museo Archeologico fino all’08.01.23

L’Orante

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.10.23 Museo Civico di Procida «Sebastiano Tusa» Museo Archeologico Nazionale di Napoli Parco Archeologico dei Campi Flegrei

I Greci prima dei Greci fino al 31.12.22

TORGIANO Bronzi e buccheri degli Dèi

Dai depositi del MANU alle sale del MUVIT MUVIT-Museo del Vino di Torgiano fino al 31.12.22

TORINO Esplorare il mondo della magia: amuleti e faïence Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino all’08.01.23

(…nel tuo nome alzerò le mie mani…) Museo di Sant’Eustorgio e della Cappella Portinari fino al 15.01.23

Il dono di Thot

Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú

TREMEZZINA (COMO) Canova, novello Fidia

Mudec-Museo delle Culture fino al 19.02.23 34 a r c h e o

Particolare di un ex voto etrusco, da Veio.

Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23 (dal 07.12.22)

Villa Carlotta fino all’11.12.22


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

TRENTO Lascaux Experience

La grotta dei racconti perduti MUSE-Museo delle Scienze fino al 12.02.23

VETULONIA (GROSSETO) A tempo di danza

In Armonia, Grazia e Bellezza Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino all’08.01.23

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon

Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

I creatori dell’Egitto eterno

Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone Basilica Palladiana fino al 07.05.23 (dal 22.12.22)

Francia PARIGI Oro e tesori

3000 anni di ornamenti cinesi L’École des Arts Joailliers fino al 14.04.23

LENS Champollion

La via dei geroglifici Louvre Lens fino al 16.01.23

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo

«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23

Grecia ATENE Ritorno a casa

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Regno Unito LONDRA Geroglifici

L’antico Egitto rivelato British Museum fino al 19.02.23

Svizzera BASILEA Ave Caesar

Romani, Galli e tribú germaniche sul Reno Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 30.04.23

USA NEW YORK Chroma

La scultura antica a colori The Metroplitan Museum of Art fino al 26.03.23

Vite degli dèi

La divinità nell’arte dei Maya The Metroplitan Museum of Art fino al 02.04.23

Germania AMBURGO Le nuove immagini di Augusto Potere e propaganda nell’antica Roma Bucerius Kunst Forum fino al 15.01.23

FRANCOFORTE I misteri di Mitra

Un culto romano visto da vicino Museo Archeologico fino al 10.04.23 a r c h e o 35


SCOPERTE • MALTA

LA MEMORIA DEL SOTTOSUOLO L’IPOGEO DI HAL SAFLIENI, NELLA CITTADINA DI PAOLA A MALTA, È UN COMPLESSO DI AMBIENTI SOTTERRANEI DI ETÀ NEOLITICA SCOPERTO ED ESPLORATO PER LA PRIMA VOLTA AGLI INIZI DEL SECOLO SCORSO. OGGI, UN IMPONENTE LAVORO DI CONSERVAZIONE E VALORIZZAZIONE PERMETTE DI INDAGARNE LA FUNZIONE E DI RIFLETTERE INTORNO AL SUO SIGNIFICATO PIÚ PROFONDO... di Andreas M. Steiner

Veduta del cosiddetto «Santo dei Santi», uno degli ambienti sotterranei del piano intermedio di Hal Saflieni, il santuario neolitico situato nella cittadina maltese di Paola. 36 a r c h e o


L

o scorso novembre si è svolto, nella magnifica cornice del Castello Aragonese di Baia, un seminario organizzato dall’Istituto di Studi sul Mediterraneo (CNR), incentrato su un problema tanto rilevante e affascinante quanto, forse, ancora poco presente nell’opinione comune: quello della «valorizzazione e gestione sostenibile del patrimonio culturale del sottosuolo». La riunione è stata l’occasione per presentare il recente volume curato da Giuseppe Pace e Renata Salvarani (Underground Built Heritage Valorisation: A Handbook, Edizioni del Consiglio Nazionale delle Ricerche), incentrato sugli aspetti dell’indagine, del restauro, della conservazione e, soprattutto, della fruizione pubblica delle architetture sommerse, dalla preistoria all’età moderna.

UNA SOLUZIONE ESEMPLARE Tra i numerosi casi presentati nel volume figura anche quello del cosiddetto Ipogeo di Hal Saflieni, una struttura sotterranea risalente a un periodo tra il 3300 e il 3000 a.C. e situata nella cittadina di Paola, sull’isola di Malta. Dal 1980 il sito è incluso nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO. A nostro avviso, Hal Saflieni rappresenta un caso esemplare di come una condizione di estrema criticità sia stata affrontata in maniera tale da garantire condizioni di massima sicurezza possibile sul piano conservativo e, al contempo, permetterne la visita al pubblico. Per lunghi decenni, a partire dalla sua scoperta nel 1902, questo straordinario esempio di architettura sotterranea neolitica era aperto a chiunque a r c h e o 37


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volesse addentrarsi nei cunicoli scavati nella roccia. L’aumento dell’umidità e l’assenza di un sistema di ventilazione (a cui si agg iungevano infiltrazioni d ov u t e a l l e i n f r a s t r u t t u r e danneggiate in un’area densamente costruita) stavano mettendo a rischio una delle componenti piú significative del monumento, le sue decorazioni parietali: ricordo come, nel 1991, insieme al fotografo Alberto Dagli Orti, trascorsi un giorno intero nelle fredde oscurità dell’Ipogeo – rischiarate appena dalla fioca luce di una lampadina –, con il compito di docu38 a r c h e o

Marsalforn Gharb Ghasri Xaghra San Victoria GOZO Lawrenz Xewkija Ghajnsielem Xlendi Sannat Comino

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Museo Nazionale di Storia Naturale

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Qui accanto: cartina dell’arcipelago maltese con la localizzione dell’Ipogeo di Hal Saflieni. A destra: lo studioso Themistocles Zammit (1864-1935), considerato il «padre» dell’archeologia maltese. In basso, da sinistra, in senso orario: Hal Saflieni, la decorazione a spirali (rese con ocra rossa) della cosiddetta «Stanza dell’ Oracolo»; la statuetta della «Dormiente» e una veduta della «Sala principale». Le foto sono datate al 1943.

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Banca Museo della Casa GiurataleCattedrale Viani Casa Testaferrata Casa Inguanez Tr iq Ing Convento ua di S. Benedetto nez Cappella d di S. Pietro Cappella di S. Agata Corte Torre Capitanale

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SCOPERTE • MALTA

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mentare le ampie volute tracciate con l’ocra rossa dagli anonimi artisti cinque millenni addietro. Al monumento sotterraneo si giungeva ancora scendendo una stretta scala a chiocciola, attraverso un’apertura nel pavimento di quella che appariva come la stanza di una semplice abitazione. A partire dall’anno 2000 – e dopo l’attuazione di un decennale progetto che prevedeva sistemi di monitorizzazione e regolarizzazione delle condizioni ambientali e climatiche del sito – all’Ipogeo si accede attraverso un centro visite. Un ulteriore miglioramento del sistema di monitoraggio ambientale è stato messo a punto tra il 2016 e il 2017, periodo durante il quale il monumento è rimasto chiuso al pubblico. Il numero di visitatori giornalieri oggi è contingentato: non piú di dieci, per un massimo di sei visite al

giorno. E cosí, le misteriose volute solo un anno dopo il suo rinvenisono ancora lí, sbiadite dai millenni, mento, nel 1903, sotto la guida di ma ancora visibili. padre Emanuel Magri (1851-1907), tra i piú accreditati studiosi delle antichità dell’arcipelago maltese. NELL’AREA Padre Magri vi lavorò fino al 1906, «DELLE GROTTE» La scoperta di Hal Saflieni avvenne, indagando i livelli intermedio e income già accennato, nel 1902, du- feriore della struttura sotterranea, rante i lavori edili in corso per la quando fu chiamato a svolgere realizzazione di nuovi quartieri abi- mansioni missionarie in Tunisia. tativi su un territorio in massima Morí a Sfax nel 1907, del tutto inaparte ancora adibito all’agricoltura spettatamente, senza aver completae dal tipico aspetto maltese, con to la relazione di scavo di cui, sforappezzamenti di terreno delimitati tunatamente, non sono mai stati da bassi muri a secco. Il tradizionale ritrovati gli appunti. nome maltese per quell’area, Tal Il proseguimento dei lavori venne Gherien («delle grotte») suggerisce affidato a Sir Themistocles Zammit che la presenza di cavità sotterranee (1864-1935): dopo aver fatto requifosse ben nota alla popolazione del sire i due edifici costruiti sopra la luogo. Gli scavi archeologici del sito struttura, il «padre dell’archeologia – il cui aspetto di superficie era sta- maltese» fu in grado di indagare to sfortunatamente compromesso anche il livello superiore dell’Ipodai lavori per la realizzazione dei geo. Nel l952 il monumento venne quartieri vittoriani – furono avviati sottoposto a una nuova indagine,

Planimetria e sezioni del piano inferiore di Hal Saflieni, realizzati da Nicola Vassallo nel 1907.

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SCOPERTE • MALTA

1 2. Sala principale al livello mediano

volta anche a verificare lo stato delle pitture in ocra che decoravano gli ambienti principali del livello intermedio. Negli anni tra il 1990 e il 1993, infine, una nuova campagna di scavo, condotta dagli studiosi Nathaniel Cutajat e Reuben Grima, ha riesaminato le aree esplorate da Zammit quasi un secolo prima. Gli scavi hanno, inoltre, offerto dati importanti a proposito dell’aspetto riguardante l’originario ingresso al monumento.

UNA MORBIDA PIETRA CALCAREA Qual era, dunque, e qual è tuttora, l’aspetto di Hal Saflieni? Si tratta, come risulta bene dal disegno ricostruttivo riprodotto in questa pagina, di una serie di cavità distribuite su tre piani sovrapposti, scolpite nella tipica, morbida pietra calcarea maltese (chiamata globigerina) esclusiva40 a r c h e o

PIANO SUPERIORE

2

3 PIANO INTERMEDIO

PIANO INFERIORE


UN SANTUARIO A TRE LIVELLI

L’Ipogeo di Hal Saflieni è composto da un articolato sistema di ambienti sotterranei, suddiviso su tre livelli per una profondità complessiva di 10,6 m. In origine, l’acesso era segnalato in superficie da una struttura megalitica (nell’immagine qui sotto).

1. Trilite al livello superiore 3. Santo dei Santi (livello mediano)

mente con strumenti in selce, ossidiana o corna d’animali. In origine, l’accesso all’Ipogeo avveniva attraverso un’apertura a livello del piano superiore, quello piú antico, ricavato scavando il fianco di una collina. Il livello intermedio, interamente scolpito (cosí come quello inferiore) nella roccia sottostante, riceveva la luce naturale attraverso una fessura dal livello superiore, ma i costruttori neolitici dovettero certamente avvalersi di torce o simili per muoversi negli oscuri meandri e nelle «sale» dei livelli intermedi e inferiore, quest’ultimo posto a circa 10,6 m sotto l’attuale livello di calpestio.

COSTRUIRE IN NEGATIVO Uno degli aspetti piú significativi di queste vere e proprie architetture ipogee è che esse appaiono come la replica «in negativo» degli elementi costruttivi che caratterizzano le grandi, coeve, strutture a cielo aperto, i cosiddetti «templi» megalitici dell’arcipelago maltese: i percorsi e le sale sotterranee presentano absidi, passaggi caratterizzati da strutture trilitiche (formate da due piedritti verticali su cui poggia, orizzontalmente, un architrave), piccole finestre. Alcune sale presentano, inoltre una copertura scolpita a cerchi concentrici, similmente alla copertura a falsa volta che, un tempo, doveva verosimilmente caratterizzare i grandi «templi» (vedi «Archeo» n. 353, luglio 2014; anche on line su issuu.com). Alcuni ambienti mostrano, ancora oggi, tracce evidenti di decorazioni a spirali e a nido d’api, realizzate dagli artisti preistorici mediante l’utilizzo di un pigmento naturale, l’ocra rossa. Nella foto d’epoca a p. 38, il tratto di tale decorazione dipinta appare ancora molto marcata. Perché venne scavato l’Ipogeo e qual era la sua funzione? Fu, innanzitutto, un grande cimitero sotterraneo che accoglieva i resti dei defunti della comunità preistorica maltea r c h e o 41


SCOPERTE • MALTA

se. E questo per un periodo lunghissimo, dal 4000 al 2500 a.C. Si è calcolato che l’Ipogeo ospitasse le spoglie di settemila individui. Oltre a resti di scheletri e crani umani, gli scavi di Magri e Zammit portarono alla luce una enorme quantità di materiali votivi, tra cui terrecotte, ornamenti personali e perline, piccoli amuleti in pietra, sculture di animali. Tra questi manufatti figurano alcune statuette femminili adagiate su una sorta di letto, in posizione «dormiente». La meglio conservata delle tre è oggi una delle principali attrazioni del Museo Archeologico Nazionale della capitale maltese,Valletta. Scoperta nel 1905 da padre Magri nella «camera dipinta» di Hal Saflieni, la Sleeping Lady, la «Signora dormiente», è uno dei capolavori dell’arte preistorica maltese e, come tale, non ha confronti con nessun’altra manifestazione dell’arte neolitica europea. Lunga 12,2 cm e alta 6,8 cm, la piccola statua in terracotta rappresenta una donna poggiata sul fianco destro, con gli occhi chiusi, la mano destra inserita sotto la testa, i seni scoperti e la parte inferiore del corpo coperta da un’ampia gonna dall’orlo plissettato (vedi foto a p. 44). La decorazione a

SIGNORE E MISTERI La domanda su chi rappresenti la misteriosa statuetta, quale sia stato il suo ruolo nell’ambito cultuale e religioso del suo tempo, si sovrappone ai numerosi interrogativi intorno alle attività – rituali, religiose, magiche? – che si svolgevano sia nei grandi «templi» megalitici dell’arcipelago, sia nelle strutture ipogee, di cui Hal Saflieni rappresenta l’esempio principe (un’altra struttura ipogea simi42 a r c h e o

spirali, ancora ben riconoscibili, in uno degli ambienti sotterranei di Hal Saflieni. Il precario stato di conservazione delle pitture in ocra rossa è sotto costante monitoraggio (vedi, a confronto, l’immagine a p. 38).


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SCOPERTE • MALTA

In alto: la «Sleeping Lady», o «Dormiente», statuetta in terracotta di 12,2 cm di lunghezza e 6,8 di altezza rinvenuta nella cosiddetta «Camera dipinta» dell’Ipogeo di Hal Saflieni, nel 1905. 3300-3000 a.C. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia. In basso: una veduta del Centro Visite, dal quale si accede alle strutture sotterranee dell’Ipogeo.

le, il cosiddetto «Circolo di Xhara», è stata rinvenuta sull’isola di Gozo). Le ipotesi avanzate sono infinite e attingono agli ambiti della storia delle religioni, dell’etnoantropologia e perfino della psicologia che studia gli stati alterati di co-

scienza: in una recente trattazione, la studiosa Claudia Sagona dedica ampia attenzione agli aspetti sciamanistico-rituali potenzialmente connessi alla fruizione degli spazi sotterranei, sottolineando come i motivi decorativi – ma anche le

sonorità rese possibili dalla particolare acustica degli ambienti ipogei – potessero svolgere un ruolo nell’evocazione di stati di trance mistico-religiosa. Si tratta di teorie suggestive, mutuate dalle ricerche etnoantropologiche, eppure da usare con cautela massima per spiegare, tout court, la funzione simbolica di reperti e manufatti antichi migliaia di anni.

NON SOLO DEPOSITI È legittimo, tuttavia, supporre che le elaborate architetture ipogee (i cui singoli ambienti, appoggiandosi a una terminologia mutuata dal mondo classico, sono state denominate Santo dei Santi, Stanza degli Oracoli...) non servissero solo da anonimo deposito per le ossa dei defunti ma fungessero da quinta – e con studiata efficacia – per rappresentazioni, gesti, ritualità connessi al mondo dei morti. Cosí – come ha fatto 44 a r c h e o


notare l’archeologo maltese Anthony Pace – la posizione della piccola «dormiente» ricorda quella dei defunti di cui sono stati trovati i resti nel già menzionato cimitero di Xaghra. Il suo sonno, protetto per lunghi millenni dalle profonde, silenziose oscurità di Hal Saflieni, sembra suggerire un tramite con il mondo dell’aldilà. È una suggestione, appunto, di cui non potremmo mai avere conferma «scientifica»...

Un libro per il sottosuolo Pubblicato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal COST (European Cooperation in Sciene and Technology), il volume Underground Built Heritage Valorisation: A Handbook, curato da Giuseppe Pace e Renata Salvarani rappresenta il primo manuale sull’argomento e affronta, alla luce di una serie di casi studio, questioni di metodologia della conservazione e della fruizione dei beni monumentali sotterranei da parte del pubblico. 444 pagine, ill. b/n.

Potersi confrontare, seppur da spettatore esterno, con i messaggi cifrati racchiusi nelle monumentalità sotteranee di Hal Saflieni, poter osservare i manufatti di un’antichissima pietas espressa dai piccoli reperti scultori in esso custoditi, è un privilegio nient’affatto scontato, reso possibile – come sottolineano gli autor i della r icerca da cui siamo partiti – solo attraverso la continua attenzione e cura rivolte alla valorizzazione e gestione del patrimonio culturale del sottosuolo.

