Archeo n. 459, Maggio 2023

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BRUNO SNELL

IL DONO DI THOT

L’INTERVISTA

CLEOPATRA

ALLE ORIGINI DEL PENSIERO EUROPEO

HENRYK SIENKIEWICZ

SPECIALE FORO DI CESARE

CLEOPATRA REGINA PER SEMPRE

o. i t

IL DONO DI THOT

LETTERATURA

QUO VADIS, DOMINE? SPECIALE

SCAVI NEL FORO DI CESARE

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 10 MAGGIO 2023

2023

Mens. Anno XXXIX n. 459 maggio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 459 MAGGIO

SCRIVERE NELL’ANTICO EGITTO

€ 6,50



EDITORIALE

SFUMATURE Stavamo per andare in stampa quando abbiamo letto di un nuovo contraddittorio destinato ad attualizzare la quaestio con la quale si apre l’articolo di Silvia Giorcelli in questo numero (vedi alle pp. 60-74): qual era il colore della pelle di una delle donne piú celebri della storia? Sollecitato dall’annuncio di una nuova docu-serie disponibile, già in questi giorni, sulla piattaforma Netflix, sull’argomento è intervenuto perfino il principe degli archeologi egiziani, Zahi Hawass: proporre l’immagine di una Cleopatra nera (nella serie è interpretata dall’attrice britannica Adele James) equivarrebbe ad affermare un falso storico, l’ultima regina d’Egitto era caucasicamente bianca, in quanto di discendenza greco-macedone. Procede, dunque, a colpi di film – e senza soluzione di continuità, da quando l’affascinante regina apparve sugli schermi nel 1912, bianca e muta, interpretata da Helen Gardner – la riproposizione moderna di un personaggio che, nei millenni, non ha certo perso smalto, né rilevanza storica. Ma perché attardarsi sul colore della pelle? È curioso notare come la stessa domanda venga periodicamente sollevata a proposito Helen Gardner, Cleopatra cinematografica del 1912.

dell’aspetto di un altro personaggio, nato circa un trentennio dopo la morte della leggendaria regina e in una terra confinante con il regno dei faraoni: Gesú di Nazaret. Bianco o nero? Discussioni «all’insegna del politicamente corretto», avverte Giorcelli, puntellate da neologismi quali il whitewashing o la blaxploitation, ai quali – o almeno al loro uso nell’ambito di temi e problemi di nostra competenza – non vorremmo augurare lunga vita. Ricordiamo, inoltre, che una reale pratica di «sbiancamento», ahinoi per lo piú irrimediabile, è stata messa in atto – in silenzio e senza che se ne accorgessero neanche i padri dell’archeologia e della storia dell’arte antica – da quel grande scultore che è il tempo, alleggerendo via via l’immenso patrimonio della statuaria antica degli strati di colore che, in origine, la ricoprivano. Forse, un giorno, indagando su eventuali residui di pigmento individuati su un supposto ritratto marmoreo di Cleopatra, otterremo certezza sul suo teint. E scopriremo, magari, che non era né pallido, né africanamente nero, ma di una nuance mediterraneamente intermedia. Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Sfumature 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCAVI Beatitudine: istruzioni per l’uso

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L’INTERVISTA

Se vogliamo essere europei, dobbiamo chiederci: chi erano i Greci?

DONNE DI POTERE/3

Regina per sempre 28

di Barbara Castiglioni

di Giampiero Galasso

ALL’OMBRA DEL VULCANO Dal saccheggio al recupero

8

di Alessandra Randazzo

FRONTE DEL PORTO Lussi tardo-antichi

10

di Dario Daffara e Roberta Fini

MUSEI La preistoria in un QR Code

12

di Stefano Mammini

A TUTTO CAMPO L’Orto di Gottfried

60

di Silvia Giorcelli

60 ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/8

28 MOSTRE

Il piú intellettuale del pantheon egiziano 44

Una grande epopea cristiana

76

di Giuseppe M. Della Fina

di Paolo Marini, Federico Poole e Susanne Töpfer

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di Matteo Trivella

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o. it

FO R RO O DI M CE A SA RE he

ARCHEO 459 MAGGIO 2023

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76 € 6,50

www.archeo.it

di Luciano Calenda

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IN EDICOLA IL 10 MAGGIO 2023

ARCHEOFILATELIA Signore, dove vai?

Presidente

IL DONO DI THOT

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

L’INTERVISTA

Mens. Anno XXXIX n. 459 maggio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE FORO DI CESARE

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

HENRYK SIENKIEWICZ

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

CLEOPATRA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Federico Curti LETTERATURA

QUO VADIS, DOMINE? SPECIALE

IL DONO DI THOT

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

BRUNO SNELL

Anno XXXIX, n. 459 - maggio 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

SCRIVERE NELL’ANTICO EGITTO

In copertina Scriba seduto, statua in calcare dipinto con inserti in rame, calcite, cristallo di rocca e legno, da Saqqara. IV dinastia (2620-2500 a.C.). Parigi, Museo del Louvre.

SCAVI NEL FORO DI CESARE

ALLE ORIGINI DEL PENSIERO EUROPEO

arc459_Cop.indd 1

Comitato Scientifico Internazionale

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

CLEOPATRA REGINA PER SEMPRE

28/04/23 16:16

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Barbara Castiglioni è dottore di ricerca in culture classiche e moderne. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Roberta Fini è archeologa. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Silvia Giorcelli è professoressa ordinaria di storia romana all’Università degli studi di Torino. Paolo Marini è curatore presso il Museo Egizio di Torino. Claudio Parisi Presicce è Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali del Comune di Roma. Federico Poole è curatore presso il Museo Egizio di Torino. Alessandra Randazzo è giornalista. Susanne Töpfer è responsabile della collezione papirologica del Museo Egizio di Torino. Matteo Trivella è archeologo. Massimo Vitti è responsabile degli Uffici Area archeologica dei Fori Imperiali della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali del Comune di Roma.


Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

L’argilla di Venere

108

di Luciano Frazzoni

108 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Quelle arcate imperiali 112 di Francesca Ceci

LIBRI

114

86 SPECIALE

La magnifica incompiuta del divo Giulio

86

di Claudio Parisi Presicce e Massimo Vitti

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 49) e pp. 3, 18, 18/19, 19 (alto), 20 (alto), 21, 29, 32-35, 37, 38-41, 46-48, 60, 62-65, 67, 69, 70-71, 76, 86, 108-110 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la Provincia di Cosenza: pp. 6-7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 10-11 – Stefano Mammini: pp. 12/13 – Cortesia Regione Autonoma Valle d’Aosta, Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali: Archivio Rava: pp. 12, 13 (alto), 14 – Cortesia Devid Savegnago: p. 16 (sinistra; foto da drone con elaborazione grafica di Matteo Trivella) – Cortesia Giulia Ardizzone: p. 16 (destra) – Cortesia degli autori: pp. 17, 112 (alto), 113 – Cortesia Ufficio Stampa del Museo Egizio di Torino: pp. 44-45, 50/51, 51, 52-57 – Mondadori Portfolio: Cortesia Everett Collection: pp. 61 (sinistra, alto e basso); Mary Evans/AF Archive: pp. 61 (destra, alto), 77; Mary Evans/AF Archive/Aquarius: p. 61 (destra, centro); Electa/Luciano Pedicini: p. 66; Album: p. 72; Fine Art Images/Heritage Images: p. 74; Album/Quintlox: p. 78; Fototeca Gilardi: p. 79 (centro e basso); Album/Prisma: p. 80; Album/ British Library: pp. 80/81; MGM/Roland Grant Archive: p. 84; MGM/Collection Christophel: p. 85 – Art Institute of Chicago, Chicago: p. 73 – Shutterstock: pp. 82-83 – Alamy Stock Photo: pp. 86/87 – Cortesia Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali del Comune di Roma: pp. 88-89, 90 (alto), 91, 94-95, 97, 98-103, 104, 105 (destra, alto e basso), 106-107; Studio InkLink: tavole alle pp. 90, 92-93, 96, 105 (alto, a sinistra) – Cortesia ESO, Osservatorio Europeo Australe: p. 112 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 19, 20. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2021 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Sibari

BEATITUDINE: ISTRUZIONI PER L’USO

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uove scoperte nel Parco archeologico di Sibari aggiungono un nuovo capitolo sulla conoscenza del culto funerario dei Greci in Occidente. Un’inedita sepoltura del IV secolo a.C., catalogata come « Tomba 22.1», è stata messa in luce grazie alle indagini archeologiche condotte con la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Cosenza nell’area necropolare di Favella della Corte, identificata come lo spazio sepolcrale della colonia panellenica di Thurii, città che si sviluppa a partire dal V secolo a.C. quasi nello stesso sito della piú antica Sybaris. «Si tratta – spiegano Filippo Demma, direttore Parco di Sibari, e Paola Aurino, Soprintendente ABAP di Cosenza – di una fossa di circa 2 m di lunghezza per 1 m di larghezza, profonda appena 45 cm, In alto: il corredo di una tomba scavata negli anni Novanta nella necropoli in località Favella della Corte (Sibari). In basso: la tomba 22.1 in corso di scavo, con la copertura in situ.

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In alto: Padova, via Campagnola. Documentazione di una stele iscritta restituita dagli scavi. In basso: una veduta dall’alto di uno dei settori del cantiere di scavo.

che ospitava la deposizione di un individuo, probabilmente una donna, disposto in posizione supina e accompagnato da pochi elementi di corredo: un piattino e un guttus-poppatoio, entrambi integri, e due piccoli frammenti d’oro accartocciati. Il corredo era posizionato lungo il fianco destro del defunto, in prossimità del bacino, mentre le lamine sono state individuate vicino alla mano destra. Grazie alle prime indagini compiute sui due reperti aurei immediatamente dopo la scoperta, si è compreso che si era in presenza di frammenti di lamine iscritte del tipo cosiddetto “orfico”. Si tratta di oggetti molto rari, attestati da pochi rinvenimenti avvenuti in Magna Grecia, a Creta e in Tessaglia, e i cui esemplari piú completi furono trovati nel 1879 proprio in due grandi tumuli funerari, i cosiddetti “Timponi”, poco distanti dal sito

della nuova sepoltura e oggi in esposizione al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Le laminette d’oro di Thurii costituiscono indubbiamente dei documenti di grande interesse per conoscere una parte della religione antica connessa al mondo dei defunti: si tratta di fogli d’oro di pochi centimetri, sui quali sono riportate le istruzioni seguendo le quali il defunto può raggiungere la beatitudine. A partire almeno dalla tarda età arcaica (fine del VI secolo a.C.) si diffusero in Grecia e nelle colonie occidentali dottrine filosofiche e religiose, quali proprio l’orfismo o il dionisismo, secondo le quali l’anima sopravvive al corpo e dopo la morte si reincarna. Per poter fermare il ciclo del ritorno sulla terra bisognava intraprendere un virtuoso percorso mentre si è in vita e, una volta morti, applicare quello che si è imparato.


Nell’aldilà l’anima deve intraprendere un preciso cammino, evitare determinati ostacoli e sentieri e percorrerne altri, per raggiungere quello che oggi definiremmo paradiso. La Tomba 22.1 potrebbe cosí aggiungere un nuovo capitolo a quella che potremmo definire l’affascinante “storia dell’immortalità presso i Greci”. La sua importanza risiede proprio nel fatto che si tratta di un rarissimo caso di sepoltura indagata scientificamente, per la quale il contesto di rinvenimento e le analisi archeometriche – che finora non è mai stato possibile effettuare negli altri casi noti – possono offrire un contributo essenziale per la comprensione degli oggetti recuperati e delle storie che sono in grado di raccontarci».

Per consentire uno studio piú attento e accurato, con il recupero di altri eventuali frammenti di In alto: lo scavo e il successivo microscavo in laboratorio della tomba 22.1 di Favella della Corte, che ha restituito, fra gli altri, frammenti di lamine in oro con iscrizioni di tipo «orfico». IV sec. a.C. A sinistra: un altro corredo proveniente da precedenti scavi condotti nell’area della necropoli.

lamine d’oro e la contemporanea documentazione digitale delle importanti evidenze venute in luce, lo scavo è stato interrotto e si è proceduto a prelevare la tomba per intero e a trasportarla nel laboratorio del Parco. Qui, grazie a un protocollo d’intesa con la Soprintendenza competente, finalizzato alla valorizzazione del patrimonio culturale della Sibaritide, è stato attivato il microscavo della sepoltura per intercettare ulteriori frammenti mancanti della laminetta orfica, mentre negli stessi spazi è allestita una piccola mostra che presenta al pubblico con finalità didatticoscientifica il corredo funebre e la ricostruzione della tomba. In laboratorio si può assistere in presa diretta anche al restauro della copertura e alle prime analisi archeometriche e paleobotaniche. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandra Randazzo

DAL SACCHEGGIO AL RECUPERO OLTRE A ESSERE STATE SEGNATE DA SCOPERTE SPETTACOLARI, LE INDAGINI NEL SITO DI CIVITA GIULIANA CONTINUANO A OFFRIRE DATI IMPORTANTI PER RICOSTRUIRE L’ASSETTO E LA VITA DEL SUBURBIO POMPEIANO

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a zona esterna ai confini di Pompei è sempre stata caratterizzata da numerosi complessi insediativi, che rispondevano a esigenze di carattere produttivo (vino, olio); residenze sia temporanee che di soggiorno fisso da parte del proprietario. Gli scavi condotti in località Civita Giuliana hanno rivelato nel corso degli anni una villa rustica, già in parte indagata agli inizi del Novecento e solo recentemente oggetto di scavi stratigrafici. Tra il 1907 e il 1908, il marchese Giovanni Imperiali, su concessione del Ministero della Pubblica Istruzione, ebbe la possibilità di scavare nella zona a nord dell’area attualmente portata alla luce e già allora emersero importanti resti del settore

residenziale e produttivo della villa (15 ambienti). Dal 2019 a oggi, si sono susseguite importanti scoperte: un carro cerimoniale meravigliosamente decorato con rilievi d’argento (la cui fragilità ha indotto gli archeologi a optare per un microscavo, affidato ai restauratori del Parco specializzati nel trattamento dei legni e dei metalli);

una stalla con la mangiatoia e i resti di tre cavalli, due dei quali con le bardature; due vittime dell’eruzione di cui sono stati eseguiti i calchi; una stanza adibita ad alloggio servile; suppellettili in ceramica, tra cui stoviglie e coppe trovate capovolte lungo le pareti di un ambiente che faceva parte dei quartieri servili del vasto complesso residenziale.

RICERCA E PREVENZIONE L’ultimo ritrovamento ha avuto luogo nei pressi di una strada moderna che attraversa la villa e che è stato necessario chiudere, non soltanto per consentire l’indagine delle sottostanti strutture antiche, ma anche perché l’estesa rete dei cunicoli realizzati dagli scavatori clandestini ha finito con il compromettere la stabilità del terreno, rendendo necessaria la messa in sicurezza dell’area. Il progetto di scavo ha peraltro

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Sulle due pagine: immagini delle ultime scoperte di cui è stata teatro la villa rustica in località Civita Giuliana, nel suburbio di Pompei. Si tratta, in questo caso, di coppe in ceramica, rinvenute capovolte lungo le pareti di uno degli ambienti del complesso adibiti a uso servile. archeologi, architetti, ingegneri, rilevatori, restauratori, vulcanologi, antropologi e archeobotanici. L’esigenza di interrompere in modo definitivo le azioni delittuose di depauperamento del patrimonio archeologico nazionale ha determinato la necessità di realizzare una nuova campagna di scavo attraverso un’operazione sinergica tra Parco Archeologico di Pompei e Procura della Repubblica di Torre Annunziata.

INSIEME PER LA LEGALITÀ E LA TUTELA

avuto il merito di interrompere le attività clandestine che appunto attraverso tunnel e scavi hanno violato gli ambienti della villa e disperso una documentazione archeologica indispensabile per la conoscenza della villa stessa e del suo territorio. I cunicoli dei tombaroli, realizzati seguendo le pareti perimetrali degli ambienti e provocando brecce nei muri

antichi, hanno deteriorato gli intonaci, distrutto parte delle murature, e molti oggetti sono stati trafugati o danneggiati. Le attività di ricerca del Parco Archeologico di Pompei si sono anche accompagnate, con il procedere dello scavo, alla messa in sicurezza e al restauro di quanto emerso con la collaborazione di un team interdisciplinare formato da

Il sito archeologico di Civita Giuliana è stato sottratto a un’annosa attività di saccheggio da parte di scavatori clandestini grazie al protocollo d’intesa siglato nel 2019 dall’allora direttore Massimo Osanna e dal Procuratore della Repubblica di Torre Annunziata Pierpaolo Filippelli. Rinnovato nel 2021 dal direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel e dal Procuratore Nunzio Fragliasso, l’accordo prevede sforzi congiunti per contrastare gli scavi clandestini nei dintorni di Pompei e per indagare e valorizzare scientificamente i siti sottratti ai tombaroli, grazie anche al supporto del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale Campania e del Nucleo investigativo Torre Annunziata dell’Arma dei Carabinieri. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

LUSSI TARDO-ANTICHI LA DOMUS DELLA FORTUNA ANNONARIA È OGGETTO DI NUOVE INDAGINI, GRAZIE ALLE QUALI SONO VENUTI ALLA LUCE MOSAICI PAVIMENTALI INEDITI. E OGGI È POSSIBILE RICOSTRUIRE IN DETTAGLIO LO SVILUPPO ARCHITETTONICO DELLA STRUTTURA NEL CORSO DELLA SUA LUNGA FREQUENTAZIONE

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ecenti studi condotti nella domus della Fortuna Annonaria hanno permesso di acquisire nuovi dati utili per la ricostruzione degli apparati decorativi. Questa abitazione unifamiliare, costruita nel I secolo d.C. intorno a un peristilio colonnato, fu trasformata nel II secolo in caseggiato di appartamenti su piú piani, per essere infine adattata a lussuosa residenza tra III e IV secolo. In questa fase l’edificio era provvisto di vari ambienti di rappresentanza, tra cui una sala absidata con ninfeo e una sala con pavimento a intarsi marmorei (opus sectile), nonché di una piccola stanza riscaldata, decorata da un mosaico pavimentale

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raffigurante il mito di Licurgo e Ambrosia. L’intero edificio fu riportato alla luce nel 1939, durante gli scavi per l’Esposizione Universale del 1942 diretti da Guido Calza: le strutture furono restaurate rialzando le murature crollate e integrando massicciamente le parti poco conservate. Fu inoltre deciso di rimuovere le strutture delle fasi piú tarde, eliminando per esempio i muri che avevano chiuso gli spazi tra le colonne del peristilio.

UNA CASA «IDEALE» Oggi un’operazione del genere sarebbe impensabile, ma all’epoca venne decisa per agevolare la comprensione del complesso e proporre un esempio «ideale» di abitazione tardo-antica con

peristilio. La domus è anche celebre per il gran numero di sculture ritrovate al suo interno, tra cui la statua della cosiddetta Fortuna Annonaria che ha dato il nome all’abitazione. La concentrazione delle opere sul lato meridionale potrebbe essere indicativa della loro effettiva collocazione antica, oppure dipendere da un accumulo in fase di spoliazione. Una recente campagna di pulizia delle pavimentazioni ha permesso di documentare mosaici mai visti in precedenza, dei quali si è data comunicazione nell’ultimo colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (AISCOM), tenutosi a Ostia antica nello scorso mese di marzo. Nel vestibolo è apparso un mosaico


In alto, da sinistra: ipotesi ricostruttiva del rivestimento absidale della domus della Fortuna Annonaria e i fori di fissaggio nelle Terme dell’Invidioso. A sinistra: lacerto di mosaico nell’ambulacro della domus. Nella pagina accanto: il peristilio della domus della Fortuna Annonaria.

bianco e nero, purtroppo mal conservato, anteriore al III secolo d.C. e restaurato già in antico con tessere bianche piú grandi. Frammenti di un altro mosaico sono venuti alla luce davanti alla sala absidata e hanno permesso di ricostruire la pavimentazione dell’ambulacro del peristilio: si trattava di un mosaico a fondo bianco, incorniciato da doppia cornice nera e scandito da un motivo a rombi verdi disposti diagonalmente. Tale motivo si ritrova a colori invertiti in altre case ostiensi, come la domus a Peristilio e la domus del Portico di Tufo, riferibili all’età augustea. Il rilievo delle pareti della casa ha inoltre consentito di ricostruire alcune sezioni del rivestimento marmoreo che, almeno nell’ultima fase, decorava gli ambienti di rappresentanza. Un esempio

interessante si trova nella sala con ninfeo: sulla parete dell’abside sono ancora visibili i fori per l’alloggiamento delle grappe metalliche utilizzate per fissare le lastre marmoree di rivestimento. Tali cavità testimoniano l’originaria presenza di una decorazione parietale, purtroppo quasi del tutto asportata, che può essere ricostruita ipoteticamente grazie alla disposizione dei fori.

IPOTESI E CONFRONTI Secondo l’ipotesi piú recente, la decorazione era formata da una zoccolatura sormontata da un sottile listello, sopra al quale erano poggiate lastre rettangolari di forma stretta e allungata. Questa ricostruzione è stata suggerita dal confronto con le vicine Terme dell’Invidioso, in particolare con l’abside del frigidarium: qui, infatti,

nella malta di allettamento, sono visibili le impronte delle lastre marmoree che sembrano rivelare un analogo sistema di fissaggio, con i perni posti al centro del margine superiore di ogni lastra. Nella domus è presente un altro ambiente di grande importanza, caratterizzato dalla presenza di una ricca pavimentazione marmorea in opus sectile. Anche sulle pareti di questa sala sono stati rilevati numerosi fori per l’alloggiamento di perni metallici, disposti ordinatamente in filari orizzontali. Si ipotizza che tale rivestimento marmoreo fosse formato da una zoccolatura sormontata da sei fasce orizzontali. Non è stato possibile definire la suddivisione interna alle singole fasce, ma è suggestiva l’idea che la disposizione delle lastre imitasse una cortina muraria con blocchi di pietra sfalsati, la cosiddetta opera quadrata isodoma. Le ricerche sulla domus della Fortuna Annonaria proseguiranno, per cercare di delineare sempre meglio lo sviluppo diacronico di questo affascinante complesso edilizio. Dario Daffara e Roberta Fini

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n otiz iario

VALORIZZAZIONE Valle d’Aosta

LA PREISTORIA IN UN QR CODE

L

a pratica dell’archeologia insegna che, fin dalla preistoria, le comunità umane non hanno mai scelto in maniera casuale i luoghi nei quali insediarsi, celebrare cerimonie o seppellire i propri morti e non soltanto per assecondare esigenze pratiche, quali la disponibilità d’acqua o una posizione protetta dalle intemperie. Requisito essenziale, infatti, era spesso la posizione dominante del sito e, in questo senso, un caso esemplare è quello della necropoli valdostana di Vollein (nel territorio comunale di Quart), impiantata su un dosso roccioso dal quale si può abbracciare con lo sguardo il tratto

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A sinistra, sulle due pagine: veduta del sito di Vollein, nel territorio di Quart. A destra: bracciale ricavato da una conchiglia di Glycymeris sp., dalla tomba 31 della necropoli di Vollein. In basso: una pagina del sito digitavollein.eu che mostra i siti coinvolti nel progetto «Scoprire per promuovere», mirato alla valorizzazione della preistoria valdostana. Nella pagina accanto, in basso: alcune tombe a cista di Vollein in corso di scavo. L’uso del sepolcreto, che comprende oltre 50 deposizioni, è databile intorno al 4500 a.C. che si avvale anche di supporti multimediali mira a farne conoscere la storia piú antica. Inserita nell’ambito del progetto «Scoprire per promuovere», a sua volta facente parte del Piano Integrato Tematico «Patrimonio, Cultura, Economia» (PITEM Pa.C.E.), l’iniziativa è stata pensata anche allo scopo di valorizzare il patrimonio archeologico preistorico dell’intera Valle d’Aosta, di cui Vollein costituisce uno dei tasselli piú importanti, insieme ai

siti di Mont Fallère (Saint-Pierre), Champrotard (Villeneuve), Chenal (Montjovet), Barma Cotze (Donnas) e Saint-Martin-de-Corléans (Aosta). Oggi, sul dosso roccioso di Vollein, la presenza delle spettacolari tombe a cista può solo essere immaginata, in quanto, per motivi di conservazione, si è deciso di ricoprire le strutture, ma, grazie ai pannelli e alla possibilità di utilizzare, tramite QR Code, una web app (digitavollein.eu) dà modo di calarsi nella realtà riportata alla

centrale della valle in cui scorre la Dora Baltea, alla quale fanno da corona le cime alpine della regione. La frequentazione antica di Vollein fu scoperta nel 1968 e, negli anni successivi, fino al 1994, il sito fu oggetto di campagne di scavo archeologico, esito delle quali è stata la localizzazione di un sepolcreto composto da oltre 50 tombe, inquadrabile nel Neolitico Medio, intorno alla metà del V millennio a.C. Oggi Vollein è meta soprattutto degli appassionati di arrampicata, grazie alla chiodatura della falesia che si trova di fronte all’area archeologica, ma l’attivazione di un percorso di visita

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luce dagli archeologi. In questo modo appare evidente l’importanza della necropoli, le cui tombe, al di là delle caratteristiche costruttive – che le accomunano alle manifestazioni tipiche della corrente culturale nota come Chamblandes –, hanno suscitato notevole interesse per i reperti facenti parte dei corredi. Materiali spesso pregiati e che testimoniano anche di scambi a lungo raggio, come prova la presenza di un bracciale ricavato da una conchiglia, la Glycymeris sp, tipica della regione mediterranea. Corredate anch’esse da un pannello esplicativo, ma ben visibili, sono invece, a pochi metri dall’area del sepolcreto, le incisioni rupestri

Rilievo delle incisioni rupestri di Vollein. Si tratta per lo piú di immagini simboliche e motivi geometrici, forse realizzati nella stessa epoca d’uso della necropoli. A sinistra: le grandi lastre di copertura delle tombe in corso di scavo. individuate nel sito. Si tratta in prevalenza di immagini simboliche o geometriche e, vista l’assenza di un deposito archeologico a esse associato, è difficile inquadrarle cronologicamente. È forte, tuttavia, la suggestione che, almeno in parte, quei segni siano stati tracciati sulla pietra dalle stesse genti che a Vollein deposero i propri defunti. Oltre al progetto di valorizzazione, Vollein, negli ultimi anni, sta vivendo anche una nuova stagione di studi: i materiali provenienti dagli scavi sono stati infatti riesaminati e l’Università di Berna ha avviato l’esame dei resti umani recuperati in occasione delle indagini. Con l’obiettivo di accertare, come è probabile, l’affinità dei gruppi che frequentarono il sito con le contemporanee comunità neolitiche dell’intera regione alpina. Stefano Mammini

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A TUTTO CAMPO Matteo Trivella

L’ORTO DI GOTTFRIED L’ORTICOLTURA DEL TEMPO DI CARLO MAGNO RIVIVE NELL’ARCHEODROMO DI POGGIBONSI (SIENA), IL VILLAGGIO MEDIEVALE RICOSTRUITO A PARTIRE DAI DATI RECUPERATI DAI CONTESTI DI SCAVO E DALLE FONTI DOCUMENTARIE

L’

Orto di Gottfried è il complesso delle aree ortive create all’interno dell’Archeodromo realizzato sulla collina di Poggio Imperiale a Poggibonsi (Siena) ed è frutto di una sperimentazione avviata dal 2019 al 2022, sotto la direzione scientifica di Marco Valenti. Obiettivo del lavoro era quello di riproporre l’orticoltura del periodo carolingio (VIII-IX secolo d.C.), per mezzo di una ricostruzione storicamente attendibile degli spazi di coltivazione, seguendo la crescita e lo sviluppo di alcune specie vegetali attestate nell’Alto Medioevo. La sperimentazione è consistita nella messa in opera di un orto del IX secolo, mediante il ricorso a studi di natura diversa, quali fonti letterarie, dati

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archeobotanici provenienti da ricerche archeologiche, analisi di natura geologica e pedologica.

