Archeo n. 461, Luglio 2023

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EGADI

ETÀ REPUBBLICANA

VITA DULCIS

D.H. LAWRENCE

RAMESSE II

SPECIALE BRESCIA

Mens. Anno XXXIX n. 461 luglio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

L’ISTANTE E L’ETERNITÀ

RAMESSE II

FARAONE PER L’ETERNITÀ

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

IL SOGNO DELLE EGADI

MOSTRE ROMA • GENTE DELLA REPUBBLICA •C APOLAVORI ALLE TERME

DI DIOCLEZIANO

• VITA DULCIS NELL’IMPERO

LETTERATURA

LAWRENCE D’ETRURIA

SPECIALE

BRESCIA CAPUT MUNDI

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 11 LUGLIO 2023

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ARCHEO 461 LUGLIO

€ 6,50



EDITORIALE

GLI ETRUSCHI? MA NON SONO MAI ESISTITI… Cosa lega D.H. Lawrence, scrittore inglese prolifico, di fama internazionale (basti ricordare L’amante di Lady Chatterley, o Il serpente piumato) e grande viaggiatore (compie il giro del mondo, viaggia in India, Australia, nelle Americhe) vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, a Luciano Bianciardi, amaro cantore irridente dell’Italia del boom economico, che un viaggio lo aveva compiuto anche lui, importante ma circoscritto, dalla natia Grosseto alla nascente metropoli europea che era la Milano degli anni Cinquanta/Sessanta? Un comune denominatore tra i due esiste, in verità, e sono nientemeno che gli Etruschi. Tra i capolavori di Lawrence, infatti, spicca il suo straordinario reportage di viaggio, appena ripubblicato dall’Editore Neri Pozza: Etruscan Places nell’originale inglese del 1932, variamente tradotto in italiano come Itinerari etruschi, Paesi etruschi e, piú correttamente, Luoghi etruschi (vedi in questo numero alle pp. 58-65). Si tratta di una guida letteraria scaturita da un viaggio in Etruria (della durata di appena una settimana) che l’autore compie nell’aprile del 1927. In Italia il libro non suscita particolari entusiasmi, anzi: scrive Lawrence che l’opera di quasi totale distruzione messa in atto da Roma nei confronti del popolo centro-italico «con i metodi di solito usati con i loro vicini» non era altro che «l’inevitabile risultato dell’espansione con la E maiuscola che è la sola raison d’être di un popolo come i Romani»; e a proposito della prima tappa del suo viaggio, Cerveteri, annota che, probabilmente, «l’antica Caere (…) era una gaia e brillante città etrusca al tempo in cui Roma costruiva le sue prime sparse capanne». Siamo in pieno ventennio, e come osa, uno straniero, parlare cosí di Roma, dell’Etruria e degli Etruschi! Ma poi, cinquant’anni dopo, nel 1985, l’editore La Nuova Immagine ripubblica il libro con una prefazione del padre dell’etruscologia, Massimo Pallottino, e tutto cambia… Cosa ci racconta degli Etruschi, invece, il nostro Luciano Bianciardi, di cui l’anno scorso si è celebrato il centenario della nascita, occasione in cui è stato, fortunatamente, ripubblicato e riscoperto? L’autore de La vita agra (1962) – suo romanzo di maggior successo – è di Grosseto, terra di Etruschi vecchi e nuovi. E ha sicuramente interiorizzato la questione etrusca per eccellenza, quella affrontata da Massimo Pallottino, per il quale è fuorviante parlare di «origini» degli Etruschi (come di un qualsiasi altro popolo), laddove si dovrebbe, invece, parlare di «formazione»: gli Etruschi si formano, non provengono da... Ecco allora come Bianciardi, in apertura del suo libro Il lavoro culturale (1957), declina e risolve da par suo l’annosa questione: «Il problema delle origini ha sempre sedotto e affaticato la mente dei saggi, sapienti e intellettuali: origini dell’uomo, delle specie, della società, origini del male e della disuguaglianza…dire “originale” significa riconoscere un merito. Insomma pare che alla gente importi piú del passato, del remoto passato, incapace di far male ad alcuno, che dell’avvenire, del prossimo avvenire, sempre, come ben sappiamo, minaccioso e incombente». E gli Etruschi? «Ma gli Etruschi non sono mai esistiti. Voi vi chiedete da dove sono venuti, se dal continente, o dall’Asia minore, o dall’America; avanzate anche l’ipotesi che siano sempre stati qui. Ebbene, avete tutti ragione e tutti torto, cioè vi ponete un problema che non ha senso. Avrebbe senso chiedersi da dove sono venuti i piemontesi, o i toscani, o i milanesi? Da dove vengono i milanesi? E chi lo sa? Molti da fuori: qualcuno è venuto su perché a casa sua non trovava lavoro, qualche altro venne a farci il militare e poi ha preso moglie e non si mosse piú…». Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Gli Etruschi? Ma non sono mai esistiti...

3

di Andreas M. Steiner

Attualità

INCONTRI Tutti i segreti della Mensa Isiaca 20 INCONTRI Una Giornata per l’Archeologia Italiana all’Estero 22 PAROLA D’ARCHEOLOGO Egadi, il sogno continua 26

NOTIZIARIO

6

SCOPERTE La spada nel torrione

6

di Flavia Marimpietri

di Francesco Petrucci e Gabriella Serio

ARCHEOFILATELIA Viaggio in Etruria

ALL’OMBRA DEL VULCANO Tutto sembrò rovesciarsi...

8

di Alessandra Randazzo

SCAVI Storie di antiche alluvioni

MOSTRE 10

di Giampiero Galasso

FRONTE DEL PORTO Colori (e vita) di un’osteria

34

di Luciano Calenda

Vacanze romane

40

a cura di Andreas M. Steiner e Stefano Mammini

ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/9 Un amore a prima vista

58

di Giuseppe M. Della Fina

58 MOSTRE

Un faraone per l’eternità

66

di Daniela Fuganti

12

di Claudia Tempesta

MOSTRE Archeologia e sostenibilità

14

di Mara Sternini

66 € 6,50

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 11 LUGLIO 2023

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ARCHEO 461 LUGLIO

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di Maria Rosaria Luberto

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A TUTTO CAMPO L’Etruria d’un gentiluomo toscano 16

In copertina particolare del sarcofago in legno di cedro del faraone Ramesse II. Fine della XVIII dinastia.

Presidente

amministrazione@timelinepublishing.it

Mens. Anno XXXIX n. 461 luglio 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE BRESCIA

Amministrazione

RAMESSE II

Impaginazione Davide Tesei

D.H. LAWRENCE

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

VITA DULCIS

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

L’ISTANTE E L’ETERNITÀ

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

ETÀ REPUBBLICANA

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Federico Curti

EGADI

Anno XXXIX, n. 461 - luglio 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

RAMESSE II

FARAONE PER L’ETERNITÀ

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

IL SOGNO DELLE EGADI

MOSTRE ROMA • GENTE DELLA REPUBBLICA • CAPOLAVORI ALLE TERME

DI DIOCLEZIANO

• VITA DULCIS NELL’IMPERO

arc461_Cop.indd 1

LETTERATURA

LAWRENCE D’ETRURIA

SPECIALE

BRESCIA CAPUT MUNDI 29/06/23 11:13

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Francesca Barchiesi è archeologa. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa. Luciano Frazzoni è archeologo. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è giornalista. Maria Rosaria Luberto è ricercatrice in archeologia e storia dell’arte greca e romana all’Università di Siena. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Francesca Morandini è conservatore delle collezioni e delle aree archeologiche e referente Sito UNESCO della Fondazione Brescia Musei. Francesco Petrucci è direttore del Museo di Palazzo Chigi di Ariccia (Roma). Alessandra Randazzo è giornalista. Gabriella Serio è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti. Claudia Tempesta è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica.


Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

All’inizio era il fiume...

106

di Luciano Frazzoni

106 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Una corrida per il Bavaro

110

di Francesca Ceci

80 SPECIALE

110 LIBRI

Brixia caput mundi 80 112

a cura di Francesca Morandini e Cristina Ferrari

Illustrazioni e immagini: Cortesia Agence Claudine Colin Communication: Sandro Vannini/Laboratoriorosso: copertina e pp. 70-71, 74, 76 (basso), 77 (alto) Yvan Lebert: pp. 66/67, 68/69, 74/75, 76 (alto), 77 (basso), 78; Sandro Vannini: pp. 69, 72-73 – Cortesia Museo di Palazzo Chigi, Ariccia (Roma)-Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti: pp. 6-7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia Soprintendenza ABAP del Friuli-Venezia Giulia: p. 10 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Cortesia Ufficio Stampa Musei Civici Bologna: pp. 14-15 – Cortesia Alessandro Tramagli: p. 16 (alto) – Cortesia Museo Archeologico Nazionale di Firenze: p. 16 (basso) – Elaborazione di Alessandro Chiarusi per Stampa in Stampa, Firenze: p. 18 – Cortesia Ufficio stampa della Fondazione Museo delle Antichità Egizie: pp. 20-21 – Stefano Mammini: pp. 26 (basso), 32, 53 (basso) – Cortesia Stefano Vinciguerra: pp. 27 (alto), 29 – Cortesia Carlo Curaci: pp. 27 (basso), 28 (alto), 30-31 – Doc. red.: pp. 28 (centro), 48 (alto), 58, 60-61, 62, 64-65, 108-109, 110 – Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 40-45 – Cortesia Ufficio Stampa Electa: pp. 46 (alto), 47, 48 (basso), 49; Mario Chiampi-Guicciardini e Magni: p. 46 (basso); P.R. Santo: p. 50 – Cortesia Ufficio Stampa Azienda Speciale Palaexpo: Daniele Molajoli: pp. 51, 52, 53 (alto), 54 – Shutterstock: pp. 59, 63 – Cortesia Fondazione Brescia Musei, Archivio Fotografico: pp. 80-83, 84, 86-89, 95 (basso), 96/97, 100-101; Andrea Chemollo: pp. 84/85, 91; Fotostudio Rapuzzi: pp. 94/95, 96 (alto e basso), 97; NONE Collective: pp. 98-99 – Cortesia Museo Nazionale Romano-Palazzo Massimo, Roma, su concessione del Ministero della Cultura: Lorenzo De Masi: pp. 90, 92-93 – Cortesia Ufficio Stampa Fondazione Brescia Musei: pp. 90-93, 102-105 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 106 – Staatliche Museen zu Berlin, Antikensammlung: p. 107 – Staatliche Museen zu Berlin, Münzkabinett: Lutz-Jürgen Lübke: p. 111. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2022 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiziario SCOPERTE Lazio

LA SPADA NEL TORRIONE

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no dei monumenti piú caratteristici dell’Appia Antica nel territorio di Ariccia (Roma) era il cosiddetto «Torrione Chigi», ubicato nella vasta tenuta di Vallericcia. Immortalato in vedute di Carlo Labruzzi, Henry Voogd e Luigi Canina, in foto d’epoca di Giuseppe Primoli, Thomas Ashby e Giuseppe Tomassetti, è improvvisamente crollato nel luglio del 1976. Gravemente lesionato, l’edificio era costruito sopra un sepolcro in opera laterizia a pianta circolare di età imperiale, un mausoleo il cui ingresso originario era forse sull’Appia, di cui sono ancora visibili le murature basamentali, sul quale, nel Medioevo, era stato elevato un corpo cilindrico,

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A destra: la spada con impugnatura in avorio e il suo fodero, anch’esso in avorio, rinvenuti in un sarcofago scoperto all’interno del Torrione Chigi di Ariccia (Roma). In basso: il Torrione Chigi in una foto scattata da Oscar Savio intorno al 1950.


Porta Urbica detta «Basto del Diavolo» e Torrione Chigi, incisione di Carlo Labruzzi. 1789. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

utilizzato come deposito agricolo. Dopo il crollo, per la necessità di rimuovere i materiali che in parte ingombravano il tratto iniziale della provinciale VallericciaGinestreto (via di Mezzo), principale comunicazione tra la parte settentrionale del territorio comunale e quella a valle, verso la via Nettunense, furono effettuati interventi di liberazione dell’area. In occasione degli scavi, eseguiti a cura della Soprintendenza Archeologica del Lazio, ebbe luogo un ritrovamento straordinario: all’interno della tomba fu infatti rinvenuto un sarcofago in pietra privo di decorazioni, con una salma in buono stato conservativo avvolta in un sudario intessuto con fili d’oro e due anellini; singolarmente, sotto al sarcofago fu ritrovata una spada con impugnatura in avorio, completa del suo fodero, anch’esso in avorio. Il materiale venne subito trasferito nei depositi di Villa Pamphilj a Roma. Purtroppo, la fretta della ricognizione, dettata anche dall’urgenza della rimozione

delle macerie e dall’eliminazione del pericolo per ulteriori crolli, portò alla perdita di dati importanti sulle fasi di vita del sepolcro e, di conseguenza, sulla datazione del reperto, oggetto di un primo intervento conservativo nel 1978. Dopo varie vicissitudini e spostamenti, se ne persero quasi le tracce fin quando, nel 1994, la spada venne «riscoperta» in uno dei magazzini della Soprintendenza a Tivoli da Giuseppina Ghini, all’epoca funzionario archeologo di zona, su impulso del professor Renato Lefevre, illustre storico e studioso di romanistica, profondo conoscitore di storia ariccina. È probabile invece che il sarcofago sia rimasto nell’area del Torrione, reinterrato dopo lo scavo. Un secondo importante restauro sulla spada e il suo fodero venne effettuato nel 2009 dall’Istituto Centrale per il Restauro (ICR). A seguito della proficua collaborazione tra la direzione di Palazzo Chigi in Ariccia e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area

Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti – e in particolare con l’attuale funzionario di zona Gabriella Serio, nel settembre 2022 – è stata avviata l’istruttoria finalizzata a dare la giusta valorizzazione al reperto ed esporlo al pubblico nel territorio di provenienza presso il museo della città. Il procedimento si è concluso con un Decreto della Direzione Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di autorizzazione allo spostamento del reperto a fini espositivi (rep. n. 1512 del 22 novembre 2022) e successivo provvedimento del Soprintendente Lisa Lambusier, fissando la cerimonia di consegna il 18 maggio 2023. Per l’occasione il Comune di Ariccia ha finanziato la realizzazione di una teca climatizzata su indicazione dell’ICR, onde poterne garantire la giusta conservazione. Allo stato attuale non conosciamo una datazione precisa del monumento funerario e del prezioso reperto ivi deposto, genericamente riferibile all’età imperiale, anche a seguito della manomissione del sito. Un’ipotesi suggestiva è quella di Renato Lefevre secondo il quale poteva trattarsi del sepolcro di un attore in un mausoleo di famiglia, per la presenza di maschere teatrali scolpite sull’elsa della spada. L’esposizione dell’opera costituisce anche l’occasione per rimettere mano alle ricerche, approfondendo lo studio su di un manufatto unico nel suo genere e sul suo contesto di provenienza lungo la via Appia Antica. Francesco Petrucci e Gabriella Serio

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

TUTTO SEMBRÒ ROVESCIARSI... LE PAROLE DI PLINIO IL GIOVANE RISUONANO, ANCORA OGGI, COME UNA DELLE CRONACHE PIÚ VIVIDE DELL’ERUZIONE DEL 79 D.C. MA NON MENO IMPRESSIONANTI SONO I RESTI DELLE VITTIME DELLA CATASTROFE, CHE GLI SCAVI CONTINUANO A RIPORTARE ALLA LUCE

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e recenti scoperte di alcune vittime dell’eruzione del 79 d.C. non sono una novità per Pompei, che, come gli altri siti vesuviani, restituisce con vivida atrocità gli ultimi istanti di vita di chi non riuscí a fuggire e a mettersi in salvo. I resti umani, pertanto, non sono e non devono essere visti come oggetto di curiosità o di esposizione, ma come testimoni utili allo studio della società antica in tutti i suoi aspetti. I primi risultati degli scavi presso

l’Insula dei Casti Amanti e l’Insula 10 della Regio IX ci dicono che le vittime sono morte per crolli causati dal cedimento di muri o solai durante l’evento eruttivo. Nella prima, gli scheletri giacevano in un ambiente di servizio, in una parte della casa dismessa, forse perché interessata da interventi di riparazione o ristrutturazione. Dalle prime analisi antropologiche, si tratterebbe di due adulti di sesso maschile, di età compresa tra i 50-60 anni, morti probabilmente a In questa pagina: materiali ceramici (in alto) e resti ossei umani rinvenuti nel corso degli scavi condotti nell’Insula dei Casti Amanti. Nella pagina accanto: uno scheletro individuato nella Regio IX.

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causa dei traumi causati dal crollo di parti dell’ambiente in cui avevano cercato rifugio. Durante la rimozione delle vertebre cervicali del cranio di una delle vittime, sono emerse tracce di materiale organico, forse un fagotto di stoffa e cinque elementi di pasta vitrea identificabili come vaghi di collana oltre a sei monete. Tra queste, due denari in argento, un denario repubblicano databile alla metà del II secolo a.C. e, ancora, un altro denario da riferire alle produzioni di Vespasiano. Le restanti monete in bronzo, due sesterzi, un asse e un quadrante, di conio piú recente, dovevano anch’esse appartenere al principato di Vespasiano. Nella stanza in cui giacevano gli scheletri sono emersi


anche elementi della vita quotidiana, come anfore, vasi, ciotole, brocche.

IN CERCA DI UN RIPARO Poco distante dalla Casa dei Casti Amanti, nella Regio IX, durante il nuovo scavo di uno degli ambienti già noti dagli scavi del passato, sono affiorati i resti di tre individui che si erano rifugiati al coperto. Le prime indagini antropologiche indicano due individui pienamente adulti, sulla base delle prime analisi in situ probabilmente donne, e di un bambino di età approssimativa intorno ai 3-4 anni. Gli individui sono stati ritrovati, come detto, in un ambiente già scavato, dove erano rimasti non piú di 40 cm di deposito stratigrafico intatto. Le ossa poggiavano a diretto contatto con il pavimento, e presentavano – con le evidenze di importanti processi di assestamento post mortem – una serie di traumi, probabilmente causa della morte, dovuti al crollo del solaio soprastante, i cui frammenti sono stati ritrovati frammisti a lapilli pomicei bianchi, tipici delle prime fasi dell’eruzione Pliniana del 79 d.C. a Pompei. «Benché l’animo – scrive Plinio il Giovane – inorridisca al ricordo (...) comincerò. Partito lo zio, trascorsi il restante tempo a studiare (ero rimasto proprio per questo); poi il bagno, la cena e un sonno breve e inquieto. Molti giorni prima si erano sentite scosse di terremoto, senza però che vi si facesse gran caso, perché in Campania sono frequenti; ma in quella notte furono cosí forti che sembrò che ogni cosa non solo si muovesse, ma addirittura si rovesciasse» (Lettere ai familiari, VI, 20). Questa lettera, indirizzata da Plinio il Giovane all’amico Tacito, prova chiaramente come forti sciami sismici avessero interessato il territorio vesuviano nei giorni precedenti gli eventi e che non tutti intuirono

i potenziali rischi, nemmeno Plinio stesso e la sua famiglia. L’eruzione del 79 d.C. è stata divisa dagli studiosi in tre fasi: una fase di apertura, di breve durata; una seconda fase con la formazione di un’alta colonna eruttiva dalla quale caddero lapilli; una terza fase, finale, caratterizzata dal succedersi di diversi flussi piroclastici: misture di gas e particelle solide ad alta temperatura che spazzano a forte velocità il suolo per effetto della gravità e del collasso della colonna eruttiva. Si tratta di fenomeni vulcanici tra i piú distruttivi che si conoscano.

UNA PIOGGIA LETALE «Il livello del cortile – scrive ancora Plinio il Giovane – si era talmente innalzato con il continuo cadere della pioggia di lapilli misti a cenere che se [Plinio il Vecchio] si fosse attardato nella camera, non sarebbe riuscito a uscirne (...) Continui sommovimenti scuotevano la casa che ora era abbassata, ora era sollevata di nuovo, come se fosse stata strappata dalle fondazioni. Intanto all’esterno si temeva la pioggia di lapilli, seppure leggeri e porosi (...) messi dei cuscini sulla testa, li legarono con lenzuoli: questo fu il riparo contro quella pioggia». Alla fine della giornata, Pompei aveva cessato di vivere. Per altri tre giorni proseguí l’attività eruttiva del Vesuvio, che aveva persino

cambiato la sua forma: la cima era stata squassata dall’esplosione e si era creato un nuovo rilievo, quello del Monte Somma. Le ceneri dell’eruzione si dispersero nell’aria per chilometri, giungendo fino a Roma e persino sulle coste dell’Africa settentrionale. L’imperatore Tito istituí un’apposita commissione (Curatores restituendae Campaniae) per dare soccorso alle città colpite dall’eruzione, ma ormai la vita a Pompei ed Ercolano non esisteva piú. Le fasi della catastrofe che investí l’area vesuviana possono essere oggi lette nelle stratificazioni di materiale vulcanico che si depositarono in quella occasione. «Di tutte le catastrofi che si sono abbattute sul mondo nessuna ha provocato tanta gioia alle generazioni seguenti. Non conosco niente di piú interessante»: cosí scrisse, con un pizzico di cinismo, il grande poeta e letterato tedesco Johann Wolfgang Goethe, amante dell’arte e della cultura, davanti alle rovine che dalla metà del Settecento cominciarono a essere riportate alla luce e a raccontare oltre alla vita della città antica anche i suoi ultimi istanti. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCAVI Friuli-Venezia Giulia

STORIE DI ANTICHE ALLUVIONI

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i un ritrovamento eccezionale è stata teatro la località Belvedere, nel territorio del Comune di Cordovado (Pordenone), a seguito di un intervento di archeologia preventiva eseguito in occasione della realizzazione del metanodotto Mestre-Trieste di Snam Rete Gas. A meno di 2 m dal piano di campagna, sono stati intercettati i resti di un insediamento di età romana che, dopo la messa in opera delle tubature interrate a una quota maggiore di quella prevista, è stato possibile scavare in estensione. Il sito è stato delimitato lungo l’asse di scavo del metanodotto per una lunghezza totale di 200 m, 100 dei quali sono risultati interessati dalla presenza di resti strutturali. «Le indagini archeologiche – spiega Serena Di Tonto, funzionario archeologo responsabile di zona – hanno rivelato nell’area i limiti di due strutture e di un tracciato viario presente tra le due. Di una di esse, rinvenuta nella porzione occidentale dell’area indagata, è stato individuato un unico ambiente con una pavimentazione in tessere di laterizio e un elevato assai ridotto delle strutture murarie, limitatamente alla fondazione e talvolta ai filari piú bassi. La struttura piú orientale, invece, risulta piú articolata, e sono stati messi in luce tre ambienti e un’area esterna, con piani pavimentali in ghiaia e frammenti laterizi e strutture murarie dall’elevato piú considerevole. Allo stato attuale è stato possibile identificare diverse tipologie di tecniche murarie messe in opera per le strutture edilizie, riferibili al I-II secolo d.C. Una è caratterizzata da ciottoli e tegole in corsi orizzontali alternati con malta e

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Due vedute dei resti dell’insediamento di epoca romana individuato in località Belvedere, nel territorio del Comune di Cordovado (Pordenone), non lontano dal corso del fiume Tagliamento.

pilastri in laterizi verso l’esterno; un’altra presenta tegole di riutilizzo disposte a spina di pesce, legate con argilla e infine una terza mostra mattoni su due corsi alternati a un corso di tegole orizzontali legati da argilla con fondazioni sporgenti con risega in ciottoli. Tra le due strutture è stato poi identificato un piano lastricato, con orientamento est-ovest, con solcature di carro ben visibili per buona parte del piano. La stratigrafia indagata, i materiali raccolti e le tecniche murarie messe in opera per le strutture edilizie permettono di datare il sito tra il I-II secolo d.C. fino al IV secolo d.C. Tra i materiali datanti sono state individuate diverse tegole con bolli, tra cui alcuni piú noti, come T.AE. MAX, Tito Aemilio Maximo, di manifattura concordiese e con diffusione locale tra il I e il II secolo d.C., ma anche alcuni piú rari come P.V.E., noto su un esemplare da Portogruaro. I materiali recuperati sono per lo piú relativi ad anfore, ceramica da mensa, sigillata, vetro, e diversi oggetti in metallo come serrature, chiavi, chiodi. La limitata quantità dei reperti rinvenuti ci fa supporre che gli ambienti fossero stati in gran parte

svuotati prima dell’abbandono e dell’evento alluvionale che ha obliterato le strutture. Al termine dello scavo, le due strutture saranno rinterrate, poiché non sussistono, al momento, le condizioni per mantenerle allo scoperto in sicurezza, tutelandone l’integrità. È stata comunque realizzata una accurata documentazione che contiamo di far confluire presto nella pubblicazione del contesto, grazie anche alla disponibilità della committenza». La scoperta dev’essere considerata eccezionale oltre che per l’assenza di scavi di contesti analoghi nella zona, anche per gli importanti dati che sta fornendo sulle diverse tecniche edilizie utilizzate, per i materiali restituiti e per lo studio della pianificazione territoriale nella zona e la definizione dell’antico corso del fiume Tagliamento in epoca romana. Gli scavi archeologici, condotti sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia, sono eseguiti dalla società Archeo.Kun di Parma con un team di professionisti. Giampiero Galasso



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

COLORI (E VITA) DI UN’OSTERIA SARÀ NUOVAMENTE VISITABILE, A BREVE, LA CAUPONA DEL PAVONE, UNO DEGLI EDIFICI OSTIENSI PIÚ IMPORTANTI PER LA CONOSCENZA E LO STUDIO DELLA PITTURA ROMANA, QUI SPLENDIDAMENTE RAPPRESENTATA

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ontano dai percorsi piú battuti e dai monumenti piú visitati, alle spalle degli uniformi prospetti laterizi affacciati sulle strade basolate, Ostia conserva una miriade di edifici meno noti, che raccontano la storia della città e delle sue trasformazioni, contribuendo a evocare la vita che la animava. Tra questi angoli nascosti spicca la Caupona del Pavone, ubicata sull’omonima strada che si diparte dal Cardo Maximus, nel settore meridionale della città. Costruita in età adrianea e in origine destinata ad abitazione privata, fu ampiamente

modificata in età severiana (200220 d.C. circa) e quindi, in una fase tarda (fine del III-IV secolo d.C.), trasformata in albergo con annessa caupona (osteria).

LE FASI DELL’EDIFICIO Accessibile dalla strada attraverso due distinti ingressi fiancheggiati da tabernae e sviluppato almeno su due piani, l’edificio conserva la facciata e i muri perimetrali in laterizio di epoca adrianea, mentre gli spazi interni sono suddivisi da tramezzi in opera listata di età severiana. Il settore principale dell’edificio è

raggiungibile da un lungo corridoio, che termina in un piccolo cortile intorno al quale si distribuiscono ambienti di servizio, tra i quali si distingue una latrina con sedili rivestiti in marmo. Il cortile immette nella parte piú interna, caratterizzata dalla presenza di un secondo corridoio, con pavimento in marmo e pareti dipinte, che costituisce lo snodo tra tutti gli ambienti principali e conduce a un secondo cortile, posto sul retro: dotato di una banchina addossata al muro, aggiunta come sedile per gli avventori quando l’edificio fu L’ingresso della Caupona del Pavone. Nella pagina accanto, dall’alto: la stanza principale con bancone di mescita e gli affreschi della saletta.

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trasformato in caupona, è caratterizzato da una scala che conduce a un pozzo sotterraneo. Su una parete del cortile, all’interno di un larario a nicchia, si conserva la pittura che raffigura il pavone e che dà nome al complesso. L’ambiente piú ampio e importante è l’originario tablinum (sala di ricevimento) dell’abitazione, successivamente trasformato in osteria con l’inserimento di un bancone per la mescita e di una scaffalatura dai ripiani marmorei, simili a quelli visibili nel piú noto Thermopolium. Le pareti conservano l’intero complesso della decorazione ad affresco, caratterizzata da uno zoccolo con specchiature in finto marmo e da un campo superiore scompartito da colonne prospettiche stilizzate, che

incorniciano pannelli rossi e gialli sui quali si stagliano figure maschili togate e figure femminili.