IL MISTERO DEI CRANI Nel 1926, Sir Themistocles Zammit stilò una breve descrizione di alcuni crani rinvenuti negli scavi dell’Ipogeo di Hal Saflieni, definendoli «di una varietà allungata (dolicocefala)». Negli anni, la scarna definizione di Zammit (che di formazione era un medico) ha dato il via a ipotesi fantasiose, i cui echi «complottistici» continuano a risuonare fino ai giorni nostri: i reperti indicherebbero la presenza di una civiltà «aliena» a quella autoctona dell’arcipelago e che deliberatamente modificava la forma cranica (similmente a quanto accade in alcune culture andine o anche nell’antico Egitto). Una recente ricerca interdisciplinare, avviata dalla Soprintendenza per il Patrimonio Culturale di Malta in collaborazione con la Macquarie University (Sidney, Australia) e denominata «Le sentinelle di Hal Saflieni, Malta: scienza versus fantascienza» ha sottoposto i crani di Hal Saflieni a un confronto con reperti simili di età classica. La ricerca ha confermato alcune differenze significative nella conformazione cranica degli abitanti dell’arcipelago di età tardo-

PER SAPERNE DI PIÚ

neolitica rispetto a quella delle popolazioni di età classica. Differenze da non collegare, però, all’avvento di invasioni «aliene» bensí alle complesse vicende legate allo spostamento di popolazioni e alla colonizzazione dell’arcipelago verificatesi dalla metà del III millennio a.C. e che hanno inaugurato un nuovo capitolo della protostoria maltese.

Anthony Pace (a cura di), The Hal Saflieni Hypogeum 4000 BC-2000 AD, National Museum of Archaeology, Malta 2000 Claudia Sagona, The Archaeology of Malta. From the Neolithic through the Roman Period, Cambridge University Press, Cambridge 2015

DOVE E QUANDO Ipogeo di Hal Saflieni Paola (Malta), Triq ic-Cimiterju, Rahal Gdid Info https://heritagemalta.mt/ National Museum of Archaeology Valletta (Malta), Auberge de Provençe, Republic Street Info https://heritagemalta.mt/ a r c h e o 45


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STORIA • CAMPANIA

UNA «PIRAMIDE» NELLA

CAMPANIA FELIX PARTE DI UN’AREA STORICAMENTE NOTA PER LA SUA STRAORDINARIA FERTILITÀ, L’ENTROTERRA DI POZZUOLI NASCONDE ANCORA NUMEROSE TESTIMONIANZE DI UN’ETÀ PROSPERA E FELICE. TRA QUESTE SPICCA UNO SPETTACOLARE MAUSOLEO, DALL’INCONFONDIBILE GUSTO ESOTICO... di Raffaella Iovine e Maria Teresa Urso

I

n età romana il fertile territorio di Quarto Flegreo (Napoli) era parte integrante del produttivo retroterra agricolo dell’ager di Puteoli (la moderna Pozzuoli), principale porto dell’impero fino all’epoca di Traiano. La trafficata via pubblica Puteolis-Capuam, l’odierna via Consolare Campana, frequentata da mercanti, viaggiatori e schiavi, conduceva a Capua (l’attuale Santa Maria Capua Vetere), per poi raggiungere Roma attraverso la via Appia. Il toponimo Quarto rappresenta la distanza da Puteoli, ovvero il IV miglio, poiché i Romani misuravano il miglio ogni 1000 passi per collocare una pietra miliare. Se oggi si scavasse sotto la via 48 a r c h e o

Veduta della necropoli localizzata in via Brindisi, a Quarto Flegreo (Napoli). Sulla destra spicca il mausoleo a cuspide piramidale noto come «Fescina».



STORIA • CAMPANIA

Consolare Campana si scoprirebbe il monumentale basolato della strada antica, costeggiata da ricche e ampie ville e maestosi sepolcri. Complessi archeologici che hanno avuto una vita lunghissima, dall’età repubblicana sino al IV-V secolo d.C., a conferma della vitalità dell’ager quartese, collegato anche con Cuma attraverso un diverticolo della via Puteolis-Capuam che si staccava nei pressi del varco noto come Montagna spaccata.

SIMILE A UN CESTO Fra le testimonianze piú significative, si annovera la necropoli di via Brindisi, citata come «Sepolcreto antico detto la Fescina» in una carta del Regno di Napoli realizzata intorno al 1850 e oggetto di indagini archeologiche negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Fino ad allora era visibile solo il mausoleo a cuspide piramidale denominato «la Fescina», per la somiglianza con il cesto in vimini usato dai contadini locali per la raccolta della frutta.

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Napoli Ercolano


La Fescina, mausoleo a cuspide piramidale la cui costruzione si data fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: la Montagna spaccata, un varco nel quale corre la via Puteolis-Capuam. Presenta possenti resti di muratura tufacea in opera reticolata con piani di risega in opera vittata. Piedritti con accenni di curvature suggeriscono la presenza di archi.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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STORIA • CAMPANIA

Gli scavi hanno finora riportato alla luce tre mausolei, un triclinio all’aperto, una cisterna e gli ambienti termali della contigua villa rustica.

PICCOLE NICCHIE PER LE URNE Delimitata da un basso recinto, la Fescina è composta da una camera semi-ipogea con volta a botte rivestita di intonaco bianco, alla quale si accedeva per mezzo di un dromos (corridoio d’ingresso). Le 11 nicchiette ricavate nelle pareti accoglievano le urne cinerarie. Per il ban-

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In alto: cisterna per l’acqua piovana della Villa del Torchio (vedi box alle pp. 56-57), con angoli arrotondati, pulvini ed intonaco reso impermeabile dal cocciopesto. Nella pagina accanto, in alto: tomba della necropoli di via Brindisi con anfora e balsamari in vetro, scoperta negli scavi condotti nel 1980. A sinistra, sulle due pagine: il pozzo messo in luce nella Villa del Torchio.

chetto funerario erano stati costruiti tre letti triclininari. Sopra la camera semi-ipogea vi è un ulteriore ambiente funerario, con 5 nicchiette, al quale si accede da un un’apertura. In cima si erge la guglia piramidale a sei facce, avente funzione decorativa. Dall’esame di alcuni reperti ritrovati e dalla tecnica muraria, il mausoleo viene datato fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Nelle vicinanze di questo singolare monumento funerario sono visibili altr i due mausolei, racchiusi anch’essi in un recinto e provvisti entrambi di una camera funeraria semi-ipogea e di una scala interna. Intonacati di bianco, i mausolei presentano la volta a botte, le nicchiette sulle pareti, i lucernari a bocca di lupo, ma, a differenza della Fescina, sono privi della parte superiore.

BANCHETTI IN ONORE DEI DEFUNTI Nell’angolo sud-occidentale dell’area sepolcrale è stato rinvenuto un triclinio all’aperto con mensa centrale, rivestito in cocciopesto, nel quale probabilmente si tenevano i banchetti funerari o, nel corso dell’anno, le feste celebrate in onore dei defunti. Il convito funerario finiva per rinsaldare i vincoli familiari e rappresentava un momento dalla forte valenza sociale. Per le varie strutture della necropoli, nella quale è attestata la pratica sia

dell’incinerazione, sia dell’inumazione, è stato utilizzato l’opus reticulatum, che si alterna all’opus vittatum nelle angolature. Oltre alla necropoli, durante la stessa campagna di scavi archeologici, furono rinvenuti una cisterna per l’acqua piovana di medie dimensioni, ristrutturata piú volte nel corso dei secoli, e gli ambienti termali di una villa rustica frequentata dalla fine del II secolo a.C./inizi del I secolo a.C. al IV secolo d.C. Uno degli ambienti termali, adibito probabilmente a vasca per i bagni a immersione, presenta sul lato orientale un’abside semicircolare, mentre sulle pareti nord e sud si vedono gli accenni di una nicchietta. L’insediamento presenta dunque caratteristiche di notevole interesse, dato dalla compresenza di una villa e di una necropoli monumentale. Come accennato in apertura, oltre al mausoleo della Fescina, l’intero territorio quartese è stato teatro del rinvenimento di reperti di epoca romana e non solo. Ai piú significativi, nelle pagine che seguono, sono dunque dedicate le schede di approfondimento. La pubblicazione del presente articolo è stata autorizzata dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Napoli (www. sabap.metropolitanana.beniculturali.it) a r c h e o 53


STORIA • CAMPANIA

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IL «NOBILE VOLTO» DELL’IMPERATORE FILOSOFO

N

el marzo del 1955 fu rinvenuto, in via Consolare Campana, un bel busto, in marmo bianco, del colto e raffinato imperatore Marco Aurelio, databile intorno al 170-180 d. C. Il sovrano ha una barba piuttosto folta a ciocche arrotondate e capelli ricci. Il volto è caratterizzato da profonde rughe, dal naso adunco e dagli occhi leggermente infossati. L’insieme conferisce al ritratto un aspetto pensoso e corrucciato, rispondente al suo temperamento riflessivo e alla sua fama di imperatore filosofo. Secondo l’archeologo Amedeo Maiuri, il ritratto dell’imperatore riconduce all’epilogo della sua esistenza combattuta tra l’aspirazione alla pace e alla necessità delle guerre, presentandosi come «un nobile volto di vecchio stanco». Oggi il busto è esposto nel Museo Archeologico dei Campi Flegrei a Baia, nella stessa sala del diploma militare (vedi box qui accanto).

UNA LAMINA DI BRONZO PER IL DIPLOMA DI LUCIO CAMELIO La Sala XXXIII del Museo Archeologico dei Campi Flegrei (allestito nel Castello di Baia) ospita un’assoluta rarità: si tratta del diploma militare di Lucio Camelio Severo, rinvenuto nel 1987 nella sua villa rustica, i cui resti sono stati identificati lungo l’attuale corso Italia di Quarto Flegreo. Si tratta di una lamina di bronzo «riciclata», la cui iscrizione testimonia che il soldato, della tribú Palatina di Puteoli, avendo prestato servizio come pretoriano nella XI Coorte Urbana di Roma, per 20 anni, riceve il congedo e il permesso di sposare una donna priva della cittadinanza romana («peregrina»). I loro figli sarebbero stati a tutti gli effetti cittadini romani. Il diploma reca una data corrispondente al 7 gennaio 224 d.C., quando era imperatore il giovane Alessandro Severo, succeduto al cugino Eliogabalo nel 222 d.C. Sulle due pagine: il busto di Marco Aurelio rinvenuto in via Consolare Campana e l’archeologo Amedeo Maiuri «a tu per tu» con l’imperatore. 170-180 d.C. Bacoli, Museo Archeologico dei Campi Flegrei nel Castello di Baia. a r c h e o 55


STORIA • CAMPANIA

UNA DEDICA PER IUSTA

V

ia Pietra Bianca deve il suo nome al ritrovamento, nel 1977, di una lapide funeraria databile al I secolo d.C., la cui esistenza era già nota in epoche precedenti. Nello specchio epigrafico si legge una dedica di Lucius Marius Iunianus alla giovane moglie, Varia Iusta, morta a poco piú di 25 anni. L’iscrizione recita «VARIAE SPF / IVSTAE / L MARIVUS / IVNIANVS / VXORI / RARISSIMAE / SANCTITATIS /VIXIT ANN XXV / MENS XI / DIEB XVIII». L’ara presenta un frontone centinato e pulvini laterali, che appaiono oggi molto consunti. Sulla facciata laterale destra si nota una patera (piatto), mentre su quella a sinistra figura un elegante urceus (brocca), entrambi simboli del banchetto funerario.

LA VILLA DEL VINO... E DEL PANE

T

ra le residenze rustiche di età romana di Quarto Flegreo spicca la Villa del Torchio, portata alla luce nel 2006 durante lo scavo per la realizzazione di un centro commerciale. L’edificio presenta un impianto quadrangolare, composto da un piccolo corpo rettangolare preceduto da un ampio cortile con porticato su pilastri. La villa è

sorta alla fine del II secolo a.C., come testimonia il ritrovamento di mura in opera quadrata, ed è stata protagonista di varie fasi costruttive e modifiche fino al IV-V secolo d.C. È stato possibile stabilire una cronologia grazie al ritrovamento di oltre un centinaio di monete di bronzo: da quella piú antica coniata al tempo di Tiberio (14-37 secolo d.C.)

«LA PACE SIA CON VOI»

I

n un’altra vasta villa romana, dotata di ben tre cortili – i cui resti sono stati localizzati fra le attuali via Beccali e via Dante Alighieri –, è apparso agli occhi degli archeologi un raro graffito, inciso su un rappezzo dell’intonaco che chiudeva una delle adduzioni della cisterna del com-

56 a r c h e o


a quella piú recente, risalente al periodo dell’imperatore Graziano (367-383 secolo d.C.). In sette secoli di storia gli ambienti della villa hanno subito diverse modifiche, anche se appare evidente che fosse distinta in due settori: uno destinato alla produzione e alla conservazione del vino e dei cereali; l’altro, quello padronale, riservato appunto all’alloggio del

proprietario della dimora. La compresenza del settore residenziale e di quello produttivo permette di associare la villa ai modelli di una moderna azienda agricola. La denominazione del complesso, «Villa del Torchio», deriva appunto dal rinvenimento di un torchio (torcularium), nel quale venivano trasferite le uve, dopo essere state pigiate con i

plesso termale. La scritta, che riporta un versetto della liturgia del messale romano «PAS DOMI /SEMPER / BOBISCV» ovvero «La pace del Signore (sia) sempre con voi», fu incisa nel V secolo d.C., quando l’impianto termale era caduto in disuso. La presenza di un simile documento epigrafico non deve stupire, in quanto già negli Atti degli Apostoli (28, 13-14) è riferito che Paolo di Tarso, sbarcato al porto di Puteoli, per essere trasferito poi a Roma, incontrò una comunità di cristiani nel I secolo d.C.

piedi. Una piccola cisterna (lacus) raccoglieva il succo d’uva, che veniva poi travasato nei doli interrati nella cella vinaria. La raccolta delle acque piovane del cortile, una grande cisterna e un pozzo testimoniano l’attenta gestione dell’approvvigionamento idrico. La presenza di un forno e di resti di macine documentano invece la pratica della panificazione. In alto, sulle due pagine: i resti del torcularium che ha dato nome alla villa rustica scoperta in via Masullo. Nella pagina accanto: l’ara funeraria denominata «Pietra bianca» sulla quale è incisa la dedica di Lucio Mario Giuniano alla moglie Varia Giusta, morta a soli 25 anni. a r c h e o 57


STORIA • CAMPANIA

QUANDO IL SOFFITTO È UN CAPOLAVORO

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i grande interesse si è rivelata la scoperta di un mirabile affresco inedito a tema religioso nell’antica masseria Spinelli. Al di sotto della tinteggiatura moderna della volta a botte lunettata, appare il busto di san Gennaro, rappresentato in un tondo in abiti vescovili, che con la mano sinistra regge il pastorale e con la destra benedice. Il santo ha lo sguardo rivolto verso il fedele, ha i capelli bianchi, indossa sul capo una mitra gemmata, è vestito 58 a r c h e o


In alto: un particolare dell’antica masseria Spinelli costruita sui resti di una cisterna d’età romana. A sinistra e nella pagina accanto: due immagini degli affreschi rinvenuti sotto la tinteggiatura moderna della volta a botte lunettata della masseria, tra i quali spicca il ritratto di san Gennaro.

con una tunica bianca e porta sulle spalle il piviale rosso con bordature color oro fermato da una spilla d’oro con una pietra preziosa. Alle mani calza un paio di guanti verdi e sul pollice destro ha un anello. L’iscrizione S. IANVARIS, con la S girata verso sinistra, arricchisce l’opera. Secondo lo storico dell’arte Giovanni Barrella, già direttore coordinatore dei Beni Storici Artistici dei Comuni Flegrei, l’opera dovrebbe essere un dipinto murale

del XVII secolo, ma solo un intervento di restauro potrebbe accertarne l’origine, oltre ad assicurarne la conservazione. L’affresco fa parte di quella produzione legata alla figura del santo destinata al consumo privato, alla devozione casalinga, che dimostrava il rapporto di Gennaro con la città di Napoli e il suo circondario. In questo caso abbelliva la navata della chiesa del padrone della masseria e certamente serviva come luogo di culto di tutto il contado.

DOVE E QUANDO Per prenotare una visita guidata alla necropoli Fescina di via Brindisi e alla villa rustica del Torchio di via Masullo ci si può rivolgere al Gruppo Archeologico dei Campi flegrei, scrivendo all’indirizzo: gcampiflegrei@gmail.com Museo Archeologico dei Campi Flegrei nel Castello di Baia Bacoli, via Castello 1 Info www.pafleg.it a r c h e o 59


TESORI DALLA CITTÀ PERDUTA

Un particolare dell’allestimento della mostra «A tempo di danza», in corso negli spazi del MuVet, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. In primo piano, una statua in bronzo di danzatrice dalla Villa dei Papiri di Ercolano (Napoli, Museo Archeologico Nazionale); in secondo piano, la ballerina con le mani sui fianchi di Antonio Canova (Carrara, Accademia di Belle Arti). 60 a r c h e o


ARMONIA, GRAZIA E BELLEZZA, SONORITÀ ANTICHE E UNO STRAORDINARIO RECUPERO, ALTAMENTE «POETICO»: DOPO UNA «LUNGA NOTTE» DURATA QUASI UN BIENNIO, IL MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO «ISIDORO FALCHI» DI VETULONIA SI RINNOVA E RIAPRE, PER RACCONTARE IL PATRIMONIO DI UNA DELLE CAPITALI DELLA CULTURA ETRUSCA di Simona Rafanelli Fibula in oro a drago, decorata con figure di felini resi a granulazione sulla staffa. VII sec. a.C. Dono di Nilia Renzetti Poli Pineschi. Vetulonia, MuVet-Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi».

