Archeo n. 458, Aprile 2023

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NELLA CITTÀ DI MARIA MADDALENA

PRINCIPESSA ITTITA

ROBERT GRAVES

CERAMICA

SPECIALE LE VIE DELL’ACQUA

LETTERATURA

NELLA CITTÀ DI MARIA MADDALENA

DONNE E POTERE

UNA PRINCIPESSA ITTITA

L’IMPERATORE CHE AMAVA LA STORIA

SPECIALE LE VIE DELL’ACQUA

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IN EDICOLA L’ 8 APRILE 2023

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Mens. Anno XXXIX n. 458 aprile 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 458 APRILE

SCOPERTE IN GALILEA € 6,50



EDITORIALE

LA BURLA DI ANTAS Ha destato un certo divertimento la notizia, diffusa il 1° marzo scorso, di una scoperta sensazionale avvenuta a Tel Lachish, in Israele, uno dei piú estesi e importanti siti archeologici del Levante, identificata nel 1929 come quello dell’omonima città biblica e, da quella data, oggetto di scavi continui che vedono la partecipazione di missioni archeologiche internazionali. La notizia riguarda il rinvenimento di un frammento di ceramica che riporta il nome nientemeno che di Dario il Grande, re persiano che regnò dal 522 al 486 a.C.: la scritta incisa sul coccio recita «l’anno 24 di Dario», facendo riferimento al 498. Un documento incompleto, nondimeno importante, forse parte di un documento, un’annotazione amministrativa. Peccato che due giorni dopo l’annuncio della scoperta un comunicato diffuso dalla Soprintendenza alle Antichità d’Israele afferma che l’iscrizione è... falsa. La storia, infatti, sembra sia andata cosí: una studiosa facente parte di una delle missioni straniere operanti a Tel Lachish la scorsa estate aveva tenuto una lezione sul campo ai suoi studenti e, a scopo didattico «per mostrare come si scrive in aramaico», aveva vergato su un coccio qualsiasi la fatidica frase. Poi, a fine lezione, ha buttato il frammento che, qualche settimana dopo, è stato casualmente «ritrovato». Non sembra esserci stato del dolo, ma possiamo immaginare l’imbarazzo degli epigrafisti che avevano studiato il reperto, considerandolo autentico… L’episodio ricorda un’altra vicenda, altrettanto divertente se non di piú, nota tra gli addetti ai lavori come la «Burla di Antas». Mi è stata raccontata dal suo protagonista Piero Bartoloni, studioso di chiara fama, già ordinario di archeologia fenicio-punica all’Università di Sassari e direttore dell’Istituto per la Civiltà fenicia e punica del Consiglio Nazionale delle Ricerche: nell’ormai lontano 1967, durante uno scavo nell’area del tempio di Antas (Sardegna sud-occidentale), l’allora studente dell’Università di Roma Piero Bartoloni scelse una lastrina di calcare e vi tracciò, con uno strumento a punta, un’iscrizione a caratteri punici che suonava cosí: Le Baal Lay Ish

Il frammento di ceramica sul quale compare il nome di Dario il Grande, rivelatosi un falso.

b’Am Antas Shlm, da tradurre come segue: «Al Signor Lai, che è del popolo di Antas, Pace». Il signor Lai, noto come Peppino, era il capocantiere della Soprintendenza Archeologica, «un personaggio tanto burbero quanto buono e generoso». Dopo qualche difficoltà, anche da parte di alcuni professori presenti allo scavo, il testo venne decifrato e «l’inganno» scoperto. Tra i presenti risuonò – ricorda Bartoloni – una grande risata e l’episodio venne archiviato: «Io stesso gettai la lastrina calcarea con la mia iscrizione nella discarica del cantiere e nessuno di noi pensò piú alla vicenda. Trent’anni dopo – ero già direttore dell’Istituto per la Civiltà fenicia e punica del CNR – fu richiesta la mia visita presso un collezionista privato di Cagliari al fine di esaminare la sua raccolta e, con mia grande sorpresa, ebbi modo di riconoscere tra gli oggetti la famosa iscrizione di “Peppino, Signore di Antas”. Ovviamente ben mi guardai dal manifestare la mia paternità dell’oggetto, raccolto a suo tempo da qualcuno che razzolava per il cantiere e forse donato (o venduto?) all’incauto collezionista poco meno di sessant’anni fa». È fuori discussione, come appena dimostrato, che quei frammenti rinvenuti sugli scavi siano in grado di raccontare storie straordinarie: vere, inventate, piccole o grandi. E affinché i nostri lettori incomincino a saperne di piú, abbiamo deciso di dedicare ai «cocci» una nuova rubrica, affidata all’archeologo Luciano Frazzoni. Inizia in questo numero, a pagina 104. Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE La burla di Antas

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCAVI Cenere e vetro

ARCHEOFILATELIA Quel tesoro... liquido

24

di Luciano Calenda

SCOPERTE

ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/7

L’imperatore che amava la storia

62

di Giuseppe M. Della Fina

6

Nella città della Maddalena

6

incontro con Dina Avshalom Gorni, a cura di Victoria Mesistrano

32

di Giampiero Galasso

ALL’OMBRA DEL VULCANO Una casa da museo

8

di Alessandra Randazzo

FRONTE DEL PORTO Melting pot di ieri e di oggi

10

DONNE DI POTERE/2

12

di Stefano de Martino

di Marina Lo Blundo

MUSEI Una storia scritta sul mare

32 Quel matrimonio di una principessa ittita 48

di Giampiero Galasso

16

di Mara Sternini

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62 IN EDICOLA L’ 8 APRILE 2023

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2023

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ARCHEO 458 APRILE

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INCONTRI Chiusura in bellezza

€ 6,50

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A TUTTO CAMPO Il Galata nero

In copertina la cosiddetta «Pietra di Magdala», un blocco di arenaria decorata a bassorilievo con i simboli ispirati al tempio di Gerusalemme, rinvenuto nella città omonima.

Presidente

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

SCOPERTE IN GALILEA

Mens. Anno XXXIX n. 458 aprile 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE LE VIE DELL’ACQUA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

CERAMICA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

ROBERT GRAVES

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

PRINCIPESSA ITTITA

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Federico Curti

NELLA CITTÀ DI MARIA MADDALENA

Anno XXXIX, n. 458 - aprile 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

NELLA CITTÀ DI MARIA MADDALENA DONNE E POTERE

UNA PRINCIPESSA ITTITA LETTERATURA

L’IMPERATORE CHE AMAVA LA STORIA

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SPECIALE LE VIE DELL’ACQUA

29/03/23 17:23

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Stefano de Martino è professore ordinario presso l’Università di Torino, Dipartimento di Studi Storici. Giampiero Galasso è giornalista. Marina Lo Blundo è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Victoria Mesistrano è archeologa. Massimo Nafissi è professore ordinario di storia greca e romana presso l’Università degli Studi di Perugia. Alessandra Randazzo è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.


Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Il racconto dei «cocci»

104

di Luciano Frazzoni

104 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

La «conversione» del Colosseo

74 110

di Francesca Ceci

LIBRI

112

SPECIALE

Per il piú prezioso dei beni

74

di Flavio Russo

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 34/35, 36/37, 38-39, 45 (basso), 54, 60/61, 83, 84/85, 88-89, 92, 96, 98/99, 100, 104-107 – Israel Antiquities Authority: Shai Halevi: p. 3 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso: pp. 6-7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Venezia e le province di Salerno e Avellino: pp. 12-14 – Cortesia Galerie Templon, Parigi: Ugo Carmeni: p. 16 – Doc. red.: pp. 17, 18, 19 (alto), 20-21, 22, 35, 40, 44, 48, 50/51, 52-53, 55, 57, 61, 63, 69, 70, 72-73, 81, 91, 100/101, 108-109 – Duby Tal/Albatross: pp. 32/33 – Cortesia Hugo Acosta: pp. 37, 41, 42 (alto e centro), 42/43, 43 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 45 (alto) 66/67, 74/75, 76 (basso), 78/79, 102/103; Erich Lessing/K&K Archive: pp. 49, 68; Album/Prisma: p. 56; Album: pp. 58/59, 110 (basso); CSU Archives/Everett Collection: p. 62; Cortesia Everett Collection: p. 64; CM Dixon/Heritage Images: p. 103 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 58, 70/71 – Cortesia degli autori: pp. 76/77, 79, 86-87, 94, 95 (alto), 110 (alto), 111 – Flavio Russo: ricostruzioni grafiche alle pp. 80, 82, 90, 95, 97 – Cippigraphix: cartine alle pp. 19, 34, 51. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Padova

CENERE E VETRO

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ndagini archeologiche preventive condotte a Padova, in via Campagnola, per la realizzazione di un campus universitario polifunzionale hanno portato alla scoperta di una delle piú grandi necropoli di età romana della città. Gli scavi si sono concentrati in un’area di circa 1300 mq, al confine con il cimitero ebraico di via Canal, chiuso dal 1862 e hanno interessato un settore urbano all’interno del quale già nel 1999 e nel 2011 indagini preliminari avevano portato alla luce alcune sepolture, lastre di calcare euganeo solitamente utilizzate per le cassette litiche di tipo funerario, oltre a frammenti ceramici databili preliminarmente al V-IV secolo a.C. «Le nuove indagini archeologiche – spiega Cinzia Rossignoli, funzionario archeologo della Soprintendenza per la città di Padova e direttore scientifico dello scavo – hanno portato alla scoperta di una necropoli organizzata su piccoli dossi di origine naturale e di

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cui sono stati individuati anche due dei limiti perimetrali originari: quello occidentale e quello settentrionale, quest’ultimo limitato da un fossato su cui viene in seguito realizzato un recinto murario di confine. Le oltre 200 sepolture identificate si pongono in un arco cronologico compreso tra l’età augusteotiberiana e l’età adrianea (inizi del I secolo d.C.-inizi del II secolo d.C.). All’interno dell’area sepolcrale – dalla quale provengono anche una dracma venetica del II-I secolo a.C. e un frammento di stele triangolare con iscrizione venetica di un monumento funerario, forse dello stesso periodo – è stata messa in luce anche un’opera di bonifica e drenaggio realizzata attraverso l’uso di anfore infisse verticalmente. Non sono stati invece riconosciuti percorsi interni o vie d’accesso alla necropoli, mentre sono state identificate una struttura quadrangolare, aperta sul lato ovest, caratterizzata da un

In alto: Padova, via Campagnola. Documentazione di una stele iscritta restituita dagli scavi. In basso: una veduta dall’alto di uno dei settori del cantiere di scavo. complesso di depositi con funzione probabilmente legata al culto funerario, e una struttura preposta alle cremazioni (ustrinum) circondata da un’abbondante quantità di carbone. Delle numerosissime tombe recuperate, su un complesso di oltre 1000 unità stratigrafiche rilevate, prevale largamente il rituale dell’incinerazione indiretta, mentre le inumazioni erano solo tre, pertinenti a giovani adulti deposti in casse lignee, di cui restano i chiodi di ferro, prive di corredo tranne una, accompagnata da un vago di pasta vitrea biconico blu. Le sepolture a incinerazione sono connotate dall’uso di ossuari (in anfore, in grandi contenitori fittili, in cassette lignee o in urne litiche), ma non mancano esempi di incinerazione diretta in fosse terragne (bustum) entro le quali erano deposti i resti combusti dei defunti e corredi caratterizzati da


un’alta percentuale di reperti in vetro. Non mancano forme vascolari d’uso comune, oggetti di abbigliamento od ornamento personale, talora indossati durante la cremazione, mentre piú rare sembrano essere le lucerne. Tra le sepolture di spicco si segnala la tomba 21, con ossuario di vetro deposto in una rara cista litica, il cui corredo è risultato composto da balsamari di vetro, vaghi di collana in pasta vitrea e in cristallo di rocca, monete, un elemento in foglia d’oro e un elemento in osso lavorato. Rilevante è anche la tomba 14, con corredo composto da diverse stoviglie in vetro, tra cui ben 14 piattini disposti a coppie, distribuiti

Padova, via Campagnola. Resti di un intervento di bonifica e drenaggio realizzato infiggendo verticalmente nel terreno numerose anfore. In basso: un vaso in vetro utilizzato come ossuario con i resti cremati del defunto e il corredo ancora al suo interno. lungo la parete nord insieme al resto del corredo (elementi fittili, balsamari, elementi metallici e una lucerna). Dalle tombe sono stati anche recuperati alcuni castoni, privi dei rispettivi anelli, uno dei quali in corniola con la raffigurazione di una divinità, uno in giaietto privo del rivestimento in pasta vitrea che raffigura Aiace che gioca ai dadi con Achille e un sigillo con l’iscrizione Famuli». Le indagini, svolte con la Direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso e finanziate dall’Università di Padova-Ufficio Sviluppo Edilizio, sono state condotte sul campo dalla società archeologica SAP di Quingentole (MN) con la direzione operativa di Michele De Michelis, archeologo professionista. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandra Randazzo

UNA CASA DA MUSEO TORNANO NEGLI AMBIENTI DELLA VILLA A DI OPLONTIS I MAGNIFICI ARREDI DELLA LUSSUOSA RESIDENZA FORSE APPARTENUTA A POPPEA

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mmersa nel tessuto urbano di Torre Annunziata e compresa nel territorio del Parco Archeologico di Pompei, la Villa A di Oplontis era una delle piú estese e importanti ville d’ozio affacciate sul Golfo di Napoli. La ricchezza e la raffinatezza dei suoi apparati decorativi, accompagnate alla vastità e all’imponenza dell’impianto architettonico, oltre al ritrovamento del nome di Secundus, un servo di Poppea Sabina, inciso su un’anfora vinaria e sul fondo di un piatto di ceramica, suggerirebbero che proprietaria della magione fosse la bellissima seconda moglie di Nerone. A sostenere l’identificazione con Poppea è anche un graffito che riporta il nome di Beryllos, un personaggio della corte neroniana. Non mancano, tuttavia, ipotesi alternative che identificherebbero il proprietario con colui che avrebbe acquisito il patrimonio immobiliare della consorte di Nerone dopo la damnatio memoriae seguita alla sua morte nel 68 d.C. o, ancora, con un importante uomo politico di Roma, attivo in campagne militari, visti i numerosi richiami all’idea

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A destra: un particolare dell’allestimento delle sculture nella Villa A di Oplontis. In basso: il grande cratere neoattico in marmo pentelico decorato da figure di danzatori in nudità eroica. della vittoria nelle decorazioni della villa. Di certo, il complesso residenziale è specchio della magnificenza della famiglia proprietaria, del suo alto rango, dell’agiatezza e della raffinatezza del vivere quotidiano.

LAVORI IN CORSO Con ogni probabilità, la maestosa villa d’otium doveva essere però in ristrutturazione al momento dell’eruzione del 79 d.C., perché non solo non vi sono state trovate tracce di abitanti, ma nemmeno dell’arredo quotidiano e molto del materiale ornamentale e costruttivo fu rinvenuto ammassato e protetto


sotto i porticati o nei saloni. Proprio per questo motivo si è scelto di riportare tra gli ambienti della villa le statue e i reperti originari – già esposti nei locali di Palazzo Criscuolo a Torre Annunziata – senza volerne richiamare la collocazione originaria, ormai perduta, ma sfruttando piuttosto la posizione scenograficamente piú adatta ed evocativa. Si è dunque giocato con i richiami continui tra la decorazione scultorea e quella pittorica delle sale, tra la luce riflessa dai marmi o dalle pieghe dei panneggi e i raggi del sole che penetrano negli ambienti, esaltando le cromie dei diversi stili pittorici, che, dal II al IV, raccontano le fasi di sviluppo della costruzione.

AL PASSO COI TEMPI Piú che di «museo diffuso», come quello che mostra i reperti nella loro posizione d’origine, si può allora parlare di un museo vero e proprio, che, nella sua accezione piú attuale, come è stata definita dall’ICOM (International Council of Museums), offre «esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze». Rinvenuto negli scavi del 1977 e

originariamente posto al centro di una bassa vasca di marmo a sud della grande piscina, fulcro dell’ampliamento di età claudioneroniana, il grande cratere neoattico in marmo pentelico è oggi collocato al centro del grande salone che si apre sul giardino settentrionale, attraverso due imponenti colonne rudentate, cioè con scanalature riempite nella parte bassa del fusto. Il vaso monumentale è ornato da danzatori in nudità eroica con tipici attributi guerreschi, quali la spada corta, l’elmo e lo scudo, secondo modelli che richiamerebbero legami con i culti di Samotracia o, piuttosto, con la danza pyrrhike, una delle piú famose danze delle armi della Grecia antica, celebrata anche nei Giochi Panatenaici. Negli scavi del 1983 una splendida Nike acefala era affiorata tra i lapilli che coprirono il lato meridionale della piscina, tra i calchi delle radici degli alberi – forse platani – che ne ornavano le sponde e poco distante da una seconda Nike gemella, forse Artemide o Atalanta. Molte sculture sono tratte da modelli greci e tra queste il bambino che strozza un’oca richiamerebbe l’archetipo dello scultore Boeto di Calcedonia (attivo nel II secolo a.C.), ricordato Gruppo scultoreo raffigurante un bambino che strozza un’oca. L’opera deriverebbe dall’originale greco realizzato da Boeto di Calcedonia, scultore attivo in epoca ellenistica.

addirittura da Plinio il Vecchio, in una rivisitazione qui piú giocosa di un bambino che quasi gioca con l’oca e che si può avvicinare all’Horus-Arpocrate con anatra della Galleria Borghese di Roma.

INTRECCIO DI CORPI Di prossima collocazione nelle sale della villa di Oplontis, al termine della mostra in corso nella Palestra Grande di Pompei, «Arte e sensualità nelle case di Pompei», è poi il gruppo scultoreo con satiro ed ermafrodito, anch’esso originariamente collocato al bordo della grande piscina, un sensuale intreccio di corpi che richiama la lotta e l’amplesso erotico, la violenza del satiro sull’ermafrodito. In queste scene la meraviglia sta nello scoprire la duplice natura sessuale del giovane, uomo/donna. L’ambiguità del corpo viene sapientemente celata agli occhi di chi guarda dalla maestria dell’artista e lo spettatore deve girare intorno all’opera per scoprirla. Il tipo adottato a Oplontis è derivato, una volta ancora, dalla tradizione ellenistica; l’ermafrodito veste i panni di ninfa, con corpo seducente e profilo femmineo. L’allestimento delle sculture di Oplontis costituisce un’ulteriore occasione per visitare il complesso monumentale di via Sepolcri a Torre Annunziata, all’interno delle azioni di miglioramento dei livelli di accessibilità che hanno compreso l’inserimento di un nuovo percorso in LIS e la messa in sicurezza e sistemazione della rampa di ingresso che consentirà anche alle persone con disabilità di accedere alla villa dal lato piscina e riconnettersi al percorso fruito da tutti i visitatori. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

MELTING POT DI IERI E DI OGGI CONTINUA CON SUCCESSO IL PROGETTO «ARCHEOLOGIA PUBBLICA A OSTIA ANTICA», MIRANTE A FAR PERCEPIRE L’AREA ARCHEOLOGICA COME UN PATRIMONIO CULTURALE E IDENTITARIO COMUNE PER I SUOI FRUITORI

N

el 2020 l’Area archeologica di Ostia antica è stata insignita del Marchio del Patrimonio Europeo (vedi «Archeo» n. 434, aprile 2021; on line su issuu. com), riconoscimento che mira a creare un network di luoghi della cultura che, secondo le diverse specificità, sono portatori dei valori fondanti dell’Unione Europea o che rivestono un ruolo importante nella storia e nella cultura del continente. Il tutto nell’ottica di valorizzare la ricchezza e la diversità del patrimonio culturale comune. Il Marchio del Patrimonio Europeo non è un riconoscimento fine a se stesso, ma un progetto a

lungo termine, attraverso il quale il luogo della cultura insignito si impegna ad avviare iniziative volte a trasmettere i valori e la rilevanza storica che gli sono stati riconosciuti. In questo quadro, Ostia antica ha presentato un progetto di archeologia pubblica in cui sono state convogliate le azioni di didattica, comunicazione e valorizzazione rivolte sia al pubblico internazionale, sia a quello di prossimità, ovvero alla cittadinanza, formata dagli stakeholders del territorio, dalle famiglie, dalle scuole, dai giovani, dai pensionati e dai nuovi residenti.

«Ostia antica porta di Roma» è stato il claim del progetto di lungo periodo che ha valso all’Area archeologica di Ostia antica il riconoscimento del Marchio del Patrimonio Europeo, puntando sulla valorizzazione delle caratteristiche di multiculturalità, convivenza civile, circolazione internazionale e dialogo interculturale che il Parco cerca di trasmettere attraverso le proprie attività istituzionali, con l’obiettivo di gettare un ponte tra il passato piú antico del territorio e l’età contemporanea.

SCELTE EMBLEMATICHE Partendo da questi presupposti il Parco ha avviato un progetto di formazione e didattica, finanziato dall’Unione Europea e destinato a due target emblematici del carattere diversificato del proprio «pubblico di prossimità», ovvero le comunità di minoranza etnolinguistica e i gruppi scout. L’iniziativa, dal titolo «Archeologia pubblica a Ostia antica», avviata nel 2022 come progetto pilota in collaborazione con ScuolemigrantiRete per l’integrazione linguistica e sociale di Roma e con il Gruppo Scout Roma 59 di Casal Palocco e destinata a proseguire nel corso del 2023, si inserisce nel solco di esperienze già avviate in ambito

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Sulle due pagine: alcuni momenti delle attività condotte nell’ambito del progetto pilota «Archeologia Pubblica a Ostia antica».

museale a livello nazionale (a partire dal Museo Egizio di Torino) e ha l’obiettivo di far sí che Ostia antica venga da tutti percepita non solo come un luogo familiare, ma soprattutto come un patrimonio culturale e identitario comune. Ostia era infatti nell’antichità una città cosmopolita, in cui convergevano persone provenienti da ogni parte del Mediterraneo: un vivace melting pot di individui e gruppi etnici aperti all’intesa, agli scambi e al dialogo. In virtú di questa vocazione, il Parco ha voluto coinvolgere le comunità di minoranza etnica e linguistica rendendole attivamente partecipi

della storia del territorio, sia sul piano della conoscenza sia su quello della divulgazione, nel quadro di un’azione pubblica di tutela, valorizzazione e trasmissione alle generazioni future dell’eredità culturale, in sintonia con i principi fondanti della Convenzione di Faro.

CINQUE MODULI In questo senso si è rivolto a chi piú difficilmente si avvicina di propria iniziativa ai luoghi della cultura, per motivazioni varie che possono essere linguistiche, culturali, di integrazione. Il tema del dialogo interculturale è stato declinato in

cinque moduli nel corso dei quali i partecipanti non solo hanno acquisito strumenti per conoscere il passato e la vita che si svolgeva nella città antica, ma hanno potuto anche raffrontarli con la propria attuale quotidianità in uno scambio che si è rivelato davvero un dialogo estremamente proficuo. «Archeologia pubblica a Ostia antica» da progetto pilota vuole diventare un format che il Parco intende replicare negli anni a venire, consapevole dell’importanza del ruolo sociale dei musei, ulteriormente rafforzato dalla nuova definizione approvata dall’International Council of Museums (ICOM): «Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze». Marina Lo Blundo

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n otiz iario

MUSEI Campania

UNA STORIA SCRITTA SUL MARE

È

stata aperta al pubblico, nell’ala destra dell’antico Arsenale di Amalfi, la sezione archeologica del Museo della Bussola e del Ducato di Amalfi: la soluzione espositiva adottata, minimale e rispettosa dell’edificio medievale, ha previsto la disposizione nella corsia di teche caratterizzate da una forma irregolare, una scelta con la quale si è voluto alludere sia al carattere frammentario dei reperti esposti, sia a imbarcazioni che trasportano il proprio carico di merci. I reperti archeologici entrati a far parte del patrimonio museale e

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provenienti da recuperi sottomarini avvenuti fra Amalfi e Conca dei Marini, testimoniano l’intensa frequentazione da parte di imbarcazioni, per lo piú da trasporto, dello spazio controllato dalle città costiere poste tra Salerno e Sorrento, a conferma del ruolo rivestito in passato da questo litorale come punto obbligato di passaggio per le rotte di navigazione. Recuperati da sub creativi e donati alla comunità, i materiali esposti si presentano alquanto disomogenei tra loro e provengono da relitti non ancora identificati, né sono

riconducibili a un’unica dimensione cronologica: coesistono materiali di diverse epoche, sebbene vi sia una prevalenza di forme vascolari di epoca medievale. La presenza di una tradizione archeologica di età romana è già attestata in ambito comunale dalla scoperta, in via Lorenzo d’Amalfi, del triclinio-ninfeo di una villa marittima di età tardorepubblicana, sepolta dall’evento piroclastico che seguí l’eruzione pompeiana del 79 d.C. Ma navi romane solcarono lo spazio marino a partire dal III secolo a.C. e ancora tra la tarda età repubblicana e la


prima età imperiale, come attestano, tra gli altri, un’anfora di tipo greco-italica e anfore tipo Dressel 6A e Dressel 2-4. Il recupero di un ceppo di àncora di piombo ci racconta poi del naufragio di una piccola imbarcazione avvenuto probabilmente tra il I e il III secolo d.C., mentre ulteriori frammenti di anfore testimoniano il passaggio di navi da trasporto lungo il litorale amalfitano ancora in età tardoantica, come prova il ritrovamento di un’anfora tipo LRA 1. Al periodo compreso tra il X e il XII secolo, quando Amalfi diventa la maggiore potenza commerciale e In alto: sarcofago strigilato a cassa rettangolare con bordi arrotondati. Realizzato nel III-IV sec. d.C., fu riutilizzato nel XIII sec. come sepoltura dalla famiglia Favano, che fece aggiungere il proprio stemma a bassorilievo; su un fianco, croce patente templare. A destra: ceppo d’àncora di piombo a perno fisso con due bracci di forma trapezoidale e incasso centrale con perno di fissaggio. I sec. a.C.II sec. d.C. A sinistra: l’ala dell’Arsenale di Amalfi con la nuova sezione archeologica.

militare che domina il traffico internazionale che collega l’Oriente all’Occidente, si datano una serie di contenitori anforacei di varia tipologia e produzione, a testimonianza soprattutto dei rapporti diretti tra le aree islamiche (o controllate dall’Islam) e il Ducato. Tra i reperti di questo periodo spiccano l’orlo «a tulipano» di un’anfora da trasporto siciliana del X secolo, frammenti di anfore à cannelures di produzione palermitana e del tipo Otranto 1,

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n otiz iario ma anche un’anfora da trasporto di produzione siculo-maghrebina. Piuttosto rara, infine, è un’anfora globulare del X-XI secolo di produzione orientale (Mar di Marmara), che reca sulla spalla due graffiti islamici apposti dopo la In alto: urna cineraria a cassa in marmo bianco recante l’iscrizione con la dedica sepolcrale al servo imperiale Impetratus. II sec. d.C. In basso: capitello a calice di tipo asiatico. I sec. d.C.

