BU SPE TR CIAL IN E ww w. TO a rc he o
LIBRI E PAPIRI
SCOPERTE A CARTAGINE
L’INTERVISTA
LIVIA MOGLIE DI AUGUSTO
SAFFO E I VERSI DIPINTI
PONTECAGNANO
GLI ETRUSCHI DI FRONTIERA
ETRUSCHI A PONTECAGNANO
SPECIALE BUTRINTO SULLA ROTTA DI ENEA
SPECIALE
BUTRINTO
SULLA ROTTA DI ENEA
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CARTAGINE
IRRESISTIBILE LIVIA
DONNE E POTERE
www.archeo.it
IN EDICOLA L’ 8 AGOSTO 2023
2023
Mens. Anno XXXIX n. 462 agosto 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 462 AGOSTO
LE ULTIME SCOPERTE
€ 6,50
EDITORIALE
RESTITUIRE SEMPRE? La foto in questa pagina mostra una stele funeraria di età antonina (II secolo d.C.) proveniente da Zeugma, città fondata intorno al 300 a.C. da un generale di Alessandro Magno, Seleuco Nicatore. In origine affacciato sull’Eufrate, dal 2000 il sito, nell’odierna Turchia sud-orientale, è stato in massima parte ricoperto dalle acque di un invaso artificiale; non prima, però, che le sue vestigia – tra cui soprattutto i suoi grandiosi mosaici – venissero messe in salvo e trasportate in un apposito museo della vicina Gaziantep. Museo che, da qualche mese, espone anche la nostra stele: lo scorso aprile, infatti, il reperto, trafugato dalla Turchia in Italia, è stato restituito dai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) di Venezia all’ambasciatore della Repubblica di Turchia, Ömer Gücük, a Roma. Quello della «stele di Satornila» (dal nome della donna raffigurata) è solo il piú recente episodio di un fenomeno che sta assumendo dimensioni sempre piú rilevanti: la restituzione di beni archeologici e artistici trafugati a opera di clandestini o, anche, come conseguenza di saccheggi e guerre, sollecita scelte e prese di posizione nuove. L’Italia, che sappiamo essere terra tra quelle del Mediterraneo piú prese di mira – in passato ma anche in tempi recenti – dalla furia predatrice del mercato clandestino, ha ottenuto risultati notevolissimi su questo piano, grazie all’intelligenza (e alla caparbietà) di alcuni nostri archeologi e all’instancabile lavoro del sopracitato Nucleo. Risale al gennaio di quest’anno la presentazione di 60 reperti archeologici, provenienti da scavi clandestini in Italia e immessi sul mercato antiquario statunitense. Dal valore stimato di oltre 20 milioni di dollari, gli oggetti hanno trovato la via di casa: «Un grande successo nell’ambito delle attività di contrasto al traffico illecito dei beni che appartengono alla nostra nazione», ha commentato il Ministro Gennaro Sangiuliano. In questo caso, infatti, come in quello della stele di Zeugma, nessuno può mettere discussione il diritto di proprietà che «le nazioni» esercitano su quei reperti. Sappiamo che non è sempre stato e non è sempre cosí. Prendiamo il caso, recentissimo, dei «Bronzi del Benin», migliaia di sculture e rilievi in bronzo, rame e avorio, forse il piú importante lascito dell’arte africana. Il significato storico-artistico di queste opere, cosí come l’influenza che esercitarono sulla pittura europea del XX secolo, è universalmente riconosciuto. Dal XV secolo, se non da qualche secolo prima, decorarono il palazzo reale dell’omonimo regno (oggi in Nigeria), nel 1897 divennero bottino di guerra dell’allora potenza coloniale britannica e vendute sul mercato internazionale. In questi mesi, la loro restituzione sta coinvolgendo – in un clima segnato da sincere ma confuse intenzioni riparatorie – istituzioni europee e statunitensi: nel dicembre scorso una delegazione presieduta dalla ministra degli esteri tedesca, Annalena Baerbock, e dalla ministra della cultura, Claudia Roth, arriva in Nigeria scortando un carico di 20 preziosi bronzi prelevati da musei tedeschi. «Un gesto dovuto – dichiara Baerbock –, i bronzi del Benin sono tornati nella loro terra d’appartenenza, ovvero la Nigeria». A contestare questa e simili iniziative si erge, però, la newyorkese Restitution Study Group, organizzazione non governativa presieduta dai discendenti di schiavi originari dall’Africa occidentale: l’arte del Benin è macchiata dal crimine di coloro che, da secoli, in quelle terre presiedono il traffico di esseri umani. Dello scorso maggio è la notizia che i bronzi, ufficialmente restituiti dalla Germania, sono stati donati dal presidente nigeriano Mohammadu Buhari a Oba Ewuare II, erede della famiglia reale che nei secoli costruí il proprio potere, e la propria ricchezza, sulla tratta degli schiavi… Andreas M. Steiner La stele di Zeugma. Presenta una nicchia con il busto di una donna, raffigurata come una nobile sposa romana. Sotto il busto un’iscrizione funeraria in greco recita:«Satornila, la moglie che ama suo marito, addio!».
SOMMARIO EDITORIALE
SCAVI
Restituire sempre? 3
A TUTTO CAMPO Archeologia dei legami spezzati
di Andreas M. Steiner
di Federico Ugolini
Attualità
INCONTRI Nella terra degli uomini e degli dèi ARCHEOFILATELIA Regina del Mediterraneo
NOTIZIARIO
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Paesaggi di mare ALL’OMBRA DEL VULCANO Tutti a tavola!
6
di Luciano Calenda
8
L’INTERVISTA
10
incontro con Menico Caroli, a cura della redazione
di Giampiero Galasso
FRONTE DEL PORTO Un avamposto del cristianesimo
Il cielo sopra Cartagine 42 di Lorenzo Nigro e Mounir Fantar
6
di Alessandra Randazzo
SCOPERTE Per l’Ercole dei cavatori
22
Quei pittori di «parole alate»
24 26
32
42 DONNE DI POTERE/5 Una mater di nome Livia
58
di Francesca Cenerini
12
di Dario Daffara
ARCHEOLOGIA RUPESTRE Tracce di antiche ritualità
14
di Giancarlo Sani
32 ww
2023
w.a rc
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BU SPE TR CIAL IN E TO he o.
ARCHEO 462 AGOSTO LIBRI E PAPIRI
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
L’INTERVISTA
In copertina una veduta dell’area archeologica di Cartagine (Tunisia), con, in primo piano, i resti delle Terme di Antonino.
Presidente DONNE E POTERE
IRRESISTIBILE LIVIA
Federico Curti
SAFFO E I VERSI DIPINTI PONTECAGNANO
GLI ETRUSCHI DI FRONTIERA
Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 462 agosto 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE BUTRINTO SULLA ROTTA DI ENEA
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
ETRUSCHI A PONTECAGNANO
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
LE ULTIME SCOPERTE
LIVIA MOGLIE DI AUGUSTO
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
€ 6,50
CARTAGINE
SCOPERTE A CARTAGINE
Anno XXXIX, n. 462 - agosto 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
58 www.archeo.it
18
IN EDICOLA L’ 8 AGOSTO 2023
FORMAZIONE Fare l’archeologo oggi: istruzioni per l’uso
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto
SPECIALE
BUTRINTO
SULLA ROTTA DI ENEA
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24/07/23 15:58
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Federico Cappella è dottore di ricerca in archeologia feniciopunica presso l’Università degli Studi di Roma «Sapienza». Federica Carbotti è specialista in archeologia di Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Menico Caroli è professore associato di lingua e letteratura greca all’Università degli Studi di Foggia. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professoressa ordinaria di storia romana presso Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Francesco Colotta è giornalista. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Francesca D’Ambola è specialista in archeologia di Alma Mater StudiorumUniversità di Bologna. Mounir Fantar è direttore di ricerca presso l’Institut National du Patrimoine della Tunisia e condirettore della missione tuniso-italiana INP-«Sapienza» a Cartagine. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Enrico Giorgi è docente di archeologia del paesaggio e della città presso Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Belisa Muka è direttore dell’Istituto di Archeologia di Tirana. Lorenzo Nigro è professore ordinario di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico e di archeologia fenicio-punica della «Sapienza» Università di Roma e condirettore della missione tuniso-
72 MOSTRE
Quando gli Etruschi andarono a sud
72
a cura della redazione
Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Gran finale
106
di Luciano Frazzoni
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Fuga in Italia
110
di Francesca Ceci
SPECIALE
110 LIBRI
78 Butrinto. Sulla rotta di Enea
112
78
di Enrico Giorgi e Belisa Muka
italiana INP-«Sapienza» a Cartagine. Alessandra Randazzo è giornalista. Matteo Rivoli è specialista in archeologia di Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Giancarlo Sani è fondatore del Centro Arte Rupestre Toscano. Giacomo Sigismondo è specialista in archeologia di Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Federico Ugolini è ricercatore di topografia antica all’Università di Siena.
Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina – Doc. red.: pp. 3, 58-67, 68, 107 (alto), 108 – Cortesia Ufficio Comunicazione e URP dell’Università del Salento: pp. 6-7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: p. 9 (sinistra); Alessandra Randazzo: p. 8; Maurizio Bartolini: p. 9 (centro e destra) – Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti: pp. 10-11 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14-17, 32-40, 110-111 – Cortesia Fondazione Aglaia-Diritto al patrimonio culturale: p. 18 – Cortesia Sanja Bistricic: p. 22 – Cortesia Mauro Puddu: p. 23 – Cortesia Festival dell’Umbria Antica: pp. 24-25 – Cortesia missione tuniso-italiana INP-«Sapienza» a Cartagine: pp. 42/43, 44-54 – Mondadori Portfolio: Album/Prisma: p. 69; Album/Quintlox: p. 70; AKG Images: p. 71 – Cortesia SCABEC, Società Campana Beni Culturali: pp. 72-76 – Cortesia Butrint Project: pp. 80 (basso), 81, 82/83, 86-87, 89, 91, 97 (basso), 99; Pierluigi Giorgi: pp. 78/79, 94 (basso), 102-105; Archivio della Missione archeologica italo-albanese in Albania: pp. 83, 84-85, 96; Enrico Giorgi: pp. 88 (alto), 90 (alto); Giacomo Sigismondo: pp. 90 (basso), 100/101; Federica Carbotti: pp. 92/93, 94 (alto), 95, 97 (centro), 100 – Staatliche Museen zu Berlin, Antikensammlung: pp. 106, 107 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 43, 80. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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L’indice di «Archeo» 1985-2022 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova
n otiz iari o ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Puglia
PAESAGGI DI MARE
S
i è appena conclusa la prima fase della campagna 2023 di ricerche archeologiche subacquee e costiere nel comprensorio della Riserva Naturale dello Stato e Oasi WWF «Le Cesine» nel Comune di Vernole (Lecce). La campagna – che proseguirà a settembre, anche con eventi di archeologia pubblica e il coinvolgimento delle comunità locali – mira a indagare le strutture individuate nel 2020, in gran parte di età romana, ubicate lungo il tratto di costa compreso tra San Cataldo e Le Cesine in località «Posto San Giovanni», nelle immediate vicinanze dell’Edificio Idrovoro della Riforma Agraria, che suggeriscono l’esistenza di un importante complesso portuale.
Le attività in corso seguono le precedenti fasi d’indagine svolte nel 2021, che avevano visto la collaborazione con docenti e ricercatori di due Dipartimenti del Politecnico di Torino per eseguire il rilievo fotogrammetrico delle evidenze e prospezioni con droni, posizionatori subacquei e ROV (robot subacquei muniti di telecamera) di ultima generazione impiegati con metodologie innovative e i cui già eccellenti risultati preliminari erano stati presentati nell’ambito dell’evento dedicato «Il porto ritrovato», svoltosi nell’Auditorium del Museo Castromediano di Lecce in occasione delle Giornate Europee dell’Archeologia (19 giugno 2021).
A 15 m circa dalla costa, verosimilmente in corrispondenza della riva antica, a una profondità che va da meno di 1 m ai 3,5 metri, si sviluppa una struttura (settore A) identificata con la fondazione di un possente molo, larga circa 8 m, lunga almeno 90 m, realizzata in grandi blocchi giustapposti e originariamente sovrapposti, oggi crollati e sparsi dalla forza disgregatrice del moto ondoso. Si nota la presenza di grandi blocchi parallelepipedi con un lato sagomato a cilindro posti a intervalli piuttosto regolari e interpretabili come possibili bitte, anch’essi in crollo, e di altri blocchi lavorati e canalette. Sullo stesso allineamento, ma piú al largo, si
Immagini dei resti individuati grazie alle ricerche archeologiche subacquee condotte nelle acque della Riserva Naturale dello Stato e Oasi WWF «Le Cesine» nel Comune di Vernole (Lecce).
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In alto e a destra: operatori subacquei al lavoro con una sorbona. Le principali strutture a oggi localizzate si riferiscono a un antico impianto portuale. trovano altri blocchi, disposti in linee parallele e perpendicolari (settore B). Parte di questa struttura era stata vista e documentata negli anni Novanta, ma le ricerche in corso hanno messo in luce altri tratti, rivelandone l’imponenza. Obiettivo delle nuove indagini è comprendere se i due settori siano parte della stessa opera (il potente riporto sabbioso dovuto alle mareggiate nasconde forse la continuità della struttura) e realizzare un nuovo e piú completo rilievo tridimensionale delle parti visibili. Infine, il settore C corrisponde all’area della cosiddetta «Chiesa sommersa»; si tratta dei resti di un edificio che presenta la base intagliata in uno sperone roccioso e l’elevato dei muri in opera cementizia; la sua possibile identificazione con una «torre-faro» è un’ipotesi ancora da verificare. Nel corso di questa campagna sarà possibile realizzare anche di questo elemento un modello digitale tridimensionale. La tecnica di costruzione del molo, «a cassone», con l’impiego di blocchi sui lati e anche nel corpo del molo, insieme a pietrame dilavato dalla forza del mare, è tipica delle strutture di approdo dell’Adriatico e
di altre aree del Mediterraneo, soprattutto orientale. Si segnalano anche strutture a terra, alcune già note – vasche scavate nella roccia, probabile impianto per la produzione del sale, e alcuni ambienti a nord, forse databili a età tardo-repubblicana – altre venute alla luce proprio nel corso di questa campagna, piú a sud. L’insieme delle tracce a mare e a terra, con l’approccio olistico dell’archeologia dei paesaggi, in questo caso paesaggi di mare, suggerisce appunto l’esistenza di un importante complesso portuale; ricostruirne lo sviluppo complessivo è, come detto, l’obiettivo primario di questa campagna di scavo. Questa struttura è simile alla parte sommersa del grande molo adrianeo a nord dell’ampia baia di San Cataldo, a cui lo avvicina anche l’imponente sviluppo e la tecnica edilizia, ma potrebbe essere anche piú antico di quello. Autori antichi ricordano lo sbarco di Ottaviano da Apollonia al porto di Lupiae, che doveva quindi godere di una certa considerazione nella seconda metà del I secolo a.C. ed essere forse già munito di alcune infrastrutture, per accogliere la nave del futuro imperatore Augusto.
In ogni caso quest’importante scoperta non fa che accrescere la ricchezza del patrimonio costiero e sommerso dei comuni di Lecce e Vernole, già testimoniato dai numerosi relitti censiti nella Carta Archeologica Subacquea a cura di Rita Auriemma, ora in CartApulia (Carta dei beni culturali pugliesi, www.cartapulia.it), di età romana, medievale e moderna spiaggiati lungo questa costa. Un altro importante contributo delle precedenti indagini era stata l’individuazione di una fase dimenticata del porto di San Cataldo: la datazione assoluta di alcuni pali sommersi, effettuata dal CEDAD dell’Università del Salento, conferma la ricostruzione di un molo a opera della regina angioina Maria d’Enghjen nella prima metà del XV secolo, che sfrutta il molo romano come fondazione. La campagna di ricerca è condotta dal Dipartimento di Beni culturali dell’Università del Salento in collaborazione con ESAC-Centro Euromediterraneo per l’Archeologia dei paesaggi costieri e subacquei, con la direzione scientifica di Rita Auriemma, docente di Archeologia subacquea dell’Ateneo salentino. (red.)
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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo
TUTTI A TAVOLA! CON LE SUE VIVACI SCENE AFFRESCATE E I DATI OFFERTI DALL’ARCHEOLOGIA, POMPEI È UN OSSERVATORIO IDEALE PER SCOPRIRE QUALI FOSSERO GLI USI E I COSTUMI DEI ROMANI, RICCHI E POVERI, IN FATTO DI ALIMENTAZIONE
L
e abitudini alimentari della Pompei romana dovevano essere assai simili a quelle del resto dell’impero. Generalmente, si facevano tre pasti al giorno: la prima colazione chiamata jentaculum, la colazione del mezzogiorno detta prandium e il pasto della sera, la cena. Quest’ultima, in origine, si consumava nel primo pomeriggio e non di sera, e costituiva, come avviene oggi in molti Paesi, il pasto principale della giornata. Diversa era la situazione dei ricchi, per i quali il pasto abbondante era simbolo di ricchezza e possibilità e quindi di prestigio sociale. Le classi piú abbienti potevano concedersi il lusso del banchetto che diventava cosí il momento piú importante della giornata e si svolgeva con una meticolosa ritualità, la stessa di Roma e delle altre città dell’impero. I cibi gourmet erano preparati da cuochi famosi, oggi li chiameremmo chef, e nelle dimore piú ricche non potevano mancare strutture per l’allevamento dei pesci, di uccelli e di selvaggina. Ciò che non poteva essere prodotto in loco arrivava nelle mense da luoghi lontani ed esotici e Pompei ci ha dato ampie testimonianze grazie ai numerosi reperti organici che sono stati ritrovati nel corso degli anni.
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Ma cosa si mangiava durante una cena romana? Seneca, Plinio, Marziale e molti altri autori ci hanno tramandato piatti molto semplici, ma in banchetti importanti con ospiti di riguardo le liste delle portate erano molto complesse e lunghe. La cena era suddivisa in due momenti. Il primo, costituito dal pasto vero e proprio con prevalenza di alimenti solidi e consumo moderato di bevande; nel secondo, che generalmente durava di piú, si poteva alzare il gomito e intrattenersi con attrazioni varie.
FINO A SETTE PORTATE La portata era chiamata ferculum, una parola che originariamente indicava il contenitore del cibo, il piatto. Successivamente, per metonimia, divenne anche il contenuto del piatto, cioè la portata vera e propria. In una cena di media importanza, in generale, venivano portati tre fercula, ma con l’importanza della cena aumentava il numero fino a raggiungere le sette portate. Si cominciava con la gustatio, una sorta di aperitivo composto da antipasti pepati e stuzzicanti che servivano a risvegliare il palato. Venivano servite uova, zucche, verdure, pollo e ostriche, accompagnate da vini artificiali preparati con assenzio, violette o petali di rose.
In questa pagina: scene conviviali dipinte nella Casa dei Casti Amanti. Nella pagina accanto, da sinistra: l’affresco rinvenuto di recente e impropriamente interpretato come raffigurazione di una «pizza»; un fiore di carciofo e piante di farro nel vivaio della Casa di Pansa, in cui si coltivano le specie della flora pompeiana.
L’aperitivo, alcolico, era spesso costituito da vino al miele, il mulsum, da cui deriva il nome dato successivamente al momento della gustatio, promulsis appunto. Alla gustatio, seguiva una portata composta da pesce, carne e verdure chiamata prima cena. Ne seguiva un’altra chiamata altera cena, composta da arrosti, generalmente cacciagione o da piatti esotici. Si terminava con un dessert. Questo momento era chiamato secundae mensae, perché, come in Grecia, venivano portate nuove tavole. I Romani però, si limitavano a sostituire la tovaglia, quando c’era, o a sostituire i piatti sporchi e a spazzare per terra. La portata era costituita da frutta fresca e secca e soprattutto da dolci. Durante la cena, il vino era bevuto in maniera moderata per non comprometterne, con l’abuso, il gusto di cibi prelibati fatti preparare appositamente dai cuochi. Non era raro trovare il padrone di casa ai fornelli. Veniva a costituire una sorta di hobby e di sorpresa piacevole per gli ospiti. Dopo la cena e generalmente dopo una rapida toletta, nelle grandi occasioni, veniva offerto agli ospiti un prolungamento della cena. Questo momento era chiamato comissatio e poteva protrarsi a lungo nella notte. Si trattava soprattutto di una bevuta accompagnata da piatti leggeri e
saporiti che stimolavano la sete, ma potevano essere imbanditi anche piatti piú sostanziosi quando erano presenti amici invitati solo al «dopo cena». Per la comissatio, gli ospiti mettevano in testa corone di fiori, mentre a tavola venivano portate coppe di vino per il brindisi.
UN REGALO PER CIASCUN INVITATO Di norma, alle mogli non era concesso partecipare a questa parte della cena. Infatti queste si ritiravano già alle secundae mensae, in quanto le bevute non erano permesse. A far compagnia ai mariti vi erano cortigiane o danzatrici che contribuivano a rallegrare la serata. In alcuni casi però, laddove il clima conviviale era decoroso e garbato, le mogli potevano tenere compagnia ai mariti e alcuni affreschi divertenti a noi pervenuti immortalano esilaranti momenti in cui le mogli sorreggono i mariti all’uscita del banchetto perché hanno bevuto troppo. Non si usciva dalla casa dell’amico senza aver ricevuto un dono. «Ciascuno dia al suo invitato il regalo che gli si adatta» diceva Marziale nei suoi Epigrammi e ne enumera anche la diversa tipologia. Gli apopherata, cosí erano chiamati, potevano consistere in profumi, articoli da toletta, coltelli, ombrellini, cassette, lampade, articoli per lo sport, indumenti, vasellame, stoffe o cibi.
Recente è la scoperta, a Pompei, di un affresco proveniente dall’Insula 10 Regio IX, che propone una particolare natura morta. Accanto a una coppa di vino posata su un vassoio d’argento, vi si vede una focaccia di forma tondeggiante con macchie di colore che sembrerebbero ricordare la frutta secca, raffigurata a fianco. Anche se molti hanno voluto interpretarla come una prefigurazione della pizza, che, per come la conosciamo, è però un prodotto della cultura moderna e non del mondo romano. Al momento gli studiosi stanno analizzando l’affresco per fornire nuovi dati alla comunità scientifica e non solo per meglio interpretare i frutti rappresentati e a che tipo di stagionalità possano appartenere. L’affresco è stato rinvenuto nell’atrio di una domus in corso di scavo a cui era annesso un panificio, in parte già scavato tra il 1888 e il 1891 e le cui indagini sono state riprese a gennaio scorso. Le strutture scavate nell’Ottocento e parzialmente in vista, facevano già presupporre la presenza di un ampio atrio e sul lato opposto doveva essere invece l’ingresso al settore produttivo di un forno. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.
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n otiz iario
SCOPERTE Lazio
PER L’ERCOLE DEI CAVATORI
I
ndagini di archeologia preventiva condotte a Tivoli (Roma), in vista della realizzazione dell’Auditorium nell’area dell’ex cartiera «Amicucci Parmegiani», in via del Riserraglio, in pieno centro storico, hanno portato alla scoperta dei resti di una grande struttura muraria e al recupero di una quantità considerevole di materiale ceramico. Un ritrovamento inedito, in quanto nel 1952, anno in cui fu ampliata la cartiera, si rinvennero solo alcune sepolture in sarcofago di tufo del V-IV secolo a.C. «I resti scoperti di recente – afferma Zaccaria Mari, funzionario archeologo della SABAP per l’area metropolitana di Roma – consistono in un possente muro in blocchi squadrati di travertino poroso, scoperto per una lunghezza di circa 30 m, databile, per confronto con altre simili strutture, al IV-III secolo a.C., ma con aggiunte in opera reticolata del I secolo d.C. Potrebbe essere attribuito alla cinta urbana, che era effettivamente in blocchi di travertino con restauri in tufo e che correva proprio nel sito del rinvenimento, ove fu ripercorsa dalle difese attivate all’epoca della guerra greco-gotica (VI secolo d.C.), alle quali appartiene la base della torre campanile di S. Caterina. Potrebbe trattarsi, però, anche di un terrazzamento che originava, al pari delle mura, una spianata artificiale protesa verso il pendio a precipizio sull’Aniene. In entrambi i casi questa platea sosteneva molto probabilmente un tempio, come dimostra la sacca di terra situata a immediato contatto con il muro, ricca di frammenti vascolari costituiti in gran parte da coppe emisferiche, anche miniaturizzate, della classe ceramica “a vernice nera”, risalenti al III-II secolo a.C., con impresse
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sul fondo le lettere H e ΗΡ (eta e rota) iniziali di Hercules in latino o Herakles in greco; altre recano stampigli a forma di palmette o rosette. Prodotte nelle fabbriche di ceramisti che operavano presso
l’odierna Rocca Pia, ove esisteva anche una fiorente produzione di ceramica a rilievo e decorata con paste vitree, le coppe trovano confronti in vari contesti cultuali di età medio- e tardo-repubblicana a
Frammenti di coppe in ceramica a vernice nera con le lettere greche eta (H) e rota (P) interpretabili come iniziali del nome Herakles. Nella pagina accanto: un tratto del muro in travertino venuto alla luce.
Roma e nel Latium vetus. Sono pertanto da riferire alla stipe votiva di un tempio o santuario dedicato senza alcun dubbio a Ercole. Era uso che gli oggetti, spesso umili e di basso costo, donati dai fedeli alla divinità, venissero tavolta raccolti e deposti in fosse aperte nel terreno (favissae). Nella sottostante località Acquoria, per esempio, venne scoperta nel 1926 una ricca stipe contenente anche statuette fittili, ornamenti, figurine in bronzo e monete, che invece nello scavo della cartiera sono del tutto assenti: e ciò forse a causa di una selezione operata in occasione di un primo rinvenimento. Siamo solo all’inizio della conoscenza di un altro degli innumerevoli tesori archeologici
conservati sotto la stratificazione della città medievale e moderna. È chiaro che solo la prosecuzione degli scavi potrebbe condurre all’individuazione dell’edificio sacro e a precisare, magari con il fortunato rinvenimento di una dedica, l’identità dell’Ercole ivi venerato. Il principale luogo di culto di Ercole a Tibur era il monumentale santuario extramuraneo di Hercules Victor, costruito nel II-I secolo a.C. a cavallo della via Tiburtina, poco a valle della città. Ma il dio, che aveva grande presa sul popolo, in quanto nella sua vicenda terrena era stato un eroe di forza sovrumana (sono rimaste proverbiali le sue dodici fatiche), era venerato anche all’interno dell’abitato, dove, con
l’avvento del cristianesimo, fu sostituito dal martire Lorenzo. Dalle iscrizioni rinvenute nei secoli scorsi, purtroppo senza la precisa registrazione del luogo di provenienza, ricaviamo che nel Foro (oggi piazza Duomo), o nei pressi, Ercole era venerato anche come Saxanus (iscrizione della fine del I secolo che cita un tempio con un’alcova e una cucina), Invictus, Victor e Victor Certenciinus. Mentre quest’ultimo epiteto, inciso su una base marmorea sostenente la statua, dedicata nel 224 d.C., rinvenuta presso la chiesa di S. Andrea, è di difficile interpretazione (forse un toponimo), Saxanus è quasi sicuramente da riferire all’Ercole protettore dei cavatori e dell’attività estrattiva dei blocchi di travertino (saxa quadrata) nella cava del Barco; meno probabile è l’ipotesi che vuole il dio protettore delle rupi naturali, quindi con riferimento allo sperone roccioso (saxum) dell’acropoli (il Castrovere). L’incertezza relativa alla localizzazione dei vari templi o sacelli è destinata a rimanere tale, a meno di un’improvvisa entusiasmante scoperta, intanto, però, l’archeologia ci ha rivelato uno dei luoghi di culto erculei in precedenza del tutto sconosciuto». Diretti da Zaccaria Mari per la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’area metropolitana di Roma, gli scavi sono stati condotti sul campo da Andrea Ricchioni, archeologo professionista. Giampiero Galasso
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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
UN AVAMPOSTO DEL CRISTIANESIMO RISCOPERTA ALLA METÀ DEGLI ANNI SETTANTA DEL NOVECENTO E POI INDAGATA SISTEMATICAMENTE, LA BASILICA DI PIANABELLA, POCO FUORI PORTA LAURENTINA, È UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA DELLA DIFFUSIONE DELLA FEDE CRISTIANA NELL’AREA OSTIENSE
A
ll’inizio del V secolo, in un’area suburbana di Ostia, poco fuori Porta Laurentina, venne realizzato un luogo di culto cristiano, noto negli studi come basilica di Pianabella. Questo imponente edificio a navata unica, lungo 55 e largo 15 m, fu
costruito in una zona a prevalente uso funerario fin dal I secolo a.C., sfruttando i sepolcri preesistenti come fondazioni. Non sappiamo a chi fosse dedicata, ma è certo che la basilica venne edificata per ospitare sepolture collettive disposte presso la tomba di
un santo. Si trattava di un allestimento simile a quello delle basiliche «circiformi» del suburbio romano, dove la comunità cristiana seppelliva i propri defunti e celebrava banchetti in loro memoria (refrigeria). Nella basilica di Pianabella lo In alto: ricostruzione della basilica di Pianabella in un acquerello di Sheila Gibson. A sinistra: veduta aerea dei resti della basilica. Nella pagina accanto, dall’alto: una mensa marmorea e croci patenti gemmate dipinte su pilastrini di tufo, dal presbiterio di VIII-IX sec. della basilica di Pianabella.
