Archeo n. 456, Febbraio 2023

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ARSLANTEPE

TESORO DI HARPOLE

MUSEO OLIVERIANO DI PESARO

JOHN WILLIAMS

SPECIALE SARCOFAGI ROMANI

IL TESORO DI HARPOLE

LETTERATURA

UN IMPERATORE IN TEXAS

ARSLANTEPE

SULLA COLLINA DEI LEONI

PESARO

IL NUOVO MUSEO OLIVERIANO

SPECIALE SARCOFAGI ROMANI

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 FEBBRAIO 2023

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NE R RO O NE M ON A ww LIN w. a rc h E

2023

Mens. Anno XXXIX n. 456 febbraio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 456 FEBBRAIO

SCOPERTE

€ 6,50



EDITORIALE

L’ESPERIENZA ARSLANTEPE «Ma devi venire, perché non ci raggiungi quest’anno sullo scavo?». Quante volte, nel corso dei decenni passati, Marcella Frangipane mi ha rivolto quell’invito espresso con un tono di lieve rimprovero. Come a dire, è mai possibile che dopo tanti anni, gli articoli pubblicati sulla rivista (il primo risale al 1987, a firma di Alba Palmieri), le conferenze e gli incontri, non mi sia ancora mosso per vedere di persona come lavorano loro, gli archeologi della missione dell’Università «Sapienza» di Roma, che da oltre sessant’anni scavano questo sito cosí importante, grazie alla concessione accordata dal governo turco. La professoressa Frangipane aveva naturalmente, ragione. Anche se Arslantepe, la «collina dei leoni», non si trova proprio dietro l’angolo: è nella Turchia orientale e per arrivarci si devono prendere due voli, il primo per Istanbul, il secondo per la città di Malatya, nei cui pressi sorge il tell di Arslantepe («in anni passati – ricorda Marcella – da Roma ad Arslantepe andavo in macchina, un viaggio meraviglioso»). Sta di fatto che ho visto la «collina dei leoni», per la prima volta dal vivo, appena un anno fa, nel dicembre del 2021, in occasione di un evento che le preoccupazioni per la pandemia, ancora in pieno corso, avevano relegato in secondo piano: l’iscrizione del sito nella lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Ad accompagnare e guidare il piccolo gruppo di giornalisti c’era Marcella Frangipane. Fu, per me, il coronamento di una lunga frequentazione teorica del sito, nonché la riprova di quanto fosse vera la celebre affermazione goethiana «si vede solo quello che si sa»: le scoperte che avevo pubblicato su «Archeo» negli anni passati erano, ora, davanti ai miei occhi. Ai nostri lettori auguro davvero di non dover aspettare altrettanti decenni prima di visitare Arslantepe. Intanto, una prima introduzione alla sua conoscenza potranno ricavarla leggendo l’intervista alle pagine 36-49. Per approfondire e partecipare alla straordinaria esperienza di scavo e di interpretazione storico-culturale resa possibile dalle indagini condotte in piú di sei decenni di esplorazioni in questo sito dell’antica Anatolia, segnalo l’uscita, proprio in questi giorni, di un libro di Marcella Frangipane. Il titolo Un frammento alla volta (il Mulino, Bologna) riassume bene il lungo, paziente, imperturbabile lavoro che ha segnato la sua esperienza di archeologa: in dieci, magistrali «lezioni dall’archeologia», l’autrice ci rivela come «far parlare il tempo attraverso le cose». Andreas M. Steiner Elsa di una spada in rame arsenicato con decorazione ageminata in argento rinvenuta ad Arslantepe. 3350-3000 a.C. Malatya, Museo Archeologico.


SOMMARIO EDITORIALE

L’esperienza Arslantepe 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCAVI Un nodo urbano... di due metri cubi

6

INCONTRI Alla ricerca del lusso IN DIRETTA DA VULCI Un antico luogo d’incontro

Il tesoro della gran dama

50

di Elena Percivaldi

23 24

A TUTTO CAMPO Minatori preistorici

26

di Andrea Terziani

ARCHEOFILATELIA Il primo imperatore

28

di Luciano Calenda

L’INTERVISTA 10

di Federica Rinaldi e Astrid D’Eredità

ALL’OMBRA DEL VULCANO Dèi, amorini e altre storie

22

di Giampiero Galasso

di Carlo Casi

di Vanessa Baratella, Andrea Giunto, Francesca Adesso, Lara Maritan, Elena Mercedes Pérez-Monserrat, Valentina Famari e Massimo Vidale

PASSEGGIATE NEL PArCo Parla con Nerone

SCOPERTE

SCAVI Una storia tutta da scrivere

18

40 anni sulla collina dei Leoni

36

incontro con Marcella Frangipane, a cura di Flavia Marimpietri e Andreas M. Steiner

50 MUSEI

Un «sol luogo» per la storia della città

60

di Chiara Delpino

a cura di Alessandra Randazzo

di Alessandro D’Alessio e Cristina Genovese

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36

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2023

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

SULLA COLLINA DEI LEONI

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 456 febbraio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE SARCOFAGI ROMANI

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

JOHN WILLIAMS

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

MUSEO OLIVERIANO DI PESARO

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Federico Curti

ARSLANTEPE

TESORO DI HARPOLE

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Presidente

ARSLANTEPE

Anno XXXIX, n. 456 - febbraio 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

IN EDICOLA IL 9 FEBBRAIO 2023

NE R RO O NE M ON A LIN he E o.

ARCHEO 456 FEBBRAIO

In copertina veduta aerea del tell di Arslantepe (Malatya, Turchia orientale). € 6,50

www.archeo.it

FRONTE DEL PORTO Depositi ma vivi

PESARO

IL NUOVO MUSEO OLIVERIANO SCOPERTE

IL TESORO DI HARPOLE

SPECIALE SARCOFAGI ROMANI

LETTERATURA

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

UN IMPERATORE IN TEXAS

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30/01/23 16:07

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Francesca Adesso è borsista all’Università degli Studi di Padova. Vanessa Baratella è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco archeologico di Ostia Antica. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Chiara Delpino è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Frosinone e Latina. Astrid D’Eredità è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Valentina Famari è borsista all’Università degli Studi di Padova. Giampiero Galasso è giornalista. Cristina Genovese è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Andrea Giunto è borsista all’Università degli Studi di Padova. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Lara Maritan è professoressa associata di petrografia applicata ai beni culturali all’Università degli Studi di Padova. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Elena Mercedes PérezMonserrat è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Alessandra Randazzo è giornalista. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/5

Augusto? Sono io

74

di Giuseppe M. Della Fina

74 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Poeta o stregone?

84 110

di Francesca Ceci

LIBRI

112

SPECIALE

Da qui all’eternità

84

di Giulia Salvo

Giulia Salvo è dottore di ricerca in archeologia classica. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Andrea Terziani è dottorando in scienze dell’antichità e archeologia all’Università di Pisa. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova.

Illustrazioni e immagini: Missione Archeologica Italiana in Anatolia Orientale della «Sapienza» Università di Roma: Roberto Ceccacci: copertina e pp. 3, 36-37, 39, 40, 42 (alto e basso), 43 (basso), 44, 45 (alto), 46-49; Corrado Alvaro: p. 41; Alice Siracusano: disegno a p. 42; Tiziana D’Este: disegni alle pp. 43, 45 – Cortesia degli autori: pp. 6-8, 110-111 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Shutterstock: pp. 12-17, 85, 94-95 – Parco archeologico di Pompei: pp. 18-19 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 20-21 – Cortesia Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta: p. 22 – Doc. red.: pp. 23, 57 (alto), 74-82, 84/85, 87, 91 (alto), 92/93, 96-97, 100-101, 103, 105, 106/107, 108/109 – Parco Archeologico Naturalistico di Vulci: pp. 24-25 – Andrea Terziani: elaborazione fotografica da © Google Earth: p. 26 (alto); p. 27 – Cortesia Attilio Galiberti: p. 26 (basso) – MOLA (Museum of London Archaeology): pp. 53, 54/55, 55; Hugh Gatt: pp. 50-51; Andy Chopping: pp. 52 (basso), 54 (alto) – Mondadori Portfolio: Ashmolean Museum, University of Oxford/Heritage Images: pp. 56, 57 (basso); Erich Lessing/K&K Archive: pp. 86/87; AKG Images: pp. 98-99, 104; Album/Oronoz: p. 107 – Cortesia Ufficio Stampa-Comunicazione del Comune di Pesaro: p. 71; Evgenia Tolstykh: pp. 60/61, 63, 70, 72/73; Paolo Semprucci: p. 62; Soprintendenza Archeologia delle Marche: pp. 64-65, 66/67, 67, 68-69; @dsl_studio: pp. 65, 73; Ente Olivieri: p. 72 – Staatliche Museen zu Berlin, Antikensammlung: pp. 88/89, 102/103 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 90/91 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: pp. 100/101 – Cippigraphix: cartine alle pp. 12, 16, 38 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 52. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Padova

UN NODO URBANO... DI DUE METRI CUBI

C

he cosa ci aspetteremmo di trovare negli strati piú antichi di una città? E negli spazi sempre molto limitati che è possibile esporre tra le costruzioni di una città attuale, quali reperti, stratigrafie e contesti sepolti ci autorizzano a parlare di una realtà già «protourbana»?

È con simili interrogativi in mente che un gruppo di archeologi dell’Università di Padova, con il concorso di un ampio comparto di tecniche scientifiche, sta affrontando lo studio archeologico dei dati emersi nel corso di uno scavo già concluso vent’anni fa, ma ancora quasi completamente inedito. Il progetto ha avuto inizio nel 2022 e si concluderà nella primavera 2024, con la pubblicazione di articoli scientifici, di una monografia e l’organizzazione una mostra. Uno degli insediamenti piú antichi dell’area urbana di Padova era venuto in luce tra gli anni 2000 e 2001 all’incrocio tra riviera Ruzante e via S. Chiara, nel corso dello scavo di un cortile dell’edificio oggi sede della Questura. Per un’area di quasi 1000 mq, furono allora portati in luce i resti di pavimenti e pareti di case in terra e legno sovrapposti gli uni agli altri, affiancati da canalette di drenaggio. Il tutto era colmato da scarichi e strati di occupazione databili, sulla base delle ceramiche trovate negli strati, dalla fine del IX alla piena romanizzazione del I secolo a.C. Lo scavo stratigrafico, condotto dalla cooperativa PETRA, portò allora alla scoperta di parte di un ambiente dell’VIII secolo a.C., probabilmente rettangolare, usato per la produzione di manufatti in bronzo; di fronte furono scavati un’area adibita all’industria ceramica, e l’angolo di un’abitazione vicina, apparentemente priva di tracce di

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Sulle due pagine: immagini dello scavo, eseguito in laboratorio, di un blocco di terra contenente un focolare metallurgico individuato nel corso delle indagini condotte nel centro di Padova fra il 2000 e il 2001. L’intervento ha permesso di recuperare numerosi vasi in ceramica, in alcuni casi interamente ricostruibili. attività artigianale. Nella fonderia – che ancora ospitava i resti di una dozzina di frammenti di forme di fusione in arenaria e scisto e alcuni crogioli – operavano fabbri che vi colavano manufatti in bronzo di uso pratico, come utensili e armi. Forse le stesse persone costruivano o riparavano negli stessi spazi manici per lame in bronzo e altri strumenti in osso o palco di cervo. La dispersione nell’area e tra gli strati di un notevole numero di fusaiole, rocchetti e degli anelloni in terracotta noti agli archeologi come «taralli» (forse usati come pesi da telaio) suggerisce che anche importanti attività tessili avessero luogo con frequenza nello stesso contesto. Il tutto ha portato a pensare che piú di laboratori o «botteghe» artigianali – come ci verrebbe da immaginare, sulla base dell’analogia con il mondo attuale – potrebbe trattarsi di spazi già lottizzati da famiglie emergenti residenti, che venivano temporaneamente «prestati» ad artigiani specializzati in vista dell’esecuzione di diversi lavori mirati. Ma questa, appunto, è un’ipotesi di lavoro, e non ancora una conclusione.

Nelle fasi finali dello scavo (2002) un grande blocco di terra contenente un focolare metallurgico, che misurava 2,2 x 1,6 x 0,6 m (pari a 2 mc circa di sedimenti archeologici) fu isolato, imbragato e trasportato in deposito al Museo Nazionale Atestino di Este. Ciò perché il focolare stesso era stato costruito su una sottofondazione o vespaio di centinaia di frammenti ceramici, accuratamente disposti con la superficie convessa in alto, a creare un’intercapedine contro l’umidità del sottosuolo, che richiedeva un’indagine a sé stante. Messo in sicurezza nei magazzini del Museo,

il blocco è rimasto inesplorato per vent’anni, sino a che il finanziamento erogato dalla CA. RI.PA.RO. non ne ha reso possibile il trasporto nei Laboratori di Archeologia dell’Università di Padova a Ponte di Brenta, dove è avvenuto il microscavo. Il vespaio di frammenti ceramici è quindi apparso perfettamente conservato e ben fatto. Da esso sono emersi non meno di 16 vasi ricostruibili nell’interezza del profilo (soprattutto olle di uso domestico), anche di grandi dimensioni: una vera rarità nel panorama degli scavi urbani nei quali i cocci sono in genere piccoli e ampiamente

archeo 7


n otiz iario

Riproduzione sperimentale di alcuni dei vasi rinvenuti nello scavo del pane di terra contenente il focolare metallurgico.

dispersi, quindi a fatica ricongiungibili. Parte della parete di unico vaso situliforme con decorazione a croce gammata applicata a rilievo era stata collocata esattamente al centro del vespaio, molto probabilmente con un preciso significato simbolico. Lo stesso vaso viene ora accuratamente studiato e riprodotto sperimentalmente, per ricostruirne le tecniche di formatura e trarne nuove informazioni di carattere sociotecnico; i primi esperimenti, infatti, dimostrano quanto poco ancora sappiamo delle tecniche costruttive dei vasi della prima età del Ferro, prima che il tornio diventasse lo strumento piú importante dei vasai. Nel progetto viene dato ampio spazio agli approfondimenti archeometrici, come analisi petrografiche e chimiche sulle ceramiche, per individuare i bacini

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di provenienza delle materie prime, e analisi gascromatografiche, sempre sulle ceramiche, per rivelarne possibili contenuti organici. Alcuni vasi risultano spalmati all’interno di resine vegetali o pece. Saranno effettuate misure isotopiche sui manufatti in bronzo per verificarne la provenienza o meno dall’arco alpino; mentre altri dati, a volte sorprendenti, si stanno aggiungendo sul consumo delle specie vegetali e animali che hanno lasciato le proprie tracce nel terreno. Infine, il complesso quadro che si sta delineando sarà ancorato a una serie di datazioni assolute mediante radiocarbonio (già in parte disponibile). Le datazioni assolute, per la prima volta, collocano con chiarezza le origini di Padova, come comunità cittadina, entro l’VIII secolo a.C., a precisare quelli che sono i risultati degli studi

tipologici dei materiali. L’idea centrale è che anche una parte minima di stratigrafia, se utilmente interrogata da diversi punti di vista convergenti, possa rivelare come la città abbia subito concentrato, come mercato emergente, produzioni e prodotti diversi come legno, resine, prodotti agricoli e zootecnici, fibre tessili, metallo e ceramiche e certamente sale – anche se quest’ultimo bene rimane ancora scarsamente visibile nel terreno. E potenzialmente verificare che sale – appunto –, rame e lana possano essere stati, in questo momento critico, alla base del sistema di equivalenze commerciali che permisero alla prima Padova di decollare dal suo territorio rurale. Lo studio dei materiali descritti in queste pagine è stato avviato grazie al supporto economico garantito ai Progetti Scientifici di Eccellenza della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo (CA.RI.PA.RO.) ed è generosamente sostenuto dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area Metropolitana di Venezia e le Province di Belluno, Padova e Treviso. Vanessa Baratella, Andrea Giunto, Francesca Adesso, Lara Maritan, Elena Mercedes Pérez-Monserrat, Valentina Famari e Massimo Vidale



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

PARLA CON NERONE IL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO LANCIA UN NUOVO STRUMENTO GRAZIE AL QUALE FACILITARE IL RAPPORTO CON I SUOI FRUITORI. AFFIDANDOLO A UN OPERATORE D’ECCEZIONE...

C

hiedere informazioni sugli orari di apertura del Parco archeologico del Colosseo o approfondire le notizie storiche sui monumenti e siti che ne fanno parte diventa facile. E, a seconda delle conversazioni generate, anche divertente. Proprio in questi giorni le relazioni on line con il pubblico del PArCo, gestite come di consueto attraverso i canali social, si sono arricchite di un nuovo chatbot, sviluppato ad hoc per le necessità del luogo della cultura piú visitato d’Italia. Ma che cos’è un chatbot? Il termine deriva dall’unione di «chat» e «(ro)bot» e indica un software che simula ed elabora le conversazioni umane, consentendo agli utenti che vi si rivolgono di interagire con i dispositivi digitali come se comunicassero con una persona reale.

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A condurre lo scambio di informazioni, con l’intento di migliorare l’esperienza dei visitatori, è per il PArCo un ospite d’eccezione posizionato in homepage sul sito istituzionale parcocolosseo.it: Nerone o, meglio, il Colosso con le sue fattezze che tra il 64 e il 68 d.C. fu realizzato per essere posizionato nel vestibolo della Domus Aurea (l’area che oggi, per intenderci, è occupata da ciò che resta del successivo Tempio di Venere e Roma).

IL COLOSSEO IN RETE Nel 2018, immediatamente dopo la sua istituzione, il Parco archeologico del Colosseo ha avvertito l’esigenza di entrare in contatto in maniera diretta con i propri visitatori, reali e potenziali, sempre piú numerosi (e arrivati

nel 2023 a toccare il tetto dei 9 milioni) e ormai abituati a interagire in forma disintermediata con brand, istituzioni e rivenditori attraverso la rete. Dopo un’attenta analisi strategica, il Servizio Comunicazione ha creato e curato account sulle piattaforme di social media piú frequentate in quel momento: Facebook, Twitter, Instagram e YouTube. Da qui è stato possibile raggiungere e farsi raggiungere da

Domanda Si può pranzare all’interno del Parco archeologico del Colosseo? Nerone Ah, vedo che ci capiamo, anch’io apprezzo molto il buon cibo! All’ingresso del Foro Romano c’è il Caffè del PArCo, che propone caffetteria e light lunch da consumare al banco, oppure ai tavolini all’ombra del pergolato. Niente male, in mancanza di un triclinio! Se però vi prudono i calzari e preferite una sosta veloce, potete acquistare bevande e snack alle macchinette automatiche presenti in varie zone del PArCo.


pubblici differenti per fascia d’età e provenienza con specifiche esigenze di informazione, approfondimento, orientamento e declinare le indicazioni fornite in base ai linguaggi diversi e codificati per ogni social. Col tempo, grazie a un lavoro meticoloso, e supportati dalla realizzazione del sito internet ufficiale, che ne garantisce – insieme alle cosiddette «spunte blu» – l’autorevolezza, gli account social sono diventati un punto di riferimento centrale per i visitatori italiani e stranieri, arrivando a ricevere fino a piú di 100 richieste al giorno. Prima del lancio del chatbot, le risposte venivano fornite direttamente dal personale del Servizio Comunicazione tutti i giorni (in orario 8-20), con tempi di replica medi attorno ai 5 minuti.

RISPOSTE E APPROFONDIMENTI Al computo delle richieste che pervengono via social da parte del pubblico vanno aggiunte le decine di e-mail e telefonate indirizzate ai diversi uffici del PArCo recapitate quotidianamente per ottenere notizie circa orari, modalità di ingresso, acquisto dei biglietti, presenza di servizi igienici accessibili e ogni tipo di informazione utile per l’esperienza di visita. Lo studio dettagliato di questi interrogativi ha aiutato a comprendere i temi ricorrenti e a sviluppare una griglia di risposte che, insieme a ulteriori approfondimenti tematici, costituisce la base delle conversazioni che il chatbot Nerobot avvia rispondendo alla prima domanda posta dagli utenti, riconoscendo le parole chiave in essa contenute. Una importante fase del lavoro di sviluppo del bot ha riguardato l’individuazione del personaggio che avrebbe poi ricoperto il ruolo

Sulle due pagine: immagini del Chatbot Nerone, il nuovo strumento di comunicazione realizzato dal Parco archeologico del Colosseo per fornire informazioni e notizie ai visitatori, accessibile attraverso il sito web ufficiale dell’istituto (www.parcocolosseo.it) di «padrone di casa», una figura che immediatamente evocasse l’epopea della storia di Roma e i luoghi del PArCo in cui essa si realizzò. Partendo da Romolo e passando attraverso Cesare, una Vestale, un gladiatore fino a uno degli iconici gatti dell’Anfiteatro Flavio tutte le idee sono state vagliate con il supporto di sondaggi e interviste ai tecnici del PArCo e a campioni di pubblico in una raccolta di suggestioni e fondamentali prime impressioni. Lucio Domizio Enobarbo, noto come Nerone, e le vicende del Colosso con le sue fattezze già conosciute da un pubblico molto ampio, sono da subito risultate la scelta piú amata e condivisa. Nell’angolo in basso a destra dello schermo del pc, dello smartphone o del tablet il Colosso di Nerone, rappresentato secondo un’iconografia a noi giunta attraverso monete e medaglioni con una corona radiata sul capo, sorride in piedi davanti all’Anfiteatro Flavio (che il vero imperatore non conobbe mai) e si presenta cordialmente agli utilizzatori del chatbot. Chiara e intuitiva, l’interfaccia appare come una finestra di conversazione simile a una app di messaggistica in cui l’interlocutore fornisce le indicazioni utili e non risparmia qualche battuta sagace sulla sua storia e sui suoi tempi. Ideato e curato da chi scrive, il chatbot è stato sviluppato in collaborazione con la start up italiana Machineria, attiva nella produzione di contenuti e automazioni per istituzioni culturali,

e con l’azienda francese Ask Mona che sviluppa strumenti di conversazione, intelligenza artificiale e analisi dei dati. Nerobot è disponibile nella sua prima versione ora on line in italiano, inglese e francese. Federica Rinaldi, Astrid D’Eredità

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n otiz iario

VIAGGI

IN CROCIERA CON «ARCHEO»

M

editerraneo Orientale: una realtà a noi prossima eppure lontana, il cui solo nome evoca ricordi e suggestioni. È in quel quadrante del nostro mare che prende forma l’omonima civiltà, per poi dilatarsi verso i lidi d’Oriente, dell’Africa e, ancora, spingersi verso ovest, alla conquista delle Colonne d’Ercole. È l’Egeo il grande bacino della storia antica. Sin dal II millennio a.C. le sue onde erano solcate da imbarcazioni con la grande vela spiegata ad accogliere il vento

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propulsore e decine di rematori pronti a far fronte al rischio della bonaccia. Una fitta rete di commerci si svolgeva tra le coste continentali – dove avevano trovato origine e sviluppo le piú antiche civiltà del mondo – e le isole egee, culla delle prime manifestazioni della cultura greca. Sulle rotte di quel mare non circolavano solo merci ma, insieme a esse, uomini, idee, valori culturali, ponendo le basi per la nascita di quella «civiltà mediterranea» nella quale affondano le radici della nostra

Mar Nero ro Istanbul Çanakkale

Turchhia

Chio

M r Ma Eg E geo

Kuşadası Patmo

Fethiye

Rodi Lindo

Mar Mediterraneo

Antalya Taşucu

Cipro Limassol


Nella pagina accanto, in alto: l’itinerario della prima parte del viaggio a bordo della nave Diana. Da destra, in senso orario, sulle due pagine: alcune delle tappe della crociera: Efeso, Istanbul e l’isola di Patmos.

stessa storia. Rivivere quelle antiche rotte, per compiere un viaggio nel tempo alla riscoperta di paesaggi costieri, di luoghi di memoria antica, di tesori del passato giunti intatti fino a noi attraverso i millenni è la proposta lanciata dalla compagnia di

crociere Swan Hellenic in collaborazione con «Archeo»: a bordo della nave Diana (ammiraglia della flotta Swan Hellenic con una stazza di 12 100 tonnellate e una capacità di 192 passeggeri), una crociera attraverso il Mediterraneo

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n otiz iario

orientale partirà da Istanbul il 23 settembre 2023, per raggiungere, il 3 ottobre, Limassol, principale città della costa meridionale dell’Isola di Cipro. La prima tappa di questo viaggio di undici giorni è il porto di Çanakkale, all’entrata dei Dardanelli, con la visita del sito di Troia e della Penisola di Gallipoli. Nei giorni successivi la

In alto e nella pagina accanto, in alto: vedute della città turca di Antalya.

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Sulle due pagine: veduta di Lindos, sull’isola di Rodi, dominata dall’acropoli.

navigazione proseguirà lungo la costa occidentale dell’«Asia Minore» per raggiungere l’isola di Chios, secondo alcuni il luogo di nascita di Omero, e poi il porto di Kusadasi: da qui si visiteranno la splendida Efeso e il luogo del vicino Tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo antico. Da Kusadasi la nave raggiungerà l’isola di Patmos, luogo d’esilio di san Giovanni e dominata dal grandioso monastero medievale dedicato al

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n otiz iario

A sinistra, nel riquadro: Inl’itinerario alto: doluptu della sanduntium seconda parte del eossint quaesto viaggio a bordo dolorest, ut Diana. della nave exereca taspisci. In questa pagina: A sinistra: dida di una veduta finta doluptu Petra, antica sanduntium capitale dei eossint quaesto Nabatei. dolorest, Nella pagina Parthenos doluptu accanto, dall’alto: sanduntium i templi di eossint quaesto Karnak, a Luxor, dolorest, ut veduta e una exereca. aerea del Canale di Suez.

Cipro

Limassol

Mediterr rran aneo eo

Port Said Canale di Suez

Giorddannia Aqaba

Egittto

Sharm El Sheikh

Arabia Saudita

Safaga

Mar Ro Rosso

Yanbu

Gedda

Marmar

santo, e da lí Rodi, isola dalle infinite memorie storiche. La navigazione proseguirà verso il porto di Fethiye, sulla costa meridionale della Turchia, città dell’antica Licia e sede di numerose e affascinanti tombe rupestri. Da Fethiye la Diana riprende il mare in direzione di Antalya, perla del Mediterraneo, fondata dal re di Pergamo, Attalo III, nel II secolo a.C. e oggi la principale città della costa mediterranea turca. Ultima tappa lungo la costa turca è la piccola città portuale di Tasucu, da cui la Diana salperà per raggiungere Limassol. Da Limassol prenderà avvio la seconda parte del viaggio, della durata di dodici giorni (dal 3 al 15 ottobre): la nave attraverserà il Mediterraneo verso sud, in parallelo alla costa del Levante, per approdare in Egitto, a Port Said. Da qui la rotta si fa «moderna» e, al posto delle antiche vie carovaniere percorse a piedi o a dorso di dromedari e cammelli, la Diana attraverserà le 120 miglia (193 km) del Canale di Suez, capolavoro di ingegneria

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idraulica ottocentesca (il canale è stato inaugurato nel 1869), abbandonando il Mediterraneo per raggiungere un altro mare, altrettanto denso di riferimenti storici antichi, medievali e moderni, il Mar Rosso. Dopo aver attraversato il Canale, la Diana navigherà lungo l’intero stretto di Suez, fiancheggiato da due grandi

deserti egiziani: sulla sua destra il Deserto Orientale, sulla sinistra quello della penisola del Sinai. Circumnavigata la punta meridionale del Sinai approdiamo a Sharm El Sheikh, luogo di partenza per la visita al Monastero di Santa Caterina e alla Chiesa del Roveto Ardente, nel cuore stesso delle spettacolari montagne


desertiche della penisola. Da Sharm El Sheikh la navigazione risale il Golfo di Aqaba, per approdare nell’omonimo porto giordano. Da Aqaba visitiamo Petra, la leggendaria capitale dei Nabatei. Siamo ora al sesto giorno dalla

partenza da Limassol e la nave riprende la rotta verso sud: attraversa il Mar Rosso per raggiungere il piccolo porto di Safaga, sulla costa orientale dell’Egitto. Da qui si visita la celebre Valle dei Re e il complesso dei

templi di Karnak a Luxor. Dopo un’ulteriore traversata del Mar Rosso la Diana approderà sulla costa dell’Arabia Saudita: getterà l’ancora nel porto di Yanbu, da cui si procede alla visita della seconda città sacra dell’Islam, Medina. Da Yanbu la navigazione procede ancora verso sud per raggiungere un gioiello naturalistico del Mar Rosso, l’isola di Marmar. Da Marmar la Diana partirà in direzione dell’ultima tappa della crociera, il porto di Gedda, seconda città del regno saudita dopo Riad. La città vecchia della altrimenti avveniristica megalopoli, al Balad, risale al VII secolo e fa parte della Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO. Per tutto il periodo di entrambe le tappe della crociera, un nostro archeologo guiderà le visite ai siti archeologici e sarà a disposizione dei viaggiatori. Per informazioni: enquiries@sawnhellenic.com

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ALL’OMBRA DEL VULCANO a cura di Alessandra Randazzo

DÈI, AMORINI E ALTRE STORIE SI È CONCLUSO L’ARTICOLATO INTERVENTO DI RESTAURO CONDOTTO NELLA CASA DEI VETTII. ORA LE MERAVIGLIE DI UNA DELLE PIÚ FASTOSE RESIDENZE DI POMPEI POSSONO NUOVAMENTE OFFRIRSI ALL’AMMIRAZIONE DEI VISITATORI

T

orna a farsi ammirare la splendida Casa dei Vettii, il cui progetto di restauro, intrapreso nel 2016 sotto l’egida di Massimo Osanna, ha visto impegnato un team interdisciplinare che ha coinvolto archeologi, architetti, restauratori, ingegneri, strutturisti, agronomi ed esperti

di giardinaggio. Lo scavo della domus, appartenuta ai fratelli Aulus Vettius Conviva e Aulus Vettius Restitutus, due liberti arricchitisi grazie al commercio del vino, fu intrapreso tra il 1894 e il 1895 e svelò uno dei piú complessi insiemi di pitture in IV stile. Questo sovrabbondante arredo

pittorico e scultoreo propone continui richiami mitologici, che riflettono non solo l’opulenza della committenza ma anche lo spessore economico che nel I secolo a.C. vedeva i fratelli Vettii dominare la scala sociale cittadina e arricchire con i propri traffici il bacino del Mediterraneo. Il complesso abitativo restituisce anche spaccati di vita quotidiana, laddove all’interno di un ambiente adiacente alla cucina si praticava la prostituzione. Non mancano infatti, quadretti con scene erotiche dove la schiava Eutychis, «greca e dalle belle maniere» si concedeva per due assi (Eutychis Graeca a[ssibus] II moribus bellis).