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cottura del vaso, che indicano la misura della capacità. All’età imperiale romana si datano invece una serie di elementi architettonici lapidei, distribuiti fra le teche della sezione archeologica, frutto di spoliazioni messe in atto tra l’XI e il XII secolo dalla marineria amalfitana nei siti romani abbandonati lungo le coste laziali e flegree, trasformati in vere e proprie cave di materiali. Tra i materiali esposti spiccano un sarcofago strigilato di marmo a cassa rettangolare, con bordi arrotondati, del III-IV secolo d.C., riusato come sepoltura nel XIII secolo, un raro dolium ovale in marmo bianco venato, alcuni fusti scanalati e rudentati di colonne di marmo, frammenti di colonne di granito egiziano, un capitello ionico e un prezioso capitello a calice di tipo asiatico in marmo pentelico. Notevole per il suo stato di conservazione è l’urna cineraria in marmo bianco del servo imperale Impetratus,

amministratore di edifici sacri e di opere pubbliche, del II secolo d.C. La realizzazione della sezione archeologica del Museo della Bussola e del Ducato marinaro di Amalfi è frutto della proficua collaborazione tra l’Amministrazione comunale dell’antica Repubblica marinara e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Salerno e Avellino. L’allestimento museale è stato curato dall’architetto Vincenzo Luce e dalla ditta Petrucci srl, il restauro dei reperti è di ARTES Restauro e servizi per l’arte, il sistema informativo della società Mediateur. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo della Bussola e del Ducato marinaro Amalfi, Arsenale Info tel. 089 8736222; https://arsenalediamalfi.it



A TUTTO CAMPO Mara Sternini

IL GALATA NERO L’ARTISTA CONTEMPORANEO KEHINDE WILEY REINTERPRETA UNO DEI PIÚ FAMOSI MODELLI DELLA STATUARIA CLASSICA. E TRASFORMA L’OPERA IN UN MANIFESTO CONTRO L’INGIUSTIZIA

L

a morte di Alessandro Magno (356-323 a.C.), avvenuta sulla strada del ritorno dalla spedizione militare con cui il giovane re aveva conquistato un territorio vastissimo, esteso dalla Macedonia alle foci dell’Indo, segnò l’inizio della frammentazione del suo grande regno in parti piú piccole, contese dai suoi generali (diàdochi). Questi, e i loro successori (epígoni), diedero vita a regni che caratterizzarono il periodo ellenistico fino all’arrivo dei Romani. In un panorama geopolitico cosí frammentato, merita un’attenzione particolare un piccolo regno sorto sulla costa occidentale dell’Asia Minore

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(odierna Turchia), che aveva come centro la città di Pergamo. Nel 302 a.C., infatti, il re di Tracia Lisimaco (360/355-281 a.C.), volendo mettere al sicuro il suo tesoro nella rocca fortificata di Pergamo, lo affidò a un suo funzionario, Filetèro (343-263/262 a.C.). Questi, tradendo la fiducia del re Lisimaco, nel 282 a.C. passò dalla parte del re di Siria Seleuco I (358 circa-281 a.C.), appropriandosi del tesoro e ottenendo il controllo sul territorio di Pergamo. Dopo la morte di Filetèro e del suo successore Eumene I (241 a.C.), salí sul trono Attalo I (269-197 a.C.). Nel suo lungo regno egli dovette affrontare a piú riprese gli attacchi dei Galati, una tribú gallica che si

era spostata da occidente verso oriente, stanziandosi in Asia Minore e minacciando cosí il piccolo regno.

IMMAGINI DEI VINTI Le vittorie sui Galati offrirono ad Attalo I l’occasione per dedicare una serie di donari sull’acropoli di Pergamo, all’interno del recinto sacro del tempio di Atena. Uno di questi, il Grande Donario, era composto da un gruppo di sculture raffiguranti i nemici vinti, morenti o nell’atto di suicidarsi per non cadere nelle mani dei vincitori. Del gruppo in bronzo esposto a Pergamo sono note soprattutto due copie in marmo rinvenute a Roma, che raffigurano un Galata morente e un Galata suicida accanto alla


moglie morta. Le statue furono scoperte nel XVII secolo, in occasione dei lavori avviati per la costruzione di Villa Ludovisi, una residenza voluta dal cardinale Ludovico Ludovisi nei pressi di Porta Pinciana. L’area insiste su quelli che in epoca romana erano gli horti Sallustiani, dal nome dello storico Sallustio (86-34 a.C.), che li aveva acquistati dopo la morte del precedente proprietario, Giulio Cesare (100-44 a.C.). Di solito inquadrate tra l’età traianea e l’età antonina (II secolo d.C.), le statue, secondo un’altra ipotesi potrebbero invece risalire al I secolo a.C., piú precisamente tra il 48 e il 46 a.C., e sarebbero state commissionate da Mitridate di Pergamo, alleato di Cesare contro Pompeo.

AL LIVELLO DI UN RE Il ritrovamento delle due copie romane in un’area appartenuta al dittatore, ma anche il marmo asiatico nel quale sono state scolpite, sono elementi che potrebbero supportare una datazione piú alta. Se questa ricostruzione è esatta, bisogna supporre che il conquistatore delle Gallie, collocando nei suoi giardini una copia in marmo del donario di Attalo I, realizzato per celebrare la vittoria del re pergameno sui Galati, intendesse esaltare nello stesso

Galata suicida, replica romana da un originale in bronzo realizzato per il donario di Attalo I a Pergamo. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Nella pagina accanto: Galata morente, bronzo di Kehinde Wiley. 2022. In basso: Galata morente, replica romana da un originale in bronzo realizzato per il donario di Attalo I a Pergamo. Roma, Musei Capitolini.

modo il proprio successo militare sui Galli d’Occidente, ponendosi allo stesso livello di un re. L’immagine dei vinti, morti o prossimi a morire, viene ripresa anche nelle opere dell’artista contemporaneo, di origini nigeriane, Kehinde Wiley (nato a Los Angeles nel 1977), la cui produzione è caratterizzata da una decisa influenza dei modelli della tradizione artistica occidentale, riproposti in una chiave di lettura popolare, scegliendo soggetti dai tratti somatici ben riconoscibili, per veicolare le rivendicazioni

sociali della comunità afroamericana. Ecco allora che l’originale pergameno diventa un Galata morente dalla pelle nera, vestito di una felpa con cappuccio, che richiama l’abbigliamento delle comunità afroamericane concentrate nelle periferie urbane. Ma in questo gioco di rimandi tra antico e contemporaneo viene ribaltato il punto di vista: mentre il Galata morente serviva a celebrare il successo dei vincitori, Attalo I e, a seguire, Giulio Cesare, ora invece il Galata nero, che soccombe alla morte, denuncia le ingiustizie che alcuni gruppi sociali ancora oggi continuano a subire. Un sacrificio che esalta il silenzioso grido di dolore degli sconfitti, la cui sofferenza finisce per toccare i livelli piú profondi della nostra umanità. (mara.sternini@unisi.it)

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n otiz iario

IN CROCIERA CON «ARCHEO»

IN ROTTA VERSO L’ORIENTE

P

arte da Limassol, vivace e affascinante città portuale dell’isola di Cipro affacciata sul Mediterraneo meridionale, la seconda parte della crociera Swan Hellenic in collaborazione con «Archeo». La prima meta da raggiungere, dopo una magnifica traversata marina in direzione del continente africano, è Port Said, sulla costa mediterranea dell’Egitto. Inizia da qui il periplo della penisola del Sinai, con la nave Diana che solcherà le acque di un capolavoro dell’ingegneria idraulica: le 120 miglia del Canale di Suez, una via d’acqua che attraversa il deserto, collegando il Mediterraneo al Mar Rosso e, poi, all’Oceano Indiano. Il canale venne inaugurato il 17 novembre del 1869, alla presenza del viceré d’Egitto e di notabili giunti da tutta l’Europa. «L’idea di Sesostri è stata fatta propria da Ferdinand de Lesseps e trasformata in realtà con l’audacia che caratterizza i potenti mezzi della scienza moderna». Con queste

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L’itinerario della crociera a bordo della nave Diana. In basso: una veduta di Limassol (Cipro), porto di partenza della crociera. Nella pagina accanto, in basso: Verso i mari del Sud, bozzetto per un manifesto pubblicitario sulle opportunità di navigazione offerte dal Canale di Suez.

Cipro

Limassol

Mediterr rran aneo eo

Port Said Canale di Suez

Giorddannia Aqaba

Egittto

Sharm el-Sheikh

Arabia Saudita

Safaga

Mar Rosso Ro

Yanbu

Gedda

Marmar


vibranti parole lo scrittore Théophile Gautier commentava l’Esposizione Universale del 1867, uno dei cui padiglioni era dedicato al taglio dell’istmo di Suez. In effetti, al tempo dei faraoni, l’istmo era già stato tagliato da un canale che sfociava nel Mar Rosso e del quale alcuni autori dell’antichità classica attribuivano la paternità a Sesostri, un faraone mitico. L’antico canale correva lungo un tracciato parallelo a quello moderno. La sua traccia è relativamente ben conosciuta grazie alle fonti letterarie e ai resti archeologici, ma è bene considerare che la topografia e l’idrografia della regione mutarono considerevolmente nel corso dei

In alto: Inaugurazione del Canale di Suez, 17 novembre 1869, olio su tela di Édouard Riou. 1896. Compiègne, Musée national du château de Compiègne.

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n otiz iario

A sinistra: il Monastero di Santa Caterina, alle pendici del Monte Sinai. In basso: Petra. Lo sbocco della gola del Siq di fronte alla spettacolare tomba nabatea nota come «Tesoro del Faraone» (Khazne Faraun). Nella pagina accanto: il Monte Sinai, sul quale, secondo la tradizione biblica, Mosè salí piú volte per ricevere la legge divina. millenni. L’importanza capitale di una via d’acqua che unisse il Mediterraneo al Mar Rosso era ben chiara fin dall’antichità: il già ricordato faraone Sesostri III aveva fatto unire il Mar Rosso al Delta del Nilo nel 1850 a.C.; una stele attesta come Dario I nel 500 a.C. avesse perseverato nell’impresa, cui si era appassionato anche Traiano, il quale cercò di ripristinare il canale, dopo che Cleopatra, nel 30 a.C. in fuga dalla sconfitta nella battaglia di Azio, vi era rimasta insabbiata con la sua flotta. Molti secoli dopo ci riprovò senza successo la Serenissima, e verso la metà del Cinquecento persino un avventuriero di origini calabresi, Uluc Alí, che aveva aderito alla religione musulmana diventando il miglior ammiraglio della flotta ottomana. Il sogno fu poi accarezzato da Napoleone (in chiave anti-inglese), ma l’imperatore francese cambiò avviso perché i suoi ingegneri avevano calcolato – sbagliando – che tra i due mari c’era un dislivello di dieci metri. Giunti a Suez, la Diana si inoltra nelle acque dell’omonimo stretto per arrivare, dopo aver circumnavigato la punta meridionale della penisola del Sinai, a Sharm el-Sheikh. Dalla località balneare parte l’escursione, della durata di un giorno, alla scoperta di uno dei luoghi della

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fede e di pellegrinaggio fra i piú affascinanti al mondo: il Monastero di Santa Caterina, costruito nel VI secolo, sotto il regno dell’imperatore Giustininano, alle pendici del Monte Sinai, a circa 1600 metri di altitudine. Da Sharm el-Sheikh, la Diana riparte alla volta del Golfo di Aqaba per approdare nell’omonimo porto giordano, importante crocevia di commerci sin dall’antichità: sotto il regno dei Tolomei il porto si chiamava Berenice e, fino all’anno 106 d.C. era parte integrante del regno nabateo. E proprio da Aqaba parte l’escursione alla scoperta

della capitale dei Nabatei, la leggendaria Petra. Petra rappresenta la testimonianza unica dell’architettura nabatea e di uno straordinario connubio artistico e culturale tra Oriente e Occidente. Le sue imponenti architetture uniscono facciate ellenistiche e romane a elementi tradizionali dei Nabatei, un popolo di commercianti dell’antica Arabia. La fortuna di Petra si dovette in gran parte alla sua posizione strategica lungo la via delle spezie che, cosí, la rendeva un punto di passaggio obbligato delle fiorenti rotte carovaniere e mercantili

dell’antichità. La messa a punto di un avanzato sistema di distribuzione dell’acqua – cisterne, vasche e canali – permise ai Nabatei di fare di Petra un giardino rigoglioso nel mezzo del deserto. Lo straordinario fascino di questo luogo trova una spiegazione anche nel fatto che, sin dal Medioevo – dopo la ritirata dei cavalieri crociati nel 1189 – Petra rimase isolata dal mondo esterno per lunghi secoli. Fino a che, nel 1812, non venne riscoperta dall’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt... Per informazioni: swanhellenic@gattinoni.it

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n otiz iario

INCONTRI Roma

CHIUSURA IN BELLEZZA

U

ltimo appuntamento con «Luce sull’archeologia», la cui nona edizione, «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato», ha proposto un percorso tematico di grande suggestione, che ha esaminato l’aspirazione delle classi piú elevate della società romana a ricreare i lussi delle corti ellenistiche. Esigenze di rappresentanza e ostentazione del lusso e di una cultura arricchita e accresciuta dal contatto con le altre genti del Mediterraneo e del Lazio antico, una visione dell’arte dunque come sentimento del sublime, come esperienza di bellezza, di civiltà, di identità civile, base del linguaggio dei ricchi e potenti ottimati romani, che presero il sopravvento nonostante

la fiera condanna dei moralisti e le severe leggi suntuarie. Il progetto «Luce sull’archeologia» è stato curato dal Teatro di RomaTeatro Nazionale, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Romani, la rivista «Archeo» e la società Dialogues. Raccontare L’Arte. Ciascun incontro è stato arricchito dai contributi di storia dell’arte proposti da Claudio Strinati, dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner e dalle introduzioni di Massimiliano Ghilardi. Questo il programma dell’appuntamento in programma domenica 16 aprile: Maurizio Bettini, Una parola magnifica e potente; Paolo Di Paolo, La parola oltre il sipario; Adriano La Regina, Teatro: spazio urbano della politica e del consenso.

DOVE E QUANDO «Magnificenza e lusso in età romana: spazi e forme del potere tra pubblico e privato» Luce sull’archeologia-IX edizione Roma, Teatro Argentina 16 aprile Orario inizio dell’incontro, 11,00 Info www.teatrodiroma.net

Il teatro romano di Pietrabbondante (Isernia), la cui costruzione fu avviata tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C.

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

QUEL TESORO... LIQUIDO Lo scorso 22 marzo si è celebrata la Giornata Mondiale dell’Acqua per ricordare la vitale importanza di questo elemento naturale e la necessità di preservarlo per la sopravvivenza stessa 1 della nostra civiltà. E proprio all’«oro blu» è dedicato lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 74-103). Illustriamo quindi con materiale filatelico alcuni degli argomenti trattati dall’articolo, che spaziano dallo sfruttamento delle 4 sorgenti a tutti i possibili impieghi dell’acqua in epoca antica, con particolare attenzione per l’età romana. L’acqua, che fuoriesce da fenditure tra le rocce (1) o dalle sorgenti dei fiumi come quella del Nilo (2), veniva direttamente immessa in canali di irrigazione (3), ove possibile, oppure raccolta per essere impiegata altrove in dighe di accumulo, soprattutto in agricoltura (4). Esempi di 7 queste dighe sono quella detta «di Proserpina», ancora funzionante a Mérida, o quella naturale di Las Medulas, sempre in Spagna, utilizzata per le miniere aurifere della zona (5). La costruzione di cisterne ha dato la possibilità di far viaggiare l’acqua per centinaia di chilometri sia a cielo aperto su strutture in mattoni (6) o tramite tubi di piombo (7). Ma le opere piú mirabili realizzate dai Romani per l’acqua furono certamente gli impianti termali (8) e gli acquedotti. Questi ultimi sono altrettanti saggi di alta ingegneria edile e ne presentiamo alcuni tra i piú importanti. Per l’Italia è certamente da citare l’acquedotto Claudio a Roma (9), mentre in Europa ci sono quello di Kavala in Grecia (10), quello di Segovia in Spagna (11) e quello di Pont du Gard, in Francia, il piú alto e maestoso di tutti, ancora ottimamente conservato (12). Per i Paesi affacciati sul Mediterraneo mostriamo i resti di quelli di Zebaide in Libano (13) e di quello di Zaghouan in Tunisia (14). L’articolo termina con una citazione anche per le acque reflue, sia bianche che nere, e per queste ultime ripercorre la storia della Cloaca Massima di Roma, che scorreva coperta e che in gran parte è ancora attiva; sul suo modello se ne costruirono in altre città europee, come per esempio a Mérida (15).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



GI CO

NA AR PO CH EO LI LO IL M US EO

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

MANN

IL VERSO IL FUTURO

La storia, i tesori e l’attualità del Museo Archeologico Nazionale di Napoli

C’

è un luogo, a Napoli, dove l’antico guarda al futuro: è il Museo Archeologico Nazionale, una delle piú ricche e prestigiose collezioni di antichità del mondo, alla quale è dedicata la nuova Monografia di «Archeo». Il MANN, questa la sigla dell’istituto, vanta infatti una lunga storia, che prende avvio già nel XVIII secolo, ma, soprattutto negli ultimi anni – come sottolinea Paolo Giulierini, che ne è l’attuale direttore e che ha firmato i testi che ora presentiamo – ha rafforzato il suo impegno per moltiplicare gli strumenti di fruizione dei suoi tesori, avvalendosi delle potenzialità offerte dalla tecnologia e dallo sviluppo del web. Tutto questo, naturalmente, senza fare ombra alla ricchezza delle sue raccolte, che valgono ben piú di una visita. Basti pensare, solo per fare due degli esempi piú significativi, che il Palazzo degli Studi custodisce la straordinaria Collezione Farnese – giunta ai piedi del Vesuvio dopo che i Borbone si erano imparentati con la famiglia dell’illustre cardinale Alessandro – e una spettacolare selezione delle pitture pompeiane, staccate dalle domus nelle quali facevano bella mostra di sé e che ora compongono una pinacoteca unica al mondo, grazie alla quale si può ripercorrere uno dei momenti piú significativi della storia dell’arte antica. Tutto questo e molto altro viene dunque narrato e descritto nei vari capitoli della Monografia, forte di un apparato iconografico di pregio assoluto, nel quale figurano, fra le altre, anche le magistrali riprese fotografiche di Luigi Spina.

GLI ARGOMENTI

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• LA STORIA

• I RAPPORTI INTERNAZIONALI

• LE COLLEZIONI

• UN MUSEO SOCIAL

• LA DOCUMENTAZIONE

in edicola


INCONTRI Roma

LE GIORNATE DELL’ARCHEOLOGIA ITALIANA ALL’ESTERO

L’

8 e il 9 maggio prossimi si svolgerà a Roma, inaugurata dal Signor Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alla presenza del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Antonio Tajani e del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, la prima edizione delle Giornate dell’Archeologia italiana all’estero, una iniziativa della Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale del MAECI (DGDP) che si propone di dare riconoscimento alla pluridecennale eccellenza del lavoro degli archeologi italiani all’estero. Protagonisti saranno i 184 Direttori delle Missioni sostenute nel 2022 dalla Farnesina in circa 70 Paesi nei 5 continenti. La partecipazione

Roma. Il Palazzo della Farnesina, sede del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

della rete MAECI e delle Ambasciate accreditate a Roma dei Paesi in cui operano le Missioni rappresenterà un valore aggiunto dell’evento, nonché un’occasione di incontro conoscitivo trasversale nel quadro delle attività di promozione della cultura, che la nuova Direzione Generale ha avviato e strutturato dal suo avvento lo scorso anno. La scelta della prestigiosa sede del Campidoglio, messa a

Il cantiere di scavo della missione italiana a Tell as-Sadoum (Iraq).

disposizione dal Sindaco di Roma, intende celebrare l’immenso patrimonio archeologico romano e darà ulteriore risalto all’evento. La collaborazione con il Comune si delinea, peraltro, come fondamentale nell’ottica sia di una maggiore visibilità della manifestazione che di un ancoraggio, presso l’opinione pubblica italiana, delle nostre attività archeologiche all’estero. Le otto sessioni di lavoro in cui è articolato l’evento, che seguono una sessione di saluti istituzionali e una sessione plenaria di avvicinamento all’Archeologia italiana all’estero, sono articolate sulla base di criteri geograficoterritoriali, cronologici e tematici: Vicino Oriente antico; Egittologia e Archeologia della Nubia; Archeologia del mondo preclassico; Medio Oriente, Asia Centrale ed Estremo Oriente; Archeologia classica, conservazione, restauro dell’Europa e Mediterraneo allargato; Etno-antropologia e archeologia delle Americhe, dell’Oriente e dell’Oceania; Archeologia tardo-antica e medievale; Etno-antropologia e archeologia dell’Africa.

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CALENDARIO

Italia ROMA La mummia di Ramses Il faraone immortale Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo, «Sapienza» Università di Roma fino al 14.06.23

Colori dei Romani

I Mosaici dalle Collezioni Capitoline Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 25.06.23

Raffaello e l’antico nella Villa di Agostino Chigi Villa Farnesina fino al 02.07.23

Felice Barnabei «Centum deinde centum»

Alle radici dell’archeologia nazionale Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 09.07.23

La Roma della Repubblica Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.09.23

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23

BOLOGNA I Pittori di Pompei

Museo Civico Archeologico fino al 01.05.23 (prorogata)

CREMONA Pictura Tacitum poema

Miti e paesaggi dipinti nelle domus di Cremona Museo Civico Archeologico fino al 21.05.23 28 a r c h e o

MILANO La stele di Vicchio

Fondazione Luigi Rovati, Piano Ipogeo fino al 16.07.23

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

PASSARIANO (UDINE) Guerra all’arte! 1940-1945. I beni culturali del Friuli Venezia Giulia fra protezione e distruzione Villa Manin fino al 14.05.23

PORTICI (NAPOLI) Materia

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

SANTARCANGELO DI ROMAGNA (RIMINI) Lo spazio del tempo

Calendari romani tra ritmi naturali e culturali MUSAS-Museo storico archeologico di Santarcangelo di Romagna fino al 21.05.23

TORINO Il dono di Thot

Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon

Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

VITERBO Sfingi, leoni e mani d’argento Lo splendore delle famiglie etrusche a Vulci Museo Nazionale Etrusco di Rocca Albornoz fino al 15.06.23

Francia SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo

«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23

Germania BERLINO Aes corinthium

Il segreto del rame nero Staatliche Museen, Neues Museum fino al 27.08.23

Contrappeso di collana (menat) in bronzo. 880 a.C.

I creatori dell’Egitto eterno Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone Basilica Palladiana fino al 07.05.23

VIGEVANO La Collezione Strada

Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23

Grecia ATENE Ritorno a casa

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Svizzera BASILEA Ave Caesar

Romani, Galli e tribú germaniche sul Reno Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 30.04.23 a r c h e o 29




SCOPERTE • SUL MAR DI GALILEA/2

NELLA CITTÀ DELLA

MADDALENA

SULLA RIVA OCCIDENTALE DEL MAR DI GALILEA, TRA TIBERIADE E CAFARNAO, GLI SCAVI HANNO RIVELATO L’ESISTENZA DI UN VASTO ABITATO, APPARENTEMENTE CRISTALLIZZATOSI AL I SECOLO D.C. DEFINITO DAGLI ARCHEOLOGI LA «POMPEI ISRAELIANA». SI TRATTA DI UN LUOGO DI IMPORTANZA FONDAMENTALE PER L’IMMAGINARIO EBRAICO E CRISTIANO: È LA CITTÀ DI MIGDAL/MAGDALA, MENZIONATA NEL TALMUD E NEI VANGELI, LUOGO NATALE DELLA DONNA SEGUACE DI GESÚ E TRA LE PRIME A TESTIMONIARE LA SUA RESURREZIONE… incontro con Dina Avshalom Gorni, a cura di Victoria Mesistrano 32 a r c h e o


Veduta della riva occidentale del Mar di Galilea, Lago di Tiberiade o Genezaret/ Kinneret (dall’ebraico «kinnor», arpa). Sullo sfondo, l’inconfondibile sagoma del Monte Arbel, in primo piano la riva paludosa con gli edifici moderni (ancora in fase di costruzione) del centro di accoglienza dei pellegrini, luogo in cui sono state rinvenute le vestigia dell’antica città di Migdal/Magdala. a r c h e o 33


SCOPERTE • SUL MAR DI GALILEA/2

I

n età ellenistica e durante i priCartina delle mi decenni del dominio di Roregioni ma, Magdala era una ricca e settentrionali di prospera città situata sulla sponda Israele con il Mar occidentale del Mare di Galilea (o di Galilea (o Lago Lago di Tiberiade, detto anche Gedi Tiberiade) e i nezaret). Teatro di importanti evenprincipali luoghi ti storici, ha lasciato una profonda archeologici che impronta nella storia del popolo lo circondano. ebraico e in quella del cristianesimo. In basso sulle due Ricordata piú volte negli scritti di pagine: veduta Giuseppe Flavio e da altre fonti del lago dalla ebraiche (ma anche da autori romasponda ni quali Plinio il Vecchio, Cicerone occidentale verso e Svetonio), ha svolto un ruolo fonest con, sullo damentale nella storia religiosa grasfondo, le alture zie al fatto di essere stata la città del Golan. dove nacque e visse Miriam di Nella pagina Magdala, ovvero Maria Maddalena. accanto: gli Andata distrutta durante la prima archeologi insurrezione giudaica contro RoYehuda Govrin e ma o, forse, parzialmente coperta Dina Avshalom da una frana del vicino Monte Gorni sullo scavo Arbel, per secoli Magdala è sopravdi Magdala. vissuta soltanto grazie alle testimonianze scritte e nell’immaginario collettivo. Ma la storia delle biblica città era destinata a cambiare. Nel 2004, padre Juan Solana, direttore del Pontificio Istituto Notre Dame di Gerusalemme, acquistò un terreno sulla riva del Lago di Galilea, al fine di costruirvi un centro per pellegrini. Non immaginava quello che stava per verificarsi.

Una barca come al tempo di Gesú Nell’area portuale di Magdala è stato rinvenuto un grande edificio composto da diverse stanze, nelle

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quali sono stati scoperti reperti legati alla pesca, come ami, pesi per reti e vasi in ceramica per la conservazione degli alimenti. Nel porto non sono


Nel 2009, appena iniziati i lavori per le fondamenta della casa degli ospiti, a pochi centimetri di profondità vennero alla luce i resti di una della sinagoghe piú antiche mai scoperte, la prima del genere databile al periodo del Secondo Tempio

(l’epoca iniziata nel 597 a.C. con l’esilio babilonese e conclusasi con la distruzione del Secondo Tempio da parte dei Romani nel 70 d.C. n.d.r.) rinvenuta in Galilea. Man mano che gli scavi procedevano, gli archeologi realizzarono di trovarsi

state trovate imbarcazioni ma, a meno di 3 km da Magdala, nei pressi dell’odierno kibbutz Ginosar, nel 1986, furono scoperti i resti di una piccola

in presenza dei resti di un’intera città, con case, negozi, strade e un porto commerciale: la citta di Magdala si era risvegliata dopo un sonno durato duemila anni. Nel 2021, poi, durante lo scavo archeologico preventivo per l’ampliamento del rac-

imbarcazione lacustre di duemila anni fa, oggi nota come la «Barca di Ginosar», verosimilmente utilizzata dai pescatori del luogo.