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n museo dal volto «nuovo» (o dai mille volti), quello affacciatosi quest’anno sull’alba del superamento di una notte di buio durata quasi un biennio! Il MuVet-Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia è «piccolo», ma è sempre stato capace di proporre grandi progetti, e ha sviluppato la sua vocazione lungo i binari del conseguimento di un’accessibilità realmente «universale» e di un’accoglienza destinata a tutte le «categorie» di pubblico normodotato e diversamente abile. Nel segno di un’apertura a 360°, estesa anche alla varietà e diversificazione dei temi affrontati e dei contenuti veicolati attraverso eventi espositivi e manifestazioni culturali che, affrancati da un’etichetta esclusivamente archeologica, hanno guadagnato gli approdi dell’arte moderna e contemporanea, della letteratura e della poesia, financo della musica! Quattro, per l’archeologia, sono i nuovi punti luce del percorso museale, rappresentati dalle nuove vetrine concepite durante la «lunga

notte» attraversata dai musei e dedicate al riallestimento degli ori di Vetulonia – fra i quali spicca la fibula a drago con felini in granuli d’oro a decorare la staffa donata al museo nel 2006 da Nilia Renzetti Poli Pineschi –, all’esposizione di una selezione di bronzi (il kottabos con cimasa configurata a Sileno danzante e due elmi del tipo Negau consacrati nei primi decenni del V secolo a.C. nei depositi sulla cosiddetta Arce di Vetulonia) e alla messa in scena di reperti rappresentativi dei felici momenti di otium trascorsi dagli Etruschi di Vetulonia fra danze e simposio, tolette raffinate, musica e letteratura, narrati attraverso una speciale applicazione web, realizzata dall’Associazione Culturale Prisma di Firenze.

ANTICHE SONORITÀ Una app che consente di ascoltare, per la prima volta, grazie a un progetto speciale volto al recupero dei suoni emessi dagli antichi strumenti a fiato (condotto dal direttore scientifico del MuVet Simona Rafanelli e dal sassofonista jazz Stefano

Cocco Cantini), le note e le scale prodotte dagli strumenti musicali recuperati nel carico del relitto di una nave affondata nella baia del Campese, all’Isola del Giglio, 2600 anni orsono. Arricchiscono l’esposizione permanente del MuVet i bronzetti restituiti dallo scavo di uno dei magazzini della Domus dei Dolia (o Casa degli Orci), forse pertinenti a un piccolo luogo di culto (lararium) interno all’abitazione e il volto in terracotta della mitica regina lidia Onfale, sposa di Eracle, che doveva campeggiare a fianco del consorte, in forma di antefissa, sul tetto del tempio eretto sull’altura di Costa Murata, l’Acropoli minore dell’antica VATL. La città era una delle «capitali» della cultura etrusca e la sua identità appare correlata, sin dal suo sorgere, e in virtú della sua posizione costiera a dominare la sponda nord dell’antico lago Prile di pliniana memoria, al mare, ai suoi simboli, alle sue creature, alle azioni commerciali e culturali a esso connesse. A un tempo nome etrusco di Vetulonia e dell’eroe divino a cui veroa r c h e o 61


MOSTRE • VETULONIA

similmente se ne deve la fondazione, il termine VATL corre da destra a sinistra sulla fronte delle monete in bronzo (sestanti e once) emesse con beneplacito di Roma in età ellenistica nella stessa Vetulonia, delineando il profilo arrotondato della nuca del personaggio maschile effigiato con una spoglia di kètos, il drago marino, indossata a mo’ di cappuccio sulla testa. Un personaggio al quale sembra di poter riferire la coppia di delfini guizzanti riprodotti, sul retro delle medesime monete, ai due lati dell’insegna di potere a foggia di tridente brandita al pari di Posèidon o di Nethuns/Nettuno e replicata, su larga scala, nello strumento in bronzo restituito dal corredo di una delle maggiori tombe principesche orientalizzanti di Vetulonia, che proprio a esso deve il nome di tomba a Circolo del Tridente. Insieme alle monete, che tanta parte ebbero nella riscoperta, sul cadere dell’Ottocento, della perduta città di Vetulonia da parte del medico-archeologo Isidoro Falchi, a cui il museo è intitolato, ad accogliere il

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visitatore nella sala a sinistra dell’ingresso al museo è un altro personaggio mitico, e verosimilmente divino. Lo vediamo nella copia in gesso di uno dei bassorilievi che adornava la base marmorea – nota come «trono di Claudio» – di una statua dell’imperatore «etruscologo», Claudio, appunto, recuperati presso il teatro romano di Caere, l’odierna Cerveteri, con la quale, per uno strano gioco della sorte, che intreccia la storia del rinvenimento della statua con la sua base a quella della riscoperta della città etrusca di VATL,Vetulonia intratteneva strette relazioni culturali e artistiche.

DUE CITTÀ DEL MARE Identificato dalla legenda quale populus dei Vetulonienses, personificazione della città stessa o suo nume tutelare, il personaggio che si leva nudo, con remo-timone sulla spalla, a sinistra della lastra, trova il suo specchio nell’immagine in terracotta riprodotta sulle antefisse a figura intera che decoravano la copertura di un piccolo naískos, o tempietto, innalzato in prossimità di uno degli

accessi alla città dalla parte del mare, sotto l’Acropoli minore, in località Costia dei Lippi. Due «città del mare», dunque, e due «città dell’oro», che continuano a regalare a scienziati e ad anonimi e appassionati visitatori l’emozione che sola scaturisce dalla contemplazione di quei monili in oro, argento, bronzo, che arredavano la dimora e la vita stessa di quei principi e capi militari che, al pari del ceretano Rachu Kakànas, trasferitosi a Vetulonia e sepolto nella Tomba a Circolo del Duce, furono celebrati in morte, come in vita. I loro discendenti vollero costruire per essi sepolture peculiari, come quelle cinte da anelli di pietre conficcate al suolo – i circoli - caratteristiche del territorio vetuloniese e dell’intero Centro Italia della prima età del Ferro, tuttora visibili nelle necropoli adiacenti l’abitato e ricostruiti a un quarto del vero in una delle sale del Museo riservate alla storia della nascita e dell’affermazione della sua aristocrazia. E, ancora, seppero innalzare per i loro re tumuli maestosi, come quel-


Cimasa di kottabos in bronzo in forma di Sileno danzante, da uno dei due depositi delle Mura dell’Arce di Vetulonia. V sec. a.C. In basso: antefissa in terracotta riproducente il volto di Onfale, da Vetulonia, Costa Murata. III sec. a.C. Nella pagina accanto: strumenti musicali a fiato in legno di bosso e avorio recuperati alla Baia del Campese nel carico del cosiddetto Relitto del Giglio. 600 a.C. circa.

li vetuloniesi della Pietrera e del Diavolino, sui quali l’occhio del viaggiatore può indugiare lungo la «via dei sepolcri», sotto il colle che ospita il borgo antico, medievale e moderno di Vetulonia.

MAESTRI VENUTI DALLA SIRIA Da quei circoli e da quei tumuli di duemilasettecento anni fa provengono i gioielli che resero e rendono celebre l’etrusca VATL, usciti dalle mani dei maestri giunti dal Nord della Siria, che, nei primi atelier, trasmisero la propria capacità e conoscenza agli artigiani locali i quali seppero superare i maestri e dare vita a capolavori orafi destinati a ornare le membra, il capo e le vesti dei principi e delle loro spose. Corone, orecchini, collane, armillae (bracciali), anelli, fibulae (spille) fermaveste, decorati nelle tecniche orientali ed etrusche dello sbalzo, della filigrana e della granulazione divenuta in Etruria «pulviscolo», polvere aurea, ricoprivano i loro corpi vivi o morti, esaltandone eleganza e bellezza oppure testimo-

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MOSTRE • VETULONIA

niandone l’immensa ricchezza e l’elevatissimo livello sociale: raffigurazioni minute, riproduzioni calligrafiche di fiori e di animali o volti della dea della bellezza e dell’amore, l’orientale Ishtar/Astarte, affollano le superfici dei monili in lamina d’oro, aggiungendo preziosità al fasto e veicolando messaggi di rinascita e di salvezza, latori delle gioie e delle speranze riposte nella vita ultraterrena.

IL PIÚ RELIGIOSO FRA I POPOLI Proprio a sottolineare la somma devozione di un popolo, definito da Livio «il piú religioso di tutti, poiché maggiormente dedito alle pratiche rituali», concorrono i piú recenti rinvenimenti di scavo esposti all’interno del MuVet. Un nucleo di bronzetti raffiguranti due personaggi in preghiera e un sacerdote, serrato nel suo costume pastorale tradizionale, 64 a r c h e o

Qui sopra: dritto di un’oncia in bronzo di Vetulonia raffigurante una testa maschile con spoglia di kètos e legenda VATL. A destra: rovescio di un sestante bronzeo di Vetulonia con un tridente fra due delfini.


Vetulonia, necropoli di Poggio al Bello, tomba a circolo del Duce. Nella pagina accanto, in alto: tomba a circolo ricostruita a dimensioni pari a 1/4 del vero nella sala B del MuVet.

tornato in luce nel 2015 in uno dei locali magazzino della maggiore unità abitativa (oltre 500 mq di estensione) a oggi individuata all’interno del quartiere etrusco romano di Poggiarello Renzetti, alle porte del borgo di Vetulonia e battezzata Domus dei Dolia per via del rinvenimento di grandi orci contenenti olio di oliva e olio per l’illuminazione degli ambienti domestici. Il sacerdote arricchisce e completa il percorso di visita del museo accanto alla coppia di offerenti recuperati da

Isidoro Falchi nello scavo di un’altra abitazione residenziale del quartiere, denominata «Domus (o Casa) di Medea» per gli elementi decorativi figurati in terracotta, ora esposti nella saletta dedicata alle principali abitazioni etrusche di Vetulonia.

TOTEM MULTIMEDIALI Riservati in special modo, oltreché agli utenti sordi e sordomuti, al pubblico dei ciechi e ipovedenti, sono i recenti totem multimediali che, corredati della riproduzione in

3D degli oggetti piú significativi delle sale principali del museo e del principale bronzetto di orante dalla Domus dei Dolia, vanno ad ampliare e ad arricchire l’offerta multimediale del MuVet, insieme alla vetrina dedicata all’ozio degli Etruschi con web-app correlata e alla recente vetrina olografica incentrata sullo scavo della città e della necropoli vetuloniese e sulla restituzione virtuale dei principali arredi e segnacoli funerari in esse recuperati. Ancora nel bronzo è forgiata l’ima r c h e o 65


MOSTRE • VETULONIA

magine della dea nuda della fertilità, posta a coronare uno strumento da toletta femminile, un nettaunghie, divenuto pendente di collana, deposta da mani devote, con chiaro auspicio di rinascita a nuova vita nell’aldilà, nella tomba di una principessa etrusco-picena.

UN PEGNO D’AMORE Successivamente depredato da scavatori clandestini e venduto a un ricettatore fiorentino, il manufatto fu quindi recuperato dal Premio Nobel Eugenio Montale per farne dono, in qualità di amuleto, alla sua innamorata d’Oltreoceano, l’ebreoIn alto: armilla (bracciale) a fascia decorata con volti femminili e palmette fenicie resi a sbalzo, dal Circolo dei Leoncini d’Argento di Vetulonia. VII sec. a.C. A sinistra: fibula aurea a sanguisuga e lunga staffa decorata a sbalzo, dalla tomba a camera con tumulo di Poggio Pelliccia. VII sec. a.C.

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americana Irma Brandeis, divenuta la sua principale musa ispiratrice e celebrata come Clizia nei carmi del poeta. Questo il «pegno d’amore», inviato da E.M. a I.B. e – al termine di un percorso a dir poco romanzesco – giunto in dono al museo vetuloniese per volontà del suo ultimo «erede», il poeta e letterato pavese Marzo Sonzogni, e che oggi si può ammirare, nell’«Angolo di Montale», al primo piano del MuVet, entrato a far parte grazie a esso degli Itinerari montaliani d’Italia. E per concludere, «in armonia, grazia e bellezza», questo excursus attraverso il Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi», uno sguardo curioso e stupito «ratto s’apprende» sui capolavori in bronzo, marmo e gesso concessi in prestito dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e dall’Accademia di Belle Arti di Carrara, riuniti nell’esposizione «A tempo di danza», prorogata fino all’8 gennaio 2023. All’interno di una scatola nera che spezza e dilata, moltiplicandoli, i riferimenti spazio-temporali, si

Bronzetto di orante dal vano G-magazzino della Domus dei Dolia di Vetulonia. II sec. a.C. A sinistra, sulle due pagine: fibula ornata con animali fantastici ed elementi floreali resi a «pulviscolo», dal corredo della tomba a camera con tumulo di Poggio Pelliccia. VII sec. a.C. a r c h e o 67


MOSTRE • VETULONIA

snoda un percorso unico capace di coniugare danza e bellezza attraverso le piú alte espressioni dell’arte plastica romana in bronzo e in marmo, testimoniate da una delle cinque danzatrici restituite dalla Villa dei Papiri di Ercolano e dalla Venere accosciata della collezione Farnese. Creazioni alle quali fanno da mag ico contrappunto quelle opere «figlie del cuore» a cui il genio di Antonio Canova, debitore all’antico, ha saputo dar forma nel sommo delicato equilibrio fra nuova classicità e romanticismo. Un viaggio nel tempo fra danza e bellezza che dall’antichità giunge al contemporaneo grazie alla performance coreutica di Caterina Di Rienzo, messa in scena con originale maestria attraverso il «corto» videoarte di Lorenzo Antonioni. Ad aggiungere all’esposizione una nota discreta di fascino, il muto

colloquio, intrecciato attraverso un intimo «gioco di specchi», fra i capolavori antichi e gli undici quadri fotografici di Luigi Spina, autentici «ritratti d’artista», espressione commossa di un’arte visiva già divenuta poesia. DOVE E QUANDO «A tempo di danza, in armonia, grazia e bellezza» Vetulonia (Comune di Castiglione della Pescaia), MuVet-Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino all’8 gennaio 2023 Info tel. 0564 927241 oppure 948058; e-mail: museo.vetulonia@ comune.castiglionedellapescaia.gr. it; www.museoisidorofalchi.it Note nel periodo natalizio e fino alla chiusura della mostra sono in programma visite guidate, spettacoli e attività didattiche; per informazioni e prenotazioni, ci si può rivolgere ai recapiti telefonici e di posta elettronica suindicati

A sinistra: Venere Italica, statua in gesso di Antonio Canova. 1804-1812. Carrara, Accademia di Belle Arti. Sulle due pagine: particolare della Venere accovacciata. Copia romana in marmo da un originale greco in bronzo, perduto, opera di Doidalsas (III sec. a.C.), I sec. a.C. Già Collezione Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 68 a r c h e o



ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/3

«CONDANNATO» ALL’ABIEZIONE AMORALE, VIOLENTO, PRONTO A SACRIFICARE ANCHE GLI AFFETTI PIÚ CARI PUR DI CONSERVARE IL POTERE E A DARE ALLE FIAMME UN’INTERA CITTÀ PER FARE SPAZIO ALLA SUA RESIDENZA... SONO SOLO ALCUNE DELLE ACCUSE MOSSE A NERONE DAI SUOI CONTEMPORANEI E DAI POSTERI. MA, AL DI LÀ DI COLPE VERE O PRESUNTE, C’È CHI, COME LO SCRITTORE UNGHERESE DEZSO KOSZTOLÁNY, IPOTIZZÒ, SEPPUR IN CHIAVE ROMANZESCA, CHE ALL’ORIGINE DI TANTE NEFANDEZZE CI FOSSERO I SOGNI DI GLORIA DI SUA MADRE AGRIPPINA di Giuseppe M. Della Fina Lo scrittore ungherese Dezso Kosztolány (1885-1936). Nella pagina accanto: ritratto in marmo di Nerone. Roma, Musei Capitolini. Già nella collezione Giustiniani, l’opera, che mostra l’imperatore in età adulta, è stata realizzata nel XVII sec., a partire da un frammento antico, comprendente la fronte con le ciocche dei capelli, gli occhi, il naso, il labbro superiore e una parte della guancia sinistra.

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N

erone è uno degli imperatori romani piú indagati in letteratura: la sua controversa personalità ha infatti suscitato l’attenzione di scrittori di molti Paesi, attivi in epoche diverse. Qui si è scelto di analizzare un libro forse meno noto di altri, Nero, a véres költo (Nerone, il poeta sanguinario) opera dell’ungherese Dezso Kosztolányi (vedi box a p. 73), per il motivo che seppe suscitare l’interesse, anzi l’entusiasmo del grande scrittore tedesco Thomas Mann. Pubblicato in prima edizione nel 1922 a Budapest, il libro venne tradotto in italiano da Antonio Widmar nel 1933. Una seconda traduzione, curata da Silvio De Massimi, è stata proposta nel 2014 dall’editore Castelvecchi, con il titolo Nerone. Vediamo dunque quale fu il giudizio di Thomas Mann, affidato a una lettera indirizzata all’autore del romanzo e datata Monaco, 4 aprile 1923. Si apre con una confessione: «Mi ha molto commosso il suo Nerone (...) sono tentato di definirlo sorprendente, con la precisazione che questa parola, applicata a un’o-


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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/3

pera d’arte, la intendo come una lode altissima». E ancora: «Tocca il nostro sentimento con un’umanità che fa male, tanto è vera. Questa è l’essenza della poesia. Il resto è accademia, anche se assume aspetti rivoluzionari».