TEORIA E PRATICA Il metodo utilizzato sul campo è stato sempre basato sul connubio tra teoria e pratica e sulla registrazione costante dei risultati ottenuti. Per la parte teorica sono state prese in considerazione le informazioni riguardanti l’orto altomedievale e le sue colture dal punto di vista strutturale e botanico, attingendo alle testimonianze letterarie, a partire dai trattati sulla naturalistica e l’agricoltura di età romana (tra i primi la Storia Naturale di Plinio il Vecchio, I secolo d.C.). La parte pratica, invece, è stata incentrata sulla ricostruzione

dell’orto e sulle modalità di coltivazione delle piante, operazioni effettuate con l’applicazione di tecniche e l’impiego di strumenti compatibili con il periodo storico, prestando anche attenzione alle credenze astronomiche connesse all’orticoltura, che hanno sempre accompagnato il lavoro della terra. Costante è stata l’applicazione dei principi dell’archeologia sperimentale e dell’archeologia pubblica all’attività ortiva, che hanno permesso di sviluppare un protocollo operativo in grado di registrare le difficoltà relative all’applicazione dei caratteri filologici della ricostruzione, alla riqualificazione del terreno e all’approvvigionamento dell’acqua, nonché alle problematiche concernenti il trattamento dei parassiti e delle malattie delle piante, in una cornice di rapporti continui con la comunità locale e i visitatori dell’Archeodromo.


A sinistra: la suddivisione interna dell’orto dominico, realizzato nei pressi della Longhouse. A destra: un’altra immagine dell’orto dominico, dopo il ripristino. In basso, a sinistra: l’autore, nelle vesti di Gottfried, accoglie i visitatori. In basso, a destra: coltivazioni di varie specie di ortaggi nelle aiuole. Nella pagina accanto, a sinistra: ripresa zenitale della Capanna C1, con la dislocazione delle aree ortive sperimentali intorno alla Capanna C1 e presso il distaccamento della Longhouse (in alto a destra). Nella pagina accanto, a destra: Gottfried cura l’aiuola L riservata al Timo (Thymus vulgaris L.), nell’orto principale della Capanna C1 La documentazione relativa al progetto e le esperienze di coltivazione sono state annotate in corso d’opera su una specifica pagina Facebook, attraverso un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori, al fine di perseguire i principi dell’archeologia pubblica, ispirati all’accessibilità ai risultati della ricerca archeologica.

LA FORMA HORTI Il complesso delle due aree ortive si sviluppa, in totale, su 50 mq ed è suddiviso nell’areale massaricio della Capanna C1 e in quello dominico, di piccole dimensioni, della grande residenza del Dominus, una Longhouse. L’organizzazione interna degli orti si è ispirata alla mappa del progetto edilizio dell’abbazia di San Gallo nell’omonimo cantone svizzero, risalente al IX secolo e modello per eccellenza dei monasteri altomedievali: lo schema prevedeva al suo interno anche le rappresentazioni architettoniche dei giardini e degli orti, predisposti con aiuole quadrangolari. Per seguire in modo fedele lo schema monastico, nonostante il recinto della Capanna C1 non

riproducesse un quadrato esatto, l’orto massaricio è stato ripartito in quattro settori: il settore 1 (aiuole 1-5) degli ortaggi, il settore 2 (aiuole K, R, L, S) delle erbe, il settore 3 (aiuole X-XIV) e il settore 4 (aiuole A-G) riservati a legumi, verdure, alberi da frutto ed erbe tintorie. Nel dominico le dimensioni ristrette hanno consentito l’impianto di sole tre aiuole, dedicate a ortaggi ed erbe. La tecnica di costruzione impiegata da Gottfried (nome che il responsabile del progetto ha scelto di assumere per vestire i panni dell’orticoltore «medievale», n.d.r.) per la realizzazione delle aree ortive ha seguito le pratiche di edilizia dell’epoca e impiegato i materiali piú consueti come le cannucce di fiume, il legno, l’impasto di terra e paglia e, in misura minore, anche la pietra locale.

POMODORI E PATATE? NO GRAZIE All’interno delle 27 aiuole quadrangolari sono presenti 36 colture, selezionate grazie al vaglio delle fonti storico-iconografiche coeve, come l’Hortulus di Walafrido Strabone, monaco dell’abbazia benedettina di Reichenau, sul lago di Costanza (Svizzera), vissuto nel

IX secolo, e il Capitulare de villis, documento risalente agli anni conclusivi del regno di Carlo Magno, che disciplinava le attività agricole e commerciali nelle fattorie e aziende dell’impero. Il successivo confronto con alcuni inventari fatti redigere da Carlo Magno per le proprietà del fisco regio (i cosiddetti Brevium Exempla), ha poi consentito di individuare gli ortaggi principali dell’orto, cioè cipolla, aglio e porro, integrandoli con altre specie coltivate nel periodo carolingio. Le 36 colture presenti negli areali ortivi dell’Archeodromo sono state quindi illustrate e racchiuse nell’Erbario di Gottfried, con una narrazione estesa, dedicata alla spiegazione delle origini delle singole specie e agli aspetti mitologici e tradizionali legati alle piante coltivate. Ma il progetto non si fermerà qui: uno sviluppo possibile della ricerca metterà a punto la ricostruzione di un frutteto e di un’area recintata per coltivare in estensione i cereali. Per approfondimenti e aggiornamenti, sono disponibili la pagina Facebook Orto di Gottfried e il sito web dell’Archeodromo: www.archeodromopoggibonsi.it (matteo.w.trivella@gmail.com)

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IN CROCIERA CON «ARCHEO»

SPLENDORI DELL’ANTICO EGITTO

A

pprodati al piccolo porto di Safaga, sulla costa egiziana del Mar Rosso, procediamo alla visita di uno dei luoghi piú suggestivi dell’antico Egitto, Tebe, nel Sud del Paese, nell’area in cui oggi sorge il villaggio di Luxor. Dopo la fine dell’Antico Regno, nel XVI secolo a.C. una famiglia

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di principi locali diede vita alla XVIII dinastia (1539-1292 a.C. circa), trasformando nella loro residenza quello che fino ad allora era stato un villaggio di modesta importanza, nonostante vi fossero nati i sovrani della XII dinastia (1938-1759 a.C. circa). Per questo motivo, per tutta la

durata del Nuovo Regno (15391075 a.C. circa) e anche oltre, Tebe è stata il centro dell’impero creato grazie alle vittoriose guerre condotte dall’Egitto nei primi anni della XVIII dinastia. A Tebe, la città «dalle cento porte» cantata da Omero, il visitatore ha piú che altrove la sensazione di trovarsi nella capitale di uno Stato antico, grande e potente. Qui sono ancora in piedi grandi edifici religiosi e non è difficile immaginare il loro splendore originario. Le tombe conservate nelle necropoli site sulla riva sinistra, con la loro magnifica decorazione pittorica, danno un’idea molto viva del fatto che qui aveva la sua residenza la corte e con essa la classe dirigente dell’Egitto del Nuovo Regno. La situazione archeologica di questa zona è piú complessa di quanto possa apparire a prima vista. Per potersi orientare tra i numerosi monumenti, bisogna tener presente che qui il fiume separa la città dei vivi, che sorgeva a oriente sulla riva destra, dalla città dei morti, l’immensa area in cui si trovavano le necropoli, le

Cipro

Limassol

Mediterr rran aneo eo

Port Said Canale di Suez

Giorddannia Aqaba

Egittto

Sharm el-Sheikh

Arabia Saudita

Safaga

Mar Ro Rosso

Yanbu

Gedda

Marmar

Qui sopra: l’itinerario della crociera. In alto: ricostruzione grafica del tempio funerario di Hatshepsut, quinta sovrana della XVIII dinastia, a Deir el-Bahari, di fronte a Luxor. Nella pagina accanto, in alto: Rovine del tempio di Karnak, disegno di Giovanni Battista Belzoni. 1822. Gerusalemme, Museo di Israele. Sulle due pagine: Karnak. Panoramica del grande tempio di Amon, con il Nilo e, sullo sfondo, la Valle dei Re.

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quali, nel rispetto del rituale degli antichi Egiziani, dovevano, nei limiti del possibile, trovar posto a Occidente. Poco si è conservato della città antica: solo qualche piccolo tratto è stato riportato alla luce in epoca relativamente recente. Si è invece ben conservato il tessuto dei grandi edifici religiosi attorno ai quali la città antica era disposta. La loro visita è una delle esperienze piú impressionanti che possa vivere chi si occupa delle antiche civiltà, perché in ben pochi luoghi al mondo si può avere

Valle dei Re Deir el-Bahari Dra Abu el-Naga

Deir el-Medina

El-Asasif Qurna El-Khokha

Ramesseum Colossi di Memnone Medinet Habu

Valle delle Regine

Nil o

Sheikh Abd el-Qurna

lo Ni

Karnak

EGITTO Luxor (Tebe)

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Cartina che evidenzia la localizzazione dei principali complessi funerari e santuari dell’Antico Egitto, tra i quali spiccano quelli di Karnak e Luxor.


In alto: il viale delle sfingi. Nella pagina accanto, in alto: i Colossi di Memnone. Le due colossali statue gemelle ritraggono il faraone Amenhotep III e furono erette quando era ancora in vita. XVIII dinastia, 1387-1348 a.C. un’idea altrettanto vivida di che cosa sia un centro di potere nel mondo antico. Tebe non fu solo la residenza dei sovrani del Nuovo Regno, il che basterebbe a giustificarne l’importanza e la ricchezza, ma anche il luogo in cui si svilupparono altri gruppi di potere economico e politico. Questi dapprima appoggiarono i sovrani, poi vi si opposero, dando luogo alle drammatiche vicende della rivoluzione di Amenhotep IV/ Akhenaton (1353-1336 a.C. circa), e infine giunsero, con la XXI dinastia (1075-944 a.C. circa), alla conquista del trono stesso. Il piú importante di questi gruppi faceva capo al clero del dio Amon. L’immenso tempio di questa divinità che si trova nella zona chiamata Karnak, 2 km a nord di Luxor, parla piú di ogni altro documento storico. Chiunque

visiti le sue sterminate rovine, può capire come qui, molto piú che nello stesso palazzo reale, avesse avuto sede per molto tempo l’effettivo potere politico in Egitto. Sono rovine che testimoniano con eloquenza una grande e complessa vicenda, fatta di lotte politiche che avevano come posta in gioco non soltanto il governo dell’Egitto, ma anche il controllo della fascia siro-palestinese, attraverso la quale passava tutto il commercio con i grandi Stati del Vicino Oriente. Un magnifico viale di sfingi a testa di ariete, uno degli animali sacri al dio Amon, solo in parte scavato, collegava il tempio di Karnak con il tempio di Luxor, che si trova proprio in mezzo al villaggio moderno, e che ne era una semplice dépendance. Ma attorno al tempio di Amon e

anche all’interno del suo recinto si trovano numerosi altri luoghi di culto dedicati alle piú importanti divinità del luogo. È verosimile supporre che qui si trovasse anche il palazzo regale, ma di esso, costruito in mattoni crudi come le dimore di tutti gli altri uomini, nulla si è conservato. Sulla riva sinistra del fiume la situazione è completamente diversa. Qui si trovano le necropoli, nascoste tra le montagne che si innalzano immediatamente a ridosso della terra coltivata. La prima testimonianza archeologica che il visitatore incontra è costituita dai cosiddetti «Colossi di Memnone», le enormi statue che si trovavano davanti al tempio funerario del faraone Amenhotep III (1390-1353 a.C. circa). Per informazioni: swanhellenic@gattinoni.it

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SIGNORE, DOVE VAI? Nella nuova puntata della serie Archeologia e Letteratura, Giuseppe M. Della Fina ripercorre la vicenda di Quo Vadis (1), romanzo storico dello scrittore polacco Henryk 1 2 Sienkiewicz, premio Nobel per la Letteratura nel 1905 (vedi alle pp. 76-85). Appassionato di storia antica soprattutto dopo aver letto gli Annales di Tacito, Sienkiewicz ideò il suo capolavoro durante un breve soggiorno a Roma nel 1893, quando l’amico pittore Henryk Siemiradzki lo condusse a vedere un luogo che lo colpí molto. 3 4 Sulla via Appia antica, in uscita da Roma, si trova la chiesetta del Domine Quo Vadis (o di S. Maria in Palmis), che, secondo la tradizione, sarebbe stata eretta sui resti di un piú antico edificio, che segnava il punto in cui a Pietro, che stava lasciando la città per sfuggire alle persecuzioni di Nerone, apparve Gesú, il quale sarebbe stato apostrofato 6 dall’apostolo con la famosa frase «Domine, quo vadis» («Signore, dove vai?»); addirittura al suo interno è posta una lapide con le impronte che vorrebbero essere quelle di Gesú lasciate dopo essere scomparso (2), cosa che 5 impressionò molto Sienkiewicz e che si trasformò nello spunto per il suo romanzo, la cui prima pubblicazione 7 avvenne nel 1896, preceduta da un’anteprima a puntate dell’anno precedente su tre giornali polacchi. La storia era ambientata a Roma nell’età di Nerone e nei primi decenni del cristianesimo (3) e si sviluppa attorno all’amore contrastato tra la cristiana Licia e Marco Vinicio nipote di Petronio, uomo con un ruolo di primo piano 8 9 nella corte imperiale (4, tutti e tre raffigurati su questo francobollo). Nel libro di Sienkiewicz, oltre a Nerone e Petronio, vi sono altri personaggi storici come Svetonio, Seneca (5), l’amato Tacito e gli apostoli Pietro e Paolo (6). Tra i personaggi di fantasia c’è il il gigante Ursus che combatte contro il toro per salvare Licia legata sul dorso (7) e poi portarla in salvo (8) e il ciarlatano falso veggente Chilone Chilonide (9). 11 Il successo fu enorme e il romanzo venne tradotto in tutte le lingue europee, e alcune extraeuropee, oltre a 10 essere sfruttato come soggetto cinematografico per la prima volta in Italia nel 1913 e poi ancora nel 1959 per un film della MGM e, per finire, in un film IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT polacco del 2001, dai cui fotogrammi sono tratti (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può alcuni dei francobolli mostrati, emessi in un unico scrivere alla redazione di «Archeo» o al foglietto da 6 valori (10). Vengono individuate, come CIFT, anche per qualsiasi altro tema, 12 altre fonti di ispirazione per Sienkiewicz, il romanzo ai seguenti indirizzi: Roma ai tempi di Nerone (1866) del polacco Józef Segreteria c/o Luciano Calenda Kraszewski (11) e certamente il Ben Hur (1800) di Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa Lewis Wallace, che ispirò il famoso omonimo film Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it di William Wyler del 1959 con Charlton Heston oppure www.cift.it (12), vincitore di ben 11 premi Oscar.

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INCONTRI Paestum

SE VENTICINQUE VI SEMBRAN POCHI...

L

annuali e l’hashtag «#pernondimenticare il Museo del Bardo, 18 marzo 2015», a seguito dell’accadimento tanto funesto al Museo di Tunisi. La presenza del Ministro determinerà lo sviluppo di relazioni a favore del territorio nel segno della cooperazione culturale, in quanto nella sezione «ArcheoExperience» saranno protagonisti artigiani tunisini e italiani. Con il Direttore del Parco Archeologico di Paestum e Velia Tiziana D’Angelo, nel segno del comune anniversario dei 25 anni, saranno sviluppate iniziative con i vertici di Trenitalia delle Direzioni Generali Business Alta Velocità e Regionale per facilitare la mobilità e la sostenibilità del turismo culturale sulla destinazione Campania e sui due siti UNESCO, fino all’interno del territorio del Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni. Con il tramite delle organizzazioni di categoria si rafforzerà l’impegno sull’incoming da parte delle imprese con la realizzazione di pacchetti turistico culturali ed esperienziali, al fine di intercettare in maniera efficace e innovativa la domanda rappresentata dalla presenza dei buyer europei selezionati dall’ENIT, l’Agenzia Nazionale del Turismo. La BMTA amplierà la sezione ArcheoIncoming con la presentazione per la prima volta delle destinazioni regionali da parte degli operatori turistici dell’offerta, mentre per attrarre la domanda di prossimità nazionale proveniente dal nord e dal centro Italia si farà affidamento sulla preziosa collaborazione di Fiavet, FTO e Aidit, che assicureranno una qualificata presenza, sia nel salone espositivo che nel workshop di sabato 4 novembre, di tour operator interessati alle destinazioni turistico archeologiche. Il programma delle Conferenze ampliato dalle qualificate e numerose iniziative messe in campo dal Ministero della Cultura, sarà condiviso con l’Assessorato al Turismo e con la Direzione Generale per le politiche culturali e il turismo della Regione Campania, mentre il Touring Club Italiano e l’UNPLI rispettivamente hanno in programma un convegno nazionale dei consoli e dei soci del Sud Italia sulle best practice rivolte alle aree interne territoriali e la partecipazione delle Pro Loco che insistono in aree archeologiche. Per info: www.bmta.it a r c h e o 23

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum è giunta alla XXV edizione, in programma da giovedí 2 a domenica 5 novembre 2023. Unico appuntamento al mondo del suo genere, la manifestazione è un format di successo, che ha trovato la sua migliore realizzazione dal 2021 nel Tabacchificio Cafasso, l’attuale Next, che il sindaco Franco Alfieri ha voluto fortemente per lo sviluppo turistico e culturale della città di Capaccio Paestum e del territorio circostante. L’edizione 2023 assume una particolare importanza, in quanto la BMTA celebra il venticinquesimo anniversario, condividendolo con il Parco Archeologico di Paestum e Velia e la Certosa di Padula, che proprio nel 1998 furono inseriti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione ci si confronterà sul tema della cooperazione alla presenza dei vertici della cultura dell’UNESCO, che si sono avvicendati dal 1998 (anno nel quale avvenne l’inserimento nella lista del patrimonio mondiale del Parco del Cilento con i siti di Paestum e Velia, grazie alla candidatura promossa dall’allora Presidente della Provincia Alfonso Andria, che da subito volle sostenere la prima e le successive edizioni della BMTA), partendo da Mounir Bouchenaki, attuale Presidente Onorario della BMTA (ambasciatore dell’evento in tutte le numerose missioni intorno al mondo, dove la sua carica lo conduceva, e favorendo presenze prestigiose, quali UNWTO di Madrid, l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite, ICCROM, Cambogia, Cina) fino ai successivi Direttori, l’italiano Francesco Bandarin e il cileno Ernesto Ottone Ramirez, oltre all’ex Direttore Generale Irina Bokova, artefice del lancio dell’hashtag «#unit4heritage» in occasione della distruzione di Palmira e della firma con l’allora Ministro Gentiloni nel 2016 per mettere a disposizione dell’UNESCO la Task Force italiana «Unite4Heritage», dal 2022 ridenominata Task Force Caschi Blu della Cultura, costituiti da esperti civili del Ministero della Cultura, dotati di specifica formazione e da militari del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Alla conferenza di apertura della XXV edizione, giovedí 2 novembre, parteciperà il Ministro del Turismo e dell’Artigianato della Tunisia, Mohamed Moez Belhassine, che nel recente incontro alla BIT di Milano con il Fondatore e Direttore della BMTA Ugo Picarelli, gli ha rivolto l’invito personale in occasione della prossima riapertura del Museo del Bardo, grato per l’impegno della BMTA profuso attraverso le iniziative


CALENDARIO

Italia ROMA La mummia di Ramses Il faraone immortale Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo, «Sapienza» Università di Roma fino al 14.06.23

Colori dei Romani

I Mosaici dalle Collezioni Capitoline Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 25.06.23

BRESCIA Luigi Basiletti e l’Antico

Brescia, palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 03.12.23

CREMONA Pictura Tacitum poema

Miti e paesaggi dipinti nelle domus di Cremona Museo Civico Archeologico fino al 21.05.23

Raffaello e l’antico nella Villa di Agostino Chigi Villa Farnesina fino al 02.07.23

MILANO Il suono oltre l’immagine La decifrazione dei geroglifici Museo Civico Archeologico fino al 28.05.23 (prorogata)

Felice Barnabei «Centum deinde centum» Alle radici dell’archeologia nazionale Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 09.07.23

La Roma della Repubblica Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.09.23

ACQUI TERME (ALESSANDRIA) Goti a Frascaro Archeologia di un villaggio barbarico Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27.05.23 24 a r c h e o

La stele di Vicchio

Fondazione Luigi Rovati, Piano Ipogeo fino al 16.07.23

NAPOLI Picasso e l’antico

Museo Archeologico Nazionale fino al 27.08.23

L’immagine guida di «Pictura Tacitum poema».


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

PORTICI (NAPOLI) Materia

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23

VIGEVANO La Collezione Strada

Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23

VITERBO Sfingi, leoni e mani d’argento Lo splendore delle famiglie etrusche a Vulci Museo Nazionale Etrusco di Rocca Albornoz fino al 15.06.23

SANTARCANGELO DI ROMAGNA (RIMINI) Lo spazio del tempo

Francia

Calendari romani tra ritmi naturali e culturali MUSAS-Museo storico archeologico di Santarcangelo di Romagna fino al 21.05.23

TORINO Baciare la terra per il signore degli dèi: la statua stelofora di Neferhebef Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino al 28.05.23

Bizantini

Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica fino al 28.08.23

Il dono di Thot

Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23

VICENZA Palafitte e Piroghe del Lago di Fimon Legno, territorio, archeologia Museo Naturalistico Archeologico fino al 31.05.23

I creatori dell’Egitto eterno

Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone Basilica Palladiana fino al 28.05.23 (prorogata)

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Il mondo di Clodoveo

Mosaico che ritrae papa Giovanni VII.

«La mostra di cui gli eroi siete voi» Musée d’Archéologie nationale fino al 22.05.23

Germania BERLINO Aes corinthium

Il segreto del rame nero Staatliche Museen, Neues Museum fino al 27.08.23

Grecia ATENE Ritorno a casa

Contrappeso di collana (menat) in bronzo. 880 a.C.

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Regno Unito LONDRA Lusso e potere

Dalla Persia alla Grecia British Museum fino al 13.08.23 a r c h e o 25


TE O L RI LO P E T GI AR AR CO CO QU D IN I IA

G CE AR UID RV CH A E E A

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

CERVETERI CAPITALI D’ETRURIA

TARQUINIA C

erveteri e Tarquinia sono state città etrusche di primaria importanza e hanno lasciato straordinarie testimonianze di quel glorioso passato, tanto che sono state entrambe inserite dall’UNESCO nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Una «comunanza» ribadita, in tempi piú recenti, dall’istituzione del PACT, il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia, ai cui tesori è dunque dedicata la nuova Monografia di «Archeo». L’ampia trattazione – questa volta il fascicolo ha un numero di pagine maggiore del consueto, 160 – è un viaggio alla scoperta dei due siti, ciascuno dei quali comprende aree archeologiche e musei. Si comincia quindi con Cerveteri, la cui attrattiva maggiore è costituita dalle monumentali tombe a tumulo della necropoli della Banditaccia. Complessi che provano la maestria sviluppata dagli architetti e dagli scalpellini etruschi nell’esaltare le proprietà plastiche del tufo, la roccia vulcanica tipica della zona. Nell’arco di oltre quattro secoli, presero forma tombe magnifiche che sono anche uno specchio fedele di come le case dovevano essere strutturate. Corollario irrinunciabile dell’esperienza en plein air è la visita del Museo allestito nel Castello Ruspoli, divenuto casa, fra gli altri, del prezioso cratere di Eufronio. Altrettanto emozionante e suggestiva è la rassegna dei monumenti tarquiniesi, fra i quali spiccano le splendide tombe dipinte della necropoli dei Monterozzi, che, in un tripudio di colori, restituiscono scene allegoriche, episodi mitologici e vivaci spaccati della vita quotidiana. Anche in questo caso, non può mancare la visita del Museo, che ha sede nell’elegante Palazzo Vitelleschi e vanta collezioni di primissimo piano.

GLI ARGOMENTI • LA NECROPOLI DELLA BANDITACCIA DI CERVETERI • IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE CERITE

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• LE TOMBE DIPINTE DEI MONTEROZZI • IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI TARQUINIA

in edicola



L’INTERVISTA • BRUNO SNELL

SE VOGLIAMO ESSERE EUROPEI, «DOBBIAMO CHIEDERCI: CHI ERANO I GRECI?»

LA SCOPERTA DELLO SPIRITO, CAPOLAVORO DELLA FILOLOGIA CLASSICA, CONCEPITO NEGLI ANNI TRENTA DEL SECOLO SCORSO E PUBBLICATO PER LA PRIMA VOLTA NELLA GERMANIA DELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA, È STATO APPENA RIPROPOSTO IN ITALIA. UN’OPERAZIONE DI PURA NOSTALGIA LETTERARIA E CULTURALE? CE NE PARLANO L’ANTICHISTA BARBARA CASTIGLIONI E IL CURATORE DELLA NUOVA EDIZIONE, ROBERTO ANDREOTTI di Barbara Castiglioni

«C

aro Professore, possiamo proporle di tradurre per noi un bel libro tedesco […] di Bruno Snell? Sono 250 pagine fitte di analisi sul mondo omerico, sul risveglio della personalità nei lirici, sulla tragedia, sul processo immaginativo greco, sulla concezione scientifica, sulla letteratura alessandrina e arcadica e sulla nascita del paesaggio. È pieno di sottili e intelligenti scoperte critiche. Una bellissima cosa…». Queste parole di Cesare Pavese, redattore, direttore editoriale e deus ex machina della «collana viola» dell’Einaudi, testimoniano l’entusiasmo dell’autore dei Dialoghi con Leucò per Bruno Snell, che all’epoca – siamo nell’ottobre del 1947 – era studioso molto noto e influente in Germania e nei paesi nordici, ma praticamente sconosciuto al pubblico italiano.

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Papirologo, metricista, sontuoso editore di Pindaro e Bacchilide, creatore di un archivio per la lessicografia divenuto celeberrimo, il Thesaurus linguae Graecae – piú noto con l’acronimo TLG – Bruno Snell era anche uno studioso del pensiero antico tout-court, oltreché un grande scrittore e saggista. Nato nel 1896, professore di filologia classica ad Amburgo, visse l’epoca piú buia per la Germania: i due conflitti mondiali e la catastrofe nazista.

IL VERSO DELL’ASINO Proprio riguardo al nazismo, la sua amarezza, espressa in pieno regime e «occultata» in un saggio su Apuleio, era evidente: scrivendo sull’asino delle Metamorfosi, che non sapeva fare altro verso che «uu uu» – che in greco significa no – Snell scriveva rassegnato: «la sola parola che un

asino greco poteva dire era la parola no, mentre in modo curioso gli asini tedeschi, al contrario, dicono sempre ja». Secondo Snell – che univa filologia e filosofia sulla scorta dell’idea di «letteratura mondiale» (Weltliteratur) di Goethe –, l’anima e lo spirito umano sono alcune tra le grandi scoperte dell’antica Grecia. Come afferma, però, Roberto Andreotti, curatore della nuova edizione di La scoperta dello Spirito. La cultura greca e l’origine del pensiero europeo – pubblicata per la prima volta in Germania nel 1946, tradotta da Einaudi nel 1951 e adesso riedita da Luiss University Press – «oggi si ricorda soprattutto solo lo Snell filologo mentre si è affievolita la sua voce di storico del pensiero. Non tutti sanno, però, che Bruno Snell è stato probabilmente il pri-


mo filologo classico della vecchia scuola a sperimentare con successo la for ma-saggio, applicando a quest’ultimo quello che possiamo definire la “bella scrittura”; espediente che, seppur con esiti alterni, è diffusa ancor oggi». In uno dei saggi che compongono questo libro, Snell afferma: «se vogliamo essere europei, è importante che ci chiediamo: che cos’erano i Greci?». Per Snell, la concezione dell’uomo ai tempi di Omero costituisce la prima tappa della storia del pensiero europeo: dobbiamo ai Greci la nascita del pensiero storico, con Erodoto e Tucidide, quello filosofico, con Socrate, Platone e Aristotele, ma anche la formazione dei concetti scientifici. Nell’affrontare le varie fasi della «scoperta dello spirito», lo studioso tedesco spronava con entusiasmo i suoi contem-

poranei a diventare «imitatori dei greci, e in questo europei», e sostenendo che la tradizione occidentale è «una riserva di forze che possono tornare in gioco nel superamento delle crisi dello spirito». Nonostante la distanza che oggi ci separa dalla versione di Snell, la sua ambiziosa inter pretazione del mondo antico resta di fondamentale importanza, soprattutto in un momento storico particolare come il nostro, segnato da una profonda «crisi dello spirito» segnalata – tra molti altri – anche dai recenti eccessi della Cancel Culture.