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cordo stradale intorno al Lago di Galilea, è stata scoperta una seconda sinagoga, contemporanea alla prima. Abbiamo imboccato la strada che da Tiberiade porta all’incrocio di Magdala per incontrare Dina Avshalom Gorni che, insieme a Yehuda Govrin (dopo una prima indagine condotta dalla Israel Antiquities Authority, la Soprintendenza alle Antichità di Israele), conduce i nuovi scavi nella parte occidentale di Magdala. Tra antiche strade mai piú battute da millenni e antiche abitazioni appena tornate alla luce, ci siamo addentrati nella storia… 36 a r c h e o

◆D ottoressa Avshalom Gorni, le scoperte di Magdala segnano un notevole passo avanti per la conoscenza degli insediamenti ebraici del periodo del Secondo Tempio… Magdala era una città ebraica molto importante nell’area del Lago di Galilea. Era il centro di tutta la produzione ittica della zona e aveva un ruolo fondamentale e unico nella commercializzazione e distribuzione verso il centro del Paese. Si tratta di un sito che basava la sua economia principalmente sull’agricoltura e sulla pesca. Sebbene la fondazione

di Magdala risalga al periodo degli Asmonei (la dinastia giudaica che regnò in Israele tra il 140 e il 37 a.C., n.d.r.), sappiamo che durante il I secolo d.C. era una città di dimensioni notevoli. Giuseppe Flavio fa riferimento a una popolazione di circa 40 000 abitanti e, anche se questo numero appare forse esagerato, oggi possiamo sostenere con relativa certezza che a Magdala abitavano svariate migliaia di persone. Durante i nostri scavi è stato rinvenuto un numero importante di mikva’ot (plurale di mikveh, bagni rituali ebraici) e ceramica di produ-


Veduta dello scavo di Magdala. In primo piano, i resti di un quartiere residenziale e commerciale. Nella pagina accanto: una delle mikva’ot (plurale di mikveh, le vasche per abluzioni rituali) rinvenute nell’antica città. I sec. d.C.

fondamentale nella società duzione di ceramica locale. Abbiaebraica del tempo e si esprimo, inoltre, trovato vasellame in mevano anche nel tessuto urcalcare, anche questo un aspetto bano. Menzionata gia nei licaratteristico di questo periodo: il bri di Genesi e Levitico, la calcare non assorbe sostanze che mikveh veniva utilizzata, e lo potrebbero renderlo impuro, come è ancora oggi, per l’immerlo fa, invece, la ceramica. Tazze, bicsione e la purificazione. Cosa chieri, ciotole, prodotti in pietra c i p u ò r a c c o n t a re s u l l e con l’obiettivo di mantenere il piú mikva’ot di Magdala? possibile la purezza, caratterizzano i siti archeologici ebraici di questo Nell’ebraismo la mikveh è una vasca periodo e non si trovano in siti non provvista di scale per scendervi e risalire, contenente acqua piovana ebraici dello stesso periodo. o di sorgente. Durante il periodo ◆L e norme che regolavano la del Secondo Tempio esistevano dipurezza svolgevano un ruolo verse leggi che regolavano le prati-

Una vasca per purificarsi Mikveh, plurale mikva’ot (dall’ebraico «confluire»), è il nome che designa le vasche usate dalle comunità ebraiche, sin dall’antichità, per le abluzioni rituali prescritte dalle regole halachiche. La mikveh non aveva finalità igieniche, serviva bensí a restituire all’individuo che vi si immergeva una simbolica purezza cultuale, compromessa, per esempio, dal contatto con un morto o da determinati effluvi corporei. L’acqua usata nelle mikva’ot doveva essere viva, non stagnante, ragion per cui molte di esse furono costruite a livello della falda acquifera. Non si conoscono testimonianze né scritte, né archeologiche che attestino l’esistenza delle mikva’ot precedenti il I secolo d.C. Da quel periodo, però, la loro presenza si diffonde sia nell’antica terra di Israele, sia nelle comunità della Diaspora (le mikva’ot rinvenute in Italia, tutte datate all’epoca tardo-medievale, si trovano in Sicilia, a Calascibetta, Siracusa e Palermo).

zione esclusivamente locale. È completamente assente la ceramica d’importazione: in quell’epoca, infatti, gli Ebrei osservavano rigorosamente la Halacha, il corpo di leggi che ha guidato la vita ebraica sin dal periodo post-biblico, e che imponeva l’uso esclusivo di ceramica prodotta in villaggi ebraici. La ceramica rinvenuta a Magdala, infatti, viene da siti della Galilea, luoghi noti per la produzione locale come Kfar Hanania e Shichin, siti menzionati nella Mishnah (uno dei testi fondamentali del ebraismo postbiblico, n.d.r.) come centri di proa r c h e o 37


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che di purificazione per uomini, donne, stoviglie, abiti. Queste leggi stabilivano anche la quantità di acqua e il percorso della medesima per arrivare alla mikveh. La vasca doveva contenere un livello minimo di acqua di 40 seah’, l’equivalente di 570 litri. Quando la mikveh era stata riempita con acqua piovana, questa veniva conservata in un pozzo accanto alla vasca. Le mikva’ot sono un tratto caratterizzante dei siti archeologici ebraici del periodo del Secondo Tempio ma si trovano anche in siti ebraici di periodo bizantino. Durante gli scavi di un’area resi38 a r c h e o


Gli ambienti della sinagoga nord di Magdala, decorata con affreschi e pavimenti musivi. Al centro la cosiddetta «Pietra di Magdala» (vedi box alle pp. 40-41), un blocco di arenaria decorata a bassorilievo con i simboli ispirati al tempio di Gerusalemme.

denziale di Magdala, condotti nel 2010 da Marcela Zapata Meza, sono state trovate quattro mikva’ot. Erano alimentate da acqua che arrivava alle vasche rituali direttamente dalle diverse sorgenti intorno a Magdala. Sono stati scoperti i canali che portavano l’acqua dalle sorgenti alle mikva’ot, costruiti e articolati come vasi comunicanti, in modo tale che quando una mikveh era riempita fino a 40 seah’, l’acqua restante veniva dirottata attraverso canali interni e utilizzata per riempire un’altra mikveh. Le acque rimanenti venivano condotte attraverso canali di drenaggio verso le strade.

Un altro aspetto da sottolineare è l’eccellente stato di conservazione delle vasche rituali: quelle di Magdala furono costruite in basalto e non sono state intonacate. Una caratteristica che permetteva alle acque sotterranee di risalire e riempire la mikveh in modo naturale, garantendo la quantità e qualità dell’acqua anche durante l’estate. ◆N on troppo lontano da questa zona si trova la sinagoga del quartiere nord, la prima a essere scavata… La prima sinagoga scoperta a Magdala nel 2009, la sinagoga del quar-

tiere nord, era contemporanea al Tempio di Gerusalemme (il cosiddetto Secondo Tempio, ricostruito dopo il ritorno dall’esilio babilonese a partire dal 536 a.C. e, in seguito, notevolmente ampliato da Erode il Grande, n.d.r.). Sapevamo dell’esistenza di sinagoghe contemporanee al Secondo Tempio attraverso antiche fonti ebraiche e cristiane, ma fino a questa data non ne erano state rinvenute tracce archeologiche. La sinagoga nord, in eccellente stato di conservazione, era suddivisa in tre ambienti: un’aula centrale, un’aula di ingresso e una stanza deposito. L’area d’ingresso era destinaa r c h e o 39


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ta soprattutto allo studio e presenta parallelepipedi in pietra addossati lungo il perimetro interno delle mura, che fungevano da sedili. Da quest’aula si accede all’aula centrale, di dimensioni piú importanti, attrezzata anch’essa con sedili di pietra. L’aula era circondata da un corridoio, al centro sei colonne si alzavano verso il soffitto. L’aula centrale era finemente decorata con affreschi colorati e pavimentata con un mosaico di raffinata fattura. Anche la

stanza destinata al deposito dei rotoli sacri era decorata con bellissimi affreschi dai colori intensi. Durante le riunioni della comunità, i sacri rotoli venivano depositati su una sorta di podio in pietra, rinvenuto durante gli scavi del 2009. Decorato a bassorilievo sui cinque lati esposti, si tratta di un reperto unico nel suo genere, poiché rappresenta una sorta di modello tridimensionale del Tempio di Gerusalemme. Possiamo supporre che l’au-

tore di questo «tavolo» conoscesse il Tempio di Gerusalemme e abbia voluto riprodurre l’immagine di quanto si trovava nel celebre santuario, portando a Magdala, dunque molti chilometri a nord dalla capitale del regno, la testimonianza degli elementi piú sacri conservati nel tempio gerosolimitano. Con grande raffinatezza lo scultore ha riprodotto la menorah (il candelabro a sette bracci) del Tempio, l’altare, il tavolo dei pani (per il pane di

50 x 40 cm, venne scoperto nel 2009 al centro dell’aula della sinagoga nord di Migdal/Magdala. Fra le raffigurazioni scolpite spicca una

menorah ai cui lati figurano due anfore e colonne binate. La pietra poteva servire come appoggio per i rotoli della Torah quando venivano

La Pietra di Magdala Reperto assolutamente unico nel suo genere, la cosiddetta «Pietra di Magdala», un blocco in arenaria scolpito a bassorilievo di circa 60 x

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quella del quartiere nord… Nel 2021 abbiamo iniziato gli scavi dell’area a ovest della strada 90. Man mano che procedeva lo scavo è venuto alla luce il quartiere occidentale di Magdala. Abbiamo scoperto una strada di 120 m di lunghezza, risalente al I secolo, con edifici, case e cortili da entrambi i lati. Proprio in quest’area abbiamo ◆… infatti, proprio di recente è scoperto una seconda sinagoga, stata scoperta una seconda si- molto somigliante a quella del nagoga non molto distante da quartiere nord. Anche qui abbia-

mo trovato un accesso principale dalla strada, un’aula centrale e una stanza per custodire i rotoli sacri. La stanza centrale è stata pavimentata in pietra ricoperta da un fine strato di intonaco. Intorno alle mura, sono state costruite panchine in pietra, il tutto intonacato di un delicato colore bianco. Come nella sinagoga nord, accanto all’aula centrale era una piccola stanza con, al suo interno, un ripiano per depositare i rotoli sacri.

aperti e letti. Una particolarità del reperto risiede nel fatto che la pietra di Magdala fu realizzata in un età (i primi decenni del I secolo d.C.)

artista vi avesse riprodotto il celebre candelabro a sette bracci da lui stesso visto nel grande santuario gerosolimitano.

proposizione) e il parochet, la tenda sacra del Tempio. Con una capienza stimata di circa 200 persone, la sinagoga del quartiere nord non figura tra le piú grandi e, sapendo che Magdala era abitata da migliaia di persone, già nei primi anni di scavo ci aspettavamo di trovare altri edifici simili…

quando ancora il Tempio di Gerusalemme non era stato distrutto dai Romani (70 d.C.); è assai plausibile, pertanto, che l’anonimo

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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In questa pagina: gli scavi in corso della seconda sinagoga, rinvenuta nel quartiere occidentale di Magdala durante le indagini del 2021. L’edificio è stato scoperto durante i lavori di ampliamento del raccordo stradale lungo la riva del lago.

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I rudimentali sbarramenti della via d’accesso alla città di Magdala, verosimilmente realizzati durante l’assedio della città da parte delle legioni di Roma durante la prima guerra giudaica (66-70 d.C.), utilizzando anche i rocchi delle colonne appartenute alla sinagoga occidentale.

◆Q ual è il rapporto tra le testimonianze tramandateci dagli scritti di Giuseppe Flavio e i dati emersi dagli scavi archeologici? Il ritrovamento della sinagoga nel quartiere occidentale di Magdala conferma il racconto di Giuseppe Flavio. Dalle fonti cristiane, inoltre,

sappiamo che Maria Maddalena, la seguace di Gesú, risiedeva a Magdala. Possiamo supporre, quindi, che una comunità di seguaci del Nazareno vivesse permanentemente a Magdala. Gesú era ebreo, Maria Maddalena era ebrea. Magdala si trova a poca distanza da Cafarnao, luogo in cui il Nuovo Testamento ambienta alcuni miracoli compiuti da Gesú. La distanza tra Magdala e Cafarnao è di appena due ore di cammino… Giuseppe Flavio partecipò attivamente alla ribellione ebraica della Galilea contro i Romani, svolgendovi un ruolo fondamentale. Fortificò Magdala e combatté nella ribellione a fianco degli Zeloti arrivati nella città per fronteggiare i Romani. Alcuni resti rinvenuti negli scavi mostrano evidenti segni di una battaglia, anche molto cruenta, svoltasi tra Romani ed Ebrei, confermando che Magdala fu dura-

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Magdala nelle fonti scritte Il Vangelo di Matteo riporta che, dopo avere moltiplicato i pani e i pesci per dare da mangiare a tutti quelli che lo seguivano, «Congedata la folla, Gesú salí sulla barca e andò nella regione di Magadan» (Mt 15,39). Questa località sarebbe da identificare con

Magdala. Il Talmud cita una Magdala Nunayya (Magdala dei pesci), sulle rive del Lago di Tiberiade. I Vangeli (in particolare Lc 8,1-3) parlano, fra i primi seguaci di Gesú, di Maria di Magdala e la quasi totalità degli esegeti riferisce il luogo di origine

mente colpita nel corso della prima guerra giudaica (66-70 d.C.): lungo la via nei pressi della sinagoga ovest appena scoperta gli Ebrei innalzarono un muro, costruito malamente e con apparente fretta, con l’evidente obiettivo di sbarrare l’accesso alla via e proteggersi dell’avanzamento dei Romani. Un muro simile fu costruito accanto alla sinagoga del quartiere nord, con la stessa finalità. Qui, però, succede qualcosa di diverso: sembrerebbe che i cittadini di Magdala,

consapevoli di non poter riuscire nell’intento di proteggere la sinagoga, ne smontarono le colonne e le impiegarono nella costruzione del muro difensivo a chiusura dell’ingresso da nord alla città.

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della Maddalena a Magdala Nunayya. Lo storico Giuseppe Flavio (Gerusalemme, 37 d.C.-Roma, circa 100 d.C.) menziona ripetutamente una prospera città della Galilea, assediata e distrutta dai Romani durante la prima rivolta giudaica (fra

pale attraversava tutto il quartiere occidentale, da nord a sud, fino ai piedi del Monte Arbel, con edifici su entrambi i lati, inclusa la sinagoga e una zona industriale. Anche per questo aspetto, i dati di scavo confermano quanto riportato da Giu◆Q uali sono i dati nuovi che gli seppe Flavio. scavi apportano alla conoscenza dell’urbanistica di Magdala? ◆ Q uali aspettative avete per i Sappiamo oggi che Magdala era una prossimi scavi a Magdala? città con strade, vicoli e cortili, ma Dobbiamo continuare le nostre indall’impianto diverso da quello del- dagini nel quartiere occidentale ed le città imperiali. Una strada princi- estendere gli scavi alla zona portuale.


il 66 e il 70), alla quale veniva dato il nome Tarichaea (dal greco tarichae indicante «pesce conservato in salamoia») per le sue fiorenti attività legate alla pesca. Non ne riporta il nome ebraico, ma molti autori sono concordi nell’identificarla con Magdala Nunayya. Nella sua Guerra Giudaica, Giuseppe Flavio specifica che l’attacco finale a Magdala fu portato a termine dopo scontri durissimi che si svolsero anche sul lago, con vere e proprie battaglie navali. I testi di pellegrinaggio fanno ripetutamente riferimento alla località, legandola al nome di Maddalena. Una Vita di Elena e Costantino scritta nel X secolo attribuisce alla madre

dell’imperatore il ritrovamento della casa di lei e la costruzione di una chiesa sopra il sito. Lo Pseudo Pietro di Sebaste scrive, nello stesso secolo, che la ecclesia Magdalae, situata presso Tiberiade, era lí a testimoniare che Gesú Cristo scacciò sette demoni che erano in Maria Maddalena. Fonti successive all’XI secolo riferiscono di un castrum, di un castellum e di un oppidum. Francesco Quaresmi, nella sua Elucidatio Terrae Sanctae, nel 1626, riprende il collegamento del luogo con la Maddalena e attesta che ancora a quell’epoca si mostrava ai pellegrini la casa della donna, in rovina. Gli Arabi chiamavano il luogo Magdalia. (red.)

Parliamo di un sito archeologico di notevoli dimensioni e ci aspettano ancora molte campagne di scavo. Personalmente penso che dobbiamo lasciare l’opportunità di scavare Magdala anche alle prossime generazioni. Ora dobbiamo prenderci cura della conservazione del sito e pianificare le modalità d’accesso agli scavi da parte del turismo, locale e internazionale, ai nuovi scavi. E poi dobbiamo occuparci dei reperti trovati durante gli ultimi scavi, studiarli e rivolgere la nostra attenzione alla conservazione di questo straordinario patrimonio storico, miracolosamente riemerso dopo duemila anni.

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In alto: Magdala al calar della notte, xilografia di Louis Lortet. 1878. Collezione privata. Nella pagina accanto: il villaggio arabo di Al-Majdal, costruito sulle rovine di Magdala, in una foto scattata intorno all’anno 1900. A destra: visitatori nel sito dell’antica Magdala: nella teca di vetro si riconosce l’originale «Pietra di Magdala». Una copia del reperto è stata posizionata all’interno della sinagoga nord, nell’esatto luogo del suo ritrovamento. a r c h e o 45


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Figurina femminile in calcare dipinto, da Medinet el-Gurob (Fayyum, Egitto). Probabilmente databile alla XVIII dinastia (1543-1292 a.C.). Londra, Petrie Museum of Egyptian Archaeology.

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QUEL MATRIMONIO DI UNA

PRINCIPESSA ITTITA

TRA GLI ATTORI PRINCIPALI SULLA SCENA DEL VICINO ORIENTE ANTICO, ITTITI ED EGIZIANI SI CONTESERO A LUNGO IL PREDOMINIO, FINO AD ARRIVARE ALLO SCONTRO FINALE NELL’EPOCALE BATTAGLIA DI QADESH, DEL 1275 A.C. MA FU, IN VERITÀ, UNO SCONTRO RISOLTOSI SENZA VINCITORI, NÉ VINTI. E, DA QUEL MOMENTO IN POI, I RAPPORTI TRA LE DUE SUPERPOTENZE FURONO TENUTI IN EQUILIBRIO GRAZIE A UN LABORIOSO SCAMBIO DI EPISTOLE… E NON SOLO di Stefano de Martino Frammento di tavoletta cuneiforme con il testo di una lettera inviata da Ramesse II a Hattusili III a proposito del matrimonio di una delle figlie del re ittita con il faraone e dei doni inviati dalla corte egiziana, da Bogazköy/Hattusa. Età imperiale ittita (1450-1119 a.C.). Parigi, Museo del Louvre.

N

on abbiamo informazioni dettagliate sulle relazioni politiche e commerciali tra il regno di Hatti e l’Egitto fino agli ultimi decenni del XV secolo a.C. Si datano infatti a questo periodo i primi documenti riferibili all’Egitto e conservati nelle collezioni di tavolette cuneiformi della capitale ittita Hattusa. Tra questi, il piú significativo è un trattato internazionale concluso tra Hatti e l’Egitto, tramandato da una tavoletta frammentaria, sulla quale non sono conservati i nomi dei due sovrani contraenti; tuttavia, il re ittita può essere identificato o con Tuthaliya I, oppure con Arnuwanda I, o anche con Suppiluliuma I, mentre il faraone potrebbe essere stato Thutmosi III, Amenofi II, o Amenofi III. Il trattato prevedeva la deportazione in Egitto di gruppi di anatolici originari della regione di Kurustama, nell’odierna Turchia settentrionale, offerti come forza lavoro al faraone. L’intesa assicurava l’alleanza tra i due Paesi e un accordo reciproco di non aggressione. Questo trattato fra Hatti e l’Egitto era ancora in vigore quando, intorno a r c h e o 49


DONNE AL POTERE/2

alla metà del XIV secolo a.C., il re ittita Suppiluliuma I mosse con il suo esercito contro il regno di Mittani, un potente Stato che controllava la Siria e l’Alta Mesopotamia. Quando Suppiluliuma I stava assediando la città siriana di Karkemish, sul Medio Eufrate, un messaggero egiziano si recò dal re ittita. Tutto ciò è narrato nel testo storiografico, noto come le Gesta di Suppiluliuma I, che fu redatto da Mursili II, figlio e successore di

Suppiluliuma I, e che racconta le imprese di quest’ultimo. L’inviato egiziano era latore di un messaggio della regina d’Egitto, che informava Suppiluliuma I della morte del faraone e chiedeva al re di Hatti di concederle in marito un principe reale ittita, che sarebbe divenuto il re dell’Egitto. Come leggiamo nelle Gesta, Suppiluliuma I rimase estremamente sorpreso dalla richiesta: i matrimoni interdinastici

erano cosa comune tra le case reali del tempo, ma mai era successo che fosse una donna, una regina o una principessa, a fare il primo passo e a proporre un accordo matrimoniale.

LE RICHIESTE DELLA VEDOVA Temendo che il messaggero egiziano potesse non aver detto il vero, Suppiluliuma I inviò in Egitto un dignitario ittita di nome Hattusaziti.


Bogazköy/Hattusa Kültepe/Kanes Çatalhöyük

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Ras Shamra/Ugarit

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Questi si recò in Egitto e alcuni Cartina del Vicino mesi dopo tornò da Suppliluliuma Oriente antico I, confermando la richiesta della nella quale sono vedova del faraone. Purtroppo, le evidenziate le Gesta non riportano in maniera località di esatta il nome del faraone defunto, partenza e di che appare alterato dalla grafia silla- arrivo del viaggio bica cuneiforme. Valutazioni di orcompiuto dalla dine cronologico interne alla rico- principessa ittita struzione della storia ittita suggeriShaushganu, scono che si tratti di Amenofi IV/ andata in sposa a Akhenaton, mentre gli egittologi Ramesse II.

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Mar Rosso o

La Porta dei Re di Hattusa, la capitale ittita i cui resti si trovano nei pressi della località turca di Bogazköy, 150 km a est di Ankara.

a r c h e o 51

es


DONNE DI POTERE/2 Veduta aerea dei resti del sito di Kemune, nel Kurdistan iracheno, affiorati nel 2014 grazie al ritiro del lago artificiale di Mosul. Lo scavo della città ha fornito dati importanti sulla storia del regno di Mittani. Nella pagina accanto, dall’alto: una veduta aerea dei resti del palazzo reale sull’Acropoli (Büyükkale) di Hattusa e il suo plastico ricostruttivo.

propendono per Tutankhamon che, come è noto, morí giovane senza lasciare un erede al trono. La vedova del faraone confermò al re ittita la sua richiesta, ribadendo di non avere figli da porre sul trono e di non voler sposare un uomo che non appartenesse a una stirpe reale. Suppiluliuma I, allora, inviò in Egitto suo figlio Zannanza, il quale venne però ucciso al suo arrivo nel Paese dei faraoni. Non conosciamo i particolar i dell’omicidio del principe ittita, confermato in una lettera scambiata alcuni anni dopo tra la corte ittita e quella faraonica, ma possiamo ipotizzare che una fazione della corte egiziana non volesse vedere sul trono del proprio regno uno straniero, per di piú figlio di colui che stava diventando il sovrano piú aggressivo e potente del mondo di allora. In risposta alla brutale uccisione di suo figlio, Suppiluliuma I condusse una spedizione militare nel territorio dell’attuale Libano, che si trovava sotto il controllo politico egiziano. Durante questa spedizione i 52 a r c h e o

soldati egiziani fatti prigionieri contagiarono le milizie ittite di una malattia che afflisse il regno ittita nei vent’anni successivi. Mursili II considerò la diffusione della malattia e la morte di Suppiluliuma I a causa di questa come la punizione divina per la rottura dell’accordo di pace siglata nel «Trattato di Kurustama».

LE CONQUISTE DI SUPPILULIUMA Il raid condotto da Suppiluliuma I a seguito dell’uccisione di Zannanza non fu l’unico atto di aggressione ittita nelle regioni subordinate all’Egitto. In realtà, le ripetute spedizioni militari ittite in Siria condotte da Suppiluliuma I nella conquista di Mittani avevano determinato una situazione di forte destabilizzazione tra i sudditi egiziani della regione e alcuni di questi, come il re di Ugarit e quello di Amurru, passarono volontariamente dalla parte ittita. A conclusione delle campagne di Suppiluliuma I, il regno di Hatti si era impadronito non solo di Mittani, ma anche dei

potentati siriani, già sudditi egiziani, portando il confine dei domini ittiti a Qadesh. La perdita di questi territori fu percepita dai successori di Tutankhamon come una dolorosa sconfitta che doveva essere a tutti i costi vendicata. Con la presa del potere dei sovrani della XIX dinastia (12921186 a.C.), i faraoni iniziarono a condurre spedizioni militari su suolo asiatico e fu Ramesse II a guidare un immenso esercito contro gli Ittiti nel 1275 a.C., secondo la datazione convenzionale. Il suo avversario era il sovrano di Hatti Muwatalli II, figlio e successore di Mursili II. Lo scontro tra le due superpotenze del tempo si concluse con un nulla di fatto. Entrambi gli schieramenti subirono molte perdite e Ramesse II decise di abbandonare lo scontro ripiegando verso l’Egitto, mentre Muwatalli II rinunciò a lanciare l’inseguimento alle truppe faraoniche. Il confine rimase a Qadesh, Muwatalli II sostituí il re di Amurru, reo di aver fatto passare l’esercito egi-


ziano sul suo territorio, anche se questi non avrebbe potuto in alcun modo fermare le truppe di Ramesse II senza il supporto dell’esercito imperiale di Hatti. Per ben quindici anni Hatti e l’Egitto non intrattennero rapporti diplomatici e sull’Asia occidentale costiera, divisa tra questi due regni, piombò una cortina di gelo.

