Archeo n. 455, Gennaio 2023

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LA

LACHISH

CORDOVA E IL MEDITERRANEO

FEDERICO HALBHERR

CORDOVA E IL MEDITERRANEO L’ETÀ DEL CAMBIAMENTO

THORNTON WILDER

SPECIALE ROMANI, GALLI E GERMANI SUL RENO

TRIBÚ GERMANICHE SUL RENO

PROTAGONISTI

FEDERICO HALBHERR

LETTERATURA

LE IDI DI MARZO

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 7 GENNAIO 2023

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CI RO TT À M NA A ww SC w. OS a rc TA he

2023

Mens. Anno XXXIX n. 455 gennaio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 455 GENNAIO

BASILEA ROMANI, GALLI E

€ 6,50



EDITORIALE

HORTUS SECRETUS Osservate la foto dell’elegante edificio e del magnifico giardino all’italiana antistante. Immaginereste mai di trovarvi in presenza non di una principesca residenza di campagna, ma di una dimora situata nientemeno che nel mezzo di un centralissimo quartiere di Roma? L’immagine ritrae uno dei tanti «tesori nascosti» della capitale: si tratta della villa voluta dal cardinale Alessandro Albani (1692-1779) per accogliere la sua straordinaria collezione di antichità e d’arte. Progettata a partire dal 1747 in un’area poco fuori Porta Salaria, è racchiusa da un alto muro di cinta che ancora oggi la nasconde completamente, se non fosse per quell’unica apertura visiva concessa dalla presenza del grande cancello su via Salaria. Alla realizzazione di quello che sarebbe ben presto diventato il «Cenacolo di Villa Albani», vero fulcro di aggregazione dell’intellettualità dell’epoca, contribuirono nomi come Giovanni Battista Piranesi (autore dell’incisione riprodotta in questa pagina), l’architetto Giovanni Battista Nolli, l’archeologo e «padre» della storia dell’arte Johann Joachim Winckelmann. Nel 1866 la villa viene acquistata dalla famiglia Torlonia a cui spetta il grande merito di aver preservato intatti fino a oggi, le architetture e il parco. Contrariamente alle altre, numerose ville patrizie della città divenute pubbliche, Villa Albani Torlonia è rimasta, dunque, proprietà privata e la visita è consentita esclusivamente agli studiosi. Forse per questa sua condizione di deliberata ed estrema discrezione, la consapevolezza dell’immenso valore degli innumerevoli capolavori custoditi nella villa non ha mai, veramente, varcato la soglia del cancello di via Salaria. Rimanendo appannaggio di alcuni, fortunati, eletti. In questi giorni, però, la pubblicazione di un importante volume, voluto dalla Fondazione Torlonia e affidato alla cura scientifica dell’archeologo e storico dell’arte greca e romana Carlo Gasparri, segna uno spiraglio d’apertura: Villa Albani Torlonia. Architetture Collezioni Giardino (320 pp., 280 ill., Electa, Milano) offre, per la prima volta al grande pubblico, uno scorcio sul sogno classicista del cardinale Albani; su quell’incredibile luogo nascosto nel centro di Roma che, come ha ricordato in occasione della presentazione del volume il presidente della Fondazione, Alessandro Poma Murialdo, vuole farsi «eredità culturale della Famiglia per l’umanità». Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Hortus secretus 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCAVI Il pozzo delle scoperte

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di Andreas M. Steiner

ALL’OMBRA DEL VULCANO Pascoli e buone pratiche

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a cura di Alessandra Randazzo

BIBLIOTECHE Studiare, sempre

IN DIRETTA DA VULCI Un tetto per l’aldilà

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di Giuseppe M. Della Fina

MOSTRE Un ambasciatore d’eccezione 18 FRONTE DEL PORTO Dalle acque dell’esagono 20

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A TUTTO CAMPO Usi e riusi dell’antico 30 di Mara Sternini

MOSTRE Una città «nascosta» 32 MUSEI I tesori dell’illustrissimo signor Annibale 36 INCONTRI Il lusso come status symbol 38 MOSTRE Dalla culla dell’immaginario egizio 40 ARCHEOFILATELIA L’uomo della Grande Iscrizione 42 di Luciano Calenda

€ 6,50

www.archeo.it

2023

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o. it

IN EDICOLA IL 7 GENNAIO 2023

CIT RO TÀ M NA A SC OS TA he

ARCHEO 455 GENNAIO

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

L’ETÀ DEL CAMBIAMENTO

Mens. Anno XXXIX n. 455 gennaio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE ROMANI, GALLI E GERMANI SUL RENO

Impaginazione Davide Tesei

THORNTON WILDER

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Un italiano sull’isola di Minosse 64 di Stefano Struffolino

64

In copertina veduta di Cordova: in primo piano, il ponte sul Guadalquivir e, sullo sfondo, la moschea-cattedrale, simbolo della città spagnola.

CORDOVA E IL MEDITERRANEO

FEDERICO HALBHERR

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

PROTAGONISTI

Federico Curti

CORDOVA E IL MEDITERRANEO

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

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Presidente

LACHISH

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

48

di Elena Percivaldi

di Alessandra Ghelli

Anno XXXIX, n. 455 - gennaio 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Quella svolta davvero epocale

di Carlo Casi

di Daniele Fortuna e Sandra Gatti

SCOPERTE Una zanna contro i pidocchi

22

di Giampiero Galasso

di Giampiero Galasso

PASSEGGIATE NEL PArCo Sulle orme di Enea

MOSTRE

MUSEI Sotto il segno di Hera Lacinia

BASILEA ROMANI, GALLI E TRIBÚ GERMANICHE SUL RENO

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Comitato Scientifico Internazionale PROTAGONISTI

FEDERICO HALBHERR

LETTERATURA

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

LE IDI DI MARZO

22/12/22 16:58

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Esaú Dozio è curatore presso l’Antikenmuseum und Sammlung Ludwig di Basilea. Daniele Fortuna è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Giampiero Galasso è giornalista. Sandra Gatti è referente scientifica del Progetto Rotta di Enea. Alessandra Ghelli è funzionario archeologo subacqueo del Segretariato Regionale per la Calabria e del Parco archeologico di Ostia antica. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Alessandra Randazzo è giornalista. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Stefano Struffolino è epigrafista e membro della Missione archeologica in Cirenaica dell’Università degli Studi «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/4

La solitudine di un dittatore

80

di Giuseppe M. Della Fina

80 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA I mille diavoli del Colosseo

90 110

di Francesca Ceci

LIBRI

112

SPECIALE

Lungo le rive del grande fiume

90

di Esaú Dozio

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 49, 66 (basso), 74/75, 96 (alto) – Cortesia Fondazione Torlonia: Massimo Listri: p. 3 (alto) – Cortesia Soprintendenza ABAP province di Siena, Grosseto e Arezzo: pp. 6-8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Israel Antiquities Authority: Dafna Gazit: p. 12 (alto, a sinistra, e basso, a sinistra) – Daniel Vainstub: p. 12 (in basso, a destra) – Emil Aladjem: p. 13 (alto) – Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia degli autori: pp. 16-17, 73 (destra), 75, 110-111 – Fondazione Luigi Rovati: Daniele Portanome: p. 18 – MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona, Cortona: p. 19 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 20-21 – Cortesia Museo e Parco Archeologico Nazionale di Capo Colonna: pp. 22-26 – Parco Archeologico Naturalistico di Vulci: pp. 28-29 – Doc. red.: pp. 30, 38, 65, 73 (sinistra), 78-79, 81, 82, 85, 88/89 – Ufficio Stampa Fondazione Prada: p. 31 – Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 32-34 – Ufficio Stampa-Promozione Comune di Pesaro/Assessorato alla Bellezza: pp. 36-37 – Museo Egizio, Torino: pp. 40-41 – Cortesia comitato organizzatore della mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo entre Constantino y Justiniano», Cordova: pp. 48, 50-61 – da: Orsi, Halbherr, Gerola. L’archeologia italiana nel Mediterraneo, Edizioni Osiride, Rovereto 2010: pp. 67, 70 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 68/69, 83; Fototeca Gilardi: p. 69; Cortesia Everett Collection: p. 80; Archivio GBB: p. 84; Album/Fine Art Images: pp. 86/87; Album/Oronoz: p. 97 – Accademia Roveretana degli Agiati, Rovereto: pp. 70/71, 72 – Stefano Struffolino: p. 76/77 – Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig, Basilea: NVP3D: pp. 90/91; Ruedi Habegger: pp. 92, 98/99, 99, 100-103, 106-109; Historisches Museum Basel: p. 94; Ralf Roletschek: p. 95; A. Killian, Städtische Museen Freiburg, Archäologisches Museum Colombischlössle: p. 96 (basso); Rijksmuseum van Oudheden, Leiden: p. 98; Römerstadt Augusta Raurica, Susanne Schenker: p. 104 (alto); Archäologische Bodenforschung Basel-Stadt: p. 104 (centro); Archäologische Bodenforschung Basel-Stadt, Udo Schön: p. 104 (basso); Archäologische Bodenforschung Basel-Stadt, Michael Wenk: p. 105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 12 e 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Toscana

IL POZZO DELLE SCOPERTE

S

i sono di recente concluse le indagini archeologiche nel Parco Emanuele Petri di Camucia di Cortona, in provincia di Arezzo. Inserita in un tessuto fortemente urbanizzato, l’area rientra nella zona adiacente all’attuale SR 71, che ricalca un antico percorso pedecollinare, utilizzato sin da epoca protostorica per collegare Cortona con Castiglion Fiorentino e Arezzo a nord e con Perugia e Chiusi a sud, lungo il quale si collocano diversi importanti rinvenimenti archeologici, tra cui i

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monumentali tumuli funerari etruschi del Sodo I e II e quello detto François, Proprio a Camucia, dagli anni Novanta del secolo scorso, sono stati effettuati vari ritrovamenti relativi a strutture cultuali etrusche, tra cui lo scarico di terrecotte architettoniche individuato in località «I Vivai-Giardino», e un articolato complesso con portico e altari tra via Capitini e viale Gramsci, che attestano l’intensa frequentazione dell’area in età ellenistica e la sua vocazione

In alto: ortofoto dell’area di Camucia, nel Parco Emanuele Petri di Cortona (Arezzo). I recenti scavi ne hanno attestato l’intensa frequentazione, a scopo soprattutto cultuale.


In basso e nella pagina accanto, in basso: immagini del pozzo scoperto nel corso degli scavi e del recupero dei materiali trovati al suo interno. Profonda oltre 5 m, la struttura ha rivelato una sequenza stratigrafica complessa e intatta. Il suo utilizzo ebbe inizio, con ogni probabilità, a partire dalla fine del III sec. a.C. religiosa e produttiva. I reperti sono in parte esposti al MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona, nella sala dedicata ai santuari della città. Considerate le potenzialità archeologiche nella zona denominata «Ex Maialina», un tempo sede del mercato del bestiame e oggi destinata a diventare parco ricreativo comunale, sono state attivate le procedure di archeologia preventiva tra il 2018 e il 2019 e ancora nel 2020 e 2022, portando all’individuazione di una grande struttura, con molta probabilità un recinto di culto all’aperto, con due ingressi simmetrici e un pozzo centrale; l’area era sicuramente destinata anche ad attività per la produzione di ceramica e laterizi, data la massiccia presenza di scarti di fornace e strati arrossati dal fuoco. «All’interno del recinto – spiega Ada Salvi, funzionario archeologo SABAP di Siena e direttore dello scavo – sono state indagate diverse fosse riempite con scarti di produzione depositati selettivamente (tegole, ceramiche, mattoni, terrecotte architettoniche, pilastrini e separatori per fornace). I materiali ceramici sono

rappresentati per lo piú da ollette d’impasto, ciotole e coppette a vernice nera e ceramica grigia; un grande dolio a bocca quadrata con orlo decorato da zig-zag graffiti era stato sistemato nei pressi del pozzo, all’interno di una fossa pseudocircolare nella quale erano stati deposti centinaia di frammenti di piccole situle ad anse verticali d’impasto semidepurato, molti dei quali con evidenti difetti di cottura. Il pozzo oggetto della recente campagna di scavo ha rivelato al suo interno una stratigrafia

archeo 7


n otiz iario

complessa e completamente intatta. La struttura, del diametro massimo di circa 1,5 m e profonda oltre 5 m, è in parte foderata di pietre e in parte ricavata nella massiccia arenaria naturale, per intercettare l’acqua di falda che ancora filtra copiosamente attraverso una serie di tagli a «V» ricavati nella parete rocciosa. Le indagini indicano l’utilizzo del pozzo almeno a partire dalla fine del III secolo a.C., come testimoniano alcune monete in bronzo fuso della serie Giano/Prora e una patera ombelicata a vernice nera di probabile produzione alloctona depositata sul fondo, che attestano almeno un episodio a carattere votivo, che ne potrebbe aver segnato la «fondazione». Altri episodi cultuali sono testimoniati dalla presenza, nei livelli stratigrafici intermedi, di vasetti miniaturistici e fibule di bronzo e argento. La fase d’uso vera e propria, da connettere certamente anche con la presenza delle attività produttive presenti nell’area, è testimoniata da decine di brocche e olle d’impasto in parte integre e in parte in frammenti ricomponibili, utilizzate per attingere l’acqua. Il vaglio e la flottazione a campione dell’argilla depuratissima filtrata all’interno del pozzo hanno inoltre permesso di recuperare elementi lignei, tracce vegetali, semi, acini d’uva e pinoli, oltre a ossa di piccoli animali (soprattutto piccoli roditori). La dismissione del pozzo sembra coincidere con l’abbandono non solo dell’area immediatamente circostante, ma anche con la distruzione e la dismissione del vicino complesso dei Vivai, individuato qualche centinaio di metri piú a sud lungo lo stesso tracciato viario, oggetto di uno

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scavo di emergenza nella prima metà degli anni Novanta del secolo scorso, che restituí un cospicuo gruppo di terrecotte architettoniche datate dal III al I secolo a.C. e interpretate come pertinenti a una struttura templare, della quale, però, non si conservano le murature. Il pozzo, infatti, è risultato colmato con tegole ed elementi decorativi fittili della medesima tipologia di quelli dei Vivai, gettati evidentemente a seguito di un evento di distruzione e abbandono occorso attorno alla metà del I secolo d.C., come Ada Savi, direttrice dello scavo, mostra uno dei reperti recuperati nel pozzo: un frammento di decorazione fittile in forma di testa di ariete.

attestano alcuni frammenti di terra sigillata con bollo in planta pedis di MANNEIUS, attivo ad Arezzo e in Val di Chiana tra il 30 e il 70 d.C. Sono cosí emerse dal fango che riempiva la cavità, ancora ricchissima d’acqua, tegole dipinte, una base di colonna in pietra, parti di statue in terracotta che dovevano far parte di una decorazione frontonale e altri elementi decorativi fittili tra cui una testa di ariete e lastre architettoniche decorate a stampo». Lo scavo si è presentato piuttosto complesso per varie difficoltà logistiche che hanno portato all’adozione, per la sicurezza, di una serie di accorgimenti tecnici anche inediti, che hanno consentito di operare scientificamente vedendo il coinvolgimento di diverse professionalità di alto livello, le cui competenze spaziano dalla messa in sicurezza alla documentazione stratigrafica al delicatissimo recupero delle policromie conservatesi sulle terrecotte. A breve la struttura sarà messa in sicurezza, illuminata e resa fruibile al pubblico dei visitatori. Le indagini, finanziate dal Ministero della Cultura, si sono svolte sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo. I lavori sono stati effettuati dalla ditta Capannini di Castiglion Fiorentino, con la conduzione degli archeologi Hermann Salvadori, Lucia Pagnini e Alessandro Costantini e la collaborazione di Matteo Bruni e Alberto Patania. Il restauro dei materiali in emergenza è stato condotto da Nadia Barbi, mentre la documentazione dei reperti mobili è stata affidata a Mattia Bischeri. Giampiero Galasso



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

SULLE ORME DI ENEA IL TEMPIO DI ROMOLO NEL FORO ROMANO ACCOGLIE UN INSIEME DI PREZIOSI REPERTI SCELTI PER RIEVOCARE IL MITO DELL’EROE TROIANO. E, IN PARTICOLARE, LA VICENDA DEL SUO ARRIVO NEL LAZIO, PREMESSA ALLA NASCITA DELLA STESSA ROMA

È

stata inaugurata la mostra «Il viaggio di Enea. Da Troia a Roma», ideata e organizzata in collaborazione con l’Associazione Rotta di Enea al fine di promuovere e diffondere la conoscenza del mito di Enea e quella dell’Itinerario Culturale «Rotta di Enea» certificato dal Consiglio d’Europa nel 2021. Cantato da Virgilio nell’Eneide, il mito di Enea ha pervaso profondamente la cultura europea, impersonando i valori della tradizione romana: la lealtà, il senso di appartenenza alla collettività, il rispetto per la famiglia, per lo Stato e per gli dèi. Oggi la figura dell’eroe troiano e il suo viaggio verso Occidente rappresentano l’emblema dell’incontro possibile fra culture diverse e della speranza nel futuro. La mostra racconta questo e molto altro attraverso preziosi reperti provenienti da tutta Italia, alcuni mai esposti in precedenza. Ventiquattro opere di grande interesse, databili fra il VII secolo a.C. e la piena età imperiale, sono proposte secondo percorsi tematici chiave. Tra i temi ricorrenti figurano le immagini di Enea, di suo padre Anchise e di sua madre

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Statua raffigurante il Palladio, dal santuario di Minerva a Lavinium. V sec. a.C. Pratica di Mare (Pomezia), Museo Civico Archeologico Lavinium. la dea Afrodite: varie opere rappresentano lo schema classico dell’eroe troiano che tiene per mano il piccolo figlio Ascanio e porta sulle spalle l’anziano padre Anchise, invalido – forse cieco o forse incapace di camminare – perché punito da Zeus per avere rivelato il segreto della sua unione amorosa con la dea Afrodite/Venere, da cui era nato Enea. Questa tremenda punizione è forse raffigurata su un reperto risalente al VII secolo a.C., proveniente da Falerii Veteres, antica città falisca, e conservato nel Museo Archeologico Nazionale dell’Agro Falisco a Civita Castellana: una bardatura di cavallo in bronzo in cui è raffigurata una donna con un bimbo in braccio, forse la dea Afrodite


La rotta seguita da Enea dopo la fuga da Troia e fino allo sbarco nel Lazio. con Enea bambino, e un uomo accecato da uccelli, da identificare probabilmente con Anchise.

PARIDE ED ELENA Il giudizio di Paride e l’amore fra il troiano Paride ed Elena, moglie del greco Menelao, furono secondo il mito la causa della guerra di Troia e sono un tema frequentemente raffigurato sia nell’antichità, sia in età moderna. Nella mostra è rappresentato da uno straordinario lebete a figure rosse proveniente da Ruvo di Puglia e conservato nel Museo Nazionale di Palazzo Jatta, datato fra il 360 e il 350 a.C. La scena ritrae un momento dei preparativi di Elena all’imminente unione amorosa con Paride, che la aspetta in piedi, nudo e con il copricapo orientale che lo identifica come troiano. Afrodite ed Eros vigilano sul momento, garantendo protezione e approvazione. Uno degli episodi piú noti della guerra di Troia, lo scempio del corpo del principe troiano Ettore da parte di Achille, è raffigurato sul monumentale cratere apulo a figure rosse proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, vero capolavoro della ceramografia antica, datato al 370-360 a.C. Dallo stesso Museo provengono due affreschi rinvenuti a Pompei, uno dei quali rappresenta una rara raffigurazione del cavallo di Troia trascinato all’interno della città.

I TREDICI ALTARI Cuore dell’esposizione sono le statue in terracotta dal santuario di Minerva a Lavinium (i cui resti sono stati individuati nei pressi dell’odierna Pratica di Mare, n.d.r.) – città fondata da Enea, secondo il racconto degli antichi, dopo che, giunto sulle coste del Lazio aveva sposato la figlia del re Latino, Lavinia – significativo esempio

dell’arte tardo arcaica e mediorepubblicana del Lazio, molte delle quali esposte al pubblico per la prima volta. L’esplorazione del sito ha portato alla scoperta di complessi archeologici che danno corpo al mito della fondazione della città da parte dell’eroe troiano: il santuario dei Tredici Altari (VI -IV secolo a.C.), probabilmente un luogo di culto comune del popolo latino; il grande tumulo che era forse l’heroon di Enea, la tomba simbolica dell’eroe troiano divinizzato; infine un santuario dedicato a Minerva, una Minerva Iliaca legata alla leggenda troiana, guerriera e protettrice del matrimonio e della famiglia. Questo luogo di culto ha restituito straordinarie statue in terracotta, databili tra V e III secolo a.C., raffiguranti giovani offerenti; inoltre statue della divinità, sia nel suo aspetto guerriero, la Minerva Tritonia, del V secolo a.C., probabilmente la statua di culto (di cui nella mostra è esposta una copia), sia nell’aspetto del Palladio. Durante il periodo della mostra fino a marzo 2023, il Parco archeologico del Colosseo ospiterà una serie di conferenze incentrate sul mito di Enea e sul suo leggendario viaggio che saranno tenute da esperti della materia e docenti universitari italiani e stranieri. Il programma è pubblicato sul sito web ufficiale. Sempre nello stesso arco di tempo sarà possibile partecipare a visite guidate a tema lungo il percorso che nel racconto di Virgilio

compiono Enea ed Evandro, dal Foro Boario alla Porta Carmentale, all’Asylum (fra Arx e Capitolium), al Lupercale fino al bosco dell’Argileto e al Campidoglio e poi, attraverso la valle del futuro Foro Romano, fino al villaggio sul Palatino, dove si trova l’umile dimora del re, che coincide con il punto in cui sorgerà la casa di Romolo e, secoli dopo, la residenza di Augusto: un’occasione per ripercorrere la storia piú remota e mitica del luogo, precedente alla futura città di Roma. Curata da Alfonsina Russo, Direttrice del Parco archeologico del Colosseo, Roberta Alteri, Nicoletta Cassieri e da chi scrive, la mostra ha ricevuto la collaborazione istituzionale del Museo e scavi archeologici di Troia e si inserisce nell’ambito delle manifestazioni connesse con il riconoscimento della Rotta di Enea da parte del Consiglio d’Europa, celebrato con una cerimonia tenutasi nella Curia Iulia del Foro Romano nel gennaio 2022 (vedi «Archeo» n. 444, febbraio 2022; anche on line su issuu.com). Daniele Fortuna, Sandra Gatti

DOVE E QUANDO «Il viaggio di Enea. Da Troia a Roma» Roma, Parco archeologico del Colosseo, Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 10 aprile Orario tutti i giorni, 9,30-16,00 Info https://parcocolosseo.it

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UNA ZANNA CONTRO I PIDOCCHI

U

n pettine minuscolo, di 3,5 x 2,5 cm, ricavato dall’avorio di una zanna d’elefante, con sei denti su un lato (forse per sciogliere i nodi di una fitta capigliatura) e 14 sull’altro, destinati, questi ultimi, a intercettare – in maniera non dissimile da quanto accade ancora oggi – pidocchi e relative uova da capelli o barba. È il singolare

oggetto, datato al 1700 a.C. circa, venuto in luce a Tel Lachish, una delle piú importanti città-stato del II millennio a.C. e la seconda città (dopo Gerusalemme) del biblico regno di Giuda. Ma non è l’oggetto in sé ad aver attratto l’attenzione degli studiosi, quanto invece alcuni segni incisi su una delle sue superfici: si tratta – la

LIBANO

Lago di Tiberiade

Haifa

Nazaret

Mar Mediterraneo

Beit She’an

Hadera Netanya

Tel Aviv Petach Tikva

Giordan o

n otiz iario

SCOPERTE Israele

CISGIORDANIA Ashdod Ascalona

ISRAELE Tel Lachish

Gerusalemme Mar Morto

Deir el-Balah Beersheva

Masada

In questa pagina: la superficie del pettine in avorio sulla quale sono incise le lettere in alfabeto cananeo.

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Veduta aerea del sito di Tel Lachish, teatro della scoperta del piccolo pettine in avorio. In basso: l’archeologo Yosef Garfinkel, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, condirettore degli scavi a Tel Lachish.

notizia è stata resa pubblica nello scorso novembre – di 17 lettere appartenenti a una forma arcaica della scrittura cananea, ovvero alla fase iniziale stessa dell’invenzione dell’alfabeto. Insieme formano le sette parole di una frase che può essere cosí tradotta: «Possa questa zanna sradicare i pidocchi dai capelli e dalla barba». Una sorta di augurio, dunque, finalizzato ad «accompagnare» il buon funzionamento dell’oggetto. «L’importanza della scoperta – come ha spiegato Yosef Garfinkel (Università Ebraica di Gerusalemme) che, insieme a Michael Hasel e Martin Klingbeil (Southern Adventist University)

dirige gli scavi di Tel Lachish – risiede nel fatto di costituire il primo esempio di frase compiuta redatta nell’alfabeto cananaico rinvenuto in Israele» e di cui, a oggi, erano note solo sequenze sparse di due/tre a parole. Il piccolo reperto, poi, oltre a illuminarci sulla lingua parlata e scritta degli abitanti di Lachish nell’età del Bronzo, rivela anche altri aspetti curiosi sulla società della città cananea: il materiale di cui era fatto il pettine, l’avorio, veniva da lontano, forse dall’Egitto (non vi erano elefanti nella terra di Canaan), si trattava, dunque, di un oggetto di importazione e di lusso, a disposizione soltanto dei ceti piú abbienti della società.

A riprova che, all’epoca, i fastidiosi parassiti alla cui rimozione il prezioso pettinino era preposto non facevano... distinzione di classe. Andreas M. Steiner

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ALL’OMBRA DEL VULCANO a cura di Alessandra Randazzo

PASCOLI E BUONE PRATICHE PECORE COME «GIARDINIERI», MESSA A COLTURA DI VIGNE E OLIVETI, MA ANCHE INIZIATIVE MIRATE AL COINVOLGIMENTO DEI PIÚ DEBOLI... IL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI RAFFORZA L’IMPEGNO VOLTO AD ASSICURARE LA SOSTENIBILITÀ E L’INCLUSIVITÀ

L

a Pompei del futuro non guarda solo alla riapertura di nuove domus e aree inedite, ma anche alla sostenibilità ambientale e all’inclusività dei giovani del territorio grazie a iniziative che hanno già dimostrato come il Parco sia sensibile ai temi eco friendly e di forte impatto sociale. Da qualche mese un nutrito gregge di pecore contribuisce a gestire in maniera sostenibile il verde del sito archeologico nel pieno rispetto

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delle caratteristiche naturali delle aree, risparmiando sui costi di manutenzione, assicurando un migliore equilibrio ambientale e la concimazione naturale dei terreni. Utilizzare la capacità degli ovini di ripulire e bonificare i prati con un minimo impatto ambientale e una grande resa didattica, per trasmettere i temi della natura e dell’ecologia ai visitatori piú piccoli, costituisce un metodo alternativo ed efficace che si

inserisce in un piú complesso e strutturato programma di gestione del patrimonio verde di Pompei: gli oltre 105 ettari che comprendono la città antica e il territorio circostante rappresentano infatti una grandissima risorsa ma anche una sfida per la loro gestione presente e futura. Nasce da queste considerazioni il progetto di manutenzione ambientale che il Parco Archeologico di Pompei sta


portando avanti e che si accompagna alla nascita dell’Azienda agricola Pompei. La cintura verde che circonda il sito archeologico cosí come gli altri siti vesuviani del Parco (Stabiae, Boscoreale, Longola, Oplonti) deve essere riattivata nell’utilizzo agricolo che aveva fino a qualche decennio fa; siamo in presenza di uno dei terreni piú fertili al mondo, la Campania Felix dei Romani, dove la produzione agricola, attraverso la ripresa delle tecniche colturali antiche, diventa strumento di valorizzazione del patrimonio archeologico e paesaggistico e delle biodiversità. Attraverso lo studio delle peculiarità dei singoli appezzamenti, sono stati individuati i settori dell’azienda che consentiranno la gestione del ciclo produttivo del vino, dai nuovi impianti all’imbottigliamento e fino all’invecchiamento e all’affinamento, la valorizzazione degli uliveti, la produzione dei prodotti del sottobosco, della frutta, fiori, erbe officinali e miele, la coltivazione di ortaggi e cereali. Da una nuova gestione biologica dei vigneti, alla produzione dell’olio EVO in collaborazione con Unaprol e Aprol Campania, al programma di

imboschimento con Arbolia che ha già visto realizzato il Bosco antico di Porta Anfiteatro e sta realizzando il bosco della Villa di Cicerone con oltre 1500 nuove piante, fino alla cogestione dei terreni agricoli per le colture di cereali, ortaggi e frutta e ai progetti di agricoltura sociale come quello de I Ragazzi di Plinio – «ArcheoAgriAut». Si tratta di un programma particolarmente importante – già avviato dall’autunno – che si basa sul coinvolgimento di persone con autismo impegnate in attività di agricoltura sociale inclusive di persone con disabilità.