I MESTIERI DEL TEMPO Ma l’attenzione è tutta rivolta alle pitture che decorano le pareti della casa: l’oecus che si apre sul portico settentrionale del peristilio ospita un ciclo con Muse, Menadi, Satiri e Amazzoni, nonché quadretti con scene di sacrificio a Diana con Psychai che raccolgono fiori. Le scene piú peculiari sono invece quelle che ritraggono Amorini impegnati in diverse attività e mestieri dell’epoca: fiorai e venditori di corone, profumieri, orefici, cesellatori, fulloni, panettieri, vendemmiatori. Il clima è sereno e gioioso e ripreso

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Sulle due pagine: il fregio con Amorini (qui accanto) e altre vedute della Casa dei Vettii, una delle piú sontuose dimore pompeiane, riaperta al pubblico dopo un importante intervento di restauro.

dal repertorio ellenistico, come nel caso della gara di tiro con l’arco e della corsa dei carri che vede gli Amorini protagonisti e Dioniso in trionfo a chiudere la vendemmia. In questo famoso ciclo pittorico gli Amorini sono intenti a svolgere una delle attività per cui Pompei era celebre: l’arte aromatica e svolgono tutte le attività del profumiere, dalla macerazione delle essenze alla preparazione degli oli ottenuti dalla spremitura a freddo delle olive ancora verdi con un particolare torchio, anch’esso qui raffigurato; sono lí accanto i vasi maceratori e, poco oltre, il bancone con la bilancia, il ricettario e l’armadietto con le ampolle di oli, unguenti e balsami (hedysmata, stymmata e diaspamata). Chiude la scena una fanciulla che, seduta su una sedia con morbidissimo cuscino rosso porpora e sgabellino poggiapiedi, prova il suo profumo strofinandolo sul dorso di una mano. Come diceva Plinio: «Questa è la materia di lusso che tra tutti è il piú vano». I richiami al mito non finiscono qui e la sala detta «di Issione» si trasforma in una sorta di pinacoteca privata, nella quale, sulla parete di fondo il re Issione è raffigurato di fronte a Era seduta in trono che guarda la scena indicatale da Iside. Efesto è impegnato ad attivare la ruota a cui, per mano di Ermes e volere di Zeus, sarà legato Issione mediante i serpenti. ll mito greco narra che Issione, figlio di Flegias, re dei Lapiti, ebbe una relazione con Dia, figlia di Deioneo, che portò a delle nozze frettolose. Durante le trattative per il matrimonio, Issione si rifiutò di consegnare i doni nuziali al padre della sposa e questi

ebbe da lamentarsi per la grave offesa subita. Colto da un impeto d’ira, Issione uccise il suocero in maniera crudele, gettandolo in una fossa piena di carboni ardenti.

LEGATO ALLA RUOTA DI FUOCO Sconvolti per l’accaduto, gli dèi erano pronti a punirlo, ma Zeus lo perdonò e lo accolse sull’Olimpo. L’occasione venne sfruttata da Issione per concupire Era, la moglie del padre degli dèi, tentando addirittura di violentarla. Quando Zeus si accorse del piano, mandò la nuvola Nefele, che aveva creato con le sembianze di Era, e, quando Issione provò a toccarla fu colto in flagrante. Zeus allora, furioso, decise di consegnarlo a Hermes perché lo torturasse; il messaggero degli dèi obbedí e legò Issione a una ruota di fuoco che doveva girare senza sosta nell’etere. Sulla parete di destra vi è invece un episodio a lieto fine con Dioniso e Arianna mentre Teseo fugge con la sua nave. Sulla parete sinistra è raffigurato Dedalo che presenta a Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, la vacca di legno che diventerà l’alcova nella quale la regina concepirà il Minotauro. La mitologia greca è ancora protagonista nell’oecus in IV stile decorato da grandi quadri in cui dominano tre scene principali: sulla parete destra il supplizio di Dirce da parte di Zeto e Anfione, figli di Giove e Antiope; sulla sinistra Ercole bambino che strozza i serpenti inviategli da Giunone. Sul pannello di fondo, Penteo, re di Tebe, è dilaniato dalle Menadi per aver offeso Dioniso: alle sue

spalle una Menade infligge il colpo finale, scagliandogli sulla testa una grossa pietra. Un peristilio a diciotto colonne circonda il giardino arricchito da sculture adibite a fontane, a ricreare un suggestivo sistema con giochi d’acqua le cui tubazioni di piombo e gli ugelli sono ancora in posto. I soggetti raffigurati rimandano a Dioniso e al suo seguito: satiri, puttini e bambini, allusivi alla forza propiziatrice della Natura, secondo modelli iconografici di tradizione ellenistica. A completare il ricco giardino erano anche mense, tre tavolini circolari e rettangolari, di marmo e di travertino, e una meravigliosa vasca di marmo bianco, cosí polita che sembra lasciar attraversare la luce. A questi arredi si aggiungono due pilastrini con doppie erme: su di uno Dioniso e Arianna, sull’altro un Sileno e una Menade. Al fine di preservarle, le sculture originali rinvenute sono state sostituite da copie, collocate lungo i lati del portico. Al momento dello scavo della fine dell’Ottocento, sembra che nel giardino fossero visibili i letti per le piante, ma purtroppo oggi non restano tracce di cavità lasciate dalle radici delle piante originarie i cui fiori e rami e foglie si prolungavano idealmente nelle pareti del peristilio che, alla base, erano decorati con edere e ciuffi di piante fiorite. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

DEPOSITI MA VIVI IN OLTRE UN SECOLO, OSTIA È STATA A PIÚ RIPRESE OGGETTO DI SCAVI E LE INDAGINI HANNO PORTATO AL RECUPERO DI UNA QUANTITÀ INGENTE DI REPERTI. E ORA, PER AMPLIARNE LA FRUIZIONE, SONO IN CORSO IMPORTANTI PROGETTI DI RIALLESTIMENTO DEI MAGAZZINI NEI QUALI SONO CUSTODITI

M

osaici, pitture, stucchi, anfore e dolia, opere in marmo e in terracotta, monete, gioielli e manufatti in metallo prezioso, ma anche in vetro, osso, avorio e legno: è questo solo un campionario dei reperti, di molteplici tipologie e dimensioni, che costituiscono le collezioni ostiensi. Un patrimonio che, a oggi, è in parte disperso tra i musei romani e stranieri a seguito degli «scavi di rapina», che interessarono Ostia dal Settecento fino a tutto l’Ottocento. Di contro, l’attenzione a preservare e rendere fruibili i rinvenimenti nel contesto di provenienza crebbe nella prima metà del Novecento,

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e condusse, in concomitanza con l’esigenza di realizzare una sede museale all’interno degli scavi, al proposito di ordinare i depositi in modo da dare al visitatore e allo studioso «un’idea esatta di tutto ciò che Ostia ci ha dato nel campo antiquario, dalla scultura all’epigrafia» (Guido Calza), proposito sempre

Veduta degli ambienti del cosiddetto «Piccolo Mercato» che ospitano elementi architettonici in marmo. Nella pagina accanto, in alto: ipotesi di allestimento degli ambienti settentrionali degli Horrea Epagathiana. Nella pagina accanto, in basso: foto storica dell’allestimento dei cosiddetti «Grottoni».


accompagnato dal censimento e dalla catalogazione dei reperti lí conservati.

PER UN MUSEO DIFFUSO Da allora, nel corso dei decenni, si sono susseguiti diversi riordini e allestimenti degli spazi destinati a ospitare il materiale archeologico, secondo un’impostazione in prevalenza tipologica e adibendo a tal fine una serie di ambienti situati all’interno degli edifici antichi (per esempio, il cosiddetto «Piccolo Mercato» con l’attigua via Tecta e i cosiddetti «Grottoni»), sí da dotare Ostia di un vero e proprio «museo diffuso», in cui l’urgenza espositiva ha trovato, in un certo qual modo, una sua manifestazione al di fuori delle sedi museali in senso stretto. Questa tradizione di ordinamento dei depositi, che è parte integrante della «storia» stessa della gestione del patrimonio storico-artistico ostiense, costituisce ancora oggi il punto di riferimento per ogni progetto, in corso di realizzazione e/o in fase di avvio, che riguardi appunto la sistemazione degli spazi adibiti alla conservazione dei reperti e le attività di censimento, inventariazione e catalogazione dei beni mobili del Parco. Se da un lato gli interventi di

adeguamento dei depositi sono dettati dalla necessità di provvedere alle attività ordinarie di revisione inventariale, nonché di superare le criticità date dalla mancanza di luoghi da destinare a una mole sempre crescente di materiali archeologici – anche a seguito delle campagne di scavo condotte in concessione e nell’ambito dei provvedimenti di tutela del territorio –, negli anni piú recenti è maturata una maggiore consapevolezza delle potenzialità offerte dalla conservazione e possibile esposizione dei beni in questi spazi, soprattutto a partire dalla loro elevata rappresentatività per la documentazione di tutti gli aspetti della vita quotidiana, religiosa, artistica, produttiva, commerciale, di Ostia (e del relativo territorio), rinsaldando dunque il legame tra reperto e contesto.

GLI INTERVENTI FUTURI Ciò ha portato a intraprendere l’avvio di importanti interventi di riallestimento: non solo quello del nuovo Museo Ostiense (di prossima riapertura), ma anche degli antichi complessi già deputati ad accogliere il materiale archeologico, come il già citato «Piccolo Mercato», per il quale è in

fase di progettazione un sistema di coperture degli ambienti e di allestimento di elementi architettonici in marmo, e gli Horrea Epagathiana, in cui, tra l’altro, sarà nuovamente musealizzata la notevole collezione dei bolli laterizi ostiensi. In programma vi è anche il riallestimento dell’Antiquarium. Fra gli intenti sottesi a tali progetti vi è quello di garantire agli studiosi luoghi consoni alle attività scientifiche e, piú in generale, di offrire al pubblico una narrazione il piú possibile esaustiva della storia della città e degli scavi che l’hanno riportata alla luce, attraverso la presentazione di manufatti recuperati dai piú importanti contesti monumentali urbani. L’attività del Parco in tema di collezioni e depositi si sta inoltre dispiegando su piú fronti: dalla catalogazione alla digitalizzazione, dalla formazione in ambito accademico all’attività scientifica propria e alla valorizzazione del patrimonio mediante iniziative espositive fuori dal Parco (per esempio presso l’Aeroporto Internazionale «Leonardo da Vinci» di Fiumicino, vedi «Archeo» n. 449, luglio 2022; anche on line su issuu. com), volte appunto a promuovere la conoscenza delle opere conservate nei depositi di Ostia, nonché accordi con altre istituzioni museali e non, a favore di una visione integrata, con una ricomposizione quantomeno «virtuale» dei contesti ostiensi, partecipata e inclusiva del patrimonio del Parco. Alessandro D’Alessio e Cristina Genovese

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n otiz iario

SCAVI Sicilia

UNA STORIA TUTTA DA SCRIVERE

A

Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta, recenti indagini archeologiche in località Manca, nell’area di una straordinaria villa rurale e residenziale di età imperiale romana, hanno portato alla scoperta di nuovi ambienti, all’esterno dei quali è stata recuperata una mole considerevole di materiale ceramico. Grazie ad alcuni bolli impressi su tegole provenienti dallo scavo, la villa risulterebbe di proprietà di un importante personaggio pubblico vissuto tra il I e il II secolo d.C. «Le costruzioni individuate nel corso dell’ultima fase di scavo, quasi sempre a pianta rettangolare – spiega la soprintendente Daniela Vullo – sono costituite da almeno quattro vani in sequenza secondo un prevalente asse nord-est/sudovest, fatta eccezione del cosiddetto edificio IV, che presenta un orientamento chiaramente divergente. In tre casi, l’angolo sudovest interno del vano è delimitato da un muretto semicircolare ed è pavimentato da un lastricato di ciottoli ben costipati: si tratta, probabilmente, di un vanoripostiglio per derrate o altri oggetti. Alcuni degli ambienti dovevano essere stati utilizzati come deposito o magazzino: è il caso, per esempio, del vano posto al centro dell’attuale area di scavo, che ha restituito una

Uno degli ambienti della villa in corso di scavo.

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Vallelunga Pratameno (Caltanissetta): resti di un pavimento di ciottoli e frammenti di anfore. notevole quantità di anfore da trasporto riconducibili, secondo una prima analisi, a tipologie per lo piú di produzione africana che si collocano cronologicamente tra il IV e il V secolo d.C. L’insediamento, che è di grandi dimensioni e costituisce un unicum per la provincia di Caltanissetta, doveva disporre di spazi la cui funzionalità dev’essere ancora individuata, come il grande ambiente rettangolare (cosiddetto edificio X) interamente pavimentato con ciottoli di piccole dimensioni, che sembra essere stato privo di copertura e probabilmente utilizzato come ricovero per animali. Un altro dato interessante, ricavato sempre dalle ultime indagini, riguarda la sequenza della frequentazione del sito: la villa si colloca chiaramente su una precedente fase che è stata individuata, al momento, nella zona nord-orientale di un terzo saggio aperto a sud del complesso residenziale. Le strutture individuate sono pertinenti a una costruzione a pianta quadrata o rettangolare, al cui interno si imposta un grande impianto circolare a doppio paramento per il quale, al momento, è prematuro avanzare ipotesi funzionali, visto che lo scavo non è stato completato. Dall’abbondanza dei tipi di ceramica rinvenuti, fra i quali si distinguono frammenti di lucerne e anfore, vasellame da mensa in sigillata africana, ma anche da alcune

monete collocabili entro un arco cronologico compreso tra il II e il IV secolo d.C., si desume la lunga vita di questo interessante complesso edilizio, che aveva trovato il suo principale sostentamento nello sfruttamento, a scopi cerealicoli, del vasto territorio attraversato dal torrente Belici». Le indagini sono state condotte in regime di archeologia preventiva a seguito dell’attività di controllo della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta sui lavori del raddoppio della linea ferrata Catania-Palermo lungo la tratta Lercara-Caltanissetta Xirbi. Diretti dal Soprintendente ai BB.CC.AA. di Caltanissetta e dal dirigente della sezione archeologica, Filippo Spagnolo, in sinergia con la responsabile archeologa di Italferr, Valeria d’Amico, gli scavi sono stati condotte sul campo dagli archeologi Cristina Restivo, Paolo Scifo e Italo Giordano, coordinati da Marina Congiu con la direzione tecnica di Andrea Simeoni. Giampiero Galasso


INCONTRI Roma

ALLA RICERCA DEL LUSSO

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ontinuano gli appuntamenti con «Luce sull’archeologia», la cui nona edizione, «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», propone un percorso tematico di grande suggestione, che esamina l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche come segno di prestigio sia politico che personale. Non solo esplorando la vita di alcuni dei protagonisti di una stagione eccezionale, come Augusto, Livia, Cleopatra, ma anche riconoscendo una documentazione archeologica straordinaria: pitture, tarsie, oro, mosaici, iscrizioni e la decorazione marmorea di ville e palazzi sono solo alcuni degli elementi distintivi della società romana tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’età imperiale. Esigenze di rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime, come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. «Luce sull’archeologia» è un progetto curato dal Teatro di RomaTeatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi

Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Gli incontri sono arricchiti dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi. Qui di seguito, il calendario dei prossimi

Testa ritratto in basanite di Livia Drusilla. 25-50 d.C. Parigi, Museo del Louvre. Dopo aver divorziato da Tiberio Claudio Nerone, la donna sposò Augusto. 26 febbraio: Patrimonio culturale: tutela, conservazione, valorizzazione, intervengono Massimo Osanna, Gottardo Pallastrelli, Claudio Strinati e Stéphane Verger. 12 marzo: Piero Bartoloni, Miniere, metalli e gioielli nel mondo fenicio; Pier Giovanni Guzzo, Oro e potere nel Lazio arcaico. (red.) appuntamenti. 12 febbraio: Francesca Cenerini, I molti volti del «potere» di Livia, moglie di Augusto; Paolo Giulierini, Eleganza e cultura tra Pompei ed Ercolano nelle collezioni del MANN; Francesca Rohr Vio, La «pace insanguinata» di Augusto. Saper governare anche grazie al dissenso.

DOVE E QUANDO «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato» Luce sull’archeologia-IX edizione Roma, Teatro Argentina fino al 16 aprile Orario inizio degli incontri, 11,00 Info www.teatrodiroma.net

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

UN ANTICO LUOGO D’INCONTRO IL RIENTRO IN ITALIA DOPO LA TRASFERTA IN GERMANIA È L’OCCASIONE PER RIPERCORRERE LA STORIA DELLA SCOPERTA DELLA FONTE SACRA DI BANDITELLA, NEL TERRITORIO DI CANINO, UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI ACQUISIZIONI DELL’ARCHEOLOGIA VULCENTE DEGLI ULTIMI DECENNI

A

trent’anni dalla sua scoperta fortuita in località Banditella, nel comune di Canino (Viterbo), l’importanza della fonte sacra non viene meno. Dopo essere stati presentanti al Museo Archeologico di Francoforte nella mostra «Leoni, sfingi e mani d’argento» i reperti che ne provengono sono ora esposti nel Museo della Ricerca Archeologica di Canino. Tutto iniziò nella primavera del 1992, quando, in occasione dei lavori effettuati dal comune di Canino per la regimentazione delle acque sorgive, vennero alla luce manufatti archeologici presso la sorgente di Banditella. L’area fu subito indagata e gli scavi interessarono una superficie di circa 200 mq su una, stimabile, estensione del sito di 1000-1500 mq. La ricerca fu diretta da Vincenzo d’Ercole con la collaborazione di Flavia Trucco e di chi scrive. Poiché la camera di manovra dell’acquedotto aveva occupato, come era logico, il centro del laghetto, andando a raccogliere l’acqua direttamente dalla sorgente da cui scaturiva, fu possibile indagare solo la riva orientale dell’antico stagno e la parte meridionale in cui era stato realizzato, già in antico, verosimilmente nel corso della

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Cavallino in bronzo forse pertinente a un vaso, dalla fonte sacra in località Banditella (Canino, Viterbo). Nella pagina accanto: una veduta del riempimento della fonte in corso di scavo.

prima età del Ferro, un muro di delimitazione. All’inizio del I millennio a.C., il piccolo specchio d’acqua con la sorgente perenne doveva avere la forma di un triangolo isoscele con un’altezza di circa 10 m e una larghezza di base, quella delimitata artificialmente con il muro, di quasi 20 m. La profondità di questo bacino (di 100 mq circa) doveva oscillare fra i 15 cm ai bordi e i 50 cm al centro. La sorgente principale, con relativa fuoriuscita dell’acqua, era collocata sul vertice superiore del triangolo verso settentrione, ma rivoli d’acqua scaturivano anche dalle sorgenti secondarie posizionate ai lati di quella

principale creando un effetto di «cascatelle» continue sulle due sponde formate da sabbione compatto: i rivoli d’acqua di queste fuoriuscite secondarie davano luogo a piccole pozze, bacini di raccolta, in cui venivano gettate o deposte le offerte cultuali.

MOTIVI SOLARI La fase con le offerte, selezionate, di culto è circoscrivibile fra il Bronzo Finale 3 (XI secolo a.C.) e l’inizio della età arcaica (VI secolo a.C.). Tra le offerte piú antiche sono riconoscibili sedici rondelle in avorio o in osso decorate con motivi solari (occhielli di dado). Generalmente, questi oggetti


a.C. (in cronologia tradizionale). Oltre ai contenitori per il consumo e l’offerta dell’acqua si sono rinvenuti materiali per uso diverso, come fibule in bronzo ad arco serpeggiante e a sanguisuga e due frammenti di fornelli miniaturizzati che sembrerebbero rimandare alla sfera femminile. La frequentazione del luogo di culto all’aperto di Banditella prosegue in epoca orientalizzante senza mutare le forme della devozione: solo i contenitori per il liquido, olle biansate sempre miniaturizzate (ma anche tazze e bicchieri), non sono piú in impasto come i biconici delle fasi precedenti, ma realizzati con l’uso del tornio e appaiono, quindi, maggiormente standardizzati.

LE ULTIME OFFERTE

ricercati vengono interpretati come basi, forate, nelle quali inserire sottili fusi di legno con la funzione non tanto di appesantimento di base, quanto di agevolare, vista anche la forma circolare, la rotazione del fuso e l’avvolgersi, intorno a esso, del filato. Si tratterebbe in sostanza di fuseruole, non in ceramica, bensí in materiale pregiato, che si rinvengono, di norma, nei corredi femminili delle sepolture a incinerazione del Bronzo Finale 3. Al mundus femminile sembrano rimandare, oltre alle fuseruole fittili, anche i grani di collana in pasta vitrea colorata, gli anelli in argento, osso e bronzo e gli aghi in bronzo.

La componente piú evidente di forma di culto che si doveva svolgere presso il laghetto sacro di Banditella era naturalmente dedicata al consumo, rituale, dell’acqua che vi sgorga ininterrottamente da almeno 3500 anni. All’inizio del I millennio a.C. sono da ricondurre i numerosi biconici miniaturizzati, un vaso in lamina di bronzo, anch’esso miniaturizzato, e due tazze molto raffinate ed eleganti, identiche, in impasto nero lucido, con ansa bifora, sopraelevata e due cornetti laterali, decorate sulla carena da triangoli pendenti di una tipologia ben attestata nei corredi funebri vulcenti dell’inizio dell’VIII secolo

Alle soglie dell’arcaismo la frequentazione del sito sembra cessare per sempre, almeno fino agli anni Venti del secolo scorso, quando la sorgente fu utilizzata e quindi il suo deposito archeologico manomesso una prima volta, per divenire parte del rifornimento idrico del comune di Canino. Uno degli ultimi reperti deposti nel laghetto sacro di Banditella potrebbe essere stato un vaso in lamina di bronzo (una hydria?), presumibilmente di dimensioni reali. Durante lo scavo del 1992, nel terreno rimosso per la camera di captazione dell’acquedotto, fu rinvenuto a Banditella un cavallino in bronzo pieno con le zampe anteriori decisamente piú corte di quelle posteriori che ne suggerivano la pertinenza a un vaso in bronzo. La sorgente di Banditella e le divinità che vi dimoravano hanno costituito, per quasi un millennio, un luogo di incontro, un marker territoriale, un punto di riferimento identitario e culturale di coloro che abitavano, nel II millennio a. C., la bassa valle della Fiora e poi, in epoca storica, la potente e ricca città-stato di Vulci.

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A TUTTO CAMPO Andrea Terziani

MINATORI PREISTORICI UNA RICERCA CONDOTTA DALL’AREA DI PREISTORIA DELL’ATENEO SENESE DOCUMENTA IL LAVORO SVOLTO IN EPOCA NEOLITICA NELLE MINIERE DI SELCE SITUATE SUL PROMONTORIO DEL GARGANO. A PARTIRE DALL’ANALISI DEGLI UTENSILI IMPIEGATI PER ESTRARRE LA PREZIOSA MATERIA PRIMA

L

a miniera della Defensola A, situata sulla collina di Intresiglio, nel Comune di Vieste (Foggia), fa parte di un articolato insieme di strutture estrattive sparse sul promontorio del Gargano, destinate al recupero dell’ottima selce locale: è datata per la sua prima fase al Neolitico iniziale (6000-5500 a.C.) e rappresenta il luogo di estrazione della selce piú antico nell’intero continente europeo. Le varie strutture minerarie presenti sul Gargano furono coltivate in un arco cronologico che si estende dal VI millennio a.C. (Neolitico Antico) sino alle soglie del II millennio a.C. (Bronzo Antico) e

sono state messe in luce dalle ricerche condotte dall’Università di Siena tra il 1986 e il 2012. Si tratta di piú di venti complessi, che mostrano soluzioni molteplici per l’estrazione della selce, legate non soltanto alla morfologia e alla geologia del sottosuolo, ma molto probabilmente anche alle differenti

ANALOGIE E CONFRONTI L’eterogeneità di tali strutture può essere in parte confrontata, anche per lo strumentario da estrazione in pietra, con quella di vari contesti

A destra: la posizione del complesso minerario di Vieste nel promontorio del Gargano (Foggia; su base Google Earth).

A sinistra: la miniera della Defensola A: veduta di un cunicolo dell’Ambiente 5, con crollo di placche dal soffitto.

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dinamiche insediative che hanno caratterizzato il Gargano tra Neolitico ed età dei metalli.

minerari europei, sui quali certamente devono aver influito fattori analoghi. Dopo qualche anno di sosta, la ricerca è ripresa con un progetto di dottorato incentrato sulle modalità di coltivazione dei giacimenti minerari in Italia centro-meridionale tra il Neolitico e l’età del Bronzo. Il progetto prevede l’analisi degli utensili da estrazione in pietra provenienti da vari siti campione,


A sinistra: la ricomposizione di un piccone minerario fratturato. In basso: un mazzuolo con gola per l’immanicatura, interamente lavorato per bocciardatura; a destra, dettaglio della materia prima, una roccia silicea a tessitura grossolana.

diversi per areale geografico e per tipo di risorsa coltivata. Lo studio tecno-tipologico degli utensili è integrato da quello delle cavità (pozzi e gallerie) a cui sono associati, in modo da far emergere le strategie di lavoro messe in atto dai minatori nel lungo arco cronologico selezionato. Tra i manufatti in esame vi sono i numerosi mazzuoli e picconi della Defensola A, impiegati per estrarre noduli di selce, utili al confezionamento di strumenti in pietra scheggiata. Oltre a essere la piú antica, la miniera è anche la piú vasta e articolata sinora nota in Europa: si sviluppa su due livelli, dei quali è stato esplorato soltanto quello superiore, formato da gallerie strette e basse, con accessi orizzontali, spesso sostenute da pilastri di roccia risparmiata o da muretti a secco. Si tratta di un capolavoro dell’arte mineraria, soprattutto se rapportata alle altre miniere di selce garganiche ed europee piú recenti e di dimensioni piú contenute. L’analisi degli utensili, ancora in fase preliminare, mostra un alto grado di investimento tecnologico nella loro realizzazione: partendo da supporti diversi, tra cui grandi schegge o blocchi di materia prima, dopo una messa in forma per

mezzo di una scheggiatura accurata, alcuni manufatti venivano sottoposti a bocciardatura, una lavorazione superficiale eseguita per regolarizzarne le superfici. Inoltre, su molti esemplari si osservano scanalature o incavi trasversali, realizzati per permettere il fissaggio di un manico in materiale deperibile.

ATTREZZI USATI PER POCO TEMPO Parallelamente allo studio analitico di tali manufatti è stato messo a punto lo studio di un’officina di lavorazione della selce, collocata in prossimità di uno degli ingressi della miniera, dove venivano ottenute schegge o lame da trasformare in strumenti. Il grado di sfruttamento parziale dei blocchi di materia prima (nuclei) e le labili tracce d’uso riscontrate sui margini di alcuni strumenti suggeriscono che entrambi abbiano subito un utilizzo breve e un abbandono quasi immediato, probabilmente a causa della grande disponibilità di selce locale: le analisi ad alto ingrandimento delle tracce presenti sui margini di un campione di strumenti avevano già messo in evidenza, infatti, un loro impiego nella lavorazione di materia dura vegetale, verosimilmente legno.