UNO STILE QUASI IMPRESSIONISTICO Attigua a questo ambiente è una piccola sala, aggiunta in età severiana invadendo uno spazio che in precedenza faceva parte del cortile. La decorazione ad affresco è qui caratterizzata da pannelli a nicchia, al centro dei quali si alternano motivi vegetali, animali e figurati (menadi, maschere teatrali, geni, uccelli, ecc.), dipinti in uno stile quasi impressionistico. Gli stessi motivi si ripetono, in forme semplificate, in un altro ambiente con funzione di cubiculum (stanza da letto). Accessibile dalla strada da un

corridoio parallelo, l’ala sinistra dell’edificio fu probabilmente adibita ad albergo nella fase tarda; uno dei cubicula conserva il pavimento in cocciopesto e parte della decorazione pittorica, nello stile tipico della metà del III secolo d.C., caratterizzato da pannelli bianchi inquadrati da schematiche architetture rosse e decorati da motivi vegetali e animali. Oltre un secondo ambiente, i cui muri si conservano per l’altezza di pochi centimetri, si raggiunge un cortile quadrato che conserva ancora, al centro, il pozzo con vera in peperino. La decorazione ad affresco della Caupona del Pavone, databile principalmente a età severiana, è annoverata tra i piú importanti complessi pittorici ostiensi, sia per la varietà dei motivi (architettonici, vegetali, figurati), sia per l’estensione e lo stato di conservazione delle superfici affrescate, per tutelare le quali l’edificio è stato a lungo chiuso al pubblico. Nei prossimi mesi, esso tornerà finalmente a essere visitabile, insieme ad alcune delle altre case decorate di Ostia, nell’ambito di un programma di visite guidate e contingentate che verrà gestito dal nuovo concessionario di servizi del Parco. Parallelamente, l’edificio sarà interessato dall’avvio di un articolato progetto di documentazione, diagnostica e monitoraggio, che consentirà di mettere a punto, nel medio periodo, un progetto dedicato di manutenzione programmata e restauro degli apparati decorativi, ma anche di realizzare un tour virtuale che permetterà al pubblico di visitarne gli spazi, restituendo al contempo, grazie alla tecnologia della realtà aumentata e allo sviluppo di animazioni, l’aspetto che la caupona doveva avere in antico e ricreandone l’atmosfera. Claudia Tempesta

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MOSTRE Bologna

ARCHEOLOGIA E SOSTENIBILITÀ

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llestita nel Museo Civico Medievale, la mostra è stata inaugurata in occasione della restituzione all’Iraq di un oggetto mesopotamico sequestrato in Italia da parte del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Bologna e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Si tratta di un mattone cotto del re assiro Salmanassar III (858-824 a.C.) con un’iscrizione cuneiforme che ne rivela la sicura provenienza dalla ziggurat (tempio-torre a gradoni) dell’antica Kalkhu (moderna Nimrud), la prima capitale dell’impero neoassiro, distrutta nel 2016 dall’iconoclastia dell’ISIS.

In alto: amuleto in bronzo raffigurante la testa del demone Pazuzu, da una residenza neoassira presso la porta di Adad, Ninive. VII sec. a.C.

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Il progetto è stato concepito con una nuova formula di mostra sostenibile, con l’obiettivo di comunicare al pubblico contenuti storici relativi all’impero neoassiro (Mesopotamia, IX-VII secolo a.C.), attraverso modelli digitali stampati in 3D, raccontando alcune specificità e sfide della collaborazione scientifica e cooperazione italiane con la Repubblica dell’Iraq e con la città di Mosul in particolare. Dopo la liberazione della metropoli, nel giugno 2017, dall’occupazione da parte dell’ISIS, che durava sin dal 2014, la Missione Archeologica Iracheno-Italiana a Ninive è stata chiamata a dare un contributo all’esplorazione e alla protezione

del settore orientale corrispondente all’antica Ninive, leggendaria capitale dell’Assiria ormai gravemente minacciata dall’espansione urbana, tanto che oggi oltre un terzo del sito può dirsi pressoché perduto per l’esplorazione archeologica. Tra il 2019 e il 2022 sono state condotte quattro campagne annuali congiunte tra Università di Bologna e Iraqi State Board of Antiquities and Heritage, dirette da Nicolò Marchetti, con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri e Mattone cotto con iscrizione cuneiforme del re assiro Salmanassar III (858-824 a.C.) che ne attesta la provenienza dalla ziggurat di Kalkhu (moderna Nimrud, Iraq settentrionale).


USTICA (PALERMO)

In ricordo di un grande studioso

Tre tavolette cuneiformi con transazioni finanziarie, da una ricca residenza neoassira nella città bassa di Ninive. VII sec. a.C. della Cooperazione Internazionale, oltre che della Volkswagen Foundation, con il progetto KALAM, e del J.M. Kaplan Fund nell’ambito di progetti di restauro e formazione di personale locale. 36 repliche al vero di sigilli e cretule neoassiri e di testi cuneiformi provenienti dal progetto di scavo nel mega-sito di Ninive, che si estende su 750 ettari con 12 km di mura, sono state scelte per raccontare storie antiche e moderne. Tra queste, figura la riproduzione del mattone del re assiro Salmanassar III proveniente dalla ziggurat dell’antica Kalkhu sequestrato dai Carabinieri. Esso apparteneva a un monumento distrutto nel 2016 dai bulldozer dell’ISIS, pertanto la restituzione all’Iraq di un elemento architettonico di una struttura andata perduta rappresenta un elemento importante anche sul piano simbolico. Sono inoltre esposti anche due frammenti di rilievi palatini, databili alla metà del VII secolo a.C., scoperti dalla missione italiana nel 2022 nel Palazzo Nord di Assurbanipal e un ulteriore frammento dalle collezioni del Museo Archeologico di Venezia, pressoché identico agli altri due e anch’esso proveniente dall’acropoli di Ninive. Il percorso espositivo si

completa con l’allestimento nella Sala delle Arche, all’interno della collezione permanente del museo, di tre sculture realizzate dagli artisti contemporanei di origine irachena Baldin Ahmad, Resmi Al Kafaji e Qassim Alsaedy, che da oltre quarant’anni vivono in esilio in Europa e hanno unito le loro ricerche e comuni vicende biografiche nel progetto espositivo itinerante battezzato «Two Shores» (Due Sponde). (red.)

DOVE E QUANDO «Gli Assiri all’ombra delle Due Torri Un mattone iscritto della ziggurat di Kalkhu in Iraq e gli scavi della Missione Archeologica Iracheno-Italiana a Ninive» Bologna, Museo Civico Medievale fino al 17 settembre Orario martedí e giovedí, 10,00-14,00; mercoledí e venerdí, 14,00-19,00; sabato, domenica e festivi, 10,00-19,00; chiuso lunedí non festivi Info tel. 051 2193923; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @museiarteanticabologna; TiKTok: @museiarteanticabologna; Twitter: @MuseiCiviciBolo

È dedicata alla memoria dell’archeologo di Robert Ross Holloway (1934-2022) la prima edizione di «Archeologia Terracquea» promossa da Villaggio Letterario, che si terrà a Ustica (Palermo) dal 5 al 7 agosto, a cura di Anna Russolillo, Francesca Spatafora, Franco Foresta Martin e Sonia Gervasio. Le giornate di studio vedranno gli interventi di Anne Ross Holloway, Susan Snow Lukesh, Peter Van Dommelen, Francesca Spatafora, Massimo Cultraro, Franco Foresta Martin, Anna Russolillo e Pierfrancesco Talamo. Il tema della rassegna è «Robert Ross Holloway. La Sicilia e la Campania nella preistoria» per ricordare l’uomo, l’archeologo, il fondatore nel 1964 del Centro per la archeologia mediterranea alla Brown University e l’autore degli scavi sistematici nelle campagne di Buccino, della Mucufula e di Ustica. Durante il convegno saranno presentati il volume Robert Ross Holloway e Ustica e le scoperte sulla fortificazione del villaggio preistorico dei Faraglioni, l’insediamento della Media Età del Bronzo meglio conservato del Mediterraneo. L’evento è in collaborazione con la Brown University, il Suor Orsola Benincasa di Napoli, il Parco archeologico di Himera, Solunto e Monte Iato, l’Area Marina Protetta e il Laboratorio Museo di Scienze della Terra di Ustica. Info: www.villaggioletterario.it

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A TUTTO CAMPO Maria Rosaria Luberto

L’ETRURIA D’UN GENTILUOMO TOSCANO IN MOSTRA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI FIRENZE LA COLLEZIONE DEI CONTI PASSERINI, PATRIZI DI FIRENZE E CORTONA

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iú di un secolo, per l’esattezza 130 anni, sono serviti a ricomporre, anche se in parte, la collezione del conte Napoleone Pio Passerini (1862-1952), erede del ricchissimo Pietro Passerini da Cortona (1791-1863). Oltre 300 reperti, consistenti in ceramiche etrusche e attiche figurate, buccheri, vernice nera, oggetti d’arredo e da toletta, armi in bronzo e ferro, decorazioni di mobili e suppellettili varie in avorio e osso, oreficerie, anfore da trasporto, vasi acromi con iscrizioni, anche complesse, usati come cinerari, e altre categorie di manufatti databili tra il VII e il III-II secolo a.C. sono oggi conservati al Museo Archeologico Nazionale di Firenze ed esposti nella mostra «Tesori dalle terre d’Etruria». I Passerini erano nobili toscani di lungo corso (è presumibile che le origini della famiglia risalgano al XII secolo) e grandi proprietari terrieri con possedimenti sparsi in molte regioni dell’Italia centrale. Napoleone, ma quasi certamente anche Pietro prima di lui, condussero scavi e ricerche nelle tenute del distretto senese di Bettolle-Sinalunga, in Val di Chiana, dove misero in luce varie necropoli:

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undici tombe furono scavate nel parco della villa di famiglia a Bettolle, cinque in ciascuno dei poderi di Quercia Caffera e Poggio Belvedere, dodici in un’area destinata a uliveto sulla via Cassia. In ragione dell’epoca e del fine di questi scavi, ossia la mera raccolta di oggetti antichi e di valore, non fu purtroppo redatta alcuna documentazione.

RICCHI CORREDI Soltanto studi e ricerche successive hanno permesso di ricontestualizzare alcuni degli oggetti e ricostruirne quindi In alto: il conte Napoleone Pio Passerini (1862-1952) in una foto del 1910. A destra: diadema aureo esposto nella mostra «Tesori dalle terre d’Etruria», visitabile presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

provenienza e funzioni. Si può ipotizzare che il tipo di sepolture individuate corrispondessero a quelle note in questo distretto, ossia a camera ipogea scavata nell’arenaria. I ricchi corredi sono divenuti quindi il nucleo principale



La «collezione dispersa»: i reperti in origine appartenenti alla Collezione Passerini venduti dal conte Napoleone tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, confluiti nelle raccolte italiane ed estere.

della collezione, incrementata anche dall’acquisto di reperti provenienti da aree limitrofe, come la necropoli di San Francesco, a Foiano della Chiana, e probabilmente da località contigue, come Lucignano, non sempre riconoscibili con altrettanta sicurezza. I primi reperti sono giunti al Regio Museo di Firenze già nel 1890 e nel biennio 1898-1900, grazie agli acquisti del direttore Luigi Adriano Milani. Era da tempo nota la presenza di un nucleo della collezione nella villa di Bettolle, che il Ministero ha acquistato nel 2006, su proposta dell’allora direttore del Museo Archeologico Nazionale di Chiusi, Mario Iozzo. Nel 2016 la donazione di una generosa collezionista fiorentina ha portato al ricongiungimento di tale nucleo con quello nel frattempo trasferito in un’altra proprietà della famiglia, la villa «Le Rondini» di Scandicci.

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La mostra fiorentina, curata da chi scrive insieme a Mario Iozzo, come il catalogo che l’accompagna, espone per la prima volta al pubblico la collezione finalmente ricomposta, proponendone diversi approfondimenti e percorsi paralleli. I visitatori sono accolti e introdotti dal gruppo di figure che decora uno dei reperti esposti, un piatto di produzione ateniese dipinto da Paseas intorno al 510 a.C., dove Hyppotia, etera di alto bordo, è raffigurata intenta a suonare il doppio flauto davanti all’esagitato Amasis, ballerino dai tratti somatici africani.

LA LUNGA STORIA DI UNA NOBILE SCHIATTA Il percorso inizia con una sezione dedicata alla famiglia Passerini e alla sua lunghissima storia, illustrata da documenti del XII secolo, che attraversa e incrocia quella della Toscana nel corso del

tempo. Particolare risalto è dato al conte Napoleone, figura eccezionale per percorso biografico e scientifico nel panorama della sua epoca. Le ricerche condotte per la realizzazione dell’esposizione e per la redazione del catalogo hanno permesso, inoltre, di ricomporre in maniera unitaria anche il quadro dei cosiddetti «capolavori dispersi», ossia alcuni dei reperti di straordinaria qualità e pregio che il conte Napoleone vendette agli antiquari, oggi conservati in varie collezioni italiane ed estere (nel Metropolitan Museum of Art di New York, nel Walters Art Museum di Baltimora, nel Princeton Art University Museum, nel Fine Art Museum di Boston, nella Collezione Silver di Los Angeles, nel Bible Lands Museum di Gerusalemme, nella Collezione Gondi di Firenze, oltre che, naturalmente, nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze). Questi reperti sono per la prima volta virtualmente riuniti, attraverso la documentazione fotografica, al resto dei realia esposti in mostra. Nell’apparato didattico, in italiano e inglese, i pannelli e le didascalie, distinguibili per il diverso colore, guidano invece i visitatori lungo un percorso di approfondimento sul tema del restauro condotto tra Ottocento e Novecento da restauratori molto attivi nell’area di Chiusi, dove gli intensi traffici del mercato antiquario richiedevano manodopera abile e veloce nel camuffamento e nella ricomposizione dei reperti, per poter vendere gli oggetti «come nuovi» e ricavarne consistenti guadagni. (mariarosaria.luberto@unisi.it)



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INCONTRI Torino

TUTTI I SEGRETI DELLA MENSA ISIACA

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no dei piú noti reperti del Museo Egizio di Torino – attualmente in restauro – è protagonista, il 17 e 18 luglio, di un Simposio internazionale che si terrà presso lo stesso museo torinese, che l’ha organizzato in collaborazione con il Getty Institute, promotore di un nuovo studio sulla tavola bronzea. A Torino sono attesi esperti provenienti da istituzioni di tutto il mondo, dal Museo del Louvre ad atenei prestigiosi, come Oxford, Cambridge e Sorbona. La «Mensa Isiaca» è una tavola d’altare in bronzo decorata con intarsi di fili e foglie in oro, argento, rame, zinco, stagno e niello, con il piano e i bordi interamente ricoperti da figurazioni e segni incisi ispirati a temi egizi, con al centro la figura della dea Iside in trono. Di quest’opera straordinaria si hanno le prime incerte notizie nel 1527, quando, come riporta Athananius Kircher, entrò in possesso del cardinale Pietro Bembo, da cui prese il nome di «Tavola Bembina», non si sa se donata da Alessandro Farnese o acquistata da un fabbro ferraio che l’avrebbe recuperata durante il Sacco di Roma. Nel 1592 la tavola fu venduta dal figlio di Bembo al duca Vincenzo Gonzaga. L’eccezionale reperto anche se non originale egizio, fu realizzato attorno al I secolo d.C., molto probabilmente a Roma, come pala d’altare di un tempio dedicato alla dea Iside, nei pressi del Campo Marzio. La scoperta suscitò immediatamente scalpore e numerosi studi volti all’interpretazione dei suoi segni geroglifici, che piú tardi si comprese essere ornamentali e privi di significato. Tra i primi ad aver studiato la Mensa compare il

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In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.


gesuita Athanasius Kircher, colto studioso, collezionista e inventore, interessato ai geroglifici egiziani e alla loro decifrazione. Entrata nella collezione del duca di Savoia, la Mensa fu trasferita in Francia dopo la conquista dell’Italia da parte di Napoleone nel 1797, e fu esposta alla Bibliothèque Nationale nel 1809 e successivamente divenne parte della collezione del Museo Egizio dal 1832, dove rimane fino a oggi. Nel 2018, la Mensa è stata presentata al J. Paul Getty Museum

nell’ambito della mostra «Oltre il Nilo: L’Egitto e il mondo classico», che ha esaminato interazioni e influenze interculturali tra Egitto e altre parti del Mediterraneo antico. Di recente, sempre presso il museo statunitense, un gruppo di conservatori e di scienziati si è servito dei piú recenti sviluppi tecnologici per condurre nuovi studi sulla Mensa. Già in precedenza, le analisi dei metalli di cui il manufatto si compone, a cura di Alessandra Giumlia-Mair, avevano fornito i primi scorci sulla natura materiale,

Sulle due pagine: una veduta d’insieme (nella pagina accanto, in basso) della Mensa Isiaca, una tavola d’altare in bronzo recante figurazioni e segni incisi ispirati a temi egizi, con al centro la dea Iside, e alcuni particolari del manufatto, fotografati nel corso dell’intervento di restauro attualmente in corso.

sugli intarsi e la loro complessità, ma permanevano vari interrogativi. Le ricerche condotte dal Getty mirano a migliorare la nostra comprensione dei materiali e delle tecniche utilizzate nella creazione del reperto e ad affrontare alcune specifiche questioni, relative alla fusione della Mensa (comprese le successive riparazioni e rattoppi), ai materiali utilizzati per i diversi intarsi, alle tecniche adottate per incastonare gli intarsi stessi nella base in bronzo, a come la superficie potrebbe essere stata rifinita e, infine, a quale potrebbe essere stato l’aspetto originale. Il programma di ricerca è stato progettato in modo non invasivo, non distruttivo con un metodo di esame e di analisi. È stato eseguito un approfondito esame visivo mediante la microscopia ottica assistita, nella visualizzazione di dettagli piccoli. L’analisi dei materiali mediante spettroscopia di fluorescenza a raggi X (XRF) ha fornito informazioni dettagliate sull’elementare composizione dei diversi metalli e leghe metalliche. La radiografia X ha fornito informazioni sulla struttura generale. (red.)

DOVE E QUANDO «The Mensa Isiaca under Review. Technical study and new interpretations» Torino, Museo Egizio 17 e 18 luglio Info www.museoegizio.it

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INCONTRI Roma

UNA GIORNATA PER L’ARCHEOLOGIA ITALIANA ALL’ESTERO

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el 2022 erano 246, quest’anno se ne sono aggiunte altre 33: sono le missioni archeologiche, etnologiche e antropologiche italiane all’estero, finanziate e sostenute dal MAECI, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, attraverso l’Ufficio VI della Direzione Generale per la diplomazia pubblica e culturale, diretto dal Consigliere d’Ambasciata Paolo Andrea Bartorelli. Una realtà, quella dell’archeologia italiana all’estero, in verità ancora sconosciuta ai piú e che ha avuto la sua prima «uscita

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Sulle due pagine: saluto del Vicepresidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, On. Antonio Tajani (in basso), e immagini della Giornata dell’Archeologia Italiana all’Estero.


IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE MATTARELLA

«Diplomazia culturale e archeologia, eccellenza della ricerca italiana nel mondo» Questo il messaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata dell’Archeologia Italiana all’Estero: «Il patrimonio archeologico, storico e artistico che contraddistingue il nostro Paese rappresenta l’espressione più autentica di un popolo che è stato capace nei secoli di assimilare culture diverse, facendo dell’Italia uno scrigno di bellezze incommensurabili distribuite su tutta la penisola, che è privilegio e al tempo stesso responsabilità per chi le ha ricevute in dono conservare e trasmettere alle prossime generazioni. Questa vocazione alla tutela del patrimonio culturale è riflessa anche nei principi fondanti della nostra Costituzione, laddove l’articolo 9 – unendo assieme cultura, ricerca scientifica e tecnica, ambiente e paesaggio – afferma che la Repubblica tutela il patrimonio artistico, storico e paesaggistico. Una disposizione di notevole originalità, che trova pochi paragoni nelle altre Carte costituzionali e che si spiega proprio alla luce di un contesto storico e culturale eccezionalmente ricco. Su questa solida base nasce e si sviluppa il desiderio di scoperta dei nostri studiosi di archeologia all’estero. Una realtà che oggi coinvolge oltre 60 Paesi, 246 missioni archeologiche e migliaia di ricercatori, tra cui tantissimi giovani, che quotidianamente, con entusiasmo e passione si dedicano all’attività sul campo nei contesti culturali più diversi. La Giornata dell’Archeologia italiana all’estero rappresenta innanzi tutto un doveroso riconoscimento a tutti coloro che ogni giorno, con dedizione, portano avanti il testimone di questa eccellenza italiana nel mondo. Questa prima edizione costituisce anche una preziosa occasione per mettere a confronto esperienze maturate in Paesi diversi e per rafforzare il ruolo delle missioni archeologiche – sotto il coordinamento del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – nella promozione dell’Italia sotto il profilo culturale e scientifico. Un’azione che si inserisce armonicamente nella politica complessiva di valorizzazione del nostro sistema Paese all’estero, che nella cultura trova uno dei suoi strumenti più efficaci. Da questa prospettiva, la diplomazia culturale realizzata in ambito archeologico contiene straordinarie possibilità legate alla sua naturale capacità di superare barriere, fortificare relazioni, facilitare il dialogo, anche laddove differenze di carattere politico o ideologico lo rendono più arduo. È per questa ragione che le missioni archeologiche, spesso presenti in Paesi da noi distanti geograficamente e culturalmente, sono un patrimonio prezioso che occorre continuare a sostenere e promuovere. Con questi sentimenti, auguro pieno successo ai vostri lavori».

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pubblica» lo scorso 9 maggio: in un luogo di indubbia valenza simbolica, il Campidoglio, si è svolta la Giornata dell’Archeologia Italiana all’Estero, organizzata dal MAECI in collaborazione con il Comune di Roma. Accolti dal padrone di casa, il Sindaco di Roma Roberto Gualtieri, e dopo la lettura di un

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messaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (vedi a p. 23), hanno introdotto i lavori gli interventi del Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. «Siamo in un luogo la cui straordinaria e incredibile stratificazione storica riverbera il passato sul presente – ha ricordato

il Sindaco – uno dei piú importanti siti del mondo archeologico. Ma siamo anche a pochi passi da Palazzo Caffarelli dove, nel 1829, fu fondato l’Istituto di corrispondenza archeologica, la prima organizzazione permanente di collaborazione archeologica a livello europeo». Presenti tutti i direttori delle 246 missioni archeologiche attive in 66 Paesi (di cui 42 condotte in 37 siti UNESCO), le loro relazioni hanno tracciato il quadro di un attività di scavo e di ricerca straordinariamente articolato, esercitata non solo in quelle parti del mondo a noi storicamente vicine come il Mediterraneo e il Vicino Oriente – un’area in cui ricade il maggior numero di missioni italiane, nel 2022, ad esempio, sono state sostenute 19 Missioni in Iraq, 15 in Egitto, 14 in Grecia, 15 in Turchia, 12 in Iran, 10 in Libia, 12 in Tunisia, 10 in Giordania, 8 in Oman e 8 in Siria. Nel 2023, negli stessi Paesi, sono state sostenute 24 Missioni in Iraq, 15 in Egitto, 17 in Grecia, 18 inTurchia, 9 in Iran, 9 in Libia, 17 inTunisia, 10 in Giordania, 9 in Oman e 9 in Siria – ma anche in Sudamerica e in Asia orientale. Nel settore della ricerca archeologica l’Italia rappresenta, cosí, un punto di riferimento a livello internazionale: le nostre missioni archeologiche valorizzano il patrimonio culturale e monumentale dei Paesi in cui operano e cosí, all’attività scientifica vera e propria, viene ad affiancarsi una funzione di rilevante valenza sociale e culturale: «L’archeologia è, per noi, uno strumento formidabile di politica estera – ha sottolineato Alessandro De Pedys, direttore generale per la diplomazia pubblica e culturale al MAECI. Un’eccellenza, quella


In alto: i partecipanti alla Giornata dell’Archeologia Italiana all’Estero. In basso e nella pagina accanto: estratti della brochure realizzata in occasione dell’evento, dedicata alle attività delle missioni archeologiche italiane.

dell’archeologia italiana all’estero, sottolineata anche dal presidente della Commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, nel suo intervento alla Giornata: «Guardando l’elenco delle 246 missioni si rimane impressionati dalla “diplomazia” culturale che queste persone ricoprono. Noi siamo assolutamente mobilitati, come Parlamento e Governo, a sostenere questa rete di ambasciatori della cultura italiana nel mondo». Sotto questo punto di vista, la promozione e la salvaguardia del patrimonio archeologico messe in atto dalle nostre missioni rappresentano un potente strumento di diplomazia pubblica e culturale, integrabile a tutti gli effetti nelle strategie del soft power italiano.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

EGADI, IL SOGNO CONTINUA A SEBASTIANO TUSA SI DEVE, FRA LE TANTE, LA SCOPERTA DEL TEATRO IN CUI SI COMBATTÉ LA BATTAGLIA NAVALE CHE POSE FINE ALLA PRIMA GUERRA PUNICA. NELLA SUA SCIA OPERA OGGI LA FONDAZIONE CHE PORTA IL SUO NOME, GUIDATA DA VALERIA LI VIGNI

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u queste pagine abbiamo piú volte dato conto delle ricerche di Sebastiano Tusa, archeologo, fondatore della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana, che guidò dal 2004 al 2018, con una breve parentesi che lo vide Soprintendente di Trapani, e dal febbraio del 2018 Assessore ai Beni Culturali della Regione Siciliana. Tusa perse drammaticamente la vita il 10 marzo 2019 in un terribile incidente aereo verificatosi nei cieli dell’Etiopia, mentre si recava in Kenya per replicare i suoi progetti innovativi, nell’ambito di un piano UNESCO. A quattro anni dalla scomparsa, l’eredità dei suoi studi continua a vivere nella Fondazione Sebastiano Tusa, nata con l’obiettivo di portare avanti ricerche, progetti e pubblicazioni dell’archeologo.

