Archeo n. 466, Dicembre 2023

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TEATRO DI NERONE

ROVINE

MARIA MADDALENA

PERCHÉ AMIAMO LE ROVINE ?

LIDIA STORONI MAZZOLANI

ATENE

CASTROMEDIANO

IL PARTENONE A STELLE E STRISCE

DONNE E POTERE

SPECIALE PROTEZIONE DEI BENI CULTURALI

IL VERO VOLTO DI MARIA MADDALENA

LETTERATURA

IL SOGNO DI GALLA PLACIDIA

I BENI CULTURALI IN AREE DI CRISI

SPECIALE

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2023

Mens. Anno XXXIX n. 466 dicembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 466 DICEMBRE

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EDITORIALE

QUEL MISTERIOSO RITORNO ALLA NATURA Perché non possiamo fare a meno delle rovine? «Il Colosseo – scriveva Stendhal duecento anni fa – è forse piú bello oggi, che sta cadendo a pezzi, di quanto non lo fosse nei giorni del suo massimo splendore». E aggiunge che, all’epoca della sua costruzione, «era solo un teatro», un luogo di spettacoli in massima parte – e nonostante l’imperituro fascino esercitato dall’epopea gladiatoria – difficilmente «sostenibili» al vaglio di un’etica moderna. Il Colosseo, però, diventa bello perché decade, innalzandosi al contempo a duratura evocazione di un’esistenza passata di cui, malinconicamente, racchiude il mistero. Un mistero che appartiene a ogni rovina e al quale è difficile sottrarsi: per il filosofo e sociologo George Simmel (1858-1918), autore di un celebre saggio del 1911, il fascino di una rovina «sta nel fatto che mostra un’opera umana, producendo l’impressione, invece, di essere un’opera della natura». Per Simmel – ricorda l’archeologo Alain Schnapp nella sua Storia universale delle rovine (vedi alle pp. 38-51) – «la rovina è il risultato di un ritorno alla natura di ciò che da lei era stato estratto». La rovina come nuova entità, dunque, sintesi tra le due forze contrapposte della creatività dello spirito umano, da una parte, e della natura, dall’altra. I monumenti dell’antichità (classica e non solo) punteggiano i paesaggi e le città del nostro Paese, ne sono un’attrattiva fondamentale, catalizzano la devozione di milioni di visitatori. La persistenza di queste testimonianze del passato non è, tuttavia, un dato scontato. A noi, allora, spetta il privilegio di riflettere sulle molteplici sfaccettature assunte da questo fenomeno nel corso dei secoli, allargando lo sguardo oltre i confini nazionali e dell’Europa, per riconoscere il posto occupato dalle rovine nel nostro immaginario, e indagando la loro potente funzione ideologica, metaforica. Da quando, nel XVIII secolo, furono per la prima volta «scoperte», il culto delle rovine si configura come un affascinante viaggio alla comprensione di una parte fondamentale di noi stessi. Un viaggio che i nostri lettori – ai quali esprimiamo i migliori auguri per il Natale e l’Anno Nuovo – potranno iniziare partendo dalla stessa immagine di questa pagina. Raffigura l’evento che il mondo cristiano celebra ogni 6 (o 19) di gennaio; e al ritratto della Sacra Famiglia e dei visitatori venuti dall’Oriente fanno da sfondo le rovine di un antico tempio pagano… Andreas M. Steiner

Adorazione dei Magi, olio su tela di Nicolas Poussin. 1633. Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.


SOMMARIO EDITORIALE

Quel misterioso ritorno alla natura

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE L’equipaggiamento di un antico guerriero 6 ALL’OMBRA DEL VULCANO L’oro verde di Púmpaiia 8 di Alessandra Randazzo

SCOPERTE Ma che occhi grandi che hai... 10 FRONTE DEL PORTO Nel nome del santo patrono 12

A TUTTO CAMPO Atena a stelle e strisce

DONNE DI POTERE/6 18

di Mara Sternini

INCONTRI Il valore della «villeggiatura» MOSTRE Un grande porto e la sua storia

22

23

24

di Flavia Marimpietri

ARCHEOFILATELIA Rovine e memoria

32

di Luciano Calenda

Un poliedro chiamato «rovina»

SCAVI Nel cuore di Rhegium Iulii 14

a cura di Andreas M. Steiner

52 ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/12

Sognando una nuova romanità

68

di Giuseppe M. Della Fina

TEMI E PROBLEMI

di Cristina Genovese, Maria Chiara Alati e Tiziana Sorgoni

52

di Andrea Nicolotti

di Giuseppe M. Della Fina

PAROLA D’ARCHEOLOGO Ecco il palco dell’imperatore!

Maddalena chi era costei?

38

di Giampiero Galasso

TEATRO DI NERONE

amministrazione@timelinepublishing.it

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In copertina un paesaggio immaginario dell’Italia meridionale con le rovine di un antico tempio, olio su tela di Ferdinand Knab (1837-1902).

Presidente

Federico Curti

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 466 dicembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE PROTEZIONE DEI BENI CULTURALI

Amministrazione

CASTROMEDIANO

Impaginazione Davide Tesei

LIDIA STORONI MAZZOLANI

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

MARIA MADDALENA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

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PERCHÉ AMIAMO LE ROVINE ?

ROVINE

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

IN EDICOLA IL 13 DICEMBRE 2023

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Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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RO M DI NE A

ARCHEO 466 DICEMBRE

Anno XXXIX, n. 466 - dicembre 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

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di Carlo Casi

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IN DIRETTA DA VULCI I secoli di un santuario

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ATENE

IL PARTENONE A STELLE E STRISCE

DONNE E POTERE

IL VERO VOLTO DI MARIA MADDALENA

LETTERATURA

IL SOGNO DI GALLA PLACIDIA SPECIALE

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

I BENI CULTURALI IN AREE DI CRISI

29/11/23 19:39

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Maria Chiara Alati è funzionaria del Parco archeologico di Ostia antica. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Gabriele Cifani è professore associato di archeologia classica presso l’Università degli studi Roma «Tor Vergata». Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è giornalista. Cristina Genovese è funzionaria del Parco archeologico di Ostia antica. Flavia Marimpietri è giornalista. Massimiliano Munzi è curatore dei beni culturali presso la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Andrea Nicolotti è professore ordinario di storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli studi di Torino. Alessandra Randazzo è giornalista. Tiziana Sorgoni è funzionaria del Parco archeologico di Ostia antica. Mara Sternini è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.


MUSEI

I tesori del duca bianco

76

di Giuseppe M. Della Fina

76 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Il Natale alla luce del sole

106

di Francesca Ceci

84 SPECIALE

La protezione dei beni culturali in aree di crisi

«Fare la guerra in Italia è come combattere in un maledetto museo»

106 LIBRI

108

84

di Gabriele Cifani e Massimiliano Munzi

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 38/39) e pp. 3, 38, 40, 40/41, 43, 44/45, 45, 46/47, 49, 52, 58, 66-67, 70, 78-79, 86-91, 92 (centro), 94-97, 98, 104 (centro) – Cortesia Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo dell’Università Ca’ Foscari Venezia: pp. 6-7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia Cicero Moraes: p. 10 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia: p. 14 – Cortesia Fondazione Vulci: pp. 16-17 – Shutterstock: pp. 18-19, 59, 100-101, 103 (basso), 104 (alto) – Cortesia Parthenon Museum, Nashville (USA): pp. 20/21 – Cortesia Ufficio Promozione e Comunicazione del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia: p. 23 – Cortesia Soprintendenza Speciale ABAP di Roma: pp. 24-30 – National Gallery of Art, Washington: p. 41 – Andreas M. Steiner: p. 42 – da: Alain Schnapp, Storia universale delle rovine, Einaudi, Torino: pp. 44 (alto), 46, 48 – Mondadori Portfolio: pp. 72/73; Album: pp. 50/51, 62/63; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 54; Electa/Sergio Anelli: p. 55; AKG Images: pp. 59/57, 60, 71, 93; Heritage Art/ Heritage Images: p. 61; Fototeca Gilardi: p. 68; Fine Art Images/Heritage-Images: pp. 84/85; Archivio GBB: p. 92 (basso) – Alamy Stock Photo: p. 64 – Cortesia Museo Sigismondo Castromediano, Lecce: Raffaele Puce: pp. 76-77, 80-83 – Cortesia degli autori: pp. 92 (alto), 102, 103 (alto), 104 (basso), 106-107 – Massimiliano Munzi: pp. 98/99.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2022 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Grecia

L’EQUIPAGGIAMENTO DI UN ANTICO GUERRIERO

L’

armatura di un guerriero, deposta in un contesto non funerario, è venuta alla luce nel corso dell’ultima campagna di scavi condotta a Festos, sull’isola di Creta, dall’équipe guidata da Ilaria Caloi (Università Ca’ Foscari Venezia). Il ritrovamento consiste in una panoplia in bronzo, della quale fanno parte l’umbone di uno scudo, frammenti di un elmo e forse di una cintura. E si tratta di una scoperta eccezionale, dal momento che, a oggi, in Grecia sono molto rari i casi di equipaggiamenti militari non provenienti da sepolture. Tale circostanza ha indotto i ricercatori a interrogarsi sull’origine e la funzione di queste armi e, come spiega Caloi, «L’ipotesi piú accattivante, che solo la continuazione dello scavo potrà confermare, è che l’armatura possa attribuirsi a un eroe locale, onorato all’interno di un’area di culto o di un cenotafio, in stretta connessione con la fondazione della polis di Festos tra l’VIII e il VII secolo a.C.». L’umbone in bronzo ritrovato costituisce la parte centrale dello scudo, che doveva essere in materiale deperibile, verosimilmente cuoio. Presenta un elemento conico centrale dotato di una lunga protuberanza e un disco esterno con una serie di fori attorno al bordo, che servivano probabilmente al fissaggio. Alla stessa funzione doveva servire l’anello bronzeo che sporge internamente, in corrispondenza della protuberanza centrale. La parte meglio conservata

6 archeo

In alto: Festos (Creta, Grecia). Il Palazzo dell’antica città visto da nord-ovest. Nella pagina accanto, da sinistra: le paragnatidi (elementi che proteggevano le guance) di un elmo e l’umbone di uno scudo facenti parte della panoplia bronzea di un guerriero scoperta nel sito cretese nella scorsa estate. dell’elmo sono le paragnatidi, ossia gli elementi bronzei che assicuravano la protezione delle guance, scendendo fino alla mandibola. Sono decorate con elementi circolari, e dotate di forellini per il fissaggio all’elmo. «La straordinarietà del ritrovamento di Festos – aggiunge Ilaria Caloi – consiste nella peculiare deposizione delle armi all’interno di un contesto non funerario: sono state infatti ritrovate all’interno di un pithos, un grande contenitore per derrate di quasi 120 cm di diametro massimo, e nascoste al di sotto di un coperchio in terracotta, a sua volta ricoperto da un grande frammento di vaso con motivi decorativi a forma di brocchette (oinoichoai) e spirali correnti. Il pithos che conteneva le armi è stato trovato nell’angolo nord-orientale di un grande ambiente, il Vano OO – ancora in corso di scavo – che si apriva a est con un ingresso dotato di una enorme soglia monolitica lunga 160 cm. È probabile che l’area nella quale i ritrovamenti hanno avuto luogo fosse dedicata al culto, un’ipotesi suggerita anche dalla

deposizione rituale delle parti di panoplia e dalla fisionomia dell’ambiente. Anche gli oggetti ritrovati nelle immediate vicinanze, al di fuori del grande pithos, portano a corroborare questa ipotesi. Si tratta di due coltelli in ferro, una serie di vasi per versare (aryballoi) di dimensioni diverse, databili tra l’VIII e il VII secolo a.C., e uno scudo di piccole dimensioni in terracotta, sovradipinto in bianco. Oggetti che rimandano al corredo di una tomba di guerriero, ma che, in questo caso, potrebbero rappresentare le offerte votive in un’area santuariale. Il luogo in cui è avvenuto il ritrovamento è ugualmente significativo: si trova sulle pendici sud-occidentali della collina di Kastrí, la stessa su cui, nel corso del XIX secolo a.C., fu costruito il Primo Palazzo di Festos, e subito a ovest del sontuoso cortile occidentale del palazzo. Ritrovamenti di armature come questa sono assai piú comuni nei ricchi corredi delle tombe greche. A Creta gli esemplari meglio conservati provengono infatti dalla


necropoli di Cnosso, di Mouliana (Siteia) e di Eleutherna, e si datano tra il XII e il VII secolo a.C. I confronti migliori per lo scudo e per le paragnatidi di Festos si individuano, tuttavia, in aree esterne a Creta: nella Tomba XXVIII di Tirinto, in Argolide, databile al periodo Submiceneo (XI secolo a.C.), e nella tomba 40 di KourionKaloriziki a Cipro; è questa una conferma di quanto Festos, a cavallo tra la fine del Tardo Bronzo e gli inizi dell’età del Ferro, fosse ancora ben inserita in una fitta rete di relazioni sia con il mondo egeo, sia con le ben piú lontane terre del Mediterraneo orientale. Questa singolare scoperta getta luce su un periodo cruciale per il sito archeologico di Festos, quello della fondazione della polis.

Si tratta di un tassello importante per ricostruire la storia di un centro millenario: fondato nel V millennio a.C., Festos divenne prima un palazzo minoico, alla stessa stregua di Cnosso, poi una polis greca e rimase un centro importante fino al

146 a.C., anno della sua distruzione a opera della vicina Gortina. Insieme ad altri complessi palaziali minoici dell’isola, il sito di Festos è candidato all’iscrizione nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Gli scavi che hanno portato al ritrovamento descritto in queste pagine sono svolti dall’Università Ca’ Foscari Venezia sotto la direzione di Pietro Militello dell’Università di Catania. Avviati nel 2022, vengono eseguiti in regime di concessione della Scuola Archeologica Italiana di Atene, diretta da Emanuele Papi, e autorizzati da Vassiliki Sythiakaki, responsabile della 13a Eforia Greca. (red.)

Errata corrige con riferimento allo Speciale Fino all’ultimo sangue (vedi «Archeo» n. 465, novembre 2023), desideriamo precisare che i testi dei box Le coppie dei gladiatori e Lessico gladiatorio e del sottocapitolo Un legame ripristinato sono tratti dal booklet pubblicato in occasione della mostra «Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus» (Roma, Colosseo, fino al 7 gennaio 2024). Desideriamo altresí segnalare che l’evento espositivo è stato ideato e realizzato dal Parco archeologico del Colosseo con la curatela di Alfonsina Russo, Federica Rinaldi, Barbara Nazzaro e Silvano Mattesini. Dell’omissione ci scusiamo con gli interessati.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

L’ORO VERDE DI PÚMPAIIA SI È RINNOVATA NELLE SCORSE SETTIMANE L’ORMAI TRADIZIONALE RACCOLTA DELLE OLIVE PRODOTTE NEI TERRENI DEL PARCO DI POMPEI. UN’ATTIVITÀ CHE, UNITAMENTE ALLA PRODUZIONE DELL’OLIO, CONIUGA AGRONOMIA, BOTANICA E ARCHEOLOGIA

I

l verde fa di Pompei una città vivissima e cangiante. I suoi spazi cambiano aspetto al mutare delle stagioni, con il succedersi delle fioriture e la maturazione dei frutti. Il patrimonio di biodiversità presente è straordinariamente ricco e il suo equilibrio e benessere costituiscono uno dei fattori portanti per la stessa cura dei resti archeologici. Garantire l’equilibrio del sistema naturale attraverso un sistema integrato di controllo delle specie infestanti (weed control e bird control) e con il recupero dell’attività agricola fatta

adottando un’interpretazione delle tecniche colturali antiche significa, infatti, ridurre gli effetti dannosi sul costruito e incrementare la presenza di specie capaci di apportare straordinari benefici all’ambiente e all’uomo. Lo studio e la sperimentazione delle tecniche antiche di coltivazione, cosí come avviene nel Vivaio della Casa di Pansa, permette non solo di adottare buone pratiche sostenibili per l’ambiente, ma anche, se studiate coniugando archeologia, botanica e agronomia, di verificare la validità

Una veduta dell’Orto dei Fuggiaschi di Pompei, nella cui area si sono svolte le operazioni di premitura delle olive raccolte nei terreni del Parco archeologico.

8 archeo

delle lezioni degli autori antichi e dei loro trattati sull’agricoltura. Tra ottobre e novembre, è stata effettuata al Parco la raccolta delle olive, dalle piante di Pompei, di Villa Arianna a Stabia e della villa di Civita, dove sono presenti, in continuità con il mondo arcaico, le cultivar Minucciola, Ogliarola, Olivella, Pisciottana, Ravece, Rotondello, oltre alla Nostrale, oggi a rischio di estinzione.

UN CRU E UN MARCHIO Adottare i metodi antichi di raccolta significa anche un maggior rispetto per le piante e una qualità del prodotto che aggiunge al dato naturale quello culturale. Per questo il Parco, grazie alla collaborazione con Unaprol, uno dei maggiori consorzi operanti in ambito nazionale e comunitario, e con Aprol Campania, intende creare un distinto cru per l’olio EVO ottenuto da olive prodotte esclusivamente dalle piante le cui radici affondano direttamente nel terreno anteriore al 79 d.C. dei giardini delle domus. Il dato culturale dell’olio del Parco Archeologico di Pompei, da quest’anno certificato con l’Indicazione Geografica Protetta IGP Campania, è rispecchiato anche dal marchio Púmpaiia, che


In alto: particolare del fregio della Casa dei Vettii con Amorini profumieri. Qui accanto: piante di olivo nei terreni della Villa Arianna a Stabia.

identifica le bottiglie prodotte, non ancora destinate alla commercializzazione, e vuol essere anch’esso di forte distinzione e riconoscibilità. Il nome è infatti desunto dallo studio delle iscrizioni sannitiche in lingua osca e, in particolare, da un’iscrizione della Palestra Sannitica di Pompei che riporta il nome della città preromana: Púmpaiia appunto. Nel mondo romano l’olivicoltura era sicuramente un settore primario per l’economia e le fonti letterarie e archeologiche ne sono testimoni preziose. Dopo la fine della terza guerra punica (149-146 a.C.) e grazie all’espansionismo romano, tutto il Mediterraneo fu coinvolto in un processo di diffusione dell’olivo. I Romani ne avevano appreso la tecnica colturale sicuramente dai Greci della Magna Grecia e dagli Etruschi, ma in età imperiale furono le province a essere maggiormente coinvolte nella coltivazione. Il territorio della Betica lungo il corso del Guadalquivir era coperto da estesi oliveti, e cosí anche l’Africa settentrionale, dove, nei territori imperiali, migliaia di schiavi erano impiegati nella coltivazione e nella produzione

dell’olio. Il suo commercio, cosí come quello del vino, coinvolgeva ogni anno intere flotte, che attraversavano il Mediterraneo sotto lo stretto controllo dello Stato. Si registrarono progressi notevoli anche nelle tecniche colturali, come provano i trattati di agricoltura di autori quali Catone, Columella, Plinio il Vecchio, che suggerivano ai proprietari terrieri le migliori forme di coltivazione e gli accorgimenti da adottare nelle pratiche di potatura, concimazione e raccolta delle olive.

UN FISSATORE PERFETTO Gli usi dell’olio furono vari; dal frutto, le olive, in ambito alimentare, ai preparati a base oleosa rinvenuti in contenitori di vetro che servivano come base per unguenti profumati utilizzati per scopi personali o per i massaggi nelle terme. Nella fabbricazione dei profumi l’omphacium, un composto con olio ottenuto dalla premitura a freddo delle olive ancora verdi, costituisce il fissatore perfetto a trattenere le fragranze di piante e fiori. Anche a Pompei, come a Roma, esisteva la Corporazione dei Profumieri e una produzione artigianale di profumi

Qui sopra: una bottiglia del Púmpaiia, l’olio EVO ottenuto dalle olive raccolte nel Parco di Pompei, che ha ottenuto la certificazione IGP Campania. che utilizza l’olio di oliva è stata ipotizzata anche nella Casa del Giardino d’Ercole o del Profumiere. Qui, negli spazi verdi della domus, gli archeologi hanno ipotizzato la presenza di alberi di olivo nei resti di cavità realizzate poi tramite la colatura di gesso, e le analisi palinologiche la presenza di pollini pertinenti a essenze odorose. Ancora da Pompei, in una delle domus piú belle della città antica, quella dei Vettii, i famosi affreschi con Amorini affaccendati mostrano come questi siano intenti proprio alla preparazione di profumi. Nella scena è presente anche un torchio per la preparazione degli oli accanto ad alcuni vasi per la macerazione a caldo con olio e acqua proprio come raccomandato da due esperti, Plinio e Discoride. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCOPERTE Francia

MA CHE OCCHI GRANDI CHE HAI...

N

el 1908 un gruppo di ricercatori scoprí, nella grotta francese di La Chapelle-aux-Saints, lo scheletro quasi completo di un Homo neanderthalensis. Catalogati con il nome di La Chapelle-auxSaints 1, i resti appartengono a un individuo di sesso maschile vissuto tra i 56 000 e i 47 000 anni fa e morto all’età di circa 40 anni. A piú di un secolo dal ritrovamento, un team internazionale di studiosi ne ha ora ricostruito le fattezze: un volto con un’arcata sopracciliare molto marcata, orbite oculari grandi e lineamenti piuttosto decisi. In passato altri avevano già tentato di ricostruire il volto del Neandertal di La Chapelle. Già nel 1909, per esempio, il pittore ceco František Kupka (1871-1957) ne aveva offerto un’interpretazione quasi grottesca, enfatizzandone la pelosità e i tratti «primitivi» e scimmieschi. La sua tavola, pubblicata dalla rivista L’Illustration, riassume peraltro idee largamente diffuse tra i membri della comunità scientifica dell’epoca, secondo i quali i Neandertaliani avrebbero rappresentato un «ramo collaterale» estinto della linea evolutiva umana. Il disegno di Kupka conobbe un’enorme fortuna e, insieme alla diffusione della «teoria dell’atavismo» elaborata nel 1858 da Cesare Lombroso (1835-1909), giocò un ruolo decisivo nella costruzione dell’immagine dell’uomo di Neandertal. Un’immagine, tuttavia, ormai sorpassata dalla piú recente ricerca scientifica, che ha dimostrato come anche i Neandertal seppellissero i propri morti, costruissero strumenti e utensili, facessero uso del fuoco per cucinare e probabilmente praticassero anche attività di carattere rituale.

10 a r c h e o

Ricostruzione facciale dell’uomo di Neandertal ritrovato a La Chapelle-auxSaints: da sinistra, la versione «neutra» e quella a colori, con barba e capelli. La nuova ricostruzione si basa sulle piú recenti acquisizioni scientifiche e su tecnologie d’avanguardia. Partendo dalle scansioni di tomografia computerizzata (TC) del cranio già esistenti, l’artista forense brasiliano Cícero Moraes, esperto in ricostruzioni facciali e tra i coautori dello studio, ha importato le misurazioni condotte su un cranio umano appartenente a un database di donatori lungo il cosiddetto «piano di Francoforte», la linea ideale che passa dalla parte inferiore dell’orbita oculare alla parte superiore dell’apertura dell’orecchio. Dopo aver generato la forma del viso, Moraes ha ricostruito digitalmente la pelle e i muscoli dell’uomo; infine ha reso l’approssimazione piú realistica aggiungendo dettagli come il colore della pelle, la barba e i capelli. Ne sono risultate due immagini differenti, una «neutra» con il solo busto in tonalità seppia e senza capelli, l’altra di carattere piú «speculativo», a colori e nella quale

l’individuo appare caratterizzato dalla barba e dalla folta chioma. «Se si osservano attentamente le ricostruzioni realizzate nel corso di quasi un secolo, si può notare come i tratti somatici dell’uomo di La Chapelle-aux-Saints si siano progressivamente addolciti e «umanizzati», discostandosi sempre di piú dalle interpretazioni «primitiviste» che gli antropologi del passato avevano dei Neandertal», spiega Francesco Galassi, professore associato di antropologia fisica presso l’Università di Lodz in Polonia, anch’egli tra i coautori dello studio. «I nuovi studi sui Neandertal hanno dimostrato come fossero molto piú vicini, sotto l’aspetto anatomico e quindi probabilmente anche nella fisiologia, all’Homo sapiens anatomicamente moderno. La nostra ricostruzione offre una nuova prospettiva interpretativa e apre a ulteriori riflessioni sull’evoluzione della ricerca». (red.)



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

NEL NOME DEL SANTO PATRONO SUL LUOGO NEL QUALE AVREBBE SUBITO IL MARTIRIO, IPPOLITO VENNE ONORATO CON LA COSTRUZIONE DI UNA GRANDE BASILICA. CHE GRAZIE AI RECENTI INTERVENTI DI RISANAMENTO TORNA A FARSI AMMIRARE

I

l complesso di S. Ippolito – costituito dall’edificio basilicale, dal sistema delle cisterne sotterranee e dal «conventino», sul quale svetta l’imponente campanile romanico che a tutt’oggi domina e caratterizza il paesaggio urbano – è una delle piú significative testimonianze archeologiche e monumentali nel territorio dell’Isola Sacra. L’impianto e l’articolazione del complesso, nel suo sviluppo diacronico, documentano in maniera emblematica la storia del territorio in cui sorge, oltre a essere testimonianza ancora attuale della sua identità cristiana legata al culto del martire Ippolito, santo patrono di Fiumicino. Il comprensorio a oggi riportato in luce è la ridotta porzione di un quartiere sorto lungo l’argine destro della Fossa Traiana (odierno Canale di Fiumicino), in stretta connessione funzionale con gli antichi impianti portuali di Claudio e Traiano. Su tale tessuto di preesistenze, in parte obliterate da un’area sepolcrale, si impianta, rispettandole, la basilica ad corpus dedicata alla fine del IV secolo dal vescovo Eraclida al martire portuense Ippolito, come ricorda un’iscrizione rinvenuta riutilizzata in situ, eretta sul luogo in cui, secondo la tradizione, sarebbe

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avvenuto il supplizio di Ippolito, gettato in «altam foveam» (una «profonda cisterna», piena d’acqua, in fondo alla quale Ippolito fu trascinato dai pesi che gli erano stati legati alle mani e ai piedi). Su questa prima basilica, di cui sono state individuate la piccola abside e parte delle pareti perimetrali che definivano una

navata unica, orientata nord-sud, alla fine del V-inizi del VI secolo, fu costruita una seconda chiesa, di dimensioni maggiori, suddivisa in tre navate da due file di 11 colonne. Al centro della navata principale si conservano strutture interpretate quali resti di una schola cantorum; l’abside, pavimentata in opus sectile e con catino decorato a mosaico, era dotata di cattedra episcopale. La facciata era scandita da tre ingressi e inglobava nel lato orientale un edificio, oggi ipogeo, trasformato in cisterna nell’ultima fase di vita del complesso. Alle fasi piú tarde della basilica, e


piú precisamente ai primi decenni del IX secolo, è riferibile lo splendido ciborio decorato da lastre decorate a tralci viminei ed elementi a triangoli scaleni costituenti la piramide ottagona di copertura, esemplificativo della perizia di officine specializzate nelle rilavorazioni e nell’arte di assemblare elementi architettonici diversi (basi, capitelli, colonne) per realizzare una costruzione di nuova concezione, legata alla liturgia e funzionale all’esaltazione dell’altare.

