Archeo n. 457, Marzo 2023

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RAMESSE II

SEMIRAMIDE

BIOGRAFIA ANNIBALE

KURDISTAN IRACHENO

SPECIALE OPERAZIONE LIBANO

ANNIBALE RIVISSUTO w. ar

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LIB SPEC AN IALE O

CHAMAA • TIRO • SIDONE • BAALBEK • UADI QADISHA

DONNE E POTERE

IL FENOMENO SEMIRAMIDE

LETTERATURA

EGITTO IL VOLTO DI RAMESSE II

www.archeo.it

IN EDICOLA L’11 MARZO 2023

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2023

Mens. Anno XXXIX n. 457 marzo 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 457 MARZO

MISSIONE IN LIBANO

€ 6,50



EDITORIALE

SONO SOLO SEI COLONNE Copertina, editoriale, servizio interno: il ritratto di quanto resta del monumentale edificio – facente parte del «piú ardito progetto architettonico» del mondo romano (la definizione risale al viaggiatore inglese Robert Wood, in visita al sito di Baalbek nel 1751) – predomina in questo numero, a discapito della sua stessa descrizione. Abbiamo deciso di far parlare la sua immagine, fissata negli scatti di Marco Palombi (fotoreporter prestatosi all’archeologia, ma altrimenti noto per i suoi rimarchevoli servizi sulle minoranze etniche e sulle popolazioni costrette alla fuga dalle proprie terre da guerra, fame, siccità), rimandando il lettore all’approfondimento sul monumento apparso in «Archeo» n. 393, novembre 2017 (on line su issuu.com). La ragione di tale scelta risiede nel fatto che si tratta di un’immagine nuova, mai vista in precedenza: come si legge alle pagine 94-97, le colonne del tempio di Giove Eliopolitano sono «riapparse» dopo essere rimaste nascoste dall’impalcatura montata per consentire l’intervento di restauro e consolidamento, durato due anni, interamente realizzato da tecnici e restauratori italiani sotto la direzione dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Sono soltanto 6 delle 19 colonne corinzie che, originariamente, ornavano il peristilio occidentale del tempio (il cui perimetro era segnato, in totale, da 54 colonne), uniche sopravvissute del principale monumento del santuario eliopolitano. Sul quale si è accanita, nei secoli, la furia dell’uomo: il tempio fu ripetutamente distrutto e saccheggiato, l’imperatore Giustiniano ne fece prelevare otto colonne, portate a Costantinopoli e incorporate nella costruzione di Santa Sofia. E, come ammoniva Samuel Jessup, missionario americano che soggiornò a Baalbek alla fine dell’Ottocento: «Ancora qualche scossa di terremoto e un paio di inverni particolarmente rigidi e anche le sei regali colonne giaceranno prostrate nella polvere. Beati allora quei viaggiatori cui sarà concesso di vedere Baalbek, anche nella sua attuale gloria in decadenza, prima che le implacabili forze della natura e la non meno implacabile mano dell’uomo ne avranno completata l’opera di distruzione». Forze implacabili e imprevedibili, come ci hanno insegnato gli ultimi decenni e mesi. A oggi, però, le fosche previsioni di Jessup sono state smentite. Grazie anche alla mano dell’uomo che, questa volta, è intervenuta in maniera mirabile. Il santuario di Baalbek con, sullo sfondo, le colonne del tempio di Giove recentemente restaurate. In primo piano, i resti dell’antico quartiere musulmano con il nuovo accesso al sito e il relativo percorso in sicurezza, progettato e realizzato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS).

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Sono solo sei colonne 3

NOTIZIARIO

6

SCOPERTE Un mistero a dodici facce

6

di Elena Percivaldi

ALL’OMBRA DEL VULCANO Dal fumo alle essenze

DONNE DI POTERE/1

18

di Davide Nadali

Semiramide superstar 44

di Maria Teresa Sgromo

ARCHEOFILATELIA Tesori del Libano

24

di Luciano Calenda

MOSTRE 8

di Alessandra Randazzo

FRONTE DEL PORTO I viaggi dell’oro giallo

16

di Giuseppe M. Della Fina

A TUTTO CAMPO Roselle a tre dimensioni

di Andreas M. Steiner

Attualità

nata in campagna

Guardare in faccia la storia

30

di Lorenzo Nigro

44 ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/6

10

di Claudia Tempesta

Memorie di un nemico

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Uno scalo di primaria importanza 12

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di Giuseppe M. Della Fina

di Giampiero Galasso

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2023

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€ 6,50

www.archeo.it

ARCHEO 457 MARZO

LIB SPEC AN IALE O

60 IN EDICOLA L’11 MARZO 2023

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o. it

INCONTRI La misura non si addice alla ricchezza MOSTRE Una passione

In copertina Baalbek (Libano). Le sei colonne del tempio di Giove cosí come si presentano oggi, dopo il restauro.

Presidente

Federico Curti

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 457 marzo 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE OPERAZIONE LIBANO

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

KURDISTAN IRACHENO

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

BIOGRAFIA ANNIBALE

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

SEMIRAMIDE

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

RAMESSE II

Anno XXXIX, n. 457 - marzo 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

MISSIONE IN LIBANO CHAMAA • TIRO • SIDONE • BAALBEK • UADI QADISHA

DONNE E POTERE

IL FENOMENO SEMIRAMIDE LETTERATURA

ANNIBALE RIVISSUTO

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EGITTO IL VOLTO DI RAMESSE II

01/03/23 11:19

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è giornalista. Davide Nadali è professore associato di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Nafissi è professore ordinario di storia greca e romana presso l’Università degli Studi di Perugia. Lorenzo Nigro è professore ordinario di archeologia del Vicino Oriente antico e di archeologia fenicio-punica presso «Sapienza» Università di Roma. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Alessandra Randazzo è giornalista. Maria Teresa Sgromo è archeologa, collaboratrice del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena. Claudia Tempesta è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica.


MOSTRE

Signori della guerra e dell’acqua

68

di Stefano Mammini

68 Rubriche

76

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Dalle folle alla fogna 110 di Francesca Ceci

LIBRI

112

SPECIALE

Operazione Libano

76

di Andreas M. Steiner, reportage fotografico di Marco Palombi

Illustrazioni e immagini: Marco Palombi: copertina e pp. 3, 76/77, 80, 82 (alto e centro), 82/83 (alto), 84/85, 86, 86/87, 88-93, 94/95, 95 (basso), 96-101, 104-105, 106, 108109 – Cortesia Onroerend Erfgoed: Kris Vandevorst: p. 6 – Cortesia Gallo-Romeins Museum, Tongeren: p. 7 – Alessandra Randazzo: pp. 8-9 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza ABAP Friuli-Venezia Giulia: pp. 12-13 – Doc. red.: pp. 14, 20, 21 (basso), 22-23, 30/31, 36/37, 56/57, 60-63, 66 – Cortesia Studio Esseci, Padova: pp. 16-17 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 46 (basso), 47, 48-53, 54, 110 (basso), 111 – Cortesia MVOEM-Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo, «Sapienza» Università di Roma: pp. 30, 33 (alto), 34-35, 38 (basso), 38/39 – da: L’antico Egitto di Ippolito Rosellini nelle tavole dai “Monumenti dell’Egitto e della Nubia”, Novara 1993: p. 33 (basso) – Mondadori Portfolio: Mauritius Images/Tuul & Bruno Morandi: p. 38 (alto); Fine Art Images/Heritage Images: p. 44; Erich Lessing/K&K Archive: pp. 54/55; Album/Fine Art Images: pp. 64/65, 67 – Shutterstock: pp. 40 – Cortesia Civici Musei di Udine: p. 68 – Cortesia Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive (PARTeN), Università di Udine: pp. 68/69, 71, 72-75 – Andreas M. Steiner: pp. 78/79, 81 (basso), 82/83 (basso), 87 (basso), 94 (centro e basso) – Cortesia Ambasciata d’Italia in Libano: p. 81 (alto) – Cortesia AICS, Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo: pp. 102-103, 107 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: p. 110 (alto) – Cippigraphix: cartine alle pp. 20, 32, 46, 70, 78, 87, 95. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Belgio

UN MISTERO A DODICI FACCE

S

i deve al metal detector di un appassionato la scoperta del frammento di un dodecaedro romano a Kortessem, in Belgio. A oggi i dodecaedri noti in Belgio sono soltanto due, il primo ritrovato poco fuori dalle mura di Tongeren (e oggi esposto nel locale Museo gallo-romano), il secondo a Bassenge (ora custodito nel Museo Curtius di Liegi). Realizzati in bronzo e cavi all’interno, i dodecaedri sono solidi non molto grandi – le dimensioni variano tra i 4 e gli 11 cm – composti da dodici facce pentagonali ciascuna delle quali forata; ogni angolo è «chiuso» da piccole sfere. La loro funzione è tuttora ignota. Certo è invece che tutti gli esemplari conosciuti – circa 120, databili tra il I-II e il IV-V secolo d.C. – appartengono al contesto culturale romano: la maggior parte è riemersa in Germania, Francia e Belgio, gli altri in Galles, Ungheria, Spagna e Italia. Il «mistero» è reso piú fitto dall’assenza di fonti, a eccezione di un brano di Platone, che nel Fedone considera il dodecaedro il simbolo del cosmo. Ciò ha spinto a ritenere che anche quello romano potesse essere una sorta di dado «magico» rappresentativo dell’universo, con le facce a indicare i mesi dell’anno e i segni zodiacali. Le ipotesi d’uso formulate variano dal ninnolo per bambini al peso per le reti da pesca, dallo strumento musicale all’ornamento, fino al sostegno per

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Il frammento di dodecaedro recentemente rinvenuto da un appassionato a Kortessem, in Belgio. Nella pagina accanto: un esemplare integro di dodecaedro rinvenuto anch’esso in territorio belga. Tongeren, Museo gallo-romano.

statuine di divinità o per candele votive. Vi è chi, sulla base di esperimenti scientifici, ha ipotizzato che potesse essere utilizzato come calendario per determinare gli equinozi (i tempi per la semina dei cereali) oppure come un ausilio per stabilire la dimensione dei proiettili in uso nell’esercito romano. Altri vi hanno visto un «peso» da tessitura, un calibro o un raccordo per i tubi dell’acqua. Tra le spiegazioni «tecnologiche», la piú plausibile è forse quella di Amelia Carolina Sparavigna, ricercatrice del Politecnico di Torino, secondo la quale il dodecaedro serviva a misurare le distanze e gli appezzamenti di terreno durante le centuriazioni. Per gli archeologi

dell’Onroerend Erfgoed – l’ente di tutela del patrimonio delle Fiandre a cui lo scopritore del nuovo frammento ha prontamente segnalato il ritrovamento – il dodecaedro avrebbe invece un valore magico-religioso e apotropaico, giustificato dalla scarsa maneggevolezza e dal fatto che un numero significativo di reperti è venuto alla luce in contesti funerari. Dopo il restauro, il frammento di Kortessem entrerà nelle collezioni del Museo galloromano di Tongeren, dove sarà esposto al pubblico. Elena Percivaldi


Errata corrige con riferimento alla notizia Sotto il segno di Hera Lacinia (vedi «Archeo» n. 455, gennaio 2023), desideriamo rettificare l’informazione fornita alle pp. 22/23 in merito all’iscrizione in cui è citata Hera Lacinia: il nome della dea, infatti – come si può peraltro vedere nella foto pubblicata a p. 26 –, è scritto in latino e non in greco. Della svista ci scusiamo con i nostri lettori.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandra Randazzo

DAL FUMO ALLE ESSENZE LA REGIONE CAMPANA FU UNO DEI PRINCIPALI CENTRI DI PRODUZIONE DI PROFUMI. UN PRIMATO AL QUALE CONTRIBUIRONO MOLTI IMPRENDITORI POMPEIANI E... GLI INFATICABILI AMORINI DELLA CASA DEI VETTII

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ome per molte altre arti e attività artigianali, anche per quella dei profumieri Pompei è un osservatorio privilegiato, grazie alle sue testimonianze archeologiche e artistiche, che «materializzano» le lezioni della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. La Campania era una delle zone piú ricche e celebri del mondo antico per la produzione di fiori e di unguenti, tanto che lo stesso Plinio ricorda il detto secondo il quale i Campani producono piú profumo che altri paesi l’olio: «L’Egitto è di tutti i paesi del mondo il piú adatto per la produzione di unguenti, ma la Campania con la sua abbondanza di rose gli sta appresso». Almeno fino alla prima età imperiale, il profumo non era in base alcolica, come quelli che oggi conosciamo e usiamo, ma si usavano olio vegetale o grasso animale per fissare gli estratti volatili delle piante aromatiche. E fino all’eruzione vesuviana che

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distrusse Pompei nel 79 d.C., non si conosceva la distillazione, cosicché per l’antica Roma sarebbe piú corretto parlare di unguenti odorosi che, ricavati da petali di fiori, spezie e parti di piante aromatiche, erano in origine utilizzati per i rituali sacri, sparsi dai sacerdoti sui bracieri per generare fumi odorosi che salivano verso il cielo: non a caso, il moderno termine «profumo» deriva da «per fumum» cioè «attraverso il fumo». Oltre che sacri, gli unguenti profumati avevano utilizzi anche medicamentosi e purificatori. Prima dell’adozione del sapone, i ricchi Romani amavano spalmarsi il

corpo con un impasto di argilla stemperata nell’olio che, traendo le impurità della pelle, veniva asportata con lo strigile, una sorta di grande uncino piatto o concavo di metallo, non solo conservatosi in molti esemplari archeologici ma anche raffigurato in alcune pitture murali come quelle delle piccole terme domestiche della Casa di Maio Castricio a Pompei.

FIENO GRECO PER CESARE... Gocce di unguenti e oli essenziali venivano mescolate all’acqua per aspergere i triclini durante i banchetti e oli profumati venivano

«La prima notte, ci coricammo, io, che sapevo di mosti, fichi secchi, lane, grasce: lei, di mirra, di croco, leccorníe, giuochi di lingua, sperperi, Coscíadi, Genetíllidi» (Aristofane, Le Nuvole)


utilizzati per i massaggi negli ambienti degli unctuoria delle terme. Si dice che Giulio Cesare amasse le fragranze profumate del Telinum, un unguento ricavato dal fieno greco (Trigonella foenum-graecum), maggiorana e meliloto o lupinella. Già allora, evidentemente, il mondo dei profumi aveva già fatto grandi passi avanti dal primo profumo che, racconta ancora Plinio il Vecchio, fu inventato macerando in olio i fiori di borragine. Già nel I secolo d.C. era infatti invalso l’uso di spezie esotiche come mirra, cinnamomo, balsamo (l’opobalsamum di Plinio, probabilmente il balsamo giudaico da Commiphora gileadensis), patchouly (Pogostemon patchouly) e altri aromi trasportati dalle carovane dall’Oriente, l’Egitto, il Corno d’Africa e con le grandi navi onerarie attraverso il Mediterraneo a raggiungere Roma. Ma gli studi dei residui dei balsamari restituiti dagli scavi di Pompei hanno evidenziato anche l’utilizzo di aneto, maggiorana, rosmarino, basilico, lauro, cotogno, trigonella oltre naturalmente a rosa, viola, mirto e altri fiori. Le piante venivano colte all’infioraggio, cioè al momento del massimo sviluppo odoroso e secondo rituali che si compivano al mattino o al crepuscolo; a seconda delle piante si utilizzavano corteccia, radici, semi, fiori, foglie che venivano mondati e pestati nel mortaio oppure sminuzzati, racchiusi in sacchi di canapa a maglia larga e messi a macerare in quello che Plinio chiama «succo», la parte liquida formata da oli quasi sempre vegetali: l’onfacio, ottenuto dalla spremitura a freddo delle olive ancora verdi, era il piú utilizzato, ma si poteva impiegare anche l’agresto, una spremitura di uva ancora acerba o, ancora piú raro, l’olio di mandorle; resine e particolari spezie potevano essere impiegate come stabilizzanti per

rendere l’unguento piú persistente. Al termine della macerazione i grandi sacchi venivano pressati in appositi torchi, dai quali il liquido veniva quindi raccolto in piccoli contenitori di alabastro o bronzo per favorirne la conservazione. Le preparazioni, che si fecero via via piú complesse e piú ricche per la maggiore quantità di spezie esotiche, furono classificate in hedysmata, cioè olii, stymmata, unguenti, e diaspamata, corrispondenti ai nostri balsami; queste ultime erano anche le semplici parti delle piante ridotte in finissime polveri aspersorie o contenute in sacchettini di canapa o lino da immergere nelle acque calde dei bagni.

...E UNGUENTI A BASE D’OLIO DI OLIVA A Pompei, nella Casa del Profumiere, situata nel quartiere della Palestra Grande e dell’Anfiteatro, lo scavo archeologico del piccolo giardino ha rivelato la presenza di pollini di rosacee, liliacee, malvacee, plantago e altre essenze officinali e odorose oltre a pollini di olivi e alle cavità lasciati dalle radici di piante di olivo. Nello stesso luogo in cui la studiosa statunitense Wilhelmina F. Jashemski catalogò i pollini e le spore furono ritrovati anche alcuni attrezzi agricoli, una zappa (sarculum) e una falce (dolabella), ma soprattutto diversi unguentari e balsamari, oltre a una bottiglia quadrata e alcune spatoline che fecero ipotizzare la presenza nell’edificio di un’attività artigianale di produzione di unguenti a base di olio di oliva. Nel famoso ciclo pittorico dell’oecus che si apre sul portico settentrionale del peristilio della Casa dei Vettii gli operosi Amorini mettono in scena l’intero ciclo di produzione degli unguenti profumati, dalla macerazione, alla spremitura nel torchio, alla

In alto: particolare di una pittura parietale raffigurante un tralcio di rose nella Casa del Frutteto. Nella pagina accanto, in alto: particolare del fregio con Amorini che orna l’oecus della Casa dei Vettii. In questo segmento, li vediamo impegnati nelle varie fasi di preparazione degli unguenti profumati. Nella pagina accanto, in basso: erbe aromatiche da cui è possibile ricavare essenze odorose. pesatura e fino alla prova del profumo sul dorso della mano di una fanciulla seduta su un cuscino di porpora. Altri Amorini si adoperavano a fare profumi anche in un affresco, oggi quasi scomparso, dell’oecus della Casa di Trittolemo: qui, però, i piccoli Cupidi oltre a fare profumi si industriano a raccogliere fiori e a legare ghirlande per le cerimonie sacre, quelle stesse ghirlande colorate e profumate che in questi giorni stanno riemergendo dalla polvere del tempo grazie alle sapienti mani dei restauratori al lavoro nella Casa delle Nozze d’Argento. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

I VIAGGI DELL’ORO GIALLO ELEMENTO ESSENZIALE PER LA SOPRAVVIVENZA, IL GRANO FU UNO DEI CARDINI DELL’ECONOMIA ANTICA. E ROMA ORGANIZZÒ UN SISTEMA DI APPROVVIGIONAMENTO DEL CEREALE DI CUI OSTIA ERA UNO DEGLI SNODI NEVRALGICI

L’

approvvigionamento del grano riveste da sempre un ruolo centrale nell’assetto interno degli Stati e negli equilibri geopolitici internazionali, come ha dimostrato anche di recente la crisi innescata dalla guerra in Ucraina. La preoccupazione di garantire la regolarità della produzione, la sicurezza della circolazione e la capillarità della distribuzione dei cereali ha caratterizzato fin dal Neolitico la vita delle comunità umane che, in una scala commisurata al proprio grado di organizzazione politica e di estensione geografica, hanno sempre cercato di adottare misure volte al controllo della filiera alimentare dalla coltivazione al consumo. Tra i sistemi di gestione dell’approvvigionamento e della distribuzione dei generi alimentari sviluppati dalle società antiche, il piú significativo – per ampiezza dell’orizzonte geografico e complessità dell’organizzazione – è forse l’Annona romana che, per secoli, riuscí a garantire il benessere generale della popolazione e, di conseguenza, la stabilità economica e politica dello Stato. Introdotta in epoca repubblicana, essa acquisí

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una crescente importanza a seguito dell’istituzionalizzazione delle distribuzioni di grano ai cittadini romani (frumentationes), ricevendo una compiuta definizione all’epoca di Augusto, che ne affidò la cura al praefectus annonae, alto funzionario alle dirette dipendenze dell’imperatore. Poiché i piú importanti luoghi di approvvigionamento erano le province occidentali dell’impero (la Sicilia, l’Africa settentrionale e l’Egitto) e il terminale principale delle importazioni il mercato di Roma, il grano veniva trasportato via mare, a bordo delle capienti navi che solcavano il Mediterraneo per sbarcare i propri preziosi carichi negli scali tirrenici prossimi alla capitale, ovvero Pozzuoli, Ostia (il cui porto fluviale era inaccessibile alle imbarcazioni piú grandi) e, dal I secolo d.C., Portus, sede del grandioso porto marittimo costruito da Claudio e ampliato da Traiano.

UNA MERCE DEPERIBILE Come interfaccia marittima dell’Urbe e hub logistico dell’impero, Ostia e Portus restituiscono testimonianze particolarmente ricche su un commercio, quale è quello del

grano, ben documentato dalle fonti storiche ed epigrafiche, ma scarsamente dall’evidenza archeologica, avendo come oggetto una merce deperibile, trasportata in contenitori altrettanto deperibili (per lo piú sacchi). Si tratta di testimonianze in primo luogo di carattere urbanistico e monumentale, che spaziano dal sistema dei moli, dei bacini, delle banchine e delle infrastrutture portuali agli edifici da stoccaggio (horrea) che dominavano il


A destra: mosaico dall’Aula dei Mensores raffigurante una scena di misurazione del grano. Qui sotto: rilievo fittile con scena di mulino, dalla necropoli di Porto. In basso: particolare del mosaico delle Terme di Via dei Vigili con raffigurazione delle province (Egitto e Africa) e dei venti. Nella pagina accanto: statuetta fittile raffigurante un saccarius.

paesaggio urbano dei porti imperiali e delle sponde tiberine, dalle sedi delle associazioni professionali (collegia) impiegate nella filiera del grano fino ai mulini, ai forni e ai panifici (pistrinae) che sopperivano al fabbisogno di pane. Tuttavia, straordinario è soprattutto il corpus delle testimonianze iconografiche, che abbracciano rappresentazioni simboliche delle sforzo di trasportare i sacchi di granaglie. Le immagini piú significative sono tuttavia quelle legate alla navigazione, al carico e al trasbordo delle derrate alimentari, che ricorrono sui mosaici del Piazzale delle Corporazioni, e alle attività di verifica e misurazione del grano, soggetto del mosaico che decora la sede del collegio dei mensores frumentarii. Un’eloquente sintesi di entrambe le scene è offerta dall’affresco della nave Isis Geminiana, proveniente dalla Necropoli Laurentina (oggi ai Musei Vaticani), che raffigura una scena di misurazione a bordo di una nave.