IL TRATTATO DI PACE Un trattato di pace fu finalmente concluso nel ventunesimo anno di regno di Ramesse II. Ma che cosa portò Hatti e l’Egitto a stringere finalmente la pace? La corte ittita era stata travagliata da un conflitto dinastico; il figlio e successore di Muwatalli II, che si chiamava Urhi-Teshob e aveva assunto il nome dinastico di Mursili III, fu spodestato dallo zio Hattusili. Questi, che era stato generale durante il regno del fratello Muwatalli II e aveva partecipato alla battaglia di Qadesh, era entrato in conflitto con il nipote ed era riuscito a impossessarsi del trono. Mursili II venne esiliato in Siria e, dopo vari tentativi di fuga, dovette rassegnarsi alla sua situazione. Tuttavia, cercò la protezione di Ramesse II, che volentieri lo supportava, magari intravedendo la possibilità di rimetterlo sul trono di Hatti. In quanto usurpatore, Hattusili III aveva la necessità di essere riconosciuto come sovrano di Hatti non solo all’interno del suo Paese, ma anche sul piano internazionale. La conclusione di un trattato di pace con l’Egitto avrebbe automaticamente portato con sé anche il riconoscimento di Hattusili III come legittimo re ittita da parte del faraone. Ramesse II, per parte sua, poteva solo trarre vantaggi dalla pace. La guerra, che aveva avuto ingenti costi sia economici, sia di vite umane, non si era conclusa con il trionfo che il faraone si aspettava. Diversamente, Ramesse II poteva attribuirsi il merito di aver concluso una pace che assicurava stabilità politica a r c h e o 53


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e facilitava le relazioni commerciali tra i potentati levantini e siriani subordinati alle due potenze. Scritto in accadico – la lingua internazionale del tempo –, il trattato venne redatto in duplice copia, una di parte egiziana e una di parte ittita, e fu inciso su due tavole di argento. Queste non ci sono pervenute, ma conosciamo il contenuto dell’intesa sia grazie a una copia scritta su una tavoletta di argilla, ora conservata a Istanbul, sia dalle iscrizioni che tramandano la traduzione in egiziano geroglifico ed erano state incise una nel tempio di Amon a Karnak e una nel Ramesseo a Tebe. La conclusione della pace e lo scambio delle due tavole di argento furono celebrati in entrambe le corti; Hattusili III e Ramesse II, come anche le loro consorti e i loro figli si inviarono reciprocamente lettere di congratulazioni.

RECIPROCITÀ, MA NON SEMPRE... Un trattato di pace internazionale veniva in genere siglato da un matrimonio, che andava a legare i due sovrani contraenti dell’accordo. Matrimoni tra membri delle dinastie regie dell’Asia occidentale erano già in uso da molti secoli, anche se questa pratica divenne una prassi comune nella seconda metà del II millennio a.C. I faraoni prendevano in moglie sia le figlie dei re levantini a loro subordinati, sia principesse di altre grandi casate reali quali quella mittanica e quella babilonese. A differenza di quanto facevano i sovrani asiatici, che vedevano il matrimonio inter-dinastico in maniera reciproca e dunque davano in moglie le loro figlie, ma anche sposavano le principesse di altre casate, i faraoni non concedevano mai una donna della loro famiglia ai re asiatici. Questa mancanza di reciprocità veniva ripagata con donativi in oro fatti ai loro suoceri. I sovrani ittiti avevano dato al matrimonio interdinastico una valenza 54 a r c h e o


e una finalità squisitamente politiche. Essi, a partire da Suppiluliuma I, concedevano le principesse ittite in matrimonio ai sovrani dei potentati anatolici e siriani sotto il controllo ittita. Chi prendeva in moglie una figlia del Gran Re di Hatti era però obbligato a riconoscerle il rango di regina e soltanto un figlio nato da questo matrimonio sarebbe diventato l’erede al trono. I figli che nascevano da matrimoni con principesse ittite venivano cresciuti nella lingua, cultura e religione ittite; a loro volta, essi sposavano una donna della famiglia reale di Hatti e, quindi, in due generazioni, alcuni dei re dei Paesi sotto il controllo politico ittita erano diventati culturalmente ittiti al cento per cento e strettamente legati al Gran Re. Appare evidente quanto fossero diverse la concezione ittita del matrimonio interdinastico e quella egiziana. Sia Hattusili III che Ramesse

II avevano la volontà di concludere un matrimonio che legasse la famiglia reale egiziana e quella ittita, ma vi erano difficoltà oggettive, in quanto il matrimonio poteva essere solo unidirezionale, cioè con una principessa ittita che sposasse il faraone e non con anche l’invio di una donna egiziana di sangue reale alla corte ittita. Inoltre, Ramesse II aveva già una consorte ufficiale e un erede al trono, e questo si scontrava con le aspettative ittite.

UNA TRATTATIVA LUNGHISSIMA Ciò spiega come mai la trattativa diplomatica per la conclusione del matrimonio si sia protratta per ben quattordici anni. Una trattativa ben documentata nelle molte lettere scambiate tra la corte ittita e quella egiziana e rinvenute nelle collezioni di testi riportate alla luce nella capitale ittita. Nel lungo negoziato un ruolo importante fu svolto dalla

regina ittita Pudu-Heba, che aveva sposato Hattusili quando ancora non era il re di Hatti, ma solo un generale al servizio di Muwatalli II. Hattusili e Pudu-Heba si erano incontrati in Anatolia sud-occidentale, nella regione di Kizzuwatna, quando Hattusili era di ritorno dalla battaglia di Qadesh. Pudu-Heba aveva supportato il marito nella sua difficile ascesa al potere finché Mursili III era stato detronizzato. L’unione tra Hattusili III e PuduHeba fu coronata dalla nascita di molti figli e la regina, essendo molto piú giovane del marito, gli sopravvisse e continuò a esercitare il suo potere durante il regno del figlio Tuthaliya IV. Una donna di carattere cosí forte e volitivo non poteva perciò rinunciare a intervenire in una questione che riguardava il futuro di sua figlia. La corrispondenza tra la corte ittita e quella faraonica testimonia le varie fasi della trattativa matrimoniale,

Nella pagina accanto: statua che ritrae il faraone Ramesse II nel tempio di Luxor. In basso: disegno ricostruttivo di un carro ittita che si lancia contro le truppe egiziane nel corso della battaglia di Qadesh, combattuta, secondo la cronologia tradizionale, nel 1275 a.C.

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nella quale entrava anche un’altra delicata questione politica e cioè il supporto che il faraone dava a Mursili III/Urhi-Teshob, considerato da Hattusili III un nemico di Hatti. Il re ittita non avrebbe mai inviato una propria figlia al faraone se questi non avesse rinunciato a proteggere Mursili III.

UNA GRANDE COMUNICATRICE Particolarmente interessante è una lettera inviata da Pudu-Heba a Ramesse che si conserva nella bozza preparatoria in lingua ittita e destinata a essere tradotta in accadico (KUB 21.38). La missiva è un capolavoro di comunicazione, perché Pudu-Heba in essa lancia messaggi molto chiari al faraone, ma, al tempo stesso, ribadisce l’amicizia tra le due corti e la volontà di concludere il matrimonio. Pudu-Heba dichiara di aver ritardato la conclusione del matrimonio poiché non era in grado di assicurare una dote adeguata a sua figlia. Ma perché? La motivazione addotta da Pudu-Heba consiste nel fatto che Mursili III/Urhi-Teshob viene accusato di aver dilapidato tutti i beni della corona. Scrive la regina ittita a Ramesse II: «Dal momento che UrhiTeshub è lí da te, perché non gli chiedi tu stesso se è vero o no?». In questo modo Pudu-Heba fa sapere a Ramesse che la corte ittita è a conoscenza del fatto che il faraone ospita Mursili III e fa capire che questa ospitalità è uno scoglio per la realizzazione del matrimonio. Nella frase successiva Pudu-Heba lancia un’altra stoccata al faraone: afferma che sua figlia dovrà avere una dote superiore a quella di una principessa di Babilonia, dell’Assiria, o di Zulabi. La menzione di questo ultimo oscuro potentato siriano è particolarmente significativa, perché si tratta verosimilmente del territorio che Hattusili III aveva assegnato a Urhi-Teshub e nel quale era stato esiliato. È stato ipotizzato che Ra56 a r c h e o

messe II avesse sposato una figlia di Urhi-Teshub e Pudu-Heba vuole qui mostrare al faraone che la corte ittita ne è informata e, al tempo stesso, che Ramesse II si è abbassato a sposare la figlia di un esiliato ittita. Nella parte successiva della lettera Pudu-Heba insiste sul rango che alla principessa ittita dovrà essere

riconosciuto: ella chiede che sua figlia non sia relegata in qualche harem, ma sia presente a corte, e che abbia la possibilità di ricevere i messaggeri ittiti che giungeranno a Pi-Ramesse. Pudu-Heba rimarca la differenza tra la visione ittita del matrimonio inter-dinastico e quella egiziana e scrive: «La


Pudu-Heba ribadisce come i matrimoni interdinastici siano reciproci nelle corti asiatiche, ricordando che il re di Babilonia non solo ha dato una sua figlia in moglie a un principe ittita, ma anche sposato una principessa ittita. E Pudu-Heba previene quanto Ramesse II potrebbe dire a riguardo, scrivendo: «E se tu dirai “Il re di Babilonia non è un Gran Re!”, proprio non sai quale sia il Nella pagina accanto: tavoletta recante una copia del testo del trattato rango del re di Babilonia!». Pudu-Heba torna su questo punto di pace sottoscritto all’indomani della in un altro passo della sua lunga battaglia di Qadesh da Ramesse II e lettera, rispondendo a un commenHattusili III, da Hattusa. 1259 a.C. to fatto da Ramesse II a seguito di Istanbul, Museo Archeologico. una precedente lettera della regina In basso: tavoletta con una lettera di Hatti, che aveva riportato al farainviata da Naptera, una delle mogli di one quanto aveva appreso dal mesRamesse II, a Pudu-Heba, consorte di saggero babilonese inviato presso la Hattusili III, a proposito della pace tra corte ittita. Quest’ultimo avrebbe i loro due Stati, da Hattusa. Ankara, riferito a Pudu-Heba che i messagMuseo delle Civiltà Anatoliche.

figlia del re di Babilonia e la figlia del sovrano di Amurru che ho accolto come nuore non sono per noi un motivo di vanto? Io ho preso come nuora la figlia di un Gran Re e se venisse da lei un messaggero di suo fratello o di sua sorella non sarebbe per noi una cosa onorevole? Non avevo forse donne di Hatti da scegliere come nuore?».

geri babilonesi giunti a Pi-Ramesse non avevano potuto vedere la principessa di Babilonia che il faraone aveva sposato. Pudu-Heba, come già accennato, intendeva affermare che mai avrebbe concesso sua figlia se non le fosse prima stato assicurato un rango elevato e il diritto di presenziare agli eventi della corte. Tuttavia, poiché il faraone risponde indignato a Pudu-Heba negando la verità di quanto il messaggero babilonese aveva riferito alla regina ittita, quest’ultima si trova costretta nella lettera KUB 21.38 a blandire il faraone con parole amichevoli. In realtà, le principesse asiatiche andate in spose ai faraoni potevano finire dimenticate nell’harem; questo era successo già un secolo prima a una principessa figlia del re di Babilonia Kadashman-Enlil. Questi aveva scritto al genero, il faraone Amenofi III, lamentando il fatto che i messaggeri babilonesi arrivati in Egitto non avevano potuto incontrare la principessa babilonese sposa del faraone ed era stata addirittura presentata loro un’altra donna, come se fosse lei la loro signora. Nonostante Amenofi III risponda nella lettera (EA 1), rinvenuta a Tell el-Amarna, che tutto ciò non era vero, possiamo immaginare che a volte le molte mogli del faraone venissero effettivamente relegate nell’harem, indipendentemente dalla loro condizione regale di nascita. Ed è proprio questo che PuduHeba voleva evitare.

LE NOZZE Dopo lunghe trattative, finalmente nel trentaquattresimo anno di regno di Ramesse II, le due corti trovarono un accordo. E Ramesse II scrive a Pudu-Heba nella lettera KBo 28.23 che la principessa ittita sarà assegnata al Palazzo Reale e alla «signoria» in Egitto. Come era norma nelle trattative matrimoniali, il fidanzamento veniva ufficializzato attraverso la cerimonia dell’unzione: olio profumato a r c h e o 57


DONNE DI POTERE/2 Particolare di una pittura murale della tomba di Nebamon raffigurante danzatrici e musiciste, da Tebe. 1370 a.C. circa. Londra, British Museum.

veniva spalmato sulla fronte della futura sposa. Ovviamente, non fu Ramesse II a recarsi a Hattusa per il rito, ma inviò i suoi messaggeri. Nella lettera KUB 3.24+, mandata da Pudu-Heba a Ramesse II, è conservata una citazione da una precedente lettera del faraone, che le scrive: «Nel giorno in cui è stato versato olio profumato sulla testa di tua figlia, in quel giorno due grandi paesi sono diventati uno solo». E la regina ittita aggiunge: «Voi, due Grandi Re (= Ramesse II e Hattusili III), siete diventati fratelli uniti da una sola fratellanza». Questa lettera dimostra chiaramente il valore politico del matrimonio tra la principessa ittita e il faraone, un’u-

nione che andava a suggellare una pace e a unire le due famiglie reali dei Paesi piú potenti del tempo. Della principessa ittita conosciamo il nome, Shaushganu, composto con quello della divinità di tradizione hurrita Shaushga. Questa dea, dai caratteri simili a quella della mesopotamica Ishtar, era la protettrice di Hattusili III. Dopo il matrimonio la principessa ittita ricevette anche un nome, Maathorneferure, e le venne riconosciuto il titolo di «Grande sposa reale, Figlia del Gran Re di Hatti» come è documentato nell’iscrizione posta sulla statua colossale di Ramesse II con la consorte ittita a Tanis (vedi foto a p. 60).

UNA FONTE DI PARTE Non ci sono giunte fonti ittite sul matrimonio e possiamo ricavare informazioni solo da un testo egiziano, la «Stele del matrimonio», iscritto sulla facciata sud del nono pilone a Karnak, su alcuni blocchi a Elefantina, e anche ad Abu Simbel nel lato meridionale della terrazza del grande tempio di Ramesse II. Si tratta di un documento di propaganda a uso interno, che, dunque, riporta una descrizione di parte del matrimonio, volta a enfatizzare la superiorità egiziana rispetto agli Ittiti. Qui Hattusili III viene presentato addirittura come un supplice che si prostra di fronte al faraone e gli offre la propria figlia. In realtà, Hattusili III non accompaTestina femminile gnò la figlia in Egitto: una scorta ittita guidò il corteo con la princiin avorio, forse pessa fino al confine dei possedifacente parte del menti ittiti nel paese di Amurru e, da manico di uno qui fino in Egitto, ella fu accompastrumento da gnata anche da truppe egiziane. Sapcosmesi, da Medinet el-Gurob. piamo dalla «stele del matrimonio» Regno di Amenofi che la principessa viaggiava con un corteo di soldati, fanti e guerrieri su III, 1390-1352 a.C. carro. Il testo enfatizza, con meraviNew York, The glia ma anche con soddisfazione, che Metropolitan i membri del corteo ittita mangiavaMuseum of Art. 58 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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no e bevevano insieme alla scorta egiziana, «erano come una cosa sola, come fratelli, senza avversione gli uni verso gli altri, in pace e fratellanza». Inoltre, i sovrani dei Paesi che il corteo attraversava vedevano che Ittiti ed Egiziani erano in pace e marciavano insieme, dicevano: «Come sono grandi questi miracoli che stiamo vedendo con i nostri occhi!». La principessa portava con sé, come dote, un numero ingente di schiavi e bestiame. Entrambi i sovrani avevano assicurato il passaggio di questo corteo e avevano scritto ai re dei Paesi siriani e levantini a loro subordinati di prendere in consegna questi prigionieri, queste man-

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drie di cavalli e di buoi, e questi greggi di pecore fino all’arrivo in Egitto. Quando, finalmente, la principessa giunse a Pi-Ramesse, come leggiamo nella «stele del matrimonio», il faraone poté conoscerla e «Sua Maestà vide che essa era bella di volto, la prima tra le donne e tutti i Grandi l’ammirarono». Non sappiamo molto della vita alla corte egiziana della principessa ittita, divenuta Grande Consorte di Ramesse II. Tuttavia, grazie a recenti ritrovamenti archeologici a Pi-Ramesse in un edificio che ospitava la carreria reale possiamo ipotizzare che una guarnigione ittita di scorta alla principessa risie-

desse con lei in Egitto. Sono state infatti ritrovate matrici in arenaria per forgiare l’armatura di scudi di tipologia tipicamente ittita.

I VESTITI NUOVI DELLA PRINCIPESSA Si ritiene che la principessa ittita sia stata portata nell’harem di Medinet el-Gurob, alle porte del Fayyum. Un papiro proveniente da questo sito (Papiro U) menziona la realizzazione di vesti destinate alla principessa ittita, forse a opera di lavoratrici straniere. La nascita di un figlio era una grande aspettativa per la corte ittita, come inferiamo da una lettera che


Frammento del Papiro U di Medinet el-Gurob recante un testo nel quale è menzionata, con il nuovo nome di Maathorneferure, la principessa ittita Shaushganu, andata in sposa a Ramesse II. Londra, Petrie Museum of Egyptian Archaeology.

Tanis (Egitto). Statua colossale frammentaria di Ramesse II, che in origine comprendeva l’immagine della principessa ittita Shaushganu, citata nell’iscrizione che corre sulla scultura come «Grande sposa reale, Figlia del Gran Re di Hatti».

Hattusili III scrive a Ramesse II (KUB 3.83), purtroppo frammentaria. Possiamo immaginare che il re ittita volesse in questa lettera far comprendere al faraone che un figlio nato da questo matrimonio avrebbe dovuto godere di un rango e una posizione elevata in Egitto. Invece nasce una femmina, come leggiamo nella lettera KBo 1.23, e Hattusili scrive a Ramesse II: «Questa figlia che ti è stata generata, affidala a noi! E noi la porteremo alla regalità in un altro paese. E il paese a cui l’assegneremo per la regalità sarà legato all’Egitto». Evidentemente, il re di Hatti temeva che la propria nipote sarebbe stata in Egitto solo come una delle molte figlie di Ramesse II, e invece la corte ittita avrebbe voluto destinarla a un matrimonio con un altro Gran Re alleato sia degli Ittiti che degli Egiziani. Tuttavia, era inaccettabile per la corte faraonica che una figlia di Ramesse II fosse cresciuta in un Paese straniero. Come abbiamo detto, la principessa ittita aveva portato con sé dame di compagnia e servitrici che verosimilmente avrebbero trascorso tutta la loro vita in Egitto. A el-Gurob, negli scavi della necropoli di XIX dinastia, il celebre egittologo britannico William Matthew Flinders Petrie aveva rilevato una fossa con

all’interno oggetti personali femminili, collane, recipienti per cosmetici, uno specchio, e vesti, intenzionalmente bruciati. La fossa era vicino alle sepolture. È stato osservato che la raccolta delle Leggi Ittite stabilisce cosa si deve fare dei beni personali di una donna ittita che si trovi a morire in un Paese straniero e lontano. Secondo il paragrafo 27 delle Leggi, se una donna ittita muore in una terra remota e la sua dote non può essere restituita ai suoi parenti, allora i suoi effetti personali dovranno essere bruciati. Possiamo dunque ipotizzare che gli oggetti rinvenuti da Petrie possano essere appartenuti a una delle dame che avevano accompagnato la principessa ittita e l’avevano servita in Egitto per tutta la loro vita. PER SAPERNE DI PIÚ Violetta Cordani, Lettere fra Egiziani e Ittiti, Paideia, Torino 2017 Stefano de Martino, La civiltà degli Ittiti, Carocci, Roma 2020 Sergio Pernigotti, L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace, Paideia, Torino 2010

NELLA PROSSIMA PUNTATA • Cleopatra a r c h e o 61


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L’IMPERATORE CHE AMAVA LA STORIA

NEL 1934 ROBERT GRAVES DÀ ALLE STAMPE IO, CLAUDIO, AUTOBIOGRAFIA ROMANZATA DELL’IMPERATORE SALITO AL TRONO PER ACCLAMAZIONE DOPO L’ASSASSINIO DI CALIGOLA. UN PERSONAGGIO A CUI MOLTI SUOI CONTEMPORANEI GUARDAVANO CON DIFFIDENZA, FORSE PERCHÉ INTIMORITI DALLA SUA VASTA CULTURA... di Giuseppe M. Della Fina

U

no dei romanzi storici piú noti del Novecento è I, Claudius (Io, Claudio, nella traduzione italiana) di Robert Graves, nel quale viene ripercorsa l’ascesa al potere dell’imperatore romano. Il volume fu pubblicato per la prima volta nel 1934, dopo anni difficili per il poeta, saggista e narratore inglese, nato a Wimbledon nel 1895 (vedi box a p. 64). L’io narrante è Claudio stesso, che ripercorre le sue vicende a partire da quando era un ragazzo. Ma partiamo dalla fine: Claudio, andando oltre alle sue stesse attese, e dopo l’uccisione di Caligola, è divenuto imperatore con il sostegno dei pretoriani. Siamo nel 41 d.C. e Claudio, che era nato nel 10 a.C. a Lugdunum (l’odierna Lione), era ormai un uomo maturo, anziano per i canoni dell’epoca. Negli ambienti di corte e in Senato era piú noto per i suoi interessi storici e letterari, che come possibile leader politico o militare. Come traspare dalle fonti giunte sino a noi, la sua cultura non veniva compresa e, anzi, era oggetto di scherno. 62 a r c h e o


Busto dell’imperatore Claudio. 41-54 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: Robert Graves in una foto scattata negli anni Quaranta del Novecento.


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ROBERT GRAVES Lo scrittore, poeta e saggista inglese nacque a Wimbledon nel 1895, compí i suoi studi presso il St. John’s College di Oxford, e, come molti giovani della sua generazione, combatté nella prima guerra mondiale durante la quale venne ferito seriamente al punto che, in un primo momento, si ritenne che fosse stato ucciso. Il racconto dell’esperienza di guerra confluí piú tardi nel libro autobiografico Goodbye to all that (1929). Insegnò in diverse università, ma intensa fu soprattutto la sua attività di saggista e scrittore. Si possono ricordare, almeno, I, Claudius (1934), Claudius the God and the Wife Messalina (pubblicato anch’esso nel 1934), Count Belisarius (1938), The Golden Fleece (1944), King Jesus (1946), The White Goddess (1948), Homer’s Daughter (1955), The Greek Myths (1955-1962), Hebrew Myths (1964). Diverse sono anche le sue raccolte di poesia. Graves è morto a Deià, sull’isola di Maiorca, nel 1985.

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Robert Graves fa raccontare al suo Claudio, nella fase convulsa della proclamazione, i pensieri di quei momenti: «sarei stato in grado, d’ora in avanti, di convocare riunioni pubbliche con grande partecipazione di gente per ascoltare la lettura delle mie opere storiche, che mi erano costate trentacinque anni di fatica». E ancora: «pensavo, inoltre che, come Imperatore, avrei avuto modo di consultare gli archivi a mio

LE FONTI DELLO SCRITTORE Nelle recensioni al suo romanzo, Robert Graves venne accusato di avere utilizzato soltanto Tacito e Svetonio come fonti e di avere fatto ricorso a una «vigorosa fantasia». Nella nota preliminare del suo secondo romanzo dedicato all’imperatore, Cladius the God and the Wife Messalina, lo scrittore respinge l’accusa e cita, in dettaglio, le sue letture ulteriori: Dione Cassio, Plinio, Varrone, Valerio Massimo, Orosio, Frontino, Strabone e numerose altre.

piacimento, per valutare l’autenticità di certi resoconti, che mi erano sembrati scarsamente attendibili, e di appurare la verità dei fatti storici».

I DESIDERI DI UNO STORICO La gioia è legata quindi alla possibilità di avere un pubblico ampio per i propri scritti e di poter accedere agli archivi segreti a piacimento: sono i desideri di uno storico, piú che di un uomo politico e, cosí, Graves mostra di conoscere bene le fonti antiche relative all’imperatore e l’immagine costruita intorno alla sua figura. Nel romanzo traspare piú volte la riflessione su cosa sia la storia e su come si possa ricostruirla. Nelle righe finali, in un capovolgimento delle parti, lo scrittore fa dichiarare all’imperatore il suo modo d’intendere la storia e di provare a ricostruirla: «In fede ritengo di non avere abusato della libertà che è un privilegio dello storico provetto, della libertà cioè di inventare di sana pianta i dialoghi relativi ad argomenti dei quali conosce tutt’al piú, e solo vagamente, la sostanza». Parole con le quali Graves rivendica il suo modo di narrare la storia. Sono considerazioni che uno storico non può condividere, ma costituiscono le libertà che uno scrittore deve prendersi per provare ad avvicinarsi alla personalità analizzata e a cercare di comprendere la spinta segreta che lo ha portato a prendere le singole decisioni e, piú in generale, a portare avanti la propria visione o ideologia. Nel testo ricorrono altre affermazioni su come scrivere di storia: il dilemma tra andare alla ricerca di un pubblico ampio (di divulgare, verrebbe da scrivere), o di riferirsi soltanto agli «addetti ai lavori». Alcuni capitoli prima, nel IX per la precisione, Graves immagina l’in-

L’EDIZIONE ITALIANA Dei romanzi I, Claudius e Claudius the God and the Wife Messalina esiste un’edizione italiana recente con i titoli Io, Claudio (2021) e Il divo Claudio (2020) pubblicati da Corbaccio con la traduzione, dall’originale in lingua inglese, di Carlo Coardi. In alto: la copertina di Io, Claudio, pubblicato per i tipi di Corbaccio. A sinistra: la copertina della prima edizione originale di I, Claudius, pubblicata nel 1934.

contro tra Claudio – ancora giovane e senza aspettative di attività politica –, Tito Livio e Asinio Pollione. E si diverte a imbastire una discussione che i tre potrebbero avere avuto proprio a proposito di come si debba scrivere la storia. Asinio Pollione si rivolge a Claudio e chiede: «Hai mai letto nulla di Tito Livio? Di’ la verità: le sue opere non sono piú sceme delle mie?». (segue a p. 68) a r c h e o 65


Claudio proclamato imperatore, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1867. Collezione privata. Figlio di Druso Maggiore, Claudio visse appartato dalla vita politica fino all’età di cinquant’anni, ma dopo l’assassinio di Caligola (41 d.C.) venne acclamato imperatore dai pretoriani.

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UN BUON AMMINISTRATORE Gli storici antichi hanno generalmente giudicato in maniera negativa l’attività di governo di Claudio, ritenendolo troppo debole e lontano dai problemi legati all’amministrazione. Negli ultimi decenni il giudizio è stato rivisto e, in parte, addirittura ribaltato. Claudio avrebbe ristrutturato gli assetti di governo tradizionali favorendo la formazione di una burocrazia imperiale articolata e aperta ai liberti. In particolare creò quattro cancellerie, che, all’inizio, provvidero alle esigenze della sfera privata dell’imperatore, ma ben presto, divennero organi centrali dello Stato e in cui andò a concentrarsi gran parte del potere.

Cammeo in calcedonio con il ritratto dell’imperatore Claudio, vestito di tunica e toga e con lo scettro. 41-54 d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto: statua di Livia come Cerere, con la cornucopia e un fascio di spighe di grano. 20-40 d.C. Parigi, Museo del Louvre. 68 a r c h e o

Lo scrittore fa rispondere al futuro imperatore: «Devo dire che sono piú facili da leggersi». Asinio Pollione lo incalza: «Piú facili? Cosa intendi?». Claudio risponde: «Fa pensare i personaggi antichi come se vivessero nei nostri tempi». Il dialogo immaginario prosegue ed è Asinio Pollione a riprendere la parola, rivolgendosi all’altro illustre storico: «Vedi, Livio, il giovane ha indicato il tuo punto debole. Ai tuoi Romani di sette secoli fa, tu attribuisci idee, usi, discorsi assurdamente moderni. Facile da leggersi, non nego; ma non è storia». Poi prosegue: «la poesia è Poesia, l’oratoria è Oratoria, e la storia è la Storia e non si può mescolarle (...) la storia è la descrizione dei fatti nel modo in cui sono realmente accaduti, la descrizione veritiera della vita o della morte dei personaggi, la registrazione di quanto dissero o fecero: i voli epici deformano soltanto la realtà».