I dati consentono di avanzare l’ipotesi che l’officina fosse sede di attività collaterali a quella estrattiva, quali la fabbricazione o la riparazione dei manici di picconi e mazzuoli, oppure la realizzazione di ceste o stuoie, impiegate nel trasporto della selce estratta e del detrito prodotto, al fine di tenere il piú possibile puliti i cunicoli. Le analisi petrografiche e i riscontri sul campo faranno ulteriore luce sulle materie prime impiegate per gli utensili da miniera: il litotipo che ricorre nella fabbricazione di picconi e mazzuoli è identificabile, al momento, con una roccia silicea a tessitura grossolana, riconosciuta nel pozzo denominato «Punto 9», sulla collina dove si trova la miniera della Defensola B che, assieme alla Defensola A, Defensola C e altre strutture, costituisce il complesso minerario di Vieste all’interno del vasto comprensorio garganico. Infine, alcuni test sperimentali permetteranno di approfondire le modalità relative alla messa in forma di questi strumenti e al loro utilizzo nell’economia mineraria locale. (andrea.terziani@phd.unipi.it)

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

IL PRIMO IMPERATORE Dopo Adriano, Nerone e Cesare è Augusto, primo imperatore di Roma, a essere esaminato con gli occhi e la 1 sensibilità di uno scrittore moderno, in questo caso lo statunitense John E. Williams (1922-1994). L’articolo di Giuseppe M. Della Fina (vedi alle pp. 74-82) ci fa scoprire come l’autore del romanzo Augustus (1972) abbia interpretato, sia pure con una buona dose di immaginazione inserita in un contesto di 4 2 «plausibilità» storica, molti aspetti della personalità di Augusto. E anche la nostra rubrica contribuisce a illustrare la figura dell’imperatore (1),i cui successi 3 pubblici sono stati celebrati soprattutto dalla filatelia propagandistica del ventennio fascista, con una serie di 15 valori emessa nel 1937 per il bimillenario della sua nascita. La svolta della sua vita avvenne subito dopo la morte di Giulio Cesare (2), quando, appena 6 5 diciannovenne, fu capace di inserirsi nella lotta alla successione nonostante le considerazioni negative che su di lui aveva fatto Marco Tullio Cicerone (3, qui raffigurato dal pittore Cesare Maccari durante una delle sue invettive contro Catilina al Senato), almeno secondo la fantasiosa ricostruzione di 9 Williams. Nel libro gli eventi portano Augusto alla vittoria sugli uccisori di Cesare a Filippi, in Macedonia, nel 42 a.C. (4, il teatro in un annullo 7 8 greco) e alla successiva vittoria nel 41 a.C. sulla flotta di Antonio e Cleopatra (5, qui in versione cinematografica con Richard Burton ed Elizabeth 10 Taylor) avvenuta nei pressi del promontorio di Azio nel golfo di Ambracia, oggi Arta (6, il ponte romano). Il ricordo della battaglia di Azio, attraverso le ipotizzate memorie di Marco Agrippa, racconta di un Augusto a prua della sua nave (7) che contempla, 12 quasi commosso, il mare che nascondeva i cadaveri 11 di amici e nemici... Il romanzo si chiude con un’altra lettera immaginaria inviata a Seneca dal medico di Augusto, Filippo di Atene, negli ultimi mesi di vita dell’imperatore, il quale rimprovera i giovani perché sottovalutano ciò che il sommo Augusto aveva fatto per la grandezza di IL CIFT. Questa rubrica è curata dal Roma. E allora «rimediamo» citando alcune delle CIFT (Centro Italiano di Filatelia maggiori realizzazioni e imprese di Augusto cosí Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla 13 come ricordate dai francobolli appartenenti alla già redazione di «Archeo» o al CIFT, citata serie del 1937: Censí la popolazione (8), anche per qualsiasi altro tema, Ammodernò l’Agricoltura (9) e il Commercio (10). ai seguenti indirizzi: Per concludere, la sua statua piú nota, trovata a Segreteria c/o Luciano Calenda Roma nella villa di Livia in località Prima Porta e Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa oggi ai Musei Vaticani. La proponiamo nelle Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it versioni realizzate dalle amministrazioni postali di oppure www.cift.it Italia (11), Città del Vaticano (12) e Madagascar (13).

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IL IN 15 ED FE IC BB OL RA A IO

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

MANN

IL VERSO IL FUTURO

La storia, i tesori e l’attualità del Museo Archeologico Nazionale di Napoli


C’

è un luogo, a Napoli, dove l’antico guarda al futuro: è il Museo Archeologico Nazionale, una delle piú ricche e prestigiose collezioni di antichità del mondo, alla quale è dedicata la nuova Monografia di «Archeo». Il MANN, questa la sigla dell’istituto, vanta infatti una lunga storia, che prende avvio già nel XVIII secolo, ma, soprattutto negli ultimi anni – come sottolinea Paolo Giulierini, che ne è l’attuale direttore e che ha firmato i testi che ora presentiamo – ha rafforzato il suo impegno per moltiplicare gli strumenti di fruizione dei suoi tesori, avvalendosi delle potenzialità offerte dalla tecnologia e dallo sviluppo del web. Tutto questo, naturalmente, senza fare ombra alla ricchezza delle sue raccolte, che valgono ben piú di una visita. Basti pensare, solo per fare due degli esempi piú significativi, che il Palazzo degli Studi custodisce la straordinaria Collezione Farnese – giunta ai piedi del Vesuvio dopo che i Borbone si erano imparentati con la famiglia dell’illustre cardinale Alessandro – e una spettacolare selezione delle pitture pompeiane, staccate dalle domus nelle quali facevano bella mostra di sé e che ora compongono una pinacoteca unica al mondo, grazie alla quale si può ripercorrere uno dei momenti piú significativi della storia dell’arte antica. Tutto questo e molto altro viene dunque narrato e descritto nei vari capitoli della Monografia, forte di un apparato iconografico di pregio assoluto, nel quale figurano, fra le altre, anche le magistrali riprese fotografiche di Luigi Spina.

GLI ARGOMENTI • L A STORIA • LE COLLEZIONI • LA DOCUMENTAZIONE Una sala del Museo Archeologico Nazionale di Napoli con, in primo piano, il gruppo scultoreo dei Tirannicidi (Armodio e Aristogitone), rinvenuto a Villa Adriana, a Tivoli. II sec. d.C.

• I RAPPORTI INTERNAZIONALI • UN MUSEO SOCIAL

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CALENDARIO

Italia ROMA Il viaggio di Enea

Da Troia a Roma Tempio di Romolo, Foro Romano fino al 10.04.23

La mummia di Ramses

Il faraone immortale Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo, «Sapienza» Università di Roma fino al 14.06.23

La Roma della Repubblica Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.09.23

MILANO Recycling Beauty Fondazione Prada fino al 27.02.23

Machu Picchu e gli imperi d’oro del Perú Mudec-Museo delle Culture fino al 19.02.23

Il lampadario di Cortona

Dal collezionismo delle origini alle raccolte contemporanee Fondazione Luigi Rovati, Spazio Bianco fino al 05.03.23

L’Orante

(…nel tuo nome alzerò le mie mani…) Museo di Sant’Eustorgio e della Cappella Portinari fino al 09.04.23 (prorogata)

La stele di Vicchio

Fondazione Luigi Rovati, Piano Ipogeo fino al 16.07.23

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23

BOLOGNA I Pittori di Pompei

Museo Civico Archeologico fino al 19.03.23

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

NAPOLI Bizantini

Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario Museo Archeologico Nazionale fino al 13.02.23

PORTICI (NAPOLI) Materia Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.10.23 34 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

SANTARCANGELO DI ROMAGNA (RIMINI) Lo spazio del tempo

Calendari romani tra ritmi naturali e culturali MUSAS-Museo storico archeologico di Santarcangelo di Romagna fino al 21.05.23

TORINO Sedersi allegramente davanti al dio: le cappelle votive di Deir el-Medina

Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino all’19.03.23

Il dono di Thot

Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23

TRENTO Lascaux Experience

La grotta dei racconti perduti MUSE-Museo delle Scienze fino al 12.02.23

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

I creatori dell’Egitto eterno Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone Basilica Palladiana fino al 07.05.23

Grecia ATENE Ritorno a casa

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Regno Unito LONDRA Geroglifici

L’antico Egitto rivelato British Museum fino al 19.02.23

Svizzera BASILEA Ave Caesar

Romani, Galli e tribú germaniche sul Reno Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 30.04.23

USA NEW YORK Chroma

La scultura antica a colori The Metropolitan Museum of Art fino al 26.03.23

Francia PARIGI Oro e tesori

3000 anni di ornamenti cinesi L’École des Arts Joailliers fino al 14.04.23

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo

«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23

Germania FRANCOFORTE I misteri di Mitra

Un culto romano visto da vicino Museo Archeologico fino al 10.04.23

Vite degli dèi

La divinità nell’arte dei Maya The Metropolitan Museum of Art fino al 02.04.23 a r c h e o 35


L’INTERVISTA • ROMA

Veduta aerea del sito di Arslantepe (la «collina dei leoni»), presso l’odierna Malatya (Turchia orientale). Sullo sfondo, il fiume Eufrate.

40 ANNI SULLA

COLLINA DEI LEONI incontro con Marcella Frangipane, a cura di Flavia Marimpietri e Andreas M. Steiner

Il 9 febbraio 2023 l’Università di Roma «Sapienza», con una giornata di celebrazioni dal titolo «Arslantepe 2023: passato, presente e futuro di un nuovo sito patrimonio mondiale UNESCO», ha festeggiato un duplice evento: l’iscrizione del sito archeologico di Arslantepe (la «collina dei leoni»), in Turchia, nelle liste dei beni patrimonio dell’umanità, sancita nel 2021, e il traguardo degli oltre 60 anni ininterrotti di scavo del sito da parte della Missione Archeologica Italiana in Anatolia Orientale. Un riconoscimento atteso da tempo, che sancisce l’importanza mondiale di Arslantepe come testimonianza archeologica in sé, per l’eccezionale stato di conservazione del palazzo in mattoni crudi e per l’innovativa presentazione al pubblico dei 36 a r c h e o


resti archeologici, ma anche per i processi storici testimoniati dal sito per la prima volta in assoluto e documentati strato per strato grazie a decenni di scavo archeologico. Ce ne parla Marcella Frangipane, docente di Preistoria e Protostoria del Vicino e Medio Oriente all’Università «Sapienza» di Roma, che ha dedicato 45 anni della sua vita allo studio di Arslantepe, di cui 30 è stata direttrice della missione archeologica italiana. ♦ Che cosa rappresenta, per lei e piú in genere per il mondo dell’archeologia, l’iscrizione di Arslantepe tra i beni patrimonio UNESCO? «È un riconoscimento che arriva dopo 60 anni di scavo archeologico nel sito dell’Università “Sapienza”, essendo Arslantepe un “grande scavo d’Ateneo”, nonché dopo una lunga procedura, che ho seguito personalmente insieme al personale del ministero della Cultura di Turchia. L’archeologia indaga fenomeni complessi e, per capirli, ha bisogno di tempi lunghi. Ad Arslantepe si sovrappongono decine di livelli e millenni di storia in una collina stratificata (un tell) alta 30 m. Lo scavo ha preso il via nel 1961, mentre la Marcella Frangipane, docente di preistoria e scoperta del cosiddetto “Edificio delle Udienze” (l’ulprotostoria del Vicino e Medio Oriente timo portato in luce nel complesso di edifici pubblici all’Università «Sapienza» di Roma, ha dedicato 45 della seconda metà del IV millennio a.C.) risale al anni allo scavo del sito di Arslantepe e ha diretto 2014! Con il tempo, scavando su un’area sempre piú la Missione Archeologica Italiana in Anatolia estesa, siamo arrivati a capire che si trattava di un veOrientale dal 1990 al 2020. Accademica dei Lincei, ro e proprio palazzo, fatto del tutto innovativo per ha ottenuto numerosi riconoscimenti, soprattutto quel periodo. Il sistema del potere si era, cioè, laicizall’estero: è stata eletta membro straniero della zato: le funzioni politiche e quelle economiche non National Academy of Science degli USA, della avvenivano piú all’interno di un tempio o di un ediBritish Accademy, dell’Istituto Archeologico ficio sacro, ma in aree a tali funzioni specificamente Germanico di Berlino e dell’Archaeological destinate. È un fatto del tutto nuovo per il IV millenInstitute of America. Nel 2015 è stata premiata dal nio a.C., che rende Arslantepe un sito unico nel paforum cinese internazionale Shangai Archaeology norama del mondo antico. Tra gli aspetti che hanno Forum con la consegna del Discovery Award, convinto l’UNESCO a riconoscere Arslantepe patrimentre in Italia, nello stesso anno, ha ricevuto il monio dell’umanità, anche l’eccezionale stato di conPremio Vittorio De Sica per la Scienza e, nel 2017, servazione dei poderosi muri in mattoni crudi, che si il Premio Rotondi ai Salvatori dell’Arte. elevano per un’altezza media di due metri, ancora oggi coperti dagli intonaci originali, con straordinarie pitture e decorazioni. Ma anche la modalità di con- pubbliche diverse, politiche, economiche, amministraservazione e di presentazione al pubblico di questi tive, come emerge dagli studi effettuati sui materiali importanti resti archeologici». trovati sui pavimenti. Nel 2014 abbiamo scoperto che il palazzo terminava in un edificio assolutamente inno♦ Intorno alla seconda metà del IV millennio a.C., vativo per l’epoca, destinato a ricevere il pubblico: il ad Arslantepe accade dunque un fatto straordi- cosiddetto “Edificio delle Udienze”. A quel tempo, in nario, non documentato altrove per l’epoca. Na- Mesopotamia, la cultura sumerica faceva i primi passi, sce il primo palazzo pubblico del mondo antico. con la formazione di grandi città, tra cui Uruk, e la nascita di un potere centrale, ovvero di un’organizzaCi vuole raccontare? «Negli anni è stato portato in luce un complesso di zione proto-statuale che gestiva e organizzava l’econoedifici pubblici in mattoni crudi, conservato in modo mia di base delle comunità attraverso il controllo del eccezionale in altezza, con decorazioni parietali e di- lavoro e del flusso di beni prodotti con l’agricoltura e pinti figurativi, costituito da settori destinati a funzioni l’allevamento. Lo stesso accade, contemporaneamente, a r c h e o 37


L’INTERVISTA • ARSLANTEPE

ad Arslantepe. La cultura di Uruk, infatti, nel IV millennio a.C., dal cuore della bassa Mesopotamia, tocca numerose altre regioni lungo la valle del Tigri e dell’Eufrate, fino alle sorgenti dei due fiumi sulle montagne dell’Anatolia sudorientale. Tutta l’area è coinvolta da contatti culturali intensi e fenomeni di sviluppo molto simili, in relazione fra loro, per questo si può parlare di una sorta di “globalizzazione” ante litteram». ♦ Con la costruzione del palazzo di Arslantepe (datato al 3400-3200 a.C.) nasce qualcosa di molto diverso dal punto di vista dell’organizzazione politica… «A quel tempo, nella maggioranza dei siti la sede del potere era nel tempio e il consenso era di tipo religioso e cultuale/cerimoniale. Ad Arslantepe, invece, a partire dal 3400 a.C., i templi (dove si svolgevano sia i culti che la distribuzione di cibo ai partecipanti) vengono abbandonati per costruire un complesso architettonico pubblico completamente diverso: il palazzo. Il nucleo piú antico è quello scoperto nel 2014, nella zona Nord del complesso, dove si trovava l’“Edificio delle Udienze”, che ha aggiunto tessere fondamentali per ricostruire il nuovo modo di esercitare il potere ad Arslantepe intorno alla metà del IV millennio a.C. L’edificio era composto da una sala centrale munita di una bassa piattaforma, che comunicava alle spalle con residenze importanti. Si tratta di case imponenti, con pitture e tracce di decorazioni, appartenenti alle élite,

forse agli stessi governanti. La sala si apriva alle spalle verso queste residenze, mentre frontalmente dava su una piccola sala, munita di un podio con tre gradini (alto circa 60 cm), che si apriva a sua volta verso un cortile molto grande in cui il popolo si riuniva, ma oltre cui non poteva andare. Al cortile si accedeva da un corridoio con decorazioni e pitture». ♦ L’«Edificio delle Udienze» venne incendiato, come tutto il palazzo, circostanza che ha permesso di conservare fino ai giorni nostri legni, tracce organiche e residui alimentari…che cosa avete scoperto? «Sul podio della piccola sala, abbiamo trovato tracce di legni diversi e piú piccoli degli altri legni caduti dal tetto: le analisi hanno rivelato che si tratta di pregiato legno di ginepro, a differenza dei tronchi del tetto che erano di pino, quercia o ontano. Il podio guardava verso il cortile, di fronte a esso si trovavano due basse piattaforme di argilla allineate. La mia interpretazione è che quel legno appartenesse a un sedile: una sorta di trono in cui l’autorità si sedeva per ricevere la popolazione che si presentava al suo cospetto posizionandosi sulle due piattaforme, come segnacoli prestabiliti oltre cui non si poteva andare. Si trattava cioè di una sorta di rituale laico nel quale il pubblico rimaneva fuori dall’edificio». ♦ Con la nascita del palazzo, ad Arslantepe, il popolo quindi rimane «fuori»?

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La posizione di Arslantepe nel contesto del Vicino Oriente. Nella pagina accanto, in alto: il palazzo del IV mill. a.C., prima dello scavo dell’«Edificio delle Udienze» (sullo sfondo) e della messa in opera della copertura. Nella pagina accanto, in basso: l’ingresso e il lungo corridoio dopo la musealizzazione del sito (vedi anche a p. 41).


«Sí. Mentre all’epoca dei templi (prima metà del IV millennio, 3600-3500 a.C.) la popolazione veniva accolta e entrava nel tempio durante le cerimonie, come dimostra la sala centrale con quattro entrate, e lí riceveva cibo in forma di pasti cerimoniali, attestati da migliaia di ciotole prodotte in serie e centinaia di impressioni di sigillo, con il palazzo il pubblico rimane nel cortile. La sala alle spalle del trono è a ingresso riservato: entrano solo gli autorizzati, che accedono da una stanzetta laterale, mentre il popolo viene escluso dalla partecipazione diretta alla vita pubblica.Viene ricevuto dall’autorità secondo un cerimoniale di tipo laico, in cui gli viene concessa udienza». ♦ Quindi ad Arslantepe, come suggeriscono i ritrovamenti archeologici, il potere assume una forma laica molto precocemente… «Sí, è cosí. La popolazione interagisce con l’autorità e i suoi delegati nella sfera economica, nei magazzini del palazzo. Quel primo nucleo architettonico infatti si espande velocemente, arricchendosi di edifici dalle funzioni piú diverse. Ci sono aree di rappresentanza (dove abbiamo rinvenuto le piú antiche spade finora conosciute, databili al 3200 a.C.), magazzini per le derrate alimentari pieni di vasi, cortili, spazi usati per le attività amministrative e anche due templi, piú piccoli di prima e – io credo – riservati a pochi, poiché la sala principale non ha accesso per il pubblico, che guarda i rituali dalle finestre. È cambiato il rapporto tra il pote-

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L’INTERVISTA • ARSLANTEPE

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Al cospetto dei potenti Scoperto nel 2014, l’«Edificio delle Udienze», di cui qui sono presentate l’assonometra e una ricostruzione, era composto da una sala centrale munita di una bassa piattaforma, che comunicava alle spalle con residenze importanti. Sono case imponenti, con pitture e tracce di decorazioni, appartenenti alle élites, forse agli stessi governanti di Arslantepe.

Tempio B

Edificio delle udienze

Ingresso

Tempio A

Edificio delle udienze

Tempio B Corridoio Dipinto Magazzini

Tempio A

Porta Monumentale

Nella pagina accanto, dall’alto: l’«Edificio delle Udienze» visto dall’alto e il basamento del sedile che potrebbe essere stato utilizzato come trono.

re centrale e la popolazione, non piú chiamata a partecipare ma lasciata fuori. Si abbandona il consenso di tipo religioso e si ricorre a strumenti diretti di esercizio dell’autorità politica ed economica». ♦ Nel palazzo di Arslantepe avete trovato un intero archivio di cretule: oltre 6000. Ci sono voluti 20 anni per studiarle tutte… Ci spiega la funzione di questi frammenti di argilla? «Si tratta di grumi di argilla che si apponevano sulle chiusure dei contenitori e sulle porte dei magazzini, su cui si imprimeva un sigillo. Il sigillo veniva apposto da chi prelevava il cibo e, ogni volta che la cretula veniva tolta dal contenitore per effettuare un nuovo prelievo, veniva accantonata e conservata per un certo periodo. Non essendo stata ancora inventata la scrittura, le cretule costituivano una sorta di ricevuta a testimonianza delle transazioni avvenute ed erano utilizzate per rendicontare le distribuzioni di cibo alla popolazione. Abbiamo lavorato per piú di due decenni per ricostruire la funzione di questi oggetti, analizzando la relazione tra sigilli e contenitori sigillati e la loro posizione negli ambienti del palazzo. Le circa 6000 cretule scoperte erano tutte in situ, alcune nel magazzino di distribuzione delle derrate, altre in una stanzetta laterale di uno dei due templi, moltissime, poi, in uno spazio stretto e lungo in cui venivano gettate probabilmente dopo il conteggio, come una sorta di archivio scartato». ♦ Che cosa è emerso grazie al lunghissimo lavoro di scavo dell’archivio di cretule? «Ci sono voluti vari anni di scavo per rimuovere i numerosi straterelli pieni di cretule che riempivano la stanza del cosiddetto archivio, distinguendoli attentamente l’uno dall’altro. Il loro studio ha dimostrato che a ogni strato corrispondevano le cretule di un insieme di transazioni simili, prima distinte e conteggiate e poi gettate. L’esistenza di un’amministrazione complessa e di una contabilità cosí sofisticata, in assenza di scrittura, ha permesso di capire che l’economia centrale si basava su distribuzioni di cibo e che le ciotole rappresentavano il salario di chi lavorava nel palazzo. Questo significa la nascita dell’alienazione del lavoro: i meno abbienti non lavorano piú per sé ma prestano il proprio lavoro ad altri, in particolare alle élites di governo. Nascono le disuguaglianze: chi non ha la possibilità di procurarsi il cibo (perché ha terre improduttive e non riesce ad alimentare la famiglia), lavora per qualcun altro e viene ricompensato». ♦ Potremmo dire che ad Arslantepe, quando il potere prende in mano l’economia, nascono le disuguaglianze tra ceti sociali… «Si forma una società piú complessa in cui le persone a r c h e o 41


L’INTERVISTA • ARSLANTEPE

non sono uguali e non tutti sono in grado di provvedere al proprio sostentamento. Nasce un potere centrale che controlla mezzi di produzione, capi di bestiame da portare al pascolo e terra da coltivare, e che necessita di lavoratori per renderli produttivi. E sorgono le città, luoghi dove cresce la disuguaglianza, con quartieri di ricchi e di poveri». ♦ In questo senso Arslantepe testimonia per la prima volta la nascita dello Stato, una struttura politica organizzata con deleghe di potere e figure intermedie che gestiscono la cosa pubblica? «Esattamente. Ad Arslantepe non c’è una città, ma un palazzo che racchiude tutte le funzioni del potere e documenta la nascita dello Stato perché, come mostrano i dati archeologici, il potere viene esercitato attraverso deleghe. La presenza nell’archivio di sigilli apposti anche sulle porte indica che funzionari delegati chiudevano e sigillavano i magazzini. È nata la burocrazia, con funzionari che amministrano per conto dell’autorità». ♦ Quali soluzioni avete scelto per rendere visitabile il sito? «Dal 2011 ad Arslantepe abbiamo realizzato un museo all’aperto. Il visitaIn alto: l’interno del magazzino del palazzo di Arslantepe in corso di scavo. La struttura era adibita alla distribuzione del cibo. A sinistra, in alto: ricostruzione del contenuto del magazzino di distribuzione. Qui accanto: olle di varie dimensioni rinvenute nel palazzo.

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Ricostruzione grafica dei vasi collocati all’interno del Tempio B. In basso: esemplari delle ciotole di cui ad Arslantepe è attestata la produzione di massa. Utilizzati per la distribuzione del cibo sotto forma di pasti cerimoniali, i vasi venivano realizzati con l’uso del tornio lento.

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L’INTERVISTA • ARSLANTEPE

In questa pagina: il dipinto parietale scoperto nel palazzo di Arslantepe e raffigurante una figura umana stilizzata, presumibilmente seduta su un sedile-trono sotto un baldacchino.

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I sistemi di sigillatura La sigillatura dei beni si basava su un principio semplice ma efficace: chi prelevava il bene apponeva il sigillo sulla cretula fresca, probabilmente davanti al responsabile del magazzino. Cosí, quando il contenitore veniva riaperto per consegnare altra parte del suo 3 contenuto a un’altra persona con diritto di prelievo, si rompeva la cretula precedente ormai indurita, che comunque poteva mantenere una funzione di documento in quanto rappresentava la prova dell’avvenuta operazione e funzionava pertanto come una sorta di ricevuta. 1. Cretula con 4 impronta di sigillo a stampo. 2. Sacco sigillato da una cretula. 3-4-5. Sistemi di chiusura e relativa sigillatura delle porte del palazzo di Arslantepe.

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tore può accedere all’interno del palazzo del 3400 a.C., percorrerne i corridoi e visitarne le stanze. È possibile entrare fisicamente all’interno di edifici di 5400 anni fa, come si fa nel Colosseo. Quando ho reso pubblica l’importanza di questi ritrovamenti, le autorità turche hanno avviato la procedura di iscrizione del sito alle liste del Patrimonio UNESCO: lavorando insieme, in otto anni si è arrivati alla meta. Nel 2019 Arslantepe ha ricevuto l’ispezione dell’ICOMOS, il Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti, organizzazione non governativa che collabora con l’UNESCO. Durante la visita, sono stati riconosciuti diversi aspetti del

sito che sono un patrimonio per l’umanità. Prima di tutto il palazzo, una testimonianza davvero unica, poi le molte culture che nel sito si sono succedute e intrecciate, i metodi di conservazione applicati, e l’integrità assoluta dei resti archeologici: tutto è originale e non vi sono ricostruzioni». ♦R esti archeologici unici ma molto fragili, trattandosi di mattoni crudi o pitture a colori naturali. Come li avete protetti dagli agenti atmosferici? «C’è stato uno studio approfondito per la conservazione (segue a p. 48) a r c h e o 45


L’INTERVISTA • ARSLANTEPE

LA STORIA DEL SITO E DEL SUO SCAVO C’è ancora molto da scavare, ad Arslantepe. «Si potrebbe continuare all’infinito», chiosa Marcella Frangipane, che ha dedicato 45 anni della sua vita allo scavo del sito. Ma cominciamo dall’inizio… «La parte piú antica del sito è ancora da indagare. Rimangono inesplorati i livelli piú bassi nella zona ovest, dove sorge il nucleo piú antico della collina di Arslantepe (che poi si espande verso est, su una superficie di 4-5 ettari, con un’altezza di circa 30 m). A ovest si conservano resti del V millennio a.C., indagati solo in minima parte, mentre il VI millennio a.C. è testimoniato da ceramiche della cultura cosiddetta “di Halaf”. I livelli scavati piú estensivamente sono quelli del IV millennio a.C., con il periodo Tardo Calcolitico, quando in Mesopotamia si sviluppa la cultura di Uruk e ad Arslantepe emergono le prime élites, con strutture centralizzate e templi sacri. Nella seconda metà del IV millennio a.C. c’è il palazzo, che è la principale novità di Arslantepe. La laicizzazione precoce suggerita dal palazzo, insieme alla probabile assenza di una struttura sociale originariamente gerarchica alle spalle e l’assenza di quella urbanizzazione che in Mesopotamia aveva consolidato il potere statale, resero, io credo, il sistema centralizzato di Arslantepe fragile, causandone il collasso. Alla fine del IV millennio a.C. (3200 a.C.) si verifica un grande incendio, il palazzo viene distrutto e mai piú ricostruito. Non è un incendio occasionale. A mio avviso è la ribellione della popolazione circostante: agricoltori e pastori che interagivano con il palazzo pur essendo indipendenti. La mia ipotesi è che le due componenti si allearono e distrussero il potere che li aveva dominati. Tra il 3100 e il 46 a r c h e o

2800 a.C. lo scavo archeologico mostra una chiara alternanza di capanne di pastori e case in mattoni crudi di agricoltori. Prima le due componenti erano tenute sotto controllo dal palazzo, ora entrano in competizione tra loro. Intorno al 3200 a.C., dopo la distruzione del palazzo, i gruppi che prima facevano parte del sistema centralizzato iniziano a contendersi il sito, dando vita a un lungo periodo di cambiamenti e instabilità. Intorno al 2500 a.C., gli agricoltori prendono il sopravvento, il sito si riorganizza sotto forma di piccola città. Tra 2500 e 2100 a.C., nell’Antica età del Bronzo III, Arslantepe è una piccola città fortificata, con mura e bastioni, ma senza l’organizzazione centralizzata precedente. Nonostante i cambiamenti politici e sociali anche radicali, la popolazione di Arslantepe, alle analisi del DNA finora fatte sui pochi resti umani dei vari periodi, geneticamente non mostra significative differenze (gli individui analizzati sono stati classificati come di origine “irano-caucasica”). Dal II millennio a.C. in poi Arslantepe entra nell’orbita del mondo ittita (abbiamo trovato ceramiche e porte urbiche simili alle evidenze centro anatoliche), e con lo sviluppo dell’impero ittita, dal 1600 al 1200 a.C. circa, diviene un avamposto dell’impero sull’Eufrate, il grande fiume che costituiva un confine con il mondo assiro». Arslantepe è sempre stata un luogo di confine… «Sí, questo è l’altro aspetto interessante: un punto di snodo tra mondo mesopotamico a sud, estanatolico e caucasico a nord-est, centro-anatolico a nord-ovest. La multiculturalità del sito, che rappresenta molte culture che si sovrappongono e si mescolano, è un

Il muro di cinta della cittadella della prima fase dell’età del Ferro (1000-900 a.C.). Nella pagina accanto, in basso: bassorilievo in pietra della prima età del Ferro rinvenuto nell’area del muro di cinta.

altro aspetto riconosciuto dall’UNESCO. Il suo libro Un frammento alla volta, appena pubblicato dall’editore il Mulino, fa riflettere su come, nella storia, alcune dinamiche politiche, economiche e sociali sembrino render conto di fenomeni cruciali delle nostre società contemporanee. Davvero Arslantepe «insegna»? «Arslantepe mostra come la mescolanza dei popoli è sempre esistita e, quando ha funzionato bene, ha portato sviluppo. La paura del migrante che abbiamo oggi è storicamente infondata, perché la storia insegna che se le diversità si integrano, si arricchiscono reciprocamente. Quando invece c’è rifiuto, resistenza, e conflitto questo porta al collasso. Questo Arslantepe lo insegna con molta chiarezza. L’archeologia, in fondo, è scavare nel passato per capire le radici di quanto accade oggi: l’origine della famiglia, dello Stato, delle disuguaglianze, del concetto di territorio, del legame tra passato e presente. Tutto questo ho cercato di raccontare nel mio libro».