DAL MARE AL WEB

province frumentarie o della personificazione dell’Annona, raffigurazioni emblematiche degli strumenti utilizzati per misurare il frumento (modius e rutellum), ma anche vivaci narrazioni delle attività legate al grano che animavano la vita quotidiana di Ostia e Portus. Tra i numerosi esempi, possono essere ricordati i rilievi provenienti dalla necropoli di Porto all’Isola Sacra raffiguranti la molitura della farina o le statuette dei facchini (saccarii), plasticamente colti nello

Tutti questi argomenti possono essere approfonditi sul sito web del Parco archeologico di Ostia antica, in cui un itinerario tematico (www.ostiaantica.beniculturali.it/it/ percorsi-tematici /i-luoghi-delgrano-e-del-pane/) accompagna il visitatore in un viaggio tra i luoghi noti e meno noti deputati allo scarico e allo stoccaggio del grano e alla produzione del pane, invitandolo a riscoprire, attraverso le testimonianze monumentali e materiali, i volti e le voci di quella folla, in buona parte anonima, di carpentieri, armatori, mercanti, scaricatori, magazzinieri, misuratori, panettieri, alle cui modeste ma capaci mani erano affidate la prosperità e la sicurezza dell’impero. Claudia Tempesta

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n otiz iario

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Friuli-Venezia Giulia

UNO SCALO DI PRIMARIA IMPORTANZA

I

resti di un primo inedito relitto di età romana sono stati localizzati dai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale di Udine, in collaborazione con la SABAP Friuli Venezia Giulia e con la consulenza scientifica del Dipartimento di Studi Umanistici e del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Udine, nell’ambito del periodico controllo dei siti archeologici sommersi nella laguna tra Grado (Gorizia) e le foci del Timavo. Dopo la scoperta, gli archeologi subacquei dell’ateneo friulano e il personale tecnico della Soprintendenza hanno avviato un’indagine di approfondimento, finalizzata soprattutto ad acquisire dati utili alla maggiore conoscenza del sito per la tutela e la messa in sicurezza dello stesso. Dai primi dati emersi si è potuto osservare, dalla gengiva del canale di accesso alla laguna gradese, la presenza – a una profondità di appena 5 m – di una porzione di scafo, in gran parte insabbiato, lungo oltre 12 m (ma la misura originale dell’imbarcazione doveva essere pari ad almeno il doppio, per una larghezza stimata di 8 m circa). Di questa sono stati messi in luce, attraverso una pulizia manuale, diverse ordinate, parte del pagliolato e soprattutto un corso del fasciame, in cui è perfettamente visibile l’assemblaggio con la tecnica a «mortase e tenoni», metodo costruttivo tipico delle navi di epoca antica che prevedeva l’incastro delle tavole di fasciame le une con le altre tale da formare un «guscio» autoportante. Conclusa questa attività, le operazioni di survey subacqueo congiunte di Soprintendenza e Università sono continuate con la verifica di un sito già segnalato

12 a r c h e o

In questa pagina: momenti delle operazioni di documentazione dei relitti individuati nella laguna e nel mare di Grado (Gorizia). In particolare, la foto in basso documenta l’anfora del tipo Lamboglia 2 facente parte del carico del secondo relitto. nello spazio acqueo antistante il lungomare gradese, grazie al supporto della ditta di lavori subacquei Caressa e di sub volontari, dove era stato

precedentemente recuperato un ceppo di àncora romana. La verifica autoptica da parte degli archeologi dell’ateneo udinese ha consentito di determinare, a poche


centinaia di metri dal lungomare cittadino, la presenza di un secondo relitto costituito da alcuni corsi di fasciame – sempre assemblati tramite la tecnica a «mortase e tenoni» – ed elementi dell’ossatura dello scafo riconducibili alla fiancata di una nave di età romana. Il rinvenimento di un’anfora del tipo Lamboglia 2 arcaico ha permesso di collocare cronologicamente il naufragio tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. «Un relitto – spiega Massimo Capulli, docente di metodologia della ricerca archeologica all’Università degli Studi di Udine e coordinatore delle ricerche subacquee – costituisce sempre un ritrovamento importante, poiché quando una nave affonda è come se venisse scattata una fotografia di quell’istante del passato, ma quando i relitti sono due, entrambi di epoca romana, distanti tra loro solo due chilometri in linea d’aria, e che al tempo stesso si trovano uno in laguna e l’altro in mare, siamo di fronte a una scoperta che non esitiamo a definire straordinaria. Due inedite testimonianze archeologiche di quello che doveva essere il sistema portuale diffuso

Immagini del fasciame dei due relitti. Entrambi furono realizzati facendo ricorso alla tecnica detta a «mortase e tenoni», che, grazie all’incastro dei suoi elementi, permetteva di ottenere imbarcazioni aventi un «guscio» autoportante.

della metropoli di Aquileia (all’epoca città romana della X Regio Venetia et Histria con oltre 100 000 abitanti e quarta città piú importante dell’impero, n.d.r.), in cui lo scalo gradese costituiva una vera cerniera tra le rotte marine e la vasta continuità d’acque interne fluvio-lagunari dell’arco adriatico». «L’esplorazione sistematica dei fondali lagunari e marini intorno a Grado – afferma Simonetta Bonomi, Soprintendente Archeologia, Belle arti e Paesaggio

del Friuli Venezia Giulia – sta dando i suoi frutti. Da qualche anno, infatti, la Soprintendenza ha ripreso tale attività grazie alla presenza nel suo organico di personale tecnico specializzato, avvalendosi dei mezzi e delle preziose conoscenze dei volontari locali, del supporto operativo dei Carabinieri del Nucleo TPC come pure della Guardia Costiera e ora anche della collaborazione scientifica dell’Università di Udine». Giampiero Galasso

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n otiz iario

INCONTRI Roma

LA MISURA NON SI ADDICE ALLA RICCHEZZA

C

ontinuano gli incontri di «Luce sull’archeologia», la cui nona edizione, «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», propone un percorso che esamina l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche come segno di prestigio sia politico che personale. Non solo esplorando la vita di alcuni dei protagonisti di una stagione eccezionale, come Augusto, Livia, Cleopatra, ma anche riconoscendo una documentazione archeologica straordinaria: pitture, mosaici e la decorazione marmorea di ville e palazzi sono solo alcuni degli elementi distintivi della società romana tra la fine della repubblica e l’inizio dell’età imperiale. Esigenze

di rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime, come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. «Luce sull’archeologia» è un progetto curato dal Teatro di RomaTeatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Gli incontri sono arricchiti dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas

In basso: monili fenici facenti parte del tesoro di Aliseda rinvenuto presso Caceres (Spagna). VII sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi. Questi i prossimi appuntamenti. 12 marzo Piero Bartoloni, Miniere, metalli e gioielli nel mondo fenicio; Pier Giovanni Guzzo, Oro e potere nel Lazio arcaico. 26 marzo Giovanna Di Giacomo, Oro, gemme e perle. Artigiani e vetrine del lusso nella Roma imperiale; Alessandro D’Alessio, Stefano Borghini, Il sofisticato lusso del potere: la cena rotonda della Domus Aurea. 16 aprile Maurizio Bettini, Una parola magnifica e potente; Paolo Di Paolo, La parola oltre il sipario; Adriano La Regina, Teatro: spazio urbano della politica e del consenso. (red.)

DOVE E QUANDO «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato» Luce sull’archeologia-IX edizione Roma, Teatro Argentina fino al 16 aprile Orario inizio degli incontri, 11,00 Info www.teatrodiroma.net

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MOSTRE Lombardia

UNA PASSIONE NATA IN CAMPAGNA

I

l Museo Archeologico Nazionale della Lomellina di Vigevano propone una mostra dedicata alla collezione riunita da Antonio Strada (1904-1968) presso il Castello visconteo di Scaldasole – divenuto proprietà della famiglia dall’inizio dell’Ottocento – dove è stata conservata sino al 2021. La passione collezionistica, che si collegava agli interessi per l’agronomia – disciplina nella quale aveva conseguito la laurea a Milano nel 1928 – nacque in Antonio dal contatto diretto con i ritrovamenti che avvenivano durante i lavori agricoli. Strada, che fu anche ispettore onorario alle antichità e ai beni librari per la Lomellina, non si limitò, comunque, a riunire quei materiali, ma scelse di acquistare altre collezioni che si erano formate in passato nella zona. In particolare, acquisí le raccolte Steffanini, con reperti provenienti dalla zona di Mortara; Volpi-Nigra, con pezzi provenienti dalla necropoli delle Brelle di Lomello, scavata nel 1887, e dalla Magna Grecia; Pezza e Besostri, costituite da pochi reperti sempre dalla zona di Mortara. Riuscí cosí a riunire una raccolta di 260 reperti, che coprono un arco cronologico particolarmente ampio, dalla preistoria sino all’età rinascimentale. La maggior parte degli oggetti si inquadra, comunque, nel processo di romanizzazione della Lomellina (II-I secolo a.C.) e nell’ambito della prima età imperiale (I-II secolo d.C.). Lo stato di conservazione dei materiali, particolarmente buono, ne suggerisce la provenienza da corredi funerari. Il pezzo che riveste maggiore interesse è una coppa biansata in vetro verde chiaro realizzata con la tecnica della soffiatura in uno

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In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.


stampo quadripartito (tre matrici per la parte superiore e una per il fondo) e la cui decorazione è

disposta su tre fasce orizzontali con raffinati motivi vegetali al centro. L’interesse è accresciuto dal fatto In alto: coppa biansata in vetro verde del maestro Aristeas. I sec. d.C. A sinistra: Antonio Strada (1904-1968). Nella pagina accanto, in alto: un particolare dell’allestimento della mostra. Nella pagina accanto, in basso, da sinistra: un’olpe costolata in vetro soffiato (I sec. d.C.) e un balsamario sferico in vetro blu con filamento bianco a spirale (prima metà del I sec. d.C.).

che, in una tabella ansata, è indicato, in un breve testo in lingua greca, il nome dell’artista, che realizzò il manufatto: Aristeas. Di lui si conoscono altre quattro coppe firmate e si è ipotizzato che fosse originario di Cipro, poiché in una di esse si definisce appunto «cipriota», e che si fosse trasferito nell’area mediorientale dall’isola natia. Databile nel secondo quarto del I secolo d.C., la preziosa coppa potrebbe aver fatto parte del corredo tombale di un personaggio facoltoso della Lomellina, dove sarebbe giunta grazie agli intensi traffici commerciali della prima età imperiale. Va peraltro osservato che proprio il vasellame in vetro costituisce il punto di forza della collezione Strada: si possono rammentare, al proposito, un raffinato balsamario di forma sferica risalente al I secolo d.C. e una brocca, utilizzata per servire bevande a tavola con il corpo a forma di pera, databile alla metà dello stesso secolo. Da segnalare è anche un vaso a trottola (seconda metà del I secolo a.C.) tipico della cultura tardoceltica. Presenta un’imboccatura stretta, un corpo largo e fungeva da contenitore per il vino. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «La Collezione Strada. Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti» Vigevano, Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 4 dicembre Orario ma-ve, 9,00-14,00; sabato e domenica, 9,00-17,00 Info tel 0381 72940; e-mail: drmlom.archeovigevano@cultura.gov.it; Facebook: Museo Archeologico Nazionale della Lomellina Vigevano

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A TUTTO CAMPO Maria Teresa Sgromo

ROSELLE A TRE DIMENSIONI LA RICOSTRUZIONE 3D DEL FORO DELLA CITTÀ DI ORIGINE ETRUSCA, BASATA SUL RILIEVO DELLE STRUTTURE EMERSE DAGLI SCAVI CONDOTTI SUL SITO A PARTIRE DAL DOPOGUERRA, INTRODUCE I TEMI DELLA PERCEZIONE DELLO SPAZIO E DELLA VISIBILITÀ NELLA PIAZZA DI ETÀ ROMANA

I

l Foro di Roselle è una delle piazze di età romana piú note in Etruria: occupa la sella che unisce le due alture della città, denominate Collina Nord e Collina Sud, in un punto di snodo tra le strade piú importanti, il cardine e il decumano maggiori, che si incrociano presso il lato orientale della piazza. Dagli anni Cinquanta del Novecento, l’area è stata oggetto di scavi che hanno portato in luce gran parte degli edifici pubblici che delimitano la piazza. Il Foro rosellano è uno dei pochi casi di centri etruschi nei quali la ricerca archeologica abbia reso note le fasi di vita a partire dall’origine dell’abitato, accertando

un uso pubblico del luogo molto prolungato nel tempo. Nelle città dell’Etruria, infatti, le ristrutturazioni di età imperiale hanno quasi sempre cancellato i resti monumentali del periodo piú antico. Gli unici centri in cui gli scavi hanno permesso di avere informazioni abbondanti sulle fasi precedenti il periodo imperiale sono Luni e Cosa: si tratta, tuttavia, di colonie fondate ex novo in età romana, a differenza di Roselle, dove la storia della città e del suo Foro hanno radici piú profonde, che risalgono almeno al VII secolo a.C. Questi elementi rendono la piazza rosellana un caso quasi unico per indagare sullo sviluppo delle aree

pubbliche e dei loro cambiamenti nel corso del tempo. Per approfondire la conoscenza dell’area si è fatto ricorso a un metodo di analisi che impiega la

In alto: veduta ricostruttiva dell’accesso al Foro di Roselle dal cardine maggiore. A sinistra: ipotesi ricostruttiva della piazza in età flavia: A. cosiddetto Edificio A; B. cosiddetto Edificio B; C. cosiddetto Edificio C; D. Gradinata nord-occidentale; E. Portico settentrionale; F. Tempio tardoarcaico; G. Portico sud-occidentale; H. Augusteum; I. Botteghe; L. Tempietto italico; M. Domus dei Mosaici; N. Basilica; O. Edificio sul lato Est; P. cardine maggiore; Q. decumano maggiore.

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ricostruzione 3D per ripristinare i volumi delle architetture urbane: tale percorso operativo permette infatti di ipotizzare la posizione, gli alzati e le relative distanze tra edifici di cui oggi sopravvivono pochi resti, ed è molto efficace per simulare l’impatto visivo che la parte piú monumentale della città doveva avere sui cittadini.

INCROCIO DI DATI La ricostruzione digitale è frutto di un software di modellazione 3D denominato Blender, che permette di elaborare modelli estremamente precisi e dettagliati, ma anche di proporre diverse ipotesi ricostruttive di uno stesso edificio: si tratta di una condizione essenziale per gli studiosi, perché spesso i dati ricavati dallo scavo non sono sufficienti per privilegiare un’ipotesi rispetto a un’altra. Per ciascun edificio della piazza si è tentato di ripristinare le caratteristiche principali, come le dimensioni originarie, l’organizzazione degli ambienti interni e i sistemi di copertura, partendo dall’analisi del dato archeologico, confrontato con le fonti letterarie sull’architettura romana, soprattutto Vitruvio (architetto vissuto nel I secolo a.C.): le dimensioni di basi e capitelli, per esempio, permettono di ricostruire l’altezza delle colonne che componevano un portico e, di conseguenza, di calcolare in modo relativamente preciso le proporzioni di un edificio. Nel caso di Roselle, una componente essenziale è rappresentata dai diari di scavo di Clelia Laviosa, l’archeologa che ha indagato la città nel dopoguerra. I diari della studiosa, conservati nell’Archivio Storico della Direzione Regionale Musei della Toscana a Firenze, hanno restituito notizie di prima mano sui monumenti del Foro al momento del loro rinvenimento. Sappiamo inoltre

Veduta ricostruttiva del lato settentrionale del Foro, in particolare del Tempio tardoarcaico e del Portico settentrionale con gli edifici annessi. In basso: veduta ricostruttiva della Basilica.

dalle fonti come il fattore della visibilità degli edifici, che dovevano trasmettere messaggi e valori alla comunità cercando di colpire l’attenzione dell’osservatore con la loro monumentalità, fosse essenziale nell’architettura pubblica: nella percezione dei luoghi, infatti, la vista è il primo senso a fornire le informazioni immediate sullo spazio circostante l’osservatore. Questo tipo di analisi è stato perciò applicato alla ricostruzione 3D del Foro rosellano in età flavia e ha permesso di ripristinare ciò che era visibile a coloro che transitavano dalla piazza e accedevano all’interno degli edifici nella seconda metà del I secolo d.C. Visitando oggi l’area archeologica, il Foro appare un’area aperta e ben visibile dai vari punti della città: la ricostruzione tridimensionale del periodo imperiale ha dimostrato, al contrario, come la principale piazza cittadina fosse chiusa dagli edifici che la circondavano: chi entrava

nella piazza dalle strade maggiori, strette tra grandi edifici monumentali, godeva di un effetto sorpresa nel giungere nell’ampia area aperta e lastricata. La ricostruzione permette di apprezzare l’impatto visivo esercitato dagli edifici e come gli accessi e i passaggi interni nella piazza favorissero la loro visione, come nei casi del Tempio tardoarcaico e del Portico monumentale, collocati lungo il lato settentrionale del Foro. Anche la posizione delle basi delle statue, documentate dallo scavo, non appare casuale nello spazio, ma si avvale dei punti che offrivano una visibilità piú accentuata. In conclusione, l’analisi della visibilità offre un nuovo strumento di analisi alla ricerca archeologica, che può risultare utile per l’interpretazione dei monumenti nello spazio e offrire nuove prospettive nella valorizzazione dei dati provenienti dallo scavo. (mtsgromo@gmail.com)

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n otiz iario

IN CROCIERA CON «ARCHEO»

DALLA LEGGENDA DI PRIAMO AGLI SPLENDORI DI EFESO

L

a prima tappa della crociera di «Archeo» (vedi «Archeo» n. 456, febbraio 2023; on line su issuu.com), in partenza da Istanbul il 23 settembre, è il porto di Çanakkale, da cui visiteremo il sito della leggendaria collina di Hissarlik – il cui nome significa «piccola città» –, la propaggine di un altopiano calcareo, situata tra le valli del Menderes e del Dümrek, dei due fiumi, cioè, resi celebri da Omero con i nomi di Scamandro e Simoenta. Dal punto piú alto della collina si gode di una buona visuale sulla costa dell’Egeo, distante circa 6 km, e sui Dardanelli, la via d’accesso per le navi dirette nel Mar Nero, distante circa 4,5 km. Non c’è dubbio che la posizione di Hissarlik fosse, da sempre, estremamente favorevole dal punto di vista strategico. Nel 1998, la collina di Hissarlik –

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resa celebre dagli scavi ottocenteschi di Heinrich Schliemann, il quale identificò le sue rovine con le vestigia di Troia, la leggendaria città di Priamo – fu proclamata patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO. Erano

gli anni in cui una missione internazionale, guidata dall’archeologo Manfred Korfmann, stava effettuando nuove e sorprendenti scoperte. Alle indagini svolte in quegli anni si deve, infatti, l’individuazione di una


vasta «città bassa», munita di un fossato difensivo, di porte e di una propria cerchia muraria, estesa per circa 500 m in direzione sud, di fronte alle fortificazioni a suo tempo scavate da Schliemann. Fu cosí che, nel giro di pochi anni, il calcolo della superficie dell’insediamento di Troia si decuplicò, fino a raggiungere un’estensione di circa 270 000 mq. Un piccolo insediamento, di modestissime dimensioni, si trasformò cosí in una città residenziale e commerciale, che aveva il proprio quartiere di governo situato all’interno della cittadella fortificata. Grazie a quelle scoperte, l’immagine stessa di Troia, condizionata per lunghi secoli dalla narrazione omerica, mutò radicalmente: la pianta e le dimensioni della città, le sue mura di pietra e mattoni d’argilla, tutto ciò rinvia chiaramente a un modello urbano tipico dell’ambito culturale vicino-orientale. Da Çanakkale la navigazione riprende per raggiungere il porto di Kusadasi. Da qui visiteremo una delle piú grandiose città antiche della Turchia egea, Efeso.

A destra: l’itinerario della prima parte della crociera. Sulle due pagine: vedute del sito di Troia, i cui resti furono individuati sulla collina di Hissarlik da Heinrich Schliemann. In prossimità dell’area archeologica è stata anche realizzata la spettacolare ricostruzione del cavallo di legno grazie al quale gli Achei poterono entrare nella città di Priamo. L’area su cui sorse la città di Efeso fu colonizzata dagli Ioni sullo scorcio del secondo millennio a.C., e nel 334 Alessandro Magno la liberò dai Persiani. Passata sotto il dominio romano divenne capitale della provincia d’Asia (129 d.C.).

La città ellenistica e romana si stendeva sulle due colline, il Píon e il Coresso: si conservano tratti della cinta di mura costruita dal diadoco Lisimaco: la fortificazione, nella quale si aprivano varie porte, era alta circa 6 m, costruita in grossi

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blocchi e munita di torri quadrangolari. I maggiori edifici della città erano collocati lungo la via Arcadiana, fiancheggiata da un duplice porticato e chiusa ai due estremi da due porte. Nella piazza vi era il teatro, un ginnasio, le terme e il teatro ellenistico (ricostruito tra il I e il III secolo d.C.). Nel III secolo d.C. l’agorà commerciale ellenistica era circondata da portici con botteghe e magazzini. Nell’altra agorà (costruita sul luogo di una precedente necropoli), si trovavano un odeion del II secolo d.C., una basilica, una fontana e un tempio per il culto imperiale dedicato a Domiziano. Tra i monumenti piú famosi della città non possono non ricordarsi il tempio di Adriano, piccolo gioiello di decorazione architettonica di età

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antonina, la splendida Biblioteca di Celso, costruita all’inizio del II secolo d.C. per ospitare i libri e la tomba di un ricco bibliofilo

cittadino. Dell’antico Artemision, il tempio dedicato ad Artemide, dea protettrice di Efeso (in onore della quale si tenevano feste notturne di


Sulle due pagine: vedute di Efeso. Dall’alto, in questa pagina, in senso orario: la Biblioteca di Celso; i resti dell’Artemision; uno scorcio del centro della città, con la Biblioteca di Efeso sullo sfondo; la chiesa di S. Giovanni.

carattere orgiastico a cui prendevano parte uomini, donne non maritate e schiave), considerato una delle sette meraviglie del mondo, restano solo pochi elementi. Tra gli edifici cristiani, vanno menzionati i resti della chiesa della Vergine, dove si tenne il famoso concilio del 431 e

quelli della chiesa di fondazione pre-giustinianea dedicata a S. Giovanni; prima della porta di Magnesia si trova poi la cosiddetta tomba di san Luca, costruzione circolare di età classica trasformata in cappella cristiana. Per informazioni: swanhellenic@gattinoni.it

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

TESORI DEL LIBANO Lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 80-105) dà conto degli interventi dell’AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo), un’organizzazione 1 2 governativa italiana da tempo impegnata nella tutela, nel restauro e nella valorizzazione del patrimonio culturale del Libano. Al riguardo si ricordano i risultati già conseguiti nel restauro della tomba rinvenuta a Tiro (1), oggi allestita nel piano interrato del Museo Nazionale di Beirut (2), e nel restauro e messa in sicurezza delle 3 gigantesche sei colonne del santuario di Giove Eliopolitano che sovrastano 4 l’intero sito di Baalbek (3). Le immagini del materiale filatelico ci permettono di passare in rassegna i siti citati nel reportage. Scendendo verso sud, all’estremità meridionale del Paese, al confine con Israele (4), e 5 6 7 spostandosi verso l’interno, si raggiunge il villaggio di Chamaa. Qui si conserva un’antica cittadella fortificata (il cui restauro da parte dell’AICS è appena terminato), simile a quella di Chekif, che vediamo raffigurata in un francobollo libanese per la posta aerea (5). Poi si torna verso Tiro, dove si possono ammirare i grandiosi resti della città 8 9 romana come la via colonnata (6) e la splendida porta trionfale (7). Prima di lasciare la città vecchia, ammiriamo un blocco di vetro grezzo che prova la presenza di una vecchia fornace (8) che utilizzava la sabbia di Tiro per fabbricare vetro e che testimonia come in questa zona questa lavorazione vanti una tradizione piú che millenaria. Lasciata Tiro, la strada porta a Sidone 10 11 (9), l’odierna Saida (10), città non meno importante di Tiro tanto che il nome dei suoi abitanti, Sidonii, fu in antichità sinonimo di Fenici. Negli anni Sessanta del Novecento nella necropoli fenicia furono rinvenuti i famosi sarcofagi «antropoidi», cosí definiti perché sagomati sulla forma del corpo umano; un gruppo di 12 13 questo «uomini bianchi distesi» (11) fa oggi bella mostra di sé nel già citato Museo Nazionale di Beirut. IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di FilateNel viaggio di ritorno verso la capitale libanese, si lia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere impone una tappa a Qadisha, per ammirare le molte alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, chiese rupestri della Sacra Valle (su cartolina postale ai seguenti indirizzi: della Cina, 12) e la foresta dei Cedri di Dio (su un Segreteria c/o Luciano Calenda francobollo fiscale del Libano, 13). Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

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00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



GI CO

NA AR PO CH EO LI LO IL M US EO

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

MANN

IL VERSO IL FUTURO

La storia, i tesori e l’attualità del Museo Archeologico Nazionale di Napoli


Una sala del Museo Archeologico Nazionale di Napoli con, in primo piano, il gruppo scultoreo dei Tirannicidi (Armodio e Aristogitone), rinvenuto a Villa Adriana, a Tivoli. II sec. d.C.