NON L’ELEGANZA, MA DILIGENZA ED ESATTEZZA La discussione prosegue e Tito Livio chiede al giovane: «Claudio, amico mio, tu aspiri a diventare uno storico; di noi due vecchi quale sceglierai come modello?». Il futuro imperatore si guarda intorno, indeciso e poi risponde: «Credo che sceglierei Asinio Pollione. Dato che non potrò raggiungere la sublime eleganza letteraria di Livio, farò almeno il possibile per imitare la diligenza e l’esattezza di Pollione».Tito Livio si ritiene offeso dalla risposta e allora Asinio Pollione lo apostrofa: «Tito non mostrarti geloso di questo unico mio discepolo; i tuoi sono legione e sparsi nel mondo intero». Appare evidente come, dietro il confronto immaginato con grande vivezza, sia Robert Graves a interrogarsi sul suo metodo di fare storia e sul suo pubblico potenziale. Nello stesso capitolo, ci sono anche considerazioni diverse e relative agli accorgimenti necessari per tentare la scalata nel mondo politico


UN’ATTRICE PROVETTA Nel romanzo di Graves, Claudio tratteggia la figura di Livia, la moglie dell’imperatore Augusto. Siamo nel capitolo terzo: «Mia nonna era una compiutissima attrice; la castigatezza esteriore della sua condotta, la finezza del suo spirito, la cortesia dei suoi modi ingannavano chiunque. Ma nessuno le voleva bene, in realtà; la malignità di animo comanda rispetto, non affetto».

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del tempo e forse non solo. Conoscitore profondo delle dinamiche del potere, Asinio Pollione offre alcuni consigli al giovane Claudio per proteggersi e – come accadrà – per raggiungere il successo: «Ascoltami. Esagera la tua zoppía, la balbuzie e la tua debolezza fisica; parla come uno senza senno, non tentare di frenare il tic nervoso della tua testa, né di disciplinare i gesti delle tue mani in pubblico. Se tu fossi in grado di antivedere le cose come me, ti persuaderesti che in questa tattica risiede l’unica speranza di salvezza per te e, forse, di gloria». Insomma rendersi invisibili,

fingere di non essere all’altezza del compito, cosí da non divenire oggetto di attacchi quando non si è ancora sufficientemente forti.

GLI INTRIGHI DELLA CORTE Nel romanzo è descritta in piú occasioni la lotta per il potere nella corte imperiale, che viene presentata – sempre sulla scorta delle fonti storiche e letterarie antiche, basti pensare a Tacito e a Svetonio – come senza scrupoli, con alleanze che si stringono e si sciolgono secondo il momento, con il ricorso frequente al raggiro, all’inganno, sino ad

PROVINCIALI IN SENATO Tra le riforme portate avanti da Claudio vi fu quella di aprire l’accesso alla carica di senatore anche a persone provenienti dalle province, rinnovando cosí le basi sulle quali il Senato si reggeva. La richiesta era stata avanzata da alcuni dignitari della Gallia Comata e l’imperatore l’accolse. La decisione sollevò una forte opposizione e, per spiegare la scelta, l’imperatore, dopo avere convocato il Senato, tenne un discorso pubblico in cui mise in evidenza come persone di origine straniera avevano dato un contributo decisivo allo sviluppo di Roma sin dai tempi piú antichi. Quel discorso, tenuto nel 48 d.C., venne trascritto e il testo è giunto sino a noi grazie alla versione incisa sulla Tavola di Lione, cosí chiamata dalla città in cui venne scoperta e qui riprodotta in foto. Il reperto si conserva nel complesso museale di Lugdunum, sulla collina di Fourvière, a Lione.

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arrivare alla violenza e all’omicidio. Un gioco di potere senza regole che vede coinvolti uomini, ma anche donne come Livia, la moglie di Augusto: «Augusto reggeva il mondo, ma Livia reggeva Augusto», Graves fa osservare a Claudio. Centrale nel romanzo viene considerato il fatto che Claudio fosse un intellettuale e, probabilmente, è stato tale aspetto a suscitare l’attenzione dello scr ittore verso l’imperatore che regnò tra il 41 e il 54 d.C. In particolare, gli interessi di Claudio andavano verso la storia: prima per quella a lui contemporanea, poi per quella piú


antica, concentrando le sue ricerche su quella etrusca e cartaginese, secondo le fonti giunte sino a noi. Purtroppo non possiamo giudicare il valore delle sue opere, poiché non ci sono pervenute. Sappiamo soltanto che quella dedicata agli Etruschi era articolata in venti li-

bri e quella rivolta ai Cartaginesi in otto. Siamo informati, inoltre, che entrambe erano state scritte in greco, la lingua della cultura nel Mediterraneo del tempo. Nel romanzo gli interessi dell’imperatore per il mondo etrusco vengono ricordati espressamente: il Clau-

In basso: il porto di Ostia, con il grande bacino fatto costruire da Claudio, in una incisione realizzata da Giovanni Antonio Brambilla (da un originale di Etienne DuPérac) per l’opera Speculum Romanae Magnificentiae. 1581. New York, The Metropolitan Museum of Art.

L’ATTIVITÀ EDILIZIA Negli anni di governo di Claudio furono realizzate numerose opere pubbliche e questo suo impegno è riconosciuto anche nelle fonti storiche antiche a lui avverse o, almeno, non simpatizzanti. Si possono ricordare la costruzione di un nuovo bacino per il porto di Ostia, divenuto necessario per

consentire la gestione dell’accresciuta quantità di merce che vi arrivava; il prosciugamento del lago del Fucino; la creazione di acquedotti – come quello dell’Aqua Claudia, iniziato da Caligola nel 38 d.C. e completato sotto Claudio nel 52 d.C. con i suoi settanta chilometri di lunghezza – e strade.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/7

te con un accorgimento letterario. A Claudio fa dichiarare: «Due anni sono trascorsi da quando finii di scrivere il lungo racconto delle strane vicende che permisero a me, Tiberio Claudio Druso Nerone Germanico [vale a dire Claudio], lo storpio, il balbuziente, l’idiota che nessuno dei suoi ambiziosi e sanguinari parenti giudicò mai che valesse la pena di decapitare, o avvelenare, o costringere al suicidio o confinare in un’isola deserta (...) di vedermi inaspettatamente un bel giorno acclamato Imperatore».

dio tratteggiato da Graves, dialogando sempre con Tito Livio e Asinio Pollione, dice di non credere al fatto che Porsenna avesse tolto l’assedio a Roma ammirato dalla virtus eroica di Orazio Coclite e Muzio Scevola, ma che il re, venuto da Chiusi, fosse riuscito a prendere Roma. In proposito, lo scrittore fa affermare a Claudio: «Ho visto a Chiusi la tomba di Porsenna e c’è un fregio scolpito nel quale si vedono uscire dalla porta di Roma vari cittadini soggetti al giogo, e un sacerdote etrusco, con le forbici in mano, nell’atto di tagliare la barba ai sacerdoti romani».

FU VERA EGEMONIA? Si tratta di un’invenzione, di un espediente letterario, ideato da Graves. Oggi, però, anche gli storici ritengono che Porsenna riuscí a esercitare una forma di egemonia su Roma per alcuni anni a partire dal 509 a.C., data della cacciata di Tarquinio il Superbo e del superamento della monarchia a favore di assetti istituzionali e politici di tipo repubblicano. Piú avanti lo scrittore fa affermare al suo Claudio: «Dionisio di Alicarnasso, che nelle sue opere non si mostrò ostile a noi romani, afferma che il Senato decretò un trono d’avorio, lo scettro, la corona d’oro e una toga trionfale a Porsenna: il che può significare solo che il Senato gli tributò onori sovrani». Nel racconto di Claudio vi sono giudizi sulle persone che aveva avuto modo d’incontrare prima di salire al trono: Augusto, di cui vengono descritti la grandezza e il crepuscolo dovuto all’incedere dell’età e alla difficoltà di sciogliere il nodo della successione. Tiberio, del quale si segue la parabola politica, soffer72 a r c h e o

Il profilo di Claudio su un cistoforo (pregiata moneta d’argento cosí chiamata perché sul diritto rappresentava la sacra cista bacchica dalla quale usciva un serpente) battuto dalla zecca di Pergamo. 41-54 d.C. Nella pagina accanto: statua colossale di Claudio nelle vesti di Giove, con corona civica, scettro e patera e, ai suoi piedi l’aquila, da Lanuvio (scavi 1865). Dopo il 41 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino.

UN UOMO DISILLUSO Il nuovo romanzo narra gli anni di governo di Claudio, immaginando che sia sempre l’imperatore a raccontare le sue memorie. La vita di corte e la lotta per il potere continua a essere descritta e due donne diventano protagoniste: Messalina e Agrippina, la terza e la quarta moglie. L’ultima intenta a muoversi per portare sul trono il figlio Nerone, ricorrendo a tutte le astuzie, le alleanze e i delitti. Il Claudio delineato da Graves non si fa illusioni su quest’ultimo anche se comprende che salirà sul trono dopo di lui: «Va attorno con l’aria di finta modestia propria delle meretrici d’alto rango o dei filosofi di cartello (...) Auguro a Seneca di goderselo, il suo Nerone. Lo auguro ai suoi amici; lo auguro a sua madre». Soprattutto, il Claudio narrato da Graves spera, in cuor suo, che, dopo la sua morte e quella di Nerone, possa essere ripristinata la repubblica, dal momento che: «la monarchia ci guasta il cervello».

mandosi sulla lotta spietata presente all’interno e intorno alla sua corte. Caligola viene descritto da quando era un bambino che «schiamazzava e faceva terribili mulinelli con la sua spada, come gli avevano insegnato i soldati della cavalleria», mentre era portato sulle spalle da Cassio Cerea; sino alla morte violenta: «Il colpo di grazia lo vibrò un centurione chiamato Aquila, che gli affondò la spada nell’inguine; ma dieci altre spade gli trafissero il petto e il ventre». Va aggiunto che I, Claudius ebbe un seguito: Claudius the God and the NELLA PROSSIMA PUNTATA Wife Messalina. Subito, in apertura, Graves si ricollega al libro preceden- • Henryk Sienkiewicz


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SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

PER IL PIÚ PREZIOSO DEI BENI

COME GIÀ RICORDAVA IL GRANDE ARCHITETTO E TRATTATISTA LATINO VITRUVIO (ATTIVO NELLA SECONDA METÀ DEL I SECOLO A.C.), SI PUÒ RESTARE DIGIUNI ABBASTANZA A LUNGO PER POI SFAMARSI CON NUMEROSE VARIETÀ DI CIBI, MA NON ALTRETTANTO PUÒ FARSI PER LA SETE, PERCHÉ SOLTANTO L’ACQUA LA PLACA, CONFERMANDOSI INDISPENSABILE PER LA SOPRAVVIVENZA, COME PERALTRO ACCADE A QUASI TUTTI GLI ESSERI VIVENTI. DA QUESTA CONSTATAZIONE SI PUÒ FACILMENTE INTUIRE L’IMPORTANZA ASSUNTA DALL’APPROVVIGIONAMENTO IDRICO NELLA STORIA DELLE COMUNITÀ UMANE. IN PARTICOLARE, NELLE PAGINE CHE SEGUONO, CI SOFFERMEREMO SULLE RISPOSTE CHE AL PROBLEMA FURONO DATE NEL CORSO DELL’ETÀ CLASSICA di Flavio Russo

La realizzazione di un qanat, in Iran, in una foto del 1959. Si tratta di un sistema di captazione dell’acqua messo a punto nell’antica Persia, forse già nel II mill. a.C., basato sulla creazione di cunicoli sotterranei che, per gravità, convogliano l’acqua dalle falde freatiche degli altipiani fino a farla affiorare sui campi. 74 a r c h e o


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SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

LA CAPTAZIONE

P

er captazione si deve intendere il prelievo dell’acqua da una sorgente, soprattutto per l’immissione in un acquedotto. In tal caso la condizione indispensabile affinché il flusso sia congruo (da accertarsi con indagini idrometriche ripetute per alcuni anni), oltre all’ovvia bontà dell’acqua, è insita nel suo sgorgare abbondante e senza eccessive escursioni nel corso dell’anno. I punti della superficie terrestre in cui le acque fuoriescono, la loro scaturigine geologica, si definiscono sorgenti e sebbene sembrino a prima vista tutte uguali, appartengono in realtà a diverse tipologie, ognuna con sue precipue peculiarità. Si definiscono, infatti, sorgenti di deflusso quelle che si originano negli interstizi del contatto fra strati permeabili su sottostanti strati impermeabili, sgorgando dove ambedue affiorano. Sono, invece, sorgenti di origine carsica quelle che, generate da pioggia e neve infiltratesi nelle cavità carsiche, dopo un tortuoso percorso interno fanno emergere l’acqua da una fenditura della roccia, spesso con cospicui getti. Sono, poi, sorgenti di valle quelle che affiorano quando il piano di campagna interseca la falda freatica consentendo cosí la fuoriuscita dell’acqua. Le sorgenti di versamento, a loro volta, provengono da detriti impregnatisi d’acqua su di uno strato impermeabile che ne determina l’emissione. Sorgenti di sfioramento sono ancora quelle che si sono formate in serbatoi naturali di accumulo imprigionati in strati impermeabili, che consentono la fuoriuscita dell’acqua in corrispondenza delle soluzioni di continuità. Sorgenti artesiane, infine, sono quelle nelle quali l’acqua risale per effetto della differente pressione provocata dalla quota della falda. Gli accertamenti idrometrici preliminari citati poc’anzi non garantiscono in alcun modo la rispondenza igienico-sanitaria dell’acqua, e ciò vale soprattutto per il passato, quando le analisi chimiche sulla potabilità non erano neppure immaginabili. Per farsene un’idea attendibile, si ricorreva pertanto alla valutazione di una serie di indizi che, empiricamente, certificavano la salubrità dell’acqua e la sua conseguente idoneità alla fruizione umana. Cosí Vitruvio ricordava i saggi preli76 a r c h e o


La risorgiva del Pis del Pesio, in Alto Val Tanaro, (Cuneo), è particolarmente spettacolare agli inizi della primavera, quando le acque di scioglimento riempiono il sifone terminale e sgorgano, sotto forma di cascata, da una parete rocciosa, a oltre 20 m di quota rispetto al sentiero sottostante. Nella pagina accanto, in basso: tavoletta su cui è incisa la pianta della città sumerica di Nippur, con la rete dei canali che la rifornivano d’acqua. 1500 a.C. circa. Filadelfia, Penn Museum. In basso: restituzione grafica della pianta di Nippur e dei suoi canali.

CASA DI MARDUK

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CAMPO DI MARDUK

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carta dei campi e dei canali presso nippur (1300 a.C.)

minari da effettuarsi per la captazione dell’acqua: «I saggi e le verifiche debbono farsi in questo modo. Se le acque scorrono all’aperto, prima di cominciare a incanalarle, bisogna osservare e considerare con attenzione la corporatura della gente che abita nei dintorni della sorgente; se i corpi sono robusti, il colorito florido, le gambe senza difetti e gli occhi non sono cisposi, le acque sono sicuramente da considerarsi di sicura bontà. Cosí, se la nuova sorgente è stata trovata scavando e l’acqua, versata in un vaso corinzio o di altro genere purché fatto con bronzo di buona qualità, non lascia macchia, è ottima. Come pure, se si fa bollire l’acqua nel bronzo per un tempo lungo e, dopo averla lasciata riposare e averla travasata, nel fondo del vaso non si trova né sabbia né fango, quest’acqua è di ottima qualità. Inoltre, se, messi dei legumi si cuociono in poco tempo perfettamente, questo indica che l’acqua è buona di sapore e salubre. Inoltre, se l’acqua della fonte è pulita e trasparente e, là dove arriva o scorre, non crescono muschi né giunchi e il luogo non é inquinato da qualcos’altro ma sembrerà pulito, questi sono segni da cui si deduce che l’acqua è leggera e assolutamente salubre» (De architectura VIII, IV). Risultate positive queste valutazioni preliminari si scavano apposite gallerie, diramate in genere in forma di mano aperta, per incrementare al massimo il prelievo dalla falda freatica e convogliando i diversi rami, le dita, in un unico canale di deflusso, il braccio.

ACQUEDOTTI SOTTERRANEI Il sistema di captazione e di conduzione sotterranea dell’acqua fino alla sua destinazione d’uso fu pure adottato intensamente in Persia, se non inventato già intorno al II millennio a.C., ed è ancora oggi ampiamente impiegato in Iran, per estrarre acqua potabile e per uso irriguo. Il suo criterio informatore, col nome di qanat, si diffuse rapidaa r c h e o 77


SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

mente in tutte le regioni aride del Mediterraneo e alle sue spalle si riscontrano sempre grossi centri abitati o grandi aziende agricole, non giustificandosi altrimenti gli oneri ingenti di costruzione e manutenzione. In pratica, un qanat è formato da cunicoli sotterranei che, per gravità, convogliano l’acqua dalle falde freatiche degli altipiani fino a

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farla affiorare sui campi sottostanti. In Iran la rilevanza dei qanat è stata equiparata a quella degli acquedotti romani, con la non secondaria differenza di essere ancora in uso, in maniera sistematica e ampliata, a differenza dei secondi, ormai trasformatisi in mere presenze archeologiche. Come accennato, durante il II millennio a.C.

Veduta aerea di alcuni qanat tuttora in funzione in Iran.


A destra: l’interno di un qanat persiano. In basso, a destra: sezione schematica dello scavo di un qanat.

in buona parte del Vicino Oriente fu adottata la tecnica degli acquedotti sotterranei per l’approvvigionamento dell’acqua. Si costruivano mediante cunicoli che si dipanavano secondo la morfologia dei luoghi, comunicanti con la superficie mediante pozzi d’areazione. Ingentissimi erano i rischi che correvano gli scavatori, provocati, oltre che dalle frane frequenti nei terreni scarsamente coerenti, da gas asfissianti, tanto che, nelle pagine di Vitruvio, s’incontra il primo riferimento a quella letale presenza nei pozzi e a come rendersene conto, con questo semplice espediente: «Per prevenire questi pericoli [asfissia e intossicazione da ristagni di gas], ecco come fare. Si discenda nel pozzo tenendo una lampada accesa: se continua a bruciare senza mutazioni, non vi è alcun rischio a proseguire. Se invece per la forza del vapore [gas] la lampada si spegne, si dovrà allora a destra e a sinistra del pozzo, scavare degli sfiati: da queste aperture il vapore potrà fuoriuscire, come dalla ciminiera di un forno. Quando il lavoro sarà completato e l’acqua comparirà, si costruirà la muratura del pozzo, di modo che non vi siano piú spiragli».

Proprio per meglio valutare l’insieme delle problematiche tecniche connesse con la costruzione dei qanat e, al contempo, i vantaggi che garantivano nella captazione dell’acqua, è significativo ricordare che, a tutt’oggi, in Iran vi sono circa 22 000 qanat, per uno sviluppo sotterraneo di circa 300 000 chilometri. Loro tramite viene fornito il 75% di tutta l’acqua utilizzata nel Paese, sia per irrigazione che per usi domestici, e fino a non molti anni fa la maggioranza degli abitanti di Teheran si dissetava grazie ad alcuni qanat che attingevano l’acqua ai piedi del monte Elbrus.

LA PAROLA ALL’ESPERTO Le modalità di costruzione dei qanat, ben note anche ai tecnici romani, sebbene sporadicamente adottate, non sono mutate nel tempo, a partire dallo loro ubicazione, individuata nelle falde di una montagna o nelle pendici collinari, formate in genere da depositi alluvionali. Un esperto valuta nel corso dell’autunno l’idoneità del sito, individuando soprattutto tracce di infiltrazioni superficiali. Se e quando lo ritiene valido, dà a r c h e o 79


SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA ACQUA DALL’ARIA Ricostruzione assonometrica di un «pozzo ad aria» secondo l’ingegnere ucraino Friedrich Zibold, che per primo diede notizia dell’esistenza di simili strutture.

La sommità dei cumuli di pietrisco aveva al centro un incavo imbutiforme, che facilitava la circolazione dell’aria e quindi la successiva condensazione del vapore in essa contenuto, che, gocciolando verso l’interno, contribuiva ad abbassare ulteriormente la temperatura del pietrisco medesimo. Intorno al cumulo correva un basso muretto di pietra volto a impedire l’avvicinamento alla sua base di uomini e di animali, per evitare che inquinassero l’acqua, e, al contempo, che l’acqua piovana fangosa finisse nella conca.

Al di sotto del cumulo di pietrisco stava una sorta di piattaforma concava di conglomerato impermeabile, suddiviso in spicchi per comodità di realizzazione, munito al centro di un foro che convogliava l’acqua in un collettore. 80 a r c h e o

Il collettore era costituito da un sottile solco che, dopo aver raccolto tutta l’acqua condensata dal pietrisco, la conduceva all’esterno della base del cumulo, immettendola in una tubatura o in una canaletta.

Il terreno su cui veniva costruito l’impianto doveva essere abbastanza saldo e privato di qualsiasi vegetazione, idoneo perciò a sopportare senza cedimenti parziali il peso del cumulo di pietrisco.

Nella pagina accanto, dall’alto: una veduta esterna e un tratto del nucleo interno del deumidificatore a torre realizzato dal belga Achille Knapen nel 1930, sulla cima di una collina a Trans-en-Provence, in Francia, sulla base dei progetti di Friedrich Zibold.


avvio all’escavazione di un pozzo di saggio di circa 1 m di diametro. L’opera viene portata avanti da due scavatori che, lavorando in quell’angusto spazio, si avvalgono di un rudimentale verricello posto in superficie, per l’estrazione del materiale di risulta. Riempite le ceste, gli aiutanti le estraggono, accatastandone il materiale intorno alla bocca del pozzo in modo da isolarla da ricadute accidentali di sassi o di pioggia. Nei casi migliori l’acqua si incontra intorno ai 15 m di profondità, ma non sono rari i casi di pozzi profondi anche 90 m. Va osservato che la tecnica di scavo adottata è la stessa in uso per le coltivazioni minerarie, che non a caso spesso s’imbattevano nella falda freatica, che dovevano in vario modo evacuare. Nei qanat, invece, raggiunta la falda, un esperto ne valutava la potenziale portata e indicava la direzione da dare allo scavo per farla emergere dove il terreno è piú basso, insieme alla vena d’acqua catturata. Lungo il percorso si scavavano inoltre vari pozzi, ogni 30-50 m, sia per l’evacuazione del materiale di risulta, sia per l’areazione della galleria. Per accentuare la circolazione dell’aria, sotto un pozzo si accendevano spesso grossi roghi, la cui colonna d’aria ascendente risucchiava dal pozzo piú vicino una analoga massa d’aria fresca. Quanto alla pendenza da dare alla galleria ci si atteneva a gradienti compresi fra 1/550 e 1/500 circa, evitando pendenze superiori che porterebbero l’acqua a erodere la parete del qanat, per la sua maggiore velocità. Gli unici strumenti utilizzati per stabilire la direzione e la pendenza consistono in una fune e una livella. Circa le dimensioni dei cunicoli, sono in media di circa 1 m di larghezza e 1,5 m di altezza: l’allineamento dello scavo è garantito da tre lampade a olio disposte a intervalli regolari. La lunghezza complessiva varia fra i 10 e i 18 km, come del resto anche la quantità d’acqua.

LA CONDENSA CHE DISSETA Oltre ai qanat, nelle regioni molto aride e comunque distanti da sorgenti utili, o anche di modesta e inadeguata portata, per l’approvvigionamento di acqua potabile si fece ricorso a un particolare criterio di captazione, utilizzato soprattutto nel Vicino Oriente, che funzionava sfruttando il fenomeno della condensa, per cui non a caso veniva definito dei «pozzi ad aria». a r c h e o 81


SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

MISURARE PER BERE

U

na volta accertata l’abbondante e stabile portata della sorgente e verificata la bontà dell’acqua, si avviava la prima fase della costruzione di un acquedotto, per molti versi la piú complessa e delicata. In età imperiale i Romani divennero i massimi esperti e costruttori di acquedotti per l’approvvigionamento urbano, avvalendosi di avanzati strumenti topografici che consentivano stime angolari estremamente precise. Il tracciato, che spesso eccedeva il centinaio di chilometri, si avviava con una minuziosa levata topografica plano-altimetrica, dovendosi stabilire prioritariamente che la quota della sorgente fosse superiore a quella della città di destinazione e, piú ancora con la quota dei suoi diversi quartieri, nel caso di un’urbanistica accidentata. Dal momento che negli acquedotti romani il flusso scorreva per gravità, occorreva evitare pendenze eccessive che avrebbero eroso il canale, o troppo modeste, che l’avrebbero intasato per l’abbondante sedimentazione. Dopo numerose esperienze, la pendenza ottimale fu ravvisata in una escursione compresa fra lo 0,02-0,03% pari a 20-30 cm per chilometro.

GLI STRUMENTI DEL TOPOGRAFO Circa gli strumenti topografici consigliati per la levata topografica Vitruvio accorda la sua preferenza al corobate, relegando le diottre e i livelli a un impiego di minor precisione. Scriveva infatti: «Adesso spiegherò come si debbano trasportare le acque nelle abitazioni e nella città. La prima operazione da fare è stabilire il livello. Il livello si stabilisce con l’aiuto delle diottre o delle livelle ad acqua o del corobate, ma si opera per maggior precisione con il corobate, poiché sia le diottre che le livelle inducono in errore» (VIII,V). Quanto allo strumento cosí lo descrisse: «Il corobate è un regolo dritto lungo circa 20 piedi. Alle sue estremità ha due bracci perfettamente uguali fissati perpendicolarmente alle estremità del regolo; tra il regolo e i bracci ci sono delle traverse fissate con dei perni sulle quali sono tracciate delle linee perfettamente verticali e dei fili a piombo appesi al regolo, uno per ogni parte, i quali una volta sistemato il regolo, se toccano in modo assolutamente identico le linee tracciate, indicano che la posizione è orizzontale. Ma se il vento creasse 82 a r c h e o

RUOTA SEMIDENTATA e vite senza fine per la rotazione dell’alidada nel piano verticale, con la relativa manopola di azionamento.

PIATTO GONIOMETRICO Piatto goniometrico in rame, recante incisa lungo il bordo la gradazione. Il piatto era solidale alla colonnetta, tramite tre perni, per cui l’indicazione angolare era fornita da un apposito indice, solidale invece all’alidada.

ALIDADA Alidada con i due risalti per la collimazione posti alle sue estremità, solidale a un goniometro semicircolare: in pratica un regolo di legno con due pinnule, munite di un semplice foro circolare per l’oculare e una sottile croce per l’obiettivo.