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svolgimento di pasti rituali è suggerito dal ritrovamento di una tavola circolare in marmo (mensa), sulla quale venivano presentati i cibi da consumare presso la tomba del defunto. Questa tavola si trovava probabilmente nel presbiterio, uno spazio caratterizzato dalla presenza di un recinto sotterraneo con sepolture su piú livelli (formae), che poteva ospitare fino a cento deposizioni: si
trattava di tombe privilegiate, ubicate in prossimità delle reliquie del santo cui era dedicata la basilica. La chiesa venne in parte rinnovata alla fine del V secolo dal vescovo Bellator, come testimonia un’iscrizione rinvenuta negli scavi. Una parte degli arredi liturgici venne sostituita tra l’VIII e il IX secolo: si conservano alcuni frammenti marmorei, con il tipico motivo a intreccio d’età carolingia, e due pilastri angolari di tufo, con incassi per sostenere una pergula. Questi pilastri erano dipinti con croci patenti gemmate, un tipo di decorazione ricorrente nelle recinzioni presbiteriali d’età carolingia, come nell’esemplare marmoreo della basilica di S. Sabina a Roma (824-827 circa).
INDIVIDUI ROBUSTI In questo periodo l’interno dell’edificio continuò a essere utilizzato come luogo di sepoltura, seppure in forma ridotta: l’analisi dei resti scheletrici, condotta dal Servizio di Antropologia del Parco, ha evidenziato la presenza di individui generalmente robusti. Questo dato, unito al ritrovamento nelle sepolture di frammenti di ceramica Forum Ware e di una fibbia di cintura «tipo Siracusa», fa pensare a deposizioni di rango medio-alto, forse espressione di una élite insediata nei dintorni. Nel X secolo iniziò la spoliazione dell’edificio: la decorazione presbiteriale venne fatta a pezzi e sepolta, forse per sconsacrare ritualmente il luogo di culto. La chiesa divenne una cava di materiali da costruzione, fino al crollo delle pareti longitudinali nell’XI secolo, da imputare a un terremoto o semplicemente all’indebolimento delle strutture a causa delle spoliazioni.
Dell’edificio si perse la memoria e i suoi resti tornarono alla luce solo nel 1976, in seguito a scavi clandestini. Le prime indagini scientifiche, condotte da Alessandro Morandi e Roberto Giordani, furono seguite nel 198889 da un’estensiva campagna di scavo coordinata da Lidia Paroli, che ha permesso di acquisire nuovi dati sulle sepolture e sulle fasi di utilizzo piú tarde. Recentemente l’area intorno alla basilica è stata interessata da una serie di prospezioni geofisiche, condotte in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria dell’Università Roma Tre: il georadar ha rilevato la presenza di alcune strutture mai documentate prima d’ora, probabilmente pertinenti alla necropoli precedente alla costruzione della basilica. In occasione della manifestazione «Ferragostia Antica», compresa nelle iniziative per l’Estate Romana 2023, l’area archeologica della basilica verrà eccezionalmente aperta al pubblico, con le visite teatralizzate organizzate dall’Associazione Culturale Affabulazione. Le visite, con prenotazione obbligatoria all’indirizzo mail ferragostia.visite@ gmail.com, si svolgeranno tra l’8 e l’11 agosto e consentiranno di conoscere questo caposaldo dimenticato del cristianesimo nel territorio ostiense. Dario Daffara
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ARCHEOLOGIA RUPESTRE Toscana
TRACCE DI ANTICHE RITUALITÀ
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a Lunigiana, estrema terra della Toscana nord-occidentale, è conosciuta nel mondo archeologico per gli eccezionali ritrovamenti di statue stele – dette anche statue menhir o stele antropomorfe – di epoca eneolitica e di varia tipologia. Storicamente, la regione corrisponde all’antica diocesi di Luni, un territorio che nell’attuale geografia amministrativa comprende le provincie di MassaCarrara e La Spezia. I ritrovamenti di questi antichi manufatti sono avvenuti quasi esclusivamente nel bacino del fiume Magra e dei suoi affluenti. Il primo rinvenimento di una stele, nelle vicinanze di Zignago (La Spezia) risale al 1827; si tratta di un blocco rettangolare di arenaria macigno alto poco piú di 1 m e nel corpo non si notano braccia e armi, mentre una chiara iscrizione in caratteri etruschi è scolpita sul lato sinistro. Da allora il numero dei ritrovamenti è salito notevolmente (oltre 90), ma si pensa che le stele finora riportate alla luce siano una percentuale
minima rispetto a quante si presume siano sepolte. Basti pensare che quasi tutte sono state scoperte in maniera puramente casuale durante lavori campestri o stradali e alcune sono state utilizzate per la costruzione di case e muretti di vario genere. Il loro significato rimane un enigma e le opinioni degli studiosi divergono: c’è chi le interpreta come rappresentazioni di dèi e dee, chi ritiene che siano immagini di eroi del tempo e, infine, chi sostiene che siano soltanto elementi di decoro funerario. Il fenomeno delle incisioni rupestri della Lunigiana è invece poco indagato e scarse sono le segnalazioni e gli studi pubblicati. Lo scrivente e il gruppo Terre Alte hanno iniziato dal lontano 2007 la ricognizione di alcune aree e, in particolare, della zona di Canossa e di Grondola (Massa-Carrara), con risultati piú che positivi. Nei boschi sovrastanti il borgo di Grondola, lungo un antico sentiero, sono state individuate alcune imponenti rocce
Sulle due pagine: immagini della grotta di Diana, nel territorio di Canossa (MassaCarrara). Da destra, in senso orario, analisi dei segni presenti sulla parete A; figura di losanga reticolata; coppelle con canalette incise sulla parete C.
caratterizzate da reticolati di gallerie vermicolari fossilizzate. Alla sommità, sulla piatta superficie di un masso, sono state scolpite quindici coppelle di medie dimensioni concentrate nella parte centrale. Nei pressi del masso coppellato alcune roccette affioranti dal terreno recano, come se fossero in rilievo, figure antropomorfe e zoomorfe. L’analisi di queste particolari figure lascia pochi dubbi sul fatto che siano di formazione naturale. È probabile però che esse abbiano colpito l’immaginazione e siano alla base delle motivazioni della scelta del piatto masso per incidere le coppelle a scopo rituale. Le coppelle scolpite sulle rocce di ogni continente e su un arco di
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tempo che va dalla preistoria fino a tempi recenti restano uno dei piú ardui enigmi da risolvere nel campo dell’arte rupestre schematica. È difficile assegnare a queste incisioni una precisa collocazione cronologica, un valore iconografico e un significato. Anche in questo caso, gli studiosi che hanno affrontato il problema non sono giunti a conclusioni condivise. C’è chi propone una lettura sacrale e riconosce in queste incisioni il luogo in cui si versava il sangue della vittima sacrificale, oppure dove venivano deposti incensi, unguenti e lucerne durante cerimonie notturne. Un’altra ipotesi le interpreta come simboli religiosi legati al culto dei morti, una forma
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n otiz iario di pietas allo scopo di raccogliere acqua e cibo per i defunti. Infine significati come raffigurazioni di costellazioni, segni di proprietà, primordiali rappresentazioni topografiche, effigi del sesso femminile, rozze fonti battesimali. Si può pensare (ed è l’opinione di chi scrive) che le coppelle abbiano un valore nell’atto d’inciderle, azione che ha un valore ritualizzante, evocativo, magico, propiziatorio. La zona di Canossa è risultata la piú interessante per la presenza di una piccola grotta con centinaia di graffiti di probabile epoca preistorica, coeva con le statue
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Sulle due pagine: altre immagini della grotta di Diana. Dall’alto, in senso antiorario, incisioni di triangoli, coppelle, le «mani della Dea» e la figura denominata «uomo vitruviano»; una losanga puntata; la parete A della grotta.
stele. Questo interessante sito è conosciuto con il nome di grotta di Diana, anche se non si tratta di una vera e propria grotta, ma di un anfratto formato da grossi blocchi che si sviluppano in due stretti corridoi di 3 m circa ciascuno. Le prime notizie risalgono al 1977 (Ruschi) e il sito è stato poi pubblicato da Priuli e Pucci (1994) e Sani (2009). Dopo un primo sopralluogo, alcuni anni fa, la grotta è stata indagata altre quattro volte. Nel corso di queste esplorazioni è stato realizzato il rilievo totale della cavità e documentati, in alta risoluzione, i segni graffiti sulle pareti. Tutti questi dati e l’analisi delle sovrapposizioni, compiuta con l’ausilio di un microscopio USB collegato a un computer portatile, hanno permesso di capire la successione cronologica relativa dei segni e ipotizzare una funzione cultuale dell’anfratto. La piccola grotta si apre a circa 450 m di quota lungo un ripido costone roccioso che scende fino al fiume Magra. La zona è molto panoramica e oltre alla vallata sottostante si può
osservare gran parte dell’Appennino Parmense. Tutte le incisioni sono realizzate su parete verticale. Numerose sono le coppelle e microcoppelle (aventi un diametro compreso tra i 2 e i 20 mm) che presentano quasi tutte un canaletto verticale verso il basso e sono concentrate in tre punti particolari delle pareti. Oltre ai quadrati reticolati sono abbastanza numerosi gli intagli a «polissoir» di solito verticali che, intersecandosi, formano cruciformi (antropomorfi?). Sono presenti anche segni romboidi (simboli gineformi), armi, tra cui un pugnale entro guaina di tipo a lama triangolare. In alto, sulla parete sinistra, si notano due corna di stambecco sopra la figura del corpo dell’animale ottenuta grazie allo sbassamento del livello roccioso. Tutte le incisioni sono ottenute per mezzo dello sfregamento di una punta. I graffiti all’interno della grotta sono centinaia e sicuramente dovevano essere di piú, dato che si nota, con chiara evidenza, come l’erosione e, soprattutto, il distacco di placche della superficie rocciosa
abbia con il tempo cancellato i segni incisi. Una composizione ricorda due mani stilizzate con le cinque dita e infine quattro figure antropomorfe. Da notare che una di queste figure ricorda nella forma una delle stele (gruppo A) lunigianesi. Considerando che sulle pareti dell’angusto sito non si trova alcun segno riconducibile al cristianesimo, cosí come non si notano date e lettere che potrebbero indicare le iniziali di nomi di chi nel passato ha frequentato questo luogo, si può ipotizzare che si tratti di un antico luogo di culto nel quale sono stati lasciati questi enigmatici segni e il tutto potrebbe indirizzare verso un’epoca contemporanea a quella delle stele piú arcaiche. Un’ipotesi avvalorata dal fatto che ben due esemplari furono rinvenuti a poca distanza dalla collina in cui si apre la grotta di Diana. La prima, denominata Canossa I, differisce da tutte le altre, data la presenza di un’arma simile nell’impugnatura ai pugnali, ma con il corpo rettangolare caratterizzato da due marcate costole terminanti in tre punte, probabile rappresentazione di una daga con il fodero. Nel bosco giace in situ la stele Canossa II, incompleta. In ultimo non resta che ipotizzare il significato dei segni e ci troviamo d’accordo con Italo Pucci, studioso genovese, che osservando le numerose piccole coppelle «con la loro quasi ossessionante modalità di esecuzione e in un certo qual modo banalità di rappresentazione, mi hanno ricordato il ritmico susseguirsi sempre uguale dello sgranare un rosario; ipotesi quindi di una similare manifestazione di un culto diverso in un’epoca diversa». Giancarlo Sani
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FORMAZIONE Toscana
FARE L’ARCHEOLOGO OGGI: ISTRUZIONI PER L’USO
L’
archeologia contemporanea deve creare partecipazione consapevole, essere economicamente sostenibile e utile alla società, generando valore per i cittadini e il territorio. Con questi obiettivi, Fondazione Aglaia-Diritto al patrimonio culturale promuove la prima edizione della «Field school in management per l’archeologia», un percorso formativo (120 ore) che prevede attività di scavo all’area archeologica di Poggio del Molino, lezioni teoriche e workshop partecipativi di gestione, economia e comunicazione delle aree archeologiche. Le lezioni saranno tenute da esperti, docenti universitari e professionisti. La Field school è rivolta a 12 partecipanti: studenti iscritti al corso di laurea magistrale o alla scuola di specializzazione in archeologia, a laureati in archeologia e a giovani professionisti (under 35). Le aree tematiche affrontate sono:
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In alto e in basso: archeologi coinvolti nelle attività condotte nel corso delle campagne di scavo nell’area archeologica di Poggio del Molino.
1. Ricerca sul campo: obiettivi, metodi e procedure; 2. Progettare uno scavo archeologico: normativa, logistica, budget; 3. Partecipazione in archeologia: aree archeologiche e musei; 4. Management per l’archeologia: processi, procedure, business plan; 5. Comunicare l’archeologia: obiettivi, metodi, narrazioni. Docenti del corso sono: Daniele Manacorda (Fondazione Aglaia), Carolina Megale (Fondazione Aglaia), Stefano Monti (Monti&Taft), Cinzia Dal Maso
(Archeostorie), Angelo Cimarosti (ArchaeoReporter). La quota di partecipazione, grazie al contributo di Fondazione Aglaia e dei sostenitori del programma, è di € 300,00 e comprende 120 ore di formazione, pernottamento presso Resort Poggio all’Agnello (20 notti), ingressi e visite a musei e parchi archeologici. Per iscriversi è necessario richiedere il modulo di iscrizione a info@pastexperience.it (fino a esaurimento posti). Direzione scientifica di Carolina Megale (Fondazione Aglaia); responsabili di scavo Martina Fusi (Past in Progress srl), Marika Grella (Past in Progress srl). Ente promotore Fondazione Aglaia. Diritto al patrimonio culturale in collaborazione con Parco di archeologia condivisa di Poggio del Molino, il Museo etrusco di Populonia, ArchaeoReporter, Archeostorie, Earthwatch Institute, il Sistema dei musei e parchi partecipativi della Toscana e con il sostegno di Past in Progress srl, Panoramix, Resort Poggio all’Agnello, Tenuta Poggio Rosso, Castello di Populonia.
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n otiz iario
INCONTRI Paestum
I PREMI «PAESTUM MARIO NAPOLI» DELLA XXV BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO
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a venticinquesima edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà da giovedí 2 a domenica 5 novembre 2023 a Paestum presso il Next (ex Tabacchificio), il Parco e il Museo, la Basilica. La BMTA si conferma un rilevante momento di approfondimento e divulgazione di temi inerenti al turismo culturale e la fruizione, gestione e valorizzazione dei beni culturali, un grande contenitore con 16 sezioni, tra cui il Premio «Paestum», istituito nel 2005 e intitolato a Mario Napoli dal 2018, in occasione del 50° anniversario della scoperta della Tomba del Tuffatore. Il Premio, assegnato a personalità e organismi che contribuiscono alla valorizzazione del patrimonio culturale, alla promozione del turismo archeologico e al dialogo interculturale, è stato ricevuto negli anni da prestigiosi archeologi (Zahi Hawass, Colin Renfrew, Andrea Carandini) e vertici istituzionali (Mounir Bouchenaki Vice Direttore Generale UNESCO per la Cultura, attuale Presidente Onorario della BMTA, Irina Bokova Direttore Generale Unesco, Taleb Rifai Segretario Generale Unwto, Azedine Beschaouch Ministro della Cultura della Tunisia, Mai bint Mohammed Al Khalifa Ministro della Cultura del Regno del Bahrein, Sackona Phoeurng Ministro della Cultura del Regno di Cambogia e S.A.S. Alberto II di Monaco). Il Premio è stato conferito anche al Comando Carabinieri della Tutela del Patrimonio Culturale, al Council for British Archaeology, all’INRAP Institut national de recherches archéologiques préventives, ai Musei Vaticani, al Museo Egizio di Torino, a RAI Cultura. L’edizione di quest’anno premierà: Gianfranco Ravasi Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, quale riconoscimento per il suo prezioso e costante impegno a favore del dialogo interculturale in ogni angolo del pianeta; il Parco Archeologico del Colosseo e il Parco Archeologico di Pompei quale riconoscimento ai due siti, che rappresentano a pieno titolo il patrimonio culturale nazionale nel mondo, per la sfida costante a misurarsi con il contemporaneo, sempre nel segno della identità, della storia, della tutela, della ricerca; lo spunto di accomunare tale conferimento nasce dalla mostra dei primi mesi del 2021, che ha ripercorso le relazioni storiche e culturali tra i due centri, grazie alla capacità e alla visione dei suoi direttori, che interpretano quotidianamente la loro missione di manager culturali secondo una logica trasversale di integrazione tra i saperi umanistici e i
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saperi tecnico gestionali con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ritireranno il Premio Alfonsina Russo e Gabriel Zuchtriegel, Direttori Generali rispettivamente del Colosseo e di Pompei); l’École française de Rome, per il prezioso impegno di 150 anni dedicato agli studi archeologici nel segno della ricerca, della formazione e delle missioni, fondamenta necessarie per la valorizzazione del patrimonio e la cooperazione culturale nel Mediterraneo (ritirerà il Premio il Direttore Brigitte Marin). Per info: www.bmta.it Qui sotto: il NEXT (ex Tabacchificio Capasso). In basso: Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani, riceve il Premio «Paestum Mario Napoli» per il 2022 dal direttore della BMTA, Ugo Picarelli.
A TUTTO CAMPO Federico Ugolini
ARCHEOLOGIA DEI LEGAMI SPEZZATI «SHARDS OF THE PAST» È IL NOME DELLA MOSTRA IDEATA PER DOCUMENTARE UN PROGETTO DI RICERCA E UN MUSEO CHE RICOSTRUISCONO IL VALORE DELLE RELAZIONI DI COMUNITÀ DIMENTICATE
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on capita spesso di assistere alla creazione di una mostra che si occupa dell’«archeologia delle relazioni interrotte» dall’antichità a oggi. Si tratta di un lavoro lungo e prezioso, condotto su materiali di straordinario rilievo grazie alla collaborazione tra Mauro Puddu (Università Ca’ Foscari di Venezia) e il Museum of Broken Relationships di Zagabria. Vediamo dunque in dettaglio in che cosa consistono il museo, il progetto e la mostra, in programma a Venezia, presso la Zattere Cultural Flow Zone, dal prossimo 31 agosto. Il Museum of Broken Relationships viene descritto dai suoi fondatori come un concetto artistico secondo il quale gli oggetti contengono ologrammi di ricordi ed emozioni. Formati da oggetti donati dai visitatori, gli allestimenti sono stati pensati per creare uno spazio di
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In alto e in basso: visitatori all’interno del Museum of Broken Relationships (Museo delle relazioni interrotte) di Zagabria, raccolta concepita a partire dal principio che gli oggetti contengono ologrammi di ricordi ed emozioni. memoria individuale volto a conservare l’eredità materiale di queste relazioni. Presentando una storia personale dopo l’altra, il museo restituisce al visitatore un mosaico che riflette i contesti sociali e storici dei Paesi di origine degli oggetti esposti. Cosí facendo, il museo non racconta soltanto vicende con cui il pubblico si identifica, ma invita ad aprire il bagaglio personale del visitatore. Il museo è nato nel 2006 come progetto ideato dalla regista Olinka Vištica e dall’artista Dražen Grubišic: si tratta di una collezione in continua crescita, dove ciascun oggetto contiene la traccia di una
relazione passata; nel 2010 ha vinto il Premio EMYA Kenneth Hudson per il museo piú innovativo e audace d’Europa e, nel 2023, si è guadagnato le prime pagine del New York Times, con un articolo dedicato alla sua missione.
L’impronta di un cane su un laterizio di età imperiale, rinvenuto durante le ricognizioni nelle campagne di Masullas, in Sardegna. In basso: un momento delle ricognizioni, svolte con gli studenti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. IDENTIS è un progetto di ricerca finanziato dall’Unione Europea attraverso la misura Marie Sklodowska-Curie Actions-Horizon 2020, condotto da Mauro Puddu, MSCA Fellow presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, che analizza il percorso delle comunità della Sardegna di età romana nel costruire, disfare, ricreare le proprie identità attraverso legami, interazioni con il passato, reazioni al potere imperiale e lavoro nel mondo rurale. IDENTIS esplora un gruppo di necropoli della Sardegna centro-occidentale, che documentano pratiche di legami sociali (per esempio la manipolazione delle salme nella necropoli di Sa Mitza Salida a Masullas, in provincia di Oristano). Verificandone l’entità con analisi
osteologiche, eseguite dagli antropologi dell’Università di Cagliari insieme al gruppo di archeo- e paleogenetica dell’Università di Tubinga, si ricavano nuove conoscenze su siti e attività produttive nella fertile regione collinare della Marmilla. IDENTIS invita la comunità archeologica a svolgere un ruolo attivo nella ridefinizione del concetto di identità, oggi largamente impiegato in campi diversi, e a rafforzare l’idea secondo cui le identità mutano in base alle scelte individuali e ai bisogni espressi dalle relazioni sociali.
LINGUAGGI A CONFRONTO La mostra «Shards of the Past: Tracing the Shared Stories of Social Ties from Roman Sardinia to the Present Day» è stata ideata da Mauro Puddu in collaborazione con Olinka Vištica, Dražen Grubišic e Charlotte Fuentes, fondatori e curatori del Museo. Essa nasce da un lungo, paziente, e divertente lavoro di intersezione tra il linguaggio archeologico e quello artistico. Il risultato di questo dialogo propone ai visitatori un viaggio attraverso la straordinaria collezione di oggetti, manufatti e reperti che ricompongono, spesso dopo decenni o secoli, i legami, le relazioni e le vite dei protagonisti di una comunità: tra essi, troviamo reperti di età romana provenienti dalla Sardegna, oggetti di età contemporanea provenienti dal Museum of Broken Relationships, e
immagini relative alla professione dell’archeologo. Accostando elementi provenienti da tempi, luoghi e contesti diversi, gli organizzatori intendono far luce sulle esperienze di quanti sono stati esclusi dalle narrazioni dominanti del passato, spesso incentrate sulle élites. Il percorso espositivo pone al centro dell’attenzione gli «invisibili», le loro relazioni e i loro corpi intesi come veri e propri luoghi di potere e resistenza, con l’intento di arricchire le storie del mondo romano e contemporaneo con le microstorie di chi vive ai margini della società. Introdotto dalle parole della scrittrice bielorussa e premio Nobel Svjatlana Aleksievic «posso vivere senza molte cose, ma non posso vivere senza ciò che è stato», il percorso espositivo invita a fare lo sforzo di «guardare in basso», verso un’altra dimensione; accompagnati dai pensieri dell’imperatore Costantino sui legami familiari, incontriamo reperti, riproduzioni 3D e fotografie di siti rurali della Sardegna di età romana. Altri testi accompagnano gli oggetti del Museum of Broken Relationships e le loro insospettabili storie: un servizio di porcellana cinese bruciata daTurku, (Finlandia), una moneta da Alta (Norvegia), un pezzo di marciapiede con iniziali inscritte da Pittsburgh (USA). Oggetti quotidiani e antichi che, insieme, ci propongono un quesito: «Che cosa ci rende umani?». (federico.ugolini@unisi.it)
DOVE E QUANDO «Shards of the Past» Venezia, Zattere Cultural Flow Zone fino al 24 settembre (dal 31 agosto) Orario lunedí-sabato, 10,00-18,00; domenica, 15,00-18,00 Info tel. 041 2345811; e-mail: cfz@unive.it; http://unive.it/cfz; Facebook: Ca’ Foscari Zattere
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n otiz iario
INCONTRI Umbria
NELLA TERRA DEGLI UOMINI E DEGLI DÈI
L’
Umbria è la terra mistica d’Italia, nella quale da millenni si fondono miti, riti e leggende. Santi, poeti e navigatori di anime l’hanno scelta come meta ideale per cercare delle risposte esistenziali che solo il contatto con la natura e la bellezza dei monumenti possono dare. Sono le stesse domande che si sono fatte civiltà piú antiche della nostra. Chi siamo, da dove veniamo, dove andremo, qual è il nostro posto nel mondo, cosa ci sarà dopo la morte. Temi ineludibili a cui gli uomini e le donne hanno dato diverse risposte nel corso della storia. Capire il modo di pensare, pregare e convivere dei popoli che hanno vissuto in passato nel cuore verde d’Italia è il modo migliore per riflettere sul nostro presente. Con questo spirito il Festival dell’Umbria antica 2023 ha lanciato la sua seconda edizione dedicata a «Uomini e Dèi». Un viaggio culturale per approfondire il rapporto di Etruschi, Romani e Popoli italici col divino, la morte e la religione in Umbria. Si è partiti al Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria con tre lezioni tra sacro e profano: Valentino Nizzo («Storie di guerrieri»), Maria Angela Turchetti («Al di qua e aldilà, il senso della morte per gli Etruschi) e Francesco Marcattili (Le divinità del Bellum Perusinum). E si chiude a Terni, il 2 dicembre, con gli interventi di Giovanni Brizzi sul rapporto nei secoli tra Terni e Roma, Augusto Ancillotti sul popolo dei Naharti e Luana Cenciaioli che approfondirà i culti e le devozioni nei santuari di Due tipici paesaggi dell’Umbria, il cui patrimonio storico e archeologico è protagonista della seconda edizione del Festival dell’Umbria antica.
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altura. In mezzo altre sei tappe sparse nei luoghi che custodiscono i migliori reperti del patrimonio storico e archeologico umbro: Tuoro sul Trasimeno (25 agosto), il Museo Archeologico della Villa di Plinio a San Giustino (26 agosto), il Museo Archeologico Nazionale e il Teatro Romano di Spoleto (2 settembre), il Museo della Città di Bettona (21 ottobre), il Museo Archeologico di Colfiorito (22 ottobre), e il Museo del Capitolo di Perugia (11 novembre). In totale: otto appuntamenti in sette straordinarie città dell’Umbria. Una stagione culturale lunga sei mesi e diffusa in tutta la regione per portare lezioni di alto livello scientifico tenute dai massimi esperti del settore. Un festival itinerante per inserire definitivamente l’Umbria nella mappa dei grandi eventi culturali legati alla storia antica. Ci saranno lezioni sugli dèi cartaginesi a cui Annibale giurò vendetta contro Roma (Giovanni Brizzi), il culto della Dea Cupra e i Plestini (Augusto Ancillotti), il fantasma di Plinio (Tommaso Braccini), le donne nella religione romana (Silvia Romani), Marco Antonio e il mondo degli antoniani (Giusto Traina). Ma anche approfondimenti su Vertumno, il dio etrusco-romano delle stagioni, l’evocatio e gli antichi culti salutari nell’area del Trasimeno. L’approccio è lo stesso della prima edizione, che ha avuto un sorprendente successo di pubblico e critica: divulgazione, innovazione, multimedialità. Infatti tutte le ventitré lezioni
diventeranno poi dei podcast da ascoltare nelle principali piattaforme. A queste si aggiungeranno sette episodi originali narrativi della playlist «L’Umbria antica si racconta»: le grandi imprese e le piccole storie straordinarie legate al cuore verde d’Italia. Come il mistero delle Tavole Iguvine, la battaglia del Trasimeno o la storia di Velzna, l’Orvieto etrusca distrutta da Roma. Il senso del Festival è tutto nel testo del trailer di lancio della seconda edizione, disponibile nei canali social di Umbria antica. Un invito ad avere il coraggio di conoscere un patrimonio materiale e immateriale unico in Italia: «Immagina una terra mistica, dove il divino ha il volto della natura e la geografia plasma il mito. È il sogno di un tempo lontano in cui gli uomini studiavano il volo degli uccelli per scoprire il loro destino e il valore di una civiltà si misurava dalla sepoltura dei propri cari. Un’era in cui gli dèi si invocavano
con riti, danze e canti, sacrificando sull’altare i doni piú preziosi. Se avrai coraggio, scoprirai antri misteriosi, boschi sacri e santuari perduti nel tempo. Lí troverai statue che si innalzano verso il cielo, armi che non uccidono piú nessuno e tombe ricolme di tesori per godersi la vita anche dopo la morte. Apri gli occhi e guarda intorno a te». Benvenuti in Umbria: terra di uomini e dèi. (red.)