C’

è un luogo, a Napoli, dove l’antico guarda al futuro: è il Museo Archeologico Nazionale, una delle piú ricche e prestigiose collezioni di antichità del mondo, alla quale è dedicata la nuova Monografia di «Archeo». Il MANN, questa la sigla dell’istituto, vanta infatti una lunga storia, che prende avvio già nel XVIII secolo, ma, soprattutto negli ultimi anni – come sottolinea Paolo Giulierini, che ne è l’attuale direttore e che ha firmato i testi che ora presentiamo – ha rafforzato il suo impegno per moltiplicare gli strumenti di fruizione dei suoi tesori, avvalendosi delle potenzialità offerte dalla tecnologia e dallo sviluppo del web. Tutto questo, naturalmente, senza fare ombra alla ricchezza delle sue raccolte, che valgono ben piú di una visita. Basti pensare, solo per fare due degli esempi piú significativi, che il Palazzo degli Studi custodisce la straordinaria Collezione Farnese – giunta ai piedi del Vesuvio dopo che i Borbone si erano imparentati con la famiglia dell’illustre cardinale Alessandro – e una spettacolare selezione delle pitture pompeiane, staccate dalle domus nelle quali facevano bella mostra di sé e che ora compongono una pinacoteca unica al mondo, grazie alla quale si può ripercorrere uno dei momenti piú significativi della storia dell’arte antica. Tutto questo e molto altro viene dunque narrato e descritto nei vari capitoli della Monografia, forte di un apparato iconografico di pregio assoluto, nel quale figurano, fra le altre, anche le magistrali riprese fotografiche di Luigi Spina.

GLI ARGOMENTI • L A STORIA • LE COLLEZIONI • LA DOCUMENTAZIONE

in edicola

• I RAPPORTI INTERNAZIONALI • UN MUSEO SOCIAL

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CALENDARIO

Italia ROMA Il viaggio di Enea

Da Troia a Roma Tempio di Romolo, Foro Romano fino al 10.04.23

La mummia di Ramses Il faraone immortale Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo, «Sapienza» Università di Roma fino al 14.06.23

La Roma della Repubblica Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.09.23

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro

CREMONA Pictura Tacitum poema Miti e paesaggi dipinti nelle domus di Cremona Museo Civico Archeologico fino al 21.05.23

MILANO L’Orante

(…nel tuo nome alzerò le mie mani…) Museo di Sant’Eustorgio e della Cappella Portinari fino al 09.04.23

La stele di Vicchio

Fondazione Luigi Rovati, Piano Ipogeo fino al 16.07.23

MODENA DeVoti Etruschi

Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

BOLOGNA I Pittori di Pompei

NAPOLI Bizantini

Museo Civico Archeologico fino al 19.03.23

Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario Museo Archeologico Nazionale fino al 10.04.23 (prorogata)

PASSARIANO (UDINE) Guerra all’arte!

1940-1945. I beni culturali del Friuli Venezia Giulia fra protezione e distruzione Villa Manin fino al 14.05.23

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Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia PARIGI Oro e tesori

3000 anni di ornamenti cinesi L’École des Arts Joailliers fino al 14.04.23

PORTICI (NAPOLI) Materia

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23

«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23

SANTARCANGELO DI ROMAGNA (RIMINI) Lo spazio del tempo

Germania

Calendari romani tra ritmi naturali e culturali MUSAS-Museo storico archeologico di Santarcangelo di Romagna fino al 21.05.23

TORINO Sedersi allegramente davanti al dio: le cappelle votive di Deir el-Medina

FRANCOFORTE I misteri di Mitra Un culto romano visto da vicino Museo Archeologico fino al 10.04.23

Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino all’19.03.23

Grecia

Il dono di Thot

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23

ATENE Ritorno a casa

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon

Svizzera

I creatori dell’Egitto eterno

Romani, Galli e tribú germaniche sul Reno Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 30.04.23

Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23 Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone Basilica Palladiana fino al 07.05.23

VIGEVANO La Collezione Strada

Quasi 30 secoli di storia in più di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23

VITERBO Sfingi, leoni e mani d’argento

Lo splendore delle famiglie etrusche a Vulci Museo Nazionale Etrusco di Rocca Albornoz fino al 15.06.23

BASILEA Ave Caesar

USA NEW YORK Chroma

La scultura antica a colori The Metropolitan Museum of Art fino al 26.03.23

Vite degli dèi

La divinità nell’arte dei Maya The Metropolitan Museum of Art fino al 02.04.23 a r c h e o 29


MOSTRE • ROMA

Particolare di un rilievo policromo raffigurante il dio Horo e Ramesse II, dal tempio costruito per il faraone ad Abido. 1250 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. In basso: particolare della replica della mummia di Ramesse II, protagonista della mostra allestita nel Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo della «Sapienza» Università di Roma.

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GUARDARE IN FACCIA LA STORIA A QUASI CENTOCINQUANT’ANNI DALLA SCOPERTA, LA MUMMIA DI RAMESSE II SI È «MATERIALIZZATA» A ROMA: IL RICORSO ALLE PIÚ MODERNE E SOFISTICATE TECNOLOGIE HA INFATTI PERMESSO DI REALIZZARE UNA REPLICA PERFETTA DELLE SPOGLIE DEL GRANDE FARAONE. ORA IN MOSTRA NEL MUSEO DEL VICINO ORIENTE, EGITTO E MEDITERRANEO DELL’UNIVERSITÀ «SAPIENZA» di Lorenzo Nigro a r c h e o 31


MOSTRE • ROMA

V

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Cairo

Sinai

ARABIA S A U D I TA ilo

SOVRANI IN PARATA La scoperta, però – compiuta nel 1881 dagli eg ittolog i Émile Brugsch (prussiano) e Ahmed Kamal Effendi (uno dei primi archeologi egiziani) – non fu dovuta a una geniale intuizione o a un ritrovamento fortuito, ma fu il frutto delle indagini svolte per impulso di Gaston Maspero, l’allora direttore del Servizio delle Antichità egiziane, su una famiglia di scavatori clandestini che avevano identificato il nascondiglio dieci anni prima. Nella tomba TT320 (la sigla TT sta per Theban Tomb, n.d.r.), chiusa durante la XXI dinastia, erano conservate le salme di ben undici faraoni (uno della XVII, cinque della XVIII, tre della XIX, tra cui Ramesse II, e due della XX dinastia). Quando Maspero allineò le salme e poté finalmente mettere in ordine la serie di grandi sovrani avvolti nelle bende delle loro mummie, si trovò davanti i volti di alcuni dei piú grandi protagonisti della storia egiziana. Da Amosi (1550-1525 a.C.),

1 (Ramesse VII)

Mar Mediterraneo

N

iste da vicino, le vicende dell’archeologia perdono a volte un po’ di quell’aura romantica che la polvere del deserto riserva loro quasi spontaneamente. Anche quando si tratti di avvenimenti accaduti in uno dei luoghi piú affascinanti dell’antico Egitto come il complesso funerario di Deir el-Bahari, dove i faraoni Mentuhotep I e II (dell’XI dinastia, XXI-XX secolo a.C.), Thutmosi III e la regina Hatshepsut eressero i loro magnifici templi funerari. Questa località magica fu teatro di una delle scoperte piú spettacolari dell’egittologia: una cache reale, ossia un ripostiglio (nella tomba, celata nella falesia rocciosa, del sommo sacerdote di Amon Pinedjem II e di sua moglie Nesikhons), nel quale, per sfuggire ai saccheggiatori della Valle dei Re, erano state nascoste quarantotto mummie di membri della famiglia reale egiziana.

Valle dei Re

E G I T TO

Mar Rosso

Lago Nasser

2 (Ramesse IV)

3 8 (Merneptah)

46 (Yuya e Tuia)

7 (Ramesse II)

4 (Ramesse XI)

5

(Ramesse VI) 9

57 (Horemheb)

35 (Amenhotep II) 11 (Ramesse III)

(Tausert) 14

45 (Userhat) 44

16 (Ramesse I)

28 27

17 (Sethi I)

18 54 (Ramesse X)

21 20 (Hatshepsut)

29

60 47 (Siptah)

38 (Thutmosi I) 15 (Sethi II)

62 (Tutankhamon)

10 (Amenmete)

61

13

6 (Ramesse IX)

58 56

12

36 (Maiherpi)

55

40 26 30

59 43 (Thutmosi IV)

31 37

32 42

N 0

34 (Thutmosi III)

75 m

L’ultima dimora dei faraoni Valle dei Re (Biban el-Muluk) è il nome attribuito alla necropoli regale dell’antica Tebe (Egitto), che occupa un’area situata alla sinistra della Valle del Nilo. Al suo interno sono comprese 62 tombe di sovrani delle dinastie XVIII-XX. Il sepolcro di Ramesse II è denominato KV7 (la sigla KV sta per Kings’ Valley ed è stata adottata dalla comunità scientifica per la classificazione dei monumenti a tutt’oggi scoperti) ed è il secondo per grandezza fra quelli finora individuati ed esplorati.

il fondatore della XVIII dinastia, colui che scacciò i sovrani «Hyksos» e riunificò l’Egitto, a Ramesse II (1279-1213 a.C.), il grande sovrano, il prediletto di Amon, il cui regno si estendeva sino alla Siria. Questo ritrovamento, cosí vivo, che

riportava gli studiosi e il grande pubblico a conoscere personalmente i protagonisti di una storia cosí antica, decretò l’immortalità di questi personaggi reali. Lo scopo della mummificazione era stato raggiunto: non erano stati dimenticati. Ma


La mummia di Ramesse II a confronto con la replica in mostra a Roma. In basso: particolare della decorazione del pronao del tempio di Ramesse II ad Abu Simbel raffigurante il faraone sul suo carro da guerra, tavola di Ippolito Rosellini dall’opera Monumenti dell’Egitto e della Nubia, pubblicata a partire dal 1832.

a r c h e o 33


MOSTRE • ROMA

era questa la reale intenzione dei faraoni? Certamente no. Essi volevano continuare a vivere nella vita perfetta oltre la morte, al cospetto degli dèi. Tuttavia, il fascino di questi corpi disidratati è divenuto cosí grande da alimentare un nuovo immaginario – letterario, cinematografico, artistico –, tanto potente da condizionare, spesso, la scienza storica e l’archeologia. D’altra parte, cosa c’è di piú potente del corpo trasformato in icona? Non è questo divenuto intimamente parte della cultura occidentale, attraverso la religione cristiana? Pensiamo agli innumerevoli santi conservati con il loro corpo. Da questi condizionamenti non si può sfuggire. I faraoni della Cache Reale di Deir el-Bahari sono divenuti reliquie e, come tali, ancora oggi affascinano e pongono domande. Proprio attraverso le numerose mummie reali è stata ricostruita una cronologia dell’Egitto basata sul radiocarbonio, analizzando e datando i campioni organici dei corpi dei faraoni (non dissimile, per fortuna, da quella nota dallo studio delle fonti e dall’archeologia). Tuttavia, dal punto di vista archeoA sinistra e nella pagina accanto, in alto: altri particolari della replica della mummia di Ramesse II, la cui epidermide è stata realizzata utilizzando una materia organica, la nanocellulosa.

UN SEPOLCRO SFARZOSO La Tomba di Ramesse II è la tomba piú grande della Valle dei Re a eccezione della tomba KV5, che il faraone fece realizzare a poca distanza dalla propria per i suoi numerosissimi figli. La costruzione ipogea si spinge per 168 m all’interno della collina che si affaccia sulla Valle dei Re. La posizione venne scelta ad hoc in

34 a r c h e o

modo da poter realizzare una tomba dalle dimensioni gigantesche (la struttura si estende per quasi 900 mq). La pianta della tomba si organizza attorno alla camera funeraria, che occupa il punto centrale, dal quale si diramano numerosi corridoi e stanze attigue che formano un planimetria a «P». Dopo una successione di corridoi

rettilinei, l’asse ruota di 90° dall’anticamera che precede la camera funeraria, circondata da camere laterali destinate alle mogli e ai corredi. L’Ipogeo KV7 presenta un’ampia rampa d’ingresso (A), che dà accesso a tre successivi corridoi inclinati rettilinei (B, C e D) per circa 58 m fino all’anticamera (E) e al suo pozzo.


logico, le mummie sono reperti fragilissimi. E la stessa vicenda della mummia di Ramesse II, una delle piú «belle» tra quelle ritrovate nella Cache Reale, lo dimostra.

ELETTO DI RA E AMATO DA AMON Ramesse II (Ramses per gli Egiziani), forse il piú grande faraone della storia, almeno nella percezione dei posteri, regnò per sessantasette anni (1279-1213 a.C.) e ne visse novanta (1303-1213 a.C.), durante i quali l’Egitto fu una potenza sovraregionale, governando dalla Nubia a sud fino alla Siria a nord. Usermaatra Setepenra Ramessu Meriamon («Potente è la giustizia di Ra, Eletto di Ra, Ra è colui che lo sostiene, Amato da Amon») fu re costruttore, ma soprattutto condottiero, capo dell’esercito; un re trionfante e invincibile (anche quando quasi perse, come a Qadesh, nel 1274 a.C., contro gli Ittiti). La mummia di Ramesse, dopo la morte e l’imbalsamazione del faraone, fu sepolta nella monumentale tomba (KV7) nella Valle dei Re a Tebe (un plastico della tomba è esposto nella mostra attualmente in corso al MVOEM-Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo dell’Università «Sapienza» di Roma). Ramesse aveva fatto costruire per sé un sepolcro magnifico, proprio davanti a Luxor, che, a oggi, è il piú grande monumento funerario

A

A destra: il plastico ricostruttivo della tomba KV7 di Ramesse II nella Valle dei Re.

B

C

Quest’ultima precede la superba sala ipostila (F), che comunica con una camera laterale (Fa) e il suo piccolo annesso (Faa). Dopo la sala ipostila (F), due corridoi si snodano per circa 12 m fino all’anticamera (G). A destra, rompendo l’asse lineare di 90°, si trova la camera sepolcrale (H).

D H E G

Faa F

Fa

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MOSTRE • ROMA

faraonico che si conosca (vedi box alle pp. 34-35) dopo quello che lo stesso faraone aveva voluto per i suoi centocinquanta figli (KV5). La tomba era decorata sontuosamente da rilievi dipinti, che sono stati fortemente danneggiati dalla fragilità della roccia in cui era scavata e da ripetute inondazioni. Le spoglie mortali del faraone, tuttavia, non rimasero a lungo nella KV7. Infatti, per proteggerla dalla profanazione, la mummia fu prima traslata nella tomba (KV17) del padre Sethi I (1290-1279 a.C.) e, poi, durante la XXI dinastia, venne nascosta assieme ad altre salme reali nel nascondiglio di Deir el-Bahari, dove, oltre tutto, venne alloggiata all’interno del sarcofago di suo nonno, Ramesse I, che aveva regnato pochi anni (1292-1290 a.C.).

L’IDENTIFICAZIONE Come abbiamo detto, fu ritrovata nel luglio 1881, da Émile Brugsch e Ahmad Kamal Effendi, pochi mesi dopo l’insediamento di Gaston Maspero nel ruolo di direttore del Service de conservation des antiquités de l’Égypte, servizio che era stato fondato e diretto dall’eminente egittologo Auguste Mariette. Fu proprio Maspero, sbendando la mummia nel 1886 durante il riallestimento del Museo Bulaq (vedi box a p. 40), a ritrovare il documento che narrava degli spostamenti subiti dalla mummia e consentiva l’identificazione con Ramesse II. Esposta nella Sala delle Mummie del nuovo Museo di piazza Tahrir Tebe (Egitto), Ramesseum. Particolare dei rilievi in cui è raffigurata la celebre battaglia di Qadesh. Secondo la cronologia tradizionale, lo scontro si combatté nel 1274 a.C. e vide fronteggiarsi le truppe di Ramesse II e quelle del re ittita Muwatalli II. Nessuno dei due contendenti ebbe realmente il sopravvento, ma la propaganda egiziana celebrò l’evento come una vittoria. 36 a r c h e o


a r c h e o 37


MOSTRE • ROMA

Testa ritratto colossale di Ramesse II nel tempio di Amon a Luxor.

38 a r c h e o


nel 1902, la mummia iniziò presto a deteriorarsi e fu, pertanto, tolta dall’esposizione, rimanendo celata fino al 1936, quando il nuovo direttore delle Antichità, Étienne Drioton (1889-1961), trovando il sarcofago con il corpo di Ramesse nella casa del suo predecessore, lo riportò nel museo, dove fu conservato in una sala chiusa al pubblico per altri quarant’anni. Nel 1975, la mummia di Ramesse fu nuovamente resa accessibile ai visitatori. Tuttavia, nel volgere di pochi mesi lo stato di conservazione degenerò nuovamente. Intervenne allora l’egittologa francese Christiane Desroches Noblecourt (1913-2011), che riuscí a inviarla a Parigi affinché potesse essere restaurata. Il viaggio del corpo di Ramesse imbalsamato e bendato rimase storico: il 26 settembre del 1976, dopo l’arrivo all’aeroporto militare parigino di Le Bourget, alla mummia faraonica furono tributati gli onori di un capo di Stato. Il prezioso reperto fu quindi sottoposto ad analisi e a un intervento di sterilizzazione tramite raggi gamma, gli stessi con i quali è stata trattata la copia realizzata nel FabLab «SAPeri&Co» dell’Università «Sapienza». Tornato in patria, Ramesse poté finalmente riposare in pace nel Museo del Cairo.

LA SFIDA DELLA COPIA La mostra «La mummia di Ramesse. Il faraone immortale» raccoglie una sfida che è legata agli sviluppi piú recenti della ricerca archeologica – la documentazione in 3D e lo studio della materia organica – ovvero se sia possibile realizzare una copia di un reperto cosí delicato e deperibile come una mummia. Lo staff del MVOEM-Museo del A sinistra e nella pagina accanto, in basso: due vedute ravvicinate delle mani e dei piedi mummificati di Ramesse II. Le immagini permettono di apprezzare la straordinaria fedeltà della replica della mummia. a r c h e o 39


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DA BULAQ AL GRAND EGYPTIAN MUSEUM Il primo Museo Egizio al Cairo venne fondato contemporaneamente al Servizio di conservazione delle Antichità egizie, nel 1858, per iniziativa di Auguste Mariette (1821-1881) nel quartiere di Bulaq, al Cairo. Dopo avere ottenuto un terreno nel 1861, Mariette, che aveva trasformato in collezione i magazzini della compagnia dei traghetti tra Alessandria e il Cairo, nel 1863 fece costruire un museo, che risultò ben resto troppo piccolo, tanto da essere ampliato nel 1869, dopo l’inaugurazione del Canale di Suez, grazie al finanziamento di Ismail Pasha. Il nuovo museo venne purtroppo danneggiato dalla disastrosa alluvione del Nilo nel 1878 e fu quindi fatto rialzare da Mariette, che però morí nel 1881. La direzione del Servizio delle Antichità venne affidata a Gaston Maspero (1846-1916). Pochi mesi dopo, nel luglio 1881, Émile Brugsch e Ahmed

Kamal Effendi scoprirono il nascondiglio di Deir el-Bahari, che conteneva una cinquantina di mummie reali. Le mummie dei sovrani furono riportate in pompa magna al Cairo, dove il museo fu ampliato per poterle esporre: nel 1882 la superficie delle sale espositive era raddoppiata. Ma le scoperte continuavano incessanti e lo spazio fu presto di nuovo insufficiente. Intanto Maspero fu sostituito da Eugène Grébaut nel 1886. Nel 1889 le collezioni e la tomba di Auguste Mariette furono trasferite al Palazzo di Giza, dove rimasero fino al 1902, quando furono nuovamente spostate per essere installate nell’attuale Museo Egizio del Cairo, in piazza Tahrir. La mummia di Ramesse continuò dunque a essere spostata in tutte queste circostanze. Nella nuova riformulazione del Museo Egizio del Cairo, la mummia sarà esposta nel nuovissimo Grand Egyptian Museum.

In alto: la sala principale del Museo Egizio del Cairo. In basso: la mummia originale del faraone Ramesse II.

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Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo e quello del Centro Interdipartimentale FabLab «SAPeri&Co» della «Sapienza» ci sono riusciti, sviluppando procedure tecniche e conservative che hanno armonizzato la tecnologia piú sofisticata con interventi artistici digitali e manuali di altissima qualità. Lo scopo è stato quello di ricreare la mummia nel suo aspetto esteriore il piú possibile simile al vero, anche per affrontare quei problemi di conservazione che caratterizzano questi reperti. È stata quindi appositamente prodotta un’epidermide artificiale, costituita da materia organica (nanocellulosa). Dapprima è stato necessario ricostruire il volume del corpo affusolato, divenuto iconico, di Ramesse, la cui mummia originale è – per gli studiosi, ma anche per il grande pubblico – equiparabile a una sacra reliquia.

LA RIPRODUZIONE COME CONOSCENZA Ma perché realizzare la replica di un reperto cosí particolare? Perché la creazione di copie di alta qualità consente di non sottoporre gli originali agli stress dell’esposizione al pubblico, soprattutto nel caso di reperti fragili come la mummia di Ramesse II. La divulgazione scientifica ha sempre piú bisogno della riproduzione tridimensionale del passato, senza, tuttavia, dover rinunciare alla materialità delle opere e dei reperti, che ne rappresenta l’essenza piú genuina. Di qui la sfida di ricreare la pelle mummificata di Ramesse, per misurarsi con le stesse difficoltà che gli antichi Egiziani superarono con straordinaria maestria. Un modo per conoscere meglio e per apprezzare di piú. Il percorso espositivo all’interno della sezione egizia del Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo della «Sapienza», conduce il visitatore all’interno della camera funeraria del faraone, dove, oltre alla mummia, è possibile toccare e

UN LAVORO DI SQUADRA La mostra è stata finanziata interamente da «Sapienza» Università di Roma all’interno del piú ampio progetto «Saperi&Antichità», come parte degli interventi di Terza Missione, e vede la collaborazione stabile tra «SAPeri&Co» e il MVOEM-Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo. È stata realizzata grazie alla disponibilità del prorettore Giuseppe Ciccarone e della pro-rettrice Daniela De Leo, con la decisiva collaborazione del Polo Museale «Sapienza», per la quale desidero ringraziare il presidente, Fabio Attorre, la direttrice, Claudia Carlucci, e la RAD, Mariadaniela Salvati, nonché del Dipartimento Scienze dell’Antichità, nella persona del direttore, Giorgio Piras, e del Dipartimento Istituto Italiano di Studi Orientali, al quale afferiscono lo scrivente, la curatrice del Museo VOEM, Daria Montanari, e Sharon Sabatini. «SAPeri&Co» ha messo a disposizione il FabLab, le competenze e gli strumenti, oltreché della direttrice, Sabrina Lucibello, di Luciano Fattore, Lorena Trebbi e Binu Nejat, che hanno seguito direttamente la realizzazione della replica della mummia. Alla realizzazione dell’epidermide organica e alla sanificazione della mummia ha collaborato Teresa Rinaldi, del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie. L’amica e collega Paola Buzi, da eminente egittologa, ha vigilato sugli sconfinamenti dell’eterogeneo gruppo di studiosi raccoltosi per tentare la sfida della copia della mummia e ha voluto ben inquadrare la figura di Ramesse all’interno dell’esposizione e nel piccolo catalogo pubblicato (La mummia di Ramesse. Il faraone immortale, Roma, MPAG, 2023). Il risultato degli sforzi comuni sarà giudicato dal pubblico, che, ci auguriamo, potrà provare lo stesso stupore che colse gli egittologi di centoquaranta anni or sono entrando nel nascondiglio reale di Deir el-Bahari o l’emozione di chi osserva un personaggio illustre e famoso provando la vertigine della storia.

sentire i profumi delle sostanze usate per la mummificazione, le resine, il natron (carbonato di sodio) e gli unguenti ed esplorare la tomba monumentale scavata nella roccia riprodotta in un plastico magistralmente realizzato da Francesco Maria Benedettucci. Del lungo regno di Ramesse è poi illustrato, da una serie di plastici opera anch’essi di Benedettucci, uno degli episodi piú salienti, la famosissima battaglia di Qadesh (1274 a.C.), quando le armate del faraone cercarono di riconquistare gli Stati di Qadesh e Amurru, in Siria, finiti sotto il controllo dell’impero ittita. In quell’epico scontro, Ramesse rischiò persino di essere ucciso, ma la propaganda reale non rinunciò a celebrare l’evento come una vittoria.