UNO STRUMENTO PRECISO E VERSATILE Ricostruzione virtuale della diottra, o traguardo, di Erone e schema del suo funzionamento: agendo sulla manopola inferiore si sbloccava l’alidada e, girandola a mano, la si portava a collimare il primo traguardo. Quindi la si ingranava e girandola tramite la stessa manopola la si portava a collimare il secondo traguardo. A questo punto era facile leggere sul piatto goniometrico, direttamente o per differenza, l’angolo orizzontale, o azimut. Qualora i due traguardi fossero posti piú in alto o piú in basso della diottra, li si collimava variando anche l’inclinazione dell’alidada, agendo sulla manopola superiore, ricavandone da un apposito riscontro, un foro sulla forcella, anche l’angolo di elevazione utile per valutare i dislivelli.


degli impedimenti e i fili, a causa dei movimenti, non potessero dare delle indicazioni precise, allora si farà nella parte superiore del regolo, un canaletto lungo cinque piedi, largo un dito e profondo uno e mezzo, in cui si verserà dell’acqua e, se l’acqua toccherà in modo uniforme il bordo superiore del canaletto, si saprà che lo strumento è a livello» (De architectura,VIII,V).

ALLINEAMENTI PERFETTI Dalla traduzione si deduce che il corobate era una sorta di panca di legno, alta poco meno di 1 m e lunga circa 6. Poiché il vento raramente mancava fu presto adottato soltanto il secondo tipo di corobate, sul cui asse superiore correva una fessura, una scanalatura longitudinale lunga, a sua volta, circa 1,5 m, profonda e larga un paio di centimetri, che si riempiva completamente d’acqua al momento dell’impiego. Quando lo strumento poggiava perfettamente in piano l’acqua lambiva interamente i bordi della scanalatura, senza

fuoriuscirne; in caso contrario, si ponevano al di sotto di una estremità del corobate spessori fino a quando non fosse avvenuto. A quel punto, traguardando lo scopo, posto ad alcune decine di metri di distanza, direttamente lungo la superficie dell’asse superiore o tramite le mire, si definiva la direttrice orizzontale, valutando il relativo dislivello. La diottra che Vitruvio ritiene poco precisa, non era, però, ancora quella che Erone realizzò circa un secolo dopo, di gran lunga piú attendibile e versatile nell’impiego. Si deve ritenere, perciò, che quest’ultima, all’indomani del suo avvento, abbia rapidamente guadagnato la fiducia dei rilevatori, assurgendo in breve a strumento topografico per antonomasia, ideale per le levate plano-altimetriche, in quanto era in grado di fornire, oltre all’angolo orizzontale, anche quello verticale, avvalendosi per la stima di una stadia graduata. Queste sue caratteristiche peculiari ne fanno l’antenata del nostro tacheometro.

LE DIGHE DI ACCUMULO L’acqua individuata per la canalizzazione poteva sgorgare da piú sorgenti poste a breve distanza fra loro. In quel caso si costruivano condotti secondari, che convogliavano tutti i flussi in un unico canale principale. Poiché nessuna sorgente emetteva nel corso dell’anno la stessa quantità di acqua, il flusso del canale principale poteva non sempre raggiungere la portata necessaria per il trasporto. In tal

caso si costruivano traverse e dighe, in genere del tipo a contrafforti, che, sbarrando il rivolo scaturente dalla sorgente o da un torrente, creavano ampi bacini artificiali, che permettevano il prelievo dell’acqua nei quantitativi programmati. Alcune di queste dighe ancora continuano a svolgere la propria funzione, come per esempio quella, qui illustrata, detta di Proserpina in Spagna.

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SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

Un tratto superstite del grandioso Acquedotto Claudio, a Roma. L’impianto, ultimato nel 52 d.C. (durante il principato di Claudio, donde il nome), captava l’acqua da due piccoli laghi nell’alta valle dell’Aniene e anche da sorgenti secondarie.

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SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA Vasche di decantazione (piscinae limariae) dell’acquedotto romano della Sierra de Aznar, in Andalusia (Spagna). Nella pagina accanto: uno dei canali, veri e propri acquedotti industriali, utilizzati per portare l’acqua dalle alte sorgenti ai bacini di accumulo del complesso minerario di Las Medulas (Spagna).

PER GARANTIRE LA PUREZZA

L’

acqua che sgorgava dalla sorgente veniva condotta, tramite un breve canale di raccordo in cui scorreva senza costrizione, debitamente coperto per impedire qualsiasi inquinamento del flusso, in una prima struttura muraria, un’ampia vasca detta dai Romani piscina limaria. Impiantata quasi alla stessa quota della sorgente, aveva la funzione di purificare l’acqua frenandone l’impeto, in modo di far precipitare sul suo fondo il terriccio che trasportava e, tramite uno sfioratore, versarne l’eccedenza in canalizzazioni secondarie destinate ad altre utenze. Gli acquedotti avevano sempre varie vasche di questo tipo e, oltre a quelle poste al loro inizio e al loro termine, ne avevano altre ancora a intervalli regolari lungo l’intero tracciato. In prossimità della città di destinazione, accanto alla piscina limaria, nella quale avveniva l’ultima e piú consistente perdita di velocità dell’acqua, con conseguente decantazione, vi era una grande struttura, il castel86 a r c h e o

lum, in cui si provvedeva alla distribuzione del flusso nelle diverse condutture urbane, per lo piú di piombo. Ogni vasca era provvista di un foro di scarico per le pulizie periodiche e i necessari interventi di manutenzione. Dalla piscina limaria iniziava il condotto di raccordo con l’acquedotto. Vitruvio, ancora una volta, ci tramanda le diverse tipologie con cui venivano costruite tali condotte, in questi termini: «Le condutture dell’acqua si fanno in tre modi: a rigagnolo, per mezzo di canali in muratura o con tubi di piombo o coni di terracotta. Nel caso dei canali la muratura deve essere piú solida possibile, il letto del canale deve avere una pendenza inferiore a un sicilico [circa 6 mm] ogni 100 piedi [circa 290 m pari a circa 0,2 x 1000] e i canali debbono essere coperti a volta, cosicché l’acqua sia protetta dal sole. Arrivati alle mura della città, si deve costruire un serbatoio e collegare a questo una vasca di raccolta dell’acqua a tre scomparti comunicanti» (De architectura,VIII,VI).


GLI USI INDUSTRIALI

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ltre a essere destinata all’alimentazione, l’acqua aveva anche altri basilari utilizzi di tipo industriale. Dal momento che quelle particolare grandi utenze avevano bisogno di portate ingenti, non era possibile derivarle dagli acquedotti urbani, ma richiesero propri condotti per essere soddisfatte. Si ebbero cosí canalizzazioni meno

accurate delle tradizionali, per lo piú scoperte, che correvano sulle piú ripide pendici montane. Tali furono, per esempio, quelle che alimentavano i bacini apicali dell’altipiano di Las Medulas per la coltivazione delle sue miniere aurifere, avvalendosi della tecnica della ruina montium (letteralmente, «distruzione delle montagne», n.d.r.).

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ACQUEDOTTI A RASO, IN GALLERIA E SU ARCHI

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Romani intuirono presto l’importanza basilare dell’abbondante disponibilità d’acqua nella vita della città. Di certo, venne profuso un impegno costante al fine di fornire ai centri abitati cospicui quantitativi d’acqua potabile, mediante grandiosi acquedotti, veri fiumi artificiali, per lo piú pensili. Sia che l’acqua fosse prelevata da una diga che da una sorgente, una volta immessa nell’acquedotto propriamente detto, un canale sempre debitamente impermeabilizzato e coperto, iniziava il suo lungo percorso verso la città. Poiché occorreva assicurare in modo tassativo la giusta pendenza, il canale correva indipendente dalla morfologia ambientale, spesso su lunghe teorie di arcate. Quando l’avanzamento dell’acquedotto era arrestato da una formazione collinare o di pendice montana si ricorreva allo scavo di apposite gallerie che, mantenendo immutata la pendenza, convogliavano l’acqua alla loro opposta estremità. Le gallerie in genere erano avviate dai due imbocchi e il loro percorso era scandito da numerosi pozzi di areazione, usati durante lo scavo eseguito per la loro costruzione, anche per agevolare lo smaltimento dei materiali di risulta.

L’AMMIRAZIONE DI ERODOTO Uno straordinario archetipo di tale tipologia di acquedotti fu la galleria di Eupalino, scavata nel VI secolo a.C. a Samo, che Erodoto considerava una delle tre opere piú rilevanti realizzate dai Greci. Cosí la descrisse: «[Gli abitanti di Samo] hanno scavato attraverso un monte alto circa 150 cataste (900 piedi) una galleria, che inizia ai piedi della montagna e ha aperture da entrambe le parti. Questa galleria è lunga 7 stadi (4200 piedi) e alta e larga 8 piedi. Sotto di essa, per tutta la sua lunghezza, è stata scavata una seconda galleria, piú profonda di 20 cubiti (30 piedi) e piú larga di 3 piedi (2 cubiti). Attraverso questa seconda galleria l’acqua di una 88 a r c h e o


sorgente abbondante viene convogliata in tubazioni che la portano in città. Questa galleria fu costruita da Eupalino, figlio di Naustrofo, originario di Megara» (Storie, III, 60). Si trattava, in pratica, di una galleria munita di pozzetti d’ispezione dislocati a intervalli regolari, che conduceva l’acqua, captata mediante opere di presa a camera dalla sorgente Agiades, fino a Samo, su di una distanza di circa 2 km. Provvedeva in tal modo all’approvvigionamento idrico della città in maniera assolutamente immune da eventuali cesure nemiche. Tre le sezioni in cui poteva suddividersi l’intero acquedotto: la prima, lunga circa 850 m, era costituita da una condotta fittile, composta di elementi del diametro di 25 cm e lunghi di 70 cm circa, collocata in una trincea profonda tra i 2 e i 5 m. La seconda, lunga 1030 m circa, era interamente in galleria, alta tra 1,6-1,9 m. L’ultima, che giungeva sino alla cisterna terminale, era lunga 500 m circa. Quando, invece, all’avanzamento si opponeva un’ampia vallata, la si superava su fughe di archi, spesso di vari ordini sovrapposti, originando cosí la piú prestigiosa connotazione degli acquedotti romani. Il criterio di adduzione dell’acqua, adottato sistematicamente dai Romani era, in sostanza, naturale: un ca-

nale nel quale scorreva un flusso continuo, per semplice gravità. Poiché il pelo dell’acqua non lambiva la copertura del canale, si definisce propriamente a pelo libero. È questa la maniera concettualmente piú semplice, ma tecnicamente piú complessa, di condurre l’acqua in rilevanti quantità, non caso la stessa dei fiumi; tuttavia, allorché avviene su tratte spesso prossime al centinaio di chilometri, le difficoltà divengono cospicue, richiedendo un gran numero di opere d’arte. Originale risulta il metodo adottato dai tecnici per stabilire la portata di un acquedotto, che è diverso dall’odierno, in quanto non poteva tenere conto della velocità del flusso. Dal momento che la pendenza data agli acquedotti era sostanzialmente sempre la medesima, la velocità del flusso diveniva di fatto una costante, per cui la sola variabile della portata era la sezione del canale in cui scorreva, cioè la sua larghezza per l’altezza del flusso stesso, un valore che divenne, pertanto, la vera unità di misura della portata. E sebbene si affermi in numerosi trattati che i Romani non conoscessero la condotta forzata, in realtà non solo la conobbero, ma se ne avvalsero in moltissimi casi, creando i cosiddetti sifoni rovesci (per la cui descrizione, vedi alle pagine successive).

A sinistra: un tratto della galleria di Eupalino, sull’isola di Samo, costruita nel VI sec. a.C. In basso: un tratto dell’acquedotto di Segovia (Spagna), costruito probabilmente in epoca flavia, tra la seconda metà del I e gli inizi del II sec. d.C., sotto gli imperatori Vespasiano e Traiano.

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SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

I SIFONI ROVESCI

A

i sifoni rovesci si faceva ricorso quando l’avanzamento di un acquedotto incontrava una forra tanto profonda da eccedere l’altezza raggiungibile con piú ordini di arcate. In pratica, l’acqua che fuoriusciva dall’ultimo arco veniva immessa in una sorta di grande vasca (bacino di carico), il cui fondo comunicava con una spessa condotta in pietra che scendeva fino in fondo alla gola (ventre), per poi risalirla dal lato opposto, sfogando nel bacino di scarico. Il rilevante spessore dei blocchi che la componevano impediva alla pressione di causarne l’esplosione. Il sifone rovescio fu senza dubbio la caratteristica piú importante degli acquedotti di età ellenistica, il cui criterio informatore era quello dei vasi comunicanti. Un criterio noto sin dall’età minoica, ma perfezionato successivamente sia in Grecia che in Asia Minore e persino in Sicilia. La tecnica di realizzazione di un sifone ellenistico fu in seguito recepita e perfezionata dagli ingegneri romani, che l’adottarono nei loro piú complessi acquedotti. I Greci definirono siphon un tubo ricurvo; i Romani lo distinsero in base all’impiego: dritto, se disposto a forma di pi greco, e rovescio, se a forma di U. Nel primo caso, vi poteva fluire un liquido che vi saliva da un’estremità per poi discendere dall’opposta, nel secondo il contrario. Sono molti, da allora, anche nella tecnologia contemporanea, gli impieghi del primo – per esempio nei sistemi che permettono lo scarico di un WC – o del secondo, da cui discende il tubo piegato che si colloca sotto i nostri lavabi e lavelli, per impedire la risalita dei cattivi odori. E proprio quest’ultima tipologia venne adottata per far superare all’acqua le profonde vallate, scendendovi da una estremità per risalirvi dall’altra.

PRESSIONI FORMIDABILI Essendo però la pressione esercitata dall’acqua proporzionale alla sua altezza, per cui sia che scorra in un tubo sottile o in una condotta di 90 a r c h e o

In alto: schema grafico del funzionamento di un sifone rovescio, sistema adottato nel caso in cui un acquedotto doveva superare dislivelli particolarmente accentuati. A sinistra: ricostruzione grafica di elementi di una condotta forzata di un sifone rovescio romano e del loro innesto.

ESEMPI DI SIFONI ROVESCI E RELATIVI DISLIVELLI ACQUEDOTTO DI Madradag, Pergamo Turchia Smirne, Turchia Lione, Gier, Francia Alatri, Frosinone, Italia Rodez, Francia Yzeron, Lione, Francia Brevenne, Lione, Francia Lione, Gier, Francia Lione, Mont d’Or, Francia Laodikeia, Turchia Aspendos, Turchia

DISLIVELLO IN METRI 190 158 122 101 91,5 91 90 79 70 50 45


te a sopportare ingenti pressioni, con la forza della loro struttura e perciò definite condotte forzate. Una condotta forzata moderna è formata da una serie di tronchi di tubazione in acciaio, in cemento armato o in ghisa, uniti fra loro con adeguati giunti e spesso debitamente cerchiati con anelli metallici. Quando in cemento armato sopportano pressioni inferiori ai 2 kg/cm2, se in cemento armato precompresso pressioni fino a 5 kg/cm2, ma per pressioni superiori, si usano tubi in acciaio, chiodati o saldati; infine per altissime pressioni dell’ordine di 20 kg/cm2 si impiegavano tubi saldati con flange saldate o con chiodatura a sovrapposizione.

grandi dimensioni, se disposti verticalmente sul suo fondo di entrambi si avrà una pressione pari a 1 k per ogni 10 m di dislivello. In gole che potevano raggiungere i 200 m di profondità, pertanto, un tubo che vi fosse disceso per risalire dall’opposto versante avrebbe dovuto sopportare sul fondo e, soprattutto, lungo il ventre, una pressione pari a ben 20 kg per ogni suo cm quadrato. In un tubo del diametro di 20 cm, provvisto di un ventre lungo appena 1 m, l’acqua ne avrebbe sollecitato le pareti con un carico di 60 tonnellate! Occorreva perciò individuare una soluzione tale da permettere di utilizzare il sifone rovescio, trasformandolo in un’antesignana condotta, analoga alle nostre, destina-

IL GIOIELLO DI EUMENE II Ora essendo le pressioni di esercizio nelle suddette gole non di rado di circa 20 kg/cm2, come in quella del sifone di Madradag, a Pergamo (Turchia), gli ingegneri dell’epoca ripiegarono sulla pietra, costruendo perciò condotte forzate basate sull’incastro di grossi blocchi lapidei ben squadrati, spesso molte centinaia, con al centro un foro circolare. In media la dimensione dei singoli blocchi era di 90 x 90 x 50 cm con un foro del diametro di 300 mm. Gli innesti fra i blocchi erano del tipo maschio-femmina, sigillati con un impasto di calce e olio di oliva che, a contatto con l’acqua, indurisce e si espande, garantendo perciò una tenacissima tenuta. Tra i principali esempi di sifone rovescio spicca appunto quello dell’acquedotto di Pergamo, costruito nel 180 a.C. Ubicata su di un’altura, a circa 300 m sopra la piana di Kailos, la città si trovava in una posizione ideale per la difesa, ma non disponeva di adeguate risorse idriche, essendo separata dalle montagne limitrofe da una vallata profonda 200 m circa. Il I resti di uno dei suo sovrano Eumene II individuò nelle sordue rami del genti di Madradag, a 1230 m di quota, quelle sifone rovescio romano realizzato ideali per l’approvvigionamento della città, posta a sua volta a 800 m piú in basso. Fu coa beneficio dell’acquedotto di struito pertanto un acquedotto lungo 40 km, con tubi di terracotta del diametro di 16 cm, Patara (Turchia). lunghi 70 cm.Tre condotte parallele fornivano una portata di 45 l/sec pari a circa 4000 m3 al giorno per i circa 15 000 abitanti. Superata una galleria, le tre condotte immettevano l’acqua in un serbatoio posto su di una collina prospiciente l’acropoli e a essa sovrastante di 15 m. Da qui si partivano le condotte forzate che, dopo essere discese sul fondo della valle, risalivano nella città. a r c h e o 91


SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

LE CISTERNE

P

oiché, come già accennato, la portata delle sorgenti può variare nel corso dell’anno, di conseguenza anche la portata dell’acquedotto e della rete di distribu92 a r c h e o

zione urbana poteva non essere costante, provocando in tal modo gravi disservizi. Per neutralizzare quelle oscillazioni e, magari, incrementare la disponibilità d’acqua, in pros-


La Piscina Mirabilis di Miseno (Campania). Costruita per assicurare il rifornimento della base navale nella quale era di stanza la piú importante flotta imperiale romana, poteva fornire ben 12 000 m3 d’acqua al giorno.

simità della penetrazione urbana dell’acquedotto furono realizzate enormi conserve, o cisterne, che, riempendosi nel corso della notte e svuotandosi durante il giorno, garantivano la costanza del flusso. La rilevante quantità di acqua accumulata nelle grandi cisterne urbane nella notte, allorquando le esigenze dei cittadini erano pressoché nulle, consentiva di raddoppiarne la disponibilità durante la giornata. Affinché ciò potesse accadere, la capacità delle stesse cisterne doveva essere in grado di accogliere l’intera portata notturna dell’acquedotto, per evitare inutili sprechi. Dal momento, poi, che le grandi cisterne non avevano scarichi per troppo pieno, è sensato supporre che la loro cubatura eccedesse l’anzidetta capacità, per cui in pratica non si sarebbero mai riempite del tutto. Accorte tecniche costruttive e di impermeabilizzazione garantivano a tali strutture un’assoluta saldezza, prossima al monolitismo, una estrema longevità e una tenuta perfetta. Del resto anche lievi fessure avrebbero finito per comprometterne l’utilità. Un aspetto interessante è relativo alla loro periodica pulizia: allo scopo gli spigoli erano stati tutti arrotondati, e al centro del fondo si trovava una piccola conca di raccolta con una apposita canalizzazione di spurgo. La maggioranza delle grandi cisterne di età imperiale, non di rado ancora in servizio – come quella di Albano Laziale (Roma) –, hanno ben evidente il foro del condotto di immissione, prossimo alla sommità dell’invaso, ma non ne hanno alcuno di prelievo che, per ovvie ragioni, avrebbe dovuto trovarsi in prossimità del fondo o appena piú in alto. La strana anomalia suggerisce una diversa maniera di prelievo, molto piú complessa e senza dubbio molto piú efficace.

MIRABILE DI NOME E DI FATTO Il primo fatto di cui occorre tener conto, riguarda la pressione di esercizio: la cisterna piena, con una profondità dell’invaso di oltre 10 m (che nel caso della Piscina Mirabilis di Miseno, in Campania, diventano circa 15) avrebbe esercitato sul tubo di presa una pressione superiore a 1 kg/cm2, un valore che eccedeva la resistenza dei tubi romani. Se invece fosse stato effettuato dall’alto, il prelievo evitava di sottoporre i tubi a quelle pressioni, facendoli in pratica fungere da sifoni dritti, il cui innesco avveniva agendo sulle chiavi d’arresto, collocate appena sotto

la loro fuoriuscita dalla cisterna. Oltre ai vantaggi ricordati, si ottenevano la migliore decantazione dell’acqua e l’assoluta indipendenza fra i diversi sifoni. Tra i maggiori e migliori esempi di cisterna romana spicca appunto quella della base navale Miseno, la Piscina Mirabilis. Si è conservata in condizioni ottimali, essendo praticamente intatta, al punto da poter essere riutilizzata in qualsiasi momento. A preservarla dalle violente offese sismiche e vulcaniche ha contribuito, oltre alla sua solidissima struttura, il ritrovarsi incassata nella collina.Volendo dettagliarne le caratteristiche, si deve innanzitutto rilevare che dalla sua capacità dipendeva in ultima analisi, se non l’autonomia della base, almeno il suo benessere. Una colonia di oltre 40 000 abitanti, secondo lo standard urbanistico e igienico romano, infatti, usava quantità enormi di acqua, per impiego alimentare, agricolo e soprattutto termale. A esse, poi, andavano aggiunte quelle necessarie alla flotta stessa e ai relativi cantieri, di non minore rilevanza. A Miseno abbondava il fuoco, ma difettava l’acqua, per cui occorreva reperire una sorgente congrua e addurvi le sue acque. La si trovò nelle fonti del Serino, nel cuore del Sannio, a quasi 100 km di distanza, ottima per qualità e abbondante per quantità ma non certo illimitata. Dal che un interminabile acquedotto, che strada facendo alimentò anche le città di Pompei, Ercolano, Nola, Avella, Acerra, Napoli, Cuma, Pozzuoli e Baia. Stimando il fabbisogno giornaliero pari a un centinaio di litri pro capite, il doppio del minimo previsto oggi dall’ONU, si avrebbero 4000 m3 e stimando un equivalente quantitativo per le terme e i giardini si avrebbero 8000 m3; aggiungendovi un’altra uguale frazione per la flotta il volume dell’acqua ascenderebbe a 12 000 m3. Scandita da 48 pilastri cruciformi, allineati su quattro file lunghe 70 m, larghe 25 e profonde 15, in cinque navate, la Piscina Mirabilis garantiva appunto quella quantità! Per eventuali ispezioni e per la periodica pulizia si accedeva al suo fondo tramite due rampe di scale, una ancora praticabile. L’evacuazione dell’acqua di lavaggio avveniva da un pozzetto centrale, profondo circa 1 m e munito di tubo di scarico. La concezione è quella tipica del pozzetto di sentina che, del resto, è ricordata anche dall’assenza del foro di prelievo. a r c h e o 93


SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

DAL «CASTELLO» AL RUBINETTO

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tando a Vitruvio, in prossimità delle mura della città, dove doveva ubicarsi una grande cisterna, e alla sua uscita andava impiantata una vasca con al suo interno tre scomparti. La suddivisione era ottenuta con risalti murari che frazionavano il flusso in ingresso in tre uguali correnti per alimentare attraverso altrettante condotte le varie utenze urbane. Cosí Vitruvio: «Arrivati alle mura della città, si deve costruire un serbatoio e collegare a questo una vasca di raccolta dell’acqua a tre scomparti: nel serbatoio poi si mettono tre tubi uno per ciascuno degli scomparti comunicanti, in modo tale che l’acqua che trabocca dagli scomparti laterali si riversi in quello centrale. Quindi, in quello centrale si mettano i tubi per tutte le vasche e le fontane, in uno degli altri due le tubature che vanno ai bagni pubblici, per il quale servizio ogni anno il popolo paga una tassa, e nel terzo, le tubature che vanno alle abitazioni dei privati, in modo che non manchi l’acqua di uso pubblico» (De architectura, VIII, VII). È difficile stabilire quanto lo schema proposto da Vitruvio risponda alla realtà: di certo, di un impianto del genere l’archeologia non ha trovato traccia. A Pompei esiste in ottime condizioni

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un castello terminale, suddiviso al suo interno in tre scomparti, ma l’analogia finisce qui, essendo sia il funzionamento che la finalità ben diverse dalla descrizione del celebre architetto: alimentava, infatti, tre rami della rete urbana, probabilmente per far sí che, quando si dovevano compiere lavori di manutenzione, situazione abbastanza frequente data la tipologia delle tubature, si potesse escludere quello coinvolto tramite saracinesche, di cui sono ben evidenti le tracce.

