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MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
CATTEDRALI E ABBAZIE
N°63 Luglio/Agosto 2024 Rivista Bimestrale
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€ 7,90
CATTEDRALI E ABBAZIE
UN VIAGGIO TRA LUCE E SPIRITUALITÀ
IN EDICOLA IL 26 LUGLIO 2024
CATTEDRALI E ABBAZIE UN VIAGGIO TRA LUCE E SPIRITUALITÀ testi di Cécile Caby, Enrico Faini, Sonia Merli e Chiara Piccinini
4 PRESENTAZIONE 6 LE GRANDI CATTEDRALI 6. Una cattedra molto ambita 12. Schede: Modena, Pisa, Spoleto, Amalfi, Bari, Monreale 20. Preghiera e trasgressione 25. Schede: Trento, Milano, Firenze, Orvieto, Atri, Lucera 32. Capolavori in corso 38. Schede: Autun, Angoulême, Arles, Salamanca, Jaca, Santiago di Compostella 46. All’altezza del potere 50. Schede: Amiens, Reims, Parigi, Chartres, Bourges, León 58 L’ITALIA DELLE ABBAZIE 58. Dall’Oriente con rigore 64. Schede: Chiusa San Michele, Sesto al Reghena, Codigoro, Ferentillo, Subiaco, Venosa 70. Tempo di riforme 74. Schede: Milano, Chiusdino, Priverno, Cava de’ Tirreni, Capri, Palermo 80. Le ore dei monaci 85. Schede: Pavia, Asciano, Poppi, Sassovivo, Rossano, Codrongianos 92. Poveri come nostro Signore 95. Schede: Venezia, Treviso, Firenze, Tolentino, Assisi, Napoli, Novalesa, Como, Brescia, San Benedetto Po, Verona, Padova, Chiavari, Bobbio, Nonantola, Bologna, Genga, Serra Sant’Abbondio, Grottaferrata, Cassino, Bominaco, Castiglione a Casauria, Goleto, Benevento, Staffarda, Pontida, Forlí, Vallombrosa, Pisa, Chiaravalle di Fiastra, Farfa, Casamari MEDIOEVO NASCOSTO 3
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a Chateaubriand a Proust, da Hugo a Kafka, la letteratura moderna ha celebrato il fascino delle cattedrali con accenti suggestivi, senza però l’incanto che solo un testimone del Medioevo poteva esprimere. Ci riferiamo alle parole del monaco benedettino Rodolfo il Glabro (980/985–1046): «Sembra che – scrive nelle celebri Cronache dell’anno Mille – la terra stessa come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia si rivestisse tutta di un candido manto di chiese». Un inno al rinnovamento, l’annuncio di un’era giovane, di fermenti culturali, religiosi e artistici. Nella stagione che la storiografia anglosassone identifica come «Pieno Medioevo» (High Middle Ages) – XI, XII e XIII secolo – si assiste ad un vero e proprio boom di cantieri di cattedrali: nelle odierne Francia, Italia, Spagna e Germania milioni di tonnellate di pietra vengono estratte dalle cave per portare a compimento questi ambiziosi progetti edilizi. Ma come nasce il fenomeno? Nel travagliato contesto altomedievale, con gli abitati che tendono ad asserragliarsi all’interno delle mura, le gerarchie ecclesiastiche divengono le autorità politiche di riferimento per la cit-
tadinanza. Le cattedrali, in quanto sede episcopale, assurgono allora a elemento centrale per la comunità, e si stagliano come protagoniste «fisiche» del paesaggio. A seconda della località, riflettevano gusto e tradizioni specifiche, seguendo gli stili architettonici in voga in quel periodo, il romanico e il gotico. Soprattutto in Italia, tuttavia, il paesaggio risultava puntellato anche da un altro monumento simbolo dell’architettura cristiana: l’abbazia, tipologia di monastero intorno al quale spesso sorgevano interi centri abitati. Tracciarne il profilo, raccontarne l’evoluzione, significa ripercorrere la genesi e lo sviluppo dei piú importanti Ordini religiosi, dalle originarie comunità benedettine fino alle tarde espressioni del movimento mendicante. Cattedrali e abbazie rappresentano un patrimonio incredibilmente vivo della cultura europea e ancora oggi attirano milioni di visitatori e appassionati. Il nuovo Dossier di «Medioevo» invita i lettori a riscoprirne lo splendore. L’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Asciano, Siena).
cattedra ambita
Una molto
Il termine «cattedrale» deriva da quello del trono riservato al vescovo e in genere collocato in fondo all’abside, dietro all’altare, cosí che il presule potesse guardare verso il popolo dei fedeli. Ed è in questi luoghi che si celebravano le funzioni piú solenni
Il trono episcopale noto come cattedra dell’abate Elia. 1098. Bari, basilica pontificia di S. Nicola. Ricavato da un unico blocco marmoreo, lo splendido manufatto è citato nella cronaca dell’Anonimo Barese, che narra di come Elia avesse preparato una «cattedra magnifica» (mirificam sedem) per la visita di papa Urbano II. 6
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di Sonia Merli e Chiara Piccinini
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on la parola «chiesa», l’Occidente medievale designava, come noi oggi, qualsiasi tipo di edificio religioso. L’espressione «chiesa cattedrale» aveva invece un significato storico-giuridico molto preciso che impediva di confondere quel complesso architettonico con gli altri tipi di edifici religiosi, fossero chiamati basilica, pieve, collegiata o semplicemente chiesa. Dagli albori del cristianesimo, infatti, la chiesa cattedrale era la chiesa del vescovo, massima autorità religiosa nell’ambito di una circoscrizione territoriale detta diocesi, e tale definizione è tuttora valida, tanto che non tutte le attuali città possiedono una cattedrale, ma solo quelle che sono a capo di una diocesi. Il fatto poi che all’interno di tali edifici fosse collocata la «cattedra» ha fatto sí che al termine ecclesia venisse affiancato l’aggettivo cattedralis, aggettivo che usato anche da solo ha dato luogo all’espressione «cattedrale» tout court. Ciò significa che la cattedra, da importante elemento dell’arredo mobile della chiesa, divenne addirittura elemento qualificante dell’edificio che lo conteneva. E nel Medioevo il legame tra la realtà urbana e la cattedrale appariva cosí forte che la denominazione di città fu riservata soltanto al capoluogo della diocesi.
Riccio di pastorale in avorio, appartenuto a Ivo di Chartres e proveniente dal tesoro della cattedrale francese di Beauvais. XI sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
tali sacerdoti e chierici fu denominata «capitolo cattedrale». Condizione necessaria per divenire canonici era di aver ricevuto uno degli ordini sacri maggiori (subdiacono, diacono, sacerdote); ciascun canonico aveva diritto a uno stallo nel coro e a un voto nell’assemblea capitolare. In quanto chiesa principale della diocesi, la cattedrale si distingueva rispetto alle altre chiese, dal punto di vista liturgico, per la maggiore ampiezza e solennità dell’ufficio celebrato, per la commemorazione annuale della consacrazione al culto divino, oltre che, come si è visto,
Il bastone del pastore
È grazie alla consacrazione episcopale, in occasione della quale si procede alla consegna del bastone pastorale, che il vescovo, divenuto il sacerdote piú importante della diocesi, può impartire i sacramenti della cresima e dell’ordinazione sacerdotale. Il bastone allude al ruolo fondamentale del vescovo, inteso metaforicamente come pastore e guida del «gregge» dei fedeli, mentre l’anello vescovile, oltre a essere il segno della sua unione con la Chiesa che governa, serviva anche ad autenticare i documenti, lasciando l’impronta dell’immagine in esso contenuta sulla cera del sigillo. Compiti fondamentali del vescovo sono quello di governare la diocesi, occupandosi anche in senso pastorale del popolo dei fedeli e dei sacerdoti incaricati della cura d’anime, e quello di amministrare i beni della Chiesa. Al vescovo, si affiancarono ben presto un certo numero di ecclesiastici, addetti al coro e al servizio liturgico della chiesa cattedrale, chiamati canonici, mentre la comunità costituita da
per la presenza del collegio di canonici, insieme ai quali il vescovo celebrava le funzioni religiose. Inoltre, a ribadire lo statuto giuridico privilegiato e la sua funzione di preminenza sulle altre chiese della città e del territorio, queste ultime erano tenute a versare periodicamente alla chiesa cattedrale, in segno di omaggio alla cattedra, il tributo del cattedratico o sinodatico (il cui importo, fissato dalla conferenza dei vescovi di ogni provincia ecclesiastica, doveva essere versato in occasione del sinodo diocesano convocato annualmente), le procurazioni e le parate, spese sostenute in occasione delle visite compiute dal vescovo nelle chiese poste sotCATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE Milano, S. Ambrogio. L’aspetto attuale della chiesa è l’esito della ricostruzione promossa nel XII sec. e dei successivi rimaneggiamenti, ma la prima fondazione dell’edificio è ben piú antica e risale all’epoca dello stesso vescovo Ambrogio, cioè alla seconda metà del IV sec.
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Le grandi cattedrali
QUANDO SI DICE BASILICA Basiliche erano per i Romani grandi edifici pubblici a pianta rettangolare, con forte sviluppo longitudinale, sedi di tribunali o luoghi di riunione. Generalmente articolate in tre o cinque navate, di cui quella centrale rialzata e dotata di finestre, avevano sul fondo un’abside semicircolare e la copertura del tetto a capriata o a cassettoni. In età paleocristiana fu scelta questa tipologia architettonica per realizzare un edificio che fosse contemporaneamente la «casa del Signore» e il luogo di culto per i fedeli. Attualmente con il termine basilica si designano soprattutto gli edifici funerari, sia che si tratti di costruzioni sorte sulla tomba di un santo (come la basilica di S. Ambrogio a Milano, edificata nel 379 sul sepolcro dei santi Gervasio e Protasio e dove, nel 397, fu sepolto il santo vescovo) o con lo scopo di custodire reliquie, come nel caso di S. Marco a Venezia o di S. Nicola di Bari. Tuttavia, nell’Alto Medioevo non fu raro il caso di basiliche che, per la presenza del seggio vescovile, furono a tutti gli effetti chiese cattedrali (S. Nicola di Bari); senza dimenticare che, a tutt’oggi, la basilica di S. Giovanni in Laterano è la chiesa cattedrale di Roma. Mentre una sola è la cattedrale all’interno di una città che sia sede vescovile, in una stessa città (che sia o meno a capo di una diocesi) possono sorgere piú basiliche: si porta ancora l’esempio di Roma, sede di quattro basiliche maggiori o patriarcali (S. Giovanni in Laterano, S. Pietro in Vaticano, S. Maria Maggiore all’Esquilino e S. Paolo fuori le Mura) e di varie altre basiliche minori.
Dedicazione della Chiesa, iniziale T miniata da don Silvestro dei Gherarducci, dal Graduale con il Proprio dei santi, Corale 2. 1371. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. to la sua giurisdizione. L’articolazione territoriale della Chiesa in diocesi non è però stata fissa e omogenea nel mondo cristiano, visto il numero piuttosto variabile di tali circoscrizioni e la grande differenza di estensione. Esemplare è il caso dell’Italia – che alla fine del XII secolo conta circa 370 diocesi – cui si è soliti contrapporre l’organizzazione in macro-diocesi propria della Germania e dell’Inghilterra o delle regioni scandinave e slave. In realtà la situazione italiana non è affatto omogenea, se si considera che nel 1198 per la Sicilia si contavano «solo» 10 diocesi, mentre a quella stessa data nel territorio dell’attuale Campania ve ne erano circa 30.
Una forte fluidità
Nuove diocesi sorsero comunque durante tutto il Medioevo, sia per coprire gli ampi spazi di piú recente evangelizzazione sia per scissione dalle piú antiche unità, tanto che agli inizi del XV secolo nell’ambito della cristianità latina se ne contavano circa 800. Una forte fluidità ha caratterizzato senza dubbio anche i secoli successivi, tanto che non tutte le chiese cattedrali del Medievo hanno mantenuto questo status giuridico fino ai nostri giorni: ciò dipende dal fatto che la soppressione della diocesi comporta automaticamente anche la soppressione del titolo di cattedrale per la chiesa che ne era provvista. Nonostante lo sviluppo di altre istituzioni ecclesiastiche, per cosí dire «di disturbo», come i monasteri, prima, e i conventi degli Ordini mendicanti, poi, la diocesi rimase per le chiese del territorio una forma di inquadramento giuridico e di disciplinamento morale dalla quale non si poteva prescindere in alcun modo. Ciò è dimostrato in maniera piuttosto chiara non solo dalle offerte annuali fatte dai sacerdoti titolari di pievi e parrocchie, ma anche, a partire dal XIII secolo e in osservanza a quanto era stato prescritto dal IV Concilio Lateranense (1215), dallo svolgimento dei sinodi diocesani e delle visite pastorali. Se lo strumento del sinodo permetteva al vescovo di convocare l’adunanza dei sacerdoti della sua diocesi per affrontare questioni relative alla disciplina, alla cura pastorale e all’amministrazione dei sacramenti, le visite erano invece volte a verificare concretamente i costumi del clero locale e a correggerne gli abusi, indicando piú rigide norme di comportamento.
PIEVE, PARROCCHIA E COLLEGIATA Con la rapida diffusione del cristianesimo nelle campagne, a partire dall’Alto Medioevo furono creati all’interno della diocesi dei centri religiosi, detti pievi, che detenevano la facoltà di impartire il battesimo ai fedeli che abitavano nel loro territorio. Successivamente, il progressivo aumento della popolazione sia in città che in campagna portò alla formazione delle parrocchie, circoscrizioni di estensione piú ridotta che ricevettero negli ultimi secoli del Medioevo molte delle prerogative proprie delle pievi. Una chiesa parrocchiale può essere governata o da un semplice parroco (è il caso piú frequente) oppure da un gruppo di ecclesiastici che vivono in comunità, esattamente come i canonici della chiesa cattedrale, e alla chiesa viene allora dato il nome di «collegiata».
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UNA GRANDE BASILICA PER IL PRINCIPE DEGLI APOSTOLI La tradizione vuole che il luogo del martirio di san Pietro sia «iuxta obeliscum», cioè presso l’obelisco del circo di Caligola e Nerone (1). Fatto trasportare dalla città egiziana di Eliopoli da Caligola, l’obelisco rimase nel luogo originario fino al 1586, quando venne trasferito al centro della piazza di S. Pietro, chiusa dal colonnato del Bernini. Nei pressi dell’obelisco era il mausoleo di Teodosio (2), poi trasformato da papa Stefano II, su richiesta di Pipino il Breve, in cappella dedicata a santa Petronilla, vergine romana alla quale i Franchi erano particolarmente devoti. Due secoli e mezzo dopo la morte dell’apostolo Pietro, l’imperatore Costantino fece costruire sopra la sua sepoltura la prima basilica
di S. Pietro (3). Iniziato nel 324 e consacrato da papa Silvestro il 18 novembre del 326, l’edificio venne portato a termine solo nel 349. La grande chiesa costantiniana aveva le caratteristiche della basilica paleocristiana (120 x 60 m), divisa in cinque navate. Al centro del presbiterio era posizionata la tomba di S. Pietro (4). La basilica era preceduta da un ampio quadriportico (5) con al cenuo una fontana (6) e una vasca per le abluzioni abbellita da una pigna di bronzo (7). ora nei Palazzi Vaticani. Il campanile (8) venne costruito nel 752. Nel 781, durante la sua seconda visita a Roma, Carlo Magno fece costruire un palazzo imperiale (9). Intanto Leone III faceva allestire una nuova residenza pontificia.
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Le grandi cattedrali
L’EUROPA DELLE CATTEDRALI
York Ramsey
Hildesheim
Canterbury Rouen
Magdeburgo
Colonia Amiens
Parigi Mt. Saint-Michel Chartres
Fulda
Reims
Ratisbona Augusta Salisburgo San Gallo
Vézelay Autun
Bourges
Milano
Limoges
Trento
Angoulême León
Santiago de Compostela Salamanca
Arles Jaca
Tolosa
Pisa Modena Firenze Orvieto Spoleto
Atri
Roma
Lucera Amalfi
Monreale
Nella cartina è indicata l’ubicazione delle cattedrali citate e descritte nel testo, che costituiscono, com’è facile intuire, solo una selezione, per quanto significativa, del piú ampio novero di tutti i luoghi di culto di questo tipo che a tutt’oggi si possono vedere nei Paesi europei. 12
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Bari
MODENA cattedrale di s. maria assunta
A sinistra la facciata della cattedrale di Modena. La costruzione della chiesa, capolavoro dell’architettura romanica, fu iniziata nel 1099 sotto la guida dell’architetto Lanfranco. A destra particolare di uno stipite del portale centrale con il ritratto del profeta Geremia. In basso uno dei rilievi della Genesi. Da sinistra, Dio Padre in una mandorla sorretta da due angeli; la creazione di Adamo e quella di Eva, che sorge dal fianco dell’uomo addormentato; il Peccato Originale.
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ell’VIII secolo l’antica città romana di Mutina risulta quasi completamente abbandonata e la maggior parte degli abitanti è passata nel nuovo centro fortificato di Cittanova. Quel poco di vita rimasta è raccolta intorno alla chiesa cattedrale. Dal IV secolo qui riposava Geminiano, vescovo della città e suo patrono; e da questo luogo, a ridosso dell’antica via Aemilia, la città comincerà a rinascere dalla fine del IX secolo. Nel 1099 la cattedrale è in pessime condizioni, sicché cittadini e clero decidono di alzarne una nuova, con l’approvazione di Matilde di Canossa. L’architetto si chiama Lanfranco: raffigurato piú volte nelle miniature della Relatio translationis corporis Sancti Geminiani, dove è definito «artefice mirabile, mirabile costruttore», è esaltato in un’iscrizione murata sulla facciata
come «ingenio clarus (...) doctus et aptus». Nel 1106 il corpo del santo viene traslato nella nuova chiesa e Lanfranco, insieme al vescovo, ha l’onore di sollevare il coperchio del sarcofago. Il limpido rapporto fra spazi e volumi all’interno e all’esterno basta a fare della chiesa uno dei maggiori risultati del romanico padano. Sia
dovuto al caso o alla sua solidità, la costruzione fu risparmiata dal terremoto del 1117 che distrusse tanti edifici della regione. In stretta collaborazione con Lanfranco lavorò Wiligelmo. Di lui sappiamo soltanto quel che dice un’altra iscrizione sulla facciata: che la sua scultura mostra quanto egli sia degno d’onore. I suoi rilievi con storie della Genesi e le sculture del portale maggiore sono l’inizio di una fitta decorazione scultorea che i suoi collaboratori e successori distribuirono dentro e fuori la cattedrale (sulle porte dei fianchi, nelle giunture dell’architettura e nell’arredo liturgico interno), in stili diversi e aggiornati, fino a tutto il XIII secolo.
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Le grandi cattedrali
PISA cattedrale di s. maria assunta
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nno 1063. Pisa spadroneggia sul Mediterraneo. Saccheggiato il porto di Palermo, le sue navi riportano in patria un ricco bottino, accolte dal popolo in festa. In ringraziamento alla Vergine, si decide di alzarle una nuova cattedrale, in una zona a nord della città dove già nell’Alto Medioevo
c’erano una chiesa di S. Maria e un battistero. Le ricchezze venute di Sicilia danno il primo impulso alla fabbrica: sulla facciata del duomo, una lunga epigrafe lo ricorda esplicitamente e tesse la gloria dei valorosi Pisani. Sempre sulla facciata, tra numerose iscrizioni spesso celebrative delle
vittorie della città, verrà sepolto, in un sarcofago antico, l’architetto Buscheto, iniziatore del «tempio di candido marmo», piú ingegnoso dell’antico Dedalo. A pianta basilicale, ricco di richiami all’antichità, al mondo arabo, bizantino, normannosiculo e insieme aggiornato sul
In alto Pisa, la piazza del Duomo, nota anche come piazza dei Miracoli per la perfezione dei monumenti che su di essa si affacciano fondati tra l’XI e il XII sec. Da sinistra: la cattedrale di S. Maria Assunta e il Battistero, ai quali si aggiunge la celeberrima Torre pendente (non inquadrata nella foto). A sinistra particolare della lussureggiante decorazione del pulpito realizzato per la cattedrale di Pisa da Nicola Pisano. 1259-1260.
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pergamo di Giovanni Pisano entra in duomo nel 1311. Benché già decaduta da regina dei mari, Pisa seppe ancora ornare il tempio delle sue glorie civiche con le forme piú audacemente moderne della scultura del tempo.
Qui sopra la porta bronzea realizzata da Bonanno Pisano per l’ingresso orientale del transetto meridionale del Duomo di Pisa, detta anche «di San Ranieri». 1180 circa. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo. romanico europeo, il duomo di Buscheto risplende dentro e fuori con marmi di vari colori, e dà il «la» agli altri monumenti che andranno formando, nel corso di due secoli, uno dei maggiori complessi dell’arte europea. Nel 1153 si comincia il battistero, vent’anni dopo il campanile; alla fine del Duecento, il Camposanto. Allungato e munito di facciata da Rainaldo e Guglielmo (anch’essi citati in iscrizioni all’esterno), il duomo si arricchisce dei due pulpiti dello scultore Guglielmo (1167, poi trasferiti nel duomo di Cagliari), opera capostipite della scultura romanica pisana, delle straordinarie porte bronzee di Bonanno, di cui resta solo quella del transetto nord, di mosaici interni cui lavorò anche Cimabue. Il
della consacrazione di Innocenzo III – doveva essere già in fase avanzata. Bisogna però attendere il 1207 per il completamento dello smagliante mosaico bizantineggiante della facciata, opera di Solsterno (che amò definirsi
SPOLETO (PG) cattedrale di s. maria assunta
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enzionata per la prima volta in un documento del 956 come S. Maria del Vescovato, la chiesa cattedrale di Spoleto fu ricostruita intorno alla metà dell’XI secolo, in concomitanza con l’istituzione da parte del vescovo Andrea di un capitolo di canonici (1067). Poco piú di un secolo dopo, tuttavia, si decise di riedificare la cattedrale in forme molto piú imponenti, probabilmente anche a causa dei danni subiti dall’edificio in occasione dell’assedio delle truppe di Federico Barbarossa alla città di Spoleto, rea di avere pagato con moneta falsa il fodro, ovvero l’imposta in denaro che i Comuni dovevano versare all’imperatore. Il piano di ricostruzione, talmente ambizioso da rendere necessario l’abbattimento del palazzo vescovile per fare spazio al nuovo edificio, ebbe avvio intorno al 1170, e nel 1198 – data
In alto, a destra la cattedrale spoletina di S. Maria Assunta, consacrata da papa Innocenzo III nel 1198. Qui sopra il quadretto della «Santissima Icone», donato alla città di Spoleto da Federico Barbarossa, quale pegno di pace, nel 1185. XI o XII sec. CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE doctor) e raffigurante il Cristo benedicente tra la Vergine e san Giovanni. Mentre l’interno doveva essere compiuto pochi anni dopo, se nel 1216 Onorio III consacrò l’altare maggiore e se nel 1232, alla presenza di Gregorio IX, vi si canonizzava sant’Antonio da Padova. Le articolate e travagliate fasi della edificazione di S. Maria Assunta sono già visibili all’esterno nel campanile, costruito alla fine del XII secolo con un largo reimpiego di materiale romano e barbarico; nel portico rinascimentale ornato di elegantissimi fregi, semicolonne, balaustre e nicchie; per non parlare della facciata, in cui si distinguono due diversi tempi di fabbrica e dove il mutamento di indirizzo venutosi a creare nel prolungato tempo di realizzazione portò all’introduzione, nel secondo ordine, del mosaico come motivo decorativo dominante, oltre che di tre nuovi rosoni. Sfondo suggestivo, da oltre sessant’anni, al concerto conclusivo del Festival dei due Mondi, la cattedrale di S. Maria Assunta conserva tra l’altro il veneratissimo quadretto della «Santissima Icone» (databile all’XI o XII secolo), donato alla città dal Barbarossa quale pegno di pace nel 1185, e una delle due lettere autografe pervenuteci di san Francesco d’Assisi, indirizzata a frate Leone e attualmente custodita dal Capitolo della cattedrale nella Cappella delle Reliquie.
Le grandi cattedrali
La facciata della cattedrale amalfitana di S. Andrea, frutto di una ricostruzione ottocentesca, promossa a seguito del crollo parziale della struttura originaria. In basso particolare della porta del Duomo di Amalfi, realizzata a Costantinopoli (ante 1065) da Simone di Antiochia su incarico di Pantaleone de Comite.
mare. Qui, come in altri aspetti della sua cattedrale (le arcate acute intrecciate sulle pareti del campanile, o l’architettura del famoso chiostro del Paradiso), Amalfi mediava fra culture artistiche diverse, divenendo ponte verso l’Occidente di forme arabe e bizantine. Inevitabile, forse, per una superpotenza d’affari che aveva fondachi nella stessa Costantinopoli. Nel 977, Ibn Hawqual, mercante di Baghdad che conosceva tutto il Mediterraneo, definisce Amalfi «la piú prospera città della Longobardia, la piú nobile, la piú illustre, la piú ricca e opulenta». Nell’XI secolo, all’acme della prosperità, essa riveste la propria chiesa madre di forme di sapore orientale. Le splendide porte bronzee del duomo, con al centro, fra croci applicate, la Vergine, Cristo, i Santi Andrea e Pietro incisi e riempiti nei profili con smalti colorati e argento, vengono direttamente da Costantinopoli e sono il magnifico dono (1065 circa) del grande mercante Pantaleone de Comite, a conferma dello stretto legame fra la Chiesa amalfitana e le famiglie patrizie cittadine.
solo, vastissimo ambiente. Immerso in tale foresta di colonne, il fedele, ricco mercante o marinaio che fosse, si sarà ricordato degli interni delle moschee che aveva visto nei suoi viaggi per
BARI cattedrale di s. sabino
AMALFI (SA) cattedrale di s. andrea
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el 987 papa Giovanni XV proclamava arcidiocesi la sede vescovile di Amalfi. Si cominciò probabilmente allora la costruzione di un secondo duomo, accanto a quello già esistente e che oggi, ridotto a una sola navata, è la chiesa del Crocifisso. Amalfi ebbe cosí una cattedrale doppia; le due chiese erano unite da un atrio oggi scomparso (l’attuale è un’invenzione della fine del XIX secolo, e cosí la facciata) e comunicavano tramite la parete che avevano in comune. Questa, aperta da un colonnato, rendeva i due spazi quasi un
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a cattedrale di Bari è certo meno famosa della basilica di S. Nicola, che ha attirato nel tempo folle di
pellegrini, doni e privilegi regali. Fra duomo e basilica si è mantenuta nei secoli una forte rivalità, fin da quando (1087) giunsero dall’Oriente le reliquie di san Nicola. Si scatenò allora una vera guerra armata per il loro possesso: da una parte la maggioranza della popolazione, guidata dall’abate benedettino Elia, dall’altra i sostenitori del Capitolo della cattedrale. I primi ebbero la meglio, Elia divenne vescovo e, sulla tomba di san Nicola, sorse la celebre basilica. Nei secoli, essa ha oscurato la fama del duomo di S. Sabino, sede del vescovo di Bari e di Canosa. Il santo venuto dall’Oriente ha anche largamente superato in popolarità l’icona della Vergine Odigitria adorata nel duomo (secondo la
Uno scorcio dell’interno (in alto) e una veduta esterna della cattedrale barese di S. Sabino, edificata per volontà dell’arcivescovo Rainaldo, sulle rovine del duomo bizantino quasi interamente distrutto da Guglielmo I, detto il Malo. La chiesa è una delle espressioni piú felici del romanico pugliese.
leggenda, giunta a Bisanzio al tempo dell’iconoclastia) e il corpo di san Sabino, ritrovato in cattedrale nel 1091. La cattedrale attuale fu ricostruita dopo la quasi completa distruzione a opera di Guglielmo il Malo (1156). Come la maggior parte delle chiese romaniche pugliesi, essa prese a modello l’architettura della basilica
rivale. È probabile che il duomo fosse dotato di un antico battistero: l’edificio circolare, detto «la Trulla», che sorge al suo fianco, poggia sulle fondazioni di un battistero, ma non si sa se questo sia mai stato effettivamente terminato e usato. Del baldacchino, della transenna e del trono episcopale duecenteschi rimangono pochi
frammenti autentici. Integro è, invece, lo splendido finestrone dell’abside, decorato di rilievi animali e vegetali di gusto bizantino e di figure (elefanti, mostri alati) invece pienamente romaniche; prodotto altissimo del fertile incontro di tradizioni orientali e novità occidentali, peculiare del romanico pugliese. CATTEDRALI E ABBAZIE
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MONREALE (PA) cattedrale di s. maria nuova
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uglielmo II, re di Sicilia appena maggiorenne, si riposa durante una caccia quando viene visitato da un’apparizione. La Vergine Maria gli rivela dov’è celato il tesoro paterno; in cambio vuole che egli eriga una chiesa in suo onore. Fra il 1176 e il 1183, con una rapidità mai vista, sorgerà dunque presso Palermo, alle falde del Monte Caputo, un complesso 18
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Le grandi cattedrali
straordinario per imponenza e splendore. La chiesa cattedrale, dedicata alla Vergine Assunta, un monastero popolato da cento monaci e un palazzo vescovile fanno del Mons regalis il simbolo del potere autocratico dei re normanni e, insieme, un grande monumento alla cultura da essi promossa nel regno, mista di elementi arabi, greci, bizantini e occidentali. Gli arcivescovi monregalesi saranno per Guglielmo prelati piú fedeli di quelli di
Mosaico di scuola bizantina su fondo oro raffigurante la Vergine in trono, con il Bambino, affiancata dagli arcangeli Michele (a sinistra) e Gabriele. L’opera orna l’abside della chiesa e si deve a maestranze in parte locali e in parte veneziane, che vi lavorarono fra il XII e la metà del XIII sec. Palermo; e l’impresa si ricollega idealmente a quella tentata dal nonno Ruggero II con il progetto di un grande mausoleo dinastico a Cefalú. Maestri arabo-siculi e continentali
spandono nel nuovo duomo tracce delle loro diverse formazioni. L’edificio è basilicale, ma con colonne e capitelli antichi e una zona orientale dilatata, alla bizantina, fin quasi a formare un santuario a sé. I mosaici interni, opera di maestri locali ma forse anche veneziani, sono, con quello di S. Marco a Venezia, uno degli insiemi piú importanti del genere. Gli archi intrecciati che, all’esterno, decorano le absidi evocano il mondo arabo, come già in altre architetture
dell’isola e della costa campana. La porta in bronzo della facciata, firmata da Bonanno Pisano nel 1186, parla una lingua decisamente occidentale, mentre, sempre nella seconda metà del XII secolo, Barisano da Trani in quella sul fianco settentrionale media fra tradizione bizantina e aperture di ispirazione nordica. Nel chiostro arabeggiante, colonne e capitelli, splendenti di marmi intarsiati, sono aggiornati sulle correnti piú «moderne» del romanico europeo.
In alto uno scorcio dell’interno del chiostro del Duomo di Monreale: ornato di archi a sesto acuto retti da colonnine decorate con mosaici, rappresenta la fusione di elementi architettonici romanico-normanni e arabo-bizantini. XII-XIII sec. Qui sopra particolare della decorazione di uno dei capitelli del chiostro, ispirata alla parabola del ricco Epulone: questi finisce all’inferno, mentre l’anima di Lazzaro viene accolta da Abramo nel suo grembo, assicurandogli il paradiso.
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Preghiera e trasgressione 20
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Consacrate con cerimonie improntate alla massima solennità, in molti casi alla presenza del papa, le chiese madri si fanno spesso teatro dell’incontro tra sacro e profano. Fino a ospitare feste a dir poco... singolari
di Sonia Merli e Chiara Piccinini
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ra gli elementi che nel corso del millennio medievale contraddistinguevano lo status della chiesa cattedrale e che ne rafforzarono la posizione di preminenza rispetto alle altre chiese della diocesi, c’era la cerimonia solenne della sua dedicazione, per effetto della quale l’edificio veniva ufficialmente consacrato al culto divino. La prima parte di tale rito, che dobbiamo immaginare di grande complessità e suggestione, era riservata soltanto al vescovo e al suo clero. La cerimonia prevedeva tre giri all’esterno della chiesa per aspergerne le mura, quindi, dopo l’ingresso del corteo episcopale all’interno, una serie di litanie e prostrazioni, l’iscrizione con il pastorale delle lettere dell’alfabeto greco e latino su due strisce di cenere a forma di croce decussata e la preparazione dell’acqua gregoriana (una miscela d’acqua, sale, ceneri e vino) con cui venivano tracciate croci e fatte aspersioni in diversi punti della chiesa. Nella seconda parte della cerimonia, aperta anche al popolo, si procedeva alla consacrazione dell’interno della cattedrale e dell’altare tramite diverse unzioni con il crisma (una miscela a base di olio e di balsamo) e incensazioni. Dopo la benedizione delle tovaglie e delle suppellettili e l’allestimento dell’altare, si celebrava infine la Messa solenne.