Come finisce, poi, la storia di Arslantepe? «Intorno al 1200 a.C. l’impero ittita crolla e Arslantepe diventa un regno autonomo. Non collassa con il resto dell’impero (aveva mantenuto autonomia), al contrario diventa capitale di un piccolo regno autonomo sull’Eufrate. Il nome ci arriva dai testi delle civiltà vicine: si chiamava Malitiya in epoca ittita, poi Melid, nella fase in cui è capitale dell’omonimo regno, durante l’età del Ferro. La città viene distrutta nel 712 a.C. dal re assiro Sargon II e con questo evento finisce la storia importante di Arslantepe: il sito viene abbandonato fino all’arrivo dei Romani, che si insedieranno a Eski Malatya (Malatya vecchia), con un castrum, mentre ad Arslantepe costruiranno solo un piccolo villaggio nel V-VI secolo d.C. La città sarà chiamata dai Romani Melitene, oggi Malatya, in una straordinaria continuità etimologica con il passato. Fu l’archeologo francese Louis Delaporte a condurre i primi scavi archeologici negli anni Trenta del

Novecento, portando alla luce la famosa “Porta del Leoni” di epoca neo-ittita, costruita nell’ultima fase gloriosa di Arslantepe, quando essa era Melid, e nota per la ricchezza del suo repertorio iconografico. I leoni emergevano sulla sommità della collina e da essi deriva il nome del sito: Arslan vuol dire “leone” e tepe “collina”, “la collina dei leoni”. A dare la prima concessione di scavo fu Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore e primo

Presidente della Repubblica di Turchia. Nel 1961 la Missione Archeologica Italiana diretta da Salvatore M. Puglisi dell’Università di Roma “Sapienza”, all’inizio insieme a Piero Meriggi dell’Università di Pavia, riprese le indagini ad Arslantepe, approfondendo e allargando gli scavi in un progetto di lunga durata e ampio respiro. La direzione fu poi assunta da Alba Palmieri, docente di preistoria e protostoria del Vicino Oriente alla “Sapienza”, che è stata la mia maestra. A lei sento di dovere tutto, dall’insegnamento del metodo di scavo e di lavoro a quello del modo di relazionarsi con le persone. Sono grata anche ai colleghi turchi, alla Direzione Generale delle Antichità della Turchia e alle autorità locali di Malatya, tutti sempre molto collaborativi e di grande aiuto, e naturalmente ai miei tanti collaboratori. Ma il mio ringraziamento piú grande va agli operai e alla popolazione di Malatya e del villaggio di Orduzu, che mi hanno regalato bellissimi anni di lavoro insieme e che hanno reso ricca la mia vita». a r c h e o 47


L’INTERVISTA • ARSLANTEPE

e presentazione al pubblico dei resti archeologici. Abbiamo realizzato un tetto autoportante senza fare neanche un buco per terra: sotto ci sono altri livelli archeologici e qualcuno, un giorno, potrebbe volerli indagare. La struttura della copertura è necessariamente metallica, i pali sono stati collocati lungo il perimetro dei muri, senza gravare su di essi e in modo da non invadere le stanze, i tetti all’interno sono stati rivestiti di legno per richiamare materiali, colori e atmosfera dei tetti antichi. Le parti aperte degli edifici, come i cortili, sono state coperte in vetro, cosí la luce naturale può entrare come in passato. I dipinti sono stati lasciati in situ: una doppia copertura li protegge da pioggia e neve durante l’inverno, delle tende li riparano da polvere e luce del sole. Le pitture sono lí da 30 anni, perfettamente conservate con i loro colori naturali in ocra e carbone su argilla. Non abbiamo applicato nessun trattamento ai pigmenti, se 48 a r c h e o

non inizialmente una mano di paraloid molto diluito. La conservazione, resa possibile dallo straordinario lavoro della restauratrice Pina Fazio dell’ICR, si basa sul monitoraggio annuale, su piccole riparazioni e manutenzione. Anche l’aerazione è fondamentale, per cui abbiamo lasciato aperti i lati. L’UNESCO ha apprezzato molto il modo in cui abbiamo conservato i resti archeologici, oltre che i reperti in sé». ♦L a popolazione locale, che abita la moderna città di Malatya, in Turchia, come ha vissuto questi 60 anni di scavo italiano nel sito? «Sono orgogliosa per il rapporto meraviglioso stabilito con la gente del posto durante questi lunghi anni di scavo archeologico. Le famiglie degli operai sono le stesse da generazioni: hanno scavato ad Arslantepe prima i nonni, poi i genitori, ora i figli. Con il tempo


Placchetta in avorio riferibile alla fase di frequentazione neo-ittita del sito di Arslantepe. Nella pagina accanto: Marcella Frangipane mostra una cretula appena restituita dallo scavo.

ho visto cambiarne le condizioni sociali: i nonni e i padri erano contadini, oggi figli e nipoti sono studenti universitari. C’è stata un’appropriazione profonda del sito archeologico da parte delle persone del posto, che considerano Arslantepe una cosa “loro”. Per questo la proteggono. Il coinvolgimento della popolazione nel progetto di scavo è stato molto apprezzato dall’UNESCO. La delegazione dell’ICOMOS ha incontrato la popolazione del luogo. È stato bellissimo: quando gli ispettori hanno chiesto per quale motivo il sito di Arslantepe fosse importante per loro, uno degli operai piú anziani si è alzato in piedi, li ha guardati con aria di sfida e ha detto: “Arslantepe è nostra”. Non ha detto è importante, ma è “nostra”. Non a caso la popolazione locale difende il sito archeologico in prima persona: non abbiamo subito nemmeno un tentativo di scavo clandestino. Appena sopraggiunge un’auto sconosciuta, il guardiano di Arslantepe viene immediatamente avvertito dalla popolazione locale. Quando nel luglio 2021, con Francesca Balossi, mia ex allieva e attuale direttrice dello scavo, abbiamo partecipato a distanza (su richiesta dei Turchi) alla riunione del Comitato plenario dell’UNESCO per il riconoscimento del sito, è stato

magnifico: non ci sono state obiezioni. I membri del comitato non hanno avuto dubbi. Oggi la gente del posto è felice. Questo è il frutto di anni di lavoro e soprattutto delle buone relazioni instaurate con la popolazione e le autorità locali, oltre che tra noi del team di archeologi, specialisti di varie discipline, restauratori e disegnatori. Eravamo e siamo tutti partecipi dello stesso progetto, con gli stessi obiettivi. Il riconoscimento del sito come patrimonio dell’umanità è stato per me il frutto del lavoro di una vita: ho scavato ad Arslantepe 45 anni e ne ho diretto lo scavo per 30 anni, dal 1990 al 2020. Non potevo desiderare di piú». PER SAPERNE DI PIÚ Marcella Frangipane, Un frammento alla volta. Dieci lezioni dall’archeologia, il Mulino, Bologna 2023 ISBN 978-88-15-38289-4 www.mulino.it a r c h e o 49


SCOPERTE • INGHILTERRA

IL TESORO DELLA GRAN DAMA NEI PRIMI SECOLI DEL MEDIOEVO ANCHE L’INGHILTERRA VIENE INVESTITA DALL’ONDATA EVANGELIZZATRICE PARTITA DALL’EUROPA. E PROPRIO AGLI ALBORI DEL CRISTIANESIMO BRITANNICO RISALE LA SPETTACOLARE SEPOLTURA FEMMINILE SCOPERTA A HARPOLE, NEI PRESSI DI NORTHAMPTON. UNA TOMBA RISERVATA A UNA SIGNORA DI RANGO, ACCOMPAGNATA DA UN CORREDO ECCEZIONALMENTE RICCO di Elena Percivaldi

L

a scoperta risale all’aprile dell’anno scorso, ma è stata resa pubblica solo poche settimane fa, quando gli archeologi del MOLA (Museum of London Archaeology) ne hanno illustrato i primi dettagli: in occasione della costruzione di un complesso residenziale nei pressi di Harpole, villaggio inglese situato 4 miglia circa a ovest di Northampton, è venuta alla luce una tomba femminile altomedievale, definita «la piú sontuosa e ricca mai scavata nel Regno Unito». A renderla eccezionale è il corredo, composto da una preziosa collana e da una croce: la prima è già emersa in fase di scavo in tutto il suo splendore, mentre la seconda, evidenziata dalle radiografie, resta per il momento ancora imprigionata in un blocco di terra in attesa di essere «liberata» e studiata. L’acidità del suolo ha impedi-

50 a r c h e o

to, purtroppo, la conservazione di elementi organici di rilievo a eccezione di alcuni frammenti di smalto dentale appartenenti alla salma: troppo poco per poter risalire con certezza al sesso. La tipologia degli oggetti di corredo rinvenuti sembra comunque indicare che si tratti di una sepoltura femminile. Quanto alla datazione, lo stile decorativo dei monili riporta al pieno VII secolo, verosimilmente tra il 630 e il 670 circa.

IL PRIMO INDIZIO: DUE DENTI La tomba, ha spiegato il supervisore degli scavi Levente-Bence Balázs, è tornata alla luce a Harpole durante il penultimo giorno delle indagini, in corso da poco piú di una settimana su terreni destinati a ospitare,

Collana avente al centro un pendente con granati rossi inseriti in celle d’oro che disegnano un motivo a croce, dalla sepoltura femminile rinvenuta a Harpole, presso Northampton. VII sec. Nella pagina accanto, a sinistra: ricostruzione grafica della sepoltura di Harpole. Nella pagina accanto, a destra: ricostruzione grafica della collana con il pendente decorato da un motivo a croce.


come accennato, un complesso residenziale. Ripulendo quella che sembrava essere una normale discarica di materiali, l’archeologo si è trovato per le mani due denti frammentati, chiaro indizio che lí sotto si celava una sepoltura. Scostando con cautela la terra, ha intravisto un oggetto di forma rettangolare: «Vedendo i riflessi d’oro che illuminavano il terreno – ha raccontato alla stampa con una certa emozione – ci siamo subito resi conto che quello che stavamo per disseppellire era un manufatto di grande pregio e valore». Quanto fosse prezioso, però, Levente-Bence Balázs e colleghi lo avrebbero scoperto soltanto nelle settimane seguenti, dopo averlo esaminato con calma e attenzione. L’oggetto misterioso era, in effetti, il pendente centrale di una splendida collana composta da diversi elementi. I granati rossi, inseriti in celle d’oro secondo la tecnica del cloisonné (o lustro di Bisanzio), disegnavano una cornice per poi intersecarsi al centro, creando un motivo a croce. Con a r c h e o 51


SCOPERTE • INGHILTERRA L‘INGHILTERRA ANGLOSASSONE (SEC. V-X) Lindisfarne

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CROCI E CORREDI PREZIOSI Quella di Harpole non è, per la verità, l’unica collana di questo genere ritrovata nelle sepolture altomedievali britanniche. Un possibile confronto è dato dagli esemplari di Desborough e di Galley Lowe, località situate rispettivamente a circa 25 km a nord-est di Harpole e nel Peak District, non lontano da Sheffield: entrambe presentano penden-

L’assetto geopolitico dell’Inghilterra all’epoca della sepoltura di Harpole. In basso: gli elementi e il pendente con motivo a forma di croce prima della loro ricomposizione. Nella pagina accanto, a sinistra: la restauratrice Liz Barham al lavoro sui resti recuperati a Harpole. Nella pagina accanto, a destra: la scoperta dei primi resti della collana.

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ogni probabilità, aveva avuto in origine una funzione diversa, forse come placca di chiusura, e solo in secondo tempo era stato riutilizzato per impreziosire la collana. Oltre alla placca, il gioiello presentava diciassette pendenti costituiti da gemme, perle di vetro decorato e monete romane, anch’esse di reimpiego; disposti in sequenza in maniera simmetrica, erano tenuti in posizione da vaghi d’oro piú piccoli, che fungevano da separatori.

Sussex

Wareham

Kent

Canterbury

Chichester

La Manica

regno sassone di Egberto del Wessex (802-839) linea di spartizione tra Danesi e Sassoni (886) colonie danesi dall’877 al 942

L’Inghilterra nel IX sec. regno del Wessex ducato di Mercia il «Danelaw» ducato di Northumbria


ti realizzati con granati rossi e la prima, in particolare, ne sfoggia uno centrale a forma di croce dorata. La foggia di questi gioielli rimanda alla moda bizantina e comprova l’esistenza di stretti rapporti culturali e commerciali con il Mediterraneo. Delle tre collane, però, quella di Harpole resta la piú variegata e complessa. Il prezioso monile non è, come già detto, l’unico pezzo del corredo dell’ignota «dama di Harpole». Oltre a due recipienti in ceramica d’importazione dall’attuale Francia o dal Belgio, offerti in dono durante il rituale funebre come suggeriscono i residui di mirra conservati sul fondo, ad accompagnare la defunta c’era una croce in metallo, individuata dagli archeologi esaminando ai raggi X i blocchi di terreno estratti dallo scavo. Dalla scansione risulta che la croce, di dimensioni ragguardevoli, appare anch’essa decorata con granati incastonati; ciascun braccio presenta inoltre all’estremità croci piú piccole, due delle quali terminano con piccoli volti umani realizzati in argento. Prossimamente il reperto sarà studiato nei dettagli; tuttavia sembra già certo che si tratti della prima croce di questo tipo rinvenuta in una sepoltura britannica.

Gli esemplari coevi finora noti presentano infatti differenze significative. Quella del celebre Staffordshire Hoard, uno dei piú ingenti tesori britannici (vedi «Archeo» n. 448, giugno 2022; anche on line su issuu.com), non appartiene a un contesto funebre, ma a un ricchissimo deposito risalente alla prima metà del VII secolo e fu deliberatamente piegata – forse per defunzionalizzarla? – prima di essere seppellita con gli altri oggetti preziosi; i suoi bracci, inoltre, sono decorati con motivi animalistici tipici dell’immaginario pagano, a testimonianza del momento di transizione e cambiamento culturale e religioso allora in corso nell’isola a seguito dell’attività dei missionari inviati dal Continente per predicare il cristianesimo.

Le croci di Wilton (Norfolk), Trumpington (Cambridgeshire) e Ixworth (Suffolk) sono caratterizzate da decorazioni cloisonné e presentano bracci corti e di dimensione uguale, che ricordano nella forma la croce rinvenuta nel 1827 nella tomba di san Cutberto, l’instancabile evangelizzatore e vescovo di Lindisfarne morto nel 687.

SUGLI OCCHI DEL DEFUNTO Allo stesso modo, non è possibile stabilire un confronto diretto con le due croci in lamina d’oro ritrovate nella stupefacente sepoltura «principesca» di Prittlewell (Essex), una tomba a camera maschile della fine del VI secolo con ricco corredo funebre: erano infatti collocate direttamente sugli occhi del defuna r c h e o 53


SCOPERTE • INGHILTERRA Lyn Blackmore, del Museum of London Archaeology, mostra il pendente con il motivo a croce. In basso: radiografia che evidenzia la presenza di una croce fra i materiali del corredo e due faccine in argento appartenenti alla sua decorazione. Nella pagina accanto, in alto: un momento delle operazioni di conservazione dei reperti.

I riflessi dell’oro hanno subito fatto intuire che dalla terra stava affiorando qualcosa di eccezionale 54 a r c h e o

to, circostanza che le rende uniche rispetto anche alle crocette delle sepolture longobarde d’Italia, le quali erano cucite sul sudario che avvolgeva il corpo, in corrispondenza del volto o del petto.

DONNE (CRISTIANE) ALLA RIBALTA Ma chi poteva essere il personaggio per il quale fu allestita la spettacolare sepoltura di Harpole? Difficile, se non impossibile, dirlo con precisione. Il territorio in cui la tomba è stata riportata alla luce era compreso, nel VII secolo, nel regno di Mercia, uno dei sette regni anglosassoni presenti in quella che ora è l’Inghilterra (la cosiddetta eptarchia inglese, n.d.r.) e situato nella regione delle Midlands, il cui cuore era la valle del fiume Trent e dei suoi affluenti. La compagine era allora governata da sovrani da poco convertiti e impegnati in prima linea nel patrocinare la realizzazione di chiese e mo-


nasteri. Una di queste fondazioni fu creata a Weedon Bec, a circa sei chilometri a est di Harpole, e per un breve periodo ospitò la principessa Werburga (650-699), figlia di Wulfhere, il primo re cristiano di

Mercia, e della regina Ermenegilda, prima del proprio ingresso nel monastero di Ely, fondato nel 673 nel Cambridgeshire orientale da una sua parente stretta, la regina Etheldreda di Northumbria (636-

679), che ne era stata anche la prima badessa. La presenza di sovrane con ruoli apicali all’interno di fondazioni religiose non deve stupire: all’epoca era infatti piuttosto frequente per le nobildonne di altissimo lignaggio ritirarsi in monastero quando raggiungevano un’età avanzata oppure restavano vedove. Alla morte di Etheldreda, la guida della comunità di Ely, composta sia da donne che da uomini, venne assunta da sua sorella Sexburga; a questa seguí la citata Ermenegilda, che era sua figlia e vi si ritirò alla morte del consorte; infine fu la volta di Werburga.

IN POSIZIONE DOMINANTE La sepoltura di Harpole era posizionata su una lieve altura, quindi con tutta probabilità collocata deliberatamente in posizione preminente: segno che chi la occupava ricopriva un ruolo non certo secondario all’interno della comunità. Una circostanza che si riscontra a Street House on Teeside, nel Nord-Est dell’Inghilterra, dove, a spiccare tra le oltre cento rinvenute, è l’unica tomba di una donna, monumentalizzata con un tumulo: al suo interno la defunta era stata deposta sopra un letto funebre ornata di gioielli tra cui tre elaborate fibule a disco. Una situazione molto simile è stata anche documentata proprio nei pressi di Ely, in prossimità di Westfield Farm, dove nel 2006 è riemerso un cimitero composto da una quindicina di sepolture di cui una, la Tomba n. 1, collocata in posizione centrale e forse monumentalizzata con un tumulo (di cui si è persa traccia). Anche in questo caso la defunta, una fanciulla di circa 1012 anni, era accompagnata da un ricco corredo costituito, tra gli altri, da due coppe di vetro, un elaborato pettine e un bauletto di legno; al collo portava una collana d’oro e argento con pendente a croce, ornamento dalla chiara e inequivocaa r c h e o 55


SCOPERTE • INGHILTERRA

bile connotazione cristiana. La qualità degli oggetti e la tipologia di quest’ultima sepoltura hanno indotto alcuni a ritenere che la fanciulla fosse un personaggio eminente legato al vicino monastero fondato da Etheldreda, forse un membro 56 a r c h e o

della famiglia reale: un’ipotesi verosimile perché il cimitero sembra rispecchiare le caratteristiche di quello che poteva servire la comunità

In alto: la croce di Ixworth. VII sec. Oxford, Ashmolean Museum. Nella pagina accanto, dall’alto: le croci di Wilton e di Holderness. Databili al VII sec., sono conservate al British Museum di Londra e all’Ashmolean Museum di Oxford.


religiosa «mista» di Ely, presentando sepolture di ambo i sessi ed evidenziando l’assenza, in quelle maschili, di corredi di particolare rilievo. Dunque il lignaggio della misteriosa «dama di Harpole» era senza dubbio molto elevato, ma non tale da farne necessar iamente una «principessa» legata alla corte di Mercia. Cosí come è difficile che si trattasse di una badessa, dal momento che la sua tomba non appare in correlazione con un complesso abbaziale, che sorgeva invece come accennato a Weedon Bec. È quindi assai probabile che fosse un’aristocratica convertitasi al cristianesimo: una donna eminente in grado di influenzare la propria comunità e spingerla, in forza del proprio illustre esempio, ad aderire al «nuovo» credo. Lo studio sui reperti, che nel prossimo futuro saranno probabilmente musealizzati, e del loro contesto proseguirà nei prossimi mesi, fornendo preziose indicazioni non solo sulla diffusione del cristianesimo in territorio inglese nell’Alto Medioevo, ma anche sul ruolo rivestito dalle donne come «testimoni» della nuova religione. a r c h e o 57


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LUOGO» PER LA STORIA DELLA CITTÀ NATO DAL GENEROSO LASCITO DI UN ERUDITO ILLUMINATO, IL MUSEO ARCHEOLOGICO OLIVERIANO DI PESARO SI PRESENTA OGGI IN UNA VESTE TOTALMENTE RINNOVATA. E I SUOI REPERTI GUIDANO IL VISITATORE ALLA SCOPERTA DELLE VICENDE PLURISECOLARI DEL TERRITORIO di Chiara Delpino

L’

Oliveriano è il museo archeologico del territorio di Pesaro e uno dei piú antichi delle Marche. La nuova esposizione, inaugurata nello scorso dicembre, ordina e dà forma a piú nuclei di materiali collezionati, scoperti e donati nel corso di 230 anni di storia. Oggi ospitato al piano terreno di Palazzo Almerici – una dimora nobiliare del XVII secolo situata nel centro storico di Pesaro – il museo nasce dal lascito testamentario di un geniale erudito settecentesco, Annibale degli Abbati Oliveri (17081789), che donò il proprio ingente patrimonio bibliotecario e antiquario affinché «estinguendosi la mia famiglia» andasse «a vantaggio alla mia 60 a r c h e o

Lo scalone monumentale del seicentesco Palazzo Almerici, a Pesaro, sede del Museo Archeologico Oliveriano.


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MUSEI • PESARO

Patria e ai miei Concittadini». Nel cospicuo lascito di Olivieri confluí anche una notevole quantità di reperti donatagli alcuni anni prima dall’amico antiquario Giovan Battista Passeri (1694-1780). Mentre il fondo Olivieri è composto principalmente da materiale proveniente da scavi effettuati nel territorio di Pesaro, la collezione del Passeri, sviluppata tramite acquisti e scambi con altri collezionisti, è piú eteroge-

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nea. Già all’epoca entrambe le rac- tutto quello che due concittadini nel colte erano note e apprezzate per la tempo di loro vita hanno saputo ammasloro ricchezza. sare». Con lo stesso lascito Olivieri si preoccupò di provvedere anche al sostentamento dello sviluppo e delPER COMBATTERE la vita di un’istituzione culturale: L’OZIO E L’IGNORANZA Il carattere pubblico della donazio- l’archetipo di quello che oggi è ne del nobile mecenate è messa in l’Ente Olivieri, una fondazione culrisalto dalla volontà di raccogliere in turale di rilievo nazionale. L’obiettiun unico luogo i due importanti vo è chiaro: «Dove regna oziosità, e patrimoni «acciocché abbia la nostra ignoranza, non vi può essere buon costuPatria in un sol luogo a uso pubblico me. Vorrei dunque che l’entrata che si


ricaverà dai miei beni servisse a rendere i miei Cittadini culti, ed operosi». Museo e biblioteca ebbero una prima sistemazione all’interno del palazzo della famiglia Olivieri, ove il pubblico fu ammesso per la prima volta il 2 maggio del 1793. Esso tuttavia non accolse subito tutte le testimonianze antiche del territorio di Pesaro allora conosciute, poiché, in un primo momento, non vi furono trasportate le epigrafi raccolte da Passeri né le collezioni epigrafiche di origine municipale e ducale, allora esposte in altri luoghi della città. Solo nel 1885, in occasione del trasferimento nell’attuale sede di palazzo Almerici, vennero finalmente riunite in un solo luogo tutte le raccolte civiche, alle quali andarono via via aggiungendosi anche reperti in possesso di privati. A queste collezioni, che costituiscono il «fondo antico» del museo, si sono poi aggiunti i materiali provenienti dagli scavi archeologici condotti nel Pesarese dalle Soprintendenze, i piú rilevanti dei quali sono certamente i corredi provenienti dalla necropoli dell’età del Ferro di Novilara, indagata nel 1892-1893 da Edoardo Brizio.

ANNI DIFFICILI Nel corso del Novecento il museo attraversò varie traversie.Tra le principali, il terremoto che investí Pesaro nel 1916, danneggiando anche le sale espositive, e i traslochi affrettati imposti durante il secondo conflitto mondiale per portare i reperti verso luoghi piú sicuri. È anche noto il trafugamento, messo in atto da soldati tedeschi in ritirata, di alcune casse di materiale archeologico, rinvenute poi a Rimini. La mancanza di un inventario generale amplificò i danni: mentre un inventario del materiale lapideo era stato redatto già negli anni Novanta dell’Ottocento da Carlo Cinelli, il primo inventario esaustivo dei reperti mobili fu completato solo negli anni Sessanta del secolo scorso

La stele rinvenuta nel 1866 a San Nicola in Valmanente (Pesaro). 700 circa a.C. Sulla faccia anteriore, qui riprodotta, compare una scena figurata con al centro una grande nave a vela e quindici rematori, un capovoga e un personaggio in piedi accanto all’albero; sotto due imbarcazioni minori con guerrieri; sul fondo figure di uomini, pesci, serpenti, quadrupedi e figure geometriche. Nella pagina accanto: l’«anemoscopio di Boscovich», rinvenuto a Roma nei pressi della via Appia.II sec. d.C.

da Laura Fabbrini, per incarico dell’allora Soprintendenza alle Antichità delle Marche. Nel 1967, dopo una chiusura protrattasi per quasi quarant’anni, il museo venne riallestito nelle sale ubicate al piano terra di Palazzo Almerici. L’esposizione era priva di un chiaro criterio espositivo, di un ordinamento cronologico e di ausili didattici. Con un successivo intervento, resosi necessario nel 1980 a causa di infiltrazioni d’acqua, i reperti mobili furono sistemati secondo un criterio prevalentemente tipologico («i bronzi», «le lucerne», «i vasi») poco fruibile per un pubblico non specialista, mettendo in mostra pressoché tutto il materiale archeologico depositato presso l’Ente. In seguito all’aggravarsi dei problemi dovuti alla risalita dell’umidità, nel 2014 la Soprintendenza Archeologica delle Marche ha ritenuto necessario presentare un nuovo progetto di intervento, finanziato dal Ministero della Cultura. A que-

sto contributo si è poi aggiunto il sostanziale sostegno economico del Comune di Pesaro, al quale si deve, grazie alla lungimiranza dell’Amministrazione comunale, la possibilità di intervenire radicalmente nelle sale anche con importanti opere strutturali.

IL PERCORSO ESPOSITIVO Distribuito in tre sale, il Museo Oliveriano ospita il piú consistente nucleo di testimonianze archeologiche provenienti dal territorio di Pesaro, riferibili a un arco cronologico che abbraccia circa mille anni di storia, dal 750 a.C. al VI secolo d.C. circa. Poiché, a causa delle vicissitudini sopra richiamate, l’esposizione oliveriana non si è mai storicizzata, è stato possibile intervenire radicalmente sul museo, studiando una nuova distribuzione dei reperti, selezionati sulla base di un progetto scientifico e narrativo proposto da chi scrive. Il progetto è confluito in a r c h e o 63


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una realizzazione museale in cui archeologia e architettura dialogano continuamente, in un confronto avviato fin dalle prime fasi di progettazione, ora convergendo in un linguaggio comune, ora contrapponendo spazio immaginativo e reale. La narrazione ribadisce la centralità della figura umana, tematicamente richiamata da una citazione della frase dell’archeologo inglese Sir Mortimer Wheeler: «The archeologist is not digging up things, he is digging up people» («L’archeologo non scava oggetti, ma esseri umani»). Centralità ribadita ulteriormente dall’allestimento, realizzato dallo studio di architettura STARTT, che esalta l’evocazione tridimensionale dello spazio frequentato dall’uomo (vedi box alle pp. 66-67).