ARREDI SONTUOSI Risalirebbe invece al XII secolo la costruzione della torre e di almeno una parte del fabbricato rurale di pianta rettangolare, comunemente chiamato «conventino», concluso a nord da un piccolo ambiente, strutturalmente autonomo. Tale ambiente insiste su una sottostante conserva d’acqua, la cui volta appare scalpellata in corrispondenza di una botola che si apre nel pavimento soprastante, sigillata da una lastra marmorea che riporta al 1753, a opera del cardinale Carafa, la

costruzione dell’altare, rivestito con lastre marmoree, che occupa la parete di fondo, sormontato dal dipinto che ritrae il martirio di Ippolito. Gran parte dei sontuosi arredi marmorei dell’edificio di culto, tra cui il summenzionato In alto: altare marmoreo e dipinto con martirio di Ippolito, prima e dopo il restauro. A sinistra: il ciborio rimontato all’interno dell’Antiquarium nel «conventino» della basilica di S. Ippolito. Nella pagina accanto, da sinistra: la basilica paleocristiana vista dall’alto e la torre campanaria sul «conventino».

ciborio, insieme al sarcofago del martire e a una interessante serie di iscrizioni, è conservata all’interno dell’Antiquarium realizzato nel «conventino». Negli ultimi due anni il complesso è stato sottoposto a importanti interventi di consolidamento, restauro e adeguamento impiantistico. Tra questi, i piú significativi, dal punto di vista della conservazione, sono stati il consolidamento e il restauro della torre campanaria e dell’altare sormontato dall’affresco con la scena del martirio all’interno della cappella. A conclusione di tali interventi, agli inizi di ottobre, in concomitanza con le celebrazioni patronali di S. Ippolito, fino al 10 dicembre è stato possibile restituire alla pubblica fruizione l’intero complesso grazie al Piano di Valorizzazione del Parco; le prossime aperture saranno rese note attraverso il sito web e i canali social istituzionali. Cristina Genovese, Maria Chiara Alati e Tiziana Sorgoni

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n otiz iario

SCAVI Calabria

NEL CUORE DI RHEGIUM IULII

I

recenti interventi di tutela, valorizzazione e fruizione dei resti archeologici situati in piazza Garibaldi, a Reggio Calabria, non hanno tradito le aspettative. Già nel 2016, durante indagini di archeologia preventiva, era stata documentata la presenza dei resti di un edificio di età romana, nonché di ulteriori strutture murarie di età ellenistica, oltre a una canaletta per lo scolo delle acque. Dopo alcuni anni di attesa, propedeutici al reperimento di fondi utili alla prosecuzione delle indagini, alla luce dell’esperienza e delle conoscenze acquisite, è stato dunque riaperto il saggio eseguito nei pressi di corso Garibaldi, sottoposto a interramento per motivi di preservazione e tutela. «L’indagine – spiega il Soprintendente Fabrizio Sudano, direttore scientifico della attività – ha come obiettivo il completamento dello scavo della struttura parzialmente emersa durante le operazioni condotte nel 2016, e ha iniziato già a chiarirne dimensioni e funzione; sembrerebbe trovare conferma l’ipotesi originaria che si tratti di un edificio templare su podio, di piccole dimensioni, con orientamento est-ovest, e di cui abbiamo rintracciato la scalinata di accesso sul lato orientale, quello rivolto verso corso Garibaldi». L’allargamento degli scavi ha già permesso di mettere in luce un’interessante e complessa sequenza stratigrafica che testimonia, a partire dal terremoto del 1908, le molteplici fasi di vita della città di Reggio Calabria e le peculiari caratteristiche geomorfologiche dell’area indagata, piú volte ricoperta da uno strato sabbioso a causa delle esondazioni del vicino Calopinace,

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Immagini delle strutture di epoca romana riportate alla luce grazie agli scavi condotti nel centro di Reggio Calabria, nell’area dell’odierna piazza Garibaldi.

l’antico Apsía. In particolare, sono state scoperte diverse strutture, tra cui alcune circolari, un complesso sistema di captazione dell’acqua con una vasca, riferibili all’età post-classica. Tali rinvenimenti sembrerebbero testimoniare una lunga continuità di vita, sebbene segnata da una rifunzionalizzazione e trasformazione, probabilmente in senso produttivo, degli spazi contigui all’edificio di età romana. Qust’ultimo venne comunque rasato e le murature smontate e utilizzate come materiale da costruzione, sebbene nei livelli inferiori si conservi perfettamente lo stereobate che costituisce il basamento del podio, nonché la sua cornice con tondino e gola rovesciata tra listelli e ben nove filari che costituiscono il paramento in mattoni del monumento. Nell’ottica della condivisione del dato archeologico con la cittadinanza, lungo il perimetro della recinzione di cantiere sono state risparmiate due aperture che, pensate come finestre, permettono la visione diretta delle attività che si svolgono all’interno del cantiere. Inoltre, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio 2023 è già stata effettuata una visita guidata al cantiere, cosí da permettere ai cittadini di varcare la recinzione

dello scavo e trovarsi proiettati all’interno di uno scorcio della Rhegium Iulii di età romana. L’iniziativa ha riscontrato un grandissimo successo e sarà a breve replicata, aprendo le porte, dietro prenotazione, anche ai gruppi composti da scolaresche. Le indagini sono svolte con la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia (Fabrizio Sudano, Andrea Maria Gennaro, Antonino Giordano e Maria Maddalena Sica), finanziate dal Comune di Reggio Calabria e condotte sul campo dalla Samoa Restauri srl con gli archeologi professionisti Silvia Ferrari, Giovanni Speranza e Domenica Vivace. Giampiero Galasso



IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

I SECOLI DI UN SANTUARIO UN TEAM INTERNAZIONALE INDAGA DAL 2020 L’AREA URBANA DI VULCI. LE PRIME TRE CAMPAGNE DI SCAVO HANNO MESSO IN LUCE PARTE DI UN NUOVO TEMPIO MONUMENTALE ETRUSCO E LE SUE DIVERSE FASI DI RESTAURO E SPOLIAZIONE

S

i è conclusa con successo la terza campagna di scavo al nuovo tempio di Vulci, scoperto nel 2020 dai ricercatori della stessa équipe con conduce le indagini a seguito di prospezioni geofisiche (vedi «Archeo» n. 440, ottobre 2021; on line su issuu.com), nell’ambito del Progetto Vulci Cityscape (https://vulcityscape.

hypotheses.org/). Gli scavi intrapresi dal 2021 nell’angolo nord-est dell’edificio sacro ci offrono non solo uno spaccato sulla vita e sulle diverse fasi del complesso, ma hanno permesso di ricavare importanti informazioni sulla storia di Vulci prima della fondazione del luogo di culto, agli albori della città etrusca.

Dalle fasi di fondazione del tempio possiamo ricostruire un podio monumentale sopraelevato, costituito da blocchi di tufo di considerevoli dimensioni, a sostenere una cella e, verosimilmente una peristasi di colonne lungo il perimetro. La costruzione avviene in un breve periodo di tempo: l’orizzonte di Veduta panoramica dell’area di scavo (in basso) e del tempio grande, affacciati verso sud sul decumano. Nella pagina accanto, da sinistra: lo scavo della buca individuata a nord del tempio; un frammento di lastra Campana proveniente dalla cua, con testa di Dioniso tra foglie di acanto e, a destra, gamba e braccio di stiro inginocchiato; il recupero di una oinochoe.

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fondazione, infatti, si presenta relativamente coerente e i materiali datano la struttura tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. In un secondo momento, ancora di difficile datazione, al podio viene aggiunto un rivestimento in nenfro, utilizzando blocchi di riuso. Probabilmente durante la prima età imperiale parte del podio viene spoliata. Del tempio sembra essersi poi persa memoria, tanto che, tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C., un intervento strutturale danneggia e oblitera parte dell’edificio. Una buca, ricca di materiale da costruzione, anfore e terrecotte architettoniche, tra le quali alcune pregiate lastre Campana data all’età tardo-imperiale la fine della frequentazione della strada che corre a nord del tempio.

LE AZIONI RITUALI Di grande interesse sono le novità relative alle fasi di vita della città prima del tempio. Il materiale proveniente dalle fasi di costruzione, ricco di ceramica di produzione locale e di importazione, evoca azioni rituali: frammenti bruciati intenzionalmente e secondariamente, fondi di vasi forati – verosimilmente, per permettere il flusso di offerte di liquidi – e ancora graffiti, incisioni e iscrizioni. I numerosi frammenti

di tegole, laterizi e di terrecotte architettoniche decorate sono da ricondurre all’età orientalizzante e arcaica: da questi reperti si possono ricostruire alcuni tra i piú antichi tetti di terracotta, da cui si evince per questa parte dell’area urbana un’attività edilizia dinamica e variegata. La roccia madre sotto il tempio era interessata da diverse lavorazioni, alcune funzionali alla corretta posa dei blocchi dell’edificio sacro, altre, invece, da ricondursi ad attività precedenti, databili tra l’età villanoviana e quella arcaica. La roccia conformata in una struttura a gradoni, interessata da diversi piani di calpestio, è stata ripetutamente modificata nel corso dei secoli. Il nuovo tempio ha dimensioni monumentali di 27 x 40 m circa, presenta una struttura analoga a quella del vicino tempio grande e come questo è orientato verso sud. I due edifici di culto componevano un vero e proprio quartiere sacro, affacciato su una piazza e sulla strada principale che collega le porte est e ovest, e dovevano avere un impatto estetico e visivo considerevole per chi si avvicinava alla città, a testimoniare la ricchezza e la potenza della città di Vulci in epoca arcaica. Le ricerche sono dirette da Mariachiara Franceschini

(Università di Friburgo, Germania) e Paul P. Pasieka (Università di Magonza, Germania), che sono anche responsabili della redazione dei risultati e hanno collaborato alla stesura del presente articolo. Alle attività del gruppo di ricerca hanno partecipato studenti e ricercatori tedeschi e italiani. Le operazioni sono supportate da Simona Carosi e Margherita Eichberg (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale) e Carlo Casi (Fondazione Vulci). Il progetto è stato reso possibile dal supporto della Fritz Thyssen Stiftung (2020-2022) e della Gerda Henkel Stiftung (2022-2024).

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A TUTTO CAMPO Mara Sternini

ATENA A STELLE E STRISCE IL PERFETTO EQUILIBRIO DELLE FORME E LA MAGNIFICENZA DELL’APPARATO DECORATIVO DEL PARTENONE NON HANNO RETTO ALL’USURA DEL TEMPO, E, SOPRATTUTTO, AGLI SCIAGURATI INTERVENTI DELL’ETÀ MODERNA. PER AMMIRARNE L’ORIGINARIO SPLENDORE C’È PERÒ UNA SOLUZIONE: BASTA VOLARE AL DI LÀ DELL’OCEANO, FINO A NASHVILLE, IN TENNESSEE...

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I

l Partenone, il monumento piú famoso dell’Atene classica, è un tempio innalzato sull’acropoli e dedicato alla dea Atena, nume tutelare dell’Attica. Iniziato nel 447 e completato nel 433-32 a.C. su progetto dell’architetto Ictino, venne decorato con una serie di rilievi e di sculture realizzate da Fidia e dai suoi allievi. Il nome deriva dalla statua della dea, conservata dentro la cella del tempio, l’Atena Parthenos, cioè vergine, realizzata da Fidia in oro e avorio, da cui l’aggettivo «crisoelefantina». Purtroppo la statua è andata perduta, ma è possibile ricostruirne l’aspetto grazie a una copia romana del

In alto: La ricostruzione dell’Atena Parthenos all’interno del Partenone di Nashville (Tennessee, USA). A sinistra, sulle due pagine: l’Acropoli di Atene, con, al centro, il Partenone, innalzato nel V sec. a.C. su progetto dell’architetto Ictino. II secolo d.C., nota come Atena Varvakeion: la dea è raffigurata in piedi, vestita di peplo ed egida con gorgoneion (testa di Medusa), elmo decorato con due protomi di grifi ai lati e una di sfinge al centro; nella mano destra tiene una vittoria alata e nella sinistra una lancia e uno scudo, all’interno del quale si trova il serpente Erittonio, mitologico re di Atene nato dalla passione di Efesto per Atena, ma generato dalla fecondazione di Ghe, la madre-terra. I fregi erano due; quello dorico, composto da un’alternanza di metope (lastre squadrate decorate con scene in rilievo) e triglifi (lastre scanalate di forma rettangolare),

posizionato all’esterno sui quattro lati del tempio e quello ionico (un fregio continuo) situato sulla parete esterna della cella.

DUELLI E PROCESSIONI Mentre il primo narrava episodi mitologici – la centauromachia, l’amazzonomachia, la caduta di Troia e la gigantomachia... –, quello ionico presentava la processione della cittadinanza ateniese in occasione della festa dedicata alla dea Atena, che culminava nella consegna del nuovo peplo, rinnovato ogni quattro anni. Le sculture frontonali, invece, narravano due episodi della vita di Atena; la sua nascita dalla testa di Zeus (sul frontone orientale) e la

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contesa tra Atena e Poseidone per la tutela dell’Attica (sul frontone occidentale). Naturalmente nel corso dei secoli il Partenone ha subito diverse modifiche strutturali, che ne hanno cambiato la funzione, trasformandolo prima in una chiesa cristiana, poi in una moschea, ma proprio questa continuità d’uso ha permesso una buona conservazione del tempio, almeno fino al 1687 quando, durante la guerra turco-veneziana, il bombardamento dell’acropoli causò l’esplosione della polvere da sparo raccolta all’interno dell’edificio, con danni irreparabili alla struttura. Da quel momento il Partenone sopravvive come una rovina, dalla quale, agli inizi dell’Ottocento, vengono distaccate le sculture e i rilievi superstiti a opera di Thomas Bruce, conte di Elgin (1766-1841), per portarli a Londra, dove vengono acquistati dal British Museum.

Il Partenone di Nashville, la cui realizzazione fu avviata in occasione della Tennessee Centennial Exposition del 1897.

UNA REPLICA FEDELE L’immagine che le rovine del Partenone offrono oggi ai visitatori dell’acropoli non rende onore alla magnificenza di forme e di colori che potevano ammirare i Greci dell’età classica, ma è possibile farsene un’idea recandosi a Nashville, nel Tennessee, dove si trova una ricostruzione in scala 1:1 dell’edificio. L’occasione di realizzarlo fu offerta dalla Tennessee Centennial Exposition del 1897, per la quale vennero allestiti diversi padiglioni in stile classico; tutti gli edifici erano in materiale deperibile perché destinati a essere demoliti dopo la chiusura dell’esposizione, a eccezione del Partenone, rimasto come simbolo della città di Nashville, già nota come «Atene del Sud». Negli anni, tuttavia, la struttura iniziò a deteriorarsi e fu sostituita con un edificio piú solido in

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cemento armato, come poi è avvenuto tra il 1920 e il 1931. La nuova costruzione venne progettata dall’architetto Russell E. Hart (1872-1955), con la consulenza

dell’archeologo William Bell Dinsmoor (1886-1973), mentre le sculture frontonali e parte dei fregi furono messe a punto con i calchi ottenuti dal Victoria and Albert


In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

Museum di Londra, e completati nel 1925. L’ultimo intervento risale agli anni 1982-2002, durante i quali l’artista Alan LeQuire (1955) ha realizzato una copia della

monumentale statua crisoelefantina di Atena, alta circa 12 m, completa di doratura e colore. Oggi il Partenone di Nashville è sede di un museo d’arte

ma, soprattutto, è diventato l’icona di una città americana i cui abitanti, evidentemente, ancora si riconoscono in questo simbolo della cultura classica.

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n otiz iario

INCONTRI Roma

IL VALORE DELLA «VILLEGGIATURA»

«L

uce sull’Archeologia» torna per la decima edizione sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma. Dal 14 gennaio al 14 aprile l’appuntamento con la rassegna di storia e arte si rinnova con sette incontri la domenica mattina alle ore 11,00 – 14 e 21 gennaio, 11 e 25 febbraio, 3 e 10 marzo, 14 aprile 2024 – introdotti da Massimiliano Ghilardi e riuniti dal titolo «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza

ed esperienza di civiltà». Sette appuntamenti per approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storicopolitiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú una vita lontano dalla città e dal centro del potere. Si desidera vivere una vita agiata e i piaceri del paesaggio in contesti extraurbani: «otium cum dignitatem», tempo libero

da dedicare, con tranquillità, alle proprie attività intellettuali, ma anche al disbrigo degli affari politici e degli interessi economici. Regali dimore si arricchiscono di nuovi spazi, destinati non solo al piacere del corpo, come gli impianti termali, ma anche dello spirito, come i giardini per passeggiare, conversare, leggere. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, di «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito in scena dagli interventi di storia dell’arte di Claudio Strinati e dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. Come per le precedenti edizioni, ogni incontro si comporrà come un viaggio di testimonianze, ricerche, riflessioni e immagini con il contributo di storici, archeologi e studiosi d’arte, che guideranno il pubblico sul terreno di una passione comune, quella per la civiltà romana e lo sviluppo delle arti e della storia. La decima edizione aggiunge ai sette incontri un nuovo contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo «La parola oltre il sipario», un momento di riflessione e approfondimento del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico e con rimandi al tempo presente.

DOVE E QUANDO «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà» Luce sull’Archeologia-X edizione Roma, Teatro Argentina dal 14 gennaio al 14 aprile 2024 Info www.teatrodiroma.net

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MOSTRE Roma

UN GRANDE PORTO E LA SUA STORIA

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na delle grandi avventure dell’archeologia italiana del Novecento è stata la scoperta della città-stato etrusca di Spina. Un’avventura, iniziata nel 1922 e che, già rievocata dalle mostre allestite a Comacchio e a Ferrara (vedi «Archeo» n. 449, luglio 2022; on line su issuu.com), viene ora narrata dall’esposizione inaugurata a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia: la «casa» degli Etruschi, come l’ha definito Valentino Nizzo, che ne è l’attuale direttore. Nella mostra, voluta dal Comitato promotore per le celebrazioni del centenario della scoperta di Spina, presieduto da Giuseppe Sassatelli, e dalla Direzione Generale Musei del MiC, la vicenda della città sorta presso il delta del Po viene messa a confronto con quella di Cerveteri e del suo porto principale Pyrgi, per illustrare la vocazione mediterranea dei due centri: uno attivo nell’Adriatico e l’altro nel Mare Tirreno. Lungo il percorso espositivo una

Altorilievo con la saga dei Sette contro Tebe, da Pyrgi. 460 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In basso: frammento di tripode bronzeo prodotto a Vulci, dall’acropoli di Atene. 550-475 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli. selezione di circa seicento reperti tra i piú significativi già esposti a Comacchio e a Ferrara dialogano con cento capolavori del museo romano e – in senso piú lato – con le sue collezioni permanenti. Si ricostruiscono cosí alcuni secoli della storia del Mediterraneo: dal 530-520 a.C. – i decenni che videro la fondazione di Spina – sino al principio del III secolo a.C. quando la città portuale tramontò. Piú di una fonte antica la definisce una città greca, ma la grecità non è confermata dalle fonti archeologiche. L’analisi delle testimonianze epigrafiche suggerisce una prevalenza dell’elemento etrusco: su oltre 200 iscrizioni a oggi recuperate, circa 180 sono etrusche, come ha osservato Giovannangelo Camporeale. In proposito si può segnalare l’iscrizione incisa su un ciottolo: Mi tular («io sono il confine»), databile nei decenni finali del V o al IV secolo a.C. La dimensione mediterranea della città è suggerita anche dal frammento di un tripode in bronzo rinvenuto sull’Acropoli di Atene con l’apoteosi di Eracle e giuntovi

probabilmente con la mediazione di Spina, esposto in Italia per la prima volta. Viene presentato accanto all’Hydria Ricci, che mostra il trionfo dell’eroe insieme alla rivelazione delle pratiche cultuali da parte di Dioniso. Inedito e di suggestione notevole è l’accostamento tra il cratere attico rinvenuto nella tomba 579 della necropoli di Valle Trebba, una delle piú vaste di Spina, e il coevo e altorilievo dal tempio «A» di Pyrgi, consacrato a Leucothea (460 a.C. circa). In entrambe le opere viene raffigurato il mito dei Sette contro Tebe, quale monito contro gli scontri fratricidi. Attributo al Pittore di Bologna 279, il cratere da Spina è databile al 460-450 a.C. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «Spina etrusca a Villa Giulia. Un grande porto nel Mediterraneo» Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 7 aprile 2024 Orario martedí-domenica, 8,30-19,30; chiuso lunedí Info www.spina100.museoetru.it

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

ECCO IL PALCO DELL’IMPERATORE! SCAVI CONDOTTI NEL CORTILE DI PALAZZO DELLA ROVERE, A ROMA, NON LONTANO DALLA BASILICA DI S. PIETRO, HANNO SVELATO I RESTI DEL TEATRO DI NERONE. UNA SCOPERTA DI ECCEZIONALE IMPORTANZA, DI CUI CI PARLA ALESSIO DE CRISTOFARO, RESPONSABILE SCIENTIFICO DELL’INTERVENTO

M

entre Roma brucia, Nerone canta la fine di Troia dal suo teatro privato, racconta Tacito, consegnandoci un’immagine dell’imperatore che – al di là della sua veridicità – è rimasta

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nella storia. L’esistenza di quella «domesticam scaenam» in cui lo storico, negli Annales (libro XV, 39), colloca al sicuro l’imperatore, nel 64 d.C., mentre Roma viene devastata dalle fiamme

dell’incendio, era da tempo ipotizzata dagli studiosi. Non era noto, tuttavia, dove sorgesse il leggendario teatro di Nerone. Fin quando, a due passi dalla basilica di S. Pietro,


In alto: un’immagine emblematica della stratificazione rivelata dagli scavi condotti nel cortile di Palazzo della Rovere, a Roma. A sinistra: fotoelaborazione che mostra la posizione dei resti del Teatro di Nerone (indicati dal cerchio), rispetto all’odierno quartiere circostante la basilica di S. Pietro e alla posizione del circo fatto costruire da Caligola (sulla sinistra). Nella pagina accanto: ortofoto del cantiere di scavo.

nell’ambito dell’indagine archeologica condotta dalla Soprintendenza Speciale di Roma nella corte interna di Palazzo della Rovere, sede dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, sono venute alla luce strutture archeologiche e decorazioni straordinarie,

identificabili con i resti del Theatrum Neronis citato dalle fonti. Abbiamo potuto visitare in via eccezionale lo scavo ancora in corso, intervistando Alessio De Cristofaro, funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle arti e Paesaggio di Roma che dirige le indagini.

Dottor De Cristofaro, perché possiamo pensare che si tratti proprio del teatro di Nerone? «L’area di scavo si trova all’interno degli antichi Horti di Agrippina maggiore, la vasta tenuta della famiglia giulio claudia dove Caligola aveva costruito un grande circo per le corse e Nerone un teatro: ce ne parlano Plinio, Svetonio e Tacito. I resti venuti alla luce corrispondono a parte della cavea e delle relative scale di

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Reperti di epoca medievale restituiti dagli scavi. In basso: un momento delle indagini. Nella pagina accanto, in alto: un bollo laterizio recante il nome di Domizio Afro, la cui ricorrenza, su questo e altri mattoni, ha permesso attribuire all’età neroniana le strutture riportate alla luce.

accesso, della sceneae frons, con sontuose decorazioni architettoniche tra cui pilastri e colonne, degli ambulacri e degli ambienti di servizio alle spalle dell’emiciclo, adibiti forse a spogliatoio o deposito per scenografie e costumi». Quali altri elementi vi hanno portato a questa identificazione? «L’identificazione con il Theatrum Neronis testimoniato dalle fonti antiche nasce dall’incrocio di diversi dati. Nel nostro caso i dati letterari, topografici e archeologici convergono nell’indicare che si tratti proprio del teatro di Nerone. Dal punto di vista archeologico abbiamo il dato planimetrico, che permette di ricostruire una struttura con andamento curvilineo e caratteristiche raffrontabili con un teatro, nonché la presenza di materiale architettonico notevolissimo, tra cui colonne e capitelli in marmi bianchi e colorati di importazione, particolarmente pregiati, che indica una committenza di alto rango. Questi aspetti si combinano con il ritrovamento, sui bipedali delle

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scale di accesso alla cavea, di bolli laterizi che si datano abbastanza precisamente tra l’epoca di Caligola e quella di Nerone, oltre che di elementi decorativi di grande pregio, come gli stucchi rivestiti con foglia d’oro, che trovano confronti precisi con quelli della Domus Transitoria di Nerone a Roma. Perciò abbiamo ipotizzato che si trattasse di un edificio con funzioni di spettacolo

di età giulio claudia. Datazione poi circoscritta all’età neroniana anche grazie alla testimonianza letteraria di Plinio il Vecchio». Cosa racconta Plinio il Vecchio del teatro di Nerone? «Plinio narra che Nerone aveva fatto costruire un teatro “in Trastevere”, cioè sulla sponda destra del Tevere, “all’interno dei suoi giardini”, cioè gli Horti di Agrippina, dove era una delle sue


residenze. Qui l’imperatore effettuava performance teatrali, esibizioni che (narrano altre fonti) erano una sorta di prove delle performance ufficiali che, invece, Nerone teneva davanti a un

pubblico piú ampio nel teatro di Pompeo. Altre fonti, tra cui Svetonio, Tacito e Cassio Dione, raccontano che in occasione degli spettacoli dei Neronia e degli Iuvenalia, l’imperatore era solito

In basso: frammento di un elemento architettonico in stucco decorato con foglia d’oro, una circostanza che ha avvalorato la proposta di identificare le strutture rinvenute con i resti del Teatro di Nerone.

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A COLLOQUIO CON MARZIA DI MENTO

Quei «capricci» preziosi e raffinati... A illustrarci le strutture venute alla luce, a partire dalle eccezionali colonne in marmo, è Marzia Di Mento, archeologa responsabile dello scavo (per la Società MDM Archeologia srls). «Le colonne – spiega Di Mento – sono emerse nel primo saggio realizzato nell’area. Delle tre in marmo cipollino, due sono rudentate e una scanalata, di diametro maggiore, forse rovinata o non finita. Delle restanti, una è in marmo africano e una in marmo bianco, forse greco insulare, di Thasos. Quest’ultima sembra non essere completamente terminata, dal momento che sul fusto sono ancora visibili le tracce di scalpello e manca la fase della lisciatura. Il fatto che non fossero finite non vuol dire che non fossero state poste in opera. Le abbiamo trovate ricollocate nell’area dell’ambulacro, pronte per essere utilizzate, insieme ad alcuni frammenti di lastre marmoree accatastati in prossimità dei vomitoria del teatro. Il riuso di marmi provenienti dagli Horti di Agrippina era già documentato: dall’area dovevano provenire le colonne di granito rosso che ornavano per esempio il chiostro dell’Ospedale Santo Spirito, oggi in Palazzo Braschi. I marmi impiegati per la decorazione del teatro erano di grande pregio: è noto, per esempio, che il marmo tasio veniva in genere utilizzato per la statuaria e non per la realizzazione di elementi architettonici. Il fusto rudentato di marmo africano trova invece confronto con esemplari dal Foro di Augusto. Il capitello in alabastro fiorito di

Hierapolis costituisce un unicum: si tratta di un materiale che è difficile intagliare perchè c’è un alto rischio di rottura, che veniva utilizzato in genere per la realizzazione di colonne dal fusto liscio. Era davvero un capriccio realizzare un capitello in alabastro». Un capriccio molto «neroniano»! «E infatti sono anche questi particolari che fanno pensare a Nerone. C’è la volontà precisa di domare una pietra che naturalmente non si presterebbe a questo tipo di lavorazione». Dove dovevano essere collocate queste sontuose colonne? «È probabile che possano essere attribuite alla decorazione della scaenae frons del teatro, che, a livello di ipotesi, doveva trovarsi in corrispondenza delle scale dell’attuale chiesa di S. Spirito in Sassia, su Borgo Santo Spirito. Il dato interessante è che la chiesa è orientata in maniera diversa rispetto agli edifici circostanti, mentre ha lo stesso orientamento del teatro e dell’edificio di servizio a esso connesso. L’orientamento della chiesa potrebbe dunque essere stato condizionato da strutture antiche preesistenti, oltre che dall’andamento del tracciato viario di età romana ricalcato dall’attuale via dei Penitenzieri». Può dirci qualcosa anche a proposito dei preziosi stucchi a foglia d’oro? «Il sontuoso apparato decorativo è uno degli elementi che ci hanno portato all’identificazione delle strutture con il teatro di Nerone. Gli stucchi con decorazione a

foglia d’oro, per esempio, trovano confronti stringenti con le residenze imperiali neroniane dell’Italia centrale e, in particolare, con le decorazioni della Domus Transitoria e della Domus Aurea». Quali tracce archeologiche permettono di collocare in età neroniana il teatro? «Tra gli elementi di datazione piú significativi figurano i bolli laterizi: la prima serie è quella dei bolli impressi sui sesquipedali della scala di accesso alla summa cavea del teatro, riferibili a Domizio Afro. Il bollo riporta anche il nome del servo Priscus, elemento che, insieme alle vicende legate al rapporto di Domizio Afro con la famiglia imperiale, ci ha portato a circoscrivere la datazione tra il 49 e il 59 d.C. Siamo nella prima fase del principato di Nerone (54-68 d.C.). L’altra serie di bolli, invece, è databile all’età di Vespasiano, che corrisponde alla seconda fase edilizia del complesso e prevede una rifunzionalizzazione del teatro. A

tenere prove aperte al pubblico nelle sue residenze private. Anche Svetonio narra dei canti “in hortis” di Nerone». Chi assisteva alle performance canore e poetiche di Nerone? Quale era il suo «pubblico privato»? «Il suo pubblico era composto dalla corte e poi dai due principali ordini, Senatori e Cavalieri che, come sappiamo dalle fonti, erano obbligati a loro volta a emulare

l’imperatore partecipando in prima persona allo spettacolo come attori. C’era un forte invito a unirsi alla nuova cultura ellenizzante. Alle esibizioni di Nerone, poi, assisteva la plebe urbana: il popolo partecipava con gioia alla visione dello spettacolo poiché riceveva donativi e benemerenze da parte di Nerone, godendo di un’occasione di festa nel senso piú ampio del termine».