SUCCHI, SCIROPPI E MARMELLATE I ragazzi afferenti il Centro Medico Riabilitativo di Pompei, coordinati dal giardiniere d’arte del Parco, dagli educatori della cooperativa sociale Il Tulipano e dello stesso Centro Riabilitativo con gli specializzandi del Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università Federico II di Napoli, sono impegnati ogni settimana nella raccolta della frutta e nella sua trasformazione in succhi, sciroppi e marmellate, anche seguendo le ricette degli autori antichi. Il Vivaio della Flora pompeiana alla

I ragazzi coinvolti nella raccolta della frutta prodotta nei terreni di Pompei. Nella pagina accanto: un gregge di pecore utilizzate per ripulire e bonificare i prati del sito. Casa di Pansa, nella Regio VI, funge da base operativa per i ragazzi, ma è, sostanzialmente, il nucleo propulsore dell’Azienda Agricola Pompei, il centro nel quale avviene la riproduzione e la selezione delle specie antiche secondo le tecniche colturali antiche e da mettere poi a dimora nelle ricostruzioni e nei restauri dei giardini delle domus di Pompei (gli esempi piú recenti sono i giardini della Casa dei Dioscuri e della Casa di Cerere), conseguendo una vera filiera corta a chilometro zero. Si tratta di un progetto significativo, finalizzato alla gestione innovativa del patrimonio naturale e archeologico e che intende anche promuovere uno sviluppo economico locale sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale e legale. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

BIBLIOTECHE Tunisia

STUDIARE, SEMPRE

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el Museo Nazionale di Cartagine, sulla collina della Byrsa, è stata inaugurata la Biblioteca «Sabatino Moscati», nata per volontà dei familiari, che hanno donato un importante fondo librario alla Scuola Archeologica Italiana di Cartagine con l’impegno che fosse collocata nella città, a cui lo studioso ha dedicato gran parte dei suoi interessi. L’apertura è stata resa possibile da alcune istituzioni tunisine coinvolte nella gestione: il museo che ospita la biblioteca, l’Institut National du Patrimoine, l’Agence de mise en valeur du patrimoine e de promotion culturelle e l’Association historique et archéologique de Carthage. Il fondo librario è costituito da oltre 6000 volumi che spaziano dalla preistoria al Medioevo e toccano diverse aree geografiche, ma in particolare sono dedicati al Mediterraneo antico. La nuova biblioteca è un invito a seguire un consiglio – in realtà molto di piú – che Sabatino Moscati ha suggerito in uno dei suoi libri, Sulle vie del passato (Jaca Book, 1990), nel quale ha ripercorso le sue

In alto: la Biblioteca «Sabatino Moscati» nel Museo Nazionale di Cartagine. A destra: un momento della sua inaugurazione. In basso: Sabatino Moscati (1922-1997).

esperienze: «Studiare e studiare. Questo è il solo messaggio, la sola eredità che posso lasciarvi. Studiare, ma non come malinteso strumento di una men che modesta carriera, bensí come fonte inesauribile di equilibrio e di conforto nelle mutevoli vicissitudini della vita». Sabatino Moscati è stato l’ideatore e il primo direttore di «Archeo», ma può valere la pena, appena trascorsi il centenario della sua nascita – avvenuta a Roma il 24 novembre del 1922 – e i venticinque anni dalla scomparsa (8 settembre 1997), ripercorrerne gli interessi di studio, che – come amava ripetere – hanno seguito la via del sole, da

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Oriente a Occidente, arrivando a portare una luce nuova sul ruolo dei Fenici e dei Cartaginesi nella storia del Mediterraneo durante il I millennio a.C. L’impegno nell’insegnamento, a cui teneva moltissimo, lo ha visto attivo soprattutto presso la «Sapienza» Università di Roma (sino al 1982) e poi all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Ha insegnato anche come visiting professor nell’Università di California (Berkeley) e in quella di Wales (Cardiff). Ha tenuto, inoltre, cicli di lezioni e conferenze in varie altre università d’Europa, d’Asia e d’America. Contemporaneamente è


stato impegnato in numerose istituzioni scientifiche – come il Consiglio Nazionale delle Ricerche – e culturali quali l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani e l’Accademia Nazionale dei Lincei, in cui ha ricoperto la carica di vice presidente e poi di presidente (dal 1994 al 1997). È stato anche Accademico di Francia, per citare solo una delle prestigiose istituzioni culturali straniere, che lo hanno annoverato come membro onorario o effettivo. La sua bibliografia è vastissima e conta circa 600 pubblicazioni. Una veduta dell’area archeologica sulla collina della Byrsa, a Cartagine.

Numerose sono state le campagne di scavo dirette o promosse, da quelle sull’altura di Ramat Rahel – il Colle di Rachele, che domina Gerusalemme – insieme all’archeologo israeliano Yohanan Aharoni nel 1957. Seguite da altre in Tunisia, con l’archeologo tunisino Mohamed Fantar, a Malta, in Sicilia e in Sardegna. Ha svolto un’intensa attività di divulgazione collaborando ai quotidiani Il Messaggero, Il Corriere della Sera e, da ultimo, La Stampa e a trasmissioni radiofoniche e televisive. Ha fondato e diretto l’Enciclopedia Archeologica della Treccani. È stato il curatore di due mostre di straordinario successo «I

Fenici» (1988) e «I Celti» (1991) negli spazi di Palazzo Grassi a Venezia, che hanno aperto una stagione nuova nelle forme di gestione e comunicazione dei beni culturali nel nostro Paese. Il filo conduttore del suo impegno è stato il tentativo di svelare il peso della componente orientale e nordafricana nella formazione della civiltà greco-romana e il desiderio di contribuire a illuminare gli sconfitti nella storia del Mediterraneo del I millennio a.C. e ritrovarne l’identità e la cultura spesso ignorata, fraintesa e, talvolta, falsificata consapevolmente. Giuseppe M. Della Fina

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n otiz iario

MOSTRE Milano

UN AMBASCIATORE D’ECCEZIONE

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l celebre lampadario etrusco di Cortona, è esposto alla Fondazione Luigi Rovati di Milano fino al 5 marzo. Unico nel suo genere, il manufatto lascia temporaneamente la sua dimora, il Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona (MAEC), dove è costudito dal 1842, due anni dopo la sua fortuita scoperta nelle terre di un possedimento privato della campagna cortonese (una prima «trasferta», in verità, il prezioso reperto l’aveva intrapresa nel 1938/39, quando venne esposto

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a Roma in occasione della «Mostra autarchica del Minerale italiano» allestita al Circo Massimo; vedi box alla pagina accanto). Il lampadario si data al IV secolo a.C. Ha un diametro di 60 cm ed è stato realizzato in bronzo fuso, con ritocchi e applicazioni a freddo. Si ritiene fosse usato per illuminare un santuario o un ambiente sacro. La faccia inferiore è decorata con scene figurate e motivi fitomorfi e, al centro, campeggia il volto di una Gorgone incorniciato da riccioli bipartiti sulla fronte e grande bocca


ALLA «MOSTRA DEL MINERALE ITALIANO»

Ma quanto vale il candelabro?

Nel corso dell’assemblea del 26 ottobre 1938 dell’Accademia Etrusca, il Lucumone Rinaldo Baldelli Boni riferí che era pervenuta per il tramite della Soprintendenza all’Arte Medievale e Moderna di Firenze dalla Segreteria del PNF una richiesta di prestito per la «Mostra del Minerale Italiano» in programma al Circo Massimo di Roma dal 18 novembre, del lampadario etrusco in bronzo e del calice vitreo paleocristiano conservati nel Museo dell’Accademia Etrusca. Si sollecitava una risposta «immediata» e l’indicazione del valore assicurativo; il Lucumone rispose aderendo e indicando un valore di 15 milioni di lire (circa 14 milioni di euro attuali).

con evidenza di canini ai lati della lingua pendente; il gorgoneion è contornato da serpentelli aggrovigliati. Sui bordi si alternano i rilievi di piccoli volti di Acheloo e i 16 beccucci nei quali avveniva la combustione dell’olio lampante grazie ad appositi stoppini. La nuova esposizione del lampadario di Cortona si iscrive in un articolato e vasto programma di iniziative promosse dalla Fondazione Luigi Rovati, finalizzate

La Soprintendenza rispose obiettando che una richiesta del genere equivaleva a un rifiuto, per l’indicazione di una cifra assolutamente lontana dal «reale valore degli oggetti»; a ciò replicò l’Accademia, confermando il valore dei materiali, ma comunicando che se l’Ufficio avesse sollevato l’Accademia da ogni responsabilità (con adeguato verbale sottoscritto) «sia morale che storica e legale», l’Accademia stessa non avrebbe potuto opporsi. Gli accademici approvarono. Non si sa come sia finita la querelle: mancano infatti i documenti, ma il catalogo di quella mostra riporta entrambi i pezzi. Paolo Bruschetti

alla valorizzazione dei beni culturali, artistici e storici, oltre che alla promozione degli studi sulla civiltà etrusca. «Non è un caso – come ha sottolineato a questo proposito Paolo Bruschetti, vice lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona – che il lampadario, presente nelle sale della Fondazione Luigi Rovati come uno dei principali simboli della nostra Accademia, abbia anche il valore di ambasciatore della conoscenza di un istituto Sulle due pagine: il candelabro in bronzo di Cortona (IV sec. a.C.) e alcune immagini della sua esposizione nella Fondazione Luigi Rovati di Milano.

culturale nato in una piccola città di provincia ormai quasi tre secoli or sono, e tuttora vivo e vitale. Nel prossimo 2027 ricorre infatti il tricentenario, da quando un gruppetto limitato ma omogeneo di giovani cortonesi intese promuovere la vita culturale del luogo, con una “accademia” che non fosse solamente limitata alla sterile esibizione di composizioni poetiche effimere o anche solo celebrative, ma in sostanza inutili e senza seguito. L’Accademia sta elaborando un programma di eventi che ricordino tale ricorrenza, certamente non frequente nel panorama nazionale: il rapporto con la Fondazione Luigi Rovati può esserne a pieno titolo un primo atto concreto». (red.)

DOVE E QUANDO «Il lampadario di Cortona. Dal collezionismo delle origini alle raccolte contemporanee» Milano, Spazio Bianco, Fondazione Luigi Rovati fino al 5 marzo Orario me-do, 10,00-20,00 (ultimo ingresso ore 19.00) Info www.fondazioneluigirovati.org

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

DALLE ACQUE DELL’ESAGONO IL GRANDIOSO BACINO VOLUTO DALL’IMPERATORE TRAIANO PER AUMENTARE L’OPERATIVITÀ DEL PORTO DI OSTIA È OGGETTO DI RICERCHE SUBACQUEE SISTEMATICHE. PER RICOSTRUIRNE IN MANIERA SEMPRE PIÚ DETTAGLIATA LA STORIA E I MODI DEL SUO UTILIZZO

U

n esagono; è questa la forma geometrica, di oltre 357 m per lato e una superficie di circa 32 ettari, scelta da Traiano per la costruzione di un nuovo bacino volto a potenziare il porto di Roma e, allo stesso tempo, a risolvere i numerosi problemi, primo fra tutti l’insabbiamento, cui era soggetto il Portus Augusti Ostiensis, ovvero il primo impianto portuale fatto costruire, 2 km a nord della foce

del Tevere, dall’imperatore Claudio e completato da Nerone. L’imponente infrastruttura imperiale doveva assolvere al crescente fabbisogno di approvvigionamento di materie prime, e non solo, dell’Urbe in relazione al progressivo incremento demografico. Punto cardine del porto traianeo fu, quindi, la costruzione di un bacino interno rispetto a quello di Claudio;

la pianta esagonale agevolava le operazioni di attracco delle navi onerarie e quelle di scarico e carico delle merci. Un sistema di vie d’acqua artificiali, le fossae, assicurava la comunicazione diretta con il mare e con il Tevere. A quest’ultimo, in particolare, il bacino esagonale era collegato tramite una via d’acqua trasversale che si immetteva in un canale costruito in epoca claudia, la Fossa Traiana (l’odierno canale di Fiumicino).

LA BONIFICA

Veduta del bacino esagonale del Porto di Traiano.

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Inglobato interamente all’interno della proprietà Sforza Cesarini, già Torlonia, negli anni Venti del secolo scorso l’esagono fu oggetto di un imponente intervento di bonifica che liberò il porto di Traiano dall’oblio che per lunghi secoli lo aveva relegato a poco piú di uno stagno melmoso e malsano. Nel corso delle operazioni di bonifica fu riportata alla luce la banchina originaria, con piano inclinato, che correva perimetralmente lungo l’esagono, realizzata in conglomerato cementizio; al suo interno si innestavano i dactylia, ovvero il sistema di ormeggio per le navi, costituito da blocchi


parallelepipedi in peperino con foro per il passaggio delle cime. Queste strutture, oggi, non sono piú visibili, sommerse dall’innalzamento delle acque nell’esagono, dalla regolarizzazione delle sponde, realizzate contestualmente alla bonifica, che si impostano direttamente sulla banchina cementizia di epoca imperiale e, a tratti, dalla folta vegetazione spontanea.

LE NUOVE RICERCHE Nel febbraio 2021 sono iniziate le prime indagini archeologiche all’interno del bacino esagonale. Le attività, che rientrano nel Servizio Tutela del Patrimonio Culturale subacqueo del Parco archeologico di Ostia antica, sono volte ad acquisire i dati relativi alle caratteristiche costruttive del complesso traianeo, alla sua frequentazione e fruizione, con la documentazione e il recupero di qualsiasi testimonianza utile alla conoscenza delle varie fasi di vita, in senso sincronico e diacronico, di quello che è stato il porto marittimo piú importante dell’antichità.

A destra: un momento delle prospezioni subacquee. In basso: particolare di una delle «sponde» dell’esagono.

Le prime attività di indagine, effettuate in immersione – con il supporto tecnico operativo del Nucleo Carabinieri subacquei di Roma e dei Carabinieri Nucleo TPC di Roma –, hanno permesso di recuperare frammenti ceramici pertinenti a contenitori da trasporto (puntali e colli d’anfora, anse) e materiali edilizi (laterizi e tegole). Per la qualità delle acque e le caratteristiche del sedimento che ne ricopre i fondali, la visibilità all’interno del bacino esagonale è quasi nulla. Ma nuovo impulso alle attività di ricerca verrà fornito dalle prossime campagne di indagine che vedranno l’impiego, congiuntamente agli operatori

subacquei, di nuove tecnologie, ricorrendo alle strumentazioni per la geofisica marina applicate ai beni culturali. I nuovi sistemi di rilevamento permetteranno, infatti, di acquisire dati utili alla documentazione e restituzione, anche con ricostruzioni tridimensionali, delle strutture portuali originarie nonché di rilevare la presenza, sul fondale, di eventuali relitti e/o parte di carichi dispersi, a cui seguirà il prelievo, manuale, dei campioni per le analisi sui materiali e la valutazione di eventuali operazioni di recupero. Alessandra Ghelli

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n otiz iario

MUSEI Calabria

SOTTO IL SEGNO DI HERA LACINIA

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opo quasi due anni di stop alle visite, il Museo Archeologico Nazionale di Capo Colonna ha riaperto le sue porte. Incastonata sul promontorio del tempio di Hera Lacinia, la struttura espositiva era stata chiusa – oltre che per la pandemia – anche allo scopo di consentire importanti e complessi lavori di manutenzione. Inaugurato nel 2006 su progetto degli architetti Italo Insolera e Paolo Spada Compagnoni Marefoschi, il museo, oggi diretto da Gregorio Aversa, propone un percorso espositivo articolato in tre sezioni, all’interno di ampie sale disposte su un unico piano a livello strada.

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Le collezioni derivano dalle varie indagini archeologiche effettuate sul sito nel tempo, ma il nucleo originario è rappresentato da alcuni reperti storicizzati, tra i quali spicca il cippo marmoreo con iscrizione di

dedica da parte del liberto augustale Oecius per la salute della sorella dell’imperatore Traiano, che rappresenta il primo documento epigrafico noto nell’area che riporta, in greco, il nome della


divinità qui venerata. La prima sezione è dedicata alla scoperta dell’insediamento romano che si sviluppò presso l’area del santuario greco tra il 194 a.C. e il II secolo d.C. L’abitato doveva appartenere alla colonia che i Romani installarono contemporaneamente anche sulla rupe dell’antica acropoli di Kroton,

nucleo del centro storico della medievale Cotrone, oggi Crotone. Le vetrine e gli spazi espositivi propongono le principali classi ceramiche e gli oggetti della cultura materiale recuperati dalle unità abitative, sia quelle signorili e sontuose sia quelle piú modeste, offrendo uno spaccato della vita

Sulle due pagine: particolari dell’allestimento e dei materiali del Museo Archeologico Nazionale di Capo Colonna. Si riconoscono, fra gli altri, elementi di decorazione architettonica e frammenti di lastre policrome (nella pagina accanto) e materiali recuperati nelle acque circostanti il sito (qui sopra).

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n otiz iario quotidiana durante l’occupazione romana del territorio. Spicca un tesoretto di monete d’oro bizantine proveniente da Punta Scifo, che ci racconta degli avvenimenti legati allo scompiglio provocato dalla guerra greco-gotica (VI secolo d.C.), ma importanti sono tutti i materiali archeologici che attestano quanti contatti e quali beni transitavano dal Lacinio sino alla tarda età imperiale romana. La seconda sezione della raccolta è dedicata ai ritrovamenti avvenuti nell’area del santuario dedicato a Hera Lacinia e si apre proprio con il cippo in calcare sul quale è iscritto in alfabeto acheo il nome della dea Hera Eleutheria[s] («che scioglie i vincoli e libera») a cui esso è dedicato. Seguono poi materiali lapidei e parti statuarie di marmo

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proveniente dall’Egeo che parlano dell’accurata organizzazione architettonica del grande tempio della dea, oltre all’esposizione di ex voto fittili e in bronzo. Nella stessa sala è stato poi riproposto uno spaccato della copertura marmorea del tetto del cosiddetto «Tempio A» nell’ambito di un percorso che accoglie anche una serie di terrecotte architettoniche, come le preziose gronde leonine, appartenenti ad altri edifici del santuario finora solo parzialmente indagati. La terza e ultima sala racchiude la sezione di archeologia subacquea. Sono qui riuniti materiali recuperati avvenuti nelle acque circostanti il promontorio: in particolare, si segnala il relitto di Punta Scifo, residuo di una grande

imbarcazione da trasporto di cui è stato recuperata buona parte del carico, costituito da marmi pregiati semilavorati e blocchi destinati con molta probabilità ad arricchire importanti proprietà imperiali. Non mancano reperti anforacei provenienti dai fondali circostanti a testimonianza del passaggio, fin dalla seconda colonizzazione greca, di navi che trasportavano vino e ceramiche di varia tipologia. Il museo è parte integrante del Parco Acheologico Nazionale di Capo Colonna, nato in seguito all’acquisizione da parte dello Stato delle aree e degli immobili posti sull’estrema punta dell’omonimo promontorio in territorio comunale di Crotone, a 12 km dalla città. L’area archeologica è stata oggetto di un primo scavo ufficiale da parte


In alto: testa di cavallo in marmo in origine facente parte della decorazione frontonale del tempio classico. 480 a.C. A sinistra: la colonna superstite del grande tempio di Hera Lacinia. dello Stato nel 1910, a opera di Paolo Orsi, a cui sono seguiti altri interventi nel 1955 per iniziativa di Alfonso De Franciscis, negli anni Ottanta del Novecento a cura dell’Istituto Archeologico Germanico e poi della Soprintendenza competente per territorio (1987-1989). Al termine di una delle ultime indagini sistematiche (1999-2004) è stato attuato il progetto che ha portato alla realizzazione del Parco e alla realizzazione di un contenitore museale dedicato alla città antica. Considerato uno dei piú importanti siti archeologici della Calabria, quello di Capo Colonna è da sempre legato alla storia di Crotone: in età classica era noto come promontorio Lacinio e accoglieva un grande santuario

dedicato a Hera, la cui notorietà è confermata dalle fonti letterarie. Il mito ricorda la presenza di un bosco sacro, il passaggio di Eracle con i buoi di Gerione e l’attivazione di un culto dell’eroe omerico Achille. La venerazione per Hera Lacinia attirava devoti provenienti da molte regioni diverse, con ricchi doni votivi. Ricordato anche per essere stato frequentato dal filosofo Pitagora, il santuario godette di tale fama da essere eletto a sede della Lega Italiota, una confederazione a carattere politico e militare che riuniva tutti i Greci d’Occidente. Da Capo Colonna Annibale Barca ripartí per fare ritorno a Cartagine, dopo aver lasciato memoria delle sue gesta su un’iscrizione in greco e in punico recuperata nell’area.

Proprio per la sua dislocazione su un promontorio, il santuario doveva rappresentare un riferimento essenziale per la navigazione e un rifugio sicuro di cui la dea si faceva garante: ma Hera, venerata come divinità liberatrice e associata alla salvezza nei viaggi per mare, proteggeva anche la natura e gli animali, tra cui i bovini che pascolavano liberamente all’interno del bosco a lei sacro. Oggi il sito è noto soprattutto per l’unica colonna superstite del grande tempio, mentre gli scavi archeologici stanno lentamente riportando alla luce le strutture del santuario magno-greco e quanto si è sviluppato successivamente alla conquista romana. Del tempio dorico (Tempio A), eretto tra 480 e 470 a.C. e in origine impreziosito da

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n otiz iario

decorazioni e statue marmoree, rimangono le enormi fosse di fondazione del suo basamento e una delle sei colonne del lato orientale, affacciata sul mare. Un’eco della ricchezza dei doni votivi offerti nel santuario è attestata dai ritrovamenti avvenuti durante lo scavo del cosiddetto Edificio B, probabilmente il piú antico sacello della dea realizzato nei primi anni del VI secolo a.C. e divenuto – all’atto della fondazione del tempio – un thesauros per le offerte votive. Altre strutture di carattere complementare alle attività del santuario occupavano le aree circostanti il tempio: tra gli altri l’Edificio H, con le sue sale per banchetti, e l’Edificio K, destinato all’accoglienza di ospiti di riguardo. Una parte del promontorio è interessata poi dalla presenza di

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Piccolo altare recante un’iscrizione nella quale è menzionata Hera Lacinia. Età traianea. In basso: un altro particolare dell’allestimento del Museo. resti di edifici di età romana che – secondo una recente ipotesi – appartenevano alla colonia dedotta nel 194 a.C. presso il santuario per meglio controllare la vicina città greca di Kroton della quale i Romani non avevano fiducia, avendo questa accordato il proprio sostegno ad Annibale durante la seconda guerra punica. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo e Parco Archeologico Nazionale di Capo Colonna Crotone, via Hera Lacinia Orario martedí, mercoledí e venerdí, 9,00-13,00; giovedí, 14.00-19.00; sabato-domenica 9,00-19,00 Info tel. 0962 924814; e-mail: drmcal.capocolonna@cultura.gov.it



IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

UN TETTO PER L’ALDILÀ CONDOTTO IN LABORATORIO, IL MICROSCAVO DI UN’URNA A CAPANNA HA FORNITO INDICAZIONI IMPORTANTI PER ARRICCHIRE LE CONOSCENZE SU QUESTA PARTICOLARE TIPOLOGIA DI CINERARI, RISERVATI A ESPONENTI DI SPICCO DELLE COMUNITÀ DI APPARTENENZA

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a necropoli vulcente di Poggio delle Urne è stata oggetto di una nuova campagna di scavi nel mese di luglio del 2022, che ha fatto seguito a quella condotta nel novembre 2021 (vedi «Archeo» n. 443, gennaio 2022; anche on line su issuu.com). È stata esplorata complessivamente un’area di 315 mq, nella quale sono state portate alla luce 88 sepolture a incinerazione che abbracciano un arco cronologico compreso fra il IX e l’VIII secolo a.C. Di particolare interesse si è rivelata l’articolazione planimetrica della necropoli. Nell’area sud-orientale del pianoro si estende il nucleo sepolcrale piú antico, villanoviano, con tombe a pozzetto circolare; nel settore nord-occidentale (prossimo alle tombe di fase arcaica già

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individuate) si concentrano invece sepolture piú recenti, databili all’VIII secolo a.C., che adottano ancora il rituale dell’incinerazione, ma con le urne collocate in cassette litiche o fosse con risega superiore per l’alloggiamento di lastre di copertura. Proprio una di queste ciste litiche, la numero 76, copriva, obliterandola, la tomba a pozzetto nella quale era stata deposta l’urna a capanna, fittile, 87.

SENZA CONTESTO La maggior parte delle urne a capanna sinora rinvenute nel sottosuolo dell’Etruria e del Lazio, circa 200, è frutto di scavi condotti fra la fine dell’Ottocento o, al massimo, gli inizi del Novecento (in particolare quelle di Vetulonia che, da sole, costituiscono un quarto del

campione noto) oppure proviene da sequestri susseguenti a scavi clandestini e, in genere, quindi, privi di contesto, come l’urna in lamina di bronzo da Vulci. In Etruria ne è rinvenuta la metà, circa un centinaio: 51 a Vetulonia, 13 a Bisenzio, 11 a Vulci (compresa quella di Poggio delle Urne), 22 a Monte Tosto, 2 a Cerveteri, 10 a Veio, 8 a Tarquinia, 1 ad Allumiere.


Nel caso della tomba 87 di Poggio delle Urne è stato possibile asportare integralmente il cinerario in fase di scavo il 28 luglio e procedere, il 30 novembre 2022, allo scavo nel laboratorio di restauro del Parco di Vulci a Montalto di Castro. Il portello esterno risultava caduto all’interno dell’urna e poggiava sui resti ossei residui dall’incinerazione. Il corredo era composto da tre fibule e due pendagli in bronzo oltre che da una fuseruola fittile. L’analisi antropologica, effettuata all’atto del microscavo in laboratorio da Alfredo Coppa («Sapienza» Università di Roma), diagnosticava la presenza di elementi che fanno pensare a un individuo femminile giovane approssimativamente di 16-17 anni: cranio poco spesso (2 mm circa) con suture apertissime. Confermata la presenza di un bambino tra i 2 e i 4 anni (dente M1 mascellare deciduo piú altre radici forse decidue), il cui sesso non è antropologicamente determinato. Il ritrovamento, inaspettato, di tre rocche petrose (pozioni dell’osso temporale in rapporto con l’organo dell’udito) consentirà agli antropologi di sperimentare la possibilità di recuperare le tracce del loro antico DNA.

SEPOLTURE ECCELLENTI Che l’urna a capanna fosse un cinerario di rango è ormai acclarato, anche se si notano utilizzi diversi a seconda delle località di rinvenimento. Nell’area laziale, per esempio, e in particolare a Osteria dell’Osa (Roma), le urne a capanne sembrano riservate solo a personaggi maschili molto importanti, forse i paterfamilias, spesso caratterizzati come guerrieri grazie alla deposizione di armi miniaturizzate. In Etruria, invece, come anche a Roma, questo tipo elaborato di cinerario

viene utilizzato in maniera apparentemente indifferenziata tra uomini e donne, almeno nella fase piú antica. Solo con il pieno VIII secolo a.C. si registra una prevalenza di incinerati maschili. A Bisenzio, per esempio, le ridotte dimensioni di alcune di queste urne e le analisi antropologiche suggeriscono un utilizzo dedicato a individui infantili. La forma, poi, che riproduce un’abitazione in miniatura, oltre a offrire un’immagine alquanto realistica di quest’ultime rimanda, come asserito da alcuni ricercatori, a una simbolica casa per l’aldilà. Le indagini di scavo nella necropoli di Poggio delle Urne riprenderanno nella prossima estate, sempre a cura dell’équipe diretta da Vincenzo d’Ercole (Università degli Studi «Gabriele d’Annunzio») e con la collaborazione di Simona Carosi (SABAP Viterbo ed Etruria meridionale), Carlo Casi (Fondazione Vulci), Francesco di Gennaro (già soprintendente MIC) e Vilma Bassilissi (ICR). Chi sia interessato a partecipare alle indagini, può scrivere all’indirizzo mail: vulci. poggiodelleurne@gmail.com L’iniziativa è frutto di una collaborazione, non solo formale,

In questa pagina: oggetti rinvenuti all’interno dell’urna a capanna della tomba 87 di Poggio delle Urne. Da sinistra, in senso orario: una fibula in bronzo, parte di un pendaglio in bronzo e una fuseruola in ceramica con decorazioni incise. Nella pagina accanto, in alto: un momento del microscavo dell’urna a capanna, condotto nel laboratorio di restauro del Parco di Vulci a Montalto di Castro. Nella pagina accanto, in basso: veduta d’insieme degli oggetti di corredo rinvenuti nell’urna a capanna della tomba 87 della necropoli di Poggio delle Urne. tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti, Paesaggio di Viterbo e dell’Etruria meridionale guidata da Margherita Eichberg, la Fondazione Vulci presieduta da Gianni Bonazzi, il Dipartimento di Lettere, Arti, Scienze Sociali dell’Università degli Studi «Gabriele d’Annunzio» di Chieti-Pescara diretto da Carmine Catenacci e l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma diretto da Alessandra Marino.

