Medioevo Dossier n. 7, Marzo 2015

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MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E

medioevo in guerra

Bimestrale - My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

Dossier

armi scontri e assedi

Medioevo

in Guerra

€ 7,90

N°7 (Marzo 2015)

le Invasioni barbariche, le Crociate, Guelfi e ghibellini, l’orda mongola, la guerra dei cent’anni...



a cura di

Francesco Colotta

medioevo in guerra

armi, scontri e assedi testi di Andrea Augenti, Federico Canaccini, Francesco Colotta, Federico Marazzi, Marina Montesano, Aldo A. Settia, Francesco Troisi

6 Presentazione Un’età come un campo di battaglia

72 Chiesa contro impero

8 La calata dei barbari

74 27 novembre 1237, Cortenuova Ai piedi di Federico

10 537-538, Roma L’Urbe in trappola

84 Un’orda contro l’Occidente

20 La Reconquista

86 9 aprile 1241, Legnica Dalla steppa con furore

22 Ottobre 732, Poitiers L’argine di Carlo 32 In nome di Dio 34 Luglio 1099, Gerusalemme Massacro in Terra Santa 46 Guerre per la patria 48 27 luglio 1214, Bouvines Che Dio salvi la Francia! 62 Armi e guerrieri

96 Svevi, Angioini, Aragonesi 98 23 agosto 1268, Tagliacozzo Crepuscolo svevo 108 L’era dei sultani 110 25 settembre 1396, Nicopoli L’ultima guerra santa 120 Cent’anni di guerra 122 25 ottobre 1415, Azincourt Nella morsa di Enrico


Un’età come un campo di «I

battaglia

l mondo non è uno spettacolo, ma un campo di battaglia», sosteneva nell’Ottocento Giuseppe Mazzini: un’affermazione che ben si adatta al Medioevo, un’epoca segnata da conflitti pressoché continui e da rari intervalli di tregua. Ricostruire la cronologia dei suoi eventi bellici significa delineare il profilo dell’età di Mezzo e non solo in riferimento alle relazioni politiche tra i diversi regni. Lo studio delle vicende militari di quei secoli, per esempio, consente di risalire al processo di mitopoiesi attraverso il quale si forgiò l’identità culturale di molti popoli, spesso fondata su imprese piú o meno leggendarie realizzate in battaglia. E, sul piano materiale, permette di comprendere meglio l’evoluzione delle espressioni piú tipiche dell’architettura medievale, prima fra tutte il castello. Vera costruzione simbolo di quel millennio, proliferò proprio come struttura difensiva in un’Europa minacciata da genti aggressive che provenivano da est e da nord, difficilmente arginabili con scontri in campo aperto. Il frequente ricorso alle armi, fermo restando l’orrore per il carico di atrocità e di ingiustizie che portava con sé, ha rivestito, poi, una grande utilità a fini documentari per i posteri: attraverso la guerra, infatti, personaggi e culture di mondi sconosciuti hanno ricevuto l’attenzione dei cronisti e degli studiosi occidentali dell’epoca, e in seguito di quelli moderni. Ci si chiede ancora oggi: sarebbero mai state prodotte approfondite informazioni sulle popolazioni nordiche, sui Mongoli, gli Ottomani, i Fatimidi, i Saraceni, in assenza degli eventi bellici di cui furono protagonisti, spesso come invasori? Questo «Medioevo in guerra», può essere sfogliato come un affascinante racconto che inizia con la caduta di un impero e si conclude con le battaglie tra grandi regni, preludio dei conflitti moderni tra superpotenze europee. Numerosi e avvincenti sono i capitoli che ne compongono la turbolenta trama: le invasioni barbariche, la Reconquista spagnola contro l’occupazione araba, l’epopea delle crociate in Terra Santa, l’era degli imperatori germanici, le lotte per l’indipendenza, la faida tra guelfi e ghibellini, i conflitti tra Svevi, Angioini e Aragonesi per la conquista del Meridione d’Italia, l’espansionismo mongolo e ottomano e la guerra dei Cent’Anni. Un racconto che può aiutarci a interpretare complesse vicende di attualità, svelando le ragioni storiche di rancori ancora radicati nella memoria collettiva di alcune nazioni. Dall’analisi delle tattiche militari e degli armamenti emerge, inoltre, un dato curioso: a vincere le battaglie, nell’età di Mezzo, furono spesso le truppe meno preparate e numericamente inferiori… Miniatura raffigurante la battaglia navale combattuta, nel 1340, di fronte a Sluis, nei Paesi Bassi, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1470-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Lo scontro si concluse con la disfatta della flotta francese e inaugurò una serie di vittorie inglesi che determinarono l’esito della prima fase della guerra dei Cent’anni.


Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.


la calata dei barbari

Dopo secoli di dominio incontrastato, l’impero di Roma comincia a dare i primi segni di cedimento: è l’inizio di un processo irreversibile, in parte determinato e poi accelerato, dall’irrompere di popoli che si liberano con violenza del giogo fino ad allora imposto dalla superpotenza capitolina

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BATTAGLIA DI ADRIANOPOLI (378) L’esercito di Roma subisce una clamorosa sconfitta contro i Visigoti nella provincia di Tracia. È il prologo del crollo dell’impero d’Occidente. BATTAGLIA DI TESSALONICA (380) I Romani, dopo la sconfitta di Adrianopoli, attaccano i Visigoti e sono di nuovo sconfitti nei pressi di Tessalonica.

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BATTAGLIA DEI CAMPI CATALAUNICI (451) In Gallia, il generale romano Ezio, alleato con Visigoti, Franchi, Burgundi, Alani e Sassoni sconfigge Attila, re degli Unni e gli Ostrogoti.

ASSEDIO DI NAPOLI (536) Le truppe dell’impero romano d’Oriente si scontrano con gli Ostrogoti per il possesso dell’Italia. Napoli, assediata, cade in mano ai Bizantini.

BATTAGLIA DI VERONA (489) Odoacre, re germanico d’Italia, viene sopraffatto dall’esercito degli Ostrogoti. Da quel momento termina il suo dominio sulla Penisola.

ASSEDIO DI ROMA (537-538) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 10-16.

BATTAGLIA DI TICAMERON (533) In Nord Africa, 50 000 armati della popolazione germanica dei Vandali attaccano l’armata composta da soli 15 000 uomini dell’impero bizantino, ma vengono respinti.

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BATTAGLIA DEI SALICI (377) I Visigoti si scontrano con i Romani nelle vicinanze dell’antica città di Marcianopoli. L’epilogo risulta incerto.

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ASSEDIO DI MILANO (538-539) Bizantini e Ostrogoti si contendono Milano. Il risultato è la distruzione della città. ASSEDIO DI RAVENNA (539-540) Vitige, re degli Ostrogoti, si rifugia a Ravenna, ma la città, attaccata dai Bizantini si arrende agli assedianti.


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BATTAGLIA DI SENA GALLICA (551) 50 navi bizantine distruggono la flotta ostrogota al largo dell’odierna città di Senigallia. BATTAGLIA DI TAGINA (552) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 16-17. BATTAGLIA DEI MONTI LATTARI (552) Uno degli ultimi atti del dominio ostrogoto in Italia. L’esercito germanico viene sconfitto sull’Appennino campano in un epico scontro contro i Bizantini. BATTAGLIA DEL VOLTURNO (554) In sostegno degli ultimi Goti rimasti in Italia, accorrono le truppe di altre due popolazioni germaniche, Franchi

e Alamanni. Ma i Bizantini, alleati con gli Eruli, li costringono alla resa. BATTAGLIA DELLO SCULTENNA (643) I Longobardi estendono i loro domini nell’Italia centrale ai danni dei Bizantini sconfiggendoli nei pressi del torrente emiliano dello Scultenna. BATTAGLIA DI FORINO (663) L’imperatore bizantino invade il ducato longobardo di Benevento, ma subisce la controffensiva nemica e si deve arrendere. BATTAGLIA DI PAVIA (773-774) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 18-19.


la calata dei barbari

Assedio di Roma

537-538

l’urbe in trappola

di Andrea Augenti

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ell’anno 535 scoppiò il conflitto tra i Goti e i Bizantini, destinato a protrarsi per circa vent’anni e a mettere in ginocchio l’Italia intera: la cosiddetta «guerra grecogotica». Gli scontri tra i due eserciti furono molti, e uno dei piú lunghi e sanguinosi coinvolse Roma: per oltre un anno l’antica capitale subí l’assedio del re goto Vitige. L’Urbe era stata una delle prime città riconquistate dall’esercito imperiale, nel 536. Capeggiate dal generale Belisario, le truppe vi entrarono da sud, e piú precisamente dalla Porta Asinaria, presso la basilica di S. Giovanni in Laterano. Contemporaneamente, l’esercito goto abbandonava la postazione dalla Porta Salaria, all’estremità opposta della cinta muraria, dirigendosi alla volta di Ravenna. Belisario fece recapitare immediatamente le chiavi della città all’imperatore Giustiniano, a testimonianza del successo ottenuto. Ma al generale era chiaro, fin da allora, che la situazione non sarebbe rimasta stabile a lungo: in poco tempo i Goti avrebbero riorganizzato le fila e con tutta probabilità assediato Roma.

Una città blindata

Belisario si mise dunque all’opera per attrezzare le difese. Tra il dicembre 536 e il febbraio dell’anno seguente fece restaurare molti tratti delle Mura Aureliane e scavare un ampio fossato davanti a esse; inoltre cercò di sgombrare 10

medioevo in guerra

Incisione della fine dell’Ottocento in cui viene ricostruito l’episodio secondo il quale i Bizantini, che si erano rifugiati nel mausoleo di Adriano (l’odierno Castel Sant’Angelo) per resistere all’assedio dei Goti, cominciarono a tirare sugli assalitori antiche statue fatte a pezzi.


medioevo in guerra

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la calata dei barbari

Assedio di Roma

Roma assediata dai Goti nel 537

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Qui sopra dall’alto di una torre, gli assediati, con un onagro e una balista, respingono un attacco goto attuato utilizzando arieti e torri mobili.

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Pianta schematica dell’area urbana di Roma, con il tracciato delle Mura Aureliane (1) e l’ubicazione del mausoleo di Adriano (2). I rettangoli di colore rosso indicano gli accampamenti dei Goti. L’accampamento dei Goti presso l’incrocio degli acquedotti Aqua Marcia e Clodia. 12

medioevo in guerra


Qui sotto i Bizantini, bersagliando gli assedianti con pezzi di statue che decoravano il monumento, sventano l’attacco goto al mausoleo di Adriano.

le vie d’accesso alla città, per garantirsi la possibilità di accogliere rinforzi e approvvigionamenti dall’esterno. La situazione non era certo facile: l’esercito dei difensori di Roma contava soltanto 5000 soldati, mentre piú di 100 000 erano i Goti che il 21 febbraio del 537 marciarono contro l’Urbe guidati da Vitige. Un primo scontro – in cui si distinse lo stesso Belisario – si verificò presso il fiume Aniene, al ponte Salario. Dopo questo episodio iniziò l’assedio vero e proprio. Vitige fece approntare sette accampamenti protetti da trincee di fronte alle mura, nella fascia settentrionale e orientale. Uno di questi fu piazzato presso il «Campo di Nerone», nella zona del Vaticano, per non lasciare ai Bizantini l’intera zona a ovest del Tevere. Contemporaneamente i Goti tagliarono gli acquedotti, la prima fonte di approvvigionamento d’acqua per la città. Questa mossa strategica aveva anche una valenza psicologica, poiché poneva la popolazione di fronte a un disagio materiale quotidiano: da quel momento in poi in poi nessuno poté piú utilizzare le grandi terme urbane, e l’acqua, razionata, doveva essere attinta solo dai pozzi e dalle cisterne. Vitige diede inoltre ordine di costruire svariate macchine da guerra, come arieti per lo sfondamento delle mura e torri mobili. A sua volta, Belisario bloccò le porte con grandi pietre e fece sistemare sulle torri ordigni da lancio come baliste e onagri, e lupi, ovvero travi di legno chiodate da lanciare sul nemico.

Belisario, il cecchino

Sortita degli arcieri unni dalle mura cittadine.

A questo punto – verso la fine di febbraio – iniziarono i primi attacchi goti. Gli arieti e le torri vennero piazzati presso la Porta Salaria. In quest’occasione Belisario mise in mostra le sue doti di tiratore scelto, centrando dagli spalti delle mura ben tre capi nemici con il suo arco. Galvanizzati dall’abilità e dall’entusiasmo del loro generale, i Bizantini riuscirono quindi in quel frangente a respingere gli avversari, trafiggendo i buoi che trasportavano le macchine da guerra. Un altro scontro si ebbe presso il mausoleo di Adriano (oggi Castel Sant’Angelo), che i Bizantini sfruttavano come fortezza. Qui i Goti stavano quasi per avere il sopravvento, quando gli assediati ebbero l’idea di spaccare le molte statue che decoravano il monumento e usarne i pezzi come proiettili da lanciare contro il nemico. Anche questo pericolo fu cosí scongiurato, mentre un altro attacco veniva sferrato da est, presso la Porta Prenestina, dove le mura versavano in cattivo stato. I Bimedioevo in guerra

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la calata dei barbari

Assedio di Roma

una testimonianza preziosA Dell’assedio di Roma ci è giunto il racconto scritto da Procopio di Cesarea, lo storico bizantino che partecipò in prima persona alla campagna di riconquista dell’Italia. E a lui dobbiamo una serie di dettagliati resoconti sulle battaglie, che ci permettono di ricostruire l’aspetto di alcune macchine da assedio tipiche di quell’epoca. Innanzitutto gli arieti, strumenti con cui i Goti tentarono di aprirsi un varco nelle mura di Roma. L’ariete era costituito da una gabbia quadrangolare provvista di ruote, con intelaiatura in legno interamente ricoperta di pelli. All’interno di questo involucro si muovevano i soldati (non meno di cinquanta), che azionavano un grosso trave, sospeso in posizione orizzontale mediante catene e appuntito a una estremità, oppure squadrato («come un’incudine», scrive Procopio). Proprio questa parte terminale veniva fatta cozzare contro le mura, fino a sfondarle per la violenza dell’impatto. Nel corso dell’assedio i Goti utilizzarono poi in gran quantità le torri mobili, alte quanto le mura nemiche: sempre Procopio racconta che Vitige «poté ottenere la misura giusta con ripetuti calcoli degli strati di pietre».

Furono inoltre approntate molte scale di legno, per consentire agli assedianti di arrampicarsi sulle mura. Tra i macchinari usati dai Bizantini per la difesa della città abbiamo invece la balista, un ordigno da lancio. Si trattava di una sorta di precursore della balestra, che scagliava grossi dardi. Come riporta un trattato tardo-antico sull’arte della guerra, la balista poteva anche essere dotata di ruote, per permetterne rapidi spostamenti. Diverso – ma altrettanto temibile – doveva essere l’onagro (detto anche «scorpione»), una macchina per il lancio di pietre simile a una catapulta. L’onagro era piú pesante e meno maneggevole di una balista, ed era anch’esso montato su ruote.

Modelli di macchine d’assedio, riproducenti un ariete (in alto) e una torre. Roma, Museo della Civiltà Romana.

zantini ebbero di nuovo la meglio, cosí come in altri due scontri presso le porte Aurelia e Flaminia. Al termine della giornata, l’attacco combinato dei Goti aveva portato soltanto alla perdita di ben 30 000 dei loro soldati e a un gran numero di feriti.

Civili allo sbaraglio

Cominciò cosí una seconda fase dell’assedio. Belisario fece trasferire a Napoli donne e bambini, per riservare i viveri ai militari e ai civili maschi (nel frattempo Vitige aveva occupato Porto, il vicino centro al quale giungevano i rifornimenti via mare). La città era piuttosto malridotta, e ad aprile fu salutato con entusiasmo l’arrivo di un contingente di 1600 soldati, tra Unni, Slavoni e Anti (non bisogna infatti dimenticare che l’esercito bizantino comprendeva truppe dei vari Paesi conquistati, e aveva quindi uno spiccato carattere multietnico). Sfruttando i rinforzi, Belisario attuò una strategia che si rivelò vincente: una difesa attiva, in cui l’assediato getta lo scompiglio tra i nemici 14

medioevo in guerra


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Trappola nel «Campo Barbarico»

La situazione per la città risultava davvero pesante. Gli abitanti erano demoralizzati da una guerra che non sentivano loro e di cui non si vedeva la fine. Per di piú, il 22 giugno scoppiarono la carestia e una terribile epidemia di peste, diretta conseguenza delle pessime condizioni igieniche. Intanto Belisario si era lanciato in nuove sortite, mentre i Goti avevano approntato un altro accampamento a est della città, in una zona dove si incrociavano le condutture dell’Aqua Marcia e Claudia, ostruendo le arcate degli acquedotti stessi (per questo motivo la zona prese poi il nome di «Campo Barbarico»). Ma anche i Goti erano provati da mesi d’assedio. Belisario riuscí quindi a bloccare l’accesso e i rifornimenti ai loro accampamenti, facendo stanziare nei dintorni alcuni reparti. Questa mossa si rivelò vincente: il «Campo Barbarico» fu abbandonato, mentre dal Sannio e da Napoli arrivavano ingenti rinforzi per i Bizantini: circa 6000 soldati, tra Isauri, Traci e Calabresi. Dopo ulteriori sortite delle truppe imperiali, Vitige si risolse a chiedere la pace. Respinta, la proposta si tramutò in un armistizio di tre mesi, da discutere a Costantinopoli. A questo punto, però, la situazione per i Goti – anch’essi decimati dalla peste – peggiorava ulteriormente: mentre le navi nemiche con i rifornimenti alimentari risalivano indisturbate il Tevere fino a Roma (ostacolarle avrebbe causato l’interruzio-

Regno degli Ostrogoti Mediolanum Me ola (Mila (Milano) ano) n

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grazie a continue sortite. Furono compiute incursioni a piú riprese dalla Porta Salaria, tutte con esito favorevole ai Bizantini, soprattutto grazie all’abilità degli arcieri unni a cavallo. Ormai certi della vittoria, i Romani convinsero il generale a dare battaglia in campo aperto. Ma accettare tale proposta fu il piú grave errore di Belisario, il quale aveva fino ad allora rifiutato quella opzione, soprattutto per l’inferiorità numerica delle sue truppe. Gli eserciti si disposero l’uno di fronte all’altro a nord della città, tra le porte Pinciana e Salaria, e a ovest, nel «Campo di Nerone». Inizialmente gli scontri sembravano volgere a favore dei Bizantini, e alcuni soldati isauri, cappadoci e mauritani si distinsero per il loro coraggio. Ma proprio a causa dello scarso numero di unità a disposizione, Belisario aveva concesso anche ai civili romani di combattere da volontari. Costoro, una volta raggiunti gli accampamenti nemici, si diedero al saccheggio, tralasciando di inseguire i Goti in fuga, i quali, una volta riorganizzatisi, piombarono su di loro, uccidendone moltissimi e costringendo i superstiti a ritirarsi in gran fretta dentro le mura.

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La guerra greco-gotica scoppiò nella primavera del 535 e per un ventennio devastò la Penisola ne dell’armistizio), nuovi rinforzi per i Bizantini giungevano in città dall’Africa, guidati da un certo Ildiger. Per suscitare apprensione in Vitige, Belisario allora decise di inviare un contingente verso l’Adriatico, in direzione di Ravenna.

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In alto cartina che riassume i principali movimenti degli eserciti nel corso delle due fasi in cui può essere divisa la guerra greco-gotica.

Messo alle strette, il re goto tentò di prendere Roma con uno stratagemma. Alcuni suoi uomini entrarono nel sottosuolo della città, attraverso le condutture di un acquedotto, sperando di trovare un varco. Il tentativo fu però scoperto e reso vano dai Bizantini. A quel punto, Vitige ordinò due attacchi combinati, di nuovo alla Porta Pinciana e a sud, alla Porta Ostiense. Ma anche questi ultimi sforzi andarono falliti, costringendo il re a togliere l’assedio. Una volta bruciati gli accampamenti, Vitige, definitivamente sconfitto, mosse verso Ravenna, mentre nelle retrovie i Bizantini trucidavano i Goti rimasti indietro. medioevo in guerra

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la calata dei barbari

Assedio di Roma

Battaglia di Tagina capitani coraggiosi Procopio di Cesarea dedicò al conflitto ventennale divampato in Italia tra i Goti e i Bizantini nel VI secolo gli ultimi quattro libri della Storia delle guerre), permettendoci di conoscerne da vicino alcuni dei protagonisti. Innanzitutto Belisario, il generale bizantino che contribuí in modo determinante all’esito della guerra. La sua carriera aveva registrato un brusco arresto nella campagna contro i Persiani, dopo una disastrosa sconfitta subita nel 532. Il generale si distinse poi nella repressione della rivolta di Nika, a Costantinopoli, e venne quindi mandato in Africa a combattere contro i Vandali. Stratega accorto e soldato coraggioso, riuscí a ottenere ripetute vittorie contro i Goti in Italia, finché ottenne di tornare a Costantinopoli, dove morí nel 565. Nel corso della guerra gli era stato affiancato l’eunuco Narsete, che conseguí alcuni successi importanti, come quello di Tagina, presso Gualdo Tadino (vedi box qui accanto). Sul fronte opposto, i personaggi di maggior spicco furono senza dubbio i re, che guidavano le loro truppe in prima persona. Vitige, un soldato senza alcuna goccia di sangue regale, fu eletto dall’esercito nel 536. Poco dopo condusse il fallimentare assedio di Roma, e, nel 540, dopo aver perso la capitale, Ravenna, fu deportato in Oriente come prigioniero di guerra. Qui morí, due anni piú tardi. Il suo successore si chiamava Baduila, ma passò alla storia con il nome di Totila. Fu uno dei piú strenui nemici dell’impero, e mise le truppe bizantine in serie difficoltà in piú di una occasione, finché trovò la morte a Tagina. Queste sono alcune delle principali personalità che presero parte alla guerra greco-gotica. Ma lo stile narrativo di Procopio ci porta a conoscere anche vari personaggi secondari, le cui gesta rendono il racconto vivo e avvincente. Tra questi possiamo ricordare il Trace Cutila e un certo Arze, soldati dell’esercito bizantino, che durante una sortita da Roma vengono trafitti da una freccia in piena testa e continuano a combattere, esempi di coraggio per i loro compagni.

Dopo un anno e nove giorni di convulso assedio, segnato da ben sessantanove scontri, Roma era tornata nelle mani dei Bizantini. Il generale Belisario venne premiato per la sua grande intelligenza e tenacia. L’assedio di Roma fu un episodio molto importante della guerra gotica, perché dimostrò la difficoltà dei Goti – abituati soprattutto agli scontri ravvicinati, con lancia o spada – di fronte alle fortificazioni ben difese e all’azione dei veloci arcieri a cavallo. Tuttavia, il conflitto era ben lontano dal concludersi: si dovettero infatti attendere molti anni perché l’Italia tornasse a far parte dell’impero. 16

medioevo in guerra

di Francesco Colotta

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a controffensiva di Bisanzio nelle provincie italiane occupate dagli Ostrogoti di Totila, visse il suo momento decisivo a Tagina (nell’odierno territorio di Gualdo Tadino) nel giugno del 552. La guerra grecogotica era iniziata da quasi vent’anni e aveva prodotto ripetuti rovesci tra i contendenti: dopo un primo

Schema della battaglia di Tagina e schieramento della forze in campo (in rosso i Romani e in blu i Goti): 1. arcieri a piedi; 2. cavalleria formata in gran parte da Romani e Unni; 3. fanteria e cavalleria smontata, composta da Longobardi, Eruli e Romani; 4. fanti e arcieri; 5. cavalleria; 6. fanteria. Un buccellario (cavaliere della guardia personale di Narsete) e, in secondo piano, un guerriero unno.


A sinistra un gruppo di cinquanta fanti scelti bizantini riesce a prendere possesso di un’altura al margine del campo di battaglia. In basso i Goti in rotta. La fanteria degli uomini di Totila non portava armatura: solo gli uomini delle prime file indossavano cotte di maglia di ferro.

periodo favorevole alle forze di Costantinopoli, Totila aveva riacquistato il controllo di tutta la Penisola, ma si trattava di un dominio fragile. La «riconquista» ostrogota era stata favorita dal sopraggiunto disinteresse da parte del basileus bizantino Giustiniano per le campagne militari in terra italica; una distrazione destinata, però, a durare poco. Nell’estate del 552, infatti, Giustiniano mobilitò un numero di armati impressionante, affidandone il comando al fidato generale Narsete, con l’obiettivo di riprendere l’Italia: un esercito colossale al quale si aggiunsero reparti di Eruli, Bulgari, Longobardi, Gepidi e Unni, per un totale di oltre 20 000 soldati. Narsete puntò subito verso Roma, ma Totila, intuendo il pericolo, provvide a sbarrargli la strada prima che il generale potesse avvicinarsi troppo all’Urbe. Il re ostrogoto e le sue truppe, dopo una marcia serrata verso nord, si fermarono nei pressi del villaggio di Tagina, nell’Appennino umbro, a una ventina di chilometri dall’accampamento bizantino, che si trovava in prossimità degli odierni centri di Sassoferrato e Fabriano. Totila poteva contare su un esercito numericamente inferiore rispetto al nemico e, forse consapevole dello svantaggio, tentò la carta dell’attacco a sorpresa, lasciando intendere ai messi nemici di voler prendere l’iniziativa solo nella settimana seguente. Narsete, tuttavia, non cadde nell’inganno e dispose le sue truppe nelle vicinanze del presidio avversario, a Tagina, pronte all’offensiva. Nella fasi preliminari i due eserciti si contesero aspramente un colle, situato in posizione strategica (dalla sua sommità si poteva controllare l’intera valle), il cui possesso influenzò le sorti del conflitto. Con una

manovra fulminea, lo conquistarono le truppe bizantine, riuscendo poi a difenderlo. Le armate presero posto quindi sul campo: Narsete costituí una sorta di falange, ponendo ai lati dello schieramento la cavalleria e i soldati migliori, mentre al centro collocò i meno efficienti rinforzi di origine barbara, sui quali contava solo come forza d’urto. Totila, invece, concentrò la punta di diamante del suo esercito soprattutto cavalieri pesanti – sull’intera prima linea, posizionandovi alle spalle un corpo di fanteria pronto a proteggere i corpi d’élite da eventuali ritirate. Un altro celebre preliminare della battaglia fu il duello tra un bizantino passato dalla parte germanica, Coca, e un soldato avversario, l’armeno Anzala, conclusosi con la vittoria del secondo. Gli eserciti, quindi, si affrontarono, dopo un lungo rituale di preparazione inscenato da Totila, che si esibí nel suggestivo dscherid (virtuosismi con la lancia). Gli Ostrogoti attaccarono frontalmente, ma i loro ripetuti tentativi di sfondamento si infransero contro il muro della falange bizantina, che, nel frattempo, aveva assunto la forma di una mezzaluna, in seguito all’avanzamento degli arcieri. Fu una mossa indovinata. I tiratori di Narsete, con la visuale libera, bersagliarono di frecce i cavalieri goti che avanzavano, decimandoli. Diverse ore dopo, quando scese la notte, i Bizantini sferrarono un micidiale contrattacco: la prima fila dell’esercito di Totila, ormai indebolita, si ritirò e, nella concitazione del ripiegamento, travolse i fanti che avrebbero dovuto proteggerla. Gli armati di Bisanzio poterono cosí annientare il nemico, e anche chi decise di arrendersi venne passato per le armi. Alla fine dello scontro, le perdite tra gli Ostrogoti ammontarono a oltre 6000 unità.


Battaglia di Pavia di Francesco Colotta

N

ella seconda metà dell’VIII secolo, l’espansionismo longobardo si concentrò sui territori bizantini dell’Italia, minacciando da vicino anche la Chiesa. L’avanzata delle truppe di re Astolfo allarmò il pontefice Stefano II, il quale, temendo l’invasione, chiese aiuto al sovrano franco Pipino il Breve. L’iniziativa del papa si rivelò proficua, sancendo di fatto la nascita di un forte Stato pontificio, tra le cui capitali figurava anche Ravenna, strappata subito ad Astolfo dopo il decisivo intervento dei Franchi. Il problema dei Longobardi, tuttavia, non poteva dirsi risolto e tornò ad angustiare i papi all’indomani dell’offensiva di re Desiderio. Nel 772 il pontefice, Adriano I, attuò la medesima strategia politica del suo predecessore, rivolgendosi agli alleati Franchi e al loro nuovo sovrano Carlo Magno. Il monarca rispose subito all’appello, riuní il suo esercito e varcò le Alpi, dirigendosi verso la pianura. Lungo la discesa i contingenti carolingi si trovarono subito di fronte un gravoso ostacolo – una fortezza longobarda – che riuscirono, comunque, a oltrepassare grazie alle preziose informazioni ottenute, dietro un sostanzioso compenso, da un informatore in campo avverso. Aggirato l’ostacolo, i Franchi sferrarono il primo attacco con la cavalleria, sorprendendo il nemico su un fianco. Nel frattempo, un altro contingente stava giungendo da est – al comando dello zio di Carlo Magno, Bernardo – con l’obiettivo di intrappolare il nemico in una morsa. I Longobardi ripiegarono allora verso Pavia, e si barricarono all’interno delle mura, pronti ad affrontare l’inevitabile assedio. A settembre i Franchi assaltarono la città, ma con scarsi risultati nell’immediato, in quanto non disponevano di macchine d’assedio. Restarono allora accampati alle porte dell’abitato pavese in attesa del momento propizio, consci del fatto che gli assediati non disponevano delle condizioni e delle forze sufficienti per resistere a lungo. Desiderio, in effetti, poteva contare su un numero limitato di armati e non aveva piú al suo fianco il figlio Adelchi, fuggito a Verona, in un luogo piú sicuro. Pavia però, nonostante le condizioni sfavorevoli, riuscí a respingere per alcuni mesi le sortite delle truppe franche, e si arrese solo perché stremata dalla carestia e dal diffondersi di epidemie. Era il giugno del 774 e le porte della città si spalancarono davanti ai nuovi conquistatori, che non infierirono sugli sconfitti, concedendo loro l’onore delle armi. Desiderio fu costretto ad andare in esilio in Francia e – secondo alcune fonti – entrò nel monastero di Corbeia dove finí i suoi giorni. Carlo Magno, invece, ricevette un’accoglienza trionfale dai Pavesi e anche da gran parte dell’aristocrazia nemica. Con l’affermazione nell’assedio lombardo, Carlo venne nominato sovrano dei Franchi e dei Longobardi.

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medioevo in guerra

Miniatura raffigurante Carlo Magno alla testa delle sue truppe nella battaglia di Pavia. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


medioevo in guerra

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Oviedo Santiago de Compostela

Covadonga

Regno León delle Asturie

Burgos Pamplona

Zamora

Oporto

Salamanca

Andorra

Girona Tudela Huesca Saragozza Barcellona Tarragona

Coimbra

Siviglia

Almeria

Galizia

León

Navarra

Oporto

Aragona

Burgos Saragozza go go gozza ozza zza zza

Salamanca Coimbra

Portogallo

Badajoz

Andorra

Pamplona

Valladolid

Coimbra

Fraga

Barcellona Tarragona

Valencia

Palma

Alarcos Las Navas de Tolosa

Cordova Siviglia Huelva Granada Almeria Cadice Gibilterra

Toledo

Uclés

Badajoz Mérida Cordova Siviglia

Zamora

Coimbra

Mérida

Lisbona

Siviglia

Gibilterra

Huesca Lérida

Barcellona Tarragona Palma

Valencia

Jaén

Murcia

Granada

al-Andalus nel 1150

Andorra

Catalogna

Aragona

Toledo

Cordova

Cadice

Saragozza

Nuova Castiglia

Badajoz Huelva

Navarra

Burgos Tudela

Salamanca Madrid

Portogallo

al-Andalus nel 900

San Sebastian

Castiglia

Braganza Oporto

Barcellona Tarragona

Valencia

Almeria

Oviedo

Asturie León Galizia

Huesca

Murcia

Granada

Santiago de Compostela

Alcoraz

Contea di Barcellona

Aragona

Salamanca

Catalogna

Castiglia Cutanda

Toledo

Rueda

al-Andalus nel 790

Guadalete Oviedo Santiago de Compostela

Saragozza

Zamora

Granada

Burgos goss Tudela gos

Castiglia

Galizia Oporto

Murcia

Cordova

Lisbona

León

Lisbona

Lisbona Badajoz

Asturie

Al-Zallaqa

Valencia

Toledo

Valdejunquera

Santiago de Compostela

Almeria

Possedimenti castigliani Possedimenti aragonesi Granada

In alto l’assetto geopolitico della penisola iberica tra l’VIII e il XV sec. A sinistra particolare di una miniatura raffigurante le truppe cristiane impegnate nella battaglia di Las Navas de Tolosa, da un’edizione delle Cántigas de Santa Maria. XIII sec. San Lorenzo de El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio.


la reconquista La vittoria ottenuta nel 711 presso il fiume Guadalete segnò l’avvio dell’invasione musulmana nella penisola iberica. Molti, in Spagna e nell’Europa intera, vissero quell’evento come un oltraggio inaccettabile e cercarono di strappare agli «infedeli» le terre perdute: l’impresa, alla fine, riuscí, ma fu coronata solo a distanza di piú di settecento anni, con l’abbattimento del regno di Granada

Battaglie

BATTAGLIA DEL GUADALETE (711) Le truppe arabo-berbere sconfiggono il ben piú numeroso esercito visigoto nelle vicinanze del fiume Guadalete, in Andalusia. Inizia il dominio musulmano della Spagna. BATTAGLIA DI COVADONGA (722) Gli Spagnoli si riorganizzano e, secondo versioni leggendarie, annientano a Covadonga una colossale armata di Mori, grazie all’intervento della Vergine Maria. La vittoria segna l’inizio della Reconquista. BATTAGLIA DI POITIERS (732) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 22-30. BATTAGLIA DI VALDEJUNQUERA (920) I musulmani in terra spagnola annientano l’esercito degli Stati cristiani di Navarra e di León. BATTAGLIA DI RUEDA (981) Le truppe dei regni cristiani di Navarra e León subiscono una nuova disfatta contro gli islamici del Califfato di Cordova. BATTAGLIA DI AL-ZALLAQA O DI SAGRAJAS (1086) Gli emiri di Spagna, coadiuvati dagli Almoravidi del Marocco, trionfano contro il regno cristiano di Castiglia in una battaglia nei pressi di Badajoz, in Estremadura. BATTAGLIA DI ALCORAZ (1096) I regni cristiani si rafforzano. Lo Stato di Aragona prevale contro la taifa di Saragozza, uno dei diversi potentati

islamici sorti dopo la disgregazione del califfato di Cordova. BATTAGLIA DI UCLÉS (1108) Gli Almoravidi accorrono di nuovo in aiuto delle comunità islamiche spagnole e sconfiggono l’esercito del regno di León, in Castiglia. BATTAGLIA DI CUTANDA (1120) Avvalendosi dell’aiuto di volontari giunti dall’Aquitania, Alfonso I, re di Aragona, sconfigge gli Almoravidi. BATTAGLIA DI FRAGA (1134) Gli Almoravidi si prendono la rivincita sull’esercito del regno d’Aragona, a Fraga. Il sovrano Alfonso I viene gravemente ferito. ASSEDIO DI LISBONA (1147) Il regno del Portogallo, grazie ai rinforzi delle milizie crociate, sconfigge e caccia i Mori da Lisbona. BATTAGLIA DI ALARCOS (1195) Ancora una volta dal Marocco un esercito islamico (gli Almohadi) sbarca in Spagna per combattere contro uno Stato cristiano (il regno di Castiglia). Gli islamici ottengono una significativa vittoria. BATTAGLIA DI LAS NAVAS DE TOLOSA (1212). Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 30-31. BATTAGLIE DI GRANADA (1482-1492) L’ultimo regno musulmano nella penisola iberica (il sultanato di Granada) cade, in seguito a un’offensiva congiunta dei regni cristiani spagnoli.


la reconquista

Battaglia di Poitiers

Ottobre 732

l’argine di carlo

di Francesco Troisi

N

ell’autunno del 732 gli Arabi, dopo l’avvenuta sottomissione della penisola iberica, decisero di tentare la conquista delle terre dei Franchi. L’impresa, in realtà, non sembrava proibitiva, considerati i gravi problemi interni che affliggevano le popolazioni stanziate a nord dei Pirenei: il tramonto della dinastia merovingia aveva rinfocolato gli odi fra i tre principali distretti, Austrasia, quello dominante, Neustria e Aquitania. Quest’ultima regione, in particolare, situata a sud, proprio al confine con la Spagna ormai islamizzata, non poteva opporre una valida resistenza a un eventuale assalto. Il duca che la governava, Oddone, aveva già speso molte risorse militari in una guerra «fratricida» contro il rivale Carlo Martello, che considerava il suo principale nemico.

E se avessero vinto gli Arabi?

L’espansione araba, comunque, non rappresentava una minaccia solo per le regioni franche, ma rischiava di stravolgere l’assetto politico-religioso dell’intera Europa. E, se l’avanzata musulmana fosse andata in porto – ipotizzò nel Settecento lo studioso inglese Edward Gibbon – Oxford, come molte altre città europee, avrebbe acquisito un’anima islamica, conservandola fino in epoca moderna. La storiografia piú recente ha ridimensionato la portata di queste affermazioni. In fondo anche altri eventi di quel periodo concorsero a 22

medioevo in guerra

La battaglia di Poitiers, particolare. Olio su tela di Charles Auguste Steuben (1788-1856). 1837. Versailles, Musée du château de Versailles. Lo scontro, combattuto, nell’ottobre del 732, fu vinto dall’esercito di Carlo Martello (689-741) sulle truppe musulmane guidate da Abd al-Rahman.


medioevo in guerra

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la reconquista

Battaglia di Poitiers

Le date da ricordare 711. Gli Arabi sconfiggono il Regno visigoto e occupano quasi l’intera Penisola Iberica. Molti cristiani trovano rifugio nelle regioni montuose del Nord.