UNA STORIA IN QUATTRO ATTI Per ordinare l’intero corpus delle collezioni in un percorso intuitivo sono stati identificati quattro nuclei tematici principali, illustrati nella sala introduttiva attraverso alcuni reperti simbolo. All’interno di queste quattro macroaree (la necropoli picena di Novilara, il lucus Pisaurensis, il municipio romano di Pisaurum e il collezionismo settecentesco) l’esposizione è ulteriormente articolata per singoli temi (per esempio «la sfera del sacro»,«lo spazio pubblico», «le domus»), organizzati seguendo uno sviluppo cronologico lineare, ognuno dei quali è compiutamente visitabile in sé. Come disposto nelle volontà testamentarie di Annibale Olivieri, il primo reperto che si incontra entrando in museo è il cosiddetto «anemoscopio di Boscovich», un esempio di anemoscopio e meridiana databile al II secolo d.C., rinvenuto a Roma nei pressi della via Appia (vedi foto a p. 62). Lungo i bordi del disco di marmo sono incisi i nomi greci – traslitterati in latino – di dodici venti; sul piano superiore un complesso sistema di 64 a r c h e o


incisioni descrive la posizione degli equinozi alla latitudine di Roma. Lo strumento permetteva di determinare la posizione che il sole avrebbe assunto alla stessa ora, nella data località, nei diversi giorni dell’anno e di compiere osservazioni astronomiche. Se l’anemoscopio introduce al tema del collezionismo, alcune delle celebri «stele di Novilara» anticipano la sala dedicata alla necropoli dell’età del Ferro. Si tratta di un gruppo di otto lastre di pietra (alcune sono decorate da motivi geometrici e/o scene figurate, altre sono anche iscritte) rinvenute nella seconda metà del 1800, in circostanze piú o meno chiare, in varie località circostanti Pesaro. Poiché presentano tratti simili sono state riferite tutte a un unico ambito culturale, ma sussistono forti dubbi sull’autenticità della maggior parte di esse. La stele piú famosa, databile al 700 a.C. circa, mostra sul lato principale una complessa scena marina in cui si affrontano una grande nave con i marinai curvi sui remi e due barche piú piccole con uomini armati (vedi foto a p. 63). È inoltre esposta una delle stele

iscritte, sulla base delle quali era stato proposto in passato di riconoscere una lingua «nord picena», di diversa origine rispetto alla «lingua sud-picena» (nota da numerose iscrizioni rinvenute nel Sud delle Marche e nel Nord dell’Abruzzo). Sulla base di notazioni epigrafiche e tecnologiche, un recentissimo studio considera tutte le stele di Novilara con iscrizioni delle ingegnose contraffazioni, realizzate da un abile falsario attivo negli ultimi decenni del 1800, utilizzando un mix di motivi alfabetici, linguistici e iconografici derivati da quelli in uso in Grecia e presso diversi popoli italici dell’età del Ferro. Il «nord-piceno», in questa prospettiva, è dunque una lingua mai esistita.

DALLA COLLINA DI NOVILARA Nella seconda sala sono esposti i reperti provenienti da una delle piú importanti necropoli italiane dell’età del Ferro, situata sulla collina di Novilara (circa 6 km a sud-ovest di Pesaro), indagata a piú riprese tra il 1892 e il 2013. Si tratta di alcuni dei corredi funebri provenienti dalle oltre 450 tombe databili tra il 750 e

il 600 a.C. rinvenute nelle due principali aree sepolcrali che costituiscono la necropoli. Il percorso espositivo ruota intorno a un basamento centrale – lo spazio fisico della necropoli – all’interno del quale sono inserite alcune sepolture. Il visitatore lo osserva come se stesse percorrendo le trincee di scavo ottocentesche. Sullo stesso basamento sono poste le uniche due stele provenienti con certezza da Novilara, in modo tale da rievocarne la verosimile funzione. Il rituale funerario seguito nella necropoli, con la sola eccezione di tre sepolture, è quello dell’inumazione: i defunti venivano deposti rannicchiati, avvolti in un sudario, all’interno di una fossa rettangolare, delimitata da quattro assi disposte di taglio e in molti casi coperta da un coperchio di legno (vedi foto in queste pagine). L’analisi dei resti scheletrici rinvenuti nel corso degli scavi piú recenti ha consentito di acquisire dati preziosi su sesso, età di morte e caratteristiche fisiche della popolazione che visse nei dintorni della necropoli tra l’VIII e il VII secolo a.C. Le muscolature appaiono sviSulle due pagine: sepolture della necropoli di Novilara venute alla luce durante le campagne di scavo condotte nel 2012-2013. Nella pagina accanto, la tomba 151, riferibile a un giovane guerriero, sui cui resti sono state trovate tracce di ferite riportate in battaglia; a sinistra, la tomba 150, chiusa in origine da un coperchio ligneo. a r c h e o 65


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luppate in maniera analoga sia negli uomini sia nelle donne, a indicare un’intensa attività fisica e lo svolgimento di lavori pesanti per entrambi i sessi. Sono riconoscibili segni di stress fisico, esiti di traumi guariti e ferite che sono state causa di morte: mentre sono presenti lesioni di tipo accidentale in entrambi i sessi, si riscontrano solo tra gli uomini lesioni riconducibili a ferite da arma. È per esempio esposta la sepoltura di un giovane guerriero (tomba 151 degli scavi 2012-2013) che mostra i segni delle ferite causate da armi metalliche diverse.

GLI EROI COME MODELLO IDEALE Ampie vetrine disposte lungo le pareti perimetrali della sala accolgono una quarantina di corredi, selezionati in base alla rappresentatività dei reperti e al loro stato di conservazione, disposti secondo un lineare sviluppo cronologico. Per ogni corredo sono evidenziati alcuni reperti sui quali soffermare l’attenzione.

Poiché gli uomini, aderendo a un ideale modello virile di stampo eroico, si connotavano come guerrieri, le principali sepolture maschili sono evidenziate dalla deposizione di una o piú armi, presenti in varie combinazioni. L’armamentario da battaglia conosciuto nel mondo piceno è vasto e composto sia da strumenti di difesa, come elmi e scudi, sia soprattutto da armi di offesa, come pugnali, spade di ferro, giavellotti e lance, che nel corso dei secoli vennero costantemente modificate e «aggiornate» (vedi foto in queste pagine, in alto). In alcune sepolture di armati vissuti nella seconda metà del VII secolo a.C. troviamo anche chiari riferimenti alla pratica del banchetto, un binomio che non appare casuale: la duplice prerogativa della gestione della guerra e della partecipazione al banchetto è infatti parte dell’ideologia regale del Vicino Oriente ed è propria del mondo in cui si muovevano gli eroi omerici, la cui

simbologia viene ripresa dalle popolazioni italiche. Le deposizioni femminili sono contraddistinte dalla presenza di numerosi oggetti di ornamento in bronzo e in altri materiali preziosi. Oltre a numerose fibule di diverse fogge e dimensioni, le defunte indossavano altri ornamenti come orecchini e anelli digitali, pettorali e tessuti riccamente decorati. L’associazione dei molteplici elementi decorativi permette di comprendere quanto fosse

Passeri e Olivieri – diventano temi di sperimentazione museografica. Le sezioni sono articolate in ambienti dedicati, nei quali ogni spazio riservato ha la funzione di mettere in scena i reperti della collezione presentati, in un’ottica di allusione al tempo e allo spazio di provenienza. Per coinvolgere

emotivamente il visitatore, il progetto mutua il linguaggio dell’arte contemporanea e lo porta nella tecnica dell’allestimento. Ecco allora che il museo diventa l’occasione per disegnare supporti espositivi a misura di reperto, della sua area, delle sue fragilità, del suo significato. I supporti alludono alla

Un coltello facente parte dell’armamentario di uno degli individui di sesso maschile sepolti nella necropoli di Novilara.

UN’ISOLA CHE NON C’È Il museo è uno spazio onirico, allude a uno spazio e a un tempo che non ci sono piú. Come nei giochi dei bambini il museo ricrea un’unità di luogo attraverso la metafora e il gioco. Spesso si richiama il museo quale spazio testimoniale e didattico, e nel caso dell’allestimento dell’Oliveriano di Pesaro i temi della sorpresa e dello spazio ludico sono portati dentro al museo, perché è attraverso il gioco che è possibile l’apprendimento: non solo i bambini, anche gli adulti hanno diritto al gioco. Le sezioni didattico-museologiche – l’introduzione, la Necropoli di Novilara, il lucus pisaurensis, la Pesaro romana, la Pesaro paleocristiana, i temi del collezionismo frutto dei lasciti

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ricco il costume femminile e di cogliere l’attenzione posta nella esibizione di elaborati e complessi capi di abbigliamento. Una testimonianza eccezionale di questi costumi riccamente decorati è una sorta di «pettorale-stola», deposto sopra al corpo dell’inumata della tomba 24 degli scavi 20122013. Si tratta di un tessuto sul quale erano applicate perline di pasta vitrea e ambra che formano una complessa decorazione, terminante

LA FILATURA «NOBILITA» LA DONNA Nei corredi femminili sono spesso presenti anche gli strumenti utilizzati per attività legate alla filatura, alla tessitura, alla cucitura e al ricamo. L’insistenza e l’abbondanza degli strumenti per la lavorazione dei tessuti nelle sepolture femminili piú ricche sottolinea l’importanza tanto simbolica quanto socio-economica di tale attività. Una valenza evidenziata dai poemi omerici e dalle fonti iconografiche che, seppur non relative alla specifica realtà marchigiana, restituiscono le immagini di donne di rango impegnate in operazioni di filatura e tessitura, attività considerate «nobilitanti».

Anche in alcuni corredi femminili del VII secolo compaiono riferimenti al banchetto, indiziati dalla presenza di set di vasi, anche metallici, connessi alla preparazione e al consumo di bevande pregiate (presumibilmente a base di vino). Altre vetrine documentano singoli temi specifici. Una di esse è dedicata agli oggetti «di importazione» presenti all’interno di alcuni corredi: oggetti di ornamento, vasi ceramici e produzioni metalliche provenienti da altre aree geografiche e culturali. Questi elementi «imp o r t a t i » r i c o r ro n o nell’ambito di sepolture particolarmente ricche per quantità e qualità del corredo funerario. Circolavano probabil-

storia del reperto e costruiscono un ambiente immaginario in cui questi sono collocati. Lo spazio di introduzione allude alla vastità degli interessi di Passeri e Olivieri che costruiscono il primo lascito fondativo; i supporti presentano le sezioni didatticoscientifiche esponendo reperti rappresentativi di ogni sezione come attori nello spazio, il visitatore cammina accanto e intorno i reperti come in una performance teatrale. La sala della necropoli di Novilara racconta uno dei primi scavi scientifici del regno unitario. Le trincee di scavo di Edoardo Brizio diventano dispositivo allestitivo. Il lato centrale allude allo spazio funebre e crea una relazione di rispetto con le sepolture di persone

vissute 2700 anni fa. Il lato perimetrale espone in termini ludico-didattici i corredi ritrovati, nel fianco del supporto espositivo sono cassetti apribili dai piú piccoli. I corredi sono esposti nelle lunghe vetrine di bordo, con un’attenzione alla composizione delle forme inedita per una mostra archeologica. La visita coinvolge in maniera esperienziale piú sensi, sollecitando nuove visioni. Quattro cassettoni aperti lungo i fianchi invitano alla scoperta anche i piú piccoli. Il gioco reiterato della scoperta costruisce la sequenza di tassonomia e catalogazione dei reperti protostorici. La sala romana e del collezionismo espone epigrafi su frammenti lapidei. I frammenti sono raccolti in forme geometriche a

parete, ogni forma corrisponde a una unità scientifica immediatamente riconoscibile: anche il neofita può orientarsi nell’esposizione scientifica seguendo il gioco delle forme. Quest’ultimo processo allestitivo è un omaggio alla sensibilità degli artisti, in particolare al lavoro di Jannis Kounellis, grande artista dell’arte povera italiana, scomparso nel 2017, poco dopo la sua ultima mostraperformance a Pesaro. Il museo racconta l’evoluzione di un territorio nel corso dei millenni, di cui le tracce artistiche contemporanee sono l’ultima stratificazione della nostra cultura. Simone Capra e Claudio Castaldo STARTT (Studio di Architettura e Trasformazioni Territoriali)

con una fascia metallica, probabilmente portato all’altezza del busto (vedi foto alle pp. 68-69). A destra: la punta in metallo di un giavellotto, facente parte anch’esso del corredo di una tomba maschile della necropoli di Novilara.

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nità connesse alla salute, alla fecondità umana e alla regolarità del ritmo biologico. Gli ex voto riproducono per lo piú parti anatomiche. Tra di esse vi sono numerosi uteri, mammelle e alcune rappresentazioni di neonati in fasce; molte delle divinità femminili richiamate dalle iscrizioni, come Diana, Giunone Lucina e Mater Matuta, erano preposte ai riti di passaggio femminili (maturazione sessuale, matrimonio, parto). A esse fa da contraltare Libero, per i corrispettivi riti di passaggio maschili. Le iscrizioni piú antiche si datano attorno alla metà del III secolo a.C. e testimoniano una religiosità di derivazione laziale. Sono particolarmente significative per la storia del popolamento del mente tra esponenti di spicco delle élites locali, in grado di stabilire contatti diretti con comunità di altre aree culturali e di gestire lo scambio di beni di lusso. È proprio la circolazione delle diverse produzioni artigianali a evidenziare i legami piuttosto stretti intercorsi con i gruppi tardo-villanoviani e orientalizzanti insediati nel territorio dell’attuale Emilia-Romagna, in particolare a Felsina (l’attuale Bologna) e a Verucchio (in provincia di Rimini) e a documentare la rete di traffici, soprattutto adriatici, a media e lunga percorrenza nei quali Novilara era certamente inserita. Un’altra vetrina è dedicata alle uniche tre sepolture a incinerazione rinvenute nelle necropoli: due nel sepolcreto Servici (tombe 29 e 38), una nel sepolcreto Molaroni (tomba 30 degli scavi 2012-2013). Sulla base dei materiali presenti in questi corredi è possibile stabilire che si tratta di sepolture maschili riferibili all’ultimo quarto dell’VIII/inizi VII secolo a.C. Anche se gli oggetti di accompagnamento sono quelli 68 a r c h e o

usualmente presenti nei corredi di Novilara, il rito adottato permette di ipotizzare che le persone sepolte con questo particolare cerimoniale provenissero da altre aree culturali e che fossero state deposte secondo le consuetudini funebri delle comunità di origine.

IL LUCUS PISAURENSIS Tra il 1734 e il 1737 Annibale Olivieri scoprí in un suo possedimento nei pressi di Pesaro un luogo di culto all’aperto, che ribattezzò lucus Pisaurensis, caratterizzato dalla presenza di quattordici are votive di arenaria (vedi foto a p. 70), numerosi ex voto di terracotta, migliaia di monete e tre bronzetti. È uno dei principali complessi di epigrafi sacre di età repubblicana della Penisola, particolarmente importante per ricostruire la diffusione della cultura laziale in area medio-adriatica. Le are sono dedicate a: Fides, Apollo, Iuno, Iuno Lucina, Mater Matuta (2), Salus, Marica, dii Novensides, Diana, Feronia, Iuno Regina, Liber. Si tratta di divinità femminili e divi-

In alto: fibula ad arco composito del tipo denominato Verucchio, il cui ritrovamento nel territorio pesarese è prova dei contatti con i gruppi tardovillanoviani e orientalizzanti insediati dell’area emilianoromagnola. A destra: resti di tessuto scoperti nella tomba 24 di Novilara. Nella pagina accanto, in alto: tazza a due manici di importazione, dalla tomba 124 di Novilara.


territorio di Pesaro poiché indicano che tra la conquista dell’ager Gallicus (battaglia di Sentinum, 295 a.C.; campagna militare contro i Galli Senoni, 284 a.C.) e le assegnazioni viritane (Lex Flamina de agro Gallico e Piceno viritim dividundo, 232 a.C.), gruppi di popolazione di origine romana e latina si erano stabiliti nel territorio in cui in seguito verrà dedotta la colonia di Pisaurum (184 a.C.).

ANTENATI ILLUSTRI Alcune iscrizioni tramandano anche i nomi dei dedicanti, soprattutto donne, collegabili a gentes di riferimento per il processo di romanizzazione della zona. Una delle matrone, Mania Curia, è riferibile alla gens Curia, un cui illustre antenato,

M. Curio Dentato, fu il generale che sconfisse i Galli Senoni per poi fondare nel 283 a.C. la colonia di Sena Gallica. Un’altra dedicante, Polla Livia, potrebbe essere una discendente del Livio Druso, ricordato da Svetonio, che anche aveva preso parte alla guerra gallica. Nel 184 a.C., lungo la strada conso-

lare Flaminia – importante direttrice di traffici, merci e uomini – in corrispondenza dell’approdo fluviale del Pisaurus (l’odierno fiume Foglia) viene fondata la colonia di Pisaurum. Come in ogni città romana, vi erano edifici pubblici e infrastrutture come strade, fognature e ponti. Solo una parte delle costruzioni è sopravvissuta ai millenni: poche di esse sono ancora visibili, altre si conservano nel sottosuolo, altre ancora hanno conferito alla città l’impronta attuale. L’intreccio regolare delle strade del centro moderno riflette, per esempio, l’impianto topografico di Pisaurum; i due principali assi viari di epoca romana, cardine e decumano massimo, sono tuttora le strade piú importanti del passeggio cittadino.

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secolo della colonia, prima della rifondazione augustea che ribattezzò il municipio Colonia Iulia Felix Pisaurum (stando a quanto si apprende da Plutarco, prima della battaglia tra Ottaviano e Marco Antonio, Pesaro – colonizzata da veterani antoniani – fu inghiottita da voragini che squarciarono la terra). La rifondazione augustea segna l’inizio della stagione migliore della Pesaro romana. Il legame con la famiglia imperiale è testimoniato dal ritrovamento di diversi ritratti della famiglia dell’imperatore (Ottaviano Augusto, Livia, Gaio Cesare e altri principi) e da un’eccezionale documentazione epigrafica, sulla base dei quali è stato possibile ipotizzare l’esistenza di un monumento, o di un tempio, dedicato alla celebrazione della gens giulioclaudia (vedi foto a p. 72). Viene poi data voce agli abitanti di Pisaurum, attraverso le epigrafi che ricordano la presenza di collegi professionali, soldati, retori, sacerdoti e sacerdotesse. La sezione dedicata al municipio romano si conclude con le testimonianze funerarie, la piú antica delle quali, databile entro il III secolo a.C., ci tramanda – come le iscrizioni del lucus – il nome di uno dei primi coloni provenienti dal Lazio: M. Pleturi(os).

in etrusco, dedicata all’aruspice di origine etrusca L. Cafatius, esperto della disciplina fulgoratoria (vedi foto alle pp. 72/73, in alto). Databile alla seconda metà del I secolo a.C., l’iscrizione documenta come ancora alla fine della repubblica, l’etrusco fosse una lingua viva e il bilinguismo – del defunto o del committente – una opzione ancora praticata. La presenza dell’indovino a Pisaurum può essere legata al ricordo UN INDOVINO ETRUSCO Tra i documenti epigrafici piú im- degli eventi infausti e dei presagi portanti, si può sottolineare una negativi che, secondo gli storici larara iscrizione bilingue, in latino e tini, hanno caratterizzato il primo L’antico Foro, il vasto spazio pubblico centrale, è oggi piazza del Popolo, la piazza principale, sede dei palazzi di governo. La straordinaria collezione epigrafica oliveriana tramanda la memoria di alcuni degli edifici pubblici scomparsi, testimoniando l’esistenza di luoghi di culto, di un anfiteatro, di bagni e terme pubbliche.

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IL COLLEZIONISMO Gli ultimi ambienti del museo sono dedicati alle figure di Giovan Battista Passeri e Annibale degli Abbati Olivieri, le cui collezioni costituiscono il nucleo attorno al quale è cresciuto il Museo Oliveriano. Comprendono oggetti di diversa tipologia, cronologia e provenienza, spesso anche falsi ben realizzati. I materiali piú rappresentativi delle due raccolte sono stati esposti all’interno di due ampie vetrine, che, grazie alla spiccata tridimensionalità, vogliono ricreare idealmente gli armadi di una wunderkammer («camera delle meraviglie»), il caratteristico ambiente in cui gli eruditi


Il lucus Pisaurensis in un affresco realizzato dall’abate e pittore Giannandrea Lazzarini. XVIII sec. Nella pagina accanto: ara con iscrizioni che menzionano Mater Matuta, dal lucus Pisaurensis. a r c h e o 71


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europei del XVI-XVIII secolo usavano esporre i tesori di loro proprietà. Per ognuna delle numerose categorie di oggetti che componeva le due collezioni, e che si affastellano sulle mensole, è stato scelto un reperto da collocare in primo piano. Alcuni reperti hanno un eccezionale valore scientifico. Tra tutti si può citare l’hydria – un vaso in bronzo per contenere liquidi – proveniente da Treia (Macerata), datata al primo quarto del VI secolo a.C. Fu rinvenuta nel 1759 in una tomba picena e venne poi donata a Olivieri.

Di produzione greca (laconica o tarantina), il vaso è caratterizzato da una grande ansa configurata secondo il modello del «Signore dei cavalli», un tema iconografico di derivazione greca, diffuso nel mondo etrusco già verso la metà dell’VIII secolo a.C. e attestato nel Piceno a partire dalla fine del VII secolo a.C. Si conoscono altre otto anse con una conformazione simile, di produzione leggermente piú recente e per lo piú prive dei vasi di bronzo ai quali erano originariamente applicate, principalmente provenienti dal

Piceno. È stato supposto che questi grandi contenitori, rinvenuti all’interno di tombe di personaggi di rango elevato, avessero una funzione eminentemente rituale e fossero esibiti in particolari occasioni cerimoniali, come espressione simbolica di potere e prestigio. Infine, ci piace segnalare che, in attesa di pubblicare il catalogo del museo, è stato pubblicato dal Comune di Pesaro, per i 2200 anni della fondazione di Pisaurum, una guida archeologica per i piú piccoli. DOVE E QUANDO Ritratto di Gaio Cesare, il cui ritrovamento prova i legami della Pesaro romana con la famiglia imperiale. Nella pagina accanto, in alto: la lastra marmorea recante 72 a r c h e o

un’iscrizione bilingue dedicata all’aruspice L. Cafatius. Nella pagina accanto, in basso: un particolare del nuovo allestimento del museo.

Museo Archeologico Oliveriano Pesaro, Palazzo Americi, via Mazza 97 Orario giovedí-domenica e festivi 15,30-18,30 Info tel. 0721 33344; per visite guidate: e-mail: servizimuseali@ pesaromusei.it; tel. 349 2315640; www.oliveriana.pu.it


Un lavoro di squadra Il riallestimento del Museo Archeologico Oliveriano è frutto di un intervento che ha visto il coinvolgimento di molteplici professionalità. Progetto scientifico: Chiara Delpino, Ministero della Cultura. Progetto museografico: Simone Capra, Claudio Castaldo, Dario Scaravelli-Studio di architettura e trasformazione territoriale STARTT. Restauri: Fabio Milazzo (MiC), Renaud Bernadette, Mirco Zaccaria, Giorgia Gili, Federica Russo. Testi: Chiara Delpino, Valeria Valchera, Oscar Mei. Presidente Ente Olivieri: Fabrizio Battistelli. Direttrice Biblioteca e musei Oliveriani: Brunella Paolini. Il progetto si è avvalso di finanziamenti erogati da: Comune di Pesaro; Ministero della Cultura-Direzione Regionale delle Marche; Ufficio della Cultura del Governo Svizzero; Provincia di Pesaro e Urbino; Fondazione Scavolini.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/5

AUGUSTO? SONO IO

JOHN E. WILLIAMS È STATO UN BRILLANTE SCRITTORE STATUNITENSE, RISCOPERTO DI RECENTE – A LIVELLO INTERNAZIONALE – GRAZIE SOPRATTUTTO AL SUO STONER, OGGI CONSIDERATO UNO DEI CAPOLAVORI DELLA LETTERATURA AMERICANA. MA NON È LA TRISTE VICENDA DI UN ANONIMO PROFESSORE DI PROVINCIA, NARRATA NEL ROMANZO, A CORRISPONDERE A UNA QUALCHE INTENZIONE AUTOBIOGRAFICA DELL’AUTORE. SEMBRA CHE LE PAGINE IN CUI PIÚ SI RISPECCHIAVA LA SUA PERSONALITÀ FOSSERO QUELLE DI UN’ALTRA SUA OPERA, DEDICATA AL PRIMO IMPERATORE DI ROMA… di Giuseppe M. Della Fina

L

a continuazione ideale del romanzo The Ides of March (Idi di marzo, nella traduzione italiana) di Thornton Wilder (vedi «Archeo» n. 455, gennaio 2023; anche on line su issuu.com), è Augustus di John E.Williams. Possiamo affermarlo sulla base di diverse considerazioni: la prima è che ne costituisce il seguito sotto il profilo cronologi-

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co, in quanto prende avvio negli ultimi mesi di vita di Giulio Cesare e giunge sino ai primi giorni di governo di Nerone. Un’altra motivazione è la condivisione del modo di raccontare, basato sul ricorso a lettere immaginarie scambiate tra i protagonisti delle vicende di quei decenni e su documenti anch’essi inventati, ma

plausibili alla luce delle fonti storiche e letterarie antiche.

AVVISO AI LETTORI Ulteriore punto d’incontro tra i due scrittori è la piena consapevolezza – anzi la rivendicazione – di avere realizzato un’opera di narrativa: «Ho modificato l’ordine di numerosi avvenimenti. Ho inventato là dove i dati storici sono incerti o incompleti. Ho creato alcuni personaggi cui la Storia non fa cenno (…) se in questo lavoro sono presenti delle verità, sono le verità della narrativa piú che della storia. Sarò grato a quei lettori che lo accoglieranno per ciò che vuole essere: un’opera dell’immaginazione», avverte l’autore di Augustus in una breve nota iniziale. Comune è anche la centralità dell’analisi delle dinamiche del potere, le cui regole sembrano attraversare i secoli e le culture. Nelle pagine del romanzo di Williams – come in quello di Wilder – c’è la Roma nei decenni di passaggio dalle istituzioni repubblicane a quelle imperiali, ma anche, sullo sfondo, gli Stati Uniti di America degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta del Novecento quando si erano affermati


Ritratto di Ottaviano (su busto non pertinente). 35-29 a.C. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto: lo scrittore statunitense John E. Williams (1922-1994).


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/5

come potenza egemone del mondo occidentale, pur non volendo portare in scena «un Henry Kissinger in toga», come si legge in un appunto dello stesso Williams. Non si deve dimenticare, in proposito, che lo scrittore aveva preso parte, in qualità di sergente dell’aeronautica, alla seconda guerra mondiale combattendo in India e in Birmania e salvandosi miracolosamente dall’ab-

battimento del suo aereo da parte dei Giapponesi: su otto persone dell’equipaggio si salvarono soltanto in tre, tra cui il futuro scrittore, arruolatosi a vent’anni.

ACCADEMICO E SCRITTORE John E.Williams era nato Clarksville, in Texas, nel 1922 e, subito dopo gli anni della guerra, studiò all’Uni-

NEI PANNI DI UN IMPERATORE Il 28 febbraio 2014 le pagine culturali de la Repubblica ospitarono un’intervista di Antonello Guerrera a Nancy Gardner, quarta moglie di John E. Williams, con il quale condivise

versità di Denver. Nel 1948 venne pubblicato il suo primo romanzo Nothing But the Night e, l’anno successivo, la raccolta di poesie The Broken Landscape. Nel 1954 conseguí il dottorato di ricerca in letteratura inglese presso l’Università del Missouri e, nel 1955, tornò presso l’ateneo dove si era formato come docente di scrittura creativa. Nel 1960 pubblicò il suo secondo romanzo Butcher’s Crossing, seguito dal suo libro piú noto a cinque anni di distanza: Stoner. Sempre nel 1965 pubblicò una seconda raccolta di poesie: The Necessary Lie. Nel 1963 aveva curato l’antologia English Renaissance Poetry. Fondò, inoltre, la rivista universitaria Denver Quarterly, che diresse sino al 1970. Augustus è del 1972 e vinse il National Book Award, il maggiore riconoscimento di critica ricevuto in vita dall’autore. Per avere avuto l’opportunità di scriverlo ringraziò – nella nota di apertura già ricordata – la Fondazione Rockefeller, che aveva finanziato i suoi viaggi nei luoghi del romanzo, lo Smith College di Northampton nel Massachusetts e l’Università di Denver «per una comprensione a volte stupita, ma sempre cortese, che mi ha permesso di completarlo». Williams morí a Fayetteville, in Arkansas, nel 1994 lasciando incompiuto il suo quinto romanzo, The Sleep of Reason. Il successo internazionale dello scrittore è arrivato dopo la morte, in seguito alla riscoperta del 76 a r c h e o


trentacinque anni di vita. In quella occasione, Gardner smentí, innanzitutto, che il personaggio principale del romanzo Stoner – un anonimo e triste professore – fosse il ritratto del marito, come è stato spesso ripetuto, aggiungendo che Williams non avrebbe mai raccontato

direttamente di se stesso nei suoi libri: «semplicemente perché la sua persona lo annoiava». Aggiunge, inoltre, che il marito le aveva suggerito che «il suo vero romanzo autobiografico fosse Augustus». In quanto «ogni tanto amava immaginarsi nei panni di un imperatore». Un’altra immagine di John E. Williams e la copertina di Augustus (1972). Nella pagina accanto: statua di Augusto come pontefice, da via Labicana (Roma). Fine del I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

SENZA RIMPIANTI Nell’intervista concessa a Antonello Guerrera, Nancy Gardner racconta di come il marito avesse accettato di non essere un autore celebrato, al di fuori di una ristretta cerchia di estimatori, mentre era ancora in vita: «Non se ne lamentava mai». Dato che da giovane: «aveva combattuto e, a differenza di molti suoi compagni, era sopravvissuto. Poi era riuscito a scappare dal contado del Texas noioso, arido e sfiancante (...) era comunque diventato un professore stimato, con uno stipendio dignitoso, amato da amici e colleghi. Non ha mai sofferto la fama sfuggitagli in vita».

romanzo Stoner da parte della New York Review of Books nel 2006. Da allora il libro è ritenuto uno dei capolavori della letteratura americana, apprezzato, fra gli altri, da Ian McEwan, Nick Hornby e Bret Easton Ellis. A seguire è arrivata la riscoperta degli altri suoi romanzi, tra cui Augustus che, peraltro, nel 1972 aveva ricevuto il prestigioso riconoscimento già rammentato. Oggi John E. Williams viene ritenuto uno dei maggiori scrittori statunitensi del Novecento.