È la distanza a far da regola
Particolare della decorazione del portico della cattedrale di Metz raffigurante il Graoully, il mostro che, secondo la tradizione, era stato affogato nel fiume locale da san Clemente, primo vescovo della città. XIII sec.
Tra gli atti di omaggio formali dovuti alla «chiesa madre» c’era poi la commemorazione annuale da parte di tutte le chiese della diocesi dell’anniversario della sua dedicazione, cui si aggiunse l’obbligo del prelievo del crisma solennemente consacrato in occasione della Messa del Giovedí Santo, quando tutto il clero cittadino si riuniva intorno al vescovo. Questa regola, fissata definitivamente all’inizio del IX secolo, stabiliva infatti che i sacerdoti residenti a non piú di cinque miglia dalla città dovessero recarsi personalmente in cattedrale, mentre tra quelli che abitavano a una distanza superiore alle otto-dieci miglia lo stesso vescovo ne avrebbe eletto uno che avrebbe preso in consegna l’olio benedetto per poi distribuirlo a tutti gli altri. Ulteriore fonte di prestigio per le cattedrali medievali era il fatto che in molti casi tali edifici si ritenevano fondati dal primo evangelizzatore della diocesi o dal protovescovo. Ne derivò che i sepolcri dei vescovi fondatori e le reliquie dei martiri – preziosissima componente del «tesoro» della cattedrale – divennero ben presto ogCATTEDRALI E ABBAZIE
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Le grandi cattedrali getto di culto e meta di pellegrinaggio. Talvolta, poi, l’edificio sorgeva addirittura nello stesso luogo in cui era avvenuto il martirio: emblematico il caso della cattedrale di Reims, all’interno della quale fino al XVIII secolo si conservava un’edicola circolare, chiamata rouelle de SaintNicaise, edificata proprio nel punto in cui nel 407 san Nicasio era stato ucciso dai Vandali.
Voglia di autocelebrazione
Il fatto di considerare la chiesa cattedrale come lo scrigno che racchiudeva la memoria religiosa della città e della diocesi fu alla base di un altro genere di operazione, che a partire dal V secolo portò alla compilazione dei fasti episcopali, cioè degli elenchi dei vescovi che avevano retto una determinata diocesi, con l’evidente volontà di sottolineare l’antichità, il prestigio e la continuità storica dell’istituzione vescovile. La stessa decorazione della cattedrale non fu estranea a questo disegno di perpetuare il ricordo di personaggi che contribuirono a glorificare la Chiesa locale o che resero possibile la vittoria dell’ordine urbano sulla natura. Nella cattedrale di Metz è infatti raffigurato il Graoully, orribile mostro che secondo la tradizione era stato affogato nel fiume locale da san Clemente, primo vescovo della città. A Parigi grande era la devozione per san Marcello che aveva sconfitto il drago che terrorizzava gli abitanti. Mentre nelle vetrate della cattedrale di Bourges sono rappresentati sant’Ursino e san Giusto, primi evangelizzatori della zona del Berry, seguiti dalla serie dei vescovi della città fino all’inizio del XIII secolo. Il recupero della memoria dei protovescovi e dei santi locali continuò a manifestarsi anche nei secoli successivi sotto forme diverse, dalla traslazione delle reliquie del protovescovo della La consacrazione del Duomo di Firenze, il 25 marzo 1436, a opera di papa Eugenio IV, da un antifonario miniato. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto, in alto Clemente, primo vescovo di Metz (e futuro santo), conduce il Graoully al di là del fiume Seille, liberando la città, illustrazione tratta da una miniatura del XIV sec.
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LUOGHI DI FEDE E DI STUDIO Molto importante fu la funzione culturale assolta nel Medioevo dalle chiese cattedrali, accanto alle quali sorsero le cosiddette scuole episcopali. Dal XII secolo, infatti, si fecero sempre piú frequenti le prescrizioni pontificie che prevedevano che i vescovi mantenessero a proprie spese una scuola annessa alla cattedrale, presso la quale impartire una adeguata istruzione ai futuri chierici – ma numerosi erano anche i laici che vi si iscrivevano – sotto la direzione di un canonico del capitolo, detto cancelliere.
Il corso di studi si articolava in schola minor (corrispondente al grado di istruzione elementare) e schola maior, in cui si apprendevano le arti liberali, dal IX secolo dette del trivio o arti della parola (grammatica, retorica, logica e dialettica) e del quadrivio o arti dei numeri (aritmetica, geometria, astronomia, musica), considerate discipline propedeutiche allo studio della Sacra Scrittura e della teologia. Le scuole episcopali erano anche dotate di ricche biblioteche, che nel Medioevo non erano
A destra vetrata policroma raffigurante Leobino (vescovo di Chartres dal 545 al 560 e poi santo) in piedi, al centro, fra un uomo piú anziano, suo padre (a sinistra), e un monaco, riconoscibile dalla tonsura, che scrive su un dittico. 1205-1240. Chartres, cattedrale di Notre-Dame.
soltanto luogo di conservazione dei libri, ma veri e propri centri di cultura. Qui si custodivano testi liturgici, divisi in sacramentari (contenenti le formule usate nella celebrazione eucaristica e nell’amministrazione dei sacramenti), Ordines Romani (contenenti la descrizione e le regole per lo svolgimento delle principali cerimonie sacre) e antifonari (che raccoglievano i canti utilizzati per l’ufficio divino), a cui si aggiungevano opere patristiche, scolastiche e teologiche, oltre che numerosi esemplari della Bibbia.
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Le grandi cattedrali si giunse al culto del santo patrono, protettore e tutore della cittadinanza. Ciò significa che la cattedrale, che per molti secoli rappresentò l’essenza stessa della città, in quanto depositaria delle memorie e migliore testimone della sua personalità collettiva, divenne – insieme alla sua piazza – uno dei luoghi principali della socialità cittadina e inevitabile punto di riferimento per la celebrazione e lo svolgimento di eventi di natura civica e politica. Basti pensare alle feste patronali delle città comunali, in occasione delle quali si rinnovavano patti politici e sottomissioni, o alle solenni celebrazioni per l’arrivo di personaggi importanti o alle devozioni pubbliche per scongiurare flagelli e calamità: eventi questi che, dopo cortei e processioni per la città, vedevano il loro momento culminante proprio nella celebrazione della funzione religiosa in cattedrale. Spesso, poi, il consiglio comunale di una città si riuniva nella chiesa cattedrale e, in caso di pericolo, i cittadini si proteggevano al suo interno.
Quando i «folli» fanno festa
Miniatura raffigurante la festa (charivari) per le nozze di Fauvel e Vaine Gloire, da un codice del Roman de Fauvel, poema satirico attribuito a Gervais du Bus e Raoul Chaillou de Pesstain. 1316-1320 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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diocesi all’interno della chiesa cattedrale – nel caso di san Siro a Pavia i resti furono trasferiti dalla chiesa suburbana dei Ss. Gervasio e Protasio nella cattedrale di S. Stefano – alle dedicazioni delle stesse cattedrali. Accanto alle dedicazioni mariane e a quelle di tradizione romana (Pietro, Lorenzo) molte altre si indirizzano, infatti, verso santi locali, come nel caso di Assisi, Città di Castello o Arezzo, le cui cattedrali vennero intitolate rispettivamente a san Rufino, san Florido e san Donato. Alla base del fenomeno c’è la creazione di un rapporto di patrocinio tra il santo vescovo e la città, grazie al quale
La funzione di luogo di incontro tra sacro e profano si manifestava però soprattutto in occasione della celebrazione di particolari feste e cerimonie paraliturgiche, che miravano al temporaneo sovvertimento dell’ordine gerarchico. Particolarmente nota a tale proposito è la «festa dei folli», documentata già dalla fine del XII secolo e chiamata anche festa dei suddiaconi, del baculo o festa asinaria, a indicare quel complesso di cerimonie – spesso mal viste dalle gerarchie ecclesiastiche – che la categoria dei suddiaconi compiva per celebrare l’anno nuovo nella ricorrenza della Circoncisione, del l’Epifania o dell’ottava dell’Epifania. In senso lato la denominazione di «festa dei folli» venne applicata poi impropriamente a tutte le quattro «feste» contemplate nella liturgia in uso presso numerose cattedrali per la quindicina immediatamente consecutiva a Natale, passando perciò a indicare oltre che il subdiaconorum festum propriamente detto (ultima e piú sfrenata tappa delle quattro feste postnatalizie) anche le cosiddette Libertates decembris, vale a dire le tre feste dei diaconi (26 dicembre, Santo Stefano), dei presbiteri (27 dicembre, San Giovanni) e dei chierici (28 dicembre, Santi Innocenti). Parallela alla festa dei folli era l’elezione dell’episcopello, cioè del vescovo fanciullo, eletto alla sacra carica per burla fra gli scolari del coro e con il compito di presiedere temporaneamente il servizio divino.
TRENTO cattedrale di s. vigilio
L’
ultimo giorno di febbraio del 1212 il principe-vescovo di Trento, Federico Vanga, assiste alla fondazione della nuova cattedrale. Vanga è un eminente rappresentante della Curia, in stretti rapporti con l’Impero, ma l’intensa attività politico-diplomatica non gli impedisce di occuparsi della sua capitale e di commissionare numerosi oggetti d’arte. Trento sotto di lui è particolarmente prospera, riceve una nuova residenza vescovile e una nuova cerchia di mura. È Federico a voler ricostruire ex novo la basilica cattedrale che dal V secolo custodiva il corpo di san Vigilio, terzo vescovo della città; ed è certo lui a volere, quale progettista e primo direttore dei lavori, Adamo da Arogno, maestro di cultura lombarda-campionese che tracciò almeno il perimetro della nuova chiesa. Il nome di Federico quale fondatore, quello del maestro e la data ci sono trasmessi dall’iscrizione funebre di Adamo, murata all’esterno dell’abside; la stessa ci dice che l’opera fu continuata dai figli e nipoti del maestro,
In alto una veduta esterna della cattedrale trentina di S. Vigilio che permette di apprezzare la ricchezza di forme architettoniche e di elementi decorativi che connotano l’abisde maggiore, fra i quali spiccano, nella fascia mediana, le grandi finestre monofore con strombature. A destra la scultura raffigurante san Vigilio inserita sulla Porta del Vescovo. secondo un’organizzazione professionale per clan familiari di lunga tradizione fra i lapicidi-architetti lombardi. Estinti gli Arogno, altri maestri della stessa cultura presero in mano il cantiere. Questo dovette trascinarsi stancamente dopo la morte del committente (1218): la copertura è della metà del Trecento, alcune parti furono compiute nel XVI secolo, il tiburio è ottocentesco. Sobriamente decorato all’esterno da sculture della maestranza d’Adamo – i portali dei fianchi, la Madonna «degli Annegati» in una nicchia laterale – e dei successori (la Ruota della Fortuna del transetto destro, il rosone sulla
facciata), il duomo trentino sfoggiava all’interno policromie architettoniche e affreschi di cui restano pallide tracce. Superate ormai le discussioni sulla necessità di etichettarlo come «romanico» o «gotico», resta l’originalità di un’architettura in cui la tradizione costruttiva lombarda si aggiorna nei dettagli, con prudente consapevolezza, sulle novità francesi. CATTEDRALI E ABBAZIE
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MILANO cattedrale di s. maria nascente
L’
archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano raccoglie una ricchissima documentazione, che fa della cattedrale milanese una delle imprese costruttive meglio documentate del Medioevo. Aperto poco prima del 1386, il cantiere era senz’altro il piú vasto nell’Italia del tempo. Si doveva sostituire con un edificio di proporzioni per l’epoca inaudite il complesso episcopale di origine paleocristiana: la cattedrale di S. Maria Maggiore, quella di S. Tecla e il battistero di S. Giovanni alle Fonti, dove è tradizione che sant’Ambrogio battezzasse sant’Agostino nel 397 (ne restano vestigia archeologiche in parte visitabili). La città è allora governata da Gian Galeazzo Visconti e capitale di uno Stato esteso a gran parte del Nord e fin oltre gli Appennini. La tesi storiografica secondo cui il signore volle personalmente la nuova cattedrale e vi s’impegnò direttamente, influendo anche su scelte tecniche e formali, è stata da tempo rivista. Il Visconti finanziò l’impresa, ma non molto di piú dei grandi borghesi della città. Durante le violente dispute tecniche fra architetti locali e francesi che divamparono intorno al 1400, il duca fu riluttante a esprimersi. Se la cattedrale è monumento visconteo, lo
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Le grandi cattedrali
In alto il Duomo di Milano, la cui costruzione fu avviata nel 1386, innalzandolo là dove erano situate le antiche basiliche di S. Maria Maggiore e di S. Tecla. A destra una delle vetrate policrome realizzate per la cattedrale milanese da Giuseppe Arcimboldi e da Corrado de Mochis, da Colonia. XVI sec. Nella pagina accanto la cattedrale fiorentina di S. Maria del Fiore. L’intitolazione allude al nome della città, «Florentia», e al suo emblema, il giglio.
è indirettamente, in quanto grande impresa cittadina: in essa convergono orgoglio civico, impegno e sfoggio economico, motivazioni religiose di tutta la comunità. Le sue forme del tutto singolari sono lontane dalla tradizione lombarda, vicine a modi del gotico fiammeggiante germanico però rielaborati originalmente. Maestri lombardi, veneti, parigini, borgognoni, tedeschi, boemi si susseguono sul cantiere; ne risulta un vero palinsesto dell’arte tardomedievale europea. Quest’apertura internazionale esprime certo il gusto à la page della corte, ma è riflesso anche delle ambizioni del clero e della borghesia, in emulazione ideale di simili imprese d’Oltralpe.
FIRENZE cattedrale di s. maria del fiore
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i forme rozze e «piccola a comparazione di sí fatta cittade», come riferisce Giovanni Villani, la cattedrale fiorentina di S. Reparata fu
rifondata solennemente, col nuovo titolo di S. Maria del Fiore, l’8 settembre 1296. Progettista e direttore dei lavori era Arnolfo di Cambio. Nel 1300 il Comune lo esenterà da ogni imposta: quanto già visibile della nuova cattedrale – recita il decreto – faceva sperare che essa sarebbe stata «piú bella e onorevole di qualunque altra in Toscana». La consistenza reale dell’intervento di Arnolfo nei pochi anni in cui diresse i lavori è molto discussa. Certo eseguí alcune eccelse sculture per la facciata, che, rimasta incompiuta, fu demolita nel Cinquecento e rifatta nel secolo scorso; e secondo alcuni preparò un progetto che fissò le linee globali dell’edificio, con la rara combinazione di tre navate e un grande corpo a pianta centrale. In ogni caso, nella forma e nella scala attuali il duomo è frutto soprattutto di decenni di dibattiti, di consultazioni fra i cittadini e del contributo di diversi capicantiere (principalmente Francesco Talenti e
Giovanni Ghini, e poi Brunelleschi). Con essi, a partire dalla metà del Trecento, lavorarono e discussero le grandi scelte progettuali i maggiori architetti, scultori e pittori del tempo, fra cui Andrea Orcagna, Taddeo Gaddi, Neri di Fioravante, Andrea Bonaiuti. L’Opera del duomo, gestita dal 1331 dalla potente Arte della Lana, controllava, amministrava e sollecitava i finanziamenti. Il contributo economico del Comune fu subito preponderante, e cosí la presenza di suoi rappresentanti nell’Opera; con gli anni Trenta del XIV secolo non ci sono piú notizie di sovvenzioni dirette del clero e di suoi interventi nell’istituzione. I documenti ben mostrano come il nuovo duomo (affiancato dal campanile, detto «di Giotto» ma creazione in larga parte di Francesco Talenti) fosse emblema civico primario, considerato segno visibile della grandezza e del decoro di una delle piú grandi e prospere città dell’Occidente.
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Le grandi cattedrali
ORVIETO (TR) cattedrale di s. maria assunta
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econdo la tradizione il prete Pietro di Praga si era recato nel 1263 in pellegrinaggio a Roma per essere liberato dai dubbi sul dogma della transustanziazione, in virtú della quale il pane e il vino durante la celebrazione liturgica si trasformano, pur mantenendo la loro forma originaria, nel «reale» corpo di Cristo. Fermatosi a dire Messa nella chiesa di S. Cristina di Bolsena, al momento della consacrazione Pietro vide l’ostia trasformarsi in carne e stillare sangue che bagnò il corporale. L’ostia e il sacro lino furono subito portati a Orvieto per ordine di Urbano IV, che allora risiedeva nella città, e collocati
In alto Chiamata degli eletti (particolare), bassorilievo in marmo, attribuito a Lorenzo Maitani, facente parte della decorazione del quarto pilastro della facciata del Duomo di Orvieto. 1275-1330 circa. A sinistra la facciata del Duomo di Orvieto. La prima pietra della grandiosa chiesa fu posata nel 1290, ma il completamento dei lavori si ebbe solo dopo la seconda metà del Cinquecento. A destra Dannati all’Inferno, scena facente parte del ciclo avente per tema il Giudizio Universale affrescato da Luca Signorelli nella Cappella Nova (o «di S. Brizio») del Duomo di Orvieto. 1499-1502.
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In basso, a destra la sommità del campanile della cattedrale di S. Maria Assunta ad Atri. A coronamento della torre innalzata a partire dal 1268, fu collocato, nel 1502, un tamburo ottagonale cuspidato, opera di Antonio da Lodi. nella cattedrale di S. Maria Prisca, dove il corporale divenne immediatamente oggetto di culto. A seguito del miracolo di Bolsena, Urbano IV istituí l’11 agosto 1264 la festa del Corpus Domini; per la volontà congiunta delle autorità civili ed ecclesiastiche si decise inoltre di fare erigere una nuova e piú imponente cattedrale che sostituisse, accorpandole, l’ormai cadente S. Maria Prisca e la chiesa di S. Costanzo. L’edificio, iniziato in forme romaniche,
forse su progetto di Arnolfo di Cambio, prevedeva una pianta basilicale a tre navate con abside semicircolare. Numerosi furono però i ripensamenti, soprattutto in relazione alla facciata, che fu modificata in forme piú schiettamente gotiche, come risulta da due preziosi disegni su pergamena, i piú antichi progetti architettonici che ci siano pervenuti in Italia. Se nel primo la facciata è di tipo monoscuspidale, il secondo, verosimilmente di mano di Lorenzo Maitani e corrispondente all’opera realizzata, risente fortemente del prestigioso modello di Siena. Mirabile il risultato: la facciata della nuova cattedrale, simbolicamente rivolta in direzione di Bolsena, è un gigantesco trittico policromo nel quale la scultura, l’architettura e il mosaico si
fondono armoniosamente. Dai fianchi del duomo, interamente ricoperti da fasce di pietra bianca e nera, sporgono le absidi di cinque cappelle semicircolari per parte, e si aprono portali ogivali. Nell’interno, le tre navate sono rivestite a fasce bicolori e divise da colonne e pilastri; gli archi a tutto sesto e il tetto a capriate scoperte presentano caratteri romanici; il transetto e l’abside con volte a crociera ogivali sono invece tipicamente gotici. Nel braccio destro del transetto è la Cappella della Madonna di San Brizio, ornata dal celebre ciclo di affreschi di Luca Signorelli, fra i piú famosi dell’arte italiana del Rinascimento.
ATRI (TE) cattedrale di s. maria assunta
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ui resti di un complesso termale romano, già alla metà del XII secolo sorgeva ad Atri una chiesa. Nel Duecento, la città ottenne di darsi Statuti comunali e fu innalzata a sede vescovile; partí allora (1268) una
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Le grandi cattedrali ricostruzione completa dell’edificio, assurto ormai a cattedrale. Ne sorgerà uno dei maggiori monumenti d’Abruzzo, che conserva come cripta la cisterna antica, ricca di affreschi e di sculture decorative risalenti all’XIXII secolo. L’imponente interno, dalle superfici ormai in gran parte spoglie, è a tre navate, con la centrale piú stretta delle minori; le campate, prima brevi e ravvicinate, divennero tanto ampie verso est che si dovette, per motivi statici, avvolgere parte dei pilastri in un «guscio» di sostegno ottagonale. In fondo, sulle pareti e le volte delle cappelle absidali, splendono i colori di una serie di affreschi databili fra il Duecento e tutto il Trecento. Vi spicca quello con la Storia dei tre morti e dei tre vivi: vivace e raffinata, con echi stilistici francesi, è una delle prime rappresentazioni italiane di questa leggenda che nei decenni successivi entrerà a far parte dei grandi insiemi del Trionfo della Morte.
In alto e a destra affreschi della cattedrale atriana di S. Maria Assunta. Qui sopra, Santa Reparata, raffigurata su un pilone ottagono del Coro dei Canonici. XV sec. A destra, Incontro dei vivi e dei morti, dipinto di scuola italo-francese databile intorno al 1270. 30
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Tre giovani elegantemente vestiti, impegnati nell’aristocratico svago della caccia, incontrano tre scheletri che li richiamano alla vanità delle umane cose: «Quod sumus hoc eritis» («Ciò che siamo, diventerete»), recita ad Atri una scritta nella parte alta dell’affresco, variante delle molte frasi simili che commentano i memento mori (ricorda che devi morire) medievali. All’esterno, la nuda facciata a terminazione orizzontale, tipica della regione, è ingentilita da un portale leggero, a colonnine e cordoni decorati. Piú ricchi e ornati sono due dei tre portali del fianco nord. Tutti e tre sono datati (1288, 1302, 1305) e firmati da due maestri, Raimondo «de Podio» e Rinaldo da Atri, che gli studi hanno variamente collocato nel quadro dell’abbondante produzione abruzzese trecentesca di portali scolpiti. L’alto campanile è il prototipo, con quello della cattedrale di Teramo, di gran parte dei campanili della provincia.
LUCERA (FG) cattedrale di s. maria assunta
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6 agosto 1300. Giovanni Pipino da Barletta, conte d’Altamura, luogotenente di Carlo II d’Angiò, entra a Lucera dopo dieci giorni d’assedio. La folta comunità saracena che vi abita viene passata a fil di spada, i superstiti venduti come schiavi. È la drastica soluzione al problema, postosi agli Angiò fin dal loro insediamento sul trono di Napoli, del controllo dei saraceni lucerini, installati in città ai tempi e per iniziativa di Federico II e da allora accaniti filosvevi. Con la strage del 1300 comincia la ri-cristianizzazione dell’abitato. Scomparse le moschee, si fonda fra l’altro una nuova cattedrale. Lucera era diocesi fin dal V secolo. Un primo complesso episcopale, fornito di battistero, era stato abbandonato probabilmente con la distruzione bizantina della città (663). Un secondo duomo era quasi in rovina già all’inizio del Duecento; e dopo l’arrivo dei musulmani vescovo e clero risiedevano e officiavano fuori città. La fondazione del duomo angioino
La facciata della cattedrale di S. Maria Assunta a Lucera, che si caratterizza per il suo prospetto asimmetrico. assume quindi un significato importante. La forte volontà regia ben si vede nel ritmo sostenuto dei lavori, conclusi fra il 1300 e il 1317; e forse anche nel riuso, sulla facciata e nella zona presbiteriale, di colonne di epoca romana. Grande edificio a tre navate coperto a tetto, è caratterizzato da una facciata discretamente animata da portali goticheggianti. La cattedrale sfoggia anche una splendida parte absidale, a forti volumi scanditi da contrafforti. Per essa si è pensato all’intervento di Pierre d’Agincourt, «protomagister operum Curie», che a Lucera aveva già lavorato alle fortificazioni. La mensa dell’altare maggiore proverrebbe, secondo la tradizione, dalla residenza di Federico II a Fiorentino, mentre l’elegante pulpito (sopra) è del XVI secolo. Il nuovo duomo attira donazioni munifiche: fra queste, nel 1309, una grande croce offerta da Roberto d’Angiò, opera di Guillaume de Verdelay. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Particolare di una miniatura raffigurante una chiesa in costruzione, dallo Psalterium Cantuariense (noto come Salterio di Canterbury). Fine del XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Capolavori in corso
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L’edificazione di una cattedrale era un’impresa impegnativa che finiva con il coinvolgere l’intera comunità cittadina. Per eseguire i lavori venivano allestiti grandi cantieri, le fabbriche, nei quali, sotto la guida dell’architettus, operava una manodopera organizzata quasi militarmente
di Sonia Merli e Chiara Piccinini
In alto miniatura raffigurante Carlo Magno in visita al cantiere per la costruzione della basilica di Saint-Denis, da un codice delle Grandes chroniques de SaintDenis. Fine del XIV sec. Tolosa, Bibliothèque d’étude et du patrimoine.
L
a costruzione ex novo o la ricostruzione in forme piú imponenti di una cattedrale – spesso l’unico edificio cittadino, insieme ai palazzi del potere civile, interamente in muratura – era nel Medioevo una iniziativa di straordinario impegno economico e materiale con effetti non soltanto sulla fisionomia urbana, ma piú in generale sulla vita della città. Condizione indispensabile per la buona riuscita dell’operazione, che fosse promossa dal vescovo o dal Capitolo cattedrale, dal sovrano o dalle magistrature cittadine, era quella di procurare un adeguato finanziamento, cosí da garantire CATTEDRALI E ABBAZIE
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Le grandi cattedrali
continuità allo svolgimento dei lavori e scongiurare, dopo l’entusiasmo iniziale, l’arresto del cantiere. Le somme in gioco e i non brevi tempi di realizzazione delle chiese cattedrali resero ben presto necessaria la creazione di una struttura organizzativa – detta a partire dal XII secolo fabrica o opus fabricae – che sovrintendesse alla realizzazione dell’edificio. Alla primitiva Opera o Fabbrica ecclesiastica, presieduta in genere dal vescovo o da un procuratore che agiva per conto del Capitolo e alla quale il vescovo o il Capitolo cedevano una parte significativa delle rendite dei beni legate alla loro carica, si sostituí ben presto in Italia l’Opera del Duomo, struttura indipendente dall’autorità religiosa e sotto il controllo delle magistrature cittadine. Tra i suoi compiti c’era quello di gestire e amministrare il cantiere, dando conto puntualmente delle entrate e delle uscite in registri e libri contabili, sul modello dei fabric rolls delle chiese episcopali inglesi, ma anche di ricorrere a consulti per valutare lo stato di avanzamento dei lavori o di bandire concorsi per la progettazione di certe parti dell’edificio. Oltre a occuparsi della raccolta e della gestione delle risorse finanziarie, la Fabbrica estendeva poi le proprie competenze, regolamentate talvol-
ta da Statuti, anche a tutta una serie di altre questioni legate alla realizzazione materiale dell’edificio. Come per esempio l’acquisto dei terreni, l’approvvigionamento costante dei materiali (primi fra tutti il legno per la carpenteria e per le impalcature, la pietra, la calce, la sabbia e l’acqua), l’ingaggio delle maestranze e il pagamento degli stipendi, degli alloggi e del cibo per i lavoranti. Se le entrate non si rivelavano sufficienti, si dovevano escogitare altri sistemi di finanziamento e allora si sollecitavano donazioni e lasciti testamentari (facilitati anche da disposizioni statutarie cittadine che esentavano dalle tasse quanti avessero fatto testamento in favore della Fabbrica), si organizzavano questue, si tassavano fiere e mercati. Frequenti erano anche i casi di indulgenze o di «perdoni» istituiti ad hoc per quanti visitassero la cattedrale ancora in corso d’opera. Piú tardi, poi, per non aumentare la pressione fiscale, si ricorse anche alla vendita a privati o ad associazioni di cappelle man mano 34
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edificate insieme al relativo diritto di patronato. Gli acquirenti in questo modo, oltre a versare alla Fabbrica somme non trascurabili, si impegnavano a erigere l’altare della cappella, a fornirne gli arredi e a sostentare un cappellano che vi celebrasse quotidianamente gli uffici sacri. Mentre nel caso della nuova cattedrale di Firenze i lavori, interrotti già da qualche anno per mancanza di fondi, ripresero nel 1331, quando la corporazione cittadina dell’Arte della Lana intervenne in modo deciso, assumendosi gran parte della responsabilità finanziaria dell’impresa.
Acquisti ed espropri
Avviati solitamente con grande solennità – nel caso di Orvieto addirittura alla presenza del papa – e celebrati con orgoglio in molte cronache cittadine, i lavori per la costruzione della cattedrale erano spesso traumatici per l’area urbana interessata, costretta a vivere in funzione delle vicende e delle necessità del cantiere. Una prima conseguenza era quella dell’acquisto o dell’esproprio (con conseguente risarcimento) dei terreni necessari per l’edificazione ex novo della cattedrale o dell’ampliamento del suo corpo di fabbrica. Spesso poi si presentava la necessità di abbattere gli edifici preesistenti, talvolta sgomberati a forza, e di allontanare il materiale di risulta delle demolizioni, generalmente acquisito, per poi riutilizzarlo nella nuova costruzione, dalla Fabbrica, che, se ne assicurava la proprietà al momento della stipula del contratto con gli espropriati. A questo punto si imponeva il problema di impiantare materialmente il cantiere e di organizzarne al meglio i lavori. Inteso in senso stretto come il luogo del lavoro degli scalpellini e protetto in genere da una tettoia o da una loggia, ma collocato talvolta anche in una parte del preesistente edificio non ancora completamente abbattuto, il cantiere medievale fungeva da officina e luogo per riparare i materiali e gli attrezzi da lavoro non appartenenti agli artigiani. Molteplici erano i gruppi di lavoranti e le maestranze occupati contemporaneamente a svolgere le mansioni piú diverse, tanto all’interno dell’edificio in costruzione quanto nella piazza prospiciente, prolungamento naturale del cantiere e punto di raccolta dei diversi materiali. Come risulta dai mandati di pagamento in favore di domina Beldiportu incaricata dal 1325 al 1329 di portare l’acqua attinta dalla fontana di piazza Maggiore in vari luoghi del cantiere della cattedrale di Orvieto: alle tinozze dei magistri operis, alle forme usate per la fusione degli angeli di bronzo, agli
scalpellini che lavoravano nella loggia, ai realizzatori delle finestre di vetro e ai falegnami che lavoravano alle tarsie per il coro ligneo. Mentre da altri documenti sappiamo che c’era anche una fornace per il vetro e una per la calcina e che alcuni fabbri eseguivano le fusioni non solo per gli attrezzi necessari al cantiere, ma anche per i meccanismi dell’orologio. Tuttavia la zona del cantiere medievale che ai giorni nostri risulta piú affascinante è senza dubbio quella delle chambres aux traits o tracing-house, distinta dalla loggia in cui lavoravano le maestranze, in cui si provvedeva alla realizzazione di sagome o modellini in vari materiali o di disegni in scala piú o meno grande, che permettevano di verificare non solo la qualità del progetto ma anche i suoi effetti sulla topografia. Il problema dell’alto costo della pergamena e delle sue dimensioni troppo spesso inadeguate rispetto alle effettive necessità veniva risolto proprio in questi ambienti, il cui suolo, opportunamente ricoperto di gesso, serviva al magister operis per disegnare a grandezza naturale certi dettagli ai quali i
Sulle due pagine modelli lignei della cupola di S. Maria del Fiore a Firenze. XVI sec. Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore.
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Le grandi cattedrali A destra, sulle due pagine particolare della decorazione di un capitello raffigurante l’offerta di una chiesa: i protagonisti potrebbero essere Ugo II di Borgogna (a sinistra) e il vescovo di Autun, Étienne de Bagé. 1140 circa. Autun, cattedrale di Saint-Lazare, Sala Capitolare.
Miniature raffiguranti l’architetto Lanfranco che dirige i lavori per la costruzione del Duomo di Modena, dalla Relatio de Innovatione Ecclesie Sancti Geminiani. XIII sec. Modena, Archivio Capitolare del Duomo.
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tagliatori di pietre potevano fare costantemente riferimento in fase di realizzazione. I lavori, materialmente eseguiti da manodopera fortemente gerarchizzata – articolata in carrettieri e manovali, fabbri e muratori, carpentieri, intonacatori, vetrai, addetti agli argani, tagliatori di pietre – erano in genere diretti da un architettus o architector, responsabile della progettazione tecnica e della realizzazione dell’opera, detto anche magister operis/fabricae o aedificator. Il fatto che le sue funzioni fossero sempre piú distaccate da quelle degli altri operatori edili portò nel XIII secolo il domenicano Nicolas du Biard a scrivere con tono scandalizzato: «Nei cantieri maggiori è invalso l’uso di avere un maestro principale, che ordina gli edifici soltanto servendosi delle parole e non vi pone mano che raramente e tuttavia riceve un salario maggiore degli altri». E ancora: «Questi magistri cementario-
rum tengono in mano una bacchetta e i guanti e dicono agli altri “taglia qui, in questo modo”, ma non lavorano affatto».