929. Abd al-Rahman III (889-961) si rende indipendente da Baghdad e viene proclamato califfo di Cordova (929-961). Il suo regno segna l’apogeo della potenza musulmana in Spagna e il periodo di massimo splendore artistico-culturale.

1035. Il califfato di Cordova si frantuma in una serie di piccoli Stati musulmani indipendenti (i taifas).

756. Abd al-Rahman I (731-788) sfugge al massacro degli Omayyadi perpetrato dagli Abbasidi e conquista Cordova e Siviglia; si proclama emiro di al-Andalus.

1037. Ferdinando I unisce i Regni di Léon e Castiglia.

AUSTRASIA Parigi

Reims

NEUSTRIA

Oceano Atlantico

BORGOGNA

Poitiers AQUITANIA

Vienne

Torino

Avignone Mar Mediterraneo

determinare le sorti dell’Occidente, ma è tuttora indubbio che il confronto armato svoltosi in quel giorno imprecisato di ottobre del 732, nei pressi di Poitiers, scrisse una pagina decisiva della storia medievale. Il prologo della battaglia di Poitiers si consumò all’inizio dell’VIII secolo, con il progetto musulmano di invasione nella penisola iberica, in quel periodo occupata dai Visigoti. Dopo la conquista dell’Africa settentrionale da parte delle truppe dell’emiro Musa ibn Nusair, i capi arabi avevano rivolto le loro attenzioni verso l’Europa meridionale. Propositi politici si mischiavano alla pianificazione di meri saccheggi, la cui prospettiva allettava molti soldati islamici, soprattutto i cosiddetti Berberi africani. Il momento propizio si manifestò in concomitanza delle lotte dinastiche all’interno del regno 24

medioevo in guerra

1043-75. Al-Mamún governa la taifa di Toledo, centro di un’intensa attività letteraria e artistica.

1075. Alfonso VI conquista Toledo e il suo dominio si estende anche su Valencia, Murcia e le taifas meridionali.

1072. Alla morte di Ferdinando I, il figlio Sancho II, re di Castiglia, cerca di uccidere il fratello Alfonso VI, re di León, che trova rifugio presso il re arabo di Toledo. Al suo ritorno, Alfonso VI unifica di nuovo le corone di Castiglia e Léon.

A sinistra l’assetto geopolitico della Francia all’indomani della morte di Pipino II di Héristal (714), maggiordomo di Austrasia e di Neustria, padre di Carlo Martello. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Carlo Martello che riceve un dispaccio recatogli da un messo, dalle Grandes Chroniques de France de Charles V. 1375-1380. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

1108. Il 30 luglio gli Almoravidi vincono le truppe cristiane a Uclés. Nella battaglia muore Sancho, figlio di Alfonso VI.

1086. Il 23 ottobre a Sagrajas (Zalaca) le truppe almoravidi di Yusuf Ibn Tashfin infliggono una clamorosa sconfitta ad Alfonso VI. I Castigliani sono costretti a ritirarsi da Valencia, riconquistata soltanto nel 1094 da Rodrigo Diaz de Vivar, il «Cid Campeador».

visigoto, rispetto alle quali gli Arabi operarono una netta scelta di campo. Schierandosi a favore del vecchio sovrano Witiza, marciarono nel 711 contro l’appena insediato Roderico, considerato un usurpatore dai suoi avversari. Guidati dal comandante Tariq ibn Ziyad, i musulmani presero subito Gibilterra, poi Toledo e si assicurarono con altrettanta rapidità il controllo di circa metà della penisola iberica. In seguito, dopo un fallito assalto a Costantinopoli, provarono una prima sortita in territorio franco: timidamente nel 718, forse con l’emiro Hurr, e, con piú decisione, nel 721 con la presa di Narbona, nella Francia del sud. Oddone, duca di Aquitania, sventò il tentativo di conquistare Tolosa, ma le truppe islamiche non fermarono la loro avanzata, dilagando successivamente in Borgogna e nella valle del Rodano.

Oddone scende a patti con il nemico

Oddone si sentiva ormai in un vicolo cieco. Aveva il nemico islamico alle porte e intendeva continuare, nel contempo, la guerra contro Carlo Martello, per scongiurare il disegno di un grande Stato a guida austrasiana che avrebbe ridotto l’indipendenza del suo ducato. Alla fine, optò per quello che riteneva il male minore e decise di scendere a patti con i musulmani. Gli Arabi, secondo i suoi calcoli, gli avrebbero potuto concedere una maggiore autonomia dal punto di vista politico rispetto al rivale del Nord, Carlo. Si alleò, pertanto, con il capo berbero Otman ben-abi Neza, l’autorità di maggior spicco della zona meridionale dei Pirenei, il


1146. Gli Almohadi sconfiggono gli Almoravidi e occupano la parte sud della Penisola Iberica. 1158. Alla morte di Alfonso VII, dopo il breve regno di Sancho III, sale al trono castigliano Alfonso VIII. 1109. Muore Alfonso VI, Imperator Toletanus Magnificus Triumphator. Il regno rimane nelle mani della figlia Urraca.

1173. Nel Regno di Castiglia si conia la prima moneta d’oro, il maravedí, sul modello del dinar arabo.

1212. Con la vittoria di Alfonso VIII nella battaglia di Las Navas de Tolosa (16 luglio) crolla il potere degli Almohadi e le città musulmane si arrendono una dopo l’altra: Cordova (1236), Valencia (1238), Murcia (1243), Jaén (1246) e Siviglia (1248). Fino al 1492 il Regno di Granada è l’unico a rimanere nelle mani dei musulmani. 1195. Alfonso VIII viene sconfittodagli Almohadi nella battaglia di Alarcos. I cristiani riescono a mantenere il controllo dei centri urbani (Toledo, Madrid, Alcalá, Cuenca).

1172-82. Gli Almohadi conquistano Valencia.

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la reconquista

Battaglia di Poitiers

territorio iberico piú vicino all’Aquitania. Si trattava, comunque, di un’intesa «platonica», perché sottoscritta con un personaggio che non aveva grande voce in capitolo sulle scelte militari dell’esercito islamico. Non la condivideva l’emiro Abd al-Rahman ibn Abd Allah al-Ghafiqi, che covava l’ambizione di impadronirsi delle regioni franche con la forza. E l’accordo divenne carta straccia. Oddone realizzò allora che proprio i musulmani erano i nemici piú insidiosi: li vide tracimare verso i suoi territori, nelle zone della Guascogna, fino a ridosso di Bordeaux, dove il duca tentò vanamente di intervenire con la sua armata. Il nuovo scenario imponeva a Oddone un cambio di strategia. Per fronteggiare un avversario cosí insidioso, accantonò i vecchi rancori con Carlo Martello e gli chiese aiuto, offrendo in cambio il controllo del proprio ducato. L’esercito islamico, intanto, dilagava nel Sud franco, con saccheggi di ogni genere e marciava verso Tours. Durante una tappa di avvicinamento alla città l’emiro venne a sapere che un contingente del duca di Aquitania, infoltito dai reparti di Carlo Martello, stava muovendo verso di lui. L’improvvisa controffensiva franca lo colse di sorpresa, mettendolo in difficoltà.

Appesantiti dal bottino

Ma che cosa poteva mai temere il condottiero di un esercito che sembrava invincibile? Il sovraccarico. Gran parte degli effettivi musulmani, infatti, avevano con sé oggetti depredati nel corso delle razzie compiute e si trovavano perciò in condizioni di mobilità poco adatte a uno scontro ad armi pari. Abd-al-Rahman, non volendo rinunciare al bottino, lo affidò alla retroguardia, che fece dislocare nei pressi di Poitiers. Era l’ottobre del 732: circa 30 000 militari cristiani stavano per scontrarsi con un numero superiore di nemici. L’armata di Carlo Martello e Oddone si schierò anch’essa nelle vicinanze della città, tra i fiumi Vienne e Clain, in attesa dell’arrivo di rinforzi frisoni, sassoni, bavari e turingi. L’iniziale immobilismo franco insospettí l’emiro che ben presto apprese dell’imminente arrivo di una gran massa di alleati del nemico. Prese allora l’iniziativa, nella speranza di non doversi scontrare in 26

medioevo in guerra

In basso statua in marmo di Carlo Martello (689 circa-741), il maestro di palazzo dei Franchi che a Poitiers riuscí a fermare l’avanzata degli Arabi. Opera di Jean-BaptisteJoseph Debay padre (1779-1863). Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon.

battaglia con molte truppe germaniche, la cui qualità bellica era ben nota, per via soprattutto del loro equipaggiamento pesante. Ma se le trovò di fronte, schierate insieme ai Franchi in un assetto difensivo granitico: una sorta di falange romana, disposta a forma di quadrato.

Il «muro» della fanteria franca

Gli islamici tentarono alcune sortite per saggiare la solidità di quel muro cosí compatto che sembrava «congelato», secondo le testimonianze dei cronisti di parte araba. Per primi andarono all’assalto i cavalieri berberi dell’ala sinistra e la fanteria che si trovava, invece, in posizione centrale. Ma nonostante l’enorme quantità di giavellotti lanciati e di colpi inferti con le spade, non riuscirono a scalfire le difese nemiche. La tattica di Carlo Martello era piuttosto elementare. Chiese ai suoi di restare fermi, mentre l’assalto della cavalleria avversaria si infrangeva sui loro scudi. Sperava cosí di sfiancare le energie dei musulmani, per poter poi sferrare il contrattacco al momento piú opportuno. Gli Arabi cercarono con ogni mezzo di sgretolare il muro difensivo dei Franchi e dei loro alleati: finsero piú volte anche di ritirarsi, ma senza ottenere alcun risultato. Persero sempre maggiori energie nel tentativo di sfondamento e cominciarono a subire perdite, a causa dei fulminei colpi d’ascia che talvolta partivano dal muro della schiera piú esterna della falange. Carlo, però, aveva anche un’altra carta da giocare. Al principale alleato, Oddone, aveva chiesto di appostarsi dietro la fanteria, nascondendosi in una fitta boscaglia, in attesa del Nella pagina accanto Roma, Casino Massimo Lancellotti. Particolare di un affresco di Julius Schnorr von Carolsfeld (1794-1872) ispirato all’Orlando furioso e raffigurante le truppe saracene alle porte di Parigi. Il conflitto tra cristiani e musulmani fu uno dei nuclei narrativi principali del poema ariostesco.


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la reconquista

Battaglia di Poitiers

momento ideale per intervenire. Al segnale convenuto, il duca di Aquitania, con i suoi fedelissimi, sbucò dalla vegetazione, scagliandosi contro il fianco destro avversario, con l’obiettivo di raggiungere le retroguardie nemiche, dove era nascosto il bottino. La manovra improvvisa costrinse molti degli effettivi islamici ad accorrere sul punto in cui l’attacco di sorpresa era avvenuto. In questo modo la sortita di Oddone venne presto sventata, ma a caro prezzo: l’intero esercito dell’emiro si sfilacciò, risultando di conseguenza piú vulnerabile. Proprio in quel momento, la fanteria franca abbandonò la posizione d’attesa a avanzò, travolgendo il nemico, in evidente condizione di inferiorità in quanto a equipaggiamento. Nel combattimento corpo a corpo 28

medioevo in guerra

in molti tra gli Arabi vennero trucidati, e anche il loro capo Abd-al-Rahman fu colpito a morte, forse proprio da Carlo Martello.

La notte ferma la battaglia

In alto la battaglia di Poitiers, in un’altra miniatura tratta dalle Grandes Chroniques de France de Charles V. 1375-1380. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Il sopraggiungere della notte salvò gli islamici da una situazione ormai disperata. Le truppe erano in ritirata e, private della loro guida, non sembravano in grado di organizzare una nuova difesa. Il buio, però, imponeva un intervallo. E Carlo Martello lo utilizzò per concedere qualche ora di riposo ai suoi uomini prima dell’attacco decisivo che sarebbe stato sferrato l’indomani, alle prime luci dell’alba. Gli Arabi sfruttarono la pausa in modo diverso, fuggendo in piena notte e senza il ricco bottino, cosí da po-


le fasiVienne della battaglia

Clain

Vienne Vienne

Clain Clain

Poitiers Poitiers Poitiers

la disposizione iniziale

L’esercito cristiano attese il nemico tra i due fiumi Clain e Vienne, schierandosi in un’unica compagine: una prima linea di fanteria pesante intervallata da reparti di cavalleria, e altri cavalieri sui lati esterni della seconda linea. Inoltre, arretrati e nascosti nella boscaglia, si trovavano i cavalieri di Oddone d’Aquitania. L’ala sinistra dell’esercito islamico, posizionata presso il fiume Clain, era, invece, formata da cavalleria leggera; la parte centrale era composta da fanti ed arcieri, mentre l’ala destra era schierata su una collinetta. Dietro a ognuna delle ali erano posti schieramenti di cammelli da trasporto.

Clain

Vienne

Clain Clain

Vienne Vienne

l’attacco islamico Gli Arabi si lanciarono all’attacco per primi,

Clain

Vienne

Clain Clain

Vienne Vienne

l’avanzata dei fanti cristiani Quando gran parte della cavalleria avversaria era

facendo partire la cavalleria berbera che investí i fanti cristiani del fronte avversario. Su ordine di Carlo Martello, i Franchi rimasero però immobili per fiaccare il nemico e colpire con le picche i destrieri e poi, una volta appiedati, i cavalieri. La battaglia continuò per ore. Carlo Martello non permise ai suoi guerrieri l’inseguimento delle truppe arabe in una «finta ritirata», per non cadere nel tranello musulmano.

Poitiers Poitiers Poitiers

ormai sfiancata dagli scudi e dalle picche dei fanti cristiani, la cavalleria di Oddone, sbucata dal bosco in cui era nascosta, travolse il fianco destro dei musulmani mettendolo in fuga. Cominciò contemporaneamente l’avanzata compatta della fanteria cristiana che investí l’esercito musulmano e, nel combattimento corpo a corpo, molti Arabi, tra cui Abd al-Rahman, furono uccisi. I musulmani sopravvissuti fuggirono rapidamente, lasciando il bottino conquistato durante le razzie in Aquitania.

Poitiers Poitiers Poitiers

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la reconquista

Battaglia di Poitiers

ter accelerare la propria marcia. Grande fu la sorpresa dei Franchi quando il giorno successivo si avvicinarono al campo avversario e lo trovarono vuoto. Ammassati in qualche tenda scovarono gli oggetti preziosi requisiti dall’armata islamica durante i saccheggi e se li spartirono, rinunciando a lanciarsi all’inseguimento dei fuggiaschi. In realtà, sembra che Carlo Martello fosse contrario a infierire sui musulmani in rotta, cacciandoli anche dalla zona dei Pirenei. In fondo potevano tornargli utili come deterrente nei confronti delle mire indipendentiste di Oddone. Un’Aquitania sotto la costante minaccia di un’invasione sarebbe stata costretta a rimanere sotto l’ala protettiva di Parigi. Le cronache arabe non attribuiscono il merito della vittoria di Poitiers ai soldati di Carlo Martello. Ma denunciano il peccato di cupidigia degli uomini dell’emiro che, nel pieno della battaglia, avevano preferito difendere il bottino, perché allarmati dalla notizia di un attacco franco nelle retroguardie. La ricostruzione concorda con il racconto che la maggior parte della storiografia ha fornito sugli esiti della battaglia di Poitiers: non ci fu sconfitta sul campo, ma una ritirata strategica.Le perdite furono cospicue sul versante arabo e molto modeste invece tra i Franchi (secondo alcuni storici ammontarono a solo 1500, 2000 unità). Le cifre sui caduti islamici non sono, invece, note se si esclude l’abnorme stima di 375 000, indicata in alcune fonti.

Battaglia di Las Navas de Tolosa di Francesco Colotta

L

a Reconquista cristiana in terra iberica fece registrare la sua accelerazione decisiva nell’estate del 1212. L’egemonia della dinastia musulmana berbera degli Almohadi durava in Spagna ormai da molti anni ed era sopravvissuta a numerosi tentativi di rovesciamento, gli ultimi dei quali compiuti nel XII secolo con le battaglie di Alarcos, Toledo e Madrid. I musulmani avevano mantenuto il controllo su gran parte della penisola, sfruttando anche le divisioni interne dei nemici cristiani, frammentatisi in piccoli Stati (i regni di Castiglia, León, Aragona, Navarra e Portogallo), spesso in lotta fra loro. Un giorno, però, complice l’abile regia della Chiesa, la situazione politica cambiò radicalmente. Grazie alle ripetute missioni diplomatiche a Roma dell’arcivescovo di Toledo, Rodrigo Jiménez de Rada, l’allora pontefice Innocenzo III si convinse a intervenire, esortando i regni

Ma non fu una guerra di religione

Carlo Martello sfruttò l’affermazione a Poitiers per rafforzare il proprio potere politico sugli altri ducati e garantire alla sua dinastia un futuro prestigioso. E, dopo soli sessant’anni, uno dei suoi successori, Carlo Magno, fu incoronato imperatore in Vaticano, da papa Leone III. Gli Arabi, dal canto loro, non si arresero e riprovarono a invadere i territori franchi, alleandosi ancora una volta con i nobili dell’Aquitania, refrattari al centralismo carolingio. Grazie a questo rinnovato patto, gli islamici riuscirono a conquistare Arles e Narbona, ma dopo poco vennero respinti, questa volta in via definitiva. Restano, invece, molti dubbi sulla tesi secondo cui Poitiers salvò l’Europa da un’invasione musulmana certa e duratura. In effetti l’emiro Abd al-Rahman non aveva concepito un ambizioso progetto politico-religioso di assoggettamento dell’Occidente, ma con l’espansione in Europa intendeva soprattutto soddisfare la bramosia di ricchezze delle sue truppe, per garantirsene la fedeltà. E anche le fonti cristiane non definirono mai la battaglia di Poitiers come una guerra di religione. 30

medioevo in guerra

Francisco de Paula Van Halen, La battaglia di Las Navas de Tolosa. Olio su tela, 1864. Madrid, Museo del Prado.


cristiani a unirsi contro il comune nemico almohade. Per favorire l’alleanza tra le varie corone, il papa stabilí che gli aderenti alla grande coalizione antimusulmana avrebbero ottenuto l’indulgenza plenaria. La campagna militare si configurò, pertanto, come una vera e propria crociata. Tuttavia, malgrado l’iniziativa del pontefice e gli appelli alla mobilitazione, non fu facile convincere i diversi regni iberici a unire le proprie forze. Seppur a fatica, l’alleanza venne comunque ratificata e diede il via alla missione militare: nel giorno della Pentecoste del 1212 le diverse armate, compresi alcuni reparti francesi e tedeschi, convogliarono verso Toledo, e si prepararono allo scontro contro il potentato musulmano. Si trattava di un esercito poderoso – alcune fonti parlano di oltre 70 000 unità –, che non ebbe difficoltà a espugnare alcune fortezze controllate dagli Almohadi, come Malagon e Calatrava. Guidata da Alfonso VIII di Castiglia, Pietro II d’Aragona e Sancho VII di Navarra, l’armata, dopo aver occupato anche Alarcos, si fermò in prossimità di Ferral, sulla gola della Losa, oltre la quale era schierato l’esercito almohade, comandato dal califfo Muhammad al-Nasir. I cristiani

riuscirono a superare indenni la gola e si posizionarono nei pressi di Las Navas de Tolosa: in prima fila si dispose la cavalleria leggera, a ridosso il contingente dei fanti e in coda la cavalleria pesante. L’armata musulmana presentava, invece, un nucleo centrale di fanti, la temuta cavalleria leggera sulle ali e una serie di reparti nelle retrovie, a protezione della tenda del califfo. L’esercito cristiano attaccò per primo, penetrando nelle linee nemiche, ma subí la controffensiva della cavalleria musulmana ai fianchi. I capi dell’alleanza avevano però destinato all’incursione iniziale solo una piccola parte delle forze a disposizione e ciò consentí di fronteggiare con sufficienti riserve la manovra di aggiramento islamica. Il secondo attacco cristiano sbaragliò i reparti dei cavalieri almohadi e permise alle truppe di avanzare fino alle ultime linee nemiche, a ridosso della tenda del califfo. Gli islamici resistettero valorosamente fino all’ultimo e, dopo furiosi duelli, vennero sopraffatti. La Reconquista non poteva, però, dirsi compiuta: solo nel 1492, con la presa di Granada, la penisola tornò infatti a essere interamente cristiana.

medioevo in guerra

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in nome di dio

Tra l’XI e il XIII secolo l’Occidente cristiano prende le armi contro l’Islam, reo di avere acquisito il controllo dei piú importanti Luoghi Santi, primo fra tutti Gerusalemme. Il Vicino Oriente diviene teatro di battaglie cruente, che, oggi possiamo affermarlo senza esitazioni, hanno motivazioni assai meno nobili della difesa della fede...

Battaglie

ASSEDIO DI ANTIOCHIA (1098) Nel 1097, la I crociata fa registrare importanti successi dell’alleanza cristiana a Nicea e poi a Dorylaeum (entrambe in Anatolia). La marcia dei vincitori in Turchia è inarrestabile: i cristiani conquistano anche Antiochia e vi fondano un principato. ASSEDIO DI MARRA (1098) Anche Marra, nella quale sono asserragliati Turchi Selgiuchidi e Saraceni, si arrende ai crociati.

ASSEDIO DI DAMASCO (1148) Inizia la II crociata. I cristiani, accorsi a riconquistare Edessa, puntano invece su Damasco, controllata dai Saraceni, che, dopo una strenua resistenza, respingono gli assedianti. BATTAGLIA D’INAB (1149) I governatorati musulmani di Aleppo e Damasco attaccano il principato di Antiochia.

ASSEDIO DI GERUSALEMME (1099) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 34-44.

BATTAGLIA DI ASCALONA (1153) I crociati del regno di Gerusalemme strappano il controllo di Ascalona ai Fatimidi. La città diventa cristiana.

BATTAGLIA DI ASCALONA (1099) Ultima battaglia della I crociata. Ad Ascalona, nell’odierno territorio di Israele, i soldati cristiani sconfiggono un’armata di Fatimidi egiziani.

BATTAGLIA DI MONTGISARD (1177) Guidate da Baldovino IV, re di Gerusalemme, le truppe cristiane infliggono all’esercito di Saladino una delle sue sconfitte piú brucianti.

ASSEDIO DI TRIPOLI (1102-1109) I crociati assaltano Tripoli, scacciano i Banu Ammar e i Selgiuchidi fondando una contea cristiana.

BATTAGLIA DEL GUADO DI GIACOBBE (1179) Gli Ayyubidi annientano l’esercito del regno di Gerusalemme al Guado di Giacobbe e si avvicinano alla Città Santa.

BATTAGLIA DI SHAYZAR (1111) L’impero selgiuchide attacca gli Stati cristiani proliferati in Terra Santa e infligge loro una pesante sconfitta. ASSEDIO DI TIRO (1124) Cade il sultanato di Tiro sotto i colpi di un’armata di crociati, supportata da navi della Repubblica di Venezia. ASSEDIO DI EDESSA (1144) La Contea di Edessa, il piú debole dei nuovi Stati crociati in Terra Santa, viene attaccato e si arrende ai Turchi Selgiuchidi, guidati dall’atabeg Zangi

ASSEDIO DI KERAK (1183) I cristiani resistono all’avanzata di Saladino e gli impediscono di conquistare il castello di Kerak. Oltre 20 000 sono le perdite dalla parte islamica. BATTAGLIA DI HATTIN (1187) Vedi, in questo capitolo, il box alle alle pp. 44-45. ASSEDIO DI GERUSALEMME (1187) Saladino conquista Gerusalemme. In Occidente scatta la mobilitazione e si prepara la III crociata.


Sultanato Su ullttan anat ato di di R Rum um m

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usa ssaalem em mme m ((10 09 99 999 118 18 87) 7) Regno Reg eegno no di d Gerusalemme Ger Ge eru (1099-1187) A Aq Aqa ‘ q qa baa qaba

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BATTAGLIA DI SAN GIOVANNI D’ACRI (1189-1191) I cristiani espugnano una delle roccaforti chiave degli Ayyubidi in Terrasanta. BATTAGLIA DI ARSUF (1191) Saladino e gli Ayyubidi vengono sconfitti dai crociati, guidati da Riccardo Cuor di Leone. BATTAGLIA DI GIAFFA (1192) L’esercito cristiano conquista la città, nonostante la tattica della «terra bruciata» messa in atto da Saladino. ASSEDIO DI DAMIETTA (1219) V crociata: i cristiani espugnano la città egiziana.

ipo ip poli ((11 1110202 1114 114 46) 6) Contea (1102-1146) C ttea Co Con ea di di Tripoli PPrincipato rinc ncipa ipa ipato pato di di A An Ant n nttioc io ioc occhia h (1 ((1098-1268) 09 098 0 98 8-12 -12 -1 1 68)) Antiochia

ASSEDIO DI DAMIETTA (1249) Tornata in mano islamica, la città viene ripresa dai crociati. BATTAGLIA DI MANSURA (1250) Ayyubidi e Mamelucchi, arroccati a Mansura, sconfiggono i crociati. BATTAGLIA DI FARISKUR (1250) I cristiani subiscono la sconfitta decisiva a Fariskur contro gli Ayyubidi egiziani. ASSEDIO DI SAN GIOVANNI D’ACRI (1291) I Mamelucchi espugnano la città. È l’epilogo delle crociate in Oriente.


in nome di dio

Assedio di Gerusalemme

L u g li o 1 09 9

massacro in terra santa

di Marina Montesano

C

on un appello lanciato da papa Urbano II al concilio di Clermont, nel 1095, ebbe inizio l’avventura che, nel luglio del 1099, condusse alla sanguinosa conquista crociata di Gerusalemme. Dopo una marcia durata anni, segnata da battaglie e massacri, migliaia di pellegrini e cavalieri «esultanti e piangendo di gioia, andarono a venerare il Sepolcro del nostro Salvatore Gesú, sciogliendo il debito che avevano contratto con Lui», come scrive un anonimo cronista nei Gesta Francorum et aliorum Hierosolimitanorum (Gesta dei Franchi e degli altri pellegrini a Gerusalemme). Ma com’era stato possibile? L’Europa altomedievale ci appare oggi, magari in parte a torto, come un mondo chiuso in se stesso, che si fermava sui bordi di un Mediterraneo dominato da marinai arabi e bizantini. Ma, a partire dalla fine del X secolo, le migliorate condizioni climatiche e un rinnovato slancio demografico avevano innescato, tra Europa e Mediterraneo settentrionale, una serie di reazioni socio-economiche a catena che, a loro volta, erano state accompagnate da un vorticoso movimento di rinascita e di espansione politica. Il risveglio della società europea aveva tra le sue cause principali la rottura di vecchi equilibri nelle strutture fondiarie, vaste campagne di bonifica e di disboscamento, lo stabilirsi di un’economia monetaria – che comportò la na34

medioevo in guerra

scita di nuovi mercati –, la crescita delle città e una rinnovata mobilità, che dette origine a viaggi di natura religiosa, i pellegrinaggi, ma anche a nuovi orizzonti commerciali. Intanto, l’inquietudine di ceti guerrieri minacciati d’impoverimento dalla nuova economia monetaria e desiderosi d’ingaggio mercenario o di nuove terre da conquistare determinava una serie di avventure militari a cui la Chiesa latina – separata da quella greca a causa di uno scisma prodottosi nel 1054 – provvide a fornire una giustificazione religiosa quando s’indirizzavano verso i territori dell’impero bizantino o verso quelle regioni europee in cui (come nella Penisola Iberica e nelle isole mediterranee, in particolare la Sicilia) tra VIII e X secolo si era radicata la civiltà musulmana. Tale complessa situazione ebbe tra i vari esiti le spedizioni che la storiografia occidentale ha chiamato «crociate».

Espressione di un disagio sociale

In realtà, è piú corretto parlare non di singole «crociate», ma di un complesso e articolato «movimento crociato», che determinò nuove formazioni politico-istituzionali e produsse una sua cultura giuridica e letteraria. Un movimento che, fin dall’inizio, appare strettamente legato a quello del pellegrinaggio. A esso partecipavano numerosi aristocratici, che magari si proponevano di scortare e difendere con le armi i vian-

Processione di crociati intorno a Gerusalemme, 14 luglio 1099, olio su tela di Jean Victor Schnetz. 1841. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon. L’artista immagina i soldati cristiani guidati da Pietro l’Eremita e Goffredo di Buglione, alla vigilia dell’attacco alla Città Santa.


medioevo in guerra

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in nome di dio

Assedio di Gerusalemme

L’Europa e il Vicino Oriente al tempo della prima crociata Norvegia

Vyborg Oslo Uppsala

Novgorod Jaroslavi

Edimburgo

Svezia Arhus Lund

Danimarca

York

Dublino

Chester

Inghilterra Ultrecht Londra

Colonia

Boulogne

Normandia

Tours

Fiandre

Gand

SACRO ROMANO IMPERO Praga Lorena GERMANICO

Blois

Francia

Saint-Gilles Saragozza

Lisbona

Kiev Cracovia

Marsiglia

Ungheria

Aquileia

Belgrado Pisa

Valencia

Nis

Roma Montecassino Napoli

Granada Tangeri

Normanni Palermo

Algeri

Cherson

Peceneghi

Serbia Ragusa

Toledo

Halych

Buda

Genova

Tolosa

Cernihiv

Rus’ di Kiev

Vienna

Milano

Leon

Regno di León

Varsavia

Breslavia

Pontarlier

Cluny

Clermont Le Puy

Bordeaux

Polonia

Ratisbona

Strasburgo

Smolensk

Minsk

Danzica Amburgo Stettino Gniezno Magdeburgo

Trebisonda Sofia

Adrianopoli

Durazzo Taranto

Costantinopoli Nicea Dorylaeum

Impero bizantino

Sultanato ato ddi Iconio at Smirne

Tunisi

Marrakech

Iconio

Almoravidi

Danishmendidi Cesarea

Armeni Maras

Edessa

Tarso Antiochia Tripoli

San Giovanni d’Acri Tripoli Cristianità cattolica

Ugo di Vermandois

Cristianità ortodossa Cristianità monofisita

Goffredo di Buglione Boemondo di Taranto

Islam sunnita Islam sciita

Raimondo di Tolosa Roberto II di Normandia

Battaglia

Percorso comune Baldovino di Boulogne

Via Egnatia

Ademaro di Monteil Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy, fu uno dei principali protagonisti della I crociata. È qui ritratto in una miniatura del XIII sec.

Ascalona

Homs Damasco

Gerusalemme

Alessandria d’Egitto Il Cairo

Fatimidi

danti inermi. Tra questi ceti superiori, il pellegrinaggio poteva anche essere espressione di un certo disagio sociale. In gran parte d’Europa, per i figli cadetti della nobiltà non si prevedevano assegnazioni ereditarie, e a essi non rimaneva che scegliere fra carriera ecclesiastica e avventura guerriera. Questo aiuta a spiegare l’afflusso di cava-

Petra Aqaba


Le date da ricordare 1096-1099. I crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale.

Bulgar

1099, 15 luglio. I crociati conquistano Gerusalemme. 1099, 10 luglio. El Cid Campeador muore a Valencia. Itil

Nomadi

1098, giugno. I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla.

1045-1146. Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia regolatrice del movimento crociato.

1128. Concilio di Troyes: la fraternitas dei Pauperes milites Christi et salomonici Templi trasformata in militia (Ordine religioso-cavalleresco). 1100. Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del regno «franco» di Gerusalemme.

1147, ottobre. I crociati prendono Almeria e poi Lisbona.

Boemondo d’Altavilla Tbilisi

Regno di Georgia

Boemondo d’Altavilla, nato intorno al 1058, era figlio di Roberto il Guiscardo, ed era già stato luogotenente del padre nell’assedio di Durazzo del 1081-82. Qui sotto, a sinistra, compare in navigazione verso la Puglia, in una miniatura da un’edizione della Histoire d’Outremer. XIII sec.

Mossul

Selgiuchidi Baghdad

Nomadi

Roberto di Normandia

Roberto, duca di Normandia, detto di Courthose o Roberto II, nato intorno al 1050, era il primogenito di Guglielmo il Conquistatore. Qui lo vediamo in un dipinto di Henri Decaisne del 1843.

Medina

lieri venuti un po’ da ogni parte della cristianità occidentale, ma soprattutto dalla Francia, in quelle guerre combattute contro i musulmani nella Penisola Iberica e che vanno nel loro complesso sotto il nome spagnolo di reconquista. La Chiesa romana, nell’XI secolo impegnata nel confronto con l’impero, favorí le campagne dei re spagnoli e incoraggiò la cavalleria europea a

intervenire al loro fianco. Anche al di fuori della Penisola Iberica alcune imprese militari mostrarono una nuova aggressività del mondo occidentale. In Spagna, in Sicilia e in Africa il pontefice aveva assegnato ai capi cristiani la bandiera di San Pietro (simbolo di rapporto feudale, ma anche di benedizione); le cronache di quelle imprese medioevo in guerra

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in nome di dio

Assedio di Gerusalemme

parlano d’interventi divini e di miracoli a favore dei combattenti della fede; e la guerra fra cristiani e «infedeli» viene spesso rappresentata come simbolo del conflitto spirituale tra Virtú e Vizio. Alla fine del secolo il conflitto contro i musulmani veniva insomma concepito come qualcosa di spiritualmente meritorio e fu proprio questo il sentimento su cui fece leva papa Urbano II, nel suo già citato appello ad accorrere in aiuto dell’impero di Costantinopoli minacciato dai Turchi Selgiuchidi.

Acquedott

o

cosí un impero politico-militare che si estendeva dall’Anatolia alla Persia centrale. A causa dell’invasione turca, si può dire che nel corso dell’XI secolo la Penisola Anatolica venne quasi completamente islamizzata a scapito di Bisanzio. A differenza degli Arabi, i nuovi arrivati, musulmani appena convertiti, tendevano a diffondere l’Islam anche con la violenza, ricorrendo alle conversioni forzate e al terrore. A capo di questo impero era il khan, che aveva ormai assunto il titolo di «sultano» (da una parola araba designante l’esercizio del potere) Dalle steppe dell’Asia e che risiedeva a Baghdad affiancando, in una Nel corso dell’XI secolo la dar al-Islam (letteralsorta di diarchia, il califfo. mente la «terra dell’Islam», dove la Agli ordini del califfo agiva una fede islamica è conosciuta e seguirete di capi militari (agha) e di ta) si era arricchita di un nuovo governatori (beg e atabeg), che si Chiesa di S. Stefano Cinta muraria grande popolo, proveniente dall’Apresentavano come i custodi attuale sia Centrale. Alcune tribú turche dell’Islam sunnita soprattutto Cinta muraria di Eudocia (distrutta da un terremoto avevano infatti accettato il Corano. contro il rivale califfato sciita del Chiesa di nel 1033) D’origine etnica e linguistica molto Cairo, ma che, un po’ ovunque, S. Maria alla Probatica diversa sia dai semiti arabi, sia dagli si scontravano nascostamente o Quartiere indoeuropei persiani, i Turchi, apapertamente con i wali (funzioebraico partenenti a un ceppo uralo-altaico nari giuridico-amministrativi (XIsec.) Haram Chiesa del affine al mongolo, parlavano una del califfo), gli «emiri» (principi) ash-Sharif Santo Sepolcro Cupola lingua della grande famiglia ugroe gli «sceicchi» (anziani, capidella Roccia finnica. Originari dell’Asia nordQuartiere tribú) arabi e arabopersiani, i cristiano orientale, dopo una lunga serie di quali mal sopportavano i nuovi migrazioni, essi avevano occupato, arrivati. Ciò determinava una Quartiere Cittadella nel X secolo, un’ampia area asiatisituazione di tensione militare e musulmano ca, che dai confini dell’India e della di frammentazione politica della Persia giungeva fino a quelli della quale gli occidentali avrebbero Chiesa Quartiere Cina. La loro struttura politica e approfittato, soprattutto per la della Nea ebraico sociale era una grande confederaPalestina, che si trovava a essere (fino all’XI sec.) zione di tribú con a capo dei khagan zona di confine tra i due poteri (letteralmente «signori di popoli»), musulmani in lotta. Basilica del Cenacolo nome che fu contratto in khan. Piscina di Siloe Predicatori e agitatori Nel corso dell’XI secolo una tribú L’Europa del tempo, invece, puloriginariamente turkmena – apparlulava di predicatori itineranti e tenente cioè a un ramo specifico di agitatori religiosi. Nei decenni dell’etnia turca e che noi chiamiaprecedenti si era consumato il mo «selgiuchide», dal nome del loro primo scontro tra papato e impero nelle figure khan Selgiuq –, convertita all’Islam da pochi di Gregorio VII ed Enrico IV: frutto, in realtà, di decenni, giunse dalle steppe dell’Asia Centrale a un movimento ecclesiastico che mirava alla rafforzare con la sua fede giovane e la sua forza costruzione di una Chiesa organizzata verticimilitare (i Turchi erano cavalieri e arcieri formisticamente sotto il potere accentratore dei pondabili) il pericolante potere del califfo abbaside tefici, e che avrebbe dovuto cosí sfuggire all’indi Baghdad. fluenza delle aristocrazie locali e dei poteri imIn quanto uralo-altaici, i Turchi appartenevano periali. Questa Chiesa riformata si era servita alla medesima famiglia etno-linguistica che avespesso di questi agitatori che infiammavano i va dato origine a una serie di popoli che, dal IV ceti subalterni, soprattutto cittadini, nella lotta secolo in poi, si erano rovesciati dall’Oriente contro il clero «simoniaco» e «concubinario» sull’Occidente: gli Unni, gli Avari, i Bulgari, i rimasto fedele all’imperatore. Magiari o Ungari. Non solo rapidamente islaCon la vittoria dei fautori della Riforma, però, e mizzati, ma anche iranizzati nella lingua e nei il periodo di stabilizzazione che all’indomani di costumi – il persiano fu loro sempre piú familiaessa si era aperto, gli agitatori religiosi erano re dell’arabo –, i Turchi Selgiuchidi fondarono 38

medioevo in guerra

In basso pianta di Gerusalemme in epoca musulmana. Negli anni precedenti l’assalto crociato del 1099, il controllo della città era piú volte passato di mano e ciò aveva negativamente influito sul suo apparato difensivo.


diventati una presenza ingombrante. A loro volta, essi erano profondamente delusi dell’esito della riforma ecclesiastica, che non aveva certo generato una Chiesa di «poveri e uguali» come s’immaginava fosse stata quella delle origini. La spedizione in Oriente si prestava a venir presentata come il ritorno alla Casa del Padre, la conquista della Gerusalemme Celeste. Si organizzarono cosí schiere di «poveri pellegrini», sommariamente armati e per niente disciplinati, che si dettero a partire tumultuosamente alla volta dell’Oriente e che, lungo la strada, si macchiarono di delitti comuni e di stragi dirette soprattutto contro le comunità ebraiche delle vallate del Reno e del Danubio che essi attraversarono. Tra i «profeti» che li guidavano, la memoria storica ha tramandato il nome di Pietro d’Amiens, detto l’Eremita, un predicatore di dubbia collocazione nel quadro ecclesiastico, ma dotato di fascino trascinatore. Pietro e i capipopolo come lui, tuttavia, non erano assolutamente in grado di guidare spedizioni ordinate; vi furono semmai guerrieri alla ricerca dell’avventura – e forse, a loro volta, animati da una sorta di ruvido entusiasmo religioso –, che cercavano di inquadrare queste folle. Le «crociate dei poveri» si risolsero comunque in altrettanti fallimenti. Solo sparuti gruppi di sopravvissuti di tali spedizioni furono incontrati nel 1096 dai capi delle grandi missioni feudali, e si accodarono a esse. Gli altri peri-

Gerusalemme. Veduta della cittadella medievale conosciuta come «Torre di Davide», presso la Porta di Giaffa, uno degli ingressi alla Città Vecchia.

rono piú o meno tragicamente per strada, dopo aver sanguinosamente attaccato e saccheggiato le comunità ebraiche tedesche. Le colonne dei principi feudali e dei loro vassalli, con i quali viaggiavano tuttavia anche pellegrini inermi, s’incontrarono nel 1096 a Costantinopoli. Capo spirituale della spedizione era Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy; vi erano, inoltre, i Provenzali guidati da Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa e marchese di Provenza, i Tedeschi di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, i Fiamminghi di Roberto, conte di Fiandra, i Francesi di Ugo Magno, i Normanni di Roberto, duca di Normandia, i Normanno-italici di Boemondo di Taranto.