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Ne parliamo con la moglie Valeria Li Vigni, antropologa e Presidente della Fondazione Sebastiano Tusa... «Abbiamo realizzato con Sebastiano tanti progetti e abbiamo sempre lavorato insieme. Dopo la sua scomparsa ho preso la guida della Soprintendenza del Mare, che lui aveva fondato, perché questo era il suo desiderio. Da sei anni dirigevo

il Polo Museale regionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo a Palazzo Riso: “basta con l’arte contemporanea”, mi diceva, “adesso devi mettere ordine nella Soprintendenza del Mare”. Aveva stima di me e voleva che ne prendessi la guida. Cosí ho fatto, nel 2019. L’ho diretta per tre anni fino al 2022, quando sono andata in pensione, riuscendo a recuperare progetti e studi di Sebastiano che altrimenti sarebbero andati perduti. Lui metteva il cuore nel suo lavoro di archeologo, io nel mio. La passione e l’entusiasmo per la ricerca ci ha sempre uniti. La Fondazione Sebastiano Tusa, nata nel 2020, ha lo scopo di proseguire le sue idee, come “testimone culturale”. Abbiamo ripreso la pubblicazione della rivista Sicilia archeologica (edita dall’“Erma” di Brteschneider), fondata nel 1968 dal padre di Sebastiano, l’archeologo Vincenzo Tusa. Il numero 112, il primo senza Sebastiano, è stato pubblicato cosí come lui lo aveva lasciato, senza alcuna modifica. Quest’anno abbiamo pubblicato il numero successivo, il 113, con grandi e importanti contributi, come quello di Clemente Marconi sulle ultime scoperte a Selinunte e di Thomas Schäfer sugli scavi a Pantelleria, luogo tanto caro a Sebastiano. Fabio Martini ha scritto per la rivista l’interessante contributo Levanzo e dintorni, le incisioni paleolitiche e lo stile “mediterraneo”, una rivisitazione delle incisioni zoomorfe e


antropomorfe della Cala del Genovese a Levanzo». Partiamo allora proprio da questo sito, forse noto a pochi, ma di eccezionale valore storico e artistico, sull’isola di Levanzo, nelle Egadi: la grotta di Cala del Genovese, dove, fra stalattiti e stalagmiti, emergono incisioni e pitture preistoriche…

«Si tratta di una documentazione storica importantissima, che rappresenta la trasmissione artistica di quanto gli uomini vedevano nel mondo esterno in epoca preistorica. La grotta venne scoperta da una turista francese nel 1949: con una candela illuminò per la prima volta le pitture. L’anno successivo, l’archeologo Paolo

In alto: operatori subacquei al lavoro sui fondali delle isole Egadi. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento del Museo della battaglia delle Egadi nell’ex Stabilimento Florio di Favignana. In basso: pitture preistoriche nella Grotta del Genovese, a Levanzo. Graziosi individuò altri dipinti. Le immagini piú antiche sono le incisioni di animali e le figure antropomorfe databili al Paleolitico Superiore (12mila anni fa circa). Allora, a seguito della regressione dei ghiacciai, l’uomo si dovette adeguare al mutamento climatico, divenendo cacciatore, ma anche pescatore e raccoglitore di molluschi. Levanzo non era un’isola, all’epoca la grotta era collegata con Trapani. Le incisioni rappresentano animali di grossa taglia, ma anche figure umane. Tra le figure incise ci sono dodici equidi, tredici bovidi, sette cervi e un animale (oggi non piú visibile) identificato da Graziosi come felino, ipotesi poi smentita da Sebastiano

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Tusa. E poi quattro figure umane spersonalizzate, raffigurate durante un rituale: al centro, una figura incisa con copricapo a uccello (rappresentazione che si trova anche nella Grotta dell’Addaura, a Palermo); due figure incise con testa cuneiforme; piú una quarta, identificata come donna, l’unica figura dipinta di rosso presente nella grotta. Questa figura in rosso è riferibile all’epoca paleolitica ed è considerata coeva alle incisioni». Le pitture di colore nero, invece, realizzate con carboncino e grasso animale, sono state datate al Neoeneolitico e comprendono raffigurazioni di cani, delfini… «Le pitture nere rappresentano figure umane, animali e segni indefinibili. Gli animali sono riprodotti molto realisticamente, si vedono chiaramente un cane, due delfini (o tonni), un suide (della famiglia dei maiali e dei cinghiali) e un mammifero. Poi ci sono le figure antropomorfe, quattordici “idoletti” dipinti, fortemente stilizzati. Di questi, sei hanno la forma cosiddetta “en violon”, ovvero a violino, con pancia rigonfia, strozzatura centrale e braccia come piccole appendici; otto idoletti, invece, hanno forma cilindrica e arti superiori appena accennati. Le pitture di colore nero vengono

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Figura di animale dipinta nella Grotta del Genovese.

figure tra il Pleistocene e l’Olocene, tra Paleolitico Superiore e Neo-eneolitico. Sono coeve alla famosa Grotta di Lascaux, in Francia, come sottolineava Sebastiano, che evidenziava la presenza di uno stile mediterraneo comune che accosta queste incisioni ai graffiti franco-cantabrici». In un contributo del 2012 (Una nuova lettura delle pitture della Grotta di Cala dei Genovesi a Levanzo, con Cecilia Buccellato e Emiliano Tufano), Sebastiano Tusa avanza la suggestiva ipotesi che le immagini di idoli della Grotta di Cala del Genovese, del tipo a

datate alla fase finale dell’epoca neolitica, quando le tecniche agricole e di allevamento erano ormai consolidate». Le incisioni mostrano un livello artistico eccezionale, non è vero? «Sí. Tra le incisioni, c’è un cerbiatto che si gira a guardare indietro, mentre procede in avanti, che ha una plasticità incredibile. La resa del movimento è straordinaria. Sebastiano distingueva tra arte (questa) e industria (gli strumenti del lavoro). C’è una bellissima raffigurazione di un toro che insegue una vacca. I bovidi sono sempre di profilo e presentano un solo corno. Ci sono anche due ciottoli dipinti con righe parallele. Il distacco di un frammento di roccia ha permesso la datazione delle

violino oppure a cilindro, non siano casuali, ma, nella loro ripetizione numerica e tipologica, rappresentino qualcosa di reale, come la dotazione liturgica di uno sciamano. Vuol dire che sulle pareti interne della cavità venivano ricordati i riti praticati da uno sciamano con idoli reali? «Questa è l’ipotesi a cui è arrivato Sebastiano confrontando gli idoli della Grotta di Cala Genovese con altri esempi noti. Le figure di idoli compaiono tre volte e sempre in numero di cinque: tre del tipo “a violino” e due cilindrici. Potrebbero indicare oggetti realmente esistiti, il corredo di uno sciamano che operava nella grotta. D’altronde, in Sicilia, per il medesimo periodo, conosciamo idoli del tutto identici a

A destra: Sebastiano Tusa (1952-2019) a bordo della Hercules durante una delle campagne di ricerca condotte con la RPM Nautical Foundation per localizzare il sito della battaglia delle Egadi.


quelli raffigurati nella grotta in questione. Nella Grotta di Camaro si ripete la medesima variabilità tipologica, con la presenza del tipo a “violino” e cilindrico. Sebastiano notava come l’idolo a “violino”, di ascendenza egeo-balcanica, rappresentasse l’elemento femminile, mentre quello cilindrico, di origine maltese, potrebbe rappresentare l’elemento maschile. La funzione dei dipinti era quella di descrivere il mondo, tramandare gli elementi che componevano la loro vita: è una storia non scritta». La Grotta di Cala del Genovese a Levanzo contiene anche numerosi resti di pasto dell’uomo preistorico, come molluschi e chiocciole… «Sí, patelle e gasteropodi, le stesse rinvenute anche nella grotta dell’Uzzo a San Vito Lo Capo da Sebastiano. Le comunità del tempo si cibavano dei prodotti del mare, non praticavano l’allevamento. Le isole di Favignana e Levanzo erano collegate aTrapani; Marettimo invece era un’isola: con le glaciazioni iniziò ad affiorare il mare». I ritrovamenti subacquei di fronte a Cala Minnola, a nord di Levanzo, hanno permesso di identificare il luogo in cui si svolse la battaglia delle Egadi – grazie alla quale i Romani vinsero la prima guerra punica, nel 241 a.C. –, nonché di recuperare le ancore e i rostri delle navi che la combatterono. Ci racconta le ultime novità? «Sono contenute nella pubblicazione curata dalla Fondazione Sebastiano Tusa, La Battaglia delle Egadi e la fine della prima guerra punica, volume scritto da Jeffrey G. Royal e Sebastiano Tusa (“L’Erma” di Bretschneider, 2020) e pubblicato in inglese cosí come lo aveva realizzato mio marito, con il titolo The Site of the Battle of the Aegates Islands at the end of the First Punic War. Fieldwork, analyses and perspectives, 2005-2015. Un’opera importante, che ha sancito tutto

quello che ha fatto fino alla sua scomparsa. Lui partiva dallo studio delle fonti, si confrontava con i pionieri della subacquea, anche con i pescatori del luogo, che gli dissero che a Cala Minnola c’era un numero abnorme di ancore romane di piombo sul fondale, piú di cento. “Strano – pensò – Non è un luogo di ancoraggio, perché esposto alle correnti, deve essersi verificato un evento straordinario”. Sebastiano intuí che quel ritrovamento era legato alla battaglia delle Egadi, immaginò che i Romani avessero tranciato le cime e lasciato le ancore a mare per partire piú velocemente e andare incontro alla flotta cartaginese. I nemici da Marettimo volevano raggiungere Erice, sulla terraferma, per portare aiuto ai Cartaginesi sotto assedio. Il comandante romano Lutazio Catulo andò incontro ai Cartaginesi e li sconfisse, nel 241 a.C., ponendo fine alla prima guerra punica». Ma la conferma scientifica arrivò dalle analisi effettuate sott’acqua… «Sebastiano invitò la RPM Foundation, dotata di una nave oceanografica, per realizzare una ricerca accurata del fondale delle Egadi: trovò piú di 20 rostri, elmi e la testimonianza tangibile della battaglia. Riscrisse una pagina di storia. Fino allora si pensava che la battaglia delle Egadi si fosse svolta a Cala Rossa, a Favignana, dal toponimo che indica il rosso del sangue. Lui, invece, individuò il luogo esatto della battaglia: fu una scoperta sensazionale».

Qual è, dunque, il teatro dello scontro? «I rostri sono stati rinvenuti nelle acque a nord di Capo Grosso, tra Marettimo e Levanzo: quello è il punto esatto in cui le flotte combatterono. Il Museo della battaglia delle Egadi, realizzato da Sebastiano all’interno dell’ex Stabilimento Florio a Favignana, presenta un’esaustiva esposizione didattica dell’evento, con l’esposizione dei rostri, degli elmi e dei reperti provenienti dalla battaglia, e un’installazione multimediale che permette al visitatore di immergersi nello scontro e di ascoltare le riflessioni dei due comandanti, rispettivamente, dei Romani e dei Cartaginesi: Lutazio Catulo e Annone. Il primo, dopo la battaglia, eresse a Roma il tempio di Giuturna (nell’area dell’odierno largo Arenula), come Sebastiano amava sempre raccontare; Annone invece fu ucciso al suo rientro con la flotta a Cartagine. Da Soprintendente del Mare, continuai le ricerche insieme all’Università di Malta: in piena pandemia da Covid, in questo specchio d’acqua trovammo un’ingente quantità di reperti, tra cui paragnatidi, proiettili in piombo e rostri. Nell’agosto 2021 abbiamo recuperato cinque rostri, l’ultimo è stato ripescato dalla Soprintendenza nell’estate 2022. Nel dicembre 2021, con il sindaco di Favignana, abbiamo ampliato il Museo della Battaglia delle Egadi, aggiungendo un’area intitolata a

Uno dei rostri esposti nel Museo della battaglia delle Egadi di Favignana.

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A COLLOQUIO CON STEFANO VINCIGUERRA

Una distesa senza fine di anfore «Quando ci siamo immersi per la prima volta non credevo ai miei occhi», racconta di Stefano Vinciguerra, responsabile del nucleo subacqueo della Soprintendenza del Mare, video-operatore e fotolografo subacqueo, che ha seguito tutte le scoperte archeologiche fatte sui fondali delle Egadi, dalla prima (nel 1995), fino alle ultime, che stiamo raccontando, al fianco di Sebastiano Tusa e Valeria Li Vigni. E ricorda bene la scoperta del relitto di Cala Minnola, sull’isola di Levanzo: una distesa di anfore che prosegue ancora oggi a perdita d’occhio sul fondale, appartenente a una nave romana che giace sulla sabbia inesplorata. Il sito oggi è visibile grazie a percorsi archeologici subacquei organizzati dai centri diving autorizzati delle Egadi. «Quella fu la prima scoperta programmata con ricerche strumentali. Sebastiano Tusa inseguiva le segnalazioni dei sub locali per individuare il luogo della battaglia delle Egadi. Aveva parlato con Nitto Mineo, un subacqueo di Levanzo che lavorava nella tonnara di Favignana e si immergeva con Cece Paladino, altro pioniere dell’archeologia subacquea siciliana: questi gli aveva riferito che a Cala Minnola c’era una catasta di anfore antiche. Immensa, diceva. I sub ne facevano razzia, alcune le vendevano. Altre le regalavano. Le anfore erano cosí tante – raccontava – che venivano regalate ai turisti». Anfore romane come souvenir, insomma? «Sí, immaginate quante dovevano essere! Erano tempi in cui i reperti sommersi erano tanti, ostaggio di saccheggi selvaggi. Alla

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prima immersone subacquea, abbiamo trovato tre frammenti. Poi abbiamo individuato il vero carico sommerso con le prospezioni radar della nave oceanografica. Una distesa senza fine. Io ho fatto sondaggi subacquei fino a meno 45 m: la “discesa” delle anfore prosegue ancora verso il fondo, blu profondo, senza una fine: ci sarebbe ancora tanto da scavare. Abbiamo trovato anche la sentina di una nave antica: è ancora tutto lí, in fondo al mare. Il sito è visibile da terra, con il telerilevamento, e in immersione, con percorsi archeologici subacquei». Come operatore subacqueo, si è occupato anche del recupero dell’unica anfora con iscrizione ritrovata a Levanzo, non è vero? «Sí, è un altro progetto a cui stava lavorando Sebastiano Tusa. Ritrovammo un’anfora con l’iscrizione “PAPIA». Decidemmo di lasciarla sul fondo del mare, poiché rappresentava un valore aggiunto nel percorso archeologico di Cala Minnola, un sito davvero di impatto. Si tratta di un relitto romano mai toccato, che giace come duemila anni fa: lo abbiamo appena liberato dalla sabbia. Dovrebbe trattarsi del carico di un’imbarcazione che trasportava prodotti alimentari, non di una nave da guerra. Lasciammo l’anfora in fondo al mare, ma negli anni se ne persero in parte le tracce. Dal telerilevamento mi accorsi che i diving la cercavano nel punto sbagliato, quando volevano mostrarla ai turisti. L’anfora iscritta non si trovava piú… Sebastiano aveva intenzione di recuperarla, ma morí. La prima operazione che abbiamo fatto con Valeria Li Vigni, quando nel 2019


divenne Soprintendente del Mare, fu recuperare quell’anfora: solo io sapevo dove era. La trovammo: era stata spostata appena, non si vedeva piú la scritta. Capimmo che era stato rischioso lasciarla in acqua, l’iscrizione era in parte erosa». E le ancore di Lutazio Catulo, invece, dove sono adesso? «Sempre sott’acqua, a Capo Grosso, di fronte al Faro di Levanzo. Non lontano abbiamo rinvenuto i rostri. Ne abbiamo tirati fuori circa una ventina, a una profondità tra i 60 e gli 80 m». Mi racconta del rostro in elicottero? «Era l’unico modo possibile per trasportare un rostro sull’isola di

Marettimo, la piú lontana e inaccessibile. L’isola reclamava un rostro. Non sapevamo dove esporlo, in piazza non c’era posto. Mi sono occupato personalmente del rocambolesco trasporto fino al Castello di Punta Troia, in cima all’isola, raggiungibile solo dal mare e con un tortuoso sentiero che si inerpica sulla montagna. Con l’aeronautica militare organizzai il trasporto in elicottero: fu una festa quando il rostro atterrò sulla cima dell’isola». Quanto pesa il rostro che avete fatto «volare» a Marettimo? «Intorno ai 220 kg, compresa la pedana lignea. Le avventure piú belle sono proprio quelle impossibili!».

In alto: particolare dell’anfora recante il bollo «PAPIA» facente parte dell’eccezionale deposito individuato nell’area di Cala Minnola (vedi foto alla pagina accanto). In basso: figura antropomorfa nella Grotta del Genovese. Sebastiano Tusa, nella quale sono esposti gli ultimi materiali recuperati, corredati da un video documentario sul rinvenimento». Che cosa raccontano le iscrizioni romane e puniche ancora visibili sulla superficie bronzea dei rostri? «Dopo aver fatto il giro del mondo in molteplici mostre, tutti i rostri sono ora riuniti nel museo di Favignana, eccetto cinque esemplari esposti a Messina, al Regio Arsenale di Palermo, a Levanzo e sul castello di Punta Troia a Marettimo. Sono ancora oggi ben leggibili le iscrizioni romane, a rilievo o incise, e quelle (piú rare) puniche. I Romani scrivevano il nome del questore che aveva attestato la bontà dell’esecuzione

del rostro, cosa che denota la grande istituzionalità della flotta romana, che veniva armata anche grazie alle donazioni dell’oro di privati cittadini. I Cartaginesi, invece, incidevano invocazioni propiziatorie per la battaglia. Nel rostro III, punico, si legge “Possa Baal far penetrare quest’arma nella nave nemica”». E poi ci sono le telecamere che avete installato sott’acqua per monitorare i percorsi archeologici… «A Cala Minnola abbiamo realizzato il primo itinerario di archeologia subacquea dotato di un sistema di telerilevamento che permette di vedere in tempo reale il relitto e la distesa di anfore, anche questa un’idea di Sebastiano. Inizialmente

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LA GROTTA DEL GENOVESE

Benedetta curiosità La Grotta del Genovese, sull’isola di Levanzo, è accessibile in barca – da terra, in caso di maltempo – con escursioni organizzate. A condurre all’interno della cavità è Natale Castiglione, «custode» e guida delle visite turistiche, nonché proprietario del terreno su cui si trova il sito archeologico. Ha lavorato al fianco di Sebastiano Tusa dal 1996, fino a una settimana prima della scomparsa dell’archeologo, che aveva il desiderio di aprire un museo a Levanzo. La prima cosa che racconta Natale ai visitatori, dopo aver consegnato loro il caschetto, è la rocambolesca scoperta delle pitture rupestri, nel 1949… «La grotta era conosciuta da sempre dagli abitanti dell’isola, ma nessuno vi era mai entrato. La prima a scoprire le pitture rupestri, nell’autunno del 1949, fu una ragazza di Firenze, Francesca Minellono, che strisciando a terra nel piccolo pertugio, entrò nella grotta, si spinse oltre e… con una candela illuminò le pitture». Gli abitanti dell’isola, invece, sapevano da sempre dell’esistenza della grotta, ma non vi erano mai entrati, non è vero? «Fino al 1949 nessuno si era mai spinto oltre i primi due metri della grotta. I locali sapevano della spelonca, ma a loro interessava per i conigli: la grotta era piena di tane. Sull’isola non c’era carne, non essendoci allevamento. C’era solo una piccola apertura, un basso cunicolo, a cui si accedeva strisciando pancia a terra. Gli isolani entravano nel primo tratto e si fermavano. Era buio. Per cacciare i conigli, si servivano del furetto (una varietà della puzzola, n.d.r.), che, spingendosi all’interno della grotta, stanava i conigli facendoli fuggire all’esterno, dove venivano catturati e mangiati. La turista fiorentina, avendo fatto amicizia con i locali e saputo della grotta si incuriosí: non si sapeva dove finisse la spelonca, né cosa ci fosse in fondo. Accompagnata da uno del posto, si spinse all’interno: trovò gusci di chiocciole, punteruoli di ossidiana (delle isole Eolie), fin quando, accesa una candela, illuminò le pitture rupestri. Si rese conto di essere di di fronte a qualcosa di grandioso e antichissimo e mostrò i materiali a Paolo Graziosi, archeologo fiorentino, che l’anno successivo, nel 1950, condusse il primo scavo archeologico, recuperando numerosi strumenti di ossidiana e

selce, patelle e conchiglie, che sono ora esposti al Museo delle Egadi, sull’isola Favignana, e al museo Salinas di Palermo». In effetti, al di fuori della grotta, c’è un tappeto di resti di antichi pasti… «Sí, sono tutti resti di cibo preistorico: negli scavi stratigrafici è stata rinvenuta una miriade di chioccioline (lumache), patelle ferruginee (molto piú grandi di quelle attuali) e ostriche. Nel primo periodo gli abitanti della grotta erano solo cacciatori, poi diventano anche raccoglitori di molluschi. Però già si esprimevano con l’arte: le incisioni sulle pareti della grotta, che sono databili a 12-13 mila anni fa (a differenza delle figure dipinte in nero che si datano a 7-8mila anni fa), sono realizzate con un unico segno. Un tratto che si interrompe solo pochissime volte, in una figura, e in modo praticamente invisibile: i rilievi effettuati con il microscopio a scansione 3D mostrano che nei disegni incisi a rilievo ci sono pochissime interruzioni, al massimo 4 o 5 a figura. Chi frequentava la Grotta del Genovese possedeva un’abilità eccezionale nel fermarsi e riprendere il tratto. Questa è arte». Siete voi, oggi, a curare la manutenzione e la gestione della Grotta del Genovese, non è vero? «Sí. Ci occupiamo della visita e della manutenzione del sito: controlliamo periodicamente l’interno della grotta e facciamo manutenzione dell’area esterna, del verde, della recinzione e della sentieristica, che viene cancellata ogni anno dalle piogge. C’è una sinergia virtuosa tra privato e pubblico, tra noi e il Ministero della Cultura. Le visite si svolgono al mattino ed è obbligatoria la prenotazione on line sul sito www.grottadelgenovese.it; per informazioni, si può chiamare il numero +39 331 13 30 259».

In alto: la Grotta del Genovese sull’isola di Levanzo. le telecamere posizionate sott’acqua restituivano l’immagine dei reperti all’interno del comando della polizia municipale di Favignana: cosí, nello stesso tempo, i turisti vedevano il relitto e le forze dell’ordine, che ci hanno sempre coadiuvato, controllavano.

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Ora le telecamere sono gestite dai vari centri diving delle Egadi, seguendo la volontà di Sebastiano. Mio marito amava coinvolgere il territorio, che col tempo è diventato il primo soggetto operativo della tutela di questi beni. Oggi a Cala Minnola si fanno immersioni lungo

itinerari archeologici provvisti di telecamere, che vengono pulite e manutenute dagli stessi centri diving. In caso di violazione del patrimonio archeologico, sono loro ad avvisare la Soprintendenza del Mare, in un sistema virtuoso di videocontrollo».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

VIAGGIO IN ETRURIA Lo scrittore inglese David Herbert Lawrence (18851930) deve la sua notorietà soprattutto al romanzo L’amante di lady Chatterley (1928), ma è meno noto come cronista di viaggi. Tra questi resoconti, il piú 1 2 3 famoso è Etruscan places (Luoghi etruschi), in cui diede conto del giro compiuto in Etruria compiuto nel 1927 insieme all’amico Earl Brewster. L’opera fu pubblicata, postuma, nel 1932, ed è oggetto della puntata di questo mese della serie dedicata alla letteratura archeologica (vedi alle pp. 58-65). Non si tratta dunque di un romanzo, ma di un vero e proprio diario di viaggio, nella cui prefazione Lawrence 4 5 inquadra geograficamente l’Etruria (1), racconta di come sia stato catturato dalla civiltà etrusca dopo la visita al museo di Perugia, avvenuta anni prima, e di come avesse avversato le tesi di uno storico del calibro di Theodor Mommsen (2), che sosteneva la marginalità della civiltà 6 7 8 etrusca confrontata a quella di Roma. Le cose cambiarono all’indomani della scoperta dell’Apollo di Veio, nel 1916, statua appartenente a un gruppo comprendente anche Hermes (3); la cultura etrusca venne rivalutata e Lawrence se ne fece paladino, avvicinandosi al pensiero di un altro 9 10 11 famoso scrittore, Stendhal (4). Ripercorriamo, allora, luoghi e oggetti citati dall’autore partendo dalla prima tappa del suo tour: Cerveteri. Qui visitò la necropoli della Banditaccia (5), dove, tra gli altri, fu rinvenuto il celebre Sarcofago degli Sposi (6), oggi nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma. Lawrence riuscí anche a vedere, nella necropoli del Sorbo, la Tomba Regolini-Galassi, 12 13 che ha restituito numerosi gioielli in oro, fra cui una spettacolare fibula da parata, che si può oggi ammirare nei Musei Vaticani (7). A Tarquinia (8), seconda tappa del viaggio, visitò soprattutto le tombe dipinte della necropoli dei Monterozzi: quelle del Triclinio (9), dei Leopardi (10), dei Tori, con la scena dell’agguato di Achille a Troilo (11), e quella dell’Orco, 14 15 su una cui parete è dipinto il ritratto della fanciulla Velca (12). Lawrence e Brewster si spostarono poi a Montalto di Castro, per raggiungere IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere l’antica Vulci, da dove provengono gioielli in alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai oro, come questa borchia, raffigurante Capaneo seguenti indirizzi: colpito da Zeus (13). Ultima tappa fu Volterra: i Segreteria c/o Luciano Calenda due viaggiatori visitarono la cittadina e Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa rimasero colpiti da diversi monumenti, tra i quali Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma la Cattedrale (14), e dai molti reperti del locale segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it museo (15), intitolato a Mario Guarnacci. oppure www.cift.it

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INCONTRI Paestum

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

UN ANNIVERSARIO IMPORTANTE

L

a XXV Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà da giovedí 2 a domenica 5 novembre 2023 a Paestum presso il Next (ex Tabacchificio), il Parco e il Museo, la Basilica. La Borsa con la sua prima edizione, dal 12 al 14 novembre 1998, anticipò l’ambito inserimento dei siti archeologici di Paestum e Velia nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO – nell’ambito del riconoscimento attribuito al Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, oggi anche Alburni – che sarebbe avvenuto a Kyoto nella 22a Sessione ordinaria dell’UNESCO in programma dal 30 novembre al 5 dicembre. Pertanto, l’edizione 2023 assume una particolare importanza, in quanto la BMTA celebra il venticinquesimo anniversario, condividendolo con il Parco Archeologico di Paestum e Velia quale Patrimonio dell’Umanità UNESCO. La BMTA mira a valorizzare Parchi e Musei Archeologici, promuovere destinazioni turistico-archeologiche, favorire la commercializzazione, contribuire alla destagionalizzazione e incrementare le opportunità economiche e gli effetti occupazionali. La Borsa è l’unico appuntamento al mondo che consente l’incontro delle Organizzazioni Governative, delle Istituzioni e degli Enti Locali con il business professionale, gli addetti ai lavori, i viaggiatori, gli appassionati, il mondo scolastico e universitario, i media. La BMTA si conferma un rilevante momento di approfondimento e divulgazione di temi inerenti il turismo culturale e la fruizione, gestione e valorizzazione dei beni culturali, un grande contenitore con 16 sezioni: ArcheoExperience, i Laboratori di Archeologia Sperimentale per la divulgazione delle tecniche utilizzate dall’uomo per realizzare i manufatti di uso quotidiano; ArcheoIncoming, spazio espositivo con i tour operator specialisti del turismo archeologico e presentazione delle destinazioni; ArcheoIncontri per conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento post diploma e post laurea a cura delle Università; ArcheoStartup, presentazione di neo imprese per l’innovazione nel turismo culturale e nella valorizzazione dei beni culturali in collaborazione con Associazione Startup Turismo; ArcheoVirtual, Workshop e Mostra multimediale incentrati sulle applicazioni digitali e sui progetti di archeologia virtuale in collaborazione con ISPC Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del CNR; Conferenze, in cui Organizzazioni Governative e di Categoria, Istituzioni

ed Enti Locali, Associazioni Culturali e Professionali si confrontano su promozione del turismo culturale, valorizzazione, gestione e fruizione del patrimonio; Incontri con i Protagonisti, il grande pubblico con i piú noti Divulgatori culturali, Archeologi, Direttori di Musei, Accademici, Giornalisti; International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio alla scoperta archeologica dell’anno intitolato all’archeologo già Direttore del sito di Palmira; Premio «Antonella Fiammenghi», per la migliore tesi di laurea sul turismo archeologico o sulla BMTA; Premio «Paestum Mario Napoli», a coloro che contribuiscono alla valorizzazione del patrimonio e al dialogo interculturale; Premio «Sebastiano Tusa», alla scoperta archeologica subacquea, alla carriera, alla mostra dalla valenza scientifica internazionale, al progetto piú innovativo, al contributo giornalistico in termini di divulgazione; Targa «Claudio Mocchegiani Carpano», alla migliore tesi di laurea sull’archeologia subacquea; Salone Espositivo delle destinazioni turistico-archeologiche su 4000 mq; visite guidate gratuite per relatori, giornalisti e visitatori alle aree archeologiche di Paestum e Velia; Workshop tra la domanda europea selezionata dall’Enit e nazionale dei tour operator specialisti e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Per info: www.bmta.it

La consegna a Zahi Hawass, a Paestum, dell’8° International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», nel 2022.

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CALENDARIO

Italia ROMA L’istante e l’eternità

Tra noi e gli antichi Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 30.07.23

Gli Dei ritornano

I bronzi di San Casciano Palazzo del Quirinale fino al 25.07.23 e dal 02.09.23 al 29.10.23

L’Amato di Iside

Nerone, la Domus Aurea e l’Egitto Domus Aurea fino al 14.01.24

Caere

Storie di dispersione e di recuperi Museo delle Antichità Etrusche e Italiche, «Sapienza» Università di Roma fino al 28.02.24

BOLOGNA Gli Assiri all’ombra delle Due Torri

Vita dulcis

Paura e desiderio nell’impero romano Palazzo delle Esposizioni fino al 27.08.23

Un mattone iscritto della ziggurat di Kalkhu in Iraq e gli scavi della Missione Archeologica Iracheno-Italiana a Ninive Museo Civico Medievale fino al 17.09.23

BRESCIA Luigi Basiletti e l’Antico

Brescia, palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 03.12.23

Il Pugile e la Vittoria

Brixia. Parco archeologico di Brescia romana fino al 29.10.23 (dal 12.07.23)

CANINO (VITERBO) La «prima» Vulci

All’origine della grande città etrusca Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.12.23

Lex

Giustizia e diritto dall’Etruria a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 10.09.23

Imago Augusti

Due nuovi ritratti di Augusto da Roma e Isernia Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 26.11.23

La Roma della Repubblica Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.09.23

Bronzo e oro

Roma, Papa Innocenzo III: racconto immersivo di un capolavoro Vittoriano, Sala Zanardelli fino al 01.10.23 36 a r c h e o

CAPO DI PONTE (BRESCIA) Sotto lo stesso sole Europa 2500-1800 a.C. MUPRE-Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica fino al 30.09.23

FERRARA Case di vita

Sinagoghe e cimiteri in Italia Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 17.09.23

MILANO La stele di Vicchio

Fondazione Luigi Rovati, Piano Ipogeo fino al 16.07.23

Isola Bisentina. Lago di Bolsena Fondazione Luigi Rovati, Padiglione d’arte fino al 03.09.23


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Le vie dell’acqua a Mediolanum Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

NAPOLI Alessandro Magno e l’Oriente Museo Archeologico Nazionale fino al 27.08.23

Picasso e l’antico

Museo Archeologico Nazionale fino al 27.08.23

Bizantini

Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica fino al 28.08.23

Il dono di Thot

Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23

Contrappeso di collana (menat) in bronzo. 880 a.C.