SENECA, SOFISTA DELL’IMPASSIBILITÀ Tra i personaggi descritti, Mann fu colpito in particolare da Seneca che ha un ruolo importante nel libro, emblematico del rapporto di un intellettuale con il potere: «Questo poeta cortigiano e questo sofista dell’impassibilità, che tuttavia è un autentico sapiente, un vero e grande letterato, e le cui ultime ore di vita mi hanno scosso come poche altre cose, nella vita e nell’arte». Kosztolányi ripercorre la vicenda di Nerone (3768 d.C.) dalla sua ascesa al trono sino alla morte: un arco di vita che va dai diciassette ai trentuno anni. Nel secondo capitolo del romanzo lo scrittore ungherese fa assistere l’erede al trono all’avvelenamento dell’imperatore Claudio da parte di Agrippina Minore. Un episodio suggerito come possibile chiave di lettura dei comportamenti futuri del principe: proprio la scena di cui sarebbe stato testimone avrebbe infatti dato origine alla doppiezza, alla ferocia, alla follia del figlio adottivo di Claudio. Questi, ormai poco presente a se stesso, è nella stanza da letto, la moglie Agrippina gli porge una zucca all’apparenza piena di acqua, l’imperatore stramazza a terra. Al che il giovane chiede cosa sia accaduto e Agrippina risponde con calma: «Nulla». Ma Nerone cerca una spiegazio72 a r c h e o

Sesterzio battuto durante l’impero di Nerone. 65 d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, lo stesso Nerone a cavallo, che impugna una lancia e, dietro di lui, un vessillifero, anch’egli a cavallo. Nella pagina accanto: un’altra immagine di Dezso Kosztolány e la copertina del romanzo da lui dedicato alla figura di Nerone.

ne, chiedendo alla madre: «Era ammalato?». E lei risponde: «Non so». Il figlio balbetta: «Doveva essere ammalato», come «per salvarsi da ciò che aveva visto», commenta lo scrittore. Tutto ciò – come si è detto – avviene nel secondo capitolo, mentre nel primo si descrive una giornata di afa nel Foro: «Un mercenario, passando, diede uno sguardo alla frutta fradicia, proseguí svogliato e si fermò poco oltre, alla baracca accanto, dove si vendeva l’idromele». Un artificio che ricorre spesso nel romanzo, alternando le vicende del palazzo e la vita della gente comune, non sempre innocente. Nei capitoli successivi Nerone – adolescente e contemporaneamente già imperatore – inizia a fare i conti con la solitudine. La sera stessa dell’incoronazione: «corse in una sala lontana, nella parte opposta del palazzo. Qui sedette e si sentí solo come mai sino ad allora». La giovane sposa, Ottavia, era ancor piú spaventata di lui: «sua moglie, con gli occhi stanchi dal pianto, si era raggomitolata in un angolo».

UN MATRIMONIO D’INTERESSE Quando erano stati spinti a sposar si per volontà di Agrippina, lui aveva sedici anni e lei quattordici. Con l’unione tra Nerone, avuto da un matrimonio precedente, e Ottavia, figlia dell’imperatore Claudio e nata dalle nozze con Messsalina, Agrippina voleva rafforzare la posizione di suo figlio nella corsa alla successione. Quel matrimonio avrebbe consentito a Nerone di avere opportunità quasi pari a quelle di Britannico


figlio legittimo dell’imperatore. Britannico fu poi fatto avvelenare nel 55 d.C. proprio da Nerone, che ne temeva la popolarità, il fatto di rappresentare una possibile alternativa al suo potere e le doti artistiche. Nel romanzo l’invidia artistica viene vista come la molla principale del delitto. Una lettura interpretativa che si può ritrovare già, in maniera piú sfumata e meno «psicanalitica», negli storici Tacito e Svetonio: quest’ultimo, in particolare, fa pronunciare all’imperatore, nelle ultime, concitate e drammatiche ore della sua vita, la nota frase: «Quale artista muore!» (Vite dei Cesari, Nero, XLIX).

PUBBLICHE ESIBIZIONI Entrambi gli storici si dilungano sulla volontà di poesia di Nerone e sul desiderio di esibirsi in pubblico con grande scandalo degli ambienti senatori: la prima esibizione avvenne in un teatro di Napoli, ne segui-

UN TALENTO ECLETTICO Poeta, scrittore, giornalista e traduttore, Dezso Kosztolányi è stato un intellettuale ungherese di notevole versatilità. Nato a Szabadka (oggi Subotica, in Serbia) nel 1885, morí a Budapest nel 1936. Fu tra gli animatori della rivista letteraria Nyugat. Nel 1907 pubblicò la prima raccolta di poesie e, nel 1922, il primo romanzo, proprio Nero, a véres költo. A lui si devono poi altri romanzi e raccolte di racconti, tra cui Allodola (1924), Anna Édes (1926) e Kornél Esti (1933). Da Anna Édes è stato tratto, nel 1958, uno dei film del regista magiaro Zoltán Fábri. In qualità di traduttore Kosztolányi si è occupato, tra gli altri, di Oscar Wilde, Rainer Maria Rilke, Charles Baudelaire e Luigi Pirandello.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/3

UN PIANO DIABOLICO Dopo aver deciso di uccidere la madre perché non condivideva piú i suoi indirizzi di governo, Nerone cercò di dar corso al suo intento senza lasciare tracce. Progettò di inscenare un incidente navale: la donna venne fatta salire a bordo di un’imbarcazione dotata di un meccanismo in grado di spezzarla in due parti, che si usava nei battelli impiegati negli spettacoli.

Il piano vene messo in atto, ma Agrippina – soccorsa da una barca di pescatori – riuscí a raggiungere la riva e a salvarsi.

rono molte altre e in città diverse dell’impero, compresa la stessa Roma. Partecipò anche a numerosi concorsi che – come si può facilmente immaginare – lo videro vincitore e non certo per le sue doti di musicista e cantante. Svetonio racconta che durante le sue esibizioni gli spettatori non potevano lasciare il teatro e aggiunge, probabilmente esagerando, che alcune donne – colte dalle doglie – non poterono allontanarsi e partorirono sul posto. L’imperatore aveva una claque personale, divisa per squadre, che lo sosteneva con tre tipi di applausi che differivano per intensità: i «ronzii», le «tegole» e i «mattoni». Le fonti accennano anche al suo rispetto formale per le regole dei concorsi, per i giudici e per gli altri concorrenti che mostrava di tenere in alta considerazione. Notizie che Kosztolányi riprende e utilizza per provare a ricostruire la personalità dell’imperatore.

UN RAPPORTO AMBIGUO Centrale nel romanzo – come ha notato Thomas Mann – è la figura di Seneca, l’intellettuale a cui Agrippina aveva affidato l’educazione del figlio per prepararlo al futuro luminoso che per lui aveva ipotizzato. Secondo lo scrittore, il legame tra i due diviene emblematico del rapporto ambiguo e difficile tra un intellettuale e il potere, soprattutto se esso evolve verso l’assolutismo. Nel romanzo viene ripercorsa una parabola che inizia con la condivisione di un progetto In alto: dritto di un aureo con i profili associati di Nerone (in primo piano) e di sua madre, Agrippina Minore, da Roma. 55 d.C. Londra, British Museum. A sinistra: ritratto di Agrippina Minore. 50 d.C. circa. Stoccarda, Landesmuseum Württemberg. Nella pagina accanto: La morte di Seneca, olio su tela di Manuel Domínguez Sánchez. 1871. Madrid, Museo del Prado.


politico, prosegue con una freddezza sempre crescente segnata dall’arrivo e dall’affermazione di consiglieri diversi per il principe e termina con la condanna a morte di Seneca che, nel frattempo, ha dovuto accettare compromessi pesanti. Due sono, nel romanzo, le occasioni in cui Seneca occupa il centro della scena: la prima è quando incontra Nerone in preda al rimorso per avere ordinato l’assassinio della madre accusata di tramare contro di lui (capitolo XXVI). In questo caso Seneca tiene al suo allievo, sul quale stava perdendo influenza, una lezione sull’esercizio di un potere senza limiti etici e politici.

Non si sarebbe trattato di un omicidio, di cui lo stesso imperatore sconvolto si accusava, ma di una «necessità politica»: «Lei avrebbe continuato a tramare, l’esercito si sarebbe diviso in due, sarebbe scoppiata una guerra, cittadini e soldati si sarebbero uccisi tra loro. Sarebbe stato meglio cosí? Sinceramente ti saresti sentito meno in colpa, o piú misericordioso se, invece di una, fossero andate distrutte mille vite? Se il Campidoglio o il Palatino fossero stati ricoperti da una montagna di cadaveri?». Il filosofo arriva a dire: «Getta la coscienza nella polvere, nessun vero regnante ne ha conosciuto il signi-

ficato». In proposito, porta l’esempio di Giulio Cesare: «ha fatto uccidere molti piú innocenti di tutti quanti i crimini commessi da chi oggi è in prigione; eppure è riuscito a stare tranquillamente seduto nella sua tenda, a dettare la sua opera sulla guerra in Gallia». Il potere – fa dire Kosztolányi a Seneca – ha una logica interna diversa da quella che regola la società umana. La seconda occasione è quando Seneca – accusato di aver preso parte alla congiura di Calpurnio Pisone (vedi box in questa pagina) – si accinge a mor ire (capitolo XXX). Conversando con la giovane moglie Paolina, che lo invita a

SVENTATO IL COMPLOTTO, LA RAPPRESAGLIA È FEROCE La resa di conti piú sanguinosa negli anni di regno di Nerone fu la repressione della congiura ordita dall’autorevole senatore Calpurnio Pisone per eliminare e sostituire l’imperatore. Venne scoperta nel 65 d.C. e repressa con grande violenza e condanne sommarie. Furono costretti al suicidio letterati celebri: il poeta Lucano, autore del poema Pharsalia; lo scrittore Petronio, autore del Satyricon; il filosofo stoico Trasea Peto e Seneca che era stato precettore dell’imperatore. Le condanne non colpirono soltanto figure di intellettuali, ma anche comandanti militari come Domizio Corbulone, già persona di fiducia dell’imperatore.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/3

venne portata a Roma, Poppea voleva vederla». Piú ampio è lo spazio dedicato ad Agrippina: Kosztolányi ne ricostruisce la personalità sulla base delle testimonianze di Tacito e Svetonio. Viene tratteggiata come una donna dall’ambizione sfrenata, senza limiti morali, con un solo obiettivo: portare il figlio Nerone sul trono e LE DONNE DEL PRINCIPE gestire il potere in prima persona Importanti nel romanzo sono tre seppure da dietro le quinte. Attenta figure di donne: Agrippina, Ottavia e Poppea Sabina, rispettiva- Talma nel ruolo di Nerone, olio su tela mente la madre, la prima giovanis- di Eugène Delacroix. 1856. Parigi, sima sposa di Nerone e la donna Comédie-Française. Il dipinto ritrae che segnò la seconda parte della l’attore François-Joseph Talma in sua vita. A Ottavia lo scrittore de- scena nel Britannicus di Racine. dica poche pagine seppure intense: l’amore giovanile per Nerone, le successive umiliazioni e la progressiva marginalizzazione, l’esilio dopo un’accusa di adulterio e poi la morte voluta dall’imperatore: «Aveva perso la madre, il padre, il fratello [Britannico] e vissuto per quattro lunghi anni in esilio, fra lacrime e tremori, nel terrore, e aveva diciotto anni quando le sue sofferenze ebbero fine. La sua testa fuggire per cercare di evitare la morte, afferma: «Oggi combatto non solo con il suo spirito, ma anche con il mio dentro al suo, con quel demone dell’onnipotenza che gli ho infuso e che ora si è rivoltato contro di me». E ancora: «Non ha limiti, e senza limiti non può esistere né morale né società».

I FALSI NERONE La popolarità di Nerone fu notevole nella plebe di Roma e tra le popolazioni della Grecia, che aveva favorito. Alla sua morte, molti non vollero credervi e ritennero che si fosse soltanto eclissato e che sarebbe tornato al potere nel giro di qualche anno. Tale aspettativa, quasi messianica, spinse alcuni impostori a spacciarsi per lui. Il primo si palesò a pochi mesi di distanza dalla morte dell’imperatore e raccolse attorno a sé disertori, vagabondi e schiavi. Si trattava, in realtà, di uno schiavo proveniente dal Mar Nero, o di un liberto italico. Il suo esercito raccogliticcio venne sbaragliato dalle legioni di Roma.

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e capace nella scelta degli uomini di cui servirsi: il prefetto del pretorio Afranio Burro e il filosofo Seneca. Una vita terminata tragicamente per volere del figlio: la descrizione della sua fine con i tentativi falliti di attentato e il successivo assassinio sono descritti nel capitolo XXV, con lei che grida al militare incaricato di ucciderla: «Colpisci qui! Qui, da dove gli ho dato la vita». La figura di Poppea Sabina è tratNella pagina accanto: Disputa di Simon Mago e crocifissione di san Pietro, affresco di Filippino Lippi. 1482-1485 circa. Firenze, S. Maria del Carmine, Cappella Brancacci.


teggiata con altrettanta attenzione: ne risulta una donna intelligente, calcolatrice, spietata, intenta a scalare la gerarchia del potere, eliminando chiunque si opponga al suo piano comprese Agrippina e Ottavia. Un piano che prevede di arrivare a controllare le scelte di Nerone alternando concessioni e dinieghi, accompagnando i suoi sogni piú o meno segreti, come il raggiungimento della gloria nelle arti e il successo in alcune pratiche sportive del tempo. Di essere, in altre parole, un Apollo e un Eracle nell’ambito di un progetto di deificazione della figura imperiale. Riuscí a raggiungere lo scopo che si era prefissa, ma fu una delusione: «L’ultimo risultato raggiunto non l’aveva riempita di gratitudine, perché non era del tutto proporzionato ai desideri e alle battaglie che l’avevano preparato. Dopo poco tempo non si stupí neanche piú di essere imperatrice, in realtà era come se lo fosse sempre stata». Nerone e Poppea Sabina non avevano piú: «molto da dirsi: non facevano parola del passato, il futuro non li interessava». Rimasta incinta, l’imperatrice fu uccisa da Nerone: «dopo una gara di carri avevano litigato e lui l’aveva colpita al ventre con le scarpe chiodate», narra Kosztolányi ricollegan-

IL MARTIRIO DI PIETRO E PAOLO Negli anni finali del regno di Nerone furono uccisi gli apostoli Pietro e Paolo, giunti a Roma per la loro predicazione. Alcune fonti indicano il 64 d.C. come data della morte di Pietro, altre il 67 d.C. per l’uccisione di entrambi. Sul luogo delle loro deposizioni, c’è concordia maggiore: Pietro in Vaticano, non lontano dal luogo del martirio, Paolo lungo la via Ostiense. Lo storico cristiano Eusebio di Cesarea (265-339 d.C.) ricorda: «Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla strada per Ostia, incontrerai i trofei di coloro che fondarono questa chiesa». In precedenza, Tacito aveva scritto che, dopo l’incendio del 64 d.C., Nerone, per far tacere le voci che sostenevano che la catastrofe fosse stata voluta dall’imperatore stesso: «fece passare per colpevoli e sottomise a torture raffinate coloro che il popolo detestava e chiamava cristiani. Erano chiamati cosí dal nome di Cristo, il quale, sotto l’impero di Tiberio, era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato» (Annali, XV, 44).

dosi alle testimonianze di Tacito e di Svetonio. In un capitolo di grande forza – il XXII – le tre donne diventano protagoniste assolute.

Tifava sempre per quello verde. E gli piaceva andare a teatro (...) Che ne è stato di lui?». Nella domanda sconsolata e finale di Egloge c’è il bilancio di un’esistenza e l’idea di quello che, secondo Kosztolányi, una vita di corte e l’esercizio del potere possono fare di un uomo. Probabilmente vi si può rintracciare anche la motivazione (o, almeno, una di esse) della commozione di Thomas Mann per questo romanzo.

L’ANZIANA NUTRICE E c’è infine un’altra donna: Egloge, l’anziana nutrice di Nerone. È lei, nel capitolo finale, a prendersi cura con pietà delle esequie dell’imperatore morto: «Si mise a cantargli, in greco, una canzoncina che parlava di un cavallo e del suo cavaliere, al galoppo verso chissà quali terre lontane (...) Gli piaceva gio- NELLA PROSSIMA PUNTATA care, disse. Aveva piccoli carri, che aveva colorato di verde e azzurro. • Thornton Wilder

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MUSEI • LOMBARDIA

LA

RICCHEZZA DELL’ACQUA SIN DALL’ETÀ ANTICA – ETRUSCA PRIMA E POI ROMANA – IL TERRITORIO DI CASTEL GOFFREDO, NEL MANTOVANO, VANTA UNA STORIA DINAMICA E FIORENTE. LA RACCONTA, OGGI, IL MAST, MUSEO DI ARTE, DI STORIA E DEL TERRITORIO di Cristina Ferrari

C

astel Goffredo, cittadina in provincia di Mantova, è nota ai piú per le eccellenze nell’industria tessile (produzione delle calze) e in ambito gastronomico (tortello amaro, erba di san Pietro), ma può vantare anche un ricco patrimonio storico-artistico e archeologico. «L’elemento principale – spiega Barbara D’Attoma, direttrice del MAST, Museo di Arte, di Storia e del Territorio – è indubbiamente l’acqua, da cui dipendono la prosperità del territorio e il suo intenso popolamento in tutte le epoche. Il Museo che dirigo è stato inaugurato ufficialmente nel 2017 all’interno del Palazzo della Prevostura e del Palazzo Negri (attuale Casa Canonica) – edifici del XVXVI secolo attigui alla chiesa prepositurale di S. Erasmo –, ma la sua storia è iniziata circa 21 anni fa,


con l’allestimento di esposizioni mirate a far conoscere il patrimonio culturale, sempre in rapporto con un ambito piú ampio. Si è dunque trattato di mostre che raccoglievano i materiali archeologici rinvenuti nel territorio a opera del Gruppo San Luca, la Onlus che tuttora gestisce il MAST». Le sezioni del Museo, che attualmente occupa il piano terra e il primo piano dei due edifici, sono state concepite per creare un percorso unitario, con ogni polo dedicato a un tema particolare della storia della cittadina.