DOVE E QUANDO «La mummia di Ramesse, il faraone immortale» Roma, «Sapienza» Università, MVOEM-Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo fino al 14 giugno Orario martedí e giovedí, 10,00-17,00; sabato, 16,00-20,00 Info tel. 06 49910228; e-mail: mvoem@uniroma1.it; https://web.uniroma1.it/mvoem; Facebook: Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo; Instagram: mvoem_sapienza a r c h e o 41




DONNE DI POTERE/1

La regina Semiramide, olio, oro e pietre su tela di Cesare Saccaggi. 1905. Collezione privata. 44 a r c h e o


SEMIRAMIDE SUPERSTAR

MILLENNI DI INVETERATO MASCHILISMO LE HANNO TENUTE NELL’OMBRA, MA NON SEMPRE. SONO MOLTE, IN REALTÀ, LE DONNE PROTAGONISTE DELLA STORIA, E A LORO DEDICHIAMO UNA NUOVA SERIE. LA INAUGURA UNA LEGGENDARIA REGINA ASSIRO-BABILONESE, PERSONAGGIO VITTIMA DI PIÚ DI UN TRAVISAMENTO. EPPURE BACIATO DA UNA POPOLARITÀ STRAORDINARIA ANCHE IN ETÀ MODERNA di Davide Nadali

C

hi fu davvero Semiramide? La domanda potrebbe suonare banale, vista la mole di informazioni, di documenti e di storie attorno alla regina assira. Ma il punto è proprio questo: che cosa ci raccontano le fonti sulla vita e le vicende politiche di Semiramide? E, in tal senso, come viene recepito, raccontato e raffigurato (potremmo a buon diritto dire cantato) questo personaggio storico nel teatro e piú specificamente nell’opera lirica? È interessante osservare che, a fronte di numerose informazioni e ricostruzioni storiche della figura di Semiramide – spesso contrastanti e poco coerenti tra loro – l’immagine dell’eroica regina mesopotamica nell’opera lirica sembra riflettere proprio i caratteri di ambiguità della sua origine e della sua successiva carriera politica. Si pone l’accento, infatti, sulla spregiudicatezza della donna nel conseguire il potere, nel saperlo gestire e nell’intrattenere relazioni amorose, il piú delle volte descritte come eccessi e deviazioni. Le fonti, da un lato, e i retroscena della vita di Semiramide, dall’altro, hanno rappresentato un fertile ba-

cino a cui attingere per la composizione di opere teatrali e drammi musicali: tuttavia, come già ricordato, le fonti non sono sempre concordi e per questo motivo il mito che aleggia attorno a Semiramide, di fatto già alimentato in passato, prende il sopravvento sulla realtà storica, con ricostruzioni di eventi e avvenimenti e creazioni di veri e propri pastiches.

UMILI ORIGINI A partire dal Seicento, per arrivare fino ai giorni nostri, si contano piú di 140 composizioni musicali aventi come protagonista Semiramide, il cui nome, spesso, ricorre anche nel titolo delle opere; altre volte il titolo richiama particolarità delle umili origini di Semiramide come schiava o associa la regina mesopotamica a luoghi noti come l’Assiria, Ascalona e addirittura l’India. La geografia all’interno della quale la vita e le vicende di Semiramide accadono e si sviluppano è elemento caratterizzante dei luoghi d’azioni riprodotti e creati appositamente dagli scenografi, che devono rispondere non solo alle indicazioni del testo del

libretto, ma anche a una sorta di tradizione consolidata nel raffigurare spazi, territori e città lontane o, comunque, non facilmente raggiungibili e alla portata di tutti. Al mito, si aggiunge l’alone di mistero, soprattutto sulle origini di Semiramide: se, da un lato, si enfatizza la sua condizione di schiava o comunque di prigioniera di guerra, dall’altro si celebrano le sue capacità politiche che, però, sono esito di inganni, sotterfugi e stratagemmi delittuosi. Si vuol sottolineare come Semiramide sia certo una regina potente, ma sia al contempo un personaggio controverso e non casualmente le vicende narrate nei libretti d’opera e musicati da numerosi compositori si soffermano proprio sulla descrizione del carattere della regina. Effettivamente, la vita di Semiramide, o almeno quella che è stata ricostruita, tramandata e successivamente inscenata, si presta molto bene a creare drammi teatrali basati sulla contrapposizione fra la protagonista e i suoi antagonisti, con non pochi momenti di azioni (guerre, spedizioni militari, il sedare rivolte) e a r c h e o 45


DONNE DI POTERE/1 Bogazköy/Hattusa

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RICOSTRUZIONI FANTASIOSE Questa caratteristica o, se vogliamo, deformazione e manipolazione non riguarda solo Semiramide, ma, in generale, molte altre figure storiche

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intrecci amorosi che fortemente caratterizzano la figura di Semiramide nei rapporti, soprattutto, familiari (marito, figlio). Si capisce quindi come le sue qualità di regina, di condottiera, di moglie e vedova e di madre siano tutti elementi che variamente ricorrono nei testi letterari, i quali, tuttavia, spesso condividono un impianto simile o, meglio, una sorta di qualificazione di Semiramide nella storia. Dopo tutto, le fonti degli autori classici, soprattutto, sono il fondamento sul quale le diverse storie sono poi intrecciate, spesso mescolando eventi tramandati da differenti autori, cui spesso si aggiungono sovrainterpretazioni o sovrastrutture dettate dalle considerazioni del mondo orientale attraverso la lente (spesso deformante) europea.

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Tell Mozan Tell Hamoukar Karkemish Khorsabad/Dur-Sarrukin Tell Ahmar Tell Brak Ninive Aleppo Gezi Nimrud/Kalhu ra Ras Shamra/Ugarit Tell Mardikh/Ebla Tell Sheikh Hamad Qal’at Sherqat/Assur

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dell’antico Oriente o dell’Egitto, dove, alle reali vicende storiche, si mescolano, sovrappongono e sostituiscono leggende e fantasiose ricostruzioni, dettate proprio dall’ambientazione in luoghi che evocano per lo piú fascino, mistero ed elementi esotici e onirici irrazionali: quasi a voler sottolineare come l’ambiente influisca sulle scelte degli uomini, sulle loro passioni e scelte politiche. Sebbene siano quindi connotate negativamente, si finisce inevitabilmente per provare una sorta di attrazione per queste figure che, non casualmente, popolano i drammi lirici e le cui condotte di vita e destini, spesso tragici, vengono talvolta usati come allegorie per esprimere giudizi sulla contemporaneità, come per esempio accade per Nabucco, ovvero Nabucodonosor, il celebre sovrano di Babilonia, conquistatore di Gerusalemme nel VI secolo a.C. L’uso di giudizi sprezzanti in riferimento a re e regine dell’antico Oriente, mettendo in esagerata evidenza o volutamente ali-

Carta del Vicino Oriente antico. In basso: stele della regina Shammuramat, ormai identificata con Semiramide, da Assur. Berlino, Pergamon Museum. Nella pagina accanto: stele del re Shamshi-Adad V, di cui Shammuramat/ Semiramide fu moglie, da Nimrud. 815-811 a.C. Londra, British Museum.


mentando sospetti e dicerie, è piuttosto consolidato e non solo in epoca moderna: sicuramente la forte influenza delle accuse dei profeti nei testi dell’Antico Testamento ha notevolmente contribuito a creare questi miti negativi, dipingendo i sovrani assiri come despoti assetati di sangue, violenti e dissoluti, dediti ai peggiori vizi (basti pensare alla Morte di Sardanapalo di Eugène Delacroix, quadro nel quale sono riassunti i vizi di ricchezza e lussuria della corte di Sardanapalo, l’Assurbanipal delle antiche fonti assire, in una rappresentazione tipicamente romantica che esalta gli eccessi e il gusto per l’esotico; vedi foto alle pp. 48/49).

UN MODELLO NEGATIVO Già in età romana, Semiramide, una regina orientale, venne usata come termine di paragone negativo: nella sua Storia romana, Cassio Dione (IIIII secolo d.C.) cita Semiramide quale modello negativo per Giulia Domna, madre dell’imperatore romano Caracalla. Secondo Cassio Dione, Giulia Domna è accusata di aver cercato di governare, «rendendosi pari a Semiramide e Nitocris, poiché anche lei proveniva in qualche modo dalle loro stesse regioni». E ancora, un passaggio di Plinio il Vecchio si concentra in particolare sulle qualità di Semiramide come fondatrice di varie città e poi ne sottolinea un aspetto piuttosto eccezionale: nel libro ottavo della Naturalis Historiae, che tratta della natura dei cavalli, Plinio (riferendosi al re numidico Giuba) riferisce che Semiramide amava cosí tanto il suo cavallo da fare sesso con lui. E questa diceria fa parte, piú in generale, delle accuse rivolte a Semiramide circa la dissolutezza dei suoi costumi, tanto da arrivare a compiere un omicidio, uccidendo il marito, e intrattenere rapporti sessuali con i soldati del suo esercito o addirittura incestuosi: Ammiano Marcellino (IV secolo d.C.) ribadisce l’imma-

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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DONNE DI POTERE/1

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La morte di Sardanapalo, olio su tela di Eugène Delacroix. 1827. Parigi, Museo del Louvre.

gine di Semiramide come modello negativo e la usa come specchio per la società romana, accusandola di essere colei «che per prima fece castrare i giovani maschi, facendo cosí violenza, per cosí dire, alla Natura»; ancora, secondo Giustino, Semiramide ha sviluppato un desiderio «innaturale» per una relazione sessuale con suo figlio, Ninyas. Il fatto che suo figlio, secondo Giustino, non si comportasse affatto da uomo, vivendo da donna insieme ad altre donne, sembra essere il risultato del comportamento degenerato di sua madre, un dettaglio che è riportato, cosí come il vizio dell’incesto, nel capitolo dedicato a Semiramide da Giovanni Boccaccio nel suo De mulieribus claris. Né è un caso che Dante condanni la regina che «a vizio di lussuria fu sí rotta, / che libito fé licito in sua legge» nel girone dei lussuriosi (Inferno, canto V).

LE FONTI Tutte queste informazioni e trasformazioni sul personaggio Semiramide, tuttavia, non hanno ancora dato una risposta alla nostra domanda iniziale. Diverse ipotesi sono state avanzate circa l’identificazione della Semiramide delle fonti greche con figure femminili dell’antico Oriente, in particolare con il mondo assiro: Semiramide potrebbe essere stata Atalya, moglie del re assiro Sargon II (720-705 a.C.), che era stato identificato con il Nino delle fonti tarde per le similitudini circa la conquista e la ricostruzione della città Babilonia, la fondazione di una nuova capitale e le campagne militari contro Urartu, un antico regno dell’Armenia; per rimanere in ambito assiro, si era ipotizzato che Semiramide potesse invece essere la regina Naqia, seconda moglie del re assiro Sennacherib (705681 a.C.), corrispondente alla Nitocris citata da Erodoto; ancora si era invece pensato a Stratonice, moglie di Seleuco I (358-281 a.C.) e madre di Antioco I (323-261 a r c h e o 49


DONNE DI POTERE/1

a.C.), per le sue opere progettate e realizzate a Babilonia. In realtà, Semiramide corrisponde piú verosimilmente, come ormai la maggior parte degli studiosi sostiene e concorda, alla regina Shammuramat (850-798 a.C.), nuora del re assiro Salmanassar III (859-824 a.C.), moglie di Shamshi-Adad V (824-811 a.C.) e madre di Adadnirari III (810-783 a.C.): il ruolo di Shammuramat/Semiramide cambia drasticamente con la morte del marito consorte, re d’Assiria, nell’824 a.C. Il figlio Adad-nirari III, che all’epoca ha poco piú di 10 anni, non è ancora maturo per salire al trono d’Assiria e pertanto Shammuramat/Semiramide ne assume la reggenza. Sebbene non si abbiano molti dati, alcuni documenti di epoca assira testimoniano che Shammuramat/Semiramide fu molto attiva, come di norma i so-

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vrani assiri che l’avevano preceduta, nelle azioni di conquista, nella gestione politica degli affari dell’impero (in particolare per i rapporti con Babilonia) e nell’attività edilizia nelle città assire di Nimrud e Ninive, promuovendo la costruzione di templi e palazzi. Una stele eretta da Shammuramat ad Assur ricorda il suo ruolo e i suoi titoli, ovvero moglie di Shamshi-Adad V, madre di Adadnirari III e donna del palazzo, un titolo che indica la sua funzione politica nella gestione degli affari del palazzo e quindi dello Stato assiro. In una stele di confine, eretta invece dal figlio Adad-nirari III, divenuto ormai re d’Assiria, e ritrovata nelle vicinanze della moderna cittadina di Pazarcık, in Turchia, il nome di Shammuramat, la regina, è menzionato in relazione alla partecipazione alla campagna

militare contro Kummuh, uno dei principati dell’età del Ferro in Siria e Anatolia nel I millennio a.C.

UN PROFILO CONFUSO Dai numerosi titoli dedicati a Semiramide si può evincere non solo il successo di tale personaggio nel teatro di prosa e nell’opera, ma anche la grande confusione che circonda questo personaggio, spesso trattato come figura simbolica, mitologica e quindi allegorica piú che come protagonista di un importante passaggio storico della storia dell’antica Mesopotamia. Le informazioni raccolte e tramandate da Ctesia e Diodoro Siculo, non sempre tra loro concordanti, hanno fortemente influenzato la stesura dei drammi e dei libretti per mettere in scena la vita e le imprese di Semiramide. Se si prendono alcuni titoli ricorrenti di opere, quali Semiramide in


India, Il Nino, Nino il giusto, La Schiava Fortunata, Semiramide, regina d’Assiria, La Schiava Fortunata ovvero La Rissemblanza di Semiramide e Nino, La regina creduta re, Semiramide in Ascalona, si possono riconoscere elementi che sottolineano l’umile origine come schiava, il rapporto con alcuni luoghi (l’India come meta di una delle presunte imprese militari o Ascalona come probabile luogo di nascita di Semiramide) e l’associazione con Nino, nome leggendario di un re assiro, fondatore di Ninive, marito di Semiramide che, secondo alcune tradizioni, sarebbe proprio stato ucciso dalla consorte. Nino è un nome di comodo, fittizio, che serve appunto alla contestualizzazione della storia (in Assiria) e a

In alto: Anfiteatro Babilonese, bozzetto di Antonio Basoli per la Semiramide riconosciuta di Giacomo Meyerbeer, messa in scena a Bologna nel 1820. Nella pagina accanto: Parte remota attigua al mausoleo di Nino, scenografia di Alessandro Sanquirico per la Semiramide di Gioachino Rossini presentata al Teatro alla Scala di Milano nel 1824.

inquadrare la malvagità di Semiramide che si macchia di un omicidio: è interessante osservare come la qualifica generica di Nino ricorra e sia utilizzata per identificare immediatamente un re orientale anche nel 1846 quando, al Her Majesty Theatre in Haymarket di Londra, il Nabucco di Giuseppe Verdi venne riproposto con il titolo di Ninus, King of Assyria. Del rapporto tra Nino e Semiramide esiste anche un romanzo del I secolo a.C., conservatosi solo in pochi frammenti, che

tuttavia denota come queste due figure siano da sempre state al centro di una produzione letteraria di finzione e invenzione. Gli elementi geografici e Nino compaiono non casualmente nelle scenografie per le rappresentazioni di Semiramide: le indicazioni della sceneggiatura riportano infatti tutti gli elementi utili per ricreare sul palco il perfetto contesto della storia raccontata e cantata. E di conseguenza, essendo queste annotazioni il risultato di letture di testi che già a r c h e o 51


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hanno manipolato la vera storia di Semiramide, anche le scenografie traducono in immagini queste mistificazioni, andando tuttavia a codificare la modalità comune, tradizionale e, potremmo dire, imposta di raffigurare l’Oriente. Ma quale Oriente? Quello reale, storicamente documentabile, o quello fittizio, che era però inteso come vero perché basato sulla persistenza di fonti antiche che ribadiscono, con sfumature o aggiustamenti, le medesime informazioni? Semiramide, figlia del re d’Egitto Vessore, si è invaghita del principe indiano Scitalce, giunto a corte sotto il falso nome di Idreno, ma dopo 52 a r c h e o

diverse traversie, inganni e tentati omicidi, si salva e fugge a Babilonia, dove sposa Nino, concepisce il figlio anch’egli di nome Nino e, alla morte del marito, assume il potere, indossando abiti maschili che la rendono ancora piú simile al figlio che invece vive, nascosto e in abiti femminili, a corte. Questo, in sintesi, il quadro dell’azione dell’opera Semiramide riconosciuta di Giacomo Meyerbeer, rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino il 3 febbraio del 1819. Ritroviamo tutti gli elementi tipici della storia di Semiramide: la confusione sulle sue origini, qui addirittura in Egitto, il rapporto con Babilonia, l’India, il


matrimonio con il leggendario Ni- ologiche in Mesopotamia che ebno, la sua presa di potere e l’educa- bero inizio nel 1842. Nelle rappresentazioni dell’antico zione riservata al figlio. Oriente compaiono con una certa frequenza gli elefanti: si tratta forse L’ORIENTE INVENTATO Egitto, India, Babilonia, Assiria sono di un richiamo all’India che, tra i luoghi che infatti ritroviamo nelle l’altro, nella storia tramandata di scenografie per la rappresentazione Semiramide è uno dei luoghi d’adelle varie Semiramidi: se infatti zione che vede implicata direttaprendiamo i lavori di Giuseppe mente la protagonista? Gli elefanti, Borsato per la prima della Semirami- non a caso, compaiono anche code di Gioachino Rossini a Venezia, me elemento decorativo del letto nel 1823, le scene di Alessandro su cui sta morendo il Sardanapalo Sanquirico per la ripresa della Semi- di Delacroix e ancora sono presenramide di Rossini alla Scala di Mila- ti nel 1843 nelle scenografie di no del 1824 o, ancora, le scenografie Romolo Liverani per il Nabucco di di Antonio Basoli per la Semiramide Verdi a Faenza. A tal proposito, è riconosciuta di Giacomo Meyerbeer a interessante ricordare le parole del Bologna, nel 1820, possiamo rico- pittore inglese John Martin, che, noscere una sorta di canone icono- per i suoi dipinti Il banchetto di Balgrafico che, da un lato, è ovviamen- dassarre (1820), La caduta di Ninive te dettato dalle indicazioni della (1830) e La caduta di Babilonia sceneggiatura e, dall’altro, dall’im- (1831; tutti, quindi, prima del possibilità per gli scenografi di co- 1842), afferma di aver letteralmennoscere in quegli anni Babilonia o te inventato le architetture delle le città d’Assiria che sarebbero state antiche Babilonia e Ninive, le quascoperte e scavate solo alla metà e li, trovandosi a metà tra l’Egitto e alla fine dell’Ottocento nelle prime l’India, ne devono condividere alvere ed estensive operazioni arche- cuni caratteri e specificità. A sinistra, sulle due pagine: La caduta di Babilonia, olio su tela di John Martin. 1831. Londra, British Museum. In basso: Nabucodonosor e Semiramide innalzano i giardini di Babilonia, olio su tela di René-Antoine Houasse. 1676. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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SEMIRAMIDE RE-INTERPRETATA: MITO E ALLEGORIA Semiramide, in molti titoli, viene riconosciuta: ovvero si svelano i suoi segreti e sotterfugi, l’uccisione del marito, l’occultamento del figlio e le sue torbide passioni. Potremmo dire che Semiramide viene smascherata. Questa ambiguità di Semiramide ha verosimilmente contribuito al successo di questa figura nel corso dei secoli, fino ai giorni nostri. Opere dedicate a Semiramide sono composte nel 1910 (Ottorino Respighi), 1934 (Arthur Honegger) e 1983 (Peter Michael Hamel): il mito e il fascino della regina assira che ha costruito Babilonia, che ha ucciso

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il marito, ingannato un popolo e sacrificato il figlio pur di regnare, giungendo anche a macchinazioni perverse, è sopravvissuto nel tempo contaminando anche altri generi, come il cinema (il film Sémiramis di Camille de Morlhon del 1910), la pubblicità (la locandina in stile Art Nouveau di Albert-Émile Artigue per la Parfumerie Semiramis nel 1905) e la fotografia (La Reine Sémiramis di René Magritte del 1947). Forse il mistero, la presenza degli inganni e i colpi di scena sono proprio gli elementi efficaci che rendono la figura di Semiramide ancora attraente: un’attrazione che può però essere fatale come lo è stato per coloro che, secondo le vicende narrate nelle opere, sono stati ammaliati dal potere, dalla lussuria e dall’avvenenza di Semiramide. In tutto questo vi sono molti punti equivoci di come un’immagine femminile dell’antichità, originaria per di piú di un luogo che da sempre è connotato di mistero, esotismo ed erotismo, sia stata travisata, raccontata, dipinta e cantata per mettere in risalto quegli eccessi e quegli stessi abusi che da sempre sono imputati ai sovrani dell’Oriente preclassico, despoti violenti dediti a vizi e costumi depravati. In risposta a questo, la critica all’orientalismo ha fortemente contestato questa visione e rappresentazione non solo di Semiramide, ma in generale dell’Oriente e la questione è qui ancora piú accesa, trattandosi di un personaggio femminile. Semiramide, infatti, oscilla tra l’essere una regina forte, saggia e capace, da un lato, e una donna attraente, potente e sessualmente prepotente, dall’altro.

È proprio sul confine di questa oscillazione che si rende necessaria un’analisi culturale che permetta di comprendere, storicizzare e criticare l’una posizione e l’altra, per definire i meccanismi della trasmissione di una tradizione cosí ben radicata che ancora oggi continua a contrapporre due visioni che, invece, sono le facce di una stessa medaglia. Continuare a parlare di Semiramide e a mettere in scena le sue vicende può diventare un esercizio di critica storiografica di come una parte di mondo (l’Oriente) e alcuni protagonisti (in questo caso il ruolo preminente di una figura femminile) siano stati raccontati, rappresentati e categorizzati e di come intendiamo (dobbiamo) invece oggi farlo.