VENEZIA Imago iustitiae

Capolavori attraverso i secoli Museo Correr fino al 03.09.23

VIGEVANO La Collezione Strada

Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23

Francia PARIGI Ramesse e l’oro dei faraoni Grande Halle de la Villette fino al 06.09.23

PORTICI (NAPOLI) Materia

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23

Germania BERLINO Aes corinthium

Il segreto del rame nero Staatliche Museen, Neues Museum fino al 27.08.23

Grecia ATENE Ritorno a casa TAORMINA Palinsesti

Il Teatro antico di Taormina: dalla storia al mito Teatro antico fino al 31.10.23

TORINO Frammenti di storia: Eliopoli si racconta Ciclo «Nel laboratorio dello studioso» Museo Egizio fino al 06.08.23

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Regno Unito LONDRA Lusso e potere

Dalla Persia alla Grecia British Museum fino al 13.08.23 a r c h e o 37


ET LA TU À R CL CH AS IA SI IN CA

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

TURCHIA EGEA ALLA SCOPERTA DELLE MERAVIGLIE DELL’ANATOLIA CLASSICA di Fabrizio Polacco

TROIA • EFESO • PERGAMO • MILETO • AFRODISIA ALICARNASSO • PRIENE • XANTHOS


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Veduta della città di Side, in Panfilia. In primo piano, il teatro romano.

a Turchia possiede un patrimonio culturale di straordinaria ricchezza e, per quanto riguarda l’archeologia, la sua porzione piú consistente si concentra nelle regioni bagnate dal Mar Egeo. Come grani di uno sfavillante diadema, lungo le coste che si snodano dallo Stretto dei Dardanelli al Golfo di Antalya e nel loro immediato entroterra si succedono siti e città di eccezionale rilevanza storica, architettonica e artistica: da Troia a Pergamo, da Smirne a Efeso, da Mileto ad Afrodisia... Centri toccati dal viaggio che Fabrizio Polacco propone nella nuova Monografia di «Archeo», sottolineando, di volta in volta, il ruolo svolto da ciascun insediamento nel corso delle vicende succedutesi nell’arco di molti secoli e le testimonianze che di quegli eventi si possono ancora oggi ammirare. Del resto, la Turchia egea fu teatro di avvenimenti davvero epocali, basti pensare alla guerra di Troia o alla realizzazione del mausoleo di Alicarnasso (oggi Bodrum), considerato una delle Sette Meraviglie dell’antichità. Un itinerario avvincente, dunque, costruito sulle puntuali descrizioni dei siti – frutto della personale conoscenza dei luoghi che l’autore ha acquisito nel corso di ripetuti soggiorni – alle quali si affianca un ricco corredo fotografico e cartografico.

GLI ARGOMENTI

• TRACIA E DARDANELLI • TROADE • MISIA E LIDIA • IONIA • DORIDE E CARIA • LICIA

in edicola

• PANFILIA a r c h e o 39


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VACANZE ROMANE

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MUSEI CAPITOLINI, PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI, TERME DI DIOCLEZIANO: ECCO LE SEDI DI TRE MOSTRE TRA STORIA, ARCHEOLOGIA E ARTE CONTEMPORANEA, ASSOLUTAMENTE DA NON PERDERE... a cura di Andreas M. Steiner e Stefano Mammini Terrecotte architettoniche dalla via Latina. Inizi del I sec. a.C. Roma, Musei Capitolini, Antiquarium. Il restauro dei frammenti ha permesso di ricostruire un frontone che comprendeva la Triade Capitolina formata da Giove, Giunone e Minerva.

UNA SOCIETÀ SI RACCONTA Forte di molti e importanti materiali inediti, «La Roma della Repubblica» ripercorre le vicende dell’Urbe in un periodo cruciale della sua storia. E lascia la parola a reperti «umili», ma non per questo meno significativi di Andreas M. Steiner

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a mostra in corso a Palazzo Caffarelli (Musei Capitolini) merita particolare attenzione per una serie di elementi che, a prima vista, potrebbero anche sfuggire al visitatore distratto dalla grandiosità e dal numero impressionante di capolavori conservati nelle sale di quel museo straordinario. Ideata da Isabella Damiani e Claudio Parisi Presicce, l’esposizione è intitolata «La Roma della Repubblica. Il racconto dell’archeologia» e proprio su questo secondo enunciato vale soffermarsi: si tratta, a tutti gli effetti, di una mostra eminentemente archeologica, resa possibile grazie alla presenza di a r c h e o 41


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A sinistra: ipotesi ricostruttiva della decorazione di una lastra di rivestimento del frontone del Tempio A dell’Area Sacra di Largo Argentina. III-II sec. a.C. Roma, Musei Capitolini, Antiquarium.

collezioni di proprietà comunale, conservati nei magazzini e nei musei della Sovrintendenza e che hanno permesso di ricostruire contesti per lo piú inediti, se non attraverso la bibliografia specialistica. Scelti, analizzati e ricomposti, questi contesti archeologici sono stati cosí riuniti per la prima volta per comporre un «racconto» che illustri gli aspetti salienti della società romana e delle sue trasformazioni lungo un periodo che va dal V alla metà del I secolo a.C. Il percorso espositivo è articolato in tre sezioni principali (1. santuari e palazzi, 2. produzioni e commerci, 3. manifestazioni di identità, prestigio e ascesa sociale) e i materiali esposti sono manufatti in bronzo, pietra locale, in rari casi marmo, ma 42 a r c h e o

soprattutto in terracotta e ceramica. «Si tratta – spiega Claudio Parisi Presicce, direttore dei Musei Capitolini – di circa 1800 oggetti quasi mai visti in precedenza, pochissimi infatti sono quelli conosciuti al pubblico. La loro presentazione è il risultato di un lunghissimo lavoro di recupero, di restauro e di studio». I reperti provengono, per lo piú dalle casse dell’Antiquarium e sono stati per la prima volta restaurati.

UN QUADRO VIVIDO «In mostra non ci sono capolavori – prosegue il professor Parisi Presicce –, non abbiamo nomi di autori o committenti noti dalle fonti. I nostri oggetti tracciano un quadro vivido della quotidianità nel periodo compreso tra il 509 e il 44 a.C.

Abbiamo, cosí, le testimonianze della vita delle persone, sia per quanto riguarda la sfera del sacro, sia quella dei luoghi fisici in cui si svolgeva la loro esistenza, le abitazioni e le altre infrastrutture costruite per il bene dei cittadini. Altrettanto presenti sono le testimonianze che riguardano la produzione manifatturiera destinata alle classi piú popolari della città». L’iniziativa forse piú sorprendente presentata in mostra riguarda la ricomposizione di un frontone in terracotta rinvenuto in pezzi nei pressi di via Latina: «La storia di questo frontone – spiega Parisi Presicce – è molto particolare: la scoperta risale al 1876, e gli oltre 260 frammenti emersi – databili al I secolo a.C. – finirono subito sul mer-


cato antiquario e furono acquistati dall’archeologo Gian Francesco Gamorrini, all’epoca direttore del Museo di Antichità di Firenze. Nel 1885 fecero ritorno a Roma, grazie all’intervento della Commissione Archeologica Comunale. Da allora il complesso è rimasto in gran parte inedito. Oggi, dai frammenti è stato possibile ricostruire la triade capitolina – Giove, Giunone e Minerva – a dimensione naturale e attribuire i restanti frammenti ad altre otto figure che dovevano comporre il triangolo frontonale». Al materiale pertinente alle collezioni dell’Antiquarium si aggiunge una scelta, rilevante per qualità, di opere conservate alla Centrale Montemartini, tra le quali spiccano l’urna in marmo dall’Esquilino, la

In alto, sulle due pagine: un particolare dell’allestimento della mostra, realizzato su progetto dell’architetto Roberta De Marco.

Bronzo raffigurante un capro, dal Castro Pretorio, via Magenta (1878). Fine del VI-inizi del V sec. a.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. a r c h e o 43


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piccola scultura di capro in bronzo da via Magenta e i resti di affresco dalla cosiddetta Tomba Arieti. Dal settore museale del Campidoglio proviene infine una selezione di ritratti di età tardo-repubblicana, in parte esposti nelle sale dei Musei Capitolini, in parte solitamente conservati nei magazzini.

UNA PAZIENTE RICOSTRUZIONE Un altro, lungo lavoro di ricomposizione documentato in mostra riguarda la proposta di ricostruzione di quattro fasi decorative dei templi di Largo Argentina: «Dai Romani di oggi – spiega Isabella Damiani - l’area è percepita come un grande spartitraffico al centro della città e sono in pochi a sapere che da quest’area provengono centinaia e centinaia di terrecotte architettoniche. Su queste si è lavorato rico-

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struendo l’originale policromia, per arrivare a proporre una sequenza decorativa dei frontoni». La mostra pone l’attenzione, inoltre, su un aspetto per lo piú trascurato nell’ambito delle trattazioni sulla Roma repubblicana, quello della

devozione popolare alle divinità salvifiche, cosí ben testimoniata dai depositi votivi. Un pannello della mostra riporta, a questo proposito, un passo tanto ironico quanto rivelatore, di Cicerone: «Come, dunque, è plausibile che gli ammalati chiedano la

In alto e in basso: altri particolari dell’allestimento della mostra. La foto in basso mostra l’allestimento dei materiali dal deposito votivo di Minerva Medica. Nella pagina accanto, a destra: antefissa in terracotta con la raffigurazione di una Signora degli Animali (Potnia Theron), dall’Area Sacra di Largo Argentina. 300-50 a.C. Roma, Musei Capitolini, Antiquarium.


cura la cura all’interprete dei sogni anziché al medico? (...) E se Minerva prescriverà la medicina senza bisogno del medico, le Muse non daranno in sogno la capacità di scrivere, di leggere, di esercitare le altre arti?» Si tratta della testimonianza «alta» di un credo e di una pratica diffusi alla metà del I secolo a.C., quella di rivolgersi agli dèi piuttosto che ai medici. L’esempio forse piú importante è rappresentato dal deposito votivo dedicato a Minerva Medica all’Esquilino. Scoperto alla fine dell’Ottocento, è oggi esposto per la prima volta: in mostra si possono esaminare circa 300 degli oltre 1000 oggetti, tra parti del corpo umano o anche figure intere, rappresentazioni del gruppo familiare e immagini della divinità stessa, realizzate in terracotta, offerte alla dea al fine di ottenere da essa salute e discendenza. Oltre a questa imponente testi-

monianza del rapporto tra il fedele e la divinità, ai Capitolini sono esposti anche i resti di depositi coevi, quello del Campo Verano e a quelli individuati negli anni Trenta del secolo scorso durante lo sbancamento della collina Velia e presso il Mitreo del Circo Massimo. Aperta ancora fino al prossimo 24 settembre, «La Roma della Repubblica» rappresenta, dunque, il risultato di un lungo lavoro archeologico, svolto con metodi di indagine tradizionali, ma anche avvalendosi di tecniche ricostruttive assolutamente innovative. Doveroso è, inoltre, menzionare l’altrettanto innovativo e riuscitissimo allestimento dell’esposizione, realizzato dall’ar-

chitetto Roberta De Marco, senza il quale i tanti ma «umili» reperti della quotidianità di oltre duemila anni fa forse non sarebbero stati in grado di dar voce, con pari efficacia, a quel loro straordinario «racconto». DOVE E QUANDO «La Roma della Repubblica. Il racconto dell’Archeologia Roma, Musei Capitolini-Palazzo Caffarelli fino al 24 settembre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.zetema.it; www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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MOSTRE • ROMA

L’ATTIMO FUGGENTE Il nostro rapporto con l’antichità è l’esito di un processo stratificatosi nei secoli. Riletto grazie alle oltre 300 opere riunite nelle Aule delle Terme di Diocleziano di Stefano Mammini

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immagine, potente, di due vittime dell’eruzione che nel 79 d.C. devastò Pompei e i centri dell’area vesuviana accoglie il visitatore all’inizio del percorso della mostra «L’istante e l’eternità.Tra noi e gli antichi», allestita nelle recuperate Grandi Aule delle Terme di Diocleziano, una delle sedi del Museo Nazionale Romano. I resti dei due sventurati sono stati individuati di recente nel corso degli scavi condotti nella villa

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Busto in argento di Lucio Vero. 161-169 d.C. Torino, Museo di Antichità. In basso: calchi di due vittime dell’eruzione di Pompei all’inizio del percorso espositivo.

Nella pagina accanto: la Tabula Chigi. I sec. a.C.I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.


in località Civita Giuliana, nel suburbio di Pompei, dalla quale proviene un altro dei reperti di maggior pregio fra gli oltre trecento selezionati per l’esposizione, ma del quale si dirà piú avanti. I calchi in resina ricavati dalle impronte lasciate nelle ceneri vulcaniche dai due ignoti defunti costituiscono una sintesi efficace del concetto che si è voluto esplicitare nel titolo di questa rassegna: la pioggia dei lapilli li ha fermati nel loro ultimo istante di vita e, al tempo, il deposito formatosi in seguito al raffreddamento dei materiali piroclastici li ha consegnati, come decine di altri, all’eternità.

resi possibili dall’accostamento e dalla giustapposizione di materiali che abbracciano un vastissimo orizzonte cronologico – oltre cinquemila anni – e che, per tutti i principali temi selezionati, offrono un vivace e a piú riprese inedito repertorio di variazioni sul tema.

STORIE DI DÈI E DI EROI Ne offre un saggio eloquente la sezione dedicata al mito e ai suoi eroi, che rende omaggio, fra le altre, alle piú celebri delle saghe: quelle narrate nell’Iliade e nell’Odissea da Omero, presente grazie al celebre ritratto marmoreo dal Museo Ar-

cheologico Nazionale di Napoli, che ogni volta sorprende per l’efficacia con la quale il suo autore ha saputo rendere le tristi orbite vuote del poeta. Innumerevoli sono gli episodi che i versi dei due poemi hanno reso immortali, ma, fra i tanti, conserva una suggestione speciale quello che ancora una volta evoca la cecità, in questo caso inflitta da Ulisse a Polifemo, dipinto, per esempio, su un grande vaso forse proveniente da Cerveteri e che, in ogni caso, è la piú antica versione etrusca a oggi nota dell’impresa. Alle gesta del re di Itaca fanno da corona personaggi e fatti non meno

ITINERARI PARALLELI Ai lati di questa emblematica presenza i pannelli esplicativi esplicitano le direttrici lungo le quali è stato condotto e realizzato il progetto espositivo, imperniato sul rapporto di noi moderni con l’antichità e che – come scrivono nelle pagine introduttive del catalogo i curatori scientifici dell’iniziativa: Massimo Osanna, Stéphane Verger, Maria Luisa Catoni e Demetrios Athanasoulis – si dipana seguendo «due itinerari paralleli e complementari. Il primo evoca le modalità – complesse, mai scontate e automatiche, sempre sorprendenti – della trasmissione dell’antichità attraverso i cicli mitici e le concezioni, misurazioni e rappresentazioni del tempo e dello spazio che hanno costruito la tradizione classica, talvolta erudita, sulla quale si è via via formato il nostro rapporto intellettuale con gli antichi. Il secondo mostra come, contemporaneamente, si può innescare il processo di immedesimazione che ci rende simili e vicini agli antichi, malgrado la distanza temporale, culturale e, spesso, geografica». In piena coerenza con questo doppio binario, si coglie fin da subito una delle caratteristiche peculiari della mostra, che consiste nei costanti rimandi fra antico e moderno, a r c h e o 47


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celebri, che spaziano dal giudizio di Paride alle figure di Gorgoni oppure del Minotauro, o, ancora, alla seduzione di Leda da parte del cigno/ Zeus, tema che godette di fortune alterne in epoca moderna, ma che non mancò di attirare l’interesse di Leonardo da Vinci. Il maestro mai lo tradusse in pittura, ma dovette certamente studiarlo ed è infatti da un suo probabile cartone che deriva il dipinto cinquecentesco di autore anonimo concesso in prestito dalla Galleria Borghese. Della sezione successiva, «L’ordine del kosmos», sono protagoniste le categorie concettuali del tempo e dello spazio di cui si fanno intepreti, fra gli altri, una statuetta del dio Osi-

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ride come Chronokrator («creatore del tempo»), strumenti di misurazione antichi e non – meridiane, sfere armillari, orologi solari – e la Tabula Chigi, un rilievo di recentissima acquisizione (2022) da parte dello Stato. Il manufatto appartiene alla categoria delle cosiddette Tabulae iliacae, denominazione che indica piccole lastre marmoree dal carattere erudito, provviste di iscrizioni esplicative, con raffigurazioni miniaturistiche generalmente di soggetto omerico, piú raramente storico.

ALLA GLORIA DI ALESSANDRO Nel caso della Chigi, variamente attribuita all’epoca augustea oppure al II secolo d.C., corrono iscrizioni che celebrano le imprese di Alessandro Magno e si riconoscono le personificazioni dell’Europa e dell’Asia, ai lati di un altare circolare, che soNella pagina accanto: il carro rinvenuto nella villa suburbana di Civita Giuliana (Pompei) nel corso delle operazioni di consolidamento e recupero (in alto) e come si presenta oggi in mostra, ricostruito. Il veicolo è stato identificato con un pilentum, una carrozza riservata alle matrone in occasione di riti e cerimonie oppure adibita al trasporto delle spose nel giorno delle nozze. In alto: maschera in bronzo con dettagli in rame raffigurante Dioniso o un dio fluviale, da Delo (Cicladi). II sec. a.C. Delo, Museo Archeologico. A sinistra: vaso in porcellana con ninfe e satiri della manifattura Ginori di Doccia. 1755 circa. Napoli, Museo Nazionale della Ceramica «Duca di Martina».

stengono un clipeo rotondo al cui interno è raffigurata la battaglia di Arbela (331 a.C.), nella quale il Macedone sbaragliò Dario III. Le imprese di un uomo divenuto quasi leggendario lasciano quindi spazio al mondo dei comuni mortali, agli spazi nei quali si viveva e ai luoghi scelti invece come ultima dimora di uomini e donne. Qui sono di particolare impatto i modellini fittili di case e templi e al-

cune urne in forma di capanna, ma su tutti spicca, poco piú avanti, il carro recuperato nella già citata villa di Civita Giuliana, nel suburbio di Pompei. Il veicolo viene presentato per la prima volta all’indomani degli interventi di restauro che l’hanno interessato ed è possibile ammirarlo grazie alla sua parziale ricostruzione. Si tratta di una carrozza costruita con materiali di pregio e riccamente decorata: cira r c h e o 49


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La sezione «L’ordine del kosmos».

costanze, entrambe, che ne escludono l’utilizzo come normale mezzo di trasporto e che invece suggeriscono si tratti di un esemplare di pilentum, un carro destinato all’uso di matrone nel corso di rituali e cerimonie o per trasportare la sposa nel giorno delle nozze.

gli spazi dell’Aula V delle Terme e offre il colpo d’occhio forse piú suggestivo dell’intera mostra: al centro del grande spazio, infatti, è stata realizzata un sorta di rotonda, con cerchi concentrici nei quali la raffigurazione dell’individuo viene proposta attarverso le piú varie declinazioni. Della galleria fanno parte, tra gli altri, una statua-stele lunigianese, VARIAZIONI SUL TEMA Chiude e corona il percorso la se- uno dei guerriei di Mont’e Prama, zione «Umani, divini», che occupa korai greche, l’Arringatore di Arezzo,

ritratti romani, un’Iside lactans con il suo alter ego cristiano, la Madonna del latte, nonché l’autoritratto dell’artista contemporaneo Francesco Vezzoli, da lui montato su un torso marmoreo del II-III sec. d.C. Una sorta di girandola che, al di là dell’innegabile effetto scenografico, sembra voler ribadire come «tra noi e gli antichi» si sia nel tempo stabilito un legame costantemente rinnovato e mai spezzato. DOVE E QUANDO «L’istante e l’eternità. Tra noi e gli antichi» Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 30 luglio Orario martedí-domenica, 11,00-18,00; chiuso il lunedí Info www.museonazionaleromano. beniculturali.it Catalogo Electa Un particolare dell’allestimento della sezione «Umani, divini», che propone numerose variazioni sul tema della raffigurazione umana. Qui si riconoscono una kore (dalla necropoli di Thera a Santorini, Cicladi, seconda metà del VII sec. a.C.) e una Madonna del latte di Andrea Pisano (metà del XIV sec.).

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L’IMPERO DELLA DOLCE VITA

Fra archeologia, cinema e suggestioni pop, il Palazzo delle Esposizioni propone una insolita visione della Roma dei Cesari di Stefano Mammini

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orme, colori, luci, suoni e voci... Su un tappeto di sensazioni e di stimoli è stata giocata la scommessa di «Vita dulcis», la mostra con la quale il Palazzo delle Esposizioni di Roma ha aperto il suo nuovo corso, per fare in modo che la storica istituzione torni a essere – sono parole del suo presidente, Marco Delogu – un «punto di riferimento per la produzione e ideazione di progetti espositivi inediti, volti a riportare Roma al centro della scena culturale internazionale del contemporaneo». Ma perché, allora, dare conto dell’iniziativa sulle pagine di «Archeo»? Perché «Vita dulcis» – significativamente sottotitolata «Paura e desiderio nell’impero romano» – nasce dall’impegno congiunto di Francesco Vezzoli, uno dei nomi di punta dell’arte contemporanea italiana e internazionale, e Stéphane Verger, attuale direttore del Museo Nazionale Romano. In un’intervista rilasciata a Nicolas Ballario nella puntata del programma di Rai Radio 1 «Te la do io l’arte» del 24 maggio scorso (disponibile in streaming su raiplaysound. it),Vezzoli ha raccontato dell’entusiasmo con il quale ha accolto la proposta di Delogu, basata anche sulla possibilità di attingere a materiali attualmente conservati nei depositi del MNR, assicurata da Verger. E ha poi aggiunto di aver voluto concepire una mostra in cui fossero esibiti quelli che ha chiamato i «tre livelli dell’archeologia»: il primo, composto sia da opere cele- Francesco Vezzoli, Portrait of Kim Kardashian (Ante litteram). 2018. L’opera bri, sia da oggetti selezionati ap- evoca la Venere di Willendorf ed è frutto dell’assemblaggio di una testa in punto all’interno dei magazzini; il marmo d’età severiana (inizi del III sec. d.C.) con bronzo, gesso e tempera. a r c h e o 51


MOSTRE • ROMA Uno scorcio della Rotonda del Palazzo delle Esposizioni che accoglie sei sculture luminose facenti parte del progetto 24H Museum, realizzato da Vezzoli nel 2012. A celebri statue classiche l’artista ha attribuito i volti di altrettante dive del cinema. In basso: la sezione che riunisce iscrizioni funerarie romane di varia provenienza, alle quali fanno da sfondo sequenze del film Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone.

secondo, giocato soprattutto su due grandi installazioni, rispettivamente create con varie lapidi funerarie romane iscritte e con uteri in terracotta donati come ex voto; infine il terzo livello, al quale appartengono le opere dello stesso Vezzoli, ispirate all’arte classica e che spesso sono frutto di pastiche che inglobano sculture antiche. Come si intuisce dal titolo stesso della mostra – latinizzazione della Dolce vita di Federico Fellini –, il cinema è uno degli elementi fondanti del progetto espositivo ed è anzi la chiave di lettura dei temi trattati, perché, come ha detto ancora Vezzoli nell’intervista, «in un momento storico come questo, in cui tutto è molto semplificato, la chiave di lettura cinematografica ci aiuta, fa da ponte». In ciascuna sala vengono quindi proiettate sequenze di film che, probabilmente, secondo l’artista, non restituiscono un’immagine realistica di Roma, ma ne offrono una visione esasperata, che però, paradossalmente, finisce con l’essere forse piú vicina a una versione edulcorata della romanità stessa.

DIVINE DI IERI E DI OGGI Decisamente cinematografico è il primo colpo d’occhio proposto al visitatore: nella rotonda del Palazzo delle Esposizioni sono infatti allineate sei sculture facenti parte del progetto 24H Museum, realizzato da Vezzoli nel 2012. Ogni opera si compone della riproduzione di una celebre statua femminile d’età classica (tra cui l’Afrofite Sosandra, la Venere de’ Medici, il ritratto di Vibia Sabina) alla quale l’artista ha assegnato il volto di altrettante dive del grande schermo o del jet set internazionale, come Sharon Stone, Anita Ekberg o la principessa Carolina di Hannover. Tutto intorno, si succedono le sette sezioni dell’esposizione, che possono essere visitate a proprio piacimento, dal momento che, come spiegano i pannelli introduttivi, 52 a r c h e o


In alto: Ermafrodito dormiente, statua in marmo microasiatico. Metà del II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. In basso: Francesco Vezzoli, Portrait of Antinous as a Rock Star. 2023. L’artista ha qui assegnato a una serie di repliche in gesso dell’Antinoo Ludovisi il trucco scelto da David Bowie per la foto di copertina dell’album Aladdin Sane (1973).

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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quello di «Vita dulcis» è un percorso aperto. L’importante è avere sempre con sé la miniguida fornita all’ingresso, poiché le opere non sono corredate da didascalie. E se queste ultime possono a volte appesantire un allestimento, sarebbe stato forse preferibile riportare almeno i numeri di riferimento indicati nelle piantine del libretto, perché l’individuazione dei singoli pezzi non risulta sempre immediata. Apprese le regole del gioco, si può quindi partire alla scoperta delle sette sezioni della mostra, che spaziano dall’esaltazione della guerra (Para bellum) al culto di Antinoo (Animula vagula blandula), dal ruolo assegnato dalla società romana alla donna (Dux femina facti) all’estetica del frammento (Mixtura dementiae).

OPERE IN DIALOGO In ogni sala le opere originali – celebri e non – si confrontano con le creazioni di Vezzoli e, insieme, danno vita a vere e proprie messe in scena, di sicuro impatto visivo, come accade, per esempio, nel caso dell’Achille!, che sembra vegliare il gruppo scultoreo (frammentario) raffigurante il mito di Achille e Pentesilea. Incontri ai quali fanno da sfondo, come detto, sequenze di grandi peplum, come Spartacus o Cleopatra, ma anche di pellicole in cui l’approccio alla Roma antica assunse connotati ben diversi, come nel caso del Satyricon di Fellini. E, in qualche modo,Vezzoli sembra volersi muovere proprio nel solco del registro grottesco del regista riminese, come quando fa indossare un casco da ciclista al busto di un generale o regala un coloratissimo make up – citazione della foto di copertina di Aladdin Sane, uno degli album piú famosi di David Bowie – alla serie di repliche in gesso dell’Antinoo Ludovisi. Da una sala all’altra, insomma, l’antico viene a piú riprese spogliato della sacralità di cui gode nei musei tradizionali, ma, al tempo stesso, ribadisce con 54 a r c h e o

forza il suo ruolo di modello, non solo formale, ma anche concettuale e l’operazione compiuta da Vezzoli non fa che perpetuarne la fortuna. Cosicché, se può risultare straniante vedere associate a Kim Kardashian le forme della Venere di Willendorf – una statuetta, lo ricordiamo, risalente al Paleolitico Superiore e oggi conservata nel Museo di Storia Naturale di Vienna –, viene da pensare che, in fondo, «nihil sub sole novum»... DOVE E QUANDO «Vita dulcis. Paura e desiderio nell’impero romano» Roma, Palazzo delle Esposizioni fino al 27 agosto Orario martedí-domenica, 10,00-20,00; chiuso il lunedí Info www.palazzoesposizioni.it In alto: statua di Venere pudica. Età imperiale. A destra: Achille! (2021) di Vezzoli a confronto con un gruppo scultoreo raffigurante il mito di Achille e Pentesilea (metà del II sec. d.C.).





ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/9

UN AMORE A PRIMA VISTA

SECONDO D.H. LAWRENCE, AUTORE DE L’AMANTE DI LADY CHATTERLEY, UNO DEI PIÚ CELEBRI ROMANZI DEL XX SECOLO, GLI ETRUSCHI SUSCITANO UN’«IMMEDIATA SIMPATIA» O UN ALTRETTANTO REPENTINO DISPREZZO. L’INCONTRO DELLO SCRITTORE INGLESE CON IL GRANDE POPOLO PREROMANO ASSUNSE, IN VERITÀ, UNA DIMENSIONE E UN SIGNIFICATO ANCORA MAGGIORI. COME DIMOSTRANO LE PAGINE DI UN SUO MAGNIFICO LIBRO DI VIAGGIO... di Giuseppe M. Della Fina

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el 1927, lo scrittore inglese David Herbert Lawrence – che già in precedenza aveva soggiornato in Italia – si era stabilito a Scandicci e da lí progettò, insieme all’amico e artista statunitense Earl Brewster, un viaggio alla scoperta dei luoghi abitati anticamente dagli Etruschi. A questi ultimi non dedicò un romanzo, ma un libro di viaggio. Anzi, ini-

CITTADINO DEL MONDO Scrittore, poeta e critico, David Herbert Lawrence nacque nel 1885 a Eastwood (Nottinghamshire). Visse a lungo lontano dall’Inghilterra, anche per motivi di salute, soprattutto in Italia e in Messico. Lasciò definitivamente il Paese natale nel 1919. Nel 1914 sposò la baronessa tedesca Frieda von Richthofen. Il suo romanzo piú noto, Lady Chatterley’s Lover, alla pubblicazione nel 1928 suscitò un grande scandalo. Morí nel 1930. Fu anche uno scrittore di viaggi e in proposito si possono ricordare, oltre a Etruscan Places, Twilight in Italy (1916), Sea and Sardinia (1921), Mornings in Mexico (1927).