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A TUTTO CAMPO Mara Sternini

USI E RIUSI DELL’ANTICO SCULTURE IN BRONZO FUSE PER RICICLARE IL METALLO, MARMI RIMODELLATI OPPURE COTTI E TRASFORMATI IN CALCE... IL REIMPIEGO È STATA PER SECOLI UNA PRASSI COSTANTE. SCELTA COME TEMA PORTANTE DI UNA SUGGESTIVA MOSTRA PROPOSTA A MILANO DALLA FONDAZIONE PRADA

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ecycling Beauty» è il titolo di una mostra allestita nella sede milanese della Fondazione Prada e che i suoi curatori, Salvatore Settis e Anna Anguissola, hanno ideato per illustrare modalità e scopi del riuso di reperti antichi effettuato nel corso dei secoli. La varietà degli oggetti esposti rende subito evidente che il riutilizzo non riguarda soltanto opere d’arte ma anche elementi architettonici, rocchi di colonne, tegole, laterizi, tessere musive, lastre di opus sectile (una tecnica che consiste nel realizzare pavimenti e decorazioni parietali con tasselli di marmo di diverso colore), oltre a oggetti della vita quotidiana. Il fenomeno del riutilizzo esiste da sempre, sia perché strettamente correlato a motivi di necessità

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pratica – cioè la disponibilità immediata di materiali già lavorati – ma, soprattutto, per esaltare l’auctoritas emanata da sculture ed elementi architettonici antichi. In questo modo il reimpiego, che presuppone inevitabilmente un’asportazione, quando non addirittura una distruzione del contesto originario, finisce con il

diventare, per assurdo, un’occasione di rinascita degli oggetti riciclati, che altrimenti avrebbero cessato di vivere; e la nuova vita prende forme e direzioni inedite, una volta inserita in un contesto decorativo e architettonico diverso da quello originale. Un esempio per tutti è la Colonna Traiana, che ancora oggi possiamo


ammirare a Roma, in situ, perché nel Medioevo fu utilizzata come campanile della chiesetta di S. Nicola de columna, ricordata per la prima volta in un documento del 10291032, e poi fatta demolire da papa Paolo III nel 1536. Dell’edificio restano alcune tracce sulla base della colonna, nel punto in cui gli spioventi del tetto le si addossavano. Altri esempi potrebbero essere i capitelli riutilizzati come vere di pozzo nei chiostri medievali, i sarcofagi riciclati come fontane, abbeveratoi o, addirittura, come sedute di latrine, i trapezofori (sostegni per il piano dei tavoli) reimpiegati come sostegni di altari e cosí via.

IL RECUPERO COME LEGITTIMAZIONE Ma il riuso può assumere anche altri significati, come nell’Arco di Costantino, a Roma, realizzato nel 315 d.C. Oltre ai rilievi del IV secolo d.C., vi sono inserite lastre recuperate da monumenti piú antichi, risalenti rispettivamente alle età di Traiano, di Adriano e di Marco Aurelio; un’operazione che sembra voler legittimare Costantino come degno successore al trono imperiale di Roma. Un altro esempio in tal senso è offerto dal sarcofago di Elena, realizzato ad Alessandria d’Egitto intorno al 320 d.C., destinato in origine a Costantino, poi adoperato per sua madre, che fu scelto nel 1154 come sepoltura da papa Anastasio IV non tanto (o non solo) per il valore dell’oggetto in sé, realizzato nel prezioso porfido, ma anche per avere accolto le spoglie di un’imperatrice, per giunta santa e, di conseguenza, ritenuto degno di accogliere la salma di un papa. Il riuso poteva naturalmente avvenire attraverso la distruzione

La Tazza Farnese, cammeo in agata sardonica. II-I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Tra le varie letture proposte, una identifica la figura femminile sdraiata su una sfinge con Cleopatra I, mentre la figura maschile seduta di fronte sarebbe il consorte Tolomeo V Epifane; un’altra ipotesi, invece, riconosce nelle due figure Cleopatra III e Tolomeo Alessandro; è stato anche proposto di collegare la tazza a Cleopatra VII, amante di Marco Antonio. Nella pagina accanto: l’Arco di Costantino a Roma (315 d.C.). Sopra il fregio di età costantiniana sono inseriti vari elementi di reimpiego, tra cui le statue di Daci prigionieri, provenienti dal Foro di Traiano. completa degli oggetti ed è questo il motivo per cui tanta parte della produzione artistica del mondo greco-romano è andata perduta per sempre; si pensi al destino di molte sculture in bronzo, rifuse per recuperare il metallo destinato ad altri usi, o di quelle in marmo, spesso destinate a essere ridotte in calce dentro una calcara. Solo pochi oggetti molto particolari si sono salvati da questo triste

destino perché la loro preziosità, riconosciuta nel corso dei secoli, ne ha permesso la conservazione. Tra gli esempi proposti nella mostra ricordiamo la Tazza Farnese, una coppa per libagione (phiale) lavorata con la tecnica del cammeo; all’esterno si trova una testa di Medusa, mentre all’interno è presente una scena figurata, sulla cui interpretazione sussistono ancora molti dubbi. Interessante è la carta geografica messa a punto nel percorso della mostra, che permette di seguire tutti gli spostamenti a cui la tazza è stata sottoposta nel corso dei secoli, a partire da Alessandria d’Egitto, dove fu realizzata per la corte dei Tolomei. Inserita nelle collezioni di Augusto dopo la vittoria di Azio su Marco Antonio e Cleopatra (31 a.C.), fece parte della collezione imperiale a Roma, poi a Costantinopoli, ma anche della collezione dell’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), poi dispersa e, forse, finita in Persia, quindi di nuovo in Italia dove, passando di collezione in collezione, dai Medici ai Farnese, è infine approdata nelle collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La mostra ha dunque il merito di invitare a compiere un viaggio nel tempo alla ricerca delle tracce lasciate, a ogni rinascita, dalla grande bellezza dell’antico. (mara.sternini@unisi.it)

DOVE E QUANDO «Recycling Beauty» Milano, Fondazione Prada fino al 27 febbraio Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il martedí Info www.fondazioneprada.org

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MOSTRE Roma

UNA CITTÀ «NASCOSTA»

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ei secoli del millennio medievale, Roma aveva assunto un volto ben diverso da quello che l’aveva caratterizzata in epoca imperiale. Un volto che, all’indomani dell’età di Mezzo, venne a piú riprese messo in ombra, se non cancellato, dagli interventi urbanistici promossi in età rinascimentale e barocca. E proprio per riscoprire l’identità dell’Urbe fra il VI e il XIV secolo, è nata la mostra allestita negli spazi del Museo di Roma in Palazzo Braschi. L’esposizione copre un arco temporale che va dal tempo di papa Gregorio Magno all’indizione del primo Giubileo del 1300, e si sviluppa in 9 principali nuclei tematici che – grazie alle oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili messe a disposizione da 60 prestatori – fanno luce sull’aspetto di una città ancora in parte superstite, anche se spesso nascosta. In esposizione documenti provenienti in massima parte da luoghi e raccolte romane, proprio allo scopo di esortare i

A sinistra: Madonna che allatta il Bambino e angeli, detta Madonna della Catena, tempera su tavola e pastiglia in argento dorato. Secondo quarto del XIII sec. Roma, chiesa di S. Silvestro al Quirinale. A destra: ritratto a mosaico di papa Innocenzo III. 1205-1209/1212. Roma, Museo di Roma. cittadini romani a riscoprire le ricchezze della loro città. Il visitatore è accompagnato tra le pieghe storiche, architettoniche e artistiche della Roma medievale, attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche

In basso: il reliquiario di sant’Elena, cofanetto in legno di sandalo e gemme. Metà del XII sec. Roma, basilica di S. Maria in Aracoeli. A destra: miniatura (in basso) raffigurante Innocenzo III che consegna ai frati ospedalieri la Veronica, l’abito dell’Ordine e il testo della Regola, dal Liber Regulae Hospitalis Sancti Spiritus. Metà del XIV sec. Roma, Archivio di Stato.

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grazie alla ricostruzione del contesto ambientale, oggi profondamente modificato, caratterizzato, per esempio, dal serpeggiante corso del Tevere che, con i suoi porti e i suoi ponti, era sfondo e teatro della vita e delle


A sinistra: tondo ad affresco con il ritratto di Amos, dalla cripta della basilica di S. Nicola in Carcere. 1120-1130. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Al centro: mosaico policromo con l’immagine della Fenice. 1205/1209-1212. A destra: dalmatica in opus cyprense (sciamito rosso ricamato con filo d’oro a punto teso). Secondo quarto (?) del XIII sec. Anagni, Museo della Cattedrale. In basso: reliquiario di san Matteo. 1080-1086. Roma, Ss. Cosma e Damiano. attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano viene quindi approfondita prendendo in esame le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe artigiane, che contribuivano al fascino esercitato dall’Urbe, meta imprescindibile di pellegrinaggio anche per re e imperatori. Il percorso, un viaggio ideale verso Roma, fa calzare al visitatore i panni del pellegrino medievale che, immerso nel fascino dell’antica Roma, era animato dal desiderio di entrare a contatto con le prime testimonianze del cristianesimo e le reliquie dei martiri. La presenza della sede papale, inoltre, fece dell’Urbe un polo politico di primaria importanza, al centro di complessi intrecci di potere e diplomatici. Si scopre poi l’importanza rivestita da alcuni tra i luoghi piú iconici della Roma medievale, sia dal punto di vista religioso, sia politico: il vasto complesso del Laterano, prima

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n otiz iario In alto: crocifisso, tempera su tavola. Metà del XIII sec. Roma, Istituto Angelicum ai Ss. Domenico e Sisto. Qui sopra: Madonna col Bambino, tempera su tavola di Pietro di Belizo e Belluomo. Primo quarto del XII sec. Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani-Rocca.

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basilica cristiana, cattedrale di Roma e sede dei pontefici durante il Medioevo; S. Pietro in Vaticano, luogo della tomba di Pietro e meta di pellegrinaggio da tutta l’Europa cristiana; S. Paolo fuori le Mura, memoria dell’Apostolo delle Genti, e S. Maria Maggiore, custode delle reliquie del Presepe e prima basilica dedicata alla Vergine. Monumenti oggi profondamente mutati, ma di cui si conservano vestigia medievali di fondamentale importanza. Una selezione mirata di oggetti offre un’idea eloquente della vastità dei quattro complessi basilicali e della ricchezza di opere d’arte che connotava questi luoghi. Uno spazio di rilievo è dedicato al rapporto privilegiato tessuto nel tempo tra la città e il papato. Una relazione complessa che ha unito, e quasi identificato, l’Urbe e i suoi pontefici durante tutto il Medioevo. Il visitatore può cosí conoscere i papi piú rappresentativi dell’epoca, come Gregorio Magno, Leone III, Innocenzo III e Bonifacio VIII. Il grande salone del Museo è stato scenograficamente dedicato a un’ideale passeggiata nello spazio sacro di una chiesa medievale, nella quale sono proposti numerosi oggetti mobili, come affreschi e arredi liturgici, ma anche preziosi reliquiari e suppellettili, con lo scopo far compiere un viaggio indietro nel tempo, sulle tracce della liturgia medievale. La riproposizione dello spazio sacro è anche occasione per approfondire alcuni aspetti particolari, come quello della devozione popolare romana, con un focus particolare tutto dedicato alle icone mariane ancora oggi custodite nelle chiese della città; o il caso emblematico della decorazione in affresco proveniente da S. Croce in Gerusalemme.

Un cittadino, un pellegrino o un visitatore che percorreva le strade della Roma medievale vedeva una città completamente diversa rispetto all’attuale. A scandire il percorso di mostra ci sono, quindi, due «intermezzi» urbani che, grazie all’ausilio di incisioni e disegni, restituiscono, in parte, il volto medievale perduto della città. Non solo luoghi di culto e di potere quindi. Il percorso espositivo vuole anche far riflettere su come si vivesse a Roma nel Medioevo. Una serie di piccoli ma preziosi oggetti, provenienti dalla Crypta Balbi, narra storie di vita quotidiana fatta di botteghe, artisti e artigiani. Il percorso espositivo si conclude con la sala dedicata a un ultimo ma importante aspetto. A Roma si installò, già dal II secolo a.C., la comunità ebraica, la piú antica al mondo, che con alterne vicende visse continuativamente in città, costituendo, soprattutto nel Duecento, un polo culturale di alto livello. Roma poi, per la sua stessa natura di centro di potere, politico, economico e religioso è sempre stata al centro di un fitto intreccio di culture. Alcuni manoscritti testimonieranno, sia pure parzialmente, il livello di questa straordinaria koinè. (red.)

DOVE E QUANDO «Roma Medievale. Il volto perduto della città» Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi fino al 5 febbraio Orario ma-do, 10,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it, www. museiincomune.it, www.zetema.it



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MUSEI Marche

I TESORI DELL’ILLUSTRISSIMO SIGNOR ANNIBALE

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orna ad accogliere il pubblico, in un allestimento totalmente rinnovato, il Museo Archeologico Oliveriano di Pesaro, una raccolta fra le piú antiche delle Marche e luogo della cultura particolarmente significativo della città che lo ospita. Gestito dalla Fondazione Ente Olivieri, il museo ha sede al pianterreno di Palazzo Almerici, edificio del XVII secolo situato nel centro storico e nasce dal lascito testamentario dell’erudito settecentesco Annibale degli Abbati Oliveri (1708-1789), grazie al quale arriva a Pesaro e ai suoi concittadini il suo patrimonio bibliotecario, documentario e archeologico. Del lascito Olivieri fa parte anche una notevole quantità di reperti donati dall’amico Giovan Battista Passeri (1684-1780), eclettico intellettuale che ha segnato il Settecento pesarese. Il nuovo percorso documenta mille anni di storia del territorio – dal periodo piceno alla tarda età imperiale – e si articola in quattro sezioni espositive, vere e proprie chiavi di narrazione dell’intero corpus delle collezioni: la necropoli picena di Novilara, il lucus pisaurensis (importante luogo di culto connesso alla romanizzazione del territorio, scoperto dallo stesso Olivieri sulla collina di Santa Veneranda), il municipio di Pisaurum e il collezionismo settecentesco. All’interno di queste macro-aree l’esposizione è organizzata in ordine cronologico per singoli argomenti. I quattro temi sono introdotti nella prima sala, in modo che il visitatore possa seguire un filo logico all’interno dei diversi ambienti. Qui è esposta la famosa «stele della

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Sulle due pagine: immagini del rinnovato allestimento del Museo Archeologico Oliveriano di Pesaro. Ospitata nel seicentesco Palazzo Almerici, la raccolta ha come nucleo fondante i reperti donati alla città marchigiana e ai suoi abitanti dall’erudito Annibale degli Abbati Olivieri. battaglia navale», rinvenuta nel 1866 in circostanze sconosciute sulla collina di San Nicola in Valmanente, tra Pesaro e Novilara. Nella seconda sala si ammirano i reperti provenienti da Novilara, una delle piú importanti necropoli dell’età del Ferro, indagata estensivamente per la prima volta dall’archeologo Edoardo Brizio negli anni 1892-1893. A questi si sono aggiunti di recente i materiali

provenienti dagli scavi condotti nel 2012-2013 dalla Soprintendenza Archeologia delle Marche in un ampio settore della stessa necropoli: si tratta di alcuni dei corredi funebri provenienti dalle oltre 450 tombe maschili e femminili dei secoli VIII e VII a.C. L’attenzione è posta sulla narrazione della società del tempo, per quanto ricostruibile tramite la simbologia del rito funebre.


Proseguendo in ordine cronologico, l’esposizione dei cippi del Lucus Pisaurensis introduce alla terza sala, interamente dedicata alla Pesaro di età romana. Le piú antiche are votive del Lucus testimoniano che già nel III secolo a.C. – prima dunque della fondazione della colonia di Pisaurum (184 a.C.) – persone provenienti dal Lazio si erano insediate sul territorio pesarese. All’interno di una sezione destinata alle divinità viene esposta la celebre epigrafe bilingue (etrusco e latino) di Lucius Cafatius indovino che praticava l’arte degli aruspici. Si prosegue con il racconto degli

edifici pubblici della Pisaurum di età imperiale, tramandato dalle testimonianze epigrafiche. Viene poi data voce agli abitanti di Pisaurum, attraverso le epigrafi che ricordano la presenza di sacerdoti e sacerdotesse, maestri, soldati, fabbri, addetti alle lavorazioni navali e molto altro. La sezione si conclude con numerose epigrafi funerarie. Negli ultimi due ambienti della terza sala trova spazio, infine, il collezionismo settecentesco di Passeri e Olivieri con un esempio per ogni tipologia delle numerose categorie di oggetti che componevano le due collezioni

(bronzetti di divinità, lucerne, vasi dipinti...). L’insieme degli altri reperti, posto in secondo piano alle spalle di questi elementi, suggerisce l’idea di una wunderkammer, particolarmente suggestiva grazie a un senso della tridimensionalità molto forte. Intervenire su un museo esistente non è mai semplice; spesso si pensa agli edifici storici come contenitori da riempire successivamente con vetrine, tavoli, supporti per i reperti archeologici. Nel caso dell’Oliveriano, l’obiettivo è stato di creare uno spazio integrato che parli delle collezioni e allo stesso tempo rimandi al vasto territorio di Pesaro. Si è scelto cosí di lavorare in modo radicale: l’idea guida è stata quella di pensare la «scatola» (lo spazio architettonico) parte del disegno del museo, in modo da creare un «ambiente integrato» e avvolgente dove architettura storica, reperto e supporto interagiscono tra di loro. Ogni sala racconta storie antiche e recenti della città legate ai diversi gruppi di oggetti. Per coinvolgere emotivamente il visitatore si è guardato al linguaggio dell’arte: in questo senso l’allestimento è un omaggio a Jannis Kounellis, grande maestro dell’arte italiana, e alla sua lezione sull’uso poetico del frammento. (red.)

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Oliveriano Pesaro, palazzo Americi Orario giovedí-domenica e festivi, 15,30-18,30 Info tel. 0721 33344; e-mail: ente.olivieri@oliveriana.pu.it; www.oliveriana.pu.it; Facebook: Biblioteca e Musei Oliveriani

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INCONTRI Roma

IL LUSSO COME STATUS SYMBOL

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ornano gli appuntamenti con «Luce sull’archeologia», la cui nona edizione, «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», propone un percorso tematico di grande suggestione, che esamina l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche come segno di prestigio sia politico che personale. Non solo esplorando la vita di alcuni dei protagonisti di una stagione eccezionale, come Augusto, Livia, Cleopatra, ma anche riconoscendo una documentazione archeologica straordinaria: pitture, tarsie, oro, mosaici, iscrizioni e la decorazione marmorea di ville e palazzi sono In alto: Cleopatra sperimenta i veleni sui condannati a morte, olio su tela di Alexandre Cabanel. 1887. Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.

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solo alcuni degli elementi distintivi della società romana tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale. Esigenze di rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime, come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. «Luce sull’archeologia» è un progetto curato dal Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Gli incontri sono arricchiti dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi.

Qui di seguito, il calendario dei prossimi appuntamenti. 15 gennaio: Livia Capponi, Il lusso di Cleopatra e la rivoluzione romana; Paolo Carafa, Regge fuori dalla città: dalle residenze aristocratiche ai palazzi degli Imperatori. 29 gennaio: Laura Pepe, Nunc est bibendum. Bere vino in Grecia e a Roma; Francesco Sirano, Marte ama il giusto. I luoghi del banchetto e il lusso a tavola nelle case romane. 12 febbraio: Francesca Cenerini, I molti volti del «potere» di Livia, moglie di Augusto; Paolo Giulierini, Eleganza e cultura tra Pompei ed Ercolano nelle collezioni del MANN; Francesca Rohr Vio, La «pace insanguinata» di Augusto. Saper governare anche grazie al dissenso. (red.)

DOVE E QUANDO «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato» Luce sull’archeologia-IX edizione Roma, Teatro Argentina dal 15 gennaio al 16 aprile 2023 Orario inizio degli incontri, 11,00 Info www.teatrodiroma.net



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MOSTRE Vicenza

DALLA CULLA DELL’IMMAGINARIO EGIZIO

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icenza guarda all’Egitto: sono stati infatti riuniti nella Basilica Palladiana oltre centottanta oggetti riferibili alla civiltà dei faraoni, di cui circa 160 provenienti dal Museo Egizio e 20 dal Louvre di Parigi. Molti i tesori nascosti provenienti in gran parte dalle collezioni del Museo Egizio, svelati per l’occasione, come il sarcofago antropoide di Khonsuirdis e il corredo della regina Nefertari proveniente da una delle piú belle tombe della Valle delle Regine, che torna in Italia dopo diversi anni di tour all’estero, in prestito a musei ed enti internazionali. La mostra è arricchita da installazioni multimediali, esperienze immersive e riproduzioni in 3D come quella che narra la storia della sepoltura dello scriba Butehamon o quella che proietta gli acquerelli dell’archeologo e architetto francese Jean-Claude Golvin,

In alto: stele in calcare dedicata dall’artigiano Penmennefer a Ptah, da Deir el-Medina. Nuovo Regno, XX dinastia, Regno di Ramesse IIIRamesse V (1187-1146 a.C.). Torino, Museo Egizio. A destra: cassetta per ushabti dell’intendente e direttore della festa di Amon Djehutyhotep. Nuovo Regno, XIX Dinastia (1292-1190 a.C.). Torino, Museo Egizio. In basso: sarcofago della Signora della Casa Tariri. Epoca Tarda, 722-655 a.C. Torino, Museo Egizio.

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realizzati negli ultimi 40 anni, che ricongiungono gli oggetti al loro contesto originario. L’intento dei curatori è evidenziare il particolare ruolo di Deir el-Medina nell’ambito del Nuovo Regno. Annidato sulla montagna che ospitava le sepolture reali, protetto dalla dea-serpente Meretseger, il villaggio ospitava un concentrato di abilità tecniche in grado di materializzare culto e simboli religiosi e funerari negli spazi e nelle immagini che avrebbero accompagnato i faraoni nella loro vita eterna. Deir el-Medina è stata in questo senso una fucina della grandiosità e ieraticità del faraone, ma anche della percezione comune dell’antico Egitto, dall’antichità fino a oggi. La peculiarità del luogo e del suo significato storico ha permesso ai curatori di instaurare – su un piano ideale – un dialogo con la città di Vicenza. Cosí come Vicenza nel Cinquecento ha rappresentato un’eccezionale fucina di invenzioni, processi creativi, competenze e sensibilità artistiche, analogamente Deir el-Medina nel Nuovo Regno ha rappresentato un laboratorio di abilità, ingegno e sperimentazione che ha plasmato l’immaginario eterno dell’Egitto. Il percorso espositivo nel salone sotto la copertura a carena di nave rovesciata della Basilica è diviso in due ampie sezioni. La prima illustra la vita terrena e la creazione dei capolavori arrivati a Vicenza, la

seconda è dedicata alla vita dopo la morte. Quattro i temi portanti. Si inizia con il focus su Deir el-Medina e l’Occidente di Tebe. Tebe è il nome dato dai Greci alla città oggi nota come Luxor, la piú importante d’Egitto all’inizio del Nuovo Regno che si estendeva sulla riva orientale del Nilo (la sponda dei vivi, da cui sorgeva il sole ogni mattina), dotata di straordinari monumenti e templi. Sulla sponda occidentale del Nilo (quella dei morti, dietro cui il sole tramontava) Deir el-Medina ha


ospitato gli artigiani dei faraoni con le loro famiglie per circa 500 anni, dall’inizio della XVIII dinastia alla fine della XX dinastia. Fondatori del villaggio venivano considerati il faraone Amenhotep I, la regina sua madre Ahmose Nefertari e il faraone Tuthmosi I, alla cui epoca risalgono i primi resti archeologici attestati. Le statue di Ramesse II, della dea Meretseger, della dea Sekhmet, il naos di Seti I, i frammenti e gli altri oggetti esposti narrano la fondazione e la particolare dimensione religiosa dei due siti. La creazione del microcosmo racconta il momento della morte, quando, secondo gli Egizi, le diverse componenti della persona si separano: ecco quindi che il rituale funerario e la tomba forniscono lo spazio e gli strumenti per garantire il loro ricongiungimento e l’inizio della vita eterna. La rassegna presta

particolare attenzione al processo di costruzione delle sontuose tombe reali, riportando strumenti, attrezzi e papiri con piante di edifici e studi di disegno: la loro struttura e decorazione rifletteva l’importanza del culto solare, nonché l’assimilazione del faraone al Sole in procinto di tramontare. Il capitolo Lo splendore della vita offre uno spaccato della quotidianità della laboriosa comunità di Deir el-Medina, raccontandone attività e credenze religiose, tra scene dipinte sulle pareti di ricche tombe, stele e ostraka (frammenti di vasi o schegge di pietra) decorati, oggetti di lusso e rari strumenti musicali, in prestito sia dal Museo Egizio che dal Louvre. Infine, la sezione incentrata su La vita dopo la morte: la morte fisica e il complesso rituale che seguiva era finalizzato a garantire la wehem meswt, la

Qui sotto: vaso in terracotta raffigurante Bes, da Deir el-Medina. Torino, Museo Egizio. In basso: pyramidion in calcare dello scriba reale Ramose, da Deir el-Medina. Nuovo Regno, XIX Dinastia, regno di Ramesse II (1279-1213 a.C.). Torino, Museo Egizio.

«nuova nascita» nell’aldilà. Accanto agli oggetti del ricco corredo funebre di Nefertari e al sarcofago antropoide di Khonsuirdis, sono esposti manufatti in faïence, come la coppa del Louvre o gli ushabti del faraone Seti I – statuette di piccoli servitori che avrebbero dovuto alleviare le sue fatiche nell’aldilà – o la straordinaria mummia con sarcofago di Tariri. (red.)

DOVE E QUANDO «I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone» Vicenza, Basilica Palladiana fino al 7 maggio Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 0444 326418; e-mail: bilgietteria@mostreinbasilica.it; www.mostreinbasilica.it

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

L’UOMO DELLA GRANDE ISCRIZIONE Con il primo fascicolo del nuovo anno, «Archeo» rende omaggio al grande archeologo italiano Federico Halbherr 1 2 (1857-1930). Il suo nome forse non è molto noto al grande pubblico, ma l’articolo di Stefano Struffolino (alle pp. 64-79) espone bene l’importanza di questa figura nel contesto archeologico internazionale dell’epoca. Emblematiche sono le note sulla sua città di origine, Rovereto, e sull’influenza che l’ambiente accademico e scientifico del centro trentino ebbe sul giovane Federico. 3 4 L’Accademia Roveretana degli Agiati (1), fondata nel 1750, era infatti il riferimento di eccellenza per il dibattito culturale non solo locale e tra i suoi membri illustri annoverò il roveretano Antonio Rosmini (2), al cui pensiero si ispirarono i molti docenti che, a loro volta, furono poi guide e formatori dello studente Halbherr, aiutandolo cosí a trovare il suo futuro professionale. 5 6 A Firenze conobbe Domenico Comparetti, docente di greco e Senatore del Regno, che lo aiutò a elaborare la tesi di perfezionamento «Studi e ricerche sul culto e le antichità sacre di Olimpia» (3), indirizzandolo verso gli studi epigrafici del mondo ellenistico. La sua abilità ed entusiasmo furono i motivi che spinsero Comparetti a inviarlo, a soli 27 anni, a Creta (4) alla ricerca di nuove 7 8 iscrizioni: fu la sua fortuna! Pochi mesi dopo il suo arrivo, infatti, scoprí la Grande Iscrizione di Gortina scritta in greco arcaico del V secolo a.C. (5). Da allora in poi, Halbherr dedicò tutta la sua attività a Creta ed enorme fu il suo contributo alla scoperta dei palazzi minoici di Festo e di Haghia Triada. Halbherr era uno dei piú autorevoli 9 10 archeologi attivi a Creta in quegli anni ed ebbe una stretta collaborazione con Arthur Evans, che proprio dal collega roveretano fu incitato a scegliere l’area di Cnosso per le indagini che lo portarono a scoprire e restaurare quello che è ancora considerato il piú importante palazzo cretese (6, 7) con tutti i suoi tesori in reperti (8, vignetta tedesca) e i magnifici 11 affreschi (9, 10, 11). Nel 1909 fondò anche la Scuola 12 13 Archeologica Italiana di Atene, ma lo spirito di ricercatore lo spinse fino alla Cirenaica, dove sbarcò per la prima volta nel 1910 con l’intento IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere di espandere l’esplorazione archeologica alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai italiana: raggiunse le località di Tocra, Tolemaide seguenti indirizzi: (12), Barce, Cirene (13), Apollonia e Derna. Il Segreteria c/o Luciano Calenda ruolo di Halbherr nella storia dell’epigrafia Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa greca e dell’archeologia italiana è stato insomma Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma di assoluto valore e il ricordo delle sue imprese segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it oppure www.cift.it rimane ben vivo ancora oggi.

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AU GU ST O

FO N UO ND VA ED AT IZ O IO RE N E DE LL ’IM PE RO

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

AUGUSTO il primo imperatore


Il Foro di Augusto a Roma con, al centro, i resti del grandioso tempio dedicato a Marte Ultore

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l futuro Augusto ha solo diciassette anni quando, in Spagna, combatte al fianco di Giulio Cesare, che l’aveva adottato come figlio. E, nonostante la giovane età, si mette in luce per tempra e capacità di lettura degli eventi. Doti destinate, di lí a poco, a rivelarsi decisive: l’assassinio del padre adottivo, che lo aveva designato come erede, lo obbliga infatti ad assumere il potere. Che dapprima condivide e poi accentra nelle sue sole mani, diventando arbitro delle sorti di Roma. Un’ascesa vertiginosa, che culmina con la consacrazione a imperatore, titolo mai conferito prima di allora. Augusto si dimostra all’altezza del ruolo e non soltanto consolida l’egemonia romana su gran parte del mondo allora conosciuto, ma assicura all’impero anni di prosperità e di pace, celebrati con la realizzazione di grandiosi monumenti e grazie a un’attività di propaganda costante e mirata. Non mancano i crucci, sul piano degli affetti familiari, ma il principe riesce a superare anche quelli, potendo contare sul conforto e l’appoggio di Livia Drusilla, moglie fedele e solidale. Un’esistenza straordinaria, insomma, che la nuova Monografia di «Archeo» racconta in tutti i suoi risvolti pubblici e privati, sottolineando, al contempo, l’eccezionale rilevanza politica e culturale dell’età augustea.