I PROTAGONISTI Tornando al romanzo, i personaggi di spicco del tempo ci sono quasi tutti, uomini politici, comandanti militari e intellettuali: Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone, Marco Giunio Bruto, Marco Antonio, Cleopatra, Marco Emilio Lepido, Marco Agrippa, Gaio Cilnio Mecenate, Tito Livio, Quinto Orazio Flacco, Albio Tibullo, Publio Virgilio Marone, Plubio Ovidio Nasone, Sesto Properzio, e ovviamente Cesare Ottaviano Augusto con la moglie Livia e la figlia Giulia. La storia narrata accompagna Ottaviano dalla giovinezza sino alla morte e ripercorre le tappe della sua ascesa al potere e del suo progetto teso a dare vita a nuovi assetti poli-

tici e istituzionali per Roma, tra condivisioni e contrapposizioni. Lo scrittore fa raccontare a Gaio Cilnio Mecenate, in una lettera immaginaria indirizzata a Tito Livio, gli inizi: «Eravamo giovani. E nonostante Gaio Ottaviano, come si chiamava allora, sapesse di essere il favorito dal destino e conoscesse l’intenzione di Giulio Cesare di adottarlo, né lui, né

DALLA PENNA ALLA ZAPPA La testimonianza di Nancy Gardner svela le passioni di John E. Williams. Una non sorprende, l’altra, invece, sí. Leggeva moltissimo sin da bambino: vinse il premio istituito da una biblioteca nei pressi di Clarksville, la sua città natale, per chi aveva letto piú libri in un anno. Tra i suoi autori preferiti erano William Shakespeare, Thomas Hardy, W.B. Yates e Robert Penn Warren. La passione meno prevedibile è, invece, quella per un orto di 120 mq che coltivava di persona. Un’attività che lo aiutava a superare, quando si presentava, anche il «blocco dello scrittore».

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io, né Marco Agrippa, né Salvidieno A destra: ritratto Rufo, che eravamo suoi amici, di Marco avremmo potuto immaginare dove Vipsanio Agrippa, saremmo finiti». Poi prosegue: «Lo compagno di giudicavo un adolescente simpatico, Ottaviano e poi niente di piú, con un volto troppo marito della di lui delicato per ricevere i colpi del defiglia, Giulia, da stino, con modi troppo diffidenti Gabii. Prima metà per conseguire uno scopo, e con del I sec. a.C. una voce troppo dolce per pronun- Parigi, Museo del ciare le parole spietate che un conLouvre. dottiero di uomini deve dire». Nella pagina La svolta avviene con l’uccisione di accanto: statua Giulio Cesare (44 a.C.) e la capacinota come tà di Gaio Ottaviano, a soli dician- Augusto di Prima nove anni – era nato nel 63 a.C. – Porta, perché d’inserirsi nella lotta per la succesrinvenuta nella sione nonostante il parere contrario villa di Livia del padre e della madre, che lo venell’omonima devano come il personaggio piú località sulla via debole e destinato a soccombere. Flaminia.

L’ABBAGLIO DI CICERONE Nonostante la giovane età, Ottaviano seppe muoversi con intelligenza, destrezza, doppiezza e ferocia riuscendo a sfruttare le divisioni insorte sia tra i cesaricidi, sia tra coloro che si sentivano gli eredi di Giulio Cesare, tra i quali Marco Antonio occupava una posizione di privilegio. Le reali intenzioni di Ottaviano

20 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. In basso: cammeo con Livia Drusilla e, di fronte, il busto di Augusto. I-III sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

non vennero comprese come è noto e, nel romanzo, è Marco Tullio Cicerone a fraintenderle in una missiva di finzione inviata a Marco Giunio Bruto: «È un ragazzo piuttosto sciocco: non ha la piú pallida idea di cosa sia la politica, ne è probabile che possa averla. Non è spinto né dall’onore, né dall’ambizione, ma da affetto piuttosto dolce per il ricordo di un uomo che avrebbe voluto essergli padre». Lo scrittore sembra volerci suggerire che anche i grandi intellettuali con esperienza politica possono prendere abbagli giganteschi e non comprendere le dinamiche in atto. In un’altra lettera inventata e indirizzata sempre a Marco Giunio Bruto, Marco Tullio Cicerone de78 a r c h e o

scrive l’evolversi della situazione: «il potere e la popolarità di Ottaviano non fanno che crescere. A volte quasi mi persuado che possiamo avere giudicato male il ragazzo. Poi mi convinco che è soltanto il capriccio degli eventi a farlo apparire piú capace di quanto sia». Nel libro gli eventi che portarono prima alla battaglia di Filippi (42 a.C.) contro le truppe riunite da Marco Giunio Bruto e poi al confronto finale con Marco Antonio nella battaglia navale di Azio (31 a.C.) si succedono sempre nel ricordo e nelle interpretazioni dei protagonisti, a cui Williams dà voce. C’è un’altra lettera immaginaria e indirizzata da Mecenate a Tito Livio, successiva alla battaglia di Filippi: «Piú morto che vivo, Ottaviano


AUGUSTO E TACITO Il grande storico latino Cornelio Tacito (55-120 d.C. circa) riporta, negli Annali (I, 9-10), i giudizi contrastanti sull’azione politica di Augusto già espressi al tempo: per alcuni aveva agito in base alla devozione verso il padre adottivo e alla situazione difficile della repubblica; aveva retto lo Stato con equilibrio senza farsi re o dittatore; aveva armonizzato le diverse parti dell’impero e resa Roma piú bella. Per altri, invece, l’amore verso Giulio Cesare e la situazione della repubblica erano stati soltanto pretesti per prendere il potere ricorrendo a inganni e forzando gli assetti istituzionali; la pace, che aveva ristabilito, grondava di sangue; i suoi stessi comportamenti privati erano criticabili, come il matrimonio con Livia quando la donna era ancora incinta di un altro uomo.


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tornò a Roma. Aveva salvato l’Italia dai suoi nemici in terre straniere e ora doveva sanare le ferite della nazione, devastata dall’interno (…) non aveva ancora ventidue anni quell’inverno». Nelle pagine di Augustus viene dato spazio all’analisi dei matrimoni combinati, che dovevano servire a creare, o a rinsaldare alleanze: è il caso, per esempio, di quelli di Ottavia, l’amata sorella di Ottaviano, con Marco Antonio e, poi quello di Giulia, la figlia di Ottaviano divenuto ormai Augusto, con Tiber io. Williams arr iva a immaginare i dialoghi con Ottavia e Giulia. Il dialogo relativo al primo dei due matrimoni lo fa riportare sempre da Mecenate: «Quando Ottaviano spiegò la necessità di quel passo a sua sorella c’ero anch’io. Lui le voleva un gran bene, come sai. Non riuscí a guardarla negli occhi mentre parlava. Ma Ottavia si limitò a sorridergli e disse: “Se la cosa va fatta, fratello mio, bisogna farla. Cercherò di essere una buona moglie per Antonio e di restare una buona sorella per te”. “Lo fai per Roma”, disse Ottavio. “Lo faccio per tutti noi”, disse lei». Piú burrascoso – nel racconto – risulta il colloquio con la figlia Giulia, che, divenuta vedova di Marco Agrippa, Ottaviano spinge a sposare Tiberio Claudio Nerone, l’uomo Ritratto di Giulia, figlia di Augusto e Scribonia. 12-11 a.C. Tolosa, Musée Saint-Raymond. Nella pagina accanto: aureo di Augusto coniato dopo la vittoria su Cleopatra VII. 27 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Al dritto, l’imperatore; al verso, un coccodrillo e la scritta Aegypt Capta (Egitto conquistato). 80 a r c h e o


che – per una serie di eventi tragici incorsi a candidati ritenuti migliori – aveva scelto come successore pur non stimandolo. Il ricordo di quel confronto è in un diario immaginario di Giulia: «Ti ho ubbidito in ogni cosa, sin da quando riesco a ricordare. Era mio dovere. Ma questa volta sento di rasentare la disubbidienza. Mio padre taceva. Aggiunsi: Una volta mi dicesti di paragonare Marco Agrippa a certi miei amici che tu disapprovavi. Scherzai, ma feci il paragone, e devi conoscerne l’esito. Ora ti chiedo di paragonare Tiberio Claudio Nerone al mio defunto marito e di domandarti come potrei sopportare un simile matrimonio». Lo scontro verbale sale ancora di tono e arriva a considerazioni generali, che coinvolgono lo stesso percorso di Ottaviano Augusto: «Padre, chiesi, ne è valsa la pena? La tua autorità, questa Roma che hai salvato, questa Roma che hai edificato, ha giustificato tutto quello che sei stato costretto a fare? Ottaviano mi fissò a lungo, poi distolse lo sguardo. “Devo credere che sia cosí”, rispose».

I RICORDI SI SOVRAPPONGONO Il ricordo della battaglia di Azio, dello scontro finale con Marco Antonio e con coloro che gli erano restati al fianco a partire dalla regina d’Egitto, Cleopatra, è nelle memorie ipotizzate di Marco Agrippa, che cosí si concludono: «Sapevamo di avere conquistato il mondo, eppure non ci furono canti di vittoria, né di gioia (…) Il bagliore degli incendi illuminava il porto, e Cesare Augusto, la faccia irrigidita e rossastra in quei riflessi mutevoli, rimase in piedi a prua della sua nave e contemplò il mare che nascondeva i cadaveri di quei prodi, camerati e avversari, come se non ci fosse alcuna differenza tra loro». E qui le pa-

UNA NUOVA ROMA L’attività edilizia a Roma nei decenni di governo di Augusto fu intensa e gli stessi materiali da costruzione cambiarono. Il tufo, il travertino, le decorazioni in terracotta vennero affiancati e/o sostituiti dal marmo di Carrara o «lunense», come era chiamato al tempo, per la vicinanza delle cave alla città di Luni. Tra i nuovi monumenti si possono ricordare: il Pantheon voluto da Marco Agrippa (poi modificato sotto l’imperatore Adriano), il Foro di Augusto, il teatro di Marcello e il mausoleo che lo stesso Augusto si fece costruire. Né si può dimenticare l’Ara Pacis.

role dello scrittore sembrano sovrapporsi ai suoi ricordi di guerra. Nelle pagine finali del romanzo è lo stesso Ottaviano Augusto, in una lunga lettera, sempre di finzione, datata 14 d.C. e indirizzata a Nicolao di Damasco, a tentare un bilancio della sua vita che stava andando verso la conclusione: «Non decisi di cambiare il mondo per un facile idealismo e per una egocentrica virtuosità, che invariabilmente preannunciano l’insuccesso. Né decisi di cambiare il mondo perché la mia ricchezza e il mio potere ne fossero accresciuti. La ricchezza che supera la possibilità di procurarsi agi mi è sempre sembrata il piú noioso dei possessi, e il potere che trascende la propria utilità mi è sempre parso spregevole. Fu il destino a impadronirsi di me quel pomeriggio ad Apollonia [quando ricevette la notizia dell’assassinio di Giulio Cesare, n.d.r.], quasi sessant’anni fa, e io decisi di non evitarne l’abbraccio». Poco piú avanti afferma: «Il giovane, che non conosce il futuro, vede la vita come una sorta di avventura epica, una sorta di Odissea (…) L’uomo di età matura, che ha vissuto il futuro sognato un tempo, vede la vita come una tragedia. Ha imparato che il suo potere, per quanto grande, non potrà prevalere contro le forze del caso e della natura a cui dà il nome di dei, e ha imparato che è mortale. Ma il vecchio, se recita a dovere la sua parte, deve vedere la vita come una commedia … finisce per rendersi conto di aver recitato tante di quelle parti da non essere piú se stesso». Il romanzo si avvia alla fine e la chiusura è sorprendente e amara sulla capacità di noi uomini di leggere il futuro. È affidata a una lettera immaginaria – non è piú nemmeno il caso di ripeterlo – di Filippo di Atene, medico dell’imperatore Augusto nei suoi ultimi a r c h e o 81


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Cammeo in onice rappresentante l’aquila imperiale con i simboli della vittoria. 27 a.C. (la montatura in oro, smalti e argento è stata aggiunta nel XVI sec.). Vienna, Kunsthistorisches Museum.

mesi di vita, a Lucio Anneo Seneca ed è datata nel 55 d.C. Il medico osserva che, da qualche tempo, specie i cittadini piú giovani, hanno iniziato a parlare con sufficienza del lungo regno di Ottaviano. Prosegue osservando: «Eppure l’Impero di Roma creato da lui ha resisti82 a r c h e o

to alla severità di un Tiberio, alla crudeltà mostruosa di un Caligola, e all’inettitudine di Claudio. E ora il nostro nuovo Imperatore è colui di cui tu fosti maestro da ragazzo, e a cui resti vicino nella sua nuova autorità. Siamo grati del fatto che governerà alla luce della tua sag-

gezza e della tua virtú, e preghiamo gli dèi affinché, con Nerone, Roma possa infine realizzare il sogno di Ottaviano Cesare». NELLA PROSSIMA PUNTATA • Giovanni Brizzi



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DA QUI ALL’ETERNITÀ

NELLA ROMA IMPERIALE, DAL II SECOLO D.C. IN POI, SI DIFFONDE L’USO DI SEPPELLIRE I DEFUNTI ALL’INTERNO DEI SARCOFAGI. L’INNOVAZIONE FA SEGUITO AL PASSAGGIO DAL RITO DELLA CREMAZIONE A QUELLO DELL’INUMAZIONE E SEGNA UNA SVOLTA NON MENO IMPORTANTE NEL CAMPO DELLA PRODUZIONE LEGATA AL MONDO FUNERARIO: LE GRANDI CASSE DI MARMO SI TRASFORMANO INFATTI NEL SUPPORTO DI RAPPRESENTAZIONI SCOLPITE DI ECCEZIONALE PREGIO, ANIMATE DA SOGGETTI SCELTI PER CELEBRARE I TRAPASSATI, MA ANCHE PER RIFLETTERE LA VISIONE DELL’ALDILÀ E L’IDEOLOGIA A ESSO COLLEGATA di Giulia Salvo

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In alto: il mausoleo di Cecilia Metella, innalzato al III miglio della via Appia Antica. 30-10 a.C. Si tratta di un esempio tipico della volontà di esternare la celebrazione del defunto, con un’architettura monumentale. A sinistra: una veduta della necropoli di Porto all’Isola Sacra (Ostia). Il sepolcreto si compone di oltre 200 edifici funerari, costruiti a imitazione di tempietti o di facciate di case.

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gli inizi del II secolo d.C., nel mondo romano, si verificò un netto mutamento nel costume funerario: alla cremazione, pratica sino ad allora imperante che comportava la sistemazione delle ceneri del defunto entro un’urna, si sostituí l’inumazione, con la deposizione dei corpi in appositi sarcofagi e la conseguente esplosione della produzione di questa particolare classe di manufatti. E tuttavia, al cambiamento negli usi della sepoltura non sembra aver fatto riscontro un’effettiva evoluzione del sentimento religioso. Il fenomeno implicò semmai una progressiva interiorizzazione delle manifestazioni legate al culto dei morti, riscontrabile anche nell’architettura funeraria: ai grandiosi monumenti di età repubblicana che facevano bella mostra di sé lungo le strade consolari, come il mausoleo di Cecilia Metella i cui resti sono ancora visibili sull’Appia Antica (vedi foto a p. 85), si sostituirono sepolcri chiusi verso l’esterno, decisamente piú sobri in facciata, dove tutto lo sfarzo venne trasferito al loro interno.

porta centrale architravata e finestrelle a feritoia; tali strutture rievocano chiaramente l’idea di una vera e propria dimora: erano, di fatto, le case dei morti, luoghi in cui i defunti venivano pensati e sentiti in qualche modo come presenti, dove era possibile commemorarli e venerare i loro spiriti. Ma alla sobrietà degli esterni fa da contrappunto un allestimento sempre piú sontuoso degli spazi interni delle camere sepolcrali, caratterizzati da una sovrabbondanza ornamentale: decorazioni pittoriche e in stucco, ma anche partiture architettoniche con edicole e nicchie absidate, erano chiamate ad accogliere i nuovi protagonisti del lussuoso mondo funerario privato, i sarcofagi con casse riccamente scolpite.

Esemplificativa è la necropoli di Porto all’Isola Sacra (Parco Archeologico di Ostia Antica; vedi foto alle pp. 84/85), dove si susseguono edifici funebri semplicissimi, sebbene di forme e dimensioni differenti, costruiti a imitazione di tempietti o di facciate di case, con

spiccano quelle degli Scipioni e dei Cornelii: valga tra tutti l’esempio del sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato, datato agli inizi del III secolo a.C., monolitico e a forma di altare (vedi foto nella pagina accanto). Sporadiche attestazioni di manufatti per

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UNA PRATICA ESCLUSIVA Va però precisato che a Roma in età repubblicana l’inumazione non era una pratica del tutto sconosciuta, anche se decisamente meno diffusa rispetto alla cremazione. L’uso di sarcofagi è infatti testimoniato soprattutto da parte di famiglie aristocratiche, tra cui

Pittura murale raffigurante una coppia di pavoni ai lati di un vaso in vetro ricolmo di frutti con foglie, da una tomba della necropoli di Porto all’Isola Sacra. Primi decenni del III sec. d.C. Ostia, Museo Ostiense.


In basso, a destra: la replica del sarcofago in peperino di Lucio Cornelio Scipione Barbato collocata nel sepolcro della famiglia sulla via Appia. L’originale del manufatto è custodito presso i Musei Vaticani, nel Museo Pio Clementino.

inumazione si ritrovano poi tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C.: accanto a esemplari a cassa rettangolare liscia e semplice coperchio piano sigillato tramite grappe di ferro, sono testimoniati anche sarcofagi decorati da una modanatura che corre lungo la fronte e il retro a formare un rettangolo, incorniciando sui lati brevi uno spazio quadrato in cui, in alcuni casi, può essere inscritto un semicerchio; anche i coperchi mostrano decorazioni geometriche. Si tratta di pezzi abbastanza particolari, variamente interpretati dalla critica: alcuni li hanno collegati all’ambiente neopitagorico, che rifiutava la pratica della cremazione, o comunque a un gruppo che sceglieva motivi decorativi geometrici dal valore simbolico, manifestando una volontà di differenziazione e di isolamento settario molto vicino all’associazione religiosa pitagorica; altri ne attribuiscono la diffusione a una generale influenza delle correnti religiose orientali. Al di là delle scelte specifiche di alcune sette religiose, questi esemplari mostrano una

sempre piú diffusa preferenza per il tipo di sepoltura a inumazione. Non mancano, nello stesso torno di tempo, attestazioni di sarcofagi con decorazioni piú ricercate, che riproducono tabulae ansatae (tabelle rettangolari con le estremità a forma di coda di rondine) oppure – ma piú raramente – ghirlande; in questi ultimi casi l’ornamentazione, composta da figure di bucrani che reggono voluminosi festoni di fogliame con piccoli frutti e fiori, mostra un maggiore intento rappresentativo e trova il suo piú illustre modello nella partitura decorativa dell’Ara Pacis di Augusto (9 a.C.). Il piú noto esemplare della serie è certamente il sarcofago Caffarelli di Berlino (40 d.C.; vedi foto a p. 88), ma non si dimentichi che proprio un sarcofago a ghirlande, forse di età tiberiana (14-37 d.C.), è stato riutilizzato per la sepoltura di Raffaello tuttora visibile nel Pantheon, a Roma. In tutti i casi sin qui citati, si tratta comunque di un uso per lo piú occasionale e nient’affatto generalizzato. Solo a partire dal II secolo d.C., tra la fine del regno di Traiano (98-117

«Che uno debba morire per iniziare a vivere? Ma per l’archeologia questo è ovvio e necessario» (Wilhelm Jensen e Sigmund Freud, Gradiva)

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d.C.) e gli inizi di quello di Adriano (117-138 d.C.), l’inumazione prese il sopravvento sulla piú comune cremazione. Le cause sottese a un simile cambiamento, per la cui comprensione le fonti letterarie ed epigrafiche non sembrano soccorrere affatto, sono in parte da rintracciare nel crescente benessere della società romana e, per altra parte, da imputare a una molteplicità di fattori: una piú esplicita autoaffermazione individuale, la rivitalizzazione di tradizioni ancestrali, la diffusione di credenze escatologiche o di correnti religiose orientali, la presenza di tradizioni comunitarie e/o familiari, particolari propensioni individuali, profili sociali (afflusso di notabili di origine greco-orientale, inurbamento della borghesia municipale centro-italica), specifici rituali, ecc... (vedi box a p. 100/101). Quale ne sia realmente la ragione, ciò che appare indubbio è il fatto che da questo momento in avanti i sarcofagi, scolpiti con un variegato repertorio di soggetti e temi mitologici a carattere narrativo, regneranno sovrani non solo nel repertorio legato alla morte, ma piú in generale nella storia dell’arte di epoca imperiale. Nel mondo antico si possono riconoscere tre grandi centri di produzione: Roma, l’At88 a r c h e o

tica e l’Asia Minore. I manufatti creati dai diversi ateliers si caratterizzano per specificità non solo stilistiche e architettoniche, ma anche compositive; inoltre, spesso, sono differenti i soggetti e i temi scelti per la decorazione delle casse.

DALLE BOTTEGHE DI ROMA... Apriamo allora questa rassegna con i sarcofagi urbani, realizzati a Roma dal II secolo d.C. sino agli inizi del IV secolo d.C., quando la manifattura, invece di esaurirsi, si rinnova, volgendo la propria attenzione ai temi cristiani e continuando vivace fino agli inizi del V secolo d.C. La forma piú comune dei sarcofagi è a cassa rettangolare, con coperchio piano o a doppio spiovente con maschere agli angoli e alzata frontale ornata; accanto al tipo a cassa è ben attestato anche il tipo conformato a tinozza (lenos). La decorazione si dispiega generalmente su tre dei quattro lati, ossia la fronte e i rilievi laterali; il retro della cassa viene invece lasciato allo stato grezzo. Questa peculiarità è da ricondurre alle modalità di esposizione dei manufatti entro le camere funerarie: i sarcofagi potevano essere infatti collocati lungo la parete, su piccole basi o

Il sarcofago Caffarelli. 40 d.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. È uno degli esempi migliori della tipologia caratterizzata da decorazioni che comprendono festoni, ghirlande (composte da fogliame, fiori e frutti) e bucrani.


poggiati direttamente sul pavimento, oppure all’interno di nicchie, lasciando in ogni caso completamente nascosta la parte retrostante, che perciò non necessitava di decorazioni. Anche i lati brevi mostrano spesso rilievi piuttosto semplici o eseguiti in maniera sommaria, tanto da suggerire che all’interno delle camere pure i fianchi fossero scarsamente visibili. L’osservazione degli esemplari urbani era dunque immaginata in via, se non del tutto esclusiva, certamente preferenziale da un’angolazione frontale. La tipologia decorativa piú diffusa prevede raffigurazioni che si dispiegano a fregio continuo sulla fronte e sui lati brevi. Nelle prime fasi di produzione, durante il regno degli Antonini (138-192 d.C.), godono di una certa fortuna le decorazioni a ghirlande – già note, come abbiamo visto, nel corso del I secolo d.C. – rette da putti e arricchite dalla presenza di scene figurate mitologiche oppure di elementi decorativi inseriti nelle arcate (due o tre) disegnate dai festoni di foglie e frutti. Il motivo si connota come la trasposizione in immagine delle decorazioni vegetali che venivano affisse sulla tomba al momento della deposizione o durante le feste in onore dei morti. Attraverso la loro rappresentazione sulle casse dei sarcofagi, le ornamentazioni floreali profumate delle dimore funebri divenivano eterne. Probabilmente già verso la fine del II secolo d.C. si sviluppa il tipo detto «a colonne» (vedi foto alle pp. 90/91, in basso), caratterizzato appunto da un susseguirsi di colonne (da quattro a sette), sormontate da arcate o da frontoni – spesso variamente alternati – oppure da un architrave continuo liscio. Comuni nel III e nel IV secolo d.C. sono poi i sarcofagi, di minor impegno economico, decorati da strigilature, ossia da scanalature ondulate in successione, che possono rincorrersi su tutta la superficie oppure essere interrotte nella porzione centrale e/o laterale della fronte da tabulae ansatae oppure da pannelli con scene figurate, con elementi architettonici, con edicole o ancora con clipei. Le ampie casse rettangolari costituivano una superficie adatta a ricevere le piú diverse rappresentazioni e infatti le botteghe della capitale mostrano una grande vitalità nella scelta dei soggetti da mettere in scena: prediletti in assoluto sono i temi a carattere mitologico (per lo piú di origine greca, rari quelli tipica-

mente romani), con le varie storie d’amore, di vendetta, di morte violenta o accidentale, di rapimenti, di stermini; non mancano poi i tiasi dionisiaci o marini, le Muse e le Stagioni (vedi foto alle pp. 90/91). Meno frequenti, o quanto meno non predominanti, sono le immagini di vita quotidiana: si ritrovano in genere scene di caccia, di matrimonio, di battaglia e, ovviamente, di compianto funebre, quanto mai pertinente al contesto luttuoso.

...E DA QUELLE DI ATENE Nella serie dei sarcofagi attici, che si sviluppa dal regno di Adriano (117-138 d.C.) sino all’invasione degli Eruli (267 d.C.), le casse sono decorate da un rilievo che si sviluppa in maniera continua, ma non omogenea, su tutti i lati: sulla fronte e su uno dei lati brevi le scene sono generalmente ad altorilievo, mentre sul secondo lato e sul retro le raffigurazioni appaiono a bassorilievo e, in linea di massima, meno curate. Gli esemplari, fabbricati ad Atene per lo piú in marmo pentelico, sono caratterizzati da casse con un maggiore sviluppo in altezza rispetto ai prodotti urbani; spesso sono evidenziati gli angoli tramite l’apposizione di elementi architettonici o figurati, come pilastri, colonne o cariatidi. Sino alla fine del II secolo d.C. i coperchi sono a forma di tetto a doppio spiovente, in alcuni casi anche con la delineazione di numerose piccole tegole; poi, a partire dall’ultimo quarto del II secolo d.C., subentra la forma cosiddetta a kline, con i defunti rappresentati distesi. Uno dei problemi maggiori dei sarcofagi attici è quello relativo alla cronologia: la produzione si rivela infatti troppo spesso «indifferenziata», senza che sia cosí possibile individuare degli elementi utili a definire una scansione temporale; una sorta di evoluzione si può, al piú, riconoscere nello sviluppo in altezza delle casse, che caratterizza gli esemplari piú tardi. Per quanto riguarda la decorazione, si ritrova nei manufatti attici il motivo a ghirlande, con la presenza di due ampi e rigogliosi festoni (composti da frutti, grappoli d’uva, spighe e pigne) sui lati lunghi. Gli elementi che reggono le decorazioni vegetali sono piuttosto vari: in alcuni sarcofagi compaiono un putto al centro e teste di buoi (o aquile) a lati; altrove, al putto centrale si sostituisce l’aquila, mentre sul limitare del fregio sono scolpiti bucrani. Ben attestata è anche la tipologia a fregio a r c h e o 89


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continuo, che fa il suo ingresso intorno al 150 d.C.: le casse sono spesso caratterizzate da un ingombrante fondo liscio e libero (vedi foto a p. 97), entro il quale si stagliano le figure; sia lo zoccolo che il bordo superiore dei sarcofagi presentano decorazioni ornamentali, anche piuttosto complesse. A differenza degli esemplari urbani, i prodotti attici mostrano un patrimonio mitologico diverso e sicuramente piú limitato: vengono prediletti gli episodi legati al ciclo troiano, ma non mancano scene di battaglia, come la Centauromachia o l’Amazzonomachia (vedi foto alle pp. 94-95), oppure immagini legate al contesto dionisiaco.

la serie si caratterizza infatti per la notevole varietà delle forme e delle decorazioni, facenti capo a piú centri di produzione. I manufatti sono concepiti come strutture architettoniche e plastiche libere nello spazio: le casse presentano invero una decorazione che corre uniforme su tutti i quattro lati e ciò implica che i pezzi fossero visibili nella loro interezza, magari collocati al centro delle camere funerarie o disposti lungo le strade principali delle necropoli. Tratto caratteristico e comune a questa produzione è la presenza di una decorazione ricca e spesso sovrabbondante. I sarcofagi piú diffusi all’interno della serie sono quelli a colonne, caratterizzati da differenti tipologie decorative: quella piú nota presenta una partitura di sei colonne tortili sui LIBERI NELLO SPAZIO Decisamente piú articolata è invece la produ- lati lunghi, che reggono un frontone al centro, zione dei sarcofagi microasiatici, concentrati due architravi ai lati e altre due arcate nella tra la metà del II secolo d.C. e il 260-270 d.C.: porzione piú esterna sul limitare della cassa; i

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In basso, sulle due pagine: sarcofago a colonne con la rappresentazione delle Stagioni. 290-300 d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Il manufatto fu realizzato per accogliere le spoglie di un bambino.