Compensi elevati e grandi onori
E infatti è certo che, se per buona parte del Medioevo non risulta che ai magistri operis fosse stato riconosciuto uno status giuridico diverso rispetto a quello delle altre maestranze e che la progettazione e la realizzazione architettonica fossero collocate nell’ambito delle «arti meccaniche», di fatto però essi godevano di piú elevate remunerazioni e di particolari concessioni e riconoscimenti pubblici. Tanto che lo svevo Ottone di Frisinga già nel XII secolo si meravigliava di vedere che nel nostro Paese operarii occupati nelle attività manuali accedevano alle piú alte cariche e ricevevano grandi onori. Come nel caso di Maginardo, «prudens vir atque arte architectoni-
ca optime eruditus», che già nell’XI secolo ricevette un terreno comprendente una casa, orto e vigna, per il lavoro svolto nella cattedrale di Arezzo; per non parlare poi delle glorificazioni pubblicamente concesse a Lanfranco a Modena e a Buschetto a Pisa. Mentre Arnolfo di Cambio, definito già nel 1277 a Perugia «subtilissimus et ingeniosus magister», il 1° aprile del 1300, in qualità di capudmagister del cantiere per la ricostruzione della cattedrale, era esonerato dal Consiglio dei Cento di Firenze (di cui era ancora membro Dante) dal pagamento delle tasse, perché «egli è maestro piú noto e piú abile nell’edificazione di chiese di chiunque altro si conosca nelle zone circostanti, e perciò grazie alla capacità, all’esperienza e all’ingegno di costui il Comune e il Popolo di Firenze, visto lo stupendo avvio dei lavori della chiesa, sperano di ottenere (...) il tempio piú bello e piú onorevole che ci sia in tutta la Toscana». A ripro-
va del fatto che l’orgoglio civico si fondava anche sul riconoscimento della maestria e della rinomanza degli artifices che operavano alla realizzazione dei grandi monumenti cittadini. In questo modo venivano sanciti già nel Medioevo il prestigio e la preminenza di colui che progettava l’opera e ne dirigeva la costruzione, grazie al fatto di unire in sé preparazione scientifica – come risulta dai rapporti proporzionali e geometrici ad quadratum o ad triangulum individuati in numerosi edifici – e nozioni tecniche acquisite sperimentalmente nei cantieri (statica, resistenza dei materiali). E grazie a uno studio piú attento delle fonti è stato possibile ridimensionare il «mito» romantico dell’architettura medievale come prodotto anonimo, risultato di una costruzione corale e collettiva priva di quelle personalità di spicco che si sarebbero affermate solo a partire dal Rinascimento. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Le grandi cattedrali
AUTUN cattedrale di saint-lazare
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ià dal X secolo si conservavano nella cattedrale intitolata a S. Nazario ad Autun le reliquie di san Lazzaro, fatte giungere da Marsiglia, secondo la tradizione, per opera del vescovo Gerardo. Si trattava di quel Lazzaro, fratello di Marta e di Maria Maddalena, che Gesú aveva resuscitato e che nel Medioevo veniva considerato santo, ma spesso anche confuso con l’omonimo, il povero Lazzaro della parabola evangelica, divenuto patrono dei lebbrosi. La collocazione strategica della città, non lontana dal monastero cluniacense di Vézelay (notissimo per il culto di santa Maria Maddalena, la peccatrice sorella di Lazzaro) e la presenza delle reliquie del santo che attiravano un forte numero di pellegrini
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– molti dei quali lebbrosi, per l’equivoco di cui si è detto – portarono nel 1120 all’edificazione di una nuova chiesa destinata ad accogliere piú degnamente le sante reliquie. Fra le personalità coinvolte nell’impresa vi furono il duca di Borgogna, Ugo II, che donò il terreno necessario, ed Ermentrude de Bar, sorella di papa Callisto II, che favorí il finanziamento della chiesa ottenendo che la sua tomba e quella del marito fossero collocate nel coro della chiesa, dove rimasero fino al XVIII secolo. Consacrata nel 1132 da papa Innocenzo II, la nuova chiesa di
Una veduta esterna della cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, la cui costruzione ebbe inizio nel 1120 e si concluse nel 1146.
Saint-Lazare ricevette solennemente le reliquie del santo nel 1146 e, a dal 1195, condivise con Saint-Nazaire il titolo di cattedrale, che passò ad appartenerle in modo esclusivo dal 1770. Celebrata come uno dei piú eleganti esempi di architettura e scultura romaniche borgognone, insieme alla vicina Vézelay, la cattedrale di Saint-Lazare si segnala per lo straordinario timpano, scolpito tra il 1130 e il 1135 da Gislebertus (che si firma proprio sotto la figura del
Cristo giudicante: Gislebertus hoc fecit), oltre che per una serie di capitelli di rara efficacia espressiva. Posto all’interno del portale occidentale, il timpano racchiude, come nelle monumentali pagine di un libro di pietra, le immagini al tempo stesso terribili e rassicuranti del Giudizio Universale, paradossalmente coperte nel 1766 da uno strato di mattoni e gesso e riportate alla luce nel secolo successivo, grazie ai restauri diretti nell’Ottocento da Eugène Viollet-le-Duc.
ANGOULÊME cattedrale di saint pierre
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dificata sul luogo di un complesso episcopale di epoca merovingia, la cattedrale di Saint-Pierre è, nelle forme attuali, il risultato della quarta ricostruzione dell’edificio, promossa dal vescovo Girard de Blay agli inizi del XII secolo e conclusasi nel 1136. Piuttosto semplice nella struttura – pianta a croce latina con due campanili alle estremità del transetto, navata unica scandita da campate coperte con
In alto il timpano della cattedrale di Autun scolpito da Gislebertus, con, al centro, il Cristo Giudicante. 1130-35. A sinistra capitello raffigurante la fuga in Egitto. Autun, cattedrale di Saint-Lazare, Sala Capitolare. A destra la facciata della cattedrale di Saint-Pierre ad Angoulême.
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CATTEDRALI E ABBAZIE volte a cupola, coro semicircolare contornato da quattro absidiole – la chiesa episcopale di Angoulême è uno dei piú illustri esempi del romanico francese occidentale, che in regioni come il Poitou, l’Angoumois e il Saintonge, manifestò ricche e originali soluzioni, applicate soprattutto alla decorazione delle facciate. All’insegna di una straordinaria coerenza architettonica, iconografica e stilistica, la facciata di Saint-Pierre – eseguita tra il 1118 e il 1136 – è movimentata da una decorazione scultorea esuberante e talvolta virtuosistica tra le piú vaste della Francia romanica. All’interno di arcate cieche finemente lavorate e di nicchie, si dispiegano su piú ordini elementi ornamentali e figurativi, grazie a una iconografia ricca e complessa che comprende le figure degli apostoli piú volte ripetute, i simboli degli evangelisti ai lati del Cristo nella mandorla, la discesa nel limbo e ventuno medaglioni con figure di santi. Molteplici furono gli interventi che si susseguirono nel corso dei secoli: il piú antico, che interessò l’abside, risale ai primi anni del Trecento; mentre agli inizi del XVII secolo fu necessario porre rimedio ai danni prodotti dalle guerre di
Le grandi cattedrali
religione (distruzione del campanile meridionale e delle volte). Ma fu l’intervento del XIX secolo – a opera dell’architetto Paul Abadie, che introdusse numerose innovazioni personali, tra cui l’aggiunta delle due torri neoromaniche, e realizzò il campanile e la lanterna del transetto –
a essere sentito come il piú inopportuno rispetto al resto dell’edificio, tanto che monsignor Antoine-Charles Cousseau, vedendo i risultati dei restauri scrisse: «Hanno rovinato la mia cattedrale; è come se inserisse una pagina di Rabelais nelle opere di Fénelon».
In questa pagina Arles, cattedrale di Saint-Trophime. In alto, un capitello del chiostro; a sinistra, il portale della chiesa, coronato da un timpano al centro del quale è raffigurato il Cristo in maestà.
ARLES cattedrale di saint-trophime
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a storia della cattedrale di Arles è strettamente legata alle figure di santo Stefano – al quale per lungo tempo la chiesa vescovile fu intitolata – e dello pseudo-apostolo Trofimo che, inviato secondo la tradizione da san Paolo a evangelizzare la Gallia, sarebbe divenuto il primo vescovo della città. Sempre secondo la leggenda, Trofimo convertí al cristianesimo il prefetto di Arles e ricevette in dono da costui una sala della basilica del pretorio, destinata a luogo di culto in onore di santo Stefano. E proprio al 40
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A destra un altro particolare della ricca decorazione del portale della cattedrale di Saint-Trophime ad Arles raffigurante il profeta Daniele nella fossa dei leoni. In basso il Giudizio Universale affrescato dal fiorentino Niccolò Delli nella calotta dell’abside della cattedrale «vecchia» di S. Maria a Salamanca. L’atteggiamento del Cristo con il braccio sollevato verrà ripreso da Michelangelo nella Cappella Sistina. protomartire, come risulta da alcune fonti agiografiche, era intitolata la cattedrale altomedievale, trasferita nella prima metà del V secolo dal quartiere dell’Auture al centro della città ed edificata su una struttura del basso impero, posta tra il foro e il teatro romano. A partire dalla fine del X secolo, inoltre, risulta essere documentata nella stessa chiesa la presenza delle reliquie di san Trofimo, il cui nome, associato a quello di santo Stefano, portò per un certo periodo alla doppia titolazione dell’edificio. Sorprende allora il fatto che nel 1152 le fonti riferiscano della traslazione del corpo di san Trofimo nella chiesa vescovile. Tuttavia l’evento, apparentemente incongruente con i precedenti elementi, sarebbe da collocare nell’ambito della lunga campagna ricostruttiva che interessò l’edificio. Sulla base di tipologie architettoniche abbastanza eccezionali per il Sud della Francia – quali per esempio l’articolazione del corpo longitudinale in tre navate, preferite alla piú comune navata unica – tra l’XI e il XII secolo si giunse, infatti, alla riedificazione della cattedrale in forme romaniche e alla realizzazione del suo famoso portale, con all’interno le figure di Cristo e dei due santi protettori della città. Ecco allora che, dopo un temporaneo allontanamento in occasione dei lavori, le reliquie di san Trofimo sarebbero state ricollocate con celebrazioni solenni nella nuova chiesa episcopale, che, posta in prossimità del famoso monastero di Saint-Gillesdu-Gard e sulla strada che conduceva a Santiago di Compostella, poteva cosí accogliere piú degnamente i numerosi pellegrini che si recavano a visitarla.
SALAMANCA cattedrale «vecchia» di s. maria
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el 1513 si cominciavano a Salamanca i lavori per una nuova cattedrale, addossata al precedente duomo romanico. Di questo si mutilò il lato settentrionale, mentre a sud si alzarono costruzioni di servizio e un chiostro. Salamanca ha dunque una cattedrale «vecchia» e una «nuova»; e la seconda ha a lungo oscurato la piú antica anche negli studi.
In realtà, il grado di novità e interesse della prima S. María sono forse maggiori della seconda. Alla metà del XII secolo Salamanca si ripopolava per iniziativa dei re di Castiglia, con una grande maggioranza di coloni francesi. I legami con la Francia erano già antichi per la città, che negli anni Venti del secolo aveva avuto un vescovo proveniente dal Périgord; senza dimenticare i ripetuti matrimoni fra re e principesse castigliani e membri della casata dei conti di Borgogna.
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Le grandi cattedrali
Ciò spiega in parte come la cattedrale – per la quale un primo documento, che testimonia i «lavori in corso», è del 1152 – sia ricca di suggestioni francesi, soprattutto delle chiese dell’Aquitania a volte cupolate. Ma certo il suo tratto piú caratteristico, se ricorda in parte spunti transpirenaici, li rielabora in un insieme inedito in Francia: si tratta della grande torre a due piani che svetta sopra la crociera, coperta a cupola e detta in spagnolo cimborrio. In vetta, la lanterna è affiancata da quattro torrette, intervallate da cuspidi; e una banderuola segnavento le dà il nome di Torre del Gallo. Una struttura simile, ma a un solo piano, era già nella cattedrale di Zamora; nella versione accresciuta di Salamanca ritornerà nella collegiata di Toro. Quest’apparizione straordinaria e senza altro seguito apparente ha fatto parlare di una scuola architettonica regionale; i precedenti o i paralleli che si sono introdotti per singoli elementi (le coperture del campanile del Poitou, la Martorana di Palermo, edifici bizantini) non bastano a spiegare la novità e l’eccellenza del risultato d’insieme.
JACA cattedrale di san pedro
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na delle strade che dalla Francia portano verso Santiago di Compostella passa i Pirenei al valico del Somport e di qui scende alla città di Jaca. La posizione strategica faceva di questo piccolo borgo fortificato uno snodo cruciale per il flusso di uomini e merci che ricominciava a intensificarsi fra Europa e Africa dopo l’anno Mille. L’organizzazione di un sistema di dazi farà la fortuna della città, sulla spinta soprattutto di Sancio Ramirez (1063-1094), dinamico re d’Aragona, che chiama a insediarsi in città e nei dintorni mercanti, artigiani e locandieri dal Sud della Francia. La nuova Jaca sorge allora, e sembrerebbe logico che fra le iniziative del re vi fosse anche la costruzione di una nuova cattedrale. In realtà, i primi lavori sicuramente documentati sono iniziativa di sua figlia, doña Sancia; e l’edificio ben corrisponde a un’opera della fine dell’XI secolo e dei primi 42
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decenni del seguente. Progettata probabilmente sul modello delle basiliche romane, la cattedrale di Jaca inserisce in tale schema elementi di ispirazione diversa, come l’alternanza fra colonne e sostegni complessi, o la cupola ottagonale poggiante su trombe, di forte suggestione islamica. L’insieme delle sue sculture, interne ed esterne, è cruciale per lo studio dell’arte romanica tra Francia del Sud e Spagna settentrionale. Soprattutto nei capitelli dell’interno e in quelli dei portici che precedono gli ingressi a ovest e a sud è stata identificata l’attività di uno scultore, il cosiddetto Maestro di Jaca. Costui, con vari collaboratori, fonde straordinarie derivazioni dalla scultura antica con un vivace spirito narrativo influenzato dall’arte francese («l’amore per le forme danzanti», secondo l’espressione dello storico dell’arte francese Marcel Durliat) e spunti iconografici d’ispirazione islamica.
In alto capitello romanico raffigurante il re Davide che suona la cetra accompagnato da musici. Jaca, cattedrale di San Pedro. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la costruzione della cattedrale di Santiago di Compostella, dal Recueil sommaire des cronicques françoyses di Guillaume Cretin. Primo quarto del XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
SANTIAGO DI COMPOSTELLA cattedrale di s. giacomo
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ella seconda metà del IX secolo, in circostanze leggendarie, un eremita, guidato da una stella, scopre la sepoltura dell’apostolo Giacomo Maggiore, evangelizzatore della Penisola Iberica. Siamo nel lembo estremo della Galizia, presso la spiaggia di Compostella. Il corpo del santo venne trasportato qualche chilometro all’interno e sulla sua tomba fu costruita una prima chiesa, che sarà in parte distrutta in
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Le grandi cattedrali La facciata barocca della cattedrale di Santiago de Compostela, dovuta alle trasformazioni sei-settecentesche dell’originario edificio romanico.
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una scorreria saracena nel 997. Rapidamente riedificata, diverrà la meta di un pellegrinaggio sempre piú esteso al quale, tra la fine del X e il principio dell’XI secolo, i re di Castiglia danno ulteriore impulso migliorando e rendendo piú sicure le strade; lungo di esse nascono ospizi, chiese, città, si sviluppano i commerci e gli scambi. Dopo quelli a Gerusalemme e a Roma, il pellegrinaggio a Santiago è, per un cristiano del Medioevo, il piú santo e portatore di grazia. Dal 1075 la basilica viene ricostruita nelle forme attuali – cui si aggiungeranno rinnovamenti barocchi. Lo schema è quello delle cosiddette «chiese di pellegrinaggio», sviluppatosi nella Francia meridionale: un corpo longitudinale, transetto sporgente, un ampio deambulatorio orientale per favorire il transito dei pellegrini intorno alla tomba santa e, a raggiera intorno a esso, cappelle destinate ciascuna all’adorazione di un santo «minore». Un fitto tessuto di sculture attende il pellegrino all’esterno e all’interno: ricchi capitelli istoriati, un portale, cosiddetto de las Platerías («degli Argentieri») sul fianco sud, assemblato nel XII secolo riutilizzando pezzi piú antichi. Vertice, artistico e spirituale,
ne è il Pórtico della Gloria, all’ingresso principale, scolpito da un artista di nome Mateo e dai suoi collaboratori alla fine del XII secolo: tre grandi porte con statue di profeti e apostoli, sugli stipiti, il Cristo Giudice nel timpano centrale, intorno a lui i Vegliardi dell’Apocalisse. Sono ancora visibili i colori che rendevano ancor piú vivo questo massimo monumento del romanico occidentale.
In questa pagina particolari della ricca decorazione della Porta de las Platerías (degli Argentieri), che prende nome dalle botteghe di orafi e argentieri che si trovavano nella piazza antistante la cattedrale di Santiago di Compostella. In alto, il rilievo raffigurante il Cristo tentato dai demoni nella lunetta di sinistra; qui sopra, un particolare del registro superiore: si riconoscono, da sinistra, san Giovanni, san Giacomo apostolo e il Cristo benedicente. CATTEDRALI E ABBAZIE
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All’altezza del
potere
Alla valenza religiosa delle grandi cattedrali si affianca ben presto il desiderio di farne altrettanti veicoli per la celebrazione di re e imperatori. Come nel caso, esemplare, della basilica francese di Saint-Denis
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Sulle due pagine uno scorcio della facciata occidentale della basilica di Saint-Denis, sorta sulla tomba di san Dionigi. A destra l’abate Suger in una delle vetrate policrome della basilica di Saint-Denis realizzate alla metà dell’Ottocento da Alfred Gérente per rimpiazzare gli originali duecenteschi danneggiati o perduti.
di Sonia Merli e Chiara Piccinini
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a monarchia francese, che fin dalle sue origini aveva stabilito saldi rapporti con la Chiesa di Roma, nel corso dei secoli associò ad alcuni edifici religiosi del regno la celebrazione di cerimonie legate a una «liturgia della monarchia» sempre piú solenne e carica di significati. E ciò soprattutto in relazione a eventi particolarmente importanti per la trasmissione del potere, quali la morte (e sepoltura) del sovrano e la consacrazione del suo successore, che trovarono ben presto nella basilica di Saint-Denis e nella cattedrale di Reims i luoghi di riferimento «istituzionali». Martirizzato verso la metà del III secolo, Dionigi, vescovo di Parigi, fu seppellito a qualche chilometro dalla città, sulla via che conduceva a Beauvais. Intorno al 475, sulla sua tomba fu edificata una prima chiesa; ma la svolta si ebbe due secoli dopo, quando il re Dagoberto, trasformata la primitiva comunità religiosa che vi era sorta in un monastero benedettino, scelse di esservi seppellito (639). Da quel momento si cominciarono ad aggiungere nuovi elementi alla figura del santo titolare e, nel IX secolo, per avvalorare l’anzianità e il prestigio del monastero, il vescovo Dionigi fu identificato con Dionigi l’Areopagita, il filosofo ateniese convertito da san Paolo ed evangelizzatore della Gallia. A partire dall’XI secolo, e soprattutto al tempo dell’abate Suger (1122-1151), amico e consiCATTEDRALI E ABBAZIE
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Le grandi cattedrali La cappella di S. Firmino nella basilica di Saint-Denis, che conserva lacerti della pavimentazione a mosaico che in origine ricopriva l’intera chiesa. L’altare è sormontato da una lastra raffigurante Cristo, al centro, affiancato dagli apostoli.
gliere dei re Luigi VI e Luigi VII, la basilica di Saint-Denis divenne il santuario prediletto della famiglia reale e in questo stesso periodo si scrissero nuovi racconti per ricordare l’attaccamento di Carlo Magno al martire. I Capetingi diventavano cosí i degni continuatori dell’imperatore nella devozione verso il santo e la basilica a lui intitolata e, nel contempo, Dionigi assurgeva al ruolo di patrono del reame. Operazione quest’ultima che traeva fondamento dal fatto che Carlo Magno, prima di partire per l’Oriente, avrebbe depositato la propria corona sull’altare consacrato al martire nella basilica di Saint-Denis, sancendone cosí il ruolo di intermediario fra Dio e la monarchia francese. In questo modo il monastero, che rivendicava il primo posto fra le chiese del reame – contendendolo alle cattedrali di Reims e Sens – giunse 48
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a ricoprire un ruolo fondamentale sia al momento della morte dei sovrani (divenendone la necropoli) che nella «liturgia della monarchia» che si stava progressivamente formalizzando.
Protetti anche nell’oltretomba
A partire da Filippo Augusto, infatti, tutti i re della dinastia capetingia si fecero seppellire – accanto ai sovrani merovingi e carolingi – nella basilica del martire Dionigi, la cui protezione, accordata alla monarchia, si prolungava cosí fino nell’aldilà. Saint-Denis diventava inoltre il luogo in cui dovevano essere conservati gli attributi del potere regio – la corona, lo scettro, la mano di giustizia e l’orifiamma – senza i quali la consacrazione del sovrano, che dal 1027 si teneva nella cattedrale di Reims, non si poteva svolgere.
Non stupisce allora il fatto che, grazie all’impulso dell’abate Suger – la cui operazione architettonica tendeva al rilancio del ruolo della sua chiesa come depositaria dell’investitura divina della monarchia francese – è proprio nell’abbazia di Saint-Denis, la piú «reale» delle chiese di Francia e la piú carica di valori simbolici, che l’arte gotica fa la sua apparizione. A sostituzione dell’antico edificio carolingio ancora massiccio, compatto e tetro, Suger fa costruire una nuova chiesa piú consona alle sue ambizioni politiche e religiose. Dagli scritti di Suger risulta che egli concepí il nuovo edificio come una sintesi delle novità architettoniche ed estetiche del tempo, ma anche come un’opera teologica fondata sulla produzione, guarda caso, di Dionigi l’Areopagita, al quale la tradizione aveva impropriamente attribuito la creazione della piú imponente costruzione mistica del pensiero cristiano, il Corpus Dyonisiacum. Al centro dell’opera, il concetto che «Dio è luce»: la ricostruzione di Saint-Denis, i cui lavori cominciarono dall’atrio e culminarono nella parte absidale e nel coro, fu, secondo Georges Duby, «una marcia verso la luce» che per la sua prosecuzione aveva bisogno di innovazioni architettoniche straordinarie. Per far penetrare all’interno la luce del tramonto si aprí per la prima volta sulla facciata di una chiesa (cioè sul lato occidentale) un rosone capace di rischiarare le tre cappelle alte dedicate alle gerarchie celesti (Vergine, san Michele, Angeli). Mentre piú ardite soluzioni (come per esempio l’eliminazione dei tramezzi dalle cappelle radiali) furono sperimentate per l’altra estremità dell’edificio, orientata verso il sole nascente – e quindi fulcro dell’irradiazione luminosa – e per le pareti laterali che, attraverso le vetrate, dovevano nobilitare con riflessi cromatici la luce di Dio.
Un modello da emulare
Se grazie all’abate Suger ebbe impulso questo nuovo linguaggio architettonico – al contempo autorevole modello stilistico e ideologico – furono poi i vescovi, spesso spronati dalla febbre dell’emulazione e dalla volontà di affermare la propria potenza e il proprio prestigio, a favorirne la diffusione e l’evoluzione in tutto il regno. Nel 1140 cominciava la ricostruzione della cattedrale di Sens; a Noyon (1150-1235) si inaugurava il modello della quadruplice elevazione (arcate, tribune, arcate cieche, finestre alte); nel 1163 si avviarono i lavori di Notre-Dame a Parigi cui si aggiunsero, sempre nel corso della seconda metà del XII secolo, le ricostruzioni di Senlis, Laon, Soissons, Bourges e Chartres.
Il portale centrale della facciata occidentale della basilica di Saint-Denis, noto come Portale del Giudizio. Nel timpano, domina la figura del Cristo giudice, in una mandorla, con le braccia avvolte dai filatteri, attorniato dagli apostoli. Sotto, i defunti resuscitano ed escono dai loro sarcofagi.
Sembra invece da ridimensionare lo stretto rapporto che si è voluto vedere fra Luigi IX, il re santo (1200-1270), e l’architettura gotica intesa come stile «curiale». A differenza di Suger, san Luigi «non fu l’ispiratore di uno stile e di un pensiero architettonico» (Jacques Le Goff), ma è certo che finanziò e ordinò la costruzione di numerosi edifici religiosi, di cui il piú celebre è la Sainte-Chapelle. Cappella privata del re e della sua famiglia, essa fu costruita a tempo di record tra il 1243 e il 1248 e concepita come un «monumentale reliquiario» per accogliere la Corona di spine e le altre reliquie della Passione di Cristo, vendute a piú riprese dall’imperatore di Costantinopoli oberato dai debiti, e oggetto da parte di san Luigi di «ossessive» pratiche devozionali. Nella Sainte-Chapelle si riassunsero le piú raffinate e ardite innovazioni architettoniche dell’arte gotica tanto da essere ritenuta già dai contemporanei un capolavoro di «meravigliosa bellezza» (Matteo Paris), in cui la gloria del re si associava a quella di Dio. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Le grandi cattedrali
AMIENS cattedrale di notre-dame
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n mezzo alla navata della cattedrale di Amiens, un disegno a labirinto inciso sulle lastre del pavimento recava al centro, prima delle distruzioni operate dalla Rivoluzione, una banda di rame con una lunga iscrizione in volgare. Essa spiegava che la cattedrale era stata cominciata nel 1220 dall’architetto Robert de Luzarches, per volere del vescovo Évrard de Fouilloy (1211-1222; la sua splendida lastra tombale in bronzo è ancora oggi in cattedrale). A de Luzarches erano succeduti Thomas de Cormont e poi il figlio Renaud, che aveva fatto installare il labirinto nel 1288. I lavori ebbero inizio dalla navata; nel 1241 si aggiunse il transetto; nel 1269 venne donata una vetrata per la finestra maggiore del coro. La facciata si cominciò nel 1236 e fu rapidamente compiuta. Le tre navate longitudinali sfociano su un grande transetto con
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deambulatorio e sette cappelle radiali: è una pianta simile a quella della cattedrale di Reims, ma senza torri sul transetto. L’altezza delle volte arriva a 42,50 m e altrettanto impressionante è lo sviluppo verticale dell’alzato a tre livelli, con le arcate che arrivano ai 18 m; il pilastro derivato da Chartres cresce corrispondentemente in dimensioni. Centro maggiore della scultura gotica europea, la cattedrale di Amiens si apre con tre portali (del Giudizio, della Vergine, di San Firmino) sulla facciata principale, scolpiti negli anni Quaranta del Duecento. I restauri ne hanno scoperto larghe zone di policromia: dalla coltre nerastra che la ricopriva, la facciata di Amiens è riemersa in una veste piena di colori. Sul braccio sud del transetto, il piú tardo portale della Vergine Dorata reca le storie di Sant’Onorato, compatrono della diocesi.
La facciata della cattedrale di Notre-Dame di Amiens. Il grandioso edificio che oggi si può ammirare è l’esito della ricostruzione avviata nel 1220 per rimpiazzare una chiesa piú antica, distrutta da un incendio nel 1218. I lavori, affidati all’architetto Robert de Luzarches, si conclusero nel 1269, con ulteriori interventi fra il 1284 e il 1305.
REIMS cattedrale di notre-dame
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onsiderata uno dei capolavori dell’arte gotica matura – nonostante il martirio cui fu sottoposta tanto durante la prima che nel corso della seconda guerra mondiale – la cattedrale di Reims fu ricostruita a partire dal 1210, su iniziativa dell’arcivescovo Aubry de Humbert (1207-1218), a seguito dei danni provocati da un incendio. Un’iscrizione all’interno di un disegno a labirinto, fortunatamente decifrata prima della
Il battesimo di Clodoveo, olio su tavola di un artista franco-fiammingo noto come Maestro di Saint-Giles e attivo intorno al 1500. Washington, National Gallery of Art. In basso la navata centrale della cattedrale di Notre-Dame di Reims, considerata una delle massime espressioni dell’arte gotica francese, sia per l’architettura, sia per il ricco apparato scultoreo. sua distruzione nel 1779, permette di conoscere i nomi dei primi quattro architetti: Jean d’Orbais, Jean le Loup, Gaucher de Reims e Bernard de Soissons, dei quali però non sono noti né la successione cronologica all’interno del cantiere né lo specifico ruolo nella costruzione. Possente e allungata nella forma (140 m in lunghezza), circondata da una selva di archi rampanti e impreziosita da numerosissime sculture (a sinistra: angelo sorridente nella strombatura destra del portale occidentale), NotreDame fu riedificata all’insegna della monumentalità e della solennità che si confacevano alla chiesa prescelta per lo svolgimento della cerimonia dell’incoronazione del nuovo re. Fu l’arcivescovo Hincmar (845-882) a rivendicare per primo alla sua chiesa la paternità e il privilegio del rito, trasformando il battesimo impartito nel 498 proprio nella cattedrale di Reims dal vescovo Remigio al re Clodoveo in vero e proprio rito di consacrazione, necessario per conseguire a pieno titolo la sovranità e la dignità regia. Sebbene siano occorsi quasi tre secoli perché Reims divenisse definitivamente la «città della consacrazione» dei sovrani francesi, a partire da Enrico I (1027) – con l’eccezione di Luigi VI (consacrato in tutta fretta a Orléans dall’arcivescovo di Sens), di Enrico IV e di Luigi XVIII – tutti i re fino a Carlo X (1825) ricevettero l’unzione sacrale dalle mani del metropolitano di Reims, nella sua cattedrale. A partire dal regno di san Luigi la liturgia della consacrazione dei re di Francia fu fissata secondo l’Ordo di Reims del 1250, straordinario manoscritto corredato di diciotto miniature che, illustrando i momenti
fondamentali del rito, sottolinea il carattere unico e miracoloso dell’unzione del re di Francia, alla quale dovevano prendere parte, oltre all’arcivescovo consacratore, i vescovi di Soissons, Laon, Beauvais, Langres, Châlons e Noyon, i canonici della cattedrale, l’abate di Saint-Denis e quello della vicina abbazia di SaintRemi con quattro monaci.
PARIGI cattedrale di notre-dame
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e cronache del tempo raccontano che fu il pontefice Alessandro III a porre nel 1163 la prima pietra per la ricostruzione della cattedrale di NotreDame, voluta dal vescovo di Parigi Maurice de Sully (1160-1196). Alla base del progetto c’erano non soltanto il rapido diffondersi nell’Île-de-France delle soluzioni architettoniche sperimentate a Saint-Denis, ma CATTEDRALI E ABBAZIE
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soprattutto il fatto che la città, ormai affermatasi come capitale del regno capetingio, aveva bisogno di una chiesa degna, per dimensioni e bellezza, del suo ruolo. Sconosciuto è il nome di colui che concepí il progetto originario – caratterizzato da doppie navate laterali, transetto non sporgente e alzato su quattro livelli – alquanto rimaneggiato peraltro nel corso del XIII secolo. Come nel 1235, quando furono inserite fra i contrafforti delle navate altre cappelle laterali, fatte costruire dalle corporazioni cittadine per ottenere maggiore lustro; o, qualche anno dopo, con la costruzione delle cappelle a raggiera intorno all’abside. Nel primo caso gli effetti furono tali che gli architetti Jean de Chelles (1250) e Pierre de Montreuil (1260 circa), per allineare il corpo orizzontale rispetto alle nuove cappelle, ampliarono rispettivamente il transetto nord e quello sud aggiungendo una campata 52
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Le grandi cattedrali
In alto la cattedrale di Notre-Dame, a Parigi, uno dei monumenti simbolo della capitale francese, esito di una vicenda costruttiva iniziata nel corso del XII sec. In basso particolare dei gocciolatoi (gargouilles) che caratterizzano l’esterno della cattedrale parigina e scolpiti in forme di creature mostruose e animali fantastici.
Un’altra veduta della cattedrale parigina di Notre-Dame, che sorge sull’Île de la Cité.
in ognuno dei due bracci. Destinata a usi civili e gravemente danneggiata durante la Rivoluzione francese – quando il furore popolare si concentrò soprattutto sulle statue dei re e delle regine del Vecchio Testamento che ancora sormontano i tre portali della facciata ritenendole erroneamente effigi degli odiati sovrani di Francia – la cattedrale di Notre-Dame fu riconsegnata al culto da Napoleone. Ma fu grazie alla dolorosa invettiva di Victor Hugo contenuta nel romanzo Notre-Dame de Paris che fu possibile salvare l’edificio dal degrado in cui era caduto e sottoporlo a imponenti restauri: «È difficile non sospirare, non indignarsi davanti alle degradazioni e alle innumerevoli mutilazioni che simultaneamente il tempo e gli uomini hanno fatto subire al venerabile monumento. (...) Sul volto di questa vecchia regina delle nostre cattedrali,
a fianco di una ruga troviamo sempre una cicatrice». Nuovi e impegnativi interventi di restauro e ricostruzione sono stati avviati all’indomani del devastante incendio che, fra il 15 e il 16 aprile 2019, ha colpito la cattedrale.