L’UOMO DI FRONTE AL DIVINO Una sezione fondamentale del libro riguarda gli dèi rappresentati da Omero nell’Iliade e nell’Odissea: le prime divinità del mondo occiden-

I Giganti travolti dalla caduta di un edificio, abbattuto dalla furia di Zeus e delle divinità olimpiche. Mantova, Palazzo Te, affresco nella Camera dei Giganti, al quale lavorò Giulio Romano tra il 1532 e il 1535.

tale. Nel confronto tra politeismo omerico e monoteismo, Snell osserva che l’apparizione del Dio cristiano è spesso riservata ai piú umili, deboli o malati; viceversa, nell’epica omerica sono i forti e i potenti a essere piú vicini alla divinità: il senzadio, quello a cui gli dèi non donano nulla, è Tersite, l’antieroe, il personaggio vile, «l’uomo piú brutto che fosse venuto all’assedio di Ilio: storto, zoppo di un piede; le spalle curve, e ripiegate sul petto; la testa a punta coperta da una rada peluria». Le sensazioni che l’uomo omerico prova di fronte al divino, poi, non a r c h e o 29


L’INTERVISTA • BRUNO SNELL

sono terrore, o spavento, devozione e rispetto, ma sorpresa, meraviglia, ammirazione. Quando, per esempio, Atena appare ad Achille, l’eroe si volta e trasalisce, riconoscendo la dea e i suoi occhi «terribili» che risplendono. Sorpresa e ammirazione, però, non sono sentimenti propriamente religiosi: anche la bellezza, ricorda Snell, provoca, nell’uomo greco antico, un’identica reazione. E non a caso, nel terzo libro dell’Iliade, gli anziani di Troia si riferiscono alla bellezza di Elena con parole che dimostrano questa compresenza di emozioni contrastanti: «Non c’è da stupirsi che Troiani e Achei dalle belle armature cosí a lungo patiscano per una donna simile; alle dee immortali, terribilmente, somiglia; ma anche se è cosí bella, se ne vada via sulle navi, non rimanga piú qui per la rovina» (III, 156-160). Il sentimento che l’uomo greco prova davanti al bello, suggerisce Snell, è sempre accompagnato da una sorta di brivido religioso: l’ammirazione conserva, per certi versi, qualcosa del suo carattere di orrore sublimato. E non a caso, il verbo greco che indica ammirazione (thaumazo) deriva da theasthai, che significa «guardare»: l’ammirazione è lo sguardo meravigliato, che non si impossessa, come fa l’orrore, di tutto l’uomo, perché

BRUNO SNELL Bruno Snell (Hildesheim, 1896-Amburgo, 1986) è stato tra i maggiori grecisti e filologi classici del ventesimo secolo. Apparsa originariamente nel 1946 in Germania, La scoperta dello spirito fu il suo libro piú conosciuto, al quale continuò a lavorare per decenni, e che superò di molto i confini degli studi classici per entrare a pieno diritto tra i libri decisivi del pensiero occidentale conternporaneo.

In alto: Bruno Snell (1896-1986). A sinistra: l’edizione tedesca della Scoperta dello spirito del 1948 e la traduzione italiana nella Piccola Biblioteca Einaudi.

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l’occhio dà distanza alle cose e le coglie come oggetti. In questo modo «se all’orrore davanti all’ignoto si sostituisce l’ammirazione per il bello, il divino diviene piú lontano e nello stesso tempo piú familiare, non s’impadronisce interamente dell’uomo, non lo costringe a sé, e riesce piú naturale». Nonostante, poi, nell’Iliade e nell’Odissea siano gli dèi a garantire il senso degli avvenimenti, l’interesse di Omero non è riservato alla scena celeste: non a caso, la prima parola del primo verso dell’Odissea è proprio anér, «uomo» («L’uo-


La scoperta dello spirito sono capitoli-saggio che vanno da Omero al periodo ellenistico e indagano come dalla naturalità indifferenziata della poesia epica si giunge attraverso la nascita della tragedia al problema di cos’è l’uomo, e come, dall’immaginemetafora, nasce il problema della scienza, e come la civiltà greca finisce con l’invenzione (Ellenisti, Virgilio) di un mondo arcadico, di arte pura: la letteratura. Indagine ricchissima di idee geniali, sorprendenti, di punti di vista illuminanti, su materia nota e vivace. Unico difetto: non è libro per il popolo. Io sono favorevole. Cesare Pavese giudizio editoriale sul libro di Bruno Snell 3 settembre 1947 La copertina della nuova edizione del capolavoro di Bruno Snell, per i tipi della Luiss University Press.

mo, cantami, dea, l’eroe del lungo viaggio, progresso del pensiero greco e con colui che errò per tanto tempo dopo che l’uomo che diviene piú cosciente distrusse la città sacra di Ilio»). della propria esistenza spirituale (quella «coscienza dello spirito» cosí cara all’autore), perdono il proprio LA CADUTA DEGLI DÈI Nei poemi omerici, il destino degli compito di spiegare le decisioni eroi non è soggetto al volere divino, umane e di dare a esse un senso. E come accadrà, per esempio, nell’E- sono, perciò, destinati a «morire» neide di Virgilio. E questa è forse, con l’avvento della filosofia. come suggerisce Snell, la cosa piú Ma chi potrebbe negare, si chiede mirabile del mondo omerico: la Snell, l’esistenza di Afrodite? «È semnaturalezza dell’azione e delle paro- plicemente assurdo affermare di non le degli uomini, nonostante la pre- “credere” in Afrodite, la dea dell’asenza incombente e l’intervento more; la si può trascurare, come l’adegli dèi. Questi dèi, però, con il veva trascurata il cacciatore Ippolito,

bellissimo, casto e avverso alla dea, «ma Afrodite esiste e agisce». Non a caso, anche Euripide, spesso considerato, a torto, un poeta ateo e razionalista, faceva pronunciare alla sua Elena, nell’omonima tragedia del 412 a.C., parole memorabili sulla dea dell’amore: «Perché non sei mai sazia di mali, di inganni d’amore, di illusorie macchinazioni e di filtri che insanguinano le case? Se solo tu avessi il senso della misura… Per tutto il resto, sei la dea piú dolce degli uomini. Non posso negarlo» (vv. 1105-6). Anche se scompaiono con la filosoa r c h e o 31


L’INTERVISTA • BRUNO SNELL

«Il nostro pensiero europeo è sorto presso i Greci e viene da allora considerato come l’unica forma possibile di pensiero. Senza dubbio per noi europei la forma greca ha un valore determinante e, quando la usiamo nelle speculazioni filosofiche e scientifiche, essa si libera da ogni relatività storica e tende verso l’incondizionato e il duraturo, in una parola, verso la verità; anzi, non soltanto vi tende, ma arriva proprio a concepirli. Eppure questo pensiero è anche qualcosa di storicamente “divenuto” – “divenuto” nel vero senso della parola –, piú di quanto comunemente si pensi. Dato che siamo abituati ad attribuirgli un valore determinante, crediamo ingenuamente di poterlo ritrovare inalterato anche in un pensiero del tutto diverso. Per quanto la crescente interpretazione della Storia abbia portato, tra la fine del Diciottesimo e l’inizio del Diciannovesimo secolo, al superamento della concezione razionalistica di uno “spirito” sempre identico a sé, tuttavia anche oggi ci precludiamo la via all’intendimento del mondo greco, interpretando le testimonianze della prima grecità con spirito troppo vicino alle nostre concezioni moderne; e, poiché l’Iliade e l’Odissea, che appartengono alla fase iniziale del mondo greco, parlano a noi in forma cosí immediata e ci penetrano con tanta forza, è facile dimenticarci che il mondo di Omero è fondamentalmente diverso dal nostro» (dall’Introduzione del volume).

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Omero raffigurato su una figurina da collezione inserita nei pacchetti di sigarette Ogden, del 1923. Nella pagina accanto: particolare del mosaico con Ulisse e le sirene, da Dougga, Tunisia. III sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo.

fia, gli dèi sopravvivono nell’arte: rimangono infatti tra i maggiori soggetti artistici e, anzi, trovano la loro forma piú perfetta solo a partire dall’età di Pericle, nel quinto secolo a.C., quando gli artisti non potranno piú essere considerati “credenti”.Anche la poesia antica, fino ai primi secoli dell’era cristiana, trae i suoi principali soggetti dal mito degli dèi olimpi, che risorgono definitivamente con l’arte del Rinascimento: sullo sfondo di un cristianesimo ascetico, quest’arte impara – per Snell – a contemplare la grandezza e la bellezza del mondo dalle figure del mito classico. Un trionfo degli dèi e del mito mediato, suggerisce Snell, da Ovidio, che, già nostalgico, nelle Metamorfosi li rappresenta non piú in modo semplice e ingenuo, ma con frivola e mordace impertinenza.

«È ormai considerato un principio fondamentale per qualsiasi interpretazione della lingua omerica quello di evitare di tradurre i vocaboli di Omero secondo il greco classico e di cercare di sottrarsi, nel tentativo di comprenderli, all’influenza delle forme piú tarde della lingua. Principio, questo, dal quale speriamo di ottenere qui un’utilità ancor maggiore. Se interpretiamo Omero attenendoci puramente alla sua lingua, potremo dare anche una interpretazione piú viva e originaria della sua poesia e far sí che le parole omeriche, intese nel loro vero significato, riprendano l’antico splendore. Il filologo, come il restauratore di un quadro antico, potrà ancor oggi scrostare in molti punti quell’oscura patina di polvere e di vernice che i tempi vi hanno deposto e ridare cosí ai colori quella luminosità che avevano al momento della creazione. Quanto piú allontaniamo il significato delle parole omeriche da quelle dell’era classica, tanto piú evidente ci appare la diversità dei tempi e piú chiaramente intendiamo il progresso spirituale dei Greci, cosí come la loro opera. Ma a questi due indirizzi – quello dell’interpretazione estetica, che ricerca l’intensità di espressione e la bellezza della lingua, e quello storico, che s’interessa alla storia dello spirito – se ne aggiunge un altro ancora, speciale, di carattere filosofico. In Grecia nacquero concezioni riguardanti l’uomo e il suo vigile e chiaro pensiero che influirono in modo decisivo sull’evoluzione europea dei secoli seguenti: siamo propensi a considerare ciò che si è raggiunto nel Quinto secolo come valevole per tutti i tempi» (dal capitolo primo: L’uomo nella concezione di Omero).

continuazione di quel processo illuministico e filosofico che aveva portato dall’oscuro senso dell’orrore alla libera ammirazione del divino. Già Democrito lodava il «non meravigliarsi», ovvero la necessità di negare la meraviglia e, NON MERAVIGLIARSI MAI? perciò, anche la primigenia emoSecondo Snell, l’affievolir si zione che gli eroi omerici provadell’ammirazione è la naturale vano alla vista dei «loro» dèi. E

non a caso Pitagora, come riferisce Plutarco (De recta rat., 13), considerava come ultima espressione della sua saggezza il motto «non meravigliarsi mai». Per Bruno Snell era senza dubbio piú vicino allo spirito greco antico il suo amato Goethe, per il quale «la cosa piú sublime cui possa giungere l’uomo è la meraviglia». a r c h e o 33



La nascita di Afrodite dalla spuma del mare, scena centrale del trittico in marmo noto come Trono Ludovisi. Metà del V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.


L’INTERVISTA • BRUNO SNELL

COME RILEGGERE UN CLASSICO DEL NOVECENTO Incontro con Roberto Andreotti, a cura di Barbara Castiglioni ♦ Dottor Andreotti, nel corso degli

«Sí, tanto piú in quanto si tratta di ultimi anni abbiamo assistito quello che Nietzsche avrebbe alla rinascita, in Italia, di un chiamato un “pensiero inattuale”. certo interesse da parte di Ciò che è inattuale costringe a editori e studiosi nei confronti interrogarci sul presente. di opere che sono state a lungo Questo è anche il motivo per cui ho fondamentali per lo studio del aderito con rinnovata convinzione mondo antico: oltre al saggio di all’invito della Luiss, che mi ha Bruno Snell sulla Scoperta offerto l’opportunità di immergermi, dello spirito, infatti, va ancora una volta, nel mondo della registrata come significativa filologia tedesca della prima metà l’edizione, finalmente per del Novecento, ormai tramontato. intero, dell’opera di Carlo Diano La tradizione classica tedesca mi è (1902-1974, insigne grecista e sempre stata congeniale: fino agli autore del fortunato saggio anni Ottanta, per studiare filologia Forma ed Evento, del 1952, greca e latina era indispensabile n.d.r.). Si tratta di due studiosi conoscere il tedesco, dal momento molto diversi tra loro, ma che i principali lessici, le accomunati da una visione che enciclopedie e i repertori migliori abbraccia l’intero sviluppo erano tedeschi, e poi c’erano i della cultura greca, a partire da commenti scientifici ai testi (alcuni Omero per arrivare agli scrittori Roberto Andreotti, antichista, autore di tuttora insuperati), i saggi, le grandi Classici elettrici e Ritorni di fiamma alessandrini. La riproposta di riviste... Nietzsche, dal canto suo, è (Rizzoli 2006 e 2009) ed editor di Alias questi due classici del presente nel libro di Snell, per Domenica, supplemento-cultura del Novecento potrebbe essere esempio nel saggio dedicato alla quotidiano il Manifesto. interpretata come reazione a commedia di Aristofane in cui è due fenomeni opposti – ma menzionata La nascita della anche convergenti – che occupano sempre piú la tragedia. Da studente ebbi la fortuna di seguire, a scena: da una parte, l’iperspecializzazione di taglio Pisa, le lezioni sulla Nascita della tragedia di Fabrizio accademico – per cui uno studioso di Omero non fa Cambi, allora giovanissimo. Si tratta di un testo cenno di aver mai letto un verso di Sofocle – e frequentato dai grecisti soprattutto a causa della viceversa; dall’altra, invece, una pericolosa celebre opposizione che gli fece il “principe della a-professionalità, nascosta dietro filologia classica”, Ulrich von Wilamowitzl’indifferenziazione «tuttologica», in cui si Moellendorff. Tornando, però, alla domanda circa mescolano nozioni di ogni tipo, fondendo senza l’utilità o meno di leggere oggi una “storia dello spirito alcun criterio critico la letteratura, l’arte, la moda, lo greco” concepita negli anni Trenta, non possiamo sport e qualsiasi altra suggestione. È un’involuzione certo trascurare la posizione di Jean-Pierre Vernant che parte da lontano. Non a caso infatti, nella sua (alfiere degli studi di antropologia e psicologia storica prefazione lei affronta in modo capillare il problema sui Greci), quando contesta a Snell di essersi della ricezione del lavoro di Snell, osservando tra occupato quasi esclusivamente delle testimonianze l’altro come sia «assai probabile che un lettore letterarie: né possiamo piú condividere l’idea professionale con meno di cinquant’anni, essendosi hegeliana della Grecia “culla del pensiero formato perlopiú con strumenti e bibliografia in occidentale”. Tuttavia, questa visione che oggi inglese, non abbia fatto in tempo neppure a percepiamo come inadeguata e “datata” è stata percepire il tramonto del mondo di Snell». In questo fondamentale e determinante; prenderne coscienza, senso – e indipendentemente dal fatto che, come lei studiare gli effetti della sua ricezione e misurarne osserva, l’indagine di Snell risulti, per molti aspetti, la distanza critica che la separa da noi, costituisce «invecchiata» – è davvero ancora utile, secondo lei, una sfida conoscitiva non solo sul piano tornare a un approccio da «storia del pensiero»? della critica storico-culturale».

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I tragediografi greci, studio per l’apoteosi di Omero, pittura di Jean-August-Dominique Ingres (1780-1867). In basso: pagina del libro XV delle Metamorfosi di Ovidio, in un’edizione tedesca del 1731.

♦ Nella sua prefazione, Snell emerge giustamente come un grande filologo della tradizione tedesca, autore di importanti e fondamentali edizioni critiche (Pindaro e Bacchilide). Egli stesso, però, ha ben chiari i limiti di questa tradizione («l’eterno rimuginare, l’ostinarsi in un’idea»). E, infatti, è stato probabilmente il primo filologo classico a sperimentare in modo consapevole, e con successo, la forma-saggio. Oggi, però, lo stile elegante, letterario piú che esclusivamente dimostrativo-scientifico, è considerato con sospetto, quasi che lo scrivere bene sia diventato una colpa. Lei ha l’impressione che uno stile elegante, o addirittura attraente, sia incompatibile con lo studio «scientifico» dei testi classici?

«Lo stile di Snell è attraente, sí, ma del tutto privo di abbellimenti e imbottiture! Snell non cerca mai l’effetto “belletristico”, cosí di moda ai giorni nostri. La sua è una scrittura sempre economica. Con un gioco di parole potremmo dire che ad attrarci è la sua eleganza argomentativa, il suo amministrare la materia con sovrana pacatezza, senza increspature o aporie. È stato Diego Lanza a osservare come Snell, concependo La scoperta dello spirito (che – lo ricordiamo – nasce come una raccolta di saggi già pubblicati autonomamente), provasse a uscire dalla “gabbia” dell’accademia tedesca assumendo un passo da saggista moderno. In realtà, la “scientificità” di

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L’INTERVISTA • BRUNO SNELL

un’analisi è salva quando c’è pregnanza dimostrativa; la capacità, cioè, di cogliere e illuminare il senso profondo di un testo».

♦ L a sua prefazione, cosí come la scelta di tornare al titolo originale dell’opera (nelle precedenti edizioni, infatti, era stato tradotto La cultura greca e le origini del pensiero europeo), solleva piú di una domanda sull’accoglienza del libro in Italia: dal giudizio entusiastico di Pavese, all’avversione di una parte della redazione einaudiana – notoriamente di orientamento marxista –, al fantasma dell’hegelismo e dell’idealismo storicistico, fino a una celebre recensione su Paideia a firma di Renato Solmi (all’epoca giovane redattore della casa editrice torinese), recensione che da una parte condannava la scarsa contestualizzazione storica

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del libro, dall’altra osservava come, nell’idea di Snell, «le opere piú note della letteratura greca assumono un’aria unheimlich, preoccupante e un tantino barbarica, quasi fossero i prodotti di una mentalità intermedia fra la mentalità primitiva e la nostra». Ma La scoperta dello spirito può davvero essere considerata un’opera di impronta esclusivamente idealista? Non le sembra che, nella sua ricognizione dei concetti e dei valori europei «scoperti» dalla cultura greca, Snell in fondo dia risalto soprattutto a un’idea goethiana di letteratura, la rinomata Weltliteratur? Si tratta di un’idea che oggi noi percepiamo distante tanto dall’idealismo quanto dal marxismo. Il nome di


Goethe, peraltro, ricorre di frequente nel libro, e in passi di rilievo: penso per esempio al capitolo dedicato alla Fede negli dèi olimpi, che si chiude con il meraviglioso rimando, già citato in precedenza, a Goethe che scriveva a Eckermann: la «cosa piú sublime a cui può giungere l’uomo è la meraviglia». Ma allora, il fatidico Geist di Snell, cosí indigesto alla ricezione italiana, è piú poetico e goethiano o ideologico e filosofico? «A mio giudizio lo “Spirito” del titolo originale “censurato” alla Einaudi – il Geist della tradizione tedesca – ha senza dubbio una precisa ascendenza: la Geistesgeschichte hegeliana; ora, nell’Italia del secondo dopoguerra questo sarà suonato, quanto

meno, troppo gentiliano, anche se non dobbiamo ridurre la traduzione di Geist all’equivalente italiano “spirito”, perché Geist è anche la condizione, il prerequisito di Denken, il pensiero, come del resto chiarisce il sottotitolo originale di Snell. Ma al di là del titolo, la sua trattazione denuncia un chiaro impianto idealistico, e non bisogna farsi ingannare dal fatto che Hegel è quasi assente dall’indice dei nomi citati – probabilmente una scelta strategica dell’autore. Questo non toglie, come osserva lei, che la presenza di Goethe ci sia, eccome. L’idea di Weltliteratur è di sicuro una delle fonti del pensiero di Bruno Snell, persino nell’adozione di certe categorie e di alcune sfumature lessicali. Quanto al concetto di unheimlich applicato da Solmi alle opere L’assemblea degli dèi raffigurata sul particolare di una coppa attica da Tarquinia. Opera del pittore Oltos, 525-475 a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

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Statua di Athena Promachos, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in alto: la copertina del libro di Pietro Citati Il tè del cappellaio matto (1972). Nella pagina accanto, in basso: Eracle e gli Argonauti su un cratere attico a figure rosse, da Volsinii (Orvieto). 460-450 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

della letteratura greca nella recensione da lei citata, esso sembra rimandare al pensiero di Nietzsche, ma potrebbe anche essere stato ispirato dalla lettura di un grecista allora influente come Mario Untersteiner, molto ascoltato da Pavese».

♦ Ancora a proposito di Goethe: in Poesia e Verità

(Dichtung und Wahrheit), egli scriveva di avere appreso da Herder «che la poesia è in genere un dono al mondo e ai popoli, e non un’eredità privata di un numero ristretto di persone raffinate e colte».

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Secondo Snell, queste parole di Goethe rispecchiano con esattezza quello che la poesia era diventata attraverso Callimaco, «e tutto ciò che, accolto e trattato nelle forme piú diverse dagli eruditi che dal Rinascimento in poi si erano formati sui classici, in particolare sulle Metamorfosi di Ovidio, era ormai compenetrato da influenze di ogni genere, i cui effetti continuarono in seguito a farsi sentire nell’Orlando furioso di Ariosto, nel Ricciolo rapito di Pope, nei racconti in versi di Wieland e persino nel Don Giovanni di Byron...». Una premessa complessa per arrivare a vagheggiare un pensiero, secondo Snell, consolante (secondo me, però, decisamente utopistico), di un’idea di cultura europea come «riserva di forze che possono tornare in gioco nel superamento delle crisi dello spirito». Lei ritiene che tutto questo sia ancora attuale? E soprattutto: esiste ancora, sempre che sia mai esistita, un’idea di cultura europea? «Se penso alla facilità con cui i politici e i media parlano, tutti i giorni, di Europa – quasi sempre in senso finanziario ed economico-commerciale, tutt’al piú ideologico –, allora l’idea che in qualche parte del nostro passato ci siano delle riserve morali e culturali, cui ancora possiamo attingere per contrastare la crisi di visione e di valori in cui ci dibattiamo, questo perlomeno è confortante... La perduta Grecia di Snell, però, è solo una delle facce del prisma. Negli stessi anni di Snell, Thomas S. Eliot rilanciava a Londra il classicismo maturo della poesia di Virgilio come un modello per la ricostruzione civile e morale dell’Europa dopo le macerie della guerra. Oggi


non ci è piú chiesto di attenersi a un canone, ma piuttosto di paragonare e far interagire espressioni, identità e culture di provenienze differenti. Solo dal confronto, tra l’altro, potranno sorgere domande inedite sulla comprensione dei “nostri” classici, che ritenevamo “risolti” in modo definitivo. Rileggere gli scrittori greci e latini in questa prospettiva, per cosí dire, plurale, può riservare sorprese interessanti persino per studiosi rigorosamente interessati alla forma e al funzionamento del testo all’epoca in cui fu composto».

♦ Il suo saggio introduttivo si conclude

con una confessione – «sono un lettore recidivo» –, e con la spiazzante citazione di Lewis Carroll. Da dove nasce questa agnizione letteraria? «Come è capitato a molti della mia generazione, il nome di Snell è risuonato la prima volta al liceo, sul finire dell’adolescenza... desideravo concludere il mio lavoro con una suggestione letteraria che

comunicasse il mio felice smarrimento, appunto, di “ri-lettore” che aveva la sensazione di essere precipitato al di là di uno specchio invisibile. A quale prezzo farsi “incantare” da quella Grecia cosí avvolgente e perfettamente coerente? Per esempio, al prezzo di una coscienza linguistica ancora premoderna (come osservò Gianfranco Contini in un velenoso parere scritto). Con Snell occorre sempre tenere la guardia alta, altrimenti finisci per rimanerne risucchiato, come è accaduto alla protagonista del capolavoro di Lewis Carroll! Alice è un libro che ha contribuito a fondare il nostro immaginario di ragazzi; ma come sanno bene gli anglisti, è un testo coltissimo e stratificato, pieno di enigmi e di finissime allusioni letterarie. E poi volevo fare un omaggio segreto a Pietro Citati: Il tè del Cappellaio matto, con l’illustrazione di Tenniel in copertina, secondo me è il suo libro piú bello».

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MOSTRE • TORINO

Un particolare dell’allestimento della mostra «Il dono di Thot. Leggere l’antico Egitto», in corso al Museo Egizio di Torino fino al prossimo 7 settembre. Nella pagina accanto: statuetta in legno dipinto raffigurante un ibis, una delle personificazioni di Thot, dio che sovrintendeva alla scrittura. Epoca Tarda (722-332 a.C.). Torino, Museo Egizio.


IL

PIÚ INTELLETTUALE DEL

PANTHEON EGIZIANO RAFFIGURATO IN FORMA DI IBIS – O ANCHE DI BABBUINO – THOT ERA IL DIO DELLA LUNA, MA ANCHE DEL CALCOLO E DELLA SCRITTURA. ED È PROPRIO LUI A GUIDARCI NELLA MOSTRA IN CORSO AL MUSEO EGIZIO DI TORINO, VOLTA A SPIEGARE NASCITA ED EVOLUZIONE DEL SISTEMA GEROGLIFICO. GRAZIE AL QUALE, UNA VOLTA DECIFRATO, È STATO POSSIBILE «LEGGERE» LA CIVILTÀ DELL’ANTICO EGITTO di Paolo Marini, Federico Poole e Susanne Töpfer

L’

egiziano appartiene alla famiglia delle lingue «afroasiatiche», come l’arabo, l’ebraico e il berbero. Nella sua storia fu parlato solo in Egitto. La sua prima forma scritta attestata (dal 3200 a.C. circa) è il geroglifico, in greco «incisioni sacre»: era infatti consuetudine inciderlo nella pietra, sebbene potesse anche essere dipinto. A esso si affianca ben presto lo ieratico, versione corsiva dei geroglifici, usato per scrivere lettere, registri contabili, rapporti, testi letterari, ecc., generalmente dipinta anziché incisa, soprattutto su papiri o sui molto meno costosi frammenti di calcare o ceramica (ostraka), ma anche su tavolette di legno, su vasi come etichette, o sui muri come graffiti. Dal VII secolo a.C. circa lo ieratico viene soppiantato come scrittura della vita pratica dal demotico, una nuova scrittura corsiva che dal primo deriva. L’uso dello ieratico resta limitato ai papiri religiosi e medici, a r c h e o 45


MOSTRE • TORINO

da cui il suo nome greco di grámmata hieratiká, che significa «scrittura sacerdotale». Gli Egizi consideravano la scrittura un’elargizione concessa dalle divinità ritenute artefici di questo strumento tecnologico cosí rivoluzionario. In particolare, la sua invenzione era attribuita all’ibis Thot, dio appartenente all’Ogdoade cosmogonica di Ermopoli (le otto divinità che crearono il mondo).Thot era colui che registrava le medu-netjer, letteralmente la «parola divina», e per questo era anche considerato patrono degli scribi, che erano i detentori del sapere scrittorio.