GLI ARGOMENTI • GLI ESORDI • LA SCALATA AL POTERE • LA CONSACRAZIONE

in edicola

•P UBBLICO E PRIVATO •A POTEOSI ED EPILOGO

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CALENDARIO

Italia ROMA Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.01.23

Domiziano Imperatore

Odio e amore Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.01.23

Roma medievale

Il volto perduto della città Museo di Roma-Palazzo Braschi fino al 05.02.23

Il viaggio di Enea

Recycling Beauty Fondazione Prada fino al 27.02.23

Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú Mudec-Museo delle Culture fino al 19.02.23

Il lampadario di Cortona

Dal collezionismo delle origini alle raccolte contemporanee Fondazione Luigi Rovati, Spazio Bianco fino al 05.03.23

MODENA DeVoti Etruschi

Da Troia a Roma Tempio di Romolo, Foro Romano fino al 10.04.23

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro

NAPOLI Bizantini

Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23

BOLOGNA I Pittori di Pompei

Museo Civico Archeologico fino al 19.03.23

Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario Museo Archeologico Nazionale fino al 13.02.23

OSTIA ANTICA (ROMA) Chi è di scena! Cento anni di spettacoli a Ostia antica (1922-2022) Parco archeologico di Ostia antica fino all’08.01.23

POMPEI Arte e sensualità nelle case di Pompei Palestra Grande fino al 15.01.23

MILANO Il suono oltre l’immagine La decifrazione dei geroglifici Civico Museo Archeologico fino all’08.01.23

L’Orante

(…nel tuo nome alzerò le mie mani…) Museo di Sant’Eustorgio e della Cappella Portinari fino al 15.01.23 46 a r c h e o

PORTICI (NAPOLI) Materia

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.10.23


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

TORINO Esplorare il mondo della magia: amuleti e faïence Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino all’08.01.23

Il dono di Thot

Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23

TRENTO Lascaux Experience

La grotta dei racconti perduti MUSE-Museo delle Scienze fino al 12.02.23

VETULONIA (GROSSETO) A tempo di danza

In Armonia, Grazia e Bellezza Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino all’08.01.23

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon

Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

I creatori dell’Egitto eterno

Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone Basilica Palladiana fino al 07.05.23

Francia PARIGI Oro e tesori

3000 anni di ornamenti cinesi L’École des Arts Joailliers fino al 14.04.23

Germania AMBURGO Le nuove immagini di Augusto Potere e propaganda nell’antica Roma Bucerius Kunst Forum fino al 15.01.23

FRANCOFORTE I misteri di Mitra Un culto romano visto da vicino Museo Archeologico fino al 10.04.23

Grecia ATENE Ritorno a casa

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Regno Unito LONDRA Geroglifici

L’antico Egitto rivelato British Museum fino al 19.02.23

Svizzera BASILEA Ave Caesar

Romani, Galli e tribú germaniche sul Reno Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 30.04.23

USA

LENS Champollion

NEW YORK Chroma

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo

Vite degli dèi

La via dei geroglifici Louvre Lens fino al 16.01.23

«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23

La scultura antica a colori The Metroplitan Museum of Art fino al 26.03.23 La divinità nell’arte dei Maya The Metroplitan Museum of Art fino al 02.04.23 a r c h e o 47


MOSTRE • SPAGNA

QUELLA SVOLTA DAVVERO EPOCALE Tutti gli oggetti riprodotti nell’articolo sono attualmente esposti nella mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo cristiano», in corso a Cordova fino al prossimo 16 marzo. Fibula circolare in oro sulla quale è raffigurata l’Adorazione dei Magi, da una sepoltura femminile scoperta a Turuñuelo. VI sec. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

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L’EVOLUZIONE DEL CRISTIANESIMO DAL III ALLA FINE DEL VI SECOLO, IL TENTATIVO DI «RINNOVARE L’IMPERO» PROMOSSO DA GIUSTINIANO, UNA GRANDE CITTÀ DELL’IBERIA ANTICA DESTINATA A DIVENTARE CAPITALE DELLA SPAGNA ISLAMICA: SONO GLI ELEMENTI PORTANTI DI UNA GRANDE MOSTRA ALLESTITA A CORDOVA, FINALIZZATA A RACCONTARE, GRAZIE A REPERTI DI PREGIO ECCEZIONALE, I PROFONDI MUTAMENTI AVVENUTI FRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO di Elena Percivaldi

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el 1961 tornò alla luce, nella proprietà di El Turuñuelo, nella provincia di Badajoz, in Spagna, un’importante necropoli tardo-antica. Uno dei rinvenimenti piú significativi si verificò in una tomba femminile dotata di un ricco corredo – databile tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo d.C. – e composto da diversi ornamenti di pregevole fattura: tra essi figuravano orecchini, anelli, una quindicina di brattee (lamine metalliche applicate sull’abito come decorazione) e una fibula di forma circolare. Ad attirare l’attenzione degli archeologi fu soprattutto quest’ultima (vedi foto alla pagina accanto). Di dimensioni non troppo grandi – il

diametro misura 5 cm circa -, la spilla è composta da due lamine d’oro saldate fra loro e fissate per mezzo di due rivetti. La parte frontale raffigura l’Epifania o l’Adorazione dei Magi: i tre sacerdoti, con abiti orientali e berretto frigio, offrono i doni a Maria seduta in trono con il Bambino benedicente sulle ginocchia; davanti a loro, si staglia la stella che li ha guidati a destinazione. Madre e Figlio sono aureolati a indicare la loro natura soprannaturale, enfatizzata da un’iscrizione in greco, che recita: «Maria santa, aiuta chi la porta. Amen», allusiva alla funzione apotropaica della fibula, che poneva chi la indossava sotto la diretta protezione della Vergine. Se il significato generale dell’orna-

mento appare chiaro, ciò che ha fatto e fa discutere gli studiosi sono la sua origine e la conseguente interpretazione. L’uso della lingua greca sembra infatti indicare che esso sia stato realizzato in Oriente, verosimilmente a Costantinopoli oppure nella regione siro-palestinese dove il culto mariano nel VI secolo era particolarmente diffuso.

DI ORIGINE ORIENTALE Ma come e perché giunse in Spagna? Secondo alcuni, la fibula di Turuñuelo sarebbe un oggetto d’importazione e dunque un’importante testimonianza delle fitte relazioni commerciali che intercorrevano tra la penisola iberica occidentale e il mondo bizantino. Ma è

Il simbolo di una città Veduta di Cordova. In primo piano, il ponte romano che attraversa il Guadalquivir; sullo sfondo, la grande moscheacattedrale, nei cui spazi è allestita una sezione della mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo cristiano entre Constantino y Justiniano», visitabile fino al prossimo 15 marzo.

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MOSTRE • SPAGNA

anche possibile che il monile sia stato portato con sé da una donna di origine orientale, che parlava la lingua greca e appartenente a una facoltosa famiglia immigrata in Spagna. La quasi coeva Vitas sanctorum patrum Emeritensium, testo agiografico narrante la vita dei cinque vescovi – Paolo, Fedele, Masona, Innocenzo e Renovazio – reggenti la cattedra di Augusta Emerita (l’odierna Mérida) tra la seconda metà del VI e la prima metà del VII secolo, testimonia in effetti il frequente arrivo in zona di persone provenienti dal Mediterraneo orientale, che andavano a costituire comunità la cui esistenza è confermata dal rinvenimento, proprio nella vicina Mérida, di diverse iscrizioni in greco. Non va inoltre dimenticato che all’epoca in cui viene datata la fibula, cioè nel VI secolo, era in corso la «riconquista» del Mediterraneo da parte di Giustiniano, impegnato nelle guerre dapprima contro i Vandali in Africa (533–534) e poi contro gli Ostrogoti in Italia (535-553): la presenza di individui provenienti dal cuore dell’impero dovette dunque essere costante soprattutto in zone dove, come nel territorio di Mérida, è documentata una forte resistenza al potere visigoto da poco instauratosi nella penisola, i cui sovrani avevano aderito all’arianesimo. Il prezioso manufatto potrebbe però anche essere il ricordo di un pellegrinaggio compiuto dalla defunta in Terra Santa, un’esperienza in quell’epoca abbastanza diffusa: basti citare il caso di Egeria, una monaca o una donna fa50 a r c h e o

Statua in marmo raffigurante il Buon Pastore, da Roma. Prima metà del IV sec. Siviglia, Fundación Casa Ducal de Medinaceli.

coltosa originaria della costa atlantica della Spagna che tra il 381 e il 384 compí un viaggio nei Luoghi santi poi da lei stessa documentato in un resoconto scritto, la Peregrinatio Aetheriae (o Itinerarium Egeriae). Una cosa comunque appare certa: la fibula di El Turuñuelo, dal profondo valore apotropaico e ricordo di un Paese lontano, doveva essere molto cara alla sua proprietaria se quest’ultima dispose che, alla sua morte, l’accompagnasse per sempre nella tomba.

TRASFORMAZIONI PROFONDE Conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Madrid, il reperto è uno degli oggetti di richiamo della grande mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo» («Cambio di Era. Cordova e il Mediterraneo cristiano») allestita a Cordova fino al prossimo 15 marzo. Curata da Alexandra Chavarría Arnau, professore di archeologia medievale all’Università degli Studi di Padova, l’esposizione ripercorre l’evoluzione del cristianesimo fra il III secolo e la fine del VI, dalle prime evidenze cristiane rinvenute in contesti funerari di Roma fino al regno di Giustiniano, fautore nel VI secolo dell’ultimo tentativo di riunificazione del Mediterraneo sotto le insegne imperiali. Fu un periodo caratterizzato da grandi migrazioni di popoli fino ad allora stanziati ai limiti orientali della compagine statale romana – definiti «barbarici» perché originati al di fuori del contesto politico e


LA PESTE IN UNA LAPIDE Tra le testimonianze piú suggestive presenti in mostra figura questo frammento di un’iscrizione funeraria rinvenuta prima del 1958 nel Cortijo de Chinales, un’area situata nel settore occidentale di Cordova tra le attuali strade Camino de los Sastres e Alcalde de la Cruz Ceballos, già protagonista di importanti rinvenimenti epigrafici di epoca romana. Sulla lapide, datata 609 e proveniente con molta probabilità dalla vicina basilica dedicata a sant’Acisclo, primo martire di Cordova († 304) – edificio di cui sono state riportate alla luce le fondamenta – si legge solamente la seguente frase incompleta: «… | ab inguina|li peste o|biit (a)er(a) DC|XLVII» («...morto per infezione all’inguine nell’anno 647 dell’era (ispanica)»). Si tratta dell’unica – a tutt’oggi – attestazione epigrafica della cosiddetta «peste di Giustiniano», che flagellò l’Europa e il Mediterraneo in diverse ondate che perdurarono fino alla metà dell’VIII secolo. In Hispania l’epidemia fu descritta, fra gli altri, da Isidoro da Siviglia (ca. 556-636) e da un commentatore del Chronicon di Vittore di Tunnuna (Tunisia, † 570), il quale riporta che nell’anno 542 la penisola iberica conobbe due flagelli terribili: la spedizione di cinque re franchi, che devastarono i territori di Tarragona, e «la peste inguinale, che in questi stessi giorni schiacciò quasi interamente la Hispania» («suo diebus inguinalis plaga totam pene contrivit Hispaniam»). Dal canto suo, il cronista visigoto di origine lusitana Giovanni di Biclaro (540 circa-post 641), che proseguí l’opera di Vittore, annota che nell’anno 571 «la mortalità prese piede per infezione nella città palatina (Toledo, n.d.r.)», e di aver visto con sgomento «quante

culturale classico –, cosí come da guerre e pestilenze quali la cosiddetta «peste giustinianea», che, tra il 541 e il 542 e con ondate fino alla metà dell’VIII secolo, flagellò l’Oriente e il Mediterraneo (vedi box in questa pagina). Ma anche un’epoca di profonde trasformazioni di ordine politico-economico e socio-culturale, che portarono alla frattura definitiva dell’unità che, per lunghi secoli, aveva caratterizzato l’impero romano e all’inizio di una nuova era. Per quanto riguarda l’Hispania, in tale processo Cordova rivestí un ruolo fondamentale perché favorí la

migliaia di uomini vi morirono» («in regia urbe mortalitas inguinalis plage exardescit, in qua multa milia hominum uidimus defecisse»). Il frammento lapideo di Cordova non ha purtroppo conservato il nome di questa sfortunata vittima del morbo; resta invece memoria della causa della sua morte, la cui precisazione sulle epigrafi sepolcrali non è molto frequente: le rare volte in cui il particolare veniva registrato era perché il defunto era incorso in una mors singularis (morte particolare), in questo caso a causa della peste bubbonica.

persistenza dell’eredità romana e la sua trasmissione, ma fu anche nel contempo un «laboratorio» degli epocali cambiamenti che segnarono il passaggio tra tarda antichità e Alto Medioevo, quando la città divenne capitale dell’Al-Andalus.

ALLE ORIGINI DI UN’ICONOGRAFIA Il percorso della mostra si articola in tre sedi all’interno della città andalusa: il Centro de Arte Contemporáneo C3A, la Sala Vimcorsa e la moschea, oggi cattedrale, tra le principali espressioni dell’arte ara-

bo-islamica e dell’architettura gotico-rinascimentale andalusa, nonché patrimonio dell’umanità UNESCO insieme al vicino sito archeologico di Medinah-Azahara. La sezione ospitata presso il C3A illustra attraverso una serie di reperti significativi la genesi e lo sviluppo della primitiva iconografia cristiana e l’apparizione dei temi e dei simboli della nuova religione, cosí come i suoi rapporti con il giudaismo. E proprio i simboli furono sin dall’inizio il mezzo per eccellenza impiegato dai fedeli per identificarsi, riconoscersi e (auto)rappresentaa r c h e o 51


MOSTRE • SPAGNA

re il proprio credo: da quelli aniconici come la croce e il pesce – in greco ichthýs, acronimo dell’espressione Iesous Christos TheouYios Soter, «Gesú Cristo, Figlio di Dio e Salvatore» –, ai piú «descrittivi», quali la figura dell’orante, un personaggio rivestito da una tunica e raffigurato in piedi e con le mani tese verso il cielo in atteggiamento di preghiera, oppure del «Buon Pastore», un giovane imberbe che porta sulle spalle una pecora. Entrambi sottendono un complesso spettro di significati e sono intrisi di sincretismo: se la postura dell’orante rimanda a un’iconografia religiosa ancestrale diffusa in ambito mediterraneo, il Buon Pastore richiama la funzione di psicopompo presente nella figura di Hermes/Mercurio, il dio dei pastori come «guida delle anime» e nel contempo allude a quella di

Gesú cosí come è descritta nel Vangelo di Giovanni: «Il buon pastore che dà la vita per le sue pecore» (Gv 10, 11). Nella mostra cordovese possiamo ammirarne un raro esemplare in marmo proveniente da Roma, datato alla prima metà del IV secolo e conservato presso la Fundación Casa Ducal de Medinaceli di Siviglia (vedi foto a p. 50): se infatti il tema del Buon Pastore è ben documentato nella pittura e nei mosaici, le sculture sopravvissute fino ai giorni nostri sono in tutto soltanto una ventina, quattro delle quali in Spagna e due esposte in questa mostra (oltre a quella di Siviglia, una da Almería). Insieme a questi simboli di grande impatto ed eccezionale popolarità, concorrono a rappresentare il credo cristiano delle origini alcune sele-

Modello marmoreo dell’edicola del Santo Sepolcro, commissionato dal vescovo Rustico. V sec. Narbona, Museo.

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zionate scene dell’Antico Testamento, in primis le storie di Adamo ed Eva – un sarcofago da Ceheguin riporta la cacciata dal Paradiso, mentre un’interessante lucerna di provenienza nordafricana raffigura Eva che si copre pudicamente il sesso – e la vicenda di Giona inghiottito dalla balena, allusiva alla salvezza e alla resurrezione (è qui visibile su due sarcofagi provenienti da Toledo e Elda). Frequenti sono anche il sacrificio di Isacco, presente su una placca da cintura cartaginese, e Daniele nella fossa dei leoni, protagonista in una placca eburnea ancora da Cartagine e in una bella lucerna da Antequera. Infine, i tre giovani ebrei posti nella fornace di Babilonia e rimasti illesi grazie all’intervento divino a testimoniare la perseveranza della fede che conduce alla salvezza: qui li troviamo su un frammento di sarcofago del Museo di Cadice. Agli episodi veterotestamentari si affiancano quelli evangelici, base fondante per lo sviluppo dell’iconografia cr istiana: le scene della vita, dei miracoli e della Passione di Cristo, visiva-


mente icastiche e narrativamente pregnanti, appaiono sia sui sarcofagi che su oggetti d’uso quotidiano quali le lucerne: in mostra ve ne sono alcuni esemplari africani raffiguranti la resurrezione di Lazzaro e il Cristo in Maestà.

GLI EDIFICI DI CULTO Le prime testimonianze materiali di edifici riservati appositamente al culto cristiano risalgono, nell’impero, al IV secolo, cioè subito dopo il citato Editto di Milano. Tali costruzioni furono patrocinate dallo stesso Costantino secondo due diverse tipologie: edifici a pianta longitudinale, ispirati probabilmente alle basiliche civili romane, per le chiese episcopali dedicate, in Occidente, al culto dei martiri (ne è un esempio la Basilica Aurea intitolata al Salvatore, oggi S. Giovanni in Laterano, iniziata dopo il 312 e consacrata nel 324); edifici a pianta centrale su imitazione dei grandi mausolei imperiali contemporanei in Oriente – in particolare in Palestina –, eretti per commemorare i luoghi legati alla vita e alla passione di Cristo. Emblematica fu, riguardo a questi

ultimi, l’edicola del Santo Sepolcro, costruita sulla tomba di Cristo e poi inglobata all’interno di una grande chiesa inaugurata nel 335 a Gerusalemme dallo stesso Costantino. La mostra di Cordova espone un suggestivo modello dell’edicola (vedi foto alla pagina accanto) ricavato da un blocco monolitico di marmo dei Pirenei commissionato nel V secolo da Rustico, vescovo metropolita di Narbona – tappa di pellegrinaggio sull’itinerario che da Bordeaux portava a Gerusalemme –, con due scopi: celebrare la benedizione e la consacrazione del santo crisma durante la messa del Giovedí Santo, e consentire di manifestare adeguatamente la propria devozione in occasione della Pasqua ai fedeli impossibilitati a recarsi di persona in Terra Santa. Questo monumento assunse un profondo significato e divenne luogo di pellegrinaggio per i cristiani, che tornando in patria ne recavano con sé come «souvenir» oggetti sui quali l’edicola era rappresentata. È il caso, per esempio, delle celebri ampolle appartenute alla regina longo-

In alto: placca da cintura con Cristo e gli apostoli, da Cartagine. Seconda metà del VII-inizi dell’VIII sec. Al centro: anello in oro forse appartenente al Tesoro di Torredonjimeno. VII sec.

barda Teodolinda e oggi conservate nel Museo e Tesoro del Duomo di Monza, oppure dell’anello in oro (vedi foto qui sopra) forse appartenente al Tesoro di Torredonjimeno (VII secolo), simile al piú noto di Guarrazar, composto da una serie di preziose corone con croci votive visibili anche nella mostra cordovese. Oltre agli edifici di culto, Costantino promosse la costruzione a Costantinopoli di un mausoleo a pianta circolare e ordinò di disporvi il a r c h e o 53


MOSTRE • SPAGNA

LE PLACCHE DI VINICA Di grande interesse sono le placche in terracotta del V-VI secolo provenienti da alcune aree del Mediterraneo tra cui Macedonia, Africa settentrionale (Tunisia) e penisola iberica: la mostra ne presenta alcune serie decorate con motivi biblici, animalistici e vegetali. Una di esse, proveniente dalla fortificazione di Vinica in Macedonia, raffigura il profeta Daniele in atteggiamento orante, contornato da due leoni con le fauci spalancate (vedi foto qui accanto). Il protagonista della scena è identificato dall’iscrizione latina «(s(an)c(tu)s Daniel»; tutt’intorno, a mo’ di cornice, corre la prima parte del versetto 23 del Salmo 37: «A Domino gressus viri firmantur» («Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo»). La tavoletta illustra dunque il brano veterotestamentario (Da 6) in cui il profeta racconta come i satrapi, gelosi del suo ascendente su Dario, re dei Medi, convinsero quest’ultimo a emanare un editto che vietasse di invocare, per un periodo di trenta giorni, altri dèi all’infuori del sovrano. Daniele non obbedí e, colto dai satrapi in flagrante mentre pregava, fu gettato nella fossa dei leoni con l’avallo di Dario, il quale rimarcò al profeta che ci avrebbe pensato il suo Dio a liberarlo. La mattina seguente, il re si recò alla fossa e trovò il profeta incolume: un angelo aveva chiuso la bocca dei leoni impedendo loro di nuocergli. Il sovrano ordinò quindi di liberare Daniele e gettare nella

fossa, al suo posto, i satrapi che lo avevano accusato insieme alle loro famiglie, che furono tutti sbranati. L’episodio biblico termina con l’ordine del re, rivolto a tutti i popoli su cui regnava, di rispettare «il Dio di Daniele, Dio vivente che dura in eterno» nonché suo salvatore. Per il cristianesimo delle origini questo passo prefigurava la resurrezione. La stessa rappresentazione compare anche piú sintetica in una delle placche di Tunisi (con un unico leone e la sagoma di Daniele), che conserva tracce di pittura rossa a dimostrazione che questi oggetti, che decoravano soffitti e pareti di edifici di culto, erano probabilmente dipinti. A sinistra: lastra in pietra calcarea raffigurante una chiesa, da Dougga (Thugga, Tunisia). V sec.

proprio sarcofago al centro, attorniato dai cenotafi nei dodici Apostoli. In tal modo, testimonia il suo biografo Eusebio di Cesarea, egli sperava certo «di beneficiare anche dopo la sua dipartita delle preghiere che lí si sarebbero recitate per gli apostoli stessi».Tuttavia, enfatizzando il proprio contribuito alla diffusione del cristianesimo, l’imperatore intendeva anche presentarsi simile agli stessi Apostoli (isapóstolos), con ciò dimostrando di aver colto appieno l’importanza che essi rive54 a r c h e o


stivano nell’immaginario visivo e simbolico cristiano: non per nulla sono raffigurati su innumerevoli manufatti, quali, per esempio, la placca da cintura proveniente da Cartagine (seconda metà del VIIinizi dell’VIII secolo), bellissima per quanto fortemente usurata, che li ritrae insieme a Cristo e qui esposta in mostra (vedi foto alle pp. 52/53, in alto).

L’HISPANIA BIZANTINA Dopo il turbolento periodo delle grandi migrazioni, intorno al 520 i territori dell’ex impero, e in particolare quelli gravitanti intorno al Mediterraneo, sembravano aver raggiunto una fase di stabilità grazie all’equilibrio dei rapporti che ormai intercorrevano tra l’impero e il regno ostrogoto di Teodorico (493526), lo Stato allora piú potente d’Occidente. Ma a Costantinopoli una nuova classe di intellettuali, funzionari, senatori e ufficiali iniziò ad attribuire la perdita militare e morale della parte occidentale dell’impero proprio all’avvento dei «barbari». Ritenendo che il suo potere emanasse dalla grazia divina e che l’impero rappresentasse lo strumento prescelto da Dio allo scopo di perfezionare il proprio disegno di salvezza, Giustiniano I (527-565) si fece allora promotore dell’ideale di Renovatio imperii, teso a ricostituire attraverso una serie di campagne militari quell’unità territoriale, giu-

A destra: frammento di arredo liturgico decorato con chrismon, alfa e omega. VI sec. Cordova, Museo di San Vicente. In basso: iscrizione che ricorda i lavori realizzati nel 589590 a Carthago Spartaria dal magister militum Spaniae Comenciolo.

ridica, politica, morale e religiosa che sembrava perduta. Le spedizioni si rivolsero dapprima contro i Vandali in Africa e poi contro i Goti in Italia; l’azione bellica fu affiancata da una zelante politica di riforme fiscali e dalla codificazione di un sistema legislativo nelle intenzioni destinato a essere universale, raccolto nel Corpus Iuris Civilis. Sul piano artistico e architettonico, infine, Giustiniano fu protagonista di una straordinaria stagione edilizia che raggiunse il vertice con la costruzione della basilica di S. Sofia a Costantinopoli, una delle chiese piú impegnative mai realizzate nell’antichità, destinata a imporsi come il punto di riferimento della futura archi-

tettura religiosa mediterranea. L’impatto dell’occupazione bizantina nella penisola iberica è stato oggetto di grande dibattito accademico a partire dall’inizio del XX secolo. La mostra ne ripercorre i momenti principali attraverso alcune testimonianze significative. Una di esse è l’iscrizione che commemora i lavori realizzati nel 589590 a Carthago Spartaria dal magister militum Spaniae Comenciolo per edificare (o restaurare) la porta monumentale della città (vedi foto in basso): un’epigrafe di natura propagandistica simile a quelle inserite dalle autorità militari della prefettura d’Africa in epoca giustinianea nelle opere di munizione delle città e dei castelli.Vi sono poi le ore-

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MOSTRE • SPAGNA

ficerie – fra le quali spicca proprio la fibula di Turuñuelo citata all’inizio –, le lapidi musive poste sulle tombe di personaggi eminenti delle città e una serie di straordinarie lastre di argilla cotta decorate con motivi biblici, geometrici e vegetali provenienti dall’Andalusia, dalla Tunisia e dalla Macedonia (vedi box a p. 54), plastica dimostrazione dell’entità dei rapporti culturali e commerciali esistenti tra il Mediterraneo orientale e il Mezzogiorno iberico nel VI secolo. Di taglio piú propriamente archeologico è la sezione della mostra allestita nella Sala Vimcorsa in centro città, che raccoglie numerosi reperti legati all’ambito funerario ed ecclesiastico provenienti dalla città di Cordova, dal sud della penisola iberica e, piú in generale, dal mondo mediterraneo. Anche nella città andalusa, capoluogo

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Nella mostra non mancano reperti provenienti dall’Italia, fra cui importanti manufatti riferibili all’età longobarda Lampada in bronzo a forma di nave, dalla Domus Valeriorum (la casa dei Valerii), sul colle Celio (Roma). IV sec. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nell’iscrizione ne è citato il proprietario, Valerio Severo, ribattezzato Eutropio dopo essere stato battezzato.


CHI È LA DAMA DI CARTAGINE? Fin dalla sua scoperta, avvenuta alla metà del secolo scorso, il bel mosaico della «Dama di Cartagine», che decorava il vestibolo (oecus) di una ricca residenza dell’antica città nordafricana, ha suscitato un vivace dibattito – tuttora aperto – sulla sua peculiare iconografia e, di conseguenza, del suo significato. L’opera, molto raffinata, presenta una figura femminile ingioiellata e dotata di aureola racchiusa in una cornice ornata di gemme, raffigurata nell’atto di benedire con la mano destra mentre con la sinistra regge un lungo scettro. Il ritratto appare originale per via dell’abito, tipicamente maschile, costituito da un mantello fissato da una fibula di tipo imperiale, al di sotto del quale si intravede una tunica ricamata. Sebbene sia condiviso che si tratti della rappresentazione di una figura femminile di altissimo rango, esistono opinioni divergenti sulla sua esatta identificazione e sulla provenienza dell’opera. Alcuni, infatti, ritengono che il mosaico sia stato importato dall’Oriente greco, altri che sia stato commissionato da un facoltoso personaggio di origine orientale stabilitosi a Cartagine. Quanto all’identità dell’enigmatica figura femminile, per alcuni si tratterebbe di un’allegoria del potere imperiale – l’aureola fu attributo iconografico dei sovrani prima ancora che di Cristo e dei santi – , per altri del ritratto dell’imperatrice Teodora, consorte di Giustiniano.

della provincia romana della Betica, le prime testimonianze legate al cr istianesimo provengono dall’ambito funerario e sono rappresentate da sarcofagi decorati con temi, simboli e formule cristiani – pezzi di alto livello qualitativo, a volte importati da Roma, che riflettono lo status dei personaggi sepolti – e da iscrizioni che ci restituiscono i nomi di alcuni di essi: Anerio, Vittoria, Fortuna.