CHARTRES cattedrale di notre-dame
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tempi di costruzione della cattedrale di Chartres non sono ancora stabiliti concordemente, per la complessità delle vicende e perché molti elementi risalenti al XII secolo furono reinseriti nella costruzione duecentesca. Celebre meta di pellegrinaggio alla Vergine, la cattedrale fu risparmiata dall’incendio che distrusse la città nel 1134, salvo per la torre e il portico d’accesso. Rapidamente furono alzati due nuovi campanili, collegati da un avancorpo chiuso dal grande Portale Reale. Ma un nuovo incendio, il 10
giugno 1096, distrusse quasi completamente l’edificio: si salvarono solo le cripte, la facciata e i campanili. La nuova ricostruzione fu molto veloce: già nel 1210 si poteva celebrare nella navata e il primo gennaio 1221 i canonici presero possesso dei loro stalli, nel nuovo coro. Lunga 130 m, larga 64, la nuova cattedrale ha tre navate longitudinali aperte su un enorme transetto, pure a tre navate. Il coro ha quattro campate, doppio ambulacro, tre cappelle a raggiera. In alzato, due novità, che avranno larga diffusione, sono il sigillo caratteristico dello schema chartriano: la campata diventa rettangolare allungata (barlongue), permettendo una copertura a volta quadripartita (si elimina cosí, fra l’altro, la necessità di alternare sostegni «forti» e «deboli»); e viene soppresso il matroneo. Di conseguenza la campata diventa un CATTEDRALI E ABBAZIE
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Le grandi cattedrali Il timpano centrale del Portal Royal della cattedrale di Chartres. Il Cristo in maestà, in una mandorla, è attorniato dal tetramorfo, la raffigurazione iconografica dei quattro animali dell’Apocalisse – leone, toro, aquila e uomo –, che può anche essere utilizzata come simbolo degli evangelisti. In basso la raffigurazione di un labirinto inserita nel pavimento della navata centrale della cattedrale di Chartres. L’immagine può forse alludere al cammino simbolico che porta l’essere umano dalla terra a Dio.
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Alcune delle vetrate policrome della cattedrale di Chartres, che vanta uno degli insiemi piú ricchi di manufatti originali di questo tipo. Realizzate fra l’XI e il XIII sec. mostrano episodi tratti dalle Scritture, vite di santi, nonché immagini delle principali attività produttive dell’età medievale. In basso la cattedrale di Saint-Étienne a Bourges.
BOURGES cattedrale di saint-Étienne
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el 1195, grazie al generoso contributo del vescovo Enrico di Sully (1183-1199), cominciarono i lavori di ricostruzione della cattedrale di Bourges. Il progetto – risalente già a vent’anni prima – di ampliare la cattedrale romanica (XI secolo) si era scontrato con due impedimenti: l’esistenza del chiostro nella zona occidentale dell’edificio e la presenza della cinta muraria gallo-romana e di profondi fossati sul lato orientale. Per realizzare il prolungamento previsto per la nuova costruzione si scelse allora di edificare il presbiterio all’esterno delle mura, grazie all’inserimento di una vasta cripta sotto il coro, la cui funzione era quella di compensare «strutturalmente» il dislivello esistente rispetto al vecchio corpo longitudinale posto entro le mura cittadine. Due furono le campagne di lavori. Nella prima, che si prolungò fino al 1214, furono senz’altro realizzati la cripta, il deambulatorio e le campate del coro – un documento di quell’anno ci informa infatti che alcuni uffici liturgici erano già celebrati nel coro e nel deambulatorio – oltre che il triforio, le finestre alte e le volte del coro. Nella seconda, svoltasi all’incirca tra il 1225 e il 1255, tutti gli sforzi si concentrarono sul corpo longitudinale
nucleo spaziale autonomo e lo spazio interno una successione di parti identiche. Altri elementi innovativi sono l’identità in altezza fra zona del claristorio e arcate, e un uso maturo degli archi rampanti esterni, che spingono visivamente verso l’alto le splendide masse perfettamente bilanciate. Ben nove portali scolpiti, piú due portici davanti a quelli dei transetti, fanno inoltre di Chartres uno degli insiemi piú densi di sculture gotiche, con un ventaglio di soluzioni formali che va dalla fine del XII secolo (il Portail Royal della facciata occidentale) alla metà del Duecento. 2500 mq di vetrate istoriate in grandissima parte originarie, formano un complesso altrettanto ricco e composito. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Le grandi cattedrali
e sulla facciata, nella quale, in corrispondenza delle cinque navate, furono aperti altrettanti portali decorati sulla base di un omogeneo programma iconografico che vede al centro il Giudizio Universale e ai lati la Vergine e Santo Stefano (dedicatario della cattedrale) e infine San Guglielmo e Sant’Ursino, particolarmente venerati dalla chiesa locale. Caratteristica, oltre che gigantesca – 125 m in lunghezza, 50 in larghezza – è la pianta dell’edificio, le cui doppie navate laterali, riscontrabili anche nella cattedrale di Parigi, proseguono però senza l’intersezione del transetto nel coro a doppio deambulatorio. Insolita anche la soluzione di elevare le volte delle navate a tre altezze diverse: 9,30 m per quelle piú esterne, 21,30 m per le intermedie e 37,15 m per quella centrale. Elementi questi che impediscono di ravvisare, come si è fatto in passato, un rapporto di filiazione diretta della cattedrale di Saint-Étienne da Notre-Dame di Parigi.
LEÓN cattedrale di santa maría de regla
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essuna cattedrale gotica fuori di Francia, tranne quella di Colonia, deve tanto al gotico francese quanto la cattedrale di León, capitale dell’omonimo regno unificatosi con quello di Castiglia nel 1230. Le forme eleganti e le pareti illuminate da grandi vetrate – che ben corrispondono allo stile rayonnant promosso in Francia sotto san Luigi – hanno meritato all’edificio il nome di Pulchra Leonina. Nel paesaggio architettonico spagnolo, la cattedrale di Santa María de Regla fu subito un inserto decisamente «straniero» e tale rimase anche in seguito: l’unica influenza che ebbe fu sulla costruzione del capocroce gotico di Santiago di Compostella. Il re Alfonso X il Saggio fu largo di privilegi alla Chiesa leonense dopo la nomina a vescovo di Martín Gonzáles, già notaio reale (1254). La prima notizia legata all’edificazione della chiesa è del 1255: vi si parla del
In alto la facciata della cattedrale di S. María de Regla a León. Nella pagina accanto la decorazione del portale centrale della cattedrale di Bourges, avente per tema il Giudizio Universale. legname necessario alla costruzione, che doveva essere da poco cominciata o in procinto di esserlo. Il vescovo chiamò come architetto un maestro, Enrico, probabilmente lo stesso citato per i lavori della cattedrale di Bourgos. Dal 1255 al 1277 egli diresse il cantiere, ispirandosi strettamente alle forme della cattedrale di Reims: una novità, visto che le precedenti cattedrali di Burgos e di Toledo dipendono dall’esempio di Bourges. Tre profondi portali si aprono sulla facciata occidentale, scolpiti col Giudizio Universale, la morte e incoronazione di Maria, le storie dell’infanzia di Cristo, in forme che riecheggiano le sculture di Notre-Dame, a Parigi, filtrate attraverso esempi «provinciali» francesi. Tre portali scolpiti decorano anche la testata del transetto destro. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Oriente rigore
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La nascita e il proliferare delle abbazie si legano al diffondersi del monachesimo, un fenomeno che ha le proprie radici nel cristianesimo delle origini e i cui precursori furono quei personaggi che, per esempio in Egitto, abbracciarono ideali di vita basati sull’ascesi e l’eremitaggio
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di Cécile Caby
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n Italia, come in tutto l’Occidente, il monachesimo si afferma a partire dal IV secolo, ispirandosi all’ideale di vita degli asceti dei deserti d’Egitto, come Antonio († 356), Pacomio († 346) o Basilio († 379). A Roma, questa influenza orientale trova terreno fertile grazie a personaggi carismatici, come san Girolamo, e all’esistenza, nell’alta società dell’epoca, di una spiritualità ascetica pronta ad accogliere le proposte monastiche. Proprio fra le donne di questa tarda aristocrazia romana san Girolamo, giunto a Roma nel 381, trovò i suoi piú ferventi discepoli, tanto che, attorno alle loro case, sorsero piccoli monasteri domestici. Forse a causa del suo carattere elitario e individuale, questa prima forma di monachesimo domestico e nobiliare ebbe poco successo al di fuori di Roma. Durante il V secolo fu un movimento piú organizzato e riconosciuto dall’autorità della Chiesa a propagandare la tradizione orientale in Italia. Tra le manifestazioni piú caratteristiche del monachesimo altomedievale nella Penisola va ricordato il tentativo, breve ma significativo, compiuto nella nativa Calabria da Cassiodoro, alto funzionario alla corte del re ostrogoto Teo-
dorico. Intorno al 540, egli decise di ritirarsi a vita monastica: fondò sui suoi possedimenti un monastero denominato Vivarium, destinato alla contemplazione, all’attività intellettuale e allo studio della cultura sacra e di quella profana.
Un rigore esasperante
Pochi anni dopo il fallimento di Vivarium, fa la sua comparsa Benedetto da Norcia. La sua biografia, conosciuta quasi unicamente tramite il racconto agiografico dei Dialoghi di Gregorio Magno, è cosí poco puntuale che alcuni autori sono giunti a chiedersi se fosse mai esistito. Benedetto nacque probabilmente alla fine del V secolo nella regione di Norcia; ancora studente a Roma, decise di consacrarsi a Dio. Dopo tre anni di vita eremitica tentò di inserirsi in una comunità, ma i confratelli, esasperati dall’estremo rigore che, nel suo desiderio di riforma pretendeva di imporre, tentarono di avvelenarlo. Benedetto istituí vari monasteri, tra i quali, intorno al 530, quello di Montecassino, dove alla sua morte (547 o 560) venne sepolto. Per Montecassino, Benedetto scrisse, «una piccola rego(segue a p. 62)
Tebaide, tempera su tavola variamente attribuita al Beato Angelico, a Gherardo Starnina o a un imitatore settecentesco. Firenze, Galleria degli Uffizi. L’opera raffigura il «territorio di Tebe», la Tebaide appunto, inteso come la regione desertica dell’Alto Egitto, dove i primi monaci ed eremiti cristiani si ritirarono in solitudine.
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L’Italia delle abbazie
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UN MONASTERO BENEDETTINO DELL’ALT0 MEDIOEVO
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1. Negli scriptoria i monaci amanuensi si dedicano alla copiatura dei testi. I libri sono conservati nella biblioteca, in questo caso collocata al piano superiore. 2. Piú o meno grandiosa a seconda delle possibilità economiche della comunità monastica cui appartiene, la chiesa è l’edificio principale. 3. Il chiostro, con giardino, fontana e porticato, è il centro della vita monastica; qui i monaci meditano e trovano un po’ di svago. 4. La foresteria od ostello è il luogo di accoglienza dei pellegrini e di altri ospiti di passaggio. È collegata all’edificio in cui si trovano la cantina e la dispensa. 5. I monasteri sono dotati di tutti i servizi per l’igiene. Accanto alle latrine si trovano i bagni; al piano superiore, la lavanderia. 6. Nella Sala del Capitolo, al pianoterra, l’abate tiene le riunioni amministrative. Al piano superiore, si trova il dormitorio dei monaci. 7. Il chiostro può non essere unico: in questo caso ne esiste un altro per i novizi. Sul lato sud del chiostro si trova il refettorio comune. 8. Sul lato ovest dell’abbazia sono situati la cucina e il ripostiglio degli abiti. 9. Fuori della clausura, il complesso di ambienti riservati ai monaci, vi sono molti ambienti adibiti alle attività economiche del convento.
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CATTEDRALI E ABBAZIE la per principianti» (secondo le sue parole) che intendeva adattare il modello dei Padri del deserto alle realtà concrete del tempo.
Colombano e i suoi confratelli
L’invasione longobarda nel 568 cambiò fortemente il quadro del monachesimo italico. Basti dire che, nel 577, l’abbazia di Montecassino fu rasa al suolo e abbandonata dai seguaci di Benedetto. Solo dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo, verso la metà del VII secolo, rinacque un monachesimo di iniziativa locale. Un primo segno di questa svolta fu dato nel secondo decennio del VII secolo, quando il re longobardo Agilulfo invitò il monaco Colombano a fondare, insieme a un gruppo di suoi confratelli irlandesi, un monastero a Bobbio. Alla fine di questo secolo e durante tutto il successivo, allorché il dinamismo della comunità di Bobbio si è ormai indebolito, colpisce il forte movimento di rinascita di un monachesimo di espressione e iniziativa longobarda, ancorato alle realtà locali e strettamente legato al potere: nel 705 rinasce l’abbazia di Farfa grazie all’appoggio del duca longobardo di Benevento; nel 717 tre nobili longobardi fondano l’abbazia di San Vincenzo al Volturno; nell’Italia settentrionale le fondazioni si moltiplicano, spesso in siti strategici. Questa fitta rete monastica serviva non solo a conservare le ricchezze longobarde, ma fungeva anche
L’Italia delle abbazie San Benedetto predica ai suoi discepoli presso Montecassino, miniatura di Jean Stavelot da una raccolta degli scritti dello stesso san Benedetto. 1432-1437. Chantilly, Musée Condé.
da struttura di inquadramento religioso delle popolazioni, soprattutto rurali. Il passaggio del regno longobardo ai Franchi e alla dinastia carolingia non creò situazioni di rottura, né produsse cambiamenti in negativo. Non solo furono mantenuti e si svilupparono i centri monastici sorti o risorti in età longobarda, ma i Carolingi fecero di piú: disseminarono, in effetti, il territorio del regno di nuove fondazioni, che arricchirono con generose donazioni e trasformarono in centri di cultura. Emblematica di questa continuità è la visita compiuta a Montecassino, nell’anno 787, dall’imperatore Carlo Magno, che confermò tutti i possedimenti e beni dell’abbazia. A partire dalla fine del IX secolo, però, la vita monastica fu di nuovo sconvolta (ma certamente non interrotta) dalle incursioni ungheresi e saracene. E fu cosí, per esempio, che i monaci dell’abbazia di Novalesa fuggirono nella vicina Torino, assieme ai loro seimila codici, di fronte all’incalzare dei Saraceni. In numerosi casi queste devastazioni non fecero altro che aggravare antiche difficoltà e misero le abbazie in una situazione di debolezza della quale approfittarono i signori locali, che ne ridussero la libertà interna e l’autonomia esterna. Alla vigilia del secondo millennio, i disordini provocati dalle invasioni e, in seguito, dalle spoliazioni laiche rendevano ormai urgente non solo una riorganizzazione dei monasteri, ma anche una loro radicale riforma.
PREGHIERA E LAVORO Secondo papa Gregorio Magno, autore negli anni 620-630 di una biografia di san Benedetto, il santo avrebbe scritto una Regola monastica tradizionalmente identificata con un testo normativo composto negli anni 530-560. Non si tratta, come hanno dimostrato gli storici, né della prima Regola monastica occidentale, né di un testo molto innovativo, ma, per gran parte, dell’interpretazione e dell’adattamento di scritti anteriori ai criteri di vita del tempo. Comunque sia, è un testo breve e chiaro, che fornisce sia consigli spirituali che pratici. Richiama innanzitutto alla necessità di una vita comunitaria basata sull’amore fra i confratelli e organizzata attorno alla figura, severa ma paterna, dell’abate. Il tempo monastico si
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svolge al ritmo della preghiera comune e della recitazione dell’Ufficio Divino. La Regola, però, mira a creare anche comunità religiose autonome, in grado di affrontare tanto il declino della produzione agricola e degli scambi, quanto la regressione culturale dell’epoca. Da qui, la limitazione delle esigenze ascetiche e, invece, l’insistenza sull’importanza del lavoro manuale dei monaci: nei campi, nelle fonderie, ma anche negli scriptoria e nelle biblioteche. Tuttavia, la Regola benedettina non ebbeun successo immediato. Solo nel IX secolo, grazie alla politica carolingia di controllo e all’unificazione del monachesimo sul modello benedettino le qualità del testo attribuito a Benedetto si impongono largamente.
L’ITALIA DELLE ABBAZIE AU A AUS USSTRI T A TR AUSTRIA
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CATTEDRALI E ABBAZIE CHIUSA SAN MICHELE (TO) abbazia di s. michele
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ul finire del X secolo, le chiuse della Val di Susa, da poco liberate dalla presenza saracena, costituivano un punto cruciale di transito, in particolare per i viaggiatori del Nord Europa diretti verso la Penisola italiana. E fu proprio un ricco pellegrino alverniate, Ugo di Montboissier, a promuovere, fra il 983 e il 987, la fondazione dell’abbazia di S. Michele, in riferimento ideale a quelle di Mont-Saint-Michel in Normandia e di S. Michele del Gargano. Situato in un’area particolarmente angusta, inerpicato sull’imponente monte Pirchiriano, il monastero si specializzò nell’ospitalità di viaggiatori di alto rango, che ricambiavano i monaci con la loro generosità. Ciò determinò la fisionomia del patrimonio monastico: vastissimo, questo si estendeva dalla pianura padana alla Francia centro-meridionale (a ricordare gli aristocratici d’Alvernia e d’Aquitania tanto presenti nella prima vita del monastero). Inoltre, le sue numerose dipendenze (nel 1216 papa Innocenzo III elenca 10 abbazie, 7 monasteri, 88 chiese e 3 cappelle) fecero dell’abate di S. Michele il coordinatore del monachesimo subalpino. Fin dalla sua fondazione, l’abbazia si orientò verso una scelta di spiccata autonomia nei confronti dei poteri regionali. Nell’XI secolo i monaci di S. Michele e il loro piú famoso abate, il tolosano Benedetto II, si schierarono contro il vescovo e il marchese di Torino. Poi, nel corso del XII secolo, quando si affermò il potere dei conti di Moriana-Savoia, il prestigio della «Sacra» di S. Michele era tale da non rischiare piú concorrenza. Di fatto, gli abati furono spesso potenti alleati dei Savoia, come consiglieri o garanti. In epoca moderna, il legame con la famiglia si fece invece piú pesante per la comunità: nel Seicento, un’ala dell’abbazia fu usata come fortezza; nei secoli successivi, svolse spesso funzioni di caserma; infine, dalla prima metà dell’Ottocento, fu destinata a ospitare le discusse tombe dei Savoia. Questa fortezza, di aspetto austero, sorge a quasi 1000 m di altitudine: nel punto piú alto, la chiesa abbaziale si apre con un portale – ornato da un suggestivo fregio e da segni dello Zodiaco – realizzato, nella prima metà del XII secolo, da un certo Maestro Nicolò, come testimonia la sua firma su uno stipite.
L’abbazia di S. Michele della Chiusa, piú nota come Sacra di S. Michele, fondata sulla sommità del monte Pirchiriano sul finire del X sec. 64
CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie
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L’Italia delle abbazie la loro azione pastorale a favore della cristianizzazione delle zone rurali, quanto per le intense operazioni di bonifica agraria praticate sui loro cospicui possessi. Dal principio dell’XI secolo fino al XIV, il monastero di Sesto fu inoltre un centro decisivo di maturazione artistica, capace d’influenzare l’alto litorale adriatico e l’entroterra. A ricordare questo ruolo, il gruppo di affreschi (datati dall’XI-XII al XV secolo), che orna tuttora la chiesa.
Madonna col Bambino, affresco assegnato a un pittore friulano del primo Cinquecento su una delle pareti dell’atrio dell’abbazia di S. Maria in Sylvis a Sesto al Reghena. In basso l’urna di sant’Anastasia, ricavata da un sarcofago di età romana. Sesto al Reghena, S. Maria in Sylvis, cripta.
SESTO AL REGHENA (PN) s. maria in sylvis
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isale al 762 un documento scritto in cui tre fratelli di nobile stirpe longobarda, Erfo, Anto e Marco, elencano i vari possedimenti di due monasteri (l’uno maschile, l’altro femminile) che dichiarano di aver fondato qualche anno prima. Il monastero maschile sorge a Sesto in Friuli, in un luogo selvoso (in Sylvis), a una decina di chilometri da Concordia, sulla sponda del fiume Réghena. Dalle origini fino al primo scorcio del XII secolo, l’abbazia di S. Maria ebbe ricche donazioni (tra cui una di Carlo Magno nel 781). Accumulò cosí un ricco patrimonio di feudi e castelli, che fu spesso motivo di tensione tra i monaci, il patriarca di Aquileia e i vari poteri che tentavano di affermarsi nella zona. Il primo monastero fu distrutto dalle incursioni ungheresi negli anni 960-965. Rimangono tuttavia alcune testimonianze – come la cosiddetta «urna di Sant’Anastasia» (resti di una cattedra marmorea dell’VIII secolo ornata di rilievi) – dell’originaria struttura longobarda. A partire dalla fine del X secolo, il complesso abbaziale fu completamente ricostruito secondo gli schemi dei centri benedettini tanto italiani quanto d’Oltralpe. La basilica, in forme romanico-bizantine (XII-XIII secolo), è 66
CATTEDRALI E ABBAZIE
stata oggetto di numerosi rifacimenti, protrattisi fino al XX secolo. Originale e non frequente è invece la cerchia difensiva munita di ben sette torri, edificata a difesa del nuovo monastero e della quale rimane oggi una poderosa torre campanaria che apre su un suggestivo cortile. I Benedettini di Sesto ebbero un ruolo determinante nella vita del Friuli, ma anche di numerosi luoghi del Veneto, tanto per
CODIGORO (FE) abbazia di pomposa
F
in dalle prime notizie conservate su S. Maria di Pomposa (databili alla metà dell’VIII secolo), l’abbazia è ricordata come motivo di conflitto fra potenti: i pontefici romani – che ne rivendicano la protezione per sottrarla sia al controllo imperiale, sia alla giurisdizione dei vescovi –, gli arcivescovi di Ravenna e, infine, gli
A sinistra l’abate Guido di Pomposa in un affresco della Sala Capitolare dell’abbazia omonima. XIV sec. A destra una veduta dell’abbazia di Pomposa, la cui esistenza è attestata almeno a partire dall’VIII sec. In basso, a destra Ultima Cena, affresco variamente attribuito a Giovanni Baronzio o Pietro da Rimini. 1315-1320. Codigoro, abbazia di Pomposa, refettorio.
imperatori. D’altronde, la situazione geopolitica e l’importanza dei beni fondiari e dei diritti feudali dell’abbazia bastavano a giustificare il ruolo di Pomposa nei rapporti di equilibrio fra impero e papato. Nel periodo in cui fu abate Guido di Pomposa (tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo), cominciò per l’abbazia un periodo di altissimo livello spirituale e di forte attrazione che si prolungò per tutto l’XI secolo. Guido,
infatti, era legato ai maggiori attori della riforma del monachesimo, come Romualdo di Ravenna o il cardinale eremita Pier Damiani, che soggiornò a Pomposa nel 1040-1042. Inoltre il santo abate dotò l’abbazia di una ricca biblioteca, poi consolidata dal suo successore Girolamo. Sotto la sua guida, la comunità giunse ad accogliere circa cento monaci e Guido dovette fare ampliare la chiesa e il monastero.
Non ci si deve quindi stupire che Bonifacio, padre di Matilde di Canossa, abbia scelto il cenobio per espiare le sue colpe contro la libertà della Chiesa. Della potenza temporale di Pomposa, fondata su un ingente patrimonio sparso (dal XIII secolo) in 21 diocesi del Veneto, dell’Emilia-Romagna e dell’Umbria, e della sua influenza spirituale, è ancora testimone il complesso abbaziale: la chiesa in CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE laterizio, che si rifà al modello delle basiliche della vicina Ravenna, ornata da un ricco pavimento policromo e da vari cicli di affreschi, ma soprattutto il campanile, alto circa 50 m, e il palazzo della Ragione nel quale l’abate amministrava la giustizia.
FERENTILLO (TR) s. pietro in valle
I
duchi longobardi di Spoleto svolsero un’intensa politica di fondazioni monastiche nel loro territorio. In particolare Faroaldo II, duca di Spoleto dal 703, ha legato il suo nome a importanti privilegi concessi all’abbazia di Farfa e alla fondazione di S. Pietro in Valle a Ferentillo. Il monastero fu edificato alle falde del Monte Solenne, nella valle della Nera, sul luogo dove erano vissuti nel VI secolo due eremiti, Lazzaro e Giovanni, venerati dalle popolazioni locali. A loro memoria, e per custodirne le sante spoglie, il duca Faroaldo fece costruire una chiesa, alla quale appoggiò una comunità monastica. La leggenda vuole che Faroaldo II si sia ritirato a vita monastica nella sua fondazione quando fu deposto dal figlio, Trasamondo Il, nel 720. Dotato fin dalla sua origine di importanti beni e diritti nella valle della Nera, compreso il villaggio di Ferentillo, S. Pietro in Valle soffrí spesso per le guerre locali e per la concorrenza del vescovo di Spoleto. L’abbazia conobbe
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CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie
un momento di particolare prestigio nel XII secolo, quando alla chiesa a unica navata con transetto e tre absidi, risultato di una ricostruzione dei secoli X-XI, furono aggiunti un campanile e il chiostro e, nelle pareti laterali della navata, furono dipinti da un artista romano di rilievo preziosi affreschi che illustrano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento.
SUBIACO (ROMA) sacro speco
L’
attuale monastero sorge presso Subiaco, sul luogo dove, all’inizio del VI secolo, Benedetto e i suoi piú stretti compagni trascorsero i primi anni nella solitudine eremitica. Il nucleo del Sacro Speco è formato dalle due grotte che si affacciano sul fianco del Monte Taleo, sotto un’alta parete di roccia. Nella cavità situata in posizione piú elevata, allora quasi inaccessibile, Benedetto trascorse tre anni di preghiera solitaria, nutrendosi del pane che un suo discepolo gli calava ogni giorno con una corda. Nella grotta inferiore si radunavano, per ascoltare le parole del santo, i visitatori che, sempre piú numerosi, cominciarono ad affluire nella zona dopo la scoperta del monaco da parte di alcuni pastori della zona. «Non molto lontano – racconta Gregorio Magno, biografo di Benedetto – molte persone furono da lui riunite a servizio di Dio onnipotente e, con l’aiuto di Gesú
Cristo, costituí dodici monasteri, nei quali destinò dodici monaci sotto determinati abati». Di questi monasteri, tutti scomparsi, è lontana erede l’abbazia di S. Scolastica di Subiaco. Fino all’inizio del Duecento, quindi per ben sette secoli, le grotte naturali care al padre del monachesimo occidentale furono lasciate praticamente inalterate. Solo nel 1202, papa Innocenzo III promulgò una bolla in favore della piccola comunità di monaci che si era rifugiata a vivere negli ambienti superstiti. La memoria di questo atto decisivo, che determinò le prime trasformazioni architettoniche del Sacro Speco, è affidata a un noto affresco che ritrae il pontefice nell’atto di porgere una bolla a un frate benedettino (forse l’abate Romano). Pochi anni dopo questo episodio, si sarebbe fermato nel santuario un altro noto visitatore: Francesco d’Assisi, anch’egli ricordato in un affresco della cappella di San Gregorio Magno. Il monastero attuale, risultato di otto
A sinistra una veduta del Sacro Speco di Subiaco. A destra papa Innocenzo III ritratto in un affresco della Chiesa Inferiore del monastero sublacense. Nella pagina accanto, in basso l’abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo. In basso la «Chiesa Nuova» dell’abbazia venosina della SS. Trinità, nota anche come «Incompiuta», poiché i lavori di costruzione, avviati agli inizi del XII sec., furono definitivamente sospesi nel 1297.
sarcofago ancora collocato nella navata destra della chiesa anteriore. L’influenza normanna si faceva anche sentire all’interno della comunità popolata da monaci provenienti da Saint-Évroul-sur-Ouche in Normandia. Sotto l’abate Egidio (1168-1184), personaggio di rilievo alla corte normanna di Palermo, fu avviata la costruzione di una nuova chiesa, le cui forme tradiscono l’influenza di modelli francesi. Ma il tramonto della potenza
secoli di trasformazioni architettoniche, comprende due piccole chiese sovrapposte e una serie di cappelle e di grotte riunite da scalinate.
VENOSA (PZ) santissima trinità
L’
abbazia di Venosa appartiene a un gruppo di fondazioni benedettine che ebbe sviluppo in epoca normanna. La città di Venosa era stata nell’antichità un centro importante sulla via Appia, fra Roma e Brindisi. Fin dal V-VI secolo, vi si era insediato un piccolo nucleo monastico. Questo primo insediamento trasse la sua fortuna dall’arrivo dei conquistatori normanni: fu infatti un membro della famiglia degli Altavilla, Drogone (o Dreux), signore di Venosa dal 1043 e conte di Puglia dal 1046, che vi fondò, alla metà dell’XI secolo, l’abbazia della Santissima Trinità, di cui, nel 1059, il papa Niccolò II venne di persona a consacrare la chiesa. L’abbazia ricevette numerose donazioni e
garanzie di protezione da parte dei Normanni, cosicché, già nel 1074, era in grado di controllare la metà delle rendite dell’intera città di Venosa. Il suo prestigio aumentò ancora quando Roberto il Guiscardo (1015-1085) la scelse come necropoli della sua dinastia ormai riconciliata con il papato: vi fece trasportare le spoglie dei suoi fratelli e volle esservi seppellito egli stesso, nel 1081, in un
normanna fece perdere ai monaci venosini il loro appoggio piú importante: come l’abbazia aveva raggiunto la sua grandezza grazie agli stretti legami con i Normanni e alla fedeltà agli Altavilla, cosí la perse con il declino della fortuna normanna. Testimone di questo destino è ancora oggi la grande chiesa rimasta incompiuta, malgrado un vano tentativo di riaprire il cantiere negli anni 1210-1220. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Tempo di
riforme
All’indomani del Mille mutano gli assetti dell’Europa e anche il monachesimo cambia pelle: soprattutto per l’avvento di Cluniacensi e Cistercensi
di Cécile Caby
N
ell’Italia dei secoli XI e XII, i monaci occupano una posizione eminente. In questo periodo, in Europa le fondazioni proliferano un po’ ovunque, proponendo forme di vita monastica molto diverse tra loro. Ma, soprattutto in Italia, i monaci assumono un ruolo decisivo nel grande movimento di riforma della Chiesa promosso dal papato. Primi fra questi servitori del papato riformatore, i potenti abati dell’abbazia di Cluny, in Borgogna, che fin dalla sua fondazione, nel 910, era stata simbolicamente donata a san Pietro e ai papi suoi successori. Già dalla metà del X e per tutto l’XI
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CATTEDRALI E ABBAZIE
secolo, gli abati di Cluny avevano tentato di riformare i monasteri italici, introducendo gli usi allora in vigore nella loro abbazia, e nella seconda metà dell’XI secolo si osserva una notevole diffusione delle dipendenze cluniacensi: nel 1077, l’abbazia di Polirone, fondata dai marchesi di Canossa, viene affidata a Cluny da Gregorio VII; a Farfa, sotto il grande abate Ugo († 1038), già era stato promulgato un Constitutum modellato sugli usi cluniacensi; la Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, infine, divenne il piú attivo focolaio di diffusione delle consuetudini cluniacensi in Italia.
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Tolosa Grasse Silos Cardena Ripoll S. Juan Silos
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L’ORDINE CLUNIACENSE L’ORDINE CLUNIACENSE
In alto la diffusione dei Cuniacensi. L’Ordine si organizzò in gruppi di priorati e abbazie dipendenti, ricevendo grande impulso soprattutto per merito di Oddone (926-943) e Pietro il Venerabile (1122-1156), e raggiunse il suo massimo sviluppo intorno alla metà del XIII sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Urbano II che consacra, nel 1095, l’altare del monastero di Cluny, in cui fu priore prima di diventare pontefice, dalla Cronaca dell’abbazia di Cluny. XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
«Quinque filiae», i cinque monasteri «Quinque filiae», i cinque monasteri direttamente dipendentida daCluny Cluny direttamente dipendenti II tre che hanno hannoadottato adottato tre monasteri monasteri che la regola di Cluny modificandola la regola di Cluny modificandola Altri importanti Altri monasteri monasteri importanti Zone di grande densità monastica Zone grande densità monastica cluniacense cistercense cluniacense ee cistercense Nel 1109 l’Ordine Nel l’Ordine cluniacense cluniacense comprende 1184 comprende 1184 conventi conventi
CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie Hovedøya Hovedøya
Vitskøl Vitskøl
Rievaulx Rievaulx
Herrevad Esron Herrevad Esron ar M Sorø ar M Sorø
Oliva Eldena Oliva Eldena Elb Vis Kolbatz Elb a Vis tola Kolbatz a t Lond ola Fermoy Loccum Tintern Lond Fermoy Loccum Tintern Waverley Sulejow Altenkamp Sulejow Buckfast Waverley Altenkamp Leubus Buckfast PfortaLeubus Ford Nivelles Pforta Eberbach Ford Nivelles Molesmes Saar Eberbach Ebrach Molesmes Saar Orval Ebrach Orval Savigny Maulbronn Les Vaux Zwettl Savigny Clairvaux Maulbronn Les Vaux Zwettl Carnoët Clairvaux La Trappe Carnoët Melleray Morimond Heiligenkreuz Trappe Zircz Melleray LoirLa Morimond Heiligenkreuz Pontigny a Zircz Pontigny Viktring Cîteaux Notre Dame d’ll RéLoira Sept Fons Cîteaux Lucedio Viktring Notre Dame d’ll Ré La FertéLucedio La Grace Dieu Sept Fons La Ferté La Grace Dieu Hautecombe Chiaravalle Milanese Danubio Cadouin Hautecombe Chiaravalle Danubio MorimondoMilanese Cadouin Aiguebelle Morimondo Sobrado Aiguebelle Le Garde-Dieu Valsainte Sobrado Sénanque Valsainte Le Garde-Dieu Castagnola Monte Acuto Sénanque Silvacane Castagnola Monte Acuto S. Galgano Silvacane Moreruela La Oliva Fontfroide S. Martino Le ThoronetS. Galgano Moreruela La Oliva Fontfroide Valbuena RomaS. Martino Le Thoronet Casamari Tarouca Valbonne Valbuena Roma Fossanova Casamari Tarouca Tago Valbonne Fossanova Santes Creus Tago Monsalud Santes Creus Alcobaça S. Maria Monsalud Alcobaça S. Maria delle Paludi delle Paludi S. Stefano S. Stefano Mellifont Mellifont
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L’ORDINE CISTERCENSE L’ORDINE CISTERCENSE
PPrincipali i i li monasterii di dipendenti d da: PPrincipali i i li monasterii dipendenti di d da: Clairvaux (80 femminili) Clairvaux (80 femminili) Cîteaux (28 femminili) Cîteaux (28 femminili) Morimond (28 femminili) Morimond (28 femminili) Pontigny (16 femminili) Pontigny (16 femminili) La Ferté (5 femminili) La Ferté (5 femminili) Zona di grande densità monastica Zona di grande densità monastica cluniacense e cistercense cluniacense e cistercense L’Ordine cistercense comprende L’Ordine cistercense 525 abbazie alla finecomprende del XII sec. 525 abbazie alla fine del XII e 694 abbazie alla fine del sec. XIII sec. e 694 abbazie alla fine del XIII sec.