L’Egitto torna prepotentemente nelle immagini per le scene del mausoleo di Nino, il marito ucciso da Semiramide: in una scenografia di Giuseppe Borsato, a sinistra, si vede una piramide, luogo di sepoltura di Nino, a destra invece l’ingresso del palazzo di Semiramide a Babilonia in un’architettura chiaramente egizia con le colonne del portico a forma di papiro, obelischi, torrioni rastremati e colossi statuari seduti in trono. A prescindere dalla fantasia degli scenografi – ma ne va anche riconosciuta la perizia, dovendo di fatto inventare luoghi archeologicamente ancora ignoti –, con le vicende di Semiramide siamo a Babilonia o in Assiria? Come moglie di Nino, re d’Assiria, il mausoleo del re defunto e il palazzo della regina dovrebbero trovarsi a Ninive o comunque in

Semiramide che costruisce Babilonia, olio su tela di Edgar Degas. 1861. Parigi, Musée d’Orsay. Nella pagina accanto: manifesto pubblicitario di Albert-Émile Artigue per la Parfumerie Semiramis. 1905.

una città d’Assiria: questa confusione non tocca solo le vicende di Semiramide e l’interscambiabilità tra Babilonia e Assiria ricorre, come un cliché, in tutte le storie che riguardano l’antico Oriente.

ASSIRIA O BABILONIA? Basti pensare ai celebri giardini pensili, comunemente collocati a Babilonia, ma che erano invece una tipica creazione degli Assiri. Ctesia addirittura dichiara che questi fossero proprio stati creati a Babilonia da Semiramide stessa. O si pensi anche alla successiva opera Nabucco di Verdi: Nabucco, il Nabuconodor re di Babilonia, è chia-

mato re d’Assiria e degli Assiri e inevitabilmente questa confusione si riflette nelle scene dove, anche in tempi recenti, elementi dell’architettura e dell’arte assire sono usati per rappresentare i luoghi della reggia e della città di Babilonia. In realtà, per quanto riguarda Semiramide, il rapporto con Babilonia è dovuto a fonti, prive di fondamento, secondo le quali si tratterebbe di una principessa di Babilonia e che, durante il suo regno, si sarebbe fortemente impegnata nella costruzione della città: questo ruolo di regina costruttrice di Babilonia è stato di ispirazione per quadri quali Nabucodonosor e Semiramide innalzano i giara r c h e o 55


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dini di Babilonia di René-Antoine Houasse (vedi foto alle pp. 52/53, in basso) o il piú noto dipinto di Edgar Degas, Semiramide che costruisce Babilonia (vedi foto alle pp. 54/55). E infatti, nel libretto di Gaetano Rossi per la Semiramide di Rossini, tratto e riadattato dalla tragedia di Voltaire del 1748, pur leggendo «Or dell’Assiria a’ popoli accorrenti / alle straniere genti, a’ prenci, a’ regi / del nuovo augusto tempio a Belo sacro, / ministri, voi l’aurate porte aprite», la 56 a r c h e o

scena si svolge a Babilonia esattamente come indicato da Voltaire nell’atto I: «Il teatro rappresenta un ampio peristilio in fondo al quale si erge il palazzo di Semiramide. I giardini a terrazza si ergono al di sopra del palazzo, il tempio dei Magi è a destra e un mausoleo si erge a sinistra ornato di obelischi». Certo questi risultati eterogenei ed estroversi sono dovuti all’effettiva impossibilità di conoscere l’antichità dei luoghi citati nella storia di

Semiramide. Come veniva percepito e rappresentato l’Oriente prima delle scoperte archeologiche? I pittori prima del 1842 ignoravano la forma e la funzione dell’architettura del Vicino Oriente e quindi hanno prodotto un’immagine completamente inventata delle città orientali e dei loro elementi, mescolando informazioni e prendendo in prestito caratteristiche architettoniche da altri contesti. Infatti, riferimenti alle piú note


I palazzi di Nimrud restaurati, cromolitografia di Thomas Mann Baynes, da uno schizzo dell’architetto James Fergusson, da The Monuments of Nineveh di Austen Henry Layard. 1853. Londra, Royal Academy of Arts.

antichità dell’Egitto, della Persia e all’architettura islamica dall’Andalusia al Nord Africa, dal Medio Oriente e all’India sono comunemente impiegate e adattate per dare forma all’antico Oriente, secondo una rappresentazione immaginaria derivata dalla combinazione sincretistica di dettagli esterni spesso inappropriati. Ma questo era quello che il pubblico si aspettava di vedere a teatro: un Oriente, che seppure oggi giudi-

chiamo falso ed errato, era invece percepito come reale perché diverso dai luoghi della classicità per la presenza di quegli elementi connotanti (elefanti, obelischi e piramidi, per esempio). In effetti, lo stesso meccanismo può essere applicato anche alle ricostruzioni dei primi archeologi che scoprirono le città e i palazzi assiri: le ricostruzioni di Austen Henri Layard utilizzano lo stesso linguaggio dei pittori che hanno rappresentato

Ninive e Babilonia prima della loro scoperta. Gli archeologi britannici e francesi condividevano lo stesso pubblico dei dipinti di Martin e Delacroix e per questo motivo hanno usato e condiviso lo stesso linguaggio figurativo codificato, affinché le loro ricostruzioni potessero essere comprese e accettate. NELLA PROSSIMA PUNTATA • Shaushganu, principessa ittita a r c h e o 57


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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/6

MEMORIE DI UN NEMICO

IL CONFLITTO TRA ROMA E CARTAGINE FU IN GRAN PARTE ANIMATO DA SCIPIONE E ANNIBALE. LO STORICO GIOVANNI BRIZZI HA DEDICATO STUDI APPROFONDITI ALLA FIGURA DEL SECONDO, ARRIVANDO A «CONOSCERLO» COSÍ INTIMAMENTE DA POTERNE SCRIVERE L’AUTOBIOGRAFIA, IN FORMA DI ROMANZO... di Giuseppe M. Della Fina

«A

ll’Italia ho lasciato un retaggio di dolore e di desolazione, di rancore e di paura; a Cartagine e ai Greci lascio un futuro denso di incognite. A Roma, per colmo di ironia, ho spalancato la prospettiva del dominio sull’ecumene». È il bilancio amaro che si trova nelle pagine finali del romanzo Annibale. Come un’autobiografia, scritto da Giovanni Brizzi e che, all’indomani della sua prima edizione per i tipi della Ru-

sconi, nel 1994, fu molto apprezzato da Sabatino Moscati. L’autobiografia immaginaria del grande condottiero cartaginese è stata riproposta negli anni da editori diversi, ma senza che il testo venisse modificato o aggiornato secondo le intenzioni dell’autore: nel 2003 fu ripubblicato da Bompiani nei tascabili; Laterza lo ha proposto nel 2019, mutandone il titolo in Io, Annibale. Memorie di un condottiero, e, di nuovo, nel 2021; e notevole successo ha anche otte-

STORICO E SCRITTORE L’autore di Annibale. Come un’autobiografia è stato professore ordinario di storia romana presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna e ha insegnato anche in altri atenei italiani e stranieri. La sua attenzione si è incentrata soprattutto sull’Italia dell’età medio-repubblicana, sulla

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seconda guerra punica e sulla progressiva espansione della presenza di Roma nel Mediterraneo. È un profondo conoscitore della storia militare antica. Piú di una sua opera è stata tradotta in francese, spagnolo, portoghese, inglese e tedesco. Negli anni ha piú volte collaborato con «Archeo».


Busto in marmo bianco del cosiddetto Annibale. Seconda metà del XVI sec. Roma, Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/6

nuto la traduzione francese dell’opera. Nel frattempo (2007), ancora per i tipi della Laterza, Brizzi aveva pubblicato Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma, un libro dal taglio narrativo anch’esso, che analizza le scelte e i rapporti tra Annibale e l’uomo che lo sconfisse. Tornando al romanzo del 1994, il pensiero va subito alle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar (vedi «Archeo» n. 452, ottobre 2022; on line su issuu.com), con la differenza che in questo caso l’autore è 62 a r c h e o

uno storico del mondo romano e non una scrittrice. Sulla scelta di Brizzi si era già interrogato Moscati, ipotizzando che lo storico – scegliendo la forma narrativa – si fosse sentito piú libero e in grado di assicurare al testo «una vivacità, una pregnanza, una immediatezza che sarebbe stata altrimenti impossibile».

Laterza, confessando di avere voluto identificarsi con Annibale dopo anni di studio delle sue imprese e della sua personalità. Del resto, studiando un personaggio per lungo tempo, può accadere di avere l’impressione di averlo compreso a fondo, di arrivare a comprendere le sue scelte e, addirittura, i suoi pensieri piú segreti. E se tale consapevolezza si salda con l’inteSTUDIARE FINO resse per la letteratura, la tentazione A IMMEDESIMARSI L’autore stesso motiva la sua scelta di scrivere un testo dal taglio narranella nota di apertura dell’edizione tivo diviene forte e appare necessa-


prima d’essere consegnato ai Romani. È solo e riflette: «Non rivedrò Cartagine, mai piú. Lo sapevo da tempo, anche se continuavo con ostinazione a illudermi; ora sono rassegnato». Comprende che Prusia non avrà la forza e probabilmente nemmeno la volontà di opporsi agli emissari di Roma, che chiedevano la consegna del cartaginese, dovendo ingraziarsi i nuovi padroni del mondo. Annibale sa che la vittoria completa per i suoi avversari arriverà soltanto quando verrà catturato o ucciso; d’altronde, neanche per lui il conflitto con Roma era terminato con la sconfitta subita nella battaglia di Zama (202 a.C.).

IL PUNICO, UNA LINGUA SENZA FUTURO Consapevole del proprio destino imminente, Annibale, nelle pagine iniziali del libro, «confida» di voler scrivere un’autobiografia e di volerla scrivere in lingua greca, dato che «se anche Cartagine riuscirà a sopravvivere, infatti sarà ridotta a potenza di secondo rango; e il punico non avrà fortuna di sorta al di fuori dell’Africa». Già in tale affermazione, si può leggere la

rio assecondarla. Occorre, però, avere una conoscenza approfondita della persona presa in esame, del tempo in cui si trovò a vivere e, insieme, una capacità di scrittura notevole. Doti che Brizzi mostra di avere e che ancora una volta Moscati riconobbe: «le sue doti letterarie non sono minori di quelle scientifiche, e insieme formano un amalgama straordinario». Il libro si apre con Annibale in Bitinia, presso il re Prusia, alla cui corte aveva trovato l’ultimo asilo,

ODIO ETERNO Il ricordo del giuramento di opporsi a Roma da parte di Annibale è menzionato dallo storico Polibio. Il padre Amilcare, al termine di un sacrificio in vista di una spedizione militare in Spagna, avrebbe chiesto a coloro che avevano partecipato alla cerimonia di allontanarsi e avrebbe chiamato il figlio presso di sé. A quel punto, avrebbe chiesto al giovane se volesse accompagnarlo nella spedizione e avuta una risposta affermativa: «Presolo per la destra, il padre l’aveva allora accompagnato presso l’altare e, fattigli toccare i sacri arredi, gli aveva ordinato di giurare che mai sarebbe stato amico dei Romani» (III, 11). Nella pagina accanto: Giuramento di Annibale, olio su tela di Giovanni Battista Pittoni. 1723 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. Il dipinto si ispira alla vicenda narrata da Tito Livio e mostra il futuro generale cartaginese che, a soli nove anni, viene esortato dal padre, Amilcare Barca, a giurare odio eterno verso i Romani. A sinistra: la copertina di Io, Annibale (2019), riedizione di Annibale. Come un’autobiografia, pubblicato per la prima volta nel 1994.

volontà dell’autore d’identificarsi a pieno con il condottiero: è Giovanni Brizzi che scrive, ma le riflessioni, i pensieri vogliono essere, sono di Annibale. Il racconto prende avvio con la descrizione di Cartagine e delle dinamiche politiche e sociali che la agitavano. In apertura c’è il ricordo dell’episodio – ripetuto piú e piú volte – del giuramento di opporsi a Roma che il padre gli avrebbe fatto fare (vedi box in questa pagina). Cosí Brizzi lo fa raccontaa r c h e o 63


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/6

re al protagonista del suo romanzo: «Rivedo Amilcare, alto e solenne, con la lunga barba nera appena striata di grigio; lo rivedo avvolto nelle vesti sacerdotali, adorno di paramenti e bende frangiate d’oro, con il rasoio di bronzo stretto nella destra e l’agnello sacrificale ai piedi (...) Con un cenno mio padre mi chiamò a sé e, posta la mia destra contro la pietra dell’altare, quasi a farmi avvertire anche fisicamente la gravità dell’impegno, mi fece giurare che mai mi sarei piegato alla supremazia di Roma». Lo scrittore fa dire tutto questo a un Annibale anziano, carico di vittorie, ma anche e soprattutto di sconfitte, esule, solo, lontano dalla patria e in procinto di essere consegnato a Roma, quasi ad affermare la fedeltà a quel giuramento fatto da giovane e a segnalare il peso di quella promessa. Un giuramento che nel romanzo – ma anche nella vita del condottiero, per come la conosciamo – sembra avere costituito il filo rosso della sua esistenza. Contro Roma sempre, prima come esponente di spicco nella vita politica di Cartagine, poi alleato e consigliere – piú o meno ascoltato – di quanti erano intenzionati a opporsi all’avanzata romana nell’area mediterranea. L’Annibale descr itto da Br izzi racconta la propria formazione e il peso avuto in essa dalla cultura greca, che arrivò ad affiancare quella punica. Quasi a suggerire che le incomprensioni e le opposizioni interne alla sua azione politica nella città natale siano scatu-

rite anche dalla sua ellenizzazione: le altre famiglie, influenti nel governo della città come i Barca, avvertivano piú o meno consapevolmente la sua lontananza dai valori piú tradizionali. Accenna anche ad alcune sue caratteristiche di fondo. Ricorda la propria onestà: «sono stato sempre un amministratore specchiato; e se è vero che mi sono passati per le mani bottini immensi, è però altrettanto vero che li ho sempre destinati fino all’ultimo obolo al mantenimento del mio esercito o al bene della mia patria». Quali testimoni di ciò, cita i soldati dell’armata d’Italia, che avevano potuto vedere i bottini accumulati e il loro uso. D’altronde, poco prima – nel romanzo – Annibale ricorda come il padre gli avesse insegnato che le ricchezze sono spregevoli se rappresentano un fine e se sono inseguite per ottenere agi e godimenti, invece che per provare a promuovere il bene comune.

MAESTRO DI INGANNI Ammette, invece, le accuse – presenti con frequenza nelle fonti storiche e letterarie di ambito romano – di essersi sempre servito dell’inganno: «Maestro dell’inganno, ho impiegato sistematicamente, in politica come in guerra, l’espediente e l’astuzia in ogni sua forma; la parola data l’ho rispettata solo per tornaconto, e ciò mi ha aiutato a vincere spesso». Una confessione senza reticenze e tale da mettere in luce anche gli aspetti piú oscuri dei suoi comportamenti. Stratagemmi,

IL PIANO PER L’ITALIA Nella sua campagna d’Italia, Annibale aveva un progetto che si muoveva su due livelli: militare e politico. Da un lato il suo esercito avrebbe dovuto infliggere una serie di sconfitte a quello romano, dall’altro le vittorie riportate avrebbero dovuto rompere l’unità tra Roma e gli altri popoli dell’Italia antica, che erano stati conquistati solo da pochi decenni. Le vittorie militari arrivarono, ma l’unità non si ruppe. Tranne poche defezioni, le genti dell’Italia rimasero al fianco di Roma anche in anni particolarmente difficili.

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Annibale sulle Alpi, olio su tela di Benedict Masson. 1881. Chambéry, Musée des Beaux Arts.


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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/6

della società del popolo nemico e della sua rete di contatti e alleanze; il ricorso frequente a stratagemmi e, in proposito, ricorda l’idea di gettare anfore piene di serpenti velenosi sulle navi di Eumene di Pergamo; la creazione di una rete efficiente di spionaggio; l’attenzione per la morfologia del terreno da scegliere per la battaglia, o dove si sarà costretti a combattere; la capacità di sfruttare le situazioni meteorologiche a proprio favore e, in questo caso, rammenta la nebbia in occasione della battaglia del lago Trasimeno (217 a.C.) e il vento in quella di Canne (216 a.C.). Non dimentica nemmeno di citare il rapporto speciale che un condottiero deve riuscire a stabilire con i suoi soldati, mostrando di condividerne le fatiche e le sofferenze. Ma sottolinea, soprattutto, la capacità di non avere soluzioni preconcette: «L’unico requisito indispensabile è stato – per me come per Alessandro – l’intelligenza, che mi ha affrancato da ogni schema preconcetto».

doppiezza, perfidia che gli sembra di avere seminato nel suo tempo, al punto che gli stessi avversari – i vertici politici e militari di Roma – hanno accettato e a cui hanno fatto a loro volta ricorso. Essi appaiono «essere sempre piú orientati, ormai, a dimenticare il loro arcaico codice d’onore per adottare quella mentalità che, senza volerlo, ho insegnato loro». Con queste frasi Giovanni Brizzi suggerisce i cambiamenti profondi delle classi dirigenti romane a seguito della seconda guerra punica, che prepararono o, almeno, resero possibili gli scontri del II e del I secolo a.C. anche all’interno delle dinamiche politiche dell’Urbe.

PRONTO AL SACRIFICIO La confessione di Annibale va ancora oltre e arriva ad ammettere la crudeltà, pure ricordata nelle fonti antiche. Un’ammissione difficile con la quale misurarsi: lo scrittore fa ricordare da Annibale le crudeltà altrui («Anche in tempi a me vicini uomini erano stati arsi vivi o crocifissi, talvolta a centinaia o migliaia, città erano state distrutte e comunità intere deportate o costrette al suicidio») e le condizioni difficili, estreme in cui si era trovato ad agire. Ma c’è qualcosa di piú: la motivazione della crudeltà viene ricercata e attribuita all’adesione piena al progetto politico che si era dato: «In nome di un fine che reputavo primario, il destino stesso di Cartagine, ero pronto a sacrificare i miei uomini sino all’ultimo e persino a immolare me stesso: perché avrei dovuto lasciar mi turbare dal destino dei miei nemici, fossero pure innocenti presi nel vortice della guerra?». 66 a r c h e o

Moneta coniata al tempo di Annibale Barca. Zecca di Cartagine, 213-210 a.C. Collezione privata. Al dritto, il profilo del condottiero; al rovescio, un elefante. Nella pagina accanto: busto ritratto di Annibale. Mosca, Museo Puskin.

Nell’autobiografia immaginaria Annibale fornisce alcune indicazioni per comprendere i suoi successi militari: la conoscenza approfondita

RESTIO AD ASSEDIARE Giovanni Brizzi nel libro fa confessare ad Annibale anche il suo punto debole in quanto combattente: il non essere un poliocerta, ovvero le difficoltà che ha incontrato nell’assediare e conquistare una città. Un limite indicato da diversi autori per spiegare il mancato attacco a Roma dopo la vittoria riportata a Canne e quando la città nemica era in grandissima difficoltà e persone vicine a lui lo spingevano a farlo. Alcune pagine sono dedicate ai preparativi e allo svolgimento della battaglia di Canne. Di grande efficacia drammatica sono i passi – riecheggiati da Tito Livio – nei quali


RITRATTI DEL CONDOTTIERO Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia (XXXIV, 32), afferma che tre statue di Annibale si trovavano a Roma al suo tempo. Esse vi sarebbero state innalzate dagli abitanti di Thurii in suo ricordo. La critica non nega la notizia, ma ritiene che esse siano state piú probabilmente portate a Roma come bottino di guerra durante, o al termine della seconda guerra punica.

viene descritto, nella mattinata del giorno dopo, il campo dello scontro: «Intrisa e molle, grassa di umori e di sangue rappreso, davanti a noi si stendeva a perdita d’occhio una piana coperta di morti, fanti e cavalieri l’uno accanto all’altro, a migliaia, come il caso li aveva riuniti (...) Di quando in quando dai cumuli di cadaveri emergevano feriti che il dolore delle piaghe, inasprito dal freddo notturno, aveva ridestato alla vita; figure allucinate che andavano errando tra i caduti simili a spettri coperti di sangue». O ancora: «Altri ve n’erano, vittime dei miei Numidi, che, coi tendini delle cosce e dei garretti recisi, si trascinavano carponi, incapaci di alzarsi; e, porgendo a nemici la nuca o la gola, chiedevano supplicando il colpo di grazia». Avviandosi verso la conclusione del libro, Brizzi affida ad Annibale alcune valutazioni di carattere generale che tendono a ripetersi nella storia, come lo svilupparsi dei progetti egemonici spinti dalla crescita delle capacità economiche e militari.

FINALE AMARO Ma piace chiudere questo articolo con una riflessione amara che lo scrittore/storico fa avanzare nelle pagine finali a un Annibale seduto di fronte al mare, mentre contempla il tramonto: «La realtà inaugurata da Alessandro il Macedone e fatta di uomini grandi, capaci di illuminarla con la loro presenza e di plasmarla con la loro opera, sembra avviarsi alla fine: a Cartagine, in Grecia e, peggio ancora, nel senato di Roma dominano ormai i mediocri (...) Tornerà, forse, un tempo propizio agli ingegni magnanimi, ma io non sarò qui a vederlo; e probabilmente è giusto cosí». NELLA PROSSIMA PUNTATA • Robert Graves a r c h e o 67


MOSTRE • UDINE

SIGNORI DELLA GUERRA E DELL’ACQUA Un tratto del fiume Tigri. Il maestoso corso d’acqua attraversa la regione di Dohuk, nel Kurdistan iracheno, teatro delle attività svolte negli ultimi anni dall’Università di Udine. Dai risultati di queste ricerche è nata la mostra «Dal centro dell’impero», allestita nel Castello del capoluogo friulano (vedi foto in basso, nel riquadro).

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L’IMPERO ASSIRO, IL PRIMO NELLA STORIA A POTER ESSERE DEFINITO GLOBALE, È PROTAGONISTA DELLA MOSTRA ALLESTITA NEL CASTELLO DI UDINE PER CELEBRARE I TRENT’ANNI DI ATTIVITÀ NEL VICINO ORIENTE DELLA LOCALE UNIVERSITÀ. E PROPRIO DALLE RICERCHE CONDOTTE DALLE MISSIONI ATTIVE PRIMA IN SIRIA E POI NEL KURDISTAN IRACHENO SONO VENUTE RIVELAZIONI DI ECCEZIONALE IMPORTANZA SULLA STORIA DEL «PAESE DI ASSUR» di Stefano Mammini

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MOSTRE • UDINE

G

di un impegno che, nel tempo, ha visto gli studiosi dell’ateneo udinese attivi dapprima in Siria e, negli anni piú recenti, a seguito dell’impossibilità di operare in quel Paese dopo lo scoppio, nel 2011, della guerra civile, nel Kurdistan iracheno.

li acquedotti sono tradizionalmente considerati come uno dei simboli della civiltà romana. Eppure, almeno in questo campo, il primato di Roma va forse ridimensionato o, in una classifica ideale, assegnato ex aequo con l’impero assiro. È questa una delle molte e rilevanti acquisizioni scaturite dalle ormai trentennali attività di ricerca dell’Università di Udine nel Vicino Oriente, alle quali è dedicata la mostra «Nel centro dell’impero», allestita nel Castello del capoluogo friulano. Il progetto espositivo è dunque nato dal desiderio di illustrare i risultati

Mesopotamia. Un territorio che, per l’epoca assira, fu una delle aree nevralgiche di quello che, chiamato «Paese di Assur», divenne, tra il X e il VII secolo a.C., uno dei piú potenti ed estesi imperi della storia. Un impero del quale, fino a tempi relativamente recenti, si era quasi persa la memoria. E proprio alla sua riscoperta è dedicata la parte iniziale del percorso espositivo. Intorno alla metà del I millennio a.C., infatti, dopo la caduta di Ninive (612 a.C.) e Babilonia (539 a.C.), dei grandi regni della Mesopotamia rimasero solo brevi accenni nella Bibbia o in opere di

UN’AREA NEVRALGICA Quest’ultima regione è dunque divenuta l’oggetto del PARTeN (Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive), che dal 2012 a oggi – grazie a ricognizioni di superficie, scavi e interventi di restauro – ha considerevolmente arricchito il quadro delle conoscenze sull’alta

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L’impero assiro nel tardo VIII sec. a.C. L’impero assiro nel IX sec. a.C.