OSIO, IL PRIMO VESCOVO Alla guida della comunità nel 355 c’era il vescovo Osio, che secondo Atanasio reggeva la sede episcopale cordovese da oltre sessant’anni: una circostanza che ne riconduce l’elezione intorno al 294 e fa di lui il primo vescovo documentato di tutta la Betica. La figura di Osio, meno conosciuta rispetto ad altri personaggi di grande spicco quali Eusebio di Cesarea, è di grande importanza per la storia della cristianità, perché fu accanto a Costantino nel periodo in cui l’imperatore autorizzò la libertà di culto (Editto di Milano, 313) e fu tra i protagonisti di eventi cruciali quali il Concilio di Nicea (325). Attraverso l’analisi della scultura liturgica e architettonica, si ricostruiscono prima gli ambienti ecclesiastici poi la topografia cristiana della città: dal complesso episcopale, oggetto di interventi archeologici recenti nel cortile della moschea, ai complessi suburbani con funzione martiriale citati dalle fonti scritte ma la cui ubicazione precisa ancora non è stata ben definita dagli studiosi. Senza dimenticare la cristianizzazione dello straordinario complesso architettonico di Cercadilla, a nord-ovest della città, interpretato ora come palazzo imperiale, ora come edificio amministrativo o villa, ma che di sicuro nel VI secolo spicca come un complesso di grande importanza, come rivelano alcuni degli oggetti esposti. (segue a p. 60) a r c h e o 57


MOSTRE • SPAGNA

I LONGOBARDI DI MONSELICE: DALL’ITALIA AL MEDITERRANEO Fra i materiali selezionati per la mostra di Cordova figura anche un nucleo di reperti provenienti dal castrum di Monselice, in provincia di Padova, fortificazione tra le piú significative nell’Italia nordorientale nella tarda antichità nonché insediamento chiave per la comprensione delle dinamiche politiche esistenti tra popolazioni «barbariche» ed eserciti imperiali nella Penisola nel corso del VI-VII secolo. Le cinque sepolture maschili, messe in luce nel 1989 accanto a una delle torri della cinta muraria e databili alla prima metà del VII secolo, cosí come gli oggetti di corredo deposti accanto ai defunti testimoniano il processo di assimilazione e acculturazione 2

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In questa pagina: manufatti di produzione longobarda provenienti dal castrum di Monselice (Padova): 1. crocetta aurea; 2-3. puntali di cintura; 4. scramasax (spada corta, simile al gladio).

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allora in corso tra i Longobardi immigrati e le popolazioni autoctone di matrice cristianoromana. Accanto alle armi che accompagnavano i defunti nel rituale funebre pagano di tradizione germanica si trovano infatti oggetti che denotano il contatto con la cultura cristiana degli Italici. Emblematica, da questo punto di vista, appare la crocetta aurea rinvenuta nella tomba bisoma n. 748-749 tra il capo dei due defunti, in origine cucita come di consueto sul sudario (o velo) funebre. L’uso delle crocette auree si riscontra, tra i Longobardi, solo dopo il loro ingresso nella Penisola, introdotto molto probabilmente sotto influenza bizantina, ed è stato interpretato come segno del loro progressivo avvicinamento al cattolicesimo cosí come dell’adesione agli orientamenti politico-culturali ostentati dalle aristocrazie. L’iconografia presente su questi oggetti vede peraltro spesso la convivenza di elementi pagani (intrecci, animali, maschere umane barbute e con la tipica capigliatura a scriminatura centrale probabilmente allusive alla


Altri materiali longobardi provenienti da Monselice. In alto, un pettine in osso; a sinistra e in basso, una fibbia e un elemento di cintura.

principale divinità del pantheon germanico, Godan/Wotan/Odino) accanto a motivi squisitamente cristiani (colombe, oranti, monogrammi) ed è fortemente probabile che rivestissero, come suggerisce la loro collocazione in corrispondenza del volto o sul petto, una funzione apotropaica e magica contro il male e i pericoli. L’uso delle crocette passò, tramite i Longobardi, ad altre popolazioni germaniche con cui essi erano in contatto, in particolare gli Alamanni e Baiuvari: da quest’ultima stirpe, peraltro, proveniva la regina Teodolinda, cui si deve l’avvio del processo di conversione dei Longobardi al cattolicesimo. Anche la crocetta di Monselice comprende elementi di matrice sia pagano-germanica che cristianomediterranea: se ogni braccio è ornato da intrecci di nastri terminanti verso l’esterno con un motivo a U (l’occhio di un animale?) e verso l’interno con due fascette di tre linee (le sue zampe?) secondo i

dettami del II stile zoomorfo, al centro della croce è inciso a sbalzo il monogramma IHS, trascrizione latina del nome greco di Gesú, racchiuso in un cerchio radiato. Altrettanto degno di nota è, dalla tomba 729, il puntale di cintura in lamina d’argento con decorazione «a punto e virgola» su una faccia e a motivi zoomorfi stilizzati sull’altra. Sotto a questi ultimi compare un monogramma, la cui lettura è «Ihoannis», che trova puntuali confronti con simboli analoghi che

compaiono su una croce in lamina d’oro da Trezzo sull’Adda (Milano) e un puntale d’argento da Offanengo (Brescia), ma anche su un mattone dalla basilica di S. Giusto a Lucera e, piú tardi, un denaro in argento di papa Giovanni VIII (872-882). Si tratta di un nome latino largamente usato tra la fine del VI e il VII secolo; tuttavia potrebbe anche essere un’invocazione o una dedica all’Evangelista, anche in questo caso con probabile valore apotropaico.

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MOSTRE • SPAGNA

Non mancano, nel percorso della mostra, pezzi affascinanti e di controversa interpretazione. È il caso della celebre «Dama di Cartagine», un mosaico del V-VI secolo ritenuto un’allegoria del potere imperiale oppure il ritratto dell’imperatrice Teodora, consorte di Giustiniano (vedi box a p. 57), o anche il frammento di edicola decorato con chrismon, alfa e omega proveniente da Mérida (vedi foto a p. 55, in alto). Reimpiegato come elemento decorativo nel davanzale di una casa privata sita a poca distanza dall’attuale chiesa di S. Maria, dove nel VI secolo sorgeva la cattedrale cittadina, il manufatto potrebbe essere identificato con ciò che resta della cattedra episcopale – la forma a nicchia e l’emblema di Cristo rimarcherebbe il ruolo apicale di chi vi sedeva -, oppure rappresentare un esempio della monumentalizza-

zione dei reliquiari sotto forma di nicchie aperte nel muro cosí da renderne possibile le venerazione da parte dei fedeli.

DAL COLLE DEL CELIO Diversi sono anche i pezzi provenienti dal contesto italiano.Tra essi citiamo in particolare la splendida lampada in bronzo a forma di nave oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (vedi foto a p. 56). Scoperta nel marzo del 1667, a Roma, sul colle Celio, tra le rovine della lussuosa Domus Valeriorum (la casa dei Valerii), incendiata nel 410 durante il sacco di Alarico e poi «rinata» nel 575 come ospizio per poveri e pellegrini, la lampada presenta una prua a collo di cigno; sull’albero al centro del ponte sventola una vela gonfiata dal vento, sulla cui sommità si legge l’iIn alto: lucerna con chrismon e apostoli, da Cartagine. V-VI sec. Cartagine, Museo Nazionale. A sinistra: mosaico policromo con fiori del Paradiso e angelo, dalla chiesa di Henchir El Koucha. VI sec. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento della mostra.

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scrizione «Dominus legem | da Valerio Severo | Eutropis vivo» («Il Signore consegna a Valerio Severo la legge divina.Viva Eutropio»). L’imbarcazione custodisce al suo interno due figure maschili, l’una in atteggiamento di preghiera, l’altra nell’atto di remare: si tratta senza dubbio degli Apostoli che guidano la nave, metafora della Chiesa, nel mare procelloso e irto di scogli del mondo con le sue tentazioni. L’iscrizione nel cartiglio in cima all’albero sembra confermare la natura squisitamente religiosa dell’oggetto: la legge che Dio dà a Valerio Severo – da identificare forse con il Valerio Severo che nell’anno 382 ricoprí l’alta carica di praefectus Urbis – è quella di Cristo, tramandata altrove da quest’ultimo agli stessi Pietro e Paolo nella ben nota iconografia della Traditio Legis (et Clavis). Quanto a Eutropio, potrebbe forse trattarsi del nome (dal greco: docile, ben disposto) che Valerio Severo acquisí in occasione del battesimo, sempre che sia accettabile la tesi


che vorrebbe la lampada prodotta per l’occasione. In ogni caso, il manufatto è una chiara testimonianza del favore e della popolarità di cui i due apostoli godevano tra i fedeli nel IV secolo. Uno spazio a sé meritano i reperti longobardi provenienti da Monselice (Padova), tra i quali spicca una crocetta aurea (vedi box alle pp. 5859) i cui bracci sono decorati con i motivi a intreccio tipici della tradizione germanica, mentre al centro compare un monogramma IHS, trascrizione latina del nome greco di Gesú: una loquace testimonianza del processo di conversione dei Longobardi al cristianesimo allora in atto – l’oggetto è datato all’inizio del VII secolo –, ma anche dei profondi rapporti culturali esistenti tra Longobardi e Bizantini. La mostra di Cordova si chiude con la sezione allestita nella moschea-cattedrale, che raccoglie una selezione di materiali provenienti dagli scavi archeologici realizzati (e tuttora in corso) sia nel luogo di culto che nelle sue adiacenze, indagini che hanno consentito di ricostruire la complessa storia del mo-

numento. L’attuale edificio fu infatti costruito nel 785 dall’emiro ‘Abd al-Rahman I sui resti dell’antica chiesa visigota di S. Vicente (san Vincenzo martire), eretta tra il IV e il VI secolo come primo complesso episcopale della città. Questa costruzione fu successivamente ampliata fino alla radicale e definitiva trasformazione, avvenuta nel 1236 a opera di re Ferdinando

III di Castiglia a seguito della Reconquista, in cattedrale dedicata a S. Maria Assunta. I reperti esposti consentono di cogliere tutte le trasformazioni dell’edificio da complesso vescovile tardoantico a chiesa medievale passando per moschea. Un caso emblematico di quell’intreccio di culture e religioni che da sempre costituisce la base della storia iberica, del Mediterraneo e dell’Europa.

Tre sedi per raccontare un cambiamento La mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo cristiano» («Cambio di Era. Cordova e il Mediterraneo cristiano») presenta oltre 200 opere provenienti da 36 istituzioni spagnole e da una dozzina di enti internazionali (tra cui i Musei Vaticani, il Museo Nazionale di Cartagine, il Museo di Narbona, i Musei Archeologici Nazionali di Roma, Aquileia, Firenze, Madrid e Tarragona, il Museo Nazionale d’Arte Romana di Mérida e il Museo di Belle Arti di Bilbao) e racconta l’origine e lo sviluppo del primo cristianesimo evidenziandone l’impatto sulla storia e sulla cultura mediterranea, con particolare attenzione al Sud della penisola iberica e alla città di Cordova. Le sei sezioni che compongono la mostra sono allestite in due sedi principali – il Centro di Cultura Contemporanea dell’Andalusia-C3A e la Sala Vimcorsa –, a cui si affianca un percorso nella grande moschea di Cordova, oggi cattedrale, dedicato a materiali archeologici restituiti dagli scavi nella moschea-cattedrale e nei suoi immediati dintorni. Ad accompagnare i reperti, molte splendide illustrazioni che ne facilitano la lettura iconografica e murali dipinti con suggestive rappresentazioni – la città di Gerusalemme, la battaglia del Ponte Milvio, l’adventus (cerimonia di arrivo) di reliquie – ispirate alle testimonianze archeologiche, ma reinterpretate e inserite nel contesto geografico e storico dell’epoca: un modo efficace, insieme agli audiovisivi, per coinvolgere il visitatore di ogni età. Aperta fino al 15 marzo 2023, la mostra si avvale di un prestigioso comitato scientifico internazionale ed è accompagnata dal catalogo curato da Alexandra Chavarría Arnau. È inoltre possibile seguire gratuitamente un corso on line in lingua inglese ospitato sulla piattaforma educativa Futurelearn: curato sempre da Chavarría, introduce e contestualizza i temi e gli oggetti presentati nella mostra. Info: www.futurelearn.com/courses/ change-of-era-the-origins-of-christian-culture-through-the-lens-of-archaeology

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PROTAGONISTI • FEDERICO HALBHERR

UN ITALIANO

SULL’ISOLA DI MINOSSE ORIGINARIO DI ROVERETO, FEDERICO HALBHERR (1857-1930) SI FORMÒ SOTTO LA GUIDA DEI PIÚ GRANDI MAESTRI DEL SUO TEMPO. INVIATO A CRETA ALLA RICERCA DI EPIGRAFI, LE SUE FORTUNATE SCOPERTE APRIRONO LA STRADA ALLA PRIMA CAMPAGNA ARCHEOLOGICA ITALIANA ALL’ESTERO E FECERO CONOSCERE AL MONDO I SITI E I PALAZZI DELLA CIVILTÀ MINOICA. A LUI SI DEVONO LA FONDAZIONE DELLA SCUOLA ARCHEOLOGICA ITALIANA DI ATENE, L’ISTITUZIONE DELLA PRIMA CATTEDRA DI EPIGRAFIA GRECA A ROMA E LA PIONIERISTICA ESPLORAZIONE ARCHEOLOGICA DELLA LIBIA. IN QUESTE PAGINE PRESENTIAMO UN’ANTEPRIMA DEL VOLUME DI IMMINENTE PUBBLICAZIONE SULLA FIGURA DELL’ARCHEOLOGO di Stefano Struffolino

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perosa cittadina adagiata lungo la val Lagarina, lambita dall’Adige e attraversata dal torrente Leno, Rovereto fu un importante avamposto della Repubblica di Venezia e poi parte del regno napoleonico d’Italia. Fu però sotto la dominazione asburgica che nacque, il 15 febbraio 1857, da una famiglia di possidenti terrieri, Federico Halbherr, dalle seconde nozze del padre Giovanni Battista con Rosa Fontana. L’affetto dei genitori, una vita familiare tranquilla e i buoni rapporti con le tre zie, sorelle di Giovanni Battista, e con il fratello maggiore di primo letto Bernardino, contribuirono senz’altro a plasmare quel carattere gentile, altruista, seppure timido e riservato, che con64 a r c h e o

traddistinse la figura di Federico per tutti gli anni a venire, e che tanto lo fece apprezzare da colleghi e allievi. Centro votato alla produzione della seta, Rovereto vantava una vita culturale molto attiva, con una società filarmonica, l’importante teatro – poi intitolato al compositore Riccardo Zandonai (18831944) –, il Museo Civico e la Biblioteca Tartarotti, ma, soprattutto, la prestigiosa Accademia Roveretana degli Agiati, dalla metà del XVIII secolo punto di riferimento d’eccellenza per il dibattito scientifico, la tutela e la diffusione del sapere (vedi box a p. 66). L’Accademia, la cui influenza si estendeva oltralpe, non poteva prescindere, nella sua impostazione filosofica, dalla dottrina

di un’altra grande figura di Rovereto: Antonio Rosmini (17971855), dal suo cattolicesimo liberale e dall’attenzione per l’educazione dei giovani. Quello di Rosmini non fu mai indottrinamento, bensí un benevolo accompagnamento sulla strada della conoscenza. Molti docenti di Federico Halbherr, nelle scuole primarie e al ginnasio, furono sacerdoti rosminiani che seppero evidentemente stimolare e guidare la formazione del futuro antichista attraverso un approccio eticamente elevato e strutturalmente organizzato, come dimostrano gli ottimi risultati attestati dalle pagelle ora custodite presso gli archivi della Biblioteca Civica. Nonostante l’origine svizzera della famiglia, l’appartenenza del Tirolo italiano all’impero


A destra: foto ricordo per alcuni dei protagonisti principali delle prime ricerche archeologiche a Creta: da sinistra a destra, Sir Arthur Evans (1851-1941), lo scavatore di Cnosso; Luigi Savignoni (1864-1918); Josip Chatzidakis (1848-1943), medico e archeologo, scavatore di Tylissos; Luigi Mariani (1865-1924) e Federico Halbherr (1857-1930). In basso: Federico Halbherr impegnato nel ricontrollare la trascrizione della Grande Iscrizione di Gortina, da lui scoperta nell’estate del 1884.

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PROTAGONISTI • FEDERICO HALBHERR

STUDIARE «AD-AGIO», COME UNA CHIOCCIOLA Una chiocciola che lentamente scala una piramide e il motto «giunto l’vedrai per vie lunghe e distorte. Gli Agiati di Rovereto»: è questo lo stemma, o meglio l’impresa della prestigiosa Accademia fondata nel 1750 dallo scrittore e letterato Giuseppe Valeriano Vannetti, che vide tra i suoi soci personaggi del calibro di Scipione Maffei, Carlo Goldoni, Alessandro Manzoni, Antonio Fogazzaro, Antonio Rosmini (poi assurto a presidente perpetuo), e naturalmente i due archeologi Federico Halbherr e Paolo Orsi. Nel 1753 l’imperatrice Maria Teresa

asburgico e, quindi, una perfetta conoscenza della lingua tedesca, Federico Halbherr abbandona presto l’idea di una formazione universitaria in Austria e opta per la Facoltà romana di lettere alla «Sapienza», dove si iscrive nel 1876, frequentando i corsi di storia antica di Rugge-

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d’Austria, con regio decreto, ne ratifica la costituzione, ponendola sotto il protettorato asburgico. L’impresa rappresenta e compendia la filosofia dell’istituzione: affrontare «ad-agio», come la chiocciola, la scalata verso la vetta del sapere. Oltre a un ricco patrimonio librario, ora custodito presso la biblioteca civica, nell’Accademia sono conservati gli archivi documentari di numerosi personaggi della cultura roveretana e italiana, fra cui la maggior parte delle carte di Federico Halbherr, i suoi taccuini di scavo e molte fotografie.

ro Bonghi, quelli di antichità greche e romane di Ettore De Ruggero; si interessa anche al sanscrito e all’ebraico, ma si laureerà con Julius Beloch con una tesi sulla «Storia primitiva dei Goti». Contemporaneamente, si diploma anche alla scuola di Magistero,

dove, in seguito, insegnerà per alcuni periodi letteratura greca. Nel 1880 Halbherr prende contatti con l’Istituto di Studi Superiori di Firenze, pensando a una specializzazione in filologia classica, venendo accettato e ottenendo anche un sussidio economico. Qui


In questa pagina: materiali facenti parte della documentazione realizzata da Halbherr a Creta. In alto, a sinistra, la prima trascrizione delle prime due colonne del «Muro Settentrionale»; in alto, a destra, pianta acquerellata dell’odeion; a sinistra, pianta del Pythion. Nella pagina accanto: la Grande Iscrizione cosí come appare oggi. a r c h e o 67


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conosce Domenico Comparetti (1835-1927), docente di greco, mecenate e, dal 1891, Senatore del Regno d’Italia, col quale si instaurerà sin da subito un rapporto privilegiato con l’inizio di una fitta corrispondenza epistolare. Fra il 1881 e il 1882, proprio sotto la guida di Comparetti, Halbherr elaborerà la tesi di perfezionamento «Studi e ricerche sul culto e le antichità sacre di Olimpia», sicuramente sull’onda delle scoperte che gli archeologi tedeschi andavano facendo sul sito dell’antica città greca. L’uso sempre piú competente delle fonti epigrafiche spingerà Comparetti a inviare il giovane allievo nella Grecia continentale e insulare a impratichirsi con la lettura autoptica delle pietre; all’Università di Atene si iscriverà anche a un corso semestrale di epigrafia tenuto da Kyriacos Dion Mylonas (1835-1913), studioso formatosi fra Germania e Francia.

ANNI DIFFICILI Forte di questa esperienza e di precedenti soggiorni presso i musei delle principali capitali europee, spinto sempre da Comparetti, Halbherr si reca per la prima volta, nel giugno del 1884, nell’isola di Creta, con lo specifico proposito di trovare nuove iscrizioni. In quegli anni l’isola era ancora sotto la dominazione ottomana, e i primi moti indipendentisti, spesso repressi in modo violento e sanguinoso, non rendevano agevoli né le esplorazioni archeologiche, né la vita in quei luoghi, tanto che Halbherr non mancava mai di andare in giro prudentemente munito di moschetto o di rivoltella, come mostrano diverse fotografie dell’epoca. Fu una fortunata scoperta a consacrare Halbherr come studioso di fama internazionale e a determinare la prosecuzione delle esplorazioni cretesi. Nel 1857 l’abate e viaggiatore Lèon Thenon, membro della Scuola Archeologica francese di 68 a r c h e o

Gli scavi di Festo in una foto scattata negli anni in cui avevano avuto inizio le ricerche condotte dalla Missione italiana guidata da Federico Halbherr. Nella pagina accanto: Gaetano De Sanctis (1870-1957).

Atene, individua a Gortina, presso un mulino ad acqua posto in un terreno privato, i resti di un’iscrizione che lo colpirono subito per il loro aspetto «molto arcaico» e che lo convinsero dovesse trattarsi di un documento «estremamente importante per la paleografia e filologia greche». L’iscrizione viene ritrovata proprio nel letto del canale che alimentava il mulino anche dall’arche-

ologo Bernard Haussoullier, che forní una trascrizione molto parziale delle poche lastre allora visibili. Ovviamente queste notizie non sfuggirono a uno studioso della levatura di Comparetti che, anche per questo, incoraggiò Halbherr all’esplorazione di Creta. Recatosi subito sul sito dell’antica Gortina, Halbherr, nel giro di poco tempo, riesce a individuare l’iscri-


GAETANO DE SANCTIS Nato a Roma nel 1870 in una famiglia dalle tradizioni molto rigide, Gaetano De Sanctis compí i suoi studi presso scuole di forte tradizione ecclesiastico-cattolica. L’alunnato universitario in storia greca con Julius Beloch smussò un poco questa sua originaria impostazione, cosí come molto formativa fu l’esperienza in Grecia grazie a una borsa di studio. Dopo alcune delusioni dovute a ingiustizie – già allora in voga – dell’ambiente accademico italiano, approdò all’Università di Torino come docente di storia antica. Qui contrasse matrimonio con Emilia Rosmini, che fu sua compagna di viaggio anche a Creta e in Libia. Nel 1929 sostituí Beloch sulla cattedra romana, incarico che però dovette presto abbandonare figurando tra i dodici docenti universitari che rifiutarono di prestare giuramento al regime fascista. A guerra finita, fu presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e nel 1950 fu eletto senatore a vita. Si spense a Roma, nel 1957.

zione, precedentemente quasi del tutto nascosta dall’acqua del canale, e intuisce che dev’essere molto piú estesa di quanto finora immaginato: dodici colonne di scrittura fitta, per un totale di 621 righe, in alfabeto cretese arcaico, inserite nel muro circolare di un odeion romano, originariamente d’età augustea, ma poi piú volte restaurato sotto Traiano e Marco Aurelio.

Nel tempo, dunque, le lastre che compongono l’iscrizione sono state smontate e rimontate per adattarle alle strutture degli edifici che si sono susseguiti sul sito dell’agorà di Gortina: un bouleuterion (sala di riunioni assembleari) d’età ellenistica, e – probabile collocazione originaria – un luogo di riunione circolare d’età arcaico-classica, dove il testo poteva essere letto da tutti i cittadia r c h e o 69


PROTAGONISTI • FEDERICO HALBHERR

ni. Questa sovrapposizione di strutture e il collegamento con l’iscrizione sono ancora oggetto di discussione fra gli studiosi, cosí come il testo di quella che è stata subito riconosciuta come la piú lunga iscrizione giuridica greca d’età arcaico-classica. Datata alla prima metà del V secolo a.C. ci restituisce un complesso organico di norme sul diritto di famiglia, la schiavitú, le violenze personali, le adozioni e l’eredità. L’opera di trascrizione intrapresa da Halbherr non fu facile, sia per la posizione molto scomoda delle pietre, sia per la reticenza dei proprietari del terreno a concludere un accordo di vendita. Scrive infatti in una lettera a Comparetti del 6 gennaio 1885: «dovetti stare tutta la giornata coi piedi e qualche volta inginocchiato nel bagnato e nel fango non potendovisi rimediare sufficientemente col mettere dei rami e del fogliame sul fondo dello scavo. Ciò rendeva la lettura delle ultime linee di tutte le colonne difficile e faticosissima». A un certo punto il proprietario del mulino aprí la chiusa del canale proprio mentre Halbherr stava lavorando, lasciando cosí che venisse investito dall’onda di piena, con grave rischio per la sua stessa vita. Nell’opera di trascrizione dell’epigrafe, poi pubblicata da Comparetti nel 1885, Halbherr fu coadiuvato dal collega tedesco Ernst Fabricius (1857-1942) che si trovava anch’egli a Creta.

LA TUTELA DEI DIRITTI Ancora oggi il testo dell’iscrizione non smette di far discutere sotto diversi punti di vista: dagli aspetti linguistici del peculiare dialetto dorico locale a quelli politico-istituzionali e a quelli economico-monetari, quale testimonianza del passaggio a Creta a un’economia monetale, come si evince dall’indicazione delle multe comminate per i vari reati. Ovviamente sono gli 70 a r c h e o

A destra e qui sotto: figurine maschili e una testina in argilla depurata, da Haghia Triada. Protogeometrico B-orientalizzante. Roma, Museo delle Civiltà, Museo Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini».

aspetti giuridici a essere da sempre stati al centro dell’attenzione. Per fare solo un esempio, il testo getta una luce chiarificatrice sul ruolo della donna che, in linea con gli usi attestati in varie parti del mondo dorico e a differenza della situazione che ben conosciamo per Atene, poteva avere un certo margine di libertà decisionale rispetto a questioni di divorzio, eredità e tutela dei figli. Ma soprattutto la grande iscrizione giuridica di Gortina testimonia il passaggio a una tutela dei diritti che comincia a prendere le distanze dai vecchi schemi aristocratici ed elitari per aprirsi a un’inclusione di tutte le categorie sociali ed economiche, compresi gli schiavi. Questa scoperta, e in generale l’attività di ricerca epigrafica di quei primi anni, valse a Federico Halbherr l’acquisizione della prima cattedra indipendente di epigrafia greca alla Scuola di Perfezionamento di Roma, nel 1887, e di seguito all’Università. Uno dei problemi principali per

In basso, sulle due pagine: un’altra veduta degli scavi del palazzo di Festo, riportato alla luce dalla Missione archeologica Italiana guidata da Luigi Pernier e Federico Halbherr. 1908.


garantire la prosecuzione delle indagini sul suolo cretese fu senza dubbio quello dei fondi. Come già detto, per una parte si rese disponibile Comparetti, ma poi furono coinvolte altre istituzioni, quali l’Accademia delle Scienze di Torino, l’Istituto Veneto di Scienze e Lettere, l’Accademia Nazionale dei Lincei, il Ministero della Pubblica Istruzione, grazie al diretto interes-

samento di Luigi Pigorini, padre della paletnologia italiana e all’epoca direttore della Scuola Archeologica di Roma. Le esplorazioni degli anni 1893 e 1894 furono però patrocinate dall’Archaeological Institute of America, grazie ai fruttuosi contatti presi da Halbherr durante due soggiorni negli Stati Uniti. Fu anche per questo motivo che un certo

numero di articoli sui risultati della campagna cretese di quel periodo furono editi sulle pagine dell’American Journal of Archaeology, tra il 1896 e il 1901, e prima sul piú divulgativo Antiquary, tra il 1891 e il 1893. I viaggi e la permanenza furono tutt’altro che agevoli e la salute di Halbherr era per natura piuttosto cagionevole. Inizialmente le varie sistemazioni di fortuna e i lunghi

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spostamenti non resero la vita semplice agli archeologi italiani. Per fortuna Halbherr poté valersi fin dall’inizio di ottimi collaboratori, come Luigi Savignoni, allora allievo della Scuola Archeologica di Roma, l’insostituibile disegnatore Enrico Stefani, ma, soprattutto, Gaetano De Sanctis (1870-1957; vedi box a p. 69), all’epoca quasi trentenne, che dal 1899, impegni di insegnamento universitario permettendo, affiancò il collega nei suoi viaggi e negli scavi. Gli Italiani a Creta ebbero poi il

sostegno del Sillogo di Candia (l’odierna Iraklion) e del suo presidente Josiph Chatzidakis, impegnato nella salvaguardia dei monumenti storici e nella diffusione della cultura locale. Non va infine dimenticata la figura del fidato sovrastante agli scavi Stavros Ghialerakis, che accompagnò Halbherr anche in Libia.

natura dei vari disagi sofferti dalla compagnia: «Cara Mamma (…) dopo parecchie peripezie sono arrivato alla stazione militare italiana di Plemmimaria dove ho potuto finalmente avere un letto pulito e lavare la mia biancheria. Le mie peripezie son divertenti a raccontare, non molto piú a sperimentarsi. P.e. mi sono perduta una volta la strada tra i monti e mi sono andato trascinanCARA MAMMA... Uno stralcio di lettera indirizzata da do appresso il cavallo che rifiutava De Sanctis alla madre il 10 luglio di camminare per due ore, sotto il 1899 rende piuttosto vivamente la sole (...) Un’altra volta, stanchissi-

LA SCUOLA ARCHEOLOGICA ITALIANA DI ATENE Ormai è ben nota la lamentela che Federico Halbherr, durante il suo primo soggiono ateniese del 1883, rivolse a Domenico Comparetti,

vedendosi costretto a utilizzare le strutture dell’Istituto Archeologico Germanico (fondato nel 1872): «Ho sentito che l’Inghilterra sta

fondando in Atene una specie d’Istituto per gli studi ellenici, come lo hanno la Grecia, la Francia e gli S. U. d’America? Tutti meno l’Italia!

Atene. La «palazzina Makriyanni», tra odòs Dionysiou Areopaghitou e Sigrou, oggi distrutta, che fu sede della Scuola Archeologica Italiana fino al 1945. Istituita con un regio decreto del 9 maggio 1909, la Scuola venne inaugurata ufficialmente nell’aprile dell’anno successivo.