M e d i et er rr ar an ne e o o Ma ar r M e d i t M
CATTEDRALI E ABBAZIE
Wonchock Wonchock Jedrzejów Jedrzejów
Belapatfalva Belapatfalva Kerz Kerz Egres Egres
S. Spirito S. Spirito
Cartina che mostra la diffusione in Europa dell’Ordine cistercense, che conobbe un notevole sviluppo sotto la guida di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153).
Tuttavia, con Cluny, il tentativo di riforma rimane confinato all’interno del vecchio monachesimo benedettino. I movimenti dell’XI e soprattutto del XII secolo propongono invece esperienze monastiche di avanguardia, variegate e piene di creatività: un nuovo monachesimo a tutti gli effetti. Tutti pretendono di recuperare lo 72
Falkenau Falkenau Dünamünde Dünamünde
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Boyle Boyle
Mare Mare Melrose del Nord Melrose del Nord
Alvastra Alvastra Gudvala Nydala Gudvala Nydala
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Kinloss Kinloss
spirito originario della Regola di san Benedetto, ma i risultati sono vari: alcuni privilegiano la contemplazione solitaria, altri la preghiera comune, altri ancora il lavoro nei campi, lo studio o la copiatura dei libri. Si tratta per lo piú di movimenti (e non piú di abbazie isolate) creatisi per la convergenza di singoli monaci ed ere-
miti – come di interi monasteri o eremi – verso personaggi carismatici (Romualdo di Ravenna, Pier Damiani, Giovanni Gualberto, Bruno di Colonia) o un ideale religioso ispirato da un modello (per esempio la Cîteaux di Bernardo di Chiaravalle), che acquisiscono ufficialità tramite il riconoscimento pontificio.
La carità fraterna dei Vallombrosani
Cosí, attorno a Camaldoli, eremo fondato da Romualdo di Ravenna nell’Appennino toscano nei primi anni dell’XI secolo, si sviluppa, tra l’XI e il XII secolo, una congregazione di monasteri, eremi e chiese, dispersi per lo piú nell’Italia centrale e in Sardegna. Paragonabile a quello dei Camaldolesi è lo sviluppo della congregazione di Vallombrosa, unificata dalla figura di Giovanni Gualberto e da una comunione di intenti chiamata «vincolo di carità fraterna». In coincidenza con la riforma ecclesiastica, alla quale i seguaci di Giovanni Gualberto danno un importante apporto, la congregazione vallombrosana si diffonde con rapidità: nei primi decenni del XII secolo, si contano già ben 16 monasteri lombardi, insediati per lo piú nei pressi delle città dove i Vallombrosani sostengono la riforma del clero. Anche nel Mezzogiorno d’Italia, negli stessi anni, sorgono nuove esperienze monastiche. Dopo la conversione a vita eremitica e la fondazione della Chartreuse nei pressi di Grenoble, è il versante ionico della Calabria che Bruno di Colonia sceglie per soddisfare le sue esigenze di solitudine e di ascetismo. Vi fonda, infatti, gli eremi di San Giovanni della Torre e di Santo Stefano del Bosco, approvati da papa Urbano II nell’ultimo decennio dell’XI secolo. Elitario e individuale, l’ideale di perfezione di Bruno si raggiunge mediante l’ascesi e la contemplazione nell’ambito di comunità di eremiti che vivono isolati in celle (in generale una dozzina a certosa) raggruppate in un recinto chiamato deserto. Lentamente, dopo la morte di Bruno (1101), il movimento da lui creato si arricchisce di consuetudini specifiche (11151120), si struttura come ordine e prosegue lentamente la sua espansione. Ricchissimo di fondazioni fu soprattutto il XIV secolo, che vide l’insediamento di certose a Firenze, Siena, Pavia, Napoli, ecc.
Due monaci tagliano la legna, particolare di un capolettera istoriato da un codice dei Moralia in Iob, dall’abbazia di Cîteaux. XII sec. Digione, Bibliothèque Municipale.
Va anche citato il percorso di Guglielmo da Vercelli (1085 circa-1142), un penitente itinerante attorno al quale si stabilisce, a Montevergine, presso Avellino, una comunità di monaci sí le gati a un ideale eremitico-ascetico, ma anche presenti in mezzo al popolo mediante la loro predicazione. Da Montevergine, il movimento si espande, nel corso del XII secolo, verso il Regno di Sicilia, che rimarrà per tutto il Medioevo la zona di diffusione dei Verginiani. Piú o meno in parallelo con l’evolversi di questi nuovi Ordini monastici, si assiste in Italia alla diffusione del monachesimo cistercense. Nata nell’ultimo scorcio dell’XI secolo in Borgogna, attorno a Cîteaux e alle sue quattro prime emanazioni (La Ferté, Pontigny, Morimond, Clairvaux), la congregazione cresce per filiazione. Questo modello di sviluppo prevede la parità fra le abbazie-figlie e l’abbazia madre, unite da un «vincolo di carità», la partecipazione comune al Capitolo generale, e una forte coscienza dell’identità cistercense. A partire dalla Liguria e dal Piemonte, ben presto il monachesimo cistercense si diffonde anche in Italia, favorito negli anni Trenta del XII secolo dalla presenza in loco di Bernardo di Chiaravalle. In questi anni, grazie a una donazione dei cittadini di Piacenza, sorgono Chiaravalle della Colomba e Chiaravalle Milanese, alle porte di Milano. Queste fondazioni, nei pressi di due città importanti, sono un’eccezione dal punto di vista insediativo. I Cistercensi preferivano infatti i siti rurali, lontani dai centri abitati, piú consoni alla loro ricerca d’isolamento e all’adempimento del lavoro manuale. L’efficiente organizzazione agricola e amministrativa di cui erano dotati li portò a dirigere grandi aziende agrarie (le grance) costituite da terreni che sottomettevano a bonifica e sfruttamento intenso. Oltre alla coltivazione dei campi, i Cistercensi si dedicarono all’allevamento di ovini, la cui lana era venduta allo stato grezzo, o trasformata in tessuti all’interno delle grancie stesse. Una lettura rigorosa della Regola di san Benedetto, una liturgia senza eccessi, una larga apertura al lavoro (intellettuale come manuale), una particolare cura all’accoglienza degli ospiti e dei poveri: non c’è da dubitare che questo senso della misura abbia contribuito al successo cistercense. CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE MILANO abbazia di s. maria di chiaravalle
D
urante l’estate 1135, reduce dal concilio di Pisa, dove aveva difeso papa Innocenzo II contro l’antipapa Anacleto, Bernardo di Chiaravalle si fermò alcune settimane a Milano, ove fu accolto con entusiasmo in un contesto di effervescenza religiosa che
L’Italia delle abbazie
società milanese la si evince dal numero delle tombe delle principali famiglie della città: i Della Torre, Piola, Terzago, ecc. Ed è sempre a Chiaravalle, dove usava ritirarsi, che l’arcivescovo Ottone Visconti, signore di Milano, morí l’8 agosto 1295. In breve, l’abbazia diventò una potente e prospera azienda agricola, responsabile della bonifica e della razionalizzazione dell’irrigazione
CHIUSDINO (SI) abbazia di s. galgano
dei suoi possessi. Nella prima metà del Trecento, fu costruita la famosa torre che i Milanesi chiamano ciribiciaccola. La ricchezza dell’ornamentazione esterna, nonché degli affreschi dei maestri giotteschi e lombardi che ne ornano gli interni contribuirono a farne il simbolo di Chiaravalle.
pericolanti, sono definitivamente crollate nel 1786, poco dopo la caduta del campanile. Le rimanenti strutture, in particolare la tripla navata e il transetto, cosí come le pareti laterali aperte da monofore o bifore ogivali, conservano una grandiosa solennità. A destra della chiesa rimangono alcuni
C
on Fossanova, l’abbazia di S. Galgano è uno dei migliori esempi dello stile gotico cistercense in Italia. Per di piú, solitaria e in parte diruta (nel 1816, fu utilzzata come riserva di pietre per la costruzione di una fattoria!), costituisce un luogo di grande fascino e suggestione. Trova la sua origine in una cappella (tuttora visibile a qualche distanza dell’abbazia, sul Monte Siepi) eretta da un nobile cavaliere, Galgano Guidotti, ritiratosi a vita eremitica alla fine del XII secolo. Dopo la canonizzazione di Galgano nel 1185, i Cistercensi di Casamari ottennero di edificare un oratorio e un edificio in suo onore, ai piedi del monte scelto dal cavaliere-eremita. La chiesa attuale fu costruita alla metà del XIII secolo, ispirandosi alle forme architettoniche delle chiese cistercensi francesi. Purtroppo, non sono conservate le volte che, già da tempo
In alto l’abbazia di S. Maria di Chiaravalle, fondata nel 1135, da san Bernardo di Clairvaux a sud delle mura di Milano, nella zona di Porta Romana. A destra l’abbazia di S. Galgano (Siena). portò alla cacciata (con l’appoggio dei Cistercensi) del vescovo Anselmo della Pusterla, ritenuto indegno della sua funzione e ostile alla riforma. In segno di riconoscenza verso il santo pacificatore, le autorità si impegnarono a edificare una nuova colonia cistercense nei pressi di Milano. Con notevole ritardo rispetto alle previsioni, a causa del Comune che tardò ad adempiere alla sua promessa, il nuovo insediamento fu finalmente eretto a circa cinque chilometri dalla Porta Romagna. Nel corso del XII secolo prese il nome della casa madre borgognona, Chiaravalle, ossia, nel dialetto milanese, Ciaravàl. Dalla casa madre e dalle sue sorelle francesi, la chiesa (iniziata nel 1160, consacrata nel 1221 e ampiamente restaurata nel XIII secolo) e il complesso monastico di Chiaravalle milanese subirono profonde influenze architettoniche. L’importanza dell’abbazia per la 74
CATTEDRALI E ABBAZIE
L’interno della monumentale chiesa abbaziale di S. Galgano, realizzata a partire dal 1218 da monaci cistercensi, nella piana che si estende ai piedi dell’eremo di Montesiepi fondato dal santo cavaliere, morto nel 1181. In basso veduta aerea dell’abbazia di Fossanova, il cui aspetto è frutto degli interventi operati dai Cistercensi sul complesso conventuale fondato dai Benedettini.
elementi del complesso monastico: la sala capitolare, la sala dei monaci e, al piano superiore, un corridoio che apre sulle celle e sul coro notturno dei monaci. Benché distante circa 35 chilometri da Siena, l’abbazia di S. Galgano mantenne per tutto il periodo medievale strettissimi rapporti con questa città, dove possedeva tra l’altro una piccola dipendenza. Spesso designati dal Comune, dal clero (il vescovo di Volterra soprattutto) o da privati come arbitri nelle liti, i monaci dell’abbazia furono, però, principalmente incaricati, per lunghi anni, della gestione delle finanze comunali (o ufficio della Biccherna) e del controllo tecnico e finanziario della fabbrica del Duomo di Siena.
PRIVERNO (LT) abbazia di fossanova
L’
appoggio dato da san Bernardo e dal suo Ordine a papa Innocenzo II valse ai Cistercensi l’assegnazione di alcune abbazie, tra le quali, già dal 1135, il monastero benedettino di S. Stefano di Fossanova (dal nome di un fosso di scolo scavato dai Cistercensi per risanare il luogo paludoso), vicino a
Priverno. Con S. Maria di Casamari, l’abbazia di Fossanova diventò il principale intermediario dell’Ordine in Italia meridionale, dove riformò o fondò ben nove «figlie». Luogo di incontro e scambio, vide anche passare, nella sua foresteria, prestigiosi ospiti, come Tommaso d’Aquino che vi morí nel 1274. Appena insediati, i Cistercensi inviarono dalla Borgogna alcuni conversi a costruire nuovi edifici conventuali ed ecclesiali, conformi ai
modelli architettonici dell’Ordine che grande sviluppo avevano avuto in Francia. Iniziato probabilmente nell’ottavo decennio del XII secolo, sotto la guida dell’abate Gerardo, in seguito eletto abate di Clairvaux (11701179), il rinnovamento della chiesa e del convento conobbe un importante punto d’arrivo nel 1208, data della consacrazione. Ma i rifacimenti si prolungarono oltre questa data, in particolare nella sala capitolare (ancora CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie Miniatura raffigurante Arechi II, duca e poi principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava de’ Tirreni, abbazia della SS. Trinità. In basso l’ambone marmoreo in stile cosmatesco dell’abbazia della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni. XII sec.
oggi luogo di riunione dei monaci), nel refettorio (aggiunta della loggia del lettore), nel chiostro (edicola della fontana e sculture dei portali). La chiesa attuale, insigne esempio dello stile gotico cistercense, si dispone attomo a tre navate voltate a crociera, un transetto dotato di quattro cappelle e un coro profondo a terminazione rettilinea. Sul versante meridionale (destro) della chiesa si apre il chiostro; sui lati di questo, secondo il tipico piano cistercense, affacciano gli edifici conventuali: le sale di riunione (sala capitolare e calefactorium, riscaldato per le assemblee invernali), il refettorio e la foresteria, basso edificio porticato.
CAVA DE’ TIRRENI (SA) abbazia della ss. trinità
M
entre tornava da un’ambasciata in Germania, Alfiero Pappacarbone († 1050), nobile salernitano, incontrò a San Michele della Chiusa Odilone,
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abate di Cluny, che lo condusse nella sua abbazia. Tornato in Italia, in risposta all’invito del principe di Salerno che voleva affidargli la riforma dei monasteri del suo dominio, decise di ritirarsi a vita eremitica in una grotta (cava) alle falde del monte Finestra, nella penisola sorrentina. Lí, raggiunto da un gruppo di discepoli, fondò, negli anni Venti dell’XI secolo, un monastero dedicato alla Santissima Trinità. Sotto i suoi immediati successori e grazie al generoso appoggio della dinastia normanna, la fama di Cava non smise di crescere. In poco tempo, l’abbazia giunse ad avere giurisdizione su una fitta rete di monasteri sparsi in tutta l’Italia meridionale. Pietro Pappacarbone (1079-1123), nipote di Alfiero, si fece promotore a Cava della regolamentazione della disciplina interna (le Consuetudines Cavenses) e dell’organizzazione della congregazione sul modello di quella dell’abbazia borgognona. Nel Medioevo, lo scriptorium cavense produsse numerosi codici, purtroppo andati dispersi nel Quattrocento (se ne conservano solo 65). Sul finire dello stesso secolo, la disciplina e la cultura tornarono, però, a fiorire nell’abbazia al punto che, nel XVIII secolo, la gloria di Cava era ancora tale che Giuseppe Bonaparte, il nuovo re di Napoli, la scelse insieme a Montecassino e Montevergine, come ente adibito alla custodia degli archivi nazionali. Ancora oggi, Cava è sede di un importante archivio, che custodisce documenti sulla storia dell’abbazia (ma non solo), e di una biblioteca ricca di manoscritti e opere rare a stampa. La chiesa attuale è il risultato di una completa ricostruzione avvenuta nella seconda metà del Settecento. Unici ricordi dello splendore medievale, l’ambone cosmatesco della navata centrale e la cripta, che custodisce
In alto Madonna col Bambino, affresco di Niccolò di Tommaso che sormonta il portale di ingresso della chiesa della certosa di Capri. A destra compare il conte Giacomo Arcucci, fondatore della certosa, che offre alla Vergine il modello della chiesa.
La certosa caprese di S. Giacomo.
varie sepolture (tra le quali il sarcofago della regina Sibilla, seconda moglie di Ruggero il Normanno) e una cappella ornata di notevoli affreschi del XIV secolo. Il complesso conventuale si dispone attorno a un chiostro del XIII secolo, in gran parte ricostruito. Degne di nota la sala capitolare e una grande sala di riunione, chiamata palatium, sede dell’attuale museo, che costituisce uno dei piú notevoli ambienti dell’antica badia.
CAPRI (NA) certosa di s. giacomo
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a certosa di S. Giacomo fu costruita per iniziativa del conte Giacomo Arcucci, detentore di importanti cariche CATTEDRALI E ABBAZIE
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L’Italia delle abbazie
Il chiostro del monastero palermitano di S. Giovanni degli Eremiti. Caratterizzata da archi a sesto acuto che poggiano su colonnine binate, la struttura viene variamente datata, ma si presume risalga al XIII sec. ed è la sola porzione superstite dell’originario complesso benedettino. alla corte napoletana della regina Giovanna I d’Angiò (1326-1382). Disperato perché non riusciva ad avere una discendenza maschile, Giacomo Arcucci fece il voto di costruire un monastero se questo suo desiderio si fosse realizzato. Nel 1365, gli nacque un primo figlio, seguito da un secondo: a quel punto, il conte decise di mantenere la sua promessa donando una certosa all’isola di Capri, dove risiedeva la sua famiglia. Già nel 1374 arrivarono a Capri i primi Certosini e, fin dall’inizio, la regina Giovanna appoggiò il nuovo insediamento, cosí come aveva fatto a Napoli, facendo terminare la certosa di S. Martino fondata nel 1325 da suo padre Carlo, duca di Calabria. E questo spiega il motivo per cui la regina è raffigurata assieme al fondatore, i suoi figli e altre due donne oranti, in un affresco che rappresenta la Madonna col Bambino in trono tra san Bruno (fondatore dei Certosini) e san Giacomo (patrono della certosa di Capri). Nel 1386, Giacomo Arcucci, spogliato di tutti i suoi beni a causa di rivolgimenti politici, decise di ritirarsi nella certosa di Capri con il figlio maggiore, e qui morí il 22 novembre 1386. Il sito insulare della certosa, garanzia del suo ritiro dal mondo, fu causa di numerose distruzioni e ricostruzioni, delle quali è testimone il carattere disomogeneo degli attuali edifici. Devastata nel 1553 dal corsaro Dragut e subito restaurata, la certosa fu vittima di un’altra incursione già nel 1563. Nell’Ottocento, fu adibita a varie destinazioni militari, finché non diventò sede della biblioteca comunale e del ginnasio-liceo. Conserva importanti tracce dell’architettura caprese, soprattutto nella parte medievale dalla tipica copertura a volte estradossate. Il convento racchiude due chiostri, uno di fattura quattrocentesca, piccolo ed 78
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elegante, e l’altro, della fine del secolo XVI, attorno al quale si aprono le celle, il cellario, e varie altre stanze.
PALERMO s. giovanni degli eremiti
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l monastero medievale di S. Giovanni degli Eremiti sorse a Palermo, intorno alla metà del XII secolo, in un luogo di antico insediamento monastico. Sembra infatti che vi fosse esistito sin dalla fine del VI secolo un grande monastero, distrutto dagli Arabi che vi edificarono una moschea (della quale ancora oggi si vedono alcune tracce). Con l’arrivo dei Normanni, per volontà del re Ruggero Il, la chiesa fu affidata ai monaci di
una piccola comunità di Montevergine (presso Avellino), retta da Guglielmo da Vercelli († 1142) e Giovanni di Nusco. Da questi monaci, detti «Eremiti» a causa della loro rigida regola e il loro ideale ascetico, deriva il nome dato alla chiesa. Dopo aver riedificato (tra il 1142 e 1148) e ripopolato la chiesa, il re Ruggero la corredò di numerosi beni e conferí al suo abate importanti incarichi presso la corte, fra i quali il titolo di primo cappellano. La chiesa fu inoltre adibita a cimitero palatino, per i membri della corte. E furono proprio questi stretti legami con la dinastia regnante l’origine delle difficoltà e dell’abbandono progressivo del
In alto una veduta di S. Giovanni degli Eremiti, magnifico esempio di edificio cristiano costruito secondo modelli islamici e caratterizzato da una successione di cubi sormontati da cupole, a simboleggiare l’accostamento della terra (il quadrato) al cielo (il cerchio). In basso uno scorcio dell’interno della chiesa palermitana di S. Giovani degli Eremiti. monastero dopo la caduta degli Altavilla. Si accede oggi al complesso attraverso un giardino che apre su un piccolo chiostro a colonnine binate sormontate da capitelli a foglie d’acanto. La chiesa sorprende per la sua semplicità, o addirittura austerità, mitigata soltanto dalle caratteristiche semisfere rosse del tetto e dal campanile ornato con eleganti finestre ogivali. Malgrado i lunghi secoli di abbandono, il monastero conserva ancora un grande fascino ed è oggi tra i piú popolari edifici siciliani. Già nel 1535 l’imperatore Carlo V ne rimase incantato e fece eseguire alcuni lavori di restauro della chiesa affinché fosse riportata al suo antico splendore. CATTEDRALI E ABBAZIE
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ore dei monaci Le
Fra le mura delle abbazie le giornate sono scandite dai precetti delle regole che ciascun Ordine ha scelto di seguire. In un alternarsi di studio, lavoro e preghiera
di Cécile Caby
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urante il Medioevo, di tutti i cristiani che si sforzano di raggiungere il Regno di Dio, il monaco viene considerato il piú avanzato nella scala della perfezione, in quanto ha scelto di rinunciare alla sua volontà per consacrare la propria vita a Cristo. Contrariamente ad altre categorie di chierici, i monaci vivono in comunità organizzate secondo una Regola ed è questo il motivo per cui vengono chiamati regolari. Nell’Occidente medievale, la Regola piú diffusa è, soprattutto a partire dal IX secolo, quella di Benedetto da Norcia. Sulla base di questo testo, molto generico e che propone orientamenti piuttosto che norme precise per il comportamento quotidiano, vengono elaborati in alcuni monasteri, o gruppi di monasteri, usi o consuetudini, che definiscono l’osservanza specifica di ciascun Ordine monastico e tutti i particolari della vita quotidiana, dall’inizio alla fine della giornata. Il monaco ha l’obbligo di conoscere perfettamente la Regola di Benedetto e gli usi del suo monastero, e quindi, durante il periodo (in generale un anno) di preparazione alla professione monastica, il novizio deve, sotto il severo controllo di un maestro, mettersi d’impegno e apprendere queste nozioni. Inoltre, ogni giorno, durante la riunione di tutti i monaci della comunità (il capitolo, che si svolge nella sala detta appunto capitolare), viene letto e commentato dal superiore un brano di queste «leggi» che disciplinano la vita comune.
Sotto il controllo e la guida dell’abate
La comunità che vive in un monastero non è composta da soli monaci. Ci sono anche i novizi, i bambini ospitati dal monastero e destinati a diventare monaci non appena raggiunta l’età consentita, i laici specializzati nei lavori manuali (i conversi) nonché dei semplici servitori. Per 80
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Nella pagina accanto vetrata policroma raffigurante Bernardo di Chiaravalle che prega durante la mietitura, opera attribuita a Bartel Bruyn il Vecchio o alla sua cerchia. 1525 circa. Colonia, cattedrale.
non parlare poi degli ospiti di passaggio alloggiati nella foresteria: nobili, benefattori del monastero, qualche vescovo o cardinale di ritorno da una missione, ma anche semplici pellegrini in viaggio verso Roma, Santiago di Compostella, Monte Gargano o qualche altro santuario. Tutti sono sottoposti all’autorità dell’abate, o del priore, vero capo del monastero e padre della comunità. A lui il futuro monaco promette di rispettare i voti (castità, povertà, stabilità e ubbedienza) e che il futuro converso chiede vitto, alloggio e protezione in cambio dell’impegno a servire il monastero. Ogni giorno, l’abate convoca il capitolo, ascolta la confessione dei suoi confratelli, organizza la ripartizione dei lavori e degli impegni comunitari e, soprattutto, bada agli affari quotidiani del monastero: accoglienza degli ospiti prestigiosi, contratti vari, vendite o acquisizione di beni patrimoniali o di ordinario consumo, liti e questioni giuridiche, ecc. È aiutato da «ufficiali», il cui numero e qualifica cambiano a seconda dei luoghi. In generale, ci sono un priore (il secondo nella gerarchia dopo l’abate), un economo, un responsabile della foresteria e dell’inferme-
VITE SOLITARIE E DI COMUNITÀ Due sono le principali correnti del monachesimo (dal greco monos, cioè solo): il cenobitismo, ovvero la vita religiosa comunitaria, e l’eremitismo (o anacoretismo), che indica un’esperienza religiosa solitaria. Nel monachesimo orientale dei secoli III-V, prevale la tendenza anacoretica, benché tenda progressivamente a privilegiare forme attenuate di vita ascetica: gli eremiti, per esempio, si ritrovano per pregare o per scambiare consigli. In Occidente, il monachesimo è di tendenza comunitaria e cenobitica, senza escludere tentativi eremitici moderati, come l’esperienza certosina di vita solitaria all’interno di una comunità.
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L’Italia delle abbazie
LESSICO CONVENTUALE Il termine «abbazia» deriva dal latino abbas (abate) e designa o la comunità di religiosi governata da un abate, in quanto personalità giuridica autonoma, o, piú spesso, il complesso degli edifici che ospitano la comunità stessa (chiostro, dormitorio, sala capitolare per le riunioni, biblioteca, refettorio), oltre alle altre costruzioni riservate ai servizi, ai magazzini e al lavoro. «Abbazia» viene in generale usato come sinonimo di «monastero», benché questo termine sia piú generico e si riferisca a tutti tipi di case di monaci o monache, inclusi i priorati. «Convento» deriva invece dal latino conventus, adunanza: contrariamente all’uso comune che lo applica, a torto, a tutti i tipi di case religiose, questo termine designa specificamente l’abitazione di frati e suore appartenenti a un ordine mendicante (e non a un ordine monastico). I conventi vennero il piú delle volte costruiti presso o entro le cinte urbane e mantennero una struttura incentrata su uno o piú chiostri e la chiesa.
o morte) per le quali si è impegnata in libri di memoria. Questo particolare tipo di opere finí con l’assumere per alcuni Ordini, in particolare quello di Cluny, una importanza tale da prevalere (come gli verrà rimproverato in seguito) su tutti gli altri aspetti della vita monastica. Se le regole e le consuetudini monastiche insistono ripetutamente sull’obbligo del lavoro, non bisogna comunque immaginare i monaci sistematicamente impegnati in attività agrarie o artigianali. Queste mansioni sono lasciate ai conversi, o a laici affittuari che coltivano i possessi del monastero contro pagamento di un censo o consegna di una parte dei raccolti. I monaci praticano per lo piú un lavoro intellettuale nella biblioteca o nella sala di studio dell’abbazia (scriptorium). Copiano in codici di pergamene opere liturgiche, teologiche, morali ma anche letteratura antica, trattati scientifici e
Nella pagina accanto Come San Benedetto ottiene farina in abbondanza e ne ristora i monaci, episodio facente parte delle Storie di San Benedetto, ciclo affrescato iniziato da Luca Signorelli e portato a termine dal Sodoma (al secolo, Giovanni di Antonio Bazzi) nel chiostro dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Asciano, Siena). 1505. ria. Alcuni incarichi sono affidati ai conversi, in particolare quando richiedono contatti con le città (mercati, fiere, ecc.). Nelle abbazie cistercensi, per esempio, una parte dei conversi risiede nelle fattorie (grance), dove lavora sotto il controllo di un monaco o, spesso, di un altro converso, il granciere. Inoltre, le abbazie fanno frequentemente ricorso a procuratori esterni alla comunità, in generale ecclesiastici influenti nelle corti vescovili o a Roma, potenti laici o esperti in diritto, ai quali affidano i loro affari.
La preghiera innanzitutto
La giornata del monaco si divide fra preghiera e lavoro. A questo si aggiungono piccoli incarichi comunitari come, per esempio, la preparazione degli arredi liturgici necessari alle celebrazioni, la lettura dei testi sacri durante i pasti presi in comune nel refettorio, l’accoglienza degli ospiti e cosí via. La preghiera si svolge principalmente in comune, nella chiesa monastica, durante una serie di uffici liturgici che segnano le ore del giorno. Nella società medievale, il ruolo sociale dei monaci è proprio quello di pregare; cosí, si diffonde l’uso da parte dei laici di affidare la propria anima e quella delle persone care alle orazioni di una certa comunità monastica, che provvede a registrare i nomi delle persone (vive
Miniatura raffigurante un gruppo di monaci che intonano un coro, dal Salterio di Enrico VI, realizzato in Francia e in origine destinato forse a Luigi di Valois. 1405-1410 circa. Londra, British Library. CATTEDRALI E ABBAZIE
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L’Italia delle abbazie Nella pagina accanto due vedute aeree della certosa di Pavia, la cui costruzione fu avviata nel 1396 da Gian Galeazzo Visconti, con una celebrazione solenne, officiata dal vescovo della città lombarda.
tanti altri testi che avrebbero rischiato di sparire essendone conservato un solo esemplare o poco piú. In questo senso, alcune abbazie (per esempio Montecassino) hanno contribuito alla trasmissione della cultura classica. La copia dei libri non consiste solo nella trascrizione del testo: i codici vengono ornati con miniature e, soprattutto, i testi vengono studiati e commentati, ai margini dei codici o in opere autonome. I confratelli si specializzano in alcuni generi letterari, come il racconto della vita dei santi (agiografia), la storia (dell’intera cristianità, della loro regione o della loro abbazia), i commenti alla Bibbia o ai Padri della Chiesa, ecc. La cultura monastica viene anche messa al servizio della gestione del patrimonio, tramite la redazione di libri (libri jurium, cartulari) che raccolgono tutti gli atti che provino l’appartenenza di un terreno o di una giurisdizione a una comunità.
Alla ricerca della coesione
A partire dall’XI secolo, i monasteri e le abbazie sono sempre meno isolati e sempre piú riuniti in gruppi con un punto di riferimento 84
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Un monaco al lavoro nello scriptorium, incisione da una miniatura quattrocentesca pubblicata nell’opera di Paul Lacroix Les Arts au Moyen Age et a l’Epoque de la Renaissance. Parigi, 1877.
comune e sottoposti al controllo di un abate (o priore) generale: l’abate di Cluny per l’Ordine cluniacense, quello di Cîteaux per l’Ordine cistercense, di Vallombrosa per l’Ordine vallombrosano, o il priore di Camaldoli per l’Ordine camaldolese. Per questa ragione, la Regola deve d’ora in poi definire, oltre la vita quotidiana all’interno di ciascuna comunità, il funzionamento dei rapporti fra le diverse comunità dello stesso Ordine. In generale, la coesione viene rafforzata dall’organizzazione regolare (ogni anno o, piú spesso, ogni tre anni) di riunioni alle quali sono convocati i superiori di tutte le comunità di un Ordine. Durante questi capitoli generali, per lo piú convocati nell’abbazia cui le altre fanno capo, vengono esaminati gli eventuali problemi comuni e tutti i modi per rafforzare la coesione dell’Ordine ed elaborare una strategia unitaria. Non ci vuole molto a immaginare la potenza che raggiunsero i monaci grazie a queste strutture sovraregionali e, in alcuni casi (Cluny o Cîteaux, per limitarsi alle piú potenti), sovranazionali.