I TEMI PORTANTI «Il percorso espositivo – continua D’Attoma – si basa sull’armonizzazione del criterio cronologico (epoca dei reperti ospitati) con la focalizzazione su alcuni temi principali, identitari e con carattere fondativo per quanto riguarda la città e il territorio, seguendo una immaginaria linea del tempo che guida il visitatore sala dopo sala, raccontando la storia di Castel Goffredo, poiché il MAST non è un museo solamente archeologico, ma di tutti gli aspetti e temi che caratterizzano l’area. In particolare, come accennato, l’acqua, elemento determinante nello sviluppo storico, urbanistico e culturale del centro e tema da cui parte la storia ripercorsa nel Museo. L’acqua ha infatti permesso di praSulle due pagine: immagini di una statuetta in bronzo, con occhi d’argento, del dio Asceplio/Esculapio, rinvenuta in località Traversino Sotto. Prima età imperiale.


MUSEI • LOMBARDIA

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Adda

Lago Maggiore Varese

Como Bergamo

Lago d’Iseo

Milano

Piemonte

fiche», che fungono anche da pannelli didattici. Sulle vetrine, oltre ai testi esplicativi, sono riportati disegni ricostruttivi, che evidenziano i materiali esposti, per farne comprendere l’utilizzo in modo semplice e immediato. Gli oggetti sono divisi in scomparti, simili a «finestre» che si aprono all’interno della vetri-

Lago di Garda

Brescia

Vigevano Po

Trentino Alto Adige

Breno

Lago di Como

Pavia Piacenza

da Ad

PANNELLI E «FINESTRE» «L’allestimento della sezione – commenta Alberto Crosato, conservatore archeologo del MAST – è stato reso possibile grazie al contributo di Regione Lombardia, Fondazione Comunità Mantovana e del Gruppo San Luca». I reperti sono presentati in particolari vetrine «scenogra-

Svizzera

no ci Ti

ticare la tessitura della lana (e in seIn basso: veduta guito della seta), documentata a par- di Castel Goffredo tire dal XIII secolo con i primi in(Mantova). sediamenti degli Umiliati (fino al Nella pagina XVI secolo), e sviluppatasi nel tem- accanto, in alto e po fino al XX secolo con la creazio- al centro: kylix in ne del distretto tessile». bucchero, dalla Nelle sale della sezione archeologi- località Bocchere ca, dall’epoca etrusca (VII secolo (fine del VII sec. a.C.) all’età romana, con particolare a.C.); askos in attenzione per i Celti Cenomani, bucchero, dalla sono riuniti i reperti rinvenuti nel località Santa territorio, quasi tutti provenienti da Maria Maddalena ricerche di superficie e precedente(IV sec. a.C.). mente conservati nei magazzini Entrambi i vasi della Soprintendenza Archeologia, sono in prestito Belle Arti e Paesaggio per le provindai Musei Civici ce di Cremona Lodi e Mantova, agli Eremitani di restaurati, studiati e ora offerti alla Padova, Raccolta pubblica fruizione. Martinati.

Castel Goffredo Og

Cremona

Emilia-Romagna

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Veneto Mantova M

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na-pannello, alcuni ancora vuoti, in quanto il Museo è in continuo divenire e costantemente arricchito da nuove scoperte. «Le indagini di superficie – continua Crosato –, quasi tutte a opera di volontari, hanno permesso di esplorare a fondo il territorio e di identificare circa 60 siti – tra cui oltre 20 ville rustiche di epoca romana –, distribuiti su tutta la superficie comunale, dando un significativo contributo alla conoscenza del suo popolamento e sfruttamento durante le varie fasi storiche. I siti non sono ancora stati indagati tramite scavi, e l’unico vero intervento, nel 2012, ha interessato l’area delle Piscine Comunali». «Il percorso inizia con la sezione dedicata agli Etruschi e alle vie del commercio. In particolare, si possono ammirare oggetti databili dal VII al IV secolo a.C., quali una fibula d’argento di tipo Certosa rinvenuta a Bocchere di Castel Goffredo, un askos in bucchero e una kylix prodotta nel Centro Italia, a testimonianza di commerci a lungo raggio». Le vetrine accolgono inoltre materiali di epoca celtica e romana, come frammenti ceramici molto differenti per tipologia, ovvero vasel-


e una chiave in ferro, un anello d’oro e gemme-castone, e oggetti legati alla religiosità domestica, ovvero una statuetta votiva di Asclepio/Esculapio in bronzo con occhi d’argento, una statuetta fittile di Ercole e due bronzetti di un volatile e di un trono (non è stata rinvenuta la divinità che vi era seduta in origine). La religiosità è anche testimoniata da un’iscrizione con dedica a Mercurio, divinità molto venerata dai Celti, del I secolo d.C. forse proveniente da un’area sacra.

LA FAMIGLIA DI VIRGILIO Un’intera sala è dedicata alla stele funeraria di Publius Magius, personaggio della gens Magia, la famiglia di Magia Polla, madre del poeta Virgilio. «La stele, concessa in prestito dai Musei Civici di Brescia – spiega Alberto Crosato –, è stata rinvenuta a Casalpoglio, frazione del comune di Castel Goffredo, e il suo trasferimento al MAST rappresenta il riappropriarsi di una delle testimonianza piú importanti del Mantovano». Nella sala sono conservati anche pesi da stadera, ritrovati in grandissimo numero, e pesi in piombo da

lame da fuoco (olle), frammenti di anfore vinarie (da conservazione e trasporto), vasellame da mensa, terra sigillata e ceramica a vernice nera (fossile guida delle prime fasi della romanizzazione), che coprono un arco di tempo compreso fra il IV secolo a.C. e il V secolo d.C. Da segnalare un frammento di coppa-piatto del I-II secolo d.C. sul quale è graffito il nome del proprietario e un frammento di anfora tipo Spatheion di produzione africana (V secolo d.C.).

«Non si tratta di capolavori – sottolinea Barbara D’Attoma –, ma di materiali significativi per raccontare la storia e la quotidianità delle varie epoche, oltre alle varie storie che la compongono, dei siti e dei personaggi che in questo territorio hanno vissuto». Pregiati sono invece alcuni reperti conservati nella vetrina dedicata alla centuriazione, databili tra il I secolo a.C. e il V secolo d.C., che comprendono oggetti di uso comune, quali un cavallino, un fischietto

Particolare della vetrina «scenografica» dedicata alla centuriazione.

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bilancia (piú rari) a sottolineare la vocazione commerciale e agricola del territorio. Significativi sono un amorino in bronzo, originariamente elemento decorativo poi riempito di piombo e trasformato in contrappeso da stadera, un contrappeso a sfera, pesi decorati in forma di testine muliebri e due conchiglie in piombo di dubbia funzione, forse «lingottini» da fondere. L’attività agricola viene sottolineata anche dalla prima delle quattro installazioni multimediali comprese nel percorso (che ha per protagonista Magia Polla) e da due macine da mulino ad acqua per la molitura di cereali in verrucano lombardo (una pietra proveniente dalle cave dalla bassa Val Camonica, Brescia) di epoca imprecisata, forse medievale, che presentano tracce evidenti di un uso prolungato nel tempo. «Si possono quindi ammirare – ci dice Crosato – materiali dall’area archeolog ica di Codosso, uno dei siti di epoca romana piú rilevanti di tutto il Comune, in cui sono stati individuati due nuclei abitativi, parte di una grande villa rustica dotata anche di zona termale, e una probabile area sepolcrale, quasi sicuramente collegata alla villa stessa. I reperti, che coprono tutto l’arco di vita della villa (dal II secolo a.C. al V secolo d.C.), testimoniano la grande ricchezza dell’edificio e si dividono tra materiali architettonici (selezione di marmi pregiati, tessere di mosaico, frammenti di intonaco dipinto), oltre a oggetti relativi alla vita quotidia-

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na (nelle diverse epoche) e alle attività agricole e artigianali». Tali aspetti sono coperti da una selezione di monete (contenute in un’apposita vetrina), chiavi, lucerne, un frammento di elemento decorativo per mobili in osso, utensili in ferro (zappe, un cuneo, cesoie, scalpelli, coltelli, una punta di trapano), oggetti per la cura della persona (frammenti di specchio, vaghi da collana), tessere da gioco e un interessante fondo di situla in bronzo trasformato per essere riutilizzato (probabilmente come vassoio).

ARMI E SIGILLI «L’importanza della villa è sottolineata anche da 3 elementi in bronzo per scatole per sigilli, prova di una corrispondenza di altissimo liElemento di arredo in bronzo, in forma di palmipede, dalla località Traversino Sotto. Prima età imperiale.

vello, mentre armi di ferro documentano l’esistenza di una bottega di un fabbro armaiolo attiva all’interno della villa stessa, fatto che, insieme a una fibula militare di epoca tardo-antica, fa supporre che almeno per un certo periodo i proprietari fossero militari». La sala funge anche da collegamento tra la fine dell’impero romano, con il collasso delle ville, e l’Alto Medioevo, caratterizzato dalla nascita dei nuovi insediamenti sull’area delle ex ville stesse. «Le prime testimonianze di epoca cristiana sono rappresentate da due frammenti di recinto presbiteriale di età longobarda, rinvenuti nella muratura esterna dell’oratorio di S. Michele Arcangelo (un santo molto venerato dai Longobardi), la cui attuale struttura settecentesca insiste su una precedente chiesa del XVI secolo, a sua volta costruita sull’edificio originario di epoca longobarda, di 7,2 x 3,8 m, dal quale provengono i frammenti». Si tratta di due pilastrini decorati a bassorilievo, un «maschio» e una «femmina» (uno verticale e uno orizzontale) in marmo di Vezza d’Oglio (Val Camonica), a incastro perfetto l’uno con l’altro. La sezione altomedioevale comprende anche due sottosezioni, caratterizzate da altrettanti «temi forti»: «Quella carolingia è incentrata


Campanello in bronzo, dalla località Selvole. Età imperiale.

sull’erba amara (o di san Pietro), un’erba spontanea (oggi coltivata) da sempre utilizzata in cucina in tutto il territorio, soprattutto nella preparazione dei celebri tortelli di Castel Goffredo, apprezzata anche da Carlo Magno, il quale, secondo Valafrido Strabone, la consigliava per aromatizzare i piatti. La seconda è invece dedicata alla lavorazione della lana e quindi agli Umiliati».

no al marchese Gonzaga (Castel Goffredo era entrato nell’orbita politica dei Gonzaga già nel 1337, diventando “stabilmente mantovana” dal 1441) di esiliare tutti gli Ebrei». Interessante è una copia degli Statuti Alessandrini, promulgati nel 1451 dal marchese Alessandro Gonzaga (1415-1466), e rimasti in vigore fino alla metà del Settecento. Si fa quindi la conoscenza di monsieur Stendhal, che dalla cornice di un quadro trasporta il visitatore nella capitale rinascimentale, in quanto nel 1511 il marchese Aloisio GonTrono bronzeo, sul quale in origine doveva sedere una divinità (non rinvenuta), dalla località Traversino Sotto. Prima età imperiale.

IL BANCO DEGLI EBREI Il visitatore viene accolto da Leone Ebreo (personaggio storicamente attestato), che racconta la storia del Castrum Goffredi, della fortezza, e della comunità ebraica che vi abitò per 300 anni. «Agli ebrei Leone e Giacobbe Norsa – ci dice Barbara D’Attoma – si deve la fondazione, nel 1468, di un banco di prestito a interesse (una banca). La tradizione continua anche nel Seicento, quando ai Norsa si affiancano altre famiglie ebraiche, i Basilea, i Finzi e i Praga, che concedono prestiti in denaro e in granaglie. La convivenza non è sempre facile, basti pensare alla supplica del 1548 con cui gli abitanti di Castel Goffredo chiedo-

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zaga (1494-1549) scelse Castel Goffredo come capitale di un nuovo marchesato indipendente, che comprendeva anche Castiglione delle Stiviere e Solferino, e che durò per circa un secolo. Straordinaria è l’antica Libreria del Clero, un fondo di libri antichi che conta oltre 1000 volumi, molti dei quali splendidamente miniati, che coprono un arco temporale che va dal 1478 alla fine del XVIII secolo, e annoverano incunaboli, rituali, antifonari, graduali, salteri e messali, oltre a testi di patristica, filosofia morale e contemplativa, scritti giuridici e opere letterarie. «A questi si aggiungono anche i libri dell’Archivio del Comune, i Provisionum communis et hominum Casteigufredi, 13 registri redatti tra il 1473 e il 1800 dall’autogoverno della Magnifica Comunità di Castel Goffredo».

Ara con iscrizione a Mercurio, dedicata dal devoto Lucius V. I. per grazia ricevuta (Votum Solvit Libens Merito), da Poiano di Castel Goffredo. I sec. d.C. 84 a r c h e o

LE DOGLIANZE DEL CARDINALE L’epoca della riforma protestante è narrata dall’ologramma di un novizio agostiniano che lamenta che «Castelgifredo è fatto quasi tutto luterano», come scrisse nel 1550 il cardinale Ercole Gonzaga al fratello Ferrante, governatore di Milano. La preoccupazione per l’eresia è ben visibile in un Antiquitatem Iudaicarum, una cinquecentina stampata dall’officina tipografica di Hieronimus Froben, che presenta parole cancellate per autocensura. Il percorso cronologico si conclude con la chiesa prepositurale di S. Erasmo, ricostruita dopo il crollo della cupola del 1588 per volontà del marchese Alfonso Gonzaga e con il contributo delle Congregazioni Religiose e della Magnifica Comunità.Tra gli oggetti conservati spicca un Ecce Homo, una statua lignea dipinta e dorata del XVI secolo, dall’oratorio di S. Apollonio. Molto interessante è anche la sezione «Salviamo le opere!», una mostra di opere restaurate con il contributo di privati e aziende e di Acquisizioni


2017, che comprende opere di vaVetrina nella rie tipologie (quadri, sculture liquale sono gnee, un baldacchino processionale esposti vari tipi di del 1730 con le sue lanterne procespesi e sionali), in particolare il cosiddetto contrappesi. Trittico dei Disciplini, un gruppo In basso: la sala composto da tre statue lignee dipindedicata a te di notevole fattura provenienti Publius Magius, dall’oratorio dei Disciplini, raffigu- con la vetrina dei ranti un San Sebastiano e una Mapesi e la stele donna orante in trono, entrambe opefuneraria dello ra della bottega veronese del Giolfi- stesso Publius, da no (metà del XV secolo), e un San Casalpoglio.

PUBLIUS E ASSELIA, PER SEMPRE INSIEME Rinvenuta murata nella parete di una casa vicina alla chiesa di Casalpoglio, frazione di Castel Goffredo, la stele funeraria di Publius Magius, scolpita in pietra bianca di Botticino e alta 1,8 m circa, si data al I secolo a.C. L’iscrizione, incorniciata tra bassorilievi, recita: «Mentre era ancora in vita, Publio Magio figlio di Marco, appartenente alla tribú Anianse, fece erigere [questa stele] per sé, per la moglie Asselia Sabina figlia di Marco, per Satria Terza figlia di Marco, per la madre Cassia Seconda, figlia di Publio», e si riferisce quindi a un Publius Magius che la fece realizzare per sé e le sue congiunte. L’ipotesi è che si tratti di un personaggio della tribú cremonese degli Aniensi, trasferitosi nell’area di

Castel Goffredo dove probabilmente possedeva terreni. L’ipotesi è supportata dalle figure allegoriche ispirate alla campagna riprodotte nella parte bassa della stele, ovvero un cane, due pecore, un gallo e due bovini che si abbeverano a una fontana. Nella parte alta si vede invece un’edicola con una donna distesa su un letto, forse Asselia Sabina (il cui nome fa presupporre un’origine dalla Val Sabbia, in provincia di Brescia), e, appena sotto, un uomo e una donna in piedi, colti nell’atto della «dextrarum iunctio», la stretta della mano destra che gli sposi si scambiavano al momento del matrimonio, dettaglio che permette di identificarli con lo stesso Publius e appunto Asselia Sabina.

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Giovanni Battista della seconda metà del Quattrocento, attribuito al veronese Giovanni Zebellana. La visita si conclude con la mascotte del Museo, una «statua da vestire» della Madonna Immacolata del XVII secolo, in legno dipinto e snodabile, completa di biancheria e di una veste, attribuita all’ambito di Antonio Montanino da don Giuseppe Fusari, già direttore del Museo Diocesano di Brescia.

IL RECUPERO DELLA TORRE Nel 2021, dopo un lungo iter progettuale e di riqualificazione, è stata inoltre aperta al pubblico la Torre Civica di Castel Goffredo, uno dei monumenti piú antichi del territorio, alta circa 27 m e articolata in 7 piani, in cui si apriva la porta del castello, primo nucleo della città. La riqualificazione ha comportato la chiusura del passaggio tramite vetrate, a creare una stanza per ospitare l’Ufficio Turistico delle Terre dell’Alto Mantovano, mentre il percorso museale racconta la storia delle mura, delle porte, del fossato e del rivellino appartenenti alle due cinte difensive di Castel Goffredo, fino alla terrazza dell’ultimo piano

Pilastrini in origine facenti parte di un recinto presbiteriale. Età longobarda. Nella pagina accanto: Mantova, Palazzo Ducale. Rodolfo Gonzaga nel ciclo dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi. 1465-1474. Castel Goffredo entrò stabilmente nell’orbita gonzaghesca già nel 1337. In basso: sala dell’antica Libreria del Clero.