Quali odi declamava Nerone in questo teatro? Per esempio, le fonti narrano che l’imperatore, cantando nel teatro urbano di Napoli, avrebbe provocato nientemeno che un terremoto… «Si narra che ci fu un terremoto che fece scappare tutto il pubblico, mentre Nerone continuava a cantare dal palco del teatro di Napoli. L’imperatore aveva una grandissima cultura ellenica, una

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livello di ipotesi, non escludiamo che la trasformazione dell’edificio da spettacolo in area funzionale possa avere una qualche relazione con la damnatio memoriae sancita dal Senato dopo la morte di Nerone. Per cancellare la memoria dell’imperatore poeta e cantore, gli edifici vengono trasformati in aree di servizio per lo stoccaggio e forse la lavorazione di materiale da costruzione e della decorazione marmorea. Tra le trasformazioni subite dall’edificio teatrale figura la realizzazione di un pavimento in opus spicatum e di una rete di condotte idrauliche piuttosto ramificata, evidentemente necessaria alle lavorazioni che qui venivano svolte». Un graffito, inciso su un intonaco rosso, potrebbe avere a che fare con il cantiere per il riuso dei materiali, non è vero?

«Su una parete intonacata abbiamo scoperto un graffito forse identificabile con uno schema di cantiere. Nella parte inferiore è raffigurato quello che potrebbe essere interpretato come un emiciclo, forse il teatro in pianta. Al di sopra sono visibili alcuni quadrati campiti con una “X”, forse i vari settori del cantiere. Si tratta di un’ipotesi in corso di studio: il graffito potrebbe essere in relazione con lo smontaggio del teatro e il riuso dei suoi materiali. Si conservano inoltre resti di stucco che imitano un prospetto architettonico e che dovevano decorare il recinto esterno del teatro. I materiali ceramici datano l’ultima fase di età romana agli inizi del III secolo d.C.; a seguire, fino al X secolo nell’area non si conservano tracce di frequentazione. Pur avendo

fatto una verifica a tappeto, da nessuno degli strati della sequenza scavata provengono infatti materiali riferibili a questa forchetta cronologica. Abbiamo controllato in tutte le cassette di tutti gli strati dello scavo, fino ai materiali rinascimentali: non c’è un solo frammento databile tra il III e il X secolo. Tale circostanza deve necessariamente essere imputata a un intervento in negativo, probabilmente databile in età altomedievale, di cui stiamo ancora cercando di comprendere a pieno la natura».

paideia (educazione greca) molto strutturata: era un appassionato di epos greco e ovviamente della saga di Troia che, ai suoi occhi, rappresentava anche un elemento identitario legato alle origini, essendo i Troiani di fatto gli antenati dei Romani. Cosí Nerone, attingendo a Omero e rinnovando l’epos, riscriveva e ricantava poemi di cui era anche autore». L’esibizione di Napoli non sarebbe

stata l’unica occasione, secondo le fonti, in cui Nerone avrebbe cantato odi dal palco in piena sciagura. La leggenda vuole che nel 64 d.C., durante l’incendio piú violento della storia della città, Roma bruciava e Nerone cantava… esattamente in questo teatro, non è vero? «È un’ipotesi desunta da una certa lettura delle fonti letterarie: durante l’incendio che nel 64 d.C. distrusse

mezza Roma, devastando dieci regioni su 14, Nerone avrebbe guardato le fiamme dal suo palazzo, cantando della rovina di Troia su questo palco. Il teatro infatti è situato all’interno degli Horti Agrippinae, che Nerone aveva ereditato dalla madre Agrippina Minore e che sorgono in una delle poche regioni della città a essere rimasta indenne dall’incendio, poiché collocata al di là del fiume e

Le pregiate colonne marmoree rinvenute in giacitura secondaria nell’area del teatro e destinate, con ogni probabilità, a essere utilizzate come elementi di reimpiego.

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Capitello fiorito in alabastro: si tratta di unicum, anche perché la pietra utilizzata mal si prestava a lavorazioni come quelle richieste da questo genere di elementi architettonici. dunque protetta dalle fiamme. Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi. Di certo le fonti antiche raccontano che le prove degli spettacoli dei Neronia avvenivano negli horti». Ci racconta questo lato – forse poco noto – di Nerone aedo e performer? L’imperatore era bravo a cantare? «Oggi gli storici tendono a rivalutarne il giudizio. Sicuramente aveva studiato: era attore, autore, compositore, musicista e ballerino. Un artista originale ma a tutto tondo. Va detto che l’attività performativa di Nerone, spesso presentata alla cultura popolare come un’eccentricità da istrione, è in realtà un aspetto sostanziale della cultura di massa della società antica: era il modo in cui l’imperatore proponeva una rilettura del materiale mitico o appartenente alla tradizione greco-ellenistica, riattualizzandolo in chiave romana. Comunicando i valori alla base di questo mondo plasmava l’opinione pubblica, faceva propaganda ma creava, al tempo stesso, un tessuto culturale e di conoscenze accessibile a tutti gli strati della popolazione. Si tratta di un’operazione culturalmente molto complessa e importante che, a mio avviso, va vista insieme ad altre grandi operazioni politiche di

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Nerone, a partire dalla celeberrima riforma monetale, che è stata forse la piú importante riforma monetaria dell’antichità, che ebbe come effetto quello di sostenere e incrementare la classe che noi oggi chiameremmo borghesia, ovvero i ceti produttivi, commerciali e finanziari dell’epoca. Nelle politiche di Nerone c’è un’attenzione di tipo sociale, quasi “progressista”, che è importante sottolineare. Quindi Nerone era meno «cattivo» di quanto la storia ci ha voluto far credere? «Non era cattivo affatto: era un uomo di potere del suo tempo. Le fonti letterarie, come sappiamo, seguono modelli e schemi che derivano dalla biografia ellenistica: spesso si appuntano sui fatti della vita privata in un’ottica morbosa, con una pruderie che oggi per noi è difficile da capire, abituati come siamo a una sensibilità vittoriana su questi aspetti. La fortuna e sfortuna moderna di Nerone è legata alle notizie sulla sua presunta depravazione, sui suoi costumi sessuali debosciati, sugli aneddoti che raccontano i perfidi Svetonio e Tacito, raccolti poi da Cassio Dione, ma è chiaro che quella è la visione dei Senatori, che ce l’avevano a morte con Nerone.

L’imperatore non aveva avuto grandi riguardi per la classe senatoria, anzi ne aveva contrastato e persino eliminato fisicamente gli esponenti, soprattutto quando si era liberato della tutela del maestro Seneca, aveva ucciso la madre e avviato una svolta politica. La cattiva fama di Nerone è legata al fatto che le nostre fonti sono quelle di matrice senatoria». Perché la scoperta di questo teatro è particolarmente importante per l’archeologia di Roma? «La cosa interessante è che questi sono i primi edifici realizzati a uso pubblico all’interno di una residenza privata della famiglia imperiale. Si tratta del primo caso di una tenuta suburbana in cui gli edifici di spettacolo vengono non costruiti, ma usati in senso pubblico. Siamo nella XIV regio, area ancora poco urbanizzata e in parte rurale, fuori dal pomerio ma all’interno della linea della citta edificata (che ha già inglobato l’area del Vaticano). A differenza del resto diTrastevere, che nel I secolo d.C. subisce un processo di edificazione molto intenso, quest’area conserva caratteristiche di semi-urbanesimo, poiché il grande complesso degli horti rappresenta una fetta di campagna all’interno della città. E il teatro è il secondo edificio privato costruito dentro il giardino di un imperatore, ma a uso pubblico. Al contrario, la naumachia diTrastevere che Augusto realizzò dopo la morte di Cesare negli horti da lui donati al popolo romano, era tutta pubblica». Quindi il teatro di Nerone è il primo edificio di Roma costruito con funzione pubblica all’interno della proprietà privata di un imperatore? «Sí. Questa è la grande novità di questa scoperta. Sono interessantissimi gli esperimenti e i tentativi fatti da Caligola e Nerone di portare la plebe qui, nel teatro e nel circo, ad assistere a spettacoli pubblici».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

ROVINE E MEMORIA L’articolo di apertura di questo numero è dedicato alla Storia Universale delle rovine di Alain Schnapp, un volume ponderoso, nel quale lo studioso francese esamina e indaga il rapporto tra le rovine di tutti i tempi e le genti a esse coeve. L’originalità della sua visione sta nell’utilizzare il termine «rovine» in senso molto lato, come 4 «memorie», affiancando quindi alle rovine tradizionalmente intese molte altre espressioni della cultura. Qui abbiamo selezionato solo alcune delle innumerevoli rovine comunemente sentite tra quelle piú significative per trasmettere la propria memoria ai 7 posteri. Rovine possono essere intere città, come Micene (1), Pompei (2), Petra (3), Troia (4), Palmira (5), o singoli monumenti, quali il Colosseo (6), il teatro di Epidauro (7), Stonehenge (8), le piramidi e la Sfinge di Giza (9), oppure luoghi di culto, come i templi di File (10), Delfi (11), Machu Picchu (12), le piramidi mesoamericane (13), o, infine, luoghi della memoria legati a particolari eventi come Masada (14). Ma Schnapp, come già detto, considera «rovine» molte altre cose la cui funzione è sempre quella di sottolineare il legame col proprio passato. Sono tali, per esempio, le iscrizioni commemorative dei popoli mesopotamici (15) o le iscrizioni cinesi sui vasi di bronzo (16). Addirittura anche i componimenti dei poeti o dei bardi in alcune civiltà nordiche o musulmano-arabe sono considerati «rovine», perché «mantengono viva la memoria» fino a includere perfino la «poetica» di Petrarca e Dante (17); lo sono finanche le reliquie religiose! Insomma queste poche note rendono solo una pallida idea della vastità del lavoro di Alain Schnapp, inteso a dimostrare come oggi esista un «moderno culto dei monumenti» che facilita il dialogo con le vestigia del passato. Da parte nostra, potremmo sintetizzare (!) il contenuto del libro con una celebre frase dello scrittore Primo Levi (18), sebbene riferita a ben altre tragiche vicende: «Non c’è futuro senza memoria!». IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



CALENDARIO

Italia ROMA Gladiatori nell’Arena

Tra Colosseo e Ludus Magnus Colosseo fino al 07.01.24

Spina etrusca a Villa Giulia

Un grande porto del Mediterraneo Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 07.04.24

Dacia

L’ultima frontiera della Romanità Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 21.04.24

L’Amato di Iside

Nerone, la Domus Aurea e l’Egitto Domus Aurea fino al 14.01.24

Lo sguardo del tempo

Il Foro Romano in età moderna Foro Romano, Tempio di Romolo fino al 28.04.24

Copernico e la rivoluzione del mondo Foro Romano, Curia Iulia fino al 29.01.24

Caere

Storie di dispersione e di recuperi Museo delle Antichità Etrusche e Italiche, «Sapienza» Università di Roma fino al 28.02.24 34 a r c h e o

Fidia

Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 05.05.24

ASCEA (SALERNO) Elea: la rinascita Parco Archeologico di Velia fino al 30.04.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

CANINO (VITERBO) La «prima» Vulci

All’origine della grande città etrusca Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.12.23

FAENZA Terra. Una bottega di ceramisti tra XV e XVI secolo Lo scavo archeologico di Palazzo delle Esposizioni MIC-Museo Internazionale delle Ceramiche e chiesa di S. Maria dell’Angelo fino al 07.01.24

ISCHIA DI CASTRO Il ritorno della biga

I carri in bronzo etruschi di Castro, Vulci e Tarquinia Museo Civico «Pietro e Turiddo Lotti» fino al 31.12.23

MILANO Tesori etruschi

La collezione Castellani tra storia e moda Fondazione Luigi Rovati fino al 03.03.24

Le vie dell’acqua a Mediolanum Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

PORTICI (NAPOLI) Materia

Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23

RIO NELL’ELBA Gladiatori

Francia PARIGI Ritorno dall’Asia

Henri Cernuschi, un collezionista ai tempi del giapponismo Musée Cernuschi fino al 04.02.24

NANTES Gengis Khan

Come i Mongoli hanno cambiato il mondo Château des ducs de Bretagne Musée d’histoire de Nantes fino al 05.05.24

SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Terre del Nilo L’arte dei vasai prima dei faraoni Musée d’Archéologie nationale fino all’08.01.24

Germania BERLINO Derubate-Saccheggiate-Salvate (?) Le tombe di Qubbet el-Hawa Staatliche Museen, Neues Museum fino al 10.03.24

Paesi Bassi LEIDA L’anno Mille

I Paesi Bassi alla metà del Medioevo Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.03.24

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

Regno Unito

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

LONDRA Dalla Birmania a Myanmar

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24

British Museum fino all’11.02.24

Stati Uniti NEW YORK L’Africa e Bisanzio

The Metropolitan Museum of Art fino al 03.03.24 a r c h e o 35


TE NEI LU RR O A GHI SA DEL NT LA A

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

TERRA SANTA

LA

AL TEMPO DI

GESÚ

L’archeologia in Israele alla scoperta della storia, dei protagonisti, dei luoghi

L’altopiano di Masada (propaggini meridionali del Deserto di Giuda). Sulla sua sommità sorse il palazzo fortezza voluto da Erode, espugnato dai Romani nel 73 d.C. al termine di un lungo assedio.

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a nuova Monografia di «Archeo» è andata in stampa pochi giorni dopo l’inizio dell’ennesimo conflitto israelopalestinese: un evento tragico, che, com’è sempre accaduto in frangenti del genere, ha avuto tra i suoi effetti collaterali quello di evocare le ragioni storiche di una contrapposizione agli occhi di molti ritenuta insanabile. E che viene spesso ritenuta tale perché figlia di un contrasto originatosi in tempi ormai remoti e che lo scorrere dei secoli ha incancrenito. Tuttavia, viene da chiedersi, è davvero cosí? Ed è proprio questo l’interrogativo da cui prende le mosse la Monografia, che si concentra, in particolare, sugli anni nei quali si dispiegò la straordinaria vicenda di Gesú, raccontata dai Vangeli, ma inserita nel piú ampio contesto storico e archeologico della dominazione della Giudea da parte di Roma. Nei vari capitoli c’è dunque spazio per gli eventi e i protagonisti di una stagione straordinaria, sia per le implicazioni ideologiche e sociali scaturite dalla diffusione della nuova dottrina, sia per la qualità delle testimonianze che di quell’epoca sono giunte fino a noi: dai resti dell’Herodium ai manoscritti del Mar Morto, dalle rovine di Masada all’eccezionale palinsesto della Città Vecchia di Gerusalemme...

GLI ARGOMENTI

• IL QUADRO STORICO • I MANOSCRITTI DEL MAR MORTO • I PROTAGONISTI: GESÚ,

PONZIO PILATO, ERODE IL GRANDE, FLAVIO GIUSEPPE • ALLA SCOPERTA DEI LUOGHI SANTI



TEMI E PROBLEMI • ROVINE

UN POLIEDRO

CHIAMATO «ROVINA»

COME NON ESISTONO UOMINI SENZA MEMORIA, COSÍ NON CI SONO SOCIETÀ SENZA VESTIGIA DELEGATE A RICORDARE IL PASSATO. IN UN MONUMENTALE VOLUME, APPENA TRADOTTO IN ITALIANO, ALAIN SCHNAPP SI PROPONE DI CHIARIRE IL RAPPORTO INDISSOLUBILE DELLE DIVERSE CULTURE – DAGLI EGIZI AI CINESI, DAI GRECI AI ROMANI, DAL RINASCIMENTO ALL’ILLUMINISMO – CON I MONUMENTI DELL’ANTICHITÀ a cura di Andreas M. Steiner

L

a lingua tedesca conosce un termine potente ma dal significato duplice: Ruinenlandschaft è composto da due sostantivi, Ruine (rovina) e Landschaft (paesaggio). L’espressione accompagna la storia dell’arte europea sin dal Ri-

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nascimento, seguendo i percorsi di un’«estetica del decadimento» sommamente evocata dalle vedute dell’antica Roma di Giovanni Battista Piranesi. La valenza doppia del termine si esplicita, però, solo in traduzione: Ruinenlandschaft signifi-

A sinistra: Abbazia nel querceto, olio su tela di Caspar David Friedrich (1774-1840). Berlino, Alte Nationalgalerie. A destra: un immaginario paesaggio dell’Italia meridionale con le rovine di un antico tempio, olio su tela di Ferdinand Knab (1837-1902).


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TEMI E PROBLEMI • ROVINE

ca «paesaggio di rovine», ma anche «paesaggio in rovina». E cosí, Ruinenlandschaften sono rappresentate dal quadro del pittore e architetto olandese Her man Posthumus (1512/14-1588), intitolato Tempus edax rerum (Il tempo che tutto divora), dalle già citate vedute del Piranesi, dai paesaggi simbolici di Caspar David Friedrich (1774-1840), dalle vedute orientali di David Roberts (1796-1864), dai dipinti preimpressionistici di William Turner (17751851), protagonista indiscusso del movimento romantico. Ruinenlandschaften sono, però, anche le città europee colpite dai bom-

In alto: Il ramo d’oro, olio su tela ambientato sul Lago di Nemi, di J.M. William Turner (1775-1851). Londra, Tate Britain. In basso, sulle due pagine: Paesaggio con rovine romane, olio su tela di Herman Posthumus (1512/14-1588). Vienna. Lichtenstein Museum.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 40 a r c h e o


bardamenti della seconda guerra mondiale. A tempi ancora piú recenti appartiene, infine, una terza categoria che, drammaticamente, racchiude le precedenti due: quella testimoniata dalle vestigia delle antiche città del Vicino Oriente, violate dagli sgherri del sedicente Stato Islamico a metà dello scorso decennio, prime fra tutte la meravigliosa Palmira, un tempo «paesaggio di rovine» e oggi, al contempo, «paesaggio in rovina». È possibile, allora, tentare una definizione inequivoca di questo fenomeno? Qual è, per noi, il senso delle rovine, archeologiche e monu-

In alto: Rovine d’antichi Edifizj, incisione di Giovanni Battista Piranesi. 1743-1744. Washington, National Gallery of Art.

mentali in genere? Quale il loro posto, non solo nel nostro immaginario collettivo, ma anche fuori dai confini occidentali? Nel 2007, un convegno tenutosi a Roma, organizzato dallo studioso (prematuramente scomparso) Marcello Barbanera e intitolato «Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale», aveva per la prima volta

affrontato quel tema su larga scala. Le riflessioni emerse, molteplici e affascinanti, sono in seguito confluite in un omonimo volume, edito nel 2009 da Bollati Boringhieri. Scriveva Barbanera nel saggio introduttivo: «Se la si osserva in una prospettiva storico-culturale – l’unica che permette di abbracciarne la portata intellettuale – la semantica a r c h e o 41


TEMI E PROBLEMI • ROVINE

della rovina si estende su uno spettro amplissimo di ambiti disciplinari, comprendenti letteratura, filosofia, pittura, storia del paesaggio, archeologia, teoria del restauro, architettura, urbanistica, sociologia, psicanalisi e altro ancora. Sarebbe un’impresa titanica soltanto sfiorare le facce molteplici del poliedro rovina: oltre all’ampiezza degli ambiti di ricerca, che necessitano di competenze specifiche, solo se si volesse restare nell’ambito delle rovine archeologiche come allegoria mnesica, sarebbe essenziale procedere con una ricerca comparata attraverso le grandi culture del mondo antico»; e in una nota aggiungeva: «uno studio sistematico di questo genere ha in corso Alain Schnapp».

Una veduta delle rovine dell’antica città carovaniera di Palmira (Siria), prima delle distruzioni perpetrate dall’ISIS nell’estate del 2015. Sullo sfondo, i resti della cittadella fortificata di età mamelucca (1250-1517). 42 a r c h e o

DUE GRANDI MAESTRI Alain Schnapp – archeologo e storico, professore emerito dell’Università di Parigi I (Panthéon-Sorbonne) e formatosi nel solco degli insegnamenti di due grandi maestri del secolo scorso, Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet – è già noto al lettore italiano: risale al 1994 il suo volume La conquista del passato. Alle origini dell’archeologia, pubblicato da Mondadori. Lo studio a cui accennava Barbanera, invece, apparso in Francia nel 2020, è stato appena pubblicato dall’editore Einaudi nella traduzione di Anna Delfina Arcostanzo e Valentina Palombi: Storia universale delle rovine. Dalle origini all’età dei Lumi è un sontuoso volume di oltre 900 pagine, riccamente illustrato, in cui l’autore risponde a una – solo in apparenza – semplice domanda: che cos’è una rovina? Per iniziare quell’impresa, Schnapp chiama a testimone un suo insigne compatriota, il padre d e l ro m a n t i c i s m o f r a n c e s e, François-René de Chateaubriand. Qui di seguito pubblichiamo – per gentile concessione dell’editore Einaudi – ampi stralci dal primo capitolo del libro. (A. M. S.)


CHE COS’È UNA ROVINA? di Alain Schnapp

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essuno ha rivendicato l’universalità delle rovine meglio di quanto abbia fatto Chateaubriand in una celebre pagina del Genio del cristianesimo: Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine. Questo sentimento dipende dalla fragilità della nostra natura, da una segreta conformità fra i monumenti distrutti e la rapidità della nostra esistenza. Tale affermazione è l’esito di un processo assai lungo. Nella sua radicalità, essa rappresenta anche un

invito al confronto. A partire da Diderot,Volney e Chateaubriand si è imposta una visione universale del passato, che attribuisce una certa consapevolezza delle rovine a ogni società e a ogni individuo. Questa concezione è l’esito di quell’immenso lavoro di emancipazione del pensiero che dobbiamo all’Illuminismo. Il primissimo indizio di un concetto di rovine è senza dubbio legato ai megaliti protostorici, le cui dimensioni non possono che trascendere il succedersi delle generazioni. La monumentalità è il primo passaggio di un pensiero sulle roviIn alto: l’archeologo Alain Schnapp. A sinistra: Chateaubriand medita sulle rovine di Roma, olio su tela di Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson, 1810 circa. Saint-Malo, Musée d’Histoire de la Ville et du Pays Malouin.

ne, ma di per sé non è né sufficiente né imprescindibile per la nascita di una specifica poetica su di esse. La forza degli enciclopedisti è stata quella di descrivere le condizioni del suo emergere. Per comprendere meglio la contrapposizione tra le società che hanno a cuore ed esaltano le rovine e quelle che sembrano ignorarle e disprezzarle, è necessario esaminare tutte le sfaccettature, a volte contraddittorie. Da questa tensione fra atteggiamenti «archeofili» e «archeofobi» emergeranno, mi auguro, gli strumenti necessari per delinearne una storia universale. Non si tratterà di una storia di tutte le rovine in tutte le società, ma di un tentativo di esplorazione stratigrafica del pensiero sulle rovine, attraverso le diverse culture che ci hanno lasciato traccia del loro interesse o della loro avversione per il passato. Per gli Illuministi, la rovina è tanto una lezione di storia quanto una lezione di morale e Chateaubriand si dedicò, con una determinazione senza uguali, a rintracciarne i significati universali, che si trattasse di Europa, del Vicino Oriente o delle Americhe. Per lui, tuttavia, le rovine non si identificano solo con le tracce delle azioni dell’uomo, ma anche con l’effetto delle rivoluzioni della natura: anche il mondo minerale, vegetale o animale porta i segni del a r c h e o 43


TEMI E PROBLEMI • ROVINE

passato. Anche quando gli esseri Gli scavi a Torre umani scompaiono, rimangono le Vergata, litografia loro tracce. Gli animali stessi posso- tratta da Memorie no offrirne testimonianza, gli ucceldell’oltretomba li per esempio: di F.-R. de Ci sono popoli dell’Orinoco che non esistono piú; non resta del loro dialetto che una dozzina di parole pronunciate sulle cime degli alberi dai pappagalli tornati in libertà, come il tordo di Agrippina che cinguettava parole greche sulle balaustrate dei palazzi di Roma. Per Chateaubriand le rovine sono da una parte monumenti materiali destinati a decadere con il passare del tempo, ma dall’altra sono costruzioni quasi immateriali derivanti dall’attività umana e dalla

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Chateaubriand, 1850. In alto si riconosce Chateaubriand (al centro) che discute con l’antiquario romano Filippo Aurelio Visconti. In basso sulle due pagine: Viandanti sulla Via Appia Antica, dipinto di Arthur John Strutt, 1858.


loro influenza sugli animali. Nello stesso testo, l’autore si preoccupa della scomparsa degli idiomi europei, come il vecchio prussiano, il basco o il gaelico. Per lui, le lingue sono come monumenti dello spirito che scompaiono con i loro parlanti. La grandezza di Chateaubriand sta nel coniugare le rovine della natura con quelle dell’uomo, la materialità dei resti con l’immaterialità delle lingue, la potenza dell’oblio e la forza della memoria: L’idea di vincere il tempo con un sepolcro, di sforzare le generazioni, i costumi, le leggi, l’età stessa a rompere contro una bara, non poteva capire un’anima volgare. Se è orgoglio, è al

Frontespizio del volume Itinerario da Parigi a Gerusalemme, di F.-R. de Chateaubriand, 1821.

certo d’un genere grande. Una vanità come quella della grande Piramide, che dura tre o quattromila anni, potrebbe alla fin fine ottenere d’esser contata per qualche cosa. Per Chateaubriand le rovine partecipano dell’universale; l’azione del tempo unifica tutto, e le varie ricette che le società utilizzano per mantenerne la memoria fanno parte del medesimo sforzo di lottare contro l’oblio. Che si tratti di grandi uomini o di semplici operai, dei monumenti maestosi che aveva (segue a p. 48)

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TEMI E PROBLEMI • ROVINE

LE ROVINE: CONTINUITÀ O ROTTURA? Gli Illuministi e Chateaubriand hanno unificato il concetto di rovina, ne hanno fatto una sorta di orizzonte invalicabile della storia umana. Questa concezione si è sviluppata in Occidente, sulla base di un approccio nato nel mondo greco-romano e che permea la cultura medievale occidentale. La rovina definita in questo contesto è oggetto di inquietudine e al tempo stesso di ammirazione; porta il segno del passare del tempo e della devastazione che lo accompagna, e contemporaneamente lo splendore monumentale che rivela colpisce l’immaginazione. La nozione di rovina, in Occidente, si è costruita su questa evidente tensione tra continuità e distanza, per usare le parole di Salvatore Settis. La rovina è il segno In basso: uomini del Madagascar davanti a un monolito (vatolahry), cartolina anonima. Parigi, Museo Quai Branly-Jacques Chirac. Nella pagina accanto: uomini armati presso le rovine della città sumera di Ur (nell’odierno Iraq meridionale), in una foto del 1916.