A CIASCUNO LA SUA ACQUA Anche Sesto Giulio Frontino (curator aquarum di Roma nel 97 d.C. e autore del De aquae ductu urbis Romae) fa riferimento a una tripartizione del flusso idrico, di cui la prima emissione era destinata alla casa imperiale, la seconda alle utenze private e la terza agli impieghi pubblici. È opportuno sottolineare che Vitruvio e Frontino scrivono a distanza di quasi un secolo e, nel frattempo, alle utenze pubbliche di fontane e vasche si era sostituita la destinazione

Il tripartitore idrico di Pompei, ubicato a ridosso di Porta Vesuvio, nel punto piú alto della città (42,30 m), cosí da assicurare la regolare distribuzione dell’acqua in tutti i quartieri dell’abitato.


imperiale, ovvero i palazzi o le ville di residenza con le annesse pertinenze, prime fra tutte i giardini. Per i Romani la portata era proporzionale solo alla sezione trasversale del canale, e dunque l’organo che ripartiva il flusso idrico era definito genericamente castellum aquae, una costruzione divisa in diverse sezioni geometricamente uguali. La tipologia piú frequente, di cui peraltro a Pompei si conserva un esemplare in perfette condizioni, era a tre sezioni, da cui il nome di tripartitore idrico. Fu impiantato nel punto piú elevato dell’abitato, presso Porta Vesuvio, alla quota di 42,30 m, avvantaggiandosi cosí della massima altezza per non escludere alcun punto della città dalla distribuzione. Fatto espandere in un’ampia e poco profonda vasca circolare, il flusso veniva distinto in tre correnti uguali, mediante appositi risalti in muratura. La presenza delle menzionate tracce delle saracinesche suggerisce che proprio il tripartitore di Pompei avesse una funzione di distribuzione del flusso ai vari quartieri della città: una ripartizione quindi per quartieri e non piú per tipologia di utenza. Gli allacci, del resto, già da molto tempo avvenivano in maniera discrezionale e spesso abusiva, per cui nessuno era capace di distinguerne la tipologia e, meno che mai, di ripristinare la legalità in materia. Per stabilire in maniera non discrezionale l’entità della cessione di acqua ai privati, Frontino tramanda il sistema dei «calici», bocchettoni cilindrici di bronzo di vario

Schema assonometrico e in pianta del tripartitore idrico di Pompei. In alto: i risalti in muratura che suddividono la vasca del tripartitore di Pompei in tre flussi uguali. È ben evidente la traccia delle saracinesche che potevano chiuderli secondo le necessità.

diametro, lunghi circa 22 cm. Uniforme era il diametro interno, come uniforme e identico era quello del tubo di piombo che a esso si fissava. Come è facile immaginare, la quantità di acqua che passava nei calici dipendeva anche dalla pressione, ovvero dalla sua altezza al di sopra del calice, definita in termini tecnici «battente». Per evitare inesattezze, i calici erano posti tutti alla stessa altezza sulle pareti della vasca come Frontino non mancò di precisare. Un approfondimento a parte merita la modalità di concessione per gli allacci idrici, che si differenziava sensibilmente dalla nostra. In linea di principio, per i Romani le cose pubbliche erano accessibili all’intera popolazione. A tale scopo, con vari editti si rendeva noto che il beneficio di un bene pubblico, primo fra tutti l’acqua, era a disposizione, senza alcuna costrizione di sorta, degli abitanti. Questo, ovviamente, avveniva presso le fontane urbane, e non contemplava certamente un allaccio discrezionale all’acquedotto da parte di un privato. Per averlo, occorreva ricorrere alle concessioni, e per alcuni aspetti quelle vigenti in epoca romana appaiono simili alle attuali. Si trattava, allora come ora, di un privilegio concesso ad alcune persone eminenti, per sottolinearne il prestigio sociale. Quella accordata ai notabili della città, pur essendo a vita, non era però ereditaria. Quella invece accordata a un imprenditore poteva essere interrotta in caso di inadempienza da parte del beneficiario. a r c h e o 95


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LE TUBATURE

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opo essere uscita dal ripartitore, l’acqua veniva distribuita nei diversi quartieri tramite tubi. Quelli piú usati dai Romani erano abitualmente in piombo, piú raramente in legno, mentre per i piú grandi si utilizzava la terracotta. Circa i primi, si deve ricordare che se ne costruivano, in grandi quantità e di molteplici dimensioni, da parte di numerose fabbriche distribuite un po’ ovunque nell’impero. Persino le legioni ne fabbricavano, come provano i marchi imposti sugli stessi. Dal punto di vista pratico, la loro realizzazione si avviava da una striscia di lamiera in piombo, lunga sempre 10 piedi (pari a 3 m circa), e di spessore costante per ciascun diametro. Servendosi di un tondino di ferro, si ripiegava la striscia fino a far combaciare i bordi dei suoi lati lunghi, piegandoli e a volte anche ribattendoli, predisponendoli in tal modo alla saldatura, eseguita sull’intera lunghezza. La saldatura si può presumere di tipo autogeno, ottenuta cioè versando piombo fuso sui bordi già accostati, in modo di fonderli insieme. È altrettanto probabile che il medesimo effetto fosse ottenuto passandovi sopra una spranga di rame incandescente, fuoriuscente da un braciere pieno di carbone ardente. Qualcosa del genere, del resto, si usava ancora nel Novecento per distendere i panni: i capaci ferri da stiro, infatti, venivano colmati con un discreto quantitativo di brace.

IL CALCARE: UN PROBLEMA, MA ANCHE UN VANTAGGIO Quale che fosse il sistema adottato, la saldatura in genere garantiva abbastanza bene e a lungo la tenuta del tubo, ma non consentiva di superare pressioni molto modeste, verosimilmente sempre inferiori a 1kg/cm², pari a una colonna d’acqua di 10 m d’altezza. Una pressione tanto esigua, però, provocava all’interno del tubo una bassa velocità di scorrimento e, quindi, una rapida sedimentazione del calcare sulle pareti. Di conseguenza, la portata delle tubature di minor diametro presto si riduceva, obbligando alla frequente sostituzione delle stesse.Va notato che quell’inconveniente aveva un indubbio pregio: il tubo di piombo rivestito internamente dal 96 a r c h e o

In alto: tubature in terracotta utilizzate per gli impianti delle Terme Stabiane di Pompei. A sinistra: una tubatura in piombo d’epoca romana di cui si può osservare la tipica sezione a goccia.


calcare perdeva molta della sua tossicità, peraltro ai Romani ben nota. In ogni caso la quantità d’acqua che raggiungeva le abitazioni allacciate restava comunque scarsa, potendosi stimare in almeno un minuto il tempo necessario per il deflusso di un litro. Si deve pertanto immaginare che, non esistendo alcun tipo di contatore, l’utenza fosse sempre aperta e dotata di una vasca-acquaio di raccolta. La chiave d’arresto, pertanto, pur avendone le potenzialità, non fungeva da rubinetto come nelle nostre abitazioni, se non in circostanze particolari. Sono stati rinvenuti anche segmenti di tubature di piombo senza alcuna saldatura, antesignani pezzi trafilati, di cui però non si trova riscontro nelle fonti. Esistevano ancora, ed erano ritenute di gran lunga migliori dal punto di vista sanitario, tubature ricavate da travi di quercia, trapanati longitudinalmente e muniti di raccordi in lamiera di bronzo per consentirne l’allaccio in serie. Infine non di rado si utilizzavano tubature di terracotta, ottenute con una lunga teoria di singoli elementi incastrati fra loro con giunto maschio-femmina. Di basso costo e igieniche, presentavano tuttavia due gravi inconvenienti: la fragilità e la porosità.

MISURE STANDARDIZZATE Stando al capitolo XXVI del suo De aquae ductu urbis Romae, il già citato Sesto Giulio Frontino ci tramanda le grandezze standardizzate dei tubi in piombo. Non si tratta, però, del loro diametro, che non avrebbe una grande coerenza, dal momento che la sezione geometrica degli stessi non era circolare, bensí a goccia, per effetto del procedimento di costruzione descritto in precedenza. Ciò premesso, va precisato che le misure rubricate da Frontino si riferiscono alla larghezza che doveva avere il foglio di lamiera di piombo, che, curvato, permetteva la costruzione di quel particolare tubo, a cui corrisponde, secondo il nostro criterio, un preciso diametro massimo. Circa i maggiori, occorre aggiungere che, in realtà, non abbiamo riscontri archeologici, non essendosene mai trovato neanche un modesto frammento. Piú rare ancora sono le cassette di distribuzione. Dal che, tuttavia, non si può concludere che non vennero mai prodotte o utilizzate, ma, se mai, che furono oggetto di una sistematica distruzione, essendo piú remunerativa la loro rottamazione.

LE TORRETTE PIEZOMETRICHE Come ricordato i tubi di piombo utilizzati dai Romani, per via della loro particolare costruzione, non avevano una rilevante resistenza e dunque nelle città con forti dislivelli tra la quota d’immissione dell’acquedotto e quella delle utenze piú basse, s’imponeva una riduzione della pressione. A Pompei gli oltre 40 m di dislivello tra porta Vesuvio e porta Marina, pari a una pressione dell’acqua nelle condotte e nei tubi di piombo di oltre 4 kg/cm2, eccedendo la loro resistenza, obbligò all’adozione di un sistema di limitatori di pressione, o torri piezometriche. Queste, inoltre, consentivano anche di allacciare le tubature delle utenze private al loro serbatoio sommitale, alimentando prioritariamente le fontane pubbliche poste alla loro base.

In alto: confronto tra una torretta piezometrica che si conserva a Pompei, nella Regio VI, presso l’Insula XVI (a destra) e la sua ricostruzione grafica, che ne illustra il funzionamento. Nella struttura originale, il distacco della cortina muraria di rivestimento permette di riconoscere il tracciato (cavedio) all’interno del quale erano alloggiate le tubazioni in piombo.

MISURE DELLE TUBATURE (FISTULAE) UTILIZZATE DAI ROMANI Fistula quinaria Fistula senaria Fistula settenaria Fistula ottonaria Fistula denaria Fistula duodenaria Fistula vicenaria

tubo da 5 dita tubo da 6 dita tubo da 7 dita tubo da 8 dita tubo da 10 dita tubo da 12 dita tubo da 15 dita tubo da 20 dita tubo da 25 dita

Ø pollici 1,25 = 23 mm Ø pollici 1,50 = 28 mm Ø pollici 1,75 = 32 mm Ø pollici 2,00 = 37 mm Ø pollici 2,50 = 46 mm Ø pollici 3,00 = 55 mm Ø pollici 3,75 = 69 mm Ø pollici 5,00 = 92 mm Ø pollici 5,50 = 115 mm

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SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

TUTTI ALLE TERME!

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a massima utenza della rete idrica urbana era rappresentata dalle terme, un’istituzione tipicamente romana e immancabile in ogni loro città. Infatti, pur disponendo in molti casi di impianti domestici, i Romani si recavano alle terme non soltanto per farvi il bagno e per il conseguente esercizio fisico, ma anche per incontrare amici e clienti, per discutere di affari o per ammirare 98 a r c h e o

eventuali opere d’arte. In breve, per vivere piú intensamente in un ambiente che, come le nostre spiagge, favoriva i contatti e le confidenze. Non è una sorpresa, quindi, che la costruzione delle terme abbia sempre rappresentato un impegno politico basilare sia per gli imperatori che per i notabili locali e i privati facoltosi, assurgendo la progettazione e l’esecuzione a compito spesso richiesto agli


glio visitabile, e l’altra per le donne, e si estendeva su una superficie di oltre 3500 m2, nella quale era compreso un vasto cortile adibito a palestra con portici su tre lati.

BAGNI IN SEQUENZA L’accesso avveniva attraverso lo spogliatoio (apodyterium), dotato di panche e nicchie alle pareti, fungenti da armadietti nei quali si riponevano gli indumenti. Dopo quell’incombenza, il percorso si avviava passando nel frigidarium, nel quale vi era una grande vasca in cui fare il primo bagno in acqua fredda. Si passava poi nel tepidarium, dove ancora si scorgono le decorazioni in stucco e nel quale era installato un grande braciere per il riscaldamento, ancora visibile. Da lí si raggiungeva quindi il calidarium, riscaldato grazie ai tubi disposti lungo le pareti, nei quali passava l’aria calda prodotta dalla combustione della legna nella fornace sottostante. Contribuiva al riscaldamento dell’ambiente la sua esposizione verso mezzogiorno, con ampie aperture vetrate che favorivano l’effetto serra. Al centro vi era una grande vasca con acqua calda (alveus), che poteva accogliere fino a dieci persone. Non mancano altre interpretazioni, secondo le quali il percorso appena descritto veniva compiuto in senso opposto. Per specificare meglio gli aspetti tecnici di questi impianti, vanno sottolineati in primo

Sulle due pagine: lo spogliatoio (apodyterium) delle Terme Stabiane di Pompei, ornato da eleganti decorazioni in stucco e che conserva le nicchie usate dai frequentatori dell’impianto per riporre gli indumenti. In basso: pianta delle Terme Stabiane. 1. Ingresso principale. 2. Palestra. 3. Piscina. 4. Latrina. 5. Apodyterium. 6. Frigidarium. 7. Tepidarium. 8. Calidarium. 9-12. Settore femminile. 13. Praefurnium.

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ingegneri delle legioni dei campi permanenti. Alle spalle dell’esigenza termale vi era la necessità di garantire gli standard igienico-sanitari, che, a livello di massa, non avrebbero potuto altrimenti essere soddisfatti. Un impianto termale giunto fino a noi quasi intatto, anche se di medie dimensioni, è quello delle Terme Stabiane di Pompei: storicamente, è l’edificio termale piú antico della città, costruito su un impianto precedente (IV-III secolo a.C.), con restauri successivi, risalenti al II secolo a.C. Era suddiviso in due sezioni, una per gli uomini, la parte oggi me-

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SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

luogo l’enorme fabbisogno di acqua per alimentare piscine e vasche e una costante produzione di calore, in quantità tale da garantire il riscaldamento, oltre che dell’acqua di alcune vasche, di molti degli ambienti, rendendo piacevole e benefica la prolungata permanenza al loro interno. L’abilità degli ingegneri romani raggiunse i massimi livelli proprio nella progettazione e nella realizzazione degli impianti termali, riuscendo a creare sistemi di adduzione idrica e di riscaldamento in grado di garantire il perfetto funzionamento di quei complessi. Alla base del rifornimento idrico, tanto nelle terme che nelle piscine e nelle fontane delle città, vi erano gli acquedotti, in grado di trasportare grandi quantità di acqua che, da sorgenti e laghi, veniva incanalata fino agli impianti di destinazione. Spesso le terme maggiori erano alimentate da un proprio acquedotto: il primo del genere costruito a Roma fu quello dell’Aqua Virgo, voluto da Marco Vipsanio Agrippa nel I secolo a.C., in grado di fornire circa 100 000 m3 di acqua al giorno e circa 1200 l/secondo. Prima di essere utilizzata nelle terme, l’acqua veniva raccolta in una cisterna di dimensioni colossali, che probabilmente ne stabilizzava la quantità e la pressione di deflusso. Dalla ci-

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sterna, attraverso una intricata rete di distribuzione formata da tubi di piombo o di terracotta, l’acqua veniva introdotta nelle vasche per il bagno freddo e nella piscina, mentre quella da riscaldare era trasportata nella zona della fornace, dove, dopo averne innalzata la temperatura, veniva immessa per mezzo di altri tubi nella vasca per il bagno caldo. La fornace (hypocausis), che nelle prime ter-


Roma. Le Terme di Caracalla. I lavori per la costruzione del complesso ebbero inizio nel 212 d.C. e si conclusero nel 216 d.C. Nella pagina accanto: un ambiente termale provvisto di suspensurae, le colonnine in mattoni che, sopraelevando il pavimento, creavano un’intercapedine nella quale far circolare l’aria calda prodotta dalle fornaci, ottenendo cosí il riscaldamento dello spazio soprastante.

me si trovava spesso sotto l’unica stanza riscaldata, era situata nella parte centrale dell’edificio utilizzato per i bagni. Il combustibile usuale era la legna, accatastata in opportuni depositi in quantità sufficiente per un mese. Le caldaie utilizzate per riscaldare l’acqua erano fatte solitamente in bronzo oppure la lega poteva essere impiegata soltanto per la parte inferiore dell’impianto, cioè quella direttamente lambita dalle fiamme, ricorrendo a fogli di piombo per la parte superiore. Di solito tali caldaie venivano collocate in un blocco di muratura, per garantirne la stabilità e per limitare la dispersione del calore.

LA TESTUGGINE CHE RISCALDA Il sistema in batteria era molto comune, utilizzando due o tre caldaie in cui l’acqua è stata riscaldata a diverse temperature. Queste caldaie erano collegate da tubi muniti di chiavi di arresto, in modo che l’acqua della prima caldaia, che doveva raggiungere la temperatura massima, arrivasse già tiepida alla seconda, con grande risparmio di tempo e combustibile.Vitruvio descrive un sistema per evitare che l’acqua si raffreddasse nelle vasche, mantenendo perciò una temperatura costante: si basava sull’uso di una testuggine in bronzo, vale a dire di un contenitore semicilindrico, in forma di testudo o tartaruga, appunto. Riscaldata direttamente dalla fornace, la testuggine veniva posata sul fondo della vasca con la parte convessa rivolta ver-

so l’alto, per cui il calore si trasmetteva all’acqua in modo continuo e uniforme. Sia le piscine calde che le fredde erano alimentate con acqua corrente, dal momento che non c’era modo per riciclarla e purificarla. Ciò si traduceva in uno scarico cospicuo all’esterno dei bagni, ma l’acqua veniva riutilizzata per vari scopi, secondo la sua temperatura. In un caso, sembra addirittura che sia stata impiegata per azionare un mulino, a conferma del razionale criterio di questi grandi impianti, finalizzato a minimizzare perdite e sprechi. Il riscaldamento degli ambienti si otteneva facendo circolare l’aria calda prodotta dalla combustione della legna nella fornace, sotto il pavimento tenuto sollevato da colonnine di mattoni, dette suspensurae. Quella sorta di camera d’aria era collegata anche con i tubi di terracotta quadrati che rivestivano l’intero perimetro delle pareti, che in tal modo si riscaldavano anch’esse. Sembra che quella tecnica di riscaldamento basata sulla produzione e sulla circolazione dell’aria calda sia stata messa a punto tra il II e il I secolo a.C. a Baia, presso Pozzuoli, da Sergio Orata, già celebre per i suoi allevamenti ittici, avvalendosi inizialmente delle emissioni geotermiche dei Campi Flegrei, per cui quel caldo flusso andava a riscaldare appositi ambienti che costituivano le terme propriamente dette. Il calore del sottosuolo fu presto sostituito da quello prodotto dalle fornaci laddove non esisteva l’opportunità di Baia. a r c h e o 101


SPECIALE • LE VIE DELL’ACQUA

LA FINE DEL CICLO Lo sbocco della Cloaca Massima nel Tevere in una foto scattata prima della costruzione degli argini del fiume, avviata dopo una piena che aveva allagato la città il 28 dicembre 1870.

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saurite le sue molteplici funzioni, l’acqua che entrava copiosa in tutte le città romane, non a caso paragonata a fiumi artificiali, ne doveva ovviamente uscire nella stessa quantità, alla quale però si aggiungeva spesso il flusso proveniente dalle precipitazioni meteoriche. Ora, per semplicità, quelle acque di risulta, propriamente definite reflue, si possono distinguere in due distinte tipologie, volgarmente definite bianche e nere. Le prime erano le acque provenienti dagli impianti termali e dalle diverse officine, acque ancora abbastanza pulite; le seconde, invece, provenivano dalle latrine, dagli scarichi domestici e dai liquami delle stalle, com-

ponenti che le rendevano torbide, abbastanza dense e maleodoranti. La rete fognaria si faceva carico del loro smaltimento, scaricandole nei fiumi a valle dell’abitato, o in mare quando in prossimità della costa. Ma che cosa si intendeva all’epoca per fognatura e quali ne furono gli archetipi? Si definisce fognatura l’insieme dei canali sotterranei preposti allo smaltimento delle acque reflue prodotte dalle attività umane, e spesso anche delle acque meteoriche. I canali hanno una pendenza molto superiore a quella degli acquedotti, con valori compresi fra 1-2 %, comunque mai sotto lo 0,5%. La ragione è insita nella maggiore velocità che il


flusso piú denso richiede, scorrendo a pelo libero, per evitare che possa sedimentare, ostruendo rapidamente il condotto.

UN PRIMATO ROMANO Dal punto di vista storico, si hanno notizie di sistemi fognari risalenti alla metà del III millennio a.C. in Pakistan. Piú tardi, in epoca assira, anche nel Vicino Oriente si costruirono analoghi canali per il drenaggio delle acque luride, come per esempio a Ninive, capitale del regno tra l’VIII e il VI secolo a.C. Ma la rete di fognature attinse la sua ottimizzazione a Roma e, in rapida successione, nelle città di fondazione romana. La realizzazione piú rilevante fu la Cloaca Massima, avviata nel VI secolo a.C. forse durante il regno del sovrano etrusco Tarquinio Prisco. La grande fognatura, che ancora

continua a funzionare, iniziava nella Suburra per sfogare, dopo un percorso alquanto lungo, nel Tevere, presso il Ponte Emilio (oggi noto come Ponte Rotto). Stando alla descrizione di Tito Livio, che è però molto posteriore alla sua costruzione, sembrerebbe che fosse stata scavata nel sottosuolo di Roma, ma da altre fonti si apprende, con maggiore verosimiglianza, che inizialmente fu un condotto a cielo aperto, nel quale confluivano i piccoli rigagnoli naturali, e solo in secondo tempo, una volta coperto, avrebbe raccolto anche le acque reflue bianche e nere. Per la rilevanza assunta nella storia di Roma dal punto di vista igienico-sanitario e idraulico, la Cloaca ebbe numerosi interventi di manutenzione, di riparazione e di perfezionamento persino dopo la caduta dell’impero d’Occidente, nel V secolo. Ciò che forse piú conta nella vicenda dell’acqua ricostruita nelle sue varie fasi nelle pagine di questo Speciale, è il ruolo di archetipo della Cloaca Massima, che si trasformò nel modello per le reti fognarie delle numerose città romane. Se mai si volesse ravvisare una conferma della sua validità, la si può cogliere nell’assenza di grandi epidemie finché le reti fognarie rimasero in perfetto esercizio.

Lo sbocco della Cloaca Massima oggi, con la struttura antica incassata in un nicchione moderno.

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TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Luciano Frazzoni

IL RACCONTO DEI «COCCI» PER GLI ARCHEOLOGI, LA CERAMICA È, DA SEMPRE, UNO DEI PIÚ AFFIDABILI «FOSSILI GUIDA». GLI OGGETTI PLASMATI NELL’ARGILLA E POI COTTI IN FORNI E FORNACI POSSIEDONO, INFATTI, UN POTENZIALE INFORMATIVO STRAORDINARIO. E RAPPRESENTANO PERCIÒ UN TASSELLO DECISIVO, SOPRATTUTTO AI FINI DELLA RICOSTRUZIONE STORICA

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tutti sarà capitato, passeggiando in campagna, di trovare pezzetti di ceramica, quelli che, familiarmente, chiamiamo «cocci». La stessa cosa può succedere in città, osservando, per esempio, la terra di riporto e le sezioni delle trincee scavate per la posa di cavi o tubature. I cocci, del resto, sono uno degli indicatori della frequentazione umana di un sito nei quali è piú facile imbattersi. Come i fossili di conchiglie o di animali marini, rinvenuti in aree di montagna, provano che milioni di anni prima quelle zone erano coperte dalle acque del mare, cosí un frammento di ceramica può indicare la presenza di un contesto archeologico. Per stabilire di quale contesto si tratti, occorrono naturalmente altri dati, come quelli restituiti da prospezioni geoelettriche o da scavi, ma già attribuendo al nostro «coccetto» un ambito cronologico piú o meno circoscritto nel tempo e potendo ipotizzarne a grandi linee la

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provenienza, si possono ricavare informazioni sulla storia del luogo in cui lo abbiamo trovato.

UN MATERIALE INDISTRUTTIBILE Ma che cosa si intende con il termine «ceramica»? La definizione si applica a tutti i manufatti realizzati plasmando diversi impasti di argilla, la roccia plastica sedimentaria piú diffusa sulla crosta terrestre, formata da un aggregato di minerali e acqua, che, sottoposti a cottura a una temperatura compresa almeno tra 450 e 650 gradi, subiscono un processo di trasformazione pressoché irreversibile nella struttura cristallina della materia, che non ne permette piú il riciclaggio, come avviene per esempio per i metalli e il vetro. Ecco perché la ceramica, il piú delle volte rinvenuta allo stato di frammento, è uno dei reperti archeologici piú diffusi: è, infatti, praticamente indistruttibile e

inalterabile nel tempo, cosa che non avviene (se non in casi eccezionali) per i reperti organici (quali legno, cuoio o tessuti) che tendono a deperire in breve tempo. Ricostruire le fasi di vita di un oggetto in ceramica, dal momento in cui nasce nelle mani del vasaio sino a quando non si trasforma in reperto archeologico è dunque un’operazione fondamentale per ricostruire la storia (o anche tante microstorie) di un determinato contesto. E, per farlo, occorre porsi alcune domande. La strada da seguire è simile alla regola delle cinque «W» del giornalismo – Who? («Chi?»), What? («Che cosa?»), Where? («Dove»?), When? («Quando?»), Why? («Perché?») –, adattandola naturalmente agli obiettivi della ricerca archeologica, che dunque punterà, per esempio, a stabilire se il reperto sia stato prodotto da un singolo artigiano o da una fabbrica specializzata oppure a identificarne la funzione.


Queste brevi considerazioni lasciano intuire come un semplice «coccio» possa trasformarsi per gli archeologi nel principale «fossile guida» grazie al quale sviluppare una ricostruzione storica, dal momento che può offrire informazioni utili a gettare luce sull’ambito economico, sociale, artistico, funerario e religioso. Questa rubrica vuole dunque illustrare i molti aspetti legati all’ambito della ceramica, da quello cronologico a quello economico, da quello produttivo legato alle diverse classi a quello tipologico, offrendo una panoramica, se non esaustiva, almeno indicativa e stimolante su questa variegata classe di reperti archeologici.

UN FRAMMENTO NON BASTA Si è detto del ruolo fondamentale della ceramica ai fini della ricostruzione storica, ma si deve fare anche un’altra considerazione: se in un campo trovo un frammento di sigillata o di bucchero (vedi box in questa pagina), non è sempre detto che in quel punto vi siano, sotto il terreno, una villa rustica di epoca romana, o un abitato o una necropoli di epoca etrusca. Come «una rondine non fa primavera», cosí un frammento ceramico, per quanto inquadrabile cronologicamente e tipologicamente, non certifica la presenza di un determinato contesto archeologico. Affinché l’indizio risulti affidabile, bisogna che, durante la mia ricognizione sul terreno, io raccolga altri frammenti (se ce ne sono), ne stabilisca l’area di concentrazione, li metta in relazione tra loro e ne calcoli la percentuale di presenza. Infatti, per elaborare una cronologia, seppure relativa, è necessario disporre di quantità significative di frammenti ceramici e, nel caso si rinvengano in uno stesso sito ceramiche appartenenti

Lo scavo del frammento di un’anfora nell’emporio greco di Pistiros, nell’antica Tracia, i cui resti si trovano nei pressi dell’odierna Vetren, in Bulgaria. Frequentato tra il V e il III sec. a.C., il sito fu un importante centro metallurgico ed ebbe un ruolo di primo piano negli scambi delle materie prime. Prova dell’intensa attività commerciale è proprio il ritrovamento di numerose anfore. Nella pagina accanto: un gruppo di archeologi recupera materiali ceramici nel corso di uno scavo. a classi produttive diverse (per esempio, sigillata e ceramica depurata, oltre a frammenti di lucerne e anfore), stabilire rapporti sincronici e diacronici tra questi, confrontando anche i dati provenienti da altri contesti. Lo studio dei rapporti tra le varie classi ceramiche per stabilire

cronologie relative (o, nei casi piú fortunati, assolute) può essere condotto piú agevolmente nel corso di uno scavo stratigrafico, dove, all’interno di uno stesso livello, si trova un gran numero di frammenti di ceramiche appartenenti a classi e tipi diversi, ma che si sono depositati nello

La rossa e il nero Il termine sigillata designa una classe di ceramica fine da mensa rivestita di una vernice rossa brillante, prodotta in tutto il mondo romano dalla tarda età repubblicana alla tarda età imperiale; la definizione fu coniata dagli antiquari per definire gli esemplari di vasi che venivano alla luce soprattutto ad Arezzo e che presentavano una decorazione a rilievo: il termine latino sigillatus significa infatti ornato da figure a rilievo, da sigillum, piccola figura (vedi foto a p. 107). Il bucchero, invece (vedi foto a p. 106), è una ceramica fatta al tornio, tipica della civiltà etrusca, che si caratterizza per essere uniformemente nera tanto all’interno quanto all’esterno e lucidata sulla superficie; il nome deriva dallo spagnolo bucaro, termine utilizzato per certi vasi provenienti dall’America meridionale fabbricati con una terra odorosa e colorata, imitati nel Portogallo e venuti di moda in Italia press’a poco all’epoca del diffondersi degli scavi e delle scoperte delle necropoli etrusche.