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ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
REGINA DEL MEDITERRANEO 1 Lorenzo Nigro e Mounir Fantar ripercorrono in questo numero le vicende di Cartagine (vedi alle pp. 32-44), città fondata nel 814 a.C. da esuli fenici (1) provenienti da Tiro (2). Guardando oggi il Golfo di Tunisi dal promontorio di Sidi Bou Said (3), si riesce a comprendere quanto grande sia stata la sua estensione sulla pianura degradante verso il mare, nonché la posizione delle strutture dei due 4 porti punici, quello militare, rotondo, e quello commerciale, rettangolare (4). Cartagine (5) fu una delle prime città fondate dai Fenici nella loro espansione verso ovest (6) e sicuramente quella che diventò la piú potente per circa quattro secoli; la sua influenza si estese per tutto il Mediterraneo, da Malta alla Sicilia – dove i Cartaginesi fondarono Mozia – dopo aver toccato le Egadi (7), poi alla Sardegna e al Marocco e fino a Gibilterra (8) e anche oltre... Tornando ai giorni nostri, se a Cartagine sono ben leggibili i resti della presenza romana dopo la distruzione della città a opera di Scipione Emiliano nel 146 a.C. e la 12 sua successiva ricostruzione, non altrettanto chiare sono le tracce dell’originaria struttura punica della stessa. Fare luce su questa fase è l’obiettivo delle nuove indagini condotte dall’Institut Nationale du Patrimoine della Tunisia e dall’Università di Roma «Sapienza», con lo scavo stratigrafico sul pendio meridionale della collina di Borj-Jedid, nell’area, affacciata sul mare, in cui sorgevano le sontuose Terme di Antonino (vignetta, 9). Per quanto riguarda il nostro contributo filatelico possiamo mostrare una cartolina postale che riproduce uno scorcio dell’area archeologica di Cartagine (10) e il teatro romano (11); troviamo poi molti mosaici come quelli di Nettuno (12), Virgilio (13) e di Ulisse e le Sirene (14), nonché reperti conservati nel Museo del Bardo (15), come la pietra dura che è divenuta uno dei simboli della Tunisia (16).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it
CALENDARIO
Italia ROMA Vita dulcis
Paura e desiderio nell’impero romano Palazzo delle Esposizioni fino al 27.08.23
Gli Dei ritornano
I bronzi di San Casciano Palazzo del Quirinale fino al 29.10.23 (dal 02.09.23)
Gladiatori nell’Arena
Tra Colosseo e Ludus Magnus Colosseo fino al 07.01.24
L’Amato di Iside
Nerone, la Domus Aurea e l’Egitto Domus Aurea fino al 14.01.24
Caere
Storie di dispersione e di recuperi Museo delle Antichità Etrusche e Italiche, «Sapienza» Università di Roma fino al 28.02.24
Lex
Giustizia e diritto dall’Etruria a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 10.09.23
Imago Augusti
Due nuovi ritratti di Augusto da Roma e Isernia Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 26.11.23
La Roma della Repubblica
BOLOGNA Gli Assiri all’ombra delle Due Torri
Un mattone iscritto della ziggurat di Kalkhu in Iraq e gli scavi della Missione Archeologica Iracheno-Italiana a Ninive Museo Civico Medievale fino al 17.09.23
BRESCIA Luigi Basiletti e l’Antico
Brescia, palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 03.12.23
Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.09.23
Il Pugile e la Vittoria
Bronzo e oro
CANINO (VITERBO) La «prima» Vulci
Roma, Papa Innocenzo III: racconto immersivo di un capolavoro Vittoriano, Sala Zanardelli fino al 01.10.23
Nuova Luce da Pompei a Roma Musei Capitolini-Villa Caffarelli fino all’08.10.23
Brixia. Parco archeologico di Brescia romana fino al 29.10.23
All’origine della grande città etrusca Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.12.23
CASTAGNETO CARDUCCI Nel segno di Fufluns
Il vino degli Etruschi Sala espositiva di Palazzo Espinassi Moratti fino al 05.11.23
CAPO DI PONTE (BRESCIA) Sotto lo stesso sole
Europa 2500-1800 a.C. MUPRE-Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica fino al 30.09.23
FERRARA Case di vita
Sinagoghe e cimiteri in Italia Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 17.09.23 28 a r c h e o
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
GAIOLE IN CHIANTI Cetamura 50
TORINO Bizantini
ISCHIA DI CASTRO Il ritorno della biga
Il dono di Thot
Materiali, persone, ricordi Museo alle origini del Chianti fino al 15.09.23
I carri in bronzo etruschi di Castro, Vulci e Tarquinia Museo Civico «Pietro e Turiddo Lotti» fino al 31.12.23
MILANO Le vie dell’acqua a Mediolanum
Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica fino al 28.08.23 Leggere l’antico Egitto Museo Egizio fino al 07.09.23
VENEZIA Imago iustitiae
Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24
Capolavori attraverso i secoli Museo Correr fino al 03.09.23
MODENA DeVoti Etruschi
VETULONIA Corpo a corpo
La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23
NAPOLI Alessandro Magno e l’Oriente Museo Archeologico Nazionale fino al 27.08.23
Dalla bellezza classica dei capolavori del Museo archeologico nazionale di Napoli alla classicità del Bello nell’opera di Mitoraj Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi fino al 05.11.23
VIGEVANO La Collezione Strada
Picasso e l’antico
Museo Archeologico Nazionale fino al 27.08.23
Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23
PORTICI (NAPOLI) Materia
Francia
Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23
Pannello musivo con ritratto di papa Giovanni VII. 705-707.
PARIGI Ramesse e l’oro dei faraoni Grande Halle de la Villette fino al 06.09.23
Germania BERLINO Aes corinthium RIO NELL’ELBA Gladiatori
Il segreto del rame nero Staatliche Museen, Neues Museum fino al 27.08.23
Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24
Grecia
TAORMINA Palinsesti
ATENE Ritorno a casa
Il Teatro antico di Taormina: dalla storia al mito Teatro antico fino al 31.10.23
Contrappeso di collana (menat) in bronzo. 880 a.C.
Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23 a r c h e o 29
ET LA TU À R CL CH AS IA SI IN CA
LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
TURCHIA EGEA ALLA SCOPERTA DELLE MERAVIGLIE DELL’ANATOLIA CLASSICA di Fabrizio Polacco
TROIA • EFESO • PERGAMO • MILETO • AFRODISIA ALICARNASSO • PRIENE • XANTHOS
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Veduta della città di Side, in Panfilia. In primo piano, il teatro romano.
a Turchia possiede un patrimonio culturale di straordinaria ricchezza e, per quanto riguarda l’archeologia, la sua porzione piú consistente si concentra nelle regioni bagnate dal Mar Egeo. Come grani di uno sfavillante diadema, lungo le coste che si snodano dallo Stretto dei Dardanelli al Golfo di Antalya e nel loro immediato entroterra si succedono siti e città di eccezionale rilevanza storica, architettonica e artistica: da Troia a Pergamo, da Smirne a Efeso, da Mileto ad Afrodisia... Centri toccati dal viaggio che Fabrizio Polacco propone nella nuova Monografia di «Archeo», sottolineando, di volta in volta, il ruolo svolto da ciascun insediamento nel corso delle vicende succedutesi nell’arco di molti secoli e le testimonianze che di quegli eventi si possono ancora oggi ammirare. Del resto, la Turchia egea fu teatro di avvenimenti davvero epocali, basti pensare alla guerra di Troia o alla realizzazione del mausoleo di Alicarnasso (oggi Bodrum), considerato una delle Sette Meraviglie dell’antichità. Un itinerario avvincente, dunque, costruito sulle puntuali descrizioni dei siti – frutto della personale conoscenza dei luoghi che l’autore ha acquisito nel corso di ripetuti soggiorni – alle quali si affianca un ricco corredo fotografico e cartografico.
GLI ARGOMENTI
• TRACIA E DARDANELLI • TROADE • MISIA E LIDIA • IONIA • DORIDE E CARIA • LICIA
in edicola
• PANFILIA a r c h e o 31
L’INTERVISTA • LIBRI E LETTORI
QUEI PITTORI DI «PAROLE ALATE» UNO STUDENTE DI FRONTE AL MAESTRO SI APPRESTA A LEGGERE UN TESTO; UNA DONNA – LA CELEBRE POETESSA SAFFO – È INTENTA A DECLAMARE, IN PRESENZA DELLE SUE ALLIEVE, I VERSI DI UN’ODE: MA COSA CI RIVELANO LE SCENE, RAFFIGURATE SUI VASI GRECI, IN CUI APPAIONO COME «PROTAGONISTI» I ROTOLI DI PAPIRO? NE ABBIAMO PARLATO CON LO STUDIOSO MENICO CAIROLI, AUTORE DI UN RECENTE SAGGIO DEDICATO AL FENOMENO incontro con Menico Caroli, a cura della redazione
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aestum, metà del V secolo a.C.: i genitori di un giovane prematuramente scomparso allestiscono il corredo funebre del loro figlio. Il bagaglio per l’aldilà si attaglia in modo esemplare alla condizione dell’inumato: si tratta di un ragazzo che ha vissuto all’insegna del famoso motto platonico che inneggia alla ginnastica per il corpo e alla musica (e alle lettere) per l’anima. Accanto al consueto nucleo di oggetti per la palestra, il corredo include anche un vaso per unguenti, importato dall’Attica, decorato da un seguace del Pittore di Akestorides. Protagonista del dipinto è un giovane che legge un libro di papiro sotto lo sguardo vigile del suo pedagogo (vedi foto qui accanto). Nel simbolismo sotteso a immagini di questo tipo, la capacità di leggere e scrivere è avvertita come il solo valore riconoscibile alle vite dei giovani a cui il destino aveva negato un ruolo attivo nella società degli adulti. Non potendosi celebrare altre loro qualità, era il ricordo della paideia (il periodo della formazione, dell’educazioParticolare di scena scolastica dipinta su un vaso per unguenti di un seguace del Pittore di Akestorides. V sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale. 32 a r c h e o
ne etica e intellettuale dei giovani dell’antica Grecia, n.d.r.) a essere evocato sui vasi grazie alla rappresentazione di oggetti come il rotolo di papiro, da secoli testimone della memoria letteraria dei Greci. Ciò che rende particolare la lekythos di Paestum è la presenza, nel papiro, di un breve testo che il ceramografo ha dipinto con segni minutissimi. Il piú delle volte, queste lettere danno luogo a sequenze nonsense e solo in casi piú rari esse formano frasi di senso compiuto. Su poco meno di settanta scene di lettura, dipinte su vasi attici di età classica, questa peculiarità ricorre su meno di venti esemplari. Li ha esaminati, in un recente libro, Menico Caroli, professore di greco all’Università di Foggia, che alla circolazione libraria nel mondo greco ha dedicato ampia parte della sua produzione scientifica. ♦ Professor Caroli, da che cosa nasce la sua ricerca? «Serviva un aggiornamento delle scene di lettura dipinte sui vasi a figure rosse: tra il 1964 e il 1973, Henry R. Immerwahr ne forní un primo censimento in due articoli pionieristici, ma da allora il numero delle testimonianze è raddoppiato». ♦ Quale valore è possibile riconoscere ai testi dipinti nei papiri? «Sebbene essi siano stati a lungo liquidati come astruse invenzioni dei ceramografi, qualcuno si era già accorto della loro importanza sul piano storico-letterario. Il primo a occuparsene con squisito rigore scientifico non è stato tuttavia un filologo, bensí un grande (anzi il piú grande) esperto di ceramografia classica, John D. Beazley». ♦ Quale idea si è fatto di questi frammenti vascolari di antica letteratura? «Nel mio libro sostengo che almeno una parte delle testimonianze possa risalire a committenti eruditi, in grado di dettare ai ceramografi le parole che desideravano veder scritte nelle miniature dei libri. Ma solo in casi rari le parole costituiscono frammenti di letteratura già nota». ♦ Qualche esempio? «Su una lekythos funeraria, un giovane ritratto in una dimensione di vita scolastica scorge in un papiro le prime parole dell’inno omerico A Ermes (vedi foto qui accanto). Nello specifico, si tratta della versione minore dell’inno, lunga solo 12 versi, ideale per i primi esercizi di memorizzazione. Il vaso merita di essere contemplato nelle edizioni critiche dell’inno in questione, perché è il piú antico testimone del suo incipit e perché Particolare di scena scolastica su una lekythos funeraria del Pittore del Cartellino. V sec. a.C. Collezione privata. a r c h e o 33
L’INTERVISTA • LIBRI E LETTORI
questo è anche il messaggio che il defunto reca con sé nell’aldilà: è una sorta di suo testamento spirituale. Parimenti, il papiro dell’inno A Ermes evoca la simbologia tanatologica del dio, perché è noto che alle anime dei defunti, che si perdevano nell’oscuro regno di Ade, Ermes indicava la via da percorrere. Sullo stesso vaso, non è poi casuale l’accostamento del dio a oggetti, come il papiro e le tavolette cerate, valorizzati quali media della comunicazione scritta. La potenza di Ermes si esplicava infatti anche nella sfera del logos, fondante per affinare la capacità di dialogo in una società, come quella ateniese del V secolo a.C., in cui ogni cittadino aveva diritto di parola nelle pubbliche assemblee». ♦ In quanti casi le parole dipinte nei papiri risalgono ai grandi padri della letteratura greca? «Oltre al citato esempio dell’inno omerico A Ermes, mi piace ricordare un frammento del Catalogo delle donne, ignoto alla tradizione manoscritta (vedi foto in basso). Il passo introduce la vicenda della presa di Ecalia da parte di Eracle. A lui, vincitore in una titanica gara di tiro con l’arco, il re Eurito aveva promesso la figlia Iole, In alto: particolare di scena scolastica su una coppa di Duride. V sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen. A destra: scena scolastica su un vaso del Pittore di Akestorides. V sec. a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum. Nella pagina accanto: frammento di un vaso del Pittore dei Niobidi raffigurante Artemide con rotolo di papiro iscritto. V sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
fornisce un prezioso indizio per risalire alla cronologia del componimento. Esso infatti documenta che questa versione parallela del famoso inno circolava in Attica almeno dal 470 a.C., quando il vaso fu dipinto nelle botteghe del Ceramico di Atene. Ne fu autore il cosiddetto Pittore del Cartellino, un seguace del ceramografo Duride, uno dei primi a dipingere papiri con iscrizioni. Tutti ricordano la sua famosa coppa che ritrae l’interno di una scuola e uno studente, in piedi di fronte al maestro, che gli legge un papiro nel quale è iscritto un intero esametro (vedi foto in alto)». ♦ Esiste un legame tra le parole che si leggono nei papiri e la funzione funeraria del vaso? «Direi di sí, perché la scelta di farsi accompagnare nell’aldilà con un vaso che contemplava una scena di lettura presupponeva la divulgazione di un messaggio da cogliersi nelle parole che il papiro recava al suo interno. Nel volumen di Paestum, si riconosce l’inizio di un motto, variamente declinato nel corso dei secoli, che tramanda un insegnamento utile ai vivi: “Non avere desiderio di un uomo malvagio”. Ma 34 a r c h e o
negando poi da ultimo il premio pattuito. Il gesto scatenò la rabbia di Eracle, che uccise il re e portò via con sé la bionda Iole. Ancora una volta, il papiro è immaginato dal ceramografo in un contesto scolastico: evidentemente, la lettura del mito in questione sollecitava riflessioni sul valore della parola data e sulla figura di un eroe, come Eracle, che per mezzo di imprese eccezionali appariva come un esempio straordinario di impegno e dedizione». ♦ È l’unico frammento inedito che emerge dalla sua ricerca? «No. Sospetto che su un altro papiro, dipinto su un vaso frammentario (vedi foto qui accanto), possa celarsi l’incipit di un inno che Erodoto riconduceva al mitico poeta Oleno. Pare che quest’inno, dedicato alla figura della dea Ilizia, fosse parte integrante di un rituale praticato dalle partorienti. Nel canto, si rievocava il travaglio di Latona e la nascita dei suoi divini gemelli, Artemide e Apollo, generati dal seme di Zeus e scampati alla persecuzione di Era». ♦ Che cosa dimostra che si tratti proprio dell’inno noto a Erodoto? «Lo suggerisce il fatto che il passo si apra con la menzione di Arge, la fanciulla che, secondo il mito, ebbe il privilegio di assistere alla nascita della “felice prole” (cosí è scritto nel papiro) di Latona. Le fonti ricordano che Arge, insieme con un’altra fanciulla, Opi, era evocata nell’inno A Ilizia per il fatto di essere sbarcata a Delo poco prima della nascita di Apollo e di Artemide.Va precisato che nel dipinto oggi conservato al Metropolitan Museum di New York la figura che scorge nel papiro il probabile incipit dell’inno in questione è proprio Artemide, ritratta all’interno di uno spazio oltre il quale s’intravede la figura di Apollo». ♦ Le parole dipinte nei papiri coincidono sempre con l’incipit di un componimento? «Quasi sempre: i limiti materiali del vaso non consentivano di farne un supporto scrittorio estensivo, sicché i ceramografi si limitavano a riportare le prime parole di una certa composizione, facendo appello alla memoria incipitaria degli antichi». ♦ Oltre agli esempi menzionati, quali altri testi prevalgono nei papiri dipinti sui vasi? «L’esame dei testimoni svela echi di un sapere per lo piú sentenzioso e precettistico. Su un vaso conservato ai Musei Vaticani, un giovane, ritratto in un moa r c h e o 35
L’INTERVISTA • LIBRI E LETTORI
mento di lettura solitaria, mostra un papiro dal testo quanto mai lacunoso. Pur con la cautela che si deve adottare in situazioni di questo tipo, non escludo che il papiro stigmatizzasse la condotta di quanti amavano vivere, come si direbbe oggi, “con la testa fra le nuvole”. Non tutti sanno che questa espressione ha origini remote, che le fonti riconducono alla figura di Talete. Perso com’era nella ricerca dei segreti astrali, l’incauto filosofo, che di notte si aggirava per buie campagne, con la testa rivolta verso l’alto, precipitò in un pozzo. La leggenda narra che fu salvato da una donna, di modesta cultura, che lo inchiodò alle sue responsabilità con parole intrise di profonda saggezza: “Pur capace di scrutare le cose che stanno in cielo, non vedi quelle che hai fra i piedi”. Qualcosa del genere doveva essere scritto anche nel papiro in questione: nella vita, prima di sfidare l’invisibilità del cielo, occorre non perdere di vista le cose piú vicine e concrete. Su un altro vaso del V secolo a.C., un giovane, nuovamente ritratto in un contesto scolastico, scorge in un papiro l’inizio di una frase che lo invita a fare tesoro di quanto stava leggendo: “Chi mi dà ascolto (ne trarrà) senno e coraggio”. Esiodo, nelle Opere e giorni, alterna avvisi di questo tenore per rimarcare l’utilità dei precetti, da lui elargiti, di cui il libro si faceva veicolo materiale. A Esiodo era ricondotta un’altra opera fondante della paideia greca, i cosiddetti Precetti di Chirone, ispirati dal saggio centauro che, secondo il mito, aveva preso in carica l’educazione del prode Achille. La piú antica scena vascolare, che mostri un giovane immerso nella lettura di un papiro, ha per oggetto pro-
prio “il bel poema di Chirone”, come recita l’iscrizione associata al papiro (vedi foto in basso). Sappiamo che uno dei precetti rammentava all’educando il doveroso omaggio che ogni uomo deve rendere ai genitori, in quanto artefici della sua vita, e agli dèi, che la proteggono dai pericoli. In una scena scolastica, di ambientazione mitica, questo precetto pare evocato anche nel papiro che Lino, inventore del ritmo, della melodia e in seguito anche della poesia, sta mostrando all’allievo Museo. Le parole che si intravedono nel papiro suggeriscono che il maestro stia valorizzando “la moderazione degli dèi che vivono in eterno” (vedi foto qui sotto)».
In alto: particolare di una kylix del Pittore di Eretria raffigurante Lino che consulta un rotolo di papiro iscritto. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra: particolare di scena di lettura su un kyathos di Onesimo. V sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen.
♦ Da cosa ricava l’idea che una parte di questi papiri rechi parole ideate da committenti eruditi? «Fatta eccezione per i rotoli nei quali si leggono sentenze e motti come quelli testé citati, altri papiri recano citazioni puntuali o ricercati giochi di parole che difficilmente si potranno ascrivere all’estro dei ceramografi. Su un frammento vascolare, decorato dal celebre pittore attico Onesimo, un papiro evoca “le Muse che governano l’inno che dà vita al coro”. Se la frase è parsa ai piú un rompicapo, la chiave di lettura è costituita dall’aggettivo stesichoros, concordato con il sostantivo hymnos. Ma è noto che Stesichoros era anche l’epiteto con cui era risaputo il poeta Tisia di Imera, idolatrato, con ogni probabilità, dal committente del vaso. Il cliente dettò al ceramografo un gioco di parole teso a evocare la figura di Stesicoro e delle sue Muse, ispiratrici e 36 a r c h e o
iniziatrici del canto. Ancor piú significativo è poi un L’hydria detta di «Saffo lettrice» e, qui sotto, il particolare celebre vaso attico, noto come l’hydria di “Saffo lettri- del libro che la poetessa legge alle sue allieve. 440-430 a.C. ce”, che ritrae la poetessa, al cospetto delle sue allieve, Atene, Museo Nazionale Archeologico. mentre declama l’inizio di un’ode scritta all’interno di un papiro (vedi foto in basso). Il testo dice: “dèi (dell’aldilà), dia io inizio, gemendo, ai casti versi aerei”. Le “parole alate” della poetessa (cosí esse sono presentate nel papiro) dovevano far parte dell’ode che con ogni probabilità apriva il libro contenente le poesie della maturità, dedicate al tema della vecchiaia e della morte, avvertite come incombenti. Il testo del papiro restituisce un esametro, quasi completo, scritto in un dialetto che non è l’eolico di Saffo (vedi foto a destra). Il colorito epicoionico del testo ha indotto gli studiosi a considerare il verso inautentico, forse senza necessità, dato che lo stesso poteva essere il frutto di una riscrittura a cura di un estimatore ionico della poetessa. Questa ipotetica figura potrebbe identificarsi con il committente del vaso e forse con il padre o con il marito di una qualche aristocratica ateniese: qualità e dimensioni del vaso
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L’INTERVISTA • LIBRI E LETTORI
«Direi proprio di sí: nella cornice scenica di attività didattiche o ricreative, i papiri dipinti sui vasi passano di mano in mano a personaggi (mitici e reali) fra i quali primeggiano, per numero, enigmatiche figure di donne lettrici. È un protagonismo che richiede una ♦ È possibile dunque postulare l’esistenza di donne riflessione sulla portata (piú che notevole) di un fenomeno quasi del tutto taciuto dalle fonti letterarie. colte, di vere e proprie lettrici? fanno infatti pensare alla sepoltura di un personaggio di rango. Questi doveva amare la poesia di Saffo e destinò un suo verso al papiro dipinto sull’hydria che doveva accompagnare la defunta nell’aldilà».
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Scene di lettura al femminile non sono anteriori al 460 a.C. Intorno a tale data, ad Atene, fu dipinta, su una lekythos a fondo bianco, la piú antica scena di lettura di cui siano protagoniste due donne: una lettrice, seduta, mostra all’osservatore un rotolo di papiro contrassegnato da una sequenza di lettere priva di senso (vedi foto alla pagina accanto). Di fronte alla lettrice, in piedi, una compagna attende con sguardo sereno l’inizio della lettura». ♦ Quale è stato l’atteggiamento dei critici moderni di fronte all’inusuale binomio donna-libro? «Negazionismi non sono mancati, come dimostra un curioso episodio risalente al 1919. Il Louvre di Parigi si aggiudicò all’asta una bellissima lekythos attica, risalente al 430 a.C., che ritrae una donna, elegantemente abbigliata, mentre legge un rotolo di papiro prelevato da una teca (vedi foto a destra, in alto). Oggi tutti concordano sul fatto che la protagonista della scena sia una donna istruita, una bibliofila. Eppure, sul catalogo d’asta, la scena fu descritta in termini assai diversi: “Donna in piedi, davanti a una cassa aperta, spiega i tessuti”. Non sembrò vero che il vaso potesse eternare il ricordo di una lettrice, di una intellettuale: perché scardinare secoli di pregiudizi, al cospetto di quella che poteva ben essere una matrona alle prese con uno scampolo di stoffa? Ha complicato ulteriormente la situazione il fatto che su alcuni vasi, con scene di lettura al femminile, il rotolo di papiro sia dipinto in mano alle Muse (vedi foto in basso). Una parte degli studiosi ha voluto riconoscere come Muse anche le comuni mortali intente a consultare papiri in contesti sicuramente domestici. Per fortuna, il progresso degli studi ha dimostrato il buon livello culturale al quale potevano ambire le giovani dell’alta aristocrazia ateniese. I ceramografi le hanno ritratte nel ruolo di lettrici, musiciste, cantanti e forse anche di poetesse». ♦ È un fenomeno esclusivo di Atene? «No: su un vaso di artista beotico, una donna scorge in un rotolo di papiro l’inizio di una narrazione, forse mitica, ambientata nella cittadina di Isie. Che le donne che leggono non siano sempre e solo Muse dimostrano In alto: particolare di una lekythos del Pittore di Klügmann raffigurante una donna che legge un rotolo di papiro. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra: particolare di una lekythos raffigurante Calliope e Mnemosine. V sec. a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». Nella pagina accanto: particolare di una lekythos a fondo bianco del Pittore di Atene 1826 raffigurante una donna che legge un rotolo di papiro al cospetto di una compagna. V sec. a.C. Collezione privata. a r c h e o 39
L’INTERVISTA • LIBRI E LETTORI
A sinistra: restituzione grafica della decorazione di un vaso di un artista della cerchia di Polignoto, raffigurante donne che suonano strumenti musicali e declamano poesie da rotoli di papiro. Plovdiv, Regional Museum of Archaeology. A destra: particolare di un vaso del Pittore dei Niobidi con donne che suonano strumenti musicali e declamano poesie da rotoli di papiro. New York, Foundation of the Solow Art and Architecture. In basso: particolare di un vaso del Pittore di Sabouroff raffigurante una madre e un figlio che ripassano da un papiro un testo da memorizzare. Amsterdam, Allard Pierson Museum.
inoltre alcuni vasi sui quali, fra le figure che partecipano a recital di poesie declamate da papiri, compaiono anche madri con bambini (vedi foto in alto, a sinistra). Su un vaso è addirittura ritratta una madre che controlla da un libro di papiro l’esattezza del testo declamato dal figlio in vista un concorso scolastico (vedi foto in basso). Le testimonianze provano due fenomeni distinti e al tempo stesso correlati, quali l’alfabetizzazione delle aristocratiche ateniesi e un loro chiaro interesse per la musica e per la letteratura, declinato all’interno di spazi domestici (vedi foto in alto, a destra). Il matrimonio non poneva fine al processo di acculturamento di quelle ateniesi (figlie e mogli di uomini ricchissimi) che po-
tevano ambire a un’educazione scolastica di prim’ordine. Allo spazio maschile dell’agorà si opponevano quegli scorci domestici, dipinti sui vasi, in cui regna la figura della donna dotta, appassionata lettrice di libri. Le protagoniste delle scene appartengono a quelle non rare “donne di sapere” alle quali già Euripide riconosce un importante riscatto culturale. Nella Medea, portata in scena nel 431 a.C., il poeta convalida una possibilità di acculturamento del genere femminile, che a suo dire sarebbe proprio non di tutte, ma di molte donne del suo tempo. Evidentemente, a teatro come sui vasi, il cliché della donna colta, cristallizzato anche sulla scia della figura storica di Aspasia di Mileto (donna di grande eloquenza e intelligenza, che è però ricordata soprattutto per essere stata la compagna di Pericle, n.d.r.), suscitava riflessione negli ambienti piú evoluti. Era un fenomeno, nuovo e curioso, degno di lasciar traccia nel repertorio figurativo». PER SAPERNE DI PIÙ Menico Caroli, Il libro, il poeta, il pittore, Ekdosis, Edizioni di pagina, Bari 2022 ISBN 978-88-7470-923-6 www.paginasc.it
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SCAVI • CARTAGINE
IL CIELO SOPRA CARTAGINE PRIMA DI TRASFORMARSI NELLA NEMICA NUMERO UNO DI ROMA, LA CITTÀ SORTA SU UN PEZZO DI TERRA GRANDE QUANTO LA PELLE DI UN BUE HA AVUTO UNA STORIA LUNGA E GLORIOSA. CHE GLI SCAVI DELLA MISSIONE ITALO-TUNISINA STANNO CONTRIBUENDO A RICOSTRUIRE, OFFRENDO IMPORTANTI PARTICOLARI SULL’ASSETTO URBANISTICO DEL SITO E SULLE CARATTERISTICHE DEI SUOI MONUMENTI PIÚ IMPORTANTI di Lorenzo Nigro e Mounir Fantar
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alla collina detta Byrsa, a Cartagine, si gode lo spettacolare panorama del Golfo di Tunisi, che si spalanca da nord a sud, dal promontorio del lucente villaggio turistico di Sidi Bou Said, passando per la corona di sette colli dei quali appunto Byrsa è il monticolo centrale, fino alle grandi lagune salate costiere che separano La Goulette, il porto di Tunisi, dalla Medina. Proprio tra la collina di Byrsa e il mare si estendeva la città fondata dai Fenici di Tiro adagiata sui pendii dei colli che digradavano verso il mare. Sullo sfondo, a sud-est, l’inconfondibile sagoma a due corni del Monte Bou Kornine, dove il dio Baal amava apparire con le sue folgori; all’estremità della pianura i due porti, quello rotondo per la flotta militare,
con al centro l’isola dell’ammiragliato, e quello rettangolare, per le navi commerciali. In mezzo, un’area che in epoca romana imperiale arrivò a occupare una superficie di 450 ettari, dagli iniziali quattro o cinque in cui era compreso il terre-
no acquistato da Elyssa con lo stratagemma della pelle di bue tagliata in striscioline fino a descrivere un perimetro lungo 1,5 km. Cartagine, Qart Hadasht, la Città Nuova, la Nuova Tiro, non è stata solo una delle prime colonie fenicie Cartina di Cartagine con i monumenti principali e le nuove aree di scavo. A sinistra, sulle due pagine: veduta del Golfo di Tunisi e, sullo sfondo, del Monte Bou Kornine dall’acropoli della collina di Byrsa. In primo piano, il cosiddetto Quartiere punico di Annibale.