LA PAROLA A LEONE, A STENDHAL, A UN NOVIZIO E A MAGIA POLLA… Non solo un museo tradizionale, ma anche storia e tecnologia che si fondono a creare un innovativo percorso multimediale: attraverso uno «specchio magico», un quadro parlante, una proiezione oleografica e un video in time lapse, quattro personaggi storici legati alla città introducono i visitatori ad altrettante sezioni del MAST, raccontando la storia del territorio dell’epoca. Cosí Leone Ebreo presenta la storia di Castel Goffredo e la sua evoluzione urbanistica nel Medioevo, epoca in

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cui nella città viveva una comunità ebraica, mentre da un quadro animato monsieur Stendhal accompagna il pubblico attraverso la capitale di epoca rinascimentale (Stendhal è stato scelto perché affermò che per conoscere davvero il XVI secolo è necessario leggere Matteo Bandello, che soggiornò in città dal 1538 al 1541). La seconda metà del Cinquecento è invece narrata da un novizio agostiniano,

che lamenta come Castel Goffredo sia divenuta luterana, citando una lettera scritta nel 1550 dal cardinale Ercole Gonzaga. Infine la sezione romana è presentata da Magia Polla, madre di Publio Virgilio Marone, che in un video in time lapse racconta la vita dell’epoca, nella dimensione agreste e nella dimensione privata, su un fondale in movimento che riproduce fotogrammi della città dall’alba al tramonto.


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Due immagini di una «statua da vestire» della Madonna Immacolata in legno dipinto e snodabile, completa di biancheria intima e di una veste, attribuita all’ambito di Antonio Montanino. XVII sec. L’opera è divenuta la mascotte del MAST.

(belvedere). In linea con la vocazione multimediale del MAST, anche nella torre i visitatori vengono accolti da tre video digitali in 3D. Parallelamente è stato inaugurato l’allestimento dell’antica sagrestia della chiesa prepositurale. Nell’edificio del XVI secolo, interno alla struttura ecclesiastica, è possibile ammirare il Tesoro di Sant’Erasmo, un ricco patrimonio di reliquie e reliquiari databili dall’inizio del Seicento fino al XIX secolo. Il culto dei santi e la consuetudine di conservare e venerare le loro reliquie ebbero grande impulso nel territorio dal 1610, anno in cui Vincenzo I Gonzaga – duca di Mantova e, dal 1602, marchese di Castel Goffredo – donò alla chiesa 134 reliquie provenienti dalla cappella palatina di S. 88 a r c h e o

Barbara in Mantova, inserite nei allestire anche una sezione che abquattro reliquiari ad altarolo dell’i- bracci l’orizzonte cronologico nizio del XVII secolo. compreso fra il XVII secolo e l’età contemporanea, cosí da documenLE PROSPETTIVE FUTURE tare tutte le fasi storiche del territoMa il MAST è un Museo vivo, in rio di Castel Goffredo. continua espansione. Sono state di recente allestite due vetrine che DOVE E QUANDO raccolgono materiali provenienti dall’abitato dell’età del Bronzo di MAST, Museo di Arte, Rassica di Castel Goffredo, le cui di Storia e del Territorio indagini archeologiche sono riprese Castel Goffredo (MN), dopo quasi quarant’anni dall’ultimo via Andrea Botturi 3 intervento. «Queste vetrine – con- Orario gli orari di apertura variano clude Alberto Crosato – le prime di stagionalmente una futura sezione dedicata all’età Info tel. 0376 771006; preistorica, sono molto importanti, e-mail: info@mastcastelgoffredo.it; perché ci permettono di coinvolge- www.mastcastelgoffredo.it; re il pubblico, mostrando il prose- Infopoint di Castel Goffredo: guire dei lavori e le nuove scoperte». tel. 371 5403859; e-mail: Si stanno inoltre cercando fondi per info@terrealtomantovano.it



SPECIALE • STANDARDIZZAZIONE

UN

IMPERO

FATTO IN SERIE

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INCREMENTO DEI CONSUMI, PRODUZIONE SERIALE E DI MASSA, STANDARDIZZAZIONE: SIAMO SICURI CHE SI TRATTI DI FENOMENI DI IDEAZIONE E ADOZIONE RECENTI? O NON FURONO, FORSE, I ROMANI A DARE IL VIA A QUELLA CHE POSSIAMO CONSIDERARE LA PRIMA, VERA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE DELLA STORIA? di Flavio Russo

Pompei, Casa dei Vettii. Il fregio ad affresco con amorini impegnati in varie attività produttive. Poco dopo il 62 d.C. Nel particolare su doppia pagina, se ne vedono due che lavorano come orefici.

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C

on l’avvento dell’età imperiale romana esordisce, sebbene esistesse già da tempo, sia pure in forme embrionali e comunque non sistematiche, una antesignana produzione di massa, determinata dall’espandersi dei consumi, che, a sua volta, fu l’esito del crescente benessere assicurato dai successi militari. Riguardò dapprima minuti oggetti di vastissima adozione, quali, per esempio, le fibulae, vale a dire le spille fermaveste ampiamente utilizzate nell’abbigliamento maschile e femminile, che conobbero infatti produzioni seriali di enormi quantità, con poche varianti formali. Debuttò cosí un criterio che presto si manifestò in molti altri settori, con un unico limite dirimente: la produzione, di qualsiasi genere fosse, avrebbe dovuto eccedere il cosiddetto punto di pareggio, ovvero che gli introiti derivanti dalle vendite degli oggetti riescano a superare i costi fin lí sostenuti per realizzarli, in tempi relativamente brevi. Il perché è insito proprio nelle esigenze della produzione di massa che, per essere realmente tale, ha bisogno di rilevanti, o comunque costosi, investimenti iniziali, per lo piú in attrezzature di produzione tra cui per l’epoca deve includersi anche la mano d’opera servile, incentivati dalla presunzione di una abbondante domanda. Il che si tradusse, e continua a tradursi, nel saper produrre oggetti nel minor tempo e con la minore quantità di materiale e perciò col minimo costo, in modo di riuscire a porli in commercio in modo economico e conveniente per una gran massa di acquirenti. Il criterio informatore su cui oggi insiste la produzione seriale, denominata anche unificazione, normalizzazione o normazione, implica l’adozione di dimensioni, forme e materiali prestabiliti, condizioni indispensabili per abbattere tempi e costi. Tra le primarie conseguenze pratiche perseguite e raggiunte, oltre ai vantaggi economici, vi era anche la possibilità, per le merci piú complesse, di sostituirne le componenti avariate con similari, come oggi facciamo rimpiazzando una lampadina fulminata con una del medesimo tipo. Per noi non desta alcuna curiosità svitare la lampadina ormai inutile e avvitare al suo posto la nuova: ma dietro quel gesto meccanico si cela la lunga vicenda tec92 a r c h e o

nologica che lo ha consentito, per cui, oltre alla produzione massiccia di lampadine, era indispensabile anche la loro assoluta invarianza formale. Ora, sebbene la produzione seriale riguardi soprattutto beni di consumo, va precisato che, affinché possa avvenire, occorre che a monte venga garantita l’unificazione dei valori del denaro, del tempo e dello spazio. Senza questi rigidi parametri condivisi, nessun apparato statale, per quanto efficiente, potrebbe assicurare una qualsiasi produzione di massa e la sua relativa commercializzazione.

DAL BARATTO AL COMMERCIO L’emissione di monete, che possiamo considerare come la prima produzione di massa della storia, rese possibili l’adozione di un sistema economico di scambio che pose fine all’arbitrarietà del baratto come metodo mer-

Asse in bronzo battuto a Roma dopo il 211 a.C. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Al dritto, la testa bifronte di Giano; al rovescio, la prua di una nave. Nella pagina accanto: fibula ad arco in bronzo di produzione romana. 100-200 d.C. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.


lo a.C., era scandito da un araldo incaricato dei consoli. Piú tardi si dimezzarono quegli ampi intervalli: il primo in mattina e anti meriggio; il secondo in pomeriggio e sera, ciascuno dei quali di 3 ore. Grazie a una meridiana razziata a Catania si conobbe finalmente l’ora a Roma, sebbene fosse però quella della città siciliana! Soltanto nel 10 a.C. Roma, per merito di Augusto, poté disporre di un preciso orologio solare il cui gnomone era l’obelisco che oggi svetta in piazza Montecitorio. Nel frattempo, si erano diffusi fra i ricchi patrizi gli orologi meccanici ad acqua, complessi e scarsamente precisi. Non a caso, Seneca ironizzava dicendo che a Roma era impossibile conoscere l’ora, essendo piú facile mettere d’accordo due filosofi greci che due orologi... Asse 1 asse 12 once Per unificazione dello spazio, infine, si deve Semiasse 1/2 asse 6 once intendere la definizione ufficiale delle unità Triente 1/3 di asse 4 once di misura lineari, ponderali e di superficie. Era Quadrante 1/4 di asse 3 once indispensabile conoscere le dimensioni di Sestante 1/6 di asse 2 once ogni manufatto, anche per apprezzarne il coOncia 1/12 di oncia 1 oncia sto, o il peso di una derrata al fine di accertare l’importo di una determinata quantità, sia Aveva anche diversi multipli cosí denominati: nel caso fosse un solido coerente, sia un insiecantile. Inizialmente si realizzarono per fusione monete o piastre di peso rigidamente standardizzato, dapprima in bronzo e poi con metalli preziosi il cui valore economico era dato dal valore commerciale della stessa materia prima nella quale erano fuse, la cui pezzatura era comunque prestabilita. La piú antica moneta romana standardizzata fu l’aes grave, bronzo pesante, fusa, che solo in un secondo momento sarà battuta, e la cui adozione si fa risalire intorno alla metà del IV secolo a.C. Pesava circa 327 grammi e aveva diversi sottomultipli, espressi in dodicesimi di libbra, pari perciò a 327/12, circa 27,25 grammi, ciascuno dei quali denominato oncia:

Asse Dupondio Sesterzio Tripondio

1 asse 2 assi 2,5 assi 3 assi

Quadrusse 4 assi Quinario 5 assi Denario 10 assi

Da aes derivò il nome dell’asse, la prima unità monetaria romana: prodotta fino al III secolo d.C., va considerata la moneta di valore minimo emessa con regolarità durante l’impero.

MISURARE IL TEMPO Per l’unificazione del tempo deve intendersi, la definizione ufficiale dei mesi, dei giorni dell’anno nonché delle ore del giorno. Tutti dovevano conoscere in quale giorno dell’anno fossero in quel preciso momento e in quale ora della giornata, coordinate che inquadravano non solo la scansione degli eventi ma anche lo scadere degli obblighi economici quali debiti e salari. Di questa necessità i Romani avvertirono con un certo ritardo l’importanza, essendo stato sufficiente per secoli dividere in due la giornata, prima e dopo il mezzogiorno, l’annuncio del quale a partire dagli inizi del III secoa r c h e o 93


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PER L’ORA ESATTA, CI VUOLE... L’ACQUA Fra gli antichi strumenti di misurazione del tempo, si annovera la clessidra automatica a indicazione annuale ideata da Ctesibio, uno dei maggiori scienziati della Biblioteca di Alessandria, con il disco indicatore staccato. Il congegno, qui ricostruito virtualmente, funzionava mediante un regolare stillicidio d’acqua, da un serbatoio superiore a un recipiente inferiore. Un sifone provvedeva a svuotare ogni 24 ore il recipiente di raccolta, nel quale pescava un apposito galleggiante, collegato a un contrappeso mediante una catenella, solidale a un indice rotante. Il sollevarsi del livello dell’acqua, alzando il galleggiante, provocava la rotazione dell’indice, in ragione proporzionale allo scorrere del tempo. A ogni ciclo, pari a un giro completo, corrispondeva un giorno, evidenziato su di un sofisticato quadrante circolare.

Romani la necessità di unificarle: gli edifici che in ogni angolo dell’impero venivano eretti secondo criteri architettonici romani, implicavano che le direttive e le relative misure fossero perfettamente comprensibili alle maestranze locali, dovunque esse si trovassero. Come unità di base fu scelto il piede, pari a 29,65 centimetri, un’unità che divenne obbligatoria sotto Augusto. Un campione di riferimento della misura, il pes monetalis, veniva custodito nel tempio di Giunone Moneta (Ammonitrice), denominazione che in seguito passò a indicare quanto si realizzava nell’adiacente zecca, la moneta, appunto. Il piede aveva multipli e sottomultipli:

me incoerente, ricorrendo in quest’ultima circostanza alla stima del suo volume tramite una mensa ponderaria. Criterio informatore delle unità lineari di misura romana furono le parti del corpo umano, per cui vennero definite unità antropometriche. Per entità maggiori, quali le distanze geografiche, si ricorreva al tempo di percorrenza necessario, o, per le costruzioni, alle giornate lavorative necessarie alla loro ultimazione. L’origine disparata di tali unità impose ai 94 a r c h e o

dito oncia palmo

digitus 1/16 uncia 1/12 palmus 1/4 piede cubito passo semplice passo doppio pertica atto stadio miglio lega

1,85 cm 2,47 cm 7,41 m pes cubitus gradus passus pertica actus stadium miliarium leuga

1 1,5 2,5 6 10 120 625 5000 7500

29,64 cm 44,46 cm 74 cm 148 cm 296 cm 35,52 m 185 m 1,48 km 2,22 km


Quanto alle misure di superficie, lo iugerum equivale all’incirca a 1/4 di ettaro, vale a dire a 2500 mq, mentre l’actus quadratus a 1/8, cioè a 1265 mq circa.

MISURE ATTENTAMENTE CONTROLLATE Non meno dettagliata fu la standardizzazione elaborata per le unità ponderali, sia per gli aridi che per i solidi: per i liquidi

sextarius hemina incoerenti modium amphora

1/2 litro 1/4 litro 9 litri 7 litri per gli aridi 26 litri

Con i loro incavi standardizzati, le mense ponderarie garantivano l’esatta quantità degli incoerenti. A Pompei se ne può osservare una, collocata presso il tempio di Apollo, dotata di nove incavi semicircolari di diametro decrescente, ciascuno relativo a una precisa quantità, consentendo perciò di verificare, alla pre-

La mensa ponderaria murata in una nicchia del santuario di Apollo a Pompei. Si tratta di un bancone utilizzato per verificare le misure di capacità impiegate per le merci negli scambi commerciali. In basso: abaco portatile in bronzo, da Saint-Martin-deCorléans (Aosta). I sec. d.C. Aosta, Museo Archeologico Regionale.

senza di un magistrato municipale, la correttezza della quantità in vendita. Pur essendo quel servizio pubblico già attivo in epoca sannita, dal 20 a.C. venne adattato ai nuovi standard del sistema di misura romano, con l’aggiunta di altre tre cavità. Per i solidi si avevano la libbra, assis, pari a 327 grammi circa, e l’oncia, pari a sua volta a 27 grammi circa e fra le piú note unità ponderali. Vi erano poi i pesi impiegati sulle bilance corrispondenti alle unità ufficiali: «Ammiano Marcellino dice che sotto Valentiniano era cresciuta a tal segno la frode sulle misure e su i pesi che questo Imperatore ordinò a Pretestato, prefetto di Roma, di farsi in tutti i rioni di Roma de’ pesi e delle misure pubbliche, con cui regolar si dovessero con quelle de’ particolari» (Su i valori delle misure e dei pesi degli antichi romani, memoria di Luca de Samuele Cagnazzi, Napoli 1825). Se le unità di misura innanzi ricordate costituivano per certi aspetti i parametri entro i quali si dipanava l’esistenza attiva, il sistema di numerazione e calcolo a base 10, sistema decimale in dipendenza dal numero delle dita, ne fu l’immancabile corollario. Il nostro sistema di numerazione è infatti a base 10 perché contiamo formando gruppi di 10 unità, le decine, di 10 decine, il centinaio, di 10 centinaia il migliaio, ecc. Di conseguenza, ogni numero assume un preciso valore in base alla sua posizione nella cifra, partendo dall’ultima a sinistra che indica le unità. I numeri romani, però, non avevano un valore di posizione, per cui mentre per noi, per esempio, il numero 3 può indicare tre unità o tre decine o tre miglia, ecc., a seconda di come si collochi nell’intera cifra, per i Romani III aveva sempre il medesimo valore. Non cosí però sul loro abaco a colonne, dove assumeva un valore di posizione in relazione alla colonna di posizione. Con questa precisazione un piccolo abaco romano, non piú grande di un attuale telefono cellulare, consentiva di calcolare con le quattro operazioni canoniche suddividendo i numeri in unità, decine, centinaia, migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia e milioni! I suddetti parametri, imprescindibili per la vita di relazione di uno Stato organizzato, non furono raggiunti contemporaneamente, ma dall’inizio dell’età imperiale erano ormai tutti vigenti, consentendo perciò l’avvio della standardizzazione propriamente detta. a r c h e o 95


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AGLI ALBORI DEL CONSUMISMO

S

ebbene siamo portati a ritenere la produzione seriale figlia della Rivoluzione Industriale, la sua concezione originaria, come accennato, è di gran lunga piú antica, al momento che, nella sua manifestazione piú evidente, possiamo datarla al I secolo d.C.Va perciò considerata coeva agli sviluppi della società imperiale, caratterizzata da una notevole espansione militare e da un conseguente diffuso benessere, che, non a caso, determinò un repentino incremento della domanda di molteplici oggetti con un contestuale esplodere di consumi generici. Ben nota, nel primo caso, è l’esigenza connessa con l’armare un esercito il cui organico, dopo la riforma di Augusto, ammontò a circa 340 000 uomini: numeri che obbligarono a introdurre e adottare una produzione seriale – dai gladi agli elmi, dalle loriche alle calighe – standardizzata e con poche varianti legate alle diverse taglie fisiche e alla congruità con le latitudini di servizio. Quanto all’impennata delle esigenze civili, dall’edilizia all’abbigliamento – per citare solo alcuni ambiti dove rilevante risulta la domanda –, va ascritta 96 a r c h e o

anch’essa all’esponenziale aumento del denaro circolante, che innescò una sorta di corsa agli acquisti, esito e al contempo moltiplicatore delle produzioni di massa.