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stesso periodo in cui si è formata quell’unità stratigrafica. In questo caso occorre anche stabilire se vi siano reperti ceramici con caratteristiche residuali o se invece tutti i frammenti, pur di classi diverse, siano in qualche modo contemporanei. Per fare un esempio, se in uno strato con prevalente presenza di maiolica arcaica medievale si trova un frammento di sigillata africana di epoca tardo-antica, è chiaro che quest’ultimo è un residuo, cioè non si trova nella sua deposizione originaria; il caso opposto si verifica quando ceramiche di epoche piú recenti si trovano in uno strato piú antico, magari per errori nello scavo o per infiltrazione dello strato piú recente in quello piú antico (fenomeno chiamato della intrusività). Datare le ceramiche è quindi un’operazione complessa, che presuppone la corretta lettura di tutti i dati stratigrafici di un determinato contesto, associando le varie classi ceramiche rinvenute con altri oggetti ed elementi che possono essere utili per giungere a una cronologia.

Da questo primo livello nello studio della ceramica, si possono operare ulteriori distinzioni all’interno delle singole classi, che riguardano l’uso funzionale dei manufatti, la loro differenza formale e l’apparato decorativo. Questo introduce al concetto di tipo, ossia un insieme di vasi che presentano le stesse caratteristiche morfologiche e che quindi si presume siano stati realizzati dal ceramista seguendo il medesimo modello mentale o un modello ben codificato in un dato ambito culturale. L’enorme quantità di materiale ceramico rinvenuto negli scavi ha portato molti studiosi a creare repertori tipologici, in quanto spesso le variazioni delle forme ceramiche possono essere utili per elaborare cronologie all’interno delle singole classi di produzione, e quindi anche per definire le cronologie dei contesti. Si può osservare infatti che nell’ambito di una determinata produzione che può ricoprire un arco cronologico anche ampio (anche uno o piú secoli), alcune forme presenti

CLASSI E TIPOLOGIE Il primo approccio nello studio delle ceramiche è quello tipologico: consiste cioè nel determinare le diverse classi, le forme e i tipi delle produzioni. Spesso si fa confusione, utilizzando i termini classe e tipologia, intendendo con il secondo caratteri propri del primo, dal quale deve invece partire l’analisi della ceramica. Per classe ceramica si intende un insieme di oggetti che presentino le medesime caratteristiche legate alla produzione, all’utilizzo degli impasti argillosi, al trattamento delle superfici (nude, ingobbiate, a vernice, a vetrina, a smalto, ecc.), alle forme e alle funzioni, al repertorio decorativo, per finire con la medesima area geografica di provenienza.

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Cratere in bucchero con decorazioni plastiche. Prima metà del VI sec. a.C. Pitigliano, Museo Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini». Nella pagina accanto: coppa in ceramica sigillata prodotta nella Gallia meridionale. I sec. d.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

all’inizio di tale processo produttivo si evolvono o scompaiono, lasciando il posto a tipi nuovi. Stabilire la sequenza cronologica di questi cambiamenti è dunque fondamentale per la storia della produzione di una classe ceramica, ma anche per definire, attraverso le associazioni stratigrafiche tra classi ceramiche, la cronologia dei contesti. Per fare un esempio moderno, possiamo pensare a come è cambiata in piú di cento anni la forma della bottiglia della Coca-Cola. La base di partenza dei principali repertori tipologici è la distinzione della forma in funzione dell’utilizzo del manufatto. Essenzialmente le forme si distinguono in forme chiuse, a cui appartengono oggetti utilizzati principalmente per contenere e /o versare liquidi (quindi boccali, brocche) o per conservare derrate alimentari (vasi, orci) e forme aperte, destinate principalmente alla mensa e al consumo di cibi e bevande (coppe, tazze, scodelle, piatti). La tipologia all’interno di


una singola forma (per esempio di un boccale) deve tenere conto dei cambiamenti strutturali delle singole componenti del manufatto (forma dell’orlo, del corpo, dell’ansa, del fondo), tentando di stabilire un prima e un dopo sulla base di quanti piú elementi possibili. È possibile che, contemporaneamente, si verifichino anche piccole modifiche di alcune di queste parti del vaso, che costituiscono cosí le varianti (per esempio, il profilo piú o meno convesso dell’orlo di un piatto, o la carenatura piú o meno accentuata di una ciotola), legate non tanto a una evoluzione morfologica, ma a una mano diversa all’interno dell’officina ceramica o anche a una differente officina operante nello stesso ambito produttivo. Oltre all’approccio «empirico» e alle prime osservazioni che l’archeologo compie sul campo in

presenza di reperti ceramici, vi è poi l’aspetto tecnologico, che le moderne analisi di laboratorio permettono di effettuare su campioni di frammenti, al fine di individuare meglio le componenti delle argille (e quindi anche stabilire delle aree di provenienza), eventuali tracce legate alle tecniche di fabbricazione e all’usura dei manufatti, e in alcuni casi anche stabilire le cronologie (anche al fine di individuare i falsi moderni).

IL CONTRIBUTO DELL’ARCHEOMETRIA Tutti questi aspetti rientrano nel campo degli studi archeometrici, che da tempo caratterizzano lo studio della ceramica e dai quali non può prescindere un approccio scientificamente corretto. Come si è detto, la materia prima della ceramica è l’argilla, sostanza solida naturale che può essere

modellata a piacimento dalle mani del vasaio, e che rimane inalterata dopo la cottura a caldo nella fornace. Le principali proprietà dell’argilla sono pertanto: plasticità, contrazione di volume, colorazione, refrattarietà e resistenza. La plasticità è la proprietà fondamentale dell’argilla, che permette di modellarla a piacere secondo le forme piú svariate. Per diventare piú o meno plastica, l’argilla richiede quantità appropriate di acqua (acqua d’impasto); se l’impasto è poco umido, diventa friabile, mentre se c’è un eccesso di acqua diventa troppo fluido: sta pertanto all’abilità e all’esperienza del ceramista stabilire la giusta quantità d’acqua. La contrazione di volume si osserva quando, dopo essere stata lavorata, l’argilla viene messa a essiccare e l’acqua d’impasto viene eliminata per evaporazione. Il manufatto subisce una prima contrazione della massa (ritiro in crudo), che può variare a seconda della composizione e della granulometria (ossia della grandezza delle particelle di argilla) dell’impasto e della presenza di degrassanti (elementi come quarzo o mica, utilizzati per rendere il vaso piú o meno resistente al calore). Per evitare fessurazioni e rotture dovute a una contrazione troppo rapida, occorre che l’essiccamento avvenga in maniera graduale e uniforme. La seconda contrazione avviene durante la cottura (ritiro in cotto), provocata dalla combustione delle sostanze organiche presenti nell’impasto argilloso, dall’eliminazione dell’acqua e dalla decomposizione delle sostanze carbonatiche. Anche in questo caso, influiscono vari fattori, come la quantità e la granulometria dei degrassanti (principalmente del quarzo), la temperatura massima raggiunta nella fornace e il periodo di mantenimento di tale temperatura.

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In alto: preparazione, attraverso la pigiatura, dell’argilla destinata a essere lavorata. A sinistra: resti di un forno per la cottura della ceramica scoperto a Sallèles-d’Aude (Occitania, Francia meridionale). L’impianto faceva parte di una grande fabbrica, attiva fra il II e il III sec. d.C. Dopo la cottura, per evitare choc termici, la ceramica viene pertanto lasciata raffreddare lentamente all’interno della fornace. Per quanto riguarda la colorazione, la ceramica (o, piú correttamente, l’argilla) ha due colori, quando è ancora cruda e quando viene cotta. Le argille possono avere colore grigio-verdastro, bruno-nerastro, rossastro tendente al bruno, secondo i giacimenti di provenienza, che possono contenere sostanze organiche, pirite, ossidi di ferro. Argille con forte presenza di caolinite (minerale appartenente ai silicati, tra i piú diffusi sulla terra, n.d.r.) possono assumere colore bianco avorio, o grigio-giallo. Tale colore

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cambia una volta che il manufatto è sottoposto a cottura (soltanto le argille con caolino puro mantengono anche in cotto il colore bianco), e può assumere tonalità rosse, rosate, gialle, a seconda della presenza di ossidi di ferro, di calcare, di ossidi di titanio, ecc., influenzando notevolmente il risultato finale. Un altro fattore da tener presente è quello legato al processo della cottura, sia per quanto riguarda la temperatura massima raggiunta nella fornace e il mantenimento di tale temperatura, sia che la cottura avvenga in atmosfera riducente o ossidante. Nel caso di inconvenienti nella fase di cottura (abbastanza frequenti con le tecniche antiche) – come sbalzi di temperatura, conduzione non uniforme del fuoco

e del calore, ingresso di aria nella fornace, combustibili non adatti –, lo stesso manufatto può assumere colorazioni diverse, che si manifestano con macchie e aloni irregolari, colpi di fiamma, macchie rosse su una superficie chiara, ecc.

COTTURE AD ALTE TEMPERATURE Per refrattarietà si intende la proprietà dell’argilla nell’essere sottoposta ad alte temperature senza deformarsi. Secondo la quantità e la diversa granulometria delle varie componenti dell’argilla, tale proprietà può variare. Si hanno pertanto argille fusibili, vetrificabili e refrattarie. Le argille fusibili sono quelle, di origine prevalentemente marnosa, che contengono un’elevata percentuale di carbonato di calcio;

Frammento di una kylix (coppa a due manici) attica a figure rosse sul quale compare l’immagine di un pittore intento a decorare un vaso. 480 a.C. circa. Boston, Museum of Fine Arts.

questo ha un punto di fusione compreso tra gli 800 e i 1000 gradi. Le argille vetrificabili possono sopportare il calore fino a una certa temperatura, prima che le componenti subiscano una brusca fusione e quindi iniziano a deformarsi. Le argille con tali proprietà non contengono carbonato di calcio, o comunque lo hanno in percentuale molto bassa. Il punto di fusione di tali argille è compreso tra 950 e 1100 gradi, pertanto la cottura ottimale deve avvenire prima che inizi la fase di vetrificazione, al di sotto di tali temperature. Le argille refrattarie hanno un’altissima percentuale di silice, mentre sono assenti i carbonati e altri fondenti. Il loro punto di fusione arriva oltre i 1500 gradi, mentre la caolinite pura fonde addirittura oltre i 1770 gradi centigradi. Il grado di refrattarietà delle argille dipende molto da quali fondenti si aggiungono: diminuisce se si aggiungono all’impasto alcali, carbonati e ossidi di ferro, mentre aumenta quando si aggiunge il quarzo. Nelle ceramiche da fuoco, utilizzate per cuocere zuppe, verdure, bolliti, in cui il corpo ceramico viene esposto per lungo tempo alle fonti di calore, gli impasti si presentano infatti molto grossolani, con inclusi di quarzo e mica ben visibili in frattura anche a occhio nudo, proprio per resistere bene alle alte temperature. Infine, la resistenza è la proprietà dell’argilla di resistere, appunto, alle sollecitazioni, sia quando è modellata a crudo dal vasaio, sia dopo la cottura. Per renderla piú lavorabile, e aumentare il grado di resistenza, il ceramista aggiunge pertanto all’impasto, se eccessivamente plastico, altre componenti, chiamate degrassanti, soprattutto il quarzo, come si è visto fondamentale anche per la resistenza al calore e agli sbalzi di temperatura.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

LA «CONVERSIONE» DEL COLOSSEO GIÀ SEDE DI SPETTACOLI A DIR POCO CRUENTI, L’ANFITEATRO FLAVIO VIENE CRISTIANIZZATO E RESTAURATO PER INIZIATIVA DEI PAPI. UNA SECONDA VITA CELEBRATA ANCHE DA ALCUNE PREGEVOLI MEDAGLIE

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gni opera cede dinanzi all’Anfiteatro dei Cesari, la fama parlerà ormai d’una sola opera al posto di tutte»: cosí Marziale, nell’incipit del suo Liber de spectaculis, esalta l’impresa architettonica piú celebre

dell’antichità romana, l’Anfiteatro Flavio di Roma, noto in tutto il mondo come Colosseo. E dal punto di vista tecnico e ingegneristico la costruzione dell’anfiteatro è effettivamente eccezionale, a partire dalla sua fondazione lí

In alto: medaglia in bronzo di Pio VII, 1807. Al dritto, busto del pontefice; al rovescio, il Colosseo durante il restauro del 1806. A sinistra: L’interno del Colosseo, olio su tela di Christoffer Wilhelm Eckersberg. 1815-1816. dove si trovava un lago artificiale e considerando poi a seguire: la perfetta tecnologia usata per il sistema fognario, oggetto di recenti scavi da parte del Parco Archeologico del Colosseo; la copertura tramite velari manovrati da 100 marinai della flotta di stanza a Capo Miseno trasferiti a Roma; i montacarichi che trasportavano dai

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Medaglia in bronzo di Pio IX, 1851. Al dritto, croce tra due Sacri Cuori, sotto gli stemmi di Benedetto XIV e Pio IX; al rovescio, il Colosseo sormontato da san Leonardo su nubi.

sotterranei all’arena uomini, bestie e complesse macchine sceniche e, infine, l’efficiente organizzazione dell’entrata/uscita delle decine di migliaia di spettatori che si accalcavano sulle gradinate. Indagini condotte nella prima metà del secolo scorso hanno inoltre portato alla scoperta della galleria sotterranea che collegava direttamente l’anfiteatro al Ludus Magnus, la vicina palestra dei gladiatori. Recente è poi l’identificazione del cosiddetto Passaggio di Commodo, anch’esso oggetto di indagini da parte del Parco Archeologico: un criptoportico con pavimento musivo e pareti in marmi e stucchi riservato probabilmente agli imperatori per raggiungere direttamente il palco imperiale provenendo (forse) da uno degli edifici del Celio. L’Anfiteatro fu rappresentato sulle monete dei Flavi, che celebravano la loro costruzione, e poi di Severo Alessandro e Gordiano III. Se la meraviglia architettonica è incontrovertibile e la sua fortuna come modello è testimoniata dai numerosi anfiteatri sparsi in tutto mondo romano giunti sino ai nostri giorni, può sembrare discutibile celebrarlo come una delle meraviglie del genio umano, dal momento che il «contenitore» e l’uso, violento, a cui era destinato non possono essere disgiunti ed è

difficile vedere negli spettacoli dell’arena una vetta di civiltà. Comunque sia, dopo secoli di abbandono e poi essere stato cristianizzato a partire dalla metà del XVIII secolo tramite le Viae Crucis e i restauri voluti da Benedetto XIV, il Colosseo ricompare sulle medaglie papali, come quella di Pio VII Chiaramonti, emessa nel 1807 per l’inizio dei restauri promossi dal pontefice e affidati dapprima a Raffaele Stern (1806-07) e poi proseguiti da Giuseppe Valadier (1823-26).

I PRIMI RESTAURI Firmata da Tommaso Mercandetti su entrambi i lati, la medaglia riporta al dritto il busto del pontefice con la legenda PIVS SEPTIMVS PONTIFEX MAX; al rovescio compare il settore orientale del Colosseo sul quale intervenne Stern, creando un sostegno in mattoni che murò le arcate pericolanti, immobilizzandone il dissesto, e che ancora oggi sostiene questo lato dell’edificio. Interessante è il particolare dell’impalcatura a sinistra davanti al settore oggetto dell’intervento di restauro, con il particolare dei pali conficcati nel selciato. La legenda riporta AMPHIT FLAVIVM REPARATVM, sulla linea d’esergo il nome del medaglista MERCANDETTI SCVLPSIT e la data, ROMAE

MDCCCVII; in esergo, ANNO A NATIVITATE/ CHRISTI/ MDCCCVI. Nel 1851 Pio IX fece coniare una medaglia commemorativa dell’istituzione della Via Crucis nel Colosseo inaugurata da Benedetto XIV nell’anno giubilare 1750. Il rituale fu ideato dal Frate Minore e santo Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751) e diffuso in tutte le chiese con autorizzazione pontificia; il frate perorò poi una speciale benedizione per il Colosseo e per i martiri cristiani, cosicché, il 27 dicembre 1750, Benedetto XIV istituí le 14 stazioni della Via Crucis nell’arena dell’anfiteatro e fece erigere al centro della stessa una grande croce. Realizzata da Bonfiglio Zaccagnini, la medaglia celebra il centenario della morte di san Leonardo e rappresenta su un lato la croce tra i sacri cuori di Gesú e Maria, sotto i quali si trovano gli stemmi di Benedetto XIV Lambertini e di Pio IX Mastai Ferretti. Sull’altra faccia si staglia la fronte del Colosseo con il contrafforte occidentale restaurato da Valadier, sormontato da san Leonardo con un grande vessillo su una nuvola. La legenda ricorda i 100 anni dalla morte del frate (AN. C. AB EXITV LEONARDI FVND. PATRONI COELESTIS M.DCCC.LI) seguita dalla firma del medaglista (ZACCAGNINI FECIT) posta alla base del monumento.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Gianfranco Maddoli

L’INVENZIONE DELLA «MAGNA GRECIA» Migranti di ieri, migranti di oggi presentazione di Filippo Coarelli, Rubbettino, Soveria Mannelli, 114 pp. 15,00 euro ISBN 978-88-498-7038-1 www.store. rubbettinoeditore.it

La piú efficace attualizzazione del passato – piú che scaltrezza nella scelta dei temi e acrobazie argomentative – richiede di accostarsi ai temi caldi dell’oggi con passione etica, sociale e politica e con profonda conoscenza dell’antico e Gianfranco Maddoli è ampiamente provvisto di entrambe le armi. A lungo professore di storia greca a Perugia, Maddoli è stato anche sindaco della propria città, nella breve fervida stagione successiva a Tangentopoli. Il libro coniuga due soggetti che possono (starei per scrivere dovrebbero) ben 112 a r c h e o

sollecitare l’interesse del lettore non iniziato. Al confronto tra le «migrazioni» contemporanee e i movimenti di popoli di epoca antica, e in particolare la colonizzazione greca, si affianca un’agile rilettura della storia dell’Italia meridionale e della Sicilia nello scorcio del II e nel I millennio a.C. Tale storia non è narrata per esteso, ma esaminata in alcuni nuclei problematici piú rilevanti per il confronto con il drammatico presente, a cominciare naturalmente da quello con il fenomeno migratorio. Come annuncia il titolo, tuttavia, l’agile volumetto vuole soprattutto rispondere anche a legittime curiosità. Qual è la genesi e il significato della designazione con la quale il linguaggio contemporaneo evoca nostalgicamente quella fase della storia del Mezzogiorno? Perché l’Italia meridionale fu detta Magna Grecia? Sul primo versante Maddoli mette fruttuosamente in luce le analogie e soprattutto le differenze tra i movimenti di popoli di ieri e di oggi. La colonizzazione greca si sprigiona dalla superiorità organizzativa e tecnica dei Greci, che permise a formidabili guerrieri di occupare, ai danni delle popolazioni locali, le terre dell’Italia meridionale e della Sicilia. La nascita delle

comunità coloniali garantí agli esuli greci diritti che sono negati ai migranti di oggi. Anche se sono le differenze che rendono meglio comprensibili i due fenomeni, la constatazione del parallelismo fra passato e presente porta Maddoli a mettere l’accento sul carattere strutturale, e dunque inarrestabile, dell’attuale fenomeno migratorio. Lo squilibrio tra le fosche prospettive in patria e le speranze di un destino migliore nella terra d’arrivo induce al viaggio, ma Maddoli, ricordando i suggestivi racconti sulle fondazioni coloniali greche che documentano l’obbligo costrittivo a lasciare la propria città, osserva che la partenza in ultima analisi non è mai voluta, ma sempre sofferta. La rendono necessaria la minaccia di un destino di prevaricazione, miseria, sofferenza e morte: ne esce implicitamente demistificata la categoria di comodo del «migrante», e del «migrante economico» in particolare. Sulla figura del «migrante» Maddoli torna soprattutto nel pensoso capitolo finale, dedicato al ruolo della cultura classica nella storia dell’Occidente e nel presente, ma anche al tema degli squilibri nazionali e internazionali. Formazione, cultura ed educazione scientifica e civile sono strumenti indispensabili per un reale progresso, e anche,

semplicemente, per garantire una risposta individuale e politica degna di un Paese civile alle tragedie della povertà, della violenza e della morte. Idee non nuove, ma espresse con lucidità e passione, che rendono queste pagine particolarmente efficaci. Veniamo dunque al versante antico, prevalente nel libro. Alla fine di un avvincente cammino investigativo, che l’autore appropriatamente definisce «un giallo», si scopre in quali circostanze si sia imposto, come orgogliosa rivendicazione degli Achei d’Italia, il termine Megàle Hellàs/ Magna Grecia. Per strada il lettore verrà tra l’altro a sapere, forse con sorpresa, che per lo piú con quel termine molti autori antichi, tra cui Polibio e Cicerone, evocano una gloria passata – in modo non troppo dissimile da quello che accade oggi nella toponomastica stradale o nel nome di un’impresa turistica. Il percorso d’indagine dell’autore segue il filo delle grandi denominazioni territoriali. Egli introduce il lettore – fonti alla mano – nella storia piú antica del nome di Italia, e gli chiarisce come esso indicasse in origine solo la parte piú meridionale della nostra penisola. Altre volte Maddoli cerca risposte ai propri interrogativi nel terreno dei miti e nei fatti del secondo millennio


avanti Cristo, dove suggerisce di trovare il come e il perché la Hellàs dei Greci sia Graecia per i Romani, e di conseguenza per noi europei. L’invenzione della «Magna Grecia», introdotto da una lucida premessa di Filippo Coarelli, è scritto in una prosa piacevole, scorrevole ma mai banale, e si offre accogliente al lettore non specialista: testi e termini antichi sono tradotti costantemente; circostanze, persone e lessico specialistico sono sempre chiariti con naturale scioltezza. Il conoscitore delle lingue classiche potrà leggervi tuttavia in lingua originale brevi brani piú significativi, e in un caso l’autore lo chiamerà a seguirlo brevemente nell’interpretazione di un brano di comprensione difficile. Una sommaria ma succosa bibliografia finale completa il volume, suggerendo possibili approfondimenti. Massimo Nafissi Jean Guilaine, Giuliano Cremonesi (a cura di)

IL VILLAGGIO ENEOLITICO DI TRASANO (MATERA) Origines 36, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 286 pp., ill. b/n e col. 60,00 euro ISBN 978-88-6045-091-3 www.iipp.it

Destinato al pubblico degli specialisti, il volume dà conto di una delle acquisizioni piú importanti per gli studi sull’età del

Rame: quella del villaggio scoperto a Trasano, nel Materano, e indagato sistematicamente dal 1986 al 1991. Il suo ritrovamento fu il frutto di una sorta di «effetto collaterale» di un progetto di ricerca avviato due anni prima e che, in realtà, mirava a documentare la frequentazione piú antica dell’area, attestata dai resti di un abitato neolitico. Tuttavia, di fronte alla consistenza delle tracce individuate, non vi furono esitazioni e l’esplorazione seguí un doppio binario. Fenomeni erosivi, dilavamenti e alterazioni del deposito archeologico – come quelle causate dal prolungato transito di mezzi su ruote, quali carri e carretti – hanno ridotto il potenziale informativo del sito, che, tuttavia, resta molto elevato, soprattutto per quanto riguarda le tracce lasciate dalle strutture costruite dai gruppi che lí scelsero di insediarsi. Basti pensare che le campagne di scavo hanno portato alla luce e documentato poco meno di 2000 buche di palo, la cui analisi ha permesso di

ricostruire l’esistenza di decine di capanne. Queste ultime sono inquadrabili in tre tipologie principali: circolari, ovali o ellittiche e di forma allungata, a pianta rettangolare con abside. Il loro studio analitico, integrato con i dati offerti dagli esami condotti sulle altre categorie di reperti restituiti dalle indagini, ha indotto a ipotizzare che l’adozione dei diversi tipi sia anche il riflesso della successione delle fasi di frequentazione del sito – che si collocano nella seconda metà del III millennio a.C. – con una transizione dalle capanne circolari a quelle rettangolari. Di certo, Trasano aggiunge un tassello decisivo alla conoscenza dei modi dell’abitare dell’età del Rame, una fase che, fino a tempi non lontani, era nota quasi esclusivamente grazie a contesti funerari. Al contempo, le osservazioni condotte, per esempio, sulla ceramica hanno offerto indizi convincenti sul piú ampio contesto culturale in cui collocare il sito materano, che appare pienamente coinvolto in fenomeni tipici dell’Italia meridionale e dell’area transadriatica. Esemplare nella sua articolazione e caratterizzata da un ricco apparato iconografico, la pubblicazione degli scavi condotti a Trasano rappresenta quindi un contributo prezioso per la migliore conoscenza di uno dei momenti di svolta

della piú antica storia della Penisola e non solo. Stefano Mammini Carlo Ruta

IL LEGNO NELLA STORIA La forza influente della materia «debole» nei percorsi di civilizzazione e nei processi formativi delle razionalità. Convegno internazionale di studi Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 261 pp., ill. b/n 22,00 euro ISBN 978-88-99168-58-2 www.edizionidistoria.com

Il tema affrontato nel convegno e di cui il volume dà conto è di grande interesse, in quanto il legno, a fronte delle scarse tracce materiali giunte sino a noi per quanto riguarda le attestazioni piú antiche, ebbe un ruolo decisivo nel modus vivendi delle comunità umane. Qui indagato secondo approcci differenti e con uno sguardo che abbraccia un orizzonte che spazia dalla preistoria all’età moderna. S. M. a r c h e o 113


presenta

UNA FAMIGLIA ALLA CONQUISTA DELL’ EUROPA

I MEDICI Forse originari del Mugello, i Medici costruirono la propria fortuna a Firenze e il loro nome finí quasi con il diventare sinonimo di quello della città del giglio. Alla loro straordinaria parabola è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», che ripercorre l’intera storia della casata, a partire da quando, intorno alla metà del XII secolo, i suoi esponenti si mettono in luce dedicandosi con profitto alla mercatura e al cambio, attività che si trasformano nel trampolino dal quale i Medici spiccano il salto che li porta a scalare le gerarchie del potere politico. Divengono cosí i primi protagonisti di un sistema amministrativo assai complesso, che Cosimo il Vecchio e i suoi successori dimostrano di saper governare con estrema abilità. Un’egemonia rinsaldata da un sapiente gioco di alleanze, matrimoni combinati e partecipazione alla vita religiosa, che culmina, quest’ultima, con l’ascesa al soglio di Pietro di ben quattro discendenti di Giovanni di Bicci, artefice primo delle fortune medicee. Nel Dossier c’è spazio per tracciare il profilo di personaggi illustri, da Lorenzo il Magnifico a Caterina de’ Medici, che grazie al matrimonio con Enrico II, duca d’Orléans, divenne regina di Francia. Né manca, e non avrebbe potuto essere altrimenti, la documentazione della eccezionale fioritura delle arti di cui i Medici si fecero promotori, oggi testimoniata da monumenti eccelsi e da collezioni di valore inestimabile, prima fra tutte quella degli Uffizi.

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