Ville romane Edificio a colonne
Cisterne
Teatro
Odeon Necropoli Terme Dermech di Antonino
Cattedrale
Anfiteatro
Torre Collina di Byrsa
Mar Mediterraneo
Ippodromo
Porto militare
Cartagine
Kothon Tofet
Porto commerciale
Capo Farina
Mar Me editerraneo Zembra Zembretta
Capo Bon
Golfo di Tunisi
Capo Gamart Ras Dourdas Djebel el Gouna Capo Cartagine Kef er Rennd
Lago diTun di Tunisi Tun isi
Cartagine
Kef Bou Krim
Djebel Taoucht
Djebel Sidi Abd er Rahmane Djebel Bou Korbeus Djebel Hofra
Djebel Bou Kournine
Djebel Hallout
Djebel Ressas
Djebel Oust
Djebel Ahira
Djebel es Sraï Djebel Makki
Cartagine
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SCAVI • CARTAGINE
in Occidente – fondata nell’814 a.C. secondo Giustino (scrittore cristiano, filosofo, santo e martire attivo nel II secolo d.C., n.d.r.) –,ma anche l’unica tra queste a essere capace di esercitare per almeno quattro secoli un’egemonia politica e culturale sul mondo dei Fenici d’Occidente che dal Nord Africa si estendeva alla Sicilia, alla Sardegna alle Baleari fino all’Andalusia e anche, oltre le colonne d’Ercole, lungo le coste atlantiche del Marocco e del Portogallo. Che cosa sappiamo della prima Cartagine? Oltre un secolo di studi e di esplorazioni archeologiche hanno ben rappresentato la molteplicità di monumenti e di epoche di
A destra: Scavi INP-«Sapienza», Dermech. Saggio stratigrafico tra il Settore A e il Settore B, aperto durante la terza campagna di scavi (2023). In basso, sulle due pagine: l’area archeologica di Cartagine con, in primo piano, i resti delle Terme di Antonino, costruite nel 157 d.C.
TERME CON VISTA MARE Erette dall’imperatore Antonino Pio (138-161 d.C.) nel 157 d.C., con un solido basamento in blocchi calcarei e l’alzato in laterizi e grandi volte in opus caementicium, rivestite di marmi e con colonne di granito di notevolissime dimensioni, le terme sono tra gli edifici termali romani piú monumentali e meglio conservati al mondo. Le terme di Cartagine sorgevano direttamente sulla spiaggia ed erano servite da un acquedotto lungo 143 km che le
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vita della città conquistata e distrutta da Scipione Emiliano nel 146 a.C. e poi ricostruita dai Romani con splendidi monumenti e rimasta un fiorentissimo centro anche nell’era cristiana e bizantina, ma non hanno chiarito la topografia della Cartagine fenicia, di cui, ancora oggi sappiamo assai poco.
CREMAZIONI RITUALI Conosciamo parzialmente la struttura urbana, avendola ricostruita basandoci soprattutto sulle fonti, e alcuni lacerti dei monumenti piú famosi, come il Tofet, il santuario destinato ad accogliere i resti ritualmente cremati dei bambini morti prematuri o poco dopo il
In alto: necropoli di Dermech. Tombe ricavate nel banco roccioso, Settore A.
riforniva d’acqua dolce. Erano suddivise simmetricamente, in modo da offrire due calidaria, due frigidaria e una doppia serie di palestre e vani accessori. Le dimensioni erano tali da poter ospitare fino a tremila persone contemporaneamente. Si trovavano al termine di un asse viario maggiore, essendo facilmente raggiungibili dai patrizi che risiedevano sui pendii delle colline di Byrsa, di Giunone e dell’Odeon.
A sinistra: Dermech. Fornace con piano forato dall’ampliamento meridionale del Settore A. A destra: la sequenza stratigrafica di Dermech. Sezione in corrispondenza della facciata meridionale di M.203.
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SCAVI • CARTAGINE
parto; le numerose necropoli (che prendono il nome dato dai colonizzatori francesi nell’Ottocento alle colline che le ospitano: Douimes, Dermech, Giunone); i cosiddetti quartieri di Didone e di Magone, di recente esplorati nuovamente dagli archeologi tunisini, tedeschi, francesi e olandesi; abitazioni e qualche piccolo luogo di culto, come il sacello della dea Tanit (Tinnit, «la piangente o l’addolorata», riferito ad Astarte). Che il fulcro della città fossero il tempio della dea (poi romanizzata in Giunone Caelestis) e il tempio di In basso: Dermech. Edificio ipogeo a est della necropoli con iscrizione dedicatoria ad Asclepio.
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Dermech. Lucerna bilicne (a due luci) a doppie volute con presa plastica decorata con motivo della palmetta. Età augustea.
Eshmun (poi romanizzato in Esculapio) è certo, ma non siamo sicuri della localizzazione esatta di questi edifici sulla collina detta Byrsa. È molto difficile districarsi tra le numerose rovine e tra le ville della moderna aristocrazia tunisina per leggere le vestigia dell’antica città. E
questo nonostante l’impegno profuso in modo ammirevole dall’istituzione tunisina preposta allo studio e alla valorizzazione delle antichità, l’Institut National du Patrimoine.
pienza». Le indagini sono state indirizzate a rispondere a due quesiti principali: qual era la topografia di Cartagine tra il IX e il II secolo a.C.? Quali i tracciati delle mura? Dove si trovavano gli edifici maggiori e i principali assi viari? Quale fu il paesaggio funerario della città: che cosa ci dicono dell’organizzazione sociale e della vita dei Cartaginesi la cronologia e le caratteristiche delle diverse necropoli? Per rispondere a queste domande storiche supportati dai dati materiali abbondantemente offerti dall’archeologia, la missione congiunta INP-«Sapienza» ha intrapreso uno scavo stratigrafico sul pendio meridionale della collina di Borj-Jedid, nell’area in cui, sul mare, sorgono le sontuose Terme di Antonino (costruite nel 157 d.C.). Qui si estendeva una delle prime necropoli in uso tra il VII e il VI secolo a.C., forse il periodo di maggiore splendore della prima Cartagine, la cosiddetta necropoli di Dermech. Ai piedi della stessa collina una fitta stratigrafia scende indietro nel tempo: qui è in corso un sondaggio finalizzato a individuare il limite setGli archeologi e gli epigrafisti tunisini hanno dato infatti un contributo fondamentale alla conoscenza di Cartagine e della Tunisia fenicia e punica da almeno un secolo. Tra di loro spiccano le figure di Mohammed Hassin Fantar, Fethi Chelbi, Samir Aounallah, Ahmed Ferjaoui e Mohamed Tahar.
IL CONTRIBUTO ITALIANO A questo lavoro di riscoperta ha partecipato dal lontano 1960 l’Università degli Studi di Roma «Sapienza» che, su impulso di Sabatino Moscati, condusse una storica prospezione del Capo Bon, la punta nord-orientale della Tunisia. Per continuare a esplorare Cartagine, una nuova spedizione è stata approntata dall’Institut National du Patrimoine e dall’Università «Sa-
In alto: Dermech. Installazioni in mattoni crudi per lo stoccaggio delle anfore dall’area industriale realizzata sopra la necropoli. A destra: Dermech. Protome femminile in terracotta. IV-III sec. a.C.
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SCAVI • CARTAGINE Necropoli dell’Odeon, Tomba 10. In primo piano, il dromos scavato nel banco roccioso entro il quale è stata trovata la deposizione secondaria; in fondo, la camera funeraria chiusa con un grande blocco piatto lavorato.
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tentrionale della città, a nord-est dell’acropoli di Byrsa e a raccogliere informazioni sull’antica società cartaginese. Lo scavo stratigrafico ha mostrato come ai margini dell’area sepolcrale, nel V secolo a.C., si trovasse una fornace che era stata costruita sopra una lunghissima sequenza di muri innalzati nel VI secolo a.C. sopra i resti di edifici in mattoni crudi dal caratteristico colore arancione. Qui, una grande colmata effettuata in epoca romana imperiale aveva inteso regolarizzare l’area per innalzarla e costruirvi un luogo di culto del quale resta una soglia di marmo iscritta con una dedica ad Asclepio, il dio guaritore Eshmun dei Fenici, murata nel corpo di una struttura semi-ipogea (vedi box alle pp. 52-53).
Il grande tempio di Eshmun si trovava sull’acropoli di Byrsa e fu distrutto dai Romani nel grande assedio che pose fine alla III guerra punica nel 146 a.C.
CERAMICHE RAFFINATE Gli scavi in questo settore hanno restituito una quantità considerevole di materiali: dalle raffinate ceramiche dipinte puniche, alcune risalenti all’VIII e VII secolo a.C., al vasellame greco d’importazione e di produzione locale, e ancora armi e i monili di bronzo, terracotte figurate, un grande mortaio di marmo e una lucerna bilicne (a due luci) d’epoca augustea. Significativa è anche la presenza della Red Slip, la ceramica da tavola di lusso fenicia che viene pro-
dotta in grande quantità anche a Cartagine, abbellendola ulteriormente secondo il gusto locale con bande dipinte nere. Quella di Cartagine, nel VII secolo a.C. sarà la Red Slip piú importata nel Mediterraneo Centrale, ma nel repertorio da Dermech, diversi esemplari ci ricordano che la Città Nuova era ancora strettamente legata alla madrepatria Tiro, cui avrebbe continuato a pagare tributo regolarmente nei secoli a venire. Le tombe della necropoli di Dermech scavate nelle prime tre campagne dalla missione appartengono a tre tipologie diverse: il primo tipo, in uso nel VII secolo a.C., è costituito da fosse rettangolari scavate 4 m circa sotto la superficie rocciosa della collina, lunghe 2 m e larghe 80
Pendici meridionali della Collina dell’Odeon. Veduta generale del settore della necropoli punica scavata dalla missione congiunta INP-«Sapienza».
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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SCAVI • CARTAGINE
In questa pagina e nella pagina accanto, in alto: i materiali facenti parte del corredo vascolare del defunto all’interno del dromos della Tomba 10 nella necropoli dell’Odeon. III sec. a.C.
cm circa, con una risega su cui erano alloggiate le lastre di copertura. Il pozzetto era colmato ritualmente con offerte e libagioni; il secondo tipo, che si afferma successivamente nel VI secolo a.C. e sembra rappresentare uno sviluppo piú monumentale del precedente, è simile, ma il pozzo rettangolare è piú profondo, fino a 5 m, e su un lato breve una porta dà accesso alla camera sepolcrale. Infine, il terzo tipo è costituito da una fossa rettangolare foderata da un muretto o da lastre di pietra, coperta da blocchi disposti a cappuccina. Questa 50 a r c h e o
terza tipologia è considerevolmente piú recente e infatti le tombe di questo tipo non sono piú scavate nella roccia, ma negli strati delle colmate che hanno obliterato la prima necropoli sul fianco della collina.
LE COLMATE ROMANE Nella seconda e terza campagna di scavi (2022, 2023), le indagini sono state estese a un altro settore della città, compreso all’interno dell’area archeologica delle residenze patr izie romane sulla collina dell’Odeon, subito a est del teatro romano (oggi ampiamente
ricostruito). In questo settore, secondo Tertulliano – che scrive nel II secolo d.C. (De resurrectione carnis, XLII,8) –, per la costruzione del teatro romano fu obliterata un’importante necropoli punica, in uso almeno dal III secolo a.C. In effetti, gli scavi hanno mostrato come anche quest’area fosse stata intenzionalmente e cospicuamente colmata in età romana prima di costruirvi sopra. Negli anni Cinquanta del Novecento, un archeologo francese (Jean Retiro) vi aveva scavato, rimuovendo ingenti quantità di terra, fino a giungere
alla base delle cisterne ricavate sotto le ville romane; lo scavo era stato poi ripreso da Maurice Vézat, che, a est del teatro romano e tra questo e l’area detta Ard el-Mourali, identificò circa 70 tombe realizzate a partire dal V secolo a.C. Aveva individuato una serie di tombe monumentali, la cui esplorazione sistematica è ripresa nel 2023, dopo aver effettuato una prospezione geomagnetica con il radar sottosuperficiale (GPR) fino alla profondità di 5,5 m. Le tombe scavate, sebbene tutte costruite con tecnica analoga e tutte simili non sono identiche, salvo che nelle dimensioni e nella qualità della pietra impiegata. Si tratta di camere rettangolari rivestite di grandi lastre spesse piú di 20 cm, con accesso tramite corridoi scavati in uno strato di marna argillosa di colore giallastro compatto e regolare, rivestiti da blocchetti di pietra regolarmente tagliati. La camera funeraria è chiusa in alto da due o tre grandi monoliti. In prossimità di alcune tombe sono
A sinistra: amuleto egittizzante in pasta silicia, dalla necropoli dell’Odeon. IV sec. a.C. In basso: mandibola umana dal dromos della Tomba 10 della necropoli dell’Odeon.
stati ritrovati vasi di piccole dimensioni, presumibilmente utilizzati nei riti funebri. Uno sguardo complessivo mostra la monumentalità del cimitero, situato sulla collina a a r c h e o 51
SCAVI • CARTAGINE
nord-est di Byrsa, immediatamente fuori dell’area urbana ai tempi piú celebrati della città punica tra il IV e il III secolo a.C., in un punto davvero dominante. Come ha notato Hélène Benichou Safar, tutte le necropoli monumentali di Cartagine sono paesaggisticamente dominanti, cosicché, quando si svolgevano i rituali funebri e si accudivano i defunti, queste azioni erano viste dagli abitanti della città, a dimostrazione dell’importanza che tali prassi avevano nella cultura punica. Tra i ritrovamenti piú significativi nella necropoli dell’Odeon, vi sono i resti di alcuni defunti, in particolare quelle parti di cranio umano dalle quali è possibile estrarre il DNA antico, la rocca petrosa e i denti. Dai denti, inoltre, tramite lo studio dei residui pollinici nel tartaro, si posso-
La struttura semi-ipogea nel cui ingresso è stato reimpiegato l’architrave con la dedica a Esculapio. In basso: cisterna punica C.1001 finemente intonacata all’interno del complesso necropolare dell’Odeon.
PER IL DIO GUARITORE A eccezione del Tofet, il santuario piú noto di Cartagine, gli altri edifici religiosi della città fenicio-puncia sono conosciuti esclusivamente grazie alle menzioni reperibili nelle fonti letterarie ed epigrafiche. Tra questi, uno dei piú importanti è certamente il tempio dedicato a Eshmum, figura poliedrica nelle vesti di dio guaritore, divinità poliade di Sidone, successivamente assimilato al greco Asclepio, l’Esculapio latino. Le fonti storiografiche (Tito Livio XLII, 24; Strabone XVII, 314; Appiano, Lyb. 130) menzionano un edificio monumentale sito sulla collina di Byrsa, accessibile attraverso una lunga scalinata di sessanta grandini e circondato da un esteso muro perimetrale di cui, però, le indagini archeologiche non hanno ancora restituito tracce. Il tempio di Eshmun è intrinsicamente legato alla storia mitica di Cartagine che si apre con il suicidio di Elyssa e si conclude con quello della moglie di Asdrubale, proprio all’interno di questo luogo sacro. Il tempio, infatti, diede rifugio a un nucleo della popolazione cartaginese durante l’ultimo l’assedio dell’esercito romano che pose fine alla III guerra punica, nel 146 a.C. In quell’occasione, la moglie di Asdrubale, dopo aver ucciso i figli e maledetto il marito disertore, si gettò nelle fiamme, sancendo la fine della resistenza cartaginese. Esmhun era una divinità molto popolare e non sono rare le iscrizioni che menzionano il culto o
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Dermech. L’architrave di marmo che reca l’iscrizione dedicatoria a Esculapio: IUSSU • DOMINI • AESCV[LAPII].
documentano la presenza di luoghi sacri a lui dedicati nella città. Il ritrovamento a Dermech, dentro il parco delle Terme di Antonino, di un architrave di marmo con iscrizione dedicatoria a Escluapio – IUSSU • DOMINI • AESCV[LAPII] – reimpiegato all’ingresso di una stuttura semi-ipogea, potrebbe essere l’indizio di un culto in quest’area, forse già dall’epoca punica. Il blocco iscritto ben si inserisce nel panorama delle iscrizioni dedicate a Esculapio da ambienti termali dell’Africa
romana. Significativi in questo senso sono i ritrovamenti da Leptis Magna, da Timgad e dalle Terme d’Estate di Thuburbo Maius. Qui un’iscrizione originariamente disposta all’interno del tempio d’Esculapio riporta l’obbligo di astenersi per tre giorni da rapporti sessuali, dal consumo di legumi e di carne di maiale e, significativo in virtú del contesto di ritrovamento, dal frequentare i bagni. Federico Cappella
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SCAVI • CARTAGINE
Le ultime dimore Ortofoto delle necropoli di Cartagine, scavi INP-«Sapienza». In alto: la necropoli di Dermech con le nove tombe arcaiche ricavate nella roccia vergine (VII-VI sec. a.C.) e l’ambiente ipogeo a est. A destra: la necropoli dell’Odeon con le undici tombe costruite e la grande cisterna d’età punica al centro (IV-II sec. a.C.).
no eseguire ulteriori indagini circa le abitudini alimentari, mentre gli isotopi dello stronzio ci diranno dove ciascun individuo è vissuto nella sua prima infanzia. Sono dati sempre parziali, ma che contribuiscono ad arricchire un quadro che, naturalmente, è costituito anche dallo studio dei corredi delle tombe, costituiti da vasi, ornamenti personali e armi, molti dispersi già nel secolo scorso e da «scavare» nel Museo di Cartagine, che è in corso di ristrutturazione. Nel bel mezzo della necropoli dei Barcidi, il georadar ha consentito di individuare una cisterna punica, piú 54 a r c h e o
recente, che mostra come la necropoli fosse già stata abbandonata quando Scipione Emiliano conquistò la città nel 146 a.C. dopo il lungo e travagliato assedio iniziato due anni prima. Della grande battaglia che pose fine
all’assedio e della distruzione che seguí, le tracce archeologiche sono assai poche: all’indomani della conquista, i Romani effettuarono ingenti lavori per trasformare le rovine della città, in una monumentale capitale dell’impero.
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DONNE DI POTERE/5
UNA MATER DI NOME LIVIA DI UNA BELLEZZA IRRESISTIBILE, ASTUTA E IPOCRITA: È IL QUADRO, POCO LUSINGHIERO, TRACCIATO DA TACITO DELLA TERZA MOGLIE DELL’IMPERATORE AUGUSTO. AL CUI FIANCO TRASCORSE OLTRE MEZZO SECOLO E DEL QUALE FU CONSIGLIERA ACCORTA, SEBBENE NON DEL TUTTO DISINTERESSATA... di Francesca Cenerini
L
ivia Drusilla, la terza moglie dell’imperatore Augusto, non gode di buona stampa. O meglio, i piú noti storici dell’antichità, primo fra tutti Tacito, ne hanno tramandato ritratti impietosi, a eccezione di Velleio Patercolo, che cosí la descrive: «Livia, figlia del nobilissimo e valorosissimo Druso Claudiano, fu la piú nobile, la piú virtuosa e la piú bella tra le donne romane, moglie di Augusto, fu sua sacerdotessa e figlia quando Augusto fu accolto tra gli dèi». 58 a r c h e o
Statua di Augusto con la toga. Parigi, Museo del Louvre. L’opera, in realtà, è frutto dell’inserimento di un ritratto dell’imperatore, verosimilmente eseguito fra il 30 e il 20 a.C., su una scultura piú antica.
Tacito racconta, invece, che Livia aveva sposato in prime nozze il noto esponente politico filo-repubblicano Tiberio Claudio Nerone, che era stato proscritto ed era fuggito all’estero con moglie e figlio (il futuro imperatore Tiberio) al seguito durante i tragici anni della guerra civile. Ottaviano, racconta Tacito, è preso dal desiderio irresistibile della bellezza di Livia e pertanto l’aveva sottratta al legittimo marito, senza che si possa sapere se lei fosse consenziente o meno. Di sicuro Ottaviano era cosí impaziente che l’aveva condotta nella sua casa senza darle neppure il tempo di partorire il secondo figlio del primo marito. Sempre secondo Tacito, Livia aveva un comportamento irreprensibile nella vita domestica, ma era astuta come il marito e ipocrita come il figlio Tiberio. Appare evidente come questo ritratto negativo della moglie del primo imperatore sia funzionale al discredito che Tacito attribuisce all’istituzione del principato e alla conseguente presenza femminile alla corte dell’imperatore.
Statua di Livia Drusilla, da Paestum. 15-20 d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.
IL VINO ALLUNGA LA VITA Il matrimonio tra Augusto e Livia dura a lungo ed è interrotto soltanto dalla morte di lui, nel 14 d.C. Secondo Plinio il Vecchio, Livia attribuiva i suoi oltre ottanta anni di vita alla qualità del vino Pucino, in quanto non aveva mai bevuto varietà diverse da quella. Le ragioni politiche di questo matrimonio che i calendari Verulani di età tiberiana ascrivono al 17 gennaio del 38 a.C. sono state fondamentali per le alleanze che Ottaviano doveva stringere in previsione dello scontro contro Marco Antonio. Queste stesse alleanze, e la necessità di mantenerle in vigore, sono state piú forti della sterilità del loro matrimonio che ha impedito ad Augusto di avere un erede diretto. Svetonio afferma che Augusto ha amato a r c h e o 59
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Livia e lo ha dimostrato con singolare perseveranza, anche in forza del fatto che nell’equilibrio delle alleanze politiche del tempo Livia diventa un fattore stabilizzante per i vertici del potere. Altre fonti letterarie accusano invece la matrigna Livia di avere volontariamente avvelenato tutti i possibili successori di Augusto, i nipoti Marcello, Caio e Lucio Cesari, allo scopo di favorire la successione del figlio Tiberio. C’è chi tramanda che avrebbe addirittura tentato di avvelenare lo stesso marito, inducendolo
ad assaggiare una mela avvelenata, l’inviolabilità già propria dei trima la sciocchezza dell’informazione buni della plebe di età repubblicana. Il pacchetto dei provvedimensi commenta da sola. ti che Ottaviano fa approvare in favore della moglie e della sorella MISURE AD PERSONAM Un episodio anomalo, del tutto in comprende anche l’esenzione dalantitesi con i dettami del mos ma- la tutela, cioè il diritto di amminiiorum del tempo, riguarda il rap- strare direttamente i propri beni porto di coppia tra Augusto e Li- da parte delle donne, e il cosidvia, ma anche il rapporto di pa- detto ius imaginum, il diritto alla rentela fra Augusto e la sorella immagine pubblica, cioè l’erezioOttavia. Ottaviano, infatti, nel 35 ne di statue in loro onore. a.C. decide di conferire alla mo- È evidente che Ottaviano sente la glie Livia e alla sorella Ottavia la necessità di proteggere le donne cosiddetta sacrosanctitas, vale a dire che avrebbero potuto generargli eredi di sangue, con la sicurezza e la Ritratto in basanite di Livia. inviolabilità fisica già propria dei Parigi, Museo del Louvre. tribuni della plebe, oltre a garanzie La freddezza patrimoniali e distinzioni onorifidell’espressione, tipica che che le avrebbero poste su di un della prima età augustea, piano piú elevato rispetto alle altre e il materiale utilizzato donne nobili del tempo. (una pietra di Prende ora avvio un processo che provenienza caratterizzerà il primo principato: egiziana), l’illustre famiglia dei Giuli incosuggeriscono che mincia a essere identificata, a l’opera sia stata differenza delle altre, con l’ineseguita dopo la tero corpo civico dei vittoria di cittadini romani e, di Augusto su fatto, il benessere dei Antonio e suoi esponenti vieCleopatra ad ne a coincidere con Azio, nel 31 a.C. il bene dello Stato. Augusto
(C. Giulio Cesare Ottaviano) sp. Clodia, poi Scribonia poi
LIVIA
già sp. a Tiberio Claudio Nerone
Tiberio
PARENTELE ILLUSTRI Germanico
sp. Agrippina Maggiore
Nerone
Druso
Drusilla
Druso
sp. Antonia Minore
Levilla
C. Caligola
Claudio
Agrippina Minore sp. Cn. Domizio Enobarbo
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Una delle principali accuse rivolte a Livia dagli storici antichi, e anche da parte di molti moderni, è quella di avere influenzato negativamente Augusto in molte delle sue decisioni politiche. L’accusa piú grave è quella di aver fatto di tutto (anche ricorrere all’assassinio) per assicurare la successione all’impero al proprio figlio di primo letto Tiberio Claudio Nerone. Si tratta, invece, di una decisione unilaterale di Augusto, dopo che i suoi primi candidati sono morti in giovane età per malattia o ferite di guerra. Statua di Livia con le sembianze di Cerere, divinità legata alla fecondità delle messi, alla quale alludono la cornucopia e le spighe. 20 d.C. Già Collezione Borghese. Parigi, Museo del Louvre.
Il primo successore doveva essere Marcello, figlio della sorella Ottavia e primo marito della figlia di Augusto Giulia. Successivamente i prescelti sono Caio e Lucio Cesari, figli della stessa Giulia e di Marco Agrippa, appositamente adottati dal nonno materno Augusto. In questo frangente, si può cogliere appieno il perdurante peso della mentalità nobiliare romana. I figli di primo letto di Livia e del nobilissimo marito Tiberio Claudio Nerone, Tiberio e Druso Maggiore, sono allevati dal padre naturale, sia pure sconfitto
politicamente, fino alla morte di quest’ultimo. Sono successivamente accolti dalla casa di Augusto e diventano entrambi personaggi politici e militari di spicco dell’entourage del principe stesso. Invece, i figli maschi di Marco Agrippa, che non poteva vantare un’ascendenza nobiliare, sono per cosí dire sottratti al padre naturale e diventano figli adottivi di Augusto e quindi dei Giuli in vista della successione.