In alto: sarcofago a ghirlande con coperchio a doppio spiovente con acroteri alle due estremità, da Porta Maggiore (Roma). 130 d.C. Parigi, Museo del Louvre. Sulla fronte, nelle lunette, è raffigurato il mito di Atteone: a destra, Diana al bagno scoperta per sbaglio da Atteone e, a sinistra, Atteone mutato in cervo e sbranato dai cani

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Rilievo su un sarcofago attico raffigurante Meleagro, signore di Calidone e figlio di Eneo, che dà la caccia al terribile cinghiale mandato da Diana, offesa perché il padre non aveva sacrificato in onore della dea. 225-250 d.C. Salonicco, Museo Archeologico.

lati brevi presentano invece tre arcate, di cui la centrale è generalmente frontonata. Il centro di produzione è da ricercare nella Frigia meridionale, probabilmente a Docimium, località peraltro nota per le cave di estrazione (oggi in Turchia occidentale, n.d.r.). Ritorna, anche nella serie asiatica, la tipologia decorativa a ghirlande (concentrata tra il 140 e il 170 d.C.; vedi foto a p. 91, in alto)), cosí come non mancano manufatti a fregio continuo figurato, sviluppati forse su imitazione dei 92 a r c h e o

prodotti attici, con gli spigoli posti in evidenza mediante elementi architettonici (colonne o pilastri) oppure figurati (Vittorie). Il repertorio dei sarcofagi asiatici appare invece piuttosto limitato nella scelta dei temi da mettere in scena: oltre alle figure di Muse e alle immagini con le fatiche di Ercole (vedi foto alle pp. 98-99), si ritrovano solo raffigurazioni relative a personaggi omerici o ad alcuni protagonisti del mito, come Dedalo colto nell’atto di preparare le ali per il fatale volo di Icaro.


I prodotti attici, urbani e microasiatici diventano ben presto oggetto di commercio, tanto da essere variamente esportati in tutto il Mediterraneo, con zone di maggiore o minore diffusione. Cosí, nei territori occidentali il dominio è detenuto dai manufatti della capitale, ampiamente attestati nelle aree tirreniche dell’Italia meridionale, ma anche in Gallia, in alcune province africane (specificatamente la Mauretania, la Numidia e la Proconsolare non oltre il golfo di Cartagine), in Spagna e in

Portogallo; minore è invece il favore loro accordato dalle province orientali, i cui mercati sono per lo piú in mano alle officine attiche, seppure alcune occorrenze siano comunque presenti in Siria, in Palestina e in Arabia. I sarcofagi attici sono esportati con successo in tutto l’impero romano: si tratta infatti di un prodotto di lusso, richiesto da una committenza facoltosa e desiderosa di distinguersi tramite l’acquisto di un’opera costosa, dalle forti implicazioni ideologiche. Fatto interesa r c h e o 93


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sante è che i sarcofagi attici creati appositamente per essere esportati a Roma mostrano il retro della cassa e uno dei fianchi in uno stato di semi-lavorazione, assecondando cosí le modalità di deposizione dei pezzi nelle camere funerarie da parte degli acquirenti della capitale. Diversamente, l’esportazione dei prodotti asiatici sembra essere piú contenuta, concentrandosi quasi esclusivamente a Roma e nei suoi dintorni, oltreché ovviamente nelle zone interne dell’Asia Minore. Completano poi il quadro le officine locali che, ubicate in quasi tutte le regioni dell’impero romano, si allineano alle tendenze dei centri maggiori, replicandone le iconografie. La diffusione capillare, mediante le diverse direttrici commerciali, dei prodotti attici, urbani e asiatici è all’origine di fenomeni di imitazione: gli artigiani locali, ognuno con i propri mezzi, tentano di avvicinarsi il piú possibile alle caratteristiche architettoniche e iconografiche dei modelli principali. Le repliche risultano tuttavia di fattura piú modesta rispetto ai manufatti dei centri maggiori: spesso si notano livelli di esecuzione qualitativa piuttosto bassi o stilisticamente disomogenei, oppure palesi fraintendimenti esecutivi ovvero reinterpretazioni di elementi iconografici. 94 a r c h e o

Tuttavia, accanto a manufatti che replicano impianti decorativi tratti dal repertorio diffuso nelle diverse zone a seguito delle varie importazioni, non mancano spinte piú marcatamente autonome. Le botteghe provinciali infatti mostrano spesso accenti innovativi rispetto agli esemplari attici, urbani o microasiatici, sia dal punto di vista stilistico che compositivo. Si assiste cosí alla creazione di rielaborazioni programmate dei modelli, che danno avvio, in diverse regioni e in determinati lassi cronologici, a tradizioni artigianali del tutto peculiari.

FATTI IN SERIE Ma che tipo di produzione era quella dei sarcofagi? Ebbene, si trattava anzitutto di una produzione eseguita in serie, cioè in maniera ripetitiva. Numerosi sono infatti i sarcofagi che mostrano casse decorate con rilievi tra loro assolutamente simili: per esempio, integri o frammentari si conservano circa duecento esemplari, tra attici e urbani, che mettono in scena, replicandola in maniera pedissequa, l’iconografia della mitica caccia di Meleagro al cinghiale inviato da Diana a devastare la città di Calidone (vedi foto alle pp. 92/93, 97 e 104). Vale subito la pena precisare che il termine


«seriale» non va inteso nell’accezione ripetitiva e industriale che saremmo portati a riconoscere oggi. Ogni manufatto è infatti un’opera a sé, a cui un artigiano ha lavorato con dedizione e con le proprie capacità. Se quindi è vero che rilievi scolpiti con gli stessi temi iconografici sono spesso simili, è altrettanto vero che questi non sono mai del tutto identici gli uni agli altri: ora variano i dettagli, ora lo schema di qualche protagonista, ora vengono aggiunti o eliminati alcuni personaggi e cosí via. La ripetitività interessa semmai alcuni motivi figurativi fissi utilizzati dagli scalpellini, motivi che potevano anche essere assemblati con una certa libertà. Il particolare successo riscosso da un rilievo inerente a uno o piú momenti di un determinato soggetto mitologico, raffigurati in una certa impalcatura compositiva, portava alla sua adozione nel repertorio delle botteghe e alla sua replica; esso veniva di conseguenza riproposto ai possibili compratori. Si pensi, per esempio, a un gruppo di sarcofagi urbani in cui è raffigurato lo sterminio dei quattor-

dici figli di Niobe dalle frecce di Apollo e Diana, per vendicare le offese rivolte alla madre Latona: la serie ha avuto probabilmente inizio nella prima metà del II secolo d.C., giacché l’esemplare piú antico a oggi noto risale al 130-140 d.C.; i manufatti successivi, che non travalicano i confini del II secolo dell’era volgare, ripropongono la medesima composizione senza varianti degne di nota.

UN’ICONOGRAFIA DI SUCCESSO I bisogni comunicativi di una committenza, che ha fatto ricorso alla messa in scena della morte in quanto tale per la costruzione di un discorso funebre, erano evidentemente soddisfatti dalla rappresentazione dell’ecatombe dei figli di Niobe secondo quella specifica modalità figurativa. L’iconografia ha evidentemente riscosso successo tra gli acquirenti e, godendo di un periodo di moda, ha continuato a essere richiesta e replicata. Un acquirente poteva infatti scegliere un sarcofago finito magari proprio sulla scorta della particolare fortuna che quell’episodio,

Sulle due pagine: immagini di un sarcofago attico decorato sulla fronte da un rilievo raffigurante un’Amazzonomachia. 220-230 d.C. Salonicco, Museo Archeologico.

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IL FRASTUONO DEL ROGO In un epicedio (poesia funebre) di Stazio presente all’interno delle Selve (V, 1) si legge che Abascanto, liberto di Domiziano, perde in giovane età la sposa Priscilla e non potendo sopportare il fumo e il frastuono del rogo tipico della cremazione, procede a una sorta di imbalsamazione: compone cosí il corpo della moglie adorata in un ricco letto, in un estremo tentativo di protezione dal deperimento. Il comportamento, piú che essere indiziario di una specifica ritualità o dell’adozione di una pratica misterica di derivazione orientale, è da ricondurre alla sfera dell’emotività ed è semmai sintomatico di un accresciuto sentimentalismo, che apre la strada a un diverso rituale della memoria. Abascanto non solo non accetta la morte, ma anzi, «strappando l’ombra

in una determinata soluzione figurativa, otteneva in un certo momento. Cosí la richiesta generava la produzione, ma è in parte anche vero che la produzione, continuando a riproporre determinati episodi mitologici secondo specifiche modalità iconografiche, contribuiva al loro successo e generava di conseguenza richiesta. Indiziaria poi della possibilità che i sarcofagi con i soggetti maggiormente di moda venissero eseguiti in serie è stata spesso considerata la presenza di teste-ritratto lasciate allo stato grezzo: ci si riferisce ai busti dei defunti, racchiusi entro conchiglia o medaglione, e inseriti all’interno di piú ampie composizioni rifinite al dettaglio; ma si badi che anche i protagonisti dell’uno o dell’altro mito erano spesso immaginati come supporti per i ritrat-

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dal rogo», cerca di conservare il corpo di Priscilla, preservandone in maniera artificiale la bellezza, in una promessa di eterna durata. È l’illusione dell’immortalità, che trova perfetta trasposizione nel ricorso al marmo per la confezione dei sarcofagi, metafora essi stessi di indistruttibilità, dove il ricordo del defunto è cristallizzato nelle immagini mitologiche che hanno il compito di preservarne la memoria. C’è da chiedersi se il comportamento del giovane liberto addolorato sia semplice espressione di un’inclinazione individuale o spia di una sensibilità collettiva in lento cambiamento, che ha portato all’adozione generalizzata della pratica dell’inumazione con la conseguente diffusione su larga scala dell’uso dei sarcofagi.

ti e appaiono perciò in alcuni casi appena sbozzati. I volti sarebbero stati rifiniti solo successivamente sulla scorta delle peculiarità fisionomiche dell’eventuale compratore.

TIMORE REVERENZIALE È però opportuno sottolineare come il problema dei ritratti incompiuti non sia affatto risolto. In particolare, stupisce di ritrovare ritratti non terminati su esemplari di lusso, per i quali è assai difficile non prevedere una commissione specifica. Certo, è possibile supporre che un compratore «previdente» avesse ordinato con anticipo il proprio sarcofago, ma che poi per una serie di ragioni, magari psicologiche legate a una sorta di timore reverenziale nell’apporre la propria effigie alle figure mitologiche, o anche sem-

Sarcofago raffigurante il massacro dei figli di Niobe, mitica figlia del re lido Tantalo e sposa del tebano Anfione. 170 d.C. Monaco di Baviera, Glyptothek. Fiera della sua numerosa prole, Niobe si vantava di essere perciò superiore a Latona, che per vendetta mandò i suoi figli, Apollo e Artemide, a uccidere quelli della donna.


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Sarcofago attico con un’altra raffigurazione di Meleagro e Atalanta impegnati nella caccia al cinghiale calidonio, da Patrasso. 150-170 d.C. Atene, Museo Nazionale Archeologico.

plicemente di tipo pratico riconducibili alla quotidianità della vita e ai suoi possibili imprevisti, si fosse rinunciato al lavoro di rifinitura di un pezzo ormai già acquistato e sistemato nella camera sepolcrale. Le motivazioni relative alla mancata esecuzione dei ritratti potevano essere varie e molteplici, per noi non sempre facilmente ricostruibili, giacché legate spesso a situazioni contingenti della realtà quotidiana. Ma quella funeraria era anche, e soprattutto, una produzione su commissione: occorre infatti immaginare che l’impegno economico per la creazione dei sarcofagi, a maggior ragione laddove finemente decorati, fosse abbastanza cospicuo, presupponendo l’avvio del lavoro solo a seguito della precisa richiesta da parte di un acquirente. Risulta infatti difficile credere che una bottega di scalpellini si assumesse l’onere, in termini di tempo e di risorse, della creazione di un pezzo che poteva rimanere invenduto, perché magari non incontrava i gusti del mercato. Che i sarcofagi fossero spesso eseguiti dietro precisa richiesta della committenza – che addirittura poteva intervenire nella creazione delle iconografie –, è un fenomeno abbastanza noto: cambiamenti in seno a composizioni ormai accreditate e circolanti implicano evidentemente l’intervento diretto del compratore, desideroso di veicolare un messaggio ben preciso. Esempio per eccellenza in questo senso è il sarcofago Rinuccini (Berlino, Staatliche Museen, ma un tempo a Firenze, Collezione

Rinuccini, 200 d.C. circa; vedi foto alle pp. 102103), nel quale si mescolano, caso piú unico che raro, episodi di vita humana con temi mitologici. Le prime due scene sulla sinistra del rilievo mostrano momenti di vita reale: una dextrarum iunctio (parte del rituale matrimoniale, che prevedeva la stretta della mano destra tra gli sposi) e un’immagine di sacrificio di un generale prima della partenza. La committente del sarcofago, forse la moglie del condottiero, era probabilmente interessata a raffigurazioni che ponessero in rilievo le virtú del defunto consorte e la sua tragica morte. Se per il primo desiderio soccorreva senza alcuna difficoltà il repertorio funerario di immagini con condottiero, piú difficile era trovare, all’interno dello stesso orizzonte, una raffigurazione di morte, giacché i Romani vi apparivano sempre come vincitori. Ecco che allora l’artigiano si è rivolto al panorama mitologico, all’interno del quale ha trovato l’allegoria della morte dell’uomo nella figura di Adone, perito durante una valorosa battuta di caccia. Pur riutilizzando schemi iconografici e tipi figurativi di lunga e consolidata tradizione l’artigiano, dietro la spinta della committenza, ha di fatto creato un unicum.

I COSTI DELLA REALIZZAZIONE Appare quindi evidente come quella funeraria fosse, in linea di massima, una produzione di prestigio: i costi della morte, allora come oggi, potevano essere anche molto elevati e a r c h e o 97


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Le fatiche di Ercole ricorrono spesso sui sarcofagi. In queste pagine le vediamo nelle versioni proposte da due sarcofagi a colonne, entrambi di produzione microasiatica. A sinistra, è un esemplare monumentale, chiuso da un coperchio a kline con con due figure distese, un uomo e una donna abbracciati (II sec. d.C.; Roma, Fondazione Torlonia); in alto, un’opera custodita a Roma, nella Galleria Borghese (170 d.C. circa).

variavano in base alle dimensioni dei sarcofagi e alla complessità della decorazione. Si doveva anzitutto contare il tipo di materiale impiegato, il marmo, generalmente di Luni per i prodotti urbani, di Paro per quelli attici; meno pretenziosi erano invece i sarcofagi provinciali, che potevano anche essere eseguiti in pietra. Il prezzo della materia prima aumentava anche in base ai costi del suo trasporto, piú alto laddove estratto dalle cave della Grecia o dell’Asia Minore.

ALLA PORTATA DI POCHI E poi c’era il costo della manodopera, che per i sarcofagi piú lussuosi e raffinati comprendeva scultori, ritrattisti e in alcuni casi anche incisori. Si badi però: per la fattura di un sarcofago marmoreo di media o buona qualità non occorreva necessariamente appartenere al ceto benestante. Molto poco purtroppo si conosce non solo in merito al

costo effettivo che potevano raggiungere i diversi manufatti, piú o meno pregiati, ma anche al rango dei committenti. È azzardato ipotizzare la capacità economica di un proprietario unicamente in base alla tipologia del sarcofago: se è infatti vero che esemplari lussuosi potevano essere richiesti da persone appartenenti al ceto medio-alto (ufficiali, artigiani arricchiti, cavalieri e via dicendo), di contro non era inusuale che membri dell’aristocrazia senatoria si facessero seppellire in casse assai semplici e poco pretenziose. In generale, possiamo affermare che i committenti di un sarcofago dovevano appartenere per lo piú al vasto ceto medio, sebbene tra i suoi ranghi inferiori solo pochi potevano permettersi una cassa decorata. Era questo uno strato sociale che riusciva a farsi costruire dimore funebri, magari ornate anche con un certo sfarzo, ma non poteva permettersi i sarcofagi (vedi box a p. 105). A monte della produzione di un sarcofago vi è il rapporto, piuttosto vivace, tra artigiano e committente: se la scelta dei soggetti e dei temi è da ascrivere alla volontà degli acquirenti, di contro la creazione materiale delle casse e le modalità di messa in scena delle raffigurazioni sono da ricondurre alla cultura figurativa degli scalpellini, oltre che alle capacità personali. La produzione dei sarcofagi è direttamente legata alle dinamia r c h e o 99


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I MODELLI PROGETTUALI Che gli scultori si avvalessero spesso di modelli progettuali di statue o rilievi è fatto piuttosto accertato. A questa categoria appartengono forse i typoi citati da Plinio nella sua Naturalis Historia (XXXV, 128) in relazione a Eufranore, attivo ad Atene tra il 380 e il 330 a.C.: «fece statue colossali, in marmo, e modelli» (traduzione di Rossana Mugellesi). Anche Timoteo (di formazione attica e attivo tra il 380 e il 360 a.C.) doveva essere stato autore dei modelli per la decorazione del Tempio di Asclepio a Epidauro, costruito tra il 375-370 a.C. e di cui lo scultore assunse anche la direzione dei lavori: sui frontoni erano raffigurati a ovest l’Amazzonomachia e a est il sacco di Troia (con al centro il ratto del Palladio); gli acroteri centrali erano costituiti da figure femminili in volo, mentre quelli laterali da figure femminili a cavallo. Un modello preparatorio fittile, cosiddetto proplasma, era probabilmente all’origine di alcune riproduzioni in piccolo formato dell’Atena Parthenos, la statua di culto crisoelefantina del Partenone, alta ben 12 m e opera del celebre Fidia. È inoltre assai probabile che la presenza di modelli fosse necessaria per la creazione di statue in bronzo, giacché la tecnica di fusione imponeva la creazione di un precedente modellino in argilla. La presenza di disegni-modello è poi verosimile anche per altre classi di materiale, tra cui in particolare i mosaici e le stoffe. Statua di Aura in origine facente parte della decorazione del Tempio di Asclepio a Epidauro, opera dello scultore Timoteo. 375-370 a.C. Atene, Museo Nazionale Archeologico.

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che del lavoro di bottega, alle modalità attraverso le quali gli artigiani si rapportano con i compratori, ne recepiscono eventuali istanze e riutilizzano tecniche acquisite per la confezione di un prodotto finito. Ma procediamo con ordine. I committenti di un sarcofago dovevano certamente riflettere sul tipo e sul soggetto della decorazione da apporre sull’ultimo giaciglio del proprio corpo. A seconda delle disponibilità economiche, gli acquirenti potevano scegliere un esemplare già finito eventualmente presente in bottega oppure commissionarlo. Si tenga però presente che in generale nel mondo antico il fenomeno dello stoccaggio non aveva una diffusione cosí massiccia: di norma il committente, recatosi in bottega, si metteva d’accordo con l’artigiano, il quale a sua volta ordinava appositamente il materiale, per lo piú il marmo; ovviamente, al tipo di materiale selezionato erano strettamente connessi il possibile aumento dei costi di trasporto (in base alla cava di estrazione) e dei tempi di attesa. Sul retro delle casse di diversi sarcofagi urbani – come abbiamo detto, non scolpito e dunque preziosissima fonte di informazione – sono ancora spesso visibili tracce di differenti lavorazioni non direttamente collega-


verse soluzioni in base a una sorta di «campionario», che si deve immaginare composto da un repertorio di disegni o di calchi in gesso. Una volta decisa, la raffigurazione veniva creata dall’artigiano articolando e modificando i diversi tipi figurativi secondo le proprie capacità, senza mai «creare» nel senso proprio del termine, ma continuando a usufruire del repertorio a sua disposizione, costituito da una raccolta materiale grafica di temi e motivi iconografici. Prima di scolpire la raffigurazione prescelta, non era affatto improbabile che lo scalpellino procedesse all’elaborazione di un bozzetto preliminare, che poteva prendere le forme di un disegno di progetto ovvero di un modello fittile o in gesso (vedi box alla pagina precedente). Tale passaggio è tanto piú plausibile DAL BLOCCO AL FREGIO Le idee per le immagini, in particolare la qualora un acquirente avesse commissionato selezione dei soggetti e dei temi, erano svi- un preciso tipo di composizione. Il proprieluppate anzitutto dal compratore in un con- tario avrà probabilmente voluto vedere una tinuo e aperto dialogo con l’artigiano dell’of- sorta di «bozzetto» dell’intero apparato figuficina, il quale poteva illustrare al cliente di- rativo, in modo da rendersi conto del risultabili al processo di estrazione del blocco dalle cave o al suo trasporto, oppure modanature, o ancora dei segni tipici di una precedente messa in opera dei pezzi come elementi architettonici. Questo lascia pensare che il marmo potesse in alcuni casi essere anche di riuso. Cosí, per esempio, blocchi di architrave per ragioni ignote mai utilizzati o appartenenti a edifici demoliti, per forma e lunghezza, potevano agevolmente essere riutilizzati dalle maestranze per la creazione di una cassa. In questo modo si ridimensionava di molto non solo il costo per il materiale, giacché veniva eliminata la fase di estrazione e di trasporto, ma anche il tempo di attesa per il reperimento del marmo da lavorare.

Sarcofago decorato dalla rappresentazione del mito di Oreste. 100-125 d.C. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. L’eroe compare tre volte nel rilievo, sempre impugnando una corta spada: al centro e sulla sinistra, sopra i cadaveri di sua madre Clitennestra e del di lei amante Egisto, che ha ucciso per vendicare l’assassinio di suo padre Agamennone; sulla destra sta invece espiando gli omicidi commessi nel santuario di Delfi, evocato da un tripode e da una roccia.

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to finale e apportare eventuali modifiche prima della messa in opera. Il modellino sarebbe poi rimasto a disposizione della bottega, andando ad arricchire il «campionario» formale da mostrare a un successivo cliente e avrebbe altresí potuto costituire la base per la creazione di ulteriori fregi con impalcature compositive simili.

GRIGLIE E CORDE Per poter riportare sulla cassa di un sarcofago le composizioni presenti su un disegno di progetto o su un modellino in gesso è probabile che le maestranze ricorressero a una griglia di linee verticali, orizzontali e diagonali, realizzate mediante l’uso di una corda sul blocco di marmo oppure, come è stato ribadito di recente, utilizzassero uno schema di cerchi concentrici creati tramite l’ausilio del

compasso; i cerchi avrebbero costituito la base grafica per la successiva creazione delle raffigurazioni. John B. Ward-Perkins (19121981) ipotizzò che il disegno preparatorio potesse anche essere riportato mediante l’uso di vernice rossa, in una sorta di sinopia ante litteram (vedi box a p. 104). Gli scalpellini riportavano il bozzetto preliminare sulla superficie grezza, che sarebbe stata poi lavorata: le diverse figure venivano incise, nei loro contorni, a bassissimo rilievo contro il piano di fondo non rifinito. A questo punto si dava avvio al processo di lavorazione vero e proprio, con la rimozione del materiale; le zone che cosí emergevano dal fondo erano poi modellate e rifinite – tramite scalpelli, mazzuolo, subbia, gradina… – nelle figure desiderate. Sorge a questo punto spontaneo chiedersi

Sulle due pagine: il sarcofago Rinuccini. 200 d.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. L’opera mostra la rara compresenza di temi legati alla vita quotidiana e mitologici: sulla sinistra, una dextrarum iunctio (scena matrimoniale, dove gli sposi si stringono la mano destra) e una scena di sacrificio, in cui il protagonista, in abiti militari, compie un sacrificio prima della partenza; sulla destra, vediamo invece Adone, ucciso dal cinghiale mandato contro di lui da Marte. La foto alla pagina accanto mostra anche il lato breve sinistro della cassa, sul quale è scolpita una processione, con un toro inghirlandato destinato al sacrificio.

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perché determinati miti siano stati scelti per la decorazione dei sarcofagi e quale fosse il loro significato all’interno del mondo legato alla morte. Partiamo anzitutto da un presupposto: in una società, come quella romana della media età imperiale, dove il livello di alfabetizzazione era fortemente disomogeneo all’interno delle diverse classi, l’immagine figurata risultava senza dubbio uno dei principali mezzi di comunicazione. Questo assunto risulta tanto piú vero per il contesto funerario, dove il sarcofago, ultimo e perenne ricordo di ciò che si era stati in vita, assumeva una notevole forza comunicativa. Le raffigurazioni scelte per la decorazione dei rilievi, lungi dall’essere casuali, dovevano essere portatrici di un messaggio ben preciso che i congiunti del defunto, in possesso del «codice» per decifrare il sistema di segni di cui si componeva l’immagine stessa, riuscivano perfettamente a comprendere.

COME ALLEGORIE DI UN’ORAZIONE Le allegorie mitologiche costituivano una sorta di linguaggio, se vogliamo per certi versi poetico, attraverso il quale venivano costruiti i discorsi funebri e luttuosi, tanto da divenire – come ha sottolineato Paul Zanker – una forma allegorica di orazione funebre. Si tenga inoltre presente che il messaggio veicolato dalle immagini non era mai cosí rigido e/o costante, ma era strettamen-

te legato alle modalità visive e associative, nonché alla cultura o anche solo allo stato d’animo dell’osservatore; una raffigurazione era dunque suscettibile di diversi livelli di lettura, che potevano essere tutti o in parte recepiti dallo spettatore. Le casse dei sarcofagi recano fregi scolpiti con una gamma relativamente ampia di storie leggendarie desunte dall’enorme patrimonio della mitologia greca. Agli inizi della produzione (II secolo d.C.) si ritrovano in via preferenziale raffigurazioni mitologiche a carattere narrativo, nelle quali la morte è rappresentata come tale. Si tratta di soggetti in cui i giovani protagonisti scompaiono prematuramente, vittime dell’irruzione di un fato impietoso o della violenza degli dèi: i Niobidi, uccisi per mano di Apollo e Diana; Fetonte, fulminato dalla folgore di Giove per aver provocato con la maldestra guida del carro del Sole irreparabili danni cosmici; Atteone, sbranato dai propri cani per aver scoperto involontariamente Diana al bagno; Ippolito, trascinato lungo la scogliera dai cavalli imbizzarriti; Icaro, che precipita per aver volato troppo vicino al sole. Sulla stessa linea interpretativa si inseriscono anche i tragici massacri che si susseguono durante il sacco di Troia e la vendetta di Medea perpetrata ai danni di Creusa, rea di aver fatto innamorare di sé Giasone e averle «rubato» l’uomo della vita. Le scene potevano essere di massa o singole: se le prime servivano a stimolare una riflesa r c h e o 103


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IL TRACCIATO GUIDA La presenza di un «tracciato guida», piú o meno compendiario e funzionale a riportare sulle casse dei sarcofagi l’eventuale bozzetto con la raffigurazione da scolpire, era tanto piú plausibile se si pone mente al fatto che il materiale su cui lavoravano gli scalpellini, il marmo per lo piú, era piuttosto costoso. La correzione in corso d’opera, pur documentata in certi casi, non doveva essere poi cosí agevole. Del resto, la presenza di disegni preparatori posti direttamente su una superficie da decorare è stata piú volte sottolineata anche per altre classi di materiale: è il caso dei mosaici, soprattutto quelli di tipo geometrico, realizzati a partire da linee guida incise e dipinte sul nucleus (il penultimo strato composto da malta e calce con frammenti laterizi mescolati, sul quale si impostava il livello finale di malta finissima su cui si allettavano le tessere); ma le medesime considerazioni valgono anche per la pittura ad affresco, dove disegni preparatori eseguiti a pennello, in ocra rossa o in nero fumo, servivano per delineare le linee principali di intere composizioni figurate oppure i contorni di singole figure o di elementi decorativi.