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Tarquinia, necropoli dei Monterozzi. La parete di fondo della Tomba della Caccia e della Pesca con le scene da cui il monumento prende nome. Fine del VI sec. a.C. Nella pagina accanto: lo scrittore David Herbert Lawrence (1885-1930). a r c h e o 59


UNA CERTA «DOLCE» TRANQUILLITÀ David Herbert Lawrence descrive l’atmosfera di serenità che a Cerveteri accompagnò la sua visita alla necropoli della Banditaccia: «È vero che era un sereno pomeriggio di sole in aprile, e che le allodole, si alzavano in volo dall’erba soffice dei tumuli, ma nell’aria tutt’attorno era un’immobilità suadente e si avvertiva che star lí, in quel posto mezzo infossato, faceva bene all’anima»

zialmente, si trattò di alcuni articoli per le riviste illustrate Travel e Worl to-Day, che furono riuniti in un volume da Martin Secker. Il suo Etruscan Places (Luoghi etruschi) venne pubblicato postumo a Londra, nel 1932. Nel tempo è divenuto un vero e proprio classico della letteratura di viaggio e, in Italia, è stato pubblicato da piú editori negli ultimi anni (l’edizione piú recente, per i tipi di Neri Pozza Editore, porta la data del dicembre 2022).

UNA PREPARAZIONE ACCURATA Il libro nasce dall’esperienza di un viaggio che toccò quattro città di origine etrusca: Cerveteri, Tarquinia,Vulci e Volterra. Come accennato, lo scrittore lo intraprese insieme a Earl Brewster, nella primavera del 1927: da mercoledí 6 aprile a lunedí 11 aprile. Lo preparò con cura come suggerisce la lettura – ricordata nel testo – di diversi libri sull’Etruria, alcuni dei quali erano stati appena pubblicati. Non solo, a Roma – cit60 a r c h e o

In alto: uno scorcio della necropoli della Banditaccia di Cerveteri. A destra: grande fibula da parata in oro decorato a sbalzo, punzone, ritaglio e granulazione, dalla Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri. 675-650 a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Nella pagina accanto: Palazzo Vitelleschi, a Tarquinia, quando non era ancora sede del Museo Archeologico Nazionale.


QUELLO CHE UN ETRUSCOLOGO NON PUÒ IGNORARE Una delle edizioni italiane di Etruscan Places è stata curata dalla Nuova Immagine Editrice (Siena). Essa si apre con la riproposizione di un articolo di Massimo Pallottino, il maggiore studioso degli Etruschi durante il Novecento. Egli s’interroga sul rapporto tra etruscologia (ma si potrebbe scrivere anche archeologia) e cultura contemporanea. Ecco le sue considerazioni finali: «Gli studi etruscologici ed il “romanzo etrusco” della cultura contemporanea sono, è vero, due realtà diverse e distinte. Ma l’etruscologo non può ignorare del tutto la suggestione che l’oggetto dei suoi studi esercita cosí diffusamente sul mondo della cultura. Egli deve, anzi, rispondere a questo richiamo, accoglierne la sollecitazione emotiva e non temere il contagio dell’entusiasmo. In questo senso le vie divergenti si ricongiungono; e la scienza può riconoscere ancora una volta il suo debito alla poesia».

tà da cui il viaggio ebbe inizio – volle visitare il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia per documentarsi meglio. Prima di analizzare Etruscan Places, ci si può domandare come sia nato in Lawrence l’interesse per il mondo etrusco. La risposta non è difficile, poiché è lo scrittore stesso a fornirla: «La prima volta che ho osservato con attenzione gli oggetti etruschi, nel museo di Perugia, sono stato subito attratto. Con gli Etruschi pare che succeda sempre cosí: o c’è immediata simpatia, o disprezzo e indifferenza altrettanto immediati».

L’ACCANIMENTO DEI ROMANI Sempre in apertura del libro, riassume in poche righe le coordinate geografiche e temporali della civiltà etrusca per come erano note negli anni Venti del Novecento: «Gli Etruschi, lo sanno tutti, erano il popolo che occupava l’Italia centrale ai tempi della prima Roma e che i Romani, da buoni vicini, come sempre annientarono per fare posto a una Roma con la erre maiuscola. Non li avrebbero sterminati tutti, erano troppi, ma riuscirono a cancellarli come nazione e come popolo». a r c h e o 61


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/9

In difesa degli Etruschi arrivò a polemizzare con uno storico del valore di Theodor Mommsen, il quale, nella sua opera, non avrebbe dato loro lo spazio che meritavano, anzi si sarebbe limitato ad ammetterne soltanto l’esistenza. In un crescendo polemico, arrivò a denunciarne la motivazione: a suo giudizio «Gli erano antipatici: il prussiano in lui era affascinato piuttosto dallo spirito prussiano di Roma, alla conquista di tutto». Ugualmente polemico è verso gli storici dell’arte antica che tendevano a considerare l’arte etrusca come un’imitazione pallida di quella romana: posizioni critiche che, agli inizi del Novecento, erano in effetti maggioritarie. Un’inversione di rotta si ebbe – come è noto – con la scoperta dell’Apollo di Veio, nel 1916. L’opera venne compresa, comunque, nel suo valore prima dagli artisti e, in particolare, da quelli d’avanguardia e piú svincolati dai condizionamenti accademici, e meno dagli storici dell’arte antica e dagli archeologi.

UN POPOLO FELICE Le sue posizioni ricordano quelle di un altro grande scrittore francese, Stendhal, il quale, in Rome, Naples et Florence, pubblicato nel 1826 e quindi un secolo prima di D.H. Lawrence, arrivò a scrivere: «Faccio al mio lettore questa ridicola confessione, mi sento indignato contro i Romani, che vennero a turbare,

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La copertina della prima edizione originale di Etruscan Places, pubblicato, postumo, nel 1932. Nella pagina accanto: la Tomba dei Rilievi di Cerveteri, caratterizzata dalla spettacolare decorazione composta da stucchi dipinti. In basso: il monumentale Tumulo della Cuccumella di Vulci.

corsero a piedi gli otto chilometri e mezzo che dividevano la stazione dal paese. Giunti sul posto, dopo una breve sosta, decisero di visitare la necropoli della Banditaccia, una delle piú suggestive dell’intera Etruria: «Sbuchiamo fuori nella prateria incolta e aspra. È come in Messico, su scala ridotta: la piana aperta e solitaria e, non troppo distanti, tante montagnole a forma di piramide proprio sopra il livello del terreno. In mezzo un buttero a cavallo galoppa attorno a un gregge di pecore e capre». Tra le tombe che Lawrence riuscí a visitare, segnala quella delle Iscrizioni (o dei Tarchna) e quella dei Rilievi. Quest’ultima, appartenuta alla famiglia Matuna, è caratterizzata dalla raffigurazione di numerosi oggetti di uso quotidiano nella vita pubblica e privata del mondo etrusco, che lo scrittore elenca: scudi, elmi, corazze, schinieri, spade, lance, ecc. Ebbe modo poi di osservare alcuni tumuli monumentali, che non cita espressamente, ma che lo incuriosirono. Su uno di essi si sofferma, ed è il tumulo Regolini-Galassi, nella necropoli del Sorbo, di cui ricorda l’eccezionale corredo funerario confluito nel Museo Gregoriano Etrusco all’interno dei Musei Vaticani.

senz’altro titolo che il coraggio feroce, quelle Repubbliche d’Etruria che erano loro tanto superiori per le belle arti, per le ricchezze e per l’arte di essere felici». Ma torniamo al viaggio raccontato da D.H. Lawrence. La prima tappa fu Cerveteri, che lui e Brewster PENSIERI raggiunsero in treno, fermandosi IN RIVA AL MARE alla stazione di Palo. Da lí, non tro- Tornati alla stazione di Palo, i due vando un mezzo di trasporto, per- viaggiatori dovettero attendere alcune ore per un treno che li portasse a Civitavecchia. Colsero allora l’occasione per raggiungere la spiaggia e, contemplando il mare, Lawrence fece una riflessione riportata nel libro: «È difficile immaginare che un popolo intero, una vera e propria schiera, si sia improvvisamente messo in mare nelle fragili imbarcazioni dell’epoca, per andare a occupare un’Italia centrale ancora poco abitata. Che alcune navi siano approdate – anche prima di Ulisse – è probabile:


BASSANI E LA NECROPOLI ETRUSCA La necropoli della Banditaccia a Cerveteri ha interessato un grande scrittore italiano: Giorgio Bassani. Il suo romanzo piú noto Il giardino dei Finzi-Contini, da cui è stato tratto anche un film di successo notevole (premio Oscar come miglior film straniero nel 1972), si apre con una gita domenicale a questa area archeologica.

su questa costiera piatta saranno sbarcati uomini, si saranno accampati e avranno fatto patti con gli indigeni. Ma se i nuovi arrivati fossero Lidi, o Ittiti con i capelli a crocchia, o uomini di Micene o Creta, nessuno può dirlo. Forse, in scaglioni diversi, arrivarono genti di tutte queste razze». Nel 1939, Massimo Pallottino superò il concetto di origine per il popolo etrusco – intorno al quale si era arrovellata la ricerca – iniziando a parlare di formazione. Per

Sappiamo dalla testimonianza di Paola Bassani, figlia dello scrittore, che la visita avvenne realmente in una domenica d’aprile del 1957: lei e i suoi genitori erano insieme al critico letterario Niccolò Gallo, a sua moglie e a sua figlia. Forse – sempre dal ricordo di Paola Bassani – era presente anche lo scrittore Pietro Citati.

questa tesi – oggi generalmente condivisa – ho sempre ritenuto che la riflessione del grande etruscologo fosse nata anche dalla lettura delle righe che ho appena riportato del testo di D.H. Lawrence. L’intuizione di uno scrittore e le ricerche di uno storico sembrano andare nella stessa direzione. Tornati a Palo, raggiunsero Civitavecchia, da dove ripartirono il giorno dopo – «alle otto del mattino» – per Tarquinia. L’idea era di visitare subito il Museo Archeologico Na-

zionale, che però era ancora chiuso e allora si presentò l’occasione di fare una passeggiata. Scrive in proposito Lawrence: «Camminiamo verso il parapetto e di colpo ci affacciamo su uno dei paesaggi piú straordinari che io abbia mai visto, la vergine essenza di questa campagna di verdi colline. Tutto è grano ovunque verde e morbido, che corre su e giú a perdita d’occhio, splendente nel verde primaverile, senza neanche una casa». Giudicò il museo «eccezionalmente a r c h e o 63


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/8

AL RITORNO Rientrato nella sua residenza a Scandicci, David Herbert Lawrence scrisse una lettera a Earl Brewster, l’amico con il quale aveva attraversato l’Etruria. La lettera è datata 14 aprile 1927, ecco le sue parole: «Sono arrivato a casa sano e salvo lunedí sera – abbastanza sconquassato – dopo cinque ore di corriera. Ma ce l’ho fatta a prendere l’ultimo tram (...) Mi è piaciuto tanto, il nostro viaggio etrusco. Peccato che sia stato cosí breve. Appena starò un po’ meglio, cercherò di buttare giú qualcosa». Quel «qualcosa» è divenuto Etruscan Places, un capolavoro della letteratura di viaggio.

LAWRENCE E I MUSEI Dopo avere visitato il museo di Tarquinia, lo scrittore osservò: «Il museo è eccezionalmente bello e interessante per chiunque conosca appena un po’ gli Etruschi. Accoglie un gran numero di reperti trovati a Tarquinia, reperti importanti. Se solo ci convincessimo e non strappassimo piú gli oggetti dai loro contesti d’origine! I musei sono sempre un errore. Ma se è proprio necessario che ci siano, allora che siano piccoli e soprattutto di ambito locale».

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bello e interessante per chiunque conosca appena un po’ gli Etruschi». Tra i reperti che lo colpirono vi furono soprattutto i sarcofagi e cita espressamente quello detto del Magistrato; rammenta, inoltre, la ricca collezione di vasi attici e etruschi.

UNA CIVILTÀ VISTA DA VICINO Nel pomeriggio, sempre in compagnia di Earl Brewster, lo scrittore si recò a visitare le tombe dipinte. Nelle sue pagine ricorda quelle – osservate alla luce di una lampada ad acetilene – della Caccia e Pesca, dei Leopardi, del Triclinio, dei Bac-

canti, del Morto, delle Leonesse, della Pulcella, dei Vasi dipinti, del Vecchio e delle Iscrizioni. Il tempo non fu sufficiente per visitarle tutte e vi tornò nella mattina successiva: siamo giunti a venerdí 8 aprile. Riuscí a visitare quelle dei Tori, Francesca Giustiniani, del Tifone, degli Auguri, del Barone, dell’Orco e degli Scudi. Piú di tutte, lo colpí la tomba della Caccia e Pesca, che gli apparve un inno alla vita e l’affermazione non sembri contraddittoria trattandosi della decorazione di una tomba. In essa sembrò trovare una conferma della sua idea sulla civiltà etrusca:


Volterra, la citadelle, olio su tela di JeanBaptiste Camille Corot. 1834. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, a destra: l’artista statunitense Earl Brewster (1878-1957).

vivace, gaia, luminosa, libera da pregiudizi moralistici. Nella giornata successiva – di buon mattino – i due amici lasciarono Tarquinia per recarsi a Montalto di Castro e raggiungere quindi l’antica Vulci. Utilizzarono un treno, poi un autobus per il tratto dalla stazione al paese, e quindi un calesse per raggiungere l’area archeologica attorno al ponte della Badia. Qui, dopo avere osservato il castello costruito accanto al ponte, visitarono alcune tombe ed esaminarono con attenzione il tumulo della Cuccumella. Non riuscirono a entrare nella Tomba François i cui affreschi – che raccontano vicende della storia di Roma illustrate nell’ottica degli Etruschi e non di quella degli storici di parte romana – peraltro, nel 1927, erano stati staccati già.

Raggiunsero Volterra, l’ultima tappa prevista del viaggio, nella giornata di domenica 10 aprile: «Era un pomeriggio grigio con folate di vento che venivano da ogni scuro crocevia della stretta e dura cittadina medievale». Un pomeriggio movimentato per la città toscana: in quelle ore era previsto infatti un appuntamento politico in occasione dell’arrivo del nuovo podestà.

QUEL GHIGNO FURTIVO... Lawrence osservò con attenzione l’animazione che percorreva le vie e le piazze e la descrisse: uomini e donne «andavano su e giú spintonandosi, con quel ghigno furtivo e quell’espressione di scherno minaccioso che accompagnano sempre le manifestazioni di piazza (...) È come se il popolo non avesse ben deciso da Urna funeraria con rilievo raffigurante una scena ispirata a una tragedia di Euripide, da Volterra. Metà del II sec. a.C. Volterra, Museo «Mario Guarnacci». Nella pagina accanto, a sinistra: una foto d’epoca del museo di Tarquinia.

che parte stare, e proprio per questo fosse pronto a sterminare chiunque si trovi dalla parte opposta». Trascorse il pomeriggio visitando i principali monumenti cittadini (il Palazzo dei Priori, la Cattedrale, la Porta all’Arco, la chiesa di S. Giusto, la Badia Camaldolese) e Le Balze. La visita al Museo «Mario Guarnacci» venne riservata alla mattina successiva: siamo giunti cosí a lunedí 11 aprile. Lo scrittore fu colpito soprattutto dalle urne in alabastro, con le casse sulle quali sono raffigurati a bassorilievo miti greci recepiti in Etruria, saghe locali o, ancora, scene della vita di uomini e donne del tempo. In proposito osserva: «sono affascinanti come un grande libro illustrato della vita e non ci si stanca mai di guardarle». Lawrence condivide una sensazione che prima di lui aveva provato George Dennis, autore, anch’egli inglese, di un libro di notevole successo, The Cities and Cemeteries of Etruria (Londra 1848), e che aveva annotato: «Non invidio l’uomo che può attraversare questo museo senza esserne commosso». I reperti esposti spinsero Lawrence a una considerazione conclusiva: «Quello che vogliamo è un contatto autentico: gli Etruschi non sono una teoria o una tesi, se mai sono qualcosa, sono un’esperienza». NELLA PROSSIMA PUNTATA • Natalie Haynes a r c h e o 65


MOSTRE • PARIGI

UN FARAONE PER L’ETERNITÀ di Daniela Fuganti

La sua nascita si data intorno al 1304 a.C., mentre il Nilo in piena fertilizza le terre e alle luci dell’alba, come un divino presagio, appare la scintillante stella Sirio, a sottolineare la sua essenza sovrumana. Condottiero, costruttore e principe delle arti, governa il Paese per 67 anni, fra il 1279 e il 1213 a.C., il piú lungo regno dell’antichità egiziana. Ramesse II detto «il Grande», già leggenda in vita, è sopravvissuto allo scorrere dei secoli come nessun altro sovrano prima o dopo di lui. Ne sarebbe stato sicuramente fiero e infatti questo era lo scopo dell’instancabile programma autocelebrativo, costituito dai templi e palazzi monumentali eretti alla sua gloria, sparsi in ogni angolo del Paese insieme a raffigurazioni e testi che Ramesse fece incidere sull’oro e la pietra, seminando sul suolo egiziano tracce, vestigia e indizi che hanno permesso agli archeologi di ricostituire la sua storia.

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rganizzata in collaborazione con il Consiglio Supremo delle Antichità della Repubblica Araba d’Egitto (e prodotta congiuntamente con Cityneon e World Heritage Exhibitions) la mostra parigina presentata alla Grande Halle de La Villette di Parigi, è la prima tappa europea di un tour internazionale iniziato nel novembre 2021 a Houston e proseguito a San Francisco e Boston. Dopo Parigi, volerà, a Londra, per concludere la sua tournée in Giappone e in Australia. Ma solo per questo passaggio parigino il Ministero egiziano delle Antichità ha concesso in prestito l’eccezionale sarcofago 66 a r c h e o

in legno di cedro nel quale la mummia di Ramesse è stata ritrovata, il pezzo piú prezioso dell’esposizione.

UN’ACCOGLIENZA MEMORABILE Una sorta «tributo faraonico» come lo hanno definito le autorità egiziane, visto e considerato il debito di riconoscenza verso la Francia dove, nel 1976, la salma del faraone era stata accolta con tutti gli onori di un capo di Stato vivente, e poi curata dai funghi che la minacciavano, grazie a una squadra di specialisti coordinati da Christiane Desroches-Noblecourt, la grande studiosa di Ramesse II mancata nel 2011.

Percorrendo le sale dell’esposizione, il visitatore può ammirare ricchezze tra le piú preziose del mondo, come il tesoro di Tanis (vedi box alle pp. 70-71), insieme a una selezione di opere d’arte incredibilmente ben conservate, composta da statue, sarcofagi, mummie di animali, maschere reali, sontuosi gioielli e amuleti, tesori riccamente decorati in oro e argento: altrettante testimonianze della raffinatezza e dell’abilità degli antichi artisti egiziani. Morto novantenne, Ramesse II aveva avuto un numero impressionante di mogli e piú di cento figli. Sulla scia dell’operato dei suoi avi – Ramesse I (12921290 a.C.) ex generale del re


Testa di una statua colossale in granito rosso raffigurante Ramesse II, frutto della rilavorazione del ritratto di un sovrano precedente. Nuovo Regno, XIX dinastia. È una delle opere di cui l’Egitto ha per la prima volta accordato il prestito. a r c h e o 67


MOSTRE • PARIGI

Horemheb, fondatore della XIX dinastia, e Sethi I (1290-1279 a.C.), suo padre – Ramesse II ripristina in Egitto le tradizioni sconvolte cinquant’anni prima da Akhenaton (1350-1334 a.C.) e dalla sua rivoluzione: l’abbandono del culto di Amon e del tradizionale politeismo a favore del solo culto del dio Aton, il disco solare. La sua abilità politica e la sua intensa campagna di pubbliche relazioni compensarono l’inferiorità militare del suo esercito, anche se, grazie alla sua azione propagandistica, ci è arrivata l’immagine di un guerriero coraggioso che non solo combatté in prima linea per riconquistare le terre perdute, ma fu anche negoziatore di pace. Nel I millenio a.C., Ramesse incarna l’archetipo del re. La sua capitale, Pi-Ramesse, è a lungo rimasta un fantasma letterario, una città ideale, celebrata dagli scribi del Nuovo Regno come un paese di cuccagna. Abbandonata dopo 68 a r c h e o

il suo regno a causa del prosciugamento del canale del Nilo su cui era stata edificata, e trasferite a Tanis le funzioni di capitale (diversi reperti alla mostra provengono da questo sito), l’immensa metropoli appartiene ormai alla leggenda delle grandi città scomparse. La Torah e la Bibbia la menzionano nell’Esodo senza che il nome di Ramesse sia mai citato. Nello stesso modo la evoca il Corano. Il faraone – il re in lingua egiziana – resta anonimo, e il suo nome sopravvive tramite quello della sua capitale. Erodoto nel V secolo a.C. lo chiama «Sesostri», il che porta a un confusione fra Ramesse II e Sesostri durata per secoli.

DAL NILO AL FIUME GIALLO Nel Settecento, l’orientalista Joseph de Guignes (1721-1800), lo immagina in cammino per l’India e per la Cina, alla quale avrebbe regalato la scrittura. Ipotesi che seduce Jean-

François Champollion (1790-1832), il quale, da sinologo consumato, tenterà un paragone fra segni egiziani e cinesi, per capire che le due scritture non hanno alcun legame fra loro. Sarà invece grazie al cartiglio di Ramesse che il grande egittologo scoprirà la chiave per decifrare i geroglifici.Tuttavia, nei primi cinquant’anni dell’egittologia, Ramesse non è che un nome iscritto su alcuni monumenti, la sua immagine resta invisibile e intangibile. La sua tomba, saccheggiata fin dall’antichità, viene scoperta completamente vuota. Ma nel 1881 un colpo di scena cambia le carte in tavola. Il corpo del farone viene ritrovato nella cachette di Deir el-Bahari, individuata dai servizi di polizia di Auguste Mariette, allora a capo delle antichità egiziane, seguendo la pista di una nota famiglia di tombaroli, gli Abd el Rassoul. Nel 1995, un secondo colpo di scena fa invece risorgere l’intera famiglia di


In alto, sulle due pagine: un particolare dell’allestimento della mostra «Ramesse e l’oro dei faraoni», attualmente visitabile presso la Grande Halle de la Villette, a Parigi. A destra: parte superiore di una statua colossale in calcare di Ramesse II. Nuovo Regno, XIX dinastia. Sharm el-Sheikh, Museo.

Ramesse. L’egittologo americano Kent Weeks porta in effetti alla luce nella Valle dei Re, poco lontano da quella originale del loro padre, la tomba dei figli, già individuata nel 1825 dal britannico James Burton, che l’aveva lasciata inesplorata perché occultata da una frana. Vi scopre un centinaio di stanze mortuarie nelle quali gli ushabti e i vasi canopi hanno permesso di identificare la presenza di venti principi e principesse. Benché spettacolari, le gesta militari di Ramesse sono alla fine di bre(segue a p. 78) a r c h e o 69


MOSTRE • PARIGI

IL TESORO DI TANIS

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A Tanis, a una ventina di chilometri dell’antica capitale Pi-Ramesse (a lungo cercata e oggi identificata con Qantir, sul delta orientale del Nilo), negli anni 1939-1940 poi negli anni 1945-1946, l’egittologo Pierre Montet scopriva un favoloso tesoro. Nella necropoli reale della città vennero infatti alla luce sette tombe della XXI e XXII dinastia. Il tesoro si trovava nella sepoltura di Psusenne I (1001-993 a.C), e costituisce il piú grande insieme di gioielli e di opere di oreficeria mai esumato dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1922. Non si sa tuttavia quanti fossero gli oggetti inizialmente rinvenuti, a causa della rapidità con cui le tombe vennero svuotate, si era in piena seconda guerra mondiale, e la straordinaria scoperta fu in parte eclissata dagli eventi militari in corso. 1

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1. Collare in oro e pietre preziose della principessa Sithathormeryt. Medio Regno, XII dinastia. 2. Il cartonnage interno del sarcofago a testa di falco del faraone Sheshonq II (vedi foto a p. 74, in basso). Terzo Periodo Intermedio, XXII dinastia. 3. Grande collare composto da perle d’oro e cornalina in forma di fiori di papavero. Nuovo Regno, XIX dinastia. 70 a r c h e o


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4. Bracciali del faraone Sheshonq II. Terzo Periodo Intermedio, XXII dinastia. 5. Brocchetta in oro per offrire liquidi dedicata dal faraone Ahmose. Nuovo Regno, XVIII dinastia.

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6. Maschera funeraria in legno placcato d’oro dal sarcofago di Amenemope. Terzo Periodo Intermedio, XXI dinastia.

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MOSTRE • PARIGI

UNA STAGIONE IRRIPETIBILE Incontro con Dominique Farout L’egittologo Dominique Farout è il commissario scientifico della mostra «Ramesse e l’oro dei faraoni». A lui abbiamo chiesto di illustrarci gli aspetti piú significativi del progetto espositivo.

◆ Professor Farout, come è nata

l’idea di questa mostra, cosí grandiosa, anzi…«faraonica»? «Questa mostra segue quella, presentata nel 2019, sempre qui alla Villette di Parigi, su Tutankhamon. Tutti gli oggetti esibiti nell’attuale esposizione provengono dal vecchio museo storico del Cairo, ed escono dall’Egitto per la prima volta. Le autorità egiziane ambiscono, con questo evento, di far conoscere meglio il loro patrimonio, in particolare uno dei momenti piú gloriosi della sua storia: il XIII secolo a.C. Fu un periodo estremamente florido, con scambi commerciali internazionali che andavano dall’India all’Inghilterra; lo stagno, necessario alla realizzazione del bronzo, veniva dalla Cornovaglia! Le guerre di quest’epoca non sono infatti finalizzate alla conquista di territori, ma si tratta di conflitti combattuti per assicurarsi il controllo delle rotte commerciali. Alla fine del Nuovo Regno, quando le vie del bronzo saranno tagliate a causa dell’invasione dei Popoli del Mare, il Mediterraneo orientale entrerà nell’“età oscura” che porterà all’età del Ferro, e a un conseguente declino dell’economia egiziana».

◆ Come viene raccontato il faraone

Ramesse II nella mostra? «Abbiamo voluto far conoscere la sua vita e la sua opera, e ovviamente anche la sua vita dopo la morte, tappa fondamentale per gli Egiziani. Per farlo, ci è sembrato indispensabile associarlo ad alcuni dei suoi avi, e ad alcuni dei suoi successori. E questo per una ragione assai prosaica: la sua tomba è stata 72 a r c h e o

Sulle due pagine: il sarcofago in legno di cedro di Ramesse II, uno degli oggetti piú spettacolari fra quelli riuniti a Parigi per la mostra dedicata al grande faraone. Prima d’ora, il prezioso manufatto non aveva mai varcato i confini egiziani.


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MOSTRE • PARIGI completamente saccheggiata, e nulla rimane del favoloso tesoro che doveva contenere. Il sublime tesoro del giovane ed effimero sovrano che fu Tutankhamon può dare solo una pallida idea di quella che doveva essere la tomba di Ramesse II… Abbiamo dunque scelto di esporre le ricchezze funerarie dei re di Tanis, i suoi successori della XXI e XXII dinastia che, per la loro magnificenza, si affermano come gli eredi di Ramesse. L’esposizione propone anche il tesoro funerario di Sesostri III, celebre faraone della XII dinastia, nel Medio Regno, il cui nome fu per secoli associato dai Greci e dai Romani a quello di Ramesse, al punto di fonderli e confonderli in una sola figura mitica».