Un’impresa apocalittica

Quando le truppe giunsero a Costantinopoli gli scopi di questa grande spedizione non erano tuttavia ancora chiari. L’idea di arrivare fino in Terra Santa e conquistare Gerusalemme dovette maturare lentamente e forse su influenza anche dei «poveri pellegrini», i quali attribuivano alla loro spedizione un carattere apocalittico. Ma, a Bisanzio, il loro arrivo preoccupò non poco il basileus Alessio Comneno: in particolar modo, questi non poteva certo essere contento dell’arrivo dei Normanni italo-meridionali, che già piú volte avevano attentato ai confini dell’impero e sulle cui intenzioni aveva ogni diritto di dubitare. medioevo in guerra

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in nome di dio

Assedio di Gerusalemme

Divisi in differenti colonne che a tratti si riunivano, le truppe baronali e i pellegrini attraversarono l’altopiano anatolico e vinsero ripetutamente truppe turche inviate contro di loro da potentati che avevano senza dubbio sottovalutato la pericolosità di questi nuovi arrivati. Nell’estate del 1098 i Franchi (come in Oriente erano chiamati tutti gli euro-occidentali) riuscirono a impadronirsi di Antiochia, una delle piú grandi metropoli del Vicino Oriente. Il mondo islamico vicino-orientale non si aspettava quell’attacco, per piú versi folle; e, per giunta, era diviso a causa della rivalità fra Turchi e Arabi, fra sunniti e sciiti. Un elemento importante del successo dei Franchi, nonostante la loro ignoranza della

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medioevo in guerra

geografia e della climatologia vicino-orientale (transitarono per il deserto altipiano anatolico in piena estate) e la litigiosità fra i capi, fu il fattore sorpresa: gli emirati d’Anatolia e di Siria, a loro volta ostili tra loro, non potevano certo pensare che si potesse essere cosí avventati da affrontare gli eccessi estivi o invernali di un clima continentale tra i piú duri. Al successo contribuirono inoltre la confusione tattica e strategica dei crociati, la loro mancanza di un obiettivo chiaro: erano abili e coraggiosi guerrieri, ma indisciplinati, privi di un piano comune, incapaci di coordinare le loro forze. I Turchi erano abituati alle periodiche controffensive bizantine e alla presenza, anche se mai numericamente tanto massiccia, di merce-


Nella pagina accanto la Cupola della Roccia (Qubbet as-Sakhra), il piú importante monumento islamico di Gerusalemme, costruito tra il 687 e il 691 per volere del califfo omayyade ‘Abd al-Malik. nari occidentali; ma non erano in grado di cogliere la novità rappresentata da un pellegrinaggio armato diretto a Gerusalemme. Rispetto al numero di cavalieri che avevano cominciato la marcia, oscillante tra le 5000 e le 7000, ne giunsero tra i 1000 e i 1500, accompagnati da circa 12 000 fanti e alcune migliaia di pellegrini: la distinzione tra queste due ultime categorie non doveva essere sempre chiara. In tutto si può ipotizzare la presenza di 20 000 persone circa. Degli altri, chi non era perito durante il viaggio, si era fermato nelle terre conquistate o aveva scelto di rientrare prima del previsto.

Una città indebolita

Quest’orda di guerrieri armati e di pellegrini originariamente seminermi, ma induriti dal lungo viaggio, inferociti dalle privazioni e preda d’un repentino e fanatico entusiasmo, si abbatté su Gerusalemme all’inizio di giugno del 1099. Negli anni appena precedenti la città aveva subito una serie di cambi di potere che ne avevano indebolito le difese, come testimonia il cronista arabo Ibn Al-Ath: «Gerusalemme apparteneva a Tag’ ad-dawla Tutúsh che l’aveva concessa in feudo all’emiro Suqmàn ibn Artúq il Turcomanno. Ma, quando i Franchi vinsero i Turchi sotto Antiochia e ne fecero strage, questi si indebolirono e dispersero e allora gli Egiziani, vista la debolezza dei Turchi, marciarono su Gerusalemme sotto il comando di alAfdal ibn Badr al-Giamali e la assediarono». «Erano nella città Suqmàn e Ilghazi figli di Artúq, il loro cugino Sunig e il loro nipote Yaquti. L’Egiziano montò contro Gerusalemme piú di quaranta macchine d’assedio, che demolirono vari punti delle mura; gli abitanti si difesero, e la lotta e l’assedio durarono piú di quaranta giorni. Alla fine, gli Egiziani si resero padroni della città per capitolazione nello sha’ban del

In alto mappa della città di Gerusalemme al tempo delle crociate, da un manoscritto miniato del XIII sec. Uppsala, Biblioteca dell’Università.

489 (agosto 1096 [in realtà 1098], n.d.r.). AlAfdal trattò generosamente Suqmàn, Ilghazi e i loro compagni, fece loro larghi donativi, e li lasciò andare, ed essi si recarono a Damasco, e poi passarono l’Eufrate, e Suqmàn si fermò a Edessa, mentre Ilghazi se ne andò nell’Iràq. Gli Egiziani misero come luogotenente in Gerusalemme un certo Iftikhàr al-Dawla, che vi restò al momento di cui parliamo». Giunti davanti alle mura, in molti si lasciarono andare a manifestazioni di entusiasmo e di commozione. Ma, nonostante il fervore, i Franchi erano tutt’altro che uniti; molti seguimedioevo in guerra

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in nome di dio

Assedio di Gerusalemme

vano i grandi signori, altri avevano formato bande indipendenti: il risultato era un coordinamento davvero approssimativo. Il 6 giugno, per proprio conto, Tancredi prese Betlemme; il giorno successivo Gerusalemme era circondata: Goffredo, Roberto di Fiandra e Roberto di Normandia disposero i propri uomini di fronte alle mura da nord a sud,

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Titolo

fino alla Torre di Davide, mentre Raimondo di Tolosa, che disponeva del contingente piú numeroso, si schierò sul lato occidentale, dalla Torre di Davide al Monte Sion. Il governatore fatimide di Gerusalemme, Iftikhar al-Dawla, aveva cercato di preparare al meglio le difese; un primo assalto portato il 13 giugno con l’ausilio di una sola scala fallí miseramente e intorno alla città gli assedianti, già provati, presero a soffrire la fame e la sete.


I crociati assaltano Gerusalemme nel 1099, miniatura dal Roman de Godefroi de Bouillon et de Saladin. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Predicatori e visionari cercavano di risollevare gli animi. L’8 luglio fu organizzata una grande processione intorno alle mura che avrebbe dovuto indurne il crollo, sul modello della Gerico biblica. I bastioni non crollarono, ma la processione sembrò di rinforzare la fede nella vittoria. Piú concretamente, il 17 giugno, lungo la costa erano attraccate sei galee, quattro delle quali genovesi, che fornirono il legno e le cognizioni tecniche con cui costruire le macchine necessarie a prendere la città. Altro legno fu raccolto in Samaria. Nel frattempo, però, l’esercito e la flotta fatimidi provenienti dall’Egitto si erano mossi in direzione di Gerusalemme. Probabilmente i capi crociati si decisero allora a coordinare meglio i propri sforzi: sospesero gli attacchi velleitari, concentrandosi sulla costruzione delle macchine d’assedio. Oltre alle torri, furono allestiti ordigni per il lancio di pietre in grado di far breccia nelle mura: i trabucchi.

A ciascuno il suo eroe

L’attacco ebbe inizio nella notte del 14 luglio, quando le torri vennero spinte contro le mura. La mattina del 15 la torre di Goffredo di Buglione era avanzata fino al tratto vicino alla porta dell’angolo nord-est. Nello stesso giorno gli assedianti cominciarono ad avere la meglio delle difese e a entrare in città: le diverse tradizioni locali e cittadine spesso reclamano per qualcuno dei loro il merito di aver raggiunto la cima delle mura per primo. Secondo l’anonimo autore dei Gesta Francorum, testimone diretto dell’assedio, il primato andrebbe attribuito a due cavalieri fiamminghi; per gli Annali dell’uomo politico e cronista genovese Caffaro (1080 o 1081-1166), anch’egli testimone dell’assalto, il primo sarebbe stato invece il suo eroe Guglielmo «Testadimaglio» Embriaco. Tutte le fonti, occidentali quanto arabe, concordano sul fatto che la furia degli assedianti diede luogo a un orribile massacro, sul quale sussistono pochi dubbi nonostante entrambe le parti, per motivi opposti, tendano a esagerare il numero effettivo dei morti, che dovettero comunque ammontare a diverse migliaia. Cosí, per esempio, si esprime il cronista francese Raimondo d’Aguilhe: «Tra i primi entrarono Tancredi e il duca di Lorena, che in quel giorno versò una quantità incredibile di sangue. Dietro di loro tutti gli altri salivano le mura, e i saraceni erano ormai sopraffatti. Ma, udite meraviglia!, per quanto la città fosse a quel punto quasi tutta nelle mani dei Franchi, tuttavia coloro che stavano dalla parte [dove si era schierato] il conte [di Tolosa] continuavano a resistere.

Appena però i nostri ebbero occupato le mura e le torri della città, allora avresti potuto vedere cose orribili: alcuni, ed era per loro una fortuna, avevano la testa troncata; altri cadevano dalle mura crivellati di frecce; moltissimi altri infine bruciavano tra le fiamme». «Per le strade e le piazze si vedevano mucchi di teste; mani e piedi tagliati; uomini e cavalli correvano tra i cadaveri. Ma abbiamo ancora detto poco: veniamo al Tempio di Salomone, nel quale i Saraceni erano soliti celebrare le loro solennità religiose. Che cosa vi era avvenuto? Se diciamo il vero, non saremo creduti: basti dire che nel Tempio e nel portico di Salomone si cavalcava col sangue all’altezza delle ginocchia e del morso dei cavalli. E fu per giusto giudizio divino che a ricevere il loro sangue fosse proprio quel luogo stesso che tanto a lungo aveva sopportato le loro bestemmie contro Dio. Essendo la città piena di cadaveri e di sangue, molti fuggirono alla torre di David e chiesero sicurtà al conte Raimondo al quale consegnarono la fortezza». «Ma, presa la città, valeva davvero la pena di vedere la devozione dei pellegrini dinanzi al Sepolcro del Signore, e in che modo gioivano esultando e cantando a Dio un cantico nuovo. E il loro cuore offriva a Dio vincitore e trionfante lodi inesprimibili a parole. Il giorno straordinario, la nuova e perpetua letizia, lo sforzo fatto nella fatica e nella devozione esigevano nuove parole e nuovi canti. Questo giorno celebre nei secoli a venire cambiò, lo affermo, ogni nostro dolore e sofferenza in gioia e in esaltazione; questo giorno, lo affermo, segnò la fine dei pagani, il rafforzamento della cristianità, il rinnovamento della cristianità, il rinnovamento della fede nostra. (...) In questo giorno il signor Ademaro, vescovo di Le Puy (che nel frattempo era morto), fu visto in città: e molti giurarono di averlo visto salire per primo sulle mura e incitare i compagni e il popolo tutto. (...) Cantammo in quell’occasione l’ufficio della Resurrezione, perché appunto in quel giorno Colui che per Sua virtú resuscitò dai morti aveva per Sua grazia resuscitato anche noi».

Quaranta giorni d’assedio

Queste invece le parole dello storico arabo Ibn Al-Ath: «Contro Gerusalemme mossero dunque i Franchi dopo il loro vano assedio di Acri, e giunti che furono la cinsero d’assedio per oltre quaranta giorni. Montarono contro di essa due torri, l’una delle quali dalla parte di Sion, e i musulmani la bruciarono uccidendo tutti quelli che erano dentro; ma l’avevano appena finita di bruciare che arrivò un messo in cerca d’aiuto, medioevo in guerra

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in nome di dio

Assedio di Gerusalemme

con la notizia che la città era stata presa dall’altra parte: la presero infatti dalla parte di settentrione, il mattino del Venerdí ventidue sha’bàn 492 (15 luglio 1099). La popolazione fu passata a fil di spada e i Franchi stettero per una settimana nella terra facendo strage dei musulmani. Uno stuolo di questi si chiuse a difesa nell’Oratorio di Davide, dove si asserragliarono e combatterono per piú giorni; i Franchi concessero loro la vita salva, ed essi si arresero, e avendo i Franchi tenuto fede ai patti, uscirono di notte verso Ascalona, e lí si stanziarono».

Un discorso commovente

«Nel Masgid al-Aqsa [moschea che sorge, al pari della piú famosa di Omar, o Della Roccia, nella spianata ove un tempo era ubicato il Tempio di Salomone, n.d.r.] invece i Franchi ammazzarono piú di settantamila persone [cifra palesemente esagerata, n.d.r.], tra cui una gran folla di imàm e dottori musulmani, devoti e asceti, di quelli che avevano lasciato il loro paese per venire a vivere in pio ritiro in quel Luogo Santo. Dalla Roccia predarono piú di quaranta candelabri d’argento, ognuno del peso di tremilaseicento dramme, e un lampadario d’argento e piú di venti d’oro, con altre innumerevoli prede. I profughi di Siria arrivarono a Baghdad nel mese di Ramadan, col cadi Abu Sa’d al-Hàrawi, e tennero nella cancelleria califfale un discorso che fece piangere gli occhi e addolorò i cuori. Il venerdí vennero nella Moschea cattedrale, e chiesero aiuto, piansero e fecero piangere, narrando quel che i musulmani avevano sofferto in quella Città santa: uomini uccisi, donne e bambini prigionieri, averi predati. Per i gravi disagi sofferti, arrivarono a rompere il digiuno». Alcuni dei capi provarono a fermare il massacro. Per esempio Tancredi, che aveva reclamato per sé il quartiere della Spianata del Tempio, dove alcuni musulmani si erano rifugiati. Aveva promesso loro salva la vita, ma niente poté contro la furia dei piú scalmanati, che ne fecero strage. Stessa sorte toccò agli Ebrei; il cronista Ibn al-Qalanisi racconta che molti fra loro avevano cercato rifugio nella sinagoga alla quale i Franchi dettero fuoco acclamando il Signore. Il governatore fatimide Iftikhar al-Dawla si ritirò invece nella Torre di Davide, che consegnò a Raimondo in cambio di un salvacondotto per sé e le sue guardie. Pareri opposti si hanno a proposito della sorte dei cristiani orientali, alcuni dei quali erano stati allontanati dalla città per ordine di Iftikhar al-Dawla, il che probabilmente finí per salvarli dagli occidentali che faticavano a distinguerli da musulmani ed ebrei, e agli occhi dei quali erano comunque da considerarsi eretici. 44

medioevo in guerra

Battaglia di Hattin di Francesco Colotta

A

Montgisard, nel novembre del 1177, Saladino e il suo grande esercito non avevano subito solo una sconfitta, ma una vera e propria onta. Forti di una soverchiante superiorità numerica, erano stati sopraffatti da un manipolo di crociati guidati dal giovane e cagionevole Baldovino IV, sovrano di Gerusalemme. L’armata islamica non aveva saputo reagire all’incursione improvvisa e, ignorando l’effettiva consistenza delle truppe nemiche, si era precipitosamente ritirata. Si trattò di «un colpo terribile» per il prestigio dell’invincibile Saladino, come ha sottolineato lo storico Steven Runciman, ma la disfatta non alterò gli equilibri politico-militari in gioco: gli Ayyubidi disponevano ancora di un colossale esercito, mentre il regno cristiano di Gerusalemme risultava sempre fragile. Per questo Baldovino, dopo l’inaspettato trionfo, si era limitato a rafforzare le difese del suo Stato, ignorando i propositi espansionistici del partito «interventista» – in particolare dell’ex principe di Antiochia, Reginaldo di Châtillon – che spingeva invece per un’invasione dei territori sotto il controllo islamico. Quest’ultimo tentò comunque di riaccendere le ostilità attraverso una serie di provocazioni: dopo la tregua sottoscritta da Saladino e Baldovino, Reginaldo attaccò con i suoi uomini un gruppo di mercanti musulmani nel deserto siriano e, in seguito, puntò addirittura sulla Mecca. Saladino attuò allora un’immediata ritorsione, sequestrando un migliaio di pellegrini cristiani nella città di Damietta, e in cambio della loro liberazione chiese al sovrano di Gerusalemme di punire Reginaldo, ma non ottenne la risposta che si attendeva. La ripresa degli scontri fu inevitabile e inizialmente – nel 1181 e nel 1182 – fu favorevole alle forze crociate che risposero in modo efficace alle sortite musulmane. La vera resa dei conti, però, giunse qualche anno piú tardi, dopo l’ascesa al trono di Gerusalemme di Guido di Lusignano, uno degli uomini piú vicini al bellicoso Reginaldo. All’interno del regno cristiano, pertanto, nonostante i tentativi diplomatici del conte Raimondo III, prevalse la linea della guerra totale a Saladino. Un esercito crociato forte di circa 18 000 uomini puntò verso la cristiana Tiberiade, dove le forze islamiche si erano radunate per assediarne la fortezza. Tuttavia Saladino, che preferiva il confronto in campo aperto, non attese l’arrivo dei rinforzi nemici e li raggiunse dopo una rapida marcia. Era il 4 luglio del 1187. Le truppe di Guido, stanche e prive di scorte d’acqua, deviarono il loro cammino verso Hattin, dove si trovava una sorgente. Nel frattempo l’esercito ayyubide – composto da 25 000 effettivi – aveva già cominciato a insidiare i crociati e si preparava a chiuderli in una morsa.


Quando i soldati cristiani si resero conto di essere finiti in trappola, cercarono di rompere le linee nemiche, ma non riuscirono nel disperato tentativo. Tutti, ormai, fanti e cavalieri, batterono in ritirata verso i Corni di Hattin e, dopo una strenua resistenza, vennero annientati. Gli islamici catturarono Guido di Lusignano, Reginaldo di Châtillon e gli altri capi militari, impossessandosi anche di un significativo bottino di guerra: la reliquia della Vera Croce della Passione di Cristo, che strapparono dalle mani del cadavere del vescovo di Acri. Saladino poté, poi, consumare la sua vendetta: uccise l’odiato Reginaldo con

le proprie mani e lo decapitò, mentre Guido di Lusignano fu rinchiuso nel carcere di Damasco. Qualche tempo dopo la battaglia di Hattin, nel mese di ottobre, Gerusalemme tornò sotto il controllo islamico, cosí come un’ampia parte della Palestina.

Disegno ricostruttivo di un momento della battaglia combattuta il 4 luglio 1187, a Hattin, tra le truppe al comando di Saladino e quelle cristiane guidate dal re di Gerusalemme, Guido di Lusignano, che uscí sconfitto dallo scontro.

medioevo in guerra

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Guerre per la patria

Orgoglio nazionale e aneliti indipendentisti sono stati in piú d’una occasione il casus belli di conflitti lunghi e cruenti. Simili sentimenti, infatti, mal si accordavano con l’assolutismo delle grandi monarchie europee e, come nel caso dello scontro tra Inghilterra e Scozia, furono difesi con le armi e senza esclusione di colpi

Battaglie

BATTAGLIA DI FRÉTEVAL (1194) Preludio delle guerre tra regni di Francia e d’Inghilterra. L’esercito di Riccardo Cuor di Leone sconfigge le truppe di Filippo Augusto.

BATTAGLIA DI BANNOCKBURN (1314) Robert Bruce guida gli Scozzesi alla vittoria con un contingente numericamente limitato. È il primo passo per la conquista dell’indipendenza.

BATTAGLIA DI BOUVINES (1214) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 48-58.

BATTAGLIA DI OLD BYLAND (1322) Nuova affermazione scozzese contro gli Inglesi.

BATTAGLIA DI DUNBAR (1296) Prima guerra d’indipendenza scozzese contro il regno di Inghilterra. I rivoltosi, guidati da John Balliol, vengono sconfitti a 30 miglia da Edimburgo.

BATTAGLIA DI DUPPLIN MOOR (1332) Gli Inglesi rovesciano le sorti delle guerre d’indipendenza scozzesi e cominciano a riprendere il controllo del nord dell’isola britannica.

BATTAGLIA DI STIRLING BRIDGE (1297) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 58-59.

BATTAGLIA DI HALIDON HILL (1333) L’armata inglese, in inferiorità numerica, sconfigge ancora una volta gli Scozzesi.

BATTAGLIA DI FALKIRK (1298) I ribelli scozzesi, dopo il trionfo di Stirling Bridge, subiscono una terribile disfatta. Il loro condottiero, William Wallace, riesce a fuggire.

BATTAGLIA DI DURHAM (1346) Gli Scozzesi, favoriti in quanto a forze sul campo, si arrendono agli Inglesi nei pressi di Durham.

Miniatura raffigurante la battaglia combattuta da Inglesi e Scozzesi, nel 1341, presso il castello di Wark, in Scozia, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1470-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In secondo piano, si riconosce Catherine Montacute, duchessa di Salisbury, che esce dal maniero: vuole una tradizione che il re inglese Edoardo III fosse follemente innamorato della nobildonna, e, dopo aver concluso vittoriosamente lo scontro, l’avrebbe convinta a diventare sua amante.


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guerre per la patria

Battaglia di Bouvines

27 luglio 1214

che dio salvi la francia!

di Federico Marazzi

I

n ogni villaggio francese si trova sempre un monumento dedicato ai soldati del luogo caduti nel corso degli ultimi conflitti mondiali. A Bouvines però, a due passi da Lille, nell’estremo Nord del Paese, sulla massiccia stele che ricorda i morti del primo conflitto mondiale, sopra alla scritta «Dieu protège la France», accanto alla data del 1914, anno d’inizio della Grande Guerra, ne appare un’altra che ricorda tempi e memorie lontane: 1214. Settecento anni prima dello scoppio delle ostilità che insanguinarono il Nord-Est francese, presso quel piccolo villaggio, si era combattuta una battaglia che aveva rappresentato, sicuramente in miniatura rispetto alle stragi del 1914-18, la prima prova di «guerra mondiale» combattuta in Europa, nella quale il regno di Francia aveva giocato una partita di vita o di morte. In quei terreni, allora paludosi e boscosi, si erano affrontati per la prima volta in battaglia campale e come due potenze apertamente ostili, l’esercito dell’imperatore tedesco Ottone IV di Brunswick e quello del re francese Filippo II Augusto. Il monarca tedesco era spalleggiato e finanziato dal re d’Inghilterra, Giovanni Senza Terra, e schierava sul campo l’infante Ferdinando di Portogallo, che signoreggiava su quelle terre con il titolo di conte delle Fiandre. Se paragonati alle masse in armi mandate a morire nelle trincee della Grande Guerra, poca cosa, in 48

medioevo in guerra

termini numerici, furono gli eserciti in campo: forse poco meno di 50 000 uomini, fra cavalieri e (soprattutto) fanti, si dettero battaglia in quel luogo nell’ultima domenica di luglio (era esattamente il giorno 27) e tra loro un paio di migliaia persero la vita sul terreno. Ma, in proporzione alla popolazione dell’Europa medievale e a com’erano organizzati allora gli eserciti, si trattò di uno scontro epico e grandioso.

Un monumento come monito

A dire il vero nel villaggio di Bouvines vi è anche un secondo cippo che ricorda la battaglia, eretto al tempo in cui la Francia era governata da Luigi Napoleone Bonaparte, proclamatosi imperatore dei Francesi con il nome di Napoleone III. Nella sfida tra le potenze europee accesasi nel corso dell’Ottocento, che portò ai conflitti del secolo successivo, ricordare Bouvines significava lanciare un monito agli irrequieti e irritanti vicini tedeschi, i quali peraltro, qualche anno dopo, nel 1870, inflissero al Bonaparte e ai suoi eserciti la bruciante sconfitta di Sedan, costringendolo ad abdicare e mettendo fine al rinato impero francese. Ma nel 1214 le cose erano andate diversamente. Filippo Augusto aveva trionfato e Ottone IV aveva dovuto battere in ritirata, fuggendo dal campo di battaglia e perdendo, insieme alla battaglia, anche il trono imperiale, spianando

Miniatura raffigurante la battaglia di Bouvines, da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France illustrata dal miniatore Robinet Testard. 1471 circa. Parigi, Bibliothéque nationale de France.


cosí la strada al giovane Federico II di Svevia, il cui regno segnò l’Europa del XIII secolo. Ma perché i due maggiori monarchi cristiani e cattolici dell’Occidente erano giunti all’inaudita decisione di incrociare le armi l’uno contro l’altro su un campo di battaglia? In Europa, nel pieno Medioevo la guerra era una cosa frequente, quasi abituale. Ma non si deve credere che gli scontri avvenissero come esplosioni di furia cieca e scriteriata. Un conto erano le scaramucce fra signori locali, un conto le spedizioni condotte dai re contro feudatari ribelli, un altro conto ancora erano le guerre mosse nei confronti di nemici esterni, come potevano essere allora quelle portate in Oriente, in Spagna o nelle lande dell’Europa orientale contro popoli considerati come nemici della vera fede. Tuttavia, nel grande gioco della politica conti-

nentale, la diplomazia e le trattative – spesso condotte attraverso alleanze matrimoniali – costituivano una modalità tutt’altro che sconosciuta per la regolazione preventiva di potenziali conflitti di portata piú ampia e, in genere, nel corso di quei secoli l’Europa non conobbe mai nulla di simile alle guerre totali che l’hanno insanguinata dall’età moderna in poi.

Segnali premonitori

Ma negli anni precedenti a quel fatale 1214 molti fili erano andati annodandosi sullo scacchiere dell’Occidente europeo, molte ambizioni si erano accese e le tensioni si erano pericolosamente inasprite. Lo scontro di Bouvines non nacque dal nulla e fu l’esito di un lungo periodo in cui le maggiori potenze erano andate progressivamente e pericolosamente avvicinando medioevo in guerra

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guerre per la patria

Battaglia di Bouvines

In alto particolare della lastra tombale in rame smaltato di Goffredo d’Angiò. 1151-1155 circa. Le Mans, Musée de Tesse. A sinistra abbazia di Fontevraud. La tomba di Enrico II Plantageneto (1133-1189), figlio di Goffredo d’Angiò e Matilde d’Inghilterra.

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medioevo in guerra

le loro sfere d’influenza sino a raggiungere, quasi inevitabilmente, il punto di collisione. Già dai regni dei predecessori di Filippo II, il nonno Luigi VI (1108-1137) e, soprattutto, il padre Luigi VII, che regnò dal 1137 al 1180, la monarchia francese aveva avviato il consolidamento della propria supremazia nelle aree geografiche piú prossime a Parigi, divenuta la residenza abituale dei sovrani.

Cronache poco attendibili

Le cronache francesi degl’inizi del XII secolo sono ricche di aneddoti sul coraggio con cui Luigi VI, uomo gioviale e incline ai piaceri della tavola (e per questo soprannominato «il Grosso»), aveva affrontato e piegato alcuni dei nobili piú riottosi di fronte alla sua autorità, che spadroneggiavano nei territori sottoposti alla loro signoria e che sono spesso ritratti come individui spregevoli e violenti. In realtà, questi racconti, partoriti dalla penna di autori in gene-


In basso miniatura raffigurante Matilde, figlia di Enrico I d’Inghilterra, che andò in sposa a Goffredo d’Angiò, da un’edizione della St. Albans Chronicle. XIV sec. Londra, British Library.

re schierati dalla parte del re, non vanno sempre presi per oro colato. Da oltre un secolo la dinastia a cui apparteneva Luigi era subentrata alla progenie di Carlo Magno sul regno dei Franchi Occidentali, formatosi a sua volta in seguito alla divisione dell’impero carolingio con il trattato di Verdun dell’843. In quell’anno, infatti, i tre nipoti di Carlo Magno, Ludovico il Germanico, Lotario e Carlo il Calvo, dopo alcuni anni di guerre, avevano raggiunto un accordo sulla base del quale l’eredità dell’impero fondato dall’illustre antenato veniva spartita in tre parti: una a oriente, che comprendeva grosso modo i territori dell’odierna Germania; una centrale, detta Lotaringia (dal nome del sovrano a cui era stata attribuita) costituita da una lunga fascia che, partendo dalle coste belghe e olandesi del Mare del Nord, giungeva sino all’Italia attraverso una striscia che includeva, partendo da nord, l’attuale Benelux, l’Alsazia e la Lorena, la Svizzera, la Savoia, la Borgogna sud-orientale e la Provenza; la terza, quella occidentale, comprendeva tutto il resto del territorio francese.

La rilevanza delle conseguenze di lunghissima durata dell’accordo di Verdun sulla storia europea è palese: oltre a formare gli embrioni di quelli che poi divennero i territori «dei Francesi» e «dei Tedeschi», l’intesa ha creato – con la delineazione del corridoio centrale assegnato a Lotario insieme al titolo imperiale – le premesse per la formazione di nazioni come il Belgio, il Lussemburgo e la Svizzera, che, ancora oggi, sfuggono alla categoria degli «Stati nazionali» costituiti da agglomerazioni omogenee, soprattutto dal punto di vista linguistico. E la dissoluzione della Lotaringia come entità politica autonoma (di cui il nome dell’attuale Lorena porta il ricordo), ne ha trasformato i territori in un’area di inevitabile contatto e frizione tra Francesi e Tedeschi, dalla quale – almeno dal tempo di Luigi XIV in poi – sono scaturiti i conflitti europei di maggiore rilevanza, sino alle due ultime Guerre Mondiali. Né è un caso che, nel secondo dopoguerra, il processo di formazione dell’Unione Europea abbia attribuito proprio a tre città dislocate in questi territori – Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo – il ruolo di ospiti delle sue istituzioni piú rappresentative, come segno del superamento delle secolari ostilità tra le potenze francesi e tedesche che in quei territori si erano a lungo confrontate.

Una terra divisa

In realtà, nei due regni si formatisi a oriente e a occidente della Lotaringia, dopo la divisione stabilita a Verdun nell’843, non si era automaticamente prodotta una solida e definita struttura politica nazionale in virtú della relativa omogeneità linguistica presente in ciascuno di essi. La storia della Germania (ove l’autorità imperiale rinacque nella seconda metà del X secolo sotto l’egida dei duchi di Sassonia e dove vi rimase a lungo, passando di mano in mano tra le maggiori famiglie aristocratiche), fu quella di una terra divisa fra Stati regionali e signorie locali, la cui suddivisione può essere in parte letta ancora oggi nella struttura federale dell’attuale Repubblica tedesca. Nel regno dei Franchi Occidentali, embrione del regno di Francia, il potere effettivo dei monarchi si era progressivamente eroso, sino a divenire poco piú che un’autorità simbolica all’interno di gran parte dei territori su cui essi avevano teoricamente giurisdizione. Nel 987, quando il conte di Parigi Ugo Capeto, progenitore del re Filippo che combatté a Bouvines, fu incoronato re dei Franchi, la sua effettiva sfera d’influenza si estendeva solo sulle terre direttamente appartenenti alla sua famimedioevo in guerra

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guerre per la patria

Battaglia di Bouvines le fasi della battaglia

Fiume Marque Lille

l’inizio dello scontro

Palude di Willems

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Bouvines

Tutte P Base 8 Fare come altri schemi

Tournai

Primo contatto tra gli schieramenti, avvenuto verso il mezzogiorno del 27 luglio 1214.

Ritirata delle truppe di Melun

Palude di Louvil

Fiume Marque

la risposta francese

Palude di Willems

La prima reazione dei Francesi: Filippo Augusto affida una parte dell’esercito a Guérin, vescovo di Senlis, coadiuvato dal duca di Borgogna.

Bouvines

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Palude di Louvil

le truppe prendono posizione

Palude di Willems

I due eserciti completano i propri schieramenti.

Fiume Marque

Bouvines

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G Palude di Louvil

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medioevo in guerra

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Palude di Willems

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Fiume Marque

Bouvines

glia, concentrate tra l’Île-de-France, la Piccardia, la regione di Orléans e la Champagne occidentale. Ugo era parente diretto per parte di madre dell’imperatore Ottone I (che era suo zio), mentre la sua linea familiare paterna era imparentata con quella degli ultimi esponenti della dinastia carolingia. E proprio l’intreccio delle sue illustri parentele, ma anche l’effettiva debolezza del suo potere, avevano indotto a sceglierlo come candidato al trono francese, poiché egli appariva pienamente legittimato ad assumere la dignità regia, ma, al contempo, non sembrava in grado di creare problemi di concorrenza nei confronti dell’impero tedesco, il cui trono era allora occupato da un imperatore – Ottone III – ancora fanciullo.

O

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G Palude di Louvil

Il re come arbitro

l’esito sembra incerto

accende lo scontro: le truppe di Guérin sfondano il fronte Si avversario e attaccano i nemici alle spalle; negli altri settori prevalgono invece le truppe imperiali, Filippo è disarcionato e circondato dai nemici, ma viene salvato dalla sua guardia.