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della gloria di sovrani e imperatori; anche se le gigantesche architetture dell’Impero romano pesano sui contemporanei, la loro massa fa ombra al presente. Questo equilibrio instabile tra distanza e continuità può oscillare, poiché dipende dalla capacità di interpretare e datare i monumenti. L’affermazione della sensibilità per le rovine nel Rinascimento nasce dal desiderio di sapere e dalla volontà di riconoscere loro il legittimo ruolo di testimoni di una grandezza passata che non offende il presente… Questa rivendicazione, una volta assunta pienamente, alimenta un ricorso all’antichità non piú soltanto istituzionale ma culturale, fino ad arrivare alla costruzione, da parte dell’Illuminismo, di una sorta di «universale» delle rovine. Una tale narrazione si rivela essere, alla fine dei conti, una narrazione continuista. Ma cosa possiamo dire del Medio Oriente o della Cina? I sovrani dell’antico Egitto e della Mesopotamia fecero dei loro templi, dei loro palazzi e delle loro opere d’arte uno strumento di potere destinato a durare attraverso le generazioni e si dotarono di sofisticate strategie di scrittura che permisero di elaborare una tradizione e di condividerla. Tuttavia, già in epoca ellenistica, il loro messaggio era stato in larga parte dimenticato, era evidente un senso di discontinuità, che fu rafforzata con la comparsa dell’Islam e la sua nozione di jahiliya, l’«età dell’ignoranza», che caratterizza tutto ciò che lo ha preceduto. Si vedrà, tuttavia, che questo concetto non ha impedito l’emergere nel mondo islamico di un’estetica delle rovine combinata con una poetica dell’erosione e della perdita. Di fronte al mondo vicino-orientale e islamico, quello cinese rivendica con forza una continuità incrollabile che non ha tanto a che fare con i monumenti quanto piuttosto con le iscrizioni e i vasi rituali. Eppure, anche la Cina ha sperimentato tentativi di sradicamento del passato perfino violenti, come quello del Primo imperatore o della Rivoluzione culturale. Alcune società, come la Cina antica, sono


edificate su una volontà di memoria collettiva quasi incrollabile e hanno sviluppato strumenti specifici per proteggere il loro patrimonio, sia esso materiale o immateriale. Altre hanno visto nelle rovine mucchi di pietre o mattoni di cui ci si poteva utilmente sbarazzare. Altre ancora hanno espressamente organizzato la ciclica

distruzione delle loro architetture di legno leggero e di paglia, per poterle ricostruire meglio. Il concetto di rovina non può rimanere limitato all’architettura in pietra, ma compare anche in altri aspetti, riscontrabili tanto nel mondo cinese quanto in alcune società africane od oceaniane, e può assumere una forma ampia, che unisce oralità e materialità. a r c h e o 47


TEMI E PROBLEMI • ROVINE

UNA GENEALOGIA DELLE ROVINE La consapevolezza del passato, in Occidente come in Oriente, è spesso il risultato di un dialogo tra monumenti, memoria orale e tradizione scritta; tuttavia, alcune società non dispongono né di architettura né di scrittura. Lo scopo del presente studio è quello di identificare le linee di forza che rendono possibile il confronto con il passato in qualsiasi circostanza. In prima battuta, mi propongo di esplorare le varie istanze della memoria collettiva in quei tipi di civiltà che, a differenza dell’Occidente o del Vicino Oriente, non privilegiano i monumenti come garanzia di continuità, ma utilizzano la memoria orale in combinazione con alcuni siti, oggetti o frammenti di oggetto per rievocare il passato. Nella maggior parte dei casi, si tratta di società senza scrittura. Il caso dell’India, tuttavia, dimostra che questo rifiuto della monumentalità non è necessariamente legato all’assenza di tradizioni scritte. Possiamo osservare, del resto, che mentre alcune società, pur padroneggiando la scrittura, si tengono lontane dalla storia e dalle rovine, altre, come quelle precolombiane, hanno sviluppato una ricca tradizione di riutilizzo e di esumazione di frammenti di edifici e oggetti antichi, senza però

trasmetterci una poetica delle rovine. Allo stesso modo, i cacciatoriraccoglitori Aranda in Australia non sanno che farsene delle rovine ma, come molte società in Asia, Africa e

Oceania, possiedono oggetti di memoria. Il rapporto tra la poetica della memoria e le vestigia, le tracce e persino le macerie del passato è il filo conduttore di questo libro…

ammirato durante il suo «itinerario da Parigi a Gerusalemme» oppure di quelli fragili dei nativi americani che aveva potuto osservare durante il viaggio in America: tutto ha un senso. Chateaubriand è affascinato dall’infinita capacità di resistenza dell’uomo di fronte al tempo, dalla sua propensione a lasciare tracce di sé. Dimostra la medesima curiosità per le antichità romane e celtiche, prima di interessarsi a quelle della Grecia: «fra i monumenti

degli uomini, io non conosceva ancora che due specie di antichità, la celtica e la romana; mi rimaneva a percorrere le rovine d’Atene, di Menfi e di Cartagine». L’inusuale citazione dell’antichità celtica rappresenta piú che un semplice omaggio alla sua patria bretone e apre piuttosto la riflessione sull’origine dei megaliti e dei menhir che costellano il territorio europeo e che, all’inizio del XIX secolo, cominciano a diven-

tare un oggetto privilegiato della curiosità antiquaria. Appassionato di lingue e monumenti, Chateaubriand si adopera per arrivare a poter definire le rovine come una delle caratteristiche universali della condizione umana. Ben r icordiamo come l’Encyclopédie volesse limitare l’uso della nozione di rovine alla descrizione di «palazzi e tombe sontuose», cosa che aveva provocato un ripensamento in Diderot:

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Churinga (oggetti sacri rappresentanti gli antenati totemici) di un uomo della tribú centroaustraliana degli Aranda. Nella pagina accanto, a sinistra: scultura cerimoniale (malangan), dalla Nuova Irlanda, Papua Nuova Guinea. Parigi, Museo Quai Branly-Jacques Chirac.


Un’altra cosa che accrescerebbe ulteriormente l’effetto delle rovine è una forte immagine delle vicissitudini del tempo. Ebbene, quei potenti della terra che pensavano di costruire per l’eternità, che si sono fatti residenze tanto superbe e che, nei loro folli pensieri, le hanno destinate a una ininterrotta successione di discendenti, eredi del loro nome, dei loro titoli e della loro opulenza: delle loro opere, delle loro enormi spese, delle loro grandi visioni, non restano che le La natura si appropria di un monumento di epoca khmer nel sito di Sambor Prei macerie che servono da rifugio alla par- Kuk (Cambogia). a r c h e o 49


TEMI E PROBLEMI • ROVINE

Tutte le società devono affrontare il passato, anche quelle che cercano di dimenticarlo. Sono gli scomparsi a dare profondità temporale agli uomini del presente… Paesaggio con rovine e un’antica tomba, dipinto di Nicolas Poussin (?), 1634 circa. Madrid, Museo del Prado.

te piú indigente e piú sfortunata del genere umano; piú utili nel loro stato di rovina, di quanto non lo fossero nella loro originaria grandezza (I salons, 2021, Bompiani, Milano). Per l’autore, la memoria collettiva è una necessità stringente, anche se a volte non va d’accordo con la giustizia sociale. Chateaubriand non si avventura su un terreno di questo genere; guarda le rovine con la distanza del filosofo e la curiosità comparativa del grande viaggiatore. Nell’autunno incantato della sua nativa Bretagna, riesce a scoprire tracce che, se pur evanescenti, sono impronte del tutto leggibili dello scorrere del tempo e della forma del destino. Alla vista del contadino bretone che rivolta la terra, fa questa riflessione: mi fermavo a guardare quell’uomo germogliato all’ombra delle spighe in mezzo alle quali sarebbe stato mietuto e che, rivoltando la terra della sua tomba con il vomere dell’aratro, mescolava il suo sudore bruciante alle piogge gelide dell’autunno: il solco che scavava era il monumento destinato a sopravvivergli. Cosa faceva di fronte a questo spettacolo il mio elegante demone femminile? Con la sua magia mi trasportava sulle rive del Nilo, mi faceva vedere la piramide egizia sommersa dalla sabbia, come un giorno il solco armoricano sarebbe rimasto nascosto sotto la brughiera: mi compiacevo con me stesso per aver posto le favole della mia felicità al di fuori dell’ambito delle realtà umane. Al di là dell’apologia cristiana del 50 a r c h e o


ritorno alla terra, Chateaubriand osa una parabola archeologica: di fronte al tempo, l’umile solco dell’aratore bretone conoscerà lo stesso destino della splendente piramide. Questa sarà coperta dalla sabbia,

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

quello dall’erica.Tanto il gigantesco monumento del faraone, quanto la debole traccia dell’aratore verranno deteriorati dall’azione del tempo e dalla forza ineluttabile della natura. Per lui, c’è un unico filo a collegare

la traccia, un semplice segno sulla superficie del terreno, le vestigia, impronte piú o meno leggibili di un’azione naturale o umana e la rovina in senso stretto, intesa cioè come la rapida o lenta disintegrazione di un paesaggio geologico o di un monumento costruito dall’uomo. Il punto di forza di Chateaubriand consiste nell’intendere la rovina come una sorta di dato immediato della coscienza, un ponte tra natura e cultura. Diderot era stato tra i primi a notare la relazione tra le «due eternità», quella della natura e quella dell’infinita successione delle generazioni umane. Chateaubriand riprende questo tema, ma lo fa da una diversa angolazione, che raffronta la storia della natura con il destino umano. Ci sono due tipi di rovine: uno, opera del tempo; l’altro, opera degli uomini. Le prime rovine non hanno nulla di sgradevole, poiché la natura opera con l’andar degli anni. Se gli anni fanno macerie, la natura vi semina fiori; se scoperchiano una tomba, la natura vi pone il nido di una colomba: incessantemente occupata a rigenerare, la natura circonda la morte delle piú dolci illusioni della vita. Le seconde rovine sono piú devastazioni che rovine: non offrono che l’immagine del nulla, senza una potenza riparatrice. Opera del male e non degli anni, assomigliano ai capelli bianchi sulla testa della giovinezza. Le distruzioni degli uomini sono d’altronde piú violente e piú complete di quelle delle età: le seconde corrodono, le prime distruggono. DA LEGGERE Alain Schnapp Storia universale delle rovine Einaudi, Torino, 936 pp., ill. N.T. 120,00 euro ISBN 9788806252649 www.einaudi.it a r c h e o 51


DONNE DI POTERE/6

MADDALENA

CHI ERA COSTEI? PECCATRICE REDENTA, PROSTITUTA, «COMPAGNA» DI GESÚ... IL PROFILO DI MARIA DI MAGDALA, NEL TEMPO, È STATO ASSAI VARIAMENTE DEFINITO. ECCO ALLORA COME UNO STORICO DEL CRISTIANESIMO PARTE DALLE TESTIMONIANZE DEI VANGELI – SPESSO IN DISACCORDO – PER RICOSTRUIRNE UNA BIOGRAFIA CREDIBILE di Andrea Nicolotti

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I

Vangeli piú antichi – Marco, Matteo, Luca, Giovanni e Pietro – menzionano una certa Maria soprannominata «la Maddalena». Ciò probabilmente significa che era originaria di Magdala, una città che secondo il Talmud distava all’incirca 20 minuti di cammino da Tiberiade, sulla sponda occidentale del lago di Genezaret. L’etimologia del nome Magdala rimanda all’ebraico migdal, che significa «torre». Per tutto il periodo della predicazione di Gesú nessuno fa parola di questa donna, se non in un’occasione. Il solo evangelista Luca (8,2-3) riferisce infatti che quando Gesú viaggiava, attraversando città e borgate per portare l’annuncio del regno di Dio, «vi erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti maligni e da malattie: Maria, detta la Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre». Tutte queste, aggiunge, attingevano «dalle loro sostanze» per assistere Gesú e il gruppo dei suoi dodici seguaci. Poi, un lungo silenzio. Di questa indemoniata guarita non si sa piú nulla, fino a quando, all’ultimo giorno di vita di Gesú, altri due evangelisti (non Luca, che in quell’occasione non fa alcun nome) la ricordano fra il gruppetto di donne che, trovandosi a Gerusalemme nel giorno della crocifissione del loro maestro, stanno a guardare «da lontano» il suo supplizio (Matteo 27,55-56; Marco 15,4041). Si precisa che le donne provenivano dalla Galilea, come anche Gesú, e che lo accompagnavano e lo servivano. Invece l’evangelista Giovanni (19,25) racconta qualcosa di diverso: la Maddalena non era

Crocifissione, scena facente parte degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. 1303-1305. Al centro, inginocchiata a baciare i piedi del Cristo, è la Maddalena.

lontana dalla croce, bensí piuttosto vicina, abbastanza da poter udire le parole del crocifisso. Con lei c’erano anche Maria la madre di Gesú, la di lei sorella e il discepolo da lui amato. Maddalena non abbandona Gesú nemmeno dopo la morte, ed è testimone silente del suo seppellimento (Matteo 27,61; Marco 15,47; Luca 23,55 ne tace ancora una volta il nome).

PIETRE ROTOLANTI All’alba della domenica mattina Maria Maddalena si dirige di nuovo al sepolcro. Secondo alcuni vi si reca assieme alle altre donne (Matteo 28,1-11; Marco 16,1-8; Luca 24,1-11; Pietro 50-55) per vedere la tomba, per onorare il defunto o per portare unguenti da effondere sul suo cadavere. I racconti a questo punto si fanno un po’ contraddittori, perché, secondo Matteo, all’arrivo delle donne avviene un terremoto provocato dal sopraggiungere di un angelo che rotola la pietra del sepolcro e vi si siede sopra; invece per Marco, Luca, Giovanni e Pietro, quando le donne arrivano, la pietra è già stata rotolata. Si narra che le donne hanno una visione angelica di qualche tipo: vedono un giovinetto dentro il sepolcro seduto a destra (Marco) o nel mezzo (Pietro); oppure un angelo seduto sopra la pietra esterna (Matteo), o due uomini che si avvicinano, ma solo dopo che le donne erano entrate (Luca). Vengono informate che Gesú non è piú nella tomba. Secondo Matteo e Luca, le donne corrono subito ad avvisare gli altri discepoli, mentre per Pietro soltanto fuggono impaurite; Marco, invece, afferma che non diranno niente a nessuno. Il solo Matteo aggiunge che dopo gli angeli appare anche Gesú, esortandole ad annunciare quanto hanno veduto. La contraddizione fra chi dice che la Maddalena e le donne parlano e quanti sostengono che restano in

silenzio è cosí stridente che qualcuno successivamente deciderà di aggiungere al Vangelo di Marco un finale che corregge maldestramente quanto detto in precedenza, per allinearlo agli altri due Vangeli (16,9-11): «Gesú, essendo risuscitato la mattina del primo giorno della settimana, apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale aveva scacciato sette demòni. Questa andò ad annunziarlo a coloro che erano stati con lui, i quali facevano cordoglio e piangevano. Essi, udito che egli viveva ed era stato visto da lei, non lo credettero». E il Vangelo di Giovanni? Esso racconta una storia alquanto diversa (20,1-18): la Maddalena va al sepolcro da sola e, dopo aver trovato la pietra della tomba già ribaltata, corre da Simon Pietro e dal discepolo amato da Gesú per avvisarli che il corpo è stato derubato. Pietro e l’altro discepolo accorrono, vedono la tomba vuota e tornano a casa. Invece Maria, che era rimasta in lacrime presso il sepolcro, una volta affacciatasi alla porta vede due angeli seduti, che prima non c’erano, e poi, voltatasi indietro, Gesú stesso. Inizialmente lo scambia per un giardiniere, e gli chiede dove è stato messo il corpo di Gesú. Ma quegli, chiamandola per nome, si fa riconoscere. «Non mi toccare, perché non sono ancora asceso al Padre», le dice, e la manda ad annunciare a tutti quanto è accaduto. Tornata dai discepoli, ella testimonia di aver veduto il Signore.

LE PRIME RILETTURE GNOSTICHE Con questo episodio si conclude, nei Vangeli piú antichi, ogni riferimento alla Maddalena. Risulta che gli evangelisti la consideravano una discepola della Galilea la quale, come le altre donne, pur avendo un ruolo importante all’interno del gruppo dei seguaci di Gesú, non svolgeva attività di predicazione, limitandosi a incombenze piú che altro di indole pratica. Di opinione a r c h e o 53


DONNE DI POTERE/6

diversa era invece l’autore del Vangelo di Tommaso, che mette in bocca all’apostolo Pietro, irritato dal vedere quale fosse l’importanza della donna nel gruppo, il rifiuto di accompagnarsi a lei, perché «le donne non sono degne della vita». Quest’espressione verosimilmente significa che Pietro desiderava che fossero escluse dalla guida delle esperienze spirituali; ma Gesú gli risponde, curiosamente, che piuttosto agirà verso le donne in modo da renderle maschi. 54 a r c h e o

Di qui in avanti comincia una pesante rielaborazione. Nei testi gnostici la Maddalena compare piú volte: nel Vangelo di Filippo, in particolare, risulta essere la piú amata da Gesú e viene definita quale sua «compagna», che da lui veniva spesso baciata. Sono testi che non vanno interpretati alla lettera, bensí nel loro contesto, tenendo conto del fatto che sono portatori di una filosofia che propugnava il rifiuto radicale della sessualità e della riproduzione: i baci di Gesú alla Maddalena

Resurrezione di Lazzaro, un’altra scena facente parte degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. 1303-1305. Ai piedi del Cristo, si prostrano le sorelle del resuscitato, Marta e Maria. Nella pagina accanto: Cena di Gesú in casa del fariseo, scena dell’Albero della Vita e Ultima Cena, affresco (staccato) di Taddeo Gaddi. 1345-1350 circa. Firenze, Santa Croce, Cenacolo. Al centro, in basso, Maria Maddalena deterge i piedi del Cristo con un unguento profumato.


non vanno intesi come la prova di un amore carnale fra i due, o addirittura di un matrimonio – come talora è stato fatto da alcuni romanzieri contemporanei – bensí come il simbolo della comunicazione reciproca di rivelazioni gnostiche. Il pensiero gnostico diede anche origine a un Vangelo di Maria Maddalena – di cui possediamo alcuni frammenti –, nel quale la donna raggiunge l’apice del suo prestigio carismatico come privilegiata discepola del Signore. È forse la prova dell’esistenza, verso la fine del II secolo d.C., di comunità cristiane che prevedevano un maggiore coinvolgimento delle donne in ruoli dirigenziali? È possibile; ma da testi di questo genere, e da altri Vangeli e racconti tardivi che amplificano quanto raccontato dai Vangeli piú antichi, è assai improbabile che si possa ricavare qualche notizia sul personaggio storico originario. In nessun Vangelo, comunque, si legge che Maria Maddalena fosse una prostituta. Da dove è nata, allora, quest’opinione tuttora cosí fortemente radicata?

UNA, DUE O TRE MARIE? Per comprendere come la Maddalena possa essere stata trasformata in una prostituta occorre volgersi nuovamente ai Vangeli piú antichi, allargando lo sguardo alle vicende di due altre donne. La prima è una peccatrice della quale non viene fatto il nome, che – secondo l’evangelista Luca (7,36-50) – durante un banchetto offerto a Gesú da un fariseo, si presentò e ottenne la remissione dei propri peccati dopo avergli bagnato di lacrime e unto di olio profumato i piedi, asciugandoli con i propri capelli. In tutti e quattro i Vangeli canonici compare poi un’altra donna di nome Maria, nativa di Betania e sorella di Marta e di Lazzaro, che al contrario di sua sorella viene descritta come molto attenta agli insegnamenti del Maestro; si dice che pochi

giorni prima della passione unse di profumo il capo e i piedi di Gesú suscitando le critiche dei discepoli, specie di Giuda Iscariota (Matteo 26,6-13; Marco 14,3-9; Luca 10,3842; Giovanni 11,1-12,8). Abbiamo dunque sotto gli occhi tre donne: Maria Maddalena, una peccatrice anonima e Maria di Betania. È però facile intuire che Maria di Betania e la peccatrice potrebbero essere facilmente confuse, perché entrambe sono descritte nell’atto di ungere Gesú. Non potrebbe forse trattarsi del medesimo episodio narrato con parole diverse? La peccatrice anonima, poi, non potrebbe essere la stessa Maria Maddalena che era stata liberata dai sette demòni (e dunque era schiava dei peccati)?

Infine, Maria Maddalena e Maria di Betania hanno lo stesso nome: non sarà forse un’unica Maria, descritta con appellativi diversi? Se dunque la peccatrice e la Maddalena fossero la stessa persona, e se Maria di Betania e la peccatrice lo fossero altrettanto, se ne dovrebbe dedurre che Maria Maddalena e Maria di Betania sono due denominazioni alternative riferibili a un’unica Maria. Ecco perché alcuni, in passato, hanno creduto che le tre donne fossero in realtà due, o addirittura una soltanto. Questa posizione sarebbe forse rimasta una pura teoria, se non fosse stata abbracciata da un uomo capace di darle una spinta fortissima. Verso il 590, infatti, papa Gregorio Magno

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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DONNE DI POTERE/6

nella basilica romana di S. Clemente, durante una sua omelia ebbe a pronunciare queste parole: «Crediamo che questa donna che Luca chiama peccatrice e che Giovanni chiama Maria sia quella Maria dalla quale – afferma Marco – furono cacciati sette demòni». Per il grande papa i sette demoni simboleggiano tutti i vizi; per gli ebrei il numero sette, come è noto, significa la totalità. Per lui, dunque, la Maddalena è una grande peccatrice; e una donna estremamente peccatrice, nell’immaginario del tempo, sarà certamente stata anche una prostituta. Gregorio Magno aveva torto, ma trascinò in questo errore tutta la Chiesa occidentale.

UNA COINCIDENZA IMPROBABILE Ciò che sembra piú difficile da giustificare è che Maria di Magdala e Maria di Betania sorella di Lazzaro possano considerarsi la stessa persona. Il nome della città e l’indicazio-

ne della parentela servivano proprio per non indurre confusione: se le due Marie fossero state la medesima persona, non si capirebbe perché Luca avrebbe adottato denominazioni diverse per identificarle, senza mai specificare che si trattava di appellativi alternativi. Il fatto poi che Maria Maddalena fosse stata liberata da sette demòni può certamente aver indotto a pensare che si trattasse della peccatrice; la possessione diabolica e la condizione di peccato, però, sono due cose diverse. E come si può pensare che Luca nel suo Vangelo abbia potuto nominare queste due donne a breve distanza l’una dall’altra senza sottolinearne l’identità? Quanto a Maria di Betania, può essere identificata con l’anonima peccatrice? È quanto, soprattutto nel passato, hanno ritenuto diversi commentatori, ipotizzando che i due racconti di unzione non fossero altro che la descrizione di un

unico avvenimento. Ma anche qui vi sono forti elementi che fanno pensare il contrario. Ecco dunque spiegata l’origine della diceria per cui la Maddalena fosse una prostituta: nel tentativo di dare un nome all’anonima donna peccatrice del racconto evangelico, si volle sovrapporla alla figura di Maria di Magdala. L’insegnamento del papa in Occidente fece a lungo scuola, fatta eccezione per Pascasio Radberto, Bernardo e Nicola di Noli me tangere, ancora una scena facente parte degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. 1303-1305. Maddalena, inginocchiata, ha appena incontrato il Cristo risorto.

EVOLUZIONE DI UN’ICONOGRAFIA Nelle piú antiche raffigurazioni orientali la Maddalena compare in scene che richiamano i racconti evangelici, principalmente in relazione al gruppo delle donne mirrofore che si recano al sepolcro di Gesú. In Occidente, invece, la mescolanza delle caratteristiche di Maria Maddalena con quelle di Maria di Betania e dell’anonima peccatrice si riflette ben presto anche nell’iconografia: oltre agli episodi dei Vangeli a lei certamente attribuibili – la presenza alla crocifissione, la sepoltura di Cristo, il viaggio alla tomba con le mirrofore, l’incontro con il Risorto (soprattutto la scena del noli me tangere, il «non mi toccare» pronunciato da Gesú) e l’annuncio agli apostoli – si aggiungono quelli ascrivibili alle altre due donne: il perdono dai peccati, la cena in casa del fariseo con l’unzione dei piedi di Gesú, la presenza alla risurrezione di Lazzaro. Anzitutto, spesso è una donna bellissima d’aspetto. A partire dal XII secolo appare rivestita di un abito ricco e pregiato, con il capo ricoperto, prima della sua conversione;

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oppure con una lunga veste e mantello, o ancora, sulla base delle leggende che ne facevano un’eremita, ricoperta da una lunghissima capigliatura. Dal XVI secolo, invece, si pone maggiore accento sulla sua nudità. I suoi attributi iconografici sono il vaso d’unguento usato per profumare Gesú, il vasetto degli aromi che portava al sepolcro, oppure immagini del diavolo o dei suoi vizi. Talvolta è ritratta assieme ai suoi presunti fratelli Marta e Lazzaro, o con Giovanni Battista, per via del fatto che anch’egli era vissuto nel deserto come un eremita; o ancora, con altri uomini che vissero nel deserto, come Girolamo o Maria Egiziaca. Oltre che dagli episodi della Maddalena narrati dai Vangeli, gli iconografi hanno tratto ispirazione dalle scene leggendarie successive, come il viaggio per nave dalla Galilea in direzione della Francia, l’approdo a Marsiglia, la predica a Massimino, l’incontro con il principe locale, l’ultima comunione, la morte, la sepoltura e l’assunzione in cielo.


Chiaravalle, che vi si opposero. In Oriente, invece, dove la voce del papa non aveva lo stesso peso, le tre donne vennero sempre tenute ben separate fra loro. Il primo tentativo organico di rimettere in discussione in Occidente il problema dell’identità della Maddalena e della peccatrice si deve a Jacques Lefèvre d’Étaples (1450 circa-1536); l’insigne umanista e filosofo francese, di temperamento profondamente religioso, nel 1517 e

nel 1519 pubblicò due saggi su Maria Maddalena tentando di provare che l’anonima peccatrice, Maria di Betania e Maria di Magdala erano tre persone differenti. Ne nacque una lunga polemica tra studiosi nota come «questione delle tre Marie», che toccò anche il mondo protestante. La questione è abbastanza intricata, ma oggi i critici sono propensi a distinguere i tre personaggi o, piú raramente, ad ammetterne almeno due. Quel che è certo, è che

da nessuna parte si dice che la Maddalena fosse una prostituta.

UN CULTO MILLENARIO Maria Maddalena appare all’interno del culto cristiano abbastanza presto, in relazione al ciclo liturgico pasquale. Nel rito bizantino in una domenica successiva a Pasqua, si commemorano ancora oggi le donne «mirrofore», cioè le portatrici di aromi al sepolcro di Gesú, fra le quali Maria ha preminenza. Il gior-

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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DONNE DI POTERE/6

no festivo espressamente a lei dedicato è il 22 luglio, e sappiamo che la città di Efeso giocò un ruolo importante nella scelta di questa data: infatti si narrava che, dopo la morte di Gesú, la Maddalena avesse vissuto in quel luogo, nel quale si sarebbe trasferita per vivere accanto a Giovanni l’evangelista (lo afferma già il patriarca Modesto di Gerusalemme verso il 630). Sarebbe morta proprio lí, il 22 luglio: una data accolta anche in Occidente, come testimonia per primo Gregorio di Tours nel 590. Il Sinassario bizantino – una raccolta di vite di santi che si deve fondamentalmente all’imperatore Costantino VII Porfirogenito (945959), ancora oggi letto nel corso della liturgia – ricorda gli elementi fondamentali di questa leggenda: la presunta tomba della Maddalena a Efeso – forse un edificio privo del tetto – si trovava presso l’entrata della grotta nella quale si erano as- In alto: il presunto teschio di Maria Maddalena, conservato nella basilica di sopiti i famosi Sette dormienti. Saint-Maximin-la-Sainte-Baume, in Francia.

SETTE IN UNA GROTTA Dunque in Oriente la vicenda di Maria si intrecciava con un’altra leggenda molto nota a Efeso. Si raccontava infatti che, nel 249, durante la persecuzione dei cristiani da parte dell’imperatore Decio, dopo diversi interrogatori sette giovani si erano rifugiati in una grotta in cui furono murati vivi; addormentatisi, si risvegliarono miracolosamente quasi duecento anni piú tardi, nel 408, e dopo aver testimoniato la realtà della risurrezione agli abitanti della città si spensero definitivamente e furono sepolti nella grotta stessa. La genesi di questo racconto è probabilmente contemporanea al concilio di Efeso del 449; con varie modifiche, poi, esso si era diffuso in Occidente e se ne trova traccia anche nel Corano. È possibile che già nel VI secolo il luogo della grotta dei Sette dormienti fosse stato messo in relazione alla presunta tomba della Maddalena; ma sappiamo che nel 1105, quando l’egumeno (carica 58 a r c h e o

Nella pagina accanto: statua raffigurante Maria Maddalena nella basilica a lei intitolata a Vézelay (Borgogna, Francia). In basso: le presunte reliquie della Maddalena nella cripta della basilica borgognona di S. Maria Maddalena a Vézelay.

equivalente a quella di abate presso i monaci latini, n.d.r.) russo Daniele andò in pellegrinaggio presso quel sepolcro, lo trovò vuoto. Dov’era finito, allora, quello che si

riteneva essere il corpo della Maddalena? Era stato spostato a Costantinopoli al tempo dell’imperatore Leone VI il Saggio (886-912) per raggiungere il monastero di S. Laz-


zaro da lui stesso fondato, dove era già stato traslato anche il corpo di Lazzaro di Betania. Questa notizia si trova in diversi testi cronachistici a partire dal X secolo, nei quali si specifica che il monastero era collocato nel quartiere Tòpoi, cioè nella parte bassa del Promontorio del Serraglio che guarda verso est, vicino al mare. Di questo monastero, ora completamente scomparso, si può appena dedurre quale fosse la posizione. È evidente che, una volta spostate le reliquie, Efeso perse interesse per il culto della santa; e nemmeno a Costantinopoli questo interesse riprese forza, e non diede origine a ulteriori leggende. In Occidente, invece, l’attenzione per la Maddalena si sviluppò piú tardivamente, ma ebbe un esito del tutto diverso. Si dovette infatti aspettare l’XI secolo per assistere a una fioritura del culto della Maddalena in Francia; ma da quel momento esso non ebbe piú freni. Il primo importante centro cultuale fu un’abbazia borgognona fondata due secoli prima a Vézelay, posta inizialmente sotto il patrocinio della vergine Maria. Lí un certo abate Geoffroy, eletto nel 1037, diede un fortissimo impulso al culto della Maddalena e fece circolare la notizia che il corpo della santa fosse conservato proprio a Vézelay. Su questa base, nel giro di un decennio, Geoffroy ottenne il cambiamento di patrocinio dell’abbazia in favore della Maddalena, con tanto di approvazione di papa Leone IX. Per dare giustificazione a tali pretese, in quegli anni vennero fabbricati documenti agiografici inattendibili, nei quali si raccontava che la donna era fuggita dalla Terra Santa con Massimino, uno dei 70 discepoli, e dopo essere approdata a Marsiglia aveva svolto attività apostolica in Provenza, ad Aix, per poi darsi alla vita eremitica. Una volta morta, sarebbe stata trasferita a Vézelay. Addirittura, una fonte racconta che, nell’anno 749, un monaco di nome

Badilone aveva rubato il suo corpo ad Aix per trasferirlo nella cripta della basilica di Vézelay; una notizia del tutto incredibile, dato che a quell’epoca la basilica nemmeno ancora esisteva. Eppure almeno per due secoli Vézelay fu il piú grande santuario occidentale dedicato alla Maddalena, meta di importanti pellegrinaggi e tappa intermedia per chi si dirigeva verso Santiago di Compostella. Questo primato le fu tolto dalla Provenza dove, a Saint-Maximin-laSainte-Baume, non piú tardi del 1173 si cominciò a raccontare che Maria Maddalena era vissuta come eremita. Esisteva già una leggenda latina nella quale si narrava che Maria Maddalena dopo l’ascensione di Gesú si sarebbe ritirata in un eremo – di cui non si forniva l’identificazione – e avrebbe condotto una vita trentennale di penitenza, senza cibo e senza vestiti, ricoperta soltanto dai propri lunghi capelli. Questa storia era la fotocopia di una precedente leggenda orientale riferita a un’altra santa, Maria Egiziaca, che sarebbe vissuta in Egitto nel IV secolo nel deserto, anch’ella senza cibo e rivestita dei soli capelli.