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mo, mi sono buttato sul letto cercando ristori, e son saltate fuori almeno cento cimici – e ho dovuto dormite sopra le sedie». Nel 1897 nuove insurrezioni indipendentiste portano allo scoppio della guerra greco-turca che a seguito di un trattato di pace lasciò

l’isola sempre dipendente dalla Sublime Porta, ma tutelata dalle potenze europee, con un reggimento di Carabinieri italiani per presidiare la situazione e la nomina del principe Giorgio di Grecia come governatore. Questa situazione rese piú agevole e sicura la prosecuzione

A destra: Federico Halbherr a Creta. In basso: Luigi Pernier (1874-1937), primo direttore della Scuola di Atene.

E di ciò si parla molto qui in Grecia». In Italia esisteva dal 1866 la Scuola Archeologica di Pompei, che, dieci anni piú tardi, fu riformata prendendo il nome di Scuola Italiana di Archeologia e che prevedeva per gli allievi un terzo anno in Grecia, appoggiandosi in quest’ultima tappa alle istituzioni straniere. Il problema perdurò anche con la formale istituzione a Roma della Regia Scuola Nazionale di Archeologia, diretta da Luigi Pigorini. Solo dopo l’istituzione della Missione cretese (1899) e l’impianto di una sede fissa a Candia (nella casa tuttora esistente in via Halbherr), l’archeologo roveretano riprese a fare pressioni sugli organi istituzionali per l’apertura di una sede ufficiale ad

Atene. Nonostante lo scetticismo di Pigorini, piuttosto propenso a creare una piccola succursale distaccata della Scuola romana, e la pressoché totale contrarietà del nuovo direttore di quest’ultima, Ettore De Ruggero, grazie all’intervento della Real Casa e a seguito di una visita ad Atene di Vittorio Emanuele III, fu avviato il processo di costituzione e la Regia Scuola Archeologica Italiana di Atene vide la luce nella primavera del 1909. Halbherr, motore principale dell’impresa, volle affidarne la direzione al suo allievo Luigi Pernier. Ancora oggi la SAIA forma archeologi e antichisti con una preparazione di alto livello, tramite corsi di specializzazione e di perfezionamento.

delle missioni archeologiche e l’indagine di nuovi siti. I primi taccuni cretesi di Halbherr sono fitti di trascrizioni e commenti di epigrafi rinvenute non solo a Gortina, ma anche in moltri altri siti dell’isola. L’intento, fin dagli inizi, era dichiaratamente quello di approntare un corpus delle iscrizioni cretesi, che lo studioso roveretano non riuscí mai a portare a compimento, ma che fu realizzato dalla sua allieva Margherita Guarducci (1902-1999), che continuò le esplorazioni sull’isola negli anni Trenta del secolo scorso, dando alla luce i quattro volumi delle Inscriptiones Creticae, opera et consilio Friderici Halbherr collectae tra il 1935 e il 1950. Guarducci sostituí il suo maestro sulla cattedra di epigrafia greca alla «Sapienza» Università di Roma. Anche grazie alla nuova situazione politica, al sostegno delle principali accademie scientifiche italiane, del Ministero dell’Istruzione Pubblica e, non da ultimo, dell’ammiraglio Felice Canevaro, divenuto Ministro degli Esteri dopo le azioni nella guerra contro il Turco, nel 1899 viene istituita ufficialmente la missione archeologica italiana a Creta, con Federico Halbherr come direttore.

UN CONCITTADINO ILLUSTRE Oltre alle ricerche epigrafiche già in precedenza Halbherr – coadiuvato dal collega e concittadino Paolo Orsi, dal 1891 direttore del Museo Archeologico di Siracusa e, si può dire, padre dell’archeologia siciliana – aveva svolto fruttuose indagini presso l’antro Ideo: la mitica grotta in cui viene ambientata la nascita di Zeus. Qui furono rinvenuti scudi in bronzo, utensili cultuali, doni votivi (statuette umane e a r c h e o 73


PROTAGONISTI • FEDERICO HALBHERR

zoomorfe), suppellettili con alcune decorazioni in stile egizio, ma anche prodotti di oreficeria, avori e pietre dure, maioliche e strumenti in ferro; materiali che i due archeologi datarono tra il XII e il VII secolo a.C. Piú o meno nello stesso torno di anni Halbherr si era già dedicato anche a indagini presso il tempio di Apollo Pythio a Gortina e presso il santuario di Ermes Craneo, a ovest del monte Ida. Ma è con l’inizio del nuovo secolo che la Missione ottiene le concessioni per i siti di Festòs e Haghia Triada, dove Halbherr e i suoi collaboratori porteranno alla luce i monumentali resti dei palazzi d’e74 a r c h e o

poca minoica che ancora oggi sono il vanto dell’archeologia italiana. Il 28 maggio del 1900 Halbherr scrive a Gaetano De Sanctis: «dopodomani cominciamo lo scavo di Phaestos col Pernier». Fu infatti al giovane allievo della Scuola Archeologica di Roma che venne affidata la direzione di quella campagna.

UN EDIFICIO COLOSSALE Già il 3 di settembre Halbherr scrive a Comparetti: «ho passato pressochè tutta l’estate a Messarà lavorando a Festo, a Gortina e a Lebena (...) Il piú e il meglio si è trovato a Festo, dove abbiamo scoperto il palazzo miceneo; un edificio di enormi

proporzioni (...) di cui un terzo e piú è adesso messo in luce». La zona, a poca distanza dalla costa del mare libico e su un’altura affacciata sulla vasta e fertile pianura della Messarà, era già stata esplorata anni prima da Antonio Taramelli (1868-1939), paletnologo, allievo di Pigorini, e anch’egli unitosi alla Missione, e successivamente da De Sanctis e Savignoni; fu però dall’estate del 1900 che a Festo vennero alla luce in tutto il loro splendore i resti del palazzo col grande cortile porticato, tre ampi piazzali, i numerosi magazzini, gli appartamenti signorili e la scenografica scalinata. Le principali fasi cronologiche interes-


I resti dell’agorà di Cirene (Libia). In basso: la missione in Libia: si riconoscono Halbherr sul dromedario, al centro, e De Sanctis sulla destra, in primo piano.

sano la prima metà del II millennio a.C. e la successiva ricostruzione d’epoca micenea e geometrica tra 1400 e 700 a.C. Già nel 1902, poco piú a est, viene messa in luce l’imponente «villa» palaziale di Haghia Triada, al cui scavo Halbherr dedica tutte le sue energie. Il 27 maggio di quell’anno scrive al De Sanctis: «Io qua non tengo ormai ad altro se non che si faccia finire da qualcheduno, sia io, siano altri, l’indagine ad Haghia Triada. In pochi giorni il palazzo ha dato trecento sigilli micenei, una tavoletta con iscrizione micenea di quattro linee completa, una serie di bronzi, una di vasi di pietra, una bella parete con affreschi e una quarantina di figurine in terracotta notevolissime».

Lo scavo di questo complesso, la cui difficile stratigrafia si protrae dal Neolitico al XIII secolo a.C., mise a dura prova gli archeologi italiani. Fu Roberto Paribeni (1876-1956), futuro direttore generale delle Antichità e belle arti, che nel 1903 individuò il megaron (la sala centrale del palazzo) e un cospicuo archivio di tavolette in scrittura Lineare A. Purtroppo, Paribeni non garantí la continuità di lavoro che invece contraddistinse l’impegno di Pernier a Festo, e cosí fu sempre Halbherr a dover riprendere l’onere di questa indagine che si protrasse molto a lungo, e che ancora oggi, come pure Festo e Gortina, impegna, con notevoli e sempre nuovi risultati, le missioni di varie Università italiane e della Scuola Ar-

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PROTAGONISTI • FEDERICO HALBHERR

OMICIDIO SULL’ACROPOLI Geloso sin dall’inizio della priorità avuta dalla missione statunitense diretta da Norton e finanziata dal magnate Alison Armour per gli scavi a Cirene, Halbherr cercherà di fare di tutto affinchè la concorrenza gli lasciasse campo libero. Anche per un sentimento patriottico che da irredentista quale era non lo lasciava indifferente a fronte dei meriti che l’Italia poteva procurarsi da una simile impresa. In questo contesto avvenne un episodio i cui particolari ancora oggi restano insoluti: la mattina dell’11 marzo 1911, mentre Halbherr si trovava a Costantinopoli, alcuni colpi di moschetto freddano sulla collina di Cirene l’epigrafista e vicedirettore della missione americana Herbert Fletcher De Cou. La notizia si diffuse immediatamente, cosí come le voci sul possibile movente. Si disse che alcuni beduini, che qualcuno aveva visto fuggire, avrebbero voluto vendicarsi perché lo studioso avrebbe importunato le loro donne. Cosa molto poco credibile vista la fama di persona seria e integerrima universalmente riconosciuta al trentanovenne epigrafista. Subito dopo furono avanzati pesanti sospetti sugli Italiani, sul Banco di Roma e sulla stessa missione di Halbherr. Gli Americani tornarono a casa in effetti poco piú tardi, ma certo per l’imminente scoppio delle ostilità fra Italia e Turchia. In quanto ad Halbherr, intenti patriottici a parte, sono la sua stessa, umanissima, personalità e la sua rettitudine morale a portare a escludere un suo coinvolgimento, anche indiretto, nella vicenda. Inoltre da alcune lettere, edite e inedite, scritte da De Sanctis e da Salvatore Aurigemma, traspare tutta la sorpresa e la difficoltà di comprendere i motivi di una simile azione. In mancanza di prove o ulteriori documenti l’ipotesi piú plausibile sembrerebbe quella di un piano architettato dai Turchi per creare scompiglio e tentare un’ultima mossa per liberarsi di entrambi gli occupanti stranieri, alimentando discordie e sospetti.

cheologica Italiana di Atene. Quegli anni videro anche l’amicizia e la stretta collaborazione tra Halbherr e Arthur Evans, che proprio dall’archeologo roveretano fu incitato a scegliere l’area di Cnosso per le indagini che lo portarono a scoprire e restaurare quello che è ancora considerato (a torto o a ragione) il piú famoso e importante palazzo cretese, e sicuramente uno dei piú ricchi archivi di tavolette in Lineare B. Il 4 febbraio 1899 Halbherr lo incita cosí: «mi pare che ora Ella deve condurre a fondo le trattative per Cnossos…». L’attività di scavo degli Italiani si concentrò anche su altri siti, fra i quali meritano di essere ricordati Prinias, a est del monte Ida, che ha restituito due templi del VII secolo 76 a r c h e o

a.C.; Lebena, con il famoso santua- colleghi, sia a quelle indirizzate rio di Asclepio del IV secolo a.C., alle autorità politiche. ma anche Arkades, Axos e Siva. A parziale ridimensionamento delle teorie di quanti, fra gli studiosi contemporanei, hanno dato forse L’AVVENTURA LIBICA Congiunta nel 67 a.C. in un’unica troppa importanza al ruolo che provincia romana insieme a Creta, questa esplorazione poteva avere la Cirenaica, sede di antiche fonda- nel contesto delle mire coloniali zioni coloniali greche a partire dal italiane sulla Libia, vediamo come VII secolo a.C., fu, sin dai primi per un intero decennio tale propotempi della sua attività, una meta nimento verrà non solo sconsigliaverso la quale Halbherr sperava e to, ma spesso apertamente ostegdesiderava di poter espandere l’e- giato sia da una parte del mondo splorazione archeologica italiana. scientifico, sia soprattutto dagli amSono dell’autunno del 1900 alcune bienti governativi. lettere indirizzate a De Sanctis nel- Le ragioni di questo atteggiamento le quali il direttore della missione si possono rintracciare sia nella cacretese vagheggia per la prima vol- renza di fondi, sia in considerazioni ta la possibilità di una simile im- di prudenza e opportunità politica: presa e per anni questo proposito visto che anche la Libia si trovava ritornerà sia nelle epistole rivolte ai ancora sotto l’impero ottomano e


gli interessi italiani sul Paese africano erano noti almeno dai primi decenni del XIX secolo e non contribuivano certo ad alimentare un clima di distensione. Alcune lettere dei primissimi anni del Novecento sono piuttosto esplicite in proposito e fanno trapelare tutti i tentennamenti che un tale proposito suscitava sia in Italia che in Turchia. Cosí, per esempio, si legge in una lettera di Halbherr a De Sanctis, dell 18 marzo 1904: «Al Ministero degli esteri sono adirittura (e fieramente) contrarii. Ciò per quella bella politica del «quieta non movere», che ci frutta tanti bei successi!», e, tempo prima, il medesimo ostruzionismo era stato rilevato presso il Ministero dell’Istruzione, e addirittura presso la Scuola Archeo-

logica di Roma, per una certa contrarietà del Pigorini alle missioni estere. Ancora nel 1908 le speranze di riuscita sono appese a un filo. Solo alcuni mesi dopo le cose sembrano prendere una direzione positiva, quando ormai la situazione della politica coloniale era tale che ci si rese conto che forse quell’impresa cosí a lungo vagheggiata poteva tornare utile. Sono dell’inverno e della primavera del 1910 alcune lettere ufficiali dei Ministeri degli Esteri e dell’Istruzione Pubblica che finalmente autorizzano e danno pieno sostegno alla missione. Halbherr raggiunge cosí per la prima volta la costa cirenaica il 23 maggio 1910; da Derna si sposta a Bengasi, dove visita i siti circostanti. Sfumato per il momento il pro-

L’acropoli di Cirene, teatro del misterioso omicidio dell’epigrafista Herbert Fletcher De Cou.

getto di scavare a Cirene, dove si era appena insediata la missione americana di Richard Norton, ottiene comunque concrete rassicurazioni, nonché il permesso ufficiale per un viaggio esplorativo attraverso l’altipiano, che svolgerà, accompagnato da De Sanctis, fra il successivo 4 luglio e il 14 agosto 1910. Sarà il primo approccio scientifico a questi siti. L’interesse per la realtà insediativa della Cirenaica antica spinge Halbherr e il suo seguito lungo la costa da Bengasi a Tocra, poi fino a Tolemaide e da qui verso l’interno, sull’altipiano dell’antica Barce. Ata r c h e o 77


PROTAGONISTI • FEDERICO HALBHERR

traversando siti con resti di strutture indigene, greche, romane e bizantine giungono quindi a Cirene e Apollonia. Anche l’ultimo tratto nell’entroterra, attraverso al-Qubbah e fino a Derna, disvela già agli occhi dei viaggiatori quel network di insediamenti, autosufficienti ma al tempo stesso proiettati verso forme di complementarietà economicoproduttiva, di osmosi culturale e di pacifica convivenza etnica, messo oggi bene in luce dalla ricerca. Tra l’inverno e l’estate del 1911 Halbherr organizza altre spedizioni in Cirenaica, ma questa volta manda in avanscoperta due – allora giovanissimi – collaboratori: Salvatore Aurigemma e Francesco Beguinot. I due ricercatori compirono rilievi

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e prospezioni in numerosi siti, indigeni e greco-romani, nei dintorni di Bengasi. Beguinot, in particolare, era incaricato di studiare la cultura libico-berbera nella sua evoluzione storica e linguistica. Halbherr non riuscí a impiantare una missione archeologica in Cirenaica, anche perché, con lo scoppio del conflitto italo-turco nel settembre del 1911, tutte le imprese scientifiche e culturali dovettero ritirarsi. L’operato di Halbherr fu però anche qui di fondamentale importanza, sia perché consentí di acquisire una conoscenza approfondita del territorio a vantaggio anche della politica coloniale italiana, sia perché aprí la strada a una feconda e duratura stagione di indagini archeolo-

giche che avrebbero preso il via sin dai primi anni Venti.

GLI ULTIMI ANNI Con la fine del primo conflitto mondiale e il crollo dei grandi imperi, il Trentino venne annesso al regno d’Italia e telegrammi di felicitazioni subissarono la corrispondenza dell’ormai sessantaduenne Federico Halbherr. Purtroppo Rovereto, che si era trovata proprio sulla linea del fronte e che aveva sempre opposto una strenua resistenza all’avanzata nemica, si trovava ora in condizioni disperate. Molte sono le lettere in cui Halbherr lamenta lo stato di rovina della sua casa nelle campagne del Brione (oggi un quartiere della moderna


città) e del suo amato giardino con le vigne. Continuerà comunque a occuparsi della missione cretese, della prosecuzione delle attività in Cirenaica, dove però non tornerà piú, e della gestione della Scuola di Atene, la cui direzione passò nel 1919 ad Alessandro Della Seta. Si trattenne sempre piú spesso a Rovereto per sovraintendere alle ristrutturazioni dei suoi beni, ma non mancò mai troppo da Roma, dove seguí costantemente le questioni accademiche e le vicende dei suoi colleghi e allievi. Di ritorno da un ultimo viaggio a Creta, la sua salute sempre piú cagionevole lo portò alla morte, quasi inaspettatamente, il 17 luglio 1930, nella sua casa romana di via Arenula. Capitello di lesena corinzio, da Gortina. Rovereto, Museo Civico. A destra: il monumento in onore di Federico Halbherr a Rovereto.

Ora riposa nella sua città natale, all’ombra dei suoi monti, nel famedio del cimitero di San Marco. Il ruolo inestimabile che Halbherr ha avuto nella storia dell’epigrafia greca e dell’archeologia italiana all’estero è ben testimoniato dall’operato dei suoi numerosi allievi e continuatori, dalle missioni ancora in corso e dalla vitalità dell’istituzione ateniese da lui creata.

PER SAPERNE DI PIÚ La figura e l’opera di Federico Halbherr, Aldo Ausilio Editore, Padova 2010 Orsi, Halbherr, Gerola, L’archeologia italiana nel Mediterraneo, Edizioni Osiride, Rovereto 2010 Stefano Struffolino, Federico Halbherr. Rovereto, Creta e la Libia, Gangemi Editore (in preparazione) a r c h e o 79


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/4

LA SOLITUDINE DI UN DITTATORE

CON PIÚ D’UNA LICENZA, LO SCRITTORE STATUNITENSE THORNTON WILDER RICOSTRUÍ, NELLE SUE IDI DI MARZO, L’EPILOGO DELLA PARABOLA DI GIULIO CESARE. ROMANZO NEL QUALE PROVÒ A RESTITUIRE NON SOLO L’IMMAGINE PUBBLICA DEL CONDOTTIERO, MA NE PROPOSE ANCHE I POSSIBILI ASPETTI PIÚ INTIMI E PRIVATI di Giuseppe M. Della Fina

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uando, nel 1948, Thornton Wilder scrisse il romanzo The Ides of March (Idi di Marzo, nella traduzione italiana) aveva già vinto tre Premi Pulitzer: nel 1927, con The Bridge of San Luis Rey (Il ponte di San Luis Rey), nel 1938, con Our Town (Piccola città) e, nel 1942, con The Skin of Our Teeth (La famiglia Antrobus). Era quindi uno degli scrittori e drammaturghi statunitensi piú noti del suo tempo e Alfred Hitchcock lo volle come sceneggiatore per il film The Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1942). I motivi che lo spinsero a scrivere un romanzo storico ambientato negli anni di Giulio Cesare devono essere stati piú di uno: il ricordo degli studi di archeologia condotti durante il soggiorno durato otto mesi, tra il 1920 e il 1921, presso l’American Academy in Rome; la volontà di onorare la memoria di Lauro de Bosis (vedi box a p. 82), a cui il lavoro è dedicato con queste parole: «poeta romano, che perdette la vita guidando l’opposizione al potere assoluto di Mussolini; il suo aereo inseguito da quelli del Duce cadde nel mare Tirreno»; l’occasione per esaminare il rapporto tra il potere e gli

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Testa colossale di Giulio Cesare su busto moderno. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: lo scrittore statunitense Thornton Wilder (1897-1975).


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/4

IL POETA VOLANTE Il romanzo Idi di marzo è dedicato da Thornton Wilder al poeta italiano Lauro de Bosis, che si oppose al fascismo. Nato a Roma nel 1901, si laureò in Chimica nel 1922, ma i suoi interessi andavano soprattutto verso la letteratura e l’attività di traduzione da lingue antiche e moderne. Si possono ricordare alcune traduzioni: l’Edipo re (1923-1924) e l’Antigone (1927) di Sofocle, il Prometo incatenato di Eschilo (1930), Il ramo d’oro di James G. Frazer (1925) e Il ponte di San Luis Rey (1929) proprio di Thornton Wilder. In quell’occasione potrebbe essere nata la loro amicizia, va ricordato, inoltre, che de Bosis era legato sentimentalmente all’attrice statunitense Ruth Draper molto apprezzata da Wilder. De Bosis curò anche un’antologia della poesia italiana pubblicata postuma nel 1932 per i tipi della Oxford University Press. Alla fine del 1924 si era trasferito negli Stati Uniti e durante il soggiorno statunitense maturò una maggiore consapevolezza politica, che lo portò – su posizioni liberali – a contribuire alla formazione di un movimento denominato Alleanza nazionale che

avrebbe dovuto coalizzare la monarchia e la Chiesa cattolica contro il fascismo. L’impegno del movimento si concretizzò nell’elaborazione di documenti dattiloscritti, che venivano diffusi attraverso una rete segreta di sostenitori. L’organizzazione venne scoperta e diversi attivisti furono arrestati e processati, compresa la madre Lilian Vemon di origine statunitense. A seguito di questi arresti, ebbe l’idea di pilotare un aereo su Roma lanciando migliaia di volantini per testimoniare il dissenso verso il regime in carica. Dopo molti ostacoli, riuscí a realizzare il progetto e, partendo da un aeroporto vicino a Marsiglia, raggiunse il cielo di Roma dopo le 20 del 3 ottobre 1931 riuscendo a sorvolare la città per circa mezz’ora. Durante il viaggio di ritorno l’aereo s’inabissò nel Mar Tirreno. Prima della partenza aveva spedito all’amico Francesco Luigi Ferrari – in contatto con il quotidiano liberale di Bruxelles Le Soir – un testo, Histoire de ma mort, nel quale raccontava l’impresa. Venne pubblicato a Roma nel 1945.

In alto: il poeta romano Lauro de Bosis (1901-1931). Fervente antifascista, morí inabissandosi presso la Corsica, di ritorno dall’aver sorvolato Roma per gettare sulla città manifestini che incitavano il re a liberarsi di Mussolini. Qui sopra: le copertine dell’edizione originale delle Idi di marzo e della traduzione italiana del romanzo.

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uomini di cultura in un’epoca lontana, ma anche ai suoi tempi. Nell’analizzare il romanzo tradotto in italiano da Fernanda Pivano per Arnoldo Mondadori Editore (1951) e ripubblicato piú di recente da Sellerio Editore (1995 e 2010), occorre leggere la breve premessa, nella quale l’autore dichiara ciò che aveva voluto realizzare: «Scopo principale di questo lavoro non è la ricostruzione storica. Lo si potrebbe definire una fantasia su certi avvenimenti e certe persone degli ultimi giorni della repubblica di Roma». Lo stesso Wilder continua segnalando le licenze prese per dare forza alla narrazione.

APPROCCI DIVERSI Vi sono, inoltre, incongruenze segnalate dallo storico Luciano Canfora nella nota che accompagna il romanzo, dal titolo significativo Gli antichi visti da vicino: il falso-vero, in cui – ed è l’aspetto che fa riflettere maggiormente – si evidenziano le differenze tra il romanzo storico ottocentesco e quello del Novecento. Nel primo – provo a riassumere – si racconta la storia e i suoi attori principali inserendo personaggi d’invenzione a fini narrativi, cosí da non coinvolgere i diretti protagonisti in prima persona; nel secondo, invece, si giunge a «manipolare» (o, se si vuole, a interpretare) i personaggi storici, trasformandoli nei protagonisti diretti del racconto. Nelle pagine del romanzo Idi di Marzo si copre un arco temporale breve della storia di Roma antica, ovvero i mesi che precedettero l’uccisione di Giulio Cesare avvenuta il 15 marzo del 44 a.C., ma – attraverso alcuni espedienti narrativi – l’autore risale piú indietro nel tempo: alla ricerca delle motivazioni delle scelte degli attori principali della vicenda e all’individuazione delle forze sociali-politiche-militari-economiche che li spinsero ad assumere determinate posizioni. Senza alcun determinismo, ma con i prota-

UN AUTORE PROLIFICO E VERSATILE Thornton Wilder è stato uno dei protagonisti della letteratura statunitense nel Novecento, vincitore di tre premi Pulitzer, di altri prestigiosi riconoscimenti letterari e della Presidential Medal of Freedom (1967). Nel numero del 12 gennaio 1953 ebbe la copertina del magazine Time. Nacque a Madison, nel Wisconsin, il 17 aprile del 1897, trascorse alcuni anni della sua gioventú in Cina seguendo il padre diplomatico, si laureò quindi nell’Università di Yale nel 1920 e subito dopo trascorse un

periodo presso l’American Academy in Rome dove studiò archeologia. Ha insegnato letteratura e scrittura in diversi atenei statunitensi. Numerosi sono i suoi romanzi come le opere scritte per il teatro, tra i primi si possono ricordare The Bridge of San Luis Rey (1927), The Woman of Andros (1930), The Ides of March (1948); tra le altre, A Doll’s House (1937), Our Town (1938), The Skin of Our Teeth (1942) e Hello, Dolly (1964). Morí a Hamden, nel Connecticut, il 7 dicembre del 1975.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/4

gonisti che si muovono nella storia e non al di sopra o a lato di essa. I personaggi di spicco del tempo ci sono quasi tutti: Gaio Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone, Marco Antonio, Gaio Valerio Catullo, Cleopatra, Clodia (la Lesbia del poeta appena ricordato), Marco Giunio Bruto, Ottaviano...

LA FORZA DELLE PAROLE Uno dei fili che attraversa le pagine è il confronto tra il dictator – titolo assunto da Cesare nel 48 a.C., rinnovato nel 46 e di nuovo nel 44 a.C. divenendo a vita – e Catullo, tra un uomo che era riuscito a prendere il controllo pieno del potere e un altro – un poeta – che gli si opponeva con suoi strumenti: le parole e i versi. Armi che Giulio Cesare non sottovalutava, ma di cui comprendeva a pieno l’importanza al punto da rimpiangere di non saperle usare con la stessa maestria. Nella narrazione si arriva a immaginare la presenza di Giulio Cesare accanto al letto di morte di Catullo per un ultimo confronto e – se si vuole – per provare a stilare un bilancio delle loro vite sapendo che anche il poeta aveva subito – pur opponendosi – il fascino dell’avversario. L’artificio principale della narrazione è il ricorso a lettere immaginarie scambiate tra i diversi protagonisti della storia e talvolta sugli stessi argomenti, cosí da consentire allo

IL GIUDIZIO DI SILLA Il giovane Giulio Cesare fu un avversario politico di Silla, al punto che per un periodo fu costretto a nascondersi cambiando rifugio quasi ogni notte. Silla – dopo le pressioni di persone a lui vicine – lo riabilitò, ma li avvertí che stavano facendo un errore: «in Cesare vi sono molti Marii!», alludendo a Gaio Mario che insieme avevano sconfitto.

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Carro con trofei e portatori di bottino, scena facente parte dei Trionfi di Cesare dipinti da Andrea Mantegna. 1484-1492. Londra, Hampton Court. Nella pagina accanto: ritratto in scisto verde di Giulio Cesare, probabilmente dall’Italia. Prima metà del I sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen.

scrittore di segnalare posizioni politiche e interpretazioni personali diverse; a frammenti di missive sempre inventate, di cui sarebbero conservate soltanto delle parti; a brani di diari immaginari e direttamente al capitolo 82 della Vita di Cesare di Svetonio nel racconto dell’uccisione di Giulio Cesare, pur con qualche libertà e incomprensione, come segnala Canfora.

AVVEZZO ALL’ODIO Un primo confronto tra l’uomo politico e il poeta è già nelle pagine iniziali del romanzo, in una lettera di Giulio Cesare indirizzata all’amico Lucio Mamilio Turrino, nella quale il dictator afferma: «Sono abituato ad essere odiato. Già nella prima giovinezza ho scoperto che non cercavo conferma alle mie azioni nella stima degli altri, sia pure dei migliori. Credo che

esista soltanto una solitudine maggiore di quella del comandante militare o del capo di stato, ed è quella del poeta». In un’altra lettera, anch’essa immaginaria e indirizzata a Cleopatra che si accingeva a raggiungere Roma, Giulio Cesare torna sul tema della solitudine: «La posizione di condottiero aggiunge nuovi gradi di solitudine all’isolamento fondamentale del genere umano. Ogni ordine da noi emanato accresce i confini del nostro essere soli, e ogni segno di deferenza che ci viene tributato ci separa dai nostri simili». Per Giulio Cesare, nell’interpretazione di Wilder, è dunque la solitudine a caratterizzare il potere: il suo offrire uno spazio di azione ampio e, al contempo, un isolamento altrettanto dilatato. Il fardello da portare è essenzialmente questo, come i rimorsi da tenere lon-


LO SGUARDO DEL DOMINATORE Lo storico Svetonio (70-130 d.C. circa), nelle sue Vite dei Cesari, offre una descrizione di Giulio Cesare: «Si dice che fosse alto, ben proporzionato e di colorito chiaro. Aveva il viso un po’ troppo pieno e gli occhi neri e vivaci (…) Non riuscí mai a consolarsi di essere calvo, dispiacendosi troppo per gli scherzi dei suoi detrattori, e per nascondere la calvizie si pettinava portando avanti i radi capelli (…) Dicono che fosse anche molto ricercato nel vestire» (I, XLV).

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/4

tano per alcuni degli atti compiuti. Atti da interpretare nell’ottica piú ampia possibile – di bene comune verrebbe da dire – e, allo stesso tempo, di difesa delle proprie idee e dei traguardi da raggiungere come se questi s’identificassero quasi in automatico con il bene comune appena richiamato.