L’INVENZIONE E LE PRIME FASI Le piú antiche fonti testuali egizie risalgono al 3200 a.C. e sono costituite da etichette di giare, rinvenute in una tomba regale della necropoli di Abido, che mostrano un sistema di scrittura già completo. Purtroppo, mancano esempi che ci permettano di indagare la fase formativa, che dunque rimane ancora oggi un argomento molto dibattuto tra gli egittologi. Le somiglianze riscontrate tra specifici segni geroglifici e i motivi decorativi delle pitture naturalistiche, raffigurate sui vasi predinastici, hanno spinto alcuni studiosi a considerare queste ultime come cenni di un «sistema grafico preliminare». Osservando le linee a zig-zag raffiguranti la superficie increspata dell’acqua, che decorano le pareti di molti vasi, ci si accorge della somiglianza con il segno geroglifico mu, che significa appunto «acqua». Un altro caso è quello delle decorazioni a elementi triangolari che raffigurano le 46 a r c h e o

colline e che sono molto simili ai segni geroglifici dju, «montagna», o khaset, «colline desertiche». Per quanto suggestiva, tale teoria, che dunque farebbe derivare i geroglifici da queste pitture, resta solo un’ipotesi non dimostrabile e pertanto non confermata. Un altro elemento che era stato considerato è la lieve posteriorità della scrittura egizia rispetto al proto-cuneiforme, attestato in Mesopotamia già a partire dal 3300 a.C. Per alcuni studiosi, infatti, il divario cronologico dimostrava che il geroglifico andava considerato come un In alto: Jean-François Champollion in un olio su tela di Victorine Rumilly. 1823. Figeac, Musée Champollion. In basso: la stele di Rosetta, sulla quale è inciso – in geroglifico, demotico e greco – il testo di un decreto onorifico per Tolomeo V (210-180 a.C.). Londra, British Museum.

prestito tecnologico del Vicino Oriente, con il quale si attestano intensi rapporti proprio durante il periodo di formazione della scrittura in Egitto. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale per questa teoria, che sembrava riconoscere i natali al geroglifico, è stato ben presto sostituito da una visione molto piú cauta che tiene in considerazione le profonde differenze tra il geroglifico e il cuneiforme. I primissimi testi di cui si abbia testimonianza, geroglifici e ieratici, sono connessi al servizio di un’economia di prestigio perlopiú centrata sulla figura del faraone. Le iscrizioni, infatti, erano usate per etichettare o sigillare beni materiali con informazioni quali il nome regale o il luogo di provenienza. Inoltre, i segni geroglifici hanno da subito anche una funzione ideologica, tanto che compaiono ben presto su palette da trucco cerimoniali (la piú nota delle quali è quella di Narmer) integrati in composizioni figurative per commemorare le imprese regali. A questa ricca documentazione, che ne attesta


l’uso in ambito economico e cerimoniale, si contrappongono tracce molto esigue del loro uso in altri ambiti.Tuttavia, è possibile che questo sbilanciamento sia dovuto alla differente tipologia di supporti utilizzati. I testi che si sono conservati si ritrovano infatti su oggetti in pietra o altri materiali molto resistenti. Dal momento in cui si attestano le prime etichette in geroglifico (nel 3200 a.C.), in Egitto si leggono per secoli esclusivamente singole parole o espressioni molto elementari. Solo a partire dal 2600 a.C. sono attestate le prime vere e proprie frasi di senso compiuto (vedi box alle pp. 50/51, in basso). Fin dalle origini, i geroglifici conservano gelosamente l’aspetto pittografico a cui gli Egizi non rinunzieranno mai, nemmeno quando subentreranno altre for me di scritture molto piú agevoli come quella ieratica, demotica e copta. Anzi, proprio la necessità di preservare il carattere performativo dell’immagine spinse i geroglifici, già a partire dalla IV dinastia (2543-2435 a.C.), a raggiungere la monumentalità che li consacrerà come medu-netjer, «parola divina». Proprio in questo periodo, le pareti delle tombe egizie si ricoprono di testi geroglifici rituali o autobiografici.

NON SOLO ROSETTA In epoca tardo-antica e bizantina le antiche scritture egiziane declinano e scompaiono. L’ultima iscrizione geroglifica datata è del 24 agosto del 394 d.C. Si trova nel tempio di File, all’estremo Sud dell’Egitto, ultimo baluardo dell’antica religione in un paese ormai cristianizzato. Sempre a

Una tavola della Grammatica egiziana di Jean-François Champollion. 1836-1841. Il decifratore della stele di Rosetta aveva iniziato la stesura dell’opera nel 1830, ma la morte, nel 1832, gli impedí di ultimarla e il lavoro fu portato a termine dal fratello.

File abbiamo l’ultima iscrizione demotica datata, risalente al 12 dicembre 452 d.C. Queste sono solo le date certe, ma in ogni caso l’uso del geroglifico e del demotico (lo ieratico non è attestato oltre il III secolo d.C.) dev’essere cessato con la chiusura del tempio di File da parte dell’imperatore Giustiniano fra il 535 e il 537 d.C. Il racconto classico della decifrazione del geroglifico tende a volte a saltare direttamente dalla fine del geroglifico al ritrovamento della stele bilingue di Rosetta, che fornisce a un geniale studioso occidenta-

le, Jean-François Champollion, la chiave per svelare il mistero dei geroglifici: una narrazione in cui gli Egiziani medievali e moderni non hanno alcun ruolo nel recupero delle loro radici culturali. Ma raccontata cosí è una storia monca, a cui manca un tassello decisivo: quello della sopravvivenza della lingua egiziana oltre la fine delle sue piú antiche scritture. Un tema a cui la mostra attualmente in corso al Museo Egizio si sforza di dare il giusto risalto. Morti il geroglifico e il demotico, la lingua che con esse si scriveva, quella egiziana, continua a essere parlata ancora per piú di mille anni. Col diffondersi del cristianesimo diventa necessario tradurre le Scritture dal greco in egiziano per i tanti Egiziani che non conoscevano il greco. A tal fine i dotti cristiani usano l’alfabeto greco con l’aggiunta di alcune lettere derivate da segni della scrittura corsiva demotica per rendere suoni che mancavano in greco: nasce cosí la scrittura copta, termine che designa anche l’ultima fase della lingua egiziana parlata, nonché la Chiesa cristiana d’Egitto. Intorno al 642 d.C. l’Egitto è conquistato dagli Arabi e viene introdotta la religione islamica. Il copto rimane la lingua degli Egiziani autoctoni. Nei secoli viene però gradualmente soppiantato dall’arabo, anche nella liturgia delle chiese cristiane. Per conservare la conoscenza della lingua scritta, i dotti cristiani curano allora la redazione di opere come il dizionario arabocopto Al-Sullam al-Muqaffa wa alDhahab al-Musaffa di Abu Ishaq ibn al-‘Assal (XIII secolo) o la grama r c h e o 47


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matica del copto scritta in arabo dal fratello Abu al-Faraj ibn al‘Assal. Opere come questa, riportate dall’Egitto, permettono agli studiosi europei di imparare la lingua copta e diffonderne la conoscenza, a partire dal Prodromus coptus sive aegyptiacus di Athanasius Kircher (1636) – il quale riteneva, correttamente, che il copto dovesse essere la lingua dei geroglifici. Intanto però il copto muore come lingua parlata ed è quasi estinto già nel Seicento.Vive però fino ai nostri giorni come lingua liturgica della Chiesa d’Egitto e negli studi accademici. Fatta questa indispensabile premessa, arriviamo al cruciale ritrovamento nel 1799 della famosa stele a Fort Julien, vicino a Rashid (Rosetta), da parte dei Francesi che allora occupavano l’Egitto. Si trova oggi al British Museum perché la sua cessione fu fra le condizioni di resa successivamente imposte dagli Inglesi ai Francesi.

UN PASSO DECISIVO VERSO LA DECIFRAZIONE Il suo testo bilingue in egiziano (geroglifico e demotico) e greco – un editto del 196 a.C. di Tolomeo V – forní a Jean-François Champollion una prima chiave per la decifrazione grazie alle corrispondenze individuabili fra il nome in greco di Tolomeo V e la sua versione geroglifica racchiusa nei «cartigli» che circondano il nome dei faraoni. Un obelisco portato dal tempio di File in Inghilterra da William Bankes permise a Champollion, e all’inglese Thomas Young parallelamente, di aggiungere ai nomi decifrati quello di Cleopatra, e di disporre cosí di un considerevole inventario di quelli che il francese chiama «geroglifici alfabetici». Ma i geroglifici erano troppi, centinaia se non migliaia, perché si potesse pensare che fossero una scrittura alfabetica. La risposta doveva stare altrove. 48 a r c h e o

I segni davano dunque la sequenza RE-?-S-S. A Champollion, che conosceva tutte le fonti disponibili sull’antico Egitto, venne in mente il faraone Ramesse tramandato dagli autori greci. Interpretò dunque il segno ignoto come «m»: RA-M-S-S (bastava commutare la «e» in «a»). Un altro cartiglio inviatogli da Huyot confermò definitivamente la sua ipotesi:

Il passo decisivo, che permise di arrivare alla vera decifrazione, fu possibile perché Champollion già conosceva la lingua egiziana, quella dei geroglifici. Aveva infatti studiato assiduamente il copto con l’egiziano-siriano Raphaël de Monachis e il sacerdote copto Yohanna Cheftichi. Al fratello Jacques-Joseph scriveva «Sogno solo in copto»! La svolta arrivò quando l’architetto Jean Nicolas Huyot gli mandò dall’Egitto copie di iscrizioni dal tempio di Abu Simbel. Fra queste c’era il seguente cartiglio:

Champollion riconobbe che il primo segno era il sole, e pensò subito al nome del sole in copto, ΡΗ («re»). I due segni arcuati alla fine sapeva leggersi «s», ultimo segno del nome di Tolomeo nella stele di Rosetta:

πτολεμαιος = Ptolemaios

Champollion sapeva che l’ibis era identificato col dio Thot. Lesse dunque THOT-M-S, nome che riconobbe per il Tuthmosi noto anch’egli dalle fonti greche. A questo punto Champollion comprese di aver capito. Si racconta che si precipitò allora dal fratello e irruppe nel suo ufficio gridando «Ce l’ho!» («Je tiens mon affaire!»). Cadde poi in un coma da cui si risvegliò solo cinque giorni dopo. Per fortuna, verrebbe da dire, si ricordava ancora tutto.

COME FUNZIONA IL GEROGLIFICO I filosofi rinascimentali pensavano che i geroglifici fossero un sistema universale per scrivere concetti puri, indipendentemente da una specifica lingua parlata. Sappiamo che il geroglifico è invece una scrittura usata per scrivere uno specifico idioma, l’egiziano. Tuttavia, molti geroglifici significano esattamente quello che rappresentano. Per esempio, la pianta di una casa, , si legge per, «casa». Sono cioè «ideogrammi»; per indicare che sono usati cosí in egiziano si ag-


giunge spesso il «trattino dell’ideogramma»: . Ma i geroglifici si usano anche per scrivere i suoni della lingua egiziana. Prendiamo, per esempio, gli ideogrammi della bocca (r + vocale non nota; significato: «bocca») e del braccio (a; significato: «braccio»). Se li componiamo cosí non abbiamo scritto «bocca, braccio», ma bensí ra, «sole». Qui, infatti, la bocca e il braccio non sono piú ideogrammi, ma «fonogrammi»: alle parole egiziane per «bocca» e «braccio», r e a, si toglie il significato e resta solo il suono. Per rendere il senso piú chiaro, si aggiunge un «determiScriba seduto, statua in calcare dipinto con inserti in rame, calcite, cristallo di rocca e legno, da Saqqara. IV dinastia (2620-2500 a.C.). Parigi, Museo del Louvre.

nativo» (un suono che, al contra- geroglifico è quindi paragonabile rio, ha un significato ma non si a quello dei nostri «rebus». pronuncia), cioè l’immagine del sole: . Oppure anche il deterI PAPIRI DEL minativo del dio seduto: , perMUSEO EGIZIO ché Ra è un dio. Il sistema del Il Museo Egizio possiede una collezione di papiri fra le piú importanti al mondo. La maggior parte proviene dalla collezione raccolta dal console francese Bernardino Drovetti, soprattutto nella regione tebana. Fra questi, fanno la parte del leone i testi in ieratico di Deir el-Medina, un villaggio abitato fra il 1500 e il 1100 a.C. circa da artigiani che sapevano leggere e scrivere, perché incaricati di costruire le tombe della famiglia regale nelle vicine Valle dei Re e Nella pagina accanto: il frontespizio dell’opera Prodromus coptus sive aegyptiacus di Athanasius Kircher. 1636.

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IL PAPIRO: DALLA PIANTA AL SUPPORTO La carta di papiro ha una storia lunghissima che trova le sue origini in Egitto, dove fu fabbricata

di certezza il procedimento di fabbricazione dei fogli. Per la loro realizzazione era

per la prima volta intorno al III millennio a.C. Purtroppo, nessuna fonte egizia parla dei metodi usati per la produzione. Il resoconto piú dettagliato, sebbene non sia chiaro in tutti i particolari, è stato fornito da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia XIII, 74-82). Numerosi studi hanno permesso di riproporre con un discreto margine

adoperata la porzione mediana dello stelo della pianta di Cyperus papyrus, privata dalla scorza e tagliata in strisce. Una volta trattate con apposite soluzioni, le strisce venivano giustapposte l’una all’altra, avendo cura di sovrapporle di qualche millimetro, cosí da formare uno strato continuo. A questo se ne

Valle delle Regine e dipingerne le scene e i testi. I manoscritti provenienti da questo insediamento ci danno una ricca messe di informazioni sull’organizzazione, la società, la vita quotidiana della comunità di Deir el-Medina, nonché sugli autori dei testi, alcuni dei quali siamo in grado di identificare. Purtroppo, gli standard di conservazione ottocenteschi erano diversi dagli attuali. Sebbene comprenda quasi 800 manoscritti interi o ricomposti, gran parte della collezione di papiri è ridotta in frammenti: piú di 25 000. Il museo ha in corso un progetto di ampio respiro (Turin Papyrus Online Platform, https://collezionepapiri.museoegizio.it) per il restauro, la schedatura digitale, lo studio collaborativo online, e la ricomposizione di questo straordinario patrimonio, e per renderlo disponibile liberamente al pubblico. Oltre ai manoscritti ieratici, la collezione di papiri comprende testi in demotico, geroglifico corsivo, greco, copto e arabo. È rappresen-

tata un’ampia gamma di generi testuali.Vi sono papiri amministrativi, religiosi e letterari, lettere, contratti, rapporti, ecc. Fra i papiri in mostra spiccano quello «dello Scandalo di Elefantina», un rapporto su gravissimi crimini di corruzione, violenza e abuso sessuale commessi al tempio di Khnum a Elefantina; il «Papiro del Gioco», che spiega i significati esoterici del gioco da tavola egiziano chiamato senet; un papiro dell’«Amduat», che ripercorre il percorso diurno e notturno del sole; e un contratto demotico per l’affitto del lavoro di uno schiavo. Un’attenzione particolare è stata riservata a due documenti: il Papiro della Congiura (vedi box alle pp. 54-55) e il Papiro dei Re, il piú famoso manoscritto del Museo Egizio (vedi box alle pp. 52-53).

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IL MESTIERE MIGLIORE CHE ESISTA Tutte le attività che prevedevano l’uso della scrittura erano di competenza del sekhau, lo scriba. Si tratta

Le fasi della lavorazione che permette di ottenere fogli su cui scrivere dalla pianta del papiro.

LE PRIME FRASI Per vari secoli, a partire dalla loro prima attestazione intorno al 3200 a.C., le iscrizioni geroglifiche sono etichette apposte su contenitori o didascalie accompagnanti immagini: label statements, «enunciati etichetta»,


aggiungeva un secondo, disposto in senso perpendicolare al primo. Il tutto veniva dunque sottoposto a pressione, operazione che permetteva ai due strati di attaccarsi grazie ai liquidi naturali prodotti dal fusto della pianta. Una volta terminata questa fase, i fogli venivano fatti essiccare e poi trattati per lisciarne entrambi i lati.

che si riferiscono a significanti «extra-testuali». I primi enunciati sicuramente completi (soggetto, verbo, complemento oggetto) a noi noti si trovano su un frammento di un rilievo di Djoser (III dinastia,

2592-2566 a.C.) al Museo Egizio di Torino: «noi abbiamo concesso che egli faccia delle feste giubilari», «noi abbiamo fatto per lui lo stesso di ciò [che lui ha fatto a noi]» e altre analoghe (si intende quello che gli dèi hanno fatto per il

sovrano). Un enunciato completo antecedente si trova forse su una sigillatura del regno di Peribsen – II dinastia, 2660-2650 a.C. – ma la sua interpretazione grammaticale è incerta: potrebbe essere una semplice etichetta.

In alto: tavoletta scrittoria in legno che permetteva di mantenere disteso il foglio di papiro, da Tebtynis. Epoca Romana (30 a.C.-395 d.C.). Torino, Museo Egizio. Qui sopra, sulle due pagine: frammenti di rilievo provenienti da un edificio cultuale del re Djoser, da Eliopoli. III dinastia, 2592-2543 a.C. Torino, Museo Egizio. a r c h e o 51


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IL PAPIRO DEI RE È chiamato Papriro dei Re questo elenco di sovrani in ordine cronologico, scritto in ieratico sul retro di un papiro «riciclato», un registro di tasse databile al regno

di Ramesse II (XIII secolo a.C.). Quando fu scoperto, il papiro era probabilmente intatto, ma oggi si presenta in condizioni molto lacunose. La parte conservata è un

puzzle ricomposto da molti frammenti, grazie al lavoro condotto dagli studiosi dall’Ottocento fino ai giorni nostri. L’elenco inizia con l’epoca in cui

di una figura che si stagliava trasversalmente nella società egizia. Un sekhau, infatti, poteva essere il funzionario del tempio o di un centro amministrativo, un militare, un medico, un sacerdote e anche un pitto-

re, uno scultore o un architetto. La carica si poteva tramandare di padre in figlio, ma non solo; infatti, le fonti parlano anche di scribi che accettavano come allievi i giovani di altre famiglie indipendentemente dalla

professione del padre. Sebbene l’insegnamento della scrittura rimanesse riservato a chi era destinato a una professione che ne richiedesse in qualche modo l’utilizzo, potenzialmente quasi tutti potevano diventa-

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Il Papiro dei Re, con un elenco di re sul verso e un testo amministrativo sul recto, da Deir el-Medina. XIX dinastia, 1279-1213 a.C. Torino, Museo Egizio.

regnavano gli dèi: Geb, Osiride, Horo, Seth, Maat, e poi gli «spiriti», per continuare poi con i sovrani storici, dagli inizi dell’epoca dinastica fino al Secondo Periodo

Intermedio (XVIII-XVI sec. a.C.). Degli elenchi di re a noi pervenuti (questo è l’unico su papiro) è il solo che non seleziona o censura i nomi (anche se non è scevro di errori):

comprende persino i sovrani hyksos espulsi dall’Egitto nel XVI sec. a.C. dai faraoni della XVII dinastia. È quindi una fonte preziosa di ricostruzione storica.

re sekhau ed emanciparsi culturalmente e socialmente. Sono numerose le storie biografiche in cui si racconta di umili scribi diventati alti funzionari. Inoltre, esistono diverse antologie

scolastiche che parlano del mestiere di scriba in termini celebrativi: «Ecco, io ti istruisco e faccio sano il tuo corpo perché tu tenga la tavoletta (da scriba) liberamente, per farti diventare uno di fiucia del re, per far che tu apra

tesori e granai, per far che tu riceva (grano) dalla barca all’entrata del granaio e per far che tu faccia uscire le offerte divine nei giorni di festa, vestito di (belle) vesti, con cavalli, mentre la tua barca è sul fiume e sei provvisto di uscieri, movendoti liberamente e andando a ispezione (…)». (È piacevole essere scriba, non è come fare il soldato! Papiro Lansing).

Paletta in legno da scriba, da Deir el-Medina. Nuovo Regno, 1539-1076 a.C. Torino, Museo Egizio. Nella pagina accanto, in basso: il Papiro dello Scandalo di Elefantina. Torino, Museo Egizio.

IL RUOLO DELLE DONNE I testi egizi attestano anche un corrispettivo titolo femminile – sekhat – e sembra dunque che anche le donne potessero imparare a scrivere. All’ambito femminile apparteneva la dea Seshat, figlia e sorella di Thot, preposta a tutte le forme di scrittura e alle cerimonie per le a r c h e o 53


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quali erano necessarie operazioni di calcolo, nonché patrona della «casa della vita» (per-ankh), un luogo annesso al tempio in cui si copiavano e raccoglievano opere sia scientifiche sia religiose. I dati archeologici non confermano purtroppo quelli testuali, piuttosto ci dicono che le donne recanti il titolo di sekhat fossero pochissime, praticamente delle eccezioni.

LA FORMAZIONE La formazione degli scribi iniziava già dall’infanzia ed era molto dura. Non si deve immaginare un sistema di insegnamento di massa, con lezioni all’interno di appositi edifici, poiché non si hanno prove archeologiche in tal senso. Fa eccezione la «casa di insegnamento» che appare solo nel Medio Regno (1980-1700 a.C.) e sembra fosse un centro di formazione che si trovava nel Fayum a Itji-Tauy, la capitale di quel tempo. Nel Nuovo Regno (1539-1076 a.C.) si conoscono ancora due istituzioni scolastiche a Tebe: una situata nel tempio di Mut, a Karnak, non lontano dal piú noto tempio di Amon; una annessa al Ramesseo, il tempio funerario di Ramesse II, sito sulla riva ovest del Nilo, nei pressi della Necropoli Tebana. In

tavolette di legno. I piú bravi apprendevano anche la scrittura geroglifica e potevano accedere alla «casa della vita». L’arte della scrittura resta una prerogativa di pochi «eletti». Gli studi finora condotti per determinare quanti antichi Egizi sapessero leggere e scrivere non ci permettono di stabilire una percentuale esatta. Il non saper leggere, tuttavia, non precludeva qualsiasi possibilità di comprensione di un testo scritto. Il carattere iconico del geroglifico, infatti, doveva certamente facilitare il riconoscimento di alcune parole, soprattutto di quelle riprodotte piú frequentemente sulle pareti esterne dei templi e delle tombe, come i nomi dei sovrani o «Sii scriba: ti salva dalla fatica e ti pro- quelli delle divinità. tegge da ogni tipo di lavoro. Ti tiene lontano dal portare la zappa e la marra, PAROLE DI PIETRA e dal portare un cesto. Ti tiene lontano Quella egizia è una civiltà della dudal manovrare il remo e ti preserva dai rata e della memoria, fondata sul tormenti, poiché non sei sotto numerosi materiale piú durevole possibile, la padroni e numerosi superiori». pietra, e su un discorso fortemente (Non c’è mestiere buono tradizionale e tendenzialmente imcome quello di scriba mutabile, fatto di immagini che soPapiro Anastasi II). no caratteri di scrittura e caratteri di scrittura che sono a loro volta imQuesti esercizi potevano essere magini: rilievi e geroglifici, che, insvolti su ostracon, con cannuccia e sieme, decorano le pareti di templi inchiostro. Conseguita una mag- e tombe formando un sistema di giore esperienza passavano alle comunicazione integrato. Il gerogliquesti rispettivi luoghi, i maestri probabilmente insegnavano soprattutto lo ieratico: i primi passi prevedevano la trascrizione di intere parole o frasi copiate da alcuni esempi che costituivano dei modelli. Non mancavano poi le miscellanee, diverse delle quali dedicate proprio alla figura dello scriba o dello scolaro: «Mi hanno detto che hai abbandonato la scrittura e che te ne vai in giro. Hai lasciato la scrittura e hai messo in moto i tuoi piedi come una pariglia di cavalli […(?)]. Il tuo cuore è lontano e sei come l’uccello akhy. Il tuo orecchio è sordo e sei come un asino che venga punito (…)». (Rimprovero a uno scolaro svogliato Papiro Lansing).

DIRE L’INDICIBILE: IL PAPIRO DELLA CONGIURA Splendidamente vergato in ieratico, il Papiro della Congiura – che misura 5,40 m – racconta l’irraccontabile, il sacrilegio estremo: una congiura ordita ai danni del re, Ramesse III (11871156 a.C.), per mettere sul trono un pretendente, Pentaur, figlio di una

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donna dell’harem. È il riassunto del processo al quale furono sottoposti i congiurati, dalla formazione del tribunale alla loro punizione. Il testo è anche interessante per quello che, per motivi di efficacia magica, non dice, o fa solo intuire. È un continuo

esercizio di reticenza: non è chiaro se il re sia sopravvissuto o meno all’attentato; non è detto chiaramente come i congiurati vengano giustiziati, ma si usano circonlocuzioni («si lasciò che la sua punizione lo raggiungesse»), per proteggere i giustizieri dalle


fico funziona soprattutto all’interno di questo sistema. È innanzitutto comunicazione «politica»; ogni funzione «economica», «amministrativa» o «pratica» è lasciata infatti ai suoi derivati corsivi, lo ieratico e piú tardi il demotico. Per citare Champollion, «in Egitto la scultura e la pittura non erano altro che veri e propri rami della scrittura». Il forte legame fra scrittura e arte è evidente nell’orientamento delle immagini sulle stele: i personaggi principali, quelli a cui si rende omaggio e si portano offerte (dèi o defunti), sono infatti sempre rivolti a destra, e dunque nella direzione dominante, «di default» della scrittura, che si scriveva di preferenza da destra a sinistra; le loro immagini sono dunque trattate come se fossero segni geroglifici. Sono scritte da destra a sinistra, per la regola della concordanza fra scrittura e immagine, anche le didascalie geroglifiche a esse riferite. Il geroglifico si poteva anche scrivere da sinistra a destra (nonché in colonne, dall’alto verso il basso): è questa la direzione in cui sono scritti, sempre per motivi di concordanza, i nomi di coloro che sulle stele portano le offerte agli dèi o defunti, e sono quindi rivolti verso di loro, e dunque a sinistra.

Questa influenza della scrittura sull’arte si osserva anche nelle statue: il loro piede avanzato è infatti sempre il sinistro, come nel geroglifico corrispondente quando è rivolto a destra: . Altrettanto dicasi delle statue di sfinge (in geroglifico ) la cui coda è sempre sul fianco destro, fino al Nuovo Re-

gno (1539-1076 a.C.), quando per esigenze di simmetria in una coppia di sfingi posta ai due lati dell’accesso a un tempio quella di destra ha la coda sul fianco sinistro. L’integrazione di arte e scrittura è ulteriormente evidente, in alcune epoche della storia egiziana, quando nelle scene sui monumenti il nome

Un momento delle operazioni di allestimento della mostra «Il dono di Thot». Sulle due pagine, in basso: il Papiro della Congiura, cosí chiamato perché dà conto del complotto ordito per spodestare Ramesse III e mettere sul trono Pentaur, figlio di una donna dell’harem. Torino, Museo Egizio.

conseguenze delle loro azioni (risultato ottenuto anche con l’imposizione del suicidio: «Fu lasciato solo e si tolse la vita»); e i nomi di alcuni congiurati sono grottescamente storpiati (Mersura, «Ra lo ama», diventa Mesedsura «Ra lo odia», ecc.).

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IMHOTEP, ARCHITETTO E PATRONO DELLA SCRITTURA Imhotep è stato responsabile delle opere del re durante il regno di Djoser, per il quale edificò il grande complesso monumentale con la piramide a gradoni di Saqqara. Nel corso della sua vita fu architetto, sacerdote lettore e persino visir. Ritenuto un uomo di profonda saggezza e dalle notevoli capacità intellettuali, nelle epoche successive fu divinizzato e venerato come patrono della scrittura, della conoscenza e della medicina. Raffigurato nelle vesti di uno scriba seduto, Imhotep sovente recava un rotolo di papiro aperto sulle gambe. Il suo culto si diffuse soprattutto in Epoca Tarda, Tolemaica e Romana, raggiungendo tutto il territorio egizio, da Saqqara a nord, a Tebe, fino all’Isola di File a sud. Questi luoghi si trasformarono in mete di pellegrinaggio, dove gli infermi si recavano per pregare affinché il dio li guarisse. Tra le numerose onorificenze ricevute, Imhotep vanta il privilegio, rarissimo, di aver potuto scrivere il suo nome accanto a quello di Djoser.

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degli individui raffigurati è scritto senza il «determinativo», quel segno alla fine che conferma che si tratta di un nome. Per esempio il nome Sobeknakht – se donna, se uomo – nelle scene figurate è scritto , senza la donna o l’uomo alla fine, perché è il nome del personaggio nella scena a fungere da determinativo. Ma esiste un terzo elemento del sistema: non solo immagini e geroglifici, ma lo spazio architettonico in cui si dispongono. Questo elemento introduce il principio della simmetria, che condiziona fortemente la direzione della scrittura come delle immagini. I geroglifici sullo stipite sinistro di una porta sono infatti rivolti a destra, verso la porta stessa, quelli sullo stipite opposto a sinistra. La stessa figura del dio o del defunto è rivolta sempre verso l’ingresso del tempio o della cappella funeraria, verso chi entra in essa per pregare e portare offerte: quindi, se si trova sulla parete sinistra, sarà rivolta a sinistra, e cosí i geroglifici a essa riferiti.