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Ancora una versione della caccia al cinghiale calidonio da parte di Meleagro e Atalanta su un sarcofago rinvenuto sulla via Valeria, fra Tivoli e Vicovaro. Prima metà del III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

sione sulla morte in quanto tale, sul motivo del trapasso a seguito di un evento drammatico e inaspettato, diversamente le scene mitologiche individuali si prestavano meglio a creare uno sfondo allegorico e una possibilità di identificazione con la storia defunto. I parenti piangevano infatti un morto, con un suo specifico passato. La scelta ragionata di un particolare mito e di un determinato episodio, a cui si poteva dare particolare risalto collocandolo eventualmente al centro della cassa, era fondamentale ai fini comunicativi: si individuava una certa situazione, consona alle proprie necessità espressive, e la si «rimodellava» secondo le esigenze del caso, magari ponendo in luce un particolare personaggio o concentrandosi su un episodio specifico. Pren-


diamo come esempio i sarcofagi con il mito della presuntuosa Niobe. In realtà la donna, protagonista di fatto della vicenda, occupa spesso una posizione marginale, essendo relegata ai lati dei fregi, mentre un’importanza maggiore è data alla morte cruenta dei figli innocenti che si dispiegano, con movimenti concitati e drammatici, su quasi tutto il campo a disposizione. È il lamento per la morte di innocenti fanciulli l’argomento che qui interessava e Niobe diventa l’esempio per antonomasia di chi, dopo la scomparsa di un familiare, permane in un lutto eterno.

IL LUTTO MITIZZATO Strettamente connesse alle tematiche incentrate sul motivo della morte sono le scene di compianto funebre sul corpo degli eroi: Meleagro, Achille ed Ettore spiccano per essere i soggetti prediletti. Oltre a esaltare la virtú del defunto, tali raffigurazioni trasponevano nella realtà mitica la situazione luttuosa che coinvolgeva la famiglia del morto. Attraverso l’allegoria mitologica i congiunti del defunto potevano riconoscere il proprio dolore nelle figure affrante che, nei rilievi, attorniano le salme: il Pelide che piange la morte di Patroclo o Andromaca quella di Ettore. Tematicamente affini sono poi i rilievi in cui compa-

INVESTIRE SULLA MORTE La morte era un «investimento» sul quale si era disposti a spendere anche molto denaro. È stato infatti calcolato che i costi di un sarcofago pregiato potevano ammontare alla metà o all’intero stipendio annuale di un centurione della guardia pretoriana. Dobbiamo immaginare che la moglie di un venator, che si era guadagnato da vivere uccidendo animali feroci all’interno dell’arena e che aveva raggiunto magari una certa notorietà grazie alla sua bravura, non avesse di certo un patrimonio paragonabile alla sposa di un centurione della guardia pretoriana: e tuttavia, la donna commissionò per il marito adorato un sarcofago (oggi conservato nel cortile di Palazzo Gomez Silj a Roma, datato tra il 220 e il 230 d.C.; vedi foto in basso) di tutto rispetto e addirittura decorato con scene di caccia mitica, a eterno ricordo delle sue virtú. Ovviamente, le spese dei sarcofagi potevano variare anche di molto, direttamente legate com’erano alle caratteristiche, tecniche e decorative, del pezzo: dal tipo di materiale utilizzato per la confezione alla complessità dell’apparato figurativo, che poteva richiedere la presenza di un numero piú o meno elevato di maestranze, con competenze anche differenti. Per esempio i sarcofagi strigilati, spesso anche di piccolo formato, caratterizzati da una lavorazione corrente molto semplice che comportava un impegno (in termini di tempo e fatica) estremamente ridotto, erano destinati a clienti con capacità economiche limitate. Nulla a che vedere con i committenti che, soprattutto verso la metà del III secolo d.C., si fecero costruire sarcofagi colossali, riccamente scolpiti con scene a rilievo su tutta la cassa.

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iono miti di rapimento: quello di Proserpina da parte di Plutone è di certo uno dei soggetti piú amati, ma ben documentati sono anche i Dioscuri che rapiscono le Leucippidi o Ganimede portato in cielo da Giove sotto le mentite spoglie di un’aquila. In questi casi il messaggio sotteso va ricercato nel motivo, trasfigurato nella narrazione mitica, dell’interruzione improvvisa di una giovinezza felice; ma rispetto alle «pure» immagini di morte vi si intravede in filigrana un risvolto consolatorio: se le vittime sono spesso fanciulle indifese o giovanetti, l’autore del ratto è un dio. Nei sarcofagi relativi a Proserpina le defunte potevano paragonare il brusco irrompere della morte nella propria vita a quello del rapimento da parte del re degli inferi; la consolatio risiede nel fatto che il rapitore è Plutone in persona e che la fanciulla ne diventerà eternamente la divina consorte. Considerazioni analoghe valgono per le Leucippidi: anche in questo caso i rapitori, Castore e Polluce, figli di Giove, ne sono gli amanti e le giovani sono al tempo stesso spose e vittime.

EPIGONI DI PROSERPINA L’utilizzo del linguaggio del mito nel repertorio funerario dava la possibilità non solo al defunto, ma anche ai suoi familiari di esprimere, attraverso le varie vicende, il proprio stato psicologico (dolore, nostalgia, ecc.), fatto che portava spesso a una rivisitazione in chiava personalizzata delle iconografie. Esemplificativo in questo senso è proprio il mito di Proserpina. Le piú consuete raffigurazioni mostrano la giovane che tenta invano di svincolarsi dalle braccia del rapitore, deciso a portarla con sé agli inferi e prenderla in sposa. Ebbene, in un sarcofago urbano conservato ai Musei Capitolini (230 d.C.) Persefone, che presenta nel volto le fattezze fisionomiche della defunta, non solo asseconda il volere del rapitore, ma anzi svela il proprio corpo nel gesto noto come anakalypsis (letteralmente, scoprimento, rivelazione, n.d.r.), che connota la donna nella condizione di sposa, lasciando a questo punto ipotizzare una probabile identificazione del marito nell’immagine del dio infero. Il ratto assume quindi un significato del tutto positivo, giacché espressamente rivolto al contesto nuziale. Un ruolo nient’affatto secondario in questo variegato orizzonte rivestono le scene di separazione, sovente accompagnate da un desti106 a r c h e o

Un’immagine del relitto scoperto a San Pietro in Bevagna (Manduria, Taranto), nei pressi della foce del fiume Chidro. Il carico della nave era composto da sarcofagi non finiti e di varie dimensioni: alcuni di forma rettangolare, altri ovali del tipo a lenos, con estremità arrotondate e bugne sporgenti, che potevano essere scolpite in un secondo momento.

no di morte latente, i cui protagonisti sono in genere coppie di innamorati mitici: Alcesti e Admeto, Laodamia e Protesilao,Venere e Adone, Teseo e Arianna. Il sistema presupponeva nell’osservatore la capacità di astrarre le diverse figure del mito dal contesto propriamente narrativo: ciò che interessava agli acquirenti non era tanto l’avvenimento mitico in sé, quanto l’esaltazione di determinate virtú, di certi sentimenti o di specifici stati d’animo. In un sarcofago urbano oggi a Cliveden (Buckinghamshire, anni Quaranta o Cinquanta del III secolo d.C.) sono raffigurati diversi episodi del mito di Teseo. I due protagonisti – Teseo e Arianna – recano le teste ritratto di un uomo piuttosto giovane e di una donna dai tratti maturi, nei quali, grazie all’iscrizione, possiamo riconoscere una certa Valeria e il figlio Artemidoro, morto a soli diciassette anni. Poco importava che il contesto narrativo selezionato presupponesse tra i personaggi una passione di natura amorosa: ciò che contava per la committente Valeria era manifestare tramite un’immagine significativa il sentimento di dolore, la straziante agonia di una


donna abbandonata – trasfigurata nelle forme mitiche di Arianna che perde il proprio amore – dal figlio adorato; figlio di cui, al contempo, poteva esaltarne le virtú tramite l’identificazione con un eroe del calibro di Teseo.

Sarcofago monumentale rinvenuto nel mausoleo di Monte del Grano sulla via Tuscolana. Metà del III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. La ricchissima decorazione a rilievo della cassa raffigura episodi del mito di Achille; sul coperchio sono raffigurati un uomo e una donna, a lungo identificati erroneamente con l’imperatore Alessandro Severo (222-235 d.C.) e la madre Giulia Mamea e nei quali va invece riconosciuta una coppia di sposi.

SELENE VIEN DI NOTTE Tra le immagini che hanno quale punto cardine il tema «amore-morte» (vedi box a p. 108), va certamente annoverata anche la vicenda di Selene ed Endimione. La raffigurazione della dea che si reca nottetempo a far visita al bel cacciatore dormiente si presta a diverse chiavi interpretative: l’esaltazione del sentimento amoroso che coinvolge i due protagonisti, che può essere direttamente riferibile alla reale situazione del defunto e dei suoi congiunti; la possibilità di sublimare il sentimento in una dimensione escatologica, giacché il motivo della dea che tutte le notti fa visita al concupito ben si prestava a divenire emblema di un amore eterno, che sopravvive oltre la morte; la celebrazione delle virtú del committente, non tanto eroiche o belliche, quanto piuttosto attinenti alla bellezza e alla prestanza fisica: il defunto è infatti paragonato a Endimione, giovane talmente affascinante da far innamo-

rare perdutamente di sé addirittura una dea. E proprio le storie incentrate sulla passione sentimentale sono quelle che godono di particolare fortuna nell’orizzonte funerario, tanto da essere piú diffuse rispetto alle pure immagini di morte, che solo apparentemente meglio si adattavano al contesto: si pensi, per esempio, all’incontro tra Marte e Rea Silvia; ai convegni adulterini che hanno luogo tra Venere e il dio della guerra ai danni del di lei marito Vulcano; a Bacco che sorprende Arianna nel sonno; a Leda avvinghiata al cigno nelle cui sembianze si è camuffato Giove; al mostruoso e deviato amore che spinge Pasifae a unirsi a un toro (e da cui verrà generato il mostruoso Minotauro). Celebrativi della virtus del defunto sono invece i soggetti e i temi inerenti alle caccie mitiche di Meleagro, Adone e Ippolito ovvero alle imprese di Achille; e ancora, troviamo Oreste, Teseo, Pelope alle prese con la corsa dei carri o Giasone impegnato nelle fatidiche prove in Colchide. A un’esaltazione del defunto potrebbero anche rimandare le fatiche di Ercole, soggetto particolarmente apprezzato durante il regno di Commodo (180-192 d.C.; vedi foto alle pp. 98-99); tuttavia, non è

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SPECIALE • SARCOFAGI

escluso che tali immagini veicolassero anche un ulteriore e piú importante messaggio di natura escatologica, legato alla conquista dell’immortalità. Alla celebrazione delle virtú guerriere dei morti fanno poi riferimento le raffigurazioni di battaglie mitiche, quali, per esempio, la Centauromachia o l’Amazzonomachia. Desta invece una certa meraviglia la scarsità di raffigurazioni ambientate nell’aldilà, cioè in quel mondo in cui i defunti avrebbero eternamente soggiornato. Fatta eccezione per il tanto maestoso quanto celebre sarcofago di Velletri (Museo Civico Archeologico, metà del II secolo d.C.), in cui, nei diversi fregi che si susseguono sui quattro lati, fa bella mostra di sé il regno di Ade con tutti i suoi abitanti, e per la complessa scena di oltretomba presente in un manufatto a Villa Giulia (prima metà del I secolo d.C.), assai rare sono le rappresentazioni dell’Ade nel repertorio funerario, sebbene episodi ambientati nell’aldilà non siano affatto ignoti alla piú ampia tradizione mitologica.

UN NUOVO REPERTORIO Come anticipato, le raffigurazioni luttuose, metafore mitiche del trapasso, non furono poi cosí particolarmente popolari: dopo un breve periodo di moda che ha il suo apice nella metà del II secolo d.C., la consuetudine di ricorrere a soggetti e temi in cui la morte irrompe con tutta la sua crudeltà va lentamente scemando; ugualmente, anche le immagini di lamentazione funebre cadono presto in oblio, giacché tendono a scomparire nel corso della tarda età degli Antonini. Proprio a partire dalla seconda metà del II secolo d.C. si assiste infatti a un importante cambiamento di repertorio, giacché alla netta contrazione nel numero delle allegorie mitologiche, in particolare di quelle che mettono in scena la morte come tale e la lamentazione funebre, fa riscontro l’incremento di sarcofagi caratterizzati da immagini di felicità eterna e di beatitudine. In questo torno di tempo ecco affollare i rilievi tiasi marini e corteggi bacchici, con tutto il loro bagaglio di spensierata gioia e godimento dei piaceri della vita; tali soggetti sono in assoluto i piú diffusi tra il II e il III secolo d.C., tanto da superare numericamente tutti i sarcofagi mitologici narrativi. Non mancano poi raffigurazioni di pastori, metafora di un’e108 a r c h e o

L’AMORE DELLA VITA, OLTRE LA MORTE Tra le immagini aventi come tema il motivo della dolorosa separazione di due coniugi, spicca quella che compare su un sarcofago conservato ai Musei Vaticani (Città del Vaticano, Cortile del Belvedere, 230-240 d.C.) con Achille e Pentesilea. I due protagonisti sono colti in una sorta di abbraccio, in uno schema che sembra richiamare un celebre gruppo scultoreo, noto come il gruppo del Pasquino raffigurante Menelao che regge il corpo di Patroclo oppure Aiace che sorregge Achille; le figure recano le teste ritratto dei committenti, probabilmente i due coniugi. Tale identificazione avrebbe permesso all’osservatore antico di prescindere dal contesto narrativo, che comportava l’uccisione della regina delle Amazzoni da parte dell’eroe greco, che tuttavia se ne innamora perdutamente proprio nel momento in cui la trafigge, e di trasporre la coppia in una dimensione puramente sentimentale, giacché il marito non poteva di certo essere immaginato nelle vesti dell’assassino della moglie. Tanta è l’importanza comunicativa delle allegorie mitologiche, che spesso si assiste all’identificazione diretta dei defunti per mezzo di ritratti e acconciature alla moda applicate alle figure di dèi ed eroi. Sarcofago raffigurante un’Amazzonomachia. 230-250 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino. Al centro Achille e Pentesilea con le fattezze dei defunti; sui lati: un’amazzone e un supplice troiano (?), un’amazzone a cavallo e bipenne.

sistenza beata condotta nel pacifico mondo della campagna, o delle Stagioni. A partire dal tardo periodo severiano si verifica un ulteriore mutamento epocale, giacché nella scultura funeraria si assiste a un progressivo abbandono delle tematiche mitologiche, pur con alcune eccezioni – la caccia di Meleagro, la caduta di Fetonte, Ippolito e Fedra, Prometeo, che ben si prestava a una risemantizzazione in chiave cristiana –, fino alla loro definitiva scomparsa verso la fine del III secolo d.C.


PER SAPERNE DI PIÚ Sull’avvio della produzione di sarcofagi e il fenomeno del passaggio dalla cremazione all’inumazione Ian Morris, Death-Ritual and Social Structure, in Classical Antiquity, Cambridge 1992 Masismiliano Papini, Cremare o non cremare? La (lenta) estinzione dei roghi e i sepolcri nel II secolo d.C., in L’età dell’equilibrio (catalogo della mostra), Roma 2012; pp. 95-101. Sulla produzione di sarcofagi urbani, attici e asiatici Guntram Koch, Hellmut Sichtermann, Römische Sarkophage, München 1982 Marc Waelkens, Dokimeion. Die Werkstatt

der repräsentativen kleinasiatischen Sarkophage. Chronologie und Typologie ihrer Produktion, Berlin 1982 Sull’uso del mito nel repertorio funerario Paul Zanker, Björn C. Ewald, Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani, Torino 2008 La traduzione dei passi di Plinio il Vecchio è stata tratta da: Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati, Gaio Plinio Secondo. Storia naturale. Mineralogia e storia dell’arte, V, Torino 2013

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

POETA O STREGONE? RESO IMMORTALE DALL’ENEIDE, VIRGILIO, NEI SECOLI DELL’ETÀ DI MEZZO, FU GUARDATO CON AMMIRAZIONE MA ANCHE CON SOSPETTO...

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orse unico tra i poeti classici di cui si mantenne venerata conoscenza nel mondo moderno, Virgilio diviene nel Medioevo l’esponente piú illustre di quella paganità d’eccezione che con la sua arte aveva addirittura saputo prefigurare il cristianesimo. Le opere di Virgilio erano infatti notissime nell’età medievale e studiate approfonditamente in tutte le scuole e università quale esempio della perfezione della lingua e dell’arte poetica latina. Inoltre, il Mantovano era considerato come un precursore (benché ignaro, aggiungiamo noi) dell’avvento di Gesú Cristo, come riferisce Dante nel Purgatorio (canti XXI e XXI) nel corso dell’incontro con il poeta Stazio con Virgilio e nel quale il primo attribuisce al secondo la sua conversione al cristianesimo. Nella IV Ecloga delle Bucoliche, dove si prefigura l’avvento di un puer che inaugurerà una nuova età dell’oro, si riteneva che Virgilio avesse voluto velatamente annunziare la nascita di Gesú, interpretazione ampiamente diffusa e fatta propria dal mondo culturale e religioso dell’epoca. Nel millennio medievale, attraverso un complesso percorso interpretativo e sovrapposizioni letterarie ben delineate da Domenico Comparetti nel suo fondamentale Virgilio nel Medioevo (edito nel 1872), Virgilio diviene un mago, a volte buono ma a volte alquanto vendicativo, dedito

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a proteggere e beneficare la sua amata Napoli e poi anche attivo nella salvaguardia di Roma.

SOSPESO A MEZZ’ARIA Nell’Urbe il Poeta mise in atto alcune sue magie per fini del tutto personali: invaghitosi di una fanciulla, che in alcune fonti letterarie diventa la figlia dell’imperatore, si fece promettere un incontro d’amore nella torre dove la bella dimorava e che doveva raggiungere tramite una cesta che ella avrebbe calato per issarlo sino alle sue stanze. Ma la crudele finta innamorata invece voleva solo prendersene gioco e lo lasciò sospeso a mezz’aria, cosí che i Romani poterono vederlo penzolare e schernirlo. La vendetta di Virgilio non tardò: fece spegnere magicamente ogni fuoco di Roma e soltanto attingendo alle parti intime della donna si sarebbero potuti riaccendere: cosí la crudele venne esposta nuda nella città dove tutti ebbero accesso alle sue grazie, umiliandola ferocemente. La torre del canestro, identificata tradizionalmente con quella dei Frangipane, divenne allora nota come Torre di Virgilio. Una stampa dell’incisore fiorentino Baccio Baldini illustra riccamente la scena e al centro campeggia il Colosseo (vedi alla pagina accanto); in alcune versioni della stampa l’immagine «oscena» è stata erasa e sulle trabeazioni dell’anfiteatro compare la scritta «EL CHULISEO DI ROMA

Quattrino in bronzo anonimo di Federico I (1478-84) o Federico II Gonzaga (1519-30). Al dritto, Virgilio e legenda VIRGILIVS MARO; al rovescio, sigla EPO con un fiore o una foglia. Nella pagina accanto: stampa di Baccio Baldini, con Virgilio e l’episodio della cesta. 1460-1463. Al centro campeggia il Colosseo, con la didascalia: «Essendo la mattina chiaro il giorno / Il pose in terra con suo grande scorno; / Ver’è che poi, con sua gran sapienza / Contr’a costei mandò aspra sentenza». DOVE VERGILIO STUDIAVA SOLECITAMENTE IN ARTE DI NEGROMANSIA», rendendolo un Colosseo «nero», sede di occultismo e demoni vari. Nella stampa compare anche la «didascalia» dell’immagine, desunta da due ottave dall’opera di Antonio Pucci (1309?-1388) il Contrasto delle donne, incentrato su figure esemplari con


alternativamente un giudizio negativo e uno a favore del genere femminile e dove si narra anche della vicenda capitata all’innamorato Virgilio. Un «mistero» legato a Virgilio si riscontra nella numismatica moderna che non dedica iconografie al poeta, eccezion fatta per la zecca di Mantova che omaggiò il suo celeberrimo figlio rappresentandolo su alcune emissioni volute dai marchesi della città a partire dal XIII secolo.

CORONATO D’ALLORO Particolarmente interessante è un quattrino anonimo attribuito a Federico I Gonzaga, marchese di Mantova dal 1478 al 1484, o a Federico II, signore della città dal 1519 al 1530. Al dritto si vede un volto di profilo e coronato d’alloro con legenda VIRGILIO MARO e, al

rovescio, EPO nel campo con sotto una foglia tripartita. Il viso è del tutto generico, non conoscendosi ritratti certi di Virgilio, e pare ispirato alle iconografie monetali della prima età imperiale. Sul rovescio compaiono le lettere enigmatiche di significato ancora discusso e il motivo vegetale sottostante, letto come un fiore di palude o una foglia di mirtacea. Tra le interpretazioni proposte, che vanno dalla parola greca eros allo scioglimento in epicorum poetarum optimo, risulta forse piú attendibile, nella sua semplicità, vedervi le iniziali di e(x) p(rincipe) o(ptimo), ovvero «dall’ottimo principe», riferibili al signore di Mantova che ordinò la coniazione dedicata all’illustre concittadino. Celebre è l’epitaffio napoletano al Parco Virgiliano a Piedigrotta: «Mantua me genuit, Calabri

rapuere, tenet nunc / Parthenope; cecini pascua, rura, duces» («Mantova mi generò, la Calabria mi rapí e ora mi tiene Napoli; cantai i pascoli, le campagne, i condottieri»). E nel Purgatorio (canto VI, vv. 58-75) Virgilio risponde al poeta trobadorico e conterraneo Sordello che gli chiede da dove venga iniziando con la parola Mantua…, alla quale fa subito seguito un abbraccio fraterno tra i due, immortale simbolo dell’amor di patria.

PER SAPERNE DI PIÚ Enrico Parlato, Colosseo al nero: distopie del rudere, in Colosseo, un’icona, Electa, Milano 2017; pp. 166-181 Mario Traina, Il linguaggio delle monete, Olimpia, Sesto Fiorentino 2006; p. 129

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I LIBRI DI ARCHEO

Giampiero Galasso

MANUALE DI ARCHEOLOGIA PREVENTIVA Normative e procedure operative Edizioni Magna Graecia, Roccadaspide (SA), 262 pp., ill. col. e b/n 22,00 euro ISBN 978-88-98092-92-5 www. edizionimagnagraecia.com

Nasce dalla lunga esperienza acquisita sul campo questo manuale che Giampiero Galasso – collaboratore ormai storico della nostra rivista – ha pensato come «uno strumento agile indirizzato a giovani laureati e specializzati che in futuro troveranno un sicuro sbocco lavorativo proprio nel campo dell’archeologia preventiva». Dopo le brevi note introduttive, il primo capitolo del manuale ripercorre l’evoluzione delle norme che oggi regolano la materia in Italia. Un iter, che, va detto, è stato segnato da ritardi piuttosto clamorosi per un Paese che possiede un 112 a r c h e o

patrimonio archeologico di eccezionale rilevanza. Basti pensare che il primo testo di riferimento, ovvero la Convenzione Europea per la tutela del Patrimonio Archeologico, fu approvato a Malta nel 1992, ma è stato ratificato ufficialmente dallo Stato italiano solo nel 2015. Nel mezzo vi è comunque stato, nel 2005, il varo della prima legge sull’archeologia preventiva (la 109/2005), alla quale hanno fatto seguito ulteriori interventi, in forma di decreti legge e circolari ministeriali (fra il 2006 e il 2016), fino a giungere al DPCM del 14 febbraio 2022, che ha disciplinato in via definitiva il procedimento di verifica archeologica preventiva (e al quale il volume è aggiornato). Gli aspiranti operatori archeologi hanno dunque modo di conoscere gli elementi salienti di una griglia normativa assai articolata e complessa. Nel secondo capitolo ci si sposta, per cosí dire, sul campo, in quanto Galasso affronta il tema della valutazione del rischio archeologico, che costituisce uno degli aspetti piú delicati dell’intera materia. Si tratta infatti di uno dei passaggi nei quali coniugare le esigenze della tutela con quelle, per esempio, dello sviluppo di nuove infrastrutture può rivelarsi difficile e, come spesso accade,

alimentare contrasti e polemiche. Il terzo capitolo completa la disamina delle procedure che gli operatori sono chiamati ad adottare, entrando nello specifico dei metodi di indagine e di documentazione, per i quali sono stati da tempo approntati criteri standardizzati. Una standardizzazione indispensabile allo scopo di far sí che i dati restituiti dalle ricerche possano trasformarsi in un patrimonio di conoscenze condiviso. A questo obiettivo mira, peraltro, il GNAGeoportale Nazionale per l’Archeologia, a cui è dedicata parte dell’Appendice del volume, al momento in fase sperimentale, ma che dovrebbe presto diventare accessibile. Segue poi la trascrizione di ulteriori regolamenti elaborati negli ultimi anni da enti quali il Ministero della Cultura e l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, a completare il bagaglio degli strumenti di cui i futuri archeologi non potranno fare a meno. Stefano Mammini Elisabetta Mottes (a cura di)

VASI A BOCCA QUADRATA Evoluzione delle conoscenze, nuovi approcci interpretativi Provincia Autonoma di Trento, Trento, 496 pp., ill. col. e b/n s.i.p. ISBN 978-88-7702-515-0 www.cultura.trentino.it

Opera di taglio specialistico, il volume è nato sulla scia del convegno omonimo, svoltosi a Riva del Garda nel 2009. Per via del lungo intervallo fra la discussione del tema e l’edizione dei contributi, molti di essi sono stati nel frattempo aggiornati alle acquisizioni piú recenti e ne è cosí scaturita la ricognizione ampia e aggiornata di uno dei fenomeni culturali piú peculiari del Neolitico. I testi comprendono quadri d’insieme dei vari aspetti della cultura VBQ e analisi di dettaglio di singoli siti e insiemi di reperti, nonché casi di studio sottoposti ad analisi tecnico-funzionali. Una mole di dati che permette di vedere da vicino e, in qualche modo, di entrare nella mente di comunità che scelsero di distinguersi attraverso la fabbricazione di ceramiche davvero peculiari. Per la distribuzione del volume ci si può rivolgere a:


Soprintendenza per i beni culturali-Ufficio beni archeologici, via Mantova, 67, 38122 Trento; tel. 0461 492161; e-mail: uff. beniarcheologici@ provincia.tn.it S. M.

DALL’ESTERO Michela Stefani

L’AREA ARCHEOLOGICA DEL SEPOLCRO DEGLI SCIPIONI A ROMA Analisi delle strutture di età imperiale e tardo antica BAR International Series 3079, BAR Publishing, Oxford, 156 pp., ill col. e b/n 45,00 GBP ISBN 978-1-4073-5777-5 www.barpublishing.com

nella quale è compreso, è dedicato il volume che Michela Stefani ha tratto dalla propria tesi di dottorato in archeologia, concentrandosi sulle fasi di frequentazione comprese fra il I e il VII secolo d.C. Va infatti sottolineato che nel sito, oltre al sepolcro inaugurato dalla deposizione di Lucio Cornelio Scipione Barbato, furono scoperti

anche un colombario d’epoca augustea, una tomba in opera quadrata, nonché un edificio sepolcrale di età tardo-antica con una piccola catacomba. Un insieme, dunque, di grande interesse e per il quale Stefani ha dovuto condurre una paziente opera di ricostruzione dei dati, poiché all’epoca in cui le varie testimonianze furono portate alla

luce non fu approntata una documentazione sistematica delle varie emergenze. Ciò non le ha impedito, incrociando tre metodi di ricerca – storico, topografico e archeologicoarchitettonico –, di elaborare un quadro dettagliato dell’intenso utilizzo dell’area a scopo funerario per oltre sei secoli. S. M.

Planimetria dell’area del sepolcro degli Scipioni dopo gli interventi del 1927-1929 elaborata da Italo Gismondi. 1929.

Proprio nel numero che state leggendo, in apertura dello Speciale dedicato ai sarcofagi (vedi alle pp. 84-109), viene menzionato il sepolcro degli Scipioni, il monumento funerario della gens omonima, situato sulla via Appia, a Roma, nei pressi di Porta San Sebastiano. Al complesso e all’area a r c h e o 113


presenta

NEL MONDO DELLE

STREGHE La stregoneria ha origini antiche quanto quelle del genere umano, ma non ci sono dubbi sul fatto che nel Medioevo è stato scritto il capitolo piú importante della sua storia plurisecolare. Da questo assunto prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che analizza i molti aspetti di un fenomeno per effetto del quale, accanto ai – veri o presunti – poteri soprannaturali di streghe e stregoni, si sono registrate efferatezze, abusi e ossessioni di ogni sorta, soprattutto quando le «donne scellerate, convertite a Satana» sono entrate nel mirino della Chiesa. Si tratta, dunque, di una vicenda dalle tinte per lo piú fosche, ma che, al tempo stesso, ha avuto spesso significativi riflessi politici e sociali, come quando la repressione della stregoneria fu presa a pretesto per operare attività repressive tout court nei confronti di quanti osassero opporsi all’ordine costituito. Né va dimenticata la dimensione antropologica del fenomeno, alla quale sono dedicate ampie parti del Dossier e di cui sono testimonianza usi e costumi ancora oggi rintracciabili nelle popolazioni moderne. Se dunque nel millennio medievale si faceva presto a dire strega, ecco ora l’occasione di scoprire il vero profilo di troppe vittime innocenti, separando il mito dalla realtà.

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