IL «FIGLIO DI GIULIA» Soltanto dopo la morte dei due figli adottivi, Augusto si risolve ad adottare Tiberio e a proporlo come successore. In questa stessa ottica Augusto decide di adottare nel suo testamento anche la moglie Livia, allo scopo di rafforzare la successione di Tiberio (vedi box a p. 69). La valenza dinastica dell’adozione di Livia da parte di Augusto verrebbe confermata dalle velenose parole di Tacito: alcuni senatori erano dell’opinione che accanto al nome di Tiberio dovesse figurare la dicitura «figlio di Giulia». Il difficile ruolo di Livia alla corte di Tiberio è stigmatizzato dalle fonti letterarie. Cassio Dione scrive che il senato avrebbe voluto edificare un arco in onore di Livia, cosa che non era mai stata fatta per nessun’altra donna; inoltre avrebbe voluto conferirle l’appellativo di «madre della patria», motivando questa richiesta con il fatto che la donna, nel corso della sua esistenza, aveva salvato la vita a molti appartenenti all’ordine senatorio, aveva allevato i loro figli e contribuito al pagamento della dote delle figlie. In provincia Livia viene effettivamente onorata pubblicamente con il titolo di mater patriae, per esempio su una moneta coniata fra il 21 e il 30 d.C. a Leptis Magna, a r c h e o 61
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che mostra Livia rappresentata in trono, con un’iconografia che chiaramente deriva dalle emissioni ufficiali. La legenda la identifica semplicemente come Augusta, e non come Iulia Augusta, quindi con un solo nome, che, chiaramente, svincola tale appellativo da una valenza meramente nominale, tanto che l’Augusta è qualificata anche come mater patria(e), appellativo ufficiale che Tiberio non vuole concedere alla madre, perché l’imperatore temeva una diminuzione del suo prestigio personale, secondo le solite perfide parole di Tacito. In ogni caso, il titolo di Augusta fornisce il primo precedente per il posizionamento e per la rappresentazione pubblica delle discendenti della famiglia imperiale. Se prestiamo fede a Svetonio, Tiberio si sarebbe indignato per gli eccessivi onori che si volevano tributare a Livia, non ne autorizza nessuno e, ragionando da patrizio repubblicano, coerentemente ammoniva la madre di non interferire nelle questioni di maggiore importanza, perché non erano cose da donne. Non occorre sottolineare che la testimonianza di Velleio Patercolo è di segno diametralmente opposto: la morte della madre, donna straordinaria e dotata di un influsso
NEL CUORE DEL POTERE
sempre benefico, provoca un since- tre che dal comportamento generaro dolore a Tiberio. le di Livia, anche dalle lettere ufficiali che scriveva e riceveva. Tale valutazione di Cassio Dione, in realtà, è AMBIZIONI INCROCIATE Invece, sempre secondo Svetonio, del tutto anacronistica ed è possibile Tiberio accusa la madre di voler che lo storico sia influenzato dal dividere con lui il potere. Addirittu- ruolo che Giulia Domna, moglie di ra, secondo Cassio Dione, Livia, do- origine orientale di Settimio Severo, po la morte di Augusto e la succes- aveva alla corte dei Severi, all’inizio sione al potere del figlio Tiberio, del III secolo d.C., corte con cui avrebbe aspirato non soltanto a un Dione aveva dimestichezza. riconoscimento formale, ma anche Augusto non voleva e non poteva sostanziale nel governo dell’impero, configurare un vero e proprio potepuntando a una vera e propria co- re istituzionale per Livia, del tutto reggenza, come sarebbe provato ol- incompatibile con la mentalità roNella pagina accanto: statua funeraria e onorifica di Claudio Marcello, nipote e genero di Augusto (figlio della sorella Ottavia e marito di Giulia), dall’Esquilino. Firmata dallo scultore ateniese Cleomene, l’opera viene datata intorno al 20 a.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra: ritratto di Ottavia, da Palestrina. Età augustea. Roma, Museo Nazionale Romano.
C. Giulio Cesare 46-44 a.C.
Giulia Azia sp. Gaio Ottavio
sp. Claudio Marcello (1) OTTAVIA (2) sp. Marco Antonio
C. Ottaviano Augusto
27 a.C.-14 d.C.
Gneo Domizio Enobarbo
Antonia Maggiore
Gneo Domizio Enobarbo Marcello sp. Giulia
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Marcella
Nerone
54-68 d.C.
Agrippina Minore
Antonia Minore
mana del tempo. Nella prassi è invece evidente il ruolo fondamentale di Livia, già nelle stesse intenzioni del marito prima e poi padre adottivo, nella progressiva creazione di una casa e famiglia di Augusto divina, la cosiddetta domus Augusta. Tale nuova istituzione diventa la base del culto dinastico dello stesso imperatore e del consenso al potere imperiale, dove l’apoteosi decretata ad Augusto, all’indomani della sua morte, introduce un elemento fondamentale con cui i successori dell’imperatore avrebbero necessariamente dovuto fare i conti.
UN SACERDOZIO COME LEGITTIMAZIONE Non a caso, la nuova Livia che prende il nome, in seguito all’adozione da parte del marito e padre, di Iulia Augusta è la prima sacerdotessa del culto del divino Augusto, importante fonte di legittimazione del potere del figlio naturale Tiberio e adottivo di Augusto. Un poeta come Ovidio, già dissidente e come tale condannato all’esilio, la definisce come moglie e sacerdotessa, mentre lo storico Velleio Patercolo, allineato e grande sostenitore di Tiberio, ne parla come sacerdotessa e figlia. Il solito Cassio Dione scrive che dopo l’apoteosi di Augusto, Livia, che era già stata chiamata sia Giulia che Augusta, viene nominata sacerdotessa ufficiale del suo culto e che durante le funzioni sacre le è concesso di utilizzare un littore. Tale sacerdozio femminile, autonomo rispetto al sacerdote di Augusto divinizzato, viene organizzato sul modello della cosiddetta flaminica, moglie del flamine di Giove, delle Vestali e della sacerdotessa pubblica di Cerere e consente il riconoscimento di una posizione formale alla Augusta Livia. Il figlio Tiberio, divenuto imperatore, in parte si oppone a questi onori tributati a una donna, ma, nel 23 d.C., concede che Livia sieda in teatro tra le sacerdotesse Vestali e che uti-
lizzi il carpentum, carro a due ruote usato in occasioni solenni. Di questa anomala adozione e posizione di Livia si possono dare molteplici spiegazioni, forse tutte ragionevoli. In ogni caso, l’elemento piú importante è il cambiamento del nome: dopo il 14 d.C. Livia sarà sempre menzionata come Giulia Augusta sui documenti ufficiali, come le disposizioni del senato o le iscrizioni pubbliche. In particolare, va sottolineata la trasmissione a una donna del cognome di Augusto, che rappresenta allo stesso tempo la politica dell’imperium e la religiosità dell’auctoritas del primo imperatore. Tale cognome diventa, da questo momento e fino a Nerone, esclusiva e assoluta prerogativa della famiglia giulio-claudia. I mass media del tempo, sia in età augustea che tiberiana, celebrano proprio la continuità dinastica: la famiglia giulio-claudia, senza piú distinzioni al suo interno, diventa struttura definitiva in relazione alla trasmissione regolare del potere.Va notato che nel volgere di pochi decenni l’assunzione del nome di Augusta venne in un qualche modo «normalizzata», per cosí dire, in quanto Plinio il Vecchio è in grado di asserire che a Livia Drusilla era stato dato il nome di Augusta dopo che si era sposata con Augusto, identificando l’assunzione del nome come conseguenza del matrimonio, come era divenuta consuetudine a partire da Claudio e da Nerone. Da tale adozione, indubitabilmente trae vantaggio la successione di Tiberio che, in tal modo, è figlio naturale di Giulia Augusta e figlio adottivo di Augusto, ma si può anche ritenere che l’adozione di Livia da parte di Augusto avvantaggi la posizione della stessa Livia, non soltanto da un punto di vista
patrimoniale, ma nella gerarchia, per cosí dire, di corte. Livia, infatti, compare in posizione preminente nei documenti ufficiali, per esempio negli atti del senato. Come sacerdotessa del divino Augusto, prefigura il ruolo pubblico che le sacerdotesse delle divine Auguste avranno nella
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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vita delle città dell’impero romano, come dimostrano anche le iniziative di carattere pubblico, per esempio i banchetti destinati alle matrone, promossi dalla stessa Livia (e da Giulia, prima del suo allontanamento da Roma) in occasione dei ludi secolari.
STATUE E ISCRIZIONI Negli scavi del teatro di Marcello, dedicato tra il 13 e l’11 a.C. da Augusto in memoria del nipote e genero morto nel 23 a.C., è stato rinvenuto il frammento di un’iscrizione in pietra che menziona una [Au]gusta, corettamente interpretato come la menzione di Iulia Augusta.Tacito ricorda la dedica di una statua al divino Augusto posta non lontano dal teatro di Marcello in cui il nome di Tiberio seguiva quello di Giulia. Tale fatto è ovviamente riportato in termini del tutto negativi da Tacito che se ne serve per dimostrare come Tiberio fosse del tutto sottomesso e succube della madre, tanto da posporre il proprio nome da imperatore a quello di lei, secondo il tradizionale cliché interpretativo dei rapporti tra questi due personaggi. In particolare, Tiberio avrebbe ritenuto questo fatto lesivo della sua dignità imperiale, ma lo avrebbe nascosto secondo la sua nota tecnica della dissimilazione. È invece evidente, in questo contesto sacrale, che il nome di Iulia Augusta figura per primo non a causa della perversa influenza manipolatrice della madre sul figlio, ma perché rispecchia il contesto comunicativo all’interno del quale i due figli adottivi di Augusto compaiono e agiscono, ciascuno nei propri ruoli di competenza. Si tratta di leggere questo messaggio nella realtà ideologica e istituzionale di riferimento, che non coincide con i successivi fraintendimenti (voluti e non) degli storici
antichi (Tacito soprattutto), ma anche contemporanei. Il culto di Augusto divinizzato si conferma quindi di fondamentale importanza nella politica dinastica degli imperatori giulio-claudi e, in particolare, nel delicato momento di passaggio del potere da Augusto a Tiberio. In questo contesto deve essere pertanto correttamente letto il ruolo di Livia / Giulia Augusta nella sua evidenza epigrafica appartenente alla delicata sfera del sacro relativa alla divinizzazione di Augusto dopo la sua morte. Un altro momento della storia augustea vedrebbe un importante intervento di Livia su Augusto; secondo il racconto di Cassio Dione, delatori anonimi accusano Cornelio Cinna, nipote di Pompeo Magno, presso Augusto; convocato dal principe, Cinna confessa la propria azione eversiva. Livia convince Augusto a essere clemente e a perdonare Cinna che, addirittura, ottiene il consolato per l’anno successivo, il 5 d.C.
UNA «POLITICA DELL’OBLIO» Di questa supposta congiura oggi la critica tende a ridimensionare la portata e a considerarla, invece, una manovra abilmente orchestrata dallo stesso imperatore per rafforzare i suoi legami con l’aristocrazia senatoria, divenuta ormai elemento essenziale della sua politica di governo volta a valorizzare la conciliazione, supposta o reale, tra il principe e l’ordine senatorio. Lo stesso coinvolgimento cosí accentuato di Livia evidenzia tale politica conciliatrice: il loro matrimonio aveva inaugurato la cosiddetta «politica dell’oblio» che favoriva la partecipazione al nuovo regime degli antichi oppositori di Ottaviano. Ci si può chiedere se realmente Li(segue a p. 68)
La Gemma Augustea: Augusto, seduto con la dea Roma, viene incoronato mentre Tiberio, a sinistra, scende dal cocchio; sotto, legionari e barbari. 9-12 d.C. (la montatura in oro è un’aggiunta del XVII sec.). Vienna, Kunsthistorisches Museum. 64 a r c h e o
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Lastra in terracotta policroma raffigurante due fanciulle che ornano l’immagine aniconica di Apollo, dall’area del tempio del dio sul Palatino. 40-30 a.C. Roma, Museo Palatino. Nella pagina accanto: Casa di Augusto, sala delle Maschere. La pittura simula una complessa architettura, ispirata alle scenografie teatrali. II stile, 30 a.C. circa.
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QUANDO AUGUSTO MISE LA MASCHERA... Un episodio particolarmente curioso viene narrato da Svetonio, il quale accenna a una cena riservatissima, che in seguito sarebbe stata comunemente chiamata «dei dodici dèi». Durante questo convito, Ottaviano avrebbe assunto le sembianze del dio Apollo e gli altri undici convitati a loro volta si sarebbero travestiti da divinità. Tale contesto è stato interpretato da alcuni storici moderni come il banchetto che festeggiava le nozze tra Ottaviano e Livia. Scavi archeologici effettuati da Andrea Carandini e dai suoi allievi sul Palatino avrebbero identificato il luogo dove si sarebbe svolto questo banchetto, vale a dire il triclinio del peristilio A, posto al pianterreno della lussuosa casa di Ottaviano sul Palatino. La notizia riportata da Svetonio è stata costruita dagli oppositori politici, sia dai repubblicani piú radicali che dai cesariani, ed è sfuggita alle maglie della successiva censura augustea. Ottaviano è rappresentato mentre festeggia e cena sontuosamente quando il popolo della città di Roma era alla fame, a causa delle difficoltà di approvvigionamento alimentare, dovute all’azione sul mare e al blocco dei porti a opera di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno. Sesto, già riconosciuto dal senato romano come comandante della flotta nei frenetici avvenimenti che si susseguono all’indomani dell’uccisione di Cesare, viene a patti con i triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido, forte del suo predominio sul mare che gli serve per potere esercitare un ruolo politico. Sarà definitivamente sconfitto da Marco Agrippa nel 36 a.C. in Sicilia e verrà lapidariamente ricordato da Augusto nel suo testamento come pirata. Secondo l’interpretazione di Giovannella Cresci Marrone, nel 33 a.C., quando il conflitto tra Antonio e
Ottaviano era ormai giunto a un punto di non ritorno, Antonio rimprovera a Ottaviano il matrimonio con Livia, che per di piú è incinta del primo marito. Antonio ha ben capito che questo matrimonio suggella definitivamente l’accordo tra Ottaviano e l’aristocrazia tradizionalista e cerca di metterne in cattiva luce gli aspetti negativi e contrari al mos maiorum. La propaganda antoniana, cosí facendo, attribuisce a Ottaviano i caratteri tipici del tiranno, tra cui la sottrazione ai legittimi mariti delle mogli di Didascalia da fare Ibusdae officte in erupit antesto bell’aspetto. Inoltre, sievendipsam, possono mettere relazione la taturidicum ilita aut quatiur narrazione della vicenda Lucrezia in Livio (larestrum eicaectur, testo blaborenes ium matrona che si suicida non sopportando il disonore etur reius dello stupro, dalla cuiquasped azione, quos però,non scaturisce la nonem quam rest magni caduta della monarchia delexpercipsunt re Tarquinio quos il Superbo) e apic teces enditibus teces. quella del matrimonioautatur tra Ottaviano e Livia in Tacito: se Livio pone l’accento sul fatto che la tirannide di Tarquinio era caduta in seguito a uno stupro e alla conseguente reazione dei nobili romani a tale sopruso, Tacito sottolinea che il principato era stato fondato sull’accettazione da parte dei nobili romani del «rapimento» di una donna sposata posta in essere dal nuovo tiranno Ottaviano, futuro Augusto. Questo racconto, depurato dagli intenti denigratori in chiave propagandistica del tempo, ci può illustrare il fatto che Ottaviano e Livia e i loro amici piú intimi in realtà condividevano, per lo meno all’inizio del loro matrimonio, uno stile di vita aristocratico di stampo ellenistico, lo stesso che traspare dalla costruzione del mausoleo monumentale di Augusto vicino al luogo dove verrà edificata a partire dal 13 a.C. l’Ara Pacis, monumento pubblico sul quale, per la prima volta, compaiono i familiari di Augusto, tra cui anche le donne.
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via condividesse questi valori oppure ne fosse supina portavoce. Il lungo discorso che Cassio Dione le fa pronunciare è ampiamente retorico, tipico delle tecniche oratorie del tempo, ma è possibile che vi siano alcune parti che rispecchiano in qualche modo la personalità di Livia. Il contesto è ampiamente convenzionale: per esempio, è già presente nella narrazione a opera di Plutarco delle vicende del cesaricida Bruto e della moglie Porzia. Augusto non riesce a dormire e Livia gliene domanda il motivo: si tratta di una
moglie legittima che condivide l’intimità con il detentore del potere. Augusto le spiega che è di fronte a un grave problema politico e che deve prendere una decisione; Livia gli risponde che è una normale conseguenza per chi esercita il potere che, in questo contesto, viene anacronisticamente definito assoluto, una vera e propria autarchia, di cui Augusto lamenta la solitudine. Sempre secondo la narrazione di Cassio Dione, Livia chiede ad Augusto di non biasimarla se, pur essendo una donna, si permette di
A destra: dupondio battuto al tempo di Tiberio. 31 d.C. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, Livia come Augusta Mater Patria[e]. Nella pagina accanto: ritratto dell’imperatrice Livia, dagli scavi condotti nel 1928 nel teatro di Butrinto. Età augustea. Butrinto, Museo. In basso: il gran cammeo di Francia, con l’apoteosi di Tiberio e della madre Livia, seduti al centro della scena. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
suggerirgli una cosa che nessun altro, neppure un amico intimo, avrebbe l’ardire di proporre. Livia si risolve a parlare perché, dice, lei è in grado di conservare la sua parte nel ruolo di regnante soltanto se Augusto si trova in una posizione sicura, ma se Augusto è in pericolo, lei non può che cadere in rovina assieme a lui. La donna è quindi consapevole di condividere lo stesso destino del marito. Livia appare come una accesa sostenitrice della politica della clemenza e della gentilezza e Augusto, convinto dalle sue parole, le presta ascolto.
SCELTE POLITICHE CONDIVISE Il contesto, come detto, è ampiamente retorico e anacronistico, ma non è escluso il fatto che la politica di progressiva restaurazione politica portata avanti da Augusto potesse essere condivisa da Livia, che proprio alla provenienza da quella parte politica (repubblicani conservatori) doveva il matrimonio con Augusto. Ma c’è di piú. Augusto decide che 68 a r c h e o
DA MOGLIE A FIGLIA Con un atto del tutto nuovo e decisamente rivoluzionario e che rimane unico nel panorama politico e istituzionale romano, Augusto adotta Livia per via testamentaria. Dopo la morte del primo imperatore, Livia,come recita il testamento del principe, diventa infatti figlia di Augusto e, in quanto tale, assume il nome di Iulia Augusta come è documentato dall’epigrafia ufficiale, per esempio dalla tabula Siarensis e dal senatus consultum de Cnaeo Pisone patre, che confermano, senza ombra di dubbio, che Iulia Augusta ha avuto un ruolo fondamentale nella progressiva creazione di una domus Augusta divina. Augusto stabilisce nel suo testamento che Livia e Tiberio siano i suoi eredi; in particolare, secondo le parole di Tacito, Livia entrava nella famiglia giulia e assumeva il nome di Augusto. Svetonio parla della divisione dell’eredità e dell’obbligo a portare il suo nome: «Nominò primi eredi Tiberio per la metà piú un sesto, Livia per un terzo e stabilí che portassero il suo nome». Cassio Dione parla di due terzi dell’eredità lasciati a Tiberio e tutto il resto a Livia, almeno stando a quanto dicono alcuni, chiosa lo scrittore, aggiungendo il fatto che Augusto aveva dovuto chiedere al senato una deroga per potere lasciare alla moglie/ figlia un’eredità cosí cospicua. Tecnicamente, questa adozione rientra nella categoria delle adozioni testamentarie che, peraltro, non sono mai state studiate in modo approfondito e quindi, a tutt’oggi, risulta molto difficile comprendere quali ne fossero le conseguenze sul piano strettamente legale. Anche sulle conseguenze politiche non c’è stata unanimità tra gli studiosi nell’intendere un effettivo ruolo istituzionale (o meno) di Livia all’indomani della morte di Augusto, in conseguenza della effettiva o presunta influenza politica esercitata dalla moglie sul marito durante la loro vita di coppia. Se, da un lato, la cosiddetta «condizione di portare il nome» indurrebbe a ritenere che tali adozioni testamentarie siano delle vere e proprie adozioni, con tutte le conseguenze legali del caso, tuttavia permangono ancora tra gli studiosi fondati dubbi sugli scopi effettivi di questo tipo di adozione. Se, indubbiamente, occorre essere cauti nel formulare ipotesi sulla base di documentazione senz’altro carente, è per altro evidente che nel caso di Livia emerge la volontà non soltanto politica, ma
soprattutto dinastica insita in tale adozione. L’adozione di Livia è riconosciuta da un senatoconsulto e viene sottoposta all’approvazione formale dell’assemblea popolare per avere un effettivo valore giuridico: il senato delibera, secondo il costume del tempo, la costruzione di un’ara che commemori questa adozione, altare che, però, Tiberio rifiuta di fare edificare, conformemente alla sua ferma volontà di limitare drasticamente i «gli onori delle donne».
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anche alle donne possano essere intitolati i luoghi della nuova Roma augustea che, come rivendica nel suo testamento politico, eredita costruita con mattoni di argilla e la lascia edificata in marmo splendente. A Livia è dedicato, per volontà di Augusto, un portico sull’Esquilino, che verrà imitato da esponenti delle aristocrazie municipali quale simbolo della concordia e della pietas di Augusto.
FU VERO AMORE? Nel corso della loro lunga ed eccezionale vita Augusto e Livia si sono amati? Non possiamo saperlo con certezza: di sicuro Augusto da lei non ha divorziato, nonostante il loro matrimonio sia stato sterile, ma, ci possiamo chiedere, se sulla scena politica coeva Augusto potesse aspirare a una moglie migliore di Livia. Svetonio scrive che Augusto, in punto di morte, avrebbe pronunciato tra le braccia di Livia le seguenti parole: «Livia, conserva il ricordo del nostro matrimonio». Che cosa significano queste parole con cui gli scrittori antichi pensano che Augusto possa essersi congedato definitivamente dalla moglie? L’addio di un anziano moribondo a una moglie amata oppure il volere ribadire che Livia non doveva mai dimenticare di essere stata la moglie di Augusto e regolarsi di conseguenza sempre come tale? In effetti, dobbiamo tenerlo bene a mente, se non ci fosse stato il marito Augusto e, soprattutto, se non ci fosse stata la successione al potere imperiale del figlio Tiberio, di Livia non sapremmo pressoché nulla. Le fonti letterarie hanno consegnato alla storia un ritratto impietoso di Livia. Ben diversa è, invece, la narrazione delle fonti cosiddette documentarie, vale a dire statue, iscrizioni e monete. Innanzi tutto, 70 a r c h e o
LA SCELTA DI CLAUDIO Augusto e Livia sono destinati a diventare la «coppia ancestrale» del potere imperiale romano, quando, dopo la divinizzazione di Augusto all’indomani della sua morte nel 14 d.C., anche Livia viene divinizzata nel 42 d.C. dal nipote, in quanto figlio del secondogenito di Livia Druso Maggiore, Claudio, quando quest’ultimo diventa imperatore. Claudio sceglie per la divinizzazione della nonna una data significativa: il 17 gennaio del 42 d.C., vale a dire il giorno in cui cadeva la ricorrenza del matrimonio tra Augusto e Livia. Come nuova divinità con il nome di Diva Augusta, Livia viene omaggiata con innumerevoli dediche in tutto l’impero romano e trova posto negli Augustea, i luoghi in cui si celebra il culto imperiale. Va notato che Livia non è la prima donna appartenente alla famiglia imperiale che viene divinizzata. La prima, infatti, è Drusilla, la sorella di Caligola, divinizzata nel 39 d.C. dal fratello durante il suo breve regno. Il suo culto, però, non dura dopo la morte di Caligola. È evidente che Claudio, molto attento alle dinamiche politiche e sociali, si rende conto che la sua stessa posizione necessita di una legittimazione dinastica, dopo l’uccisione cruenta del nipote Caligola. Sceglie quindi una figura femminile di assoluto rilievo, la cui divinizzazione non può suscitare alcun tipo di contestazione, anche se lo stesso Caligola, secondo Svetonio, aveva definito la bisnonna «Ulisse in gonnella».
Dupondio di Tiberio della Zecca di Roma. Le due facce della moneta presentano i ritratti di Augusto e di Livia divinizzati. Nella pagina accanto: moneta con il profilo di Livia, qui celebrata come Salus Augusta. Post 22 d.C. Tubinga, Münzsammlung der Universität im Schloß Hohentübingen.
sappiamo che Livia, in linea con le tendenze economiche del tempo, era una donna ricchissima, come è attestato dalla squadra di schiavi e liberti alle sue dipendenze e dai marchi di fabbrica su materiale fittile e sulle condutture di acquedotto. Inoltre, le personificazioni femminili delle piú importanti virtú propagandate nella prima età imperiale cominciano a essere rappresentate con i suoi lineamenti, in linea con una narrazione che identificava Livia/Giulia Augusta come apportatrice di pace e di prosperità in tutto l’impero. È nota la statua conservata al Museo del Louvre che raffigura Livia come Cerere (vedi foto a p. 61). Un ruolo fondamentale hanno le dediche a Livia: attraverso i monumenti e le iscrizioni onorarie i notabili dell’impero esprimono la loro fedeltà e lealtà nei confronti di un potere che si sta legittimando e che è alla ricerca di consenso e di legittimazione. Nelle città italiane Livia è la titolare
del maggior numero di dediche in assoluto rispetto a tutte le altre donne della famiglia imperiale. Va comunque rilevato che la specifica individualità di Livia (e delle altre Auguste che verranno dopo di lei) si appiattisce sulla rappresentazione di un modello ideale di comportamento e non riguarda mai l’ambito dell’esercizio del potere politico.
L’OMAGGIO DELLE PROVINCE Livia è ovviamente onorata anche in provincia, per esempio in un’iscrizione rinvenuta ad Anticaria in Betica, con il titolo di genetrix orbis. In questa base monumentale Livia è omaggiata nella sua nuova identità di Iulia Augusta ed è ricordata come figlia di Druso, moglie del divino Augusto, madre di Tiberio Cesare Augusto princeps et conservator e di Druso Germanico. È cosí attestata la precocità nelle province, non soltanto in quelle orientali, dell’attribuzione e dell’associazione alla regalità
cosmica alla prima figura femminile di rilievo dell’impero. Anche la monetazione sottolinea questo ruolo, in quanto Livia è onorata con lo stesso titolo nelle emissioni monetali di Siviglia. La monetazione fa capire il ruolo a ben vedere ambiguo che Livia ha avuto alla corte del figlio Tiberio, puntualmente rispecchiato nelle fonti letterarie: un’emissione monetale di Tiberio del 22-23 d.C. ritrae Livia come Salus Augusta; il futuro imperatore Galba durante il suo breve principato conierà monete che utilizzano ideologicamente la figura di Livia per rappresentare l’idea del buon governo, stabile e sicuro, derivante dalla continuità dinastica con il principato augusteo. Per la prima figura femminile di rilievo dell’impero le fonti e le opinioni sono insomma contraddittorie: si tratta di comprendere e di stabilizzare una realtà completamente nuova, vale a dire la presenza, al fianco dei vertici del potere, di donne che in età repubblicana erano relegate all’interno dello spazio domestico e, quando evadevano, il loro comportamento era bollato come deviante. La storia delle donne, non solo romane, è ancora lunga ed è ancora tutta da scrivere. PER SAPERNE DI PIÚ Anthony A. Barrett, Livia. La First Lady dell’impero, Edizioni dell’Altana, Roma 2006 Andrea Carandini, con Daniela Bruno, La casa di Augusto. Dai «Lupercalia» al Natale di Roma, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008 Francesca Cenerini, La donna romana. Modelli e realtà, il Mulino, Bologna, 2013. Giovannella Cresci Marrone, La cena dei dodici dei, in Rivista di cultura classica e medioevale, 1 (2002); pp. 25-33
NELLA PROSSIMA PUNTATA • Berenice a r c h e o 71
MOSTRE • ETRUSCHI
QUANDO GLI ETRUSCHI ANDARONO A SUD SUGGESTIONI IMMERSIVE, CREATE CON L’AUSILIO DI VIDEOINSTALLAZIONI, IMMAGINI DI PAESAGGIO E RICOSTRUZIONI AMBIENTALI, RACCONTANO LA STORIA DELL’INSEDIAMENTO DEI COLONIZZATORI PROVENIENTI DALL’ETRURIA. UNA MOSTRA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI PONTECAGNANO a cura della redazione
P
ontecagnano è l’insediamento etrusco piú a sud d’Italia. Alla sua parabola storica, estesa lungo un periodo compreso tra il IX e il III secolo a.C., è dedicata l’esposizione permanente dell’omonimo museo, intitolata appunto agli «Etruschi di frontiera»: scoperte recenti e indagini scientifiche hanno, negli anni, rivelato un quadro ampio e affascinante di questa comunità, tracciando 72 a r c h e o
una storia fatta di mobilità di uomini e donne, di circolazione di merci e oggetti, di produzioni artigianali particolari, di condivisione di ideologie e modelli culturali. «L’esposizione – spiega Luigina Tomay, soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Basilicata che, insieme a Carmine Pellegrino, professore di etruscologia e archeologia italica all’Università degli Studi
di Salerno, ha curato la mostra – accompagna i visitatori in un lungo viaggio che va dagli inizi del IX secolo a.C., quando l’insediamento di Pontecagnano nasce per l’arrivo di gruppi provenienti dall’Etruria meridionale, fino alla conquista romana (III secolo a.C.). Fili conduttori sono la mobilità e la circolazione, intese come movimenti di uomini e di oggetti, ma anche di modelli cul-
Tutte le foto che corredano l’articolo documentano l’allestimento della mostra «Per terra e per mare. Gli Etruschi di frontiera tra mobilità e integrazione», in corso nel Museo Archeologico Nazionale di Pontecagnano. I materiali selezionati per l’esposizione, integrati da apparati multimediali, documentano i contatti stabiliti ad ampio raggio dalla comunità etrusca di Pontecagnano, i fenomeni di mobilità e di interazione culturale.
turali, idee e saperi artigianali. Il tema, già sviluppato nel percorso espositivo permanente del Museo, si è arricchito negli ultimi quindici anni di nuovi ritrovamenti e approfondimenti della ricerca che hanno indotto a svilupparlo in una mostra specifica. Lo spostamento di individui e gruppi provenienti da altre zone d’Italia a Pontecagnano, la circolazione e l’acquisizione di oggetti e maa r c h e o 73
MOSTRE • ETRUSCHI
teriali di pregio provenienti dalla Grecia, dall’Egitto dalla Siria, cosí come la condivisione di ideologie di stampo aristocratico, fa sí che la grande storia dei popoli del Mediterraneo antico si intrecci con le tante piccole storie delle comunità dell’Italia meridionale e, in particolare, del territorio picentino».