IL POTERE DELLA SCRITTURA Gli Egiziani antichi credevano nel potere magico della parola e della scrittura. Quest’ultima poteva per esempio avere un potere curativo. Le stele di «Horus sui coccodrilli» mostrano il dio Horus bambino con i piedi su coccodrilli, serpenti e altri animali nocivi stretti fra le mani. Sono monumenti ispirati al mito secondo il quale sua madre Iside guarí il bambino morso da animali con le sue formule magiche. Le medesime formule venivano incise sulle stele, con espressioni come: «Chiudi per me la bocca di ogni serpente maschio e ogni serpente femmina!» L’acqua versata su di esse assorbiva il potere delle formule e, bevuta, permetteva di guarire chi fosse stato morsicato. I geroglifici potevano anche essere potenti in quanto immagini. Sulle


A destra: ancora un momento dell’allestimento della mostra nel Museo Egizio. Nella pagina accanto: statuetta in bronzo dell’architetto Imhotep in veste di scriba. Epoca ellenistica, 332-30 a.C. Torino, Museo Egizio. In basso: stele in pietra calcarea raffigurante il dio Horus sui coccodrilli. Epoca Tarda/Epoca ellenistica, 722-30 a.C. Torino, Museo Egizio.

stele del Primo Periodo Intermedio (fine del III millennio a.C.) il geroglifico della vipera cornuta – usato per scrivere il suono «f» – era regolarmente decapitato dal lapicida stesso affinché non potesse nuocere. Cancellare il nome di un dio o un personaggio in un’iscrizione era piú di una damnatio memoriae: era un modo di annullarne la presenza in un luogo. Il caso piú famoso è quello del nome del dio pr incipale del Nuovo Regno, Amon di Tebe, sostituito per circa un ventennio dal culto del disco solare, l’Aten durante il regno del f araone «eretico» Akhenaten (1353-1336 a.C.): è molto comune infatti vedere il nome di Amon cancellato nelle iscr izioni dei monumenti antecedenti il regno di questo sovrano. Dopo la restaurazione del culto di Amon furono di nuovo inviati lapicidi per l’Egitto per restaurare il nome del dio cancellato; l’area cosí restaurata risulta però ribassata rispetto al resto dell’iscrizione, e i segni della cancellazione restano ben visibili. DOVE E QUANDO «Il dono di Thot. Leggere l’antico Egitto» Torino, Museo Egizio fino al 7 settembre Orario martedí-domenica, 9,00-18,30; lunedí, 9,00-14,00 Info tel. 011 4406903; e-mail: info@museitorino.it; www.museoegizio.it a r c h e o 57


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In alto: tre celebri Cleopatre cinematografiche: 1. Claudette Colbert (1934); 2. Theda Bara (1917); 3. Elizabeth Taylor (1963). Qui sopra: la locandina del film Cleopatra Jones (1973), con Tamara Dobson come protagonista. Nella pagina accanto: Gal Gadot, la Cleopatra del remake del peplum girato nel 1963.

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REGINA PER SEMPRE

LA STORIA DI CLEOPATRA CI È STATA TRASMESSA DA UNA RICCHISSIMA DOCUMENTAZIONE STORICA, PAPIRACEA E ICONOGRAFICA. UNA CIRCOSTANZA CHE, DA SEMPRE, HA CATALIZZATO L’ATTENZIONE INTORNO A UNA DONNA A BUON DIRITTO DEFINIBILE COME LA PIÚ CELEBRE DELL’ANTICHITÀ di Silvia Giorcelli a r c h e o 61


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l dubbio su quale fosse il colore della pelle di Cleopatra non deve aver sfiorato i produttori della Paramount quando, nel 2020, pensarono a una nota attrice israeliana per il ruolo dell’ultima regina d’Egitto nel remake del film girato nel 1963: Gal Gadot (la bella Wonder Woman del film diretto da Patty Jenkins, 2017) non è africana, né, evidentemente araba, e ciò ha innescato una polemica all’insegna del politicamente corretto: secondo la giornalista Sameera Khan, la scelta sarebbe stata infelice per ragioni politiche innanzitutto, e per il colore della pelle di Gal Gadot, che è bianca e non nera come la giorna-

lista immaginava la regina d’Egitto; sarebbe stato l’ennesimo caso, insomma, di whitewashing, quella pratica diffusa nell’industria cinematografica che suggerisce l’uso prevalente di attori e attrici caucasici in ruoli di personaggi storicamente di altra etnia, distorcendo la storia e alimentando la primazia del colore bianco della pelle. Cleopatra fu interpretata da attrici bianche, tra cui Theda Bara (1917), Claudette Colbert (1934) e l’indimenticabile Liz Taylor (1963), ma un esperimento di blaxploitation (letteralmente «sfruttamento nero») si registra nel 1973, con Cleopatra Jones, in cui l’attrice nera Tamara Dobson è un’agente speciale sotto copertura al servizio del governo degli Stati Uniti e dunque impersona una versione al femminile di James Bond.

DA MITO A ICONA Di quale fosse la consapevolezza storica dietro la scelta dei cast e delle sceneggiature è lecito dubitare, ma è comunque interessante osservare come l’ultima regina d’Egitto sia figura molto adatta per interpretare la sensibilità contemporanea, che oggi si declina su temi assai sensibili, quali la costruzione del genere, il femminismo intersezionale, l’afrocentrismo: Cleopatra è diventata, anzi, un’icona della cultura afroamericana, cosí tatticamente manipolata e politicamente interpretata da far dire alla studiosa J.A. Evans che «The color of her skin is relevant only to the modern political scene in the United States». Naturalmente, tutto questo non ha nulla a che fare con la realtà storica di Cleopatra, che fu greco-macedone e dunque bianca, essendo discendente di Tolomeo, uno dei generali macedoni al seguito di Alessandro Magno; la rigida endogamia all’interno della famiglia regale conservò i tratti caucasici dei discendenti, per quanto sia presente una tradizione storiografica che ac62 a r c h e o

credita l’esistenza di donne non greche (ma orientali o africane) nella famiglia di Cleopatra, in particolare la nonna paterna, concubina di Tolomeo IX Sotere. La divagazione ha il solo scopo di sottolineare l’enorme potenziale culturale che da sempre accompagna la storia dell’ultima regina d’Egitto: Cleopatra è figura storica e insieme mitica, protagonista, in passato, dell’arte pittorica piú sublime e, oggi, dei videogiochi piú tecnologicamente avanzati, eroina di opere teatrali e di drammi per musica, di romanzi di successo e di saggi storici, e ancora di cortometraggi e di serie televisive, di film storici e di pellicole pornografiche, di giochi da tavolo e di gadget. È del resto innegabile che sia stata un personaggio straordinariamente sfaccettato, donna di potere, sessualmente intraprendente e consapevole, politicamente lucida e capace, figlia regina amante madre, cinica e capricciosa, bella (o forse no), certamente affascinante, regale


Sulle due pagine: tre immagini di Cleopatra VII. Da sinistra: il ritratto giovanile rinvenuto a Roma presso la Villa dei Quintili (forse non oltre il 48 a.C., Città del Vaticano, Musei Vaticani); ritratto femminile in fase di rilavorazione, recentemente identificato come un’Ottavia poi trasformata in Cleopatra (40-37 a.C. l’originale, 32-31 a.C. la rilavorazione; Germania, collezione privata); la Cleopatra Nahman, ritratto di età «matura». (33-30 a.C. circa, Il Cairo, Collezione privata).

e divina; queste diverse identità le hanno garantito nei secoli una fortuna mai declinante e ne fanno un’autentica icona del tempo presente. Sono pochi i personaggi del passato in grado di attraversare la storia riuscendo a interpretare e a riflettere i tempi: pure realmente esistita, Cleopatra è diventata un mito che, per sua intima natura, non esiste in forma definitiva ma solo in quanto può essere ri-raccontato ogni volta, a ogni epoca, per rispondere a sollecitazioni e ansie culturali diverse e sempre contemporanee.

INFORMAZIONI TENDENZIOSE Sappiamo molto della sua vita e certo quel che non manca è la documentazione che la riguarda: sono moltissime le fonti antiche che la ricordano, dalle monete ai papiri, dai ritratti alle descrizioni nelle

L’ULTIMA DINASTIA D’EGITTO Tolomeo I Sotere 305 a.C.-283 a.C. sposa Euridice, poi Berenice I Tolomeo II Filadelfo 285 a.C.-246 a.C. sposa Arsinoe I, poi Arsinoe II Tolomeo III Evergete I 246 a.C.-221 a.C. sposa Berenice II Tolomeo IV Filopatore 221 a.C.-204 a.C. sposa Arsinoe III Tolomeo V Epifane 204 a.C.-180 a.C. sposa Cleopatra I Tolomeo VI Filometore 180 a.C.-164 a.C., 163 a.C.-145 a.C. sposa Cleopatra II Tolomeo VII Neo Filopatore 145 a.C.-144 a.C. Tolomeo VIII Evergete II Fiscone 170 a.C.-163 a.C., 144 a.C.-132 a.C., 124 a.C.-116 a.C. sposa Cleopatra II, poi Cleopatra III, il figlio Tolomeo Apione regna sulla Cirenaica Cleopatra II 131 a.C.-127 a.C. in opposizione a Tolomeo VIII Tolomeo IX Sotere II Latiro 116 a.C.-110 a.C., 109 a.C.-107 a.C., 88 a.C.-81 a.C. sposa Cleopatra IV, poi Cleopatra Selene; regna insieme a Cleopatra III nel suo primo regno Tolomeo X Alessandro I 107 a.C.-88 a.C. sposa Cleopatra Selene, poi Berenice III; regna insieme a Cleopatra III fino al 101 a.C. Berenice III 81 a.C.-80 a.C. Tolomeo XI Alessandro II 80 a.C. regna insieme alla moglie Berenice III, dopo averla uccisa, da solo per 18/19 giorni Tolomeo XII Neo Dioniso (Aulete) 80 a.C.-58 a.C., 55 a.C.-51 a.C. sposa Cleopatra V Cleopatra V Trifena (58 a.C.-57 a.C.) regna insieme a Berenice IV (58 a.C.-55 a.C.) Cleopatra VII Thea Filopatore 51 a.C.-30 a.C. Tolomeo XIII 51 a.C.-47 a.C. insieme a Cleopatra VII Arsinoe IV 48 a.C.-47 a.C. in contrasto con Cleopatra VII Tolomeo XIV 47 a.C.-44 a.C. insieme a Cleopatra VII Tolomeo XV Cesarione 44 a.C.-30 a.C. insieme a Cleopatra VII

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TESTIMONE (E VITTIMA) DI EVENTI CRUCIALI Statua ottocentesca di Cleopatra VII, raffigurata come la dea Iside. Hull, Ferens Art Gallery.

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80 a.C. Tolomeo XII Neo Dioniso Aulete, padre di Cleopatra VII, ascende al trono d’Egitto. 74 a.C. Il regno di Bitinia diviene provincia romana. 69 a.C. Nasce Cleopatra VII, forse ad Alessandria. 63 a.C. Nasce Ottaviano (Caius Octavius) a Roma, (23 settembre) sul Palatino. 67 a.C. Creta e la Cirenaica divengono provincia romana. 60 a.C. «Primo Triumvirato», costituito in seguito all’accordo tra Cesare, Pompeo e Crasso. 58 a.C. Cipro è provincia romana. 51 a.C. Muore Tolomeo XII. Cleopatra VII Thea Filopatore a diciotto anni è regina d’Egitto, ed è investita del potere insieme al fratello e sposo Tolomeo XIII, di dieci anni. 49 a.C. Il 10 gennaio Cesare passa il Rubicone. Nello stesso anno assume i poteri della dittatura speciale. 48 a.C. Battaglia di Farsalo: Cesare sconfigge Pompeo che, dopo essere fuggito in Egitto, viene fatto uccidere da Tolomeo XIII. Incontro tra Cesare e Cleopatra. 48-47 a.C. Ad Alessandria, Tolomeo XIII muore in seguito allo scontro con le forze di Cesare. Il trono d’Egitto appartiene ora alla sola Cleopatra. 47 a.C. Nel giugno, nasce Tolomeo XV Cesare, detto Cesarione, figlio di Cleopatra e Cesare. Prima carica pubblica per Ottaviano: è nominato prefetto urbano grazie all’appoggio di Cesare. 46-44 a.C. Soggiorno a Roma di Cleopatra e del figlio Cesarione. 44 a.C. Il 15 marzo Cesare viene assassinato. Secondo le disposizioni testamentarie, Ottaviano è adottato da Cesare e nominato suo erede. 43 a.C. Ottaviano sposa Claudia, figliastra di Antonio. Secondo triumvirato, costituito in base all’accordo tra Marco Antonio, Ottaviano e Lepido. In luglio Ottaviano marcia su Roma e ottiene il suo primo consolato. 42 a.C. Giulio Cesare è divus. Nella battaglia di Filippi (3 e 23 ottobre) Ottaviano e Antonio sconfiggono i Cesaricidi (Bruto e Cassio). Il 16 novembre nasce Tiberio, figlio di T. Claudius Nero e Livia. 41 a.C. Marco Antonio e Cleopatra si incontrano in estate a Tarso, in Cilicia, sulle rive del fiume Cidno. Ottaviano ripudia Claudia. 40 a.C. Nel tentativo di mantenere saldi i rapporti con Ottaviano, Marco Antonio ne sposa la sorella, Ottavia. Ottaviano sposa Scribonia. In settembre con il Trattato di Brindisi ad Antonio vengono assegnate le province dell’Oriente romano; a Ottaviano quelle d’Occidente; a Lepido l’Africa e la Numidia. 39 a.C. Nasce Giulia, figlia di Ottaviano e Scribonia.


Ottaviano ripudia Scribonia. 38 a.C. Ottaviano sposa Livia. 37 a.C. Antonio sposa Cleopatra ad Antiochia. Ottaviano assume il titolo di Imperator Caesar. 36 a.C. Al trono d’Egitto siedono Cleopatra VII e Cesarione. 33 a.C. Marco Antonio ripudia Ottavia ad Atene. Secondo consolato di Ottaviano. 31 a.C. Terzo consolato di Ottaviano. Il senato romano dichiara guerra all’Egitto. Il 2 settembre, grazie al valido appoggio di Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano sconfigge la flotta di Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio. 30 a.C. Quarto consolato di Ottaviano. Ottaviano occupa Alessandria. Antonio e Cleopatra si uccidono e Cesarione viene giustiziato. L’Egitto diventa provincia romana, sotto il dominio diretto di Ottaviano, al quale viene conferita la tribunicia potestas a vita. 27 a.C. Settimo consolato di Ottaviano. Il 13 gennaio Ottaviano rende al senato i propri poteri magistratuali, per poi ricevere, tre giorni dopo, il titolo di Augustus e l’imperium provinciale per dieci anni, con il nome di imperator Caesar Augustus. 23 a.C. Augusto ottiene l’imperium proconsolare maius per cinque anni. 16 a.C. Augusto adotta i nipoti, Gaio e Lucio, con il titolo di Cesari. 13 a.C. Primo consolato di Tiberio. 12 a.C. Il 6 marzo Augusto è pontefice massimo. 9 a.C. Il mese Sextilis del calendario giuliano è ora Augustus. 7 a.C. Roma è divisa in 14 regiones amministrative, ripartite in 265 vici. 2 a.C. Augusto è pater patriae. 3 d.C. La carica di proconsole viene rinnovata ad Augusto per dieci anni. 4 Augusto adotta Tiberio e Agrippa postumo (figlio di Giulia e Agrippa). 9 Battaglia della foresta di Teutoburgo: Arminio (9 – 11 settembre) infligge alle legioni di Varo una terribile sconfitta. 13 Augusto è confermato nell’esercizio dell’imperium proconsolare per altri dieci anni. La tribunicia potestas è assegnata a Tiberio per dieci anni. 14 Augusto scrive le Res Gestae. Il 19 agosto muore a Nola. Gli succede Tiberio. Il 17 settembre Augusto è proclamato divus dal senato.

L’Augusto di Prima Porta. 20 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

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Tolomeo Filadelfo nella biblioteca di Alessandria, olio su tela di Vincenzo Camuccini. 1813. Napoli, Museo di Capodimonte.

opere storiche, e ciascun documento richiede un’attenta lettura e una contestualizzazione perché quasi nulla di quel che la descrive può essere considerato neutro. Occorre infatti distinguere i diversi e intrecciati piani che accompagnano le fonti sulla regina: da un lato, possediamo l’immagine trasmessa dalla storiografia romana che la ritrae quale avversaria politica, antagonista di Cesare e di Antonio, donna fuori dalle regole rispetto ai canoni romani, fatale monstrum e meretrix regina; dall’altro, osserviamo l’immagine che la regina stessa costruisce di sé, quale benefattrice del popolo, portatrice di una nuova età dell’oro, dea in terra e novella Iside, madre terrena e divina. La sua indiscutibile capacità politica, di conservare l’autonomia dell’E66 a r c h e o

gitto e di trattare alla pari con gli uomini piú potenti di Roma, è pesantemente oscurata dall’immagine di donna disposta a tutto per il potere, anche a compromessi sessuali, e l’etichetta di seduttrice seriale la accompagnò sempre e fu usata dai suoi detrattori, a cominciare da Ottaviano: evidentemente, come per tutti gli uomini e le donne protagonisti della storia, i dati storici puri sono intrecciati all’immagine che sia in rebus, sia post eventum è artatamente costruita. Muoversi tra questi piani e ricostruire la verità su Cleopatra è compito di chi fa storia.

mici all’interno del Mediterraneo: lungo le sponde del Nilo si coltivavano grano in abbondanza e molte altre colture, la sua posizione consentiva alle merci piú preziose (spezie, avori, sete, pietre preziose, minerali) di arrivare a Roma dall’India; la capitale Alessandria, con i suoi porti, era un centro privilegiato per gli scambi commerciali, un luogo di produzione (vetro, papiro, vasellame, metalli, mosaici, statue) e un importante cantiere navale. Nel 323 a.C., dopo la morte di Alessandro, Tolomeo figlio di Lago governò l’Egitto dapprima come satrapo e poi come re: era stato veterano dell’esercito di Alessandro e IN POSIZIONE ne aveva sequestrato la salma duranSTRATEGICA L’Egitto di Cleopatra VII era un te il corteo funebre, fecendola traregno di fondamentale importanza sportare ad Alessandria. Nel corso per gli equilibri strategici ed econo- dei due secoli e mezzo successivi la


Aureo di Augusto. Zecca di Roma o Pergamo. 27 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Al dritto, l’imperatore; al rovescio, un coccodrillo e la scritta Aegypt Capta (Egitto conquistato).

famiglia greco-romana dei Lagidi governò l’Egitto fino alla sconfitta di Cleopatra VII per mano di Ottaviano, lasciando un profondo segno nella storia della regione: una storia che possiamo ricostruire grazie a una ricchissima documentazione storica, papiracea, iconografica. Nata intorno al 70/69 a.C., Cleopatra VII Thea Filopatore ereditò diciottenne il trono d’Egitto dal padre e regnò per vent’anni, insieme con i fratelli minori e accanto agli uomini piú potenti di Roma, sull’ultimo regno ellenistico ancora formalmente indipendente. Le regine tolemaiche si erano spesso ritagliate ruoli significativi a corte in qualità di madri e mogli di re, di coreggenti spesso in posizione do-

minante, cosí potenti e pericolose da essere eliminate da mariti e da figli deboli e impopolari: Cleopatra III (160-101 a.C.), per esempio, è raffigurata nei rilievi dei templi in posizione dominante eretta davanti ai suoi due figli. L’ultima Cleopatra aveva dunque ottimi modelli a cui guardare per affermare la propria personalità. Suo padre era Tolomeo XII l’Aulete («suonatore di flauto», per la sua eccessiva propensione agli svaghi artistici), che, cacciato da Alessandria nel 58 a.C. a seguito di una

In basso: la discendenza di Tolomeo XII l’Aulete (Flautista). 1. Ritratto di Tolomeo XII. Metà del I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. 2. Ritratto in scisto verde di Giulio Cesare. Prima metà del I sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlungen. 3. Cleopatra VII, rilievo del tempio della dea Hathor a Dendera. Epoca greco-romana. 4. Cammeo di Marco Antonio raffigurato come Alessandro Magno. Età ellenistica. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

UN INCONTRO TRA GRANDI LIGNAGGI Tolomeo XII

Cleopatra V Arsinoe IV

1

Berenice IV

Tolomeo XIII

Tolomeo XIV

2

3

4

Giulio Cesare

Marco Antonio

CLEOPATRA VII Tolomeo XV Cesarione

Alessandro Helios

Cleopatra Selene

Tolomeo Filadelfo

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crisi politica, si era rifugiato a Roma dove godeva di appoggi politici grazie alle sue potenziali ricchezze: sebbene ricchissimo, il paese era in gravi difficoltà economiche a causa dei debiti che gli ultimi Tolomei avevano contratto con i banchieri romani, e anche il padre di Cleopatra sapeva che il destino dell’Egitto si darebbe deciso sulle rive del Tevere e non sul Nilo. Il suo predecessore aveva lasciato il paese in eredità a Roma e anche se il testamento era stato impugnato e la causa vinta, con un esborso di denaro, il senato considerava i re egizi alleati e amici del popolo romano e l’Egitto un territorio strategico da monitorare, pur senza implicazioni dirette. Nel 57 a.C. Roma fece sua l’isola di Cipro e anche quella ricca proprietà finí in mano straniera: la rivolta che ne seguí, costrinse Tolomeo XII a cercare sostegno e rifugio a Roma. Durante tale esilio, una delle sue figlie, Berenice IV, cercò di assumere il controllo dell’Egitto accanto al marito Archelao di Cappadocia e l’intervento di Roma per dirimere la vicenda compromise definitivamente la debole autonomia del paese, che finí nelle mani di uomini politici e faccendieri romani. Alla sua morte, nel 51 a.C.,Tolomeo XII – con testamento depositato sia ad Alessandria sia a Roma – nominava eredi i figli maggiori, la diciottenne Cleopatra VII e Tolomeo XIII, un bambino di dieci anni, sposati tra di loro per consuetudine faraonica. E qui entrano in gioco la superiore abilità strategica e l’intelligenza politica della giovane regina. Cleopatra era colta (aveva a disposizione il tesoro di sapere conservato nella biblioteca alessandrina) e molto dotata per le lingue (aveva imparato anche l’antico egizio, che nessuno parlava piú), dunque in grado di parlare con i suoi interlocutori senza l’aiuto di interpreti, era raffinata nei modi ed elegante, consapevole del proprio fascino. Plutarco, nella Vita di Antonio (27) 68 a r c h e o

scrive che «la sua conversazione aveva un fascino irresistibile; e da un lato il suo aspetto, assieme alla seduzione della parola, dall’altro il carattere, che pervadeva in modo inspiegabile ogni suo atto quando s’incontrava col prossimo, costituivano un pungiglione, che si affonda nel cuore. Dolce era il suono della sua voce quando parlava». Consigliato dai cortigiani, il fratello-marito le dichiarò guerra e Cleopatra fece una scelta di campo: nel frattempo, infatti Cesare aveva sconfitto Pompeo che si era incautamente rifugiato in Egitto, trovando la morte per mano di Tolomeo XIII. Pessima mossa, evidentemente: Cesare arrivò ad Alessandria e non gradí, o mostrò di non gradire, il dono della testa mozzata del suo rivale offerta come dono di benvenuto. Insinuandosi nella contesa dinastica e pur affrontando una rivolta popolare, il dittatore ebbe buon gioco nell’affermare il ruolo di Roma quale garante della stabilità dell’Egitto e convocò i due reggenti per dirimere le loro controversie.

UNO STRATAGEMMA LEGGENDARIO Pur ostacolata dal fratello, Cleopatra riuscí a presentarsi da sola al cospetto di Cesare, e con un coup de théâtre di cui racconta Plutarco (Vita di Cesare, XLIX, 3): è la famosa scena, resa immortale a Hollywood da una smagliante Liz Taylor, della regina nascosta in un tappeto (in realtà un sacco) e «srotolata» ai piedi di Cesare. Come sia andata davvero non si sa, ma certo Cesare rimase colpito dall’intraprendenza della giovane donna e dal suo indiscutibile appeal: egli «ebbe per amanti anche regine (...), ma la piú importante tra tutte fu Cleopatra» (Svetonio, Cesare 52). Plutarco non ha dubbi nell’affermare che i due diventarono amanti la notte stessa. Fu vero amore? Se interessa poco il sentimento che li legava, gli effetti politici del loro sodalizio furono importanti: Cleopatra fu confermata sul trono d’E-

gitto con un altro dei suoi fratelli, il giovanissimo Tolomeo XIV; in seguito, il figlio avuto da Cesare (Tolomeo XV detto Cesarione, nato nel 47 a.C.) fu nominato coreggente, mentre la sorella Arsinoe, che aveva tratto vantaggio dal sentimento antiromano serpeggiante nella regione, fu eliminata. Messo in sicurezza il trono d’Egitto, nel 46 a.C. Cleopatra poté concedersi un viaggio a Roma, accolta calorosamente da Cesare e sistemata in una bella villa lungo il Tevere: vi si trasferí con il fratello-sposo, con il figlio del dittatore e con una numerosa corte di servi e cortigiani che esibivano ricchi arredi, gioielli e aromi preziosi. L’atmosfera sontuosa dei palazzi alessandrini fu trasferita nell’Urbe e avviò una moda egittizzante che ebbe molta fortuna, anche grazie alla presenza di artisti e scienziati, medici e architetti che lasciarono il segno nella cultura e nell’arte di Roma; i due amanti, perfetti padroni di casa, ricevevano amici e simpatizzanti e questo non mancò di alimentare critiche (anche perché Cesare era sposato con Calpurnia, una riverita matrona); fu Cesare a far erigere una statua dorata della regina come Iside nel tempio di Venere Genitrice, e anche questo gesto suscitò insofferenza e sospetti tra i senatori (cosí riferisce Cassio Dione, LI, 22, 3). Era bella Cleopatra? I ritratti, non tutti attribuiti a lei con certezza, ne sottolineano il bell’ovale, le labbra piene, il naso importante; il corpo minuto sarà stato morbido e la pelle setosa, ma, a detta di tutte le fonti, il suo fascino r isiedeva nell’intelligenza piú che nell’avvenenza. E aveva il carisma di una regina e lo status di madre dell’unico figlio maschio di Cesare. La morte del dittatore, nel 44 a.C., rimise in discussione gli equilibri di potere, la struttura stessa della res publica e, naturalmente, la sorte dell’Egitto. Cleopatra tornò ad Alessandria, dove governò in anni


raffinato, di corporatura massiccia e molto virile. Questo il ritratto che ci consegnano le fonti, quasi mai tenere con lui e, inoltre, abilmente orientate da Ottaviano, che vedeva in lui un rivale pericoloso.