IL TRIONFO DEL SUPERFLUO Di fronte a una situazione del genere, priva di precedenti, procedere, come nel passato, con piccole fabbriche che producevano ciascuna secondo un proprio criterio e una propria connotazione, sarebbe stata una scelta scriteriata e, di fatto, avrebbe impedito di garantire forniture omogenee. Nella società contemporanea, quello stesso fenomeno, esaltato dalla pubblicità, si è guadagnato l’etichetta di consumismo, costituendo in pratica il trionfo del superfluo (spacciato per bisogno inderogabile), e si è trasformato nel vero motore di un sistema produttivo ormai indispensabile per non riflettersi negativamente sui livelli occupazionali della popolazione. Tornando all’economia del primo impero, all’impennata della domanda – che andava dalla richiesta di semplici utensili agricoli, agli oggetti domestici, come per esempio lucerne,

Disegno ricostruttivo di un manipolo di legionari romani dell’età imperiale. Alla dotazione di elmi, armi e altri accessori utilizzati dai soldati si provvide dando avvio a una delle prime produzioni in serie della storia.


Elmo di un soldato romano rinvenuto nei pressi di Masada (Israele).

corde, stoviglie, tessuti, ecc. – si rispose incrementandone la tradizionale prassi di fabbricazione fin che fu possibile, per poi passare a una diversa maniera di produrre. Per essere venduti a basso prezzo ma senza abbassarne la qualità, gli oggetti dovevano essere prodotti in gran numero e sempre con le medesime caratteristiche: una produzione da noi definita seriale, che può considerarsi solo la premessa della standardizzazione, mancando l’obbligatorietà dell’adozione di un’unica forma, che in breve, quando non imposta da appositi decreti, lo fu dal mercato. La produzione seriale fu per i Romani la risposta ai consumi di massa, che, a loro volta, iniziarono a rispondere, oltre che ai bisogni

concreti, anche a esigenze di tipo ostentativo, definite attualmente status symbol, ovvero beni che funzionavano da indicatori evidenti della propria ricchezza, come all’epoca potevano essere le finestre con lastre di vetro o i pavimenti con marmi policromi a intarsio. Il fenomeno crebbe rapidamente, determinando la netta demarcazione fra le potenzialità del ceto abbiente, molto ristretto e sempre piú ricco, e la gran massa degli humiliores, crescente e sempre piú povera.

DAL PUBBLICO AL PRIVATO Incremento esponenziale dei consumi, produzione seriale e produzione di massa, furono le tappe del percorso che determinò, oltre alla produzione seriale l’uniformazione dei prodotti, che vennero perciò progressivamente fatti rientrare in precise forme e dimensioni, trattandosi dell’unica soluzione che poteva soddisfare le enormi richieste pubbliche, divenute poi anche private. Si attuò allora un processo sostanzialmente simile a un altro che riteniamo una nostra recente ideazione e adozione, estendendolo a ogni settore della coeva produzione industriale: la standardizzazione propriamente detta. Quest’ultima, detta anche unificazione o normazione, è la procedura tramite la quale si stabiliscono le dettagliate caratteristiche di un insieme di componenti o di materiali, in modo tale che siano compatibili fra loro con caratteristiche costanti. In breve, nel caso di un oggetto particolare, come per esempio un elmo, le caratteristiche ottimali – sia dal punto di vista della fruizione, sia economico –, una volta individuate, venivano fissate con apposite ordinanze, in modo che tutte le fabbriche, indipendentemente da dove si trovassero, producessero quel copricapo allo stesso modo e in grandi quantitativi. Tutti i legionari avrebbero pertanto indossato il medesimo modello, prodotto magari in due o tre formati per adattarsi alle diversità fisiche. La medesima prassi si applicò a gladi, corazze, calzari e tuniche. E il sistema, visti i positivi risultati, si diffuse ben presto anche alle produzioni civili piú diversificate, di cui, nelle pagine che seguono, citeremo solo alcune tra le piú note. a r c h e o 97


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MATTONI, TEGOLE E LATERIZI IN GENERE

La civiltà romana ebbe quale connotazione peculiare la capacità di costruire, sostenendo con adeguate opere edili le principali esigenze delle sue numerose città, dai ponti agli acquedotti, dalle terme agli anfiteatri, dalle dighe ai porti solo per ricordarne alcune. Costruzioni spesso colossali, che ebbero nel-

la tecnica del calcestruzzo la soluzione strutturale e straordinariamente flessibile per antonomasia. I ruderi che si scorgono in ogni angolo di un impero arrivato a estendersi su tre continenti, testimoniano quanto ricordato con il rosso colore dei mattoni che ne furono il presupposto. E proprio il fabbisogno immenso di laterizi fu lo stimolo per la loro standardizzazione, ovvero per limitarTavola di Giovanni Battista Piranesi nella quale il celebre incisore e architetto illustra i diversi tipi di mattoni utilizzati dai Romani nelle loro costruzioni, da Le Antichità romane. 1756. Nella pagina accanto: esemplari di anfore romane di varia foggia e tipologia. Età imperiale. Alcúdia (Maiorca, Isole Baleari), Museo Monográfico de Pollentia.

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ne la produzione a poche tipologie di misure costanti, garantite da precisi bolli che ne ricordavano oltre alla corrispondenza dimensionale anche la data di fabbricazione e il luogo di provenienza. Paradossalmente, il mattone cotto non esordí come tale, ma derivò dalle tegole piatte di ampie dimensioni e modesto spessore, con un aspetto molto diverso dall’attuale essendo di forma quadrata con incise due linee di frattura diagonale, per consentirne in cantiere la loro agevole frammentazione in sottomultipli triangolari, per edificare l’opus testaceum. In epoca imperiale due furono i tipi di laterizi di larghissimo impiego, e quindi standardizzati: il bipedalis, quadrato, con 2 piedi di lato (59,2 x 59,2 cm circa); il sesquipedalis, anch’esso quadrato, ma di 1,5 piedi di lato (44,4 x 44,4 cm circa); e sempre di forma quadrata il bessales, con un lato di 2/3 di piede (19,7 cm circa). Questi formati rimasero in produzione praticamente per l’intera durata dell’impero. Come accennato, dalla loro frammentazione diagonale, si potevano ricavare quattro o due pezzi triangolari, che venivano impiegati con lo spigolo affogato nella massa di calcestruzzo e il lato dritto a vista, accrescendone in tal modo la coesione.

CERAMICHE PER USO DOMESTICO: ANFORE, ANFORETTE E DOLII

Oggi definiremmo i contenitori in terracotta romana «vuoti a perdere»: l’accumulo dei loro cocci, infatti, diede origine a Roma a una collinetta artificiale, alta una quarantina di metri, non a caso definita monte Testaccio (dal latino testae, che indicava appunto i cocci). Lo studio dei resti che la componevano ha permesso di distinguere tipologie precise, a partire dall’anfora – che presto raggiunse una capacità di circa 26 litri – e fu adottata anche come unità di misura per i liquidi, corrispondendo a 1 piede cubo. Ben piú grandi erano gli enormi contenitori in terracotta chiamati dolii: di forma globulare, avevano un volume che oscillava mediamente fra i 1500 e i 2000 litri con altezze comprese fra 1,5 e 1,6 m, per larghezze massime di circa 1,5 m. Dimensioni che, unitamente alla bocca molto larga, consentivano a un uomo di penetrare al loro interno per le pulizie: e del resto, secondo la tradizione, proprio in un dolio aveva scelto di vivere il filosofo Diogene... a r c h e o 99


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LASTRE DI MARMO PER PAVIMENTI E RIVESTIMENTI

In età imperiale, grazie alla lunga sperimentazione della sua straordinaria tenuta adesiva, il calcestruzzo fu utilizzato anche come collante, consentendo perciò l’impiego di lastre di marmo di vari colori, per rivestire le pareti o comporre i pavimenti. 100 a r c h e o

Per entrambe le destinazioni le lastre potevano essere di grandi dimensioni o in frammenti dal preciso taglio geometrico con i quali formare, grazie alle loro differenti colorazioni, apprezzati disegni. In ambedue i casi, per agevolare il lavoro di posa in opera e, soprattutto, di lucidatura, si stabilí di dare alle lastre uno spessore costante, di circa 3-4

Rilievo raffigurante un marmista al lavoro. Età imperiale. Roma, Museo della via Ostiense.


In alto: ricostruzione virtuale di una sega idraulica in uso nella città di Efeso. In basso: la facciata del Pantheon, a Roma, con le imponenti colonne, alte circa 13 m ciascuna.

COLONNE: STILI E DIMENSIONI

Nell’architettura romana la colonna assolveva spesso, oltre alla funzione decorativa anche quella di tipo squisitamente statico, per cui la sua costruzione in appositi laboratori, distinti e distanti dalla fabbrica di impiego può considerarsi un antesignano esempio di prefabbricazione. Data la fortissima richiesta, ne vennero realizzate in gran numero in diversi stili e in precise dimensioni standard, la piú grande delle quali è attestata dalle 16 colonne del Pantheon, che, pur provenienti da cave diverse, misurano tutte circa 13 m di altezza, per un diametro di base di 1,5 m.

cm, ottenuto da un certo momento in poi con apposite seghe idrauliche a numerose lame, in grado di funzionare a ciclo continuo. Cosí ridotte, le lastre potevano essere trasportate in grandi quantitativi dalle navi lapidarie fino al porto di Ostia, da dove poi, trasferite su appositi battelli risalivano il Tevere per essere scaricate presso l’Aventino. a r c h e o 101


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TUBI DI PIOMBO

Nel capitolo 26 del suo De aquae ductu urbis Romae, il senatore Sesto Giulio Frontino – che nel 97 d.C. fu nominato curator aquarum di Roma, ovvero responsabile dell’approvvigionamento idrico della capitale –, sulla scorta dell’esperienza acquisita in materia sul finire del I secolo d.C., ci tramanda le grandezze standardizzate dei tubi in piombo. Non si tratta, però, del loro diametro, che non avrebbe peraltro un particolare significato, dal momento che la sezione geometrica degli stessi non era circolare, ma a pera, poiché il loro procedimento di costruzione consisteva nell’avvolgere una lamina di piombo intorno a un’anima e saldarne poi superiormente i bordi dopo averli accostati. Ciò premesso, va precisato che le misure ru-

CHIAVI D’ARRESTO E RUBINETTI

L’idraulica urbana romana utilizzava chiavi d’arresto di bronzo che venivano prodotte in serie, secondo otto misure standardizzate. La loro struttura si conferma estremamente semplice e, al contempo, di grande razionalità. Consta, fondamentalmente, di due parti, definite rispettivamente maschio e femmina, che ricordano con approssimazione le spine delle botti. Volendo meglio descriverle, la prima, detta anche maschio o rotore, era realizzata cava in forma tronco-conica, con un foro centrale passante; l’estremità superiore, una volta montata, fuoriusciva dalla femmina, e presentava un alloggiamento quadrato, nel quale si infilava la leva di manovra. Quest’ultima era fusa in bronzo, poi regolarizzata al tornio e lucidata a specchio, Una chiave d’arresto d’età romana, di dimensioni medie. Tali strumenti si componevano di due elementi, definiti «maschio» e «femmina».

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bricate da Frontino si riferiscono alla larghezza del foglio di lamiera di piombo che, una volta curvato, permetteva la fabbricazione di quel particolare tubo, al quale oggi facciamo corrispondere un preciso diametro massimo. Circa i maggiori bisogni, occorre aggiungere che, in realtà, non abbiamo riscontri archeologici, poiché, a oggi, non ne sono mai stati trovati neppure modesti frammenti. Dal che, tuttavia, non si può concludere che non vennero mai prodotti o utilizzati, ma, se mai, che subirono solo una piú spietata distruzione, essendo maggiormente remunerativa la loro rottamazione. Qui sotto: tabella con le misure romane dei tubi di piombo espresse in dita.

Fistula quinaria Fistula senaria Fistula settenaria Fistula ottonaria Fistula denaria Fistola duodenaria Fistula vicenaria

tubo da 5 dita tubo da 6 dita tubo da 7 dita tubo da 8 dita tubo da 10 dita tubo da 12 dita tubo da 15 dita tubo da 20 dita tubo da 25 dita

Ø pollici Ø pollici Ø pollici Ø pollici Ø pollici Ø pollici Ø pollici Ø pollici Ø pollici

1.25= 23 mm 1,50= 28 mm 1,75= 32 mm 2,00= 37 mm 2,50=46 mm 3,00= 55 mm 3,75= 69 mm 5,00= 92 mm 5,50= 115 mm

non necessitava di alcuna guarnizione bastan- Qui sotto: disegno do semplicemente forzarne l’inserimento per ricostruttivo di ottenere una perfetta tenuta. una chiave La seconda parte, definita femmina o statore, d’arresto, con gli constava di un corpo cavo, munito di un inelementi gresso e di un’uscita, per gli allacci riprincipali visti spettivamente con l’acquedotto e con in sezione. l’utenza. La cavità centrale, alesata con precisione in forma tronco-conica, di


come miscelatori monocomando per erogare acqua alla temperatura desiderata. La verifica dell’ottima qualità e, al contempo, della straordinaria longevità di queste chiavi d’arresto, prodotte come i tubi, è confermata dalla constatazione che quasi tutti gli esemplari rinvenuti, dopo una sommaria pulizia, sono ancora in grado di funzionare perfettamente!

In alto: porzione di condotto in piombo. I sec. d.C. Padova, Musei Civici. L’iscrizione reca il nome del plumbarius, C. Lollio Grato.

diametro congruo al maschio, ne fungeva da alloggiamento. Inserito fino alla giusta posizione, il rotore veniva bloccato mediante una punzonatura alla base; poteva cosí ruotare liberamente in entrambi i versi, ma non fuoriuscire.Va inoltre osservato che, grazie al loro particolare disegno, quelle chiavi, sostanzialmente simili ai rubinetti, si potevano allacciare a due tubi sia a 180° che a 90°, salvo poi chiudere il foro inutilizzato con un apposito tappo di bronzo. Con una lieve modifica, potevano funzionare anche

Qui sopra: una chiave d’arresto modificata, cosí da ottenere un miscelatore, le cui prestazioni erano analoghe a quelle di un moderno monocomando. A destra: disegno ricostruttivo di una chiave d’arresto, con gli elementi scomposti. a r c h e o 103


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LO SCARTAMENTO DEI CARRI

I

carri romani a quattro ruote, qualunque fosse la loro utilizzazione – trasporto passeggeri, agricolo e mercantile, sia solido che liquido –, montavano sistematicamente l’avantreno fisso. Le ruote anteriori e posteriori, infatti, mostrano in tutte le fonti iconografiche, il medesimo diametro e, per giunta, risultano comunque piú alte del cassone, per cui il loro assale non avrebbe potuto girarvi sotto. Un ulteriore dettaglio lo conferma: i cavalli appaiono attaccati quasi a contatto con il cocchiere, una collocazione inconciliabile con un timone che, per agevolare la sterzata, avrebbe dovuto invece mantenerli distanti. Senza contare che in Ricostruzione virtuale di un carro di tipo veloce per trasporto privato, munito di sistema frenante sulle ruote anteriori e di un mantice di copertura.

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qualche raffigurazione si distingue un freno a martellina, cioè del tipo di quelli ancora in uso sui carri merci ferroviari. Funzionando tra la ruota anteriore e lo stesso cassone, con l’avantreno sterzante, la sua collocazione sarebbe risultata impossibile: non a caso i suddetti vagoni merci hanno gli assali fissi. Una apparente anomalia, per lo piú curiosamente ignorata nelle ricostruzioni museali, che non derivava dall’incapacità di concepire un avantreno sterzante, che in alcuni casi dovette certamente

esistere, ma dalla sua inidoneità a sopportare i carichi. Un assale attraversato da un perno era comunque debole e l’unico supporto che lo sorreggeva nelle curve strette rischiava di spezzarsi. Non è un caso che quando si costruirono gli autocarri per grandi carichi se ne raddoppiò l’avantreno e si adottarono quattro ruote sterzanti. Per risolvere quel grave problema di controllo

A destra: ricostruzione virtuale di una carrozza-letto, un veicolo ideato per far fronte anche a lunghi viaggi, provvisto di «cuccette» e munito di una sospensione a doppia cinghia, cosí da risultare piú confortevole. In basso: ricostruzione virtuale di un carro a due botti, una per il vino bianco, l’altra per il rosso.

della direzione di avanzamento, si adottarono solchi guida-ruote, ben attestati a Pompei, a volte in asse con la strada per centinaia di metri, a volte appena adiacenti agli attraversamenti. Non era una scelta irrazionale, poiché i veicoli a ruota guidata odierna, tram e treni, sono preferiti proprio perché il binario favorisce il transito in ambiti appena piú larghi del veicolo stesso, senza eccessive oscillazioni, ovviamente oltre a ridurre considerevolmente la resistenza al rotolamento.

Dal punto di vista tecnico, va osservato che l’adozione dei solchi guida ruote suppone l’uniformazione della distanza fra le ruote dei veicoli, equivalente antico della distanza fra i binari, attualmente definita scartamento. Gli ingegneri romani, portarono lo scartamento dei carri a 1,442 m, al quale in seguito coincise il cosiddetto scartamento Stephenson, pari a 1,435 m. Ancora oggi è lo scartamento dei binari di molti Paesi e dei convogli ad Alta Velocità, che sfrecciano anche oltre i 500 km/h! a r c h e o 105


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REMI PER LA FLOTTA

Il movimento della voga degli antichi rematori delle navi da guerra non doveva certo essere molto ampio a causa degli angusti spazi interni all’aposticcio; tuttavia, data la lunghezza dei remi, alla pala si aveva un piú che discreto arco. Per facilitare la lettura delle cifre che seguono, dobbiamo però rammentare le misure già proposte per i remi: lunghezza totale 8,50 m con 50 cm di pala; lunghezza dallo scalmo all’impugnatura, 3 m. La deforestazione costituisce uno dei fattori di massimo impatto ambientale in Grecia prima e in Roma poi, non solo per le esigenze legate all’agricoltura, alla pastorizia e alle molteplici e diverse attività economiche, ma soprattutto per la necessità di legname per costruzioni navali. È stato calcolato che una flotta di 100 triremi richiedeva 17 000 remi, di tre diverse dimensioni in base all’ordine di collocazione del rematore, costruiti con alberi giovani d’alto fusto (abeti, cipressi, pini marittimi, ecc.).