◆ Alcune sorprendenti

rappresentazioni di Ramesse II lo mostrano, sotto forma umana, prosternato davanti alla propria immagine. Il faraone considerava se stesso come un dio? «Tutti i faraoni si consideravano dèi, fin dal IV millennio a.C. Nelle rappresentazioni di Ramesse II, come uomo prosternato davanti se stesso, lui non si venera in quanto tale, ma si inchina davanti al proprio colosso che è la rappresentazione della natura divina del re. Il culto del colosso, molto sviluppato in Egitto, permetteva di mostrare la dismisura del sovrano. In quanto dio e uomo allo stesso tempo, era l’intermediario tra il mondo divino e quello umano, e la sua funzione piú importante era quella di sacerdote. Ramesse II, non era un principe di sangue e

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In alto, sulle due pagine: un altro particolare dell’allestimento della mostra. Al centro si riconosce la statua colossale in calcare di Ramesse II. In basso: il sarcofago in argento massiccio, con testa a forma di falco, del faraone Sheshonq II. Terzo Periodo Intermedio, XXII dinastia.

proveniva da una famiglia di militari, per questo aveva bisogno di provare la propria legittimità. Il numero di opere d’arte destinate alla sua gloria era cresciuto a tal punto durante il suo regno, che è lecito parlare di produzione in serie. Senza contare l’usurpazione dei monumenti antichi! È un grande e geniale politico, e ha la fortuna di vivere a lungo. Un ostrakon proveniente da Deir-elMedina racconta come abbia girato tutti templi del Paese per fare opera di auto-propaganda».

◆ Si stima che nel Nuovo Regno,

ogni anno, si estraessero fino a

300 chilogrammi d’oro dalle miniere della Nubia. E, in effetti, l’oro è protagonista della mostra… «Sí, organizzandola, gli Egiziani hanno voluto abbagliare il mondo! Tutto quest’oro, che noi mostriamo attraverso i numerosi oggetti artistici, aveva virtú propiziatorie e protettrici: associato al sole, l’oro è la carne degli dèi. Ogni gioiello e, soprattutto, ogni maschera d’oro posta sul viso del faraone defunto illustra l’incorruttibilità del suo corpo e la promessa di una vita eterna. Illustra anche la straordinaria prosperità delle dinastie del Nuovo


Regno, il periodo piú ricco per l’Egitto che comincia con Thumosi III, sotto la XVIII dinastia e si chiude dopo Ramesse II, nel mezzo della XIX dinastia. Oggetti di lusso di ogni sorta, è un’arte sontuosa che coniuga materiali provenienti dal mondo intero: l’oro dall’Egitto; i lapislazzuli dall’Afghanistan; lo stagno dall’Afghanistan e dalla Cornovaglia; l’avorio e l’ebano dal Sudan… Si dovevano percorrere enormi distanze per procurarsi tutto questo. Da quando Ramesse si è alleato con gli Ittiti, il mondo è ormai in pace. Dalla Grecia all’Egitto, fino a Babilonia, l’economia è prospera».

◆ Ramesse II, dipinto come un

eroico e coraggioso guerriero sulle pareti dei templi, sembra invece, durante il suo regno, aver privilegiato la pace… «Gli Egiziani non sono un popolo di invasori. Occorre ricordare che nell’antichità le invasioni erano illegali, e per farle doveva sussistere una buona motivazione. Alla fine

della XVIII dinastia, gli Ittiti avevano occupato la Beqaa (pianura a nord del Libano, che dipendeva dagli Egiziani), senza una ragione giuridica valida. Una epidemia di peste era scoppiata nel loro Paese. Erano persuasi che gli dèi li avessero puniti per questa ingiustificata azione bellica. Nel suo quinto anno di regno, Ramesse vuole riprendere appunto questi territori: una guerra, culminata con la famosa battaglia di Qadesh, il violentissimo e sanguinoso scontro che si risolve nella conferma dello status quo. Una vera sconfitta per gli Egiziani, trasformata tuttavia da Ramesse II in vittoria morale, e celebrata sulle pareti dei templi col famoso poema di Pentaur. Questo si spiega con la coesione dell’esercito egiziano, pronto a sacrificarsi per il Faraone, dio e capo delle truppe; mentre l’esercito ittita, formato da una confederazione di vari regni, non era animato dallo stesso fervore».

un’occasione unica, perché è la prima volta che lascia l’Egitto dal 1976. Non si tratta del sarcofago originario di Ramesse II, come testimoniano le iscrizioni che figurano sul suo coperchio, ma di un sarcofago ancora inutilizzato, proveniente dal mobilio reale, e usato per ospitare le spoglie del Faraone dopo che la sua tomba fu saccheggiata verso la fine della XX dinastia. Il testo iscritto sul coperchio del sarcofago elenca le peripezie vissute dall’illustre mummia. Cosí sappiamo che fu in un primo tempo spostata nella vicina tomba del padre Sethi I. Ma cento anni piú tardi, verso il 970 a.C., in piena crisi economica e dinastica, quando le tombe reali furono tutte svuotate dei loro tesori, fu trasportata e messa in salvo dai grandi sacerdoti di Amon, insieme a numerose altre mummie reali, in un nascondiglio sicuro».

◆ Nell’esposizione si può ammirare

◆ Fra tutte queste meraviglie, ci

un reperto eccezionale, esposto solo per la tappa parigina: il sarcofago di Ramesse II... «Poter ammirare questo splendido manufatto, in prezioso legno di cedro, è un fatto eccezionale,

illustri qualche opera. Ce n’è forse una che preferisce? «Possiamo citare, per esempio, il sarcofago in argento massiccio, dalla testa di falco, realizzato per Sheshonq II, terzo re della XXII a r c h e o 75


MOSTRE • PARIGI

Qui accanto: collare amuleto di Psusenne I. Terzo Periodo Intermedio, XXI dinastia. A destra: collare pettorale di Psusenne I. Terzo Periodo Intermedio, XXI dinastia.

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dinastia. Il fragile cartonnage contenuto al suo interno, ricoperto di foglie d’oro, è un pezzo raro: se ne conoscono solo sei di questo genere, e tutti risalgono alla XXII dinastia. Fu trovato nel vestibolo della tomba di Psusennes I, il re della XXI dinastia a cui appartiene il magistrale collare del peso di otto chili, formato da 5mila cerchietti d’oro su sette file, chiusi da catene decorate con campanellini. Entrambi i capolavori sono stati trovati a Tanis. Fra gli oggetti eccezionali che escono per la prima volta dall’Egitto, abbiamo il coperchio del sarcofago in granito rosa del re Merenptah, successore di Ramesse II. L’interno del coperchio, concepito per assomigliare al cielo notturno che copre la mummia, è scolpito con la figura della dea Nut fasciata da un lungo vestito coperto di stelle:

◆ Gli artisti del faraone

una meraviglia! Il mio pezzo preferito è senza dubbio il sarcofago esterno in legno di Sennedjem, artista del re, vissuto sotto Sethi I e Ramesse II, e sepolto nella necropoli di Deir-el-Medina. La sua tomba, insieme a quella della moglie e dei suoi figli, è stata trovata intatta nel 1886. È magnificamente decorato con testi e scene del Libro dei Morti, eseguite in nero, blu e rosso vivo, su un fondo giallo».

godevano di uno status privilegiato, a giudicare dallo sbalorditivo sarcofago di Sennedjem… «Erano personaggi in cui il faraone riponeva la sua fiducia piú totale, e con le quali era in contatto. Vivevano a Deir-el-Medina, sulla riva ovest di Tebe, in pieno deserto. Le centinaia di papiri e di ostraka ritrovati nel villaggio raccontano la storia e la vita quotidiana di quella che era una incredibile concentrazione di architetti, pittori, disegnatori e artigiani di ogni genere, designati dai faraoni per scavare e decorare le loro future tombe. Fin dagli anni Trenta si studia e si pubblica (esce un libro all’anno) l’immensa mole di materiale restituito dagli scavi condotti nel sito. Alcuni grandissimi artisti aggiungevano un tocco personale, e gli archeologi sono talvolta riusciti a riconoscerne la mano».

In alto: ostrakon raffigurante il faraone Ramesse IV a bordo di un carro. Nuovo Regno, XX dinastia. Sulle due pagine: altri particolari dell’allestimento della mostra «Ramesse e l’oro dei faraoni».

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MOSTRE • PARIGI Statua di Ramesse II inginocchiato, che mostra un’offerta.

ve durata. La battaglia di Qadesh (1274 a.C.), in cui affronta il temibile esercito ittita, viene presentata come una vittoria nei versi del poema epico detto di Pentaur, e incisa sulle pareti dei templi di Karnak e Luxor. La realtà è piú sfumata: se il faraone non sembra aver schiacciato il nemico, né vinto la battaglia, è riuscito però a evitare che gli Ittiti continuassero la loro avanzata in terra egiziana. Nel suo ventunesimo anno di regno, nel 1258 a.C. Egiziani e Ittiti firmarono un trattato di pace, il primo della storia, redatto in caratteri cuneiformi, la lingua internazionale dell’epoca: un accordo di pace e non aggressione grazie al quale tutta l’area del Vicino Oriente godette di una «bella fraternità – come volle definirla Ramesse stesso – fra popoli nemici». Il trattato fu rispettato fino alla scomparsa dell’impero ittita. Le regine Nefertiti e Pudu-Heba (moglie del re Hattusili III, considerata la piú importante figura femminile della storia ittita e protagonista del78 a r c h e o

la vita politica del tempo), si scambiano regali, gioielli, stoffe di lino sottile «come la buccia delle cipolle», e parole cortesi. Come da tradizione, una figlia di Hattusili e Pudu-Heba viene data in sposa al faraone (vedi «Archeo» n. 458, aprile 2023; on line su issuu.com).

LE RICHIESTE DI UNA SUOCERA Il matrimonio contratto fra le grandi potenze era innanzitutto un affare politico, e diventava un affare economico con lo scambio di doni. Pudu-Heba detta le regole, richiede che sua figlia Shaushganu abbia un ruolo elevato a corte, e si oppone alle richieste esagerate del faraone in merito alla dote che avrebbe dovuto seguire la sposa, punzecchiandolo: «Ma forse mio fratello non ha proprio nulla? Ma via! Solo nel caso che il figlio del Sole o il figlio della Tempesta non avessero nulla, o se il mare non avesse nulla, solo allora tu non avresti nulla! Fratello mio caro, la verità è che tu vuoi arricchirti a

mie spese e questo non è degno né di un buon nome, né di cortesia». La trattativa matrimoniale durò molti anni. Gli Ittiti inviarono 500 prigionieri civili, mandrie di cavalli, bovini e pecore; gli Egiziani spedirono pietre preziose, dotazioni belliche e medicine (i medici egiziani godevano di grande prestigio presso le corti straniere) e, soprattutto, l’oro che i re ittiti pensavano essere abbondante in Egitto come la polvere. Questa pace, durata mezzo secolo, accompagnata dalla stabilità religiosa sociale ed economica, ha portato il Paese al suo apogeo di potenza e di ricchezza. Lo testimoniano gli innumerevoli monumenti e colossi che Ramesse II fece edificare ovunque nel suo impero: i templi di Abu Simbel in onore di se stesso e della regina Nefertari, alla frontiera sudanese; il Ramasseum (il «tempio di milioni di anni») a Tebe, dove esisteva una scuola per gli scribi testimoniata dagli ostraka disegnati dagli allievi, che danno un’idea delle tappe seguite dalla rigorosa pedagogia egiziana; il tempio di Osiride ad Abido; la stupefacente tomba di Nefertari, ricostruita in mostra, e restaurata negli anni Novanta da un’équipe italiana. In omaggio al padre, Ramesse aveva anche completato e ingrandito i templi di Abido, Karnak e Luxor. Su tutte le costruzioni anteriori alle proprie aveva fatto aggiungere il suo cartiglio, cancellando quello dei predecessori… Perché, fra tutte le eredità – monumenti, colossi e templi – che Ramesse II ci ha lasciato, il vero tesoro, impresso in tutte le memorie, rimane il suo nome. DOVE E QUANDO «Ramesse e l’oro dei faraoni» Parigi, Grande Halle de la Villette fino al 6 settembre Orario lu-ve, 9,00-19,30; sa-do e festivi, 9,00-20,00 Info www.expo-ramses.com



SPECIALE • BRESCIA

BRIXIA CAPUT MUNDI I resti del Capitolium dell’antica Brixia. Datato al 73 d.C., il tempio era dedicato alla triade capitolina composta da Giove, Giunone e Minerva.

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INSIEME A BERGAMO, BRESCIA È CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA PER IL 2023. UN RICONOSCIMENTO CELEBRATO ATTRAVERSO LA VALORIZZAZIONE DEL RICCO PATRIMONIO STORICO E ARCHEOLOGICO DELLA CITTÀ a cura di Francesca Morandini e Cristina Ferrari

BRESCIA E L’ARCHEOLOGIA 1823-2023 Lo studio della storia piú antica della città lombarda ha una lunga tradizione, favorita dalla sensibilità da sempre mostrata dai suoi cittadini nei confronti dei resti del passato di Francesca Morandini

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due secoli dall’avvio degli scavi archeologici che hanno permesso di attivare un felice e proficuo rapporto tra la città e le tracce del suo passato, Brescia vive oggi un intenso anno da Capitale italiana della cultura con Bergamo. Senza soluzione di continuità, dal 1823 in città sono stati condotti scavi archeologici, ricerche, interventi di musealizzazione e valorizzazione che hanno portato a risultati condivisi con i cittadini, nel solco dei valori che hanno anche determinato i primi passi di una lunga e felice stagione archeologica ancora in corso. Comune di Brescia, Fondazione Brescia Musei e Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Bergamo e Brescia hanno impostato con il medesimo spirito le iniziative e i progetti attualmente in corso, per rendere questo anniversario ancora piú ricco di significato.

UN MUSEO PER LA CITTÀ Al rientro da Roma, dove aveva condotto studi, visitato musei e scavi archeologici, il pittore Luigi Basiletti ha applicato – supportato e coadiuvato dai membri dell’Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Brescia – le sue competenze e la sua inesauribile curiosità ad alcune emergenze antiche nella sua città di origine, tracciando nette linee guida teoriche e operative e lasciando un’eredità di intenti che hanno segnato l’operato delle istituzioni a r c h e o 81


SPECIALE • BRESCIA

che nel tempo si sono occupate del patrimonio civico (vedi anche alle pp. 86-89). Dal 1823, quando prende il via l’avventura archeologica della città, all’inaugurazione del Museo Patrio dopo soli 7 anni, è stato portato alla luce il tempio Capitolino, è stato individuato il santuario repubblicano, sono stati inventariati reperti, scoperti i grandi bronzi ed è stata impostata l’edizione degli scavi che verrà poi pubblicata nel 1845. Da questo momento in poi Brescia ha potuto vantare un’area archeologica in pieno centro urbano dove, sui resti del tempio Capitolino del I secolo d.C., è stato eretto un museo con tre grandi aule espositive nelle quali è possibile vedere i lacerti pavimentali originali in sectilia policromi, gli arredi superstiti del tempio in calcare locale di Botticino, parti della grande statua di Giove in marmo lunense e i grandi bronzi con la Vittoria Alata, ma anche una parte della copiosa raccolta epigrafica civica, distribuita con rigore alle pareti dell’aula centrale seguendo il metodo «a tappezzeria» dei Musei Vaticani. La ricchezza della collezione e la peculiarità del contesto architettonico e paesaggistico, insieme di resti e di rovine romantiche (ricreate nell’Ottocento secondo il gusto dell’epoca), hanno attratto numerosi visitatori illustri e non, contribuendo a diffondere in Europa la conoscenza di questo luogo della Cisalpina e dei suoi resti straordinari. Napoleone III, Metternich, Maria Luigia d’Austria, ma anche Henry James, Sigmund Freud e molti altri, hanno visitato il museo decantandone l’unicità e, di conseguenza, avviando un flusso turistico che ancora oggi riconosce a questo polo dei musei bresciani un primato di attrattività.

IL VOLTO DI UNA NUOVA ANTICA BRIXIA Da quella felicissima stagione, si sono susseguiti ulteriori scavi, ricerche, restauri, interventi di valorizzazione che, negli anni, hanno contribuito a tratteggiare con sempre maggiori dettagli la storia e il volto di Brixia, dotata di peculiarità che raramente è possibile trovare altrove con tale vividezza ed emergenza monumentale. Le indagini archeologiche condotte nell’area sacra, ai piedi del Capitolium, hanno portato alla conoscenza in estensione del santuario tardo-repubblicano e delle fasi monumentali che l’hanno precedu82 a r c h e o

In basso: la Vittoria Alata in una incisione ottocentesca. La statua fu rinvenuta nel 1826, insieme ad altri bronzi, in un deposito nel quale i manufatti erano stati seppelliti, forse per preservarli da possibili razzie.

to, individuando una sequenza di edifici dedicati al culto, a partire dal IV secolo a.C., con strutture sempre piú articolate ed estese, associate a testimonianze votive. I dati archeologici emersi in questo comparto dell’antica Brixia, che si estende alle propaggini meridionali del colle Cidneo, hanno fornito un contributo determinante per la ricostruzione dell’evoluzione della città e della transizione dei cittadini da Cenomani a cives romani. La città era il capoluogo di questa popolazione di origine celtica, come scrive Tito Livio (Historiae, liber 32) e non è mai stata sottoposta a deduzione di coloni, ma, al contrario, è legata a Roma, potenza che si andava espandendo nelle zone fertili e ricche di risorse della Cisalpina, per mezzo di trattati di pace e di alleanze. Questa situa-


zione andò a determinare una precoce adesione consapevole ai valori di Roma con largo anticipo rispetto al riconoscimento giuridico, tanto che la città ha fatto edificare, sicuramente con il supporto di dignitari locali, un santuario che, per lessico architettonico e decorativo, rientra nei parametri dell’edilizia e della cultura romana. Intorno a questo santuario si estendeva un centro urbano già strutturato, dotato, a partire dall’età augustea, di una cinta muraria di circa 2,7 km, con abitazioni distribuite regolarmente lungo vie ortogonali, aree di necropoli, un acquedotto che portava acqua dalle valli a nord in città e un ampio teatro. L’allineamento con Roma è stato poi confermato durante l’età imperiale, con numerosi In alto: il chiostro di S. Salvatore. VIII-XVI sec. brixiani in senato ed edifici che via via sono In basso: una veduta degli ambienti delle Domus dell’Ortaglia.

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SPECIALE • BRESCIA

stati eretti o integrati con apparati decorativi e soluzioni architettoniche in linea con le tecniche dell’epoca. Si data al 73 d.C. la costruzione del Capitolium, eretto sul sedime del precedente santuario repubblicano. L’edificazione di questo nuovo tempio è stata voluta dall’imperatore Vespasiano (il cui nome compare sul frontone del tempio stesso) in relazione con il sostegno fornitogli da Brescia nella conquista del comando durante la guerra civile del 69 d.C., conclusa con la battaglia di Bedriacum, nel vicino territorio cremonese.

DEPOSITI RICCHI DI STORIE E DI... CAPOLAVORI Indagini archeologiche hanno fornito dati di grande interesse anche per la fase tardo-antica del tempio, quando è stato abbandonato a favore dei luoghi di culto cristiano, nel periodo di passaggio dall’età romana a quella altomedioevale. Sono ascrivibili a questo periodo due depositi, individuati nell’area del tempio, rispettivamente nel 1992 e nel 1826. Il primo è costituito da materiali votivi di piccole dimensioni (lucerne, gioielli, ampolle in vetro decorate, vasi con graffite iscrizioni votive), oggetti d’uso quotidiano utilizzati nel tempio (grandi piatti e contenitori per offerte) e per le funzioni sacre, scaricati all’interno di un condotto idraulico. Il secondo è il celebre

deposito di grandi bronzi figurati e architettonici, di cui fa parte anche la Vittoria Alata, costituito da arredi e da rivestimenti architettonici originariamente presenti nell’area sacra, protetti tra due muri del tempio stesso. La grande statua, oggetto di ricerche e interpretazioni sin dal momento della scoperta, è stata recentemente al centro di un progetto complessivo di studio, restauro (condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze) e valorizzazione che ha permesso di conoscere molti dettagli fino a oggi sconosciuti. Tale intervento ha stabilito l’unicità di ideazione e di realizzazione del bronzo come Victoria in clipeo scribens, creata con la tecnica della fusione a cera persa indiretta dopo la metà del I secolo d.C. presso un atelier attivo nel territorio bresciano. In occasione di questo importante bicentenario, al cospetto della Vittoria Alata è esposto come ospite d’eccezione il Pugile, grande bronzo emblema delle collezioni del Museo Nazionale Romano (vedi alle pp. 90-93). Indagini capillari e una lunga tradizione di studi ci permettono oggi di avere una conoscenza diffusa della forma e dell’aspetto della città attraverso i secoli, sia per quanto riguarda gli edifici pubblici monumentali (teatro, foro, basilica, edifici sacri), sia gli spazi e i segni piú intimi e privati (abitazioni, necropoli, iscrizioni). In basso: l’interno dell’aula occidentale del tempio di epoca repubblicana, impreziosito da eleganti affreschi che, nella parte inferiore, imitano pregiati tessuti.

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La Vittoria Alata all’interno del Capitolium, nell’allestimento realizzato su progetto di Juan Navarro Baldeweg.

Il Museo Patrio, dal 1830, ha continuato ad accogliere opere e reperti portati in luce nell’area urbana grazie alle attività di ricerca e tutela condotte dalla Soprintendenza, ed è stato interessato da progressivi ampliamenti (nel 1954 sono state inaugurate nuove sale al di sopra del Capitolium stesso) fino alla costituzione, nel 1998, del Museo di Santa Giulia all’interno dell’omonimo complesso monumentale, in origine monastero benedettino femminile fondato da Desiderio, ultimo re dei Longobardi, e oggi sito UNESCO unitamente all’area archeologica (longobardinitalia.it). Le sezioni museali e i reperti mobili stimolano la visita agli edifici monumentali ancora presenti nell’area (santuario, Capitolium, teatro, foro, basilica, domus), da cui molti dei reperti stessi provengono, anche tramite un rinnovato storytelling che integra rigorosi contenuti scientifici storico-archeologici e immagini digitali (vedi alle pp. 88-89). Per questo importante anniversario infatti è stato rinnovato il percorso museale dedicato alla città romana

che ha potuto cosí accogliere contesti inediti, quali la stipe rinvenuta presso il Capitolium e depositi di privati (vedi alle pp. 94-97).

CONTEMPORANEITÀ DELL’ARCHEOLOGIA Oggi i due contesti archeologico-museali sono accessibili senza soluzione di continuità con una passeggiata lunga circa mille metri, il cosiddetto corridoio UNESCO, accessibile e gratuito in orario museale, e che, in linea con il profondo senso civico ottocentesco, restituisce ai cittadini una modalità di fruizione del loro patrimonio inedita e innovativa (vedi alle pp. 100-101). La complessità stratigrafica della città non viene vista come una difficoltà, ma come un valore di continuità, leggibile nei riusi, nei reimpieghi e nelle risemantizzazioni di opere e di luoghi, in costante dialogo con la città e la società contemporanea che, grazie alla valenza fondativa del patrimonio archeologico, consente progetti in costante evoluzione verso il futuro. a r c h e o 85


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UN PIONIERE DELL’ARCHEOLOGIA BRESCIANA La riscoperta dell’antica Brixia ebbe fra i suoi promotori il pittore Luigi Basiletti, autore di studi straordinariamente «moderni» di Cristina Ferrari

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n questo 2023, oltre a essere Capitale Italiana della Cultura, Brescia festeggia i 200 anni dell’inizio delle campagne di scavo archeologico nell’area del foro romano e la ricorrenza è un’occasione unica per rinsaldare collaborazioni che in questi ultimi anni hanno portato a importanti iniziative. Oltre alla riapertura del Museo del Risorgimento, il dialogo tra la Fondazione Brescia Musei e l’Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Brescia si è concretizzato nella mostra «Basiletti e l’Antico», a cura di Roberta d’Adda, Bernardo Falconi e Francesca Morandini, con contribuiti di Luciano Faverzani, Sergio Onger e Giulia Paletti. Visitabile fino al 3 dicembre, la mostra chiude un «cerchio virtuoso» di scambi tra Comune, Musei e Ateneo che ha determinato la storia delle scoperte e degli studi archeologici nella città e che oggi si rinnova nel commemorare Luigi Basiletti (17801859), grande protagonista di questa «epopea». Pittore neoclassico, incisore, architetto e, infine, archeologo, Basiletti è stato infatti il primo promotore e il principale sostenitore degli scavi di Brixia romana che riprendono vita attraverso i suoi disegni e incisioni esposti a Palazzo Tosio, sede dell’Ateneo di Brescia. «La scelta dell’Ateneo come sede della mostra non è casuale – spiegano i curatori – in quanto si tratta del palazzo del conte Paolo Tosio, collezionista d’arte, amico e committente di Basiletti che a partire dal 1820 ha curato la decorazione parietale in chiave neoclassica del palazzo stesso. I disegni preparatori del progetto (tra le Arti è rappresentata anche l’Archeologia) sono esposti nella mostra. All’artista, impegnato negli scavi, subentrerà nel 1824 Rodolfo Vantini».

LA FORMAZIONE E LE PRIME OPERE La prima parte del percorso espositivo «racconta» la fascinazione di Basiletti per l’antico e la sua formazione, iniziata con l’ammissione alla Scuola di figura dell’Accademia Clementina di Bologna (1801) e per-

Nella pagina accanto: una delle sale di Palazzo Tosio, sede della mostra dedicata a Luigi Basiletti.

Luigi Basiletti (1780-1859), in un autoritratto eseguito all’eta di venticinque anni. 1805. Brescia, Collezione privata.

fezionatasi durante il primo soggiorno a Roma (1803-1809), durante il quale entra in contatto con esponenti di spicco della pittura neoclassica italiana. I suoi quadri raffigurano soprattutto personaggi e scene mitologiche, ma anche paesaggi e vedute della campagna romana con resti archeologici (autentica testimonianza di come dovevano apparire nel XIX secolo) e scenette di vita popolare, in cui talvolta si autoritrae mentre disegna: «all’epoca era normale disegnare all’aperto, dal vero, per poi realizzare in seguito il dipinto vero e proprio, anche a distanza di anni». Si tratta spesso di «quadri istoriati», paesaggi reali con scene reali o mitologiche oppure luoghi reali con edifici inventati o a loro volta esistenti, ma appartenenti ad altri luoghi. Alcune opere, dipinte proprio per il conte Tosio, sono state ricollocate nelle sale nelle quali erano in origine esposte. La parte piú importante riguarda però il contributo di Basiletti all’archeologia bresciana. Nel 1822, infatti, il pittore-archeologo consegna all’Ateneo (di cui è socio dal 1810) una Planimetria di quella parte di Brescia antica, ove esistettero i principali pubblici edifici, accompagnata da un Ragionamento intorno ad alcuni edifici di Brescia antica e degli scavi da eseguirsi presso i medesimi, da cui si notano le competenze archeologiche acquisite a Roma che voleva applicare anche nella sua città. È una mossa decisiva: il 25 marzo 1823 l’Ateneo gli affida «l’immediata direzione dello scavo» nell’area del Foro romano e di quello che veniva considerato il «Tempio d’Ercole», in seguito invece identificato come dedicato alla Triade Capitolina (Capitolium), e il 4 aprile iniziano i lavori, conclusi nel maggio 1827. Lavori minuziosamente documentati in tutte le fasi e nel loro progredire dallo stesso Basiletti, attraverso vedute prospettiche dal vero (stampate poi con la tecnica dell’acquaforte, in tiratura limitata), preziosissima testimonianza e quasi un moderno «diario di scavo». Interessante è anche un disegno a inchiostro bruno acquerellato con due figure a r c h e o 87


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maschili, forse l’artista stesso (direttore degli un sito archeologico e un Museo in cui scavi) e Antonio Sabatti (responsabile ammi- esporre alla pubblica fruizione i reperti riedificando le tre celle del Capitolium. Convinnistrativo). ce quindi l’Amministrazione ad acquistare i L’ATTENZIONE PER IL CONTESTO terreni e a finanziare i lavori di costruzione Ma se gli scavi in Nord Italia erano per lo piú del Museo, inaugurando nel 1830 il Museo finalizzati a recuperare «oggetti preziosi» per Patrio di antichità. Qui vengono raccolti sia poi trascurare le rovine (i terreni erano solo i reperti provenienti dall’area indagata (tra stati presi in affitto dai proprietari, non ac- cui la Vittoria Alata), sia i materiali del Museo quistati), Basiletti, formatosi a Roma, ha in- Lapidario, conservati dal 1798 nell’ex convece un altro concetto dell’archeologia, di vento di S. Domenico, e quelli immagazzinacui riconosce la rilevanza come restituzione ti in un cortile del vescovado (provenienti del patrimonio antico a fini educativi per dalla città e dalla provincia) dal luglio 1823. I tutta la popolazione, perché se ne compren- lavori di integrazione dei resti architettonici desse l’importanza anche per l’identità citta- sono stati svolti ricostruendo le strutture in dina. È sua l’idea, già nel 1826, di realizzare modo filologico, ma distinguendo sempre le 88 a r c h e o

Il Capitolium dopo gli scavi del 1826 in un disegno di Luigi Basiletti. 1826. Brescia, Musei Civici. Le due figure maschili sulla destra sono forse Luigi Basiletti (con il turbante) e Antonio Sabatti.