STORIE FAVOLOSE A partire dal XII secolo, in corrispondenza con l’emergere del culto a Saint-Maximin-la-Sainte-Baume, ai vecchi testi leggendari prodotti per giustificare il culto a Vézelay furono aggiunti elementi che portassero a identificare l’eremo fino ad allora anonimo con una grotta ben precisa in Provenza. Intanto il dossier delle imprese e dei miracoli compiuti dalla Maddalena si arricchiva di racconti sempre piú pretenziosi; si creò addirittura la favolosa storia di un approdo della Maddalena nella città di Marsiglia, dove ella avrebbe convertito il principe del luogo dal paganesimo al cristianesimo, lo avrebbe convinto a svolgere un pellegrinaggio in Terra Santa, avrebbe guarito sua moglie dalla sterilità e,

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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infine, due anni dopo la morte l’avrebbe fatta risorgere in un’isola del Mediterraneo (quest’ultimo miracolo è in realtà tratto dalla biografia pagana di Apollonio di Tiana, scritta dall’autore greco Flavio Filostrato nel II-III secolo d.C.). Nella pagina accanto: Maria Maddalena, olio su tavola di Jan van Scorel. 1530 circa. Amsterdam, Rijksmuseum. La donna è ritratta con il suo attributo tipico: il vasetto che contiene essenze profumate. In basso: un’altra versione della Maddalena con il vaso di profumo, in questo caso si tratta di una statua in calcare policromo conservata nella cappella di S. Giacomo a Monestiés (Francia), facente parte di un gruppo raffigurante la sepoltura di Gesú. 1490.

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Insomma, nel Medioevo occidentale quello della Maddalena è ormai un personaggio del tutto sfigurato, pronto a diventare teatro di scontro fra due centri di attrazione devozionale, uno in Borgogna e l’altro in Provenza. In quegli stessi anni il frate domenicano Jacopo da Varazze terminava la scrittura della Legenda aurea, una raccolta di racconti agiografici che ebbe un’enorme diffusione in tutta Europa. Per lui la Maddalena – che seguendo l’insegnamento di Gregorio Magno è dipinta come la somma dei tratti delle tre donne evangeliche – proveniva da una famiglia molto ricca. Rimescolando e integrando le leggende ormai diffuse, Jacopo ci racconta del suo arrivo a Marsiglia su una nave senza nocchiero assieme all’apostolo Massimino e ai suoi fratelli Lazzaro e Marta. Massimino sarebbe diventato il vescovo di Aixen-Provence e proprio dalle sue mani, dopo un trentennio di vita eremitica senza cibo né vesti, Maddalena avrebbe ricevuto l’ultima eucaristia prima di addormentarsi nel sonno della morte. Nella seconda metà del Duecento dunque la biografia della santa si era gonfiata enormemente, e altrettanto cresceva la devozione popolare nei suoi confronti. Le due città francesi di Vézelay e Saint-Maximin, intanto, si contendevano il possesso delle reliquie della Maddalena. Verso il 1266 a Vézelay fu fatta una solenne ostensione del suo corpo, mostrando anche una (falsa) lettera di autenticità firmata da Carlo Magno: era un disperato tentativo esperito dai monaci allo scopo di ridare linfa al loro pellegrinaggio, che era in forte crisi. Ma questo tentativo fu surclassato dal «ritrovamento» delle reliquie della santa nella cripta della chiesa di Saint-Maximin, fortemente voluto e solennizzato nel 1279 da Carlo II d’Angiò (il quale, appellandosi a un’apparizione della Maddalena stessa, dichiarò che le sue reliquie non erano mai state a Vézelay).

Ci si basava sul racconto leggendario della sua presenza in Provenza, arricchito da altri documenti falsi; e la notizia, forte del grosso sostegno politico, affossò le pretese di Vézelay, si diffuse incontrastata e provocò una fioritura di santuari dedicati alla Maddalena collegati a quello di Saint-Maximin. Nel 1285 Carlo d’Angiò divenne conte di Provenza e re di Napoli. Ottenuto nel 1295 l’appoggio di papa Bonifacio VIII, decise di costruire una basilica che, dopo vari rimaneggiamenti, assunse la forma monumentale che ha ancora oggi. Il complesso rimane tuttora il luogo di culto piú importante dedicato alla santa.

UNA DONNA MULTIFORME Il ricordo della Maddalena si è sviluppato, nel Medioevo, lungo due direttrici. La prima insiste sulla figura di Maria come testimone privilegiata della resurrezione, anche se qualche volta il suo ruolo è stato messo in ombra da quello dei suoi colleghi di sesso maschile. L’altra, figlia della sovrapposizione fra la Maddalena e la donna peccatrice, la interpreta come rappresentante dell’intera umanità schiava del peccato, colei che avendo ottenuto il privilegio di assistere all’evento pasquale testimonia la possibilità di redenzione per tutti. È la donna che riscatta l’antico peccato di Eva; è il simbolo della Chiesa, oppure di chiunque passa dalle credenze erronee alle verità della fede cristiana. Come peccatrice pentita, umiliatasi davanti a Cristo fino alle lacrime, è un modello da seguire da parte di ogni cristiano che voglia ottenere il perdono, passando attraverso una sincera contrizione. Nelle azioni sacre teatrali che in epoca medievale venivano messe in scena nella settimana santa, Maria Maddalena occupò un ruolo di primo piano: si insisteva sul contrasto fra la precedente situazione di peccato della donna e la particolare


UNA PATRONA... POLIVALENTE Per via del suo legame con il profumo portato al sepolcro di Gesú, Maria Maddalena è protettrice dei profumieri e dei guantai (nel Medioevo si usavano guanti profumati, che erano anche un segno di civetteria). A motivo del vaso di profumo che portava con sé, è anche patrona di coloro che per i loro commerci adoperano brocche o portaunguenti, come i venditori d’acqua e i farmacisti. Poiché confuse il Gesú risorto con un ortolano, è patrona dei giardinieri. Essendo stata liberata dai demoni, è patrona dei prigionieri – che un tempo, dopo la loro liberazione, erano soliti offrire a lei le proprie catene. Inoltre, come conseguenza dell’essere confusa con le altre due donne, poiché le si attribuiva di aver asciugato i piedi di Gesú con i capelli è patrona dei parrucchieri per signora, dei pédicures e dei venditori di pettini. Ma, soprattutto, è patrona delle peccatrici pentite. La Maddalena era anche invocata per la guarigione dalle febbri persistenti; si credeva che poggiando il capo su una pietra che ella avrebbe usato come cuscino, presso l’abbazia di S. Vittorio di Marsiglia, si sarebbe ottenuta la guarigione.

predilezione che Gesú ebbe nell’apparire a lei dopo la risurrezione. In alcuni drammi sacri ella compare sul palcoscenico accompagnata dal demonio mentre canta le gioie di questa vita, ma finisce per pentirsi, rivestendo un sacco nero e prostrandosi ai piedi di Gesú. Nella Passione d’Arras, scritta intorno al 1430 dal drammaturgo e teologo francese Eustache Marcadé, la Maddalena viene rappresentata come donna di facili costumi, che si concede per puro godimento. Circa cinquant’anni dopo Jean d’Angers nella sua Passion de Jésus-Christ la presenta come una cortigiana che vive nello sfarzoso castello di Magdala, circondata da damigelle che ne esaltano la bellezza. A Firenze un dramma scea r c h e o 61


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nico quattrocentesco intitolato Rappresentazione della conversione di santa Maria Maddalena – forse opera di Castellano Castellani – propone una donna dedita alle mollezze, al piacere, alla musica e agli abiti; convinta da sua sorella Marta a incontrare Gesú, si converte perché colpita dal suo sguardo magnetico e dalle sue parole: «Alma, tu hai feriti molti cuori stando in delizie, in pompe, e in van diletti: tu hai fornicato con molti amadori, e se’ ripiena di molti difetti, e hai il tuo core ch’è pien di rancori: ritorna a me, se brami ch’io t’aspetti». 62 a r c h e o

I poeti ignorarono a lungo i dubbi avanzati dagli storici in merito alla tradizionale lettura della Maddalena come peccatrice. Tutta l’epoca barocca, pertanto, continuò a rappresentarne le peccaminose imprese. Di grande rilevanza fu l’opera dell’abate dalmata Ignjat Đurdevic, conosciuto in italiano come Ignazio Giorgi, che nel 1728 compose in croato il poema I sospiri di Maddalena penitente, prontamente tradotto in diverse lingue. Vi si incontrano quadretti descrittivi di una ragazza viziosa, tentatrice, peccaminosa, a

cui fanno da contraltare i suoi lunghi monologhi penitenziali.

AMANTE DI GIUDA Fra Otto e Novecento – con Christien Ostrowski, Albert Dulk, Otto Gensichen e Spiros Melàs – le elaborazioni poetiche si spingono molto piú in là: Maria diventa l’amante di Giuda Iscariota, colui che tradí Gesú anche perché geloso dell’amore piú elevato che la donna provava per il maestro. Per Luise von Plönnies, Johannes Schlaf, Dietrich Vorwerk e Anne von Krane,


invece, la donna era amante di un romano o di un greco. La Maria von Magdala di Paul Heyse (1899) ha come protagonista una donna ricca, contesa dagli uomini, ma amante di Giuda Iscariota, patriota ebreo, seguace disilluso di Gesú: il tradimento e la denuncia al Sinedrio avvengono anche per la sua gelosia, per via dell’amore che Maria sta sviluppando per Cristo. Si aggiunge la figura di Flavio, nipote di Pilato, che promette di liberare il Signore in cambio di una notte d’amore: ma la santa resta fedele a

Gesú, lasciando che vada al supplizio. Promossa al rango di eroina tragica la penitente si sfoga con queste parole: «Guardatemi, uomini e donne di Gerusalemme: sono io quella che l’ha fatto, sono io ad aver condotto alla morte il vostro maestro e la vostra terra santa!». Da donna redenta, allora, Maria diviene quasi la colpevole della morte del suo amato. Maurice Maeterlinck nel 1913 riprese questo tema, facendo del tribuno romano il vero amante della donna, la quale, messa davanti alla scelta fra lui e il Cristo, sceglie

Maddalena penitente nella grotta della Sainte-Baume, olio su tavola di Juan Bautista Maíno. 1612-1614. Madrid, Museo del Prado.

quest’ultimo, condannando il Messia alla morte. Qualche anno prima Maurice de Waleffe aveva messo in scena una Maria Maddalena moglie di un rabbino e amante di un soldato, salvata dai Romani sul punto di essere lapidata. Piú recentemente (nel 1983) Louise Rinser fa di Mirjam una bella discendente dei Maccabei, compagna di Gesú inua r c h e o 63


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DA MAGDALA A HOLLYWOOD Alcune tra le pellicole piú note che danno spazio alla figura della Maddalena derivano da romanzi di successo, come L’ultima tentazione di Cristo (diretto da Martin Scorsese nel 1988) e Il Codice da Vinci (Ron Howard, 2006). Basata su una storia vera è la pellicola Magdalene (Peter Mullan, 2002), che ricostruisce la terribile vita quotidiana delle donne rinchiuse nel sistema delle Case Magdalene in Gran Bretagna fino agli anni Novanta del secolo scorso: erano istituti di correzione, in genere lavanderie, dove si riteneva che «grazie al potere della preghiera, della pulizia e del duro lavoro le donne perdute possono ritrovare la strada verso Gesú Cristo» sul modello di Maria Maddalena, «lei stessa una peccatrice della peggior specie». Nel film Mary (Abel Ferrara, 2005) vengono recuperate le funzioni attribuite alla santa all’interno della letteratura gnostica, dal suo essere la discepola piú devota di

Cristo ai dissidi con gli altri apostoli maschi. Senza apparire direttamente, ma restando sempre sullo sfondo in maniera simbolica, la Maddalena gioca un ruolo evocativo nel tratteggio del personaggio «peccaminoso» di Vianne all’interno del film Chocolat (Lasse Hallström, 2000), capace di spazzare via, con l’esempio di vita e qualche dolce di cioccolato, l’oppressiva tranquillità di un villaggio francese.

Barbara Hershey nei panni della Maddalena ne L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese.

tilmente desiderata da Giuda e combattente per una pace all’insegna della non violenza. Analoga attenzione fu riservata alla Maddalena da parte dei musicisti, soprattutto del periodo barocco: ricordiamo almeno il Lamento della Maddalena di Domenico Mazzocchi, il dialogo con Gesú musicato da Marc-Antoine Charpentier e il fortunatissimo oratorio Conversione di Maddalena composto da Alessandro Scarlatti nel 1685. Nell’Ottocento, l’oratorio Marie Madeleine fu il primo successo di Jules Massenet.

MANIPOLAZIONI MODERNE L’attrazione per Maria Maddalena in epoca contemporanea si è fatta progressivamente piú forte. Ella è divenuta oggetto di rivendicazione da parte dei gruppi piú disparati: l’esegesi di stampo femminista ne esalta la figura come modello di affrancamento dall’egemonia maschile; per la critica postcoloniale è un esempio di donna schiacciata dal colonialismo dei conquistatori ro64 a r c h e o

mani; i poligami Mormoni l’hanno dipinta come la moglie di un Gesú poligamo, mentre il movimento islamico degli Ahmadiyya, pur confermando la relazione amorosa fra i due, ritiene che Gesú l’abbia infine rifiutata, dopo aver abbracciato le regole del celibato esseno. New Age e neo-gnosticismo hanno dato vita a un redditizio filone romanzesco e cinematografico che, mescolando testi apocrifi, leggende medievali, sacro Graal, società segrete ed esoterismo, hanno plasmato coacervi di finzioni in cui la fantasia relega ormai su uno sfondo quasi invisibile i pochi dati storici. Si comincia dal Vangelo acquariano, che fa di Maria una discepola tentata dall’amore, passando per la Ultima tentazione di Kazantzakis, dove Cristo scende dalla croce per fuggire con lei. Lo scrittore Gérald Messadié immagina una donna che riesce a corrompere i Romani per evitare la morte in croce di Gesú. La Maddalena del Codice da Vinci di Dan Brown altro non è che una rilettura di seconda mano delle in-

terpretazioni esoteriche e complottistiche pubblicate nei decenni precedenti, facendo un uso a dir poco fantasioso dei testi apocrifi. Ma se quasi tutto ciò che è stato raccontato lungo i secoli non ha nulla a che spartire con l’autentica Maddalena, che cosa si può salvare, oggi, del suo evanescente profilo storico? Ci resta il ritratto di una donna tormentata, che trovò pace nel diventare discepola del predicatore di Galilea e gli fu fedele fino alla fine. Ma non tutti amano la storia, quando è sfrondata dalla leggenda. Che dire di tutte le peccatrici e le prostitute che un tempo potevano identificarsi in lei, pur sulla base di ricostruzioni storiche erronee? È facile allora capire perché un’ex prostituta, invitata da una femminista a esprimersi su ciò che la Maddalena rappresentasse per lei, descrisse come traumatico il momento in cui si avvide che nei Vangeli la santa non era qualificata come prostituta: era infatti improvvisamente rimasta orfana del miglior modello di redenzione a cui potersi ispirare.





ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/12

SOGNANDO UNA NUOVA ROMANITÀ

DI NOBILI ORIGINI – ERA FIGLIA DELL’IMPERATORE TEODOSIO –, GALLA PLACIDIA VISSE IN ANNI TUMULTUOSI. DOPO AVERE OTTENUTO IL TITOLO DI AUGUSTA, SPERÒ – O FORSE SI ILLUSE – CHE ROMA POTESSE RITROVARE LA SUA GRANDEZZA... UNA VICENDA MIRABILMENTE RIPERCORSA DA LIDIA STORONI MAZZOLANI, IN UN FORTUNATO ROMANZO DAL SOLIDO IMPIANTO STORICO di Giuseppe M. Della Fina La giornalista, scrittrice e traduttrice Lidia Storoni Mazzolani (1911-2006).

C

i sono libri difficili da etichettare: uno di questi è sicuramente Galla Placidia scritto dalla giornalista, scrittrice e traduttrice Lidia Storoni Mazzolani nel 1975. Dobbiamo considerarlo alla stregua di un saggio scientifico o di un romanzo? Del saggio scientifico ha la lunga preparazione, un apparato di note e un’appendice documentaria; del romanzo ha invece la qualità della scrittura e l’attenzione per la psicologia della protagonista. Resta il fatto che si tratta di un testo che si legge volentieri.

UN TALENTO VERSATILE Lidia Storoni Mazzolani è nata a Roma nel 1911 e vi è morta nel 2006. Come giornalista ha collaborato negli anni a diversi quotidiani: La Stampa, Il Giornale, la Repubblica, Il Sole 24 Ore. In qualità di traduttrice ha tradotto sia classici latini che autori inglesi e francesi. Sua, per esempio, è la traduzione delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, di cui fu amica. Tra i suoi numerosi libri, oltre a Galla Placidia, si possono ricordare Sul mare della vita (1969), Il ragionamento del principe di Biscari a Madama N.N. (1980), Tiberio o la spirale del potere (1981), Una moglie (1992), Sant’Agostino e i pagani (1987), Ambrogio vescovo. Chiesa e Impero nel IV secolo (1992), Scritti sul mondo antico (1997).

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Medaglione tardo-romano in vetro dorato, inserito nella Croce di Desiderio (VIII-IX sec.). Brescia, Museo di Santa Giulia. Vi sarebbero ritratti Galla Placidia (al centro), con i figli Valentiniano e Giusta Grata Onoria.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/12

L’apparato critico è di necessità invecchiato, ma non inficia l’interesse: l’essenziale del libro non è quello. L’interesse risiede, innanzitutto, nella felice scelta del personaggio storico ricostruito: una donna che si è trovata a vivere in decenni che hanno costituito uno snodo fondamentale della civiltà occidentale e in una posizione di privilegio per osservarlo e – per quanto nelle sue possibilità – d’indirizzarlo. Storoni Mazzolani osserva correttamente nell’introduzione che, quando l’impero romano si divise tra Oriente e Occidente, Galla Placidia era una bambina; un’adolescente mentre si disgrevava la parte di Europa unificata da Roma e venivano meno assetti sociali e istituzionali, ideologie e fedi secolari; una ventenne quando accadde un evento ritenuto impossibile, vale a dire il sacco di Roma da parte dei Visigoti; una donna matura al tempo in cui si era affermata una società cristiana e barbarica e come osserva la scrittrice: «illuminata dai foschi albori del medioevo».

TESTIMONE DI TEMPI DIFFICILI Può essere utile riepilogare qualche dato biografico della protagonista: Galla Placidia era nata a Costantinopoli probabilmente nel 388 d.C., o solo qualche anno dopo, ed era figlia dell’imperatore Teodosio e di Galla, figlia a sua volta dell’imperatore Valentiniano I. Nel 410 d.C., a seguito del sacco di Roma, appena rammentato, fu presa in ostaggio da Alarico e visse a lungo tra i Visigoti. Sposò uno di loro, Ataulfo, cognato di Alarico, dal quale ebbe un figlio morto in giovane età. Dopo l’uccisione di Ataulfo venne riconsegnata al fratello Onorio, nato dal primo matrimonio di Teodosio, che reggeva la parte occidentale dell’impero romano, mentre la parte orientale era governata dall’altro fratello Ar70 a r c h e o

SIAMO TUTTI SOTTO LO STESSO CIELO Pochi anni prima della nascita di Galla Placidia, nel 384 d.C., Simmaco, esponente di spicco di una delle famiglie senatorie piú influenti nella Roma del tempo nonché prefetto urbano, tenne un noto discorso, dopo che, per ordine dell’imperatore Graziano, era stato rimosso l’altare della Vittoria dalla Curia Giulia. Nell’occasione, provò a difendere la pluralità dei culti, tentando contemporaneamente un’ultima difesa della religione tradizionale, affermando: «Chiediamo il ritorno a quella condizione delle religioni che per tanto tempo ha contribuito al bene dello Stato (...) Contempliamo gli stessi astri, ci è comune il cielo, ci circonda il medesimo universo: cosa importa se ciascuno cerca la verità a suo modo?».

cadio anch’esso nato dal primo matrimonio del padre. Galla Placidia, vedova di Ataulfo, fu spinta a sposare il generale Flavio Costanzo, cristiano e di origine non barbarica, nel 417 d.C. Con lui ebbe due figli: Onoria e Valentiniano. Nel 421 d.C. il marito fu associato al trono imperiale e Galla Placidia ottenne il titolo di augusta. Solo pochi mesi dopo l’uo-

mo morí e i rapporti con Onorio divennero tesi; la donna dovette lasciare l’Italia e tornò a Costantinopoli, avvicinandosi, dopo iniziali tensioni e opposizioni all’interno della corte, ad Arcadio. Alla morte di Onorio poté fare ritorno in Italia e, dal 425 d.C., resse la parte occidentale dell’impero, poiché il figlio Valentiniano, avuto nel secondo matrimonio, era


UNA DONNA LIBERA E CORAGGIOSA Uno dei romanzi piú noti di Lidia Storoni Mazzolani è Una moglie, pubblicato in prima edizione nel 1982 da Sellerio editore. Prendendo spunto da un’iscrizione funeraria, degli ultimi decenni del I secolo a.C., la scrittrice ripercorre la vita di una donna, il suo amore per il marito e per la libertà: una passione, quest’ultima, per la quale corre seri rischi, senza avere paura dei potenti di quegli anni.

troppo giovane per farlo. Ques’ultimo arrivò poi al potere con il titolo di Valentiniano III. Galla Placidia ebbe modo di misurarsi anche con altri protagonisti di primo piano di quei decenni: si pensi che trascorse l’adolescenza in casa di una cugina maggiore di età, Serena, la moglie di Stilicone, il generale di origine vandala che Teodosio aveva voluto affiancare a un giovane e ancora inesperto Onorio. Il ruolo di Stilicone, che ricopriva

l’incarico di comandante in capo della fanteria e della cavalleria, magister utriusque militiae, fu a lungo centrale. La sua figura divenne sempre piú ingombrante e le sue scelte militari furono osteggiate: Onorio, di cui pure era stato tutore, lo fece giustiziare a Ravenna nel 408 d.C., accusandolo di tradimento.Vennero uccisi dagli emissari di Onorio anche la moglie Serena, una figura sarebbe potuto divenire un ostacolo forte nella vita di corte, e il giovane per i progetti di Onorio.Vi era stafiglio Eucherio che, in prospettiva, to chi aveva pensato a un matrimonio tra Galla Placidia ed Eucherio. In alto e in basso: Ci si è soffermati su questi aspetti per fare comprendere gli anni e le copertine di l’ambiente di formazione di Galla due dei titoli di maggior successo Placidia e la sua capacità di muoversi all’interno della difficile e nella produzione spietata vita di corte. di Lidia Storoni Mazzolani. Nella pagina accanto: rovescio di un solido aureo di Galla Placidia raffigurante un angelo con la croce, per esprimere il forte legame fra la principessa romana e la Chiesa cattolica. 425 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

DISPUTE RELIGIOSE Un’altra figura di primo piano nella vita della protagonista del libro fu sant’Ambrogio, il vescovo di Milano, che influenzò profondamente Galla Placidia nelle scelte religiose in decenni di svolta anche su tale piano. Il paganesimo era ormai una religione di minoranza, ma ancora forte in ambienti che contavano; il cristianesimo era in piena ascesa, ma viveva divisioni al proprio interno: la contrapposizione con gli ariani era particolarmente accesa. Galla Placidia morí a Roma nel 450 d.C. e fu sepolta nel mausoleo imperiale presso la basilica di S. Pietro in Vaticano. Tradizioni posteriori sostengono che, in un secondo momento, il suo corpo sarebbe stato trasportato a Ravenna, nel mausoleo che ne porta il nome. Nel libro la scrittrice, in un quadro a r c h e o 71


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/12 A sinistra: l’interno del cosiddettiìo Mausoleo di Galla Placidia, decorato, tra il 425 e il 450 d.C., con mosaici e marmi policromi. In fondo al braccio meridionale, la lunetta con gli Apostoli. Galla Placidia – figlia di Teodosio I e sorella di Onorio –, reggente, per il figlio Valentiniano III, dell’impero d’Occidente, si impegnò nella riorganizzazione dell’impero, minacciato dai Vandali di Genserico. In basso: bulla di Maria, figlia di Stilicone, moglie di Onorio, ritrovata in S. Pietro nel 1544. Cammeo in agata, oro, smeraldi e rubini. 398-407. Parigi, Museo del Louvre. I nomi di Onorio, Stilicone, Serena e Maria, incisi insieme all’acclamazione «vivatis», formano il cristogramma.

L’AUGURIO IN UNA GEMMA

che abbraccia l’intera esistenza di Gallia Placidia, approfondisce singoli momenti che ha valutato come particolarmente significativi nella sua vita e con un valore che andava oltre la singola persona. C’è, ovviamente, il sacco di Roma 72 a r c h e o

del 410 d.C., la città dove la giovane risiedeva in quell’anno: «L’avvenimento provocò un fragore improvviso e, al tempo stesso, conclusivo, liberatore di tensioni oscure, di attese esasperate». Quindi la cattura da parte delle truppe di Alarico: «Tra i

L’influenza di Stilicone e Serena – presso i quali Galla Placidia trascorse parte della sua infanzia – nei primi tredici anni del regno di Onorio è testimoniata bene dalla bulla riprodotta nella foto qui sopra. Il gioiello reca i loro nomi intrecciati con quelli dell’imperatore Onorio e di sua moglie Maria accompagnati dall’augurio vivatis (viviate). Il monile è stato rinvenuto nella tomba di Maria nell’antica basilica di S. Pietro in Vaticano.


GRUPPO DI FAMIGLIA SULL’AVORIO La famiglia di Stilicone è raffigurata in questo dittico in avorio, realizzato intorno al 400 d.C. e oggi conservato nel Tesoro della Cattedrale di Monza. Nella valva di sinistra è rappresentata Serena, moglie del generale vandalo Stilicone, che indossa abiti e gioielli da matrona romana; accanto a lei è il figlio Eucherio.

Nella valva di destra è rappresentato Stilicone armato: porta una spada alla cintura e riposta nel fodero, una lancia e uno scudo. Su quest’ultimo è presente la doppia effigie di Onorio e Arcadio, a ricordo del mandato di difendere i suoi giovani figli, destinati a governare, da parte dell’imperatore Teodosio.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/12

prigionieri, in una lettiga chiusa, Placidia seguiva l’esercito dei Visigoti e le loro sorti (...) I prigionieri costituivano per i barbari, una riserva aurea. Piú di qualsiasi prigioniero, naturalmente, valeva Placidia, la sorella dell’imperatore». 74 a r c h e o

Storoni Mazzolani si sofferma molto sul matrimonio con Ataulfo, il successore di Alarico. In quell’unione legge l’incontro tra due mondi: la tradizione romana e la società dei barbari. Eccone la descrizione: «Placidia nell’atrio sedeva sul trono.

Ataulfo, al suo fianco, indossava il paludamentum del generale romano, dimesse le brachae barbariche, la giubba di pelliccia». Per la scrittrice, Galla Placidia sente, in quella cerimonia, di portare a compimento il progetto politico


UN OLTRAGGIO INDICIBILE Alarico, il capo dei Visigoti, al comando delle sue truppe, riuscí a conquistare Roma: era l’agosto del 410 d.C. Il saccheggio della città durò incontrollato per tre interi giorni. La notizia fece il giro del mondo allora conosciuto: quello che sembrava impossibile era accaduto. In una lettera san Girolamo cosí scrive: «Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. La città che ha conquistato tutto il mondo, è conquistata: anzi cade per fame, prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sí che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’un l’altro». Incisione raffigurante Alarico che, alla testa dei Visigoti, guida il saccheggio di Roma. Il terribile evento ebbe luogo nell’agosto del 410 d.C. e le devastazioni si protrassero per tre interi giorni.

che era stato del padre Teodosio. La nascita di un figlio sembrò suggellare il tutto: «Placidia, ereditiera di un fallimento, sentiva di dare inizio a una romanità nuova. Nella quale alla tradizione augustea s’intrecciavano ormai inestricabilmente il cri-

Quindi Ataulfo venne ucciso e la scrittrice osserva: «nella vita di Placidia il nome di Ataulfo non riaffiorò mai piú: se lo pianse, se ripensò a lui come al solo che avesse amato, al valoroso al fianco del quale aveva sperato di assumere la guida di un impero rinnovato, tenne chiusi questi sentimenti nel cuore. Ma del piccolo Teodosio rievocò il nome (...) quasi a voler proclamare pubblicamente, polemicamente, che quel bambino, se fosse vissuto, avrebbe avuto diritto a regnare sull’impero d’occidente».