LASTRE DI VETRO

Nel I secolo d.C. i Romani furono in grado di produrre il vetro piano con cui fabbricare lastre: una tecnica che segnò un grande progresso nell’edilizia poiché consentiva la costruzione di finestre che bloccavano il vento senza oscurare la luce. La produzione del vetro in epoca imperiale, infatti, fece registrare progressi straordinari, in particolare per quanto concerne la soffiatura, come è attestato anche da Plinio il Vecchio. La facilità di lavo106 a r c h e o

Mosaico policromo raffigurante una nave a remi di epoca romana, dall’antica Thugga (Dougga, Tunisia). Tunisi, Museo Nazionale del Bardo. In basso: vetro da finestra. Pompei, Casa di Giulio Polibio. I sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: disegno ricostruttivo di una bottega di Pompei nella quale, fra gli oggetti in vendita, si riconoscono lampade e lucerne. Nella pagina accanto, in basso: lanterna in bronzo con coperchio mobile, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

razione consentí, da un certo momento in poi di soddisfare esigenze fino ad allora inimmaginabili soprattutto nel settore dell’edilizia. Ne scaturí una vastissima gamma di prodotti che andava dagli oggetti domestici a quelli artistici, dai pezzi industriali a quelli tecnici, primi fra tutti le ampie lastre di vetro piano per gli infissi delle abitazioni. Fino a non molti decenni or sono l’esistenza di lastre di vetro nelle finestre delle abitazioni romane, anche delle piú sontuose, non veniva presa molto sul serio. Se mai esistita, la si considerava un’eccentricità del proprietario, piuttosto che una diffusa presenza. Gli scavi di Ercolano e di Pompei, invece, hanno dimostrato che l’adozione di lastre era prassi corrente, sia che fossero realizzate direttamente di vetro, sia di pietra speculare, ovvero di mica. Classico è il caso della veranda della Casa dell’Atrio, a Ercolano (insula IV n. 1-2). In dettaglio si è potuto accertare che un settore dell’ambulacro orientale, che affacciava su di un elegante giardino, era coperto da una tettoia con travi di legno e chiuso da un telaio verticale, anch’esso ligneo, ma a rettangoli, nei quali stavano inserite le lastre di vetro. Queste, ovviamente, avevano dimensioni relativamente ridotte, comprese fra i 40 e i 60 cm di lato, attestandosi i reperti pervenutici su di un modulo standard di 51 x 45 cm, con una colorazione verdastra e un approssimato parallelismo. Oltre che in telai di legno, le lastre di vetro


erano non di rado montate anche in telai di metallo e mantenute in sito da apposite borchie di bronzo. In alcuni casi furono montate in telai interamente di bronzo, capaci di consentire la totale chiusura di vasti vani e, in diverse circostanze, persino degli intercolumni di un peristilio. La stessa tecnica degli infissi vetrati era usata anche per la costruzione di serre, alcune delle quali sono ricordate mobili, grazie ad appositi carrelli. Plinio descrive una struttura fissa vetrata al cui riparo stavano diversi carrelli relativamente piccoli. Quelle serre mobili, servivano per accelerare la crescita dei cetrioli.

LANTERNE A VENTO

Le case romane, e peggio ancora quelle greche, non disponevano di impianti per l’illuminazione notturna di significativa portata, anche quando costruite con notevole sfarzo. In pratica i mezzi usati per disporre di un minimo di luce di notte si riducevano soltanto a tre: lucerne a olio di minime dimensioni, candele di sego e lanterne a olio, in grado di resistere al vento grazie a un’apposita schermatura di vetro. Circa queste ultime, indicavano abitualmente un dispositivo portatile a forma di gabbia coperto da un involucro di vetro, al cui interno era posta una sorgente luminosa cosí protetta dal vento che altrimenti l’avrebbe spenta. Da una concezione del genere derivava la riduzione del rischio d’incendio nel caso in cui una scintilla salti dalla fiamma o la lanterna cada. Ciò era particolarmente importante sottocoperta nelle navi: un incendio su una imbarcazione di legno avrebbe potuto trasformarsi in una sciagura. Del tipo piú usato di lanterna a vento sono stati ritrovati diversi esemplari, per cui si ritiene che fu quasi certamente una derivazione dalle lanterne utilizzate sia negli accampamenti dei Romani che sulle loro navi da guerra, cioè in circostanze in cui si richiedeva un impiego prolungato e una ampia resistenza al vento e alla pioggia. L’archeologia pompeiana ce ne ha restituito un discreto numero, perfettamente simili a quelle raffigurate sulla Colonna Traiana, a bordo delle navi militari.

Consistevano in un contenitore di bronzo, formato da un basamento e da un coperchio sollevabile su sottili guide. All’interno, fissato al fondello, un serbatoio, anch’esso di bronzo, per l’olio combustibile, simile a un calamaio, da cui fuoriusciva il lucignolo. Lungo il bordo del fondello vi era una scanalatura, destinata a ricevere il vetro, uguale a quella presente nel coperchio per lo stesso scopo. Per accenderla, si sollevava quest’ultimo e, dopo aver ripulito il vetro, si accendeva il lucignolo, regolandone la lunghezza in modo da ottenerne una maggiore o minore luminosità. Dopo di che si abbassava il coperchio, e una volta incastratovi il vetro, se ne bloccavano i fermi. A quel punto la lanterna poteva essere sospesa tramite la catena al suo supporto e alla sua altezza, in grado di funzionare anche con forte vento. Questo tipo di lanterna, a eccezione della sostituzione dell’olio con il petrolio, restò in uso fino alla metà del secolo, e sopravvive ancora come lampada d’emergenza. a r c h e o 107


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

INGANNI D’AUTORE MOLTI INCISORI CINQUECENTESCHI SI DEDICARONO ALLA CREAZIONE DI SESTERZI «ALL’ANTICA». MONETE E MEDAGLIE DI FATTURA ECCELLENTE, AL CUI PREGIO ESTETICO, PERÒ, NON CORRISPONDEVA LA COERENZA STORICA DELLE COMPOSIZIONI

L’

eccezionale capacità imitatoria degli incisori di medaglie e monete cinquecentesche dette origine a una ricchissima serie di esemplari ispirati all’iconografia numismatica romana, che potevano essere o riproduzioni perfette, spesso scambiate come originali, oppure

nuove creazioni, talvolta contraddistinte dall’unione di dritti e rovesci di serie diverse o di pura invenzione. Come abbiamo visto nei mesi scorsi, il padovano Giovanni da Cavino (1500-1570) fu uno di questi maestri, incisore di Disegno del falso sesterzio di Giovanni da Cavino con Vespasiano e l’Anfiteatro Flavio, dal Magnum ac Novum Opus di Jacopo Strada. 1550. Nella pagina accanto: sesterzio di Giovanni da Cavino con testa di Vespasiano al dritto e l’Anfiteatro Flavio con la Meta Sudans e il doppio porticato al rovescio.

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successo, capace di padroneggiare la sua arte anche per la profonda conoscenza delle fonti letterarie e numismatiche antiche, realizzando ricercati capolavori che conobbero grande fortuna e ancor oggi presenti nelle piú importanti collezioni museali.

SAPER DISTINGUERE La perizia del da Cavino e dei medaglisti suoi contemporanei, capaci di «ingannare» con le loro perfette opere piú di un collezionista, era ben nota agli studiosi dell’epoca. Tra questi vanno ricordati, tra gli altri, gli illustri e poliedrici numismatici Jacopo Strada e Enea Vico. Il primo, autore di una grandiosa Epitome Thesauri antiquitatum (Lione 1553), ribadiva l’importanza di una approfondita padronanza della numismatica antica per poter


Nel Magnum ac Novum Opus di Jacopo Strada compare uno splendido disegno del sesterzio del da Cavino, con Vespasiano al dritto rivolto verso sinistra e leggenda IMP CAES VESPASIAN AVG PM TR P PPP COS VIII, databile al 77 d.C. e al rovescio il Colosseo tra la Meta Sudans e il doppio portico, moneta che l’autore afferma di aver visto in alcune collezioni private. Esistono poi altri esemplari di questa serie nei quali la titolatura è COS III, adottata dall’imperatore nel 71 d.C., quindi ben prima che l’Anfiteatro Flavio fosse completato e inaugurato. È possibile che Giovanni da Cavino realizzò questi sesterzi a nome di Vespasiano palesemente inventati ben sapendo che l’incongruenza cronologica e tipologica adottata non sarebbe sfuggita agli esperti collezionisti dell’epoca. Infatti, nella sua produzione non manca la moneta a nome del divo Tito, correttamente realizzata con Tito seduto al dritto, e al rovescio il Colosseo.

distinguere gli originali dalle creazioni moderne all’antica. Nell’altra sua precedente opera Magnum ac Novum Opus (1550), forte di oltre 8000 monete, presenta come «buoni» anche esemplari che poi si sono rivelati imitazioni; egli stesso non disdegnò, comunque, di realizzare falsi. In un passo dell’Epitome (p. A 4r.) ribadisce poi come ai suoi tempi circolassero monete realizzate da «incisori tanto brillanti quanto eccellenti, [tanto] da essere paragonabili agli antichi, e che sono troppo noti per essere nominati qui. Per questo motivo, si deve prestare la massima attenzione a selezionare le monete appena realizzate in bassorilievo da [maestri] particolarmente esperti, per la loro bellezza ed eleganza». Enea Vico, nei suoi Discorsi sopra le medaglie degli antichi (Venezia 1555, p. 67) menziona tra coloro i quali «sono stati, et hoggi sono, eccellenti imitatori di medaglie antiche nel cognio» anche Giovanni da Cavino con il figlio, e Benvenuto Cellini.

PER SAPERNE DI PIÚ

IL SIMBOLO DI ROMA Tra i modelli d’appeal prescelti per le riproduzioni/invenzioni cinquecentesche non poteva certo mancare l’Anfiteatro Flavio, simbolo di Roma ricolmo di valenze storiche e ideologiche, sia positive, quale struttura potente e immortale rappresentazione della potenza dell’Urbe, sia negative, in quanto luogo di sofferenza e martirio, sede di demoni pagani e infernali. Il Colosseo sulle monete imperiali è

peraltro piuttosto raro, prescelto soltanto da Tito, Domiziano, Severo Alessandro e Gordiano III. Giovanni da Cavino, che certo ben conosceva le emissioni flavie, concepisce un nuovo tipo, accoppiando alla testa di Vespasiano, che non coniò mai tali monete, l’anfiteatro battuto su esemplari di Tito e Domiziano negli anni 80-82 d.C.

Maria Cristina Molinari, Il falso sesterzio di Vespasiano con il tipo del Colosseo nella raccolta Maruffi, e Giuseppe Schirripa Spagnolo, Giancarlo Della Ventura, Fabio Bellatreccia, Analisi storico-iconografica e accertamenti tecnici su un falso sesterzio di Vespasiano con il tipo del Colosseo nella collezione Maruffi, in Terre Antichità Memorie. La raccolta numismatica Maruffi, RomaTre-Press, Roma 2014

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Salvatore Settis e Giulia Ammannati

RAFFAELLO TRA GLI STERPI Le rovine di Roma e le origini della tutela Skira editore, Milano, 260 pp., tavv. col. 28,00 euro ISBN 979-88-572-4738-0 www.skira.net

Come scrive Salvatore Settis proprio in apertura di questo saggio, l’idea che Raffaello Sanzio possa essere considerato come il «primo soprintendente alle antichità di Roma» è «davvero molto attraente, ma tutt’altro che scontata». Ma da che cosa nasce questa programmatica affermazione? È lo studioso stesso a rispondere, nel lungo e articolato capitolo introduttivo del libro, interrogandosi innanzi tutto sulla possibilità che il documento al quale l’intera opera è dedicata, da sempre conosciuto come Lettera a Leone X, non sia a tutti gli effetti un’epistola. E argomenta l’inedita congettura 110 a r c h e o

ricorrendo all’espediente giornalistico delle cinque W, ovvero What, Who, When, Where, Why (Cosa, Chi, Quando, Dove e Perché), a cui aggiunge un significato How (Come). La scelta si rivela efficace, perché, oltre a offrire in maniera sistematica i molti elementi sui quali formulare giudizi

e ipotesi, permette di inquadrare la vicenda nel suo contesto storico e culturale e di seguire le «mosse» dei suoi protagonisti: lo stesso Raffaello e Baldassarre Castiglione – il letterato e diplomatico, autore, fra gli

altri, del Cortegiano –, che all’artista fu legato da uno stretto rapporto d’amicizia e da un’altrettanto solida affinità intellettuale. Nodo cruciale della questione è la stesura della Lettera e, senza qui anticipare le conclusioni alle quali

Raffaello, incisione di Marcantonio Raimondi. 1518-1520 circa. Londra, The British Museum.


In alto: Ritratto di Baldassarre Castiglione, olio su tela di Raffaello. 1513 circa (o 1519?). Parigi, Museo del Louvre. A destra: Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, olio su tavola di Raffaello. 1518. Firenze, Galleria degli Uffizi. si giunge nel volume, appare assai probabile che la sua redazione materiale sia stata opera di Castiglione, il quale avrebbe «tradotto» le idee sviluppate da Raffaello, confezionandole con un linguaggio tale da risultare piú consono per l’illustre destinatario, papa Leone X. Altro motivo

El cadavero di quella nobil patria... Cosí si apre il testo della Lettera, nella versione conservata all’Archivio di Stato di Mantova: «Sono molti, Padre Santissimo, li quali, misurando col suo piccolo iudicio le cose grandissime che de li Romani circa l’arme, e de la cità di Roma circa el mirabile artificio, le ricchezze, ornamenti e grandezzat de li aedificii si scrivono, quelle più presto estimano fabulose che vere. Ma altrimente a me sole avenire, perché, considerando dalle reliquie che anchor si veggono delle ruine di Roma la divinitate de quelli animi antichi, non estimo far di raggione credere che molte cose a noi paiono impossibili che ad essi erano facilissime. Però, essendo io stato assai studioso di queste antiquitati e havendo posto non piccola cura de cercharle minutamente e misurarle con diligentia e, legenda li boni authori, conferire l’opere con le scritture, penso haver conseguito qualche noticia de la architetturaanticha. Il che in un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognitione di cosa tanto excellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi el cadavero di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato».

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Baldassarre Castiglione, Autografo della Lettera a Leone X. 1519. Mantova, Archivio di Stato, Archivio Castiglioni (acquisto 2016).

di dibattito è il fatto che lo scritto sia rimasto incompiuto, a causa della morte prematura del pittore, e fosse quindi solo parte di una 112 a r c h e o

dissertazione piú ampia e articolata, da immaginare come una sorta di «proposta di legge» che si intendeva porre al vaglio del pontefice,

allo scopo di convincerlo dell’importanza di proteggere i monumenti antichi. Un intento che comunque emerge dalle copie manoscritte della

Lettera oggi esistenti e dal quale è nata l’idea ricordata all’inizio, vale a dire quella di considerare Raffaello alla stregua di un soprintendente ante litteram. Nella seconda parte del volume, grazie al contributo di Giulia Ammannati, si entra, per cosí dire, nel vivo dell’argomento, poiché vengono riportate le trascrizioni dell’autografo di Baldassarre Castiglione (oggi custodito nell’Archivio di Stato di Mantova) e di una delle copie della Lettera, conservata a Monaco di Baviera. I due testi sono messi a confronto e, con il concorso delle osservazioni di Ammannati, si possono seguire i vari interventi apportati, i ripensamenti, le correzioni… Un lavorio che prova come, al di là degli scrupoli stilistici, la materia fosse considerata di grande importanza e fosse necessario sostenere in maniera convincente le «rivendicazioni» avanzate in particolare da Raffaello: emblematico, del resto, è l’inizio del testo (vedi box a p. 111), nel quale si lamenta il deplorevole stato nel quale versano monumenti che meriterebbero ben altre cure e attenzioni. Stefano Mammini



presenta

ISTANBUL DALLE ORIGINI AGLI SPLENDORI

DELL’

IMPERO OTTOMANO

Caso unico al mondo, la città di Istanbul si estende su due continenti, l’Europa e l’Asia, qui divisi dalle acque del Bosforo. La storia di quella che è oggi una vera e propria metropoli ebbe inizio con ogni probabilità per mano di coloni greci, dopo i quali molte furono le genti che s’insediarono sul Corno d’Oro, segnando piú di una «rinascita». Dopo che Costantino ne aveva fatto la Nuova Roma, la città divenne la capitale dell’impero bizantino, per poi trasformarsi nella splendida culla del potere ottomano. Una vicenda plurisecolare, dunque, che il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre e documenta in maniera puntuale, evidenziandone i passaggi cruciali e sottolineando l’importanza dei suoi protagonisti, fra i quali si annoverano grandi condottieri, sultani, nonché uomini di scienza e cultura, come il celebre architetto Sinan. Soprattutto, l’Istanbul di oggi conserva straordinarie testimonianze di quel passato: ecco perché i suoi monumenti, dalle antiche mura bizantine agli splendidi edifici a cupola delle moschee ottomane, contrassegnate dallo slancio dei tanti minareti, rappresentano pagine di storia aperte. Sono il racconto, vivo, di una città tra Europa e Oriente, tra Cristianesimo e Islam, tra passato e futuro.

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