A destra: cunicolo sotto il pronao del Capitolium, resto del tempio repubblicano, disegno a matita su carta di Luigi Basiletti. 1826 circa. Brescia, Musei Civici.

parti «nuove» da quelle originarie, metodo per l’epoca molto innovativo. Oltre alle indagini e al Museo, Basiletti è stato promotore anche del Museo Bresciano Illustrato, pubblicazione promossa dall’Ateneo e destinata a eruditi e artisti, con testi di Giovanni Labus, Giuseppe Nicolini, Giuseppe Saleri e Rodolfo Vantini corredati da tavole incise, il cui primo volume (esposto) riporta la data del 1838 (anche se in realtà è stato pubblicato nel 1845). Si nota subito l’assenza, tra gli autori, proprio di Basiletti che nel 1835 aveva deciso di rinunciare a ogni incarico, a causa di divergenze con Rodolfo Vantini. A lui va comunque attribuito il grande merito, celebrato nella mostra, di aver dato l’avvio

alla storia delle indagini archeologiche e degli studi scientifici sulla Brixia romana e di aver contribuito a rafforzare l’identità cittadina e l’amore dei Bresciani per la propria città. Il percorso di visita si conclude nella sala da pranzo il cui pavimento, reso interamente visibile per l’occasione, è stato realizzato con frammenti di lastrine marmoree provenienti dalle aule del Capitolium. DOVE E QUANDO «Luigi Basiletti e l’Antico» Brescia, Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 3 dicembre Info ateneo.brescia.it, bresciamusei.com a r c h e o 89


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CAPOLAVORI A CONFRONTO

Fra gli eventi di questo 2023 spicca la scelta di un «compagno d’eccezione» per la Vittoria Alata

di Cristina Ferrari

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a mostra «Il Pugile e la Vittoria» è un nuovo tassello del programma di valorizzazione e riqualificazione della Fondazione Brescia Musei per l’area archeologica, iniziato con la ricollocazione, nel 2021, della Vittoria Alata nel Capitolium, secondo il progetto di riallestimento curato dall’architetto e artista spagnolo Juan Navarro Baldeweg. Per la prima volta vengono esposti insieme Pugile, statua in bronzo di epoca ellenistica. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.


e messi a confronto la scultura bronzea, tra i simboli di Brescia, e lo straordinario bronzo ellenistico raffigurante un pugilatore a riposo, proveniente dal Museo Nazionale Romano. L’evento costruisce un legame ideale tra il patrimonio archeologico di Roma, Capitale d’Italia, e quello di Brescia, Capitale Italiana della Cultura, che è tra i piú ricchi del Nord Italia. L’allestimento, curato anch’esso da Juan Navarro Baldeweg, presenta le due statue lontane tra loro e che non si guardano direttamente, ma solo attraverso un cristallo specchiante, in una triangolazione di elementi che permette di cogliere i numerosi fili che le legano in una narrazione concettuale sui valori assoluti da loro rappresentati ancora oggi. Abbiamo incontrato Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei e Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano, per chiedere di parlarci di questa iniziativa. ♦ Che cosa rappresenta questa collaborazione per la Fondazione Brescia Musei e per il Museo Nazionale Romano? SK «La mostra rappresenta un omaggio che Roma, Capitale d’Italia, fa a Brescia, Capitale Italiana della Cultura, attraverso il Pugile, straordinaria opera simbolo dalla statuaria bronzea antica e che ha molto in comune con la Vittoria Alata, a partire dal materiale (bronzo) e dalla tecnica di fusione (a cera persa). Ma hanno in comune anche la storia: entrambe le statue sono state rinvenute durante scavi archeologici condotti nel XIX secolo e sono diventate oggetto di attenzioni e cure a livello internazionale, oltre a venire incluse in collezioni museali pubbliche e a diventare simbolo di valori universali. Ma questa collaborazione è anche un percorso doveroso in quanto i Musei sono enti vivi che devono attivare relazioni e rafforzare i legami tra loro e altre Istituzioni per proporre sempre nuove iniziative culturali». SV «Concordo con quanto detto da Stefano Karadjov e aggiungo che per il Museo Nazionale Romano è stato un onore poter contribuire alle celebrazioni per l’anno di Brescia Capitale. E di averlo fatto proprio con questa sua opera iconica. Era importante metterla a confronto con la Vittoria Alata, in quanto sono entrambi sia straordinari (e rari) esempi della grande statuaria antica, sia opere con valenza contemporanea, che ancora oggi pos-

Vittoria Alata, statua bronzea databile alla metà del I sec. d.C. Brescia, Capitolium.

sono “parlare” alle persone. Da una parte abbiamo il Pugile, capolavoro ellenistico di dibattuta datazione e origine, colto in un momento di riposo, stanco e provato dal combattimento e che volge lo sguardo in alto, diventando per noi un simbolo di resilienza. Dall’altra invece la Vittoria di I secolo d.C. che rappresenta la Nike, la Vittoria militare. Il loro incontro è quindi un dialogo tra la resilienza greca e la vittoria romana, creando un equilibrio tra forza e pacificazione». ♦ Nell’allestimento le due statue, pur essendo esposte nella stessa aula del Capitolium, non si guardano… a r c h e o 91


SPECIALE • BRESCIA In queste pagine: particolari del volto del Pugile del Museo Nazionale Romano, ritratto con straordinario realismo al termine di un combattimento.

Attraverso le due statue è stato istituito un dialogo tra la resilienza greca e la vittoria romana SV «È una scelta ben precisa in quanto non fanno parte di un gruppo statuario antico, ma sono state accostate in un «gruppo moderno», frutto di un processo di rigenerazione delle opere in chiave contemporanea. Questo accostamento di opere originariamente non pertinenti tra loro ha in effetti origini molto antiche, in quanto nei santuari in Grecia (probabile origine del Pugile) venivano conservate ed esposte statue spesso legate solo da un continuum ideologico/politico, la cui disposizione poteva quindi cambiare a seconda dell’epoca e della mentalità, a creare 92 a r c h e o

nuovi messaggi e significati. È un po’ un modo di ritrovare questa «passione» antica di ricombinare per comporre nuovi gruppi. Ma, allo stesso tempo, il visitatore deve essere consapevole della loro distanza, che nell’allestimento diventa anche fisica (difficilmente sarà possibile immortalarle entrambe in un’unica fotografia). Il cristallo specchiante diventa un elemento che, metaforicamente, le unisce e divide allo stesso tempo in un legame indiretto». SK «Nell’interpretazione di Juan Navarro Baldeweg le due statue, soggetti autonomi,


vengono trasformate dal cristallo specchiante che le fa diventare un unicum artistico contemporaneo, in linea con la strategia culturale di contaminazione tra antico e moderno per creare un linguaggio oggi comprensibile. Un’unica immagine forte ed evocativa, in quanto l’archeologia deve essere «popolare», rivolta a tutti. D’altra parte bellezza e cultura sono per antonomasia cura, anche della nostra fragilità. Le sculture sono accomunate anche dalla propensione al

successo, la volontà umana di andare sempre avanti e di progredire». ♦ La mostra realizzata a Brescia ha portato all’avvio di ulteriori progetti? SV «La collaborazione ha permesso al Museo Nazionale Romano di portare avanti operazioni di restauro e indagine di alcuni suoi capolavori e di rinnovo degli allestimenti. Il Pugile, per esempio, è stato sottoposto a indagini radiografiche e, per l’esposizione nella mostra, è stata realizzata una nuova base che, a fine evento, costituirà il basamento definitivo nel Museo Nazionale Romano. Il partenariato ha però permesso anche di restaurare una statua bronzea di un personaggio togato del II secolo d.C. rinvenuta sotto il Ponte Sisto e che faceva parte della decorazione del ponte stesso nell’epoca di Valentiniano I. Trasformata nel IV secolo d.C. in un ritratto dell’imperatore, la scultura verrà esposta nel Museo inizialmente al posto del Pugile, per poi entrare nel suo allestimento permanente. L’evento ci ha quindi permesso di restituire alla pubblica fruizione una nuova straordinaria opera d’arte. SK «Nell’ambito della mostra viene esposta anche un’ala in bronzo dal Museo Nazionale Romano, pertinente a una vittoria alata coerente con quella di Brescia e con la quale condivide probabilmente una storia simile di riscoperta. L’ala è collocata nella sala del Museo di Santa Giulia che in origine accoglieva la Vittoria Alata (oggi sostituita da un’installazione multimediale) e quindi viene metaforicamente collegata al ripostiglio dei bronzi di cui la statua bresciana faceva parte». SV «Vorrei sottolineare che anche l’ala proviene dal Ponte Sisto e apparteneva a una scultura di epoca augustea rimaneggiata, come il togato, in epoca tardoantica, età in cui spesso venivano riutilizzate opere piú antiche. Ma questo di fatto è quanto avveniva nei santuari ellenistici e che succede ancora oggi, proprio come stiamo facendo in questa mostra, chiudendo cosí un cerchio ideale». DOVE E QUANDO «Il Pugile e la Vittoria» Brescia, Brixia. Parco archeologico di Brescia romana fino al 29 ottobre Info bresciamusei.com a r c h e o 93


SPECIALE • BRESCIA Pettorale bronzeo da cavallo di statua equestre con scena di battaglia fra Romani e barbari, bronzo, dall’area del Capitolium I sec. d.C.

UNA «NUOVA» CITTÀ ANTICA Il Museo di Santa Giulia presenta il rinnovato e arricchito allestimento della sua importante sezione romana di Cristina Ferrari

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l 22 gennaio 2023, in occasione dell’apertura dell’anno della Capitale italiana della Cultura, il Museo di Santa Giulia di Brescia ha inaugurato la nuova sezione romana, una delle piú significative e che maggiormente esprime il flusso dinamico e virtuoso tra ricerca e valorizzazione. «Si tratta di un aggiornamento necessario, a 25 anni dall’apertura del Museo (inaugurato nel 1998) – spiega Francesca Morandini, archeologa della Fondazione Brescia Musei – in quanto, in questi ultimi anni, molti dei reperti qui

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precedentemente esposti sono stati spostati nell’area archeologica di Brixia romana. La sezione, progressivamente “svuotata”, doveva quindi venire nuovamente “popolata”, fatto che ha permesso di esporre nuovi reperti scoperti in questi 25 anni, inediti o già studiati, ma mai presentati al pubblico». Tra quelli già studiati vanno citati elementi della decorazione del Capitolium e del teatro romano e, tra quelli provenienti da scavi recenti, la straordinaria stipe votiva scoperta presso l’antico tempio. L’allestimento nasce da una

Nella pagina accanto, in basso: particolare dell’allestimento della sala dei bronzi della sezione romana del Museo di Santa Giulia.


riflessione su come narrare il patrimonio archeologico bresciano e su come sia stato preservato. Brescia vanta infatti una storia di grande sensibilità, conservazione, cura, studi e valorizzazione del proprio passato e della propria identità, grazie anche al supporto e all’amore della cittadinanza.

SCOPERTE E RISCOPERTE La sezione romana presenta gli aspetti principali della Brixia romana dal I secolo a.C. fino al IV secolo d.C., la cui conoscenza è dovuta al lavoro e all’attenzione degli studiosi e delle istituzioni cittadine a partire almeno dal 1480, anno in cui il Consiglio municipale impose l’obbligo di conservare tutte le «pietre lavorate e inscritte» già rinvenute o che sarebbero state scoperte in futuro. Lavoro e attenzione sfociati poi nelle campagne di indagine dell’Ottocento (dal 1823) che hanno portato alla riscoperta dei monumenti antichi e di straordinari reperti, tra cui la Vittoria Alata, divenuti simboli di Brescia e intorno a cui si è costruita un’identità cittadina. Si è scelto quindi di usare la «voce» dei protagonisti di questa epopea, Basiletti, Vantini, Labus, attraverso citazioni, grafica e ina r c h e o 95


SPECIALE • BRESCIA

stallazioni multimediali inserite in quinte teatrali all’interno delle sale. Si parte dagli studi antiquari, dalle prime ricerche archeologiche e dal collezionismo privato, per passare ai lacerti decorativi del santuario di epoca repubblicana (visitabile nell’area archeologica) e al Capitolium di cui, attraverso reperti selezionati, vengono raccontati la storia, l’architettura e la decorazione, ma anche l’abbandono.

LA VITA DEL SANTUARIO Importanti sono il deposito dei bronzi scoperto nel 1826 (comprendente anche la Vittoria Alata, il Prigioniero e le teste-ritratto dorate di imperatori e membri della famiglia imperiale) e la nuova stipe votiva, rinvenuta nel 1998 in un settore del Capitolium stesso. Quest’ultima è costituita da oggetti che coprono un arco cronologico dal I al IV secolo d.C., riferibili ad attività svolte nel santuario e negli «ambienti

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Maschera grottesca, dalla stipe del Capitolium. II-III sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: mensola in pietra di Botticino con testa di fauno. Seconda metà del I sec. d.C. Nella pagina accanto , in basso: ritratto in bronzo dorato di di Settimio Severo, dall’area del Capitolium. Seconda metà del III sec. d.C. In basso: un‘altra sala della sezione romana.

secondari» (magazzini, cucine, officine di restauro, ecc.), oggetti votivi o legati alle pratiche cultuali, statue, arredi bronzei, cornici, crogioli, strumenti di lavoro, ceramiche, terra sigillata, gioielli, lucerne e vetri. Importanti sono una maschera grottesca in ceramica di II-III secolo d.C., forse il dono di un soldato, e tre straordinari vetri incisi, due bottiglie di fine III-inizio IV secolo d.C. con iscrizioni e raffiguranti rispettivamente un auriga vincitore e una veduta di una città (quest’ultima realizzata probabilmente in Campania, nella zona tra Baia e Pozzuoli) e una bottiglia di fine II-inizio III secolo d.C. con fregio dionisiaco. La sezione continua con la parte dedicata alla città e ai principali edifici monumentali, alle abitazioni, alle strade, alle mura, alle necropoli e alle epigrafi. «Un’altra novità – spiega Morandini – è rappresentata anche da una mensola architettonica in pietra di Botticino a forma di testa di Fauno, parte della decorazione del Foro, relativa forse a un accesso pedonale, come testimoniato in altri fori di città della Venetia et Histria». La testa, che va ad aggiungersi alle due

altre mensole antropomorfe (raffiguranti Giove Ammone e Pan) già parte del patrimonio civico dal XIX secolo, è stata concessa in deposito da un cittadino bresciano, ulteriore testimonianza dell’attenzione e dell’amore dei Bresciani per la propria città. «Una sponsorizzazione del Lions Club Vittoria Alata di Brescia ha permesso un adeguamento dei plastici che raffigurano l’area del foro e l’inserimento di mappe tattili, primo tassello di un futuro percorso per persone non vedenti». Le mappe permettono ai non vedenti la lettura tattile della sequenza delle sale e dei temi illustrati in esse, relativi ai monumenti e alle varie epoche. «Ma la ricerca e la valorizzazione vanno sempre avanti: è stato di recente avviato un percorso di studio sulle teste-ritratto in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, come già avvenuto per la Vittoria Alata nel 2020». DOVE E QUANDO Museo di Santa Giulia Brescia, via Musei, 81/b Info bresciamusei.com a r c h e o 97


SPECIALE • BRESCIA Una delle installazioni digitali realizzate da NONE Collective per la nuova sezione romana del Museo di Santa Giulia.

FRA TECNOLOGIA E TRADIZIONE Il progetto di riallestimento della sezione romana del Museo di Santa Giulia ha compreso il ricorso ad apparati didattici e multimediali pensati per favorire la ricezione dei messaggi e dei contenuti documentati dai reperti di Cristina Ferrari

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uò la tecnologia contribuire a creare una diversa idea di museo? Nasce anche da questo interrogativo il nuovo allestimento della sezione romana del Museo di Santa Giulia a Brescia. «Il percorso, come già spiegato da Francesca Morandini, è un aggiornamento necessario, a 25 anni dall’apertura del Museo – racconta Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei –, ma, allo stesso tempo, completa un piano partito nel 2019 quando è stato deciso di trasferire la statua della Vittoria Alata dal Museo all’interno del Capitolium». Il progetto ha preso in considerazione anche esigenze di carattere culturale, ovvero la necessità di affiancare la «narrazione tradizionale», costituita da didascalie e pannelli esplicativi, con una nuova narrazione digitale, immersiva e analogica, capace di creare un linguaggio che catturi l’attenzione e sia comprensibile per tutti. 98 a r c h e o

I musei infatti non devono piú essere visti come semplici «contenitori» di opere d’arte, ma diventare luoghi in cui avviene un processo di trasformazione ed educazione del pubblico, attraverso le opere stesse. Risultato attuato in tre installazioni digitali realizzate grazie alla collaborazione degli esperti archeologi e storici della Fondazione Brescia Musei con NONE Collective, studio artistico italiano interdisciplinare fondato nel 2014 da Gregorio Comandini, Saverio Villirillo e Mauro Pace. «Per il Museo di Brescia – spiega Gregorio Comandini – il lavoro si è concretizzato in ambienti immersivi, con una reinterpretazione dei contenuti attraverso uno storytelling supportato da nuovi linguaggi visivi, senza una voce narrante per lasciare piú spazio possibile all’immaginazione. Allo stesso tempo però era necessario trasmettere il messaggio. Si è quindi scelto di creare instal-


Particolare di un’altra installazione digitale della sezione romana del Museo di Santa Giulia.

lazioni differenti a seconda dei contenuti che si volevano trasmettere, caratterizzate dalla sincronizzazione di audio, video e luci, tramite dispositivi tecnologici e scenografie che «parlano» una lingua universale, in grado di raggiungere un pubblico di tutte le età». Un linguaggio che cattura l’attenzione dei visitatori accompagnandoli durante la visita, già dalla prima sala.

COME IN UNA MACCHINA DEL TEMPO «Forme e luoghi della memoria» racconta l’epoca romana e gli oltre 500 anni di amore dei Bresciani per la propria città e le proprie origini antiche, mediante grafiche e immagini storiche, volti e voci di cittadini illustri e luoghi particolarmente significativi che evocano il percorso di tutela e valorizzazione. Da un box nero che evoca le profondità della terra da scavare, affiorano progressivamente gli «strati» che nascondono la storia di Brescia, 6 lastre con incise le cartografie della città in diverse epoche, come in una «macchina del tempo». Le carte geografiche, scelte non in sequenza (narrazione non lineare che crea un effetto sorpresa) affiorano verso la superficie del box sovrapponendosi tra loro, mentre sulla parete retrostante vengono proiettati disegni e fotografie degli scavi, dei reperti e dei protagonisti dell’epoca in uno spazio a forma di arco a tutto sesto. Il finale resta «aperto» per poter aggiungere, in futuro, nuove lastre, ulteriori tasselli della narrazione. «La Vittoria Alata. Viaggio di un mito» nasce da un’assenza, ovvero l’assenza fisica della scultura (spostata nel Capitolium) e dalla conseguente necessità di rappresentarla. Si è quindi partiti dalla pedana vuota e si è scelto di raccontare la storia della statua, a partire dal 69 d.C. (battaglia di Bedriacum) a oggi, l’iconografia, le caratteristiche tecniche e la sua genesi da divinità nel mondo antico fino a simbolo universale riprodotto anche su francobolli e prodotti commerciali. La narrazione si sviluppa su un tableau, un pannello orizzontale frontale che diventa una sorta di «quadro vivo» su cui, grazie a una speciale vernice a pigmenti di fosforo che trattiene la luce, un laser dipinge i tratti della Vittoria, evocandone la presenza fisica con scie luminose, come in una magia. Su due arcate poste ai lati del pannello vengono proiettate immagini in alta definizione che narrano la sua storia.

L’ultima installazione interessa una sala di collegamento, una sorta di «passaggio» in cui sono esposte 3 statue frammentarie e che introduce alle Domus dell’Ortaglia e alla sezione dedicata all’edilizia privata. La città e le abitazioni vengono rappresentate in «Architettura, Uomo e Natura», un’installazione che evoca i luoghi in cui va in scena la vita dell’uomo dall’età antica sino a oggi e li mette a confronto con l’elemento naturale. Sulle quattro pareti vengono ricreati la strada, le mura, la piazza con i porticati, le colonne, le abitazioni e gli edifici pubblici (il Capitolium e il teatro) all’interno dei quali si muovono silhouette umane accompagnate da voci. Gli spazi, le geometrie e le forme si affiancano allo scorrere del tempo, alla ciclicità della natura e della storia umana con la presenza dell’uomo come filo conduttore nell’arco di una giornata. Dall’alba al tramonto si alternano momenti di bel tempo, vento e pioggia (che «accarezza» i busti), partendo da una dimensione privata e intima (domus), raccolta (un porticato sotto cui giocano dei bimbi e si sente una voce femminile che li chiama) fino ad arrivare alla dimensione pubblica della piazza e all’applauso del pubblico nel teatro. Ma è anche il filo conduttore della vita, lo stesso che si ripete da millenni, sintetizzato appunto da uomo e natura.

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SPECIALE • BRESCIA

A PASSEGGIO NELLA STORIA Il Museo di Santa Giulia e il parco archeologico di Brixia sono oggi collegati da un percorso, il Corridoio UNESCO, grazie al quale si possono ripercorrere, anche fisicamente, i molti secoli di vita della città di Cristina Ferrari

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el 2022, all’indomani dello spostamento della Vittoria Alata dal Museo di Santa Giulia al Capitolium, sua probabile sede originaria, è diventato ancora piú importante creare un collegamento anche fisico tra i due siti «che di fatto rappresentavano già un unico complesso museale, ma con due poli separati da uno spazio urbano abitato», come spiega Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei. Il progetto, partito nel 2019 e che ha subito un’interruzione a causa del COVID, è divenuto realtà con l’inaugurazione, avvenuta l’8 giugno scorso, del «Corridoio UNESCO», un passaggio con camminamento pedonale molto scenografico, fruibile anche dalle persone disabili, ideato in occasione dei dieci anni dall’iscrizione di Santa Giulia e del parco archeologico nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO. «Si tratta di un’operazione museologica che consente di percepire e ammirare il dominio museale nella sua interezza e che, oltre a collegare i due siti, offre la possibilità di accedere con un unico biglietto al Capitolium (e al sottostante tempio repubblicano) e al Museo, invogliando quindi a visitarli entrambi».

UN ITINERARIO SUGGESTIVO E SENZA CESURE Il corridoio è una passeggiata tra diversi monumenti e diverse epoche storiche, un vero e proprio unicum a livello internazionale, perché permette di camminare rimanendo immersi, sia fisicamente che a livello visivo, nelle strutture architettoniche del parco di Brixia romana e di parte del complesso monumentale di Santa Giulia senza uscire dal percorso stesso e dover entrare nel Museo. Durante la passeggiata si «toccano» l’area dell’antico tempio con il santuario repubblicano (I secolo a.C.) e il Capitolium (I secolo 100 a r c h e o


Sulle due pagine: immagini del Corridoio UNESCO e dei diversi siti che il percorso permette di raggiungere, senza interruzione, snodandosi dal Museo di Santa Giulia fino al parco archeologico di Brixia romana.

rinascimentali destinate a mostre temporanee gratuite. Attualmente ospitano la mostra «La mia testa è un foglio A3», in cui vengono esposti i disegni preparatori delle straordinarie installazioni di Fabrizio Plessi montate all’interno del Museo e del Capitolium (vedi alle pp. 102-105).

d.C.). Da qui, percorrendo il medievale vicolo del Fontanone, si costeggia il teatro romano (III secolo d.C.) e si raggiungono i chiostri di S. Salvatore e S. Maria in Solario dell’VIII e XIII secolo d.C., parte del complesso museale e per la prima volta aperti al pubblico, passando anche accanto all’ex chiesa di S. Giulia (XVI secolo), oggi auditorium. La passeggiata si conclude nel Viridarium, il «giardino» delle domus ricostruito come sarebbe potuto apparire in epoca romana con strutture architettoniche, alberi, fiori ed erbe utilizzati per scopi decorativi, culinari e terapeutici e arricchito da installazioni contemporanee, tornando simbolicamente al «punto di partenza» con l’epoca romana e chiudendo cosí un cerchio ideale. Ai due estremi del Corridoio si trovano i punti vendita presso i quali è possibile acquistare i biglietti per gli accessi agli interni monumentali e museali. Nel corpo di fabbrica tra il chiostro di S. Salvatore e quello di S. Maria in Solario, sono state riaperte le cosiddette «Sale dell’affresco» decorate con pitture

MILLE METRI DI BELLEZZA È un percorso di circa 1 km di bellezza attraverso cinque vere e proprie «piazze» delimitate dai monumenti, una passeggiata diacronica lungo 2500 anni di storia che aggiunge un ulteriore importante tassello al progetto di restituzione e valorizzazione dell’area archeologica di Brescia. Il Corridoio è aperto in orario museale, liberamente e gratuitamente, e l’intero percorso è indicato da una segnaletica in italiano e inglese, appositamente progettata che comprende anche quattro mappe tattili per non vedenti. L’apertura del Corridoio UNESCO è stata anche l’occasione per dedicare lo spazio davanti all’ingresso del santuario repubblicano a Gaio Elvio Cinna (88-44 a.C.), poeta bresciano di epoca romana e amico di Catullo, per recuperarne la memoria e, allo stesso tempo, sottolineare l’importanza di Brixia nel I secolo a.C. Inoltre, di fronte all’area dell’antico tempio, e quindi all’inizio del percorso, si trova Piazza del Foro (luogo pubblico), con i resti del porticato del Foro Romano (visibili nella piazza stessa) e i due percorsi archeologici all’interno di Palazzo Martinengo Cesaresco Novarino, visitabili gratuitamente. a r c h e o 101


SPECIALE • BRESCIA

QUANDO IL CONTEMPORANEO SPOSA L’ANTICO Gli spazi del Museo di Santa Giulia e del parco archeologico si aprono alle suggestive opere dell’artista Fabrizio Plessi di Cristina Ferrari

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l dialogo tra archeologia e arte contemporanea, topos della Fondazione Brescia Musei, è ben rappresentato dalla mostra «Plessi Sposa Brixia», terzo

Una delle opere della serie Capita Aurea di Fabrizio Plessi, esposta nell’aula occidentale del Capitolium.

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appuntamento del format «Palcoscenici archeologici», dopo le mostre di Francesco Vezzoli (2021) e di Emilio Isgrò (2022). «Il trittico espositivo – spiega Francesca Bazoli, presidente della Fondazione – rientra nella missione della Fondazione, che ha l’obiettivo di valorizzare il grande patrimonio storico, artistico e archeologico della città ed è stato progettato con lo scopo di avvicinare il pubblico alla comprensione di tale patrimonio».

INSTALLAZIONI SITE SPECIFIC La mostra, a cura di Ilaria Bignotti e promossa da Comune di Brescia e Fondazione Brescia Musei, comprende cinque installazioni site specific realizzate con le piú moderne tecnologie e una esposizione di progetti di Fabrizio Plessi, artista tra i pionieri della videoarte nel mondo e tra i primi ad aver utilizzato il monitor televisivo come un vero e proprio materiale. Si tratta di un percorso immersivo appositamente pensato per il parco archeologico di Brixia romana e il Museo di

Il grande anello nuziale realizzato da Fabrizio Plessi nella basilica longobarda di S. Salvatore.