DIECIMILA TOMBE Fino agli anni Settanta del secolo scorso, la presenza degli Etruschi nelle terre del Sud era testimoniata solo da ritrovamenti sporadici, anche se significativi. Il quadro mutò drasticamente con l’avvio degli scavi nella necropoli di Pontecagnano, con le sue piú di diecimila tombe databili fra l’XI secolo a.C. e l’età romana, tracciando un percorso storico di molti secoli durante il quale
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la colonizzazione etrusca del territorio aveva assunto dimensioni e rilievo fino ad allora ignoti. «La scoperta di queste sepolture – spiega Carmine Pellegrino – consente, attraverso la documentazione archeologica, di costruire la storia dell’insediamento e di alcuni fenomeni che abbiamo approfondito in questa mostra come quello dell’integrazione, dell’arrivo a Pontecagnano di gruppi da altre zone d’Italia e che si integrarono qui perfettamente. Gli Etruschi scelsero Pontecagnano perché era una delle grandi
pianure della Campania, zona molto florida e fertile, proiettata verso i traffici costieri grazie alla facilità degli approdi allora esistenti».
UN RUOLO PARTICOLARE Gli scavi di Pontecagnano hanno letteralmente rivoluzionato la percezione del ruolo svolto dagli Etruschi nell’Italia meridionale, a partire dai primi decenni del I millennio a.C. E proprio alla particolarità del ruolo di frontiera degli Etruschi si deve l’eccezionale sviluppo della rete di scambi commerciali e cultu-
rali, testimoniata dagli innumerevoli oggetti provenienti da paesi e civiltà lontane, rinvenuti durante lo scavo delle tombe. L’Italia meridionale dei primi secoli del I millennio a.C. era una vera fucina di interazioni e sperimentazioni che di quella terra facevano un luogo di straordinaria vivacità culturale, arricchita con apporti sempre nuovi e preziosi: si scambiavano armi, vasellame per il culto e per i banchetti, gioielli provenienti dall’Oriente, scarabei e amuleti dall’Egitto, raffinate ceramiche dall’Egeo e da Atene – tali da stimolare i ceramisti locali a imitarle –, vasellame di bronzo e argento, spesso impreziosito con l’oro. La documentazione archeologica attesta anche la presenza di individui e di gruppi provenienti da diverse
ARCHEOLOGIA E REALTÀ IMMERSIVA Il percorso espositivo, arricchito da una narrazione anche di tipo immersivo, attraverso l’uso di tecnologie digitali in uno spazio appositamente allestito e sviluppato nell’ambito del progetto ArCCa_DiADigitalizzazione e Automazione si snoda attraverso quattro sezioni dedicate ai temi principali: mobilità, forme ideologiche e sistemi di rappresentazione condivisi, circolazione di oggetti, produzioni artigianali. I temi sono declinati in sequenza cronologica (dall’età del Ferro a quella orientalizzante, dall’età arcaica e tardo-arcaica alla conquista sannitica), e consentono di delineare i fenomeni di interazione che emergono a Pontecagnano nelle diverse epoche.
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MOSTRE • ETRUSCHI
aree della penisola italiana (Etruria, Calabria,Vallo di Diano, Irpinia), che si insediarono a Pontecagnano. La capacità di attrazione del sito si fondava non solo sulla disponibilità di risorse, ma anche sulla facilità di integrazione di tali individui, il cui inserimento nel tessuto sociale della città è testimoniato dall’ubicazione delle loro sepolture nella necropoli urbana, dove, tra VIII e VII secolo a.C., la conservazione di alcuni elementi peculiari del costume d’origine – oggetti d’ornamento, particolari forme di vasellame – ne consente facilmente l’identificazione. «Il percorso espositivo – sottolinea il professor Pellegrino – valorizza gli oggetti e la cultura materiale attraverso cui emergono contatti, scambi, condivisione di comportamenti e ideologie che fanno di Pontecagnano un caso di studio importante che ha ancora tanto da raccontare». DOVE E QUANDO «Per terra e per mare. Gli Etruschi di frontiera tra mobilità e integrazione» Pontecagnano, Museo Archeologico Nazionale fino al 10 dicembre Orario ma-do, 10,00-19,00 Info tel. 089 848181; e-mail: drmcam.pontecagnano@cultura.gov.it; museicampania.cultura.gov.it
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SPECIALE • BUTRINTO
BUTRINTO
SULLA ROTTA DI ENEA Sulle propaggini meridionali dell’Albania, al centro di una laguna davanti all’isola di Corfú, si incontra il Parco Archeologico di Butrinto, antica città epirota fondata, secondo la tradizione virgiliana, da esuli troiani. Gli imponenti resti dei suoi monumenti, furono riportati in luce da una Missione Archeologica Italiana negli anni Trenta del secolo scorso. Nel dopoguerra ebbe inizio una grande stagione di ricerche dell’archeologia albanese, culminata all’inizio degli anni Novanta con l’inserimento del sito nel patrimonio UNESCO e con l’apertura ai progetti internazionali promossi dalla Butrint Foundation. Ora un nuovo progetto italo-albanese ha ripreso gli scavi sull’acropoli rivelando tracce inattese della sua storia piú remota che potrebbero gettare nuova luce anche sul mito di fondazione di Enrico Giorgi e Belisa Muka
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na piccola flotta di navi, governate da un gruppo di esuli guidati dal principe troiano Enea, si lascia alle spalle le rocche dei Feaci e solca le acque che separano l’isola di Corfú per costeggiare le pendici boscose dei monti Acrocerauni nel continente chiamato Epiro. Presto si apre davan-
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ti a loro una laguna e le navi si insinuano nella placida distesa salmastra fino a trovare un approdo sicuro nel porto dei Caoni che abitano queste terre ancora sconosciute. Ormeggiate le navi, Enea guadagna la riva e si addentra nella boscaglia sino a una radura, dove intravede una figura femminile che sta
libando in onore dello sposo perduto, il valoroso Ettore. Enea, allora, riconosce Andromaca, rievoca con lei l’eroe sconfitto da Achille e apprende la sua sorte. I principi troiani Eleno e Andromaca, prigionieri di Neottolemo, sono stati condotti in Epiro e, liberati, hanno fondato una città chiamata Butrinto.
Veduta della laguna di Butrinto con i siti di Kalivò (primo piano) e della stessa Butrinto; sullo sfondo l’isola di Corfú. L’acropoli viene attualmente indagata da una missione italoalbanese, che sta acquisendo dati importanti sulla storia della città e sulla sua fondazione.
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SPECIALE • BUTRINTO
Quando Enea riprende il cammino, la vista della città gli ricorda la patria perduta e, prima di varcare le mura, cade in ginocchio sulla soglia di una nuova Porta Scea. La parafrasi del terzo libro dell’Eneide ci fornisce l’occasione per avvicinarci a Butrinto sulle orme dell’eroe virgiliano, ripercorrendo alcuni dei temi che rendono questo sito non solo un monumento eccezionale dell’antichità, ma anche un luogo letterario, nel quale mito e archeologia tornano a confrontarsi. Nella tradizione augustea, Butrinto diviene lo scenario di un dramma nel quale i destini di donne e uomini che si erano perduti si riannodano, per poi nuovamente dipanarsi Illiria lungo altre strade, una delle quali è la rotta Antigonea d’Occidente, quella che Phoinike conduce verso il mito di Mo Butrinto fondazione di Roma. A los sia Passaron Kestrine Butrinto, tappa del viagGitani Dodona gio di Enea, le storie di Te sp rozi a Troia e di Roma si inCassopea contrano e si confondoAmbracia no. Da questo momento Mare Ion onio io Butrinto non potrà piú essere solo una città epirota ma sarà per sempre un simbolo. La piccola
Cartina dell’Epiro, con l’indicazione di Butrinto e degli altri siti citati nel testo.
Pergamo dell’ideologia augustea diverrà un’altra Roma quando gli Italiani occuperanno il Paese delle Aquile, e poi una delle città di Pirro o la roccaforte degli Illiri quando l’Albania socialista vorrà raccontare la propria genealogia autoctona.
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UNA CITTÀ PER UNA VITTORIA Prima di ripercorrere gli altri approdi a Butrinto, tuttavia, conviene riprendere il contesto nel quale si sviluppa la narrazione virgiliana, che raccorda in un unico racconto tradizioni diverse. Una variante contemporanea, per esempio, è quella di Dionigi di Alicarnasso, che ambienta lo sbarco di Enea poco piú a sud, nel golfo di Ambracia, davanti alle acque di Azio dove fu fondata Nicopoli, la città voluta per celebrare la vittoria navale di Agrippa e Ottaviano su Antonio e Cleopatra. Da qui Enea si sarebbe recato a Dodona per poi ricongiungersi con Anchise a Butrinto. All’inizio della sua avventura, infatti, il principe troiano è un fuggiasco senza meta che deve interrogare l’oracolo di Zeus, il Dodonaios annidato tra i monti nel luogo ancestrale d’origine dei mitici Pelasgi, perché gli venga rivelato che egli è destinato a fare rotta verso occidente. Sono questi i luoghi nei quali ha inizio la fortuna di Ottaviano e in cui affonda le radici la propaganda augustea e Butrinto ne è parte integrante. Foto satellitare dell’area in cui è localizzata Butrinto.
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UN PAESAGGIO DI FRONTIERA Il promontorio di Butrinto.
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piro, ossia il continente, è il nome con cui i marinai greci chiamano queste montagne che incombono sul mare davanti a loro, quando riprendono le rotte occidentali dei mercanti micenei. Per loro, come per Enea, questo è l’ultimo lembo di Grecia, seppure periferica, prima di prendere il largo verso la penisola italica. Quando i Corinzi, per consolidare la rotta, decideranno di stabilire la colonia di Corcyra sull’isola di Corfú, lo faranno distaccando una parte dello stesso contingente inviato a fondare Siracusa. Questo territorio può dunque essere considerato una regione di frontiera, un’area marginale soprattutto nella prospettiva di un Ateniese come Tucidide, il quale, a proposito della loro partecipazione alla guerra del Peloponneso, definisce i guerrieri Caoni barbari senza re. Barbaro doveva probabilmente risuonare il loro dialetto e certo erano privi di un regno, perché quel paese fatto di gioghi montani e ricchi pascoli, non era allora terra di monarchi e cittadini, ma piuttosto di comunità di pastori organizzati in federazioni. L’Epiro arcaico, quindi, doveva sembrare una frontiera per il mondo delle città greche e tale rimarrà a lungo.
e dove Omero vuole che Ulisse abbia varcato la soglia dell’oltretomba. Le lagune sono anche paesaggi dinamici, che cambiano nel tempo e rappresentano perfettamente il confine di questo mondo di montagne che precipitano sul mare. Qui i corsi d’acqua scorrono impetuosi e poi, all’improvviso, rallentano e si perdono in ampie insenature che generano placide distese d’acqua bordate da pascoli. Questo è il paesaggio tipico della Caonia a nord e della Tesprozia a sud, le due regioni costiere dell’Epiro, dove si aprono i golfi di Ambracia e Glykys Limen sotto Parga oppure le lagune di Lygia, vicino a Igoumenitsa, e quella di Butrinto. In Caonia sorgevano Phoinike, Butrinto, Antigonea e, sul confine meridionale, la fortezza di Çuka Aitoit, la «cima delle aquile», tutte oggetto di ricerche da parte di progetti italoalbanesi. L’antica Gitani, lungo il fiume Thiamis vicino all’attuale confine greco-albanese, era considerata capitale della Tesprozia. Piú all’interno si trova la Molossia, dominata dalla dinastia eacide di Alessandro il Molosso e di Pirro, dove le montagne si moltiplicano e si innalzano in crinali aspri e boscosi, attorno al lago di Ioannina che bagnava la città fortificata di Passaron, patria di Olimpiade, madre di Alessandro Magno. Mentre l’Epiro settenULISSE NELL’OLTRETOMBA Ma il paesaggio stesso dell’Epiro era un pae- trionale, sostanzialmente corrispondente alla saggio di frontiera, in cui la terra e l’acqua si Caonia, oggi si trova in territorio albanese, la confrontano generando ambienti liminari. Tesprozia e la Molossia sono in Grecia, a ulCome nella laguna di Glykys Limen, alla foce teriore testimonianza di come questo paesagdell’Acheronte, dove sorgeva il Necromanteion gio sia ancora oggi una terra di frontiera. a r c h e o 81
SPECIALE • BUTRINTO
LUIGI MARIA UGOLINI E LA RISCOPERTA DI BUTRINTO
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na mattina di buonora nella primavera del 1924 un giovane archeologo romagnolo, Luigi Maria Ugolini (1895-1936), abbandona il tugurio nel quale si era riparato durante la notte grazie all’accoglienza di un pastore valacco e, dalla baia di Diaporit davanti a Butrinto, si incammina verso un’altura chiamata Kalivò. Egli segue con lo sguardo e con il cammino uno stormo di bianche cicogne che gli pare indichi una rotta di buon auspicio. L’archeologo italiano era stato inviato in Albania per esplorare il Paese alla ricerca di un luogo ove avviare le ricerche italiane, ma anche per raccogliere informazioni sul Paese delle Aquile, alla stregua di personaggi illustri come il tenente colonnello inglese Lawrence in Arabia o l’archeologo francese Léon Rey, che aveva intrapreso gli scavi ad Apollonia, lungo la costa albanese centro-settentrionale.
Ugolini, che si era formato a Bologna come studioso di preistoria ma aveva frequentato la scuola di Atene e scavato a Roma con Giacomo Boni e in Sicilia con Paolo Orsi, attraversa rapidamente il Paese e, Virgilio alla mano, come una sorta di novello Schliemann, sogna di ritrovare Butrinto alla stregua di Troia. Giunto nella regione meridionale di Saranda, che prende il nome dal monastero di Santi Quaranta che da un’altura domina la baia e il piccolo borgo marinaro, rimane impressionato dalle poderose mura che vede sulla collina di Finiqi, toponimo che riecheggia le glorie dell’antica Phoinike, capitale dell’Epiro.
IL VOLO DELLE CICOGNE Ma Butrinto era l’obiettivo principale della sua spedizione e questo ci costringe a tornare al racconto di quella fortunata mattina primaverile. Il volo propiziatorio delle cicogne lo
Nella pagina accanto, nel box: due immagini dell’archeologo Luigi Maria Ugolini, al quale si deve la riscoperta di Butrinto. In basso, sulle due pagine: veduta della penisola di Ksamili e, sullo sfondo, l’isola di Corfú.
conduce su un’altura cinta da antiche mura, chiamata Kalivò, che domina la riva meridionale del lago. Tuttavia, egli comprende subito che il sito non poteva corrispondere alla descrizione virgiliana della città di Eleno e Andromaca e, prima di perdersi d’animo, volge lo sguardo sulla collinetta che domina la riva opposta. Si imbarca allora su un monossilo, imbarcazione tradizionale ottenuta scavando e sagomando un tronco e manovrata in piedi con un lungo remo alla maniera di una gondola e, quasi a mezzogiorno, guadagna la sponda settentrionale del canale di Vivari. Appena inizia a risalire le pendici boscose, riconosce subito la meta agognata e i resti ancora imponenti delle mura e dell’acropoli di Butrinto. All’improvviso le fatiche e i patimenti del viaggio svaniscono e viene pervaso dalla gioia della scoperta. Non pago, il giorno seguente troverà anche i resti della fortezza ellenistica di Monte Aetos, odierna Çuka Aitoit, e per questo scriverà con soddisfazione di avere scoperto tre città antiche in due giorni. Nell’introduzione del libro nel quale racconta al grande pubblico la scoperta e la sua
L’ARCHIVIO UGOLINI PRESSO IL MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA Nel 1928, quando decide di intraprendere gli scavi a Butrinto, Luigi Maria Ugolini può contare sull’esperienza di un gruppo di lavoro multidisciplinare in
parte già collaudato nella vicina Phoinike. La collaborazione tra archeologi, topografi, restauratori e fotografi porta alla produzione di un vasto repertorio documentario, che testimonia un’attenzione inusuale per i tempi. Gran parte di questo repertorio è oggi conservato a Roma, nell’Archivio Ugolini, presso il Museo della Civiltà Romana. I documenti di maggior valore sono i manoscritti, i dattiloscritti e diari di scavo originali redatti da Ugolini e dai suoi collaboratori, dedicati principalmente alle indagini a Butrinto, ma anche in numerosi altri siti del
territorio, come la villa di Malathrea e il sito fortificato di Cuka e Ajtoit. Insieme a questi, l’Archivio Ugolini conserva appunti, piante e assonometrie dei monumenti indagati a Butrinto, lettere dei membri della Missione, fatture, libri paga e rendicontazioni di spesa, nonché ritagli da giornali e numerose fotografie storiche che aprono uno spiraglio molto interessante sulla quotidianità degli archeologi impegnati sul campo. Dal 2022, grazie a una convenzione stipulata con il Museo della Civiltà Romana, il Butrint Project italoalbanese è impegnato nello studio e digitalizzazione di questo patrimonio documentario, non solo in ottica conservativa, ma anche per ricostruire la topografia di Butrinto prima dell’inizio della grande stagione di scavi. Federica Carbotti
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SPECIALE • BUTRINTO
avventura archeologica, intitolato Butrinto. Il mito di Enea, Gli scavi e pubblicato postumo nel 1937, Luigi Maria Ugolini legge Virgilio sull’acropoli di Butrinto e non nasconde la sua emozione per i risultati ottenuti.
I SUCCESSORI In effetti le ricerche della Missione Italiana, guidata dopo la morte di Ugolini da Pirro Marconi e poi da Domenico Mustilli sino all’inizio della guerra, ebbero risultati eccezionali, tanto che la maggior parte dei monumenti oggi visibili nel sito UNESCO di Butrinto furono riportati in luce dagli archeologi italiani con il sostegno del Ministero degli Esteri. Le scoperte furono comunicate tempestivamente dai media del tempo, come dimostrano i numerosi filmati dell’Istituto Luce e i vari interventi nelle riviste e sui giornali che si affiancano alle iniziative editoriali a carattere tanto scientifico quanto divulgativo.
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Dalla lettura di queste opere traspare un interesse da parte di Ugolini che sembra in gran parte sincero, ma, nonostante questo, non si può negare che le ricerche italiane furono certamente occasione di propaganda, perché l’attenzione mediatica era mossa soprattutto dalla volontà politica di creare un retroterra culturale che motivasse l’occupazione italiana del Paese. Questo afflato animò anche alcune iniziative di grande impatto, come la crociera organizzata nel 1930 in occasione del bimillenario virgiliano che approdò a Butrinto ripercorrendo le tappe di Enea e che fu celebrata anche con un’emissione filatelica.
Dall’alto, in senso orario, sulle due pagine: gli scavi albanesi tra gli anni Settanta e Ottanta presso la Tower Gate; l’accampamento della Missione italiana negli anni Venti; la Missione archeologica italiana guidata da Luigi Maria Ugolini nel teatro di Butrinto tra gli anni Venti e gli anni Trenta; gli scavi albanesi tra gli anni Settanta e Ottanta presso la Tower Gate.
L’OMAGGIO PERDUTO Tuttavia, occorre anche ricordare che gli Albanesi eressero una statua, oggi perduta, per commemorare Ugolini e che ancora adesso all’ingresso del parco si incontra un monumento in onore di Luigi Ugolini, Hassan Çeka e Dhimosten Budina, riconosciuti come protagonisti dell’archeologia albanese a Butrinto. Tornando al racconto della scoperta, bisogna riconoscere che si trattò piuttosto di una riscoperta. Nel 1435, infatti, l’umanista Ciriaco d’Ancona, che stava percorrendo la regione di Saranda, aveva trascorso il Natale a Butrinto, mentre il colonnello inglese William Martin Leake sbarcò sul sito nel 1805, ma la sua descrizione rimase inedita per oltre trent’anni. Mancava alla maggior parte dei visitatori precedenti la ferma volontà dell’archeologo italiano di mappare l’archeologia della regione, riconoscere e posizionare il sito con metodo e con la volontà esplicita di iniziare gli scavi. Per questo possiamo dire che Ugolini fu il primo archeologo moderno a riscoprire Butrinto nella primavera del 1924, perciò in queste pagine stiamo ripercorrendo quel giorno, a un anno esatto dal centenario della scoperta che potrà essere celebrata l’anno prossimo. a r c h e o 85
SPECIALE • BUTRINTO
RITORNO A BUTRINTO
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ell’autunno del 2015 si può ricordare un altro approdo a Butrinto, di certo meno letterario e decisamente piú legato a questioni contingenti. In quel periodo, infatti, un team di archeologi dell’Università di Bologna era impegnato a Pompei nel Piano della Conoscenza, un’operazione di documentazione dello stato di conservazione del sito, preliminare al Piano delle Opere nell’ambito del Grande Progetto Pompei, diretto da Giovanni Nistri e Massimo Osanna. Come molti ricorderanno, si è trattato di un’occasione eccezionale che l’archeologia italiana ha saputo cogliere per trasformare un problema in un’opportunità, capace di sviluppare tecnologie e metodi innovativi, che permettessero di guardare in maniera integrata ai beni archeologici del nostro Paese. In quell’occasione è stato messo a punto un protocollo fondato sul dialogo tra competenze diverse, nel campo dell’archeologia, dell’architettura, dell’ingegneria e del restauro, e basato sull’impiego di strumentazioni adeguate per il rilievo topografico di un sito eccezionale del patrimonio UNESCO. Nell’autunno dello stesso anno, il medesimo team assieme ai colleghi albanesi, ha intrapreso un nuovo progetto a Butrinto per provare a esportare in questo contesto l’esperienza maturata a Pompei. Almeno nelle intenzioni dei protagonisti, non si trattava solo di sfruttare la circostanza favorevole, ma anche di rispondere a un dovere morale. Come abbiamo visto, infatti, gran parte dei monumenti del Parco di Butrinto furono riportati in luce dagli archeologi italiani e, a distanza di quasi un secolo, cominciavano ad avere seri problemi conservativi. L’esperienza italiana nell’ambito della conservazione dei beni culturali poteva certamente dare un contributo anche in questo luogo eccezionale del Mediterraneo. Grazie al progetto di ricerca italo-albanese già in corso sin dal 2000 nel vicino sito di Phoinike, tutto questo poteva maturare in un quadro aggiornato e già ben collaudato di collaborazione internazionale. Nel mese di settembre, dunque, un team di archeologi dell’Istituto di Archeologia di Tirana e del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, in accordo con il 86 a r c h e o
il Ministero della Cultura dell’Albania e con il Parco Archeologico di Butrinto e grazie al supporto assicurato dal medesimo ateneo e soprattutto dal Ministero per gli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana, ha inaugurato il nuovo Butrint Project, che raccoglie la lunga eredità delle precedenti ricerche italiane e albanesi (https:// site.unibo.it/butrint/en). Lo spirito di collaborazione che anima il progetto ha avuto l’onore di essere ricordato anche dal Presidente Sergio Mattarella in occasione della sua visita a Tirana del 9 settembre dello scorso anno.
CONOSCERE PER TUTELARE I primi anni di lavoro sono stati dedicati soprattutto alla documentazione e all’analisi del santuario di Asclepio e delle mura, ossia a due dei maggiori monumenti del Parco, che in diversi punti ponevano problemi conservativi. La documentazione topografica dei monumenti indagati è stata ottenuta grazie a un rilievo laser scanner affiancato da prese fotogrammetriche terresti e da drone e tutto è stato posizionato in maniera rigorosa attraverso GPS utilizzato in modalità differenziale. In questo modo sono state ricavate planimetrie in scala 1:50 e prospetti di tutte le varie sezioni delle mura. Questi ultimi sono serviti da base per la mappatura dei problemi statici e del degrado superficiale. Il frutto di questo lavoro, condiviso con gli archeologi del Parco, è stato messo a disposizione per agevolare le azioni di consolidamento. Si è trattato, in sintesi, di una sorta di Piano della Conoscenza di Butrinto, seppure in una fase ancora preliminare e limitata soprattutto alle mura perché ponevano i maggiori rischi statici.
Mappa generale di Butrinto, con l’indicazione dei monumenti piú importanti. A sinistra: consultazione della mappa durante una ricognizione di superficie.
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SPECIALE • BUTRINTO
IL SANTUARIO DI ASCLEPIO di Francesca D’Ambola
Il santuario di Asclepio sorge nel III secolo a.C. sulle pendici meridionali dell’acropoli, presso la porta omonima che si apre lungo le mura ellenistiche della città. L’iscrizione di dedica, databile tra il III e il II secolo a.C. quando l’impianto assume forme monumentali, testimonia la ricostruzione del teatro, che ingloba un sacello al cui interno Luigi Maria Ugolini rinvenne la stipe votiva ancora intatta. L’area destinata al culto sorgeva su una terrazza occupata da un tempio con pianta bipartita che dominava la cavea. Il suo mosaico pavimentale, con la raffigurazione del serpente simbolo del dio, conferma la titolarità del culto. Nel corso del II secolo a.C. si assiste al moltiplicarsi delle testimonianze del culto di Asclepio, sotto la cui tutela si svolgeva l’affrancamento degli schiavi consacrati alla divinità. Preziosa è la testimonianza fornita dalle numerose epigrafi rinvenute nell’area che, oltre a darci informazioni su questa attività, forniscono dettagli sul funzionamento del complesso come santuario federale del «koinon dei Prasaiboi», un’associazione politica di diverse etnie provenienti dal 88 a r c h e o
circostante territorio epirota. Il santuario funge da elemento propulsore per lo sviluppo di Butrinto anche in età romana, quando diviene luogo di rappresentanza per le aristocrazie locali e italiche. Proprio nel teatro di Asclepio sono stati
rinvenuti i celebri ritratti della famiglia giulio-claudia, tra cui quello dello stesso Augusto, ora esposti nel Museo di Butrinto. Gran parte di ciò che è visibile oggi è il risultato di importanti rifacimenti architettonici della metà del II secolo d.C.
A destra: un momento delle ricognizioni di superficie. Nella pagina accanto, in alto: l’ingresso al santuario di Asclepio con il sacello del dio. Nella pagina accanto, in basso: planimetria del santuario di Asclepio.
A partire dal 2018, al rilievo topografico si sono affiancati i primi sondaggi stratigrafici lungo il circuito murario, mirati ad acquisire elementi archeologici, anche in termini di datazioni dell’impianto, che arricchissero la lettura delle fasi edilizie portata avanti con i metodi tipici dell’archeologia dell’architettura. La mappatura delle unità stratigrafiche murarie, infatti, consente prevalentemente di mettere a punto una successione relativa di corpi di fabbrica e di porzioni di muratura che si susseguono arricchendo il palinsesto nel tempo. Tuttavia, in assenza di elementi databili con certezza, non è possibile giungere a datazioni precise. Nel caso delle mura di Butrinto, costruite con grandi blocchi di pietra locale, non è possibile adottare neppure criteri mensio-cronologici come quelli utilizzati, per esempio, considerando l’appartenenza delle partite di mattoni a determinati sistemi di misura tipici di un periodo piuttosto che di un altro. Per questo la cronologia dell’impianto, sin dal tempo di Ugolini, è stata dedotta prevalentemente sulla base dell’analisi delle tecniche edilizie e di considerazioni di carattere storico-topografico. In altri termini e con qualche approssimazione, dato che le mura di Butrinto presentano due principali tecniche costruttive, il loro impianto e il successivo ampliamento sono stati riferiti a due momenti storici principali.