LA STIMA DEI POSTERI Un’altra caratteristica di Giulio Cesare e di altri grandi leader – secondo lo scrittore e drammaturgo statunitense – sarebbe stata la spinta irrefrenabile a lavorare per la posterità. Lo fa affermare con forza a Cicerone: «per Cesare non esistono dèi e la stima dei propri simili non ha valore. Cesare vive per la stima dei posteri; voi biografi, Cornelio [ci si riferisce a Cornelio Nepote], siete il suo pubblico. Siete voi la molla principale della sua vita». A Cicerone è affidata amche un’interpretazione amara dell’agire di Giulio Cesare: «Gli uomini come lui hanno un tale terrore di qualsiasi forma di meditazione che si vantano di prendere decisioni immediate. Credono di salvare sé stessi dalla irresolutezza; in realtà evitano la considerazione di tutte le conseguenze dei loro gesti (...) i gesti si susseguono cosí rapidamente che è impossibile ricostruire il passato e dire che un’altra eventuale decisione sarebbe andata meglio. Possono fingere che a ogni gesto sono stati costretti per un’emergenza e che ogni decisione è stata determinata dalla necessità». Lo scrittore fa descrivere il clima politico del momento ancora a Cicerone in una lettera inviata all’amico Tito Pomponio Attico, a mo’ di confessione: «Siamo diventati schiavi, ma anche uno schiavo può cantare. Ho capovolto il procedimento di Odisseo: per salvare sé e i compagni dalla morte, egli si è reso sordo davanti alle sirene; io invece rivolgo tutta la mia attenzione alle Muse per soffocare il rantolo di morte 86 a r c h e o

della Repubblica e i gemiti morenti della libertà». La consapevolezza della morte della repubblica e delle responsabilità di Giulio Cesare sono ben presenti in Catullo. Wilder fa trascorrere l’ultima notte del poeta nella domus di Cornelio Nepote e la fa raccontare a una donna, Alina, la moglie di quest’ultimo, in una missiva indirizzata alla sorella Postumia: «quando il Dittatore è entrato nella stanza Caio [Catullo] si è rizzato su un gomito e gli ha urlato con ardore di andarsene. Lo ha chiamato «ladro della libertà», «mostro di cupidigia», «assassino della Repubblica» e molte altre cose, le quali tutte, naturalmente sono assolutamente vere». Thornton Wilder fa continuare la narrazione ad Alina: Giulio Cesare avrebbe lasciato la stanza, per tornare piú tardi, «verso le due dopo mezzanotte», e, a quel punto, i due avrebbero iniziato a dialogare a voce sempre piú bassa prima di Clodia (Lesbia) e poi di Sofocle. Lo scrittore fa morire Catullo mentre ascolta un coro dell’Edipo a Colono: «Cesare gli pose le monete sugli occhi, abbracciò Cornelio e il medico desolato e andò a casa senza guardie nelle prime luci dell’alba».

L’ULTIMO INCONTRO CON CATULLO La solitudine del poeta e quella del condottiero e uomo politico sembra, per qualche ora, non essere piú tale. Il racconto del loro ultimo incontro è affidato anche a una nuova lettera – sempre immaginaria – scritta da Giulio Cesare a Lucio Mamilio Turrino: «Sto vegliando al capezzale di un amico che muore, il poeta Catullo. Di quando in quando prendo la penna come faccio sempre, forse, per evitare la riflessione (…) L’universo procede per le sue alte vie e c’è ben poco che noi possiamo fare per modificarlo (…) Non soltanto m’inchino all’inevitabile; ne sono rafforzato. Le azioni degli uomini sono piú notevoli quando si

considerano i limiti nei quali vengono faticosamente compiute». Cleopatra occupa piú d’una pagina del romanzo e lo scrittore statunitense riesce ad andare oltre lo stereotipo della sua bellezza e della sua capacità di seduzione intuendone il ruolo politico, portato avanti con competenza in anni difficili e muovendosi con abilità tra le fazioni presenti a Roma. Il pieno riconoscimento della sua azione è affidato proprio a Giulio Cesare in una lettera inviata a Lucio Mamilio Turrino, il corrispondente con cui il dictator svela maggiorCatullo legge le sue opere agli amici, olio su tela di Stefan Aleksander Bakałowicz. 1885 Mosca, Galleria Tret´jakov.


mente il suo lato privato e nascosto: «Cleopatra è l’Egitto. Non si lascia sfuggire parola e non dispensa carezza che non abbia una ragione politica. Ogni colloquio è un trattato e ogni bacio un patto».

LE CERTEZZE DI CLEOPATRA Wilder cerca poi di segnalare la differenza profonda tra il mondo romano, al termine della stagione repubblicana, e quello egizio coevo, in un’altra lettera di Giulio Cesare – scritta sempre all’amico Lucio Mamilio Turrino – gli fa osser-

vare: «Cleopatra dichiara che sono un Dio. Si scandalizza nello scoprire che da molto tempo non riconosco di essere un Dio. Cleopatra è molto certa di essere una Dea e l’adorazione del suo popolo la conferma quotidianamente in questa persuasione». E poi prosegue: «Soltanto su questo argomento, forse, ella è orientale. Credo che nulla sia piú pericoloso – non soltanto per noi che governiamo, ma per coloro che ci guardano con vari gradi di adorazione – di questa attribuzione di qualità divine». Un’altra donna descritta nel roman-

zo è Clodia, la Lesbia cantata da Catullo: si rammenta il rapporto sentimentale complicato con il poeta, se ne ricostruisce un altro completamente inventato con Giulio Cesare e si ricorda la vita licenziosa o libera, secondo le interpretazioni presenti nelle stesse pagine del romanzo. La spiegazione possibile dei suoi comportamenti viene individuata dallo stesso Giulio Cesare nelle abitudini sociali degli anni in cui era cresciuta: «Un’altra scusa si può trovare per lei e per le donne della sua generazione i cui disordini attirano parimenti l’attenzione. So-

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/3

88 a r c h e o


Morte di Giulio Cesare, olio su tela di Vincenzo Camuccini. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Il dipinto fu commissionato all’artista nel 1793, ma venne da questi ultimato solo nel 1818.

no nate nelle grandi case della ricchezza e del privilegio (…) La conversazione in casa loro divenne troppo piena di grevi silenzi, vale a dire di argomenti che non vengono discussi. Le figlie, quelle piú intelligenti, crescendo ne divennero consapevoli, si accorsero di essere state imbrogliate e subito si slanciarono in una dimostrazione pubblica della loro liberazione dall’ipocrisia».

LA LIBERTÀ NON ESISTE Nelle pagine conclusive del romanzo l’attenzione si sposta verso quello che accadrà il 15 marzo del 44 a.C.: le trame si susseguono, la congiura prende forma e, in primo piano, si profilano Marco Giunio Bruto e il suo rapporto complicato con Giulio Cesare. Lo scrittore fa rivendicare al dictator le sue ragioni: «L’accusa di essere nemico della libertà non mi è mai stata rivolta mentre comandavo gli eserciti di Roma (…) La parola libertà è sulla bocca di tutti nonostante nessuno sia mai stato libero (…) Ma non c’è libertà se non nella responsabilità. Di questo non posso derubarli, perché non ne hanno». Sempre lo scrittore, nella minuta di una lettera immaginaria di Marco Giunio Bruto a Giulio Cesare e mai spedita, fa quasi svelare il suo intendimento al congiurato e rivendicare la scelta come un esempio di lealtà: «in molte occasioni mi hai permesso di esprimere opinioni contrarie alla tua. Da questo deduco che tu accetti la lealtà di coloro che in primo luogo sono leali con sé stessi e ammetti che simili lealtà possano spesso scendere a conflitto». L’epilogo – come già ricordato – è affidato a una libera interpretazione di un capitolo del libro I delle Vite dei Cesari di Svetonio: «Quando sedemmo, i congiurati gli si strinsero attorno». NELLA PROSSIMA PUNTATA • John E. Williams a r c h e o 89


SPECIALE • BASILEA

LUNGO LE RIVE DEL GRANDE FIUME DALLE «FREDDE PALUDI CHE SULLA TERRA DEI CELTI SI ESTENDONO INTERMINABILI» DIPARTE UN CORSO D’ACQUA CHE «PORTAVA IN UN GOLFO DELL’OCEANO»: RISALE AL III SECOLO A.C., ALLO SCRITTORE APOLLONIO RODIO, UN PRIMO ACCENNO ALL’ESISTENZA DEL RENO, UNO DEI PIÚ LUNGHI E IMPORTANTI FIUMI D’EUROPA. UNA MOSTRA AL MUSEO DI ANTICHITÀ DI BASILEA NE INDAGA MORFOLOGIA, FUNZIONI E STORIE AVVICENDATESI SULLE SUE SPONDE. A PARTIRE DAL PERIODO DELLA GUERRA GALLICA E DEI SUOI PROTAGONISTI – LA ROMA DI CESARE DA UN LATO, LE POPOLAZIONI CELTICHE E GERMANICHE DALL’ALTRO – PER ARRIVARE ALLA SVOLTA GEOPOLITICA IMPOSTA A QUELLA PARTE DELL’IMPERO DA AUGUSTO... di Esaú Dozio

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Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono agli oggetti e all’allestimento della mostra «Ave Caesar!», in corso a Basilea fino al prossimo 30 aprile. Testa bronzea di barbaro morto, da Avenches. II sec. d.C.


SPECIALE • BASILEA

T

ra l’autunno 2022 e l’estate 2023 trentotto musei – tedeschi, francesi e svizzeri – presentano diversi progetti espositivi dedicati al Reno. Questa cooperazione trinazionale si prefigge di evidenziare i vari aspetti del legame tra questo fiume e il territorio in cui scorre. Alle tematiche piú recenti, quali l’approvvigionamento energetico, la biodiversità e le attuali problematiche legate al turismo e allo sviluppo territoriale, fanno eco l’importanza del fiume nella politica internazionale del XIX e XX secolo. In questo ambito l’Antikenmuseum di Basilea dedica la sua nuova esposizione temporanea alla storia del Reno nell’antichità, sottolineando in particolar modo le diverse funzioni ricoperte da questo fiume dalla tarda epoca hallstattiana fino al periodo imperiale romano, con un occhio di riguardo ai legami tra le popolazioni locali e le culture mediterranee. Sin dalla tarda età del Bronzo, il Reno, come tutti i fiumi, costituí in primo luogo un’arteria commerciale che collegava la regione alpina al Mare del Nord. Grazie ai suoi affluenti, che consentivano di ampliare gli scambi mercantili sia verso ovest che verso est, rappresentava una fitta rete navigabile

su cui viaggiavano le merci piú disparate. Questa funzione primordiale del Reno come via di transito attraverso il continente europeo rimase di fondamentale importanza durante tutta l’antichità, visto che la navigazione fluviale costituiva il sistema di trasporto piú rapido e vantaggioso. Ancora oggi il 12% circa del volume commerciale della Confederazione elvetica fa capo ai porti fluviali di Basilea, da cui transitano quasi la totalità degli idrocarburi utilizzati in Svizzera. Proprio questi commerci consentirono i piú antichi contatti culturali tra il mondo celtico e quello mediterraneo. Le importazioni di beni di lusso greci ed etruschi sulle rive del Reno ebbero inizialmente un carattere sporadico, ma si intensificarono notevolmente a partire dal VII secolo a.C. In particolare la fondazione della colonia greca di Massalia (Marsiglia), verso il 600 a.C., costituí un importante elemento di sviluppo di queste relazioni interculturali. La sua posizione privilegiata presso la foce del Rodano rappresentava il punto di partenza per le merci che, risalendo questo fiume e i suoi affluenti Saona e Doubs, giungevano fino alla cosiddetta Porta Burgunda. Questo strategico passaggio

Nella pagina accanto: cartina dell’assetto geopolitico della Germania in epoca augustea. Sono indicati i piú importanti insediamenti romani, nonché gli spostamenti delle truppe e la località di Kalkriese, presunto teatro della battaglia di Teutoburgo, combattuta nel 9 d.C. e risoltasi nella disfatta delle legioni guidate da Varo. In basso: un particolare dell’allestimento della mostra in corso a Basilea.


Mar Baltico Mare del Nord Tiberio (5 d.C.)

ANGLI

Druso (12 a.C.)

SASSONI CAUCI

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GERMANIA INFERIOR

a

Berlino

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Kalkriese Haltern USIPETI

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Porta Westfalica

(dall’11 a.C.)

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Xanten Oberaden MARSI SIGAMBRI CATTI Colonia TENCTERI Bonn Waldgirmes Francoforte

ERMUDURI Druso (10/9 a.C.)

ANIA GERM NA MAG

MARCOMANNI Tiberio (6 d.C.)

Saturnino (6 d.C.)

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REGNO DI MAROBODURO

Treviri Magonza

Reims

Markbreit Stoccarda

Nancy

Spira

Strasburgo

GERMANIA SUPERIOR

Basilea

Vindonissa

Tiberio (15 a.C.)

Kaiseraugst

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nub

Da

Linz

Monaco AugsburgOberhausen

Vienna

Salisburgo

Berna Druso (15 a.C.)

Carnuntum

Graz

Lione Aosta

Spostamento di truppe romane in età augustea Campi legionari Città romane Postazioni militari

Nîmes

Città moderne

Marsiglia (Massalia)

Mar Tirreno

Mare Adriatico Corsica

Roma a r c h e o 93


SPECIALE • BASILEA

tra i Vosgi e il Giura distava poi soltanto una sessantina di chilometri da Basilea e dal Reno, la naturale continuazione di questo asse commerciale verso nord.

NASCITA DI UNA ÉLITE Proprio il controllo del traffico mercantile concorse allo sviluppo di un’élite celtica e, contestualmente, alla nascita di centri di potere, i cosiddetti siti principeschi, posti in posizione vantaggiosa lungo le rotte commerciali. Non è un caso che, nei pressi di Basilea, esistessero due insediamenti con queste caratteristiche, il Britzgyberg presso Illfurth (Alsazia) – che presidiava il breve tratto terrestre tra i sistemi fluviali di Rodano e Reno –, e il Münsterberg di Breisach, un rilievo sulla riva di quest’ultimo fiume, che assicurava il dominio sui trasporti navali. Queste élite celtiche erano sensibili agli influssi culturali mediterranei, in particolare a quegli elementi di ritualità, come il banchetto,

Sulle rive del Reno affluivano beni di lusso importati dalla Grecia e dall’Etruria 94 a r c h e o

Nella pagina accanto: statua in arenaria dipinta che ritrae Lucio Munazio Planco, opera di Hans Michel. 1580. Basilea, Municipio. In basso: aureo di Lucio Munazio Planco e Gaio Giulio Cesare. 45 a.C. Basilea, Historisches Museum.

UN EROICO FONDATORE? Il 5 novembre 1580 lo scultore Hans Michel donò alla città di Basilea un’opera in arenaria piú grande del vero rappresentante il condottiero romano Lucio Munazio Planco. La statua occupa ancora oggi una posizione privilegiata nel cortile del municipio cittadino. Non si trattava però della prima raffigurazione di questo personaggio storico nel cuore di Basilea. Già nel 1528 un affresco, oggi perduto, è attestato sulla piazza del mercato (la Haus zum Pfauen), in corrispondenza del luogo in cui si amministrava la giustizia. La raffigurazione era accompagnata da un’iscrizione, tramandataci dall’umanista Beato Renano, amico di un altro importante frequentatore della Basilea del tempo, Erasmo da Rotterdam. Qui Munazio Planco era celebrato come «antichissima fonte di ispirazione per questa regione», in quanto portatore della civiltà romana. In questo senso la sua figura, come ambasciatore del diritto romano, risultava all’epoca pienamente coerente con la decorazione di un luogo deputato alla giustizia, conformemente alla grande tradizione umanistica della città renana. Anche un mezzo tallero basilese del 1542


raffigura Munazio Planco in armi, con l’acronimo SPQR sullo scudo, accompagnato dalla legenda «antichissimo glorificatore dei Rauraci». La Basilea del Cinquecento sembra dunque aver trovato in questo politico romano «di seconda fascia» l’agognato punto di contatto tra le aspirazioni umanistiche dell’epoca e il glorioso passato della cultura classica, a cui gli eruditi del tempo si ispiravano. La scelta di Munazio Planco come «ambasciatore di civiltà» è legata all’iscrizione sul suo mausoleo di Gaeta, che ricorda la fondazione di una colonia a Lione e, per l’appunto, della Colonia Raurica. Ma chi era Munazio Planco? Nato verso il 90-85 a.C. a Tivoli, partecipa alle guerre galliche come legato e viene nominato da Cesare agli inizi del 44 a.C. governatore dei territori di recente conquista. In questa funzione fonda le sopraccitate colonie. Oltre al suo scambio epistolare con Cicerone, numerose fonti scritte parlano di lui. Riesce a districarsi abilmente nel disordine susseguente all’assassinio di Cesare, sopravvivendo alle guerre civili grazie alla capacità di intuire gli sviluppi politici e farsi dunque trovare sempre dalla parte del vincitore. Non a caso, Velleio Patercolo (II, 63, 3) ne stronca l’affidabilità affermando: «dubia id est sua fide». Beato Renano, che aveva edito nel 1516 presso lo stampatore Froben di Basilea proprio l’opera di Velleio Patercolo, era evidentemente a conoscenza di questi dubbi circa la moralità politica di Planco. Ben piú forte era però il desiderio di dare un antenato romano a Basilea, una figura a cui lui stesso e gli altri umanisti dell’epoca potessero far riferimento.

propri dei loro pari nel mondo classico. Al tempo stesso, l’importazione di beni di prestigio consentiva loro di evidenziare la propria posizione dominante in seno alla comunità. Il commercio a lunga distanza sull’asse Rodano-Reno fu dunque concausa e al tempo stesso effetto dei mutamenti sociali in ambito celtico. Tra i beni di lusso piú ricercati dall’aristocrazia locale figuravano senza dubbio il a r c h e o 95


SPECIALE • BASILEA

vino e i recipienti da banchetto legati al suo consumo. Innumerevoli sono i resti di anfore vinarie massaliote ritrovate lungo questi corsi d’acqua, anche la ceramica attica e campana sono però attestate da numerosi frammenti rinvenuti nei siti principeschi sopraccitati, oltre che, evidentemente, negli spettacolari tumuli funerari di Hochdorf e Kleinaspergle presso Stoccarda. L’altra principale arteria di comunicazione con il mondo celtico era costituita dai passi alpini, che fornivano ai mercanti una variante piú breve, ancorché logisticamente molto complessa, per i loro commerci verso nord e di cui il Reno costituiva poi il naturale pro96 a r c h e o

In alto: veduta da drone della cattedrale di Basilea.

lungamento verso settentrione. Grazie al contatto con il mondo mediterraneo, i Celti recepirono anche importanti elementi culturali, come, per esempio, l’utilizzo delle monete. La monetazione celtica si è ispirata, oggi diremmo «graficamente», a quella dei loro partner commerciali, in particolare agli stateri aurei di Filippo II di Macedonia e alle dracme massaliote. Fondamentale è stato inoltre l’influsso che i contatti con il mondo mediterraneo hanno avuto sulla centralizzazione e l’urbanizzazione degli insediamenti celtici. L’importanza dei commerci con l’ambito renano si riflette con un certo ritardo nelle fonti scritte greco-romane. Nelle Storie di Erodoto non ci sono riferimenti né al Roda-


A destra, in alto: pianta di Basilea, dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg. 1575. Nella pagina accanto, in basso: frammento di ceramica attica dal sito principesco di Breisach. 510 a.C. circa. Friburgo, Städtische Museen Freiburg.

no, né al Reno. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio si fa per contro un primo accenno a quest’ultimo fiume che, pur essendo ormai da secoli ben noto ai mercanti, rimane avvolto, nell’opera letteraria, da un alone di mistero: «Dal Rodano giunsero alle fredde paludi, che sulla terra dei Celti si estendono interminabili. Là avrebbero potuto andare incontro a un’indegna rovina, perché uno dei rami portava in un golfo dell’oceano, e non sapendolo stavano per entrarvi» (IV, 634639; traduzione di Sonja Caterina Calzascia).

VINO IN CAMBIO DI SCHIAVI Solo in seguito, quando sia la Pianura Padana che l’attuale Francia meridionale – i punti di partenza delle rotte commerciali con il nord – sono ormai sotto il controllo di Roma, queste vie di comunicazione trovano la giusta eco nelle fonti scritte. Diodoro Siculo, con-

fermando appieno i dati archeologici, ci informa che il commercio vinario sfrutta principalmente i fiumi, con brevi tratti terrestri a fare da raccordo, e che i Celti apprezzano a tal punto il vino da essere disposti a scambiarne un’anfora con uno schiavo. È però il De Bello Gallico di Cesare a fornire la piú antica e ampia descrizione del fiume e degli abitanti delle sue sponde. Desideroso di impadronirsi dell’intera Gallia fino al Reno, Cesare sfruttò abilmente la migrazione di Elvezi e Rauraci sotto la spinta dei Germani e i contemporanei contrasti tra le tribú galliche degli Edui e dei Sequani come casus belli. Persino in ambito romano le motivazioni addotte da Cesare non raccolsero l’unanimità dei consensi, tanto che Cassio Dione (XXXVIII, 31) parla apertamente di una guerra cercata da Cesare per motivi personaa r c h e o 97


SPECIALE • BASILEA

li. In ogni caso sette anni di combattimenti costarono un numero impressionante di vite umane; secondo Plinio il Vecchio sono ben 1 192 000 i caduti in questa guerra (VI, 92-93): una cifra spaventosa, al netto di possibili enfatizzazioni, specialmente in proporzione alla popolazione europea dell’epoca. La regione del Reno non sembra avere risentito eccessivamente della tempesta geopolitica legata all’aggressione romana, trovandosi in qualche modo al margine del raggio d’azione delle legioni. A

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Qui sotto: ritratto di Gaio Giulio Cesare, da Nimega. Fine del I sec. a.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. In basso, sulle due pagine: un altro particolare dell’allestimento della mostra.

livello archeologico le conquiste cesariane non costituiscono una cesura con l’epoca antecedente.

LO SPOSTAMENTO DELL’ABITATO Nella regione di Basilea furono piuttosto le incursioni germaniche della generazione precedente ad aver prodotto una significativa modifica a livello insediativo. Intorno all’80 a.C., in effetti, l’abitato celtico non fortificato posto sulle rive del Reno, noto come BasileaGasfabrik, venne abbandonato a favore della collina della cattedrale, facilmente difendibile grazie al fiume che la lambisce sul lato orientale e alle pendici occidentale e settentrionale scoscese. L’accesso all’insediamento, sul lato meridionale, fu protetto da imponenti mura difensive, del tutto analoghe al murus gallicus che Cesare descrive per gli oppida celitici (VII, 23). Nella narrazione cesariana, il Reno costituisce una demarcazione culturale


tra le popolazioni celtiche che abitano la sponda sinistra e quelle germaniche che vivono a oriente del fiume. Si tratta di una notevole semplificazione, che non trova un vero riscontro archeologico, visto che varie tribú germaniche erano da tempo stanziate anche a ponente del corso d’acqua, mentre è altresí attestata la presenza celtica a est del medesimo. Da un lato Cesare intendeva con essa agevolare ai lettori dei commentarii la comprensione delle dinamiche geostrategiche in queste lontane contrade; d’altro canto serviva probabilmente a giustificare le rivendicazioni territoriali romane, che con la fine delle campagne di Cesare fecero del Reno la nuova frontiera della propria sfera di influenza. A rendere ulteriormente difficoltosa l’interpretazione cesariana concorre il fatto che il corso del Reno superiore

Ritratto di Germanico. Inizi del I sec. d.C. Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.

differiva in modo sostanziale da quello attuale, fortemente condizionato dalla correzione ottocentesca a opera dell’ingegnere Johann Gottfried Tulla. All’epoca di Cesare il fiume era libero di occupare, con i suoi meandri, l’intera pianura tra i Vosgi e la Foresta Nera. Questa sinuosità naturale creava costellazioni sempre nuove di isole e guadi, consentendo un piú agevole attraversamento, modificando di volta in volta la morfologia del territorio e rendendo concetti come «sponda destra» o «sponda sinistra» molto piú effimeri di quanto ci si possa immaginare oggi. Proprio queste caratteristiche naturali del fiume ci consentono di comprendere alcuni a r c h e o 99


SPECIALE • BASILEA

degli episodi ricordati da Cesare ma sorprendenti per chi oggi abbia presente la profondità del fiume e la sua impetuosa corrente. Pur trovandosi al margine delle campagne militari di Cesare, il Reno fu infatti protagonista di tre eventi simbolicamente molto rilevanti di questo periodo. Innanzitutto è sulla sua sponda sinistra, nei pressi di Mulhouse, in Alsazia, che nel 58 a.C. si combatté la prima battaglia tra le legioni romane e i Germani di Ariovisto. Alcuni dei barbari sconfitti riuscirono a riattraversare il fiume a nuoto o su piccole imbarcazioni, mettendosi cosí in salvo (I, 53). Negli anni successivi, in particolare nel 55 e nel 53 a.C., Cesare fece costruire in pochissimi giorni imponenti ponti di legno per attraversare il fiume e portare il confitto tra le popolazioni germaniche, dimostrando al contempo la superiorità logistica romana (IV, 16 e VI,9).

UNA CALMA SORPRENDENTE Lo scoppio delle guerre civili distolse risorse ed energia dall’area renana. Nonostante ciò non si assistette a particolari sollevamenti contro la recente occupazione romana. Ciò si spiega, da un lato, con l’altissimo

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Grano di pepe rinvenuto a Biesheim (Alsazia, I sec. d.C.) ed etichetta in piombo da Treviri con iscrizione nove(l)lu[m] piper (II sec. d.C.). Nella pagina accanto, in alto: molare rinvenuto nel sito celtico di BasileaGasfabrik. Gli isotopi di ossigeno e stronzio indicano che l’individuo è cresciuto lontano dal Reno, in Bretagna o nel Sud della Francia. II sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: una trottola, dadi e pedine rinvenuti nel campo legionario di Vindonissa (sito nei pressi dell’odierna Windisch, in Svizzera). I sec. d.C.

tributo di vite umane dovuto all’iniziale resistenza contro Cesare, che certamente avrà prosciugato le forze delle tribú galliche. D’altro canto a questa calma politica sorprendente contribuí certamente anche la soluzione diplomatica favorita da Cesare per controllare con il minor impegno possibile la piú vasta distesa di territori. I Romani, dopo la conquista, si appoggiarono alle strutture sociali preesistenti, confermando il potere dell’aristocrazia gallica che si era schierata al loro fianco, la quale, pur mettendosi al servizio dei conquistatori, mantenne cosí le proprie prerogative. Cesare poté perciò limitarsi a stazionare piccoli distaccamenti in luoghi particolarmente strategici, affidando la difesa delle nuove regioni conquistaste alle forze locali. Sul Reno questo fenomeno è ben illustrato dalla situazione di Breisach, dove l’altura del Münsterberg affacciata sul fiume, già sede principesca nella prima età del Ferro, trovò conferma della sua collocazione particolarmente vantaggiosa ospitando una piccola unità romana. I dati archeologici propongono uno scenario del tutto analogo per la collina

della cattedrale di Basilea. Non si assiste a uno stravolgimento dell’attività insediativa rispetto all’epoca precedente, si notano però diversi indizi di una presenza piú marcata dalla componente mediterranea tra gli abitanti. L’asse viario principale del sito viene rinnovato, utilizzando tecniche di costruzione proprie del mondo classico, tanto da far pensare alla supervisione dei lavori da parte di maestranze romane. Si tratta forse degli stessi soldati attestati da numerosi ritrovamenti all’interno dell’abitato.