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L’impero assiro nel VII sec. a.C.

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L’impero assiro nel X sec. a.C.


A destra: un rilievo palatino di Khorsabad raffigurante un eroe barbuto con un leone in uno dei disegni realizzati da Eugène Flandin per l’opera Monument de Ninive di Paul-Émile Botta. 1849. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. In basso: giaretta in ceramica invetriata, da Qasr Shamamuk (Kurdistan ircheno). Produzione neoassira, 800-600 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: cartina che mostra la progressiva espansione dell’impero assiro e nella quale sono anche indicati i siti nei quali ha operato l’Università di Udine.

storici greci. Poi, nel tempo, piú di un viaggiatore credette di aver individuato i resti di Ninive all’esterno di Mosul, ma solo ai primi dell’Ottocento l’inglese Claudius Rich eseguí i primi rilievi dei resti che effettivamente si trovavano alla periferia della città irachena. Forte di quella documentazione, nel 1842, il console francese d’origine italiana Paul-Émile Botta avviò i primi scavi sulla collina di Tell Kuyunjik. Molto deluso dai risultati di quelle esplorazioni – sostenne di aver trovato solo pezzi di mattoni e poco altro – si spostò nella vicina Khorsabad, dove invece portò alla luce i resti di un palazzo monumen-

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MOSTRE • UDINE

tale, riccamente decorato. In breve, Botta si convinse di aver localizzato Ninive, senza rendersi conto di aver scoperto un’altra delle grandi capitali dell’impero assiro, Dur Sharrukin, sorta nell’VIII secolo a.C. per volere del re Sargon II. A Tell Kuyunjik, dimostrando che quello era effettivamente il sito dell’antica Ninive, riprese a scavare qualche anno piú tardi un altro inglese, Austen Henry Layard, che in precedenza aveva già rinvenuto 72 a r c h e o

i resti di Nimrud, l’antica Kalkhu. In questo modo, in un breve lasso di tempo, i tre principali centri dell’Assiria erano usciti dall’oblio e la riscoperta della civiltà che li aveva creati aveva definitivamente iniziato la sua corsa. Di queste imprese la mostra dà conto attraverso materiali archeologici e d’archivio, fra i quali spiccano disegni e fotografie che ne restituiscono con notevole efficacia l’atmosfera pioneristica, ma testimoniano

A sinistra: lastra in calcare raffigurante due prigionieri che trascinano pesi, dalla Sala XLIX del Palazzo Sud-Ovest di Ninive. Regno di Sennacherib (704-681 a.C.). Firenze, Museo Archeologico Nazionale. La scena evoca le deportazioni di massa attuate dagli Assiri all’indomani delle loro conquiste. In alto: lastra in calcare raffigurante arcieri in marcia, probabilmente da Ninive. Regno di Sennacherib (704-681 a.C.). Roma, Museo di scultura antica Giovanni Barracco. Al centro: lastra in calcare raffigurante arcieri assiri in battaglia, dalla Sala F del Palazzo Nord di Ninive. Regno di Assurbanipal (638-631 a.C.). Roma, Museo di scultura antica Giovanni Barracco.


anche della cura riposta nella documentazione delle strutture e dei manufatti recuperati. Una cura che si apprezza in particolare nelle magnifiche tavole realizzate da Eugène Flandin per la pubblicazione degli scavi di Khorsabad allestita da Botta.

PAESAGGI DI IERI E DI OGGI Le immagini, non soltanto d’archivio, sono peraltro uno dei punti di forza dell’allestimento, come prova il video che propone riprese effettuate nelle varie aree in cui l’Università di Udine ha operato e opera. In una sequenza resa particolarmente spettacolare dall’uso del drone, si susseguono immagini dei siti distribuiti nella regione di Dohuk, capoluogo dell’omonimo governatorato del Kurdistan iracheno, teatro delle ricerche condotte negli ultimi anni: dall’acquedotto di Jerwan al complesso monumentale di Khinis,

dai rilievi rupestri di Maltai al canale di Faida, i cui rilievi – come si dirà piú avanti – sono una delle attrazioni maggiori della mostra. Oltre a documentare monumenti di notevole rilevanza, il filmato mostra l’attuale paesaggio di quest’area del Vicino Oriente, che possiamo almeno in parte immaginare simile a quello nel quale vissero le genti assire e quelle da loro controllate. Lo sviluppo dell’impero e la sua straordinaria ascesa – all’apice della loro espansione gli Assiri arrivarono a estendere il proprio dominio dal Golfo Persico fino all’Egitto – si concretizzarono ai danni di varie popolazioni e i nuovi padroni di questa parte del mondo allora conosciuto non esitarono a operare massicce deportazioni, come ricordano le fonti e come si vede anche da alcune delle lastre selezionate per la mostra. Trasferimenti forzati che erano funzionali allo sfruttamento

del territorio, le cui potenzialità vennero accresciute considerevolmente proprio dalle opere di ingegneria idraulica alle quali si accennava in apertura. Grazie ad acquedotti come quello di Jerwan, fu possibile passare dalla tradizionale agricoltura seccagna di queste terre all’agricoltura irrigua, con aumenti della produttività che è facile immaginare. Ecco perché, oltre che formidabili guerrieri, gli Assiri meritano d’essere ricordati anche per la capacità di dotare il proprio impero di un sistema infrastrutturale straordinariamente articolato.

LE CAPITALI Cuori della potenza assira furono, nel tempo, le sue capitali, a cominciare da Assur, che, in quanto sede dell’omonimo dio tutelare, era considerata il centro piú importante sotto il profilo ideologico. Nel I millennio a.C., tuttavia, l’epicentro politico e amministrativo venne spostato nella già citata Kalkhu, ogLastra in calcare gi Nimrud, a sua volta rimpiazzata, alabastrino con non molto tempo piú tardi da Dur iscrizione Sharrukin, la «fortezza di Sargon» cuneiforme dal palazzo di Sargon l’odierna Khorsabad. Le ricerche che hanno interessato il II a Khorsabad. sito, avviate da Botta, hanno per721-705 a.C. Genova, Museo di messo di accertare l’esistenza di una città bassa, estesa su oltre 300 ettari, Archeologia chiusa da mura, a cavallo delle quaLigure. Il testo li sorgeva il Palazzo Reale. Per raesalta la gioni a tutt’oggi ignote, la costrugrandezza di zione della città fu bruscamente Sargon, a cui gli interrotta all’indomani della morte dèi hanno in battaglia di Sargon II e suo figlio, concesso una Sennacherib, optò per una nuova sovranità senza capitale, Ninive, dove promosse la eguali. Si enumerano le sue realizzazione del Palazzo Senza Rivali, un complesso architettonico campagne militari, si ricorda imponente e vastissimo. Anche i suoi successori fecero reala fondazione lizzare grandiose strutture palaziali, della capitale accanto alle quali sorse un palazzo Khorsabad e si destinato alla raccolta del bottino conclude proveniente dalle conquiste e dei maledicendo tributi versati dai re sottomessi. Nel chiunque osi tempo, le forme e l’esercizio del distruggere potere erano stati dunque codificati la sua opera. a r c h e o 73


MOSTRE • UDINE

Un capolavoro e il suo doppio Confronto tra il Rilievo 8 (in basso), uno dei pannelli scolpiti che fiancheggiavano il canale di Faida (Kurdistan iracheno) e la replica realizzata per la mostra. Ai due

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estremi del corteo stanno i ritratti del re, tra i quali incedono le figure divine: il dio Assur, la principale divinità del pantheon assiro, su un dragone e un leone con corna; la sua

paredra Mullissu, seduta su un elaborato trono sorretto da un leone; il dio della luna, Sin, anch’egli su un leone con corna; forse il dio della sapienza, Nabû, su un dragone; il dio


del sole, Shamash, su un cavallo; il dio della tempesta, Adad, su un leone con corna e un toro; e infine Ishtar, la dea dell’amore e della guerra, su di un leone.

e tra i molti documenti che ne offrono testimonianza si può per esempio citare la lastra che reca un’iscrizione cuneiforme nella quale viene celebrata la costruzione di Dur Sharrukin/Khorsabad. Epilogo del percorso espositivo è la sala che accoglie la replica a grandezza naturale di uno dei pannelli scolpiti a bassorilievo del canale di Faida. Della scoperta di quest’opera eccezionale avevamo già dato conto (vedi «Archeo» n. 422, aprile 2020; on line su issuu.com), ma la mostra nel Castello di Udine, oltre a dare modo di vedere da vicino il monumento, seppure in forma di copia, è l’occasione per fornire alcuni importanti aggiornamenti. Il piú significativo è certamente l’inaugurazione, avvenuta nello scorso ottobre, del parco archeologico creato per tutelare e rendere visitabile il sito: il primo del Kurdistan e dell’intero Iraq, a riprova dell’innegabile valore sociale dell’archeologia e del fruttuoso rapporto stabilito dalla missione italiana con le autorità locali.

LA RISCOPERTA La presenza dei resti del canale di Faida e dei pannelli scolpiti era stata segnalata già nel 1972 dall’archeologo inglese Julian Reade, ma la notizia non aveva avuto alcun seguito e fino ad anni recenti, anche per via dell’impossibilità di operare nella zona, dapprima coinvolta dal conflitto fra i Peshmerga curdi e il regime baathista e poi caduta sotto il controllo dell’ISIS. L’intervento condotto dall’ateneo udinese dal 2019, d’intesa con la direzione delle antichità di Dohuk, ha quindi assunto i contorni di una seconda scoperta, anche perché gli archeologi italiani hanno liberato da terra e detriti una porzione del complesso assai piú estesa di quella che Reade aveva appena intravisto. Dal punto di vista funzionale, quello di Faida è un canale, lungo piú di 10 km, che fu scavato nella roccia in un periodo compreso tra la fine

dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., allo scopo di captare le acque che sgorgavano da varie risorgenti carsiche e farle arrivare ai campi, cosí da aumentare la produttività agricola delle terre. Promotore dell’impresa fu Sargon II o forse suo figlio Sennacherib, ma, al di là dell’identificazione, appare evidente il forte intento propagandistico sotteso alla realizzazione dei rilievi: a oggi sono stati infatti individuati 13 pannelli monumentali, larghi 5 m e alti poco meno di 2, su ciascuno dei quali si ripete una sfilata di personaggi aperta e chiusa dal ritratto del sovrano e composta dalle 7 divinità principali del pantheon assiro. Piú volte ripetuto e reso ben visibile, il messaggio era dunque chiaro: il re, forte dell’aiuto e della benevolenza degli dèi, era l’artefice del benessere del suo popolo, al quale, grazie, all’acqua, assicurava vita e prosperità. Sono molti, dunque, i temi affrontati dalla mostra, i cui pregi maggiori – oltre a un allestimento lineare ed elegante – stanno nella chiarezza con la quale si è riusciti a dare conto di una storia complessa e nell’efficacia con cui è sottolineato il valore, non soltanto scientifico, del lavoro che gli archeologi, ma non solo, hanno svolto e continuano a svolgere. DOVE E QUANDO «Dal centro dell’impero. Nuove scoperte archeologiche dell’Università di Udine nell’antica Assiria» Udine, Castello Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 0432 1272591; e-mail: biglietterie. civicimusei@comune.udine.it; www.civicimuseiudine.it; Facebook Civici Musei Udine a r c h e o 75


SPECIALE • LIBANO

OPERAZIONE LIBANO UN TEAM DI ARCHITETTI, ARCHEOLOGI E RESTAURATORI GUIDATI DAI FUNZIONARI DI UN’ISTITUZIONE GOVERNATIVA ITALIANA SVOLGONO, DA ANNI, UN FONDAMENTALE LAVORO DI TUTELA E VALORIZZAZIONE IN SITI CHIAVE DEL PATRIMONIO STORICO E MONUMENTALE DEL PAESE VICINOORIENTALE. DALLE VESTIGIA DI UN CASTELLO MEDIEVALE AI CONFINI MERIDIONALI, PASSANDO PER LUOGHI LEGGENDARI COME TIRO, SIDONE E BAALBEK, FINO AI TESORI NASCOSTI IN UNA SPETTACOLARE VALLE AI PIEDI DEL MONTE LIBANO, ECCO IL RACCONTO DI UN LAVORO DI COOPERAZIONE CULTURALE TANTO NOTEVOLE QUANTO ANCORA SCONOSCIUTO AL GRANDE PUBBLICO di Andreas M. Steiner, reportage fotografico di Marco Palombi

È

mattina presto, la macchina ci aspetta davanti all’hotel. Beirut è avvolta da una nebbia primaverile. Il programma da svolgere nei prossimi giorni è intenso: visitare e documentare il lavoro svolto nel corso degli ultimi anni dai funzionari, architetti, archeologi, restauratori facenti capo a un’organizzazione governativa italiana di cui poco, per non dire quasi niente, è noto 76 a r c h e o

Baalbek/ Heliopolis, Libano. Le sei colonne del tempio di Giove oggi, dopo i recenti lavori di restauro e messa in sicurezza strutturali.


a r c h e o 77


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Un tratto di costa mediterranea nel Libano meridionale, sulla strada in direzione delle rovine della fortezza medievale di Chamaa.

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allo stesso pubblico italiano: l’AICS, l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (digitate AICS su un motore di ricerca è vi apparirà, in prima battuta, la homepage dell’Associazione Italiana Cultura Sport…). Eppure, la sede beirutina dell’Agenzia è da tempo impegnata nella tutela, nel restauro e nella valorizzazione del patrimonio culturale del Libano, offrendo supporti finanziari e tecnici nel quadro di un piú ampio programma, promosso dal governo libanese e dalla Banca Mondiale, finalizzato a riqualificare la gestione del patrimonio storico del Paese dei cedri. I lettori ricorderanno alcuni dei progetti dell’Agenzia di cui abbiamo riferito in passato: il restauro della meravigliosa tomba di

Mar Mediterraneo

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SPECIALE • LIBANO

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I MILLENNI DEL LIBANO

Mar Mediterraneo

Libano

V millennio a.C. Prime testimonianze archeologiche a Biblo III millennio a.C. Inizi della civiltà urbana XVI-XIII secolo a.C. Egemonia egiziana in Siria-Palestina XIII-XII secolo a.C. Nascita della scrittura fenicia XII secolo a.C. Invasione dei «popoli del mare» XII-VIII a.C. Indipendenza e fioritura delle città fenicie VIII-VII secolo a.C. Dominazione assira VI-IV secolo a.C. Dominazioni babilonese e persiana IV-II secolo a.C. La Fenicia è parte del regno seleucidico 64 a.C. La Fenicia è inclusa nella provincia romana di Siria 330 d.C. La Fenicia diventa parte dell’impero romano d’Oriente 636 d.C. Conquista araba XII-XIII secolo d.C. Conquista crociata e Stati latini d’Oriente 1291-1516 Dominazione dei Mamelucchi 1516-1918 Occupazione ottomana 1918 Autonomia del Libano 1930 Mandato francese 1943 Proclamazione d’indipendenza del Paese e definizione delle attuali frontiere del Libano

78 a r c h e o


Tiro, riportata ai suoi splendori originari da un’équipe di archeologi e restauratori coordinati da Giorgio Capriotti, e allestita nel piano interrato del Museo Nazionale di Beirut riprogettato e realizzato dall’architetto Antonio Giammarusti nei primi anni 2010 (vedi «Archeo» n. 379, settembre 2016; on line su issuu. com); e, poi, l’intervento – iniziato nel 1999 – di restauro delle superfici e di messa in sicurezza strutturale delle sei, gigantesche co-

lonne del santuario di Giove Eliopolitano a Baalbek, secondo un progetto congiunto della Banca Mondiale, della Direzione generale per la Cooperazione allo Sviluppo e dell’AFD, la francese Agenzia di Cooperazione (vedi «Archeo» 393, novembre 2017; on line su issuu.com). Sono alcuni, luminosi, risultati di un impegno di cooperazione culturale, oggi sotto gli occhi di tutti. E, come vedremo, non sono gli unici…

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SPECIALE • LIBANO

«L’ARCHEOLOGIA, UN PONTE DIPLOMATICO...» Incontro con Nicoletta Bombardiere, ambasciatrice italiana in Libano ◆ Ambasciatrice, l’archeologia

oggi non è piú soltanto una disciplina storica, autoreferenziale rivolta al passato e – come una certa opinione comune vorrebbe ancora sostenere – «fuori dal mondo»: è una disciplina di attualità civile e... politica. Non crede che, in questo senso, l’archeologia del Libano stia svolgendo un ruolo di ponte diplomatico con i «Paesi del Mediterraneo» e con l’Italia in particolare? Sono pienamente d’accordo. L’archeologia travalica i confini di disciplina che indaga sul passato per diventare ben di piú: ricerca delle radici di comune appartenenza a un territorio, recupero della memoria del passato e, attraverso questo, riscoperta di valori che possono

essere il collante del presente. Questo filo è cosí ben evidente fra Italia e Libano. Basti ricordare l’irradiazione della civiltà fenicia lungo le coste del Mediterraneo, cosí come la stratificazione, in Libano, della presenza ellenica, romana, bizantina e ottomana. Il Libano, tutto, è una testimonianza unica, a cielo aperto, dell’intreccio fra le principali civiltà del Mediterraneo. Non solo. È in questo Paese che le missioni archeologiche italo-libanesi stanno indagando sugli insediamenti piú antichi continuativamente abitati al mondo. Non sorprende che una terra cosí fertile, ricca di acqua e di sole, con una pianura protetta da montagne, e con montagne ricoperte da alberi di legno pregiato, abbia dato luogo alla nascita di comunità preistoriche. Quindi, per il Libano piú che mai, mi sembra che l’idea dell’archeologia come ponte fra

I LATINI A CHAMAA

A

partire siamo in cinque: mi accompagnano e guidano l’architetto Marisa Calia, responsabile senior del Programma Patrimonio Culturale e Sviluppo

80 a r c h e o

Paesi ed epoche storiche diverse sia davvero appropriata. L’archeologia è in sé connessione. Ed è anche vettore di riqualificazione e valorizzazione del territorio: questo è un aspetto non secondario nei progetti archeologici italiani, che mirano al recupero e alla protezione dei siti in chiave di restituzione alle comunità locali e di promozione di opportunità di lavoro e di turismo.

◆ Qual è il ruolo svolto, in questi

anni, dall’Italia sul piano della cooperazione culturale in Libano? La nostra cooperazione culturale in Libano è multiforme e continua. Attraverso il sostegno all’insegnamento della lingua italiana e la concessione di borse di studio presso università italiane; la condivisione del vivere all’italiana; la promozione delle rassegne musicali con artisti italiani; il recupero e la conservazione dei musei e dei siti archeologici. Il Libano è una terra ricca di cultura, di creatività e di talenti, attratta a sua volta dalla

Urbano dell’AICS, Liana De Rosa, vicedirettrice della sede AICS di Beirut, il giornalista Mauro Pompili, responsabile dell’ufficio comunicazione dell’AICS, e il fotografo Marco


cultura, dalla creatività e dai talenti italiani. La grave crisi economica di questi ultimi anni, le restrizioni imposte dal Covid, l’urgenza di affrontare le priorità sociali e umanitarie del Paese hanno inferto un duro colpo alla vitalità del mondo culturale libanese. Come Italia, la nostra convinzione è che la cultura non sia un lusso ma un bene pubblico, e il nostro obiettivo resta quello di continuare a sostenerlo, in linea con le nostre eccellenze, e senza dimenticare l’emergenza socio-economica. D’altra parte, lo voglio ricordare, grazie a un progetto italiano è stato riabilitato, dopo una chiusura di 40 anni, il piano interrato del Museo Nazionale di Beirut e riconsegnato al pubblico nel 2016 con una straordinaria collezione di 31 sarcofagi antropomorfi provenienti dall’area di Sidone.

◆ Quali sono le prospettive future

della collaborazione, sul piano culturale, tra Italia e Libano? Dobbiamo continuare a operare nella

preservazione e valorizzazione del patrimonio archeologico libanese; dedicare piú risorse alla lingua italiana, all’offerta di formazione presso le nostre università e in generale al capitale umano. Un altro settore in cui vogliamo rafforzare la collaborazione è quello del recupero del tessuto urbano e del restauro dei quartieri danneggiati dalle esplosioni al Porto di Beirut dell’agosto 2020, attraverso la condivisione di expertise e tecnologie italiane.

◆ Esiste qualche progetto che Le

sta particolarmente a cuore? I progetti che mi stanno a cuore sono tanti. Fra quelli realizzati, credo che il restauro italiano delle sei colonne del Tempio di Giove, nell’acropoli di Baalbek, rappresenti al meglio la grandiosità del monumento insieme alla straordinarietà, anche sotto il profilo tecnico, dell’intervento effettuato: quelle del Tempio di Giove sono le piú alte colonne romane mai erette. Mi piacerebbe che il pubblico italiano potesse avere piú

opportunità di conoscere questa realtà. Riviste come «Archeo», che ringrazio per questa iniziativa, possono indubbiamente avere un ruolo importante nello stimolare curiosità e interesse verso le ricchezze archeologiche del Libano, e verso i suoi antichi legami con la storia del nostro Paese e del Mediterraneo.

Sulle due pagine: l’area della fortezza di Chamaa (Libano meridionale), interessata dai lavori di restauro e valorizzazione guidati dall’AICS (Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo). In alto, nel box: l’ambasciatrice italiana in Libano, Nicoletta Bombardiere, in visita al sito. Nella foto qui sopra a destra, una ripresa aerea della prima metà del Novecento con i resti del villaggio fortificato. a r c h e o 81


SPECIALE • LIBANO

Palombi. La prima meta da raggiungere si trova poco piú di cento chilometri a sud dalla capitale libanese. La strada corre in parallelo alla costa del Mar di Levante: oltrepassiamo Saida (Sidone) e Tiro, per addentrarci poi nell’interno, verso il villaggio di Chamaa. Siamo nel Governatorato del Libano meridionale, non lontani da dove è di stanza il contingente militare italiano dell’UNIFIL. Qui, su una collinetta alta 360 m sorgono le rovine di un castello e di un villaggio fortificato, oggetto di un progetto di restauro e valorizzazione appena completato. La posizione strategica del castello appare subito evidente: dalla collina si dominano la penisola di Tiro e l’intero arco di costa che, a sud, viene chiuso dal «capo delle grotte nella roccia» (in arabo Ras an-Naqura, Rosh Hanikra in ebraico), una falesia a picco sul Mediterraneo che segna il confine tra Libano e Israele.