I CIRCUITI MURARI Sulla sommità dell’acropoli si trovano vari tratti di mura a cortina unica costruita in grossi blocchi di pietra grezza cavata sul posto e messa in opera all’incirca in apparato poligonale. Queste sono state considerate le mura del primo insediamento generalmente datato in epoca arcaica. Un secondo circuito piú esteso, costruito prevalentemente a doppia cortina e con blocchi piú piccoli in opera isodoma, abbraccia i piedi della collina dell’acropoli ed è stato riferito al momento di espansione della città ellenistica. Ovviamente sono presenti molte altre fasi, rimaneggiamenti e differenze tecniche che caratterizzano il circuito, ma questi sono certamente gli elementi principali. La datazione del primo impianto poteva contare anche su alcuni reperti rinvenuti sull’acropoli, di cui non è tuttavia nota la provenienza. Le mura ellenistiche, invece, studiate soprattutto da Neritan Ceka per l’età antica e da
Gjerak Karaiskaj per le riprese medievali, sono state datate sulla base del confronto della tecnica edilizia con altri siti noti del territorio. Tuttavia, anche questi ultimi vengono spesso datati senza il conforto di conferme stratigrafiche. Si rischiava, dunque, di costruire un enorme castello fatto di confronti non fondati su dati archeologici certi, ma piuttosto condizionato da posizioni ideologiche che privilegiavano un’epoca piuttosto che un’altra perché considerata rappresentativa di un particolare sviluppo culturale. Per questa ragione, nell’estate del 2018 è stata inaugurata una prima campagna di sondaggi stratigrafici lungo il circuito murario.Trattandosi di scavi effettuati per rispondere a una precisa domanda di ricerca a seguito di un’attenta considerazione di ogni altro elemento preliminare, si è cercato di effettuare sondaggi mirati, che sono stati documentati e nuovamente sepolti alla fine di ogni campagna. Occorre ricordare che fare archeologia in un sito UNESCO significa spesso farlo in mezzo a chi visita il sito, talvolta anche nell’ambito di comitive piuttosto numerose. Per questo gli archeologi devono concorrere ad arricchire la percezione del sito e non a limitarla. Questo può avvenire raccontando e mostrando quello che stanno facendo, ma anche riportando alla fine del lavoro la situazione come l’hanno trovata, altrimenti si rischierebbe di aumentare quei problemi conservativi che invece si vorrebbero delimitare. Utilizzando informazioni fruibili attraverso i propri devices, per esempio per mezzo di QRcode o Beacon, si può comunque lasciare traccia di ciò che è tornato a essere nascosto dalla terra. Inoltre, la documentazione analitica delle eventuali strutture rinvenute permetterà in qualunque momento di prendere in considerazione le nuove scoperte nel prossimo piano di gestione del Parco, comunque già ricco di monumenti da conservare. Nel 2019 le indagini stratigrafiche lungo le mura hanno raggiunto la collina dell’acropoli dove si trovano le vestigia piú antiche di Butrinto e dove sono tuttora in corso. a r c h e o 89
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L’ACROPOLI DI BUTRINTO
Restauro e consolidamento delle strutture murarie emerse durante le attività di scavo del Butrint Project sull’acropoli. In basso: la terrazza centrale dell’acropoli di Butrinto dove sono in corso le attività di scavo del Butrint Project italo-albanese.
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on commozione piú intensa di quella provata commentando Omero sulla rovine di Micene, ora leggo Virgilio sull’acropoli di Butrinto. Sono queste le parole usate da Ugolini poco prima della sua scomparsa per descrivere i suoi sentimenti mentre conduceva le indagini archeologiche a Butrinto. A causa della minore presenza di resti monumentali rispetto a quanto visibile fuori terra sulle pendici e alla base del promontorio di Butrinto, la sommità dell’acropoli non ha attirato allo stesso modo l’interesse degli archeologi. Nelle sue ricognizioni topografiche, Ugolini individuò per primo tre tratti di mura che definisce pelasgiche, costruite in opera poligonale seppure con tecniche tra loro non uniformi. L’archeologo italiano le considerò parte di un primo circuito murario che deli-
mitava e sosteneva il pianoro dell’acropoli sul versante meridionale. Ugolini riportò in luce anche i resti di una basilica paleocristiana sulla cima dell’acropoli e, dopo di lui, Domenico Mustilli effettuò alcune trincee che però non furono mai pubblicate in maniera esaustiva. I sondaggi
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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GLI SCAVI SULL’ACROPOLI
La planimetria (in alto), la sezione (qui accanto) e i disegni (a destra) fanno parte della documentazione realizzata nel corso delle indagini condotte sull’acropoli di Butrinto. Questo settore della città antica sta rivelandosi di importanza cruciale ai fini della ricostruzione della storia dell’insediamento.
effettuati da Mustilli, tuttavia, permisero di riportare in luce i resti dell’imboccatura lapidea di un pozzo, interpretato come deposito votivo, contenente materiale eterogeneo, tra cui un frammento di ceramica corinzia con incise tre lettere greche, lette come iniziali di una dedica ad Atena.
VASI D’IMPORTAZIONE In seguito, l’archeologo albanese Astrit Nanaj, dapprima da solo e poi coinvolgendo la studiosa greca Katerine Hadzis e altri specialisti internazionali, riprese le indagini sull’acropoli aprendo un ampio settore di scavo a ridosso delle mura poligonali. In quell’occasione furono riportati in luce reperti databili in
epoca protostorica e anche numerosi frammenti di vasi arcaici importati dalla Grecia. Tuttavia, questi scavi, pur cosí importanti, sono rimasti sostanzialmente inediti e ne sono state fornite solo brevi notizie prive di riferimenti precisi al contesto archeologico. È però su questa base che si è fondata a lungo l’interpretazione della prima Butrinto come insediamento stagionale di una comunità di pastori, seguita poi dall’occupazione stabile da parte di coloni corciresi. In tempi piú recenti, gli archeologi della Butrint Foundation guidati da Richard Hodges hanno ripreso le indagini e soprattutto hanno nuovamente documentato e studiato i settori già scavati in precedenza da Ugolini e da Naa r c h e o 91
SPECIALE • BUTRINTO
ARCHEOLOGIA PUBBLICA A BUTRINTO Studiare un sito UNESCO come Butrinto ha stimolato gli archeologi italiani e albanesi a impegnarsi nella condivisione e nella comunicazione del proprio lavoro. Questo impegno si traduce anche in azioni quotidiane, a cominciare dalla disponibilità nei confronti dei turisti che visitano il parco, ai quali vengono illustrate le indagini in corso, fruibili anche per mezzo di QR code con contenuti in inglese. Le comunicazioni sui canali social, il costante aggiornamento del sito web di progetto (https://site.unibo.it/butrint/en), la divulgazione dei risultati nelle riviste, l’organizzazione di seminari e convegni hanno costantemente affiancato le attività svolte in collaborazione con gli archeologi del Parco Archeologico. Il personale del Parco e gli studenti di archeologia dell’Università di Tirana partecipano a percorsi formativi e professionalizzanti tenuti da esperti nel campo del restauro e del rilievo per permettere loro, attraverso l’impiego delle piú recenti tecnologie e di metodologie sostenibili, di diventare operatori autonomi nella conservazione dei beni culturali. Ma i confini del Parco che custodiscono i monumenti tutelati dall’UNESCO possono diventare una barriera per le comunità circostanti. Per questo i membri del team sono impegnati in azioni di inclusione delle comunità locali per favorire lo sviluppo di quei processi di consapevolezza condivisa delle proprie origini e del proprio patrimonio culturale che è alla base della salvaguardia del sito. A questo scopo vengono organizzate giornate aperte alle scolaresche dei villaggi circostanti per mostrare cosa significa essere archeologi in un luogo tanto complesso e affascinante appena fuori dalle porte delle loro case eppure ancora poco noto. Federica Carbotti
naj. Uno studio recente condotto dall’archeologo statunitense David Hernandez ha ripreso in considerazione le ricerche precedenti ipotizzando la presenza di un tempio arcaico collocato sulla sommità orientale dell’acropoli, dove oggi si possono apprezzare le rovine della basilica paleocristiana. Sulla base della dedica trovata da Mustilli, egli ipotizza che il tempio fosse dedicato ad Atena e lo ricostruisce come un edificio periptero costruito alla maniera di quello di Kardaki sull’isola di Corfú. Riprendendo un’ipotesi già formulata da Ugolini, egli ritiene che a questo tempio appartenga il fregio con il leone che azzanna un toro riutilizzato come architrave nell’apparato medievale della Porta del Leone, ai piedi della collina dell’acropoli.
LE NUOVE RICERCHE Questa, in estrema sintesi, è la storia degli studi sull’acropoli di Butrinto con la quale ci siamo dovuti confrontare al momento della ripresa delle ricerche italo-albanesi nel 2019. Le nuove indagini si sono concentrate nella sella tra il Forte veneziano a ovest e la basilica paleocristiana a est, essenzialmente in due settori, uno a ridosso delle mura in corrispondenza dell’area già indagata da Astrit Nanaj e l’altro nella zona centrale in 92 a r c h e o
un’area in gran parte non ancora interessata da indagini stratigrafiche. Quest’ultimo settore, in realtà, intercetta anche alcune strutture murarie che, probabilmente, furono già individuate da alcune delle trincee di Mustilli. Si tratta di una sequenza di pilastri quadrati in muratura che sembrerebbero appartenere a un complesso monumentale di epoca augustea, forse un edificio porticato che accompagnava il percorso di ascesa verso est dove si trova la parte piú elevata dell’acropoli. Nei pressi di uno di questi pilastri si trovano frammenti in pietra di quella che potrebbe essere l’imboccatura quadrata del pozzo sacro trovato da Mustilli. Se cosí fosse, la distanza tra il deposito e il tempio principale sull’estremità orientale dell’acropoli farebbe pensare a due strutture separate, che non devono necessariamente essere correlate. In altri termini, se il frammento con la dedica ad Atena fosse l’indizio di un culto posto nelle vicinanze, si dovrebbe pensare piuttosto a un sacello collocato lungo la via sacra che conduceva al tempio principale. Le strutture romane risultano coperte da una fitta trama di edifici successivi, riferibili alle fasi medievali e veneziane dell’acropoli, conservati in superficie e riconoscibili anche grazie alla mappatura effettuata con il geora-
Attività di laboratorio con gli studenti delle scuole secondarie dei villaggi nei pressi Butrinto, qui fotografati mentre osservano i reperti ceramici rinvenuti durante gli scavi del Butrint Project.
diversi frammenti di vasi corinzi, tra i quali si distinguono una kotyle e una coppa databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., simili a quelli trovati in passato, ma finalmente ancorati a una stratigrafia certa. Grazie a questa scoperta possiamo finalmente affermare che le mura dell’acropoli di Butrinto furono costruite in epoca arcaica, sulla base di chiari indizi archeologici. L’analisi dei reperti, oggetto di studio da parte di Nadia Aleotti, potrebbe aprire ulteriori argomenti su cui riflettere in futuro.A un primo sguardo, infatti, sembra trattarsi di oggetti diffusi per lo piú in contesti sacri, che potrebbero essere stati deposti intenzionalmente al momento della costruzione delle mura. Un’impressione confermata dal rinvenimento di 14 proiettili in pietra, depositati tutti insieme in un recesso del riempimento delle mura. Se cosí fosse, si tratterebbe di un’azione rituale compiuta quando vennero costruite le mura in opera poligonale, che fungevano anche da recinto sacro dell’acropoli. La deposizione di armi all’interno delle mura è infatti una pratica nota, finalizzata a favorirne, attradar. A loro volta, i muri romani sono fondati verso il rito, la solidità e la durata. in profondità a scapito di stratigrafie che contengono i resti di edifici di epoca elleniTANTE STORIE IN UN COCCIO stica, poste a profondità variabili tra un metro Le suggestioni alimentate dai nuovi scavi e mezzo e due metri di profondità, diretta- potrebbero trovare ulteriore linfa in un altro mente sul banco roccioso. Si tratta di struttu- rinvenimento effettuato nel medesimo conre in stato di crollo, visibili solo per lacerti di testo. Si tratta del frammento di kantharos in difficile lettura, che però attestano chiaramen- bucchero di una forma diffusa in età arcaica te la presenza di edifici databili approssimati- nell’area adriatico-ionica soprattutto in amvamente attorno al III secolo a.C. bito sacro. Allo stato attuale delle ricerche, si tratterebbe del primo frammento di bucchero, tipico prodotto etrusco, trovato in questa STRATIGRAFIE PARLANTI Ancora piú interessante pare la situazione ri- regione. La sua presenza in un contesto scontrata nei saggi di scavo condotti a ridosso ricco di ceramica corinzia arcaica apre dundelle mura in opera poligonale. Qui la diffi- que scenari suggestivi sulla rotta dei primi coltà maggiore è consistita nel riconoscere le coloni greci verso occidente, ma potrebbe stratigrafie già intaccate dai precedenti scavi anche apparire una sorta di conferma della rispetto a quelle ancora intatte. Dopo ripetu- tradizione letteraria. ti tentativi non sempre incoraggianti, final- Si potrebbe pensare che, assieme ai vasi, quemente nella campagna del 2021 è stato possi- sti marinai abbiano portato con sé le loro bile intercettare un lembo del riempimento storie, comprese quelle sui viaggi in Epiro delle mura arcaiche ancora intatto, sigillato degli eroi sopravvissuti alla guerra di Troia. In dal piano di calpestio di età ellenistica che altri termini, questo frammento di bucchero andava ad appoggiarsi al profilo interno delle parrebbe avere fatto a ritroso la rotta di Enea. mura poligonali. Si può immaginare con Volendo essere piú cauti, certamente questo quanta cura sia potuto procedere lo scavo di coccio ci dice qualcosa sui rapporti commerstratigrafie che, finalmente, permettevano di ciali e culturali tra l’Epiro e la costa tirrenica affondare la cazzuola nella storia arcaica di in un momento cruciale per la strutturazione Butrinto. Questo ha permesso di recuperare del popolamento di queste regioni. a r c h e o 93
SPECIALE • BUTRINTO Una fase delle attività di formazione sul campo degli studenti italiani e albanesi, qui fotografati mentre apprendono il funzionamento del GPR (Ground Penetrating Radar).
SCAVANDO NEI MAGAZZINI
L’
anno orribile della pandemia non ha interrotto il lavoro sul campo a Butrinto. Soprattutto grazie al supporto dei colleghi albanesi, infatti, anche nel 2020 le attività sono proseguite sull’acropoli, concentrate soprattutto in operazioni di manutenzione e di pulitura dell’area di scavo. Questo, però non ha impedito di portare avanti altri tipi di ricerche che hanno riservato qualche soddisfazione inattesa. Grazie alla collaborazione con Simona Antolini, epigrafista dell’Università di Macerata, è stato possibile ritrovare i calchi in carta di alcune iscrizioni di Butrinto effettuati da Luigi Morricone, chiamato da Ugolini nel 1930 a unirsi al gruppo di specialisti che lo assisteva sullo scavo. Morricone individuò tre gruppi principali di iscrizioni, databili complessivamente tra il III e il II secolo a.C., che comprendevano quelle celebrative della costruzione del teatro, le iscrizioni di manumissione incise sull’analemma della parodos occidentale e quelle, cronologicamente successive, poste sul diazoma. Dopo la morte di Morricone, che portò avanti i suoi studi epigrafici su Butrinto anche presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, i calchi giunsero in Italia e finirono negli archivi dell’Università di Macerata, dove sono tuttora conservati. Grazie alla collaborazione con Federico Taverni, uno specialista nella documentazione 3D di materiali deperibili, come i reperti in
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cartonnage del Museo Egizio di Torino, è stato possibile approntare una documentazione digitale estremamente analitica dei calchi di Morricone, utile per finalità di studio ma anche di valorizzazione. Dobbiamo immaginare, infatti, che talvolta questi calchi effettuati quasi un secolo fa consentono una leggibilità maggiore di quella delle epigrafi che sono state a lungo esposte alle intemperie. Il prossimo passo sarà quello di impegnarsi per trovare il modo di esporre questi reperti che ci restituiscono un altro brano inatteso della storia dell’archeologia di Butrinto.
A sinistra, dall’alto: uno dei calchi delle epigrafi di Butrinto realizzato da Luigi Morricone, rinvenuti nel 2020 nei depositi dell‘Università di Macerata; un momento dell’analisi dei calchi delle epigrafi del teatro di Butrinto.
L’ARCHEOLOGIA DI BUTRINTO: UNO SCRIGNO DI STORIE Il battistero di Butrinto, realizzato nel VI sec., è uno dei simboli del sito grazie al suo mosaico pavimentale policromo.
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asta passeggiare tra i resti dell’antica Butrinto per rendersi conto di quante storie diverse siano racchiuse nei suoi monumenti. Il castello ottomano e la torre veneziana all’ingresso del Parco, il santuario di Asclepio e il teatro con la scena augustea, le mura che conducono fino all’acropoli dominata oggi dal Forte veneziano ricostruito dalla Missione Italiana degli anni Trenta, che accoglie il museo archeologico, sono solo alcuni dei monumenti che possono attrarre l’attenzione del visitatore. Né la città di Enea e neppure quella di Augusto bastano a descrivere la parabola storica di questo luogo immerso in un paesaggio lagunare continuamente cangiante. Questo perché Butrinto
non è stata solo Butrinto e il lago che la circonda non è stato sempre lo stesso. Si può semplificare la storia di Butrinto riducendola in quattro momenti principali che narrano storie diverse. Il primo è quello dell’emporio corcirese, il secondo quello della città ellenistica e romana, il terzo è rappresentato dalla città medievale e l’ultimo dall’avamposto veneziano conteso all’impero ottomano. Solo in alcuni periodi, in età antica e in parte nel Medioevo, Butrinto è stata una città, per il resto dobbiamo pensare a un paesaggio dominato dalla laguna con presidi piú o meno stabili costruiti dalle comunità che continuavano a viverci. La prima parte della storia di Butrinto si può
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SPECIALE • BUTRINTO
comprendere solo nell’ambito delle vicende che caratterizzano l’antistante isola di Corfú. Gli studi ambientali ci dicono che, fino all’età ellenistica, solo l’acropoli di Butrinto emergeva dall’acqua, perché il lago ne sommergeva completamente le pendici piú basse. Alla fine dell’età dei metalli Butrinto era raggiungibile via terra percorrendo la dorsale della penisola di Ksamilli. Si tratta di un crinale di colline che ancora oggi separa il bacino lacustre dal mare davanti a Corfú, cosí chiamato dai Veneziani perché era lunga sei miglia. Il promontorio su cui sorse l’acropoli si trovava al centro di un’ampia insenatura marina da cui spuntava un arcipelago di isolette corrispondenti alle alture che si distaccano ancora oggi dalla pianura alluvionale. È possibile che in questo periodo vi sorgessero piccoli insediamenti che dovettero entrare in contatto con i mercanti micenei che percorrevano queste rotte. Nel tempo è cambiato il rapporto tra le terre emerse, che aumentavano anche per l’apporto di detriti portati dal fiume, e quelle som-
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merse, che diminuivano per le variazioni del livello marino. Questo fenomeno, complicato da dinamiche di subsidenza oltre che dalla stessa azione antropica, è ancora in atto e anzi oggi è in corso un’inversione di tendenza che rischia di riportare sott’acqua ampie porzioni del sito. Al tempo dell’arrivo dei primi coloni corinzi che, secondo la tradizione, si stabilirono a Corcyra nel 733 a.C., il promontorio di Butrinto doveva dominare un’area ormai lagunare, con l’ingresso dal mare che si andava restringendo lungo il Canale di Vivari. Si tratta ancora una volta di un toponimo veneziano che rimanda alla presenza dei ricchi vivai di pesce contesi agli Ottomani.
DA SEMPLICE EMPORIO... In questo periodo la striscia di terra oggi compresa tra Butrinto e Igoumenitsa faceva parte della Perea di Corcyra, ossia del territorio della colonia esteso sulla terraferma. Allora Butrinto doveva essere un semplice emporio che gravitava su Corfú, separato dal resto dell’Epiro, come dimostra una spessa muraglia
La poderosa muraglia che Luigi Ugolini ribattezzò «Muro di Dema» in una foto d’epoca.
costruita proprio ora per sbarrare il cammino lungo la penisola di Ksamilli, chiamata da Ugolini Muro di Dema. Tucidide ci descrive questa regione quando racconta la guerra civile tra le fazioni democratica e aristocratica che scoppiò sull’isola nel 427 a.C. Sappiamo che questi ultimi si rifugiarono nelle fortezze corciresi sulla terraferma, con l’intento di riprendersi il potere. È possibile che Butrinto fosse uno di questi avamposti continentali. Dopo questo episodio Corcyra perse il controllo su questi territori costieri.
...A INSEDIAMENTO URBANO L’archeologia ci fornisce alcune conferme per questa ricostruzione storica. I reperti rinvenuti sull’acropoli, infatti, sembrano avvalorare il contatto con Corcyra in epoca arcaica e classica. Sullo scorcio del V secolo a.C., invece, la cultura materiale rivela una lacuna che potrebbe corrispondere a una vera e propria cesura storica. Nei secoli successivi, infatti, l’archeologia mostra il progressivo sviluppo di un nuovo insediamento, questa volta con
connotazioni urbane sempre piú esplicite. Si tratta della città ellenistica che entra a far parte della storia del resto dell’Epiro, prima dominato dalla monarchia eacide dei Molossi (tra il IV e il III secolo a.C.), e poi parte del sistema federale noto come koinon degli Epiroti (tra il III e il II secolo a.C.). Anche il paesaggio lagunare cambia e, per circostanze ambientali favorite dall’intervento umano, l’area pianeggiante ai piedi dell’acropoli diviene praticabile mettendo a disposizione nuovi spazi per l’espansione urbana. Anche la pianura alluvionale di Vrina, che si
LA PORTA DEL LEONE La Porta del Leone, uno dei simboli di Butrinto, e, in basso, la ricostruzione in 3D della struttura. Il monumento prende nome dal rilievo che raffigura un leone nell’atto di azzannare un toro. È probabile che all’epoca in cui era in funzione l’approdo di Porto Pelode fosse l’ingresso principale alla città.
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apre sull’altra riva del canale di Vivari, inizia a essere bonificata. Viene costruita una nuova cinta di mura, con almeno sei porte di ingresso, la piú monumentale delle quali è la cosiddetta Tower Gate, difesa da torrioni aggettanti. Piú a nord si incontrano la Porta Scea di Ugolini e poi la Porta del Leone. Quest’ultima deve il suo nome all’architrave con il leone che azzanna il toro reimpiegato probabilmente in epoca tarda, rifasciando la retrostante porta ellenistica. I nostri studi ci portano a credere che sia questa la porta principale usata per chi attraccava nel Porto Pelode, come veniva chiamato l’approdo da Strabone (connotandone la tendenza all’insabbiamento dovuta alla risacca della corrente lacustre). Meno conservate risultano la Porta Nord ed Est, mentre sull’altro lato del circuito si apriva la Porta di Asclepio, che in realtà fungeva da ingresso monumentale al santuario. L’impegno maggiore speso per la monumentalizzazione della Tower Gate dimostra che ormai il volto che Butrinto voleva mostrare a chi si avvicinava alla città era quello rivolto verso la pianura antistante, dunque privilegiando un accesso via terra da meridione, evidentemente superando con strutture lignee il canale di Vivari. Nello stesso momento viene ricostruito in forme monumentali il santuario di Asclepio, con il teatro e il tempio soprastante, e viene realizzata l’agorà bordata
da portici, come dimostrano le stoai recente- Nella pagina mente riportate in luce dagli scavi della mis- accanto, in basso: sione archeologica statunitense. veduta a volo
UNA SCELTA LUNGIMIRANTE Nel corso del conflitto tra Roma e i Macedoni, che si concluse con la vittoria dell’esercito romano a Pidna nel 168 a.C., Butrinto e le città della Caonia tennero una posizione attendista, sostanzialmente non oppositiva nei confronti del senato romano. Questo le mise al riparo dalle distruzioni perpetrate, secondo Polibio e Livio, da Lucio Emilio Paolo nel resto dell’Epiro, che invece si mostrò fedele all’antico alleato macedone. Il contatto con Roma e poi la riduzione dell’Epiro a provincia dell’impero non comportarono declino, ma anzi sviluppo ben visibile archeologicamente. Butrinto divenne allora il centro della comunità dei Praisabi che probabilmente doveva accentrare le proprie funzioni attorno al santuario di Asclepio. Una conferma in questo senso viene dallo studio del vasellame rinvenuto da Ugolini nella stipe scavata dietro il sacello di Asclepio, condotto nell’ambito del progetto italo-albanese da Anna Gamberini e Nadia Aleotti. I reperti, infatti, seppure oggi perduti e analizzabili solo dalle fotografie d’epoca, denotano una fioritura che prosegue nel corso dell’età ellenistica attraverso quella romana.
d’uccello dell’area in cui era situato il Porto Pelode.
ALLA RICERCA DEL PORTO PELODE La penisola di Butrinto spicca per la posizione riparata dai venti dominanti e per il facile accesso alle risorse garantite dalla laguna che la circonda, tanto da essere ormai identificata con il Porto Pelode di cui parla Strabone (VII, 7, 5). Riprendendo la tradizione virgiliana, al momento della scoperta del sito, Luigi Maria Ugolini aveva identificato con la Porta del Lago il punto in cui Enea era sbarcato a Butrinto. Tuttavia, oggi si ritiene che il porto piú antico della città sia da identificarsi presso l’insenatura a nord della collina dell’acropoli, dove ancora oggi il circuito murario è lambito dalle
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acque del lago. Le recenti ricerche del Butrint Project italo-albanese si sono mosse proprio nel tentativo di identificare i resti di questo porto. Lo studio del circuito murario nel tratto tra Porta del Leone e Porta Nord ha permesso di individuare otto incavi che potrebbero essere gli alloggi per i pontili lignei impiegati per l’ormeggio delle imbarcazioni e per consentire il carico e lo scarico delle merci. Per ampliare le indagini, lo scorso autunno sono state inaugurate le ricognizioni preliminari del fondale del lago. Gli archeologi subacquei coordinati da Stefano Medas (Università di Bologna) hanno individuato i resti di
vecchi relitti, ma anche ampi strati di macerie antiche e strutture in legno che potrebbero essere indizio di un approdo medievale. Soprattutto la verifica del fondale per mezzo di sonde metalliche ha permesso di misurare uno spesso deposito limoso recente. Questo significa che il fondale antico doveva essere notevolmente piú basso e adatto alla navigazione. Uno degli obiettivi delle prossime campagne di ricerca è proprio il proseguimento delle ricognizioni subacquee nella laguna cosí da meglio comprendere il ruolo del porto di Butrinto nel piú ampio scenario mediterraneo. Federica Carbotti
Il punto di svolta per Butrinto, tuttavia, coincide con la deduzione della colonia augustea. In questo periodo Agrippa succede ad Attico come patrono della comunità e l’adesione degli abitanti all’ideologia del principato traspare dalle testimonianze epigrafiche e dai cicli scultorei dedicati alla famiglia imperiale. Da questo momento la città si sviluppa attorno ad alcuni poli che acquisiscono aspetto sempre piú monumentale. Nel santuario di Asclepio si restaura il tempietto prostilo e nel teatro viene edificata una scena imponente. Al fianco del santuario e nello stesso recinto, seppure piú a ovest, si susseguono altri edifici di culto tra cui un sacello dedicato a Pan e un edificio piú ampio che potrebbe anche avere svolto funzioni legate al culto imperiale. In effetti, i resti di un ciclo di ritratti raffiguranti Augusto, Livia e Agrippa furono trovati da Ugolini ai piedi della scena del teatro. Non conoscendone la provenienza esatta non sappiamo se potevano essere collocate originariamente sulle nicchie della scena del teatro o appunto in un edificio legato al culto dinastico. Ma non è solo nel santuario di Asclepio che emerge la fortuna di Butrinto in età augustea. Per esempio, il culto di Apollo, caro al vincitore di Azio, è testimoniato da un ritratto noto come la Dea di Butrinto, mentre l’epigrafia ci dice che Zeus Soter, caro ai navigan-
ti che qui potevano trovare un approdo sicuro, era certamente una delle divinità tradizionali della città. Gli scavi statunitensi nell’area del foro dimostrano anche lo sviluppo monumentale della piazza principale, costruita in età romana sopra l’antica agorà ellenistica.