QUASI UNA SOPRAVVISSUTA C’è poi il ritorno verso Costantinopoli, dove era nata, passando per Ravenna. In proposito la scrittrice osserva: «Intuire i sentimenti, i pensieri di Placidia al suo ritorno, dopo quattro anni di vita nomade e intensa, è un esercizio di immaginazione. Trenta anni di vita si stendono ancora davanti a lei; durante i quali compí, come moglie, come madre, come imperatrice, come credente, le azioni che consegnarostianesimo e i costumi di genti no il suo nome alla storia. Eppure, estranee alla civiltà mediterranea». forse, ebbe l’impressione di essere Di lí a pochi mesi il bambino, a cui sopravvissuta». era stato dato il nome del nonno materno Teodosio, morí, rendendo NELLA PROSSIMA PUNTATA tutto piú complicato sia sul piano familiare che su quello storico. • Gore Vidal a r c h e o 75


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Uno degli ambienti del Museo Sigismondo Castromediano di Lecce, allestito nell’ex Convento Argento. 76 a r c h e o


I TESORI DEL

DUCA BIANCO FIGURA EMBLEMATICA DELL’ITALIA RISORGIMENTALE E DELLA SUCCESSIVA UNIFICAZIONE DEL PAESE, SIGISMONDO CASTROMEDIANO COLTIVÒ ANCHE UNA PROFONDA E SINCERA PASSIONE PER LE ANTICHITÀ. UN AMORE CONCRETIZZATOSI NELLA REALIZZAZIONE DEL PRIMO MUSEO PUBBLICO DI LECCE, A LUI INTITOLATO E DI CUI LA SUA COLLEZIONE HA COSTITUITO IL NUCLEO FONDANTE di Giuseppe M. Della Fina

N

el romanzo Noi credevamo di Anna Banti, ambientato nella stagione del Risorgimento e nei decenni immediatamente successivi all’unificazione dell’Italia (vedi box a p. 79, in basso), tra le figure che il protagonista Do-

A TESTA DI GRIFO Conservato nel Museo Sigismondo Castromediano, questo vaso – un rython (contenitore per liquidi) – fu rinvenuto in un ricco corredo funerario scoperto a Ruvo alla fine dell’Ottocento: è un capolavoro dell’artigianato artistico di scuola apula ed è databile all’inizio del IV secolo a.C. La parte finale del vaso è conformata a testa di grifo: un animale fantastico di una forza sovraumana in grado sia di terrificare che di offrire protezione. Nella parte iniziale del vaso è raffigurata una figura maschile seduta, di profilo, con una phiale (piatto in ceramica o metallo usato nei rituali) per le offerte in mano.

menico Lopresti, ormai anziano e di credo repubblicano, ricorda, vi è quella di Sigismondo Castromediano, il «Duca bianco»: «Mi è di gran conforto rievocare il suo volto chiaro e deciso, leggermente aquilino, gli occhi pensosi, la bocca come sigillata in un interiore discorso. Era la faccia piú leale e onesta che mai avessi incontrata». Sigismondo Castromediano è una figura reale e uno dei protagonisti di quei decenni decisivi nella storia del nostro Paese. Per l’impegno nella riscoperta e nella valorizzazione della storia del Salento, a lui è dedicato un importante museo nella città di Lecce: il piú antico della Puglia, essendo stato inaugurato nel 1868, e che, ospitato inizialmente nel Palazzo dei Celestini, si deve proprio all’azione di Castromediano. Entrati nel museo, oggi allea r c h e o 77


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stito all’interno dell’ex Collegio Argento, in viale Gallipoli, al civico 28, davanti al busto in marmo che lo ricorda – realizzato dallo scultore Antonio Bortone (1844-1938) – e donato, insieme alle catene che era stato costretto a portare nelle carceri borboniche, dallo stesso Castromediano, può essere interessante ripercorrere, seppur sinteticamente, le vicende della sua vita.

PRIGIONIERO POLITICO Nato a Cavallino (Lecce), nel 1811, da una famiglia di antica e illustre origine, coltivò interessi letterari e storici sin da giovane. Altrettanto precoce fu la passione per gli ideali risorgimentali e, nel 1842, entrò nella Giovane Italia per un breve periodo. Il suo impegno politico proseguí poi su posizioni liberali e moderate. Accusato di cospirazione per fatti avvenuti nel 1848, venne condannato a trenta anni di prigione. Dopo una breve permanenza nel carcere di Lecce, fu trasferito in altri piú duri: a Napoli, a Procida e, infine, a Montefusco, sui monti dell’Avellinese, che era considerato il luogo di detenzione piú inumano e per questo era stato chiuso nel 1845. Fu riaperto proprio per trasferirvi i prigionieri politici ritenuti particolarmente pericolosi: tra i quali vi era anche Carlo Poerio. Nel 1858 un decreto reale commutò la pena detentiva di sessantasei condannati per motivi politici all’esilio perpetuo: i deportati vennero imbarcati per gli Stati Uniti, ma sbarcarono in Irlanda. Da lí raggiunsero l’Inghilterra, dove Castromediano fu accolto benevolmente negli ambienti moderati inglesi e favorevoli all’unificazione dell’Italia. Qui conobbe William Ewart Gladstone, con il quale conIl monumento in onore di Sigismondo Castromediano, coronato dalla statua in bronzo del patriota realizzata da Antonio Bortone. 1903. 78 a r c h e o

UN’AMICIZIA LUNGA UNA VITA Durante il soggiorno a Torino, Sigismondo Castromediano frequentò il salotto della baronessa Olimpia Savio di Bernstiel. Lí incontrò la giovane figlia Adele, con la quale si pensò a un matrimonio. Lo sposalizio non avvenne, ma tra il maturo uomo politico meridionale e la giovane piemontese nacque un’amicizia sincera e duratura. Lei, in una lettera del maggio 1882, resa nota da Francesco Gabrieli (in Archivio Storico Pugliese, anno V, fasc. I-IV, 1952; pp. 352-362), gli racconta le manovre per farlo divenire Senatore del Regno mostrando di conoscere a fondo le dinamiche politiche del tempo: «Pare che c’è un vivissimo screzio fra Zanardelli e Depretis. Il primo vorrebbe nomine tutte democratiche sfogate, il secondo invece le vorrebbe liberali sí, ma moderate, nel quale numero siete compreso (...) In fondo, in fondo nessuno è piú destramente destro che questo Presidente del Ministero di Sinistra [Agostino Depretis]. Ma conosce i tempi, e sa che bisogna poggiare a sinistra per andare a destra».


SIGISMONDO CASTROMEDIANO E IL CINEMA Noi credevamo non è soltanto il titolo del romanzo di Anna Banti, ma anche di un film diretto da Mario Martone che si ispira liberamente al libro. Sceneggiato dallo stesso regista insieme a Giancarlo De Cataldo, il film fu distribuito nelle sale cinematografiche nel 2010. Venne presentato in concorso alla 67° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia e,

servò un buon rapporto anche negli anni seguenti. Nell’aprile del 1859 riuscí a raggiungere Tor ino frequentando l’importante salotto della baronessa Olimpia Savio di Bernstiel. Qui

candidato a tredici David di Donatello, ne ha vinti sette, tra cui quelli per il miglior film e la migliore sceneggiatura. Tra gli interpreti figurano Luigi Lo Cascio, Francesca Inaudi, Michele Riondino, Toni Servillo, Luca Barbareschi, Luca Zingaretti. Nella pellicola compare anche Sigismondo Castromediano, che Martone ha fatto impersonare ad Andrea Renzi.

– sul piano personale – nacque un In alto: il regista Mario Martone legame reciproco di affetto e stima (secondo, da destra) durante le riprese con Adele, la giovane figlia della del film Noi credevamo (2010). nobildonna piemontese, destinato a durare per tutta la loro vita (vedi box alla pagine precedente).

UN ANIMO APERTO ALLA PIÚ LARGA GIUSTIZIA La figura di Sigismondo Castromediano viene ricordata nel romanzo Noi credevamo della scrittrice Anna Banti (1895-1985), pseudonimo di Lucia Longhi Lopresti. Il libro venne pubblicato nel 1967 e narra di un gentiluomo calabrese, Domenico Lopresti, di credo repubblicano e garibaldino, che ormai, settantenne, nel 1883, nella sua casa di Torino, inizia a scrivere le proprie memorie ripercorrendo l’impegno politico, il periodo trascorso nelle carceri borboniche per le idee sostenute, l’unificazione dell’Italia e la sua disillusione nei decenni immediatamente post-unitari. Nelle pagine del romanzo, Castromediano viene tratteggiato come un uomo di grande equilibrio e umanità. La scrittrice fa affermare al protagonista del romanzo: «Non gli rimproveravo le sue idee di moderato e monarchico: le rispettavo ed ero convinto che, comunque, la pensasse, il suo animo era aperto alla piú larga giustizia».

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Appena unificata l’Italia, Castromediano venne eletto nel 1861 Deputato al primo Parlamento nazionale. Lo restò sino al termine della legislatura nel 1865, quando non venne piú rieletto. Tentativi per farlo nominare Senatore del Regno nel 1867-1868 e poi nel 1882 non dettero i risultati sperati. I suoi interessi 80 a r c h e o

si concentrarono allora nella politica locale con vari incarichi. Su suo impulso, il Consiglio provinciale deliberò l’istituzione del museo nel dicembre del 1868. Nel 1881 nello statuto si previde di affidare, a titolo gratuito, la direzione e l’amministrazione del museo a Sigismondo Castromediano e d’intitolarglielo.

IL RITIRO DALLA VITA PUBBLICA Nel frattempo, nel 1880, l’ex deputato si era ritirato nel castello di famiglia a Cavallino, coltivando soprattutto gli interessi per l’archeologia e la storia del Salento. In quegli anni attese, comunque, alla scrittura del suo testo piú noto: Carceri e ga-


BELLEROFONTE E LA CHIMERA Nel febbraio del 1900, all’interno di una sepoltura rinvenuta nel corso delle demolizioni eseguite per costruire il palazzo della Banca d’Italia, venne scoperto questo splendido cratere a calice di fabbricazione ateniese. Il vaso è databile tra la fine del V

lere politiche. Memorie, pubblicato nella versione definitiva nel 1895, poco tempo dopo la sua morte. Adele Savio, la giovane incontrata a Torino nel 1859, si impegnò affinché il volume fosse pubblicato seguendone la stampa da lontano e all’amico – qualche anno prima – aveva rimproverato di trascurare la

e l’inizio del IV secolo a.C. Sulla faccia del vaso qui riprodotta è raffigurata l’impresa di Bellerofonte che, domato il cavallo alato Pegaso, riesce a sconfiggere la Chimera, il mostro in grado di portare devastazioni con la sua forza incontrollata.

Sulle due pagine: un particolare dell’allestimento della sezione del Museo Castromediano denominata Paesaggi di terra. a r c h e o 81


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LA DONNA CHE DANZA Nel museo leccese si conserva questo cratere a campana sovradipinto, rinvenuto a Rudiae, con la raffigurazione di una donna che danza vorticosamente: il capo è rivolto verso l’alto, le braccia sono aperte e sollevate. Nella mano destra tiene un tympanon (tamburello), in quella sinistra una fiaccola, che allude allo svolgimento notturno della scena. Indossa un leggero chitone di tipo ionico con un’alta cintura e un himation sulle spalle. Ai piedi ha i calzari. La figura femminile è circondata da tralci di vite e di edera. Il vaso è databile nella seconda metà del IV secolo a.C. In basso: un’altra immagine del museo leccese, il cui allestimento è frutto del progetto elaborato da Franco Minissi e di un successivo intervento.

scrittura delle memorie a favore degli interessi per l’archeologia: «non dimenticate che esse saranno il piú bel monumento che resterà di voi». Aveva ragione: le sue memorie sono oggi una delle testimonianze piú significative di un personaggio che aveva preso parte ai moti risorgimentali partendo dal Meridione d’Italia.

IL PAESAGGIO COME FIL ROUGE Ma torniamo al museo. L’ex Convento Argento, che lo ospita dal 1979, venne completamente ristrutturato dall’architetto Franco Minissi e un nuovo intervento si è concluso nel 2020. Il percorso espositivo ha al centro il tema del paesaggio, declinato attualmente in 82 a r c h e o


In alto e in basso, a destra: ancora due immagini dell’allestimento del Museo Sigismondo Castromediano, che ha nel tema del paesaggio uno dei fili conduttori del progetto espositivo.

quattro itinerari: Paesaggi di mare, Paesaggi di terra, Paesaggi e segni del Sacro, Paesaggi dei Vivi e dei Morti. Come ha scritto la conservatrice archeologa, Anna Lucia Tempesta, il paesaggio viene inteso come «una meravigliosa narrazione in cui è riportato, come parole su pagine di immenso libro, l’avvicendarsi in questo territorio di stagioni e civiltà». A questi itinerari si aggiungeranno altri in breve tempo: i Luoghi dello spettacolo, una Stanza delle meraviglie, una Pinacoteca e un laboratorio. La Pinacoteca è ora già visitabile. Ogni itinerario copre un arco cronologico assai lungo con uno sguardo che intende ripercorrere la vicenda umana nelle terre del Salento. Da segnalare l’allestimento che tende ad avvicinare emotivamente il visitatore a quanto esposto: nel primo itinerario, spiccano, per esempio, le soluzioni che ricostruiscono le stive delle navi con il loro carico, o i fondali marini per dare un’idea della loro ricchezza anche archeologica. Lo stesso apparato didascalico cerca di avvicinare con vivacità ai temi presi in esame. Nella raccolta museale sono conflu-

iti reperti collezionati dal «Duca bianco», quando i suoi interessi storici e archeologici erano divenuti prevalenti; altri riportati alla luce da archeologi, storici ed eruditi che gravitavano attorno alla Commissione per i Monumenti e le Belle Arti di Terra d’Otranto durante l’Ottocento; altri ancora rinvenuti nelle ricerche condotte dai direttori del museo nella seconda metà del Novecento. A essi si sono aggiunti, da ultimo, i reperti rinvenuti in campagne di scavo dirette da docenti del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Brindisi e Lecce.

CERAMICHE E ISCRIZIONI Lungo il percorso di visita è particolarmente rappresentata la produzione ceramica, come accade generalmente in un museo archeologico: qui i vasi coprono un arco cronologico decisamente ampio e testimoniano fasi diverse delle vicende del Salento. Interessante è la compresenza di ceramiche di produzione locale e di importazione, che testimoniano intensi scambi culturali tramite i tanti approdi dell’Adriatico e dello Ionio. Ricca e curata è la documentazione relativa alla preistoria e alla protostoria della zona. Ben testimoniate sono anche le opere in bronzo: vasellame di uso quotidiano e altre legate, invece, alla sfera del culto. Né mancano le testimonianze epigrafiche, relative sia a prima che a dopo la romanizzazione. DOVE E QUANDO Museo Sigismondo Castromediano Lecce, viale Gallipoli 28 Orario dal martedí alla domenica, 9-00-22,00; lunedí chiuso. Info tel. 0832 373572; e-mail: museocastromediano.lecce@ regione.puglia.it: Facebook: Museo Castromediano - Lecce a r c h e o 83


SPECIALE • TUTELA DEL PATRIMONIO

«FARE LA GUERRA IN ITALIA È COME COMBATTERE IN UN MALEDETTO MUSEO »

(Mark Wayne Clark, generale statunitense al comando delle truppe americane in Italia nella seconda guerra mondiale)

LA PROTEZIONE DEI BENI CULTURALI IN AREE DI CRISI FIN DALL’ANTICHITÀ, MONUMENTI, STATUE, DIPINTI, MA ANCHE INTERE CITTÀ, SONO DIVENUTI «VITTIME COLLATERALI» DELLE GUERRE. UNA SORTE DI CUI SONO STATE ARTEFICI GRANDI CIVILTÀ DEL PASSATO, MA CHE CONTINUA A ESSERE, PURTROPPO, RINNOVATA DAI BELLIGERANTI DEL NOSTRO TEMPO. UN DESTINO CONTRO IL QUALE SI DEVE LOTTARE CON OGNI FORZA, NELLA CONSAPEVOLEZZA CHE UN PAESE PUÒ DIRSI VIVO SOLO SE LO È ANCHE IL SUO PATRIMONIO CULTURALE di Gabriele Cifani e Massimiliano Munzi

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Il tema della protezione dei beni culturali è stato al centro del workshop organizzato a Vicenza nei giorni 11-13 ottobre 2022 dal Center of Excellence for the Stability Police Units (CoESPU) dell’Arma dei Carabinieri e sotto l’egida dell’European Union Police and Civilian Services Training (EUPCST) e, soprattutto, del recente e importante convegno internazionale organizzato a Vicenza dal 27 al 29 settembre di quest’anno dallo stesso CoESPU insieme al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Entrambi gli eventi (svolti sotto la curatela scientifica del tenente colonnello Diego D’Elia, docente presso il CoESPU e sotto la direzione del colonnello Giuseppe De Magistris, comandante del reparto) sono stati l’occasione, anche per gli autori di questo Speciale di «Archeo», per confrontare dottrine, esperienze e potenziali soluzioni adottate da diversi Paesi. Ancor piú di recente, lo scorso 3 novembre, si è tenuto presso l’Università degli Studi di Bergamo un convegno sul ruolo della Croce Rossa Italiana nella protezione dei beni culturali in situazioni di rischio. L’incendio di Troia e la fuga di Enea e Anchise, olio su tela di François Nomé (1593-1620). Stoccolma, Museo Nazionale. a r c h e o 85


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L

a protezione dei beni culturali è tornata prepotentemente alla ribalta in particolare nell’ultimo decennio, come aspetto rilevante della gestione delle crisi tanto in caso di eventi bellici quanto in occasione di calamità naturali. Per inquadrare la problematica è bene ricordare alcuni dati storici, in particolare per quanto concerne l’Italia. Prima ancora che si arrivasse alla definizione di beni culturali (termine adottato per la prima volta nella Conferenza dell’Aia del 1954), gli oggetti d’arte, per il loro elevato valore estetico, simbolico e identitario o piú banalmente economico, sono stati da sempre oggetto di saccheggio, asportazione o distruzione, in ossequio al principio secondo cui «victori sunt spolia» («Il bottino spetta al vincitore»). L’esibizione del saccheggio e la distruzione di città e santuari erano parte integrante della politica di molti popoli del vicino Oriente, tra i piú noti dei quali gli Assiri. Per il mondo greco, non possiamo non ricordare come il mito del saccheggio e della distruzione di

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Troia, con i suoi santuari, sia parte fondante Roma. Particolare dell’identità degli antichi Elleni. del rilievo

LE «VITTIME COLLATERALI» Un discorso analogo può farsi per Roma, dove l’esibizione del bottino di guerra è legata direttamente alla figura di Romolo e ai miti di fondazione della comunità. Per l’epoca storica, è utile ricordare, tra i molti, il saccheggio romano di Siracusa (212 a.C.) sotto il comando di Claudio Marcello, che ebbe tra le «vittime collaterali» anche il celebre Archimede e che fu caratterizzato dall’invio a Roma di numerose opere d’arte, tali da ravvivare l’interesse per la cultura greca e da costituire, secondo Livio, l’inizio di un cambio di gusto nella cultura romana. Seguí, di analoga portata per l’impatto culturale, il saccheggio di Taranto (209 a.C.), che vide, tra le numerose opere d’arte asportate, la celebre statua monumentale bronzea raffigurante Eracle a riposo, alta cinque metri, opera di Lisippo. Ancora memorabile, per la quantità di ope-

dell’Arco di Tito con scena raffigurante il trasporto a Roma del tesoro del Tempio di Gerusalemme. Età domizianea. In primo piano, alcuni inservienti portano la menorah (il candelabro a sette bracci) trafugata insieme ad altri arredi del santuario.


La caduta di Costantinopoli, dipinto del Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti). 1580 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

re d’arte distrutte e razziate, fu il saccheggio di Corinto del 146 a.C., perpetrato dalle truppe di L. Mummio Acaico, e poi ancora, tra i tanti, il sacco di Atene da parte delle legioni di Silla nell’87 a.C., il parziale incendio della biblioteca di Alessandria nel 48 a.C. o il saccheggio e la distruzione di Gerusalemme a opera di Tito nel 70 d.C., con l’asportazione di oggetti identitari della religione ebraica, in particolare la menorah, il candelabro monumentale, aureo, a sette

bracci, poi raffigurato nella scena del trionfo di Tito, a Roma, nell’omonimo arco. Nella cultura romana, comunque, non mancarono anche sensibilità opposte, come ben espresso da Cicerone nella requisitoria contro l’operato di Gaio Licinio Verre in Sicilia, nella quale si sottolineò per la prima volta l’importanza della contestualizzazione dell’opera d’arte e il rispetto dei culti locali. Roma subí a sua volta innumerevoli saccheggi e distruzioni di opere d’arte come a r c h e o 87


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conseguenza di azioni belliche, in particolare quello del 410 a opera dei Visigoti di Alarico. Altrettanto fecero poi i Vandali di Genserico, nel 455, i Saraceni nell’846 – che colpirono duramente le basiliche di S. Paolo e S. Pietro –, quindi i Normanni, che nel 1084 si accanirono contro le basiliche di S. Clemente, dei Ss. Quattro Coronati e dei Ss. Giovanni e Paolo. Senza naturalmente dimenticare il sacco dei Lanzichenecchi del 1527, accompagnato dalla distruzione di innumerevoli opere d’arte rinascimentale, anche nel quadro di una furia iconoclasta legata alle contemporanee dispute tra protestanti e cattolici. Anche la seconda Roma, Costantinopoli, fu oggetto di pesanti razzie e distruzioni, che presero di mira soprattutto i principali luoghi d’arte. Il saccheggio del 1204, nell’ambito della quarta crociata, si accaní particolarmente sulle numerose opere d’arte della città. Piccolo esempio, del ben piú ampio bottino, rimangono i cavalli bronzei di San Marco, asportati dall’ippodromo di Costantinopoli. Nella stessa occasione venne fusa la già citata statua lisippea di Ercole a riposo, la stessa che i Romani avevano sottratto a Taranto e che nel 325 era poi stata trasportata da Roma a Costantinopoli. La città del Bosforo dovette poi subire un ulteriore sac-

IN TRIONFO A PARIGI La prima, vittoriosa, campagna d’Italia dell’armata francese, comandata dal giovane e ambizioso generale Napoleone Bonaparte, fu l’occasione per trasferire le antiche icone repubblicane da Roma alla moderna erede sulla Senna. Il busto bronzeo di Lucio Giunio Bruto dei Musei Capitolini e quello marmoreo allora considerato di Marco Giunio Bruto, anch’esso conservato ai Musei Capitolini (si tratta del ritratto poi identificato con Marcello, oggi ai Musei Capitolini), furono tra le opere d’arte che il papa dovette consegnare alla Repubblica Francese ai sensi del trattato di pace di Tolentino, siglato il 19 febbraio 1797 (che ratificava l’armistizio firmato a Bologna il 23 giugno 1796). Questo all’art. 8 recitava: «Il Papa consegnerà alla Repubblica francese cento quadri, busti, vasi o statue a scelta dei commissari, che saranno inviati a Roma, tra i quali oggetti saranno in particolare compresi il busto in bronzo di Giunio Bruto e quello in marmo di Marco Bruto, entrambi conservati sul Campidoglio, e cinquecento manoscritti a scelta dei medesimi commissari». Le opere d’arte trasferite dall’Italia, tra cui le due statue capitoline e i quattro cavalli bronzei d’età ellenistica della basilica di S. Marco a Venezia, sfilarono nel corteo trionfale che si svolse a Parigi per la Festa della Libertà (27 luglio 1798). Sul primo dei carri che trasportavano le opere d’arte italiane, si poteva leggere «Monuments de la sculpture antique / La Grèce les céda, Rome les a perdus / Leur sort changea deux fois, il ne changera plus» («Monumenti della scultura antica / La Grecia li ha ceduti, Roma li ha perduti / Il loro destino è cambiato due volte, non cambierà piú»). 88 a r c h e o


Incisione raffigurante i Francesi che, entrati a Venezia nel 1797, rimuovono i cavalli di S. Marco e ne predispongono il trasporto in Francia. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

cheggio nel 1453, che comportò la definitiva trasformazione di molte chiese in moschee, fra tutte la basilica di S. Sofia. Questo breve e parziale excursus, che potrebbe essere esteso al resto del mondo – si pensi alla conquista mongola di Baghdad nel 1258, con la distruzione della Bayt al-Hikma, la piú importante biblioteca del mondo islamico, o anche alle razzie e devastazioni operate dai conquistadores in America – e che non tiene nemmeno conto delle immani tragedie umane causate dalle guerre, può far riflettere sull’importanza attribuita alle opere d’arte nel quadro degli eventi bellici e del ruolo da esse svolto per sancire eventi politico-militari.

IN NOME DELLA LIBERTÀ In epoca moderna il principio latino secondo il quale al vincitore spettano le spoglie venne adottato per la prima volta in maniera esplicita dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica, caricandosi nello stesso tempo di un nuovo, moderno, carattere ideologico. Le guerre europee condotte dal generale corso portarono non solo al saccheggio e alla distruzione di molte proprietà ecclesiastiche o aristocratiche, quali simboli culturali dell’Ancien Régime, ma realizzarono per la prima Venezia. I cavalli di S. Marco. Provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli, i bronzi furono trasportati nella città lagunare da Enrico Dandolo alla fine della IV crociata, e collocati sulla facciata della basilica marciana, dove sono rimasti fino al 1977. Sostituiti da una copia, sono oggi custoditi nel Museo di S. Marco. a r c h e o 89


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volta una rapina sistematica delle opere d’arte, sancita formalmente con apposite clausole contenute nei trattati di pace imposti ai popoli soccombenti e attuata da specifiche commissioni composte da competenti tecnici. Nell’ambito della campagna d’Italia, il piú noto di tutti è il trattato di Tolentino del 1797, con il quale fu imposta allo Stato Pontificio la cessione di innumerevoli opere d’arte e manoscritti antichi. Ma pesanti spoliazioni artistiche interessarono anche Milano, Mantova, il Granducato di Toscana, il Regno di Sardegna, quello di Napoli e Venezia: qui, come conseguenza del trattato di Campoformio (1797), fra i tanti capolavori asportati spiccano i cavalli di S. Marco, già predati nel 1204 dai Veneziani a Costantinopoli. Le requisizioni di opere d’arte continuarono per tutta l’età napoleonica, interessando l’intero continente, dal Portogallo all’Europa centrale. Se la copertura giuridica era pertanto offerta dagli stessi trattati di pace, con la richiesta, fino a quel momento inedita, di indennizzi tramite opere d’arte (oltre che in denaro), la giustificazione ideologica era la creazione di un museo nazionale a Parigi, espressione di un patrimonio nazionale in cui le opere fossero di proprietà del popolo (francese) e, al tempo stesso, al fine di concentrare e conservare in un luogo sicuro i beni piú importanti.Vi era infatti l’idea (derivata da Winckelmann) che le arti potessero svilupparsi solo in regime di libertà, e che pertanto la Francia, nuova patria della Liberté, fosse di diritto la sola patria dell’arte. Del resto, le spoliazioni napoleoniche si inserivano nel quadro della nascita e dello sviluppo dei musei nazionali, di proprietà pubblica, di cui il primo esempio fu quello del British Museum, istituito nel 1753. Non mancarono comunque, tra gli intellettuali piú onesti, voci di dissenso, tra cui quella del critico d’arte francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, il quale, nelle Lettere a Miranda, pubblicate a Parigi nel 1796, si pronunciò contro la spoliazione per diritto di conquista e sottolineò l’importanza della contestualizzazione degli oggetti d’arte. 90 a r c h e o

L’Apollo del Belvedere. Copia romana della metà del II sec. d.C. di un originale in bronzo attribuito a Leocare (330-320 a.C.). Città del Vaticano, Museo Pio Clementino.


In basso, sulle due pagine: particolare della decorazione di un vaso in porcellana raffigurante Napoleone che assiste all’arrivo al Louvre delle opere prelevate in Italia. Manifattura di Sèvres, 1810-1813. Sèvres, Musée national de Cèramique. Tra di esse si riconosce l’Apollo del Belvedere (vedi qui accanto).

Dopo la battaglia di Waterloo, al congresso di Vienna, le potenze vincitrici chiesero la restituzione delle opere trafugate che, superando le resistenze dell’amministrazione francese, furono recuperate dai rappresentanti di Prussia e del Belgio. Per quanto concerne l’Italia, va ricordato l’operato di Antonio Canova, che può essere a buon diritto considerato il primo Monument Man, utilizzando una definizione di oltre un secolo posteriore. In quel contesto fu dunque ribadita la connessione tra nazione e patrimonio culturale, in parallelo alle prime disposizioni sulla tutela delle opere d’arte (per lo Stato Pontificio: Chirografo Chiaromonti del 1802 e poi il decreto del Cardinale Bartolomeo Pacca del 1820).