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE Dall’immediato aspetto medievale, Chamaa rivela, tuttavia, una sua origine piú antica: la presenza di resti di un villaggio di epoca romana e bizantina sembra avvalorare la tradizione locale che vuole il luogo abitato già durante il I secolo d.C.; la presenza bizantina è confermata dal ritrovamento, sulla sommità della collina, dei resti di un piccolo mosaico (del tutto plausibile rimane, inoltre, l’ipotesi che, proprio per la sua posizione, la collina sia 82 a r c h e o


Sulle due pagine: Castello di Chamaa. Il torrione e le mura di fortificazione dopo il recente restauro e la messa in sicurezza strutturale. Nell’immagine qui accanto: il minareto appartenente al santuario islamico dedicato al profeta Shamoun al-Safa, da cui forse deriva il nome della fortezza.

stata occupata già nei secoli, se non nei millenni, precedenti…). Nel VI secolo, l’insediamento fortificato venne distrutto da un terremoto (nell’estate del 551 una scossa e un devastante tsunami colpirono ampia parte delle città della provincia Phoenicia) e cadde in abbandono per lunghi anni. Nel XII secolo, in seguito alla prima crociata, il luogo venne occupato dai Latini, che vi eressero una fortezza in funzione dell’assedio di Tiro – ultima roccaforte ancora in mano islamica – del 1124. Di Chamaa si riavranno notizie certe solo secoli piú tardi, quando, intorno al 1750, il castello e il villaggio circostante verranno ricostruiti dal governatore di Tiro, lo sceicco Abbas Al-Muham-

mad al Nasser. In tempi recenti, durante l’occupazione israeliana del Libano meridionale tra il 1982 e il 2000, la struttura, usata come postazione militare, ha subito danni notevoli. Nel 2011 sono stati avviati i lavori di valorizzazione del sito, con scavi archeologici, restauri, consolidamento delle strutture murarie e la realizzazione di percorsi attrezzati, progettati e finanziati dalla cooperazione italiana. Oggi il castello è visitabile dal pubblico, che nella zona già affluisce ogni anno per onorare il vicino santuario ospitante una tomba, attribuita dalla tradizione locale a Shamoun al-Safa (l’equivalente del nostro san Pietro) e da cui, forse, deriva anche il nome della fortezza e del villaggio. a r c h e o 83


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SPLENDORI DI TIRO

L

asciamo il castello di Chamaa e riprendiamo la strada alla volta di Tiro, dove ci accoglie l’archeologo Ali Khalil Badawi, direttore per il Libano meridionale della DGA (Direzione Generale delle Antichità Libanesi). L’area archeologica di Tiro si estende su una superficie di oltre 153 ettari e, dal 1984, è iscritta nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO. Il sito archeologico comprende sia gli imponenti resti emersi dagli scavi intrapresi prima della guerra civile libanese (19751990), sia alcune aree della città moderna che ancora celano vestigia risalenti all’età del Bronzo e del Ferro. «In origine – spiega Ali Badawi – la città di Tiro era composta da due

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Tiro. Visitatori tra i resti della città romano-bizantina di al-Mina («il porto» in arabo), la parte prospiciente il mare della vasta area archeologica della città.


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isolotti. Fu il grande re di Tiro, Hiram, a unirli e ampliarli nel X secolo a.C. Successivamente, nel IV secolo a.C., Alessandro il Macedone assediò la città fenicia e, a quel fine, uní l’isola alla terraferma attraverso la costruzione di un molo largo 20 m, che poi si allargò in seguito al naturale accumulo delle sabbie trasportate dalla corrente. E cosí Tiro divenne una penisola». Gli scavi e i restauri diretti, dagli anni Cinquanta del secolo scorso, dall’allora direttore del Servizio per le Antichità del Libano, l’emiro Maurice Chéhab, portarono alla luce gli imponenti resti della città romana, con il grande ippodromo, la necropoli, la via colonnata e la splendida porta trionfale. La vasta area archeologica è composta da due Due immagini di un grande sarcofago di età romano-bizantina unità principali: situata sulla terraferma, a est nell’area di al-Mina. La maggior parte dei sarcofagi di Tiro sono della citta moderna, si trova il settore deno- scolpiti in marmo proconnesio.

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Cartina di Tiro con, in evidenza, le due grandi aree archeologiche di al-Mina e a-Bass. In basso: i resti sommersi dell’antico porto fenicio di Tiro.

Mar Mediterraneo Porto

Città Vecchia Arco monumentale Moschea fatimide Arena

Acquedotti

al-Mina Strada con mosaici Palestra Mura fenicie

Necropoli

Ingresso

Città Moderna

Resti del porto fenicio

Ingresso

Ippodromo

al-Bass

Mar Mediterraneo

minato al-Bass, al quale si accede percorrendo una lunga via trionfale ai cui lati si dispone la necropoli con centinaia di enormi sarcofagi in marmo scolpiti. Oltrepassando la magnifica porta monumentale si percorre una via di età romana fino a giungere al grande ippodromo, di cui si conservano ancora parti della scalinata, la mèta, l’obelisco centrale e i resti di una piccola chiesa di epoca crociata.

MOSAICI, COLONNE E RESTI SOMMERSI All’estremità meridionale della penisola, vicino alla città vecchia con il porticciolo dei pescatori, si trova l’area denominata al-Mina. Lungo una via decorata a mosaici incontriamo le colonne di numerosi edifici pubblici, la grande arena, le cisterne per l’acqua, le abitazioni, le terme e la grande palestra. Arrivati al mare, si intravedono le vestigia sommerse del piú antico porto di Tiro, risalente

al III millennio a.C. «Qui – ci segnala Badawi – abbiamo trovato anche alcuni resti delle mura di cinta di epoca fenicia, e sempre fenicio, probabilmente dell’VIII-VII secolo a.C., è anche questo piccolo santuario» spiega l’archeologo, indicando alcuni resti murari nella parte nord dell’area. «Non dobbiamo dimenticare, infatti – prosegue Badawi – che, prima di diventare città romana (fu eletta a colonia da Settimio Severo) Tiro fu una delle grandi città-stato dell’antica Fenicia». La tradizione ne colloca la fondazione nell’anno 2750 a.C., secondo quanto riferito dai sacerdoti del tempio del dio Melqart allo storico greco Erodoto che visitò la città nel V secolo a.C. Il nome sembra derivare dal cananeo Sur («roccia», con riferimento al terreno roccioso su cui sorgeva), mentre il nome Tyrus risale all’età ellenistica e romana. Sur è anche il nome arabo ancora oggi in uso.

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Una via colonnata nell’area degli edifici pubblici della città romano-bizantina, all’ingresso del sito di al-Mina. Nella pagina accanto, in basso: un frammento dei numerosi mosaici che decoravano la cosiddetta «strada dei mosaici», parte della basilica di Tiro. In basso: veduta della necropoli di al-Bass.

Le origini di questo primo insediamento sono ancora dibattute, ma è certo che, tra la fine del II e gli inizi del I millennio a.C., le principali città-stato della Fenicia sono prima Sidone e poi Tiro. Dal X secolo in poi, la seconda diventa il principale riferimento politico ed economico per le regioni circostanti; una realtà testimoniata dall’Antico Testamento, in cui si ricorda l’alleanza tra Hiram, re di Tiro, e il leggendario sovrano di Gerusalemme, Salomone, e si esalta la rete commerciale sotto il controllo della città fenicia, che raggiungeva l’Asia Minore, l’Egitto e l’Arabia. Gli strati archeologici risalenti all’età fenicia rimangono, ancora oggi, nascosti sotto gli splendidi monumenti di età romana. a r c h e o 89


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L’antica città è oggi in massima parte agevolmente visitabile, anche grazie all’impegno italiano: «Nei due siti di al-Mina e alBass – spiega l’architetto Marisa Calia – abbiamo portato a termine importanti opere di conservazione e consolidamento, tra cui vorrei ricordare quelle nel santuario di Apollo, ad al-Bass, e quelle sulle colonne della Palestra, ad al-Mina. Per quanto riguarda le opere finalizzate alla fruizione del sito da parte del pubblico, oggi la visita è resa piú facile e sicura grazie alla realizzazione di numerosi percorsi e passerelle, dal design discreto e non invasivo. Abbiamo proceduto, inoltre, all’inventariazione informatizzata dei reperti archeologici rinvenuti nei due siti e al restauro degli oggetti Sulle due pagine, in senso orario: al-Bass. Un tratto della strada di età bizantina; una delle numerose passerelle in metallo, progettate e realizzate dall’AICS per facilitare la visita alle aree archeologiche di Tiro; l’architetto Marisa Calia (AICS di Beirut) presso il grande arco monumentale di età romana (II sec. d.C.); l’archeologo Ali Khalil Badawi davanti a un blocco di vetro grezzo, rinvenuto nell’area delle fornaci di al-Mina.

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lapidei che verranno esposti nel nuovo Museo archeologico di al-Mina…». Prima di lasciare al-Mina, Ali Badawi ci fa segno di seguirlo: a poca distanza dalle grandi terme, in un’area dall’aspetto abbandonato, ci attende una sorpresa: un enorme blocco di vetro grezzo traslucido emerge dal terreno di quella che, nel VI e VII secolo d.C., doveva essere una fornace per la lavorazione del vetro. Qui, la sabbia proveniente dalle spiagge intorno a Tiro, ricca di silicati, mescolata ad altre sostanze veniva sottoposta al fuoco della fornace per diversi giorni di seguito, fino a raggiungere lo stato liquido. Una volta raffreddatasi, la massa fusa diventava un unico blocco di vetro grezzo, da cui si spezzavano i frammenti destinati a essere venduti alle botteghe dei vetrai. Sebbene, dunque, non siano stati i Fenici gli «inventori» del vetro (come vorrebbe un’antica leggenda tramandata da Plinio il Vecchio), è fuori discussione che la sua lavorazione ebbe, sulla riva mediterranea del Levante, una fortuna millenaria.

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Due immagini del grande ippodromo di Tiro, nell’area di al-Bass. Il circus è datato al I sec. d.C., misura 480 x 120 m e poteva accogliere 40 000 spettatori. Conserva ancora oggi parte delle gradinate, la meta e l’obelisco centrale.


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SIDONE NELL’ETÀ DI MEZZO

S

alutiamo Ali Badawi e procediamo in direzione della prossima tappa, Sidone. Se il ruolo di Tiro fu preminente per un lungo periodo della storia fenicia, l’im-

portanza di Sidone (l’odierna Saida) è suggerito anche dal fatto che il nome dei suoi abitanti, Sidonim (Sidonii), venne usato come sinonimo stesso dei «Fenici». Le prime indagini archeologiche nella città portuale furono avviate da Ernest Renan negli anni Sessanta dell’Ottocento e furono riprese

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Sidone. L’ingresso al Castello di Terra.

A destra: cartina dell’area storica della città. Nella pagina accanto: il Castello di Mare in una foto aerea d’epoca e allo stato odierno. In basso: Wafa Charaf Eldine, direttrice amministrativa del CDR (Council for Development and Reconstruction) sul sito del Castello di Terra.

negli anni precedenti la prima guerra mondiale. A quegli anni risale l’esplorazione delle necropoli fenicie di Sidone e la scoperta dei celebri sarcofagi «antropoidi», termine coniato dallo stesso Renan per descrivere questo particolare tipo di sarcofago marmoreo, sagomato assecondando i contorni del corpo (segue a p. 98)

Castello di Mare

Mar Mediterraneo

Khan el-Echle Porto

Mura di cinta

Città Vecchia

Castello di Terra Mura di cinta

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I QUATTRO PILASTRI DELLA COLLABORAZIONE Incontro con Alessandra Piermattei, direttrice della sede AICS di Beirut ◆ Dottoressa Piermattei, può

spiegare ai nostri lettori struttura e finalità dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo La cooperazione italiana è un’istituzione governativa e che dunque può investire capacità del settore pubblico italiano nell’ambito dei nostri interventi. Lavoriamo con i fondi del Ministero degli Esteri ma possiamo accedere anche ad altri donatori, tra cui l’Unione Europea.

◆ I progetti di cui si occupa

l’AICS non riguardano però soltanto i beni culturali… La nostra cooperazione in Libano è basata su quattro pilastri principali: la tutela del patrimonio culturale, la protezione sociale, le grandi infrastrutture e l’ambiente. Devo ricordare che questa cooperazione nasce molto prima della crisi siriana: il nostro ufficio apre nel 2006 sulla base di una preesistente collaborazione bilaterale molto profonda. Poi, con la crisi, il Libano si è visto confrontato con urgenze e necessità nuove. Noi siamo rimasti, disponendo forse di una carta in piú rispetto ad altri donatori, grazie alla nostra ormai pluridecennale conoscenza del Paese.

◆ Può sintetizzare il modo in cui

opera l’AICS? Il nostro lavoro si svolge in maniera «bilaterale», ovvero attraverso la stipula di accordi con il governo locale: ciò significa che l’Italia fornisce i fondi per le iniziative, ma l’esecuzione è garantita dalle istituzioni libanesi.

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Ritengo che questo sia un punto di forza della nostra cooperazione, perché garantisce l’ownership come diciamo noi, ovvero la proprietà delle iniziative. Questo modo di procedere, avviato – come già ricordavo – da tempo, ha subito un arresto con la crisi in corso. Oggi la capacità di realizzare iniziative da parte delle istituzioni libanesi è molto limitata. Stiamo cercando di trovare soluzioni alternative, sempre in collaborazione con le istituzioni libanesi, per recuperare gli stessi progetti con muove modalità. Parallelamente lavoriamo con le Nazioni Unite e con le nostre ONG e le altre

organizzazioni della società civile, soprattutto italiane. Ogni anno viene elaborata una programmazione, basata sui quattro pilastri a cui accennavo prima, e viene deciso quali progetti devono essere affrontati in maniera «multilaterale» e quali in maniera «bilaterale». Funzione dell’ufficio dell’AICS è quella di garantire la corretta esecuzione delle iniziative intraprese.

◆ In questo nuovo quadro,

certamente esacerbato dai vari elementi di crisi a cui il Libano è sottoposto in questi ultimi tempi, qual è, secondo Lei, la rilevanza degli interventi sul patrimonio culturale? La tutela dei beni culturali è uno dei settori di forza del nostro Paese e,


dunque, quello che l’Italia cerca di fare, nel quadro della cooperazione allo sviluppo, è quello di investire in settori dove possiamo, effettivamente, esportare capacità ed esperienze. Quindi, tutela del patrimonio culturale, valorizzazione delle piccole e medie imprese, il settore sociale, l’educazione inclusiva: sono questi gli ambiti in cui probabilmente siamo piú avanti di altri Paesi europei…

◆ …ambiti, questi ultimi, che

naturalmente non hanno la stessa visibilità degli interventi sul patrimonio monumentale… …senza dubbio. E vorrei ricordare che siamo presenti nei principali siti archeologici del Paese, il caso piú emblematico è, naturalmente Baalbek, ma non solo. Ora, la rilevanza dei nostri investimenti risiede nel fatto di restituire alle comunità siti di valore storicoarcheologico e fare in modo che questi tesori monumentali e artistici possano diventare sia fonte di indotto economico per le comunità – in termini di attrattiva turistica, di formazione di professionalità legate anche agli aspetti di tutela –, sia elementi di crescita «identitaria» delle comunità stesse. Questo è un aspetto fondamentale del nostro impegno. Se, infatti, nel millennio precedente tra gli obiettivi della cooperazione erano predominanti quelli legati alle necessità di base dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo – l’educazione primaria, la lotta contro la mortalità infantile, ecc. –, non si teneva conto di tutt’una serie di altri aspetti che contribuiscono allo sviluppo e che, invece, oggi, nella nuova agenda degli obiettivi di sviluppo, sono contemplati: e tra questi figura la tutela del patrimonio culturale e ambientale. Si tratta di un aspetto fondamentale soprattutto se riferito ai Paesi in guerra o, comunque, in situazioni di crisi

Nella pagina accanto: Alessandra Piermattei, direttrice della sede AICS di Beirut, durante l’intervista. Qui sopra: visita al cantiere del Khan el-Echle e nell’ufficio del sindaco di Sidone, Mohammad El Seoudi (secondo da destra).

quando – ma altrettanto vale, facendo le debite proporzioni, per il nostro Paese – gli investimenti nella tutela del patrimonio culturale diventano sempre piú esigui. Un altro aspetto non indifferente riguarda poi le reti di relazioni che si formano intorno e grazie ai lavori di tutela, restauro e riqualificazione, e che rimangono, al di là dei singoli risultati raggiunti: mi riferisco agli scambi tra operatori italiani e libanesi, anche sul piano della ricerca universitaria, alla cooperazione tra enti locali, tutti rapporti che si traducono in indotti positivi non solo per il Libano, ma anche per l’Italia. Il successo della collaborazione non si misura, dunque,

soltanto in termini di cosa e quanto sia stato restaurato e riqualificato: ci sono questi altri aspetti del nostro lavoro che forse non sono altrettanto visibili ma che, nondimeno, sono importantissimi, contribuendo a dare un «valore aggiunto» ai nostri progetti.

◆ Il modello AICS di Beirut,

oggettivamente di successo, potrebbe essere esportato anche altrove? Ci auguriamo di poterlo applicare un giorno anche in Siria, pur sapendo che, in questo momento, in quel Paese le priorità impellenti sono altre…

L’impegno complessivo della Cooperazione Italiana per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale in Libano ammonta a 12 928 000 euro, parte nella forma del credito d’aiuto al Governo libanese e parte a dono.

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umano: di origine egiziana e introdotti in Fenicia nel V secolo a.C., la loro tradizione si mantenne fino in età romana. Sarcofagi provenienti dalla necropoli di Sidone sono esposti nei grandi musei di tutto il mondo (famosissimo è quello del re Eshmunazar, conservato al Museo del Louvre), ma uno straordinario gruppo di questi «uomini bianchi distesi» si può ammirare, oggi, nel già menzionato piano seminterrato del Museo Nazionale di 98 a r c h e o

Beirut, allestito secondo il magnifico proget- Lavori to dell’architetto Antonio Giammarusti. in corso nel

L’AVVENTO DELL’ISLAM Sidone vide il dominio dei Persiani (una rivolta contro Artaserse III fu punita con la distruzione della città) e, in seguito, di Roma (fu Vespasiano a potenziare le mura di cinta). La presenza dell’impero d’Oriente si protrasse fino ai primi decenni del VI secolo d.C.

caravanserraglio Khan el-Echle, edificio del XVIII secolo, nella citta vecchia di Sidone.


quando, nel corso dell’espansione dell’Islam e dopo la battaglia di Yarmouk (636), la città passò sotto il controllo degli Arabi. Anche il Medioevo rappresenta un periodo significativo: il 4 dicembre del 1110 Saida viene conquistata dai crociati di Balduino I ed entra a far parte del regno latino di Gerusalemme. La città rimane dominio franco per quasi due secoli, fino al 1291, quando, con la fine del regno crociato, decade. Tornò a fiorire nel

XVII secolo, quando fu ricostruita per volere di Fakhr al-Din II, signore del Libano. I monumenti che ancora oggi caratterizzano la città appartengono all’età di Mezzo e al periodo musulmano: durante il dominio crociato, infatti, Saida fu munita di un nuovo sistema difensivo, del quale facevano parte il Castello di Mare (in seguito collegato alla terraferma attraverso l’aggiunta di un ponte) e una seconda fortezza, il cosiddetto Castello di Terra, situato nell’angolo sud-est di Saida e costruito sui resti di una preesistente fortificazione di età fatimide, a sua volta edificata sulle fondamenta di un edificio monumentale di età romana. E proprio il Castello di Terra che, contrariamente al Castello di Mare, giaceva in totale abbandono, è stato oggetto di un lungo e decisivo intervento di restauro, riqualificazione e valorizzazione, completato in anni recenti da archeologi libanesi (della DGA) e italiani, finanziati dal governo italiano, e svolti sotto la supervisione dell’AICS. Oggi il Castello di Terra (noto anche come Castello di S. Luigi, in onore del re francese che ne volle la costruzione) è un vero e proprio parco archeologico urbano, aperto al pubblico e interamente visitabile. Un secondo, importante intervento di restauro e riqualificazione in corso (e che vede protagoniste due società italiane, la Cooperativa Archeologia e Italiana Costruzioni) riguarda, invece, un monumento del XVIII secolo, situato nel centro storico: il Khan el Echle, un caravanserraglio del suq di Saida, fino a ieri in pessime condizioni conservative. Mentre visitiamo il grande edificio, i lavori sono in pieno svolgimento. «Prima di iniziare – spiega l’architetto Calia – abbiamo eseguito tutte le indagini necessarie sullo stato di conservazione dell’edificio, per calibrare le azioni di consolidamento delle strutture originali, e per individuare quali aggiunte posticce fossero da demolire. Poi abbiamo proceduto con il consolidamento della struttura, il cablaggio e l’impiantistica. Sono state restaurate le superfici murarie e ripristinate le aperture originali. È prevista anche l’installazione di un ascensore per i diversamente abili. E tutto ciò con la massima attenzione a non compromettere la tipologia e la storia dell’edificio che, quando i lavori saranno completati, diventerà un centro di formazione ed esposizione per l’artigianato: con spazi per ospitare studenti, sale espositive e aree commerciali». a r c h e o 99


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BAALBEK, CITTÀ DEL SOLE

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a nostra prossima meta è Baalbek, nella valle della Beqaa. Nel novembre del 2017 (vedi ancora «Archeo» n. 393) avevamo mostrato ai nostri lettori le immagini delle sei colonne del Tempio di Giove, ricoperte da un’impalcatura che le rendeva, di fatto, irriconoscibili. Quella copertura era essenziale agli interventi di restauro e consolidamento che, dal 2017 al 2019, si sono svolti sui fusti, alti 20 m, e sulla trabeazione, alta 5 m. Oggi, dopo la rimozione dell’impalcatura, il colonnato del tempio (che in origine doveva avere una pianta di 88 x 48 m) appare in tutta la sua maestosità. Grazie all’aiuto finanziario e tecnico italiano il monumento, che sei anni fa, a una prima analisi, era apparso in condizioni di grave criticità se non di pericolo, è stato, letteralmente, salvato. «Baalbek, come anche Tiro, sono siti facenti parte del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO – spiega Mauro Pompili,

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Baalbek. Le sei colonne del Tempio di Giove, dopo il restauro. In basso: particolare di un capitello e della trabeazione.

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mentre ci avviciniamo al monumento – e, in quanto tali, i nostri lavori sono stati sorvegliati e valutati da esperti indipendenti che periodicamente sono venuti a far visita sul campo, hanno partecipato a incontri per discutere e decidere insieme le operazioni da mettere in atto. Le loro raccomandazioni sono state sempre ascoltate e valutate in considerazione delle scelte da compiere. Il giudizio forse piú gratificante di tutti è stato proprio quello, assolutamente imparziale, degli esperti dell’ICOMOS (il Consiglio internazionale per i monumenti e i siti, n.d.r.) e dell’UNESCO. Nel loro rapporto leggiamo che tutte le analisi e i metodi di intervento sono stati ampiamente documentati e il monumento è stato restaurato “centimetro per centimetro”, che le attività di conserva-

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zione sono state eseguite “non come mera Sulle due pagine: azione cosmetica”, ma intervenendo su ele- alcune immagini menti fondamentali per il monumento». degli interventi di

TECNICHE D’AVANGUARDIA Giunti di fronte al grande podio, con le colonne illuminate dalla luce pomeridiana, chiedo all’architetto Marisa Calia di sintetizzarmi i principali passaggi che hanno segnato i lavori svoltisi dietro quell’imponente impalcatura che avevo visto anni prima: «Tutti i nostri lavori – esordisce Calia – si sono svolti nel rispetto rigoroso dei protocolli internazionali. I mezzi e le tecniche utilizzate sono all’avanguardia: con il laser scanner abbiamo ricostruito la geometria della struttura e acquisito un quadro delle reali superfici del monumento, cosí da predisporre la base delle

ricognizione, pulitura, restauro e consolidamento strutturale eseguiti sulle colonne del Tempio di Giove Eliopolitano a partire dal 2017.