Palude di Willems

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Fiume Marque

Bouvines

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G Palude di Louvil

l’attacco decisivo

I Francesi si riorganizzano e attaccano le truppe nemiche, che hanno perduto coesione: Ottone IV viene a sua volta disarcionato e deve darsi alla fuga; Ferdinando si arrende e cade prigioniero; resiste invece Rinaldo, duca di Boulogne, coadiuvato dal conte Gugliemo di Salisbury, ma FRANCESI ALLEATI infine vengono entrambi fatti prigionieri: la vittoria Fanteria Fanteria francese è definitiva. Cavalleria

Cavalleria

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Filippo Augusto

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Ottone IV di Brunswick

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Duca di Borgogna

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Duca di Boulogne

Guérin

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Conte di Fiandra

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Tuttavia, al tempo del trisnipote Luigi VI, le cose erano cambiate. Ugo era riuscito a ottenere il passaggio della carica regia all’interno della propria discendenza familiare e la sua dinastia aveva mantenuto la posizione per tutto l’XI secolo, senza dover affrontare sfide troppo rischiose. I re stavano gradualmente riacquistando autorevolezza, almeno nelle aree centro-settentrionali del territorio francese. Si percepiva una certa maggior predisposizione, soprattutto tra il clero, ma anche nelle comunità urbane e di villaggio e perfino in una parte della stessa aristocrazia, ad accettare (e anzi a sollecitare) un ruolo piú attivo e protagonista del monarca come autorità regolatrice dei conflitti che si accendevano continuamente fra gli esponenti della nobiltà e degli abusi che spesso venivano commessi da questi ultimi nell’esercizio delle loro potestà signorili. Una parte della storiografia ritiene che la crescita del prestigio e dell’autorità regia siano state anche favorite dal progressivo rafforzarsi delle borghesie urbane dedite alla produzione e al commercio, che consideravano positivamente la presenza di un potere in grado di pacificare il territorio, permettendo una piú agevole circolazione di cose e persone e un piú tranquillo svolgersi di fiere e mercati. Ma l’influsso del sovrano, sebbene progressivamente accresciuto, non poteva ancora estendersi troppo oltre le regioni della Francia centro-settentrionale che costituivano il cuore dei suoi personali domini. I grandi Stati feudali dell’Ovest e del Sud della Francia, come la contea d’Angiò e quella di Tolosa, erano sostanzialmente refrattari ad accoglierne e rispettarne l’autorità, al di là di un riconoscimento formale. Inoltre, a nord, iniziava a evidenziarsi la minaccia rappresentata dalle mamedioevo in guerra

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guerre per la patria

Battaglia di Bouvines

novre del re d’Inghilterra, il quale, in quanto discendente del duca di Normandia Guglielmo il Conquistatore, manteneva saldo il dominio su quello strategico lembo di terra francese, controllando ambedue le coste della Manica, cosa che gli permetteva di influire fortemente anche sulla zona delle Fiandre. Ma l’episodio che davvero pose le premesse per lo scontro finale di Bouvines avvenne fra il 1127 e il 1128. In quell’anno, il re d’Inghilterra Enrico I riuscí a combinare il matrimonio tra sua figlia Matilde e il conte Goffredo d’Angiò. Il figlio che ne nacque, battezzato anch’egli Enrico, sarebbe diventato al contempo re d’Inghilterra e conte d’Angiò, oltre che duca di Normandia. Questi ultimi due titoli lo avrebbero posto, sul piano formale, nella posizione di feudatario del re di Francia. Ma di fatto, vestendo la corona d’Inghilterra, egli difficilmente si sarebbe inchinato all’autorità di Luigi e dei suoi successori, trasformandosi piuttosto nel piú pericoloso e potente dei concorrenti al potere di quest’ultimo sul suolo francese. Ecco, quindi, che iniziavano a maturare i presupposti per un’ostilità che andava ben oltre i confini delle guerre con le signorie aristocratiche locali a cui il re di Francia aveva in genere saputo tenere testa con successo. La prospettiva sarebbe stata, un giorno o l’altro, quella di uno scontro totale e frontale con un re suo pari, che minacciava direttamente le possibilità di esercizio dei suoi poteri in buona parte del regno.

Sposi adolescenti

Le cose per i reali di Francia si aggravarono una trentina di anni piú tardi, e ancora una volta, per comprenderne le cause, dobbiamo «chercher la femme». Luigi VII, succeduto quindicenne al padre nel 1137, si era poco dopo sposato con Eleonora, duchessa di Aquitania, che quindi portò in dote alla famiglia del re e al suo personale patrimonio un «pezzo pregiato» del mosaico di signorie feudali del regno. Gli sposi avevano ambedue quindici anni e, all’inizio, fra i due fu apparentemente amore vero, senza però che alla coppia giungesse la benedizione di un erede. Solo nel 1145 la regina rimase incinta, ma partorí una femmina. Nel 1147 la regina decise di accompagnare Luigi in Terra Santa, ma, durante il viaggio, iniziarono i dissapori conditi, secondo i maligni, da ripetuti tradimenti di lei. Al ritorno dei due anni trascorsi in Oriente, peraltro poco fruttuosi per il re dal punto di vista militare, Luigi ed Eleonora erano in rotta, anche se ciò non impedí che la regina rimanesse incinta una seconda volta, dando alla luce un’altra erede femmina. Poco 54

medioevo in guerra

Miniatura raffigurante Filippo Augusto e Ottone IV durante la battaglia di Bouvines, da un’edizione de Les Grandes Chroniques de France. 1375-1380 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.


dopo le cose si deteriorarono ulteriormente e si giunse a una separazione consensuale, a cui seguí, nel 1152, un nuovo matrimonio di Eleonora. La scelta però cadde proprio su quell’Enrico, nipote del re d’Inghilterra, conte d’Angiò e duca di Normandia, che cosí si trovava a ereditare anche l’Aquitania. A questo punto metà del territorio francese cadeva di fatto in mani inglesi. Ciò non impedí che Luigi VII, poi a sua volta risposatosi, riuscisse a proseguire l’opera del padre, rafforzando il regno ed estendendo il proprio controllo sui suoi territori. Tutto sommato, anche i rapporti con Enrico (nel frattempo divenuto re d’Inghilterra con il nome di Enrico II) riuscirono a mantenersi sufficientemente distesi, ma i problemi erano destinati a riproporsi.

Le manovre di Giovanni

Filippo II era succeduto al padre nel 1180. Nel 1189 era morto Enrico II. Gli erano subentrati prima suo figlio Riccardo, detto il Cuor di Leone, eroe della terza crociata, e poi il fratello di quest’ultimo, Giovanni, detto il Senza Terra. Il soprannome non gli giunse a caso, ma derivò dal fatto che, mentre il fratello era in Terra Santa, egli aveva cercato di farlo passare per morto, usurpando il potere regio e per questo Riccardo lo aveva deposto e bandito dal regno. Quando nel 1199 questi morí, Giovanni riuscí comunque a ottenere la corona. Il suo potere, non sempre stabile e incontestato anche in Inghilterra, trovava enormi difficoltà ad affermarsi soprattutto sui territori francesi, dato che gli erano ostili sia sua madre, l’ormai anziana Eleonora – che era rientrata in Aquitania –, sia il nipote Arturo di Bretagna, al quale Riccardo Cuor di Leone avrebbe voluto affidare il regno, che gli contestava il controllo della Normandia e dell’Angiò. Filippo II non mancò di approfittare di questa situazione, con l’obiettivo di indebolire il controllo inglese sui feudi francesi e cercando di staccarli definitivamente dall’obbedienza del re d’Inghilterra. Nel frattempo, Giovanni era entrato in rotta con il papato per aver voluto imporre un proprio candidato come arcivescovo di Canterbury e questo lo portò a rinnovare il proprio appoggio a Ottone IV di Brunswick – che era anche suo nipote –, affinché prevalesse definitivamente sugli Hohenstaufen nella lotta per il trono imperiale. In ciò era avversato proprio dal pontefice Innocenzo III, il quale poteva a sua volta contare, manco a dirlo, sul sostegno di Filippo II. Ottone ricambiò Giovanni, fornendogli il suo appoggio per contrastare la volontà del re di Francia di riprendere il controllo del ducato di medioevo in guerra

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guerre per la patria Fiandra, e mise cosí in marcia il proprio esercito verso le terre al confine fra le odierne Francia e Belgio. Giovanni non partecipò direttamente alla spedizione, ma le diede la sua benedizione e sborsò molto denaro per armare gli eserciti di Ottone e dei suoi alleati fiamminghi.

Nel giorno del Signore

Il passaggio del ponte che scavalcava il piccolo corso d’acqua della Marque, presso il villaggio di Bouvines, costituiva il percorso obbligato che le truppe imperiali avrebbero dovuto seguire per penetrare nei territori francesi. E fu lí che si diresse allora anche Filippo II, per sbarrare la strada al nemico. Gli eserciti giunsero in contatto il 27 di luglio. Era una domenica, il giorno del Signore, e per questo motivo non si sarebbe dovuto combattere. Ma, forse profittando del fattore sorpresa, sembra che verso la fine della mattinata Filippo abbia forzato la mano, determinando lo scoccare della scintilla che scatenò lo scontro. All’inizio il combattimento aveva

Battaglia di Bouvines preso una piega confusa e incerta. Lo stesso Filippo II, lanciatosi nella mischia, fu a un certo punto disarcionato da cavallo rischiando di morire. Ma le cose si risolsero grazie alla migliore organizzazione della cavalleria pesante francese, che riuscí ad avere ragione sia di quella avversaria, sia delle numerose truppe appiedate che l’accompagnavano, costringendo l’imperatore – caduto a sua volta da cavallo – a fuggire dal campo scortato da un gruppo di cavalieri sassoni. L’ultimo nucleo di resistenza delle truppe imperiali, comandato dal conte di Boulogne, era costituito da un reparto di fanteria fiamminga armata di picche che riuscí a lungo a tenere testa ai cavalieri francesi, cedendo solo quando ormai cadeva la sera. La vittoria conquistata da Filippo sul campo ebbe conseguenze enormi sullo scacchiere politico europeo. Il re francese ridimensionò enormemente la presenza inglese sul suo territorio e, soprattutto, accrebbe notevolmente la sua personale autorevolezza

A sinistra capolettera miniato raffigurante la cacciata dell’imperatore Ottone IV di Brunswick, deposto da papa Innocenzo III, da un’edizione dello Speculum Historiale di Vincent de Beauvais. XIV sec. Madrid, Biblioteca del Monastero dell’Escorial.

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Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.

politica di fronte al resto della nobiltà. Erano stati questi davvero i primi decisivi passi verso la creazione dello Stato francese.

Le conseguenze della battaglia

Al contrario, Giovanni Senza Terra, oltre ad aver perso buona parte dei propri feudi francesi riconquistati da Filippo, vide pesantemente messa in discussione la sua autorità da parte degli aristocratici inglesi. Essi lo obbligarono, poco dopo, a firmare la Magna Charta Libertatum, con cui imponevano al re l’obbligo di consultarsi con l’assemblea dei nobili e degli ecclesiastici del regno prima di deliberare su materie come quelle fiscali, limitandone anche i poteri giudiziari e quelli d’intervento sulle materie ecclesiastiche. Gli Inglesi, tuttavia, non avevano perduto tutti i loro possessi francesi, e quanto loro

rimaneva (l’Aquitania e il Pas-de-Calais) costituí la base per lo scoppio delle nuove e lunghe ostilità che opposero i due regni fra il XIV e il XV secolo (la Guerra dei Cent’Anni). Ottone di Brunswick fu travolto dalla disfatta di Bouvines. L’anno successivo dovette abdicare e a raccogliere le insegne imperiali fu l’erede degli Hohenstaufen, Federico II, che senza la vittoria di Filippo II non avrebbe probabilmente mai raggiunto il trono. Infine il papa: Innocenzo III fu un altro dei vincitori «indiretti» di Bouvines. Anche se in seguito i rapporti con Federico II furono spesso tutt’altro che idilliaci, il suo carisma di «kingmaker» del nuovo imperatore ne uscí significativamente accresciuto e cosí lo fu anche il suo ruolo di sovrano universale della cristianità. Quali mutamenti alla storia d’Europa avrebbe

Una delle quattro copie originali della Magna Charta. 1215. Londra, British Library. L’atto fu emesso dal re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra il 19 giugno 1215 per confermare i diritti dei baroni, della Chiesa e di tutti gli «uomini liberi» nei suoi confronti. Il provvedimento concluse l’insanabile contrasto tra la monarchia e l’oligarchia baronale.

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guerre per la patria potuto apportare la «sliding door» di Bouvines, se il giro delle sue ante avesse lasciato Filippo II dalla parte sbagliata, è difficile dirlo. Sappiamo bene, però, cosa è accaduto veramente e, quindi, possiamo ancora guardare a quella giornata come a uno dei giri di boa delle vicende politiche del nostro Continente che ne hanno profondamente segnato i connotati. Oggi i cippi commemorativi della battaglia piantati nelle piazze del villaggio di Bouvines nel 1864 e nel 1918 rimangono testimoni un po’ muti e trascurati. Il grande storico Georges Duby (1919-1996), che alla battaglia di Bouvines ha dedicato uno dei suoi libri piú belli (La domenica di Bouvines, Einaudi, Torino), conclude la sua narrazione cercando di spiegare cosí perché, in tempi recenti, la memoria dell’evento si sia piuttosto sbiadita: «Dopo il 1945 Bouvines è completamente dimenticata. Oggi gli insegnanti non ne parlano piú. Viene loro raccomandato di saltare dalle crociate, dalle signorie, dai castelli, dalle cattedrali a san Luigi, il re buono, l’unico personaggio capetingio offerto al ricordo dei fanciulli. A che servirebbe il racconto di Bouvines ai fanciulli di un’Europa riunita, in nome di una storia che si è a lungo e giustamente battuta per sbarazzarsi dalle pastoie della cronaca?».

Guerre insidiose e distruttive

«Il nostro tempo scaccia le battaglie dalla storia, e con ragione. E come potrebbe ricordare che ci fu un’epoca in cui i capi di Stato si misuravano corpo a corpo, affidando la loro potenza alle mani di Dio? Ai nostri tempi non si vede piú il potere di affidarsi alla sorte delle armi, né cercare la propria legittimità in una vittoria. Avviene piuttosto il contrario: la fama, vera o falsa, di dubbio successo, serve di pretesto a capitani grandi o piccoli, per impossessarsi del potere con la forza. Quando l’hanno in mano, si prendono ben guardia di esporlo a qualche rischio. La guerra che essi fanno è tenebrosa, ignora il campo aperto, usa altri mezzi, piú insidiosi e piú efficaci, che hanno lo scopo di distruggere». Le parole di Duby non sono certo un’apologia indiretta in favore delle macellerie consumatesi sui campi di battaglia del Medioevo. Sono semmai la constatazione del fatto che, se nell’Europa di oggi, per fortuna, non c’è piú bisogno di cantare le lodi delle vittorie in armi di un popolo contro un altro, non per questo siamo autorizzati a pensare che sia davvero cessato il rischio che il potere possa ancora trasformarsi, sotto altre e piú opache spoglie, in una macchina in grado di attentare alla libertà e alla vita delle persone. 58

medioevo in guerra

Battaglia di Bouvines

Battaglia di Stirling Bridge di Francesco Colotta

In alto disegno in cui si immagina William Wallace alla guida dei suoi nella battaglia combattuta a Stirling Bridge nel 1297. A destra, sulle due pagine litografia ottocentesca in cui si immagina il crollo del ponte sul fiume Forth nel corso della battaglia.

S

coppiata sul finire del XIII secolo, la prima guerra d’indipendenza scozzese fu resa inevitabile da una serie di eventi succedutisi negli anni precedenti. Nel 1292, le mire egemoniche verso nord del re d’Inghilterra, Edoardo I, si erano fatte piú esplicite, in particolare con l’investitura a re di Scozia del fidato Giovanni Balliol, che Londra confidava di poter controllare politicamente senza difficoltà. Dopo un breve periodo di rassegnata sottomissione, Balliol, spinto soprattutto dal malcontento popolare, decise però di sganciarsi dall’influenza inglese, siglando un accordo con la Francia (la cosiddetta Auld Alliance). Sentendosi protetto da un alleato potente, il sovrano scozzese invase quindi la Cambria, ma subí l’immediata controffensiva vincente di Edoardo. Balliol fu costretto ad abdicare, ma la lotta per l’indipendenza venne continuata da uno dei suoi fedelissimi, il landowner (piccolo proprietario terriero) William Wallace. Da Londra Edoardo inviò in Scozia un’armata di 12 000 uomini, assegnandole il compito di stroncare ogni ribellione. Nel settembre del 1297, nei


pressi di Stirling, località distante una cinquantina di chilometri da Edimburgo, i soldati inglesi, guidati dal duca di Surrey Giovanni da Warenne e dal tesoriere Hugh de Cressingham, si trovarono di fronte un esercito di appena 2500 soldati, perlopiú non professionisti. Gli stessi Scozzesi nutrivano poche speranze nell’imminenza della battaglia e perciò studiarono a lungo una tattica che potesse colmare il pesante divario. Con indubbio fiuto strategico, Wallace si posizionò con i suoi uomini su una collina a ridosso del fiume Forth, oltre il quale erano invece schierate le milizie di Edoardo. Gli Inglesi lanciarono il primo attacco, ma, per sferrarlo, dovettero attraversare lo strettissimo ponte, poco adatto a un rapido assalto. Solo parte delle truppe riuscí a passare e non appena raggiunta l’altra sponda del fiume fu aggredita dai lancieri scozzesi. Gli uomini di Wallace

respinsero quindi l’avanguardia dell’esercito nemico e, conquistando il ponte, resero di fatto impossibile l’avanzata degli Inglesi. Tra i soldati che avevano oltrepassato il fiume molti furono uccisi e con loro il tesoriere Hugh de Cressingham, scuoiato ed esposto come trofeo di guerra. L’altro comandante inglese, Giovanni da Warenne, assistendo al massacro avvenuto al di là del Forth, preferí ritirarsi con i suoi numerosi effettivi, limitandosi a distruggere il ponte in modo da rendere sicuro il suo ritorno a casa. Alcune fonti sostengono che il duca di Surrey abbia in verità tentato di attraversare il ponte con le sue truppe, ma la struttura cedette e molti suoi soldati morirono affogati nel fiume. Gli Scozzesi, alla fine, poterono festeggiare l’inattesa vittoria, che permetteva loro di controllare la regione delle Lowlands e che avevano ottenuto praticamente senza spargimento di sangue, mentre le perdite inglesi ammontavano a oltre 5000 armati. L’impresa di Wallace fu celebrata in tutta la Scozia, ma non rimase impunita: un anno piú tardi, a Falkirk, Edoardo consumò infatti la sua vendetta.

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Battaglia di Sempach di Francesco Colotta

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medioevo in guerra


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A destra la Svizzera all’epoca della battaglia di Sempach. Vi sono indicate anche le battaglie di Laupen (1339) e Näfels (1388): nella prima i cantoni sconfissero nuovamente gli Austriaci e, con la vittoria nella seconda, rafforzarono la loro indipendenza dagli Asburgo. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia di Sempach, dalla Berner Chronik del cronista Diebold Schilling il Vecchio. 1480 circa. Berna, Burgerbibliothek.

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ll’indomani dell’apertura, nel 1220, del passo di San Gottardo, alcuni borghi della Svizzera centrale assunsero una considerevole importanza strategica per la circolazione delle merci e degli eserciti. Lo comprese bene Federico II, il quale concesse a Zurigo, Berna, Friburgo, Sciaffusa, Uri e Schwyz lo status di «città imperiali» (l’equivalente di una parziale autonomia politica), in cambio del libero accesso al valico. Presto, però, le città si trovarono a fronteggiare un nemico che ambiva a comprimerne le conquiste politiche: il nuovo imperatore Rodolfo I d’Asburgo. I cantoni di Uri, Schwyz e Unterwalden, preoccupati per gli intenti accentratori del sovrano, corsero ai ripari, stipulando nell’agosto del 1291 un patto federativo (Bundesbrief) che li impegnava all’assistenza reciproca in caso di aggressione esterna. Nonostante l’aiuto di altri comuni come Zurigo, Lucerna e Costanza, alla fine del XIII secolo gli Asburgo presero tuttavia il sopravvento, imponendo nel territorio svizzero un sistema di governo centralizzato. Nel 1315 il potente esercito asburgico dell’arciducato d’Austria attaccò gli Svizzeri a Morgarten, ma venne clamorosamente sconfitto. La guerra in seguito riesplose per cause indirette: alla ribellione dei comuni della Svevia contro il crescente autoritarismo asburgico, si accodarono alcune città svizzere, in un primo momento Zurigo, Berna e Zug, e poi anche diversi cantoni. Gli Austriaci allestirono un’armata di oltre 4000 soldati, quasi tutti professionisti, tra i quali figuravano alcuni tra i migliori reparti di cavalleria d’Europa. Sulla sponda nemica si costituí, invece, un esercito modesto, forte di appena 1600 unità. Le truppe asburgiche, riunitesi a Brugg (nell’attuale cantone Argovia) nel giugno del 1386, marciarono verso Lucerna, ma non giunsero mai a destinazione. Si fermarono a una manciata di chilometri

Lago Maggiore

Adda

Sondrio

Lugano Lago di Como

dalla città, in un villaggio chiamato Sempach, e lí furono raggiunti dai confederali che stavano accorrendo da est. Il 9 luglio del 1386 le due armate si fronteggiarono. Il terreno non sembrava favorevole agli assalti della cavalleria. Leopoldo, dopo aver schierato le truppe su tre file, diede allora ordine alla prima colonna di cavalieri di lasciare i propri destrieri e di disporsi a quadrato sul campo. L’ufficiale intendeva combattere, inizialmente, con quello sparuto gruppo di appiedati, perché convinto di trovarsi davanti solo una parte dell’esercito avversario. In questo modo concesse l’opportunità agli Svizzeri di organizzare al meglio la propria difesa e di compattare i ranghi. Le divisioni confederali si posizionarono su due linee, la prima delle quali disposta a cuneo, con una punta mobile in grado di direzionarsi verso il lato da cui sarebbe partito l’attacco. L’andamento della battaglia sembrò subito volgere a favore degli Asburgo, che costrinsero la prima linea nemica ad arretrare. Gli Svizzeri, in realtà, indietreggiarono in modo da serrarsi con la fila retrostante, dove era collocata la divisione piú numerosa del loro esercito. Non appena la seconda linea elvetica entrò in azione, gli equilibri si rovesciarono. Nel mezzo della fanteria austriaca, infatti, si aprí all’improvviso una breccia, secondo la tradizione per opera di un valoroso soldato destinato a divenire un eroe nazionale: Arnold von Winkelried. Sorpreso dall’improvviso attacco a colpi di alabarda dei confederati, Leopoldo ordinò alla cavalleria di prendere l’iniziativa, ma la reazione risultò scarsamente organizzata e il risultato fu deludente. Il fallimento del contrattacco della seconda linea asburgica spinse l’ultima fila alla fuga, decretando l’ennesimo trionfo svizzero.

medioevo in guerra

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spade, scudi e corazze

armi e guerrieri

Al di là di re e imperatori, chi erano i protagonisti delle battaglie? Eccone una breve galleria

Fante bizantino

Q

uesto fante bizantino visse nel VI secolo, al tempo di Giustiniano, e probabilmente partecipò ad alcune delle importanti campagne di questo periodo; il suo equipaggiamento riflette perfettamente l’osmosi tra culture differenti che in Europa si stava realizzando già da qualche secolo: molti elementi sono infatti presi in prestito dall’armamento delle popolazioni barbariche. Per proteggere la testa, il guerriero indossa un casco tipico dell’età tardo-antica, con guanciali e protezione per la nuca (un esemplare molto ben conservato di questo elmo è stato trovalo a Worms, in Germania). L’armatura è invece una lorica hamata, sostanzialmente una cotta di maglia di ferro di probabile origine persiana; in questo caso è indossata sopra una tunica di lino. Non tutti i fanti disponevano comunque della lorica, abitualmente riservata a chi era inviato in prima linea. Lo scudo (skutarion) aveva forma ovale, e poteva arrivare fino a un metro e mezzo di diametro; era realizzato in legno e interamente ricoperto di cuoio. Il trattato bellico intitolato Strategicon – redatto nel VII secolo – suggerisce che «gli scudi delle prime linee abbiano un umbone acuminato», evidentemente per poterli usare come un’arma (l’umbone era una protuberanza metaIlica che serviva a coprire la cavità in cui alloggiava la mano del soldato). ll fante ha una grande spada con lama a doppio taglio, la spatha di origine germanica; inoltre è dotato di una semplice lancia, ma poteva disporre anche di un kontarion, lancia che misurava fino a 3 metri e mezzo di lunghezza e che, all’occorrenza, poteva essere scagliata contro il nemico. Il fatto che il nostro soldato indossi una sorta di calzoni è un altro palese risultato dell’influenza del costume barbarico sul vestiario delle truppe imperiali.

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medioevo in guerra

Qui accanto l’equipaggiamento di un fante bizantino, cosí come descritto nel testo. Nei particolari in alto: tre diverse impugnature di spada (a sinistra) e lo scudo, che recava frontalmente il chrismon, cioè il monogramma di Cristo formato dalle lettere greche chi e ro, e con il quale, secondo una tradizione, l’imperatore Costantino fece marcare gli scudi dei suoi soldati alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, dopo aver ricevuto in sogno l’ordine di apporre un segno celeste di Dio per ottenere la vittoria.


Cavaliere longobardo

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uello raffigurato è un exercitalis, ovvero un soldato Iongobardo del VII secolo, e piú specificamenle un cavaliere. La protezione della testa è assicurata dall’elmo del tipo «avaro», con guanciali, nasale e guardanuca di maglia, decorato con un pennacchio. Sopra una doppia tunica il guerriero indossa una corazza lamellare – cioè una protezione costituita da lamelle metalliche fissate tra loro che lascia scoperte spalle e braccia – di origine asiatica. L’equipaggiamento difensivo di questo soldato è molto simile a quello raffigurato su un piatto d’argento trovato presso Isola Rizza (Verona). Il mantello è fermato sulla spalla con una fibula ad arco, un oggetto prezioso che comunemente si rinviene negli scavi delle necropoli longobarde. La cintura è un elemento caratteristico del costume longobardo, con i tipici pendagli di cuoio ornamentali che terminano con placchette in metallo decorato; da essa pende uno scramasax (o sax), ovvero un coltello di grandi dimensioni a un solo taglio che i Longobardi utilizzavano con grande bravura nel duello corpo a corpo. Oltre allo scramasax, un soldato come il nostro poteva disporre di un coltello ancora piú piccolo, della lunghezza approssimativa di 12 cm. Una particolarità messa in luce dai ritrovamenti archeologici è che spesso al fodero per lo scramasax veniva aggiunto un secondo, piccolo fodero che conteneva il coltellino. La struttura dello scudo, rotonda, era in legno. Dal centro sporge l’umbone, in metalIo. Tra i Longobardi l’uso dello scudo non era riservato soltanto alla battaglia: durante le assemblee i nobili esprimevano infatti la loro approvazione sbattendo fragorosamente gli scudi sul terreno. Da notare i calzoni, altro elemento del vestiario tipico della tradizione longobarda, e gli speroni, che identificano il guerriero come un cavaliere.

In alto, a sinistra due diversi tipi di scramasax, grande coltello a un solo taglio tipico dell’armamento longobardo.

Qui accanto l’equipaggiamento tipico di un exercitalis del VII sec. In alto, a destra fodero con coltellino ed elementi dell’impugnatura.


spade, scudi e corazze

Cavaliere carolingio

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uesto soldato è un cavaliere pesante dell’esercito carolingio, attivo tra la seconda metà dell’VIII secolo e la prima metà del successivo. Il casco che gli ripara la testa ha una forma piuttosto semplice che lascia scoperta la nuca. Buona parte del corpo è invece protetta da una «brunia», ovvero una sorta di armatura generalmente realizzata in pelle e ricoperta da scaglie metalliche che proteggeva anche le spalle e parte delle braccia. Una brunia era molto costosa: il suo prezzo (12 solidi, la moneta dell’epoca) corrispondeva a dodici mucche, ovvero piú di quanto servisse ad acquistare un cavallo. In seguito la brunia subí una notevole evoluzione, diventando sempre piú simile a un usbergo, ovvero una cotta di anelli di ferro; lo dimostra il fatto che nell’XI secolo i termini brogne e hauberk erano considerati intercambiabili. Il cavaliere è munito di una lancia, l’arma piú comune tra i Carolingi, che doveva essere lunga tra i 2 e i 3 m; inoltre, alla sua cintura è appesa una spada, il pezzo piú costoso dell’intero equipaggiamento offensivo. Le spade migliori venivano fabbricate con tecniche raffinate nella regione della Renania, e si calcola che per terminarne una occorressero all’incirca duecento ore di lavorazione e dai 200 ai 300 chili di carbone. Dietro la schiena, appeso a una cinghia, il soldato porta uno scudo dalla forma rotonda e dall’umbone prominente, caratteristico del suo esercito. Come si può vedere, il cavallo è munito di staffe. Sappiamo che la cavalleria carolingia aveva adottato stabilmente questo utensile, anche se non fu in grado di sfruttarne a pieno le potenzialità. Per la nascita del combattimento «lancia in resta» occorrerà infatti attendere l’XI secolo.

L’equipaggiamento del cavaliere carolingio si caratterizzava soprattutto per l’uso della brunia, una sorta di armatura ricoperta da scaglie di ferro che proteggeva il tronco e parte delle spalle.

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Fante omayyade

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l disegno ricostruisce l’equipaggiamento tipico di un guerriero arabo, e, per la precisione, di un fante della guardia omayyade, il cui compito specifico era la protezione del palazzo del califfo. Il periodo del califfato omayyade (cosí chiamato dal nome arabo dei Banu Umayya, «discendenti di Umayya», tra quali si annoverava il fondatore della dinastia, Mu‘awiyah ibn Abu Sufyan) iniziò nel 661 e terminò nel 750. In questo arco di tempo l’esercito arabo assunse un carattere multietnico, andando a includere truppe iraniane, siriane, berbere, egiziane e molte altre; fu l’epoca in cui gli Arabi conquistarono la Penisola Iberica, mettendo a segno nel 711 un notevole punto a loro favore con la vittoria conseguita presso il fiume Guadalete (Andalusia) contro l’esercito visigoto, nonché con la successiva conquista di Toledo. Questo in particolare è un soldato dell’inizio dell’VIII secolo; indossa una cotta di maglia di ferro senza maniche e ha il capo protetto da un elmo in ferro e bronzo di origine asiatica. Lo scudo – in legno dipinto con vari colori e motivi suggestivi – era chiamato turs, e si caratterizzava per la sua forma rotonda e le grandi dimensioni. Sappiamo che una delle formazioni piú spesso utilizzate dagli Arabi in battaglia era una sorta di falange, la cui protezione era assicurata proprio da questi ampi scudi che venivano intersecati tra loro a formare un vero e proprio muro insormontabile. Le armi a disposizione del fante sono un pugnale e una lancia. Soltanto in un secondo tempo, verso la metà dell’VIII secolo, tra le truppe arabe si diffuse stabilmente l’uso della spada. L’avanzata inesorabile delle truppe omayyadi fu bloccata dai Franchi in Occidente e dai Bizantini in Oriente. Nel 750 il califfato omayyade fu rimpiazzato da quello abbaside, mentre nello stesso periodo gli Arabi residenti nella Penisola Iberica si resero autonomi, dando vita all’emirato di al-Andalus.

L’equipaggiamento tipico di un fante omayyade degli inizi dell’VIII sec., armato di lancia e pugnale. La spada entrò a far parte del corredo dei soldati arabi solo nella seconda metà dello stesso secolo. In basso due diversi tipi di daga.

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spade, scudi e corazze

Cavaliere normanno

In alto alcuni pomi di spada: da sinistra, a noce, a disco e a fungo. A destra l’equipaggiamento completo del cavaliere normanno. Qui sotto retro di uno scudo «a mandorla», con relative imbragature. In basso, a destra «esplosione» dell’elmo normanno.

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a documentazione sull’equipaggiamento dei soldati normanni è abbondantissima, ma la fonte di informazioni piú nota e importante è senza dubbio il cosiddetto «arazzo» di Bayeux, eseguito probabilmente intorno al 1077: un telo lungo 70 m e alto 50 cm sul quale è ricamata, tra l’altro, l’intera cronaca della battaglia di Hastings (1066). Il cavaliere qui riprodotto combatté proprio in quel periodo; ha la testa protetta dal tipico casco composto da quattro elementi, provvisto di nasale. Una maglia di anelli di ferro dotata di cappuccio, detta «usbergo», copre il corpo fino a mezza coscia, mentre le gambe sono fasciate da calzari. Lo scudo, raffigurato in mano allo scudiero, è in legno rivestito di pelle, e ha la caratteristica forma «ad aquilone» (o «a mandorla»); con le sue grandi dimensioni protegge l’intero fianco sinistro del soldato, ma anche – posto in orizzontale, se necessario – buona parte del fianco

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del cavallo. Una salda presa dello scudo è assicurata da un sistema di cinghie di cuoio fissate sul retro. L’armamento offensivo è costituito essenzialmente da una spada lunga circa 1 m, sospesa nel fodero al cinturone del cavaliere; la sua impugnatura si compone di due elementi in legno fissati sul ferro e ricoperti da una cinghia ad avvolgimento incrociato. L’altra arma piú usata dai Normanni era la lancia, che padroneggiavano con grande maestria. Lo stesso arazzo di Bayeux dimostra che i Normanni, già alla metà dell’XI secolo, adoperavano la lancia sia brandendola dall’alto, a colpire il nemico con un deciso movimento verso il basso, sia stringendola sotto l’ascella, nella classica postura del duello cosiddetto «lancia in resta». L’asta della lancia poteva inoltre essere usata come portabandiera. Da notare i finimenti del cavallo, particolarmente curati. La sella ha gli arcioni in legno, molto alti per evitare le cadute.


Hirdman vichingo

Qui accanto un hirdman vichingo con il suo equipaggiamento tipico. Si noti l’elmo provvisto della mascherina che proteggeva gli occhi e il naso.

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uello riprodotto a fianco è un hirdman vichingo, ovvero un soldato che componeva stabilmente un hird (l’unità-base dell’esercito) dopo aver prestato giuramento al suo re. La sua testa è coperta da un elmo particolare, dotato di una speciale mascherina che aveva la funzione di riparare gli occhi e il naso e al tempo stesso di incutere timore al nemico. Il corpo è invece protetto da un’armatura di maglia di ferro comunemente nota come Hringserkr («veste ad anelli»). Lo scudo è di grandi dimensioni, di forma circolare, in legno rivestito di pelle e provvisto di un umbone molto sporgente. Quando i Vichinghi erano in mare, gli scudi venivano fissati ai fianchi delle navi, assicurando la protezione alle truppe (numerosi esemplari originali, frutto di scavi archeologici, si possono oggi vedere, per esempio, al Museo delle Navi di Oslo). Nella mano dell’hirdman c’è un’ascia a un solo taglio, un’arma reintrodotta in Europa proprio dai Vichinghi; si chiamava Heggox, ed è la diretta erede della francisca merovingia. Dalla cintura pende invece una spada di provenienza franca. È noto che i Vichinghi non usavano la loro pesante spada colpendo piú volte il bersaglio, bensí assestando pochi, ma precisi fendenti, la cui potenza era tale da annientare l’avversario. I Vichinghi amavano inoltre indossare tuniche e calzoni in lino o lana di svariati colori, tra cui rosso, blu, verde, e a volte segnalavano con un colore particolare la loro origine: le truppe di Dublino, per esempio, vestivano preferibilmente di rosso. La battaglia combattuta nel 1066 presso il villaggio inglese di Stamford Bridge segna la fine dell’epoca vichinga; vi si fronteggiarono i Sassoni guidati da re Harold e i Norvegesi di re Hardrada, e si risolse con una pesante sconfitta dei Vichinghi: ancora nel 1130 alti mucchi di ossa indicavano il luogo dello scontro.

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spade, scudi e corazze

Cavaliere crociato

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l soldato di cui presentiamo la ricostruzione è un cavaliere crociato dell’Ordine Ospitaliere di San Giovanni. Questo Ordine militare nacque nel XII secolo in Terra Santa, e prendeva il suo nome da un ospedale per pellegrini fondato a Gerusalemme nel 1070. Porta un casco del tipo chiamato chapel de fer (nella terminologia italiana «cappello d’arme»). Questi soldati potevano usare però anche un altro tipo di copricapo: il cosiddetto «grande elmo», dalla forma cilindrica, in grado di assicurare una protezione totale della testa, e sotto di esso una cuffia imbottita con rinforzo di crine di cavallo. Il corpo è protetto da un usbergo, sopra il quale il cavaliere indossa una sopravveste. La zona del torace ospita il simbolo dell’ordine a cui il cavaliere appartiene. Da notare le alette, sulle spalle: si tratta di piastre in metallo, che venivano applicate sull’usbergo in posizione inclinata, allo scopo di far scivolare i colpi provenienti dall’alto per proteggere le clavicole. Le mani sono riparate dalle muffole, il caratteristico guanto con la sola separazione del pollice, mentre, a protezione degli arti inferiori, si indossavano gambali muniti di ginocchiere. Lo scudo è tipico del XIII-XIV secolo, a forma triangolare e con i lati convessi; poteva essere portato anche a tracolla, grazie a una cinghia. Le armi del cavaliere sono una spada e un pugnale, entrambi appesi al suo doppio cinturone. Inoltre nella destra porta una «mazza d’arme» dalla testa in ferro. Una delle ultime battaglie in cui furono impiegati i soldati dell’Ordine degli Ospitalieri fu quella di Caroublier, svoltasi il 28 ottobre 1266. Essi costituivano l’avanguardia dell’esercito guidato da re Ugo III di Cipro, che aveva sferrato un attacco contro la città di Tiberiade. Molti di loro caddero in un’imboscata dopo essersi allontanati dalla truppa in cerca di bottino, mentre i sopravvissuti furono uccisi nel loro accampamento la notte seguente, durante un’incursione araba.

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A destra un cavaliere crociato dell’Ordine Ospitaliere di San Giovanni armato di tutto punto. In basso, da sinistra cuffia imbottita, imbottitura in crine di cavallo e parte metallica del «grande elmo», diffusosi a partire dal XIII sec. e chiamto anche «elmo pentolare», «a secchio» o «a barile».


Arciere ungaro

Un arciere ungaro a cavallo: stando alle cronache dell’epoca, soldati come questo erano autentiche e micidiali «macchine da guerra». Nella sequenza in basso, a destra alcuni tipi di cuspide di freccia.