Augusto e Cleopatra, olio su tela di Anton Raphael Mengs. 1760 circa. Augusta, Städtische Kunstsammlungen.

difficili e cominciò a preparare Cesarione al ruolo che lo attendeva, a garanzia dell’alleanza con Roma per il futuro di un Egitto indipendente. Il destino della regina mutò a seguito dell’incontro con Marco Antonio, il quale, negli accordi triumvirali, ebbe in sorte le province orientali, mentre a Ottaviano toccò l’Italia, ferita dalle guerre civili, e a Lepido l’Africa, con un ruolo marginale rispetto agli altri due triumviri. L’Egitto restava indipendente, seppur sorvegliato speciale: era la piú grande potenza del Mediterraneo e,

oltre a essere strategico per la sua posizione geografica, produceva grandi quantità di grano, indispensabili per Roma, e le sue ricchezze erano immense. Marco Antonio contava sulle clientele orientali e sull’aiuto economico di Cleopatra per portare a termine i piani di conquista, già di Cesare, in Partia, in Mesopotamia, in Armenia. Partí dunque da Roma alla volta dell’Asia Minore, accolto trionfalmente ovunque: era un quarantenne esuberante, amante del vino e del lusso chiassoso, un ottimo soldato amato dalle truppe, non particolarmente

L’INCONTRO FATALE Nell’estate del 41 a.C. Marco Antonio era in Cilicia e lí incontrò la regina d’Egitto, che verosimilmente aveva conosciuto a Roma qualche anno prima. Molto si è scritto dell’incontro tra i due avvenuto a Tarso, sulle rive del fiume Cidno. Convocata dal triumviro insieme agli altri dinasti orientali, fu l’ultima a presentarsi e lo fece in grande stile: abbiamo il resoconto di Plutarco, che racconta nei dettagli lo spettacolare arrivo della nave che trasportava la regina, le vele purpuree spiegate, la musica e giochi di luci, la folla festante lungo le rive del fiume, i doni sontuosi ad Antonio. Le sue parole meritano di essere lette per esteso: «Ella stava sdraiata sotto un padiglione ricamato d’oro, ornata come appare Afrodite nei dipinti, e dei ragazzini, simili agli Eroti dei quadri, da una parte e dall’altra, le facevano vento; le piú belle delle sue ancelle, abbigliate da Nereidi e Grazie, stavano chi al timone e chi alle funi. Meravigliosi profumi, provenienti da essenze e aromi bruciati, invadevano le sponde. Molta folla accompagnava il battello seguendolo fin dalla partenza su entrambe le rive, mentre altri scendevano dalla città a vedere lo spettacolo. Riversandosi la folla fuori della piazza, infine Antonio fu lasciato solo, seduto alla tribuna. E dappertutto si diffuse una voce, che Afrodite con il suo corteo andasse a incontrarsi con Dioniso per il bene dell’Asia. Antonio mandò a invitarla a pranzo, ma poiché ella gli chiese che piuttosto andasse lui da lei, volendole dimostrare affabilità e cortesia, le obbedí e andò. Trovatosi davanti a un allestimento superiore a ogni descrizione, fu colpito soprattutto dalla quantità delle luci. Si racconta infine che tante brillavano insieme e dappertutto, posate a r c h e o 69


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per terra e appese in alto, ed erano artisticamente disposte le une in rapporto con le altre, con tali inclinazioni sapienti, da formare quadrati e cerchi, in modo che pochi spettacoli furono cosí splendidi e degni di essere visti come quello» (Vita di Antonio 26).

COME UNA DEA Cosí si diffuse la voce, messa in circolazione ad arte dalla regina, che ella fosse la dea Afrodite giunta con il suo corteo per unirsi a Dioniso per il bene dell’Oriente e la felicità del popolo; a Cleopatra il legame con Marco Antonio serviva per conservare l’indipendenza del suo regno, mentre il triumviro aveva bisogno della potenza economica egiziana per spazzare via Ottaviano e trionfare a Roma. Nuovamente, la domanda si impone: fu vero amore? Cleopatra si adattò allo stile non esattamente signorile del nuovo amante, lo gratificò sollecitandone tutti i sensi, come dice ancora Plutarco «Praticando l’adulazione non solo in quattro forme, come l’aveva teorizzata Platone [cioè, gastronomia, cosmesi, retorica, sofistica], ma in molte, escogitava sempre qualche nuovo piacere e allettamento per Antonio e, sia che egli fosse occupato in attività serie, sia in divertimenti, lo tratteneva presso di sé, senza lasciarlo né di notte né di giorno. Giocava a dadi con lui, beveva con lui, andava a caccia con lui, assisteva ai suoi esercizi militari» (Vita di Antonio 29, 1-3). Marco Antonio apprezzava le donne e amava condividere con loro gli impegni pubblici e quelli privati: insieme a Cleopatra fondò un tiaso, un’associazione dionisiaca che chiamò «Viventi Inimitabili» e che prevedeva l’iniziazione di dodici adepti che si invitavano reciprocamente a simposio, gareggiando in lusso, originalità di intrattenimento, esperienze etiliche estreme; in tali pratiche si fondevano le tradizionali forme di convivialità romana con quelle della corte 70 a r c h e o

tolemaica. Marco Antonio era molto amato dagli alessandrini e aveva l’abitudine di vestirsi alla greca, con la stola quadrata ellenica e i sandali bianchi attici (cosí riferisce anche Appiano V, 11, 44). Naturalmente la regina fu considerata responsabile di distogliere il triumviro dai suoi impegni e di usare ogni espediente per trattenerlo in Egitto. La coppia ebbe tre figli, nel 40 a.C. i gemelli Elio Alessandro e Cleopatra Selene, nel 36 a.C. Tolomeo Filadelfo, e il loro sodalizio durò fino alla morte, sebbene Marco Antonio proprio nel 40 a.C. avesse sposato Ottavia, sorella di Ottaviano, a suggello dei patti triumvirali. Tale circostanza, se ritardò di qualche anno l’inevitabile scontro tra i due uomini, destò molte preoccupazioni in Cleopatra, che vide nella nuova sposa una pericolosa rivale: Ottavia, infatti, non era soltanto la sorella amatissima dell’uomo piú potente Armilla a corpo di serpente in oro e pasta vitrea, dalla Casa del Fauno a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

di Roma, ma anche una matrona colma di virtú, che per qualche tempo Antonio mostrò di apprezzare, pur senza mettere in discussione il legame con la regina d’Egitto.

TRIONFO SUI PARTI Intanto, nel 39/38 a.C., Marco Antonio avviò la campagna contro i Parti e ottenne il primo trionfo romano su di essi: ma il pericolo su quel fronte non era certamente stato eliminato, la guerra era costosa e Ottaviano non prodigo di uomini e risorse a favore del cognato. Per rinnovare il legame con l’Egitto, ad Antiochia Marco Antonio incontrò Cleopatra, che non vedeva da un paio di anni: Cleopatra rinnovò l’impegno per sostenere la campagna militare e, nel 36 a.C., la spedizione di Antonio prese avvio. Il triumviro procedette dall’Armenia e arrivò ad assediare Fraata, che non cadde, e l’esercito romano subí pesanti perdite lungo la ritirata che durò ventisette giorni; al fallimento militare di Antonio in Oriente fecero riscontro nel 36 a.C. due splendidi successi di Ottaviano in Occidente (militarmente contro Sesto Pompeo e politicamente contro Lepido), che lo rafforzarono molto agli occhi dei senatori e in termini di popolarità. Marco Antonio intanto procedeva nelle sue campagne militari in Oriente, conquistò nel 34 a.C. l’Armenia e per questa vittoria celebrò una sorta di trionfo ad Alessandria, facendo coniare monete con la legenda Armenia devicta: al rovescio l’immagine di Cleopatra, sua sponsor principale e madre dei suoi tre figli. Il cinico Ottaviano continuava a tessere con lucidità la tela che avrebbe intrappolato il rivale e per questo si serví anche della sorella, moglie legittima di Antonio: fingendo di assecondare il progetto contro l’Armenia, inviò al cognato una manciata di uomini e di navi, accompagnate da Ottavia; secondo Plutarco, Cleopa-


tra, alla notizia dell’arrivo della moglie legittima, ebbe un crollo nervoso, si disperò e si rifiutò di mangiare, mentre i cortigiani assillavano Antonio ricordandogli l’amore incondizionato della regina, i figli avuti da lei e gli impegni assunti con l’Egitto: per tutta risposta, il triumviro intimò a Ottavia di tornare a Roma, senza neanche incontrarla. Si trattò, evidentemente, di una provocazione di Ottaviano che ebbe cosí buon gioco a orchestrare una campagna denigratoria contro il cognato che si era permesso di maltrattare una virtuosa matrona. Le cose peggiorarono quando Marco Antonio, di ritorno dall’Armenia

Clipeus Virtutis (scudo votivo) di Augusto, riproduzione marmorea dello scudo d’oro offerto dal senato e deposto nella Curia nel 27 a.C., dal Foro di Arles. 26 a.C. Arles, Musée départemental Arles antique.

devicta, accolse le richieste della regina: è la famosa donatio imperii, cioè la distribuzione dei regni: secondo Plutarco (Vita di Antonio L, 6-9) ai tre figli furono fatte importanti concessioni territoriali, Cipro Libia e Celesiria a Cleopatra «Regina delle Regine», ad Alessandro Elio

furono assegnati l’Armenia, la Media e l’impero dei Parti, una volta sottomessi, a Cesarione, che avrebbe regnato accanto a sua madre come Tolomeo XV, «Re dei Re», furono assegnati la Fenicia, la Siria e la Cilicia, a Cleopatra Selene la Libia e la Cirenaica. La cerimonia fu sontuosa e ispirata alla piú autentica tradizione ellenistica: secondo alcuni studiosi, sarebbe stata la prova piú evidente della svolta autocratica del triumviro che avrebbe cosí ufficializzato un disegno di potere dinastico costruito intorno a sé e alla propria discendenza egiziana; per altri, invece si sarebbe trattato di una prassi già in a r c h e o 71


DONNE DI POTERE/3

Il banchetto di Cleopatra, olio su tela di Gerard de Lairesse. 1675-1680. Amsterdam, Rijksmuseum. Nella pagina accanto: tetradramma in argento con il profilo di Cleopatra al dritto e quello di Marco Antonio al rovescio, battuto da una zecca del Mediterraneo orientale, forse ad Antiochia. 37-33 a.C. Chicago, Art Institute of Chicago.

uso da tempo, quella cioè di assegnare regni secondo gli interessi di Roma, come già avevano fatto Pompeo e Cesare. In ogni caso, la solennità della cerimonia indugiava su caratteri squisitamente ellenistici e orientali, molto lontani dai modelli romani dell’auctoritas. Le donazioni non furono accolte favorevolmente a Roma, e infatti il senato non le ratificò; ma il problema grave per Ottaviano era la posizione ufficiale del figlio naturale di Giulio Cesare, che rischiava di depotenziare il proprio ruolo di figlio adottivo del dittatore. Scrive Cassio Dione (XLIX, 41, 3): «[Antonio] disse che Cleopatra era stata veramente moglie di Cesare, e Tolomeo 72 a r c h e o

suo figlio. Voleva far credere di fare ciò in omaggio a Cesare: in realtà intendeva screditare Ottaviano, facendolo apparire come un figlio adottivo, non come figlio legittimo di Cesare».

UNA PERFIDA MANIPOLATRICE Per queste ragioni, Ottaviano ebbe buon gioco ad avviare una micidiale campagna denigratoria contro di lui, accusandolo di essere succube della regina d’Egitto, dipinta come manipolatrice, dedita a ogni sorta di vizio sessuale e alimentare, eccessiva nel lusso e nell’ostentazione, ben diversa dall’immagine di donna romana sobria e discreta che tanto gli interessava diffondere. In effetti, il

comportamento di Antonio si prestava a una cattiva stampa: l’insistenza nel proporsi come Dioniso o Ercole, accanto a Cleopatra splendente come Iside, il lusso di cui amava circondarsi, la sfrenatezza dei banchetti facilitarono le azioni che Ottaviano mise in atto per screditarlo. Un famoso aneddoto narrato da Plinio il Vecchio (Storia naturale IX, 119-121), che ha conosciuto grande fortuna nella pittura europea, racconta di una sfida tra i due amanti: durante un banchetto, la regina dichiarò che avrebbe consumato in una sola cena dieci milioni di sesterzi e Antonio la sfidò a dimostrarlo; il giorno seguente, ella si fece portare un bicchiere di aceto,


vi immerse una perla preziosissima che si sarebbe sciolta a causa dell’acidità del liquido: di fronte a un esterrefatto Antonio, la regina bevve il contenuto del bicchiere, vincendo cosí la sfida. Esibizione, ostentazione e fasto: un modus vivendi molto lontano dalla frugalità e dalla misura, virtú che richiamavano gli antichi mores romani e che tanto sostanziavano la propaganda di Ottaviano. Anche Cleopatra finí nel tritacarne mediatico del triumviro d’Occidente, dipinta come l’incarnazione del vizio e contrapposta a Ottavia, modello di virtú muliebre, che effettivamente dava prova di equilibrio e di generosità. Conveniva presentare Cleopatra come una potenziale nemica di Roma, carismatica e molto amata dal popolo, alla guida di uno Stato di antichissime tradizioni e di enormi risorse, e dunque pericolosa: accanto a lei, Antonio era ritratto come un uomo debole, totalmente sottomesso alla sua regina e corrotto dalle mollezze orientali. Anche i modelli eroici a cui il triumviro si richiamava nella sua azione in Oriente furono trasfigurati e usati per denigrarlo: Ercole, da modello eroico, fu trasformato in parodia della sudditanza a una donna, Dioniso assurse a simbolo della sfrenatezza sessuale, e anche Alessandro Magno, da emblema della conquista universale, diventò vittima della degradazione orientale. Scrive lo storico Floro (II, 21, 1-3): «Il furore di Antonio, visto che non poteva scomparire per l’ambizione, fu spento dal lusso e dalla libidine. Poiché viveva in ozio, dopo i Parti odiando fortemente le armi, preso dall’amore di Cleopatra, si ristorava negli amplessi della regina, come se avesse ottenuto dei successi. Da quel momento la donna egiziana chiese all’ebbro generale, come ricompensa dei suoi favori, l’impero romano: e Antonio lo promise, come se i Romani

fossero piú arrendevoli dei Parti. Aspirava quindi al potere, neppure di nascosto; ma, dimentico della patria, del nome, della toga, dei fasci, tutto si era abbandonato a quel mostro, non solo con il sentimento, ma anche con il modo di vestire. In mano uno scettro d’oro, al fianco una scimitarra, la veste purpurea tenuta insieme con grandi gemme; mancava il diadema perché, re anche lui, godesse di una regina».

MONDI OPPOSTI In tutta evidenza, lo scontro personale tra i due contendenti fu trasformato in uno scontro tra mondi: l’Occidente intorno a Ottaviano, ispirato ai tradizionali principi romani del mos maiorum, e l’Oriente intorno ad Antonio, che guardava in modo ecumenico alla moltepli-

cità etnica e culturale del Mediterraneo. Lo scontro fu inevitabile e, dopo quasi un anno di preparativi, si consumò il 2 settembre del 31 a.C. presso Capo Azio, un promontorio che controllava l’accesso al golfo di Ambracia: l’esito fu disastroso per Antonio e i due amanti abbandonarono il campo di battaglia sconfitti, anche se Cleopatra inscenò un ritorno trionfale in Egitto per occultare il piú a lungo possibile l’esito dello scontro e non perdere l’appoggio del paese. La propaganda anti-antoniana proseguí implacabile e trasformò definitivamente Cleopatra in una traditrice alla quale Antonio aveva sacrificato la propria onorabilità; nel frattempo, legioni e soldati, molti sovrani orientali e l’universale consenso passavano dalla parte di Ottaviano, chiudendo progressivamente tutte le vie di fuga per la regina. Ormai tutto era perduto e non restava che sperare nella clemenza del vincitore per conservare il regno e la vita. Le ultime ore della vita dei due amanti sembrano le sequenze di un film romantico con finale drammatico: Cleopatra si chiuse nel Mausoleo, serrandolo con un particolare congegno di chiusura, e fece sapere di essersi tolta la vita; Antonio, disperato, chiese al servo Eros di ucciderlo, ma questi rivolse la spada contro se stesso; seguendo il suo esempio, Marco Antonio si gettò sulla spada ma non morí, rimase soltanto gravemente ferito e intanto venne a sapere da Demetrio, il segretario di Cleopatra, che la regina era ancora viva; si fece allora calare nel Mausoleo per raggiungere la donna. La falsa notizia della morte di Cleopatra è stata oggetto di letture diverse: la sovrana avrebbe agito per costringere Antonio al suicidio, onde gestire con maggior libertà l’inevitabile confronto con Ottaviano, oppure avrebbe cercato di ammantare di a r c h e o 73


DONNE DI POTERE/3

dignità la fine penosa del suo amante? Plutarco insiste sulla disperazione autentica della regina quando vide Antonio dissanguato, che gli morí tra le braccia pronunciando parole ispirate: «Era stato il piú illustre degli uomini, aveva esercitato un potere grandissimo e ora era stato sconfitto in modo non ignobile, da Romano, a opera di un Romano» (Plut., Ant. LXXII, 7). Cleopatra si apprestò a onorare il corpo dell’amato, ma fu interrotta dall’arrivo dei fiduciari di Ottaviano, Gaio Cornelio Gallo e Gaio Proculeio insieme al liberto Epafrodito: essi avevano il compito di evitare che la regina si suicidasse e che disperdesse in qualche modo i tesori ammassati nel Mausoleo; prima di consegnarla al vincitore, che intendeva esibirla a Roma durante il trionfo, le concessero qualche giorno per imbalsamare il corpo di Antonio e per vegliarlo.

LE ULTIME ORE DI VITA Non ci sono prove che la regina si sia inflitta la morte facendosi pungere da un aspide, ma è assai probabile che avesse fatto ricorso al veleno di cui conosceva i segreti: la propaganda negativa l’aveva sempre dipinta quale crudele avvelenatrice di condannati a morte sui quali testava l’efficacia delle sue pozioni letali. Si narra che fu operato un tentativo estremo per riportarla in vita tramite gli Psilli, un popolo originario della Cirenaica accreditato di saper trattare il veleno, ma esso fu vano e Ottaviano, per il trionfo, dovette accontentarsi di una statua che la ritraeva con un aspide attaccato al braccio: ciò diede credito alla versione della morte per il veleno di un serpente, che del resto ben si addiceva all’ultima regina d’Egitto, poiché l’aspide era correlato al cobra reale egizio, a Iside e all’immortalità. Il suicidio della regina sciolse Ottaviano dall’imbarazzo, in realtà: dopo il trionfo, l’eliminazione del74 a r c h e o

Cleopatra, olio su tela di Guido Reni. 1639. Firenze, Palazzo Pitti.

la regale prigioniera sarebbe stata una pessima mossa, in considerazione del suo legame con Giulio Cesare divinizzato. Ottaviano, per lucido calcolo, non infierí sulla memoria della regina, di cui conservò le statue ad Alessandria (non quelle di Antonio), ma fu feroce con la sua prole e con quella del triumviro defunto: fu eliminato Antillo, il figlio di Antonio e di Fulvia che, secondo il codice di comportamento romano, avrebbe dovuto vendicare la morte del genitore e, sebbene la madre avesse cercato di allontanarlo da Alessandria, anche Cesarione fece la stessa fine perché «non era bene che ci fossero parecchi Cesari» (Plutarco, Vita di Antonio LXXXI, 4-5). Nella stessa ode in cui Orazio irride la regina come fatale monstrum si leggono questi versi che denuncia-

no l’ammirazione del poeta per questa donna coraggiosa e coerente (Odi, I, 37, 165-167): «E lei cercò una morte piú nobile. Non fu donna. La spada non la spaventò. Non riparò con la veloce flotta tra rive ignote. Osò guardare serena in viso la reggia abbattuta, senza timore maneggiò atroci serpenti, per intridersi di neri veleni. Scelta la morte, divenne piú fiera. E si rubò alle crudeli liburne, al piú superbo dei trionfi: non piú regina, donna della gloria». Se la vita terrena di Cleopatra si chiuse in quel giorno fatidico, il 12 agosto del 30 a. C., non cosí la sua vita postuma: lungo il Nilo e nella sua Alessandria l’ultima regina lagide continuò a essere venerata come una divinità, le sue statue a ricevere offerte e preghiere nei templi e la devozione alla sua memoria è documentata per molti secoli dopo la morte.



ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/8

UNA GRANDE EPOPEA CRISTIANA

ERA QUESTO IL CARATTERE CHE LO SCRITTORE POLACCO HENRYK SIENKIEWICZ SI AUGURAVA DI CONFERIRE AL SUO ROMANZO STORICO QUO VADIS. SUBITO DOPO LA PRIMA PUBBLICAZIONE, L’OPERA SI TRASFORMÒ IN UN BEST SELLER MONDIALE E VALSE ALL’AUTORE L’ASSEGNAZIONE DEL PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA NEL 1905 di Giuseppe M. Della Fina

N

el 1905 il premio Nobel per la letteratura fu conferito allo scrittore polacco Henryk Sienkiewicz (1846-1916). Il premiato, al suo attivo, aveva un’intensa attività letteraria e, soprattutto, lo straordinario successo del romanzo Quo Vadis, pubblicato, in prima edizione, in lingua polacca nel 1896. In precedenza, a partire dal 1895, il testo era stato proposto a puntate su tre giornali: uno per ciascuno dei tre domini in cui era

UNO SPLENDIDO SESSANTENNE La rivista svedese Svenska Dagbladet, nel numero del dicembre 1905, descrive lo scrittore nei giorni di conferimento del premio Nobel per la Letteratura: «Henryk Sienkiewicz ha un aspetto sommamente distinto. I suoi sessanta anni li porta magnificamente, malgrado la barbetta già bianca, tenuta con cura. Cammina estremamente eretto (...) Parla piano e lentamente, piú volentieri in francese, dato che non può parlare nella sua lingua materna».

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Una scena del film Quo Vadis (1951) con, al centro, Peter Ustinov nei panni di Nerone. Questa trasposizione dell’omonimo romanzo di Henryk Sienkiewicz fu diretta da Mervyn LeRoy e girata negli studi di Cinecittà, a Roma. Nella pagina accanto: lo scrittore polacco Henryk Sienkiewicz (1846-1916).


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/8

allora divisa la Polonia (vedi box a p. 81). La pronta traduzione in lingua inglese lo portò a raggiungere – nell’anno successivo – il primo posto nelle classifiche delle vendite di libri negli Stati Uniti. Nel 1901 tra Inghilterra e Stati Uniti ne erano state vendute già quasi due milioni di copie. La traduzione francese raggiunse gli stessi risultati straordinari e, in Francia, nel 1901, venne realizzato il primo adattamento cinematografico del romanzo per la regia di Lucien Noguet e Ferdinand Zecca (vedi box a p. 85). In Italia la prima traduzione risale al 1899, ma l’anno seguente venne proposta già una nuova edizione con l’introduzione di Orazio Marucchi, uno specialista di archeologia cristiana. A partire dall’inizio del Novecento il libro venne tradotto in tutte le lingue europee compreso l’yiddish, ma anche in giapponese, arabo, ebraico, persiano, armeno ed esperanto. Il romanzo è ambientato a Roma nell’età di Nerone e nei primi decenni del cristianesimo e si sviluppa attorno all’amore contrastato tra la cristiana Licia, figlia di un re barbaro giunta a Roma come ostaggio e accolta con Publio Cornelio affetto nella famiglia del generale Tacito in Aulo Plauzio, e Marco Vinicio, niun’incisione pote di Petronio e quindi di un ottocentesca. uomo con un ruolo di primo piano Nella pagina nella corte imperiale. accanto, dall’alto: Nelle sue pagine si contrappongo- le copertine della no un mondo pagano, che ha perprima edizione duto la spinta propulsiva e nel quale italiana e la lotta sfrenata per il potere e la dell’edizione violenza hanno preso il sopravvento, statunitense del e un mondo nuovo, cristiano, che, 1897 di Quo Vadis. introducendo valori diversi, sta po78 a r c h e o

L’IDEA DEL ROMANZO In una lettera indirizzata nel 1912 al critico d’arte francese Jean Auguste Boyer d’Agen, Henryk Sienkiewicz ricorda come era nato il romanzo: «L’idea di Quo Vadis mi è venuta leggendo gli Annali di Tacito (...) durante un prolungato soggiorno romano il famoso pittore polacco Henryk H. Siemiradzki, che allora abitava a Roma, mi fece da guida per la città eterna e, durante una delle nostre passeggiate, mi mostrò la cappella del Quo Vadis. Fu allora che mi venne l’idea di scrivere un romanzo ambientato a quel tempo».


nendo le basi per la sua affermazione nonostante la violenta repressione di cui è oggetto. Vi s’incontrano numerosi personaggi, tra i quali Nerone, che rappresenta la degenerazione del potere; Petronio, che raffigura il fine intellettuale consapevole della situazione, ma senza la volontà o la forza di prenderne le distanze, o, meglio, capace di farlo solo individualmente con la scelta del suicidio; Pietro e Paolo, portatori di una visione profondamente diversa del mondo; la giovane Licia, in grado di comprendere la novità e la forza del messaggio dei due apostoli; Marco Vinicio, l’uomo che – in virtú dell’amore per Licia – riesce ad abbandonare il vecchio mondo, a cui apparteneva per formazione, e aprirsi a quello nuovo.

PARALLELI STORICI Nella storia si muovono anche altri personaggi, ben descritti, che accolgono con rischio e coraggio il messaggio cristiano. Tra loro vi sono Pomponia, moglie di Aulo Plauzio, e il gigante Ursus, impegnato nel difendere Licia durante i rischi che deve correre; come altri che non lo comprendono, o scelgono consapevolmente di ostacolarlo. Come sempre accade in un romanzo storico, si descrivono i personaggi di un’epoca piú o meno lontana, ma si parla del proprio tempo: Sienkiewicz comprende bene che anche la sua rappresentava un’età di transizione e che le idee con la loro forza possono arrivare a sconfiggere un potere assoluto. Nelle pagine del libro c’è la Roma antica, ma anche contemporaneamente – verrebbe da scrivere – l’Europa del suo tempo, con le tensioni politiche e sociali del momento e le rivendicazioni di popoli che non si sentivano liberi. Lo scrittore riteneva o, almeno, sperava che gli ideali potessero avere la meglio e modificare la situazione pur non facendosi troppe illusioni. In una lettera indirizzata il 5 marzo

SULLA BOCCA DI TUTTI Il successo del romanzo all’uscita (1899) fu notevole in Italia, come ricorda Stanislaw Windakiewicz: «Su tutti i treni italiani, anche sulle linee dirette da Rimini a Ferrara, non si parlava altro che di Quo Vadis. Dopo un anno durante una fiera a Genova tutte le bancarelle di libri di piazza San Lorenzo erano coperte dalle traduzioni del romanzo di Sienkiewicz». In un numero del tempo della rivista L’Illustrazione Italiana si ricorda: «QuoVadis, gridano i distributori sotto i portici della piazza della Cattedrale di Milano. E in tanti negozi agli acquirenti di lampade a petrolio, vasche da bagno, oppure di qualsiasi altro oggetto si offre in omaggio una copia di questo romanzo come ricordo».

sky, mentre stava scrivendo ancora il romanzo, annuncia ciò che avrebbe voluto realizzare: «Il mio romanzo crescerà per sua stessa forza fino a diventare una grande epopea cristiana piena di caratteri distinti. Vinicio, un violento, lo convertirò. Licia la farò vedere sulle corna del toro, ma entrambi convertiti li unirò, perché almeno nella letteratura ci sia piú misericordia e felicità che nella realtà».

1901 al giornalista francese Ange Galdemar, scrive: «Mi attirava piú fortemente di altri, lo storico Tacito. Addentrandomi negli Annales, piú volte mi sentivo tentato dal pensiero di contrapporre in un’opera artistica questi due mondi, di cui uno era la potenza governante e onnipotente della macchina amministrativa, mentre il secondo rappresentava esclusivamente la forza spirituale. Questo pensiero mi attirava, come polacco, per la sua idea di vittoria dell’animo sulla forza materiale». In una lettera precedente, risalente al 1895 e indirizzata a Kazimierz Morawa r c h e o 79


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/8

La situazione negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento e l’amata Polonia sono sempre in sottofondo, nella lettera a Morawsky, appena ricordata, arriva a confessare: «Mi piace pensare che Licia fosse polacca e, se non lituana, almeno originaria della Grande Polonia». Lo stesso, gigantesco, onesto e coraggioso Ursus è un’incarnazione del popolo polacco, come è stato osservato da piú autori.