UN CONTINGENTE DI POCHE UNITÀ Anche qui, come a Breisach, si deve pensare a un piccolo distaccamento lasciato a presidiare l’accesso alla Porta Burgunda, la direttrice d’attacco naturale per eventuali incursioni germaniche nei territori gallici recentemente conquistati. L’esiguità dei ritrovamenti lascia comunque presumere che si trattasse solo di un limitato numero di militari che avevano il compito di coordinare la difesa della frontiera renana, il cui peso ricadeva però principalmente sulle popolazioni a r c h e o 101


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IL MISTERO DELLA COLONIA RAURICA Il piú grande mistero dell’archeologia basilese riguarda la collocazione della Colonia Raurica fondata da Lucio Munazio Planco. L’unica informazione al riguardo viene fornita dall’iscrizione, ancora presente, sul suo mausoleo di Gaeta, nella quale si afferma che «in Gallia colonias deduxit Lugudunum et Rauricam». L’orizzonte cronologico di questo atto fondatore si situa necessariamente nel biennio 44/43 a.C., quanto Munazio Planco si trovava a governare le aree recentemente conquistate da Cesare. Generazioni di studiosi si sono dedicati alla ricerca di questo insediamento che, data la

denominazione, doveva trovarsi nel territorio dei Rauraci, dunque presso Basilea. Sono tre le ipotesi piú ricorrenti. La prima la identifica con la ben nota Colonia Augusta Raurica, a una dozzina di chilometri da Basilea. Problematica però è la totale assenza di materiale tardorepubblicano in questo sito particolarmente ben noto e scavato in maniera estensiva. Le prime testimonianze archeologiche in questa zona datano verso il 15/10 a.C., conformemente dunque all’aggettivo «Augusta», e sembrano in netto contrasto con una deduzione di coloni antecedente all’età imperiale. La seconda ipotesi è quella di una

locali. La loro presenza in un insediamento celtico influenzò però in modo marcato la vita quotidiana della comunità. La secolare tradizione delle importazioni di prodotti e suppellettili dall’ambito mediterraneo accelerò bruscamente grazie alle necessità dei Romani stanziati sul Reno che desideravano di poter usufruire, anche in questi 102 a r c h e o

colonia fondata de iure, ma rimasta poi «sulla carta» a causa delle guerre civili, che avrebbero completamente assorbito le risorse necessarie alla sua edificazione. Questa teoria sembra però contraddire l’iscrizione di Gaeta, nella quale l’episodio della Colonia Raurica ha la necessaria importanza per venir citato tra le maggiori imprese di Munazio Planco. La terza ipotesi, quella oggi

territori lontani, dei generi alimentari propri delle loro terre di origine. Vino e garum iberici, ma anche ceramica e recipienti in bronzo e in vetro provenienti dall’attuale Italia e dalla Gallia meridionale sono attestati a Basilea negli strati archeologici di questo periodo. Anche la popolazione locale recepí questi sviluppi culturali e intensificò ulteriormente


piú accreditata, prevede invece l’identificazione di questo sito con l’insediamento sulla collina della cattedrale di Basilea. Già oppidum celtico dall’80 a.C. circa, questo luogo, pur senza decisive modifiche urbanistiche, ha restituito reperti compatibili con la presenza di personale militare romano in epoca pre-augustea. Purtroppo il continuo riutilizzo dell’area fino in epoca moderna permette solo interventi di scavo puntuali e preclude la possibilità di indagarlo in modo esaustivo. In ogni caso, anche secondo questa teoria lo scoppio delle guerre civili avrebbe rallentato sostanzialmente la finalizzazione del progetto, portando poi a una rifondazione dell’insediamento, a pochi chilometri di distanza, sotto l’imperatore Augusto.

Busto di Minerva, da Augusta Raurica. Fine del II-inizi del III sec. d.C.

Nella pagina accanto, a sinistra: ancora un particolare dell’allestimento della mostra, con, in primo piano, una statua di Eracle dal santuario della Grienmatt ad Augusta Raurica. II sec. d.C. Nella pagina accanto, a destra: statuetta in bronzo di Vittoria, da Augusta Raurica. 200 d.C. circa.

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SPECIALE • BASILEA

l’interazione tra le componenti autoctone della società e i nuovi arrivati. La vera svolta culturale in riva al Reno non si compí però con Cesare, quanto piuttosto con l’inizio del periodo imperiale. Sotto Augusto è su questa frontiera dell’impero che si investirono le maggiori risorse. La creazione di numerosi accampamenti legionari sulla sponda sinistra del fiume sostituí i piccoli distaccamenti di epoca cesariana. L’obiettivo di questa strategia non era solo di carattere difensivo, visto che questi capisaldi erano collocati sí sulla sponda occidentale, quella «romana», del Reno, ma in corrispondenza dei suoi affluenti orientali. Questi ultimi erano, come già in epoca preromana, innanzitutto delle vie di transito privilegiate, che potevano ora venir sfruttate dalle legioni per delle puntate offensive nella Germania libera. Sotto il comando di Druso si spinsero addirittura fino all’Elba. Contemporaneamente, l’intera infrastruttura della Gallia venne potenziata, con la creazione

UN MUSEO NEL MUSEO Durante i lavori di ampliamento dell’Antikenmuseum di Basilea, negli anni Ottanta e poi nel biennio 1999-2000, sono stati rinvenuti diversi resti dell’abitato di età romana. Verso la fine del I secolo a.C., in concomitanza con la fondazione di Augusta Raurica, il focus insediativo si concentrò sul declivio meridionale della collina su cui oggi sorge la cattedrale, in corrispondenza dell’importante via di comunicazione che collegava la nuova colonia con gli assi stradali che risalivano il Reno fino al Mare del Nord. Gli edifici erano per lo piú modeste costruzioni a traliccio, a volte con fondamenta in pietra. In alcuni casi erano dotati

Qui sopra: denario di Gaio Giulio Cesare rinvenuto nel 1999 durante i lavori di ampliamento dell’Antikenmuseum. A sinistra: una fase delle indagini archeologiche condotte nel 1999 nel cortile dell’Antikenmuseum.

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Nella pagina accanto, in alto: rilievo funerario in arenaria, da Augusta Raurica. 210-220 d.C. In basso: resti dell’abitato romano conservati in situ nei sotterranei del Museo di Antichità.

di un’importante rete stradale che consentiva il rapido spostamento delle truppe e un continuo approvvigionamento delle zone di frontiera. Sul Reno stesso vennero costruiti porti e canali, cosí da ottimizzare le potenzialità del fiume nel nuovo quadro strategico voluto da Augusto. In questo contesto deve essere ricordata la creazione della Classis Germanica, la flottiglia militare incaricata di pattugliare il fiume e fornire supporto logistico alle truppe durante le campagne verso oriente. Anche l’alto Reno, tra Basilea e Sciaffusa, fu al centro di una spedizione militare, quella

di profondi pozzi rivestiti con un muro a secco, che servivano probabilmente alla conservazione di derrate alimentari. Alcune installazioni di questo tipo sono state rinvenute nei sotterranei del Museo. Altre sono venute alla luce nella zona immediatamente prospiciente, durante i lavori per la costruzione di un posteggio sotterraneo sotto il St. Alban-Graben, l’antico fossato delle mura medievali. Sull’altro lato della strada sono state scoperte, nella medesima occasione, diverse tombe che facevano parte della necropoli già attestata da scavi precedenti in questa zona. Verso la fine del III secolo d.C., alla luce delle crescenti tensioni lungo la frontiera, gli abitanti tornarono a occupare e a fortificare la collina della cattedrale. Solo nel 374 d.C. il nome di questo villaggio tardo-antico è attestato per la prima volta: Basilia, restato poi in uso fino a oggi.

affidata nel 15 a.C. al futuro imperatore Tiberio e culminata con una vittoriosa battaglia presso il Lago di Costanza.

UN NUOVO INSEDIAMENTO La nuova impostazione geopolitica di epoca augustea ebbe importanti conseguenze anche per il territorio di Basilea. La collina della cattedrale, che fin dall’80 a.C. circa costituiva il nucleo insediativo piú rilevante della regione, la cui importanza fu confermata successivamente dalla presenza militare romana dopo le campagne di Cesare, perse

ora il suo interesse strategico. La Colonia Raurica, di difficile localizzazione, ma probabilmente da situare proprio nell’attuale Basilea, venne sostituita verso il 15 a.C. da una nuova fondazione lungo il Reno, una dozzina di chilometri piú a est. La nuova colonia fu denominata Colonia Paterna (?) Munatia (?) Felix (?) Apollinaris Augusta Emerita Raurica, oggi meglio nota come Augusta Raurica (vedi box alle pp. 102-103). Come può una cosí breve distanza essere indicatrice di una rilevante svolta politica? La domanda potrebbe essere posta anche altrimenti: qual era la necessità di modificare la posizione geografica della Colonia Raurica? a r c h e o 105


SPECIALE • BASILEA

Mentre la collina della cattedrale di Basilea Elemento di fontana in forma di delfino, dalla doveva costituire, nell’ottica di Cesare, un villa romana di Munzach presso Liestal possibile baluardo a protezione della Porta (Svizzera). Fine del I-inizi del II sec. d.C. Burgunda e dunque della Gallia appena conquistata, Augusta Raurica controllava l’importante snodo stradale tra le arterie di comunicazione lungo il Reno (l’asse nord-sud e quello est-ovest) con le vie che raggiungevano l’altopiano elvetico e l’odierna Romandia. Ci troviamo dunque in una fase storica nella quale, a conquista avvenuta e con la protezione di importanti unità militari sul confine, si inizia a integrare le regioni di recente acquisizione, trasformandone l’infrastruttura e intervenendo in modo importante sul territorio.

NEL SEGNO DELL’INTEGRAZIONE Le decine di migliaia di ufficiali e soldati provenienti da tutte le province dell’impero accampati ora sul Reno favorirono notevolmente l’economia locale e accelerarono ulteriormente gli scambi culturali con le popolazioni autoctone. Questi ultimi furono stimolati anche dalla presenza di veterani nelle colonie di nuova fondazione ma, soprattutto, dall’accorta politica sull’integrazione delle élite celtiche. Le famiglie aristocratiche galliche continuarono a svolgere un ruolo fondamentale nel tessuto sociale della regione, pur se in rappresentanza di Roma. Questo sostegno fu ricompensato con la conferma della loro eminente posizione po-

A sinistra, in basso: chiave del tempio dello Schönbühl ad Augusta Raurica. Inizi del I sec. d.C.

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Torsetto marmoreo di Bacco rinvenuto a Treviri (Germania). Metà del II sec. d.C.

litica e, contestualmente, con il conferimento della cittadinanza romana. La romanità come implicita dimostrazione di un elevato status sociale contribuí a rendere ancora piú appetibili gli influssi culturali di provenienza mediterranea, spingendo anche i ceti meno privilegiati delle comunità renane e recepire volontariamente elementi del costume romano. A questa «auto-integrazione» delle popolazioni celtiche si combinò l’importante funzione dell’esercito romano come elemento di mediazione culturale. Il servizio militare nelle truppe ausiliarie consentiva,

anche a chi abitava sulle rive del Reno, l’ottenimento della cittadinanza romana, con tutti i vantaggi sociali a essa connessi. Dopo un quarto di secolo passato al servizio di Roma, questi veterani mantenevano le loro tradizioni, ma avevano assimilato in buona parte anche i valori romani, che contribuivano a diffondere una volta rientrati nelle rispettive comunità d’origine. Anche dopo la decisione di Tiberio, nel 16 d.C., di rinunciare a ulteriori tentativi di conquista nella Germania libera, la presenza militare sulla frontiera renana restò ima r c h e o 107


SPECIALE • BASILEA

portante ed è alla base del boom economico di cui godette questa regione. I campi legionari attiravano mercanti e artigiani, le importazioni dal sud raggiunsero volumi notevolissimi. Diversi generi alimentari venivano ora prodotti «a chilometro zero». I Romani introdussero sul Reno la coltivazione della vite e la produzione del vino, cosí da non dover piú importare questa apprezzatissima bevanda dal sud. Anche altra frutta, come le ciliegie, le mele, le prugne e le pere entrarono ora a far parte dei prodotti naturali coltivati in questa regione. L’allevamento del bestiame migliorò notevolmente in epoca romana, permettendo di produrre piú carne per le truppe e per la popolazione in rapida crescita: i ritrovamenti di ossa bovine in Svizzera mostrano un notevole e rapido aumento della taglia degli animali rispetto all’epoca celtica. Le analisi dei pollini indicano per contro che già prima dell’avvento di Cesare in questa regione si coltivava in modo estensivo, con una forte riduzione delle aree boschive. I sistemi di produzione intensiva introdotti dai Romani migliorarono ulteriormente i raccolti, ma contribuirono al contempo a una graduale erosione del suolo. Anche sul Reno non mancavano infine i prodotti esotici, importati dall’Estremo Oriente. Nell’antico insediamento di Argentovaria, presso Biesheim, in Alsazia, è stato rinvenuto un grano di pepe nero proveniente dalla costa occidentale dell’India e, apparentemente, non al di fuori delle capacità economiche degli ufficiali che comandavano la guarnigione qui stazionata. Un’analoga testimonianza è fornita da un’etichetta in piombo rinvenuta a Treviri nella Mosella, uno degli affluenti del Reno. Essa reca l’iscrizione novellum piper, pepe fresco.

ulteriore espansione molte città, tra cui Augusta Raurica, si trovavano ora lontane dal confine con il mondo germanico, e approfittarono perciò di un periodo di pace e benessere, raggiungendo nel corso del II secolo d.C. il loro massimo splendore. Significativo, per comprendere la rapidità con cui si è compiuta l’annessione e l’integrazione del mondo renano nell’impero romano è il dibattito tenutosi in Senato nel 48 d.C. e noto attraverso la cosiddetta tabula lugdunensis e gli Annali di Tacito. Solo un secolo dopo la fine delle guerre galliche, «i notabili della cosiddetta Gallia Chiomata, che già da tempo avevano ottenuto i privilegi di federati e la cittadinanza romana, chiesero di poter accedere alle cariche pubbliche in Roma, richiesta che suscitò numerosi commenti di opposto tenore». Una corrente politica sosteneva che «l’Italia non era poi cosí malridotta da non poter fornire i senatori alla sua capitale». Inoltre «non bastava forse che dei Veneti e degli Insubri avessero invaso in massa la curia, senza che vi si immettesse un’accozzaglia di stranieri non diversa da una folla di prigionieri di guerra?». L’imperatore Claudio si schierò però dalla parte dei richiedenti: «l’insediamento delle nostre legioni in tutte le parti del mondo ci offrí l’occasione per incorporare nelle loro file i piú forti dei provinciali e dare cosí nuovo vigore all’impero ormai esausto. (…) Per quale ragione decaddero Sparta e Atene, pur cosí potenti sul piano militare, se non per aver bandito da sé i vinti quali stranieri? (…) Ormai essi [i Galli] sono accumunati a noi per costumi, cultura, legami di sangue. (…) O Senatori, tutto quello che oggi si crede antichissimo, un tempo fu nuovo» (Annali XI, 23, traduzione di Lidia Pighetti). L’antica storia del Reno rivela dunque insospettabili paralleli con le società contemporanee e ci consente perciò di presentare al pubblico delle tematiche molto attuali all’inLE DUE GERMANIE In epoca romana, e a maggior ragione dopo terno di un discorso archeologico che parche questo territorio, verso l’85 d.C., fu or- rebbe, di primo acchito, molto lontano dal ganizzato in regolari province con il nome nostro vivere quotidiano. di Germania Inferior e Germania Superior, la sponda sinistra del Reno era dunque perfet- DOVE E QUANDO tamente integrata nel sistema economico e politico romano. In età flavia i Romani pro- «Ave Caesar! Romani, Galli e tribú cedettero anche all’occupazione della spon- germaniche sulle sponde del Reno» da destra dell’Alto Reno, cosí da ridurre la Basilea, Antikenmuseum Basel und lunghezza della frontiera con il barbaricum tra Sammlung Ludwig il Reno e il Danubio, fortificandola poi con fino al 30 aprile il limes germano-retico. A causa di questa Info www.antikenmuseumbasel.ch

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Una delle vetrine della mostra nella quale sono riuniti vari manufatti, tra i quali, al centro un bronzetto da Augusta Raurica raffigurante il dio locale Sucellus, ritratto nello stile delle divinità romane.


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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

I MILLE DIAVOLI DEL COLOSSEO NEL XVI SECOLO, LA CELEBRE ANCHE SE ORMAI DECADUTA ROVINA ERA ANCORA ASSAI FREQUENTATA. MA, COME SVELA L’AUTOBIOGRAFIA DI BENVENUTO CELLINI, CON SCOPI INEDITI ED ESITI... MALEODORANTI

A

partire dal IX secolo l’Anfiteatro Flavio, ormai negletto e posto in una zona di aperta campagna rispetto alla Roma dell’epoca, perde progressivamente la nozione stessa della sua funzione originaria e si trasforma in un antro oscuro, mal frequentato, memore comunque del sangue che vi scorse, sede addirittura del «mago» Virgilio che vi studiava da negromante. In quello che era ormai diventato il Colosseo, si invocavano gli idoli pagani capaci di rendere gravide le donne, spiriti e demoni infernali di ogni sorta imbevuti del sangue dei martiri cristiani che si riteneva fossero stati uccisi nell’edificio davanti alle folle avide di violenza. Questa immagine apocalittica è ben rappresentata in un dipinto a olio del pittore spagnolo José Benlliure y Gil, che visse anche a Roma e tra le opere qui eseguite si distingue l’enorme (35 mq), turbinoso e fosco dipinto intitolato la La visión del Coloseo. El último mártir, datato 1885. Ne è protagonista san Telemaco (o sant’Almaquio) – un monaco anatolico che si vuole martirizzato alla fine del IV secolo dalla folla inferocita perché aveva chiesto la fine dei cruenti giochi gladiatorii –, che predica tra cristiani oranti,

110 a r c h e o

vergini in bianco, gladiatori stravolti e pipistrelli svolazzanti. Nel XVI secolo il Colosseo, pur essendo ancora visto come simbolo della grandezza dell’antica Roma, continua a essere un luogo legato al paganesimo, tempio rotondo di tutti gli dèi ai quali si erano aggiunti o sostituiti, con l’avvento del cristianesimo, i demoni infernali.

PORTA DEGLI INFERI Fuori dal centro urbano, immerso nella vegetazione e diruto, sede di briganti e gente di malaffare, notoriamente considerato porta privilegiata degli inferi, era

frequentato anche da stregoni ed evocatori di anime malvage che vi agivano traendone anche profitto. Tra questi ultimi non mancavano i religiosi che, nell’ambito di studi cabalistici, astrologici, ermetici e alchemici, si dedicavano anche alle evocazioni di spiriti, dai quali si proteggevano attraverso pentacoli (pezzi di metallo, carta o altra materia su cui erano segnati caratteri magici, racchiusi talvolta in una stella a cinque punte, donde il nome, n.d.r.) stelle e circoli tracciati sul terreno che dovevano garantire la sicurezza dei celebranti il rito. Benvenuto Cellini, poliedrico, iracondo e celeberrimo artista fiorentino, visse lungamente a Roma, mantenendosi grazie alle commissioni papali. Autore di un’appassionante autobiografia, narra con stile brioso la sua duplice frequentazione del Colosseo, avvenuta per conoscere il proprio futuro amoroso attraverso i demoni, ma anche spinto anche dal desiderio di vederli direttamente (Vita di Benvenuto Cellini… scritta per lui medesimo 1, 64). Nel 1534, innamoratosi pazzamente di una ragazza siciliana con la quale progettava di fuggire, ma osteggiato dalla


La visión del Coloseo. El último mártir, olio su tela di José Benlliure y Gil. 1885. Madrid, Museo del Prado. Nella pagina accanto: medaglia in argento con il busto di Benvenuto Cellini, opera del medaglista Pietro Girometti, 1841. saggia madre di lei, contatta un dotto prete siciliano esperto non solo di lettere antiche ma anche di negromanzia, per sapere se riuscirà a congiungersi all’amata.

INCONTRI NOTTURNI Riassumendo, il prete lo invita a recarsi al Colosseo nottetempo, ordinandogli di portare un paio di assistenti fidati e, nel secondo incontro, anche un giovanetto ancora vergine, che doveva favorire l’arrivo degli esseri infernali. Dapprima si presentano i demoni, ma non ottiene risposta alla sua domanda d’amore. Nel successivo convegno, il prete pone il fanciullo nel pentacolo, con il risultato di

ottenere l’arrivo di una quantità innumerevole di spiriti malvagi, che prima confermano a Benvenuto che riuscirà nel suo intento seduttivo, ma poi scatenano il panico nei partecipanti: «Cominciato il negromante a fare quelle terribilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demoni capi di quelle legioni e a quelli comandava per la virtú e potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voce ebree, assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empié tutto il Culiseo l’un cento piú di quello che avevan fatto quella prima volta (…) Tutto il Culiseo arde e ‘l fuoco viene addosso a noi».

Il bambino urla e piange, parlando della terribile ridda infernale che li circonda, tutti sono nel panico e allora il prete ordina di bruciare «droghe cattive e puzzolenti» tali da scacciare gli spiriti. Preso dal panico, uno degli accoliti di Cellini non riesce a trattenere «una strombattaza di scorregge» pestilenziali che suscitano risate tra gli astanti, ma mettono in fuga precipitosa i demoni. Alle prime luci dell’alba, tutti abbandonano di gran carriera gli antri del Colosseo e tornano alle proprie dimore, accompagnati soltanto da due diavoletti particolarmente refrattari agli odori che saltano loro intorno fino a quando non raggiunsero casa.

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I LIBRI DI ARCHEO

Luana Cenciaioli

PERUGIA ETRUSCA E ROMANA Archeologia di un territorio Il Formichiere, Foligno, 260 pp., 181 ill. a col. e in b/n, 5 tavv. 29,00 euro ISBN 979-12-80732-40-8 www.ilformichiere.it

Luana Cenciaioli è stata la protagonista delle piú significative scoperte archeologiche avvenute a Perugia negli ultimi decenni: come funzionaria archeologa dell’allora Ministero per i Beni Culturali (oggi Ministero della Cultura) ha seguito in prima persona sia gli scavi programmati, sia gli interventi di emergenza. In anni piú recenti ha diretto il Museo Archeologico Regionale dell’Umbria, continuando a occuparsi soprattutto della sua Perugia. Alla città ha ora dedicato questo Perugia etrusca e romana. Archeologia di un territorio, che si segnala come una pubblicazione da leggere assolutamente per avvicinarsi alla storia antica del capoluogo della Regione Umbria. 112 a r c h e o

Lo sguardo arriva a comprendere le prime tracce di frequentazione dell’area, la formazione della città-stato, gli equilibri tra la presenza etrusca e umbra, lo sviluppo del territorio circostante affidato soprattutto a un’agricoltura fiorente, il ruolo avuto nell’opporsi all’avanzata di Roma, l’analisi della progressiva romanizzazione, la fase romana e quindi quella tardo-antica. Vale a dire molto piú di un millennio di storia e quasi sino alla prepotente ripresa di età medievale. Il testo costituisce un saggio storico e contemporaneamente una guida: l’autrice sembra infatti voler accompagnare il lettore a verificare di persona quanto affermato suggerendo come la documentazione archeologica, che si è conservata, possa fornire indicazioni al pari delle fonti storiche e letterarie. D’altronde, l’archeologia perugina ha restituito reperti e monumenti di prima grandezza. Basti pensare al Cippo di Perugia, rinvenuto nel 1822, che costituisce una delle iscrizioni etrusche piú lunghe giunte sino a noi. La sua importanza venne intuita prontamente dall’archeologo Giovan Battista Vermiglioli, il quale – osservandolo – commentò con leggerezza e ironia: «Altro che tordi, che polenta e fringuelli,

questa è la piú bella caccia dell’ottobre 1822 siasi fatta in tutta l’Europa». O all’ipogeo dei Volumni, uno degli esempi piú significativi dell’architettura di epoca ellenistica, rinvenuto casualmente nel febbraio del 1840, o, ancora, ai reperti della tomba dei Cai Cutu per citare una scoperta degli anni Ottanta del Novecento. Si possono ricordare, infine, le due celebri porte monumentali note come Arco Etrusco – di cui l’autrice ha seguito il restauro nel 2012 e nel 2013-14 – e la Porta Marzia, rispettata e inserita per volere di Antonio da Sangallo nel bastione della Rocca Paolina fatta costruire da papa Paolo III nel 1543. Ricco e innovativo è l’apparato illustrativo e vanno segnalate almeno le tavole con la distribuzione delle presenze archeologiche. Giuseppe M. Della Fina

Nelle pagine introduttive, l’autore illustra le motivazioni che l’hanno indotto a cimentarsi in un’opera alquanto impegnativa, prima fra tutte la convinzione che all’argomento non sia stata riservata nel tempo la dovuta attenzione, nonostante alle creazioni del Vicino Oriente si guardasse con ammirazione e rispetto fin dal Rinascimento. Bahrani ribadisce il concetto di una terra tra i due fiumi da considerare come «culla della civiltà» e da questo assunto prende il via la trattazione sistematica delle molte espressioni culturali – e dunque artistiche – fiorite fra il Tigri e l’Eufrate. La sua rassegna vede

Zainab Bahrani

LA MESOPOTAMIA Arte e architettura Einaudi, Torino, 549 pp., ill. col. e b/n 45,00 euro ISBN 978-88-06-25732-3 www.einaudi.it

A sette anni dalla prima edizione originale in lingua inglese e dalla traduzione in italiano, torna in libreria il ponderoso volume che Zainab Bahrani ha dedicato all’arte dell’antica Mesopotamia.

avvicendarsi Uruk, i Sumeri, gli Assiri, i Babilonesi, fino ad arrivare alle influenze dell’ellenismo nelle regioni mesopotamiche, che si tradusse nell’arte seleucide e partica. E basterebbero i nomi fin qui ricordati per dare un’idea della vastità del patrimonio di cui il volume dà conto. Opere


che, in piú di un caso, sono oggi fra i vanti maggiori di raccolte di antichità come il Louvre o il British Museum, alle quali naturalmente si affiancano i monumenti tuttora visibili nei loro luoghi d’origine, come per esempio a Nimrud, Babilonia o Ur. In quest’ultimo caso, tuttavia – e Bahrani lo ricorda nel suo epilogo –, molti siti sono stati danneggiati, spesso pesantemente, dagli eventi bellici di cui la regione mesopotamica è stata teatro in anni recenti e, in questo senso, la lettura del volume può essere un doveroso monito e un invito ad adoperarsi affinché eventi del genere non abbiano a ripetersi. Stefano Mammini Francesco M. Galassi, Elena Percivaldi

CIARLATANI Fake news e medicina dall’antichità a oggi Espress, Torino, 217 pp., ill b/n 17,50 euro ISBN 978-12-80134-35-6 www.espress.it

Da sempre, la scienza medica gode di un misto di rispetto e diffidenza, generata, quest’ultima, dall’idea che, in fondo, chi la esercita ottenga i suoi successi grazie a un misto di fortuna e di «magia». Un atteggiamento che ha suscitato la ricerca di cure alternative e rimedi a dir poco bizzarri, che costituiscono uno dei temi portanti di questo divertente volume scritto a quattro mani da Francesco Galassi ed Elena Percivaldi. Una lettura piacevole, ricca di notizie e curiosità, ma, soprattutto, utile a comprendere quali pulsioni, anche nei tempi recentissimi della pandemia da Covid, possano aver spinto a diffidare delle terapie approntate grazie a ricerche rigorosamente condotte. S. M. Debora Rossi

DIVINA MULIER Storie di donne e di vino Antiqua Res Edizioni, Acquapendente, 74 pp. 12,00 euro ISBN 979-128073116-6 www.antiquaresedizioni.it

«Il vino è lo specchio dell’Uomo» titola il primo capitolo di questo brillante volumetto dell’archeologa Debora Rossi: l’affermazione è di Alceo di Mitilene, poeta greco del VIII secolo a.C., con chiaro riferimento all’utilità della divina bevanda per conoscere il vero carattere, la vera

racconto dalle tinte – inevitabilmente – rosse. Andreas M. Steiner Laura Del Verme

COCO OPTIMO

personalità degli… uomini. E le donne? Se, infatti, in una società di liberi e uguali quale professava essere la democrazia della Grecia, il simposio faceva del vino lo strumento per «verificare la coesione tra i singoli, svelando il compagno ai compagni», come si configurava – se esisteva – un accesso femminile al nettare degli dèi? La narrazione del rapporto donna-vino, intrapresa dall’autrice è, in primo luogo, quella di una «proibizione», di un rapporto negato. Eppure, perfino per le sole età greca e romana prese in esame, gli echi di un’immagine femminile tratteggiata nel suo rapporto con il vino esiste, e lo conferma il gran numero di fonti scritte e testimonianze iconografiche individuate dall’autrice: e cosí, sullo sfondo di quella «surreale guerra tra i sessi» che – come sottolinea l’autrice – ancora oggi sembra lontana da ogni accordo di pace, si dipana un complesso e intrigante

Cuochi, briganti e brigate di cucina nell’antica Roma Francesco D’Amato editore, Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno), 82 pp. + 20 tavv. col. 13,00 euro ISBN 978-88-5525-019-1 www.damatoeditore.it

La cucina di Roma antica è argomento di studi e ricerche approfondite e vanta una bibliografia ormai sterminata. A essa si aggiunge questo piccolo ma pregnante excursus dell’archeologa Laura Del Verme dedicato non tanto all’arte culinaria vera e propria, quanto ai suoi protagonisti principali: a coloro che, nelle affollate e spesso caotiche cucine di Roma e Pompei, si prodigavano nella creazione di pietanze e intingoli che mandavano in visibilio i consumatori dell’epoca. A. M. S. a r c h e o 113


presenta

ISTANBUL DALLE ORIGINI AGLI SPLENDORI

DELL’

IMPERO OTTOMANO di Marco Di Branco

Caso unico al mondo, la città di Istanbul si estende su due continenti, l’Europa e l’Asia, qui divisi dalle acque del Bosforo. La storia di quella che è oggi una vera e propria metropoli ebbe inizio con ogni probabilità per mano di coloni greci, dopo i quali molte furono le genti che s’insediarono sul Corno d’Oro, segnando piú di una «rinascita». Dopo che Costantino ne aveva fatto la Nuova Roma, la città divenne la capitale dell’impero bizantino, per poi trasformarsi nella splendida culla del potere ottomano. Una vicenda plurisecolare, dunque, che il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre e documenta in maniera puntuale, evidenziandone i passaggi cruciali e sottolineando l’importanza dei suoi protagonisti, fra i quali si annoverano grandi condottieri, sultani, nonché uomini di scienza e cultura, come il celebre architetto Sinan. Soprattutto, l’Istanbul di oggi conserva straordinarie testimonianze di quel passato: ecco perché i suoi monumenti, dalle antiche mura bizantine agli splendidi edifici a cupola delle moschee ottomane, contrassegnate dallo slancio dei tanti minareti, rappresentano pagine di storia aperte. Sono il racconto, vivo, di una città tra Europa e Oriente, tra Cristianesimo e Islam, tra passato e futuro.

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