LE SPOLIAZIONI COLONIALI Nel corso del XIX secolo il patrimonio culturale rimase particolarmente esposto, soprattutto nel contesto dei tanti conflitti coloniali. Ricordiamo due casi recentemente tornati di interesse del grande pubblico: i saccheggi della spedizione britannica in Abissinia (1867-1868), parzialmente risarciti da una simbolica restituzione all’ambasciata etiope di Londra nel settembre di questo anno, e quelli connessi alla spedizione britannica nel Benin (1897), che portarono al sequestro di importanti bronzi poi dispersi tra musei europei e attualmente oggetto di

richieste di restituzione da parte della Nigeria, in parte già esaudite. Nel 1899 la Convenzione di pace dell’Aia pose i primi limiti alle distruzioni belliche. Nell’articolo 27 delle Leggi ed usi della guerra terrestre (1899) venne stabilito che avrebbero dovuto essere prese «tutte le misure necessarie per risparmiare, per quanto possibile, gli edifici consacrati ai culti, alle arti, alle scienze e alla beneficenza, i monumenti storici, gli ospedali ed i luoghi di raccolta di malati e feriti». Nell’articolo 56 si stabilí inoltre che «qualsiasi appropriazione, distruzione o degradazione volontaria di simili stabilimenti, di monumenti storici, di opere d’arte e di scienza, è vietata e deve essere perseguita». Nel corso della guerra italo-turca (o «di Libia», 1911-1912) alcuni monumenti andarono danneggiati o distrutti, per la costruzione di trincee e fortificazioni spesso riutilizzando tombe monumentali e fattorie antiche, ma allo stesso tempo la documentazione archeologica fece un passo avanti. Proprio l’accuratezza dovuta alle stringenti esigenze militari fa infatti delle prime carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare una fonte, ancora oggi preziosa. I topografi militari stesero le prime carte topografiche delle città antiche di Sabratha (1913) e Leptis Magna (1914-1915). Inoltre, a guerra ancora in corso, il patrimonio artistico e architettonico libico passò sotto la giurisdizione italiana. Già il 14 gennaio 1912 il comandante del corpo di spedizione italiano, generale Carlo Caneva, emanò un decreto contenente disposizioni per la tutela del patrimonio archeologico e artistico della Tripolitania e della Cirenaica, tra le quali: raccolta e conservazione di materiale archeologico e artistico locale; proibizione di ricerche archeologiche senza previa autorizzazione; denuncia di possesso di materiale archeologico e artistico d’interesse locale; divieto d’esportazione. Il 23 gennaio 1912 un secondo decreto prevedeva l’isolamento dell’arco di Marco Aurelio in Tripoli, in forza del quale il comandante della piazza di Tripoli era autorizzato ad acquistare o a espropriare «il fabbricato denominato Arco di Marco Aurelio e le botteghe al medesimo addossate».

LA PRIMA GUERRA MONDIALE Risoluzioni cruciali, quelle contenute nella Convenzione di pace dell’Aia, che tuttavia non tardarono a essere disattese, proprio in a r c h e o 91


SPECIALE • TUTELA DEL PATRIMONIO

Europa. Durante la prima guerra mondiale, tra i primi atti di devastazione del patrimonio culturale si registrarono nel 1914 la distruzione dell’importante biblioteca di Lovanio e il bombardamento della cattedrale di Reims da parte dell’esercito germanico. Si trattava di eventi che compromisero fin da subito l’immagine dell’esercito tedesco e indirettamente della Quadruplice Alleanza. Per controbilanciare tale aspetto, in seno al Comando tedesco e a quello austriaco vennero istituti due Kunstschutzgruppen (letteralmente, «gruppi per la tutela dell’arte»), finalizzati alla salvaguardia delle opere d’arte nei teatri di guerra.Tra i vari componenti, si ricorda in particolare l’archeologo Guido Kaschnitz von Weinberg (18901958), insigne storico dell’arte antica e futuro direttore dell’Istituto Archeologico Germanico (1953-1956). Sul teatro di guerra italiano bombardamenti austriaci e tedeschi colpirono, tra l’altro, Venezia, con danni al patrimonio artistico tra i quali la perdita di una tela del Tiepolo nella chiesa di S. Maria di Nazareth, Ancona, con il danneggiamento del duomo di S. Ciriaco, e Ravenna. Ma non mancarono edifici storici distrutti dall’esercito italiano, come il Castello dei Collalto, ubicato sul fronte del Piave e sede di un caposaldo austriaco. Sempre a Venezia si adottarono alcuni tra i primi esperimenti di protezione delle opere d’arte dai bombardamenti, mentre i cavalli di S. Marco furono ricoverati in Palazzo Ducale e, dopo la ritirata di Caporetto, trasportati a Roma, nel cortile di PalazzoVenezia. Responsabile per le attività di protezione del patrimonio artistico in quei difficili anni fu Corrado Ricci (1858-1934), allora direttore generale delle Antichità e Belle Arti. In quel contesto bellico in Italia si comprese l’importanza non solo culturale della protezione del patrimonio artistico, ma anche la sua valenza strategica nella propaganda, per screditare il nemico, necessariamente ritratto come responsabile unico delle devastazioni culturali. Un ruolo di primo piano a riguardo fu svolto dall’intellettuale e giornalista Ugo Ojetti (1871-1946), che, arruolatosi volontario come sottotenente del Genio, fu incarica92 a r c h e o

In alto: il generale Carlo Caneva visita nel marzo 1912 le tombe scoperte dall’82° Reggimento Fanteria a Gargaresh (Libia). Al centro: protezioni a difesa della basilica veneziana di S. Marco apprestate durante la prima guerra mondiale. A sinistra: Ugo Ojetti nel 1915.


Placca in bronzo raffigurante due suonatori di tamburi e un terzo personaggio, a destra, che sorregge lo strumento del musicista al centro, da Benin City. Cultura Edo, XVI-XVII sec. Londra, British Museum.

to dal maggio 1915 della tutela dei monumenti nelle zone di guerra, venendo assegnato all’ufficio Affari civili del Comando supremo, con sede a Udine, dove si occupò presto anche dell’Ufficio Stampa. Al termine del conflitto fu inoltre istituita un’apposita commissione per la restituzione degli oggetti di importanza artistica e storica transitati in vario modo dall’Italia all’Austria tra il 1915 e il 1918 (nonché per altri reperti al centro di contenziosi fin dalla Terza Guerra d’Indipendenza), composta dal te-

nente Paolo D’Ancona, da Gino Fogolari, soprintendente delle Regie Gallerie di Venezia, e da Giulio Coggiola, direttore della Biblioteca Marciana di Venezia.

TRA LE DUE GUERRE Circa due decenni piú tardi fu purtroppo l’Italia a rendersi protagonista di sottrazioni al patrimonio culturale di uno Stato membro della Società delle Nazioni. In occasione della guerra d’Etiopia (1935-1936) fu portata a Roma una delle antiche stele della città di a r c h e o 93


SPECIALE • TUTELA DEL PATRIMONIO La stele di Axum, restituita dall’Italia all’Etiopia nel 2008.

Axum, insieme ad altri monumenti bronzei ottocenteschi: monumenti che sono stati restituiti al Paese africano solo dopo lunghe negoziazioni, terminate nel 2008 con il ricollocamento del monolite nel sito originario. La guerra civile spagnola anticipò alcune strategie militari destinate a essere applicate su ampia scala nella seconda guerra mondiale, tra cui la protezione del patrimonio culturale anche come mezzo di propaganda. I repubblicani, anche in seguito alla distruzione di numerosi edifici ecclesiastici, crearono il 1° agosto 1936 la Junta de Incautación y Protección del Tesoro Artístico, che si prodigò anche per salvare collezioni di Stato da numerosi bombardamenti, mentre i nazionalisti istituirono il 23 dicembre del 1936 le Juntas de Cultura Histórica y del Tesoro Artístico e, il 14 gennaio del 1937, il Servicio Artístico de Vanguardia per monitorare la situazione nei territori conquistati.

IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE La seconda guerra mondiale mise a dura prova i sistemi di protezione dei beni culturali. L’impiego di bombardamenti aerei su ampia scala, quando non a tappeto, arrecò ingenti danni a molte città, tra cui Londra, Varsavia, Amburgo, Berlino, Dresda, mentre in Italia furono duramente colpiti i monumenti di Palermo, Napoli, Pisa, Bologna, Milano, Torino, Benevento, nonché i siti archeologici di Pompei e Tivoli. Una prima forma di tutela fu offerta dalla dichiarazione di «città aperta» (secondo la Convenzione di Ginevra) di alcuni tra i maggiori centri d’arte europei, tra cui Atene, Parigi, Bruxelles, Cracovia e, in Italia, Roma, Firenze, Orvieto, anche se tale clausola non venne sempre rispettata, come nel caso di Belgrado, città aperta che fu comunque bombardata dalla Luftwaffe, tanto da causare anche la distruzione della Biblioteca Nazionale. Nonostante gli appelli del pontefice Pio XII, in particolare nel 1941 e 1942, Roma venne solo parzialmente risparmiata, anche perché, nel caso della capitale italiana, lo status di città aperta fu considerato dagli Alleati una tardiva, unilaterale, oltre che irreale, formulazione del governo Badoglio, che l’aveva dichiarato nell’agosto del 1943. Nel solo 1943, la città fu oggetto di 51 incursioni aeree, tra cui il bombardamento del quartiere di San Lo94 a r c h e o


renzo, il 19 luglio, che colpí pesantemente anche l’omonima basilica medievale. Ciononostante, spesso grazie anche all’abile negoziato della diplomazia vaticana, le parti combattenti si mostrarono consapevoli dell’importanza strategica e quindi politica della protezione dei beni culturali.

SCELTE DIFFICILI A questo riguardo risulta fondamentale la direttiva diramata il 29 dicembre 1943 dal generale Dwight Eisenhower, futuro 34° presidente USA: «Oggi stiamo combattendo in un Paese che ha contribuito molto alla nostra eredità culturale, un Paese ricco di monumenti che con la loro creazione hanno contribuito e ora, nella loro antichità, illustrano la crescita della civiltà che è nostra. Siamo tenuti a rispettare questi monumenti per quanto la guerra lo consenta. Se dobbiamo scegliere tra la distruzione di un edificio famoso e il sacrificio dei nostri uomini, allora le vite dei nostri uomini contano infinitamente di piú e gli edifici devono essere distrutti. Ma la scelta non è sempre cosí netta. In molti casi i monumenti possono essere risparmiati senza alcun danno per le esigenze operative. Nulla può essere opposto all’argomento della necessità militare. È un principio accettato. Ma l’espressione “necessità militare” viene talvolta utilizzata quando sarebbe piú corretto parlare di convenienza militare o addirittura di convenienza personale. Non voglio che questo si ammanti di pigrizia o di indifferenza. È responsabilità dei comandanti superiori determinare, attraverso gli ufficiali dell’A.M.G. [Allied Military Government of Occupied Territories], l’ubicazione dei monumenti storici, sia che si trovino immediatamente davanti alle nostre linee del fronte, sia che si trovino in aree da noi occupate. Queste informazioni, trasmesse ai livelli inferiori attraverso i normali canali, comportano per

Francobolli emessi dall’Etiopia per celebrare la restituzione della stele di Axum, portata in Italia nel 1937. Sui valori è indicato l’anno 1998, poiché era quella la data entro la quale il Governo italiano si era impegnato a concludere l’operazione, che si concretizzò invece solo dieci anni piú tardi.

tutti i comandanti la responsabilità di rispettare lo spirito di questa lettera» (Allied Force Headquarters, Office of the Commander-in-Chief, 29 dicembre 1943, prot. AG 000.4-1). Gli faceva eco il generale Clark, rilevando con disappunto che «Fare la guerra in Italia è come combattere in un maledetto museo». Sia gli eserciti alleati, sia la Wehrmacht, consci della posta in gioco e del valore propagandistico legato alla tutela dei beni culturali in guerra, organizzarono specifici reparti. Per gli Alleati, il programma Monuments, Fine Arts, and Archive, MFAA (Monumenti, Belle Arti e Archivi) comprendeva circa 345 esperti, che operarono dal 1943 al 1951, sotto il comando diretto di Eisenhower. Sul fronte opposto, il Kunstschutz, come servizio interno alla Wehrmacht, cominciò a operare in Italia nell’autunno 1943, dopo l’armistizio di Cassibile, ma, oltre alla protezione degli oggetti d’arte (celebre il caso del trasferimento dei beni artistici mobili, oltre che dei manoscritti dall’abbazia di Montecassino nel 1944, prima del suo bombardamento da parte degli Alleati, richiesto con forza dal generale neozelandese Bernard Freyberg), si rese partecipe anche dell’asportazione di materiali verso la Germania che furono rimpatriati solo nel dopoguerra, soprattutto grazie all’operato dell’agente segreto italiano Rodolfo Siviero (1911-1983).

IN PRIMA PERSONA PER IL SALVATAGGIO Da ricordare è anche l’azione di tutela sul territorio eseguita da funzionari italiani mediante lo spostamento di opere d’arte mobili in luoghi sicuri e segreti, secondo elenchi predisposti a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, o anche la protezione con sacchi di sabbia di opere non rimovibili. Emergono figure, spesso ignote al grande pubblico, che si prodigarono per salvaguardare molti beni storico-artistici e archeologici, tra cui: Gino Chierici (1877-1961) soprintendente per l’arte medievale e moderna di Milano, a cui si deve, tra molte, la a r c h e o 95


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protezione dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, nel refettorio di S. Maria delle Grazie, complesso invece distrutto dai bombardamenti dell’agosto 1943; o Fernanda Wittgens (1903-1957), direttrice della Pinacoteca di Brera, che riuscí a porre preventivamente in salvo tutte le opere non solo del museo da lei diretto (il cui edifico fu per due terzi distrutto dai bombardamenti dell’agosto 1943), ma anche del Museo Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’Ospedale Maggiore. Su una scala piú ampia si dispiegò l’opera di Pasquale Rotondi (1909-1991), soprintendente delle Marche, il quale, con grande discrezione, tra il 1939 e il 1944 riuscí a porre in salvo oltre 7000 opere d’arte in depositi segreti dell’Italia centrale, sottraendole alle razzie naziste, come pure ai bombardamenti alleati. Negli stessi anni la soprintendente archeologa Jole Bovio Marconi (1987-1986) poté trasferire e salvare dalla distruzione diversi beni archeologici depositandoli nell’abbazia benedettina di San Martino delle Scale, fuori dalla città di Palermo, poi devastata dai bombardamenti. Particolarmente meritoria, sebbene poco

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conosciuta, fu inoltre l’opera di salvataggio condotta dagli archeologi italiani in servizio in Libia durante la guerra. La Regia Soprintendenza di Libia, in particolare nella figura dell’ispettore per la Cirenaica Gennaro Pesce (1902-1984), rimase in attività anche nei momenti piú terribili del conflitto con l’arduo compito, affidatole dall’agonizzante governo coloniale, di evitare che il patrimonio archeologico cadesse nelle mani del nemico e, piú in generale, che venisse danneggiato dai combattimenti. Grazie agli automezzi messi a disposizione dal Regio Esercito, fu possibile trasferire i beni mobili dalla Cirenaica, investita in pieno dalle operazioni belliche, alla Tripolitania. Piena fu poi la cooperazione con gli archeologi dell’VIII Army britannica (il tenente colonnello Mortimeer Wheeler e il maggiore di artiglieria John Bryan Ward-Perkins, che sarà poi direttore della British School at Rome dal 1946 al 1974) e successivamente con gli Antiquities Officiers della British Military Administration. A loro si deve l’adozione di misure di protezione delle antichità, tra le quali la ripresa dell’attività della Soprintendenza italiana,

Soldati della 7ª Armata statunitense recuperano tre dipinti dal castello bavarese di Neuschwanstein, presso Füssen, nel quale erano state portate molte delle opere d’arte razziate dai nazisti come bottino di guerra o provenienti da raccolte sequestrate a Ebrei e oppositori al regime, quali le collezioni Rothschild e Wildenstein.


Un soldato statunitense esamina alcune tele facenti parte della collezione d’arte riunita da Hermann Göring. Le opere furono ritrovate nel maggio 1945 in un nascondiglio allestito in una grotta nei pressi della cittadina bavarese di Berchtesgaden, dove Adolf Hitler aveva fatto realizzare la sua residenza nota come Nido dell’Aquila.

ridici eterogenei nel campo della protezione dei beni culturali in tempo di guerra. In particolare, all’Aia, il 14 maggio 1954 fu stipulato il primo trattato internazionale dedicato alla protezione del patrimonio culturale in aree di guerra (Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict), entrato in vigore il 7 agosto 1956. Con il suo primo protocollo, esso rimane alla base della moderna dottrina, con l’integrazione varata nel 1999 (Second Protocol to the 1954 Hague Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict), che prevede il principio dell’aut dedere aut iudicare («o estradare o punire»). Nel 1972, poi, le Nazioni Unite, per il tramite dell’UNESCO, recepiscono l’importanza della protezione del patrimonio culturale, emanando la Convenzione per la protezione DAL SECONDO del patrimonio mondiale (Convention concerDOPOGUERRA A OGGI Nel secondo dopoguerra si è cercato di por- ning the protection of the world cultural and nature a sistema una serie di provvedimenti giu- ral heritage). Questa, unitamente alle previsiocon il ritorno del personale italiano negli uffici territoriali abbandonati. Infine, per quanto concerne la Germania, molte raccolte museali e librarie vennero sistematicamente saccheggiate dall’esercito sovietico nel 1945, che creò, in gran segretezza, specifiche unità di tecnici finalizzate al sequestro di opere d’arte. Una parte dei beni razziati furono poi restituiti alla Repubblica Democratica Tedesca (tra questi l’Altare di Pergamo e la Madonna Sistina di Raffaello), ma la maggior parte del bottino è rimasta in Russia, a titolo di compensazione dei danni di guerra. Tra i materiali piú noti, vi è il cosiddetto Tesoro di Priamo, rinvenuto da Heinrich Schliemann a Troia, almeno in parte conservato al Museo Pushkin.

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ni di altre convenzioni, ha dato origine al recente Manuale Militare di Protezione dei Beni Culturali, edito nel 2016 dall’UNESCO. Per attuare i principi della Convenzione dell’Aia del 1954, nel 1996 è stata poi fondata l’organizzazione internazionale Blue Shield, da parte di quattro organizzazioni non governative: l’ICA (International Council on Archives), l’ICOM (International Council of Museums), l’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites) e l’IFLA (International Federation of Library Associations and Institutions). Il fine dell’organizzazione, tramite una serie di commissioni in vari Paesi, è la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato o di disastri umani o naturali, in collaborazione con l’UNESCO e con la Croce Rossa. Nonostante questa evoluzione normativa e organizzativa, proprio nell’ultimo trentennio, per via della maggiore sensibilità acquisita dall’opinione pubblica occidentale, i beni culturali sono stati forse maggiormente colpiti nei conflitti, nell’ambito di precise strategie di comunicazione o anche per sistematico saccheggio, favorito anche dalla globalizzazione dei mercati d’arte. 98 a r c h e o

L’elenco potrebbe iniziare con il conflitto iugoslavo (1991-1995), dove l’aspetto di guerra civile tra differenti gruppi etnici ha portato spesso alla deliberata distruzione del patrimonio culturale del nemico, al fine di eliminarne il sostrato identitario nel territorio oggetto di disputa. Possiamo ricordare innumerevoli distruzioni di chiese o minareti, ma anche due episodi emblematici, come l’incendio della biblioteca di Sarajevo (25-26 agosto 1992) e la distruzione del cinquecentesco ponte di Mostar (9 novembre 1993), poi ricostruito e riaperto nel 2004, con l’inserimento nell’elenco dei patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. In relazione a questo contesto ci piace ricordare la figura di Fabio Maniscalco (1965-2008), archeologo e ufficiale dell’Esercito Italiano, che nell’ambito delle missioni multinazionali di pace IFOR, SFOR e ALBA effettuò monitoraggi del patrimonio culturale della Bosnia ed Erzegovina e d’Albania, attività che verranno riproposte anche in AFOR e KFOR. La lunga e irrisolta guerra che ha interessato l’Afghanistan dal 2001 al 2021 ha visto distruzioni di opere d’arte figurativa praticate scientemente dal governo talebano, a cui si

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.


Nella pagina accanto: il ponte di Mostar (XVI sec.), in Bosnia ed Erzegovina, distrutto nel 1993, ricostruito e riaperto nel 2004 e inserito nel 2005 dall’UNESCO tra i patrimoni dell’Umanità. In basso: un’immagine del forte di Ras el-Mergheb, nei pressi di Leptis Magna (Libia), nel 2012, dopo i bombardamenti delle forze NATO.

è aggiunta nel tempo una moltitudine di In Egitto, nel 2011 gli scontri di piazza legati scavi illeciti nel territorio, favoriti dall’insta- alla «primavera araba» e il clima di instabilità politica hanno causato il saccheggio parziale bilità politica del Paese. del Museo Egizio del Cairo, del Museo greco-romano di Alessandria, del Museo MallaDANNI E RAZZIE Ancora piú grave la situazione in Iraq. Furti e wi di Minia e dei siti archeologici di Giza, saccheggi di musei si erano verificati già in Sakkara e Asswan. Le stime, fornite dal diretoccasione della prima guerra del Golfo (1991), tore del museo egizio, Tarek El Awady, parlama sono state la seconda guerra del Golfo vano di almeno 70 milioni di euro di danni e (2003-2011) e la successiva guerra civile a di 54 pezzi rubati dal solo Museo del Cairo. causare, oltre a devastanti perdite umane, an- Ancora piú grave e non ben quantificabile è che gravi danni al patrimonio culturale. Il la situazione in Siria, precipitata dal 2011 in saccheggio del Museo di Baghdad, avvenuto una sanguinosa guerra civile che ha portato tra il 10 e il 12 aprile 2003, ha portato alla alla distruzione di innumerevoli siti, ci limidevastazione di archivi e laboratori di restauro tiamo a ricordare: la parziale distruzione e al furto di numerose sculture di epoca assira della moschea omayyade di Aleppo nel core romana. Altri danni e saccheggi di istituzio- so dei combattimenti del 2013, le demolini museali si sono susseguiti nel territorio. In zioni pianificate dall’ISIS nel sito di Palmira, particolare, una parte dell’area archeologica di insieme alla barbara uccisione dell’ex diretBabilonia è stata interessata dalla costruzione tore degli scavi, l’archeologo Khaled aldi un campo militare degli USA. Un’indagine Asaad (1932-2015), che aveva provveduto a indipendente condotta sui siti di Isin, Tell nascondere numerosi reperti per sottrarli ai Jokha (l’antica Umma) e Bismaya (l’antica razziatori. Forse perfino piú grave, per via Adab) ha rivelato come gli scavi clandestini della sua capillarità, è la concessione di lisiano aumentati sensibilmente dopo la caduta cenze di scavo dietro pagamento praticata dall’ISIS nei territori occupati; un fenomedel regime di Saddam Hussein. no ben visibile nel sito archeologico di Dura Europos, completamente devastato da sterri per il recupero di oggetti antichi, nel corso del 2014. Spostandonci in Africa, nel 2012-2013, fondamentalisti islamici hanno colpito la città di Timbuctú (Mali), demolendo marabutti e cercando di distruggere alcuni archivi e biblioteche locali. Venendo ai conflitti odierni, ancora incerta e in evoluzione è la situazione in Ucraina, dove a partire dal 2022, secondo l’UNESCO (aprile 2023), 248 monumenti sarebbero stati danneggiati e alcuni completamente distrutti. Potenzialmente critica è anche la situazione dei beni culturali nella Striscia di Gaza oggetto dei recenti eventi bellici.

LE CAUSE DELLE DISTRUZIONI Gli eventi degli ultimi tre decenni hanno mostrato che le cause della distruzione o danneggiamento dei beni culturali in contesti bellici possono essere molteplici: 1. scarsa o inadeguata considerazione durante la pianificazione operativa; 2. esigenza militare; 3. «danni collaterali»; 4. mancanza di consapevolezza da parte degli operatori militari e non solo; 5. pratiche da «bottino di guerra»; 6. saccheggio (a opera di chiunque); 7. acquisti a r c h e o 99


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in buona fede di beni culturali in mancanza di legislazione specifica da parte della nazione ospitante; 8. motivazioni religiose, politiche o ideologiche (beni culturali come simboli identitari da abbattere; è il caso delle distruzioni in Iraq e Siria operate dall’ISIS); 9. visibilità mediatica, legata al punto precedente; 10. lucro derivante dalla vendita di oggetti antichi sui mercati internazionali (spesso fonte di finanziamento per gruppi terroristici e organizzazioni criminali). L’esperienza storica, appresa dai conflitti antichi e recenti, ha insegnato che le crisi internazionali non possono essere risolte solo con l’uso della forza, ma che, al contrario, per ristabilire condizioni di sicurezza nelle aree colpite, occorre un approccio maggiormente integrato, che tenga presenti fattori non puramente militari, dei quali uno dei piú importanti è certamente quello della difesa del patrimonio culturale. 100 a r c h e o

Come dimostrano i conflitti nei Balcani negli anni Novanta dello scorso secolo, ma soprattutto quelli susseguitisi in Afghanistan, Iraq e Siria nei primi due decenni del nuovo millennio, le distruzioni dei beni culturali sono infatti elementi cruciali e ricorrenti. Per i talebani e per il sedicente Stato Islamico, in particolare, monumenti e memorie dell’età preislamica si sono trasformati in obiettivi da colpire non tanto per motivi religiosi, ma per ragioni ideologiche, in quanto simboli di specifiche identità nazionali che si vuole rimettere in discussione. Sono stati cosí cannoneggiati i colossali Buddha di Bamiyan in Afghanistan, devastato il Museo di Mosul e gravemente danneggiate le antiche città di Nimrud e di Hatra in Iraq, oltraggiati i monumentali siti archeologici di Apamea e di Palmira in Siria. Sulla scorta della lezione della storia antica e recente, tra gli altri attori internazionali la


Sulle due pagine: la valle di Bamiyan, in Afghanistan. Le nicchie ricavate nella parete rocciosa ospitavano due statue colossali del Buddha, databili tra il III e il V-VI sec. d.C., distrutte dai talebani nel marzo 2001. a r c h e o 101


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NATO ha dimostrato di essere consapevole che la protezione dei beni culturali deve rivestire un ruolo essenziale in ambito militare, essendo un indicatore critico della sicurezza, della coesione e dell’identità delle comunità, elaborando e pubblicando un manuale dedicato. Danni collaterali al patrimonio culturale possono infatti avere conseguenze politiche significative e diventare una tattica messa in atto appositamente per impedire la stabilizzazione sociale delle comunità colpite. Riconoscendo il legame con il piú ampio programma di protezione della popolazione civile, l’attenzione ai beni culturali è un aspetto importante dell’approccio della NATO nelle fasi operative e in quelle finalizzate a ricostruire la pace e la sicurezza. Gli obblighi della NATO in materia di protezione dei beni culturali derivano sia dai suoi valori, sia dal diritto internazionale. Il preambolo del Trattato dell’Atlantico del Nord afferma che gli alleati sono «determinati a salvaguardare la libertà, il patrimonio comune e la civiltà dei loro popoli». La base giuridica è la già ricordata Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, mentre i suoi protocolli costituiscono lo strumento normativo.

OBBLIGHI E DEROGHE Come noto, è fatto generale divieto di attacco ai beni culturali, con specifiche deroghe in caso di imperativa necessità militare. Cinque sono le condizioni cumulative che possono determinare tale deroga: se il bene culturale in questione è stato reso, per la sua funzione, obiettivo militare; se la sua distruzione, parziale o totale, cattura o neutralizzazione offrono un sicuro vantaggio militare; se non esiste alternativa praticabile per ottenere un simile vantaggio militare; la deroga può essere richiesta solo dagli ufficiali in comando, o da un ufficiale di una forza minore, quando le circostanze non consentono altrimenti; se possibile, deve essere dato un preavviso di attacco. In generale, è vietato l’uso dei beni culturali per scopi militari. Ci sono tuttavia eccezioni in caso di necessità militare imperativa secondo due condizioni cumulative: se non esiste un’alternativa praticabile per ottenere un vantaggio militare simile; può essere invocato solo dagli Ufficiali in comando o da Ufficiali 102 a r c h e o

di grado inferiore a capo di un’unità militare di grandi dimensioni, qualora le circostanze non consentano altrimenti. La NATO applica il suo mandato di protezione del patrimonio culturale in tutte le sue aree operative. In Kosovo, in particolare, la Forza NATO del Kosovo (KFOR) ha avuto il compito di proteggere siti culturali (per esempio il Monumento di Gazimestan) e monasteri ortodossi (per esempio quelli di Gracanica, Zociste, Budisavci, Gorioc, Devic, dell’Arcangelo, il Patriarcato di Pec) fino a quando il miglioramento delle condizioni di sicurezza non ha permesso di lasciare tale responsabilità alla polizia del Kosovo. Solo il monastero di Decani rimane ancora oggi sotto la protezione della KFOR. In Afghanistan le forze NATO hanno partecipato a iniziative quali la costruzione di strutture temporanee per la conservazione dei reperti archeologici, la ricostruzione del Museo Nazionale dell’Afghanistan e la protezione del patrimonio culturale a Ghazni. Durante l’operazione Unified Protector in Libia, la

Nella pagina accanto: la Moschea Djinguereber a Timbuctu, nel Mali. In questa pagina: immagini satellitari di Dura Europos (Siria), riprese nel 2011 (in alto) e nel 2014: quest’ultima evidenzia le devastazioni subite dal sito dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011.