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ra i piú temuti guerrieri di origine asiatica, gli Ungari furono particolarmente rinomati soprattutto per via dei loro abilissimi arcieri a cavallo; basti pensare che, secondo il racconto di un cronista, erano in grado di scoccare dieci frecce nello stesso tempo in cui un soldato arabo ne scoccava una! Qui a fianco è riprodotto proprio uno di questi arcieri, dotato di un’armatura lamellare di tradizione asiatica indossata sopra un lungo caffettano. Le gambe sono invece coperte da un paio di calzoni. L’elmo è piuttosto tipico, sormontato sulla calotta da una coda di cavallo ornamentale e munito di un elemento in maglia di ferro che protegge la nuca. Lo scudo ha invece una forma circolare, ed è in legno. Sappiamo che alcuni degli scudi usati dagli Ungari nella battaglia di Lechfeld (955) erano arricchiti da un prezioso umbone in argento decorato. Il nostro cavaliere è armato di un’ascia di medie dimensioni, piuttosto maneggevole; dal suo cinturone pende inoltre l’arma piú importante: un arco dentro il suo fodero, e la faretra in pelle, piena di frecce. Accanto all’arco si nota anche – sempre dentro la sua custodia – una sciabola del tipo orientale, con la caratteristica lama ricurva. Gli Ungari vivevano in modo quasi simbiotico il rapporto con il loro cavallo, e – come ricordano alcuni testi dell’epoca – spesso dormivano in sella. L’importanza da loro attribuita a questo animale si può dedurre anche dalla ricchezza dei finimenti che sono stati ritrovati in numerose sepolture. Redini, sella, morsi e pettorali erano infatti spesso decorati con placche d’argento e d’oro finemente lavorate.

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spade, scudi e corazze

Picchiere svizzero

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uello raffigurato qui accanto è un picchiere svizzero nel tipico costume quattrocentesco. La sua testa è protetta da un tipo di elmo chiamato «cervelliera», caratteristico dell’equipaggiamento dei fanti tra il XII e il XVIII secolo. Un pettorale metallico ripara invece il torace, mentre le gambe sono libere, coperte da semplici calzoni (i picchieri provenivano molto spesso dalle classi sociali piú basse, e dunque disponevano raramente di armature). La croce sulla gamba destra è un’insegna tipica di questo esercito: poteva essere dipinta in bianco, ma anche in blu, rosso o nero; è documentata per la prima volta nella battaglia di Laupen (1337). Il soldato è munito di una spada e di un pugnale, sospesi alla cintura, oltre che di una picca. Sembra che quest’arma fosse inizialmente lunga all’incirca 4 m (nel XIV secolo), e che in un secondo momento – alla fine del XV – raggiunse i 5,5 m. Il definitivo passaggio dall’alabarda alla picca come principale arma dell’esercito svizzero ebbe luogo dopo la battaglia di Arbedo, combattuta contro i Milanesi per il possesso di Bellinzona e conclusasi con la vittoria di questi ultimi. La picca, molto piú efficace dell’alabarda per contrastare le cariche di cavalleria, veniva adoperata essenzialmente da fomazioni a falange: le prime quattro file di soldati tenevano le armi in orizzontale (con inclinazioni leggermente differenti), mentre i ranghi posteriori restavano in posizione di attesa, con le picche in verticale, pronte a intervenire. In seguito i soldati svizzeri si specializzarono nell’uso della picca – inizialmente poco maneggevole, a causa della lunghezza – e riuscirono a trasformarla in un’arma offensiva: le cariche avvenivano in corsa, sostenendola con le due braccia, e l’effetto era davvero devastante.

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medioevo in guerra

L’armamento di un picchiere svizzero del XV sec. Nel particolare in basso, a sinistra veduta posteriore della corazza


Cavaliere d r a t o-medievale

Dall’alto tre tipi di elmo tardo-medievale: la barbuta, la barbuta in forma di elmo corinzio e la celata.

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ul finire del Medioevo i cavalieri adottarono le pesanti armature a placche, rese necessarie dall’evoluzione delle armi offensive. Questo è appunto un cavaliere del XV secolo in armatura pesante, interamente in ferro. Gli elementi che coprono la zona delle spalle si chiamano «spallacci», mentre il torace è protetto da un «petto» sul quale era applicata la «resta», ovvero l’elemento che sosteneva la lancia al momento della carica. Cosciali, schinieri e ginocchiere garantivano poi la protezione agli arti inferiori. Il copricapo (del quale presentiamo tre varianti, nella sequenza in alto, a sinistra), poteva essere una celata, che lasciava scoperti gli occhi e una piccola parte del viso, oppure un elmo ancora piú coprente dotato di ventaglia (la tipica piastra sporgente che proteggeva naso e bocca). Un cavaliere cosí ben equipaggiato poteva contare generalmente almeno su una lancia, una spada, un pugnale e una mazza.

Anche il cavallo porta una bardatura in ferro; il suo corpo è protetto da una «groppa», ma l’elemento piú singolare è la testa: criniera, coprinuca e «sguance» non lasciano scoperto nemmeno un centimetro di superficie corporea, eccezion fatta per occhi e orecchie. Un cavaliere di questo genere, interamente armato, doveva suscitare una grande impressione: era una vera macchina da guerra, composta da uomo e cavallo. Naturalmente c’era anche il rovescio della medaglia: il ferro impiegato per le armature era enormemente pesante, e i movimenti dovevano essere piuttosto impacciati. Una volta disarcionato il cavaliere si tramutava in una facile preda. I due scudieri portano rispettivamente una lancia, sulla quale è fissata la banderuola con le insegne del signore (si tratta di Pier Maria Rossi, signore di Parma) e una brocca di vino per dissetarlo.

medioevo in guerra

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chiesa contro impero

L’Italia dei Comuni vive decenni convulsi, macchiati dal sangue di scontri durissimi, determinati, innanzitutto, dalle scelte di campo compiute in favore dei due poteri dominanti: l’impero e la Chiesa. Nascono alleanze capaci di grandi imprese, come la Lega Lombarda, ma nessuno sembra davvero in grado di assicurarsi un controllo duraturo della Penisola

Battaglie

BATTAGLIA DI LEGNANO (1176) La coalizione guelfa di comuni della Lega Lombarda infligge una storica sconfitta all’esercito imperiale di Federico Barbarossa.

BATTAGLIA DI CORTENUOVA (1237) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 74-82. BATTAGLIA DI PARMA (1247-1248) Vittoria dei comuni guelfi sulle forze fedeli all’imperatore Federico II. BATTAGLIA DI FOSSALTA (1249) I guelfi bolognesi sconfiggono le truppe ghibelline di re Enzo, figlio di Federico II. BATTAGLIA DI MONTAPERTI (1260) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 82-83. BATTAGLIA DI COLLE (1269) I guelfi fiorentini sbaragliano l’esercito senese. È la rivincita dell’epica battaglia di Montaperti. BATTAGLIA DI FORLÍ (1282) I ghibellini forlivesi sconfiggono un’armata di guelfi francesi. GIOSTRE DEL TOPPO (1288) Nuova affermazione ghibellina, questa volta degli Aretini, su un contingente di guelfi senesi.

Miniatura raffigurante re Enzo, figlio naturale di Federico II, catturato dai Bolognesi nella battaglia di Fossalta del 1249 e condannato a morire di fame e sete con il supplizio della gabbia, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.


Legnano g Ivrea

Feltre

Cortenuova C Crema

Parma Fossalta Zappolino

Forlí Montecatini Campaldino Altopascio Colle Giostre Montaperti del Toppo

Jesi

Perugia

BATTAGLIA DI CAMPALDINO (1289) I guelfi fiorentini in marcia verso Arezzo annientano l’esercito ghibellino posto a protezione della zona. BATTAGLIA DI MONTECATINI (1315) I ghibellini pisani sconfiggono le poderose armate di Firenze e Napoli.

BATTAGLIA DI ZAPPOLINO (1325) Le rivalità accese tra ghibellini modenesi e guelfi bolognesi provocano uno scontro armato, vinto dai primi. BATTAGLIA DI ALTOPASCIO (1325) I ghibellini lucchesi, guidati dal condottiero Castruccio Castracani, si impongono contro i guelfi fiorentini.


chiesa contro impero

Battaglia di Cortenuova

27 novembre 1237

ai piedi di federico

di Francesco Colotta

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no dei capitoli piú sanguinosi della storia dei conflitti tra Comuni e Sacro Romano Impero fu scritto nel novembre del 1237, presso Cortenuova, nel Bergamasco. In quell’autunno si consumò una vera e propria rivincita della battaglia di Legnano, dove, nel 1176, la Lega Lombarda, con la benedizione di papa Alessandro III, aveva costretto alla resa Federico Barbarossa (vedi box a p. 76). Il sovrano, che ambiva a unire l’Italia sotto il controllo di un forte potere centralizzato, si era dovuto piegare alla richiesta di autonomia delle città del Nord, dirottando in seguito le sue mire altrove. Il suo progetto di importare il modello germanico di burocrazia statale nella Penisola era rimasto, quindi, incompiuto, ma riprese vigore pochi anni piú tardi nei propositi strategici del nipote Federico II. L’ascesa al trono imperiale di quest’ultimo minacciò nuovamente le città del Settentrione e le loro conquiste sul piano dell’autogoverno comunale. E si sentí in pericolo anche la Chiesa di Roma che, ironia della sorte, aveva contribuito in modo decisivo all’affermazione politica del monarca svevo. Papa Innocenzo III, al secolo Lotario dei Conti di Segni, aveva lanciato Federico II nella lotta alla corona imperiale. In precedenza, il pontefice lo aveva «adottato», facendogli da tutore su invito della madre del giovane nobile, Costanza, rimasta vedova dopo la morte di re Enrico VI. 74

medioevo in guerra

Favorendo l’ascesa del ragazzo, Innocenzo III sperava di avere assicurato alla Chiesa un potente alleato per il futuro, ma si trovò presto di fronte un nemico insidiosissimo. Tuttavia, l’obiettivo principale di Federico non era la guerra contro il papato: sebbene di indole ghibellina, come nota lo storico Ludovico Gatto «sarebbe difficile non collocare colui che fu definito lo stupor mundi nell’ambito della tradizione cristiana, la medesima della sua famiglia e della società medievale in cui egli visse e operò».

Sulle orme del Barbarossa

Non a caso il sovrano, divenuto imperatore, aveva acconsentito a partecipare alla crociata in Terra Santa, su sollecitazione del nuovo pontefice, Onorio III, un invito piú volte disatteso. Federico ambiva soprattutto a estendere la propria autorità sull’intero territorio italiano, a scapito dei potenti Comuni e passò subito all’azione, imponendo un controllo amministrativo sul Centro-Nord della Penisola: cinque vicariati sotto una rigorosa supervisione imperiale, a cui spettava anche il compito di avallare la nomina dei giudici. Il provvedimento, in sostanza, annullava gran parte delle conquiste delle città lombarde ottenute con la pace di Costanza del 1183, che aveva sancito i nuovi equilibri maturati dopo la battaglia di Legnano. L’impresa di Federico si annunciava ben piú

In alto replica della spada in legno, oro, smalti e pietre preziose, realizzata a Palermo nel XIII sec. per l’incoronazione di Federico II a sovrano del Sacro Romano Impero. La cerimonia, presieduta da papa Onorio III, si svolse nella basilica di S. Pietro a Roma, il 22 novembre del 1220. Aquisgrana, SuermondtLudwig-Museum. Sul fodero è raffigurato lo stemma della casata sveva: un’aquila nera ad ali spiegate su fondo oro.


Augustale aureo di Federico II emesso dalla zecca di Messina. 1231-1250. Cambridge, Fitzwilliam Museum. Al dritto, il busto antico (non medievale) dell’imperatore; al rovescio, un’aquila ad ali spiegate e la scritta FRIDERICVS.

medioevo in guerra

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chiesa contro impero

Battaglia di Cortenuova

al suono della «martinella» Federico Barbarossa sfidò i Comuni del Nord Italia prima con la Constitutio de regalibus del 1158, che concentrava i poteri di governo, soprattutto in materia fiscale, nelle mani dell’imperatore. Poi passò a misure piú drastiche, distruggendo Milano nel 1162. Le città minacciate dal Barbarossa si riunirono a Pontida, costituendo la Lega Lombarda che, in previsione dello scontro con il sovrano germanico, allestí un’armata di circa 12 000 uomini sotto il patrocinio di papa Alessandro III. La battaglia avvenne presso Legnano nel 1176 e sembrò all’inizio favorevole alle truppe di Federico, numericamente inferiori. Ben presto, però, il muro dei fanti dei Comuni impedí agli avversari di far breccia nel cuore dello schieramento, che custodiva il Carroccio (carro militare considerato il simbolo della libertà comunale: l’asta centrale terminava in una croce, sotto la quale sventolava la bandiera del Comune, e del quale era componente essenziale anche la martinella, cioè la campana con cui veniva dato il segnale della battaglia). Respinti dagli scudi, i soldati del Barbarossa dovettero poi difendersi dal ritorno dei cavalieri della Lega. Una tradizione leggendaria riporta le gesta della «Compagnia della morte» guidata da Alberto da Giussano, un nucleo di 900 cavalieri che avrebbe avuto un ruolo determinante nella vittoria dei Comuni. L’imperatore che combatteva a ridosso della prima fila rischiò di morire sul campo di battaglia, ma alla fine fuggí con quel che restava del suo esercito. La disfatta fu totale e i Comuni ottennero di nuovo la loro autonomia.

Le date da ricordare 1152. Federico Barbarossa è eletto re di Germania. Alla dieta, convocata dal sovrano a Costanza, inviati di Lodi chiedono protezione, lamentando la prepotenza di Milano.

1158. Seconda discesa in Italia di Federico e dieta di Roncaglia; imposizione delle prerogative imperiali (regalie) ai Comuni.

1155. Federico è incoronato re d’Italia a Monza e poi imperatore, a Roma, da Adriano IV. 1154. Prima discesa in Italia di Federico. 76

medioevo in guerra

1159. Elezione di papa Alessandro III, al quale una minoranza, sostenuta dai rappresentanti imperiali, oppone l’antipapa Vittore IV. 1164. Formazione della Lega Veronese (Verona, Padova, Vicenza e Treviso).

1158-62. Guerra dell’imperatore contro i Comuni ribelli della Lombardia. Nel 1160 viene distrutta Crema; nel 1162, dopo un lungo assedio, Milano è rasa al suolo.

1167. Formazione della Lega Cremonese (Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova). Ricostruzione di Milano. Giuramento di Pontida e nascita della Lega Lombarda.


Il carroccio (La battaglia di Legnano), dipinto di Massimo Tapparelli d’Azeglio (1798-1866). 1830 circa. Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea.

ardua di quella, peraltro fallita, del nonno: in sessant’anni i Comuni si erano rafforzati, al Sud la situazione del regno di Sicilia appariva difficile, con sacche di resistenza da piegare, e, inoltre, il papato possedeva strumenti politici piú efficaci rispetto all’epoca di Alessandro III. L’imperatore, a ogni modo, non si fece scoraggiare e nel 1226 indisse una dieta a Cremona, convocando tutti i rappresentanti delle città soggette al suo dominio. Si trattava di un atto di forza, volto a spiazzare i suoi interlocutori, a intimidirli, sfruttando il fattore sorpresa, con una tattica che da comandante utilizzò poi nelle sue campagne militari. Alcuni disertarono l’appello di Cremona, soprattutto i Comuni della seconda Lega Lombarda, di fresca costituzione, alla quale avevano aderito Milano, Bologna, Brescia, Mantova, Bergamo, Torino, Vicenza, Padova e Treviso. Successivamente anche Piacenza, Verona, Vercelli, Lodi, Faenza, Crema, Alessandria e Ferrara confluirono nella nuova alleanza.

La scomunica di Gregorio IX

I ribelli del Nord si mobilitarono subito, bloccando i valichi sulle Alpi e gli accessi dal Veneto, cosí da tagliare i rifornimenti all’imperatore. Nel frattempo anche il pontefice – il neoeletto Gregorio IX – era sceso sul piede di guerra, scomunicando Federico per la mancata partecipazione alla VI crociata. Il papa, poi, si adirò ancor di piú per il fatto che il sovrano, giunto finalmente in Terra Santa, aveva preferito accordarsi con i musulmani invece di attaccarli. Per ragioni di opportunità politica, Gregorio tornò presto sui suoi passi: a Roma il clima era turbolento e la Chiesa, non riuscendo ad affermare da sola la propria autorità sull’Urbe, necessitava di un alleato forte. La tregua si estese anche al conflitto tra la Lega Lombarda e l’imperatore, ma fu di breve durata: Federico riprese la sua battaglia politica rientran-

1168. L’esercito imperiale, decimato da un’epidemia, è costretto a riparare in Germania. Fondazione della città di Alessandria.

1177. Pace di Venezia tra Federico Barbarossa e papa Alessandro III, che l’imperatore riconosce come solo pontefice legittimo. 1183. Pace di Costanza tra l’imperatore e i Comuni.

1176. Battaglia di Legnano; vittoria di Milano sull’esercito imperiale. 1175. Assedio fallito di Alessandria da parte dell’imperatore.

1190. Morte di Federico Barbarossa, annegato in Cilicia durante la III crociata.

1237. Battaglia di Cortenuova; vittoria di Federico II sui Milanesi.

1226. Ricostituzione della Lega Lombarda contro l’imperatore Federico II.

1250. Morte dell’imperatore Federico II. La Lega Lombarda non verrà piú rinnovata.

1248. Disfatta delle truppe di Federico II sotto le mura di Parma.

medioevo in guerra

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chiesa contro impero

Lega Lombarda, olio su tela di artista anonimo. XIX sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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medioevo in guerra

Battaglia di Cortenuova

do nel 1234 in Germania, per piegare la ribellione del figlio Enrico che si era accordato con le città della Lega, poi tornò subito in Italia pronto a imporre con le armi il suo ambizioso progetto. Le ultime speranze per evitare un conflitto tra Comuni e impero erano riposte nel pontefice, sempre interessato a coinvolgere il sovrano svevo nelle missioni militari in Terra Santa; il fallimento dell’azione diplomatica papale segnò l’inizio degli scontri armati. Federico fece la prima mossa, nell’autunno del 1236, attaccando i territori della Lega Lombarda dopo aver pro-

nunciato la celebre frase «i pellegrini e i viandanti possono liberamente andare ovunque; non potrò dunque io, l’imperatore, avventurarmi nelle terre dell’impero?».

Una richiesta inaccettabile

Le sue truppe effettuarono incursioni nei territori di Mantova e Brescia, poi puntarono su Vicenza, saccheggiandola. Ma non andarono oltre, cedendo il passo alla diplomazia, nel tentativo di evitare battaglie ben piú sanguinose. Ancora una volta fu Gregorio IX ad assumere il


le fasi della battaglia Palazzolo

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23 novembre Federico smobilitò le sue truppe, Il accampate a Pontevico, attraversò l’Oglio e passò in territorio ghibellino, dando l’impressione di voler porre fine alla campagna. Da Manerbio, l’esercito lombardo si mise in marcia verso nord per fare ritorno a Milano. Intanto, da Soncino, l’imperatore teneva sotto osservazione Cortenuova, punto di passaggio obbligato per la Lega, trovandosi nella posizione ideale per chiudere in una tenaglia gli avversari in ritirata.

Montichiari

mattina del 27 novembre, l’esercito della La Lega attraversò l’Oglio presso Cortenuova. Il contingente bergamasco di Federico, posizionato a Cividate al Piano, avvertí l’imperatore, che da Soncino si mosse immediatamente verso nord.

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Attacco a sorpresa Arrivato presso Cortenuova, Federico mandò

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Soncino

all’attacco la cavalleria, fiancheggiata da un battaglione di Saraceni, sorprendendo i nemici mentre si accampavano.

Montichiari Manerbio

Lodi Pontevico Campo ghibellino

ruolo principale di mediatore, convocando una dieta a Brescia nel 1237, alla quale parteciparono i legati di tutte le parti in lotta. Qualsiasi accordo, tuttavia, risultò arduo da sottoscrivere, a causa delle pesanti richieste degli imperiali, rappresentati dal Gran Maestro dell’Ordine Teutonico, Hermann von Salza, e dal cancelliere Pier Della Vigna: se i Comuni volevano evitare l’invasione dell’esercito di Federico avrebbero dovuto sciogliere subito la Lega Lombarda con la promessa di non ricostituirla mai piú. Una nuova Legnano era nell’aria e Federico si

Campo guelfo

Ghibellini

Guelfi

preparò alla battaglia allestendo un’armata imponente. Dalla Germania portò 2000 cavalieri d’élite, molti dei quali appartenenti all’Ordine Teutonico, e stabilí il suo quartier generale a Verona. Lí confluirono anche i rinforzi italiani, sotto la guida di Ezzelino III da Romano, quelli provenienti dalle storiche città ghibelline come Pavia, Modena, Parma, Cremona e Reggio Emilia, oltre ai contingenti del regno di Sicilia. In totale l’imperatore poteva contare su un esercito di circa 15 000 effettivi, mentre sul versante nemico le unità arruolate erano in numero infemedioevo in guerra

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chiesa contro impero

Battaglia di Cortenuova caforti. Si attestarono a Manerbio, in una zona paludosa, poco piú a nord di Pontevico. Tutto lasciava presagire un’imminente offensiva degli imperiali che, invece, il 23 novembre decisero di levare le tende e tornarono in territorio ghibellino. Si trattava di una ritirata strategica o della fine ufficiale della missione? Molti interpretano quell’improvviso ripiegamento come una trappola tesa agli avversari, in linea con le tesi propagandistiche filo-federiciane del Duecento. Ma fu quella davvero l’intenzione dell’imperatore? O forse voleva davvero smobilitare e in itinere si rese conto che la ritirata poteva offrirgli l’occasione di un assalto a sorpresa? Tra le file dell’armata dei Comuni circolava la voce che il sovrano germanico si fosse stabilito a Cremona per trascorrervi l’inverno. L’esercito lombardo diede credito a quelle indiscrezioni e si adeguò all’inaspettata decisione dei nemici, ripiegando verso Milano. La marcia dell’armata della Lega procedette a rilento, transitando per Lograto, Chiari, Palazzolo e Pontoglio, alla ricerca del punto ideale per attraversare l’Oglio. Le truppe avanzavano ignare di quanto accadeva a poca distanza dalle proprie linee.

Uno snodo nevralgico

riore, meno di 10 000 unità. Due importanti Comuni della Lega, Bergamo e Mantova, si arresero ancor prima di incrociare le armi. Cosí non fece Brescia che, nell’ottobre del 1237, oppose una strenua resistenza all’assedio, potendo contare su alcuni reparti accorsi da Milano. La città restò alla fine inviolata grazie alla valorosa azione di 1500 fanti e di una ventina di cavalieri che riuscirono a trattenere per due settimane i militari di Federico all’altezza di Montichiari, dando modo alle truppe della Lega di asserragliarsi a difesa dei Bresciani. L’esercito lombardo era giunto al completo, con il Carroccio scortato dalla «Compagnia dei Forti», i fedelissimi addetti alla sua difesa. La fallita presa di Brescia non scoraggiò Federico, che diede ordine ai suoi uomini di accamparsi sulle sponde dell’Oglio, a Pontevico, non lontano da Cremona. I soldati della Lega, volendo evitare lo scontro in campo aperto, scelsero una postazione prudente, tale da permettere soltanto la difesa delle loro principali roc80

medioevo in guerra

Federico non era lontano e meditava di compiere un’aggressione fulminea. Per questo fece stanziare i suoi soldati a Soncino, un luogo strategico perfetto per osservare da vicino le mosse avversarie. Dalla cittadina era possibile controllare Cortenuova, snodo fondamentale per chi da quella zona si dirigeva verso Milano. Avendo arruolato reparti che stavano giungendo da Bergamo, l’imperatore contava di attaccare da piú direzioni, stringendo l’armata dei Comuni in una morsa. Quando l’esercito della Lega arrivò nei pressi di Cortenuova, fu notato proprio dai Bergamaschi (appostati nella vicinissima Cividate al Piano), che avvisarono Federico attraverso alcuni convenuti segnali di fumo. Era il momento propizio per attaccare e, nel pomeriggio del 27 novembre 1237, il sovrano puntò verso Cortenuova. Giunto a destinazione, ordinò ai suoi uomini di passare subito all’azione. Per prima partí la cavalleria con l’ausilio di una pioggia di frecce scagliate da un battaglione di Saraceni. L’armata lombarda fu colta di sorpresa mentre stava accampandosi e non poté opporre una valida difesa: gli uomini della Lega sembravano non avere scampo e, nel caos generale, finirono anche per scontrarsi fra loro nel tentativo di ripiegare. Visto il favorevole andamento dell’assalto, il sovrano tedesco lanciò nella mi-

A sinistra la torre campanaria chiamata comunemente «Torrazzo». XIII sec. È il simbolo di Cremona, città di tradizione ghibellina. In basso, sulle due pagine dopo la battaglia di Cortenuova, i Milanesi hanno perso il Carroccio, che si trova ora nelle retrovie della cavalleria imperiale, miniatura da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.


schia anche la fanteria per completare il massacro prima dell’arrivo della notte. L’ultima resistenza degli assediati si attestò disperatamente attorno al Carroccio e riuscí a non capitolare sotto la pressione dei soldati federiciani, che durante i loro tentativi di sfondamento gridavano «Roma guerriera! L’imperatore guerriero!». Federico, impaziente di dare il colpo di grazia all’avversario, obbligò il suo contingente a dormire con indosso le armature in modo da poter dare l’assalto alle prime luci dell’alba. Per i militari lombardi, ormai orfani del loro comandante Tiepolo caduto in mani ghibelline, non c’era altra soluzione che la fuga. E nella notte si ritirarono rinunciando a portare con sé il Carroccio (o parte di esso secondo alcuni storici), che con il terreno paludoso avrebbe rallentato il loro cammino. La mattina del 28 novembre l’armata di Federico si impossessò di Cortenuova e, non paga

un dono davvero speciale Nel 1238, dopo la vittoria di Cortenuova e la fine delle relative celebrazioni, Federico II inviò a Roma il Carroccio come omaggio, o piú probabilmente come provocazione, al papa. Con quel gesto simbolico, il sovrano annunciava il ritorno dei fasti della gloriosa Roma imperiale, come testimoniato dalla sua lettera di accompagnamento. Lo stupor mundi raccomandava ai Romani di custodire con cura il prezioso dono, perché, in caso contrario, sarebbe intervenuto con durissime rappresaglie. Il carro fu accolto trionfalmente dai militanti del partito ghibellino dell’Urbe e anche da qualche cardinale filo-federiciano. Venne, quindi, esposto in Campidoglio, dove rimase per diversi anni. Secondo il cronista religioso Salimbene de Adam, il Carroccio fu, in seguito, bruciato dai guelfi romani in segno di oltraggio all’imperatore. La storiografia considera poco verosimile questa versione e ritiene che il baldacchino subí la sorte di tante reliquie scomparse nel tempo. Tuttora in Campidoglio esiste una Sala del Carroccio che conserva un’iscrizione a testimonianza di quell’omaggio a Roma da parte del vincitore di Cortenuova.

medioevo in guerra

81


chiesa contro impero della conquista, sterminò i soldati della Lega dopo averli inseguiti per chilometri. La fuga degli sconfitti, infatti, si era rivelata difficoltosa anche senza il peso del Carroccio a causa delle piogge novembrine che avevano trasformato il terreno in una palude quasi impraticabile e accresciuto, inoltre, il livello dell’Oglio. In molti caddero sotto i colpi degli imperiali, altri affogarono nelle acque gelide del fiume. Secondo stime approssimative, tra gli sconfitti i caduti furono quasi 5000, piú della metà dell’intero esercito. La minoranza superstite finí nelle mani nemiche e non si sa quanti sopravvissero alla prigionia. L’imperatore, però, commise un errore strategico che finí poi con il pagare: i suoi soldati, lanciati all’inseguimento dei fuggitivi, erano arrivati a pochi chilometri da Milano, in quel momento indifesa. Federico, insomma, poteva conquistare la capitale della Lega con il minimo sforzo, ma non diede l’ordine di farlo. Si accontentò del trionfo di Cortenuova, celebrandolo con grandi feste, in particolare con un fastoso corteo che si svolse a Cremona il 1° dicembre. Dopo aver messo pubblicamente alla berlina il comandante nemico sconfitto, Pietro Tiepolo, lo fece giustiziare, provocando la dura reazione della Repubblica di Venezia, dal momento che si trattava del figlio del doge.

I Comuni allo sbando

Con la vittoria di Cortenuova, Federico II riuscí ad assoggettare il Nord d’Italia, «vendicando» in modo simbolico la sconfitta patita dall’avo Barbarossa nella battaglia di Legnano. La Lega Lombarda subí un colpo durissimo e i suoi Comuni furono costretti alla resa totale o, nella migliore delle ipotesi, a strappare condizioni favorevoli di pace in accordi separati. Presto, però, la situazione politica si rovesciò. Certo di poter ripetere l’exploit del novembre 1237, l’imperatore cinse d’assedio senza successo Milano e Brescia, la cui resistenza galvanizzò di nuovo il fronte guelfo. Nel 1239 Federico si trovò a fronteggiare anche la «controffensiva» di papa Gregorio IX, il quale lo scomunicò per la seconda volta. Tra dissidi e riconciliazioni strategiche i rapporti del monarca con la Chiesa conobbero il loro punto piú basso con l’avvento di Innocenzo IV, il pontefice che ebbe il coraggio di deporre Federico nel 1245. Per il sovrano, sempre piú solo, arrivò anche la capitolazione sul campo, appena due anni dopo, prima a Parma e in seguito a Fossalta per mano dei guelfi bolognesi. Cortenuova era lontana e l’Italia del Nord si preparava a combattere nuovi nemici. 82

medioevo in guerra

Battaglia di Cortenuova

Battaglia di Montaperti di Francesco Troisi

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utto le divideva. Firenze era fieramente guelfa. Mentre Siena, con altrettanto orgoglio, si professava ghibellina. Rivaleggiavano poi sul piano commerciale, contendendosi prestigiosi mercati internazionali, oltre a quelli regionali. Queste tormentate relazioni conobbero il momento piú critico nel XIII secolo, in una sequenza di scontri che culminò a Montaperti, nel Senese, il 4 settembre 1260. A fronteggiarsi non furono, però, solo Siena e Firenze, ma coalizioni articolate. Gli alleati dei Fiorentini, per esempio, erano sicuramente piú numerosi: la Chiesa romana, Corradino di Svevia, Lucca, Bologna e Prato tra i Comuni piú rinomati. Per i Senesi, invece, parteggiavano il re di Sicilia Manfredi, Pisa, Arezzo e altre città. Il 18 maggio 1260 le truppe fiorentine si schierarono fuori Siena, pronte ad attaccare, ma vennero sorprese dalla sortita di un reparto di Tedeschi, che, secondo i cronisti di parte senese, riuscí a respingere gli assedianti. Stando alle testimonianze fiorentine, invece, i guelfi, dopo un iniziale sbandamento, si accorsero del numero esiguo degli avversari e contrattaccarono all’istante, riuscendo ad avere la meglio. I Senesi conquistarono quindi diverse cittadine sotto il controllo nemico, ma con l’afflusso di nuove truppe, inviate da Manfredi, gli obiettivi divennero piú ambiziosi. Nel mirino finí allora Montalcino, l’odiato borgo troppo amico di Firenze, che i ghibellini assediarono per giorni, riducendo la popolazione allo stremo. La situazione disperata di Montalcino allarmò i Fiorentini, che di nuovo si mobilitarono, allestendo una poderosa armata comprendente effettivi di altre città consorelle (come Bologna, Prato, Lucca, San Gimignano, Orvieto, Volterra e Colle Val d’Elsa) e il 2 settembre del 1260 si accamparono presso l’Arbia. Due giorni dopo i soldati senesi, usciti dalle mura, superarono il fiume nei pressi di Montaperti, per sbarrare la strada ai Fiorentini, in marcia verso Montalcino. Questi ultimi dovettero quindi accettare lo scontro nel luogo voluto dai Senesi. Secondo le ricostruzioni del Villani, gli effettivi guelfi sfioravano le 35 000 unità, tra i quali 30 000 fanti e circa 3000 cavalieri. Dalla parte ghibellina, invece, i numeri erano leggermente piú modesti: quasi 20 000 armati, tra cui 18 000 fanti e 1800 cavalieri, ripartiti in quattro divisioni. Le cifre, con tutta probabilità, risultano esagerate, come suggerito dal Libro di Montaperti, che parla di complessivi 15 000 soldati dalla parte guelfa. I ghibellini, numericamenti inferiori e costretti a combattere con il sole negli occhi, cercarono di sfondare lo schieramento avversario sull’ala destra, ma senza successo, mentre la terza divisione si schiantò contro il muro di scudi e corazze. I Fiorentini, preso il sopravvento, si convinsero di aver già vinto, ma nel pomeriggio gli equilibri furono rivoluzionati. Cosa era accaduto? Qualcuno aveva tradito. Gli infiltrati ghibellini tra le file


guelfe si erano, infatti, attivati all’improvviso, creando scompiglio nell’esercito in cui militavano. Il caos paralizzò gli effettivi fiorentini, molti dei quali, in preda al panico, preferirono dileguarsi. A quel punto, i Senesi attaccarono, preceduti da una pioggia di dardi lanciati dagli arcieri, e si avventarono sulla fanteria avversaria, dopo aver impedito alla cavalleria di ricomporsi. La prima divisione, poi, attaccò i nemici quasi alle spalle. La battaglia proseguí fino a notte e si concluse con lo sterminio dei soldati di Firenze.

Miniatura raffigurante il tradimento del ghibellino Razzante prima di Montaperti, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Il personaggio in questione, un oste fiorentino, riportò ai Senesi la notizia che Firenze aveva male organizzato le sue forze, inducendoli ad attaccare la citta del giglio.

medioevo in guerra

83


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A Massima estensione dell’impero mongolo (fine del XIII sec.)

un’orda contro

l’occidente

Agli inizi del XIII secolo, con l’avvento del temibile Gengis Khan, il regno tribale dei nomadi dell’Asia centro-orientale fece davvero tremare l’Europa. Per lunghi anni, nessuno sembrò capace di fermare le armate dell’«Imperatore degli Oceani» e dei suoi successori, capaci di dare vita a un impero tra i piú estesi e potenti della storia

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Miniatura di scuola persiana raffigurante guerrieri mongoli e cinesi che si affrontano nella battaglia dello Huan-erh-tsui, combattuta nel 1211 e conclusasi con la vittoria delle truppe di Gengis Khan, da un’edizione del Jami al-Tawarikh (Compendio delle storie), di Rashid ad-Din Fadl Allah Hamadani (12471318). 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Confederazione mongola sotto Gengis Khan (1206-27)

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BATTAGLIA DI HUAN-ERH-TSUI (1211) I Mongoli sconfiggono l’imperatore della dinastia Jin, Shao di Wei. BATTAGLIA DI SAMARCANDA (1220) Gengis Khan e il suo esercito mongolo espugnano la città, difesa da 100 000 Corasmi. BATTAGLIA DEL FIUME KALKA (1223) I Mongoli attaccano la Rus’ di Kiev e pongono le basi per la conquista finale.

Cambaluc (Pechino)

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BATTAGLIA DI KIEV (1240) Dopo una strenua resistenza, Kiev si arrende ai Mongoli. La città viene rasa al suolo.

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BATTAGLIA DI MOHI (1241) L’esercito del Regno d’Ungheria cerca di bloccare l’avanzata mongola verso Occidente, ma viene travolto.

CELEBES

NUOVA GUINEA

AUSTRALIA

BATTAGLIA DI RYAZAN (1237) Continua l’avanzata mongola in terra russa. Cade Ryazan.

BATTAGLIA DI LEGNICA (1241) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 86-94. BATTAGLIA DI KÖSE DAG (1243) I Mongoli si espandono nel Vicino Oriente e invadono il Sultanato di Rum. ASSEDIO DI BAGHDAD (1258) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 94-95. BATTAGLIA DI AYN JALUT (1260) Nel Vicino Oriente i Mongoli subiscono una controffensiva da parte dei Mamelucchi, in Palestina, e vengono sconfitti. BATTAGLIA DI HOMS (1281) I Mamelucchi d’Egitto attaccano con successo il khanato mongolo di Persia. BATTAGLIA DI WADI-AL-KHAZANDAR (1299) I Mongoli si riorganizzano, battono le truppe mamelucche e saccheggiano Damasco. BATTAGLIA DEL FIUME VOZHA (1378) I Russi del Granducato di Mosca riescono a prevalere sull’armata tataro-mongola. BATTAGLIA DI KULIKOVO (1380) L’esercito russo sconfigge di nuovo i Mongoli. Si pongono le basi per la fine della loro dominazione. BATTAGLIA DI MOSCA (1382) I tatari dell’Orda d’Oro assediano e saccheggiano la città. BATTAGLIA DEL FIUME VORSKLA (1399) Deciso a restaurare i fasti dell’impero mongolo, Tamerlano piega i Polacchi e i Lituani. BATTAGLIA DI ANGORA (1402) Tamerlano sconfigge un’armata che vede alleati Ottomani e forze serbe. BATTAGLIA DEL FIUME UGRA (1480) Definitiva sconfitta dei Tataro-Mongoli dell’Orda d’Oro nel territorio russo contro il gran duca Ivan III di Mosca, detto il Grande.


un’orda contro l’occidentE

Battaglia di Legnica

9 aprile 1241

dalla steppa con furore

di Francesco Troisi

I

l pericolo di un’invasione mongola terrorizzò per molti anni l’Europa, ma divenne una minaccia concreta solo in un breve periodo del Medioevo, alla metà del Duecento, con il successore di Gengis Khan, Ögödei. Il nuovo sovrano aveva pianificato una campagna militare senza precedenti: nel 1235, in un’assemblea generale (il quriltai), era stato deciso di sferrare un attacco non solo in Cina, in Corea e nel Vicino Oriente islamico, ma anche nell’Occidente cristiano. Dell’ambiziosa missione in terra europea venne investito uno dei nipoti di Ögödei, Batu (vedi box a p. 90), a cui fu assegnato un esercito collaudatissimo, che non ebbe difficoltà a espugnare in breve tempo le principali città della Russia e alcuni territori della Grande Bulgaria. Lo stesso destino toccò, poi, anche alla Polonia, nella quale gli uomini di Batu si trovarono di fronte, nell’aprile del 1241, una composita armata cristiana. Lo scontro epocale avvenne nei pressi di Legnica, a pochi chilometri dall’attuale confine tedesco. Mai i Mongoli si erano spinti cosí in profondità nel Vecchio Continente, praticamente a un passo dai domini del Sacro Romano Impero. Dopo la morte di Gengis Khan, nel 1227, l’impero mongolo aveva conservato una sorprendente compattezza. I numerosi figli del grande condottiero non erano entrati in rotta 86

medioevo in guerra

di collisione per contendersi il trono del padre e, a uno di loro, il terzogenito Ögödei, il quriltai conferí il titolo di capo supremo, concedendo, nel contempo, alcuni territori ai fratelli cosí da preservare la pace politica e l’armonia familiare. Al piú giovane, Tolui, spettò la Mongolia, mentre a Chagatai furono assegnate la Transoxiana (in gran parte situata negli odierni territori dell’Uzbekistan e del Kazakistan orientale) e la Kashgaria (il versante ovest della Cina). A Batu, il figlio del prematuramente scomparso primogenito di Gengis Khan – Iöci – fu invece affidato il Kazakistan occidentale. L’impero subí, solo in apparenza, una frammentazione: i vari Stati, infatti, rimanevano inglobati all’interno di un efficientissimo governo centrale, che non concedeva molto spazio alle autonomie.