PAVIA certosa (s. maria delle grazie)
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ondato da Bruno da Colonia († 1101), l’Ordine certosino ebbe una diffusione lenta ma continua che si protrasse fino al Rinascimento. E la certosa di Pavia è forse l’esempio piú stupefacente di queste fondazioni rinascimentali. Il 27 agosto 1396, Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, diede l’avvio ufficiale ai lavori della certosa, il cui progetto risaliva in realtà a due anni prima, destinandola a mausoleo della sua famiglia. La nuova fondazione si collocava al margine settentrionale del parco del castello di Pavia costruito dopo la conquista della città da parte dei Milanesi (1359). La certosa entrava quindi nell’ambito di un sistema territoriale in cui potere militare, religioso e culturale si fondevano. Il cantiere si trascinò per quasi un secolo: iniziato per volere di chi desiderava farne strumento e simbolo della sua forza, subiva i contraccolpi della politica milanese, come, per esempio, la crisi che seguí la morte di Gian Galeazzo nel 1402 e che bloccò i lavori. Negli anni Venti del Quattrocento, mentre si operava nel settore dei monaci (capitolo, sacrestia, biblioteca, chiostro), la chiesa rimaneva ferma alle fondamenta. Solo nel 1497, a poco piú di cento anni dall’atto di fondazione, sarà consacrata dal nunzio pontificio. La struttura della certosa di Pavia rispetta la tipologia certosina e si organizza attorno al chiostro grande con la sua teoria di 24 celle, 8 per lato. È questo il vero cuore della certosa e la decorazione delle sue 123 arcate lo fa somigliare a una corte celeste: serafini, angeli, santi, profeti ne ornano infatti capitelli, mensole e archi. Se la tipologia dell’edificio rispetta l’identità certosina, la ricchezza e la potenza dei committenti (i Visconti e gli Sforza) ne modificarono radicalmente lo spirito. Fin dall’inizio, infatti, il cantiere impiegò i migliori artigiani e i piú prestigiosi architetti, come Bernardo da Venezia «ingegnere generale» di Gian Galeazzo Visconti, Giacomo da Campione o, sotto CATTEDRALI E ABBAZIE
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Francesco Sforza, Giovanni Solari e suo figlio. La decorazione pittorica fu affidata ad artisti di spicco come il Bergognone. La facciata della chiesa affidata nel 1473 ai fratelli Mantegazza e le sculture del portale con lastre marmoree figurative (primi anni del Cinquecento) erano degli autentici manifesti politici.
ASCIANO (SI) abbazia di monte oliveto maggiore
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ato a Siena, dalla famiglia mercantile dei Tolomei, il 10 maggio 1272, Giovanni percorse tutte
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le tappe dell’educazione riservata ai nobili rampolli delle classi abbienti. Nel 1313, con due nobili amici e concittadini, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini, decise di rinunciare alla vita cui la famiglia e gli studi lo avevano destinato per ritirarsi a vita di preghiera e di penitenza in un posto isolato, a circa trenta chilometri da Siena. In questo luogo, di proprietà dei Tolomei, i tre decisero di fondare un monastero sottoposto alla Regola di San Benedetto e dedicato alla Madonna: Santa Maria di Monte Oliveto. Il 26 marzo 1319, Giovanni Tolomei, che assunse il nome di
A sinistra Cristo portacroce con monaci certosini (particolare), dipinto su tavola (trasportato su tela) del Bergognone (al secolo, Ambrogio da Fossano). Fine del XV sec. Pavia, Musei Civici, Pinacoteca Malaspina. Nel dettaglio si vede un edificio della certosa di Pavia in costruzione. A destra, sulle due pagine l’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, situata a una trentina di chilometri da Siena. In basso Come Benedetto appare a due monaci lontani e loro disegna la costruzione di uno monastero, un altro episodio delle Storie di san Benedetto affrescate nel chiostro dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore. 1505.
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da richiedere
Bernardo in onore del riformatore di Cîteaux, ricevette, con i suoi compagni, l’abito benedettino nella cattedrale di Arezzo e ottenne l’autorizzazione a erigere un monastero. Come la maggior parte dei riformatori monastici, Bernardo Tolomei pretendeva di riportare l’osservanza benedettina alla sua purezza originaria mirabilmente sintetizzata dalle parole preghiera e lavoro. Monte Oliveto diventò cosí un’importante azienda agricola; inoltre, gli Olivetani (nome dato ai membri del nuovo Ordine) si dedicarono a eseguire miniature e i lavori intellettuali, soprattutto nei loro insediamenti presso le città. Ne è testimone la biblioteca di Monte Oliveto, ricostruita nel primo Cinquecento per ospitare libri e archivi della comunità, oggi dispersi. Secondo la cronaca di fondazione di Monte Oliveto, sarebbero stati i monaci stessi a edificare il primo monastero. L’attuale complesso, fortezza di laterizi circondata da boschi, ha poco a che vedere con questo insediamento e 88
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risale per la maggior parte a ricostruzioni effettuate dal Quattrocento in poi. Vi si accede per un ponte protetto da una torre, accanto alla chiesa. All’interno, si succedono tre chiostri. Il primo, detto chiostro grande, è il piú spettacolare: costruito tra il 1426 e il 1443, fu in seguito ornato da affreschi di Luca Signorelli e Antonio Bazzi, detto il Sodoma, raffiguranti episodi della vita di san Benedetto. A seguire il chiostro di mezzo e il chiostro piccolo, circondati dalle sale comuni.
POPPI (AR) eremo e monastero di camaldoli
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ul finire di una vita di peregrinazione, riforma e fondazione di comunità eremitiche o monastiche, il piú che centenario Romualdo da Ravenna († 1027) fondò un nuovo eremo in una fitta foresta dell’Appennino tosco-romagnolo, nel nord della diocesi di Arezzo. Vi fece edificare cinque celle attorno a una
Come Benedetto libera uno monaco indemoniato percuotendolo, ancora un episodio delle Storie di san Benedetto affrescate nel chiostro dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore. 1505. chiesetta, consacrata nel 1027 dal vescovo di Arezzo. Nella sottostante località di Fontebuono, organizzò un ospizio (in seguito trasformato in monastero), affidato al priore dell’eremo. Sta in questa duplice esperienza, eremitica e monastica, vissuta in due luoghi vicinissimi e strettamente legati, la principale novità della fondazione di Camaldoli e la ragione del successo di questo modello di riforma. Nell’arco dell’XI secolo, infatti, furono affidati alla doppia comunità di Camaldoli numerosi insediamenti da riformare o da fondare, che entrarono quindi a far parte del nuovo Ordine camaldolese. Ciò che colpisce arrivando a Camaldoli, adesso come quando vi giunse Romualdo, è la vasta foresta, sfruttata
SASSOVIVO (PG) abbazia di s. croce
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e protetta dai monaci fin dal Medioevo. In una radura, a 1100 metri di altitudine, si staglia l’eremo, chiuso da un muro di cinta. La struttura attuale, malgrado i numerosi rifacimenti in età moderna, rispetta quella medievale: un complesso di celle disposte a ventaglio attorno agli edifici comunitari (chiesa, sala capitolare, refettorio, biblioteca). La cella è il luogo in cui l’eremita trascorre gran parte della sua giornata: è fornita di un piccolo orto cinto da mura, sul quale si apre una costruzione bassa con vestibolo, camera, studiolo, oratorio, legnaia e bagno. In fondo al viale centrale dell’eremo sorge una piccola chiesa romanica, chiamata «cappella del papa» perché vi sarebbe stato ospite, nel 1220, il futuro pontefice Gregorio IX, cardinale Ugolino dei conti di Segni. Si scende, lungo un ripido sentiero fino al monastero, fondato per il servizio degli abitanti dell’eremo. Il complesso attuale si divide in due parti principali: il monastero cinquecentesco - che si
sviluppa attorno al chiostro principale e alla chiesa monastica - e la foresteria, che custodisce alcune vestigia delle prime costruzioni medievali e tracce degli ambienti realizzati dai priori umanisti del Quattrocento, come ad esempio il chiostro dei fanciulli fatto costruire nel 1431 da Ambrogio Traversari per accogliere i novizi. Sopra: la farmacia cinquecentesca.
iunto presso i resti di un’antica abbazia benedettina in un solitario paesaggio boscoso dell’Umbria, un eremita di nome Mainardo, forse discepolo di Romualdo da Ravenna, fondò, nella seconda metà dell’XI secolo, una nuova comunità detta poi Sassovivo. L’istituto ebbe una sorprendente fortuna legata alla fama di santità del suo fondatore, alla beneficenza dei conti di Foligno e alla sollecitudine dei pontefici romani. Conobbe il massimo sviluppo nella prima metà del Duecento, in concomitanza con il governo di abati energici che riorganizzarono e razionalizzarono la gestione del patrimonio. Simbolo di questa floridezza sono gli edifici monastici, perfettamente idonei alle regole della vita comunitaria, ma che testimoniano anche tutta la ricchezza della comunità. Non si può non menzionare l’elegante chiostro cosmatesco, costruito negli anni 1229-1233, vero gioiello custodito all’interno dell’isolato monastico. Ancora oggi, sopra una delle porte d’accesso al chiostro, un’iscrizione ricorda l’incarico dato dall’abate Angelo (1222-1260) al maestro Pietro di Maria, marmoraio romano, attivo poco tempo prima nel monastero dei Ss. Quattro Coronati a Roma. Sorgendo non lontano da Foligno, l’abbazia di Sassovivo ebbe frequenti rapporti con il Comune umbro. I monaci dimostrarono una notevole adattabilità alla politica comunale,
In alto l’eremo di Camaldoli come doveva apparire alla fine del Cinquecento, affresco di Teofilo Torri. Arezzo, Palazzo Vescovile. A sinistra il cortile di uno degli edifici compresi nell’eremo di Camaldoli.
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In alto e a sinistra due immagini dell’abbazia di S. Croce a Sassovivo (Foligno, Perugia). In basso la facciata della chiesa di S. Maria del Pàtire a Rossano (Cosenza).
tanto che il 23 ottobre 1211 (come rammenta un importante documento del ricchissimo archivio proveniente dall’abbazia), il podestà, il Consiglio e il popolo della città, riuniti in piazza San Feliciano, stipularono con l’abate Nicola un patto d’alleanza, promettendo di proteggere i beni e gli abitanti del monastero.
ROSSANO (CS) s. maria del pàtire
L’
Italia meridionale si distingue, nell’Alto Medioevo, per una profonda originalità religiosa, legata alla presenza, soprattutto nei secoli IX e X, di una popolazione di lingua greca che introdusse in Sicilia e in Calabria un’organizzazione ecclesiale (e anche monastica) di tipo greco. La conquista normanna dell’XI secolo provocò un affievolimento progressivo di questa caratteristica. Il papato infatti fu uno
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Ciò non impedí, comunque, ai Normanni di favorire lo sviluppo di alcune fondazioni monastiche greche come, per esempio, S. Maria del Pàtire. Ritiratosi a vita ascetica con un gruppo di compagni, nelle montagne che circondavano Rossano, Bartolomeo da Simeri diede vita, nella seconda metà dell’XI secolo, a un insediamento eremitico comunitario (una laura) dedicato alla Vergine che godette fin dalla fondazione del favore dei Normanni: già nel 1103, il giovane Ruggero II gli fece donazione di alcuni possessi. Questo rapido successo non mancò di destare gelosie da parte di altri monaci, che tacciarono Bartolomeo di concussione e di eresia. Queste accuse si volsero tuttavia a favore del beato: questi infatti, messo sotto inchiesta da Ruggero II a Messina, fece tale impressione sul re che gli fu chiesto di fondare nella città un monastero sul modello di quello di Rossano (il famoso S. Salvatore). Al lavoro agricolo e allo sfruttamento dei boschi circostanti, si affiancava nel monastero del Pàtire un’intensa attività di trascrizione e di studio dei testi. Desideroso di fornire ai suoi monaci i migliori libri, Bartolomeo non esitò ad andare a cercarli fino a Bisanzio. Del complesso primitivo rimane oggi soltanto la chiesa. È nella zona absidale, visibile da un ampio piazzale, che si manifesta con maggiore vivacità la bellezza dell’edificio, in particolare con il gioco cromatico della pietra e dei volumi delle tre absidi semicircolari. L’interno della chiesa, oggi spoglio, era riccamente ornato, come testimonia ancora il mosaico del pavimento, a forma di tappeto ornato da figure di misteriosi animali, eseguito verso la metà del XII secolo.
CODRONGIANOS (SS) ss. trinità di saccargia
N dei principali alleati dei nuovi conquistatori e ciò favorí indubbiamente il prevalere dell’influenza romana.
ell’ambito della riforma religiosa avviata da Gregorio VII, fiorirono in Sardegna numerosi insediamenti benedettini: i primi furono, verso la metà dell’XI secolo, i monaci legati all’abbazia di Montecassino. Nei decenni successivi, arrivarono alcuni Benedettini toscani, per lo piú pisani,
A sinistra il fronte posteriore di S. Maria del Pàtire, con le tre absidi che coronano le navate della chiesa. Qui sotto e in basso immagini della basilica della SS. Trinità di Saccargia. Al centro della pagina, il registro superiore degli affreschi dell’abside, con il Cristo Pantocratore in una mandorla; in basso, un esterno della chiesa, magnifico esempio di architettura romanicopisana. XII sec.
appartenenti al nuovo Ordine camaldolese, ben ancorato nella città di Pisa (monasteri di S. Frediano, di S. Michele in Borgo e di S. Zeno). Proprio a questi Camaldolesi pisani Costantino, giudice (cioè signore) di Torres, e sua moglie affidarono la costruzione di un monastero a circa 16 chilometri da Sassari, investendo per la nuova opera ingenti mezzi. La fondazione risale ad anni anteriori al 1112, data in cui essa figura già nell’elenco dei possessi sardi di Camaldoli. Del complesso monastico rimangono solo la chiesa e, nel settore meridionale, consistenti ruderi del chiostro e degli edifici conventuali. La chiesa, a croce con navata unica, è preceduta da un portico, e affiancata, a nord, da un campanile (uno dei pochi romanici integralmente sopravvissuti in Sardegna) e dalla sacrestia. Significativa è la regolare bicromia, composta da ricorsi alternati di blocchi bianchi calcarei e blocchi neri basaltici, secondo una tecnica costruttiva che è firma inequivocabile delle maestranze pisanopistoiesi della seconda metà del XII secolo. L’abside è ornata da un ciclo di affreschi che risale al secondo periodo di costruzione della chiesa (1180-1200) e raffigura nel catino il Cristo in gloria tra gli angeli, nella fascia mediana figure di santi e dottori della Chiesa con la Madonna orante, e nell’inferiore scene di vita e della passione di Cristo. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Poveri come nostro Signore Sulla scia di Francesco d’Assisi, gli Ordini Mendicanti sono protagonisti della vita religiosa del Medioevo, ponendosi in continuità con le forme primitive del monachesimo cristiano di Cécile Caby
P
eriodo di effervescenza sociale e spirituale, la fine del XII secolo vide la moltiplicazione di nuove esperienze religiose, alcune delle quali in rottura con le autorità ecclesiastiche (Valdesi, Catari o Albigesi), altre, invece, finalizzate alla difesa della Chiesa. Pur nascendo da uno stesso ideale di riforma, le loro posizioni spesso si scontravano. È, per esempio, a seguito di una missione di predicazione contro gli Albigesi che il canonico castigliano Domenico di Guzman (1170-1221) maturò un progetto di comunità formata da religiosi dalla condotta irreprensibile e culturalmente preparati, in grado di vincere con l’esempio e la predicazione il pericolo cataro. Questo ordine, detto dei frati Predicatori, o Domenicani, fu approvato da papa Onorio III nel 1216 ed ebbe un successo immediato. Negli stessi anni, piú precisamente nel 1209, un giovane di Assisi di nome Francesco (1178 circa-1226), rinunciava alla vita agiata che gli assicurava la sua famiglia per seguire strettamente i precetti evangelici: nel progetto di Francesco e dei suoi primi compagni, i frati dovevano vivere in completa povertà, senza proprietà né a titolo personale, né in comune, vivendo del lavoro e della questua. L’Ordine – detto per umiltà dei Minori o, dal nome del fondatore, dei Francescani – ricevette una prima approvazione orale nel 1210 da Innocenzo III e un’approvazione ufficiale da Onorio III nel 1223. Questi primi due Ordini Mendicanti, nati quasi simultanea92
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Sulle due pagine scene dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. A sinistra, Saluto di santa Chiara e delle sue compagne a san Francesco; nella pagina accanto, La rinuncia agli averi.
mente, furono seguiti da altri, quali gli Eremiti di sant’Agostino (o Eremitani, o ancora Agostiniani), i Serviti, i Carmelitani.
Intrusioni a fin di bene
Tutti gli Ordini Mendicanti sono caratterizzati dalla regola fondamentale della povertà collettiva, che si aggiunge alla povertà individuale (impegno quest’ultimo condiviso da tutti i religiosi), e dall’uso di mendicare nei luoghi pubblici. Si distinguono inoltre dai monaci in quanto, rispetto alla preghiera e alla meditazione, privilegiano la volontà di imitare Cristo in particolare nell’apostolato e nella vocazione pastorale. Si dedicavano infatti alla predicazione iti-
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CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie
L’EREMITA VA IN CITTÀ Nell’Italia centrale e settentrionale fiorirono, a partire dal X secolo, numerose congregazioni di eremiti. Per riuscire a controllare questi religiosi fuori dai quadri, il papa Alessandro IV decise, nel 1257, di riunirli in un unico Ordine retto da un priore generale e organizzato secondo la regola di sant’Agostino, denominato per l’appunto Ordine dei frati eremiti di Sant’Agostino. A partire da questa Magna Unio, l’Ordine conobbe una rapida diffusione e assunse caratteristiche sempre piú vicine a quelle degli altri Mendicanti. Una delle trasformazioni piú importanti fu l’abbandono progressivo e quasi definitivo degli antichi eremi rurali e il successivo insediamento in grandi conventi urbani. Bisognerà, però, attendere il 1567 perché gli Agostiniani siano dichiarati, da papa Pio V, membri della grande famiglia dei Mendicanti.
In alto particolare di una pala d’altare raffigurante, in primo piano, sant’Agostino, tempera su tavola assegnata alla bottega di Antoniazzo Romano o a Pancrazio da Calvi. XV sec. Narni, chiesa di S. Agostino. Nella pagina accanto Veduta del campo dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, olio su tela di anonimo lombardo. 1740-1750. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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nerante, soprattutto nelle città, esortando il popolo alla penitenza e alla confessione; visitavano i malati, assistevano i morenti e custodivano le sepolture dei loro devoti. Queste intrusioni in ambiti tradizionalmenti riservati al clero secolare (preti e vescovi) provocarono nei loro confronti non poche manifestazioni di ostilità, tanto piú che i Mendicanti dipendevano direttamente dal papa, e non dai vescovi. A ciò si aggiunse l’animosità degli studenti e degli insegnanti delle università, nelle quali Francescani e Domenicani si erano ben presto inseriti e imposti. Si spiega cosí perché al concilio di Lione, nel 1274, una parte dei prelati riuniti si schierò contro la crescita dei nuovi Ordini e riuscí a limitarne, temporaneamente, non solo il numero ma anche l’attività pastorale. Questo non impedí tuttavia il loro sviluppo. Dopo la morte di Francesco, il successo straordinario dei Minori fu tale da rendere sempre
piú difficile l’equilibrio fra una regola pensata per un gruppo di poche persone e le dimensioni raggiunte dall’Ordine. Fu soprattutto la questione della povertà collettiva a creare le maggiori lacerazioni: potevano i Francescani rivendicare l’eredità del poverello d’Assisi e, nello stesso tempo, accettare i legati pii, promuovere la costruzione di conventi sempre piú grandi e sfarzosi o accumulare biblioteche sempre piú ricche? Malgrado i numerosi – e non sempre univoci – interventi del papato, i contrasti su questa questione non si appianarono e portarono alla divisione interna dell’Ordine fra i moderati o Conventuali, che accettavano l’uso dei beni, dei quali la proprietà era simbolicamente attribuita alla Chiesa, e i rigoristi o Spirituali che rifiutavano anche questa forma di proprietà indiretta e che furono condannati definitivamente da Giovanni XXII (1316-1334).
Zelanti inquisitori
Il successo dei Domenicani non fu da meno: nel 1303, erano già stati creati quasi 600 conventi divisi fra 18 province. L’Ordine si specializzò nella predicazione missionaria, nella traduzione in volgare di testi spirituali, nella polemica dottrinale e nella teologia, di cui fu maestro Tommaso d’Aquino († 1274). Già dall’epoca di san Domenico, lo studio, in quanto preparazione necessaria alla predicazione, fu iscritto fra gli obblighi del futuro frate. Proprio per le loro caratteristiche, i Domenicani furono molto attivi nei tribunali dell’Inquisizione. La spiritualità di questi nuovi Ordini fece presa anche sulle donne. Nel 1212, santa Chiara (1194-1253) fu accolta da Francesco nella chiesa di S. Damiano ad Assisi, dove fondò una piccola comunità di «sorelle povere», chiamate successivamente Damianite Clarisse. Malgrado le riserve espresse dagli Ordini Mendicanti, la maggior parte di essi assunse infine la direzione di comunità femminili (Clarisse, Domenicane, Agostiniane, Carmelitane, ecc.), il piú delle volte rette da regole tradizionali (benedettina o di sant’Agostino). Piú originale fu invece il ruolo assunto dalle donne nelle comunità di terziari, ovvero di penitenti laici che si conformavano a una regola di vita controllata da uno degli Ordini Mendicanti maschili e approvata dalla Santa Sede, senza però appartenere a tutti gli effetti a quell’Ordine. Si trattava spesso di sposi o di vedovi che vivevano o in piccole comunità, o a casa propria, o addirittura in reclusione, e che si dedicavano alla preghiera e alle opere caritatevoli.
VENEZIA ss. giovanni e paolo
N
el 1234, quando il doge Jacopo Tiepolo donò ai frati predicatori un terreno nel sestiere di Castello, l’area era quasi libera e ancora in gran parte sommersa dall’acqua, ragion per cui, prima di erigere le loro fabbriche, i frati furono costretti a eseguire una profonda bonifica. Anche lo sviluppo degli edifici conventuali fu legato alla disponibilità del terreno che fu via via risanato. Nel luglio 1246, papa Innocenzo IV promise indulgenze a chi con elemosine avesse agevolato la costruzione della chiesa. Senza dubbio, i lavori presero avvio nello stesso decennio, ma nulla sappiamo di questo primo edificio, probabilmente modesto, poiché fu distrutto nel Trecento allorché
la chiesa fu ricostruita. La basilica attuale dei Ss. Giovanni e Paolo – popolarmente chiamata San Zanipolo – è il risultato di questa ricostruzione trecentesca e dei lavori di manutenzione e di continuo abbellimento compiuti fino alla consacrazione del 1430. Si tratta di una lunga chiesa (96 m) a pianta cruciforme, a tre navate e transetto, conclusa da cinque cappelle absidali. Queste absidi, in particolare la centrale a pianta ottagonale, costituiscono uno dei piú pregevoli esempi del gotico trecentesco. A seguito dell’antica tradizione di seppellire all’interno della chiesa dogi e personaggi famosi della vita pubblica veneziana, S. Zanipolo diventò la necropoli civica di Venezia: vi si trovano, infatti, monumenti funebri di
notevole interesse artistico e culturale, eseguiti per la maggior parte nel periodo gotico-rinascimentale. La facciata in cotto, dotata di un grande portale quattrocentesco, si apre su una piazza, detto campo, in cui fu collocato nel 1496 il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni, opera del fiorentino Andrea Verrocchio. Il campo è limitato dal convento dei Domenicani, ristrutturato nel Settecento da Longhena, e dalla sede di una delle piú potenti confraternite veneziane, la Scuola di San Marco.
TREVISO s. nicolò
A
Treviso i primi Mendicanti documentati con certezza sono i Domenicani. Nel 1230, in un contesto CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie
In alto uno scorcio dell’interno della chiesa trevigiana di S. Nicolò, che si articola in tre navate, con campate assai slanciate. Il monumento è una delle migliori espressioni del gotico mendicante. A sinistra San Nicola di Mira, affresco attribuito alla maniera di Tommaso da Modena. XIV sec. Treviso, S. Nicolò.
di impegno antiereticale, promosso dai legati di Gregorio IX, e di mobilitazione militare all’interno della Lega lombarda, il Comune li invitò a stabilire un loro convento nella città o nel distretto, stanziando una somma di denaro per la costruzione di una 96
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chiesa. Il legame con il Comune fu consolidato tre anni dopo quando venne assegnato ai Domenicani l’incarico di custodire una copia degli Statuti cittadini. In generale, la comunità ebbe nel Medioevo una funzione trainante nel contesto trevigiano, anche nei confronti dei frati Minori che qui si stabilirono attorno al 1226. La primitiva chiesa domenicana doveva avere un’architettura simile a quella di S. Francesco di Treviso costruita nello stesso periodo. Nei primi anni del Trecento, fu sostituita da un nuovo edificio piú grande. Incerto è il ruolo in questa ricostruzione del domenicano trevigiano Nicolò Boccasino, il quale, dopo una carriera nell’Ordine e soprattutto dopo aver ricoperto cariche importanti alla Curia di Bonifacio VIII, fu eletto papa col nome di Benedetto XI nell’ottobre 1303 (morí poco dopo nel luglio 1304). La nuova chiesa è un perfetto esempio del linguaggio gotico mendicante
dell’epoca. L’interno a tre navate è caratterizzato dal largo passo delle campate e dallo slancio in altezza che permettono una percezione unitaria dello spazio, che viene chiuso da cinque cappelle absidali. Il convento fu fin dalla sua fondazione un centro di committenza artistica. Particolarmente attivo, il pittore Tommaso da Modena, giunto a Treviso nel 1348, che venne incaricato, nel 1352, di rappresentare la gloria dell’Ordine domenicano nel capitolo del convento. Il risultato è un ciclo di affreschi perfettamente conservato, che rappresenta, nella fascia superiore, gli uomini illustri dell’Ordine (santi, beati, papi, cardinali, teologi, letterati), il piú delle volte in attitudine di studio, ognuno con una didascalia che ne illustra sommariamente la biografia. Nella fascia inferiore, inserita in un motivo decorativo a tappezzeria, sono collocati l’elenco delle province e dei conventi domenicani, nonché la lista e l’elogio dei ministri generali, capi dell’Ordine.
FIRENZE ss. annunziata
N
el 1234, sette giovani membri di ricche famiglie fiorentine fondarono una comunità particolarmente devota alla Vergine e si ritirarono sul Monte Senario, presso Firenze, dando inizio al futuro Ordine dei Servi di Maria. Nel 1250, quando la loro fama di santità stava dilagando in città, i sette fondarono nella località detta Cafaggio, a ridosso delle mura di Firenze, un piccolo oratorio. Nello stesso anno, il legato pontificio in Toscana aveva dato alla comunità di Monte Senario la facoltà di assolvere i seguaci di Federico II che avessero chiesto di entrare nell’Ordine. Cosí lo sviluppo dei Serviti si collegò al declino della potenza imperiale a Firenze e al sorgere della parte guelfa filopapale. A questi fattori politici di crescita vanno aggiunti la nascita e lo sviluppo nel nuovo oratorio del culto per un dipinto dell’Annunziata il cui volto sarebbe stato dipinto per miracolo. Nel 1416, il Comune fiorentino decise addirittura di solennizzare ogni anno il 25 marzo
(giorno dell’Annunciazione e primo giorno dell’anno fiorentino) con una cerimonia civica nella chiesa dei Servi. Per tutte queste ragioni, il primitivo oratorio subí vari rifacimenti dalla seconda metà del XIII fino a tutto il XIV secolo, poi però coperti dai grandiosi restauri quattrocenteschi finanziati da Piero di Cosimo dei Medici. Dal 1444 al 1453, Michelozzo († 1472), noto allievo di Filippo Brunelleschi, fu impegnato nell’ampliamento della chiesa e della sacrestia, nel rifacimento dell’atrio, nel restauro del chiostro grande e nella costruzione di un ricco tabernacolo a forma di tempietto destinato a custodire l’immagine miracolosa e tuttora visibile sulla sinistra della chiesa. Intorno al 1470, i lavori, sospesi dal 1453, ripresero e arrivarono a compimento. In seguito il complesso non conobbe che operazioni di ornamentazione o ristrutturazione interna, come quella in stile barocco che ne modificò notevolmente l’aspetto.
TOLENTINO (MC) s. nicola
I
l convento agostiniano di Tolentino, inizialmente dedicato a sant’Agostino, è strettamente legato alla figura di Nicola di Castel Sant’Angelo in Pontano, meglio conosciuto come san Nicola da Tolentino, che qui visse e morí nel 1305. Nicola nacque attorno al 1245 in seguito al pellegrinaggio compiuto dai suoi genitori a S. Nicola di Bari per chiedere la grazia di avere dei figli. Colpito dalla predicazione di un membro dell’Ordine agostiniano, il giovane Nicola decise di entrare nel gruppo degli eremiti di sant’Agostino. Dopo la professione (attorno all’anno 1260) e gli studi a Tolentino, soggiornò in diversi conventi delle Marche, osservando uno stile di vita austero e santo. Ritornò a Tolentino seguendo una voce ascoltata durante una esperienza mistica che mise fine a una profonda crisi religiosa che lo aveva portato addirittura a pensare di abbandonare l’Ordine. Nicola morí nel
In alto Firenze. Il monumento equestre di Ferdinando de’ Medici in piazza della Santissima Annunziata, una collocazione che sottolinea la devozione del granduca – e piú in generale della sua casata – alla basilica omonima. Qui sopra Annunciazione, affresco di scuola fiorentina. XIV sec. Firenze, basilica della SS. Annunziata. CATTEDRALI E ABBAZIE
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Scene del ciclo con episodi della vita di Cristo e storie di san Nicola da Tolentino nel Cappellone della basilica dedicata a quest’ultimo nella città marchigiana e variamente attribuiti a Pietro da Rimini o a un artista designato come Maestro di Tolentino. In alto, San Nicola da Tolentino incoronato dall’angelo; a destra, Presentazione di Gesú al Tempio. convento di Tolentino, nel 1305, all’età di sessant’anni. Già oggetto di venerazione in vita, il corpo del santo divenne dopo la morte meta di pellegrinaggio. Nel maggio 1325, fu aperto ufficialmente un processo di canonizzazione. Benché sospeso fino al 1446, data della proclamazione ufficiale della santità, il culto nei confronti di Nicola non smise di crescere, condizionando le vicende della fabbrica della chiesa e degli edifici conventuali. Attualmente, 98
CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie
l’estrema semplicità della chiesa medievale in laterizio, a navata unica monoabsidata, e a terminazione rettilinea appare del tutto alterata dalle operazioni di abbellimento eseguite a partire dalla metà del Seicento e durante tutto il Settecento: facciata monumentale, cappelle, soffitto ligneo, ecc. Fra il coro e la sacrestia seicentesca (in origine il capitolo), dalla parte del convento, si trova il Cappellone, luogo fulcro del culto di Nicola. Si tratta di un vano rettangolare interamente coperto di affreschi eseguiti negli anni Venti del Trecento. Nella volta sono rappresentati gli Evangelisti, i Dottori della Chiesa e le Virtú. Nelle pareti, suddivise in tre ordini, si succedono degli episodi della vita della Vergine e di Cristo e delle storie della vita di San Nicola da Tolentino. Al centro, è collocata una urna lapidea sormontata dalla statua policroma di San Nicola, prevista per accogliere le reliquie del santo.
ASSISI s. francesco
N
el 1228, due anni dopo la morte di Francesco, e poco dopo la sua canonizzazione, papa Gregorio IX
decise, con l’aiuto di fra’ Elia da Cortona, di edificare presso le mura di Assisi una chiesa che fungesse insieme da tomba del nuovo santo e da centro dell’Ordine francescano in pieno sviluppo. Già nel 1230, la salma di Francesco fu tumulata in una cella prevista sotto l’altar maggiore della prima chiesa. Con l’ascesa di Elia al generalato (1232-1239), la massima
carica nell’Ordine francescano, il progetto iniziale fu potenziato e prevalse l’idea di fare del monumento di Assisi un segno del trionfo dell’Ordine. La chiesa già costruita fu trasformata in una enorme cripta che serví da basamento alla nuova basilica. Elia non vide la fine del cantiere di Assisi: la gestione autoritaria dell’Ordine e soprattutto l’amicizia con
In alto uno scorcio della navata della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, affrescata da cicli che propongono episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, e, nella fascia inferiore, le Storie francescane. In basso veduta d’insieme del complesso della basilica assisiate di S. Francesco.
CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie Sulle due pagine una veduta esterna della chiesa napoletana di S. Chiara, e, a destra, uno scorcio del chiostro maiolicato (o «delle Clarisse»), uno dei quattro chiostri monumentali del monastero omonimo.
l’imperatore Federico II provocarono la sua deposizione nel 1239. Si accede alla Chiesa Inferiore attraverso un bellissimo portale gotico gemino, che pare risalga all’ultimo quarto del XIII secolo. L’interno, composto da un atrio d’ingresso e da una navata unica divisa in quattro campate, fu arricchito, alla fine del XIII secolo, da cappelle aperte nelle pareti della navata. L’edificio è ornato da una ricca e complessa decorazione ad affresco: vanno segnalati gli interventi di Cimabue, autore di un famoso ritratto di Francesco (1280 circa), quelli di Giotto nella cappella della Maddalena (poco dopo il 1305), o ancora dei senesi Simone Martini (anni 1312-1315) e Pietro Lorenzetti (1330-1340 circa). Dalla Chiesa Inferiore, si accede al convento e al palazzo papale, già previsti nel progetto di Gregorio IX e ampliati a piú riprese tra i secoli XIV e XV. Della Chiesa Superiore colpiscono la semplicità della facciata a capanna in pietra bianca, nonché la policromia e le slanciate forme gotiche della navata. Le pareti dell’abside, interamente 100
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sostituite da vetrate, diffondono una luminosità che contrasta con la penombra della chiesa inferiore. L’unità dell’ambiente è data da un programma illustrativo organico incentrato sull’esaltazione della figura di san Francesco secondo l’interpretazione proposta da Bonaventura, generale francescano dal 1257 al 1274. L’impresa fu realizzata nell’arco dell’ultimo ventennio del Duecento coinvolgendo i maggiori artisti dell’Italia centrale. Il presbiterio e il transetto sono ornati di affreschi del Cimabue (alcuni dei quali, nella crociera del transetto, caduti durante l’ultimo terremoto). Nella navata, sono rappresentate le vicende del Vecchio e del Nuovo Testamento, eseguite da diversi artisti fra i quali Jacopo Torriti e, nella metà inferiore, le famose storie della vita di San Francesco, opere di Giotto e la sua scuola.
NAPOLI s. chiara
I
l movimento francescano raggiunse a Napoli il culmine della sua potenza negli anni del regno di Roberto
d’Angiò (1309-1343) e di sua moglie Sancia di Maiorca, entrambi da tempo legati all’Ordine minore e addirittura al ramo rigorista degli Spirituali. Nel 1334, Sancia scrisse al capitolo generale di Assisi, dicendosi «madre dell’Ordine di San Francesco». In realtà, aveva buone ragioni per rivendicare questo titolo avendo impiegato tutte le sue rendite nella costruzione di chiese e conventi francescani. Dei quattro conventi che la regina edificò a Napoli, S. Chiara è senz’altro il piú grande e sontuoso. La prima pietra della chiesa fu posta nel 1310 nella zona nord di
Donnalbina, tra gli orti cittadini e la campagna, ora nel pieno cuore di Napoli. Nel 1328, la chiesa era compiuta e nel 1340 fu consacrata nel corso di una fastosa cerimonia in presenza di numerosi prelati e principi della corte angioina. Entro la cortina muraria del complesso conventuale erano racchiusi la chiesa e gli ambienti di due conventi: uno per la comunità delle monache di Santa Chiara e uno, piú piccolo, per i frati francescani addetti al culto della chiesa, quest’ultimo notevolmente danneggiato nel 1943. All’interno della cittadella conventuale, la chiesa, opera
dell’architetto napoletano Gagliardo Primario, domina con la sua incombente mole. Contrariamente a tante chiese mendicanti edificate in mattoni, S. Chiara è in tufo giallo, con l’inserimento di alcuni elementi di peperino, in particolare il pronao che protegge il portale d’ingresso. L’edificio è concepito come una grande aula rettangolare ritmata da dieci cappelle per lato e conclusa da un’alta quinta muraria alla quale si addossano i sepolcri della prima dinastia angioina. In fondo alla chiesa maggiore, si trova il coro delle Clarisse, costruito dall’architetto napoletano Leonardo da
Vito, negli anni 1310-1316. Si tratta di un locale in cui le monache ascoltavano, senza essere viste, gli uffici liturgici celebrati nella chiesa adiacente. Il coro comunica, tramite un ampio vestibolo e uno scalone, con il chiostro delle Clarisse, ora dei Minori, e gli ambienti conventuali. I restauri del dopoguerra hanno riportato l’aula della chiesa alla sua immagine medievale eliminando tutte le aggiunte e gli arredi stratificatisi nei secoli, in particolare durante il periodo barocco. Nell’austero ambiente sopravvivono oggi solo alcuni frammenti del fastoso altare. CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE NOVALESA (TO) abbazia dei ss. pietro e andrea
F
ondata nel 726 da Abbone, alto funzionario al tempo dei Merovingi, alle pendici del Moncenisio, a controllo del valico alpino che collegava il Regno dei Franchi con quello dei Longobardi, e presto tappa obbligata per i pellegrini che scendevano a Roma dalla Francia, l’abbazia di Novalesa ha avuto una lunga vita segnata da splendori e rovine. Divenuto un grande centro di potere e di cultura riccamente dotato, grazie al favore accordatogli dal re Pipino e da Carlo Magno – ricambiato, nel 773, con il sostegno delle provvigioni del monastero all’esercito franco entrato in Italia per combattere il re longobardo Desiderio – , il complesso dovette però essere abbandonato all’inizio del IX secolo a causa delle ricorrenti incursioni dei Saraceni. I monaci benedettini, infatti, «tralignando dalla costanza de’ passati habitatori di quel luogo tante volte inaffiato col sangue di essi nelle correrie de Vandali, Hunni et
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CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie
Longobardi», ripararono prima a Torino e poi a Breme, in Lomellina, dove fu anche trasferito il titolo abbaziale. Il ritorno a Novalesa, compiuto sotto l’abbaziato di Gezone nell’ultimo decennio del X secolo, comportò un grande sforzo edilizio che, oltre a determinare importanti interventi alla chiesa, diede luogo, a seconda dei casi, al restauro o alla riedificazione delle quattro cappelle di S. Maria Maddalena, S. Pietro, S. Salvatore e S. Eldrado, isolate rispetto al corpo principale del complesso. Se la cappella di S. Maria Maddalena, la prima che si incontra salendo a sinistra della strada, era probabilmente riservata alle donne che accompagnavano i visitatori, narra il Chronicon Novaliciense (compilato dalla metà dell’XI secolo) che quella di S. Salvatore era destinata agli abati e ai monaci piú anziani e venerabili «per mantenere incorrotta la vita esemplare da cui derivavano il loro prestigio e la loro autorità». La «turba» dei giovani monaci veniva invece «sorvegliata con grande attenzione e tenuta ben chiusa entro le mura del monastero».
In alto il chiostro dell’abbazia di Novalesa, fondata in posizione strategica, a controllo del valico del Moncenisio. In basso San Nicola appare ai naviganti ordinando di gettare l’olio maledetto, affresco facente parte del ciclo con episodi della vita del santo nella cappella di S. Eldrado dell’abbazia di Novalesa. Le pitture si datano alla fine dell’XI sec.
COMO s. abbondio
A
gli inizi dell’XI secolo, il vescovo di Como Odoardo, deciso a trasferire in città la sede vescovile, promosse l’edificazione di un nuovo complesso episcopale. Il suo successore Alberico, insediatosi nel 1007 nella nuova cattedrale, stabiliva allora di istituire un monastero benedettino mettendo a disposizione la chiesa extraurbana di S. Abondio, rimasta nel frattempo inutilizzata. I monaci si trovarono dunque a disporre della piccola basilica paleocristiana che, fatta costruire secondo la tradizione nel V secolo dal vescovo Amanzio e originariamente intitolata agli apostoli Pietro e Paolo, già agli inizi del IX secolo era però attestata come S. Abbondio, in onore del santo patrono della diocesi. Presa la decisione di abbattere l’antico edificio, i Benedettini, pur riedificando l’attuale basilica con proporzioni piú ampie, mantennero l’asse e la posizione dell’altare-martyrium, evitando cosí di spostare le reliquie dei
martiri. La costruzione, iniziata già nel 1027 da maestranze comacine con un ambizioso progetto in stile romanicolombardo che prevedeva cinque navate, una profonda abside e due campanili al termine della navata maggiore, fu realizzata in due fasi. Evidente è infatti l’assai piú elaborata e complessa decorazione dell’abside e del presbiterio, riconducibile alla fine dell’XI secolo, rispetto alla nuda essenzialità dei fianchi. L’esiguo numero di monaci portò nel 1475 alla soppressione del monastero e alla sua trasformazione in commenda cardinalizia. Ne conseguí che alla fine del secolo successivo furono condotti per volontà del cardinale Tolomeo Gallio pesanti interventi che comportarono tra l’altro la distruzione della copertura lignea, l’abbattimento dell’antico altare benedettino e della cattedra abbaziale oltre che la perdita della torre campanaria sinistra, ricostruita in occasione dei restauri avviati nel 1863 per riparare i guasti provocati dal tempo e dagli uomini.
Particolare del ciclo di affreschi che orna l’abside della chiesa di S. Abbondio, a Como. L’esecuzione delle pitture viene datata fra il 1315 e il 1324, durante l’episcopato del vescovo francescano Leone Lambertenghi, committente dell’opera. Al di sotto del Cristo benedicente (qui non visibile), si distribuiscono su vari registri gli episodi della vita di Cristo.
PAVIA S. PIETRO IN CIEL D’ORO
I
l fascino della chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro seduce l’intelletto prima che i sensi. Saranno i sepolcri dei due filosofi, Agostino e Boezio, qui venerati come santi. Saranno le parole che le dedicarono Dante, Petrarca e Boccaccio. Saranno le spoglie, qui poste, di Liutprando, il piú saggio tra i re longobardi. Tutto, inclusa la collocazione appartata della chiesa, induce a un pacato raccoglimento. Fu proprio Liutprando, attorno al 720, a fondare il monastero, cui la chiesa era annessa, perché vi si custodissero le reliquie di sant’Agostino. Il nome derivò CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE
L’Italia delle abbazie
solenne di un angelo tra un servo e forse un re (Liutprando?), alcuni capitelli brulicanti di animali immaginari e mostruosi, e il frammento di mosaico pavimentale nell’abside della navata destra. Ma il capolavoro assoluto della basilica è l’arca di Sant’Agostino, in marmo, arricchita da innumerevoli statue e bassorilievi. Fu eseguita per volontà degli Agostiniani, tra la metà del Trecento e l’inizio del secolo successivo, da maestranze lombarde non ignare della tradizione pisana. Al suo completamento contribuirono pure i canonici lateranensi che, con questo atto di liberalità, guadagnarono l’oblio di ogni disputa meschina e la perpetua riconoscenza dei visitatori.
BRESCIA S. SALVATORE
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el 753 Desiderio, duca di Brescia e ultimo re dei Longobardi (756777), e la sua sposa Ansa fondavano su un’area concessa dall’allora re Astolfo il monastero femminile di S.
In alto l’arca di sant’Agostino, macchina scultorea in marmo bianco di Carrara e marmo bianco di Candoglia attribuita a una bottega campionese. Post 1362-ante 1402. Pavia, basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro. A destra l’interno della chiesa di S. Salvatore, a Brescia, testimonianza insigne dell’architettura religiosa altomedievale che conserva un ricco apparato ornamentale con stucchi e affreschi integrati fra loro. dalla decorazione del soffitto e dell’abside, forse originariamente in oro. Abitato da una comunità benedettina fino al 1213, il monastero passò poi ai canonici regolari lateranensi, ai quali si affiancarono dal 1327 gli Agostiniani. Due comunità si spartirono gli ambienti monastici: sappiamo dai documenti che la convivenza non fu facile. La chiesa, cosí come la vediamo oggi, risale al XII secolo. La facciata, a capanna, è realizzata in laterizi e arricchita da inserti di pietra e ceramiche. Delle antiche decorazioni si conservano il bassorilievo sopra la porta di ingresso, raffigurazione 104
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Salvatore di Brescia, di cui divenne prima badessa la loro figlia Anselperga. Se tradizionalmente a questa data venivano ricondotte le strutture dell’attuale chiesa basilicale a tre navate – senza transetto né torre campanaria, con abside esternamente decorata da un motivo ad arcate cieche su lesene e arricchita all’interno da un notevole repertorio di stucchi e affreschi ricollegabili alle analoghe decorazioni di Cividale del Friuli e di Castelseprio – la campagna di scavo avviata ormai quasi mezzo secolo fa ha rimesso tutto in discussione, portando alcuni studiosi a postdatare la costruzione al IX secolo, in piena età carolingia. Sotto l’attuale chiesa è stata infatti rinvenuta la struttura di un edificio piú piccolo, ad aula cruciforme e con tre absidi semicircolari, da ricollegarsi verosimilmente alla notizia della fondazione desideriana. A esso sarebbe stata poi ben presto aggiunta, in corrispondenza dell’abside mediana, la cripta per collocarvi il corpo di santa
In basso uno scorcio del chiostro di S. Simeone, nell’abbazia Polirone a San Benedetto Po (Mantova). Il grande complesso monastico sorse nel 1007 per volontà del marchese Tedaldo di Canossa.
Lastra marmorea con la figura di un pavone facente parte dell’arredo scultoreo della chiesa bresciana di S. Salvatore. VIII sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.
Giulia – probabilmente traslato fra il 762 e il 763 dall’isola di Gorgona per volontà della regina Ansa, determinando cosí intorno al X secolo la nuova intitolazione del monastero – e le reliquie di martiri ricevute, secondo la tradizione, dal pontefice Stefano II al momento della consacrazione. Cripta che rimase intatta, nonostante la distruzione della prima chiesa, fino all’ampliamento in età romanica, e che conserva ancora frammenti della decorazione pittorica e a stucco nei quali, a dispetto del cattivo stato di conservazione dei lacerti, è possibile ritrovare con estrema chiarezza i diversi strati sovrapposti.
SAN BENEDETTO PO (MN) abbazia di polirone
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uando sorse, nel 1007, il monastero di Polirone consisteva solo in una semplice chiesetta; ma un’abbazia voluta dagli ambiziosi Canossa non poteva restare a lungo nell’ombra: di quella chiesa i grandiosi edifici successivi avrebbero cancellato anche il ricordo. Al tempo della lotta per le investiture, l’abbazia prese decisamente le parti di Matilde e di Gregorio VII ed entrò nella congregazione cluniacense. Di Cluny Polirone si rivelò figlia precoce e ribelle. Nella prima metà del XII secolo, quando i monaci decisero di ricostruire le due chiese monastiche – S. Maria e S. Benedetto, la maggiore – si ispirarono all’abbazia borgognona, sebbene in quegli anni non ne CATTEDRALI E ABBAZIE
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riconoscessero piú il primato: copiare il modello era per loro segno di competizione, non di deferenza. La prossimità di Mantova e dei suoi munifici signori regalò a Polirone altre due stagioni di rigoglio artistico. Nel Quattrocento l’abate commendatario, Guido Gonzaga, volle per il monastero quella veste tardo-gotica che i chiostri conservano ancora. Al secolo successivo risale la trasformazione della chiesa maggiore, opera di Giulio Romano, pittore e architetto della corte mantovana. Fu l’abate Gregorio Cortese, colto umanista, ad affidargli la direzione dei lavori nel 1540. Erano gli anni del dibattito intorno alla riforma della Chiesa: le idee di Lutero avevano trovato ricetto qualche decennio prima tra le stesse mura del monastero. Giulio Romano era stato allievo di Raffaello, si era formato nella città dei papi e conosceva bene l’arte antica. L’abate volle che riplasmasse l’aspetto del cenobio per renderlo espressione visibile del suo indirizzo ideologico, come era avvenuto ai tempi del dissidio con Cluny. Questa volta però la chiesa abbaziale, con le sue allusioni alle basiliche cristiane tardo-antiche, doveva indicare la scelta di una riforma ligia all’obbedienza romana. 106
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L’Italia delle abbazie
In alto una delle scene appartenenti al ciclo con episodi della vita di san Simeone affrescato nel chiostro a lui intitolato nel monastero di Polirone a San Benedetto Po. Seconda metà del XVI sec. A destra affresco raffigurante san Zeno, vescovo e patrono di Verona, nella chiesa della città scaligera a lui intitolata. XIV sec.
VERONA S. ZENO
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n un’area periferica di Verona, non lontana dalla riva destra dell’Adige, sorse nell’Alto Medioevo l’abbazia benedettina di S. Zeno, oggetto di frequenti attenzioni da parte di sovrani e imperatori. Ricordava infatti l’erudito Alessandro Canobbio nella sua Historia intorno la nobiltà e l’antichità di Verona, compilata nella seconda metà del Cinquecento, che il re d’Italia Pipino, secondogenito di Carlo Magno, agli inizi del IX secolo «fece donatione et la sua offerta a detta chiesa per lo vivere e per lo sostentamento dell’Abbate e de suoi monaci, accioché potessero attendere alle orationi et a divini offici». Segni ancora visibili dell’antico splendore del complesso monastico sono la basilica di S. Zeno (originariamente inserita tra gli edifici di pertinenza dell’abbazia, che ne
deteneva l’officiatura), il raffinato chiostro rettangolare con arcate rette da colonnine binate e un massiccio torrione in cotto, malinconico relitto risalente a un ampliamento duecentesco dell’abbazia, a quell’epoca ancora ricca e potente, ma destinata a breve a una progressiva decadenza. Se infatti nel 1425 si giunse alla sua riduzione a commenda, nel 1773 la Serenissima ne decise addirittura la soppressione, donando all’Ospedale cittadino i restanti edifici, che nel 1810, dopo essere stati venduti, venivano in buona parte demoliti dagli acquirenti per recuperarne il materiale da costruzione. L’attuale basilica, se si escludono i rifacimenti gotici dell’abside maggiore e del soffitto, è frutto del radicale rifacimento compiuto nel corso del XII secolo di una precedente chiesa altomedievale, nella quale il 21 maggio dell’anno 807, nel corso di una memorabile cerimonia
In alto la facciata della basilica veronese di S. Zeno, che oggi si presenta nelle forme acquisite dopo il rifacimento, nel XII sec., di una piú antica chiesa altomedievale. A destra Martirio di Santa Giustina, olio su tela di Paolo Veronese. 1575. Padova, basilica di S. Giustina.
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L’Italia delle abbazie A sinistra il sacello di S. Prosdocimo, una piccola cappella votiva con ricche decorazioni marmoree e musive nella basilica padovana di S. Giustina. In basso Pala di San Zaccaria, olio su tavola (trasportato su tela) di Giovanni Bellini. 1505. Venezia, chiesa di S. Zaccaria. cattedrale né la chiesa abbaziale, subito ricostruita dai monaci in forme piú modeste rispetto alla basilica opilionana, riutilizzando brani delle murature superstiti e materiali del vicino teatro romano. Trasformata nel 1390 in commenda cardinalizia e avviata a un inesorabile declino, che culminò sotto l’abbaziato del dissoluto Andrea da Carrara, S. Giustina divenne tuttavia nel secolo successivo il caposaldo della riforma dell’Ordine benedettino avviata dall’abate Ludovico Barbo, grazie alla nascita della congregatio Sancte Justinae de Padua alla quale aderirono in breve tempo importanti fondazioni. Il rinnovato slancio determinò nel Cinquecento la ricostruzione del
alla quale presenziarono il re franco Pipino e i vescovi di Verona, Cremona e Salisburgo, erano state solennemente traslate le reliquie di san Zeno, da sempre protettore della città.
PADOVA s. giustina
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l 7 ottobre dell’anno 304 veniva seppellita nella spianata oggi corrispondente a Prato della Valle la giovane martire Giustina. Subito sorse intorno alla sua tomba una cella memoriae, poi sostituita per volontà del prefetto Opilione con una sontuosa basilica decorata da mirabili marmi e da mosaici splendenti «a guisa di stelle celesti», come ricorda la Vita sancti Martini di Venanzio Fortunato. Nel 971 il vescovo Gauslino, avendo trovato abbandonato il complesso extraurbano di S. Giustina, insidiato dagli Ungari alla fine del IX secolo, stabiliva o, secondo altri, ristabiliva in quel luogo un monastero sotto la Regola di san Benedetto, dotandolo di molti beni. Il terribile terremoto del 1117 non risparmiò né la nuova
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complesso abbaziale in forme tardo rinascimentali e con proporzioni a dir poco monumentali. La nuova basilica, infatti, con i suoi 122 m di lunghezza e 82 di larghezza, è l’undicesima della cristianità e gli edifici monastici, ingranditi per contenere il crescente numero di monaci, conservano ancora ben tre chiostri: quello del Noviziato, quello «dipinto», cosiddetto per la presenza di affreschi raffiguranti Storie di San Benedetto, e quello del Capitolo, originariamente contiguo alla sala capitolare.
CHIAVARI (GE) S. ANDREA DI BORZONE
VENEZIA S. ZACCARIA
n origine dipendente da S. Colombano di Bobbio, l’antico monastero di S. Andrea di Borzone
Il monastero di S. Andrea di Borzone, nella media Val Sturla, nell’entroterra chiavarese (Genova). Il complesso monastico comprende la chiesa, la sacrestia, un chiostro, un edificio adibito a canonica e una casa colonica. La torre in blocchi bugnati (inizi del XIII sec.) venne trasformata in campanile nel 1310.
veniva elevato nel 1184 ad abbazia dall’arcivescovo di Genova e affidato ai Benedettini di Clermont, per favorirne la ripresa dopo un periodo di abbandono. Nel 1244, come ricorda la lapide murata sulla torre, per volontà dell’abate Gherardo dei Fieschi si procedeva alla ricostruzione della chiesa abbaziale in concomitanza con l’edificazione in uno stile romanico volutamente arcaizzante della non lontana basilica di S. Salvatore di Cogorno. La robusta torre campanaria, avviata agli inizi del Duecento a grossi conci squadrati a bugnato, veniva
padana qui importata dai monaci di Bobbio – hanno in buona parte conservato l’aspetto originario soprattutto nei monumentali volumi architettonici, risalgono invece ai secoli XVI-XVII la sacrestia e il chiostro, del quale restano solo i pilastri del porticato. Con l’aggravarsi dei disordini nella valle di Sturla, i Benedettini nel 1463 si trasferirono a Genova nel monastero di S. Antonio di Pre. Allora, infatti, la zona era rifugio di bande armate di briganti e S. Andrea rimase alla loro mercé fino a quando, alla fine del secolo, l’abate Alessandro
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l monastero femminile di S. Zaccaria sorse, come la basilica di S. Marco, per volontà di un doge. Fu compagno discreto del patriziato veneziano per quasi un millennio: dall’827 al 1810. I potenti sapevano bene di dovere molto a quelle mura: rifugio provvidenziale per la vocazione delle loro figlie, e custodi, non meno provvidenziali, delle loro fortune. Cosí ogni anno, a Pasqua, il doge visitava S. Zaccaria in pompa magna. Dei locali un tempo annessi al monastero oggi sono visitabili solo la chiesa, le attigue cappelle di S. Atanasio e di S. Tarasio, e la sacrestia. Le due cappelle sono ricavate dalla primitiva chiesa romanica. Nella prima metà del Quattrocento, Antonio Gambello, ingegnere militare della Repubblica, aveva avuto l’incarico di ristrutturarla. In quegli anni, un movimento riformatore aveva investito Venezia: la chiesa fu allora ridotta a una sola navata in ossequio alla tradizione architettonica degli Ordini mendicanti ai quali si ispirava la riforma monastica. Modestia e semplicità non si addicevano però ai nobili natali delle monache. Pochi anni dopo, infatti, lo stesso Gambello iniziava la costruzione di una nuova chiesa, assai piú grande della prima. Il nuovo edificio sarebbe stato completato solo alla fine del Quattrocento da un altro architetto, Mauro Codussi. Al primo si deve l’interno, che risente ancora della tradizione gotica; opera del secondo sono invece buona parte
dell’imponente facciata e la cupola, pienamente rinascimentali. La ricchezza di S. Zaccaria permise alle monache di avvalersi di insigni pittori: alcune delle loro opere si trovano ancora nella chiesa o nei locali attigui. Basterà citare i nomi di Andrea del Castagno, di Giovanni Bellini e del Tintoretto per far capire quali tesori conservi ancora questo scrigno dell’aristocrazia veneziana.
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invece completata un secolo dopo con l’apertura di alte finestre a trifore e con la riproposizione della decorazione ad arcatelle cieche in cotto su sfondo in pietra, già utilizzata per le navate. Se la chiesa a navata unica e la torre – testimoni nella costruzione e nell’uso dei materiali del legame con la cultura
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CATTEDRALI E ABBAZIE Riveraschi riuscí a riportare la comunità nell’abbazia. Ma non per molto. Nel 1535, infatti, con la morte dell’abate in carica, veniva sciolta in Liguria la congregazione dei monaci francesi e il complesso fu trasformato in commenda parrocchiale.
L’Italia delle abbazie
BOBBIO (PC) S. COLOMBANO
un’inesorabile decadenza, anche se non mancarono momenti di rinascita spirituale e di rigoglio artistico. Da metà Quattrocento, quando l’abbazia entrò nella congregazione di S. Giustina, iniziarono i lavori che conferirono al cenobio e alla chiesa abbaziale, l’odierno aspetto rinascimentale. Numerosi sono tuttavia i frammenti del suo passato piú
i piacerebbe poter descrivere Bobbio come un’abbazia da romanzo: uno splendido isolamento, una chiesa severa e grandiosa, una biblioteca sterminata e impenetrabile, tutte caratteristiche che Bobbio ebbe davvero, ma che ormai da tempo non gli appartengono piú. Nel 1803, pochi
In basso, a sinistra la facciata della chiesa facente parte del complesso abbaziale di S. Colombano a Bobbio. In basso, a destra la deposizione del corpo di san Silvestro in uno dei rilievi che ornano lo stipite di sinistra del portale dell’abbazia di Nonantola.
anni dopo la soppressione, la biblioteca monastica fu dispersa. Era solo l’ultimo atto di una vicenda che aveva visto l’abbazia spogliarsi lentamente di ogni prerogativa romanzesca. Sullo scriptorium di Bobbio avevano vegliato insigni personalità della cultura medievale: un abate di sangue imperiale (Wala, zio di Carlo Magno), un altro abate divenuto precettore di Ottone III e un papa (Silvestro II). Ma dopo il Mille per il monastero iniziò
glorioso: il campanile del IX secolo, un mosaico pavimentale d’età romanica nella cripta, dove si trova anche il sarcofago del santo, notevoli esempi di scultura altomedievale nel museo dell’abbazia. Il monastero era sorto nel 614, in una valle appenninica spopolata, per opera di un severo monaco irlandese, san Colombano. La ricchezza dei suoi successori mal si conciliava con un distacco troppo deciso dal mondo, cosicché, nel 1014,
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il vivace borgo di Bobbio diveniva addirittura sede vescovile. Alla fine del Medioevo l’antica potenza abbaziale era estinta. Prima di morire, aveva però infuso vita e dignità alle campagne intorno, trasformando una borgata rurale in una piccola città.
NONANTOLA (MO) S. SILVESTRO
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el tesoro di Nonantola si conserva ancora un evangeliario donato da
In alto, sulle due pagine l’interno della basilica di S. Colombano a Bobbio, il cui aspetto attuale è l’esito dei rifacimenti di epoca rinascimentale dell’originario tempio di età medievale. In alto, a destra l’interno della chiesa bolognese del Santo Sepolcro, una delle quattro che compongono il complesso di S. Stefano e che si sviluppa intorno al sepolcro del suo fondatore, san Petronio. Matilde di Canossa. Esso serví a risarcire in parte l’abbazia dei beni sottratti per finanziare papa Gregorio VII, colui che difese la Chiesa dalla prepotenza dell’Impero. Riteniamo quindi che l’abate, a malincuore, abbia sacrificato il tesoro per una causa che condivideva. Le cose non filarono cosí lisce: Matilde quell’oro dovette conquistarselo con una guerra. La storia di Nonantola si intreccia con quella della piú importante aristocrazia italica, sempre in contatto con papi e re, sempre impegnata in azzardati equilibrismi per sopravvivere. L’abbazia benedettina sorse nell’VIII secolo sulle reliquie di un papa santo (Silvestro I) per volontà di un duca longobardo (Anselmo) fattosi monaco. Il racconto della fondazione e della traslazione del corpo di san Silvestro fu scolpito da un collaboratore di Wiligelmo all’inizio del XII secolo su alcune formelle del portale della chiesa. Nonantola aveva da poco riconquistato il favore di Matilde e,
rievocando l’antico legame col Papato, cercava di riguadagnare credibilità agli occhi di lei. In quegli anni la chiesa cominciava ad assumere l’aspetto romanico che, pur dopo innumerevoli rimaneggiamenti e restauri, conserva ancor oggi. Poco rimane degli altri locali monastici. Una menzione merita il refettorio che conserva frammenti di affreschi dell’XI secolo. Né la chiesa né l’imponente archivio né quel che resta del tesoro bastano per dare un’idea della potenza raggiunta dai monaci. Il dominio millenario dell’abbazia ha lasciato la sua traccia piú viva nei costumi dei Nonantolani. L’abate Gotescalco concesse loro delle terre nel 1054 come ricompensa di servigi militari. Essi, per equità, stabilirono di ridistribuirsele periodicamente: lo fanno ancora oggi, dopo quasi dieci secoli. Gli Emiliani, si sa, sono gente di parola.
BOLOGNA S. STEFANO
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a chiesa bolognese di S. Stefano è un vero rompicapo architettonico. Non è una chiesa e non è un monastero, almeno non solo questo. È una vasta area sacra sulla quale insistono vari edifici di culto. Il popolo bolognese si è interrogato per secoli sul senso di questo composito insieme e si è dato una risposta: S. Stefano è una riproduzione, ideata e iniziata dal vescovo Petronio, di alcuni luoghi di Gerusalemme. Secondo una leggenda,
san Petronio fece costruire agli inizi del V secolo, nell’area precedentemente occupata da un tempio della dea Iside, una prima chiesa a imitazione di quella eretta sul sepolcro di Cristo. Oggi il complesso accoglie le vestigia di un’abbazia, qui insediata fin dal X secolo, e quattro chiese (erano sette in passato). Quella dedicata al Santo Sepolcro è il centro ideale di S. Stefano. Disposta attorno alla sepoltura del suo fondatore, san Petronio, è impostata su un dodecagono delimitato da colonne in laterizi e in marmo. Cosí come oggi la vediamo è il frutto di una ricostruzione d’età romanica, ma alcuni elementi (soprattutto le sette colonne in marmo risalenti al II secolo d.C. e, sembra, mai spostate) ne indicano l’origine antica. Lacerti della Bologna romana (colonne, capitelli, paraste) si conservano pure nelle due chiese che affiancano quella del Santo Sepolcro; quei frammenti sono mescolati a esempi di scultura altomedievale (sarcofago di san Vitale) e a splendide realizzazioni romaniche, come i capitelli del chiostro o il sarcofago di sant’Agricola. I disinvolti restauri otto-novecenteschi hanno tentato, demolendo e ricostruendo, di dare all’insieme un aspetto «romanico», ritenuto quello originario. Ma S. Stefano sfugge ogni tentativo troppo rigido di lettura: a chi non si accontenta della spiegazione popolare non rivela il segreto del suo sviluppo. CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE GENGA (AN) s. vittore delle chiuse
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osta all’imbocco della stretta gola montana di Frasassi – da cui probabilmente le derivò la denominazione delle chiuse – l’abbazia marchigiana di S. Vittore è l’interessante prototipo di una tipologia regionale romanica con ascendenze
L’Italia delle abbazie
i propri castelli nella zona. Singolari sono però le vicende successive. Da un atto del 1011 sappiamo infatti che Gozo, signore del castello della Saxa strategicamente posto a guardia della gola, sottoscriveva un atto con cui concedeva piena autonomia all’abbazia, riconoscendole la possibilità di esercitare la potestà
parte del vicino Comune di Fabriano, iniziava il suo lento declino. Se, infatti, alla fine del secolo successivo i monaci avevano già quasi abbandonato il cenobio per dimorare nel monastero dipendente di S. Biagio, nel 1406 il complesso abbaziale e tutti i suoi beni furono concessi in affitto alla famiglia Chiavelli e la comunità fu aggregata al monastero olivetano di S. Caterina di Fabriano.