PAROLE VIBRANTI Un’attenzione per la nazione di origine che ritorna con i toni della denuncia nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura nel 1905: «La dichiaravano morta, ed ecco una delle migliaia di prove che essa vive! (...) La dichiaravano incapace di pensare e di lavorare, ed ecco la prova che agisce! (...) La dichiaravano sottomessa ed ecco una nuova prova che sa vincere!». L’adesione alle tesi sostenute nel libro trovarono un riscontro favorevole – talvolta entusiasta – negli ambienti cristiani dell’Europa e degli Stati Uniti, ai quali veniva ricordato l’eroismo nella testimo-

Disegno satirico raffigurante sei sovrani europei (Caterina II di Russia, Federico Guglielmo II di Prussia, Luigi XV di Francia, Leopoldo II, titolare del Sacro Romano Impero e Carlo III di Spagna) che si spartiscono la Polonia nel 1772 sotto gli occhi del suo re Stanislao II. Londra, British Library. Dalla parte opposta il re inglese Giorgio III dorme, a sottintendere la negligenza del Regno Unito, che aveva permesso di sottrarre la Polonia all’influenza inglese, a tutto vantaggio della Prussia.

Un’altra immagine di Henryk Sienkiewicz, in un’incisione ottocentesca, poi colorata.

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nianza dei suoi primi fedeli. Essi contribuirono molto al successo del libro. Una copia del romanzo tradotta appositamente in latino, stampata su carta raffinata e rilegata con grande cura, venne donata a papa Leone XIII nel 1900. La preparazione del romanzo fu particolarmente accurata e accompagnata dalla lettura di numerosi autori latini, oltre all’amato Tacito:


IL LUNGO CAMMINO VERSO L’INDIPENDENZA Al tempo di Henryk Sienkiewicz la Polonia non esisteva sulle mappe dell’Europa: aveva infatti perduto la sua indipendenza politica nella seconda metà del Settecento. Alcuni decenni piú tardi, a seguito delle guerre napoleoniche, venne creato il Ducato di Varsavia (1807-1813) e, nel 1815, dopo la sconfitta di Napoleone, si diede vita al cosiddetto Regno del Congresso, sottomesso all’impero zarista. Un’insurrezione, scoppiata nel 1830, venne sedata

nell’anno seguente e il territorio polacco rimase sotto il controllo russo. La Polonia rinacque come Stato indipendente nel 1918, all’indomani della prima guerra mondiale. Schierato convintamente a favore dell’indipendenza, Henryk Sienkiewicz non riuscí a vedere il raggiungimento di quel traguardo: lo scrittore era infatti morto in Svizzera, nel 1916. Era nato nel 1846 nella tenuta paterna di Wola Okrzejska, nella Polonia orientale.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/6

Svetonio, Petronio e Seneca per limitarci a qualche nome. In un reportage da Roma, pubblicato sulla rivista Kray, Sienkiewicz scrive: «Ho scartabellato quasi tutta la biblioteca delle opere riguardanti il I secolo dopo Cristo». Sicuramente consultò volumi di archeologia e storia, gui82 a r c h e o

de e piante della città antica, incontrando qualche difficoltà a recuperarne di valide, come si lamentò con il già ricordato Kazimierz Morawsky, che era un filologo classico con cattedra a Cracovia: «Mi manca ancora una buona pianta di Roma, pur avendone due».

Sappiamo con sicurezza che consultò di frequente il Dictionnaire des antiquités grecques et romaninés edito a Parigi pochi anni prima, nel 1883, e acquistato ad Atene nel 1886. Tutto ciò per evitare il piú possibile incongruenze o errori di ambientazione che, in effetti – sul-


la base delle conoscenze del tempo –, come testimonia l’archeologo Orazio Marucchi nella sua Introduzione storica e archeologica all’edizione italiana dell’opera pubblicata nel 1900, non sono numerose, né di gravità particolare.

TRE CITTÀ IN UNA Nella fase di ideazione e preparazione del romanzo, lo scrittore soggiornò in piú occasioni a Roma e dalla città fu subito attratto. La sua prima visita era avvenuta nell’ottobre del 1879 e si protrasse per quasi tutto il mese. In quell’occasione scrisse di getto La lettera da Roma, che venne pubblicata nello stesso anno: «A Roma per dir cosí, vi sono tre città: la Roma contemporanea, la Roma vecchia o papale, la Roma antica. Topograficamente, queste tre città non sono divise tra loro. Spesso case moderne sono costruite su fondazioni antiche, in

mezzo a edifici recenti, s’innalza, qua e là, una torre medievale; colonne antiche sorreggono spesso i frontoni delle chiese». E, ancora, rispetto alla fase piú antica, che lo interessava particolarmente: «I secoli l’hanno sepolta e ricoperta, e sopra quell’immenso sepolcro pullula oggi una vita nuova. La curiosità moderna si compiace nel dischiudere le vecchie tombe e hanno cosí portato alla luce il Foro Romano. Dal Campidoglio sino al Colosseo si distende la Roma antica (...) Il suo panorama si presenta all’improvviso; sicché proviamo un’impressione potentissima, quando, appena usciti dalle strette viuzze dietro al Campidoglio, ci appare davanti questa città delle rovine». Tale descrizione è interessante anche per il fatto che lo scrittore descrive una situazione precedente alle demolizioni che portarono alla

Sulle due pagine: la chiesa del Domine Quo Vadis, sulla via Appia antica, poco fuori Porta S. Sebastiano. In particolare, nella pagina accanto, è riprodotta la replica della pietra con l’impronta con i piedi di Gesú (l’originale è nella basilica di S. Sebastiano), testimonianza del suo incontro con l’apostolo Pietro.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/8

realizzazione di via dell’Impero (l’odierna via dei Fori Imperiali), inaugurata nel 1932. Sinora si sono analizzate le fonti antiche di Sienkiewicz, ma vi furono opere moderne che lo hanno ispirato? Sicuramente sí. Possiamo, per esempio, ipotizzare che una spinta possa essere venuta dal romanzo Roma ai tempi di Nerone, che lo scrittore polacco Józef Kraszewski pubblicò nel 1866. Un libro viene ricordato espressamente da Sienkiewicz: si tratta di

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Ben Hur (1880) di Lewis Wallace. Dal quale, tra l’altro, è stato tratto – come è ben noto – un film di grande successo realizzato nel 1959 con la regia di William Wyler e con Charlton Heston tra gli attori protagonisti. Una pellicola che vinse ben 11 premi Oscar. Sull’opera di Wallace, cosí ebbe modo di esprimersi l’autore di Quo Vadis, in una lettera privata: «Eccellente dal punto di vista archeologico, storico e artistico. L’ho già fatto arrivare, lo leggo e

mi diletto (...) la storia è tra le piú interessanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi».

OPERE CHE PLASMANO UN’IMMAGINE Si può concludere con una domanda di carattere generale: un romanzo storico di successo può arrivare a condizionare l’immagine che abbiamo di un singolo personaggio dell’antichità, o di un’epoca? Ritengo di sí. Il Nerone presente nell’immaginario collettivo è sicuramente


CINEMA E LETTERATURA L’interesse del cinema per il romanzo Quo Vadis si è manifestato molto presto ed è ritornato in piú occasioni. Dopo il primo adattamento cinematografico del romanzo, dovuto a Lucien Noguet e Ferdinand Zecca nel 1901, vanno ricordati almeno il film diretto da Enrico Guazzoni nel 1912, che, al tempo, riscosse un successo internazionale, e la versione hollywoodiana, diretta da Mervyn LeRoy (inizialmente si era pensato a John Huston) nel 1951. Quest’ultima venne girata negli Studi di Cinecittà a Roma con attori di primo piano: Robert Taylor, Deborah Kerr e Peter Ustinov. Tra le comparse, figurano le giovanissime Elizabeth Taylor e Sophia Loren e un giovane Bud Spencer. Una versione cinematografica piú recente (2001) si deve al regista polacco Jerzy Kawalerowicz. In precedenza, nel 1985, la RAI aveva prodotto uno sceneggiato televisivo in sei puntate, con la regia di Franco Rossi: Klaus Maria Brandauer interpretava il ruolo di Nerone e Max von Sydow quello di san Pietro. La locandina del Quo Vadis di Mervyn LeRoy e, nella pagina accanto, una scena del film.

piú dipendente ancora oggi dal romanzo Quo Vadis (e dai film che ne sono stati tratti), che dalle fonti antiche, o dai risultati della ricerca storica e archeologica degli ultimi decenni. Accade cosí anche – per fare un esempio ulteriore – per l’imperatore Adriano, la cui immagine contemporanea è stata influenzata in profondità dal celebre romanzo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, con il quale abbiamo peraltro inaugurato questa serie (vedi «Archeo» n. 452, ottobre 2022; on line su issuu.com). PER SAPERNE DI PIÚ Jerzy Miziołek, Nel segno di Quo vadis? Roma ai tempi di Nerone e dei primi martiri nelle opere di Sienkiewicz, Siemiradzki, Styka e Smuglewicz, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2017; con saggi di Barbara Brzuska, Robert Kotowski e Luigi Marinelli

NELLA PROSSIMA PUNTATA • David Herbert Lawrence a r c h e o 85


SPECIALE • FORO DI CESARE

LA MAGNIFICA

INCOMPIUTA DEL DIVO GIULIO Ritratto di Giulio Cesare, probabilmente realizzato dopo il suo assassinio (44 a.C.). 30-20 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Chiaramonti. In basso: Roma, 26 ottobre 2017. Margrethe II di Danimarca in visita nel Foro di Cesare.


La scoperta dei Fori Imperiali è un lungo e complesso «work in progress», iniziato da Napoleone Bonaparte nel 1812 con la demolizione degli edifici circostanti la Colonna di Traiano, e proseguito nel 1814 da papa Pio VII con l’allestimento della prima area archeologica dei Fori, nella quale la colonna stessa domina sulle rovine della Basilica Ulpia. Per circa un secolo, il «recinto di Pio VII» fu l’unica testimonianza archeologica dell’area. Nel 1932, con l’avvento del fascismo, ebbe luogo un cambiamento ancor piú radicale, con la demolizione dell’intero Quartiere Alessandrino per l’apertura di via dell’Impero, l’odierna via dei Fori Imperiali. Quell’intervento rivelò ampie porzioni del Foro di Cesare e di quelli di Augusto e di Traiano. E tale assetto si è mantenuto fino al Grande Giubileo del 2000, quando è stata intrapresa una vasta campagna di scavo, avvalendosi finalmente dei moderni metodi stratigrafici... di Claudio Parisi Presicce e Massimo Vitti

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oluto da Caio Giulio Cesare a imitazione delle grandiose agorà ellenistiche, il foro che porta il nome del dittatore è, di fatto, il primo complesso del genere di età imperiale e la sua costruzione ebbe inizio nel 46 a.C. Personaggio che aveva programmato interventi urbanistici di grande respiro, destinati a trasformare profondamente l’immagine della città repubblicana, Cesare non ebbe infatti la possibilità di portarli a termine, perché il 15 marzo del 44 a.C. venne ucciso mentre si recava a una riunione del Senato presso la Curia di Pompeo. La grande trasformazione della città venne operata dal suo successore Augusto, il quale, nel giro di pochi anni, rese Roma splendente di marmi. Grazie al bottino accumulato nelle guerre galliche, Cesare poté espropriare i terreni per iniziare la sua piú grande impresa urbanistica, l’unica da lui avviata, ma non ultimata: la costruzione del Forum Iulium, immediatamente adiacente all’area pubblica piú antica e centrale di Roma, quella in cui, dalla sua fondazione, batteva il cuore politico della città, vale a dire il vecchio, caotico, superaffollato Foro Romano. a r c h e o 87


SPECIALE • FORO DI CESARE

Per decongestionarlo e regalare ai cittadini un ulteriore luogo di riunione e di scambi Cesare costruí quindi una lunga piazza circondata da portici su tre lati mentre sul fondo, addossato al colle capitolino, edificò un tempio che voleva essere, al di là delle valenze cultuali, la celebrazione di se stesso tramite la glorificazione delle sue presunte origini divine (vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011; on line su issuu.com). Il tempio infatti venne dedicato a Venere Genitrice, in quanto madre divina dell’eroe troiano Enea che, raggiunta la costa laziale, diede origine, tramite suo figlio Iulo, alla stirpe degli Iulii cui Cesare apparteneva.

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE L’immagine del Foro che oggi si presenta al visitatore è l’esito di interventi succedutisi nel tempo, dalla sua realizzazione nel 46 a.C. fino al suo abbandono nel VI secolo d.C. Come appena detto, il Foro cesariano era costituito da una piazza rettangolare chiusa sul fondo

PIAZZA VENEZIA 1812-1814 1932 1991-1997 1998-2001 2004-2007 Via Alessandrina 2016-2019 Foro di Cesare 2020-2022 Largo Corrado Ricci 2022 Zone da scavare

LO SVELAMENTO CONTINUA Lo scavo di un settore del Foro di Augusto (2004-2007), le indagini al di sotto della piazza del Foro di Cesare (20052008) e l’esplorazione di una porzione di via Alessandrina (2016-2019) rappresentano la continuazione naturale delle ricerche avviate in occasione del Giubileo del 2000. Di recente si è concluso lo scavo di un primo tratto del lato orientale del Foro di Cesare (2019-2022), mentre è tuttora attivo il cantiere che interessa un settore del Foro della Pace, in corrispondenza dei giardini di largo Corrado Ricci (2022-2023). Grazie ai fondi del PNNR sono previste ulteriori ricerche, che permetteranno di indagare completamente l’area ora occupata da via Alessandrina e quella di largo Corrado Ricci, incrementando cosí ulteriormente il recupero dei Fori Imperiali.

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VIA DEI FORI IMPERIALI

Gli scavi eseguiti e quelli programmati nell’area dei Fori Imperiali. Nella pagina accanto, in basso: planimetria del Foro di Cesare: in rosso, il portico di età cesariana; in beige, il terreno asportato per edificare il complesso.

UN’INTESA FRUTTUOSA L’Accademia di Danimarca ha finanziato lo scavo del Foro di Cesare con un atto di mecenatismo del valore di 1 500 000 euro. L’accordo tra Roma Capitale e le istituzioni danesi è stato presentato alla stampa il 26 ottobre 2017, in occasione della visita nella capitale di Sua Maestà la Regina di Danimarca Margrethe II. La convenzione sottoscritta dalla Sovrintendenza Capitolina e dall’Accademia di Danimarca a Roma prevede la

realizzazione di un programma di ricerche nell’area archeologica finalizzato alla conoscenza delle diverse fasi del complesso, alla sua fruizione e allo scavo del lato orientale, con una nuova sistemazione sul lato prospiciente via dei Fori Imperiali. Le attività di indagine sono previste in due tappe distinte: la prima si è conclusa nell’estate del 2022, mentre i lavori della seconda fase avranno inizio nel prossimo autunno.

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un colonnato a giorno costituiva l’ingresso monumentale al foro. In base ai risultati emersi negli ultimi scavi sembra che questo lato fosse originariamente previsto piú arretrato in modo che l’intero complesso risultasse piú corto rispetto alle dimensioni attuali; esso poi fu ampliato da Augusto in maniera che il lato posteriore della Curia fosse inglobato nell’area del portico cesariano, che venne parzialmente chiuso nel 97 d.C. per la costruzione del Foro di Nerva. Fu poi la volta di Traiano, il quale aggiunse un tocco prosaico all’ufficialità del luogo, inserendo una latrina semicircolare sopra gli ambienti del portico laterale occidentale, LE FASI DEL FORO

In alto: decorazioni architettoniche del tempio di Venere Genitrice. Nella pagina accanto: spaccato assonometrico del tempio di Venere Genitrice dopo la ricostruzione traianea. A destra: piante di fase del Foro di Cesare. Dal basso, la fase cesariana (46 a.C.), in azzurro le modifiche della fase traianea (113 d.C.) e, in verde, i restauri di Diocleziano, dopo l’incendio di Carino (283 d.C.).

dal tempio di Venere Genitrice, divina antenata della gens Iulia. Periptero (con colonne intorno alla cella), sine postico (senza colonnato posteriore), ottastilo (con otto colonne sulla fronte), picnostilo (con intercolumnio del peribolo largo una volta e mezza il diametro delle colonne), sorgeva su un alto podio, in gran parte conservato, sul quale si impostavano le colonne della peristasi. La cella, absidata, era addossata alla dorsale retrostante – asportata in epoca domizianea – e presentava all’interno una articolazione parietale scandita da due ordini di colonne aggettanti, delle quali attualmente si conservano solo i dadi in peperino relativi al basamento.

ABSIDI SIMMETRICHE I portici laterali della piazza, a due navate, terminavano a nord con absidi di contenimento del declivio collinare retrostante ed erano chiusi sul lato sud-ovest da un muro di fondo probabilmente in marmo e privo di ambienti retrostanti. Altre due absidi piú piccole, ugualmente contro terra, erano simmetricamente disposte ai lati del tempio, come elemento di raccordo tra questo e i portici. Sul lato corto della piazza, opposto al tempio,

Fase dioclezianea (dopo il 283 d.C.)

Fase traianea (113 d.C.)

Fase cesariana (46 a.C.)

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alla quale peraltro si accedeva solo dal clivo Argentario senza «profanare» il complesso forense. Egli completò lo sbancamento, iniziato da Domiziano, della sella che univa il Campidoglio al Quirinale e ricostruí il tempio inaugurandolo, come ci tramanda un frammento dei Fasti Ostiensi, insieme alla Colonna Traiana nel 113 d.C. Nella ricostruzione traianea venne sostanzialmente conservato l’impianto cesariano del tempio, aggiungendo però, all’interno della cella, banconi in muratura tra i dadi aggettanti. È probabile che il tema decorativo dominante, costituito da amorini, fosse ispirato alla decorazione originaria voluta da Cesare, tesa indubbiamente a valorizzare il tempio, luogo dalla valenza politica e autocelebrativa, come il racconto di Svetonio sembra suggerire: «Ma ciò che suscitò contro di lui un odio profondo e

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Ricostruzione assonometrica del Foro di Cesare in età traianea inserita nel contesto urbanistico dell’epoca. In basso: i Fori Imperiali in età medievale con evidenziata l’area del Foro di Cesare.

mortale fu soprattutto questo: un giorno tutto il corpo del Senato venne a presentargli un complesso di decreti che gli conferivano i piú alti onori; egli lo ricevette davanti al tempio di Venere Genitrice, senza nemmeno alzarsi. Alcuni dicono che sia stato trattenuto da Cornelio Balbo, mentre tentava di alzarsi, altri invece che non tentò nemmeno» (Svetonio, Vita di Cesare, 78, 1-2,). L’area alle spalle del tempio, precedentemente occupata dalla propaggine collinosa, venne lastricata e raccordata mediante scale al resto della piazza. Il retro dell’edificio venne rivestito con una adeguata decorazione architettonica, mentre nel settore terminale del fianco sud-ovest Traiano inserí un portico, la cosiddetta «Basilica Argentaria», che raccordava il Foro di Cesare con la parte posteriore all’esedra occidentale del portico del Foro di Traiano, obliterando cosí il sistema di absidi di contenimento del lato di fondo del Foro di Cesare. L’incendio di Carino (283 d.C.) danneggiò gravemente gli edifici della valle forense tanto che Diocleziano dovette disporre il restauro di molti di essi, compreso il Foro di Cesare. In quest’ultimo furono sostituite le colonne dei portici con altre di varia provenienza e di minori dimensioni in granito rosso e grigio. Il porticato d’ingresso venne comple-


tamente trasformato: il colonnato esterno, vale a dire quello a contatto con il Foro di Nerva, fu inglobato in un muro in opera laterizia addossato al precedente muro a blocchi lasciando solo due aperture laterali; vennero inoltre eliminate le colonne interne e realizzata una nuova pavimentazione in opus sectile. La trasformazione di questo braccio del portico in una grande sala di tipo basilicale è forse da connettere, come ci riferiscono le fonti, con il trasferimento dell’Atrium Libertatis in questa parte del Foro di Cesare. Anche il colonnato frontale In alto: assonometria ricostruttiva del Foro di Cesare in epoca tetrarchica, quando il colonnato del portico venne rialzato utilizzando colonne di granito grigio e rosso, mentre il pronao del tempio fu tamponato e ai lati vennero costruiti due archi in muratura.

Al centro della pagina: disegno di Antonio da Sangallo il Giovane con le chiese di S. Martina e di S. Adriano e parte del portico del Foro di Cesare. Qui sopra: il paesaggio altomedievale nell’area del Foro di Cesare, quando la zona fu adibita a frutteto e orto.

del tempio venne tamponato da un poderoso muro in laterizio che lasciava visibile parte delle colonne scanalate e il timpano ed era agganciato ai portici laterali da due archi monumentali. La «Basilica Argentaria» fu modificata ampliandola verso il tempio di Venere Genitrice con l’aggiunta di nuovi pilastri. Nel VI secolo ebbe inizio la destrutturaa r c h e o 93


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zione del complesso architettonico con attività di recupero di materiali marmorei, che potevano essere reimpiegati o trasformati in calce, e con l’accumulo sul livello antico di detriti e rifiuti, che culminò nel IX secolo con l’asportazione delle lastre pavimentali per l’impianto di colture nell’area della piazza, unitamente a povere abitazioni realizzate con materiale di recupero e argilla (domus terrinae). La tendenza all’impaludamento causò il successivo l’abbandono della zona, che continuò a essere utilizzata solo a scopo agricolo. La progressiva copertura dei livelli antichi a causa dei riporti di terra effettuati per bonificare l’area e la sistematica spoliazione delle strutture avviata dal XII secolo finirono per cancellare l’aspetto e la memoria del Foro fino alla nuova urbanizzazione del XVI secolo. In occasione di tali lavori alcuni architetti del tempo disegnarono gli elementi architettonici emergenti nell’area, non sempre mettendoli in relazione con il Foro di Cesare, del quale si identificò definitivamente la posizione solo con gli scavi condotti negli anni Trenta del secolo scorso.

LE NUOVE INDAGINI La campagna di indagini archeologiche svoltasi tra il 2019 e il 2022 costituisce la prosecuzione degli interventi che, nell’arco di un secolo, hanno progressivamente restituito al pubblico porzioni sempre piú ampie di questo complesso forense tanto da renderlo il Foro maggiormente noto perché scavato in maniera piú estesa. La prima porzione compresa tra il Clivo Argentario, via dei Fori Imperiali e via Bonella venne messa in luce con le demolizioni e gli sterri eseguiti durante il Governatorato tra il 1932 il il 1936. In occasione del Grande Giubileo (1998-2000) lo scavo fu allargato a comprendere l’area a fianco della chiesa dei Ss. Luca e Martina e a mettere in luce la piazza fino al Foro di Nerva attestandosi sul lato occidentale in corrispondenza del percorso Seicentesco di via Cremona. Indagini condotte tra il 2005 e il 2008 al di sotto del piano della piazza forense hanno permesso di accrescere le nostre conoscenze sulla fase protostorica e repubblicana dell’area (vedi box alle pp. 96-99). La prima campagna di scavo presso il Foro di Cesare, svolta in collaborazione tra la Sovrintendenza Capitolina e l’Accademia di Dani94 a r c h e o


L’area di scavo del Foro di Cesare vista dal Campidoglio prima dell’avvio delle indagini. In basso: ambienti del piano terra dell’edificio riportato alla luce nel Quartiere Alessandrino. Nella pagina accanto, dall’alto: inquadramento topografico dell’area di scavo del Foro di Cesare; acquarello di Maria Barosso in cui sono rappresentate la demolizione degli edifici che si erano sovrapposti sul lato occidentale del Foro di Cesare e la scoperta degli ambienti in blocchi di tufo e peperino di epoca augustea.

marca è stata avviata nel settembre del 2021 e si è conclusa nel settembre 2022. Il settore indagato, posto in corrispondenza dell’incrocio tra via Bonella e via Cremona, oggi scomparse, consiste in un’area di forma rettangolare di circa 17,50 x 21,0 m, compresa tra il marciapiede di via dei Fori Imperiali e l’area archeologica del Foro di Cesare. La stratificazione archeologica è molto ricca e copre un ampio arco cronologico compreso tra l’epoca moderna e l’età protostorica. Lo scavo non ha raggiunto ovunque la quota di calpestio di epoca romana, ma, soprattutto in corrispondenza dei limiti dell’area di scavo, si sono conservate le strutture appartenenti alle abitazioni del cinquecentesco Quartiere Alessandrino. La presentazione dei dati di scavo (segue a p. 100) a r c h e o 95


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PRIMA DI CESARE

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li scavi condotti fra il 2019 e il 2022 hanno anche permesso di fare luce su quale fosse l’assetto dell’area indagata prima della costruzione del Foro di Cesare. Ci troviamo indubbiamente in una posizione nevralgica della Roma protostorica e arcaica, tra i colli del Campidoglio e del Palatino, alle cui pendici si svilupparono dapprima le necropoli protostoriche e poi l’agglomerato urbano arcaico e repubblicano. Gli scavi eseguiti nel 2005-2008 hanno parzialmente riportato alla luce i resti di quelle presenze. Sono state scoperte, in totale, dieci deposizioni, otto delle quali appartengono alla necropoli in uso fra l’XI e il X secolo a.C. e sono

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costituite da sei tombe a incinerazione in pozzetto e da quattro a inumazione in fossa. All’VIII secolo a.C. sono invece ascrivibili due tombe a inumazione di bambine poste ai lati di una struttura artigianale. Fondamentale per ricostruire la topografia dell’area si è rivelata anche l’individuazione di un percorso stradale risalente al Bronzo Finale e rimasto in uso fino alla costruzione del Foro, tranne che per un breve periodo, quando venne obliterato dal sepolcreto utilizzato tra il Bronzo Finale l’inizio dell’Età del Ferro. Attestato da una serie di solchi rettilinei, il percorso della strada si snodava lungo le pendici orientali del Campidoglio per


Nella pagina accanto: ricostruzione della cerimonia di deposizione di un defunto nella necropoli del X-IX sec. a.C. Qui sotto: pianta e sezione di una delle tombe a pozzetto scoperte nella necropoli protostorica.

In basso: pianta ricostruttiva degli edifici arcaici (600 a.C.-IV secolo a,C.) rinvenuti al di sotto della pavimentazione della piazza; le tipologie delle strutture rinvenute sono indicate dai diversi colori.

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Nella pagina accanto: la deposizione di un neonato in doppia olla in corso di scavo. VII-VI sec. a.C.