I principati russi nel mirino

La missione in Occidente procedette a ondate, soprattutto nella Russia settentrionale. Dopo la conquista di alcuni territori in Bulgaria e nell’odierna Ucraina, l’esercito mongolo puntò verso i ricchi principati russi. Molte città caddero nelle mani degli invasori: Riazan, l’allora piccola Mosca, Kolomna, Pronsk, Galic, Pereslavl’, Rostov e Vlamidir, espugnata nel 1237. Gli uomini di Batu sorprendevano quasi sempre gli avversari, grazie alle incursioni fulminee della

La battaglia di Legnica in una miniatura tratta da un’edizione della Legenda maior de beata Hedwigi. 1353. Legnickie Pole, Museo della Battaglia di Legnica.


La battaglia che si combatté a Legnica segnò la massima penetrazione delle armate mongole nel cuore dell’Occidente europeo medioevo in guerra

87


un’orda contro l’occidentE

Battaglia di Legnica

l’imperatore degli oceani Gengis Khan – Imperatore degli Oceani – è il titolo onorifico attribuito al condottiero e khan mongolo Temujin (1162 circa-1227). La sua azione si inserisce nel processo in atto, alla fine del XII secolo, tra le tribú mongole che portò alla costituzione di uno Stato protofeudale. In tale contesto Gengis Khan riuscí, mantenendo il controllo sui clan assoggettati dal padre e avvalendosi dell’appoggio materno e della potente tribú a cui apparteneva la moglie Börte, a unificare le popolazioni mongole. Consolidato il proprio potere, fu in grado di assoggettare tutte le popolazioni dell’alta Mongolia; all’assemblea (quriltai) del 1206 venne proclamato khaqan, cioè «supremo khan» dei Mongoli e dei loro alleati. Sotto il dominio suo e della sua famiglia, oltre a svilupparsi lo Stato protofeudale mongolo, si rafforzò la supremazia dell’aristocrazia sulle masse di allevatori

nomadi. Riorganizzato l’esercito, intraprese campagne di conquista verso i Paesi vicini, assoggettando il regno Hsi Hsia, gli Jurcin, fondatori della dinastia cinese Chin (1211), e poi Pechino (1215). Di qui Gengis Khan mosse verso il regno dei Qara Kitai e poi contro la Corasmia (o Khwarizm); passò poi in Transoxiana, prendendo Buhara e Samarcanda, che subirono immani devastazioni (1220), mentre i suoi generali penetravano nella Russia meridionale e suo figlio conquistava il Khorasan. Nel 1222 Gengis Khan invase l’Afghanistan. Tornato in Mongolia nel 1225, l’anno successivo intraprese una nuova spedizione contro il regno Hsi Hsia, e morí mentre assediava Ningsia. Sotto il suo regno fu emanato un rigidissimo corpo di leggi, a un tempo codice civile, penale e militare per i sudditi dell’impero, e fu introdotto l’uso della scrittura uigurica.

cavalleria leggera, potendo inoltre contare sulla micidiale precisione degli arcieri. Spesso utilizzavano gli abitanti delle campagne come «scudi umani» nella loro marcia di avvicinamento alle mura delle città e, una volta preso il borgo, sterminavano gran parte della popolazione, lasciando dietro di sé solo un cumulo di macerie. Il bagno di sangue in Russia risparmiò solo Novgorod, il principato piú a nord: il rapido disgelo primaverile e il terreno paludoso avevano impedito ai Mongoli un’agevole marcia nelle foreste intorno alla città. Per un breve periodo le armi tacquero. Poi, nel 1240, Batu, con l’ausilio delle truppe di Möngke (il figlio di Tolui ), dilagò nella Russia meridionale, conquistando Cernihiv e Kiev. La grande capitale, che era stata a lungo amministrata dai Variaghi di origine scandinava, fu rasa al suolo dopo settimane di eroica resistenza. A distanza di sei anni – raccontò il cronista italiano Giovan-

ni da Pian del Carmine – si potevano ancora rintracciare i segni di quella terribile strage: teschi e ossa erano ben visibili nelle strade di Kiev.

Verso l’Ungheria

I Mongoli, chiamati anche Tartari in Occidente, non si accontentarono del bottino di conquiste raggiunto e decisero di proseguire l’espansione insidiando l’Ungheria, un regno in cui avevano trovato accoglienza molti esuli in fuga dalle incursioni delle armate di Batu e di Möngke. Di quella massa di profughi facevano parte ben 200 000 Cumani (una popolazione di origine turca stanziatasi in alcuni territori a nord del Mar Caspio e del Mar Nero), che i Mongoli consideravano loro sudditi. Proprio la buona accoglienza riservata dal sovrano ungherese Bela IV ai Cumani indispettí Batu, che pretese la consegna di tutti i fuggiaschi. Al rifiuto del monarca, il condottiero mon-

Le date da ricordare 1206. Mongolia. Temujin viene eletto imperatore al Campo di Maggio con il nome di Gengis Khan (Imperatore degli Oceani).

1208. Sottomissione ai Mongoli dei popoli della taiga siberiana.

1207. Mongolia. Gengis Khan acquisisce il controllo dei territori e delle popolazioni degli Oirati, Kirghizi, Uiguri e Tibetani.

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medioevo in guerra

1218. Gengis Khan annienta il regno dei Qara Qitai, designa il terzogenito Ögödei suo successore e stabilisce la capitale a Karakorum. 1219. Incursioni di Gengis Khan contro i regni islamici del Medio Oriente.

1221. I Mongoli conquistano la Corasmia, Samarcanda, Bukara, Armenia e Georgia.

18 agosto 1227. Morte di Gengis Khan in seguito a una caduta da cavallo durante la fase finale della conquista dell’impero Hsi Hsia.

1223. La cavalleria mongola conquista il Khorasan (Persia), si dirige verso l’Europa e, nel 1224, raggiunge le frontiere settentrionali dell’India. Vittoria dei Mongoli (chiamati Tartari in Occidente) nella battaglia sul fiume Kalka.


1229. Ögödei viene eletto gran khan e prosegue nella politica espansionistica del padre, inviando un esercito nei territori corrispondenti all’odierno Iran.

1241. Trattato di pace tra Corea e Mongoli. Morte di Ögödei Khan: la vedova, Töregene Khatun, assume la reggenza. L’esercito mongolo invade l’Ungheria e mette a ferro e fuoco la Polonia.

1236. Mongolia. Prima emissione di cartamoneta. 1231. Corea. Invasione dei Mongoli capeggiati da Ögödei.

1242. Batu, sconfitto nella successione a Ögödei, dà vita al khanato di Qipciaq o dell’Orda d’Oro (Russia meridionale), con capitale a Saraj; battaglia del lago ghiacciato (5 aprile).

9 aprile 1241. Battaglia di Legnica. Re Bela d’Ungheria è inseguito fino all’Adriatico. L’11 dicembre la notizia della morte di Ögödei arresta la grande campagna militare e l’esercito mongolo si ritira.

In alto miniatura raffigurante Gengis Khan in un giardino, al riparo di un ombrello parasole; gli sono accanto due dei suoi quattro figli. 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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un’orda contro l’occidentE

Battaglia di Legnica

il trionfatore di legnica Figlio secondogenito di Iöci e nipote di Gengis Khan, Batu condusse, dopo la morte di questi, una campagna di conquiste nell’Europa orientale (1236-41) durante la quale, alla testa dell’Orda d’Oro, invase vari principati russi e l’Ungheria, spingendosi fino nella Bassa Slesia, dove sconfisse Enrico II duca di Slesia nella battaglia di Legnica. Al termine della spedizione, sopraffatta la resistenza delle popolazioni locali, fondò il khanato di Qipciaq o dell’Orda d’Oro (Russia meridionale) che, con capitale a Saraj, sul Volga, tenne poi la Russia sotto il dominio mongolo fino alla fine del XIV secolo.

golo scelse di attaccare e, servendosi dello stratega Subedei, elaborò un piano di invasione assai dettagliato. L’operazione prevedeva un’incursione attraverso la catena dei Carpazi da est, che sarebbe stata affiancata dall’attacco alla Polonia, cosí da impedire a quest’ultima di muovere da nord in aiuto dell’Ungheria. Sulla carta l’operazione si presentava relativamente agevole, vista la fragilità politica di entrambi i regni entrati nel mirino di Batu. La Polonia, all’indomani della morte del re Boleslao III Boccastorta nel 1138, risultava divisa in cinque principati che, nel XIII secolo, erano divenuti ancora piú numerosi. E un simile indebolimento dell’unità territoriale rendeva improbabile la costituzione di una grande forza difensiva in grado di fermare gli invasori. Allo stesso modo in Ungheria il monarca Bela IV doveva fronteggiare una nobiltà ostile, che aveva ottenuto enormi poteri dal suo predecessore, Andrea II. Gli aristocratici, di fatto, erano i veri padroni del regno e si opposero al progetto di restaurazione del primato della corona attuato con decisione da Bela. Il braccio di ferro privò il sovrano del pieno appoggio militare da parte dei nobili, costringendolo a sperare in aiuti esterni per respingere la minaccia proveniente da est.

La Polonia a ferro e fuoco

Colti di sorpresa dall’arrivo dei Mongoli, i Polacchi non riuscirono a opporre un’adeguata resistenza. A guidare l’invasione non c’era Batu, impegnato insieme al fidato Subedei nell’attacco al territorio ungherese, ma altri tre nipoti di Gengis Khan: Orda, Baidar e Kadan. Al primo spettava il compito di mettere a ferro e fuoco la Polonia orientale, mentre gli altri due si sarebbero occupati dei territori a sud. Una dietro l’altra, caddero città importanti, da Lubin a Sandomierz, da Zawichost a Cracovia, conquistata nella Domenica delle Palme, il 24 marzo del 1241, dopo un lungo combattimento nei pressi di Chmielnik. Batu e i suoi strateghi 90

medioevo in guerra

avevano ordinato ai loro uomini di non attardarsi nei saccheggi e nella distruzione dei borghi, ma di puntare subito a sud-ovest, passando nelle terre della Slesia, sulla quale regnava l’arciduca Enrico II il Pio. L’attraversamento di quel principato fu ostacolato dal fiume Oder, che i Mongoli dovettero attraversare su zattere di fortuna o addirittura a nuoto. Enrico non assistette inerme alle scorribande nelle sue città e radunò il maggior numero possibile di uomini, arruolando soldati anche dalla Moravia, dal vicino principato della Grande Polonia e dalla Germania. Il suo esercito si asserragliò nei pressi di Legnica e lí attese l’arrivo dei Mongoli che, giunti a Breslavia, avevano deciso di proseguire oltre, invece di cingere d’assedio la capitale della Slesia. Il 9 aprile l’alleanza cristiana si schierò sul campo di battaglia su quattro linee: la prima era occupata da soldati bavaresi; la seconda e la terza da cavalieri polacchi affiancati da alcuni appartenenti all’Ordine Teutonico; nella quarta, invece, trovarono posto Enrico con i suoi fedelissimi insieme a combattenti moravi, Templari


e Ospedalieri. Nonostante la discordanza di cifre, la maggioranza degli storici concorda sul fatto che i Mongoli fossero in lieve inferiorità numerica. Le stime ritenute piú attendibili attribuiscono alla loro armata tra i 10 000 e i 20 000 effettivi, mentre quella nemica poteva contare su 25 000 unità circa. Questa condizione sfavorevole avrebbe potuto rivelarsi infausta se all’esercito cristiano si fossero unite le 50 000 unità promesse da Venceslao di Boemia che, tuttavia, non giunsero mai a Legnica. I Mongoli, schierati anch’essi su quattro file, potevano comunque contare sul fatto che lo scontro stava per consumarsi su una pianura non paludosa, che appariva ideale per gli agili movimenti della loro cavalleria leggera.

Come il grano sotto la grandine

Le truppe di Enrico presero l’iniziativa e, inizialmente, riuscirono a far indietreggiare gli avversari. Poco dopo, però, i soldati dell’alleanza occidentale furono investiti da una fitta pioggia di frecce e caddero in tanti «come delicate spighe di grano rotte da chicchi di grandine»,

Sulle due pagine miniatura raffigurante l’esercito mongolo condotto da Batu Khan in battaglia presso il Danubio, dal Codice Francese 2623. XIV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

secondo il racconto del cronista polacco Jan Długosz (1415-1480). A quel punto l’arciduca diede ordine ad altre due linee di avanzare, garantendo loro un’adeguata copertura con un reparto di balestrieri. Di nuovo i Mongoli sembrarono trovarsi in difficoltà di fronte all’iniziativa nemica ma, assorbito il colpo, si riorganizzarono e respinsero l’assalto. Vista la sterilità degli attacchi, Enrico decise di far intervenire i suoi reparti migliori. I Mongoli fuggirono ancora, ma solo per attirare le milizie cristiane in una trappola: bruciando cataste di legna, infatti, i Tartari produssero una gigantesca nuvola di fumo, che rese impossibile la visuale agli avversari. Ciò che restava dell’esercito di Enrico perse l’orientamento e subí un improvviso contrattacco in seguito al quale venne, infine, sopraffatto e in gran parte sterminato. Non era la prima volta che i Mongoli usavano una tattica di apparente ripiegamento che poi si trasformava in fulminea controffensiva. Una strategia che, per essere efficace, necessitava di una perfetta organizzazione guidata dall’alto,

regina di russia Fondata da Batu Khan nel XIII secolo in seguito alla fusione dell’Orda Bianca con quella Blu, divenne presto uno degli Stati feudali mongoli piú potenti e, alla metà del Duecento, controllava una vasta zona della Russia e delle steppe asiatiche. Negli anni assunse sempre maggiore autonomia rispetto all’impero. Nel XIV secolo l’Orda visse il periodo di maggior splendore e cambiò la propria «religione di Stato» animista, adottando l’islamismo. Dal 1357, con la morte di uno dei khan piú potenti, Giani Bek, cominciò il rapido declino in contemporanea con l’ascesa politica di Polonia e Lituania, che strapparono all’Orda alcuni territori intorno al fiume Dnepr. Anche in Russia il grande khanato perse importanti territori e subí una cocente sconfitta nel 1380 a Kulikovo. La fine del dominio sulla Russia fu poi sancita, nel 1480, da un altro storico scontro militare, avvenuto sul fiume Ugra. L’Orda d’Oro, funestata anche da conflitti interni, viveva già da tempo una grave crisi politica e si trovò frammentata in diversi khanati (Siberia, Kazan, Astrakan, Qasim, Crimea, Nogdai), quasi tutti, in seguito, conquistati dal granducato di Moscovia di Ivan IV il Terribile.

medioevo in guerra

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un’orda contro l’occidentE

Battaglia di Legnica

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le fasi della battaglia

I cavalieri-arcieri mongoli bersagliano la cavalleria cristiana

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Enrico

Legnica

lo schieramento iniziale Secondo le stime piú attendibili, i Mongoli potevano

lo sbandamento simulato

una prima fase, i Mongoli lasciarono avanzare le truppe In di Enrico, fingendo uno sbandamento, per poi colpirle con una pioggia di frecce che ne fece strage.

C m ont in ad at in or i i

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contare tra i 10 000 e 20 000 effettivi, mentre 25 000 erano quelli delle forze guidate da Enrico II di Slesia.

Legnica

Legnica

nuove forze in campo

quel punto, Enrico decise di far intervenire altri due A contingenti, ai quali Batu rispose, mobilitando altrettanti reparti del suo esercito.

Il fumo dei fuochi appiccati dai Mongoli circonda le cavallerie cristiane disorientandole

Legnica

fumo per disorientare il nemico

I Mongoli finsero quindi di ritirarsi, poi, a un segnale convenuto, appiccarono il fuoco a cataste di legna, il cui fumo impedí la visuale al nemico, disorientandolo.

contrattacco vincente

co E n nr di i ca ico Sle val sia ier i

uomini di Batu Khan approfittarono dello Gli sbandamento degli avversari e passarono al contrattacco, infliggendo loro perdite pesantissime. la disfatta finale

Nonostante la situazione disperata, Enrico II tentò un ultimo contrattacco con i pochi cavalieri che gli erano rimasti, ma venne sopraffatto, cadendo egli stesso.

Legnica

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medioevo in guerra


Cavalieri-arcieri mongoli Cavalleria leggera mongola Cavallerie cristiane Fanterie leggere

grazie a un sistema di comunicazione a distanza attraverso le bandiere. Nonostante la disfatta, Enrico tentò un’ultima impossibile incursione tra le fila nemiche spalleggiato da un manipolo di cavalieri. Riuscí a percorrere solo un breve tragitto e quasi subito si trovò circondato dai soldati mongoli che lo trafissero con un colpo di lancia. L’arciduca fu poi decapitato e la sua testa venne conficcata su un alto palo per renderla visibile ai pochi polacchi che ancora resistevano asserragliati all’interno delle mura di Legnica.

Anche l’Ungheria capitola A destra disegno ricostruttivo di due cavalieri dell’esercito mongolo, con l’equipaggiamento che possiamo immaginare tipico del periodo in cui si combatté la battaglia di Legnica.

I Mongoli vittoriosi in Polonia proseguirono presto l’avanzata verso sud, in Ungheria, congiungendosi con le divisioni di Batu, che era all’opera da tempo e stava già puntando verso la capitale Pest. Il re ungherese Bela con il suo esercito non poté frenare l’ondata di invasori che provenivano da diverse direzioni e, dopo essere stato sconfitto a Mohi, fuggí in Croazia. I Mongoli poterono quindi entrare a Pest e impossessarsi di fatto del regno. Batu e i suoi si concessero una nuova pausa prima di ulteriori incursioni ancora piú a Occidente,

in Austria, per esempio, o in Germania. Bela ne approfittò per cercare alleati grazie ai quali riprendere il suo regno. E dal suo nuovo quartier generale sulle coste dalmate, cercò di sensibilizzare anche il papa, Gregorio IX, sull’opportunità di una crociata contro i Mongoli. In precedenza il pontefice, impegnato nella guerra politica contro Federico II, non aveva considerato quella minaccia proveniente da est come una priorità, ma dopo Legnica, cambiò idea. Ormai, però, era troppo tardi: con la morte di Gregorio IX, nell’estate del 1241, e la prematura scomparsa (dopo pochi giorni dall’elezione) del suo successore Celestino IV, la Chiesa rimase senza guida per due anni, e non poté, pertanto, portare a compimento il progetto di crociata contro la minaccia tartara. Anche l’Ordine Teutonico non forní un valido appoggio a Bela, preferendo destinare gran parte dei propri sforzi all’infausta missione in terra russa contro i Novgorodiani di Aleksandr Nevskij, dai quali fu sgominato nella battaglia del Lago Ghiacciato del 1242. Quel che l’Europa temeva stava già accadendo: Batu, a caccia del fuggiasco Bela, aveva invaso la Croazia, distruggendo Zagabria, e si era poi in-

Legnica

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un’orda contro l’occidentE

Assedio di Baghdad di Francesco Troisi

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Quartiere di Kark

Quartiere della Porta di Bosra

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Quartiere cristiano

A destra miniatura raffigurante Baghdad assediata dai Mongoli, da una edizione del Jami al-Tawarikh (Compendio delle storie), di Rashid ad-Din Fadl Allah Hamadani (12471318). 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Porta del Sultano

Mura di al Mu

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sinuato fin quasi sulle coste dell’Adriatico, minacciando anche Spalato. Non si è mai saputo quali fossero le reali intenzioni del khan: intendeva davvero sferrare un attacco al cuore dell’Occidente? O l’Ungheria rappresentava l’ultimo confine oltre il quale la volontà di potenza mongola non osava spingersi? Alla fine, l’Europa centrale non corse alcun rischio concreto. Nel dicembre del 1241 Batu ricevette la notizia della morte del gran khan Ögödei, all’indomani della quale nella capitale mongola di Karakorum si era accesa la lotta per la successione. Batu, che coltivava ambizioni di potere, tornò subito in patria per partecipare all’assemblea generale chiamata a eleggere il nuovo capo supremo. La conseguente battaglia politica interna incrinò i rapporti tra i discendenti di Gengis Khan e incise in senso negativo sulle missioni militari ancora in atto. Lentamente, perciò, i Mongoli si ritirarono dall’Europa orientale, abbandonando le regioni danubiane, Pest e la Polonia. In seguito Batu, sconfitto nella corsa alla successione di Ögödei, si accontentò di amministrare i domini occidentali, che si erano ridotti ai principati della Russia. Governò, con un ampio margine d’autonomia, il potente khanato dell’Orda d’Oro e ne stabilí la capitale a Saraj (a nord dell’odierna Astrakan).

Battaglia di Legnica

Area del palazzo

Porta di Mezzo

Il popolo che salvò l’Europa

Nonostante la vittoria, Legnica aveva quindi costituito l’ultimo atto dei tentativi di espansione mongola in Occidente. Alcuni storici di nazionalità polacca scrissero che i Tartari non si erano ritirati per problemi interni, ma perché provati dalle durissime battaglie del 1241. Non a caso, ancora oggi, in Polonia si festeggia l’anniversario dello scontro di Legnica, interpretando la sconfitta come il sacrificio di un popolo che salvò l’Europa. In Occidente anche Federico II si rese conto del rischio corso e, nel 1243, si convinse dell’opportunità di lanciare una grande operazione militare contro i Mongoli, temendo che presto sarebbero tornati a insidiare i territori del Sacro Romano Impero. La sua iniziativa, però, non ebbe seguito anche per la diffidenza di alcuni regnanti europei, forse influenzati dalla diceria che circolava negli ambienti papali secondo la quale proprio l’imperatore aveva spinto i Tartari all’attacco contro l’Occidente cristiano. I Mongoli non tornarono piú, se non per compiere qualche sporadica incursione (in Polonia nel 1259 e nel 1287) e divennero in alcuni frangenti anche potenziali alleati della cristianità in funzione anti-islamica. 94

medioevo in guerra

Torre dei Persiani Porta di Basaliyah

N

Porta dell’Ippodromo

Area in cui si concentra il più pesante attacco mongolo

el XIII secolo i Mongoli miravano a conquistare il potente califfato di Baghdad. E il piano prese forma, nel quadro di un piú ampio disegno espansionistico, con l’avvento del gran khan Munke. Il comando della missione fu affidato a Hulagu, fratello di Munke, il quale partí alla volta del Vicino Oriente con un esercito di ben 120 000 unità, composto perlopiú da Mongoli e Turchi, e di cui faceva parte anche un reparto di arcieri cinesi. La lunga fase preparatoria dell’assalto a Baghdad prevedeva, innanzitutto, il rastrellamento degli affiliati alla setta degli «Assassini», temibili musulmani ismaeliti che, si diceva, potessero contare su un sistema difensivo di 360 fortezze.


La loro presenza rappresentava una minaccia per chiunque si fosse avventurato nel Vicino Oriente con velleità di conquista. Ridotta all’impotenza la setta ismaelita, i Mongoli poterono quindi attaccare la capitale del califfato, i cui vertici, informati del pericolo ormai alle porte, dibatterono a lungo su come fronteggiare l’offensiva. Il capo al-Musta’sim, si affidò ai pareri di due consiglieri, che gli espressero indicazioni opposte: il suo gran visir, Muwaiyad ad-Din, lo spinse a cercare una trattativa, mentre il segretario Aibeg cercò di persuaderlo a seguire la linea dura. Il califfo optò per la prima opzione, dispose il taglio delle spese militari e offrí ai Mongoli i danari risparmiati come tributo per scongiurare l’assedio. Ma la somma, seppur ingente, fu ritenuta insufficiente da Hulagu, il quale si dichiarò disposto a rinunciare all’assedio solo se al-Musta’sim gli avesse consegnato il controllo della città. Da Baghdad giunse un rifiuto sdegnato e la minaccia di una chiamata alle armi per l’intero mondo islamico. Lo scontro si profilava inevitabile e con un esito scontato: le forze mongole erano infatti numericamente superiori a quelle del califfato, che poteva contare su circa 80 000 soldati. Verso la fine del 1257 l’armata mongola partí da Hamadan, nell’odierno Iran nord-occidentale, e si divise in tre reparti. Il primo, comandato da Hulagu, proseguí verso Baghdad attraverso il borgo di Kermanshah. Bayju con i sopraggiunti soldati dell’Orda d’Oro e Kitbuqa, con i suoi fedeli nestoriani, invece, seguirono percorsi laterali. Nel frattempo si era mosso anche l’esercito di Baghdad,

guidato da Aibeg, deciso a scontrarsi frontalmente con le milizie di Hulagu. L’approssimarsi del contingente dell’Orda d’Oro di Bayju da ovest, però, fece cambiare strategia al segretario del califfo, che attraversò il Tigri e, il 16 gennaio del 1258, riuscí a raggiungere le truppe di Bayju ad Anbar, non lontano da Baghdad. All’inizio la battaglia premiò le iniziative dei musulmani, i cui rapidi assalti costrinsero gli avversari alla fuga. Ma, con tutta probabilità, non si trattò di una vera e propria ritirata: l’ala destra dell’armata mongola, ripiegando in gran fretta, voleva attirare gli islamici su un territorio insidioso. Bayju aveva scorto alcune impervie zone paludose, a ridosso del vicino Eufrate e, per renderle ancor piú impraticabili, fece abbattere le dighe che sbarravano le acque di un lago. Poi, con una controffensiva improvvisa, spinse i nemici nei terreni inondati, chiudendoli in una trappola mortale. Il 18 gennaio il consistente reparto guidato da Hulagu raggiunse le mura di Baghdad e diede il via all’assedio. Il 10 febbraio, dopo gli intensi attacchi delle macchine ossidionali, le mura cedettero e quello stesso giorno il califfo si consegnò al nemico. La resa non evitò il bagno di sangue che coinvolse quasi tutti i soldati e i comandanti cittadini. Solo al-Musta’sim venne graziato, perché era l’unico in grado di fornire notizie sull’ubicazione delle leggendarie ricchezze accumulate per secoli nella città sul Tigri. Una volta trovato il tesoro, i Mongoli trucidarono anche il califfo.

medioevo in guerra

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Ischia Isch Is chia ia Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Clemente IV che incorona Carlo I d’Angiò, da un’edizione manoscritta francese della Vita degli uomini illustri. XV sec. Ginevra, Bibliotheque Publique et Universitaire.

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Brindisi Brin B Br Bri rin indi ndi disi disi LLecce Le ccce Nardò N Na arrd dò

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Sicilia (Trinacria) dal 1282 agli Aragonesi

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svevi, angioini, aragonesi

Tra Due e Trecento, i territori dell’Italia centro-meridionale furono a piú riprese teatro di scontri sanguinosi, di cui furono protagonisti gli eserciti delle grandi casate regnanti europee, ma che, naturalmente, coinvolsero le popolazioni locali. Le quali, comunque, videro sempre sacrificata, sull’altare degli altrui «interessi nazionali», la propria indipendenza

Battaglie

BATTAGLIA DI BENEVENTO (1266) Resa dei conti tra Svevi e Angioini per il dominio sul regno di Sicilia. A Benevento le forze francesi prevalgono su quelle germaniche.

BATTAGLIA DEL TORDINO O DI SAN FLAVIANO (1460) Nelle Marche Angioini e Aragonesi si scontrano in una delle battaglie piú cruente del XV secolo.

BATTAGLIA DI TAGLIACOZZO (1268) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 98-106.

BATTAGLIA DI ISCHIA (1465) La flotta aragonese prevale ancora una volta nelle acque dell’isola campana.

ASSEDIO DI CENTURIPE (1270) Gli Angioini assediano gli Svevi nei pressi di Enna e li annientano. ASSEDIO DI MESSINA (1282) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 106-107. BATTAGLIA DI MALTA (1283) Gli Aragonesi conquistano Malta dopo una battaglia navale contro la flotta del regno angioino di Napoli. BATTAGLIA DEL GOLFO DI NAPOLI (1284) Gli Angioini di Napoli subiscono l’attacco degli Aragonesi al largo di Castellammare di Stabia. BATTAGLIA DEI CONTI (1287) Nuovo scontro navale al largo di Castellammare che vede prevalere gli Aragonesi sugli Angioini. BATTAGLIA DI CAPO D’ORLANDO (1299) Ennesima affermazione militare aragonese in Sicilia in una battaglia navale. BATTAGLIA DI FALCONARA (1299) Le truppe del regno di Trinacria sconfiggono l’esercito del regno angioino di Napoli.


svevi, angioini, aragonesi

Battaglia di Tagliacozzo

23 agosto 1268

crepuscolo svevo

di Federico Canaccini

L

o scontro tra Svevi e Angioini, iniziato nel 1265 con la nomina pontificia di Carlo I a re di Sicilia, al posto di Manfredi, ebbe il suo epilogo nella battaglia dei Piani Palentini, meglio nota come di Tagliacozzo. Già Manfredi, che aveva quasi usurpato il trono a Corradino di Svevia, era stato sconfitto dall’angioino a Benevento nel 1266, morendo in battaglia. Nell’estate del 1268 il sogno di Corradino di recuperare il regno, usurpatogli prima da Manfredi, poi da Carlo I, sembrava a portata di mano. Soprattutto, la vittoria riportata poco prima a Ponte a Valle (presso Arezzo, 25 giugno 1268) contro l’avanguardia angioina aveva rassicurato l’esercito svevo. A Siena, l’impressione suscitata dalla fulminea vittoria sulle truppe di Carlo fu tale che, ogniqualvolta si doveva nominarlo negli atti ufficiali, il re angioino, allora detto Carlone, fu registrato, in segno di scherno, con il nome di Ciarlone. Allarmato dalla sconfitta di Ponte a Valle, papa Clemente IV fece giungere armati da Assisi e Perugia nel suo palazzo di Viterbo, dove temeva un’incursione. Dopo la metà di luglio Corradino lasciò Siena con il suo esercito, le cui fila erano state ingrossate dalla cavalleria locale e dalle milizie tedesche stipendiate sempre dai Senesi. Certamente papa Clemente poté vedere le schiere ghibelline attraversare la piana di Toscanella dalle mura

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medioevo in guerra

di Viterbo e avrebbe affermato – riferendosi a Corradino – che l’agnello condotto al macello, sarebbe passato come il fumo. Percorrendo la Cassia, l’esercito raggiunse Roma, mentre presso le coste laziali gettava l’ancora una flotta pisana di 24 galere, capitanata da Guido Bocci.

In marcia contro il nemico

Solo alla fine di luglio Carlo decise di abbandonare l’assedio di Lucera (vedi box a p. 101), roccaforte saracena ribellatasi al sovrano angioino, per andare incontro al rivale, attendendolo ai confini del regno. Cosí facendo, sperava di evitare il congiungimento dell’esercito nemico con le truppe della Puglia. Dal 4 agosto Carlo aveva sistemato il proprio esercito non lontano dalla piana di Scurcola (presso L’Aquila), dove tre settimane piú tardi colse la vittoria. La scelta di portarsi a Scurcola era motivata dalla certezza che Corradino avrebbe percorso la via degli Abruzzi, giacché l’altra via d’accesso al regno, quella per la Campania, era difesa da una guarnigione lasciata a presidio sul ponte di Ceprano. Cosí Carlo costrinse il nemico a passare per i Piani Palentini, che furono fatali all’ultimo degli Hohenstaufen. Corradino si trattenne a Roma fino al 10 agosto, quando, uscito probabilmente dalla porta Tiburtina, si diresse verso gli Abruzzi. Passata Ti-


Particolare di una vignetta raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, (vedi anche a p. 100), da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana.

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svevi, angioini, aragonesi

voli, l’esercito raggiunse Vicovaro, dove fu ospite degli Orsini. Di lí Corradino, con pochi intimi, marciò fino all’inaccessibile castello di Saracinesco, ove salutò la figlia di Galvano Lancia, andata in sposa a Corrado d’Antiochia. L’itinerario passò quindi per Arsoli, dove la fanteria romana si separò dal resto della truppa per far ritorno a Roma. Corradino, invece, entrò nel regno attraverso la regione del Cicolano, dove trovò l’appoggio di alcuni dei conti di Mareri, signori del luogo, nella speranza di scendere lungo la Marsica per giungere a Sulmona. Finalmente, il 21 o il 22 agosto, Corradino giunse in vista dei Piani Palentini, ove pose il suo accampamento dopo essere stato informato che l’esercito di Carlo era poco lontano. Le tende furono piantate sulla riva sinistra del fiume Salto, un torrente di modesta portata, ma dalle rive scoscese e che allora doveva essere fiancheggiato da alta vegetazione. Comunque, essendo d’agosto, il fosso doveva essere povero d’acqua.

Spiando le mosse nemiche

Abbandonato l’assedio di Lucera, Carlo d’Angiò si diresse verso i confini settentrionali del regno, per fronteggiare il suo antagonista. Fece una prima sosta all’Aquila, per sincerarsi della fedeltà di quella città e rifornire di vettovaglie e foraggio il proprio esercito. Per tre giorni e tre notti, da domenica 19 a martedí 21, Carlo spiò gli spostamenti del proprio avversario, che cercava un valico per poter superare di nascosto i monti e congiungersi con il Mezzogiorno. Infine, anche il re angioino stabilí le proprie tende presso i Piani Palentini. Poco lontano, due mi100

medioevo in guerra

Battaglia di Tagliacozzo

In alto la vignetta raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. A sinistra, nascosti dietro al colle, sono gli 800 cavalieri scelti di Alardo di Valéry; al centro è Corradino che, con i suoi uomini, si lancia all’inseguimento degli Angioini, che simulano la fuga. A destra i resti delle mura di Lucera, fatte edificare da Carlo I d’AngiòNella pagina accanto Pernes les Fontaines, Tour Ferrande. Carlo I d’Angiò consegna l’investitura di un feudo a un nobile, particolare di un affresco del ciclo che narra la storia della conquista della Sicilia per opera del sovrano. XIII sec.


la città degli arcieri e dei frombolieri Quando Federico II ereditò il regno dalla madre Costanza d’Altavilla, in Sicilia vivevano ancora numerosi gruppi di Ebrei, Greci, Arabi, Berberi e Persiani. Nel 1220, dopo alcune insurrezioni, l’imperatore decise di trasferire sulla terraferma circa 20 000 musulmani, deportandoli dapprima a Lucera, Girifalco e Acerenza. Dopo l’ennesimo tentativo di riattraversare lo stretto per tornare nell’isola natía, Federico, nel 1239, li deportò tutti nella sola Lucera. La città ospitava una moschea principale (jami), alcune scuole per lo studio del Corano, e almeno un qadi, un giudice incaricato di risolvere le frequenti controversie tra cristiani e musulmani. È stato stimato che la popolazione della cittadina pugliese avesse raggiunto le 60 000 unità, di cui almeno un sesto impiegato dall’imperatore sui campi di battaglia. Erano famosi gli arcieri e i frombolieri, utilizzati sia da Federico, sia da Manfredi e Corradino. Perfino Carlo d’Angiò, che li aveva deprecati e assimilati a emissari del diavolo, perché non cristiani, se ne serví in Albania, con il tacito accordo del papa, che aveva invece scomunicato gli Svevi per via dei rapporti amichevoli stabiliti con i musulmani!

glia appena, erano accampati, ai piedi del monte Carce, i ghibellini di Corradino. All’alba del 23 agosto del 1268, gli eserciti rivali si schierarono per la battaglia. Si decideva dunque con le armi chi avrebbe regnato sul trono di Sicilia. Da un lato l’Angiò era deciso a mantenere fermamente il regno, conquistato a Benevento appena due anni prima. Dall’altro, però, Corradino rivendicava come proprio il regno di Sicilia, usurpatogli prima da Manfredi, e ora da Carlo, col benestare del pontefice. Teatro dello scontro fu dunque la valle dei Piani Palentini, poco lontano dal lago del Fucino.