Santa Giulia, di cui sottolinea i resti monumentali e i reperti reinterpretandoli con l’arte e l’alfabeto tecnologico e multimediale tipico dell’artista, formato da luce, suono e immagini in movimento. Nella mostra vengono coniugati i valori della bellezza, della salvaguardia e della tradizione con la valorizzazione e il riconoscimento del luogo, della sua identità e del suo valore assoluto, combinando passato e futuro tramite il digitale. L’artista ha deciso di concentrarsi su 5 grandi icone, sulle quali ha lavorato per operare la loro trasformazione multimediale attraverso l’oro che si scioglie in colate a simboleggiare la Vanitas e la caducità del potere e della gloria, ma anche la ciclicità del tempo e la rigenerazione, fondali neri, gorghi di luce, suoni e movimenti. È una trasformazione degli elementi (acqua, terra, fuoco e aria) per mezzo del nero e dell’oro. «Il messaggio – conclude Bazoli – dell’arte classica viene risemantizzato tramite quello dell’arte contemporanea, a partire dalla suga r c h e o 103


SPECIALE • BRESCIA

interno scorre «oro liquido» che sancisce il matrimonio simbolico con il Museo e i suoi reperti, ma anche con la città e i cittadini. Sullo sfondo nero nelle Domus dell’Ortaglia si staglia Underwater Treasure, schermi da cui emergono mosaici dorati in lentissimo movimento, vere e proprie maree digitali nelle quali la memoria si frantuma nelle «onde dorate e neri fondali della storia». Il mosaico, il cui riverbero dorato si irradia sulle superfici e sul soffitto, «respira» e sembra essere sott’acqua, la stessa acqua che costituiva l’elemento dominante della Domus delle Fontane, capolavoro di ingegneria idraulica dell’epoca, di fronte all’installazione. Il pubblico dialoga con le pietre miliari, anticamente collocate lungo le vie di accesso alla città, con Colonne Colanti. Tre colonne, simbolo di potere e vittoria oltre che elemento dallo slancio verticale che mira al cielo e all’eternità, si liquefanno in gocce dorate, facendo riflettere sulla vanagloria e sulla caducità del potere, ma allo stesso tempo ricordangestione della vitalità dell’oro fuso e della vittoria sul nero della morte, l’artista alimenta una profonda riflessione sull’esistenza umana incastonando l’elemento digitale e multimediale nel patrimonio materiale e monumentale della Brixia romana, longobarda e rinascimentale e in tal modo rendendo ancor piú vitale lo spazio museale». Il percorso si apre nell’aula occidentale del Capitolium con Capita Aurea, tre schermi neri multimediali su cui vengono riprodotte le vedute posteriori di tre delle teste in bronzo dorato di imperatori, parte del ripostiglio di bronzi rinvenuto proprio nel tempio nel 1826 ed esposte al museo di Santa Giulia. Le teste in metallo, posizionate dietro a tre teste in marmo bianco rinvenute nell’area, si stagliano nella loro «dorata potenza» per poi iniziare a liquefarsi, colando in una pozza dorata che si allarga e sparisce, per poi risorgere in un continuo ciclo di rigenerazione.

SIMBOLO DI FEDELTÀ Fulcro del progetto è il grande anello nuziale che si erge nella basilica longobarda di S. Salvatore, simbolo di fedeltà, rispetto, amore per il passato quale fonte e sorgente della ricerca artistica contemporanea e sorgente di valori a cui ispirarsi. L’opera, senza titolo, è costituita da un anello verniciato d’oro al cui 104 a r c h e o

A sinistra: Colonne Colanti, opera di Fabrizio Plessi in cui i tre manufatti antichi, simbolo di potere e vittoria, si liquefanno in gocce dorate. In basso, sulle due pagine: la statua di Santa Giulia Crocifissa e, a destra, Floating Santa Giulia.


Underwater Treasure, l’installazione realizzata da Fabrizio Plessi nelle Domus dell’Ortaglia.

do la bellezza delle costruzioni umane e delle antiche rovine su cui l’arte contemporanea si interroga. Di forte impatto emotivo è Floating Santa Giulia, che si basa sulla Santa Giulia Crocifissa, originariamente parte del corredo della chiesa. Plessi si è concentrato soprattutto sul panneggio della figura della santa martire che viene reso fluido, come mosso dal vento. L’immagine, simbolo di fede e di sacrificio, diventa quindi anche simbolo di come l’arte può superare i confini della materialità attraverso il suo «slancio trascendentale». La mostra si conclude idealmente con La mia testa è un foglio A3, esposizione a sua volta concepita come un’installazione site specific, con oltre 80 progetti, molti dei quali dedicati alla mostra stessa, esposti nelle Sale dell’Affresco, aperte in occasione dell’inaugurazione del Corridoio UNESCO. Al termine dell’evento Floating Santa Giulia e uno dei Capita Aurea saranno donati alla Fondazione Brescia Musei. DOVE E QUANDO «Plessi sposa Brixia» Brescia, Museo di Santa Giulia-Brixia. Parco archeologico di Brescia romana fino al 7 gennaio 2024 Info bresciamusei.com a r c h e o 105


TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Luciano Frazzoni

ALL’INIZIO ERA IL FIUME... ALLE ORIGINI DEI VASI RECUPERATI NEGLI SCAVI ARCHEOLOGICI C’È UNA LUNGA CATENA OPERATIVA. IL CUI PRIMO PASSO CONSISTEVA NEL REPERIMENTO DELL’ARGILLA, MATERIA PRIMA ESSENZIALE PER PERMETTERE AL CERAMISTA DI CREARE CONTENITORI D’OGNI SORTA

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a prima operazione da compiere per creare manufatti ceramici è l’estrazione dell’argilla, ottenuta scavando con appositi attrezzi (piccone, pala, vanga) il terreno nel quale ne sia stata accertata la presenza, creando cosí una vera e propria cava. I depositi argillosi possono trovarsi in zone diverse, in pianura e in collina, o anche nei letti dei fiumi: l’architetto e pittore di maioliche Cipriano

Piccolpasso (1524-1579), autore dell’opera I tre libri dell’arte del vasaio (1548), dice, per esempio, che i ceramisti di Urbino estraevano l’argilla dal Metauro. Segue poi la stagionatura, consistente nel lasciare i blocchi di argilla esposti all’azione degli agenti atmosferici, per un lasso di tempo variabile, cosí da aumentarne il grado di plasticità e migliorarne la lavorazione. Dopo questa fase, la creta viene

sottoposta a depurazione, per eliminare i frammenti di rocce e minerali di dimensioni non adatte alla lavorazione, oltre che resti fossili e vegetali eventualmente presenti. Dopo aver posto l’argilla in grandi vasche o bacili con acqua, si lasciano depositare sul fondo i materiali piú pesanti, quindi si preleva la parte liquida rimasta nella parte piú superficiale, la cosiddetta barbottina, una sospensione argillosa uniforme piú o meno densa in rapporto alla percentuale di argilla e acqua (sedimentazione).

DA UNA VASCA ALL’ALTRA Un altro sistema di depurazione consiste nel porre l’argilla in una serie di vasche degradanti collegate tra loro. Facendo scorrere l’acqua dalla prima vasca alle successive, si ottiene una barbottina sempre piú fine, in quanto le componenti argillose di grandi dimensioni o piú pesanti si depositano sul fondo. Maggiore è il numero delle vasche e piú lento lo scorrimento dell’acqua, tanto piú depurata sarà l’argilla. Infine, un terzo metodo è quello della setacciatura, consistente nel sottoporre l’argilla a vari lavaggi, attraverso setacci a maglie via via piú fitte. Dopo essere stata depurata, la massa di argilla deve consolidarsi, ossia perdere l’acqua in eccedenza, per arrivare a un blocco della consistenza adatta alla lavorazione. Il ceramista può, pertanto,

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Tavoletta dipinta di produzione corinzia raffigurante due ceramisti al lavoro, da Penteskouphia (presso Corinto, Grecia). Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. Nella pagina accanto: tornio in terracotta, da Myrtos (Creta). Minoico Antico IIB (2600-2300 a.C.). Aghios Nikólaos (Creta), Museo Archeologico.

immagazzinare la creta in un luogo adatto all’essiccamento. Naturalmente, al momento dell’uso si dovrà aggiungere nuovamente acqua, per rendere l’argilla sufficientemente plastica. Inoltre, per garantire maggiore resistenza e abbassare il punto di fusione in fase di cottura, l’artigiano può aggiungere all’impasto argilloso altre componenti, come degrassanti (quarzo, mica) e fondenti (feldspati, ossidi di ferro, calcare, talco). Oltre a questi elementi naturali, come degrassante si può usare anche la «chamotte», ossia la terracotta macinata piú o meno finemente. Si tratta, in questo caso, di un elemento artificiale, che dimostra l’intervento diretto del ceramista nella realizzazione dell’impasto argilloso che poi modellerà. Un ulteriore trattamento, prima della modellazione, consiste nel sottoporre le masse di argilla a compressioni e battiture, eseguite con il pugno e la mano aperta, per rendere l’impasto piú omogeneo, ed eliminare eventuali bollicine d’aria ancora presenti all’interno. Dopo aver effettuato queste

operazioni, il ceramista è pronto per dar forma all’impasto argilloso. Le tecniche di modellazione della ceramica sono diverse, piú o meno evolute, frutto di esperienze e culture che si sono tramandate e trasformate nel corso dei secoli, e che in alcuni casi sono giunte sino a noi, spesso anche combinate tra loro. Ma è evidente che gli strumenti principali per modellare l’argilla sono le mani del vasaio. Cerchiamo allora di esporre le principali tecniche di foggiatura.

MANI E PERCUSSORI La pizzicatura consiste nel realizzare un piccolo vaso di forma emisferica, partendo da una palla di argilla, che viene incavata scavandola all’interno e progressivamente appiattendone le pareti a mano libera o battendole all’interno e all’esterno con un percussore, come, per esempio, un ciottolo piatto. Un’altra tecnica per ottenere, sempre da una massa sferica di argilla, dei semplici contenitori conici prevede lo scavo all’interno del blocco, e l’assottigliamento e il sollevamento delle pareti verso l’alto per battitura

e lisciatura, servendosi anche in questo caso di un percussore. La modellazione a masserelle, attestata in Asia meridionale almeno dal 5500 a.C., consiste nel sovrapporre piccole masse di argilla che vengono poi regolarizzate e assottigliate con il palmo della mano o con un ciottolo fino a ottenere un vaso che può essere ulteriormente lavorato; oltre che mediante masserelle, si possono trovare manufatti realizzati con lastre di argilla di eguale spessore, sovrapposte e unite per formare pareti e altre parti del vaso, poi regolarizzate. Ma la tecnica a mano piú comune è senza dubbio quella «a colombino» o «a cercine». Essa prevede la realizzazione di un cordone di argilla, che viene arrotolato a formare una spirale sovrapponendo un anello all’altro fino a ottenere la forma voluta. Man mano che la parete si alza, i vari anelli vengono saldati insieme e regolarizzati a formare un corpo unico, a mano o sempre mediante uno strumento piatto. Oltre che con una spirale continua, si possono trovare vasi formati da anelli singoli sovrapposti, o anche segmenti di argilla a sezione circolare. Con questa tecnica si possono realizzare anche singole parti di vasi, che vengono poi assemblate tra loro, saldate e regolarizzate. Un vaso realizzato con la tecnica a cercine può, inoltre, essere ulteriormente regolarizzato al tornio, essendo abbastanza comune l’utilizzo di piú tecniche combinate. La foggiatura

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In alto: particolare della decorazione di un’hydria (vaso per acqua) attica a figure nere del Pittore di Leagro con il laboratorio di un vasaio, da Vulci. 550-500 a.C. Monaco di Baviera, Antikensammlungen. In basso: tavoletta dipinta raffigurante un vasaio al tornio che rifinisce un aryballos (piccolo vaso per unguenti), da Penteskouphia (presso Corinto, Grecia). Parigi, Museo del Louvre. al tornio è infatti una delle tecniche piú diffuse.

UN’INVENZIONE RIVOLUZIONARIA Il tornio per modellare la ceramica con moto rotatorio compare contemporaneamente nella seconda metà del V millennio a.C. nell’area dell’Asia centro-meridionale che va dall’Anatolia alla Mesopotamia, all’India e alla Cina. Tra gli esempi piú antichi di ceramica realizzata a tornio, si può annoverare una ciotola proveniente dal sito di Hacinebi Tepe, nell’Anatolia sud-orientale, databile tra il 4000 e il 3500 a.C. Probabilmente in questo periodo e fino alla metà del II millennio a.C., nel Vicino Oriente il tornio era utilizzato solo per realizzare ciotole emisferiche e bicchieri di piccole dimensioni, mentre vasi di

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maggiori dimensioni venivano realizzati mediante cercini, masserelle e stampaggio, poi regolarizzati a mano dal vasaio con l’utilizzo di percussori e incudini, o anche torniti per regolarizzare i punti di giuntura delle varie parti assemblate e assottigliare le pareti. Il tornio si compone di un disco di pietra, legno o terracotta, che ruota su un perno fissato a terra, a poca distanza dal suolo. Possiamo farci

un’idea della lavorazione al tornio da alcune pitture delle tombe di funzionari in Egitto e da reperti rinvenuti nei palazzi di Creta di età minoica, mentre per la Grecia di epoca classica alcuni vasi a figure nere e rosse databili tra il VI e il V secolo a.C., presentano scene con il vasaio al lavoro al tornio, con un assistente al suo fianco, che aziona il disco. Un vaso databile al IV secolo a.C. raffigura invece un tornio azionato mediante una cinghia corrente nella parte superiore del mozzo della ruota, a mo’ di trottola. Per quanto riguarda l’Italia, questo tipo di tornio compare intorno all’XI secolo a.C., in area meridionale ed etrusca, probabilmente attraverso i contatti con le popolazioni egee. Il tornio a mano rimane pressoché inalterato dalla sua introduzione


fino all’età classica. Nel corso del III secolo a.C. compare in Grecia e in Egitto il tornio a pedale, che diventerà ben presto lo strumento utilizzato dai vasai fino a oggi. È costituito da un asse verticale alle cui estremità sono posti due dischi, la girella nella parte superiore, su cui poggiano i pezzi da tornire (che nel suo trattato Cipriano Piccolpasso chiama «mugiolo»), e il volano in quella inferiore, una ruota piú grande azionata dal piede.

UN’EVOLUZIONE DECISIVA Rispetto al tornio a mano, il tornio a pedale ha l’evidente vantaggio di permettere al vasaio di avere entrambe le mani libere, e di poter regolare meglio la velocità di rotazione del disco, assicurando una maggiore efficienza nella lavorazione. Inoltre, il vasaio può lavorare autonomamente, senza l’aiuto di un assistente. Va osservato che, almeno per quanto riguarda il mondo antico, l’uso del tornio non sostituí del tutto le altre tecniche di lavorazione, soprattutto quella a cercine, ma semmai venne utilizzato per migliorare le superfici dei manufatti realizzati con le tecniche manuali. Per quanto riguarda l’iconografia del tornio a pedale, un esempio si può trovare, nel XVI secolo, nella già citata opera di Cipriano Piccolpasso. Occorre infine ricordare la tecnica a calco o stampo, che permette di ottenere oggetti in serie con maggiore velocità di esecuzione, configurandosi, almeno per quanto riguarda l’epoca romana, come una produzione definibile «industriale». Mi riferisco prevalentemente ai vasi in terra sigillata e alle lucerne, anche se tale tecnica veniva largamente utilizzata per realizzare

altri manufatti in terracotta, come le antefisse architettoniche o gli oggetti votivi. Si parte dal modello originale, che può essere di materiale diverso (legno, metallo, pietra, terracotta), da cui si ricava la matrice, ossia la sua impronta in negativo, generalmente formata da due sezioni combacianti tra loro. Applicando argilla abbastanza morbida sulle sezioni ed esercitando pressione su tutte le superfici per farla aderire del tutto negli incavi, e dopo aver dato modo all’argilla di essiccare per potersi staccare, si ottiene dunque un’impronta in negativo del Cratere attico a figure rosse del Pittore di Clio, dalla necropoli di San Luigi a Caltagirone. 440 a.C. Caltagirone, Museo della Ceramica. È raffigurato l’interno di una bottega, nella quale un vasaio rifinisce il labbro di un cratere sul tornio, assistito da un giovinetto apprendista e sotto lo sguardo attento di Atena Ergane, protettrice degli artigiani.

modello, ossia la matrice o stampo, che dopo un periodo di essiccamento viene sottoposto a cottura. Oltre che in terracotta, il calco può essere realizzato anche in gesso. A questo punto, il vasaio può procedere alla produzione di oggetti che saranno pertanto tutti pressoché uguali tra loro. Si applica quindi una sfoglia di argilla ben depurata all’interno della matrice e si fa aderire bene a essa; usando lo stesso procedimento sulla seconda metà della matrice, il ceramista unisce poi i due stampi saldandoli tra loro. Dopo un intervallo di tempo in cui l’argilla perde l’acqua d’impasto, le due matrici vengono aperte ottenendo cosí l’oggetto replica del modello originale. Questo viene poi rifinito nei punti di giuntura delle due matrici con una stecca o altro utensile.

TECNICHE COMBINATE Alla tecnica a stampo, si può associare anche quella al tornio, come avviene per la realizzazione della terra sigillata, in cui la matrice con le decorazioni in negativo viene collocata direttamente sul tornio; mentre questo ruota, il ceramista applica l’argilla alla matrice modellandola all’interno e assottigliandola fino a ottenere lo spessore voluto. Dopo aver foggiato il vaso, la matrice viene staccata dal tornio, ottenendo cosí un manufatto che presenta all’esterno a rilievo i motivi decorativi della matrice, e nelle pareti interne i segni concentrici tipici della rotazione del tornio. Oltre che con questo procedimento, la sigillata lavorata al tornio può presentare anche decorazioni a rilievo (motivi vegetali, palmette, figurine), ottenute da punzoni o stampini, che vengono applicate sulla parete esterna.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

UNA CORRIDA PER IL BAVARO SCESO A ROMA PER ESSERE CONSACRATO IMPERATORE, NEL 1332 LUDOVICO IV DI BAVIERA EBBE IL PRIVILEGIO DI VEDER TORNARE IL COLOSSEO, PER UN GIORNO, ALLA SUA ANTICA DESTINAZIONE

N

el millennio medievale, l’Anfiteatro Flavio visse abbandoni e molteplici mutamenti di destinazione d’uso: da fortificazione di importanti famiglie nobili a cava di materiale da costruzione, da rifugio di banditi a luogo di negromanzia e di memoria martiriale. Ciononostante, l’enorme mole dell’edificio – piú o meno conservato e provato anche da numerosi terremoti – mantenne sempre la sua forza evocativa, nella quale si fondevano la passata grandezza della romanità e la violenza dei cruenti spettacoli ai quali era stato adibito. Divenuta simbolica pars pro toto dell’Urbe, la sua immagine iconica compare sui supporti piú disparati, dagli affreschi ai testi miniati alle mappe, a volte affiancata dal motto Roma caput mundi regit orbis frena rotundi («Roma capitale del mondo regge le redini dell’orbe rotondo»; vedi «Archeo» n. 460, giugno 2023; on line su issuu.com). A proposito del motto e delle rappresentazioni geografiche, affascinante è la cosiddetta Mappa di Hereford, conservata nel museo dell’omonima cattedrale inglese e datata nella seconda metà del XIII secolo, che vanta il primato di essere, tra l’altro, la piú grande opera del genere di questo periodo (1,59 x 1,34 m). Realizzata da tale Riccardo di Haldingham e Lafford, riproduce a colori su un supporto di pelle (vellum) il mondo allora noto, reso secondo un modello iconografico detto a T-O,

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consistente in un cerchio entro cui è inserita una T, dove il cerchio è la terra, divisa dalla T nei tre continenti Asia, Africa ed Europa. Nella realizzazione di questa mirabile opera d’arte e summa di conoscenze a tutto campo del tempo, all’illustrazione geografica si uniscono in maniera inscindibile storia, religione, animali, esseri fantastici, mitologia antica e medievale: la cartografia diviene cosí uno strumento per rappresentare il mondo secondo una prospettiva insieme terrena e spirituale, in cui l’antichità classica continua a ricoprire un ruolo rilevante. La vicenda e l’analisi della mappa, del tutto eccezionali, meriterebbero una serie di articoli; qui si vuole invece solamente menzionare il fatto che, tra le 420 città raffigurate (con Gerusalemme al centro), compare anche Roma. In questo caso affiancata dal motto poc’anzi ricordato e resa come una costruzione fortificata rettangolare che si affaccia sul Tevere estendendosi sino alla riva opposta del fiume.

AFFRONTO AL PAPA

Particolare del facsimile della Mappa di Hereford realizzato da Konrad Miller nel 1896. Nel dettaglio è inquadrata Roma, rappresentata come una costruzione fortificata affacciata sul Tevere e affiancata dal motto Roma caput mundi regit orbis frena rotundi («Roma capitale del mondo regge le redini dell’orbe rotondo»). Nella pagina accanto: bolla aurea di Ludovico il Bavaro. 1328. Bamberga, Staatsarchiv. Al dritto, l’imperatore in trono; al rovescio, la raffigurazione di Roma.

Nel 1327 il duca e re dei Romani Ludovico IV di Baviera (1282 o 12871347) attraversò l’Italia diretto a Roma per essere consacrato imperatore del Sacro Romano Impero, in aperta e violenta opposizione politica e dottrinale con papa Giovanni XXII, che lo interdisse: da allora Ludovico fu detto, spregiativamente, il Bavaro.

Giunto a Roma, il 17 gennaio 1328 fu incoronato imperatore in S. Pietro dal capitano del popolo Giacomo Sciarra Colonna, sfidando la tradizione che riservava tale prerogativa al pontefice, che peraltro risiedeva allora ad Avignone. Inoltre, Ludovico dichiarò deposto il papa per eresia e lo


per grazia di Dio Imperatore dei Romani sempre Augusto»), mentre il rovescio è dedicato all’Urbe.

UNA CITTÀ MURATA

sostituí con il francescano Pietro Rainalducci, che divenne quindi antipapa con il nome di Niccolò V. Nell’iconografia delle bolle d’oro poste a corredo dei diplomi emanati da Ludovico all’indomani della sua incoronazione imperiale, appare evidente l’ispirazione ai sigilli di Federico I Barbarossa.

Attribuite all’orafo Leonardo da Venezia, le bolle rappresentano al dritto l’imperatore, con corona, mantello e in mano scettro e sfera, seduto su un seggio con due maestosi leoni a lato, e l’iscrizione LVDOVICVS QVARTVS DEI GRACIA ROMANORVM IMPERATOR SEMPER AVGVSTVS («Ludovico IV

Il motto Roma caput mundi circonda la città, ben resa secondo uno stile compendiario e prospettico. Roma è chiusa dalla cinta muraria turrita con le varie porte e che ingloba il Tevere e l’Isola Tiberina con i suoi ponti: al centro sta il Colosseo e davanti il Palazzo Senatorio sul Campidoglio. Sul lato sinistro si riconoscono S. Giovanni in Laterano, una colonna coclide, forse la medievale Torre delle Milizie e il Pantheon. A destra la Piramide Cestia (Meta Remi), l’Arco di Tito, e, sull’altro lato del Tevere, S. Maria in Trastevere, la Meta Romuli, la basilica di S. Pietro e il Mausoleo di Adriano. L’Anfiteatro Flavio, come sempre, giganteggia al centro, sebbene anche il Palazzo Senatorio sia qui enfatizzato dalla posizione centrale e nella attenta resa dei particolari architettonici. Secondo fonti dell’epoca, il Colosseo tornò per un momento all’originaria destinazione d’uso il 3 settembre 1332, quando il Senato volle offrire al popolo di Roma, in onore di Ludovico il Bavaro, una corrida. Per l’occasione furono realizzati seggi in legno sulle gradinate sui quali presero posto le piú belle ragazze dell’aristocrazia romana per ammirare le prodezze dei loro nobili campioni nell’arena. Lo spettacolo riscosse molto successo, raggiungendo il risultato di undici tori e diciotto giovani uccisi, e si concluse con un solenne funerale comune a S. Maria Maggiore e al Laterano.

PER SAPERNE DI PIÚ Giulia Bordi, Fino al terremoto del 1349: immagine della città e cristianizzazione dentro e fuori il Colosseo, in Colosseo, Electa, Milano 2017; pp. 76-91

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Enrico Giannichedda

IL TESORO DI DORAK ARCHEO INCHIESTA Edipuglia, Bari, 238 pp., ill. b/n 16,00 euro ISBN 979-12-5995-021-5 www.edipuglia.it

Protagonista del volume è James Mellaart, noto studioso di archeologia anatolica che condusse ricerche in Turchia fino al 1964. Nel 1959, pubblicò sul The Illustrated London News l’assemblage di reperti (corredi di tombe reali) che avrebbe compromesso per sempre la sua carriera. Infatti, l’eccezionale «Tesoro di Dorak», materializzato solamente nei disegni dello stesso Mellaart, è irrintracciabile e si grida allo scandalo: furto o pura invenzione dello studioso? Le speculazioni sulla verità che si cela dietro al Dorak Affair si trasformano nel pretesto per approfondire i diversi contesti storici, accademici e politici entro cui la vicenda si snoda, non mancando di citare numerosi personaggi 112 a r c h e o

ben noti al mondo dell’archeologia e non solo (per esempio Lloyd, Piggott, Kenyon, Hodder, Chatwin). Tutto questo mentre la Turchia, che cominciava ad acquisire consapevolezza del proprio patrimonio, si scontra con l’Inghilterra che, come altri Paesi occidentali, aveva spesso arricchito le proprie collezioni a spese di territori archeologicamente ricchi ma economicamente piú svantaggiati. Viene toccato in maniera critica il delicato e ancora dolente tasto del commercio illegale di reperti archeologici e il complice coinvolgimento di alcuni dei piú importanti musei del mondo. Infine, per quanto riguarda Mellaart, si ripercorre la parabola di una carriera promettente, ma che subisce una brusca battuta di arresto. Ciononostante, lo ricordiamo per la scoperta dello straordinario sito di Çatalhöyük. Francesca Barchiesi

DALL’ESTERO Krešimir Vukovic

WOLVES OF ROME The Lupercalia from Roman and Comparative Perspectives Transregional practices of power 2, De Gruyter, Berlino-Boston, 320 pp. 94,95 euro ISBN 9783110689341 www.degruyter.com

L’opera, di taglio specialistico, è il primo

studio monografico in inglese sui Lupercalia, una festa religiosa fondamentale per comprendere sia il mito della fondazione sia la storia di Roma. L’autore sostiene che quello dei Lupercalia è un rito di iniziazione maschile che condivide alcuni tratti con cerimonie simili in tutto il mondo, paragonabili a una serie di rituali vedici e ricondotti a una comune preistoria indoeuropea. Tuttavia, in contrasto con la maggior parte degli storici della religione che utilizzano il concetto di indoeuropeo, l’autore mette in discussione questa nozione e le sue radici coloniali, seguendo le recenti tendenze degli studi americani e britannici, e analizza la storia di questo travagliato concetto nelle ideologie imperialiste del XIX e del XX secolo. Nell’introduzione Vukovic si concentra sulla dimensione animale della festa, per poi approfondirne la lunga storia, dall’intervento

di Cesare nella celebrazione del 44 a.C. fino alle proteste di papa Gelasio contro i Lupercalia alla fine del V secolo d.C. L’autore esamina criticamente la tesi secondo la quale i Lupercalia erano un rito di passaggio per i membri dell’élite equestre romana, evidenziando le implicazioni di alcuni aspetti della celebrazione: il santuario delle grotte, la sessualità, la fertilità e il ruolo delle donne. Si ribadisce poi la figura centrale del lupo, fondamentale per comprendere il rituale, perché i giovani uomini alle soglie dell’età adulta si identificano con un predatore animale nei riti di passaggio. L’autore utilizza anche paralleli tipologici per sostenere che la festa era un rito di inversione e può essere collocata nel periodo di transizione dell’anno, in particolare nel mese liminale di febbraio. Egli esamina i gruppi di iniziazione giovanile in varie tradizioni indoeuropee, in particolare nell’antica tradizione indiana, e analizza nuove prove archeologiche delle migrazioni indoeuropee dalle steppe pontico-caspiche. L’autore ipotizza che le migrazioni indoeuropee siano state innescate dai cambiamenti climatici e dalla relazione tra gli esseri umani e i loro compagni non umani, soprattutto cavalli e lupi. Francesca Ceci



presenta

SACRO ROMANO IMPERO

LA STORIA I LUOGHI I PROTAGONISTI

Nella notte di Natale dell’anno 800, la basilica vaticana di S. Pietro fu teatro di un evento epocale: papa Leone III consacrò imperatore Carlo Magno e quell’atto, al di là degli aspetti formali, assunse una valenza simbolica straordinaria, destinata a segnare le sorti dell’intero Occidente medievale. Prendeva infatti avvio un grandioso progetto politico e culturale, il Sacro Romano Impero, che, come la denominazione stessa lascia intuire, ambiva, nelle intenzioni del re franco, a restaurare i fasti dei Cesari nei secoli cristiani. Questa eccezionale vicenda è l’argomento scelto per il nuovo Dossier di «Medioevo», che ne ripercorre l’intero svolgersi, passando in rassegna tutti i protagonisti e gli eventi piú importanti di una storia che andò ben al di là dei confini temporali dell’età di Mezzo, chiudendosi alle soglie dell’epoca contemporanea. Oltre, quindi, che per Carlo Magno, c’è spazio per una schiera di figure che hanno davvero fatto la storia. A reggere le sorti del Sacro Romano Impero si sono infatti avvicendati personaggi del calibro di Federico Barbarossa, Federico II di Svevia, Massimiliano I d’Asburgo e Carlo V, il re che arrivò a vantarsi di controllare un territorio talmente esteso da poterlo attraversare senza mai veder tramontare il sole... Quello del Sacro Romano Impero fu insomma un millennio cruciale, del quale il Dossier non manca di descrivere i molteplici risvolti politici, culturali ed economici.

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