A sinistra e in basso: ricostruzione della pianta e degli alzati di due case del II a.C.-54 a.C. In basso, a sinistra: tre delle sei fosse pertinenti a una struttura ad andamento circolare realizzata con materiale deperibile rinvenute sotto le strutture arcaiche e sopra le deposizioni infantili.

giungere alla dorsale che univa il Quirinale con il Campidoglio, là dove oggi si trova il Monumento al Milite Ignoto. In epoca arcaica (600 a.C.-IV secolo a.C.) nell’area vengono edificati due edifici a pianta rettangolare, divisi da uno stretto vicolo (ambitus), che si affacciano su un percorso stradale che ricalca quello protostorico. Distrutte da un incendio nel 390 a.C., probabilmente in occasione del sacco gallico, queste case vennero in seguito ricostruite e rimasero in uso fino a quando 98 a r c h e o


non vennero espropriate e demolite per permettere la costruzione del Foro di Cesare. LE CASE DI EPOCA ARCAICA (VII-VI SECOLO A.C.) Lo scavo in una delle cantine dell’edificio moderno prospiciente la scomparsa via Cremona ha portato a interessanti scoperte rinvenute al di sotto delle lastre pavimentali della piazza del foro asportate in epoca medievale per trasformare l’area in orto. Sono stati individuati due muri tra loro ortogonali. L’esigua superficie messa in luce non rende possibile avere un quadro esaustivo per definire la planimetria dell’edificio. Si tratta, probabilmente, di un’abitazione del VI secolo a.C., munita di tetto con copertura di tegole rinvenute in crollo. A una quota inferiore sono state messe in luce sei buche di palo del diametro di 20 cm, ad andamento circolare, probabilmente riferibili a una capanna, di cui sono stati intercettati il piano di calpestio e tracce di tre focolari. UN CONTESTO FUNERARIO Nella parte meridionale del saggio di scavo, al di sotto dei resti sopra menzionati, sono state individuate

quattro sepolture infantili a inumazione, di cui tre in urne a doppia olla e una a fossa nella terra nuda. Tre urne sono relative a individui di età prenatale, mentre la quarta sepoltura è riferibile a un bambino di età compresa tra i due e i tre anni, che fu adagiato sul dorso sulla terra. Le deposizioni sono databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., una cronologia che sembrerebbe essere avvalorata dal rinvenimento di un vasetto per unguenti (aryballos) di produzione etrusco-corinzia databile al 610 a.C. L’usanza di seppellire all’interno degli abitati è documentata già tra la fine del IX e gli inizi dell’VIII secolo a.C. nell’area laziale e proseguirà in età orientalizzante sino al V secolo a.C. Delimitando le aree delle abitazioni con le sepolture dei membri piú piccoli delle famiglie, i clan familiari consolidavano la propria identità e i diritti di proprietà sul suolo e quindi sulla casa. Lo scavo è proseguito in profondità, rimettendo in luce stratigrafie riconducibili alle fasi di frequentazione piú antiche dell’area, databili dal IX-VIII secolo a.C., costituite da resti di focolari, buche per l’inserimento di pali lignei e fosse circolari pertinenti forse a capanne. a r c h e o 99


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avverrà quindi partendo dai contesti piú re- del secolo scorso, ne sono stati messi in luce centi per giungere ai piú antichi. 23 vani, due dei quali pertinenti a cortili. Lo scavo ha permesso di constatare la perfetta corrispondenza tra la documentazione relatiL’ETÀ MODERNA va agli espropri del 1931, conservata presso (XVIII-XX SECOLO) L’edificio moderno indagato si trovava all’in- l’Archivio Storico Capitolino, e le strutture crocio tra via Bonella e via Cremona ed era rinvenute. È interessante notare come negli costituito da uno stabile di quattro piani. ultimi anni di vita del fabbricato fossero stati Dopo l’asportazione dello strato di macerie effettuati vari abusi per quanto concerne i generate dalle demolizioni degli anni Trenta servizi igienici. Per «modernizzare» l’immo100 a r c h e o


A destra: il palazzo che sorgeva all’incrocio di via Bonella con via Cremona visto dal Clivo Argentario prima del suo abbattimento nel 1932. In basso: pianta degli ambienti del piano terra dell’edificio all’incrocio tra via Cremona e via Bonella messi in luce durante lo scavo del 2021. Nella pagina accanto: lo scavo, condotto nell’agosto del 2022, che ha messo in luce i resti del portico orientale con alcune colonne e le strutture del palazzo ottocentesco sui margini dell’area.

bile, venne infatti inserito un water closet di fabbricazione inglese, che risultava sicuramente piú confortevole e funzionale rispetto alle latrine ottocentesche. Sotto i piani pavimentali di questi ambienti sono state intercettate le infrastrutture, quali condotti idrici, cavi elettrici e impianti fognari; tra queste si segnalano alcune fosse settiche il cui riempimento ha restituito un cospicuo nucleo di materiali a uso domestico relativo agli ultimi abitanti del Quartiere Alessandrino. Interessanti sono i materiali rinvenuti in un pozzo nero, perché offrono uno spaccato di vita quotidiana molto vivo con oggetti di uso comune quali manufatti ceramici invetriati e maiolicati, vetri e metalli.

L’ETÀ RINASCIMENTALE Dalla documentazione d’archivio e da alcune testimonianze iconografiche, come per esempio la Veduta di Roma (1577) di Étienne Dupérac, si deduce che non solo il Foro di Cesare (soprattutto nel settore sud), ma an-

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che il vicino Foro di Augusto erano occupati da orti, spesso impantanati e malsani, che avevano dato origine al toponimo Pantani con il quale si indicava la zona. Per tale motivo se ne decisero il risanamento e la bonifica realizzati dal Comune tra il 1582 e 1584. I lavori consistettero nel gettito di una colmata di terra per livellare gli orti e «asciugare» i pantani (1582-1583), nel risanamento della Cloaca Massima (1582) e nel miglioramento del sistema fognario. Dal 1584 Lelio Della Valle, proprietario dell’area corrispondente al Foro di Cesare, poteva quindi avviare la lottizzazione. Furono tracciate due nuove vie ortogonali, che funzionarono da assi stradali per il nuovo

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quartiere, via Bonella e via Cremona. Quest’ultima mostra peraltro una sorprendente coincidenza con il tracciato della strada d’età protostorica e repubblicana. Nel 1590, con la costruzione di ben 35 case, il processo di urbanizzazione del vecchio Orto della Valle al Foro di Cesare poteva dirsi in sostanza completato. Principale promotore della nuova politica edilizia nell’area fu il cardinale Carlo Michele Bonelli, il cui soprannome – «l’Alessandrino» – diede nome al nuovo quartiere. Riferibile alle prime fasi di impianto, è una vasca intercettata sotto un ambiente che, non essendo stato intaccato da lavori edilizi successivi, ha permesso lo scavo di sei distinti

In basso: bagno con tazza in ceramica di produzione inglese nel palazzo all’incrocio fra via Bonella e via Cremona. Nella pagina accanto, in alto: latrina ottocentesca con seduta in lastra di marmo. Nella pagina accanto, in basso: materiali rinvenuti all’interno di un pozzo nero. A. Bottiglia per medicine della Farmacia Maddalena di via Rosetta. B. Piatto in ceramica di imitazione cinese e altri oggetti di uso quotidiano.


strati di riempimento, riferibili a un butto di tipo medico, che ha restituito una notevole messe di materiali, tra cui numerosi urinali. La loro presenza è stata associata all’esistenza nell’area di un ospedale, ipotizzando una situazione simile a quella riscontrata durante lo scavo per la Metropolitana di Roma in piazza Madonna di Loreto, dove le fonti ci dicono vi fosse l’Ospedale dei Fornari. Nel caso del Foro di Cesare la correlazione tra il grande numero di urinali rinvenuti e la presenza di un ospedale non è al momento provata dalla documentazione d’archivio, ma il prosieguo delle indagini potrà fornire utili elementi per chiarire il contesto d’uso di questi oggetti.

IL MILLENNIO MEDIEVALE Le piú interessanti testimonianze d’epoca medievale venute alla luce grazie alle recenti indagini archeologiche consistono in una casa del X secolo, individuata all’interno della cantine del palazzo ottocentesco. Essa faceva parte di un gruppo di abitazioni della stessa tipologia di quelle individuate negli scavi del 1998-2000 utilizzate dal ceto povero (domus terrinae). Alla struttura appartengono alcuni frammenti di fusto liscio di colonna e una base pertinenti al colonnato del portico e riutilizzati in corrispondenza degli angoli, vale a dire nei punti piú critici della struttura. Le pareti erano realizzate nella parte bassa con frammenti lapidei di reimpiego, mentre per l’elevato, andato perduto, erano stati impiegati materiali deperibili, cosí come per il tetto, che era di paglia. All’interno del vano sono stati individuati due piani pavimentali in terra battuta e i resti di un focolare che attestano la lunga frequentazione della casa. All’età altomedievale sono riferibili anche le fosse di coltivazione scavate a seguito dell’asportazione delle lastre pavimentali del Foro di Cesare e una serie di fornaci funzionali al recupero del metallo dalle strutture romane che mano a mano venivano demolite. Le indagini condotte lungo la fascia orientale dello scavo hanno permesso di mettere in luce, al di sotto degli strati di livellamento del pieno Medioevo, una sistemazione costituita da tre colonne in granito grigio disposte con andamento parallelo alla crepidine del portico orientale della piazza. Le colonne coprono strati riferibili ad attività di livellamento dell’area di epoca medievale che a r c h e o 103


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obliterano definitivamente le strutture in cementizio della crepidine del portico orientale della piazza. I frammenti di ceramica a vetrina pesante e sparsa coprono un arco cronologico compreso tra l’XI e il XIII secolo, mentre tra il materiale numismatico si distinguono emissioni di età tardo romana e pentanummi del V-VI secolo d.C. In basso: topografia del Quartiere Alessandrino in corrispondenza del Foro di Cesare. I resti di epoca romana rinvenuti nel 1932 (in rosso) sono collocati sulla cartografia moderna (in nero) e ottocentesca (in verde).

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A sinistra: l’area dei Fori Imperiali nella pianta di Roma di Étienne Dupérac. 1577. Qui accanto: foto d’epoca di parte dell’isolato compreso tra via Bonella e via Cremona con particolare del prospetto del palazzo di cui sono stati rinvenuti gli ambienti del piano terra. A sinistra: foto d’epoca del Quartiere Alessandrino in cui è evidenziato l’edificio (foglio 9 particella 1635) in corrispondenza del quale è stato eseguito lo scavo.


In alto: ricostruzione del paesaggio del Foro di Cesare in epoca altomedievale. Sullo sfondo, la Curia, trasformata nella chiesa di S. Adriano, e, in primo piano, l’insediamento costituito da case realizzate con materiale di recupero e deperibile (domus terrinae). A destra: selezione di materiali rinvenuti nella discarica di tipo «medico», tra cui sono compresi vari urinali in uso nel Cinquecento.

L’EPOCA ROMANA Le stratigrafie di età romana risultano per la maggior parte tagliate da fosse di espoliazione o intaccate dalle strutture degli edifici del Quartiere Alessandrino. Tuttavia, a partire dalla quota di +14,96 m sono stati messi in luce una parte del portico orientale del Foro di Cesare e del sistema per lo smaltimento delle acque della piazza. Il portico è stato completamente spogliato della sua struttura in marmo e rimane solo il nucleo della fondazione in conglomerato cementizio. È stato rimesso in luce parte dello stilobate, sul quale si sono conservate le impronte delle basi del colonnato esterno. Nella parte meridionale dello scavo, dove è stata rimessa in luce la porzione piú consistente del porticato, si è rinvenuto anche un fusto di colonna in granito grigio in posizione di crollo. Il rinvenimento di questo tratto del portico ha confermato la larghezza della piazza cosí come era stata definita in occasione degli scavi del 2000. Sul davanti e con andamento parallelo al portico, è stata rinvenuta la fogna coperta con una volta in conglomerato cementizio gettato su un palancato. Come sul lato opposto, la fogna correva per tutta la lunghezza della a r c h e o 105


SPECIALE • FORO DI CESARE

In alto: una casa altomedievale che reimpiega ai due angoli elementi lapidei (fusti di colonne e base) come rinforzo. In basso: planimetria ricostruttiva del Foro di Cesare dopo gli interventi di epoca traianea.

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piazza e serviva a raccogliere l’acqua piovana della piazza e del portico. Le dimensioni e il paramento in opera reticolata, realizzato con cubilia di tufo rosso, vale a dire con caratteristiche uguali a quelle della cloaca messa in luce sul lato opposto, provano che questo ramo fognario appartiene all’epoca cesariana. Ortogonale a questa conduttura sono stati individuati altri due rami, di cui uno oblitera quello parallelo al portico. Anche queste fognature sono in opera reticolata, ma con cubilia di tufo giallo della via Tiberina. Nonostante le apparecchiature murarie siano accomunate dalle medesime tecniche costruttive, è possibile differenziarne la cronologia in base ai rapporti stratigrafici, ai materiali utilizzati e ai particolari dell’orditura dell’opera reticolata. I due rami con andamento divergente tra loro, solo parzialmente indagati, tagliano la fondazione del portico e si dirigono verso il Foro di Augusto. Si tratta presumibilmente di opere idrauliche realizzate successivamente alla costruzione cesariana che modificano la rete di smaltimento delle acque in funzione anche del vicino Foro di Augusto. La prosecuzione degli scavi nel 2023 e 2024 permetterà non solo di allargare la superficie dell’area del Foro di Cesare visitabile, ma di indagare le stratigrafie al di sotto del piano


In alto: particolare del paramento delle spallette della fogna in opera reticolata e del sistema di copertura realizzato in conglomerato cementizio gettato su palanche.

Qui sopra: tratto della fognatura d’età augustea orientata est-ovest che ha tagliato la fondazione del portico orientale del Foro di Cesare. A sinistra: i resti della fondazione del portico occidentale con davanti la fogna cesariana in cui è stato operato uno scasso sulla copertura durante le operazioni di spoliazione in epoca altomedievale.

di calpestio del Foro permettendo cosí di fornire un quadro piú preciso delle fasi piú antiche, dall’insediamento arcaico fino agli edifici repubblicani che Cesare demolí per costruire il complesso architettonico che porta il suo nome e che inaugurò una stagione di insuperata monumentalità. a r c h e o 107


TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Luciano Frazzoni

L’ARGILLA DI VENERE LA CERAMICA EBBE UN IMPATTO FORMIDABILE SUL MODUS VIVENDI DELLE COMUNITÀ UMANE. E I PRIMI A COGLIERE LE STRAORDINARIE POTENZIALITÀ DELLA MATERIA PRIMA FURONO, CON OGNI PROBABILITÀ, I GRUPPI DI CACCIATORI E RACCOGLITORI DEL PALEOLITICO

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a scoperta della ceramica è stata a lungo collocata in età neolitica e attribuita alle comunità stabili di coltivatori e allevatori. I contenitori plasmati con l’argilla, infatti, rispondevano alle nuove esigenze di immagazzinamento dei prodotti dell’agricoltura e potevano permettere la cottura dei cereali mediante bollitura. Secondo queste ricostruzioni, i primi manufatti in ceramica risalivano dunque a un periodo compreso tra la seconda metà dell’VIII e la prima metà del VII millennio a.C. In realtà, scoperte compiute in piú di un sito hanno permesso di attribuire le prime testimonianze dell’utilizzo della ceramica a gruppi di cacciatori e raccoglitori del Paleolitico. A Dolní Vestonice, in Moravia (attuale Repubblica Ceca), gli scavi

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condotti a partire dal 1924 da Karel Absolon hanno portato al rinvenimento di capanne di cacciatori di mammut e rinoceronti lanosi, in un contesto databile tra i 30 000 e i 25 000 anni fa.

ANIMALI E FIGURE FEMMINILI Oltre a letti di ossa di animali e strumenti in pietra scheggiata, sono stati trovati migliaia di frammenti piatti e palline in terracotta, centinaia di statuine, anch’esse in terracotta – raffiguranti animali come l’orso, il leone, il mammut, il rinoceronte, il cavallo, la renna, la volpe, il ghiottone –, nonché diverse figurine femminili stilizzate, tra cui una «Venere», dal volto non caratterizzato, ma con i glutei e i seni di grandi proporzioni, a

Figurine zoomorfe in ceramica, da Dolní Vestonice. Brno, Museo della Moravia. Dall’alto: un orso, una testa leonina e un ghiottone. sottolineare, come in altre Veneri coeve, l’aspetto sessuale e riproduttivo del corpo femminile. Nel sito sono state in seguito portate alla luce, oltre a varie sepolture, due fornaci per la cottura di oggetti in argilla: una di esse era collocata al centro di una capanna e tutt’intorno giacevano centinaia di frammenti di figurine e altri manufatti in terracotta. La capanna venne perciò identificata come l’officina di un artigiano (ma il ruolo poteva essere anche femminile), che forse aveva anche compiti sciamanici all’interno della comunità. Altri oggetti in terracotta furono rinvenuti nel vicino sito di Pavlov, portando complessivamente a 10 000 circa i frammenti ceramici prodotti in questa area della Moravia meridionale. Le scoperte di Dolní Vestonice, attestando la produzione di ceramica già nel Paleolitico


La Venere in terracotta di Dolní Vestonice. Brno, Museo della Moravia. A sinistra: ricostruzione, a partire dai frammenti, di un vaso rinvenuto nella grotta di Yuchanyan (Cina). Hunan, Museo Provinciale.

Superiore, provocarono dunque una vera e propria rivoluzione nella storia dell’archeologia, poiché retrodatavano di oltre 20 000 anni l’introduzione di una tecnologia da sempre ritenuta originaria del Neolitico e sviluppata nel Vicino Oriente. La stessa Venere, rinvenuta il 13 luglio del 1925, fu descritta da Karel Absolon, che non voleva urtare le radicate opinioni degli specialisti di preistoria, come un oggetto realizzato impastando argilla con grasso e ossa di mammut poi essiccato al sole.

LA PROVA REGINA Solo alla metà degli anni Ottanta, in seguito alle analisi eseguite da studiosi dello Smithsonian Institution guidati da Pamela Vandiver, si è potuto accertare senza ombra di dubbio che la Venere, come le altre figurine rinvenute nel sito di Dolní Vestonice, sono state realizzate in ceramica, cotta a una temperatura compresa tra i 500 e gli 800 gradi centigradi, mentre totalmente assente è la presenza di grasso e schegge di avorio di elefante.

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Vasi in ceramica, dal sito di Hinamiyama (Giappone). 11 000-7000 a.C. Tokyo, Tokyo National Museum. Ulteriori rinvenimenti confermano che l’invenzione della ceramica non risale al Neolitico, ma a un’epoca ben piú antica. Nella grotta greca di Klisura sono stati rinvenuti bacini in terracotta fissi a terra, appartenenti al Paleolitico Superiore (32-26 000 a.C. circa). Ma se la ceramica ha origini cosí remote, i piú antichi vasi di cui si abbia a oggi notizia provengono dalle grotte cinesi di Xiarendong (provincia dello Jangxi) e di Yuchanyan (provincia dello Hunan), ai confini meridionali della Cina, in contesti datati tra il 20 000 e il 15 500 a.C. e abitati da cacciatori e raccoglitori di riso selvatico. I recipienti venivano probabilmente utilizzati per la raccolta del riso e la preparazione di bevande fermentate a base dello stesso riso e altri prodotti vegetali. Una comunità di pescatori vissuta tra i 16 000 e i 15 000 anni fa nel sito di Hinamiyama (Giappone) si serviva invece, per la cottura dei cibi, di vasi decorati con motivi geometrici che ricordano le fibre intrecciate dei cesti di vimini.

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La tecnologia ceramica non si deve dunque a comunità sedentarie dedite all’agricoltura e alle necessità di conservazione delle derrate alimentari, ma a gruppi di cacciatori, raccoglitori e pescatori che sfruttavano le risorse animali e vegetali di un determinato territorio. È tuttavia indubbio che il ciclo di produzione della ceramica richiedeva alle comunità nomadi del Paleolitico una forma di stanzialità, seppure stagionale.

UN’INVENZIONE CONDIVISA Appare inoltre ragionevole ipotizzare che l’invenzione della ceramica non si sia sviluppata in un unico centro, ma sia frutto di un processo inventivo e tecnologico avvenuto in luoghi diversi nell’arco di circa 30 000 anni, e che si sia diffusa lungo l’Eurasia, partendo dalle coste cinesi attraverso le steppe e le pianure, fino alle pianure ungheresi e ai confini dell’Austria, a opera di gruppi nomadi di cacciatori del

tardo Paleolitico. Se però le prime testimonianze ceramiche risalgono al Paleolitico, è con il Neolitico che tale produzione conosce uno sviluppo e una evoluzione tecnologica notevole, anche in considerazione del fatto che il sorgere di villaggi stabili e delle prime città (come quella di Çatal Höyük in Cappadocia,Turchia) provocò una maggiore richiesta di oggetti in ceramica, utilizzati per la conservazione, il trasporto e la cottura o la trasformazione delle derrate alimentari. In questo periodo anche le forme e l’apparato decorativo delle ceramiche divengono piú complessi, assumendo spesso presso le comunità un significato magico, religioso e simbolico.Tali elementi, pertanto, costituiscono per l’archeologo uno strumento fondamentale per identificare le diverse culture antiche e per stabilirne la periodizzazione, facendo della ceramica un insostituibile «fossile guida» per la ricostruzione della storia antica.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUELLE ARCATE IMPERIALI GIÀ SIMBOLO DELL’ESPANSIONE DI ROMA, LA FORTUNA DEL CELEBRE ANFITEATRO SOPRAVVIVE ANCHE GRAZIE A NUMEROSE EMISSIONI MODERNE

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à dove giungeva la conquista romana, le città sottomesse o di nuova costruzione dovevano erigere edifici pubblici che rappresentavano il «marchio di fabbrica» dell’impero. In ognuna di esse quindi non potevano mancare il Campidoglio, templi dedicati al culto imperiale, terme, teatri e, naturalmente, l’anfiteatro, vera immagine di Roma, delle basse passioni del popolo e della politica

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Il Colosseo sui 5 centesimi di euro battuti dall’Italia. In basso: il Colosseo a confronto con il telescopio E-ELT. demagogica del panem et circenses, perfettamente descritta da Giovenale: «[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera: pane

e giochi circensi» (Satira X, 81). Nel mondo romanizzato si possono contare piú di 230 anfiteatri eretti in Europa, in Africa settentrionale e in


Medio Oriente, spesso conservatisi nel contesto urbano mantenendo intatta la conformazione originaria (si pensi alle arene di Verona o di Pola, fra le tante) oppure divenuti nel corso dei secoli cave di materiali, fondamenta di palazzi oppure trasformati in fabbricati con funzioni completamente mutate. Il Colosseo rappresenta il modello in pietra d’età imperiale ripreso da tutte le altre costruzioni simili a venire; le sue dimensioni sono le piú grandi, seguite dalle arene di Capua, Milano, Verona e Pozzuoli. A questi segue immediatamente, per grandezza, l’anfiteatro di Thysdrus, l’attuale El Jem in Tunisia. Come abbiamo piú volte ricordato, poche sono le monete e le medaglie antiche che riproducono il Colosseo, comunque sempre ricorrente in innumerevoli raffigurazioni di ogni età e divenuto il simbolo di Roma per eccellenza. All’entrata in vigore dell’euro, ogni nazione europea ha scelto per le proprie emissioni immagini che al meglio la esprimessero. Ogni esemplare ha il dritto con il segno del valore in comune con gli altri Paesi, mentre sul rovescio vi sono tipi che si riferiscono all’identità nazionale, illustrati da personalità, opere d’arte e monumenti famosi che la contraddistinguono. La scelta degli edifici italiani destinati all’euro si svolse con un sondaggio popolare e furono «promossi» Castel del Monte nei pressi di Andria in Puglia (1 centesimo), la Mole Antonelliana a Torino (2 centesimi) e il Colosseo di Roma. Quest’ultimo, riprodotto sul rovescio dei 5 centesimi, è attorniato dalle dodici stelle che rappresentano i Paesi dell’Unione Europea; in alto a destra le lettere R e I sovrapposte si sciolgono in Repubblica Italiana, mentre la R a sinistra è il marchio di zecca. Sotto

L’anfiteatro di Thysdrus (l’odierna El Jem) sul rovescio della banconota da 20 denari emessa dalla Tunisia nel 2017. il monumento la sigla ELF si riferisce al nome del medaglista Ettore Lorenzo Frapiccini.

PATRIMONIO DELL’UMANITÀ Anche sulle monete tunisine compare un anfiteatro. Nella già citata Thysdrus, importante crocevia lungo itinerari commerciali di età imperiale, vennero eretti ben due anfiteatri: il primo, realizzato nel I secolo d.C., piccolo e scavato direttamente nella pietra locale, e il secondo costruito in forma monumentale intorno al 238 d.C. Realizzato in blocchi di pietra e privo di fondamenta, per misure (148 x 122 m) e capienza (stimata in 35 000 spettatori) è uno dei piú grandi anfiteatri del mondo romano. La facciata è a tre livelli di arcate di stile corinzio e ha conservato all’interno le murature di supporto per le gradinate e il podio, mentre l’arena e i passaggi sotterranei sono rimasti pressoché intatti. L’anfiteatro attesta la prosperità raggiunta da Thysdrus in età imperiale e per la sua rilevanza l’UNESCO l’ha inserito dal 1979 fra i siti Patrimonio dell’Umanità. La celebrità del monumento era già stata sottolineata da una moneta commemorativa tunisina del valore di 1 dinar emessa nel 1969

dall’allora presidente Habib Bourghiba per celebrare i 10 anni della Repubblica di Tunisia con una serie in argento sulla storia del Paese. Al dritto compare il profilo del presidente, mentre al rovescio si staglia l’anfiteatro di Thysdrus visto a volo d’uccello, con legenda Thysdrus El Jem, il valore e i simboli di zecca. Una particolarità di questa serie è quella di essere stata coniata dalla zecca statunitense Franklin (Wawa, Pennsylvania) mentre l’autore dell’immagine è il pittore e scultore italiano Vincenzo Gasperetti. Nel 2017 l’anfiteatro tunisino ricompare sul rovescio di una banconota da 20 denari, reso con una veduta dall’alto, un particolare delle arcate e un bel capitello corinzio. Per concludere, il Colosseo è da secoli divenuto un monumento iconico ormai radicato nell’immaginario collettivo mondiale, raggiungendo per la sua fama vette «astronomiche»: infatti, solo per fare un esempio, l’anfiteatro di Roma è preso come metro di un ideale paragone per ben rendere la grandezza del telescopio ELT (European Large Telescope) dell’ESO (European Southern Obervatory), in costruzione sul Cerro Armazones, nel deserto cileno di Atacama, a piú di 3000 m di altezza.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Patrick E. McGovern

DIECIMILA ANNI DI BIRRA Dal Neolitico ai moderni birrifici artigianali Espress Edizioni, Torino, 325 pp., ill. b/n 19,50 euro ISBN 979-12-80134-37-0 www.espress.it

A sei anni dalla prima edizione originale, esce in traduzione italiana quella che, da parte di Patrick McGovern, suona quasi come una dichiarazione d’amore nei confronti delle bevande fermentate piú che come una loro storia. L’archeologo biomolecolare statunitense, in forza al Museo dell’Università della Pennsylvania di Filadelfia, prende per mano il lettore, con una prosa briosa e accattivante, conducendolo in uno straordinario viaggio alla scoperta delle antenate delle nostre birre, ma non solo. Sono infatti continui i rimandi a situazioni moderne, i 114 a r c h e o

confronti, le suggestioni – come quelle sulla ricerca dell’ebbrezza da parte di alcune specie animali... – e il racconto delle personali esperienze di produttore. Non meno vasto è l’orizzonte geografico considerato, perché McGovern spazia dall’Africa alla Cina, dalla Grecia al Sudamerica, a dimostrazione di quanto universale sia stata la scoperta che determinati frutti o piante potevano fermentare e cosí generare bevande che dovettero, fin da subito, godere di grande successo. Né mancano le istruzioni su come replicare le birre «archeologiche» e ricette dei piatti che con esse possono essere abbinati. Un panorama davvero a tutto tondo, insomma, ricco di notizie e non poche sorprese. Giuliano Volpe

PASSEGGIATE ARCHEOLOGICHE Nuove proposte per conoscere siti e storie della Puglia Edipuglia, Bari, 300 pp., ill. col. 16,00 euro ISBN 979-12-5995-012-3 www.edipuglia.it

Giuliano Volpe «torna sul luogo del delitto» e riprende la formula del precedente Passeggiate archeologiche (2021) per suggerire nuove mete alla scoperta di una delle regioni archeologicamente piú ricche della Penisola. Una

Provincia Autonoma di Trento, Trento, 70 pp., ill. col., + 1 DVD ISBN 978-88-7702-525-8 www.cultura.trentino.it

ricchezza testimoniata dalla varietà dei siti scelti per il volume, grazie ai quali viene coperto un orizzonte cronologico vastissimo, specchio di una frequentazione intensa e capillare, fin dalla preistoria. Come scrive l’autore stesso, il libro non vuole porsi come una guida per specialisti, ma come una raccolta di suggerimenti di viaggio o di letture propedeutiche alla visita dei luoghi descritti e il taglio adottato appare coerente con tale intendimento. La rassegna si apre con un giacimento preistorico di primaria importanza, Grotta Paglicci, per chiudersi fra le strade di Taranto. Nel mezzo, sfilano località note e meno note, fra cui Monte Sant’Angelo, Bitonto, Otranto, Manduria... a comporre un panorama che merita senz’altro d’essere scoperto (o riscoperto). Franco Nicolis (a cura di)

LA MEMORIA NEL GHIACCIO Archeologia della Grande Guerra a Punta Linke

L’archeologia della Grande Guerra si è arricchita di un nuovo e importante contributo grazie al progetto di cui si dà conto nel volume. L’intervento ha interessato la stazione di transito di una teleferica installata a 3629 m di quota, a Punta Linke. Dopo il conflitto, l’impianto era stato abbandonato e gli archeologi, oltre a condurre uno scavo vero e proprio, hanno posto le basi per il recupero del salvabile che è ora divenuto fruibile, nella stagione estiva. Il volume è in distribuzione gratuita e può esserne richiesta copia a: Soprintendenza per i beni culturali-Ufficio beni archeologici, Trento; tel. 0461 492161; e-mail: uff.beniarcheologici@ provincia.tn.it (a cura di Stefano Mammini)




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