Agli ordini del maresciallo Kropf

Corradino fece sistemare l’esercito, oltre 5000 uomini, confidando nella perizia militare del vecchio maresciallo Konrad Kropf von Flüglingen. La prima schiera era costituita dai molti cavalieri tedeschi capitanati dallo stesso Kropf e dalle truppe ghibelline toscane, con il conte Donoratico in testa. Poco lontano vi era la seconda schiera, formata dagli Spagnoli di Enrico medioevo in guerra

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svevi, angioini, aragonesi

Battaglia di Tagliacozzo

le fasi della battaglia al di là e al di qua del ponte

Carlo D’Angiò

Entrambi gli eserciti si trovavano dinnanzi al ponte sul fiume Salto, senza decidersi ad attraversarlo. Trovato un valico piú a monte, Enrico di Castiglia e i suoi 300 Spagnoli accerchiano il nemico, attaccando i Francesi sui fianchi e sul retro.

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la razzia Credendosi vittoriosi, i soldati di Corradino si abbandonano al saccheggio dei nemici caduti, arrivando a togliersi le armature. Enrico di Castiglia dirige i suoi Spagnoli verso l’accampamento di Carlo, sempre con l’intento di darsi alla razzia.

la sortita di carlo Carlo e i suoi 800 uomini scelti nascosti dietro al colle piombano sui nemici. Superiori per numero, gli Svevi sembrano in grado di resistere, ma quando si passa ai combattimenti individuali i cavalieri angioini ribaltano l’esito della battaglia.

la finta ritirata angioina L’esercito di Corradino attraversa il ponte, travolgendo la prima schiera nemica e annientando in poche ore i due terzi delle truppe di Carlo I. Enrico di Castiglia uccide il maresciallo Enrico di Cousance, sostituitosi a Carlo indossandone i paramenti reali. Le truppe angioine fingono quindi la ritirata.

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la mossa decisiva

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Enrico di Castiglia fronteggia le truppe di Carlo, arrivando quasi al punto di forzare le schiere. Alardo di Valéry finge allora la ritirata, si lascia inseguire dagli Spagnoli e, superato il colle, li affronta e li batte: la vittoria angioina è definitiva.


di Castiglia (vedi box a p. 105), e dai cavalieri provenienti da Roma, di cui Enrico era Senatore. L’ultima schiera infine, composta da cavalieri tedeschi e dalle milizie lombarde guidate dal marchese Pelavicino, era capitanata da Corradino e Federico di Baden. Di contro, l’Angioino affidò la sistemazione delle sue truppe, inferiori per numero a quelle dello svevo, all’anziano cavaliere Alardo di Valéry. A lui le cronache attribuiscono il ruolo di capo di stato maggiore e l’ideazione della tattica dell’agguato, probabilmente appresa in Terra Santa, da cui era recentemente ritornato. La prima linea era composta da contingenti italiani e provenzali e fu affidata a Enrico di Cousance. Questi si offrí di vestire le insegne reali, per sviare l’avversario: l’inganno riuscí, ma Enrico pagò con la vita questo gesto. La seconda schiera, composta interamente da Francesi, era piú potente della prima, ed era comandata da Jean de Clary e da Guglielmo Stendardo, scampato tre mesi prima alla tragedia di Ponte a Valle.

Aspettando il momento propizio

Carlo infine si trovava con 800 cavalieri scelti assieme al «vecchio Alardo», come ricorda Dante (vedi box in questa pagina), riparato dietro un colle, in attesa di cogliere l’istante propizio per capovolgere le sorti di quella che sembrava una sconfitta annunciata. Infatti, le forze in campo erano numericamente a favore del giovane svevo. Là dove con la forza non si poteva riuscire, ci si affidò perciò alla Vergine Maria… ma, soprattutto, all’astuzia. Primo obiettivo dei contendenti fu un ponte protetto da un fortilizio. Tuttavia, prima di attra-

vincere senz’armi Nelle battaglie medievali vennero spesso adottate tattiche sleali o stratagemmi che non rientravano nella prassi cavalleresca. Per esempio, a Benevento, nel 1266, re Manfredi vestí le insegne di un suo comandante, cosí come fece Carlo I due anni piú tardi a Tagliacozzo e il vescovo Guglielmo degli Ubertini a Campaldino nel 1289. Ma veri e propri comportamenti poco cavallereschi furono l’uso di tagliare i garretti dei cavalli tedeschi a Benevento, o quello di sbudellare da sotto le cavalcature guelfe a Campaldino. I Normanni, a Hastings, nel 1066, ingannarono la cavalleria sassone, fingendo una ritirata, cosí come Enrico di Castiglia fu ingannato dagli Angioini. Ma, piú delle altre, la tattica usata dal vecchio Alardo, quella di nascondere parte delle truppe sino a battaglia conclusa, appresa probabilmente in Terra Santa, doveva essere ancora pressoché ignota in Occidente. Su questo modo di risolvere una contesa, il rimprovero dantesco prova come simili modalità non fossero ancora patrimonio comune: «là da Tagliacozzo ove, senz’armi vinse il vecchio Alardo!» (Inferno, XXVIII, 17-18).

In alto ancora una vignetta dalla Nuova cronica di Giovanni Villani. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. In questo caso viene illustrato il tranello teso da alcuni baroni angioini a Corradino di Svevia, al quale furono inviati falsi ambasciatori con le chiavi della città dell’Aquila, in segno di resa.

versare il fosso che, seppur in secca, doveva avere rive piuttosto scoscese, entrambi gli eserciti sostarono dinnanzi al ponte: i Tedeschi per paura di scompaginarsi nell’intraprendere l’attraversamento; i Francesi perché forse volevano cogliere il nemico quando era piú vulnerabile. Ma Enrico di Castiglia, trovato un varco piú a monte sorprese coi suoi 300 Spagnoli le truppe dell’Angioino, accerchiandole. Al grido di vendetta da parte del Castigliano, le truppe si lanciarono al galoppo contro i fianchi e il retro delle schiere francesi, tagliando la via d’uscita che li avrebbe potuti indirizzare verso Carlo e le riserve, nascoste dietro il colle. medioevo in guerra

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Napoli, basilica di S. Maria del Carmine Maggiore. Monumento a Corradino di Svevia, da un modello di Bertel Thorvaldsen, XIX sec.

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A questo punto le truppe angioine e guelfe, impegnate sul fianco e nelle retrovie, furono travolte anche frontalmente dal resto dell’esercito svevo che, attraversato il ponte, attaccò con decisione la prima schiera nemica. Nel breve volgere di qualche ora, i due terzi dell’esercito angioino erano stati annientati e messi in fuga e Carlo osservava da un colle poco distante il massacro dei suoi, che, di fatto, aveva egli stesso decretato. E nessuno, allora, poteva prevedere che quella che appariva a tutti gli effetti come una rotta disastrosa si sarebbe potuta risolvere, al tramonto, in una vittoria. Al centro della prima schiera angioina sventolava il vessillo del re, di cui aveva indossato i paramenti il maresciallo Enrico di Cousance. Contro di lui si avventò il cugino di Carlo I, Enrico di Castiglia, a cui aveva promesso la morte in un sonetto indirizzato a Corradino: «Mora per Dio chi m’ha trattato a morte / E chi tiene lo mi acquisto in sua balia / Come Giudeo». Ma il Senatore s’ingannava, giacché l’uomo ucciso dai suoi non era Carlo, bensí il suo fido cavaliere, che contribuí cosí all’inganno che condusse alla vittoria angioina. Si levarono infatti grida di giubilo sulla piana presso Tagliacozzo: il re angioino era morto e la battaglia, dunque, vinta. L’esercito di Carlo era in rotta e la schiera di Corradino, probabilmente intatta, smontò da cavallo, dandosi a depredare i numerosi cadaveri.

Come un cacciatore

Quando gli Svevi furono ben sparpagliati nella piana per fare bottino, Alardo di Valéry suggerí al re di attaccare con i cavalieri fino ad allora tenuti nascosti. Probabilmente Carlo intervenne una volta che Enrico di Castiglia ebbe abbandonato la piana, per dirigersi all’accampamento angioino a far man bassa. Solo quando il campo fu occupato dai Tedeschi e dai ghibellini italiani, intenti al saccheggio e privi delle armature, tolte sotto la calura agostana, Carlo si inginocchiò e chiese aiuto alla Vergine Maria. «Come un cacciatore che ha stanato la preda», scrisse a battaglia conclusa – ma in quel momento ancora non poteva avere la certezza della vittoria –, Carlo piombò sui nemici, seminando panico e morte. Difficile dovette risultare ai comandanti ghibellini riordinare gli schieramenti, anche se una qualche resistenza dovette esservi. La superiorità numerica degli Svevi in un primo momento sembrò garantire una certa efficacia. Poi, quando le schiere si infransero e gli scontri divennero individuali, i forti cavalieri scelti di Carlo ebbero la meglio. La vittoria sveva si trasformò dunque in una rotta.

le ambizioni di un castigliano Ultimo degli Hohenstaufen e fratello di re Alfonso X, Enrico di Castiglia fu un avventuriero spregiudicato, che intratteneva rapporti d’interesse anche con l’emiro di Tunisi. Era anche cugino di Carlo d’Angiò, che aveva aiutato con una considerevole somma di denaro nella lotta contro Manfredi. Ora sperava, come ricompensa, di ottenere da Carlo un feudo consistente. Enrico, infatti, si era recato a Viterbo, presso il papa, per reclamare la Sardegna. Ma né la Sardegna, né il denaro prestato giunsero mai. Decise dunque di allearsi con Corradino, sperando di vendicarsi del cugino e di ricevere dallo svevo maggiori favori. Giunto a Roma, il Castigliano, già scomunicato, lasciò che i suoi saccheggiassero le basiliche del Laterano e di S. Paolo, le chiese di S. Saba, S. Sofia e S. Valentino. L’Infante di Spagna governò l’Urbe con fermezza, coordinato da Guido di Montefeltro. Con un colpo di mano conquistò i castelli di Castro e Sutri, testa di ponte cruciale per il collegamento con i ghibellini di Toscana. Completò poi il disegno attirando in un tranello i maggiorenti guelfi dell’Urbe. Convocata una riunione in Campidoglio, fece infatti catturare e imprigionare nel maniero di Saracinesco i fratelli Orsini, Pandolfo e Giovanni Savelli, Riccardo Annibaldi, Pietro Stefani e Angelo Malebranca. Nella battaglia di Tagliacozzo, Enrico cercò di risollevare le sorti della disfatta, ma fallí. Fuggito tra i monti, trovò scampo presso il monastero di S. Salvatore Maggiore, vicino Rieti. Ma Sinibaldo Aquilone, fratello dell’abate, lo consegnò agli Angioini. Carlo I, dopo aver promesso all’abate che non lo avrebbe ucciso, lo incarcerò prima a Canosa, poi a Castel del Monte, infine a Trani, sino al 1291. Tornato in Castiglia, morí nel 1304.

Lo stupore e lo sgomento dovettero alternarsi negli animi dei condottieri e degli armigeri al seguito di Corradino, che vedevano svanire un successo ormai acquisito. Quando Enrico di Castiglia, di ritorno dal saccheggio nel campo avverso, avvicinatosi, poté distinguere i gigli di casa d’Angiò, faticò, probabilmente, a comprendere cosa fosse accaduto. Quel Carlo che credeva morto, gli appariva infatti vincitore, indiscusso padrone del campo. Enrico, che non voleva cedere quella che poteva essere ancora una vittoria, trattenne i suoi dal lanciarsi allo sbaraglio, ma, ordinate le truppe, fece caricare gli Angioini. Per ben due volte tenne testa ai cavalieri di Carlo, e fu quasi sul punto di forzare le schiere. Ma anche questo scontro fu vinto da Carlo I grazie all’astuzia. Scrive Giovanni Villani che «Messer Allardo prese da trenta o quaranta de’migliori baroni del Re, e uscirono dalla schiera, e faceano sembiante, che per paura si fuggissino, come li avea ammaestrati». E a quel punto, attirati dalla tattica angioina, i cavalieri spagnoli mossero verso quelli che sembravano fuggire. Ma, non appena valicato il colle, i cavalieri angioini voltarono i cavalli e caricarono a fondo i nemici, sostenuti dal resto del continmedioevo in guerra

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svevi, angioini, aragonesi gente. In breve anche le truppe dell’Infante di Spagna furono in rotta. La vittoria militare rimase a Carlo I, che ottenne quella politica pochi mesi dopo, quando, facendo decapitare Corradino, eliminò qualsiasi pretendente alla corona del regno. Si avverava cosí la «profezia» attribuita a Clemente IV (sebbene non sia certo che il papa abbia effettivamente pronunciato la frase): «Vita Conradini mors Caroli; vita Caroli mors Conradini» («La vita di Corradino è la morte di Carlo e la morte di Corradino è la vita di Carlo»).

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medioevo in guerra

Battaglia di Tagliacozzo

Assedio di Messina di Francesco Colotta

Un’altra vignetta dalla Nuova cronica di Giovanni Villani. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. La scena rappresenta Carlo d’Angiò costretto ad abbandonare l’assedio di Messina per la strenua resistenza della popolazione locale, in aiuto della quale era accorsa la flotta di Pietro III d’Aragona. Il sovrano angioino si riconosce a bordo della nave raffigurata in secondo piano.


L

a rivolta dei Vespri era scoppiata in Sicilia durante la Pasqua del 1282, come reazione all’imposizione di pesanti tributi alla popolazione e alle riforme centraliste degli Angioini. Privata delle sue tradizionali prerogative, la nobiltà locale aveva guidato la ribellione popolare, alleandosi anche con gli Aragonesi di Spagna. Secondo alcune versioni, i moti erano iniziati a Palermo, all’ora del Vespro (la preghiera serale), in seguito a un pretesto

banale: un cittadino aveva reagito con violenza alla scortesia di un soldato francese nei confronti della moglie. In pochi giorni i tumulti si diffusero in tutta l’isola, non placandosi nemmeno di fronte alla promessa di Carlo I d’Angiò di concedere maggiore autonomia politica agli aristocratici siciliani. Fiancheggiato dalla Chiesa e da una lega di città guelfe, il re francese decise allora di affrontare i rivoltosi e allestí una poderosa flotta. Come primo obiettivo, si pose la conquista Messina, l’ultima città ad aver aderito ai Vespri, perché sede del vicariato di Carlo. L’estate del 1282 era alle porte e i Messinesi si prepararono a resistere, guidati dall’anziano nobile Alaimo di Lentini – condottiero dal passato filo-angioino – e spalleggiati da numerosi volontari giunti da ogni angolo della Sicilia. Fallito il primo assalto, i Francesi sbarcarono sulla costa e distrussero le campagne circostanti al borgo. Quindi cominciarono il vero e proprio assedio. All’inizio di agosto sferrarono un attacco contro il monastero del Salvatore – che sorgeva in un’importante posizione strategica all’ingresso del porto –, ma l’incursione non ebbe successo. Cambiando strategia, gli assedianti cercarono allora di espugnare il monte della Capperina, meno presidiato di altri luoghi del perimetro cittadino: con una fulminea controffensiva, però, Alaimo e i Messinesi ebbero di nuovo la meglio. Secondo una leggenda, un nuovo attacco a sorpresa all’altura venne sventato grazie al provvidenziale intervento di due donne, Dina e Clarenza: la prima, vedendo arrivare i nemici, lanciò contro di loro un enorme masso, mentre l’altra si precipitò a suonare le campane del duomo per avvertire la popolazione dell’agguato in corso. Un’altra leggenda racconta che nei momenti piú difficili dell’assedio, gli abitanti pregarono la Madonna della Lettera (la loro protettrice) affinché li aiutasse a sopravvivere alla carestia: passati pochi giorni, miracolosamente, una nave piena di generi alimentari attraccò al porto senza essere intercettata dai Francesi. Vista la situazione di stallo, il legato pontificio Gherardo da Parma si recò a Messina per trattare con i rivoltosi. Accolto con i dovuti onori, nonostante la sua vicinanza ai Francesi, invitò la cittadinanza a rappacificarsi con Carlo d’Angiò, garantendo sul fatto che il re non avrebbe poi punito i ribelli. Ma la proposta fu rifiutata e la battaglia continuò. A settembre il porto subí l’ennesimo, durissimo attacco, ma resistette all’urto. Intanto in città stava per sbarcare il grande alleato dei Messinesi, Pietro III d’Aragona, che aveva già dato man forte a Trapani e Palermo, anch’esse assediate dagli Angioini. L’arrivo del sovrano spagnolo si rivelò determinante: dopo aver intimato ai messi di Carlo di lasciare la Sicilia, Pietro inviò le sue truppe a Messina, dapprima circa cinquecento balestrieri e poi la grande flotta. Temendo una disfatta, gli Angioini volsero le prue verso il mare aperto, lasciando campo libero agli Aragonesi sullo Stretto.

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l’era dei sultani

Alla potente dinastia fondata dall’emiro Ertugrul appartennero uomini che, per almeno un secolo, si trasformarono in una sorta di incubo per l’Occidente. Sultani come Bayezid o Maometto II si resero protagonisti di imprese memorabili, tra le quali spicca, nel 1453, la presa di Costantinopoli, un evento che molti, in Europa, avevano a torto ritenuto impensabile...

A destra corazza in acciaio, maglia di ferro e cuoio, realizzata in Turchia. Firenze, Museo Stibbert. Si tratta di un equipaggiamento del tipo di quello utilizzato dalle truppe islamiche che combatterono a piú riprese contro l’Occidente tra il XIV e il XV sec.


Battaglie Caffa (Feodosija)

BATTAGLIA DELLA PIANA DEI MERLI O DEL KOSOVO (1389) L’armata serbo-bosniaca si scontra con le armate ottomane in Kosovo, a nord di Pristina, e viene sopraffatta. Batumi

Sinope Trebisonda Amasya

Erzurum

BATTAGLIA DI ROVINE (1395) I Valacchi riescono a fermare gli Ottomani nei pressi del villaggio di Rovine, in Romania. BATTAGLIA DI NICOPOLI (1396) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 110-117. BATTAGLIA DI JALOWAZ (1443) Un esercito di Ungheresi, Polacchi, Albanesi e Transilvani sconfigge gli Ottomani.

Kayseri Malatya

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Cilicia

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Adana Aleppo

Antiochia

Homs Tripoli

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Tarso

Tigri

BATTAGLIA DI TORVIOLL (1444) Gli Albanesi, guidati dal celebre condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg, sbaragliano l’esercito ottomano. BATTAGLIA DI VARNA (1444) Papa Eugenio IV lancia una crociata contro gli Ottomani. Una poderosa armata cristiana composta da Polacchi, Ungheresi, Boemi, Lituani, Croati, Moldavi, Valacchi e Ordine Teutonico si arrende all’esercito islamico in Bulgaria. SECONDA BATTAGLIA DEL KOSOVO (1448) Nello stesso sito della piú rinomata battaglia della Piana dei Merli, gli Ottomani mettono a segno un’altra affermazione militare, questa volta contro il regno di Ungheria e i Valacchi. ASSEDIO DI BELGRADO (1456) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 118-119. BATTAGLIA DELLA PIANA DEI PANE (1479) Gli Ungheresi, coadiuvati da ribelli serbi e valacchi, piegano le truppe ottomane in un sanguinosissimo scontro in Transilvania. BATTAGLIA DI OTRANTO (1480) Gli Ottomani attaccano Otranto, roccaforte aragonese. Subiscono la controffensiva della città, ma alla fine la conquistano. ASSEDIO DI RODI (1480) I Cavalieri di Malta impediscono agli Ottomani di invadere l’isola. BATTAGLIA DI LEPANTO (1499) Nella prima battaglia in mare nella quale compaiono i cannoni sulle navi, la Repubblica di Venezia viene sconfitta dagli Ottomani.


l’era dei sultani

Battaglia di Nicopoli

25 settembre 1396

l’ultima guerra santa

di Francesco Colotta

A

capo dell’impero ottomano dal 1389, dal giorno della vittoria nella Piana dei Merli, il sultano Bayezid I progettava l’attacco al cuore della cristianità. Non si era mai accontentato della resa della Grande Serbia e negli anni seguenti, infatti, aveva esteso le sue mire espansionistiche alla Bulgaria e alla Bosnia, assumendo il controllo di gran parte dei Balcani. Non restava allora che una crociata per fermarlo, l’ultima del Medioevo in chiave antimusulmana, sollecitata soprattutto dall’imperatore bizantino Manuele II Paleologo. La gravosa iniziativa fu assunta dal re ungherese Sigismondo di Lussemburgo, il quale, con l’avallo del papa, diede vita a una coalizione imponente nella quale confluirono anche Francesi e Inglesi, per una volta alleati grazie alla tregua della guerra dei Cent’anni. L’esercito che si accingeva ad assalire gli Ottomani costituiva l’armata piú numerosa nella storia delle campagne cristiane contro l’Islam: circa 100 000 uomini, che, il 25 settembre 1396, diedero vita a uno scontro campale a Nicopoli, lungo il Danubio, nell’odierna regione bulgara di Pleven. L’ascesa della dinastia turco-ottomana era stata molto rapida, anche perché favorita da eventi rivoluzionari che stravolsero gli equilibri politici dell’Asia Minore. A cavallo fra il XIII e il XIV secolo, il tramonto del sultanato selgiuchide di Rum (il primo impero turco d’Anatolia) aveva 110

medioevo in guerra

consentito ad alcune tribú dell’area una maggior libertà di manovra. Una tra queste, guidata in origine dall’emiro Ertugrul, si era stanziata poco piú a Occidente e, in pochi anni, accrebbe in modo esponenziale il proprio arsenale bellico. Nacque cosí, in seguito alle imprese dei condottieri piú celebri (Osman I, Orhan I, Murad I, Bayezid I , Maometto II e, nel Rinascimento, Solimano il Magnifico), la «superpotenza» ottomana. A fare le spese del loro espansionismo, nel Medioevo, furono in particolar modo i monarchi bizantini. In seguito, con il crollo della Grande Serbia, ebbero vita facile anche nell’area balcanica, ormai divisa in tanti piccoli domini spesso in guerra tra loro.

Appoggiato dal papa e... dall’antipapa

Verso la fine del Trecento, contro questo gigante politico e militare islamico, l’Europa si mobilitò in modo massiccio e senza badare a spese. Sigismondo di Lussemburgo, in cerca di alleati, riuscí a ottenere l’adesione di contingenti francesi, e inglesi, con la benedizione del pontefice Bonifacio IX e anche del suo rivale antipapa, Benedetto XIII. In piú arruolò un buon numero di truppe dalla Germania, dove poteva contare su alcune influenti parentele. Anche i principi di Valacchia e Transilvania, pur essendo ortodossi, si unirono alla crociata, perché direttamente minacciati dai Turchi. Mentre Veneziani e Geno-

Miniatura raffigurante la battaglia di Nicopoli, da un’edizione delle Chroniques dello storico francese Jean Froissart (1338 circa-post 1404). XV sec. Valenciennes, Bibliothèque municipale.


vesi, interpellati per un supporto navale, accettarono di fornire un contributo all’impresa. Non mancavano all’appello, infine, gli Ordini monastico-militari: gli Ospitalieri e alcuni effettivi di Cavalieri Teutonici. In un primo momento Sigismondo si mostrò spavaldo e ottimista: «Con questo poderoso esercito – affermò – non solo sbaraglierò l’odiato sultano Bayezid I, ma sono in grado di sostenere con le lance anche il cielo, se questo do-

L’impero bizantino fu la prima vittima illustre dell’irresistibile ascesa ottomana medioevo in guerra

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l’era dei sultani

Battaglia di Nicopoli

Le date da ricordare 1396. Vittoria sui crociati a Nicopoli.

1302. Battaglia di Bafeo (presso Nicomedia). 1326. Conquista di Bursa, nuova capitale dello Stato ottomano. 1346. Orhan sposa Teodora figlia del basileus Giovanni VI Cantacuzeno.

1331. Conquista di Nicea. 1354. Conquista di Gallipoli in Tracia.

medioevo in guerra

1402. Sconfitta di Ankara; Bayazid I prigioniero di Tamerlano; gli emirati anatolici riacquistano l’indipendenza.

1390-1400. Annessione degli emirati dell’Anatolia occidentale.

1371. Battaglia sulla Marizza; Bisanzio diviene Stato vassallo degli Ottomani. 1360-1365. Conquista di Adrianopoli e trasferimento della capitale.

vesse cadere». In realtà, è probabile che il sovrano stesse pianificando una strategia difensiva. Temeva gli Ottomani ed era convinto che fossero superiori quanto a capacità belliche, soprattutto sul piano tattico. Il re meditava di attirarli in territori a loro sconosciuti, in Ungheria per esempio, sfruttando poi il fattore sorpresa con una rapida controffensiva. Andare all’arrembaggio in campo avverso – come invece intendevano fare i Francesi – sarebbe stato un autentico suicidio. «Come gli imperatori bizantini all’epoca delle prime crociate – osserva lo storico inglese Steven Runciman – anche Sigismondo credeva che la salvezza della cristianità dipendesse dalla conservazione del proprio regno; mentre invece i suoi alleati, a somiglianza dei primi crociati, pensavano a una grande offensiva. I Turchi sarebbero stati sopraffatti e gli eserciti cristiani sarebbero avanzati trionfalmente attraverso l’Anatolia fino in Siria e nella stessa Città Santa». Alla fine, prevalse la linea piú rischiosa, a scapito anche della proposta del principe valacco Mircea I, che riteneva piú prudente effettuare una ricognizione in campo nemico prima di decidere una qualsiasi strategia. L’alleanza cristiana, pertanto, si preparò a invadere i territori dell’impero ottomano con eccessiva protervia e con una 112

1397. Sottomissione dell’emirato di Karaman nell’Anatolia centro-meridionale.

1389. Battaglia della Piana dei Merli (Kosovo); Murad I cade sul campo.

1394. Occupazione ottomana di Tessalonica. 1390-1402. Assedio di Costantinopoli da parte di Bayezid I. 1391. La Serbia diviene Stato vassallo ottomano. Miniatura che ritrae Bayezid I (1354-1403), sultano dell’Impero ottomano, da Foggie diverse di vestire de’ Turchi. XVII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana

1422. Murad II assedia Costantinopoli e Tessalonica. 1402-1413. Interregno: i figli di Bayezid I lottano per il potere.

buona dose di ingenuità, vista anche la scarsa coesione delle proprie milizie, che si trovavano a combattere insieme per la prima volta. Sembrava giusta, perlomeno, la scelta del momento in cui attaccare, sfruttando l’assenza del sultano Bayezid, impegnato nell’ennesimo tentativo di espugnare Costantinopoli.

La prima vittoria

Radunatesi nella capitale ungherese Buda, le truppe crociate, si trasferirono ai piedi dei monti Carpazi e, con qualche difficoltà, attraversarono il Danubio, penetrando in territorio nemico. A Vidin, borgo vassallo degli Ottomani, nella Bulgaria nord-occidentale, i soldati cristiani ottennero il loro primo successo, grazie anche all’atteggiamento collaborativo del signore della città, Giovanni Sracimir. Piú arduo, invece, fu conquistare Rahova (situata nei dintorni dell’odierna Bucarest), ben difesa da fossati e da una fortezza imponente. Solo una rapida manovra degli uomini di Sigismondo evitò una disfatta che sembrava ormai inevitabile, dopo una serie di assalti infruttuosi dei cavalieri francesi. Rahova alla fine cadde e, come in parte era accaduto anche a Vidin, molti prigionieri turchi furono sterminati. L’esercito crociato puntò allora su Nicopoli, la capitale ottomana sul Danubio, strappata ai Bulgari nel


1430. Conquista di Tessalonica.

1463-1479. I guerra veneto-ottomana.

1438-1439. Campagna contro la Serbia. 1444. Vittoria sui crociati a Varna. 1453. Conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II.

1458-1460. Conquista del Peloponneso.

1463. Annessione della Bosnia. 1468-1474. Annessione dell’emirato di Karaman.

1521. Conquista di Belgrado. 1522. Conquista di Rodi.

1480. Fallito assedio di Rodi. Conquista di Otranto, persa l’anno seguente.

1425 ca. Riconquista degli emirati dell’Anatolia occidentale. 1456. Fallito assedio di Belgrado.

1516-1517. Annessione della Siria e dell’Egitto.

1485-1491. Guerra ottomanomamelucca. 1461. Conquista del Regno di Trebisonda. 1499-1503. 1459. Annessione II guerra venetodella Serbia. ottomana.

1393. La città, arroccata su una collina e difesa da una doppia cinta di mura, risultava impossibile da conquistare senza l’ausilio di speciali macchine d’assalto. I crociati disponevano solo di scale di fortuna e di mine poco efficaci che provvidero subito a far esplodere, con scarsi risultati, nei punti strategici della fortificazione. Optarono allora per l’assedio a lungo termine, accampandosi fuori dalle mura, nel tentativo di impedire i rifornimenti di viveri alla città. Gli abitanti di Nicopoli, però, per loro fortuna, avevano fatto scorta di provviste ed erano determinati a resistere. Nicopoli non si arrendeva e, con il trascorrere delle settimane, i soldati

1529. Fallito assedio di Vienna.

1526. Battaglia di Mohács; fine del Regno di Ungheria e inizio della rivalità tra Ottomani e Asburgo.

1571. Sconfitta a Lepanto.

1515. Conquista del Kurdistan. 1514. Conquista dell’Anatolia orientale e dell’Azerbaigian.

Ritratto di Osman I (1258-1326), capostipite della dinastia ottomana e primo sultano dell’impero, illustrazione tratta dal Codice Cicogna, Le Memorie Turchesche, manoscritto arabo del XVII sec. Venezia, Museo Correr.

i sultani ottomani Osman I (†1326) Orhan I (1326-59) Murad I (1359-89) Bayezid I il Fulmine (1389-1403) Maometto I (1413-21) Murad II (1421-51) Maometto II il Conquistatore (1451-81) Bayezid II (1481-1512) Selim I (1512-20) Solimano I il Magnifico (1520-66) Selim II (1566-74) Murad III (1574-95) Maometto III (1595-1603) (le date tra parentesi indicano gli anni di regno)

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l’impero che spaventò l’europa Asia Minore, Balcani e Nord Africa: fu questa la zona di maggior influenza dell’impero ottomano, la cui nascita risale al Duecento. La dinastia dei suoi sultani trae origine da una tribú anatolica, capeggiata dall’emiro Ertugrul, il cui figlio Osman I (nome da cui deriva l’espressione Ottomani), fondò, alla fine del XIII secolo, un principato islamico nella regione della Bitinia, a nord-ovest della Turchia. In poco tempo quel primo piccolo potentato mise a segno importanti conquiste in aree geografiche sotto l’influenza cristiana: molte città, tra cui Bursa, Nicomedia, Gallipoli, Adrianopoli e Sofia caddero nelle sue mani. In seguito, il principale obiettivo divenne Costantinopoli, che riuscí a resistere grazie alle sue imponenti fortificazioni. Anche la Grande Serbia, nel 1389, dovette piegarsi alla potenza degli Ottomani, in seguito alla sconfitta nella battaglia della Piana dei Merli. Lo stesso destino toccò alla Bulgaria, poi alla Bosnia e, infine, a una grande coalizione occidentale, sbaragliata nel settembre del 1396 da Bayezid I. A frenare l’espansionismo turco fu il capo mongolo Tamerlano, che sconfisse Bayezid nella battaglia di Ankara del 1402. Solo dieci anni piú tardi, gli Ottomani tornarono a far paura, con l’avvento di Maometto I e poi di Maometto II, che conquistò Costantinopoli, nel 1453, decretando la fine dell’impero romano d’Oriente. Dopo il Medioevo, gli Ottomani conobbero il loro periodo di maggior splendore, con le invasioni di Grecia, Albania, Armenia, Siria, Egitto e Ungheria. Erano i tempi di Solimano il Magnifico, il condottiero che rimase alla guida del suo popolo dal 1520 al 1566. Con la morte del celebre sultano, l’impero imboccò la via del declino, nonostante altre significative conquiste. Nel 1571 gli invincibili Turchi vennero annientati a Lepanto da un’alleanza occidentale nella quale Venezia e Genova ebbero un ruolo di primo piano. Il tramonto definitivo arrivò con la sconfitta nelle guerre balcaniche (1912-1913) e nella prima guerra mondiale. Ridotto a una piccola porzione di territorio, l’impero si estinse e dalle sue ceneri nacque, nel 1923, la repubblica di Turchia.

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le fasi della battaglia Fortezza Fortez zzza z di Torn za Tornu

Danub

io

Navi avi genovesi e vveneziane neziane zia Nicopoli Mircea I Cavalleria valacca Campo dei crociati

Nicola N co co ola laa I Gar Garai Ga Sigismondo di Lussembrugo

Cavalleria transilvana Avanguardie della cavalleria

Giovanni di Borgogna Palizzate Giannizzeri Cavalieri della Rumelia ottomana

Serbi Stefan Lazarevic

Cavalleria anatolica Bayezid

Campo ottomano

nella morsa degli ottomani e dei serbi Nicopoli, città di dominio turco dal 1393, resistette all’assedio crociato fino all’arrivo delle truppe di Bayezid, alle quali si unirono i Serbi di Stefan Lazarevic. I soldati ammontavano a circa 100 000 unità contro altrettanti effettivi cristiani.

A sinistra litografia raffigurante la battaglia di Nicopoli, sul Danubio, in Bulgaria, vinta, nel settembre del 1396, dal sultano Bayezid I contro una coalizione cristiana guidata dal re d’Ungheria e futuro imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Facsimile di una miniatura di scuola turca conservata al Museo Topkapi di Istanbul. Collezione privata.

cristiani si logorarono nell’inedia. Alcuni tra loro cominciarono a ubriacarsi e a impiegare gran parte delle giornate in giochi e giostre. Con l’allontanarsi della prospettiva del combattimento, poi, venne meno anche il debole spirito di corpo che aveva in parte pervaso un contingente cosí «multietnico»: gli Ungheresi si lamentarono con i Francesi e gli Inglesi per lo scarso rispetto che questi ultimi avevano mostrato per il sovrano Sigismondo, mentre i Valacchi accusarono gli alleati cattolici di maltrattamenti nei confronti degli ortodossi.

Un’armata poderosa e organizzata

L’attesa delle milizie occidentali non durò a lungo. Bayezid, infatti, aveva deciso di accorrere in aiuto di Nicopoli e, con un’avanzata rapidissima, giunse nelle vicinanze della città. Era il 21 settembre 1396. Il suo esercito, già consistente, si uní alle truppe del vassallo regno di Serbia, capeggiate da Stefan Lazarevic. Anche l’armata turca ammontava a circa 100 000 unità, ma si presentava molto piú compatta e organizzata rispetto a quella avversaria. medioevo in guerra

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l’era dei sultani In basso ritratto di Sigismondo, ultimo imperatore della casa di Lussemburgo, tempera su tavola del Pisanello (al secolo Antonio di Puccio Pisano). 1433. Vienna, Kunsthistorische Museum.

Battaglia di Nicopoli

Bayezid schierò le sue divisioni su una collina situata nella parte meridionale della città. In prima linea collocò un gruppo di arcieri, insieme alla cavalleria leggera. Per rallentare il prevedibile assalto crociato, fece erigere una palizzata appuntita, dietro alla quale posizionò la fanteria, tra le cui fila spiccava il corpo speciale dei Giannizzeri. Sulla destra si disposero alcune truppe europee al suo servizio e, a sinistra, i cavalieri anatolici.

Come il lampo di una folgore

Il sultano, invece, trovò posto alle spalle dello schieramento, coperto dalla cresta della collina. Accanto a lui si schierò un nutrito numero di fanti, i migliori di tutta l’armata, insieme ai Serbi. Bayezid si preoccupò, poi, di rassicurare gli abitanti di Nicopoli, facendo pervenire loro un messaggio tramite il loro governatore Dogan Bey con il quale era riuscito a parlare attraverso le mura: «Tenete duro coraggiosamente e io veglierò su di voi. Vedrete che sono qui come il lampo di una folgore!».

I crociati si trovarono subito in posizione sfavorevole, ma non cambiarono i piani di assalto frontale. In prima fila, scalpitavano le truppe francesi del conte Giovanni di Nevers, futuro duca di Borgogna: 6000 cavalieri, assai ben equipaggiati. Dietro si schierarono i soldati di Sigismondo, con i rinforzi tedeschi, polacchi e inglesi, mentre le ali erano occupate sulla sinistra dalla cavalleria leggera valacca e, sulla destra, da quella transilvana. I Francesi ignorarono l’ultimo appello del sovrano di Ungheria, che li invitava ancora una volta a restare sulla difensiva e, all’alba del 25 settembre, partirono all’attacco. Trascurarono anche il consiglio di avanzare lentamente, per non perdere contatto con il resto dell’esercito, e misero a tacere pure le voci di dissenso presenti all’interno del loro stesso schieramento, come quelle del condottiero Enguerrand VII di Coucy e dell’ammiraglio Jean de Vienne, che nell’imminenza dell’offensiva commentò rassegnato: «Quando la verità e la ragione non possono essere ascoltate, è l’arroganza a dominare». I Borgognoni cominciarono a scalare il pendio che li separava dalle truppe turche e, giunti quasi in cima, si scontrarono con la cavalleria leggera nemica, costringendola a ripiegare. Non sappiamo se la fuga dell’avanguardia turca sia stata reale o soltanto strategica, attuata cioè solo per ricompattare le linee. Tuttavia, la ritirata repentina lasciò campo libero ai crociati, i quali all’improvviso si trovarono di fronte una gigantesca palizzata. Nel contempo dovettero difendersi da una fitta pioggia di frecce che costrinse alcuni di loro a continuare il combattimento a piedi, in condizioni rese poco agevoli dal peso delle armature. I piú audaci riuscirono, comunque, ad aprire un varco nell’appuntito sbarramento in legno, consentendo all’intero reparto di irrompere nella seconda linea turca.

difensore dell’ortodossia Figlio dell’imperatore boemo Carlo IV, Sigismondo cinse la corona d’Ungheria nel 1387 grazie al matrimonio con Maria, secondogenita del monarca ungherese Luigi il Grande. Artefice della fallimentare crociata antiottomana del 1396, fu eletto re dei Romani nel 1410. Tentò di porre un rimedio allo scisma d’Occidente, mostrandosi favorevole ai progetti di riforma della Chiesa. La sua biografia politica ruota soprattutto intorno alla condanna nei riguardi del riformatore e scrittore boemo Jan

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medioevo in guerra


Anche i fanti ottomani preferirono indietreggiare di fronte all’impeto avversario, riposizionandosi in buona parte sulle ali. Di conseguenza, i Francesi avanzarono ulteriormente nell’intento di raggiungere al piú presto lo schieramento del sultano, ma dovettero frenare la loro corsa. Dai fianchi la cavalleria turca leggera, la prima che aveva ripiegato, era piombata sugli isolati militari francesi, che ancora non potevano usufruire dell’appoggio degli alleati. Molta distanza li separava dalla seconda linea ungherese, che si trovava nell’impossibilità di fornire un pronto supporto sulla collina.