I lavori sono stati realizzati da restauratori italiani sotto la direzione dell’AICS. I ponteggi hanno avvolto il monumento fino al 2019 (nella foto a destra, una fase dello smontaggio).

mappature dei degradi e delle sue patologie. Dopo l’installazione del ponteggio (importato dall’Italia, n.d.r.) abbiamo iniziato le attività di preconsolidamento, con la rimozione degli attacchi biologici sull’intera superficie del monumento. I restauratori, tutti italiani, hanno lavorato prevalentemente a mano, con il bisturi, la spugnatura, la micro-sabbiatura, il pennello. Con le micro-sabbiatrici di precisione (anche queste importate dall’Italia, n.d.r.) i restauratori sono intervenuti esclusivamente sulle aree affette dalle croste, risparmiando le superfici circostanti. Poi si è proceduto alla stuccatura delle lesioni, delle fessurizzazioni e alveolizzazioni. Il consolidamento delle colonne e dell’architrave è stato ottenuto attraverso iniezioni di resina epossidica. Da non dimenticare la “revisione cromatica” di tutte le superfici interessate dalle varie operazioni di restauro e consolidamento, fondamentale per ottenere una tonalità di colore omogenea, sempre nel rispetto della patina originale. Infine, abbiamo provveduto all’installazione di un impianto stabile di monitoraggio, alimentato da pannelli solari, cosí da acquisire dati sul piano sia dinamico sia statico, attraverso accelerometri e fessurometri, un anemometro (strumento per la misurazione della velocità e della direzione dei venti, n.d.r.) nonché rilevatori di temperatura». Gli interventi dell’AICS non sono, però, finiti con lo smontaggio delle impalcature del Tempio di Giove e si estendono, invece, all’intera area del santuario di Baalbek: con l’apertura di un nuovo accesso al sito attraverso l’antico quartiere musulmano e la porta di età fatimide, con l’allestimento – come a Tiro – di nuovi percorsi con passarelle in metallo, non invasive e tali da garantire la visita «in sicurezza» del sito, con la nuova illuminazione del Museo archeologico. Lasciamo – a malincuore – le splendide rovine del grande santuario per dirigerci al centro della cittadina moderna, dove, nella sede storica del Municipio, il serraglio di Baalbek (un edificio costruito agli inizi del Novecento, completamente restaurato e riqualificato anch’esso grazie ai lavori della Cooperazione Italiana), siamo accolti dal sindaco Fouad Ballouk. Dopo i saluti di rito, il sindaco ricorda come i lavori a Baalbek siano stati segnati «da un approccio partecipativo» fatto di condivisioni a tutti i livelli – municipalità,

rappresentanti della società civile e delle comunità locali – dei metodi applicati e dei risultati, aprendo a una vera e propria riflessione pubblica sulle opportunità rappresentate dal patrimonio culturale e sulla necessità «che tutti si rendano partecipi della sua conoscenza, tutela e valorizzazione». a r c h e o 103


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NELLA VALLE SANTA

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l nostro viaggio volge al termine. Ci attende, però, ancora la visita a uno dei luoghi piú significativi della memoria cristiana del Paese dei cedri: il Uadi Qadisha, conosciuta anche come la Valle Santa (Qadisha significa «santo» in aramaico), uno dei paesaggi piú suggestivi di tutto il Libano. Siamo nel nord della catena del Monte Libano. Qui una profonda gola – scavata dall’omonimo fiume che sgorga a oltre 2000 m di altitudine da una grotta nei pressi di un foresta denominata «dei cedri di Dio» – si estende in direzione est ovest per circa 35 km. I fianchi della vallata, altissimi e scoscesi, sono ricoperti da una intensa vegetazione. Nel 1998 il Uadi Qadisha è stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, e non solo per la sua bellezza naturale: la valle, infatti, accoglie una serie di spettacolari insediamenti monastici, tra i piú importanti di tutto il Vicino Oriente e tra i piú antichi del mondo. Il progetto di riqualificazione e valorizzazione di questi straordinari eremi abbarbicati sui fianchi della valle, realizzato dall’AICS in collaborazione con l’UNESCO, è articolato in due distinti ambiti: il primo riguarda il ripristino di due siti monastici rupestri di particolare pregio, Mar

Veduta della Valle Santa (Uadi Qadisha) e, sullo sfondo, le cime innevate del Monte Libano. A sinistra: l’eremo di Mar Assia, ricavato in una grotta nella falesia meridionale del Uadi Qadisha. 104 a r c h e o


Croci affrescate nell’abside di una cappella di Mar Assia, emersi grazie ai recenti lavori di restauro e consolidamento.


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Assia, ricavato all’interno di una cavità naturale sulla falesia sud della valle, e Deir al-Salib, anch’esso costruito sfruttando una grotta a metà altezza della falesia nord, a circa 1400 m di altitudine.

SULLE ORME DEI MONACI Entrambi i siti conservano incisioni e pitture murali di età medievale, talvolta fortemente danneggiati e certo bisognosi di restauri. Il secondo ambito di intervento coinvolge, invece, l’intera area del Uadi Qadisha e riguarda il ripristino dell’antichissima rete di sentieri di collegamento tra i numerosi eremi della valle: si tratta di tre percorsi, lunghi rispettivamente 2250, 1276 e 6600 m. I dislivelli coperti dai sentieri vanno da 267 a 450 m. Utilizzati per secoli, quei percorsi erano in stato di abbando-

A destra, in alto: un «balcone» affacciato sul Uadi Qadisha, parte dei percorsi in allestimento lungo la Valle Santa. Nelle altre immagini: figure di santi, fortemente danneggiate e ancora in restauro, nell’abside della cappella di Deir al-Salib. Fine del XII sec.

no da oltre cinquant’anni. Il loro ripristino – mediante la costruzione di muretti di contenimento, gradini in pietra, ringhiere, ponti e canali per il drenaggio dell’acqua – è stato già in ampia parte completato. Ne abbiamo percorsi due (in circa 5 ore di arrampicate), passando da Mar Assa a Deir al-Salib, attraversando la valle da un lato all’altro, sulle orme dei monaci che, ancor prima dell’anno Mille, in questa valle avevano cercato rifugio dalle persecuzioni.

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LA CULTURA, UN INVESTIMENTO SOSTENIBILE Incontro con Luca Maestripieri, direttore dell’ Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ◆ Direttore Maestripieri, perché l’AICS è impegnata

nel settore cultura e sviluppo? La cultura è una priorità per AICS e per la Cooperazione italiana che la valorizzano anche come strumento di sviluppo socio-economico. Lo sviluppo nel settore culturale si caratterizza per la sua sostenibilità sia economica sia sociale dovuta in primo luogo all’essenza della cultura come risorsa democratica in quanto espressione umana, legata a filo doppio con le persone e le loro competenze. Promuovere la cultura, quindi, vuol dire promuovere lo sviluppo come un processo incentrato sulle persone, in cui si presta attenzione e si dà importanza al loro punto di vista, agli strumenti e agli obiettivi di ciascuno, un processo in cui ogni parte si mette in gioco e fa leva sui propri strumenti per ottenere risultati condivisi. Inoltre, le industrie nel campo della cultura generano occupazione e reddito e contribuiscono a strutturare una sfera pubblica democratica e aperta all’espressione della creatività e delle diversità culturali, tutti elementi fondamentali per uno sviluppo socio-economico sostenibile. Investire nella cultura è fondamentale per realizzare il cambiamento indicato dall’Agenda 2030.

competenze tecniche e professionali e nella costruzione di modelli di gestione inclusivi, ma sosteniamo anche le organizzazioni no-profit e profit, e le piccole e medie imprese. Obiettivi prioritari dei programmi di valorizzazione del patrimonio sono quindi la creazione di nuovi posti di lavoro, il miglioramento delle capacità operative autonome e la creazione di distretti culturali. A partire da questo approccio, le nostre azioni di cooperazione capitalizzano e mettono in rete la professionalità e le competenze delle istituzioni culturali italiane e delle nostre università per supportare i Paesi partner.

◆ Quali sono le principali attività svolte dall’AICS

settore? Sin dall’avvio della propria operatività l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ha investito nel settore cultura arrivando a erogare un totale di 70 milioni di euro nell’arco dei primi 6 anni di attività (2016-2021). Queste risorse sono state distribuite in 4 aree principali di intervento che comprendono la tutela e salvaguardia del patrimonio culturale materiale e immateriale, lo sviluppo delle industrie culturali e creative, lo sviluppo del turismo sostenibile e l’educazione e la sensibilizzazione alla cultura. Nei Paesi in cui operiamo, sosteniamo le istituzioni nazionali e locali nel rafforzamento delle

nel campo della cooperazione allo sviluppo nel settore della cultura, quali i Paesi coinvolti? Il settore della tutela del patrimonio culturale è un valore aggiunto della nostra cooperazione, sia per l’eccellenza del Sistema Italia nel campo della conservazione, restauro e valorizzazione del patrimonio culturale, sia perché è il settore che vanta un’operatività di piú lunga durata. Sono molti i progetti di tutela e sviluppo del patrimonio culturale che ho potuto visitare in questi anni durante le mie missioni nei Paesi oggetto di cooperazione, dall’Africa al Medio Oriente, fino all’Asia. Oltre al Medio Oriente, i Paesi sedi di progetti (conclusi o ancora in corso) di tutela del patrimonio culturale e sviluppo del turismo sostenibile sono, fra gli altri, Egitto, Giordania, Cuba, Albania, Vietnam, Myanmar.

L’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), è nata con la legge di riforma della cooperazione (L. 125/2014) e opera da gennaio 2016. L’AICS ha la sua sede centrale a Roma, una sede a Firenze e 18 sedi all’estero per monitoraggio, implementazione e analisi sul terreno delle esigenze di sviluppo dei Paesi partner; svolge inoltre tutte le attività di carattere tecnico-operativo delle iniziative di cooperazione. I suoi obiettivi sono: sradicare la povertà, ridurre le

disuguaglianze, affermare i diritti umani e la dignità degli individui, compresa l’uguaglianza di genere e le pari opportunità, prevenire i conflitti e sostenere i processi di pacificazione. Si tratta dunque di un’agenda non «economica», ma di promozione umana che risponde ai piú importanti temi del futuro: la distribuzione piú equa della ricchezza, la sostenibilità ambientale e la garanzia dell’accesso al diritto alla salute e all’istruzione per tutti.

◆ Come si concretizza l’azione dell’AICS in questo

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SPECIALE • LIBANO

BEIRUT, COME LA FENICE

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i ritorno a Beirut, ci accoglie nel suo ufficio adiacente al Museo Nazionale il Direttore Generale alle Antichità del Libano, Sarkis el-Khoury. Al mio resoconto dei chilometri macinati nei giorni scorsi sorride e chiede perché non fossimo stati anche a Tripoli (Tarabulus, la seconda città del Libano, sulla costa nord del Paese): «Una città di straordinaria importanza – spiega – e dal tessuto sociale tradizionale ancora intatto, con un grande suq, magnifici caravanserragli, bagni turchi, bellissime architetture

storiche». La prossima volta, prometto. Il nostro discorso verte, inevitabilmente, su Beirut e sui danni provocati dalla devastante esplosione del 4 agosto 2020. «Dirigo la DGA da nove anni, di cui quelli dopo l’estate del 2020, sono stati lunghi e pesantissimi. L’onda d’urto ha raggiunto lo stesso Museo, distante un chilometro e mezzo dal luogo della deflagrazione. I vetri delle finestre erano infranti, le porte scardinate… Sono arrivato subito al Museo per aiutare a portare via l’acqua che stava inondando il pianterreno e da lí sarebbe potuta arrivare al seminterrato. La mia formazione originaria – sono architetto oltre ad avere una laurea in archeologia – mi ha con108 a r c h e o

sentito di individuare un vecchio sistema fognario grazie al quale siamo riusciti a far defluire l’acqua e cosí scongiurare il peggio». Camminando per il centro di Beirut ho potuto verificare come i lavori di ricostruzione si stiano svolgendo a pieno ritmo, numerose le facciate di edifici storici rimesse a nuovo, con un tempismo e un’energia sorprendenti: «Sí – sorride ancora el-Khoury –, un fatto che, in verità, sorprende anche me». Ma aggiunge: «L’esplosione, però, ha scoperchiato un vaso di Pandora: per alcuni la devastazione

Sarkis el-Khoury, Direttore Generale delle Antichità del Libano, nel Museo Nazionale di Beirut, davanti alla teca contenente una piccola Venere in bronzo da Baalbek (I-II sec. d.C.). La posizione inclinata è l’effetto della forte esplosione verificatasi, il 4 agosto del 2020, nel porto di Beirut, a 1,5 km di distanza dal Museo. Nella pagina accanto: Sarkis el-Khoury davanti a un grande sarcofago di età romana, al piano terra del Museo Nazionale. Il piano seminterrato del Museo è stato riallestito dall’architetto Antonio Giammarusti, grazie a un investimento della cooperazione italiana (la copertina della nuova guida del Museo – foto qui accanto – mostra l’allestimento dei sarcofagi antropomorfi di Sidone).


è stata colta come un’opportunità per abbattere gli edifici storici di Beirut, lesionati dall’onda d’urto ma protetti dalla legge, per sostituirli con dei grattacieli. È una nuova sfida che la stessa DGA deve affrontare». Prima di partire, il Direttore mi accompagna a rivedere il Museo: «Sono molto fiero – dichiara – della nostra collaborazione con i colleghi italiani. Abbiamo tanti progetti da svolgere insieme. Vorrei esprimere la mia estrema gratitudine al governo italiano per aver contribuito con 1,2 milioni di euro alla realizzazione dell’area del seminterrato del nostro Museo e per l’impegno, non solo in termini finanziari, ma anche di mobilitazione

delle risorse tecniche e professionali di altissima qualità, che rendono possibili gli interventi che ha potuto documentare in questi giorni». Con in mano la nuova guida al Museo (pubblicata con il contributo dell’AICS in arabo, inglese, francese e italiano), attraversiamo le magnifiche sale, dal primo piano – con le vetrine dedicate, tra l’altro, agli straordinari ritrovamenti di Biblo – al pianterreno, dominato dal grande sarcofago di Ahiram, al seminterrato con la tomba di Tiro e la sequenza dei sarcofagi di Sidone. Tutto è in perfetto ordine, nessuna traccia della distruzione. Ancora una volta questo straordinario, unico e irripetibile luogo di civiltà è rinato. a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

DALLE FOLLE ALLA FOGNA TRA I RIFIUTI FINITI IN UNA CLOACA DEL COLOSSEO C’ERA ANCHE UN SESTERZIO DI MARCO AURELIO, EMESSO PER CELEBRARE I DIECI ANNI DI REGNO

I

recenti scavi condotti nella cloaca meridionale dell’Anfiteatro Flavio (vedi «Archeo» n. 454, dicembre 2022; on line su issuu.com) hanno restituito materiali eterogenei e di notevole importanza, che gettano nuova luce sulla lunga vita del Colosseo. Tra quanto emerso dal collettore non potevano mancare alcune decine di monete, di piccolo taglio e databili a partire dalla fine del II secolo ma per lo piú di età tardo-antica. Esse provengono da depositi formatisi a partire dal VI secolo d.C., corrispondenti alla fase di abbandono e riempimento della cloaca. Tra i pezzi si distingue un

sesterzio di Marco Aurelio emesso nel 170-171 d.C. per commemorare i suoi dieci anni di regno. La moneta, mal conservata, è stata resa leggibile dall’intervento eseguito dall’Istituto centrale per il Restauro e analisi relative alla sua composizione hanno accertato che per la sua coniazione fu utilizzato l’oricalco, una lega composta da rame e zinco.

BELLO E LUCENTE Il sesterzio era stato introdotto con la riforma monetaria di Augusto e a esso fu collegato l’impiego di In alto e a destra: il sesterzio in oricalco di Marco Aurelio rinvenuto nella cloaca meridionale del Colosseo. 170-171 d.C. A sinistra: disegno della moneta con Marco Aurelio che sacrifica, dall’opera Veterum Romanorum Religio… di Guglielmo du Choul. Amsterdam, 1685.

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un metallo diverso dal solito bronzo, l’oricalco, appunto, scelto per dare maggior risalto a questo multiplo, poiché, brillando come l’oro, permetteva di realizzare pezzi di forte impatto ed era bello a vedersi. Tale scelta potrebbe essere stata dettata dalla volontà di dare una soddisfazione «estetica» al Senato: Augusto, infatti, attribuí all’imperatore il diritto esclusivo di


coniare oro e argento, mentre la produzione in metallo non prezioso divenne di competenza del Senato. Per i sesterzi fu dunque adottata la lega di rame e zinco, che, grazie a quest’ultimo – soprattutto se in proporzione abbondante (in alcuni casi raggiungeva il 20%) – rendeva le monete luminose e accattivanti, conferendo particolare risalto anche alle immagini apposte. La produzione dell’oricalco, piú costoso rispetto al bronzo, poteva quindi dipendere anche dal gradimento dei pezzi, dato che, come detto, il suo giallo lucente lo rende simile all’oro: un sesterzio appena coniato, con il suo largo modulo e pesante quasi 30 gr, doveva senza dubbio avere un aspetto assai gradevole.

LA BELLEZZA ISPIRA FIDUCIA Se fosse valido questo ragionamento, il gradimento del fruitore, appagato anche dalla qualità complessiva della moneta faceva la differenza, in una sorta di kalokagathia (il concetto della bellezza associata alla bontà, dal greco kalos, bello, e agathos, buono, n.d.r.) applicata alla monetazione: in altre parole, una moneta bella e pesante ispirava fiducia nel suo potere liberatorio, e non a caso, quando l’emissione del sesterzio cessò, esso venne tesaurizzato. Durante la crisi del III secolo il sesterzio, a fronte dell’antoniniano, svilito e inflazionato, rappresentava una certezza per chi ancora ne aveva. Il sesterzio rinvenuto nella fogna del Colosseo fu emesso tra il dicembre del 170 e il dicembre del 171 d.C. quando Marco Aurelio celebrò, con pubbliche cerimonie di ringraziamento, il decennale di

regno concluso. Sul dritto compare il profilo di Marco con legenda IMP M ANTONINVS AVG TR P XXV (Imperator Marcus Antoninus Augustus, Tribunicia Potestate Quinta Vicesima) e, al rovescio, l’imperatore, in toga e capite velato, mentre sacrifica, versando Aureo di Marco Aurelio con ritratto imperiale e scena di sacrificio di Marco Aurelio su un’ara.

qualcosa da una patera su un tripode e tenendo un rotolo nella mano sinistra. La legenda riporta VOTA SVSCEP DECENN II COS III S C (Vota Suscepta Decennalia Secunda, Consul Tertium Senatus Consultum), formulando l’augurio di poter felicemente raggiungere i prossimi dieci anni di regno (i Decennalia Secunda).

AL POPOLO ACCLAMANTE Trovare questo sesterzio in una fogna del Colosseo è estremamente indicativo: i festeggiamenti per i Decennalia e i Vicennalia ovviamente si traducevano anche in giochi offerti dall’imperatore nei luoghi deputati a tali attività. A questo si poteva aggiungeva anche l’elargire denaro e oggetti di valore simbolico non solo ai propri funzionari, ma anche alla popolazione accorsa agli spettacoli nell’anfiteatro. Ma come può essere arrivato il sesterzio di Marco Aurelio nelle fogne del Colosseo? Ben sappiamo che tra i sistemi per ingraziarsi la popolazione o celebrare festività pubbliche vi era la distribuzione di donativi di vario genere durante le stesse e, in particolare, nel corso dei ludi nel circo e nell’anfiteatro (Cassio Dione, Storia Romana, libro LXVI, 25,4-5). Possiamo immaginare le luccicanti monete in oricalco con il decennale lanciate sulla folla, e una di queste, la nostra, caduta nella sabbia dell’arena e poi trascinata, insieme al sangue di uomini e animali trucidati per il divertimento del popolo romano, nei condotti fognari. Dove è rimasta per secoli, fino a quando gli archeologi non l’hanno recuperata. (si ringrazia Giuseppe Carzedda)

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Giuseppe Nocca

FALERNO Il vino dei Cesari Arbor Sapientiae, Roma, 200 pp., ill. b/n 65,00 euro ISBN 978-88-31341-95-0 www.arborsapientiae.com

Prodotto nel Casertano, nella zona del Monte Massico, il Falerno ebbe fin da subito un successo straordinario, tanto da divenire il piú celebre tra i vini romani. Eppure, a fronte di una popolarità testimoniata, in particolare, da un ricco repertorio di citazioni, la sua storia è meno nota di quanto sarebbe logico immaginare. A questa sorprendente lacuna ha cercato di rimediare Giuseppe Nocca, aggiungendo un nuovo capitolo alle ricerche che da tempo conduce sull’alimentazione antica. La sua trattazione si apre proprio con una rassegna delle fonti, che, oltre a trasmetterci i commenti entusiastici di bevitori illustri e non, offrono indicazioni preziose anche 112 a r c h e o

per un altro degli obiettivi che il volume persegue, vale a dire la definizione del territorio nel quale venivano effettivamente coltivati i vitigni da cui si ricavava l’amata bevanda. Seguono quindi le sezioni dedicate alla commercializzazione del Falerno, alle indagini genetiche, fino ad arrivare alla produzione dell’erede moderno di un vino al quale furono perfino riconosciute proprietà terapeutiche. Un viaggio completo ed esauriente, insomma, che mette a disposizione del lettore una mole di dati davvero considerevole e potrà senz’altro contribuire a bere... «con cognizione di causa». Mariarosaria Barbera

DONNE AL POTERE In Oriente e Occidente tra Tardoantico e Medioevo Officina Libraria, Roma, 144 pp., ill. b/n 16,90 euro ISBN 978-88-3367-197-0 www.officinalibraria.net

Come spiega l’autrice nella Premessa, le donne,

in un mondo segnato da un’impronta fortemente maschilista, furono sempre tenute ai margini del potere. Tuttavia, alcune figure, particolarmente volitive, riuscirono a far sentire la propria voce, influenzando scelte e decisioni e, secondo uno schema piú volte attestato, manovrando al fine di favorire personaggi a loro cari (generalmente i figli) o fedeli. Il fenomeno si fece piú accentuato all’indomani della divisione dell’impero romano e, soprattutto nella pars Orientis, in piú di un’occasione le leve del comando furono manovrate da mani femminili. E sono loro le protagoniste del volume, che propone una galleria di ritratti vivace e assai ben documentata, nella quale sfilano, tra le altre, Galla Placidia, Amalasunta e Teodolinda, solo per citare alcuni dei nomi piú noti.

DALL’ESTERO Elisabetta Bianchi e Roberto Meneghini

IL FORO DI TRAIANO NELL’ANTICHITÀ I risultati degli scavi 1991-2007 BAR International Series 3097, BAR Publishing, Oxford, 338 pp., ill col. e b/n 88,00 GBP ISBN 978-1-4073-6003-4 www.barpublishing.com

Opera di taglio specialistico, il volume dà conto di oltre un quindicennio di scavi

condotti nel Foro di Traiano, grazie ai quali molte importanti acquisizioni hanno arricchito la ricostruzione della storia di questo grandioso complesso. Le ricerche si inseriscono nel solco di una lunga tradizione ed emblematica, al riguardo, è la prima tavola del libro, nella quale sono riuniti i ritratti dei numerosi studiosi che, dall’architetto francese Jean-Baptiste Cicéron Lesueur – nell’Ottocento – in poi, si sono occupati del monumento. Al resoconto delle esplorazioni si affianca una ricca documentazione grafica e fotografica e l’insieme di tutti gli elementi è la base sulla quale poggiano le ipotesi interpretative degli autori. Tra gli elementi di maggior interesse, spiccano l’analisi del sistema fognario realizzato a beneficio del Foro e la proposta di identificazione dell’Atrium Libertatis. (a cura di Stefano Mammini)






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