Medaglia conferita dalla Federazione Russa ai militari distintisi nelle operazioni di sminamento del sito di Palmira.

nella stabilizzazione delle aree interessate da crisi quanto nel riflettere un’immagine virtuosa degli operatori militari, è una valutazione condivisa anche dalla Federazione Russa. Lo dimostra il risalto dato alla riconquista di Palmira nel marzo 2016 da parte delle forze siriane grazie all’intervento determinante dell’aviazione russa e alle immediatamente successive attività di sminamento del sito archeologico effettuate da militari russi. La Federazione Russa ha creato apposite decorazioni per i partecipanti, russi e siriani, a queste operazioni. Occorre aggiungere che alcuni degli eserciti UN’ATTIVITÀ STRATEGICA Diversi istituti di formazione hanno svilup- alleati si sono inoltre dotati di specifiche unipato corsi di formazione per il personale tà per la protezione dei beni culturali, in otmilitare sul concetto di protezione dei temperanza all’articolo 7 della Convenzione beni culturali e sulla sua applicabilità in con- dell’Aia del 1954 che prevede, nel nucleo testi operativi. Il Centro di eccellenza per la delle Forze armate, la presenza di «servizi o cooperazione civile-militare (Civil-Military personale specializzati, aventi il compito di Cooperation Centre of Excellence), con sede assicurare il rispetto dei beni culturali e di all’Aia (Paesi Bassi), coordina questi sforzi di collaborare con le autorità civili incaricate formazione. Che la protezione del patrimo- della loro salvaguardia». nio culturale sia altamente strategica, tanto Già al 1953 risale la creazione della Sezione NATO ha utilizzato i dati forniti da diverse fonti, tra cui l’UNESCO e il mondo accademico, per integrare la protezione dei beni culturali nella pianificazione degli attacchi aerei. Nel caso di Ras el-Mergheb, collina sita nel suburbio di Leptis Magna, questi si sono dimostrati estremamente precisi, tanto da distruggere la stazione radar posta nel sito lasciando intatto l’adiacente arco romano, seppur danneggiando i superstiti resti del forte italiano, costruito riutilizzando parte delle strutture di età romana.

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SPECIALE • TUTELA DEL PATRIMONIO

Affari Culturali e Informazione in seno all’esercito olandese. Negli USA, nel 2015, è stato istituito un programma specifico di protezione dei beni culturali, in cooperazione con lo Smithsonian Museum, nell’ambito del Gruppo Iniziative Strategiche del Comando Affari Civili e Operazioni Psicologiche dell’Esercito. Nel Regno Unito è stata creata nel settembre 2018 la Cultural Property Protection Unit (CPPU), che comprende archeologi, curatori museali e restauratori addestrati per operare in teatri di guerra. L’Italia, d’intesa con l’UNESCO, ha istituito con DL del 31 marzo 2022 n. 128 la task force Caschi Blu della Cultura, di cui sono componenti il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e il Ministero della Cultura. Campo prioritario e cruciale della modalità integrata di approccio alla restituzione alla popolazione locale di un ambiente stabilizzato fondato su uno Stato di diritto, la protezione del patrimonio culturale rappresenta uno degli elementi principali da tenere in considerazione in ogni teatro operativo che dovrebbero essere attuati nel contesto delle missioni internazionali di pace. L’esperienza pregressa ha individuato nelle forze di polizie schierate nell’ambito delle missioni internazionali l’attore piú idoneo per il raggiungiUN MONITO UNIVERSALE «A Nation stays alive when its Culture stays alive» («Una nazione vive, se la sua cultura vive»): queste parole furono scritte, in persiano antico e in inglese, su un drappo che venne poi appeso sopra l’ingresso del Museo Nazionale dell’Afghanistan a Kabul nel 2002. Lo stesso motto, nel 2003, è stato poi inciso su una targa lapidea. L’allora Direttore Generale

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dell’UNESCO Koichiro Matsuura lo definí «un messaggio che simboleggia il profondo attaccamento dell’Afghanistan alla sua memoria e al suo patrimonio culturale e dovrebbe essere una fonte di ispirazione per tutti noi. Dimostra che il patrimonio culturale non è solo un inestimabile valore di per sé, ma anche un fattore cruciale di sviluppo e riconciliazione».


mento di questo scopo (attività definite di Stability Policing o «polizia di stabilità»).

BENI DI IMPORTANZA PRIMARIA Essendo il patrimonio culturale ampiamente percepito come bene comune di primaria importanza, in quanto elemento fondamentale dell’identità collettiva, la sua protezione diviene un prerequisito per ripristinare la coesione sociale nelle aree interessate da conflitti. La tutela del patrimonio culturale aiuta a creare comunicazioni efficaci con le comunità locali e contribuisce efficacemente a restituire credibilità alle istituzioni locali. Per converso, lacunosità in termini di pianificazione, direttive e consapevolezza da parte degli operatori militari e di polizia, e ancor piú eventi quali sottrazioni come bottino di guerra, saccheggi, mercato nero e traffici illeciti, danneggiamenti volontari (per rappresaglia), involontari o accidentali non fanno che influire in maniera fortemente negativa sulle attività di stabilizzazione post-conflitto, suscitando l’ostilità delle popolazioni locali, erigendo in tal modo una barriera tra queste e gli operatori internazionali. In particolare, il danneggiamento e l’appropriazione indebita di beni culturali da parte delle forze militari o del personale civile internazionale possono facilmente mutarsi in un’arma tremendamente potente nelle mani della controparte. La centralità rivestita dalla protezione dei beni culturali ai fini della riuscita di operazioni di pace è dunque acclarata. Ne consegue la necessità di un’adeguata implementazione delle attività di pianificazione e delle capacità delle unità impiegate sul campo. Se da una parte appare evidente la necessità di mantenere aggiornati piani operativi che

Nella pagina accanto, dall’alto: l’ingresso del Museo Nazionale dell’Afghanistan a Kabul; il drappo appeso nel 2002 sulla porta dell’edificio recante la scritta «A Nation stays alive when its Culture stays alive» («Una nazione vive, se la sua cultura vive»); il motto inciso sulla lapide, nel 2003.

minimizzino il coinvolgimento dei beni culturali, individuando già in questa fase tutti i possibili portatori d’interesse e autorità responsabili locali, dall’altra emerge chiaramente l’opportunità non solo di regolamenti e istruzioni che abbiano per oggetto il comportamento in presenza di patrimonio culturale calati nella specificità di ciascun teatro operativo, ma anche di prevedere la presenza di consulenti culturali nello staff del Comandante delle operazioni. In conclusione, nelle aree di crisi la protezione del patrimonio culturale è elemento cruciale delle attività di Stability Policing: essa dovrebbe essere inclusa tra i compiti principali di ogni missione; ogni possibile sforzo per preservare il patrimonio culturale dovrebbe essere compiuto da tutti gli attori sul campo; è necessario che il personale militare, civile e di polizia sia consapevole dell’importanza del patrimonio culturale; e che ogni unità di media-grande dimensione sia dotata di personale con formazione specifica nel campo dei beni culturali; le autorità locali, la popolazione e i leader religiosi debbono essere coinvolti direttamente, per quanto possibile, nello sviluppo di qualsiasi attività legata al loro patrimonio culturale, perché «A Nation stays alive when its Culture stays alive». Sulla scorta dell’esempio di alcune forze armate di ambito NATO, si auspica che a fianco delle due componenti principali che sono presenti nei teatri d’impiego propri delle aree destabilizzate, ovvero quelle militari e di polizia, venga schierata, fin dalla fase di pianificazione e con una forza organica e una capacità operativa adeguata, anche la componente scientifica, per garantire una migliore protezione del patrimonio culturale.

PER SAPERNE DI PIÚ Robert M. Edsel, Monuments men. Eroi alleati, ladri nazisti e la piú grande caccia al tesoro della storia, Sperling & Kupfer, Milano 2013 Robert M. Edsel, Monuments men: missione Italia, Sperling & Kupfer, Milano 2014 Emilio Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, Roma 1947 Luigi Gallo, Raffaella Morselli (a cura di), Arte liberata. Capolavori salvati dalla guerra 1937-1947, (catalogo della mostra, Roma 2022-2023), Electa, Milano 2022 Umberto Gentiloni Silveri, Maddalena Carli,

Bombardare Roma. Gli Alleati e la «Città aperta» (1940-1944), il Mulino, Bologna 2007. Giovanni Pinna, Divagazioni sulla storia politica dei musei, 2019; https://giovanni.pinna.info/libro.html Rebeca Saavedra Arias, La sorte del patrimonio artistico spagnolo durante la Guerra Civile (1936-1939), in Diacronie 7.3, 2011. Eleonora Maria Stella, Carteggio di guerra (1914-1919). Corrado Ricci e la protezione del patrimonio artistico durante la grande guerra, Edizioni Quasar, Roma 2021 a r c h e o 105


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL NATALE ALLA LUCE DEL SOLE LA DATA IN CUI SI CELEBRA LA NASCITA DI GESÚ VENNE FISSATA ADOTTANDO LA PROPOSTA DEL MONACO SCITA DIONIGI IL PICCOLO. MA SULLA SCELTA DEL 25 DICEMBRE INFLUÍ SENZA DUBBIO ANCHE IL RETAGGIO DI ANTICHI CULTI SOLARI

I

l 25 dicembre i cristiani celebrano la nascita di Gesú di Nazaret, avvenuta, secondo la tradizione, in una grotta (o una stalla) di Betlemme, dove Maria con Giuseppe si erano dovuti recare per prendere parte a un censimento della popolazione voluto dall’imperatore Augusto: l’evento segna una vera e propria rivoluzione religiosa, spirituale e sociale destinata a modificare e influenzare in maniera radicale la storia dell’umanità. L’evento prodigioso ricorre nei Vangeli di Matteo (1-2) e Luca (1,262,39), ma la data del 25 dicembre e l’anno stesso della nascita sono stati a lungo dibattuti (e continuano a esserlo) sin dal tempo dei primi Padri della Chiesa, oscillando tra il 7 (data del censimento), il 4 (probabile morte di Erode) e l’1 a.C., e proponendo mesi diversi anche a seconda del sistema calendariale adottato dagli esegeti. Tra i vari calcoli eseguiti da dotti religiosi, prevalse nel VI secolo quello proposto dal sapiente monaco scita Dionigi il Piccolo (Exiguus, epiteto che prese per modestia), vissuto a Roma tra la fine del V e l’inizio del VI secolo e autore di un Corpus Iuris Canonici destinato a regolare l’assetto liturgico delle celebrazioni religiose e, in particolare, della Pasqua. Sulla base di computi fondati sulle

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Sacre Scritture e sulla documentazione storica allora disponibile, il monaco fissò all’anno 753 ab urbe condita («dalla fondazione di Roma»)la nascita Gesú, avvenuta secondo i suoi calcoli il 25 dicembre dell’1 a.C. (un calcolo oggi considerato erroneo, seppur di poco) e introdusse l’uso di contare gli anni a partire da questo momento, secondo il calendario Annus Domini, ovvero ab Incarnatione Domini nostri Iesu Christi, cioè «dall’Incarnazione del nostro Signore Gesú Cristo».

L’ANNO ZERO Questo sistema cronologico va letto tenendo conto che l’anno 0 non veniva considerato, in quanto il concetto di zero fu introdotto dapprima nel mondo indiano e poi in quello arabo nell’800 d.C. dal matematico Muhammad ibn Musa al Khwarizmi. Soltanto nel 1202 il termine «zero» (dall’arabo sifr, «nulla»), fu importato e usato in Occidente dal pisano Leonardo Fibonacci, uno dei piú grandi matematici di tutti i tempi. Fibonacci esplicò la matematica indiana e araba nel trattato di aritmetica e algebra intitolato Liber abaci (Il libro dei calcoli),

Antoniniano di Probo della zecca di Serdica (Tracia). 277 d.C. circa. Al dritto, il busto radiato e drappeggiato dell’imperatore; al rovescio, il Sole su quadriga. dimostrandone l’eccezionale validità nei conteggi. Nel tradurre sifr, a sua volta derivato dal sanscrito sunya («vuoto»), Fibonacci utilizzò probabilmente per assonanza il latino zephirus, che in veneziano divenne zevero e si trasformò poi nell’italiano «zero». Infine, l’arabo sifr rimase alla base della parola «cifra», ovvero i segni numerici dallo 0 al 9.


La raffigurazione di Gesú-Sol in quadriga in un mosaico del sepolcro M del Mausoleo degli Iulii, nella Necropoli Vaticana. III sec. d.C. In basso: denario di A. Manlio. Zecca di Roma, 118-107 a.C. Al dritto, la dea Roma; al rovescio la quadriga del Sol. Tornando a Dionigi il Piccolo, il suo sistema calendariale si diffuse progressivamente e con grande successo in tutta Europa e nel mondo anglosassone, qui a opera del celebre monaco Beda il Venerabile, che fu il primo, nel 731, a utilizzare la datazione «avanti Cristo». Il calendario fu adottato ufficialmente dalla Chiesa dopo il pontificato di Giovanni XIII (968970) e rimase in vigore sino alla riforma di Gregorio XIII del 1582, che comunque mantenne le indicazioni relative all’era cristiana.

PORTATORI DI VITA Divenuta festiva nel 529 per volere di Giustiniano, la data del 25 dicembre si ricollega alla celebrazione dei Saturnalia (17-23 dicembre) e, ancor piú direttamente, alla nascita del Sol Invictus, il dio Sole portatore di vita e trionfatore del solstizio d’inverno. Il suo culto, che si potrebbe considerare «protomonoteistico», fu il principale e ultimo antagonista del cristianesimo, per poi soccombere e passare le sue qualità solari alla figura di Gesú-Helios. Una delle piú antiche attestazioni di tale assimilazione è quella del Sepolcro M del Mausoleo degli Iulii nella Necropoli Vaticana, uno dei cui mosaici – della metà del III secolo d.C. e di chiara ispirazione cristiana – raffigura Gesú, portatore di vita come il Sole, con corona radiata e globo su quadriga di cavalli bianchi, iconograficamente identico al Sol Invictus. Helios Sol compare di frequente

nella monetazione greca e romana: con il solo volto (di fronte o di profilo) dai capelli fluenti e raggi intorno al capo oppure alla guida del suo carro celeste, trainato da focosi destrieri. Si veda, per esempio, l’antoniniano di Probo, imperatore dal 276 al 282, dove al dritto compare il busto radiato dell’imperatore con legenda BONO IMP(eratori) C(aesari) PROBO P(io) F(elici) INVICT(o) AVG(usto), e al rovescio una visione frontale aperta della quadriga di Helios, con due cavalli volti a sinistra e due verso destra e il Sole radiato al centro, con legenda SOLI INVICTO. La moneta ricorda il rovescio dei denari repubblicani di Aulus Manlius Sergianus Q(uinti) filius, del 118-107 a.C., e le raffigurazioni di tema analogo diffusissime su ogni tipo di supporto, dalla ceramica ai mosaici, dalla statuaria ai sarcofagi, che celebrano il Sole quale simbolo di vita, forza e rigenerazione.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA

Lionello F. Morandi

LA COLLEZIONE GUIDI NEL MUSEO ARCHEOLOGICO DI GROSSETO

Mariagrazia Celuzza, Andrea Zifferero

MATERIALI PER MARSILIANA D’ALBEGNA

La necropoli di Colle Baroncio e la prima età del ferro a Vetulonia Quaderni del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma 3, Effigi, Arcidosso (GR), 128 pp., ill.

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Quaderni del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma 1, Effigi, Arcidosso (GR), 416 pp., ill. 28,00 euro ISBN 978-88-5524-500-5

24,00 euro ISBN 978-88-5524-538-8

Materiali per Marsiliana d’Albegna 1. Dagli Etruschi a Tommaso Corsini è il titolo del primo volume di una nuova, rilevante iniziativa editoriale, la collana dei «Quaderni del MAAM», dove l’acronimo

Maurizio Michelucci

ROSELLE. LA DOMUS PRESSO L’ANFITEATRO Quaderni del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma 2, Effigi, Arcidosso (GR), 128 pp., ill. 18,00 euro ISBN 978-88-5524-295-0

A destra: il poggio di Marsiliana con il borgo, dopo i lavori di restauro ultimati nel 1901.

A sinistra: il borgo di Marsiliana con, sullo sfondo, la Valle dell’Albegna. indica il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma. La collana assume un ruolo significativo in funzione della diffusione della conoscenza archeologica della Maremma, grazie a un programma di monografie che costituiranno i cataloghi delle mostre tematiche, realizzate con cadenza quasi annuale nelle 108 a r c h e o


sale del Museo. Il primo volume, dunque, rappresenta una grande sintesi sulle ricerche intraprese dall’Università di Siena nell’importante, quanto ancora poco conosciuto, centro etrusco situato nel Comune di Manciano. L’opera è suddivisa in tre sezioni: la prima affronta l’evoluzione storica della Tenuta Marsiliana in età moderna e contemporanea, presentando la figura di un protagonista assoluto di quell’epoca, il principe Tommaso Corsini (1835-1919). Imprenditore agricolo, uomo politico, ma anche personaggio di spiccata vocazione per la cultura e l’arte, a Corsini si deve, infatti, l’avvio delle prime esplorazioni Il principe Tommaso Corsini (1835-1919) in un ritratto fotografico realizzato dai fratelli Alinari nel 1874.

archeologiche di Marsiliana. La seconda sezione del volume illustra i risultati delle piú recenti indagini, in particolare quelle svoltesi negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso nell’area denominata dell’Uliveto della Banditella. La terza sezione, infine, approfondisce il ruolo della Valle dell’Albegna in quanto frontiera nord-occidentale della città-stato di Vulci, documentandone la storia dal periodo etrusco, attraverso quello romano fino a quello di età medievale. Il secondo volume della nuova collana, dal titolo Roselle. La domus presso l’Anfiteatro, costituisce la prima monografia interamente dedicata a un noto monumento dell’antica città, documentando dettagliatamente l’importante edificio residenziale di età ellenistica, collocato nel settore meridionale della Collina Nord di Roselle. Il terzo volume è invece dedicato ad un importante lotto di materiali protostorici, provenienti dagli scavi effettuati dalla famiglia Guidi tra il 1884 e il 1893 nella necropoli vetuloniese dell’età del Ferro di Colle Baroncio, fortunosamente acquisiti dal Comune di Grosseto tra il 1886 e il 1913 e oggi esposti nella sala 13 del museo grossetano. Un quarto volume

Tommaso Corsini assiste il sovrastante Alessandro Denci nello scavo della tomba LXXXVII di Marsiliana con custodia a cassetta, da cui emerge un grande cinerario in terracotta, in primo piano (1916). della collana, in corso di stampa, è dedicato alla pubblicazione dei materiali provenienti dalla necropoli di età ellenistica di Casenovole (Comune di Civitella Paganico), già esposti nella mostra «Gli Etruschi di Casenovole. Passato remoto di una comunità», allestita al MAAM nel 2022/23. Andreas M. Steiner La serie dei Quaderni del MAAM può essere acquistata/ordinata nel bookshop del MAAM (per informazioni, e-mail: maam@comune.grosseto.it o accoglienzamaam@gmail.com; tel. 0564 488752 o 488760) e presso la casa editrice Effigi Edizioni di Arcidosso (GR), che ne cura la distribuzione (www.cpadver-effigi.com; e-mail: cpadver@mac.com; tel. 0564 967139). a r c h e o 109


Luigi Spina

INTERNO POMPEIANO 5 Continents Editions-Parco Archeologico di Pompei, Milano, 480 pp., ill. col. 150,00 euro ISBN 979-12-5460-030-6 www. fivecontinentseditions.com

In uno dei capitoli introduttivi del volume, Giuseppe Scarpati – responsabile dell’Archivio

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A destra: uno scorcio della Casa dell’Efebo. In basso: il peristilio della Casa dei Vettii. Fotografico del Parco Archeologico di Pompei – sottolinea come la città vesuviana sia stata, fin dalle prime esplorazioni, palestra di sperimentazione delle tecniche di ripresa e poi soggetto prediletto da intere generazioni di fotografi italiani e stranieri. Ma se, come aggiunge, il lavoro di Luigi Spina si inserisce dunque nel solco di una lunga tradizione, sarebbe riduttivo classificare Interno pompeiano come una nuova raccolta di immagini del sito la cui esistenza è stata spezzata e al tempo stesso cristallizzata dall’eruzione

del 79 d.C. Il progetto di cui il volume dà conto, attuato nei mesi della chiusura al pubblico imposta dalla pandemia,

esprime ancora una volta la particolare sensibilità di Spina nella documentazione dell’antico, sviluppata


A destra: il giardino della Casa del Principe di Napoli, sulla cui parete di fondo è inserito il larario. In basso: uno scorcio della Casa del Sacerdos Amandus. atri, giardini, sale da ricevimento o anche piú modeste cucine e stanze secondarie, si ricava infatti la sensazione che in tutti quegli ambienti, fino a un attimo prima, avesse risuonato lo scalpiccio dei loro proprietari e utilizzatori. Un’impressione accentuata dai colori delle fotografie, ai quali la scelta delle e affinata attraverso un percorso già chiaro nell’ormai lontano Anfiteatro campano di Capua (1997), opera che, per chi scrive, fu occasione del primo incontro con il talento del fotografo campano. Protagoniste di questa nuova rassegna sono le case di Pompei, le cui vedute si dispiegano in oltre quattrocento pagine, suddivise secondo la regio di appartenenza di ciascuna struttura. Sfilano dimore celebri e meno note, ma, per tutte, il comune denominatore è la fissità solo apparente del mezzo: Luigi Spina padroneggia con sapienza prospettive, inquadrature e luci, offrendo squarci non solo architettonici e paesaggistici, ma veri e propri momenti di vita vissuta. Passeggiando idealmente fra cortili,

esposizioni e della luce conferisce tonalità morbide, pastello, quasi a evocare certe vedute

impressioniste o gli acquerelli ottocenteschi. Interno pompeiano, insomma, esalta il fascino della città prima sepolta e poi ritrovata, ribadendo l’unicità di un contesto che sembra continuare a pulsare della frenetica vita quotidiana dei suoi abitanti. Quasi una magia, alla quale fanno da corollario, oltre al già ricordato intervento di Giuseppe Scarpati, i contributi di Gabriel Zuchtriegel, Massimo Osanna e Carlo Rescigno. E la cui filosofia viene raccontata dallo stesso Spina nelle note di lavorazione che preludono alla raccolta delle fotografie. Per queste ultime, resta da dire che le schede descrittive delle case illustrate si devono a Domenico Esposito e che la loro qualità si apprezza grazie all’impeccabile cura tipografica del volume da parte dell’editore 5 Continents. Stefano Mammini a r c h e o 111


Francesca Ghedini

LO SGUARDO DEGLI ANTICHI Il racconto dell’arte classica Carocci editore, Roma, 408 pp., ill. b/n + tavv. col. 43,00 euro ISBN 978-88-290-1219-0 www.carocci.it

Opera di taglio specialistico, il saggio di Francesca Ghedini si muove nel campo degli interessi che la studiosa ha prediletto nel suo percorso professionale e accademico: lo studio delle immagini, delle quali è qui approfondito, in particolare, il rapporto con la parola. Si tratta, com’è facile intuire e come l’autrice stessa sottolinea nelle pagine introduttive, di un tema potenzialmente sterminato ed è per questo che al suo interno sono state selezionate alcune categorie specifiche di manufatti: «composizioni pittoriche, che costiuivano lo sfondo della vita quotidiana, e gli affreschi o i rilievi che accompagnavano il defunto nel suo ultimo viaggio». La trattazione 112 a r c h e o

si apre ripercorrendo l’evoluzione delle narrazioni per immagini nel mondo classico, a sottolineare come le composizioni, all’inizio essenziali e, spesso, prive di figure umane o animali, siano andate affollandosi e animandosi, culminando in vivaci scene di paesaggio. Nei capitoli che seguono Ghedini analizza una delle fonti piú importanti per la conoscenza del patrimonio iconografico dell’antichità, vale a dire il repertorio delle citazioni, quando non intere opere, letterarie. La sezione successiva, La narrazione nello spazio della vita, è imperniata in primo luogo sulle pitture che ornavano le case romane: immagini «utili a fornire una dimostrazione delle scelte estetiche, culturali e, in taluni casi, anche politiche del padrone di casa». Lo studio delle immagini diventa quindi la chiave di lettura di fenomeni complessi, che vanno ben oltre le considerazioni sullo stile o sulla tecnica di esecuzione. Una ricognizione a cui fa da logico contraltare – come annunciato in apertura – l’analisi della produzione figurativa di ambito funerario. Qui i messaggi si moltiplicano, poiché molteplici erano le istanze che dettavano la scelta delle composizioni: desiderio di autorappresentazione, celebrazione dinastica, esaltazione delle imprese compiute in vita, allusioni

simboliche... Intenti dai quali scaturisce un repertorio variegato, ma che al tempo stesso conserva, tra le sue costanti, il ricorso a celebri episodi del mito come metafora dell’ultimo viaggio o di momenti particolari dell’esistenza degli individui defunti. Infine, dopo aver dato spazio alle fonti antiche, Ghedini lascia la parola agli autori moderni e propone un ampio excursus delle teorie sullo studio delle immagini elaborate dal Settecento a oggi, che diviene anche l’occasione per rileggere, in filigrana, il decisivo passaggio dall’antiquaria all’archeologia. S. M. Louis Godart

I CUSTODI DELLA MEMORIA Lo scriba tra Mesopotamia, Egitto ed Egeo Einaudi, Torino, 296 pp., ill. col. e b/n 30,00 euro ISBN 978-88-06-25658-6 www.einaudi.it

Una celebre statuetta in calcare policromo proveniente da Saqqara e oggi conservata al Museo del Louvre è una delle principali ragioni che da sempre inducono ad associare la figura dello scriba all’antico Egitto. In realtà, questa categoria di artigiani della parola è attestata ben oltre i confini del Paese dei faraoni e decisiva fu l’attività da essi svolta nel contesto delle culture minoiche e

micenee. Un’attività che, secondo Louis Godart, non ha tuttavia goduto dell’attenzione che merita e da questa lacuna è nata l’idea di questo saggio che ricostruisce la storia e la vita quotidiana degli scribi che operarono nel mondo egeo. Nelle prime sezioni del volume uno spazio adeguato viene riservato anche ai loro colleghi di Mesopotamia ed Egitto, ma le parti restanti della trattazione ripercorrono le vicende di cui fu teatro la Grecia (continentale e insulare), attraverso la ricognizione di tutte le testimonianze piú importanti e significative, corredata da un puntuale apparato iconografico, fatto di fotografie e restituzioni grafiche delle iscrizioni. Ne scaturisce un quadro storico e culturale di notevole interesse, visto nella prospettiva di quanti hanno fissato su tavolette, ma non solo, tasselli decisivi per la ricostruzione delle grandi società palaziali. S. M.



presenta

LE CROCIATE LA STORIA OLTRE IL MITO

La tradizione storiografica circoscrive il fenomeno delle crociate a un periodo relativamente breve, compreso tra il 1096 e il 1270, nel quale furono otto le spedizioni organizzate dalla cristianità con l’obiettivo di acquisire (o riprendere) il controllo della Terra Santa. In realtà, vuoi per molte altre imprese concettualmente affini succedutesi nel corso dei secoli, vuoi per l’uso – mai come adesso frequente – del termine «crociata» anche in contesti geopolitici e culturali ben diversi, si può dire che l’epopea dei cruce signati, o almeno la loro evocazione, non si è mai conclusa davvero. È questo uno dei fili conduttori del nuovo Dossier di «Medioevo», nel quale la lunga parabola avviata dal vibrante appello lanciato da papa Urbano II nel concilio di Clermont (in occasione del quale, tuttavia, il celebre «Dio lo vuole!» non sarebbe stato mai effettivamente gridato...) viene magistralmente ripercorsa da Franco Cardini e dagli altri studiosi che firmano i contributi riuniti nel fascicolo. Quello che nacque come un «pellegrinaggio armato» produsse assedi, battaglie, fiumi di sangue e indicibili atrocità, ma consentí anche un proficuo contatto tra Islam e mondo cristiano, le cui tracce furono evidenti nell’evoluzione delle arti e delle scienze. Un fenomeno, dunque, dalle molteplici sfaccettature, descritte e analizzate in maniera sistematica nelle pagine del Dossier. A conferma di quanto lo studio sulle crociate continui a essere un cantiere aperto e siano ancora molte le questioni interpretative ancora da sciogliere.

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