GLI INTERVENTI DI AUGUSTO Anche sull’acropoli i nuovi scavi del progetto italo-albanese rivelano l’impianto in quest’epoca di un grande edificio porticato, che abbiamo già citato, mentre le spoglie di un tempio imperiale reimpiegate nella vicina basilica paleocristiana potrebbero rivelare i resti di un tempio romano. Alcuni coni monetali ci dicono che Augusto promosse anche la costruzione di un acquedotto e di un ponte a piú arcate, che attraversava il Canale di Vivari, collegando stabilmente la città con l’antistante piana di Vrina. Secondo l’iconografia monetale, l’acquedotto attraversava la piana di Vrina e passava sopra al ponte. Giunto in città, alimentava un ninfeo monumentale adornato con statue tra cui quella di Dioniso. Questa, come quelle del culto imperiale, è visibile nel museo dell’acropoli, mentre la cosiddetta dea di Butrinto e un altro ritratto di Agrippa sono esposti nei musei di Tirana. L’acquedotto e il ponte accompagnavano una sorta di via trionfale che, provenendo da Ni(segue a p. 102)
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SPECIALE • BUTRINTO
L’ARCHEOLOGIA A BUTRINTO E LA NASCITA DEL PARCO di Giacomo Sigismondo
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Butrinto soffrí l’isolamento politico del Paese accentuato dalla vicinanza al confine greco. In questo quadro si pone l’azione di alcuni giovani archeologi eredi di una tradizione già consolidata dalla precedente generazione che comprendeva Hasan Ceka, Skënder Anamali e Selim Islami. Tra questi giovani emergenti si distinse Dhimosten Budina, che nel 1959 supervisionò la costruzione della strada aperta in occasione della visita di Nikita Chrušcëv, che ancora oggi permette di raggiungere Butrinto via terra. Budina si occupò attivamente dello studio della città e del territorio in continuità con le ricerche di Ugolini e si impegnò per rendere il sito e i suoi monumenti piú facilmente accessibili. Tra gli anni Settanta e Ottanta, a Butrinto furono intrapresi nuovi scavi dove si formarono archeologi come Kosta Lako, Astrit Nanaj e Dhimitër Çondi. Con il conseguente rinnovamento politico, presero il via anche collaborazioni internazionali e, nel 1992, il sito
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entrò a far parte della World Heritage List dell’UNESCO. L’anno successivo, su impulso dei filantropi inglesi Lord Rothschild e Lord Sainsbury of Preston Candover, venne costituita la Butrint Foundation, con lo scopo di promuovere la tutela e le ricerche, e nel 2000 nacque il Parco Nazionale. Gli ultimi due decenni hanno rappresentato una feconda stagione di scavi promossi in particolare dalla fondazione inglese in collaborazione con le autorità locali, sotto la direzione di Richard Hodges. A questi sono seguiti i progetti attuali, compreso quello italoalbanese. Queste ricerche hanno permesso di ampliare le conoscenze ma anche di fornire un’opportunità di crescita per molti studenti che spesso hanno proseguito con profitto i loro studi anche nelle università italiane. Uno sguardo al futuro del parco è racchiuso nel recente Piano di gestione integrata (2020-2030) che costituisce una tappa importante per le sfide che nei prossimi anni Butrinto e il suo delicato ecosistema si troveranno a dover affrontare.
La Grande Basilica tardoantica e il Ninfeo di età imperiale immersi nel bosco del Parco Archeologico di Butrinto. In basso, a sinistra: la copia della Dea di Butrinto esposta oggi sull’acropoli, presso il castello veneziano.
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SPECIALE • BUTRINTO
copoli, giungeva a Butrinto. Successivamente, in età flavia, anche la pianura di Vrina, ai lati di questa strada, verrà urbanizzata con una vera e propria addizione urbana inserita in un paesaggio agrario regolarizzato dalla centuriazione. Gli scavi diretti da Richard Hodges, oggi non piú visibili, hanno svelato un’altra città di là dal canale che si sviluppa con alterne vicende tra l’età romana e quella medievale.
LA TERRA TREMA In epoca tarda Butrinto è oggetto di momenti di crisi accentuati dai disordini creati dall’invasione di popoli stranieri, ma anche da tremendi terremoti. Tuttavia, questo non
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LO SVILUPPO IN EPOCA ROMANA L’espansionismo militare romano sulla sponda orientale dell’Adriatico si consolidò in modo definitivo tra il 148 e il 146 a.C., con la creazione della provincia di Macedonia, che arrivò a comprendere anche una parte del territorio dell’antico Epiro. Da questo momento, la presenza italica nella regione andò intensificandosi, come
testimonia anche la comparsa di individui con nomi latini nelle iscrizioni greche di manumissione del teatro di Butrinto. In seguito, nel corso del I secolo a.C., proprio Butrinto e i territori circostanti diventarono uno dei piú importanti poli d’attrazione per un gruppo di ricchi imprenditori romani, tra i quali spiccava Tito
In alto: la cosiddetta Fortezza Triangolare, costruita dai Veneziani sulla piana di fronte a Butrinto per controllare l’accesso al lago. A sinistra: la torre di Vagalat, una torre di avvistamento ellenistica che permetteva il pieno controllo sulla valle del fiume Pavla. A destra: il teatro di Butrinto.
Pomponio Attico, amico di Cicerone e possessore di una lussuosa tenuta chiamata Amaltheion. Gli interessi di questi Epirotici homines, tuttavia, furono presto minacciati dai progetti di Giulio Cesare, il quale pianificava di fondare presso Butrinto una nuova colonia a favore dei veterani che avevano combattuto per lui durante la guerra contro Pompeo. Nonostante i tentativi di dissuasione compiuti da Cicerone, di cui siamo informati grazie a una fitta corrispondenza epistolare con Attico, e nonostante l’assassinio di Cesare, sembra
che l’insediamento dei coloni sia stato parzialmente attuato. Una seconda deduzione coloniaria fu poi realizzata per iniziativa di Ottaviano dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra ad Azio, nel 31 a.C. L’evento decretò per Butrinto l’inizio di una nuova e durevole fase di sviluppo, materialmente esemplificata da monumentali opere edilizie, quali il rifacimento di parte del santuario di Asclepio e del teatro, la realizzazione del foro e la costruzione del lungo ponte-acquedotto che riforniva la città attraversando l’antistante pianura di Vrina. Matteo Rivoli
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SPECIALE • BUTRINTO
porta all’interruzione della vita, ma semmai a periodi di rarefazione del popolamento e di difficoltà nella gestione dell’ambiente lagunare. In epoca bizantina il vescovo diviene la principale autorità cittadina e Butrinto prospera come sede vescovile della diocesi di Nicopoli. La città si cinge di nuove mura che ampliano il circuito precedente sino alla riva del lago e il paesaggio urbano conquista gradualmente i caratteri ancora preservati da alcuni imponenti edifici medievali, come la Grande Basilica e il Battistero, decorato con un magnifico mosaico pavimentale policromo, pure scoperti dagli archeologi italiani nel secolo scorso. A questi si aggiunge ora il complesso del Palazzo Triconco, riportato in luce dagli scavi promossi dalla Butrint Foundation, che hanno rivelato uno spaccato inatteso di storia tardo-antica e medievale. L’invasione slava nel 560 a.C., segna una cesura, ma poi l’abitato medievale torna a crescere, seppure per nuclei attorno a diversi
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edifici ecclesiastici sparsi in vari punti della La laguna di città. Nel 1085 i Normanni tentano di pren- Butrinto al derla, ma vengono sconfitti in una battaglia tramonto. navale combattuta davanti alle sue acque. Nel 1204 i Franchi impegnati nella quarta crociata fanno tappa a Butrinto e l’anno seguente viene inclusa nel Despotato d’Epiro e quindi entra gradualmente nella sfera d’influenza veneziana. Venezia acquisisce Butrinto nel 1432 e la contende all’impero ottomano sino al 1797. In questo periodo vengono costruiti la torre sulla riva del canale e il Forte che ancora domina l’acropoli, mentre due fortezze, una all’imbocco e una triangolare alla fine del canale di Vivari, vengono poste a controllo dell’ingresso alla laguna.
UNA DESTINAZIONE PUNITIVA Le ricerche del progetto italo-albanese presso gli archivi veneziani, che custodiscono il Fondo Capitani da Mar, promettono di rivelare molto su questo periodo complesso della storia di Butrinto. Molto significative paiono
le lettere dei governatori veneziani che chiedono il ripristino del porto vecchio ormai interrato e citano una strada di collegamento con un porto nuovo fuori dall’imbocco della laguna. Apprendiamo anche che il servizio a Butrinto era sentito come una destinazione punitiva dai Veneziani, a causa dell’ambiente poco accogliente e dei rischi per la salute. Lo studio antropologico di alcune sepolture a inumazione rinvenute nell’area del foro parrebbe confermare la diffusione di malattie tra gli abitanti veneziani di quest’epoca. Anche le mappe d’epoca rivelano molto sull’evoluzione dell’ambiente lagunare. In una carta topografica di fine Seicento il paesaggio ritratto non è piú quello della città antica ma è piuttosto dominato dalle peschiere e dalla palude bordata da canneti, mentre la torre e il forte veneziano sono ridotti in ruderi. Questo è anche il paesaggio ritratto in una stampa Ottocentesca, con un piccolo borgo ottomano superstite attorno ai ruderi della fortezza triangolare. Non molto diverso doveva essere
l’ambiente incontrato da Ugolini il giorno della sua scoperta, malarico, inospitale e abitato solo stagionalmente dai pastori valacchi. PER SAPERNE DI PIÚ Belisa Muka, Enrico Giorgi, The new Italian and Albanian Archaeological Project in Butrint (2015-2018), in Groma 3, 2018 (disponibile on line su https://groma.unibo.it) Enrico Giorgi, Belisa Muka, Sulle orme di Enea. Pascoli, laghi e città d’Epiro: le vie d’accesso a Butrinto, in Atlante Tematico di Topografia Antica, vol. 33, 2023 Nadia Aleotti, Federica Carbotti, Francesca D’Ambola, Taip Kaca, La ripresa degli scavi sull’acropoli di Butrinto. Considerazioni preliminari sullo scavo delle mura arcaiche, in Cronache di Archeologia, vol. 41 Per informazioni generali, si può inoltre consultare il sito del progetto, all’indirizzo: https://site.unibo.it/butrint/en
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TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Luciano Frazzoni
GRAN FINALE LA COTTURA È IL MOMENTO CONCLUSIVO DELLA CATENA DI OPERAZIONI NECESSARIE PER LA PRODUZIONE DEI VASI. UNA FASE CRUCIALE E AL TEMPO STESSO DELICATA, LA CUI RIUSCITA È DIRETTAMENTE PROPORZIONALE ALLA PADRONANZA DELLE TECNICHE ACQUISITA DAL MAESTRO CERAMISTA
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a cottura è la fase finale del ciclo di lavorazione di un vaso e lo trasforma da massa ancora modificabile a corpo ceramico, creando un prodotto che può durare nei secoli. È quindi fondamentale che questa operazione si svolga nel migliore dei modi e dei tempi, poiché una cottura mal eseguita può compromettere il lavoro di molte
giornate. Inoltre, a seconda del tipo di cottura a cui i vasi vengono sottoposti, può variare il loro aspetto finale in termini di rivestimento e decorazioni. Il ceramista si deve dunque affidare al suo bagaglio di conoscenze e alla sua esperienza per mettere in atto tutti gli accorgimenti tecnici che possono garantire un risultato finale ottimale.
Tavoletta dipinta (pinax) corinzia raffigurante un ceramista che sale su una fornace per controllare la cottura dei vasi, da Penteskouphia (presso Corinto, Grecia). Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.
Durante la combustione, il carbonio e l’idrogeno presenti nei combustibili (legna, paglia, noccioli di frutta) si combinano con l’ossigeno presente nell’aria, generando anidride carbonica e vapore acqueo. Quando, durante la cottura, nella fornace circola aria, ossia quando prevale l’ossigeno, si avrà un ambiente ossidante; in caso contrario, si crea un’atmosfera riducente, in cui prevalgono idrogeno e ossido di carbonio.
I TRUCCHI DEL MESTIERE La combinazione di ambiente ossidante e riducente, che ha effetti sul risultato finale del rivestimento ceramico, può essere effettuata dal ceramista attraverso vari accorgimenti: per ottenere l’effetto ossidante occorre migliorare il tiraggio, permettendo l’ingresso dell’aria nella camera di cottura, e utilizzare combustibile asciutto. In questo caso si tratta di atmosfera ossidante e le ceramiche assumeranno un colore rosso (ceramiche sigillate con rivestimento di colore rosso corallo brillante e lucido). In atmosfera riducente (utilizzata per esempio per la ceramica a vernice nera e il bucchero), occorre invece diminuire il tiraggio, chiudendo le prese d’aria. Altri accorgimenti consistono nell’immettere nella camera sostanze fumogene (secondo una tradizione, per esempio, unghie equine) e legna umida.
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La cottura avviene all’interno delle fornaci, che possono essere di tre tipi: a catasta, verticale e orizzontale. La fornace a catasta, detta anche «all’aperto», è quella piú semplice, ed è documentata per lo piú nel periodo pre- e protostorico. Su un piano compatto o in una piccola fossa si pone uno strato di combustibile costituito da legna, carbone, canne, rami secchi, su cui si dispongono i vasi gli uni sopra gli altri, a formare appunto una catasta, che viene ricoperta da uno strato di terra compatta, sterco o argilla creando una calotta, per l’isolamento termico, e sulla quale si praticano fori per il tiraggio.
BASSE TEMPERATURE Con questo procedimento, in cui i manufatti sono a diretto contatto con il combustibile, la cottura avviene a temperature basse, e richiede tempi molto lunghi, cosí come il raffreddamento. Inoltre, l’irradiazione del calore non avviene in maniera uniforme, pertanto il risultato finale consisterà in ceramiche di scarsa qualità, e farà registrare un’elevata percentuale di scarti. La struttura precaria di questo tipo di fornaci (da non confondere con i forni per la cottura del pane o quelli per la fusione dei metalli) molto
Scarti di fornace (si tratta, in questo caso, di bicchieri di epoca imperiale romana), dall’area del porto di Siracusa. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». In basso: un’altra pinax corinzia da Penteskouphia raffigurante una fornace riempita di vasi pronti per la cottura. VI sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen, Antiken Sammlung.
raramente si conserva a livello archeologico. Questo sistema di cottura viene ancora utilizzato per la cottura di mattoni, e trova
analogie nelle carbonaie e nelle fornaci da calce, dove al posto delle ceramiche vengono accatastati blocchi di marmi. Gli altri due tipi di fornaci richiedono invece la costruzione di strutture fisse, realizzate con materiali diversi (mattoni, pietre, terracotta), e sono perciò piú facilmente documentate archeologicamente. Queste fornaci permettono una minore dispersione del calore, che risulta inoltre meglio irraggiato, un migliore controllo del tiraggio e il raggiungimento di temperature piú elevate, fattori che danno risultati ottimali nella produzione. Inoltre, in questi due tipi di fornaci il materiale da cuocere non si trova a contatto diretto con il combustibile, in quanto la loro struttura si compone
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di una camera di combustione, dove si accende il fuoco, e di una camera di cottura. Le fornaci orizzontali prevedono una o piú camere di cottura a volta chiusa, e il tiraggio avviene attraverso il camino posto in fondo alla struttura. Il calore segue cosí un percorso grosso modo orizzontale, prima di uscire attraverso il camino. Simili fornaci permettono un irraggiamento uniforme del calore e, soprattutto, di raggiungere temperature molto elevate. Ma c’è da sottolineare che la fornace orizzontale, nota in Oriente fin dai tempi antichi, è rimasta sconosciuta in Occidente, dove si è utilizzata prevalentemente la fornace verticale. Questo si può spiegare, secondo la studiosa Ninina Cuomo di Caprio, col fatto che in Oriente si fabbricavano ceramiche con un’alta percentuale di argilla caolinica, che richiede una temperatura di cottura oltre i 1000 gradi, mentre nelle aree mediterranee, dove questa argilla scarseggia, si utilizzavano argille che fondono intorno ai 1000 gradi, e pertanto, le fornaci verticali erano piú che sufficienti per ottenere, comunque, buoni risultati.
I VASI IMPILATI Le fornaci verticali, ben testimoniate archeologicamente soprattutto per l’età romana e rinascimentale, sono composte da una parte inferiore, la camera di combustione, con una bocca per introdurvi la legna, e una camera superiore, separata da quella inferiore tramite un piano forato per far passare il calore, sul quale vengono impilati i manufatti da cuocere. La camera inferiore può essere parzialmente interrata, e avere un corridoio di accesso (prefurnio) piú o meno breve (da poche decine di centimetri ad alcuni metri) per permettere il tiraggio e la rapida diffusione dell’aria calda, dove viene acceso il combustibile che viene poi introdotto nella
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camera di combustione. Da questa il calore si diffonde in senso verticale passando attraverso il piano forato; quest’ultimo poggia sulle pareti perimetrali della camera di combustione e su una struttura portante che può essere diversa secondo la pianta della fornace, formata da un pilastro centrale o da muri radiali che sorreggono arcate o volte. Dai ritrovamenti archeologici si sono potute elaborare diverse tipologie di fornaci, distinte essenzialmente in quelle a pianta circolare o a pianta quadrata oppure rettangolare. La copertura può essere temporanea, costituita da uno strato di cocciame ricoperto con zolle di terra e argilla, in cui vengono lasciati alcuni fori per il tiraggio, o stabile, generalmente a
cupola, costruita con mattoni o tubuli fittili cavi infilati l’uno dentro l’altro a formare l’arco della volta, che viene poi ricoperta con argilla. Rappresentazioni di fornaci verticali a pianta rotonda con volta a cupola, sono presenti nelle pinakes (tavolette in terracotta dipinte) di Penteskouphia, nei pressi di Corinto (primo quarto del VI secolo a.C.), mentre nel secondo tomo dei Tre libri dell’arte del Vasaio di Cipriano Piccolpasso viene descritta la costruzione di una fornace a pianta rettangolare di epoca rinascimentale; qui sono da notare quattro finestrelle laterali, le vedette, dalle quali il vasaio può controllare la cottura, e le aperture sulla volta, gli scioratoi, per lo sfiato della fiamma che attraversa la camera di combustione.
Tavola raffigurante una fornace, da un’edizione dell’opera I tre libri dell’arte del vasaio di Cipriano Piccolpasso, pubblicata per la prima volta nel 1548.
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
FUGA IN ITALIA L’AVVENTUROSA VICENDA DI UNA PRINCIPESSA POLACCA OFFRÍ A UN MEDAGLISTA SETTECENTESCO L’OCCASIONE DI RENDERE OMAGGIO AL COLOSSEO
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ltre al Colosseo, molti sono gli anfiteatri del mondo romanizzato, ma quando uno di essi compare su una moneta antica non si può sbagliare, è quello di Roma. E fra le attestazioni moderne del Colosseo su monete e medaglie non si può trascurare la splendida medaglia settecentesca dedicata alla principessa e regina senza regno Maria Clementina Sobieska-Stuart. Nata a Oława (Polonia) il 17 luglio 1701, figlia del principe Jakub Sobieski e di Hedvige Elisabeth Wittelsbach dei principi di PfalzNeuburg, ebbe una vita breve e travagliata, morendo a Roma il 18 gennaio 1735. Imparentata con le grandi casate europee, nipote del re polacco Jan III Sobieski, celebrato quale difensore della cristianità, figlioccia di papa Clemente XI, bella, romantica, pia e molto ricca, fu scelta quale sposa perfetta per il re cattolico e senza regno Giacomo III Stuart, pretendente al trono di Inghilterra, dove regnava il protestante Giorgio I. A scegliere la principessa fu un Irlandese fedele alla causa giacobita, Charles Wogan, militare e agente segreto di Giacomo III. Pur non conoscendo lo sposo, come di
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regola all’epoca, la giovane accettò la proposta di nozze e si innamorò del re senza regno, di 14 anni piú grande di lei.
L’APPOGGIO DEL PAPA Fu cosí stabilito il viaggio in Italia della principessa per raggiungere il promesso sposo, per poi trasferirsi insieme a Roma, sotto la paterna protezione e a carico completo di Clemente XI, che appoggiava i tentativi di restaurazione cattolica al trono inglese. Nell’autunno del 1718, Maria Clementina, diciassettenne, partí dalla Polonia verso l’Italia in incognito,
ufficialmente diretta a Loreto, accompagnata dalla madre e un piccolo seguito, con il soddisfatto beneplacito del papa. Questo matrimonio destava le preoccupazioni e lo scontento del trono inglese, che vedeva come un pericolo la giovane, imparentata con le famiglie principesche europee e protetta dal papa. Giorgio I fece quindi pressioni sull’imperatore d’Austria, Carlo VI, affinché impedisse il matrimonio e fece imprigionare il gruppo di viaggiatori che dovevano raggiungere l’Italia passando per Innsbruck, rinchiudendolo nel
Sulle due pagine: medaglia d’argento di Ottone Hamerani. 1719. Al dritto (qui accanto), Maria Clementina Sobieska; al rovescio, la principessa in fuga da Innsbruck, sul carro, e, sulla sinistra, Roma con il Colosseo.
castello di Ambras – naturalmente con tutte le attenzioni dovute al nobile lignaggio –, dove rimasero sino alla primavera del 1719. Giacomo III però non si perse d’animo e si affidò ancora a Charles Wogan, che architettò un piano rocambolesco per la fuga, che avvenne il 27 aprile 1719. Fece travestire la principessa con gli abiti di una sua cameriera e scambiò le due donne. Quindi Maria Clementina si calò con una corda dalla finestra e fuggí nella carrozza che l’aspettava. Scoperta la fuga, l’imperatore mandò i suoi all’inseguimento, ma i fuggiaschi avevano ormai raggiunto l’Italia. Per questa sua impresa Wogan fu nominato baronetto da Giacomo III, mentre Clemente XI lo insigní del titolo di Senatore Romano. Dopo il matrimonio per procura a Bologna, Maria Clementina giunse finalmente a Roma, dove arrivò il 12 giugno del 1719 e vi rimase sino
all’arrivo del suo sposo a Montefiascone, dove il primo settembre del 1719 si celebrarono finalmente le nozze.
BELLA ED ELEGANTE Clemente XI volle far realizzare una medaglia per ricordare la fuga da Innsbruck e l’avventuroso arrivo a Roma di Maria Clementina, realizzata dal celebre medaglista romano Otto (o Ottone) Hamerani (1694-1768). Al dritto è raffigurato di profilo il bellissimo busto di Clementina, dai lineamenti delicati, la fluente capigliatura acconciata con una tiara e parure di perle nei capelli, al collo e alle orecchie, abbigliata con abito bordato di pietre preziose e manto di ermellino. Intorno corre la legenda con i titoli reali: CLEMENTINA MARIA BRITANNIA, FRANCIA, HIBERNIA, & SCOTIA REGINA. In esergo la firma dell’incisore. OTTO HAMERANI F(ecit).
Al rovescio è splendidamente rappresentato il viaggio da Ambras a Roma. Clementina, in abito popolare, pettinatura raccolta e veletta svolazzante sul capo, è alla guida un elegante carro a forma di conchiglia, una sorta di carro di Venere, trainato da due cavalli. Sulla biga compaiono, dietro di lei, Eros, simbolo dell’amore che ha guidato la giovane, e lo scudo di famiglia sormontato dalla corona. Alle spalle del carro si staglia un paesaggio boscoso che rappresenta l’Austria, mentre sullo sfondo si apre il mare con il sole e un veliero in navigazione verso Roma, che allude all’arrivo del marito. A sinistra si vede Roma, sicuro rifugio per la coppia, rappresentata con mura che racchiudono alcuni edifici a tempio con porticato, il Colosseo e la Colonna Traiana. La costruzione a torre affacciata sul mare potrebbe essere il faro che indica alla nave l’approdo sicuro. La legenda FORTVNAM CAVSAMQVE SEQVOR («Seguo la sua fortuna e la sua causa») e in esergo DECEPTIS CVSTODIBVS MDCCIXI («I guardiani sono stati ingannati») si riferisce alla completa, fedele adesione – sentimentale e politica – di Clementina alla causa dello sposo e alla sua evasione da Innsbruck. La frase deceptis custodibus è tratta da un passo di Livio relativo alla fuga della leggendaria fanciulla romana Clelia, rapita come ostaggio dal re etrusco Porsenna, e il suo temerario ritorno a Roma a nuoto, dove poi ottenne, unica donna, l’onore di una statua equestre nel Foro (Periochae di Tito Livio, Ab Urbe condita, II, XIII).
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Brian M. Fagan, Nadia Durrani
BREVE STORIA ARCHEOLOGICA DELL’UMANITÀ Dalle origini alle civiltà preindustriali Carocci editore, Roma, 238 pp., ill. b/n 21,00 euro ISBN 978-88-290-1740-9 www.carocci.it
Condensare vicende succedutesi nell’arco di 6 milioni di anni in poco piú di 200 pagine è l’impresa alla quale si sono dedicati gli autori di questa Breve storia archeologica dell’umanità, prima edizione italiana dell’opera che Fagan e Durrani hanno pubblicato in inglese nel 2022. Il risultato è un volume che essi stessi definiscono «per principianti» e che può in effetti porsi come utile introduzione generale a quanti aspirino allo studio e alla pratica dell’archeologia. Tuttavia, la rassegna, pur sistematica, sconta i limiti imposti dal 112 a r c h e o
respiro della trattazione e la complessità dei temi affrontati – che, solo per fare qualche esempio, comprendono fenomeni come la comparsa delle piú antiche specie umane o la rivoluzione neolitica – viene appena sfiorata. Senza dubbio, la lettura del libro sarà capace di suscitare curiosità, dubbi e desideri di approfondire questioni specifiche, per i quali gli autori rimandano agli Approfondimenti bibliografici inseriti a corollario di ciascun capitolo. Segnalazioni che, è bene precisarlo, suggeriscono quasi unicamente testi in lingua straniera. E se è vero che in molti ambiti la letteratura scientifica è prevalentemente in inglese, al momento della traduzione del saggio sarebbe stato forse opportuno compiere una ricognizione delle fonti disponibili in italiano, che comunque non mancano. Carlo Ruta
HOMO FABER E CIVILTÀ Tecnologie, manualità e conquista del mare tra protostoria e storia Edizioni di Storia, Ragusa, 138 pp., ill. b/n 15,00 euro ISBN 978-88-99168-59-9
Scheggiare la selce, lavorare il legno o fondere i metalli sono catene di operazioni tecnologiche messe a punto dalle comunità umane in momenti diversi della storia, ma hanno sempre avuto,
com’è facile intuire, implicazioni complesse, che vanno ben oltre il dato meccanicistico. Si è sempre trattato, infatti, di espressioni anche culturali ed è questo il filo conduttore del volume di Carlo Ruta, che si concentra, in particolare, sugli effetti che l’elaborazione delle diverse metodologie hanno avuto nello sviluppo delle grandi società antiche, dall’Egitto alla Cina. Un’attenzione specifica è riservata alla navigazione, pratica che poté compiere progressi formidabili proprio grazie alle continue innovazioni e al consolidamento dei saperi tecnici. Francesca Ghedini
MALEDETTE Le donne nel mito prefazione di Maria Grazia Ciani, Marsilio Editori, Venezia, 302 pp., ill. b/n 18,00 euro ISBN 978-88-297-1881-8 www.marsilioeditori.it
«Le immagini sono state il filo rosso che ha
accompagnato tutta la mia vita di studiosa»: cosí scrive Francesca Ghedini nelle pagine iniziali di questo volume e, proseguendo nella lettura, si coglie pienamente il senso dell’affermazione. Nel tracciare i profili di cinque donne «maledette», l’autrice attinge, com’è ovvio, al supporto delle fonti letterarie e ai dati offerti dall’archeologia, ma l’imago – come la definisce Maria Grazia Ciani nella Prefazione – si percepisce in tutta la sua forza prorompente: sia in quanto citazione di iconografie antiche, sia nella forma delle descrizioni dei fatti di volta in volta raccontate. Protagoniste della trattazione sono Circe, Pasifae, Arianna, Fedra e Medea, donne che condividono la discendenza dal Sole e tragici destini. Raccontati con stile avvincente, quasi romanzesco, ma che mai viene meno al rigore storico. (a cura di Stefano Mammini)
presenta
MEDICI
IN PRIMA LINEA
FOLLIE, LEGGENDE E CONQUISTE DELLA MEDICINA NELL’ETÀ DI MEZZO Al di là dell’argomento a cui è dedicato, questo nuovo Dossier di «Medioevo» offre l’ennesima conferma di quanto poco credibile possa ancora essere considerata la vulgata secondo la quale i secoli dell’età di Mezzo avrebbero costituito una fase «buia» nella storia dell’umanità. Infatti, forti della consolidata tradizione greca e romana, i medici attivi nel millennio medievale furono artefici di importanti sviluppi nel campo della pratica terapeutica e della chirurgia. Senza dubbio, alcuni dei rimedi e delle cure proposti ai pazienti possono apparire ai nostri occhi piú vicini a riti sciamanici o stregoneschi, ma si tratta di casi circoscritti e, comunque, dettati dal desiderio di trovare soluzioni a malattie non di rado devastanti, prima fra tutte la peste. E, a riprova di un approccio razionale e sistematico, non si può dimenticare che proprio nel Medioevo venne fondata la Scuola Medica di Salerno, furono create le prime facoltà universitarie di medicina e al ricovero dei pazienti si fece fronte con la realizzazione dei primi grandi ospedali. Vicende che nel nuovo Dossier di «Medioevo» vengono puntualmente ripercorse e illustrate da immagini in molti casi coeve, segno tangibile della diffusione su larga scala di pratiche sempre piú specializzate.
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