Senza via di scampo

Con grande sforzo, però, i cavalieri di Giovanni di Nevers riuscirono a proseguire ancora la loro marcia in campo nemico, fino a giungere alla sommità della collina dietro la quale li attendevano i reparti d’élite ottomani, insieme ai Serbi. Per i Francesi si trattò di una «sorpresa» terribile: ormai esausti, si resero conto di dover combattere, in condizioni fisiche precarie e contro le migliori armate avversarie, un duello che avrebbe deciso le sorti della battaglia. Gli equilibri, come prevedibile, si ribaltarono. I soldati turchi si lanciarono in un contrattacco che non lasciò scampo ai Francesi. Poco sostegno giunse a questi ultimi dal resto dell’esercito crociato, che, in buona parte, si arrese senza opporre resistenza: i Transilvani e i Valacchi fuggirono terrorizzati, dopo aver visto scendere dalla collina molti cavalli degli alleati privi, ormai, del proprio cavaliere. Solo gli Ungheresi cercarono di opporsi all’ondata, tentando di ricompattarsi con i pochi superstiti che ancora tenevano testa ai Turchi. La manovra fallí e Sigismondo si trovò solo a fronteggiare la fanteria ottomana. Anche per lui non ci fu scampo e, dopo l’intervento delle milizie serbe, capitolò, riuscendo però a fuggire a bordo di un vascello veneziano.

Hus, che il sovrano pronunciò in piú occasioni. Hus alla fine fu giustiziato tra le proteste popolari, che esplosero in modo ancor piú violento quando Sigismondo venne chiamato a succedere al fratellastro Venceslao sul trono di Boemia. La ribellione degenerò in una lunga guerra politico-religiosa, nel corso della quale il sovrano assunse il ruolo di difensore dell’ortodossia cattolica contro l’«eresia» hussita. Nel 1433 ricevette a Roma la corona imperiale da papa Eugenio IV.

Miniatura raffigurante il pagamento del riscatto al sultano Bayezid per la liberazione del conte Giovanni di Nevers, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. XV sec. Londra, British Library. Il futuro duca di Borgogna (conosciuto come Giovanni senza Paura), a capo di un contingente in aiuto di Sigismondo, fu catturato durante la battaglia di Nicopoli e rilasciato dopo un anno di prigionia.

Alla fine i caduti ammontarono a diverse migliaia su entrambi gli schieramenti. E la cifra aumentò considerevolmente sul versante crociato in seguito alla decisione di Bayezid di trucidare gran parte dei prigionieri: quasi 5000 furono passati per le armi, tranne i notabili che gli Ottomani utilizzarono per estorcere cospicui riscatti. Il sultano, in questo modo, intese vendicare le stragi di Vidin e Rahova. La disfatta di Nicopoli decretò il declino delle crociate contro l’Islam: «Tutto quello che l’Occidente imparò da quest’ultimo fallimento – sottolinea lo storico Runciman – fu che la guerra santa non era piú fattibile». Per l’Europa stava per aprirsi un’era di conflitti, soprattutto interni, che avrebbero impegnato quasi tutti i regni: Francia e Inghilterra nella ripresa della guerra dei Cent’anni, l’Ungheria nelle guerre hussite e la Germania nelle battaglie contro i Polacchi. I vincitori, dal canto loro, non riuscirono a dilagare in Europa, come nei progetti di Bayezid. Sconfitto il nemico occidentale a Nicopoli, infatti, il sultano dovette investire tutte le sue risorse militari nel combattere le incursioni mongole da Est, incassando una rovinosa sconfitta nella battaglia di Ankara appena qualche anno piú tardi, nel 1402. medioevo in guerra

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Assedio di Belgrado di Francesco Colotta

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Il sacrificio di Titus Dugovics, olio su tela di Sandor Wagner. 1859. Budapest, Galleria Nazionale Ungherese. Nelle fasi finali dell’assedio di Belgrado, i Turchi erano riusciti a salire sulle mura e a issare il proprio vessillo, ma Dugovics, un soldato serbo, si lanciò contro di loro e, conscio di non poterli soverchiare, si gettò nel vuoto, trascinando con sé la bandiera nemica.

N

el XV secolo l’avanzata degli Ottomani in Occidente sembrava inarrestabile. Ne aveva fatto le spese, nel 1444, a Varna, in Bulgaria, un grande esercito cristiano, costituito su iniziativa del pontefice Eugenio IV. I Turchi avevano quindi rivolto le loro mire espansionistiche anche su Bisanzio e, nel maggio del 1453, le truppe guidate da Maometto II il Conquistatore riuscirono a espugnarla, dopo un assedio che si era protratto per oltre due mesi. L’Occidente, però, restava una priorità nei progetti politici ottomani e uno degli ostacoli che si frapponeva alla loro avanzata da est era – come già avvenuto a Nicopoli – il regno d’Ungheria, all’epoca governato dal reggente János Hunyadi (1387-1456), celebre per le sue virtú militari. Hunyadi venne presto informato dell’incombente minaccia islamica e allestí un’armata, che, tuttavia, sembrava inadeguata all’emergenza: di fronte al rifiuto di arruolarsi da parte della maggioranza dei nobili, attinse alla leva mal addestrata dei ceti popolari che uní a un contingente di crociati e di volontari serbi. Il condottiero schierò il suo esercito a Belgrado (città che all’epoca era compresa nel regno ungherese) e poté contare, inoltre, su alcune navi, anch’esse, però, mal equipaggiate. Spalleggiato dal giurista e poi frate francescano Giovanni da Capestrano (1386-1456), Hunyadi faceva in compenso affidamento sull’istinto di resistenza degli abitanti, pronti a tutto pur di difendere le proprie case, e sulla motivazione delle truppe. Il 14 luglio del 1456, a nord della città, lungo la Sava, accadde l’impensabile: le navi ottomane furono attaccate dalla flotta di Hunyadi e subirono perdite rilevanti. Il primo atto della battaglia poteva dirsi vinto dall’esercito ungherese che, secondo alcune stime, era composto da 70 000 effettivi, contro i circa 100 000 dell’armata turca. La risposta degli Ottomani non si fece attendere e giunse dopo una settimana, ancora una volta con un’operazione navale. Sparando proiettili pesanti fino a mezza tonnellata, gli islamici bombardarono a lungo la città, dando poi il via all’assedio. La battaglia si trasferí quindi all’interno delle mura e vide la partecipazione di molti cittadini che combatterono con armi di fortuna come mazze, falci e zappe. Quando ormai nella città stava calando la notte, la forza d’urto ottomana sembrò avere la meglio: i Turchi penetrarono nel borgo e si diressero verso la parte alta, dove si trovava il cosiddetto «castello bianco», la fortezza simbolo di Belgrado. Ma proprio intorno alla rocca trovarono asserragliata la resistenza piú tenace dei cittadini e delle truppe di Hunyadi, che li bersagliarono di frecce, pietre e sostanze infiammabili (come pece, legni e catrame), rallentandone l’avanzata. Dopo combattimenti durissimi, un manipolo di Ottomani riuscí a raggiungere le mura della fortezza e si accinse a scalarla per issare la bandiera del sultano, in segno di vittoria. Tuttavia, nel momento in cui il vessillo stava per essere collocato sulla sommità del castello, un soldato serbo, Titus Dugovics, riuscí a strapparlo ai nemici e si gettò con esso nel vuoto. Con il passare dei giorni la presa della città appariva sempre piú difficile per gli Ottomani, intrappolati nel dedalo delle stradine del centro di Belgrado tra fiamme e imboscate. Molti ripiegarono, ma non fecero in tempo a riorganizzarsi. Poi, all’improvviso, nel pomeriggio del 22 luglio, la cavalleria di Hunyadi, i crociati e i mal armati cittadini compirono un attacco congiunto contro gli assedianti, costringendoli alla fuga. A quel punto, il sultano e il suo esercito ripresero la via di Costantinopoli.

medioevo in guerra

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cent’anni di Guerra

I potenti regni separati dal Canale della Manica si fronteggiarono per oltre un secolo, rivendicando corone e territori. Fu un conflitto lungo e dall’esito altalenante, che si concluse senza alcun trattato di pace, ma con il sostanziale consolidamento delle rispettive posizioni. Un secolo di battaglie cruente, che fecero emergere personaggi immortali, prima fra tutti l’intrepida «pulzella d’Orléans», Giovanna d’Arco

Battaglie BATTAGLIA DI CAEN (1346) Gli Inglesi invadono il Nord della Francia e assediano Caen. La città si arrende.

riesce ad avere la meglio delle truppe francesi in una delle battaglie chiave della guerra dei Cent’anni.

BATTAGLIA DI BLANCHETAQUE (1346) Gli Inglesi guadano la Somme e puntano sulle Fiandre.

ASSEDIO DI CALAIS (1346-1347) Gli Inglesi, dopo il trionfo di Crécy, attaccano la città di Calais e la espugnano.

BATTAGLIA DI CRéCY (1346) Sebbene sia in palese inferiorità numerica, l’armata inglese, soprattutto grazie ai suoi espertissimi arcieri,

BATTAGLIA DI POITIERS (1356) Continuano le vittorie inglesi. A Poitiers un esercito di consistenza esigua accerchia e annienta i Francesi.

La morte sul rogo di Giovanna d’Arco, olio su tela di Hermann Anton Stilke. 1843. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.

BATTAGLIA DI AURAY (1364) Gli anglo-bretoni si impongono contro i franco-bretoni. BATTAGLIA DI AZINCOURT (1415) Vedi, in questo capitolo, alle pp. 122-128. ASSEDIO DI ROUEN (1418) Gli Inglesi compiono un grande passo avanti nella conquista del ducato di Normandia, espugnando Rouen. BATTAGLIA DI BAUGÉ (1421) La prima grave sconfitta inglese nella guerra dei Cent’anni si verifica a Baugé, per mano di un’armata franco-scozzese. Vi trova la morte Thomas, duca di Clarence, fratello del re Enrico V. BATTAGLIA DI VERNEUIL (1424) L’esercito franco-scozzese non ripete l’impresa di Baugé e viene annientato in una delle battaglie piú sanguinose del conflitto. ASSEDIO DI ORLÉANS (1428) I Francesi, spinti dall’eroina Giovanna d’Arco, ottengono una schiacciante vittoria sull’esercito inglese. Le sorti della guerra dei Cent’anni si rovesciano.


Calais

REGNO D’INGHILTERRA

Maine

d’Angiò

Chinon

Poitiers La Rochelle

Tours

Duc. di Turenna

Bourges

Contea La Marche Ducato del del Poitou Limoges Borbonese

Angoulême

ATLANTICO

Limosino

Lionese

Le Puy

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Castillon

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Alvernia

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Ducato di Savoia

Delfinato

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Contea di Borgogna

Lione

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Strasburgo

Ducato di Lorena

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Verneuil Orléans Patay Jargeau Ducato Baugé Beaugency Blois

Rennes

Nantes

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Metz

Contea di Champagne

Magonza

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Ducato di Normandia

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Ducato di Lussemburgo

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Costanza

Regno di Francia nel 1429

Territori borgognoni sotto Enrico VI

Regno francese di Bourges sotto Carlo VII

Domini inglesi

BATTAGLIA DI JARGEAU (1429) Giovanna d’Arco, dopo aver salvato Orléans, guida un fulmineo assalto dell’esercito francese contro una delle roccaforti inglesi della Loira. BATTAGLIA DI BEAUGENCY (1429) I Francesi continuano ad avanzare nelle città della Loira occupate dagli Inglesi ed espugnano anche Beaugency. BATTAGLIA DI PATAY (1429) Una delle piú celebri vittorie militari di Giovanna d’Arco e dell’esercito francese. Le linee inglesi vengono sfondate.

CORSICA

Domini anglo-borgognoni

BATTAGLIA DI COMPIÈGNE (1430) Ultima battaglia combattuta da Giovanna d’Arco, catturata dopo aver guidato l’ennesima vittoria. BATTAGLIA DI GERBEROY (1435) I Francesi riescono ad arginare la controffensiva inglese. BATTAGLIA DI FORMIGNY (1450) Vedi, in questo capitolo, il box alle pp. 128-129. BATTAGLIA DI CASTILLON (1453) Atto finale della guerra dei Cent’anni. I Francesi costringono l’esercito inglese a ritirarsi dai loro territori.


cent’anni di guerra

Battaglia di Azincourt

25 ottobre 1415

nella morsa di enrico

di Aldo A. Settia

S

chierati sin dall’alba sul campo di Azincourt (cittadina della Francia settentrionale situata 70 km circa a sud di Calais, n.d.r.), gli arcieri inglesi aspettavano ormai da piú di tre ore dietro la loro siepe di pali aguzzi. Era piovuto tutta la notte, il terreno arato di fresco appariva fangoso, faceva freddo e negli ultimi giorni i soldati avevano dovuto nutrirsi soltanto di noci e di bacche raccolte lungo la marcia nella campagna autunnale. In compenso il vino non mancava: ne avevano sequestrato molte botti due giorni prima, attraversando l’abitato di Boves, e serviva ora a vincere l’umidità, il freddo e a tenere su il morale in quell’attesa che si faceva angosciosa. I Francesi erano là di fronte, a meno di un migliaio di metri, in numero che appariva strabocchevole. Insieme con i nitriti dei cavalli giungeva l’eco delle loro voci: anch’essi bevevano, giocavano a dadi e litigavano per avere l’onore dei primi posti, da dove – pensavano – avrebbero potuto piú facilmente irrompere su un nemico che consideravano già vinto. La flotta che aveva portato in Francia Enrico V d’Inghilterra era sbarcata senza incontrare resistenza, il 13 agosto 1415, nell’estuario della Senna; il re guidava un esercito di 2000 cavalieri e di 8000 arcieri, insieme ai quali aveva viaggiato il materiale necessario per porre l’assedio al vicino porto fortificato di Harfleur. La sua espugnazione, però, non fu agevole come si era

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medioevo in guerra

sperato, e il 22 settembre, quando la città si arrese, almeno un terzo delle forze inglesi, colpite dalla dissenteria, era fuori combattimento. Le piogge autunnali stavano per cominciare e ormai non era piú possibile realizzare l’ambizioso piano, concepito dal re, di procedere lungo la Senna sino a Parigi. Enrico V, d’accordo con il suo stato maggiore, ritenne però necessario dare almeno una dimostrazione della sua capacità di muoversi in armi sulle terre che intendeva rivendicare: anziché reimbarcarsi a Harfleur, avrebbe fatto percorrere al suo esercito un tragitto di circa 190 km sino al porto di Calais, sfidando coscientemente la prevedibile reazione delle forze francesi che già si andavano adunando a Rouen.

Alla ricerca di un guado sicuro

La partenza avvenne l’8 ottobre: dopo aver costeggiato il mare per un lungo tratto, gli Inglesi, non prima del 13, arrivarono al corso della Somme e dovettero risalire a lungo il fiume prima di trovare un guado sicuro e praticabile che ne permettesse l’attraversamento. Il 20 ottobre Enrico V fu raggiunto da alcuni araldi che gli recapitarono la sfida ufficiale lanciata dall’esercito francese; proseguendo la marcia, egli rispose che lo si sarebbe trovato disponibile, di giorno e di notte, sulla via di Calais. l suoi esploratori si resero conto il 24 ottobre che i


Il mattino della battaglia di Azincourt, olio su tela di John Gilbert. 1884. Londra, Guildhall Art Gallery.

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Francesi li avevano superati e sbarravano la strada verso il mare; il giorno dopo i due eserciti si fronteggiavano in un vasto campo pianeggiante, da poco arato, disteso su un fronte di circa 700 m fra due tratti di foresta, non lontano dai villaggi di Azincourt e di Tramecourt. Circa mille cavalieri inglesi armati di corazza, secondo la loro consuetudine, avevano messo piede a terra e si erano schierati su una sola linea; cinque o seimila arcieri erano stati disposti in tre blocchi suddivisi fra il centro e le ali; ciascuno di loro aveva piantato saldamente a terra il palo di cui era munito rivolgendone la punta acuminata verso il nemico. Oltre al grande arco gallese, ciascuno di essi disponeva di un coltellaccio, di un’ascia o di una mazza. Cavalli e bagagli avevano trovato posto dietro il fronte, guardati da valletti e palafrenieri.

L’attendismo dei Francesi

Tra i Francesi (assente per follia re Carlo VI) non era stato facile accordarsi sull’atteggiamento da tenere; dopo un dibattito fra i capi, e vista l’impossibilità di una carica generale della cavalleria a causa del terreno bagnato, avevano deciso di tenersi sulla difensiva. L’esercito, forte di non meno di 25 000 uomini, data la ristrettezza dello spazio, dovette disporsi su quattro formazioni successive: un’avanguardia a cavallo precedeva due schiere di cavalieri appiedati e una terza di cavalieri montati. Arcieri e artiglieri furono confinati nelle retrovie, nel timore – si disse – che potessero togliere l’onore della giornata ai cavalieri. Dopo ore di attesa estenuante, l’ordine di avanzare, dato dal re verso le 11 del mattino, fu accolto dagli Inglesi come una liberazione: «In nome di Dio onnipotente e di san Giorgio, bandiere avanti!». Il maresciallo Thomas di Erpingham gettò in aria il suo bastone di comando, tutto l’esercito si inginocchiò, baciò la terra, si rialzò e procedette lentamente sul terreno fangoso per non piú di 600 o 700 m. I ranghi vennero rapidamente ricomposti sulle nuove posizioni: ora la prima schiera francese risultava sotto il tiro degli arcieri che, di nuovo appostati dietro i loro pali aguzzi, erano pronti all’azione. L’arco lungo di tipo gallese era un’arma che già da piú generazioni dominava sui campi di battaglia in Gran Bretagna e in Francia: lungo 2 metri e costruito in legno di olmo, lanciava al ritmo di una ogni dieci secondi micidiali frecce dalla punta acuminata, lunghe poco meno di 1 metro, in grado di perforare a oltre duecento passi di distanza l’armatura di un cavaliere corazzato. Gli uomini dell’esercito di Enrico che maneggiavano magistralmente quell’arma 124

medioevo in guerra

In alto miniatura raffigurante Carlo VI colto da un accesso di follia, da un’edizione delle Cronache di Enguerrand de Monstrelet. XV sec. Chantilly, Musée Condé. Nella pagina accanto ritratto di Enrico V, olio su tela di Benjamin Burnell. XIX sec. Collezione privata.

erano duri professionisti della guerra, molti anzi avevano scelto di arruolarsi per evitare condanne, e fra i crimini da loro commessi non era escluso l’omicidio. Ora, disposti a scacchiera su tre righe, avevano tolto le frecce dalle faretre (ciascuna ne conteneva 24), le avevano collocate a punta in giú sul terreno, e aspettavano. All’ordine di tendere gli archi risposero con un grido all’unisono, che certo dovette mettere in apprensione il nemico. Forse qualcuno di loro ricordava la celebrazione lirica dell’arciere del bardo gallese Iolo Goch: nella foresta, appoggiato a un tronco di quercia, sotto gli occhi della ragazza amata, con il vento alle spalle e il sole di fianco, il tiro poteva riuscire cosí forte, lungo e preciso che al nemico «non sarebbe stato di maggiore aiuto indossare una corazza o una cotta di maglia di ferro, piuttosto che un mazzo di felci o una rete da aringhe».

Una pioggia di frecce

Venne secco l’ordine di scoccare e il tiro cominciò. Esso aveva, per ora, soltanto lo scopo di provocare nella prima schiera nemica una reazione, che infatti non si fece attendere. Dopo meno di un minuto gli squadroni francesi si


Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle

mossero, puntando proprio sulle formazioni degli arcieri, ma, prima che potessero raggiungere il loro obiettivo, furono decimati dal tiro mirato e rapidissimo: molti cavalli e cavalieri vennero uccisi, altri incespicarono e caddero, una parte di coloro che poterono proseguire finí la carica contro la siepe di pali aguzzi rimasta celata al loro sguardo. Intanto la prima schiera francese, composta di cavalieri appiedati gravati dall’armatura, si era già mossa a sua volta all’attacco, avanzando nel fango. Pur bersagliati anch’essi dal tiro incessante degli arcieri e scompigliati dai superstiti della prima ondata in ripiegamento, i Francesi mirarono questa volta alla linea degli uomini d’arme inglesi loro pari, la raggiunsero e la costrinsero a indietreggiare. La critica situazione fu ristabilita dall’intervento degli arcieri, i quali, esaurite ormai le frecce, abbandonarono gli archi e attaccarono sui fianchi la schiera nemica già in difficoltà. I ranghi piú arretrati, avanzando, premevano, infatti, sui commilitoni che li precedevano, serrando le file in modo tale da rendere loro di fatto impossibile l’uso delle armi. La confusione fu aumentata dal terreno scivoloso: molti persero l’equilibrio e la corazza impedí loro di rimedioevo in guerra

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Terza divisione francese

Tramecourt

xx

xx

xx

Villani francesi

Terza divisione francese

Massacro dei prigionieri

Campo inglese

xx

le fasi della battaglia

Campo francese

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Verso Calais

Azincourt

Tramecourt

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Villani francesi

Tramecourt

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Villani Campo francesi inglese

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xx

xx

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Verso gli schieramenti Calais I Francesi avevanoAzincourt tre divisioni di fanteria, fiancheggiate xx

Campo inglese

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Campo francese

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Base

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Verso Calais 9,8 Campo inglese Villani francesi

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xx

Massacro dei Azincourt Terza divisioneprigionieri Tramecourt Campo francese francese xx

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Tramecourt

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xx

xx

Terza divisione francese Massacro dei prigionieri Campo francese

Verso Calais

Azincourt

Tramecourt

xx xx

Cavalleria francese

xx xx

xx

xx

Campo inglese

Inglesi avanzano fino a 300 m dal fronte nemico, Gli Verso Azincourt piantano i pali «frangicarica» e prendono posizione; Calais i Francesi fanno muovere la cavalleria, ma il terreno pesante rende molto lenta la carica. francese

Verso Calais

Tramecourt

xx xx

Campo inglese

xxxx

II

Cavalleria Campo francese francese

Campo francese

Cavalleria l’avanzata inglese

xx

xx

xx

Azincourt

Avanzata e nuovo schieramento inglese

xx

xx xx xx xx

Campo francese

Tramecourt

Tramecourt

Verso Calais

Balestrieri

medioevo in guerra Cavalleria Cavalleria francese francese

Balestrieri Azincourt

xx xx

Campo inglese

xx

xx

xx

xx

Cavalleria francese

Enrico V

Azincourt

Verso Calais

xx

xx

Campo inglese

xx

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Cunei di arcieri Tramecourt

xx xx xxxx xx xx

Cunei di arcieri

Enrico V Verso

Calais Campo inglese

xx

Cunei di arcieri Cunei Tramecourt di arcieri

xx

Azincourt

Balestrieri

Cunei di arcieri

schieramento inglese

Enrico V Verso

Calais Campo inglese

x x xx x x xx

xx xx

Balestrieri Balestrieri

Tramecourt Avanzata e nuovo

Cunei di arcieri

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xx II xx

II

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Campo francese

Azincourt

IIII

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Cavalleria Campo francese francese Cavalleria francese

Balestrieri

II

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Cavalleria Campo francese francese Cavalleria francese

xx

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Azincourt

Campo francese

Cunei di arcieri

xx

II

Cavalleria Cavalleria francese francese

Tramecourt

xx xx xx xx

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Azincourt

Verso Calais Campo inglese

xx

Balestrieri

xx xx

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Campo francese

Avanzata e nuovo schieramento inglese

II

xx xx xx xx

II

Cavalleria francese

xx

Verso

II

Azincourt

Calais Cavalleria Campo trasforma in una mischia, nella quale molti uomini, Campo francese inglese francese caduti a terra, non riescono a rialzarsi, bloccati dal Cavalleria terreno melmoso e dal peso dell’armatura francese

xx

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la mischia Tramecourt Avanzata e nuovo Gli eserciti vengono a contatto e la battaglia si schieramento inglese

xx

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Azincourt

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Verso Calais Campo inglese

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Campo francese

Tramecourt

Verso Calais Campo inglese

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Tramecourt

Azincourt

II

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xx xxxx

Massacro dei lo schieramento lineare inglese dalla cavalleria; prigionieri Campo Campo alternava fanti, cavalieri e arcieri disposti a «cuneo». inglese francese xx

Verso Calais

l’epilogo Dopo tre ore di corpo a corpo, i Francesi cominciano ad arrendersi; contadini armati assalgono il campo inglese ed Enrico fa uccidere i prigionieri; alla fine sono almeno 6000 i caduti francesi e poche centinaia quelli inglesi.


A sinistra miniatura di scuola fiamminga raffigurante la battaglia di Azincourt, da un’edizione della St-Alban’s Chronicle. XV sec. Londra, Lambeth Palace Library. In basso ricostruzione dell’equipaggiamento di un arciere inglese alla battaglia di Azincourt. Si noti l’arco lungo di tipo gallese, nel cui uso gli uomini di Enrico V erano maestri.

il crepuscolo della cavalleria La vittoria degli Inglesi ad Azincourt, ottenuta – come altre della guerra dei Cent’anni – non per aprirsi la strada della penetrazione in Francia, ma per garantirsi la ritirata, non ebbe alcun esito decisivo, se non quello di mostrare all’opinione pubblica che Dio riconosceva il buon diritto delle rivendicazioni inglesi e di incoraggiare cosí il proseguimento del conflitto (che si sarebbe protratto per poco meno di un quarantennio, fino al 1453). Da un punto di vista piú strettamente tecnico, lo scontro di Azincourt, breve e sanguinoso, aveva però visto una minoranza di uomini socialmente disprezzati fiaccare, con la rapidità e la precisione dei loro archi (e con la complicità del terreno appesantito dalle piogge), l’orgoglio dei cavalieri francesi, superiori di numero e lanciati all’assalto, bravamente sí, ma incuranti di ogni discernimento tattico, ansiosi solo di assicurarsi una gloria che ritenevano a portata di mano. Un segno, insieme ad altri, che l’età d’oro della cavalleria medievale era giunta al suo crepuscolo.

sollevarsi. Colpiti sulla fronte e sui lati, i Francesi caddero, accumulandosi gli uni sugli altri in un orribile muro di corpi. I sopravvissuti volsero le spalle o furono catturati. La seconda schiera, che subito aveva seguito la prima, fu anch’essa coinvolta nel disastro: intaccata dai fuggitivi, a piedi e a cavallo, che si riversavano su di essa, non solo non fu in grado di ribaltare le sorti della battaglia, ma venne rapidamente disarticolata e massacrata. Gli Inglesi, proiettati ora al contrattacco, penetrarono profondamente fra i nemici in rotta, e lo stesso re – spintosi nella mischia per soccorrere il fratello duca di Gloucester – ebbe l’elmo ammaccato da un colpo, tuttora visibile sulla sua tom-


cent’anni di guerra ba nell’abbazia di Westminster. Il duca di Brabante, sopraggiunto in ritardo, si gettò con i suoi all’assalto, ma la carica non riuscí a intaccare la linea inglese, ed egli stesso perí. Tutto si era svolto in poche ore, e nel primo pomeriggio una nuova fase di attesa subentrò. La terza schiera francese, ancora intatta, pareva a sua volta pronta a caricare: di fronte a un nemico già provato e con gli arcieri privi di munizioni, essa poteva ancora rovesciare le sorti della battaglia. Enrico V, previdentemente, impedí ai suoi di dedicarsi tutti, come avrebbero voluto, alla cattura dei prigionieri, che già si erano arresi a migliaia e venivano avviati nelle retrovie. Proprio là si verificò una nuova, imprevista emergenza: una banda di contadini armati, guidati da alcuni cavalieri, assalí i carriaggi inglesi e giunse a impadronirsi di una delle corone del re che vi erano custodite.

Esecuzioni di massa

Nell’incertezza del momento, Enrico ordinò di uccidere subito i prigionieri: per quanto disarmati, avrebbero potuto raccogliere armi dal suolo, che ne era cosparso, e unirsi agli assalitori, sopraffacendo la debole scorta. Quest’ultima, nondimeno, rifiutò di obbedire all’ordine, certo non tanto per scrupolo morale quanto perché vedeva cosí andare in fumo una sostanziosa possibilità di guadagno. Duecento arcieri furono allora inviati a mettere in atto l’esecuzione e il massacro proseguí finché il re si convinse che ogni pericolo era cessato. Sulla fronte, infatti, solo un piccolo drappello di cavalieri, staccatosi dall’ultima schiera francese, tentò un nuovo assalto che non diede risultati, mentre le altre forze residue scelsero di abbandonare il campo. Il pugno di razziatori che aveva agito contro i carriaggi fu presto messo in fuga. L’esecuzione dei prigionieri fu quindi sospesa; i piú nobili e ricchi, in grado di pagare lauti riscatti, erano stati comunque risparmiati. La battaglia era finita e prima di sera gli araldi, che ne avevano osservato l’andamento da un’altura, proclamarono vincitore il re d’Inghilterra e indicarono – deducendolo dal villaggio piú vicino, Azincourt – il nome con il quale la vittoria doveva essere ufficialmente ricordata. Rispetto alle poche centinaia di morti inglesi, le perdite subite dai loro avversari furono molto pesanti: circa 6000 caduti vennero sepolti in fosse comuni per cura del vescovo di Arras; fra essi si contavano tre duchi, sette conti, un centinaio di cavalieri banderesi, il conestabile d’Albret, l’ammiraglio Dampierre e il gran maestro degli alabardieri. Almeno 1500 prigionieri superstiti seguirono i vincitori in Inghilterra. 128

medioevo in guerra

Battaglia di Azincourt

Battaglia di Formigny di Francesco Colotta

D

opo la morte di Giovanna d’Arco (1431), la Guerra dei Cent’anni si era trasformata in un conflitto perlopiú diplomatico. A scoraggiare i contendenti dal riprendere le armi contribuivano le nuove alleanze politiche maturate nel 1435: gli Inglesi non potevano piú contare sui Borgognoni – che gli avevano consegnato Giovanna – ormai tornati nell’orbita francese; allo stesso modo il re di Francia, Carlo VII, oberato anch’egli da difficoltà interne, era restio a tornare sul campo di battaglia. La pace, tuttavia, si rivelò un’opzione poco praticabile e, solo con grande sforzo, si giunse a prospettare una tregua, le cui modalità vennero discusse a Tours, nel maggio del 1444. Alla fine le parti sottoscrissero un accordo di non belligeranza della durata di cinque anni. Le ostilità, però, ripresero in prossimità della scadenza del trattato: la scintilla esplose nel marzo del 1449, quando un cavaliere dell’Ordine britannico della Giarrettiera, François de Surienne, espugnò la città bretone di Fougères. A difesa del borgo intervenne Carlo VII, il quale, conscio della debolezza politica dell’Inghilterra, aveva in realtà intenti molto piú ambiziosi: liberare l’intera Normandia. Il 1450 si aprí con una controffensiva inglese che costrinse alla fuga il nemico in diverse zone della Normandia settentrionale. Guidate dall’esperto sir Thomas Kyriell, le truppe britanniche si diressero poi verso sud, rafforzate da ben 2000 cavalieri provenienti da Rouen. Ad affrontarli, trovarono un’organizzata resistenza francese, al comando del conte Jean de Clermont. Quest’ultimo, non potendo contare su un esercito particolarmente consistente, preferí evitare il confronto in campo aperto, limitandosi a braccare gli Inglesi lungo il tragitto verso Caen, in previsione di un attacco alle spalle. L’avanzata inglese si fermò pochi chilometri a nord-ovest di Bayeux, nelle vicinanze del villaggio di Formigny, dove le divisioni di Kyriell decisero di acquartierarsi prima di scatenare l’offensiva finale. Il 15 aprile del 1450 il conte di Clermont, accampato con la sua armata a Carentan, qualche chilometro a ovest di Formigny, marciò verso l’armata inglese, che, nel frattempo, aveva ripreso il viaggio in direzione di Bayeux. Sentendosi minacciato sulle retrovie, Kyriell ordinò però alle truppe di interrompere il cammino e le dispose su tre file: davanti schierò gli arcieri, mentre alle spalle collocò i fanti e i cavalieri, con il supporto delle ali, la sinistra a ridosso di un ponte su un ruscello e la destra nei pressi del villaggio. Clermont tentò qualche sortita con la cavalleria e poi si risolse di attuare la sua vera tattica. Fece arretrare le truppe, per metterle al riparo dalle frecce inglesi, e schierò la sua arma segreta: i cannoni a lunga gittata, le «colubrine», con i quali bersagliò con una pioggia di fuoco i soldati di Kyriell, producendo gravi danni nelle file rivali. Il bombardamento durò fino al momento in cui i Britannici, con un’azione fulminea, riuscirono ad accerchiare i tiratori francesi, sottraendo loro i micidiali cannoni.


A quel punto, la battaglia si tramutò in una drammatica contesa per il possesso delle colubrine, che tornarono subito nelle mani degli uomini di Clermont, dopo un’incursione della cavalleria. Nonostante disponessero di nuovo dell’artiglieria pesante, i Francesi non riuscirono a piegare la resistenza delle truppe di Kyriell. Nel momento in cui sul campo si registrava un sostanziale stallo, giunsero da sud-ovest i sospirati rinforzi francesi, sotto il comando del connestabile Richemont, che piombarono sul campo di battaglia, costringendo le unità nemiche a battere in ritirata verso Formigny. Le forze di Clermont e di Richemont ne approfittarono per sferrare congiuntamente l’attacco decisivo, penetrando nelle linee avversarie ormai sparse in numerosi gruppi.

Miniatura raffigurante la battaglia di Formigny, da un’edizione della Chronique du règne de Charles VII di Jean Chartier. 1470-1480. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

medioevo in guerra

129


VO MEDIO E Dossier n. 1/2015 Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Gli autori: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Federico Marazzi è professore associato di archeologia cristiana e medievale presso l’Università degli Studi «Suor Orsola Benincasa» di Napoli. Marina Montesano è ricercatore di storia medievale all’Università di Genova. Aldo A. Settia è stato professore ordinario di storia medievale presso l’Università degli Studi di Pavia. Francesco Troisi è giornalista. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 14, 20 (basso), 22/23, 25, 30/31, 36 (basso), 37, 39-42, 49-51, 54-56, 60, 72, 74, 81, 89-91, 93, 95, 97-101, 103, 109, 112-115, 117-118, 128/129 – Mondadori Portfolio: p. 104; Rue des Archives/Tallandier: pp. 4/5, 28; AKG Images: pp. 10/11, 57; Album: pp. 18/19; The Art Archive: pp. 44/45 – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 12/13, 16/17, 62-71, 127 – Doc. red.: pp. 14, 20 (basso), 22/23, 25, 30/31, 36 (basso), 37, 39-42, 49-51, 54-56, 60, 72, 74, 81, 89-91, 93, 95, 97-101, 103, 109, 112-115, 117-118, 128/129 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Château de Versailles)/Gérard Blot: p. 26 – Bridgeman Images: pp. 27, 35; Bibliothèque nationale de France, Paris: pp. 46, 84/85 (basso); © Look and Learn: p. 58 (alto); Peter Newark Pictures: pp. 58/59; Fitzwilliam Museum, University of Cambridge: p. 75; Ancient Art and Architecture Collection Ltd./Kadokawa: p. 87; Bibliothèque municipale, Valenciennes: pp. 110/111; Museo Statale dell’Ermitage, San Pietroburgo: p. 120; © Guildhall Art Gallery, City of London: pp. 122/123; Musée Condé, Chantilly: pp. 124/125; © Philip Mould Ltd., London: p. 125; © Lambeth Palace Library, London: pp. 126/127 – Ars Bellica/rielaborazione grafica di Patrizia Ferrandes: pp. 29, 79, 92/93, 126 – DeA Picture Library: pp. 83, 106/107; A. Dagli Orti: pp. 76/77; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 78 – Shutterstock: p. 80 – Corbis Images: Leemage: p. 116. Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 8/9, 15, 20, 24, 33, 36/37, 38, 47, 52-53, 61, 73, 84/85, 94, 96, 102, 108/109, 115, 121 Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit, 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132- Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 – 24126 Bergamo Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit, 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


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