SERRA SANT’ABBONDIO (PU) s. croce di fonte avellana
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L’abbazia di S. Vittore delle Chiuse (Genga, Ancona), fondata dai Longobardi intorno alla fine del X sec., all’inizio della Gola di Frasassi. Il complesso attuale è frutto di una ricostruzione del XIV-XV sec., mentre la chiesa è datata all’XI sec. bizantine, caratterizzata dalla pianta a croce greca inscritta in un quadrato dal quale sporgono cinque absidi e alla cui sommità si eleva un basso tiburio ottagonale. Il cenobio benedettino esisteva già nei primi anni dell’XI secolo e la sua fondazione si deve a feudatari di stirpe longobarda facenti capo al ducato di Spoleto che avevano 112
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feudale sulle terre ricevute in dono. E addirittura nel 1014 i feudatari locali, dopo aver rinunciato al patronato sull’abbazia, divenivano a loro volta vassalli dell’abate di S. Vittore, donandogli i castelli di Valle, Serra Secca, Ceresola, Frasassi, Pleche e Civitella. Grazie a questa prima fase di continuo arricchimento, l’abbazia raggiunse, tra l’XI e il XII secolo, la sua massima potenza in spiritualibus e in temporalibus, arrivando a contare alle proprie dipendenze ben quaranta chiese e cospicui possedimenti fondiari. Nel corso del Duecento, però, con l’avanzare delle rivendicazioni da
el cuore dell’Appennino umbromarchigiano, sorse, nel X secolo, l’eremo di S. Croce di Fonte Avellana, ricordato da Dante nel XXI Canto del Paradiso come il luogo nel quale san Pier Damiani si pose al servizio di Dio con cosí ferma vocazione «che pur con cibi di liquor d’ulivi / lievemente passava caldi e geli / contento ne’ pensier contemplativi». Ritornato, grazie ai restauri, all’austerità del pauperculus locus di cui il santo ravennate fu abate dal 1043 al 1057, il complesso conserva ancora ben leggibili gli ambienti monastici medievali. Come nel caso del piccolo chiostro con volte a sesto acuto e a tutto sesto, dello splendido scriptorium gotico – uno dei piú antichi e meglio conservati d’Italia – , delle celle lungo il corridoio inferiore, della sala capitolare, della cripta e del parlatorio. Costruita secondo i canoni della Sezione Aurea, o «divina proporzione», e abbondantemente illuminata grazie a un doppio ordine di finestre, di cui quello inferiore conserva ancora gli incastri per le tavole degli amanuensi, la grande sala dello scriptorium fu utilizzata come officina libraria fino alla seconda metà del Trecento, quando, con il passaggio dell’abbazia a commenda, fu dapprima adibita a residenza di lusso degli abati commendatari e in seguito trasformata in cucina e ripostiglio. Anche la sala capitolare, costruita con accorgimenti che favorissero l’acustica e una migliore illuminazione nelle prime ore del mattino, quando la comunità si riuniva per la lettura di un capitolo della Regola, non subí sorte
In questa pagina una veduta dell’eremo di S. Croce di Fonte Avellana (Serra Sant’Abbondio, Pesaro e Urbino) e, in basso, lo scriptorium del monastero. Artefice dello sviluppo del complesso fu san Pier Damiani,
al quale si devono non solo il nucleo originario della costruzione, ma soprattutto l’impulso spirituale, culturale e organizzativo che ne fecero un centro d’attrazione e di diffusione della vita monastica.
migliore, divenendo nel Settecento deposito per il legname. La chiesa attuale, consacrata nel 1197, è a navata unica, con pianta a croce latina e con transetto e presbiterio rialzati per la presenza della cripta. I lavori di restauro hanno permesso di recuperarne le forme romanico-gotiche nascoste dagli interventi barocchi della metà del Seicento.
GROTTAFERRATA (ROMA) abbazia di s. nilo
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rottaferrata è un nome che evoca scenari guerreschi: il sito su cui sorge l’abbazia, un poggio fortificato, non smentisce questa impressione. La crypta ferrata da cui il monastero prese il nome, però, non era forse che un sacello d’età romana riattato a oratorio nell’Alto Medioevo. Attorno a questa modesta costruzione un monaco basiliano, san Nilo, greco di lingua e di rito, volle che sorgesse un cenobio. Nilo era giunto nel 1004 presso Roma, fuggendo dalla sua CATTEDRALI E ABBAZIE
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L’Italia delle abbazie A sinistra la «macchina» barocca ideata ai primi del Seicento da Gian Lorenzo Bernini al centro della quale è collocata l’icona bizantina della Theotokos (Madre di Dio) nell’abbazia di S. Nilo a Grottaferrata (Roma). Nella pagina accanto particolare del recto del Codex Sangallensis 1092, meglio noto come Pianta di San Gallo. IX sec. San Gallo, Stiftsbibliothek. In basso disegno ricostruttivo ipotetico dell’aspetto del complesso monastico di S. Gallo realizzato nel 1876 da Karl Lasius sulla base del Codex Sangallensis 1092.
Calabria infestata dai Saraceni. I monaci che si installarono a Grottaferrata portavano con loro frammenti della grande cultura greca: manoscritti rari in Occidente. I pontefici furono perciò ben lieti di accogliere questi transfughi presso di loro, prova tangibile dell’universalità della Chiesa romana. Della sua origine orientale il complesso monastico conserva qualche traccia. Greca è l’iscrizione che si legge sopra la porta che introduce nella navata principale della chiesa; maestranze meridionali italo-greche decorarono con mosaici l’arco trionfale nella stessa chiesa; orientaleggiante è l’icona della Madonna che vi si venera. Per il resto gli edifici si inseriscono nella tradizione architettonica occidentale: dal campanile, romanico, al trono marmoreo dell’icona mariana, barocco. Fu il cardinale Giuliano della Rovere, futuro papa col nome di Giulio II, a trasformare l’abbazia in un castello. Alla fine del Quattrocento, 114
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quando il cenobio fu posto sotto la sua tutela, affidò l’opera di fortificazione e di parziale ricostruzione a Baccio Pontelli e a Giuliano da Sangallo; a quest’ultimo in particolare si deve l’elegante porticato a sinistra della chiesa. Luogo di preghiera e di studio, eccellente di soldati, Grottaferrata rivelava tutto il carattere del suo protettore, ambizioso principe rinascimentale e papa guerriero.
CASSINO (FR) abbazia di montecassino
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egnata da un destino fatto di distruzioni e ricostruzioni, l’abbazia di Montecassino fu fondata secondo la tradizione intorno al 529 da Benedetto da Norcia all’interno di un recinto sacro dedicato ad Apollo. Il primo nucleo di quella che divenne una delle piú spettacolari cittadelle monastiche del Medioevo dovette però essere
CATTEDRALI E ABBAZIE abbandonato già alla fine del VI secolo per i danni arrecati da un’incursione longobarda. Grazie all’abate bresciano Petronace, che su invito di papa Gregorio II si era ritirato nel 718 nel cenobio cassinese con un piccolo numero di monaci, si avviava una fase di rinascita che portò durante l’abbaziato di Gisulfo (797-817) al rinnovamento e all’abbellimento della chiesa che custodiva il corpo del fondatore. Ma il 4 settembre 883 una nuova sciagura si abbatteva su Montecassino: bande di Saraceni misero a ferro e fuoco l’abbazia, trucidando buona parte della comunità.
La facciata posteriore dell’oratorio di S. Pellegrino a Bominaco (L’Aquila), una delle sole strutture superstiti (l’altra è la chiesa di S. Maria Assunta) del cenobio di Momenaco, la cui fondazione viene tradizionalmente assegnata a Carlo Magno.
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L’Italia delle abbazie
L’esilio forzato durò fino alla metà del X secolo, quando i monaci poterono rientrare nei propri luoghi dopo che si era provveduto a riattare almeno in parte gli edifici monastici e la chiesa. Se già sotto Aligerno si ebbero interventi volti a conferire agli edifici un aspetto piú sontuoso, fu l’abate Desiderio (1058-1087) che provvide alla ricostruzione del complesso facendo venire da Roma marmi, colonne e capitelli e commissionando ad artisti bizantini preziosi oggetti d’arte. Malauguratamente, però, anche l’opera di costui nel 1349 fu distrutta da un terremoto e della chiesa non rimasero in piedi che le magnifiche porte di bronzo. E pure la successiva ricostruzione, che grazie a una lunga serie di aggiunte e abbellimenti aveva dato luogo a un nuovo monumentale complesso, non ha avuto maggiore fortuna: il 15 febbraio 1944 infatti
l’abbazia di Montecassino fu di nuovo rasa al suolo dai bombardamenti e quanto oggi si vede è stato ostinatamente riedificato sull’antico modulo architettonico secondo l’imperativo «dove era, come era».
BOMINACO (AQ) s. pellegrino
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ià dal X secolo sorgeva a ridosso delle piú alte vette d’Abruzzo il cenobio benedettino di Momenaco, fondato secondo la tradizione da Carlo Magno, il quale avrebbe visto in sogno un viandante che lo pregava di costruire una chiesa in onore del martire cristiano Pellegrino. Colpito dalla visione, il re franco non solo avrebbe concesso un vasto appezzamento di terreno, ma avrebbe assegnato l’erigenda chiesa all’abbazia di Farfa, che iniziò a costruire sul sito concesso quello che sarebbe divenuto il
470 mq, raffigurando tra l’altro in tre ordini sovrapposti l’Infanzia e Passione di Cristo, il Giudizio finale, la Vita di San Pellegrino e il Calendario della diocesi valvense.
CASTIGLIONE A CASAURIA (PE) abbazia di s. clemente monastero originariamente detto di Momenaco, detenendolo fino al 1093, quando finí sotto la giurisdizione del vescovo di Valva (poi unita alla diocesi di Sulmona). Tale passaggio incontrò però non poche resistenze da parte degli abati, dando origine a una lunga serie di contrasti che nei secoli successivi videro coinvolti addirittura il re di Napoli e il papato, che solo nel 1343 ebbe ragione dei monaci ribelli. Nuove tensioni si ebbero inoltre al tempo dello smembramento della diocesi valvense e la tormentata storia dell’insediamento culminò nel 1423 nella distruzione del monastero a opera di Braccio da Montone. Dalla devastazione si salvarono solo le chiese di S. Maria Assunta, usata per la liturgia aperta ai fedeli della comunità e l’oratorio di S. Pellegrino, riservato
alla preghiera dei soli monaci, mentre il torrione circolare posto a uno dei vertici del fortilizio, che già prima del 1000 abbracciava il complesso, risale agli inizi del Cinquecento. Se la chiesa abbaziale si segnala per la particolare facciata cuspidata e per i magnifici arredi marmorei, nell’oratorio si conserva invece un pregevolissimo ciclo di affreschi duecenteschi che ricoprono le volte e le pareti per ben
L
a storia ci dice che Ludovico II fu un buon re d’Italia, degno del sangue di Carlo Magno che gli scorreva nelle vene. Il suo regno, dall’844 all’875, fu un incessante spostarsi reprimendo i soprusi dei potenti e difendendo i confini. Ludovico però governava solo sul Nord. Il Meridione era per lui terra di frontiera: altri erano i poteri che lo dominavano davvero. Nel Sud soggiornò spesso negli ultimi anni della
In alto, a sinistra episodi della vita di Cristo e l’Ultima Cena in un particolare degli affreschi dell’oratorio di S. Pellegrino a Bominaco. XIII sec. In alto, a destra la lunetta del portale dell’abbazia di S. Clemente a Casauria: al centro, Clemente; a sinistra, i discepoli Cornelio ed Efebo; a destra, l’abate Leonate che offre il modello della chiesa. A destra l’interno della chiesa dell’abbazia di S. Clemente a Casauria. CATTEDRALI E ABBAZIE
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CATTEDRALI E ABBAZIE sua vita, sia come capo di un forte esercito e vincitore degli Arabi insediati a Bari, sia come prigioniero del duca Adelchi di Benevento. Reduce dalla cattura, nell’872, decise di costruire in Abruzzo, in un territorio al limite di quelli da lui controllati, un’abbazia. Essa doveva ribadire la sua autorità, scossa dall’infamante episodio della prigionia. Non sorprende che i simboli del potere siano rappresentati tanto spesso a S. Clemente in Casauria. La grande chiesa, unico avanzo o quasi del monastero voluto da Ludovico, è, come oggi la vediamo, il risultato della ricostruzione degli abati Leonate e Gioele (seconda metà del XII secolo). Nella ricca decorazione scultorea del portico distinguiamo, sui capitelli, lo scettro regale in forma di alberello, e sull’arco centrale, tra santi e profeti, i re d’Israele, David e Salomone. Sui pilastri del portale che introduce alla navata maggiore campeggiano le figure di altri quattro sovrani, presumibilmente benefattori del cenobio. Trecento anni dopo la sua fondazione l’abbazia di Casauria onorava ancora la memoria dei re, ma si era trasformata in uno di quei potentati contro i quali aveva tanto lottato il suo fondatore. L’abate Gioele fece scolpire sulle porte in bronzo dorato le immagini di venti castelli: il dominio di questi, piú che le concessioni sovrane, garantiva la vera forza del monastero.
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L’Italia delle abbazie
GOLETO (AV) abbazia di s. guglielmo
L’
abbazia di S. Guglielmo al Goleto sorprende con lo spettacolo delle sue rovine. Fino a tempi non lontani nei suoi chiostri pascolavano le pecore, una delle tre chiese era ridotta a stalla, un sepolcro finemente scolpito, a mangiatoia. Nel 1131 san Guglielmo da Vercelli, fondatore del monastero di Montevergine, decise l’edificazione del Goleto per farne un cenobio femminile. Pochi anni dopo la neonata abbazia era già cosí forte da riuscire
addirittura a trattenere il corpo del santo, giunto a morte mentre si trovava lí: fu un’impresa non facile, vista la fama di cui Guglielmo già godeva in vita. Il monastero conobbe il massimo splendore tra la metà del XII secolo e la metà del successivo. Nonostante le travagliate vicende che hanno attraversato, i monumenti del Goleto conservano le tracce di questa splendida stagione. Simbolo della potenza politica ed economica delle badesse, la torre di difesa delle mura fu innalzata nel 1152, spogliando il mausoleo di un soldato romano. La lapide che ricorda il nome di quell’antico guerriero veglia ancora oggi sulla massiccia muraglia. La cappella di S. Luca, eretta tra 1247 e 1255 sopra un’altra chiesa, è il segno della predilezione accordata al Goleto dall’imperatore Federico II; è l’imitazione dell’enigmatico Castel del Monte e sembra che siano state le stesse maestranze a costruire i due edifici. I terremoti hanno infierito
A sinistra e nella pagina accanto, in basso due vedute dell’abbazia di S. Guglielmo al Goleto (Avellino), fondata come cenobio femminile per iniziativa di Guglielmo da Vercelli nel XII sec. Nella pagina accanto, a sinistra un blocco con un rilievo di età antica reimpiegato nella muratura della chiesa di S. Guglielmo al Goleto. In basso la lunetta del portale della chiesa di S. Sofia a Benevento. Il rilievo (XII-XIII sec.) raffigura Cristo benedicente affiancato dalla Madonna e da un santo guerriero che presenta un ecclesiatico, probabilmente il vescovo o l’abate a cui si deve il prolungamento occidentale della chiesa (distrutto da un terremoto nel XVII sec.). crudamente sul complesso monastico; ma sarebbe ingiusto imputare alla Natura quelle che in gran parte sono colpe umane. La chiesa maggiore del cenobio crollò nel 1732. Gli abati del Goleto, dal XVI secolo divenuto monastero maschile, la ricostruirono con grandi sforzi affidando il progetto all’architetto napoletano Domenico Antonio Vaccaro. Il raffinato monumento barocco che ne risultò fu letteralmente saccheggiato dopo la soppressione napoleonica dei conventi.
sogno dei duchi beneventani: con la caduta di Pavia nelle mani di Carlo Magno, Benevento poteva finalmente atteggiarsi a capitale, ancorché di un
popolo sconfitto. La chiesa di S. Sofia compendiava i sogni del suo costruttore. Nell’intitolazione e nella stessa originalissima pianta richiamava la basilica di Costantinopoli. Le dimensioni della chiesa sono tutto sommato modeste, ma l’andamento irregolare delle pareti esterne e il duplice anello di colonne e pilastri su cui si sviluppa l’edificio creano un gioco prospettico che lo fa apparire piú grande. Quattro secoli dopo Benevento non era piú la capitale di un principato autonomo, ma gli abati di S. Sofia affidavano alle pietre del monastero il ricordo della loro magnificenza e continuavano a ispirarsi all’Oriente, come aveva fatto Arechi. Il chiostro (XII secolo), con gli archetti a ferro di cavallo e i suoi motivi vegetali, ricorda i giardini di certi palazzi arabi. Ma quello che sembrerebbe un luogo consacrato alla preghiera e al riposo nasconde insidie fatali per la quiete dello spirito. I pulvini scolpiti del porticato formano un coro assordante: scene di caccia o di battaglia, nudità e animali esotici stupiscono il visitatore. Le sculture raccontano anche della guerra combattuta dai cavalieri cristiani contro gli infedeli: l’Oriente con le sue meraviglie viene evocato e, al tempo stesso, maledetto.
BENEVENTO (BN) s. sofia
N
ell’VIII secolo, quando venne fondato il monastero di S. Sofia, Benevento era la residenza di duchi longobardi con manie di grandezza: si destreggiavano abilmente tra la sottomissione e l’indipendenza, contando sulla lontananza del rex Langobardorum di Pavia. Arechi II, il fondatore di S. Sofia, vide coronato il CATTEDRALI E ABBAZIE
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STAFFARDA (CN) abbazia di s. maria
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i volevano uomini di Dio ben ostinati per redimere la terra di Staffarda. Nella prima metà del XII secolo, quando vi si insediarono i monaci cistercensi, Staffarda era il nome di un’area paludosa, malsana, scarsamente popolata. Preceduti dalla fama di esperti architetti e agricoltori, i seguaci di san Bernardo giungevano nel Cuneese per collaborare all’affermazione territoriale dei marchesi del Vasto. Rendere Staffarda una zona abitabile divenne la loro missione. L’abbazia che costruirono fu anche un’efficiente fattoria. Il borghetto rurale che ora la affianca riutilizza in
In questa pagina, dall’alto, a sinistra, in senso orario uno scorcio dell’interno della chiesa dell’abbazia di Staffarda (Cuneo), un settore del chiostro e una veduta panoramica del complesso abbaziale, sorto per iniziativa dei monaci cistercensi.
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parte gli edifici dell’azienda agricola monastica. I monaci importarono un modello razionale di sfruttamento economico: le grange, piccole fattorie dipendenti dall’abbazia e gestite da monaci o conversi, consentivano ai Cistercensi di guidare direttamente lo sviluppo agricolo. San Bernardo era stato chiaro sulla costruzione dei
cenobi: niente doveva distrarre dalla contemplazione di Dio; lo stile cistercense era dunque improntato alla massima sobrietà. Staffarda sembra rispettare i dettami del santo. La chiesa parla un asciutto linguaggio romanico lombardo. La lunga fase costruttiva, protrattasi fino al XIII secolo, ha consentito ad alcuni elementi gotici di insinuarsi nell’edificio; ma gli archi a doppia ghiera e le volte rimarcate dai costoloni a fascia soddisfano l’esigenza di varietà senza indulgere al decorativismo. Certe decorazioni sui capitelli e sui peducci delle volte fanno capolino ogni tanto nel monastero, ma appaiono qua e là, rare e preziose. A Staffarda sobrietà non significa armonia. Le numerose irregolarità architettoniche sono attribuite alla lunga durata dell’edificazione, ma in esse qualcuno riconosce anche oscure allusioni a messaggi esoterici.
MILANO certosa di garegnano
I
l 19 settembre 1349 l’arcivescovo di Milano, Giovanni Visconti, fondava una Certosa non lontano dalla sua città, nella pacifica campagna di Garegnano. Il prelato aveva fatto una scelta oculata: fondare una Certosa significava, a metà del Trecento, ricollegarsi a una tra le poche tradizioni monastiche ancora integre e vitali. I Certosini, con la santità della loro vita, assicuravano preghiere efficaci; e di aiuto spirituale l’arcivescovo aveva sommamente bisogno, essendo divenuto da pochi mesi signore di Milano e avendo molti nipoti bramosi di quel titolo. Chi cercasse a Garegnano tracce dell’edificio trecentesco rimarrebbe deluso: la Certosa è stata quasi completamente ricostruita nel XVI secolo. Forse però non è molto ciò che si è perduto: i Certosini
imponevano un’estrema sobrietà alle loro architetture almeno fino alla seconda metà del Trecento, fino a quando cioè il grande scisma d’Occidente non incrinò, anche tra di loro, la coesione interna e la fedeltà alla Regola. La paternità della ristrutturazione rinascimentale è ancora oggi discussa, i nomi cui si fa riferimento sono quelli di Vincenzo Seregni, Galeazzo Alessi e Pellegrino Tibaldi. L’ingresso nell’edificio di culto avviene attraverso un percorso altamente suggestivo. La chiesa, a una sola navata coperta da volta a botte, forma, con il viale e i due cortili che ne precedono la facciata, quello che è stato definito dagli studiosi un «asse ascensionale di significato sia
Un particolare dell’interno della chiesa della certosa di Garegnano a Milano, rielaborata in forme tardo-rinascimentali.
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CATTEDRALI E ABBAZIE compositivo-spaziale che mistico». Il succedersi degli archi dei cortili e le forme classiche della facciata evocano un vero e proprio trionfo. Uno sguardo al paesaggio che circonda la Certosa fornisce però un persuasivo memento: al posto del grande chiostro rinascimentale scorre oggi un’autostrada, il primo tratto della A8.
PONTIDA (BG) abbazia di s. giacomo
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utti sanno che il 7 aprile 1167 i delegati dei Comuni di Milano, Cremona, Brescia, Mantova e Bergamo, riunitisi in una lega militare, pronunciarono a Pontida il famoso giuramento con cui si impegnavano a contrastare le pretese dell’imperatore Federico Barbarossa nei confronti delle troppo autonome città dell’Italia settentrionale. Non tutti sanno però che tale giuramento fu pronunciato presso l’abbazia di S. Giacomo, fondata nel 1076 per volontà del nobile bergamasco Alberto da Prezzate, che aveva offerto per la costruzione di un monastero all’abbazia di Cluny sia il terreno circostante che la chiesa, intitolata alla Vergine Maria e a san Giacomo apostolo, posta fra i suoi possedimenti nella valle di San Martino. Delle strutture dell’antica abbazia cluniacense rimane soltanto qualche resto nascosto sotto il pavimento della chiesa attuale (a tre navate divise da pilastri), completata
Immagini dell’abbazia di S. Giacomo a Pontida (Bergamo). Dal basso, in senso antiorario, una veduta del complesso; un frammento dell’arca tombale del fondatore; l’altare del Crocifisso.
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agli inizi del XIV secolo in forme gotiche, ma in seguito rimaneggiata. Nel 1374, infatti, il complesso monastico fu devastato da Bernabò Visconti, che ne depredò anche la biblioteca ricca di codici miniati, vendicando in questo modo l’uccisione del figlio Ambrogio compiuta dagli abitanti della valle. Nell’altare maggiore si conservano inoltre pregevoli bassorilievi di scuola borgognona del principio del XII secolo, frammenti dell’arca tombale del fondatore, nei quali sono rappresentati san Michele in atto di pesare l’anima del beato Alberto – soggetto questo assai raro in Italia – e lo stesso Alberto raccomandato a Cristo Giudice da san Giacomo, cui erano stati intitolati il monastero e l’hospitium a questo annesso. Già implicita nella tradizione del monachesimo cluniacense, la vocazione ospitaliera del complesso abbaziale risulta ulteriormente confermata dalla presenza, almeno dal 1093, di un ospedale del monastero di S. Giacomo rivolto all’accoglienza e alla cura dei viandanti e dei pellegrini che percorrevano l’antica strada che collegava Verona a Como, la cui biforcazione al ponte di Garlate, subito dopo Pontida, permetteva anche di deviare per Lecco.
VENEZIA s. michele in isola
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uando Mauro Codussi sbarcò sull’isola di San Michele, presso Murano, nel 1469 era forse solo un giovane architetto bergamasco di belle speranze. Fu l’incontro con i Camaldolesi che risiedevano sull’isola a cambiare la sua vita. Il monastero di S.
Il chiostro (in alto) e una veduta del monastero di S. Michele in Isola, a Venezia. Michele era allora un cenacolo di intellettuali: il patriziato veneziano lo sceglieva come luogo di sepoltura, l’abate, Pietro Dolfin, era un dotto umanista, Maffeo Gerardo, che vi fu priore, divenne poi patriarca di Venezia
e cardinale. Entrare nelle grazie dei Camaldolesi significava assicurarsi una committenza esigente ma ricca. Non dovette risultare difficile al Codussi che, primo a Venezia, si ispirò all’insegnamento di Leon Battista Alberti. La chiesa che costruí per i monaci tra il 1469 e il 1478 fece la sua fortuna. Il modello armonioso della facciata tripartita da lesene e sormontata da un timpano a semicerchio piacque, e fu poi adottato anche per la chiesa di S. Zaccaria. I Camaldolesi avevano un antico debito con questa isoletta della Laguna veneta: il loro fondatore, san Romualdo, vi aveva abitato nel X secolo assieme al suo maestro, Marino, dedicandosi allo studio e alla mortificazione del corpo. Solo nel 1212 i monaci riuscirono però a stabilirvi una comunità. Degli edifici
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CATTEDRALI E ABBAZIE monastici precedenti all’intervento rinascimentale resta oggi molto poco: un portale gotico a fianco della facciata e un campanile in cotto riccamente decorato, risalente al 1460. Non sorprende che, dopo la soppressione ottocentesca del monastero, i Veneziani abbiano trasformato l’isola in cimitero cittadino: difficilmente si può trovare una simile oasi di pace tanto vicino a una grande città. Una lingua d’acqua salmastra aveva garantito per secoli ai Camaldolesi quella solitudine che altrove dovevano cercare sulla cima delle montagne.
FORLÍ s. mercuriale
D
orme un sonno sereno Barbara Manfredi sotto le arcate di S. Mercuriale. Quando morí, nel 1466 a 22 anni, il marito, Pino III Ordelaffi, volle per lei non una tomba, ma un giaciglio splendido. Forlí si compiace oggi di mostrare al visitatore il suo volto di prospera e tranquilla città
La lunetta del portale della chiesa forlivese di S. Mercuriale. Il rilievo, che raffigura il sogno dei Magi e l’adorazione del Bambino, è opera del cosiddetto Maestro dei Mesi.
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padana, ma è lo stesso sepolcro di Barbara, rovinato dalle guerre degli ultimi due secoli, ad avvertirci che non è sempre stato cosí. Fino al primo Novecento una colonna si ergeva sulla piazza di fronte a S. Mercuriale per ricordare un antico fatto di sangue. Indicava il luogo di sepoltura dei soldati francesi massacrati nel 1282 dai Forlivesi ghibellini. Il monastero, di cui faceva parte l’attuale chiesa, sorse prima della fine del IX secolo fuori dalla città, in corrispondenza di un antico cimitero cristiano ove riposavano le spoglie del santo vescovo Mercuriale. Quella che vediamo oggi è la chiesa romanica costruita alla fine del XII secolo, quando nell’abbazia si insediarono i Benedettini riformati vallombrosani. L’interno sorprende il visitatore con la sua altezza, ma è molto semplice e spoglio. Le navate laterali nascondono però due veri e propri gioielli rinascimentali. Uno è il monumento funebre di Barbara Manfredi, l’altro è la cappella detta dei «Ferri» (nella quale si conserva un dipinto di Marco Palmezzano). Entrambi risaltano, contro le pareti in laterizio delle navate, per la lucentezza del loro marmo delicatamente inciso.
In alto Forlí. La facciata della chiesa di S. Mercuriale, a fianco della quale si innalza lo slanciato campanile a pianta quadrata, alto oltre 70 m.
Testimone di un passato irrequieto e indipendente la chiesa di S. Mercuriale si fa oggi portatrice di nuovi valori cittadini: la quiete e il rispetto. Perfino i Re Magi, scolpiti nel 1230 sulla lunetta del portale, compiono un atto di deferenza borghese: al cospetto di Gesú Bambino si tolgono, molto educatamente, il regale copricapo.
VALLOMBROSA (FI) abbazia di s. maria assunta
A
lla fine del Settecento i signori inglesi in visita di piacere a Firenze lasciavano talvolta il docile paesaggio lungo le rive dell’Arno per salire in montagna. A Vallombrosa i piú romantici trovavano un luogo di sogno: sterminate foreste e ospitali monaci vestiti di nero, custodi di una religiosità che essi non conoscevano. Piú o meno ciò che vi si può trovare anche oggi; piú o meno quello che cercava san Giovanni Gualberto quando vi giunse poco dopo il Mille. Il santo, già monaco a S. Miniato presso Firenze, fuggiva dalla ricca campagna fiorentina, disgustato dalla corruzione del suo clero. A Vallombrosa, trovò finalmente un luogo solitario e aspro, adatto alla penitenza, ma abbastanza vicino alla città, cosí da potervi predicare spesso: il luogo ideale per un’abbazia. Il messaggio di Giovanni Gualberto ebbe fortuna: in breve Vallombrosa riuní sotto un’unica congregazione monasteri sparsi per tutta l’Italia. Nel Medioevo il cenobio visse il suo periodo piú glorioso. Ci si aspetterebbe perciò di incontrare a Vallombrosa un’architettura romanica, rispettosa dell’austerità del suo fondatore: vi domina invece lo sfarzo barocco. A differenza di da altri monasteri questo mantenne una certa vitalità economica anche in età moderna, fornendo ai monaci i mezzi per ricostruire la chiesa secondo il nuovo gusto. Particolarmente ricca è la cappella di S. Giovanni Gualberto con i suoi stucchi dorati e i suoi affreschi.
In questa pagina, dall’alto una veduta panoramica dell’abbazia di Vallombrosa (Firenze) e un particolare dell’interno della chiesa, che oggi appare in forme barocche. CATTEDRALI E ABBAZIE
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L’Italia delle abbazie A sinistra l’abbazia di Vallombrosa (Firenze) in una incisione seicentesca. In basso la facciata della chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno, a Pisa, la cui architettura richiama quella del Duomo cittadino.
È un miracolo trovare opere tanto elaborate a questa altitudine (quasi 1000 m): il freddo rendeva impossibile il lavoro per diversi mesi dell’anno. Alcuni viaggiatori inglesi identificavano, nei loro resoconti di viaggio, i Vallombrosani con l’oscurantismo papista. Essi dimenticavano però i molti studi scientifici condotti dai
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monaci e, forse, ignoravano che tra le mura di Vallombrosa aveva studiato anche il giovane Galileo.
PISA s. paolo a ripa d’arno Nell’XI e nel XII secolo Pisa era una potente città guerriera, lanciata alla conquista del Mediterraneo. Molte delle
sue chiese furono costruite in questa età felice: non sorprende che i Pisani ne facessero dei mausolei delle loro vittorie. Sulla facciata del duomo campeggiano i versi commemorativi delle vittorie sui saraceni, su quella della chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno un rilievo bizantineggiante ricorda i frequenti contatti con l’Oriente greco. L’architettura di S. Paolo, ascrivibile al pieno secolo XII, richiama per molti versi quella del Duomo: arcate cieche nell’ordine inferiore della facciata, logge in quello superiore, decorazioni a losanghe. I monaci vallombrosani che la officiavano, inoltre, non erano meno devoti del clero secolare alla memoria delle imprese militari pisane. La chiesa di S. Paolo apparteneva a una comunità monastica attestata a partire dal quarto decennio dopo il Mille. Il monastero, sorto sulla riva sinistra dell’Arno, in una zona priva di abitazioni, aveva potuto espandersi
liberamente. In breve si era conquistato uno spazio considerevole, costellato di chiese e cappelle. Gran parte di queste costruzioni sono state distrutte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. La cappella di S. Agata, in origine al centro del chiostro sul retro della chiesa, si è miracolosamente salvata. Secondo la tradizione, il teschio della santa sarebbe stato portato in città nel 1063, dopo una vittoria della flotta pisana a Palermo; i monaci, aggiudicatasi la reliquia, avrebbero fatto costruire questo oratorio per conservarla. Poco importa che sant’Agata fosse venerata a Catania e non a Palermo e che il grazioso ottagono della cappella sia ascrivibile piú al secolo XII che all’XI: anche i monaci di S. Paolo potevano sostenere di aver ottenuto dai trionfi pisani la loro preda.
CHIARAVALLE DI FIASTRA (MC) abbazia dell’annunziata
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ra i piú puri esempi dell’architettura cistercense in Italia, l’abbazia di Chiaravalle di Fiastra è uno degli insediamenti monastici meglio conservati e soprattutto meglio documentati, grazie all’eccezionale corpus delle Carte Fiastrensi, costituito da oltre 3000 pergamene. Già nel IX secolo esisteva in loco una chiesetta dedicata alla Madonna, ma fu grazie alla donazione fatta nel 1142 per la remissione dei propri peccati da parte di Guarniero III, duca di Spoleto e marchese di Ancona, di terreni compresi tra i fiumi Fiastra e Chienti, che dodici monaci cistercensi provenienti dalla casa madre di Chiaravalle di Milano cominciarono a edificare l’abbazia, preoccupandosi inoltre di bonificare le terre circostanti, allora paludose e malsane. Costruito recuperando grandi quantità di materiali dalla vicina Urbs Salvia (poi Urbisaglia), all’insegna dell’austerità e dell’armonia data dalle proporzioni numeriche, il complesso fu organizzato attorno al chiostro, sul quale affacciavano a est la sala capitolare, a sud i due refettori dei monaci e dei conversi e a ovest i dormitori. Il corpo
longitudinale della chiesa – impostata tramite la divisione e la moltiplicazione della figura geometrica del quadrato, come dimostrano le quattro absidi angolari che affiancano il coro e la perfetta simmetria fra la larghezza interna del transetto e il lato interno del chiostro – fu costruito invece in corrispondenza del lato nord, cosí da non gettare ombra sugli altri edifici. L’originaria semplicità si ritrova anche nella facciata a capanna spezzata, realizzata secondo l’uso lombardo in cotto rossiccio, e impreziosita solo da un rosone in marmo formato da una raggiera di dodici colonnine e da un ricco portale strombato, ora visibile solo dopo aver oltrepassato il nartece, aggiunto nel XV secolo.
Dall’alto il chiostro e la facciata della chiesa dell’abbazia di Chiaravalle di Fiastra (Macerata), una delle migliori espressioni dell’architettura cistercense in Italia.
FARFA (RI) abbazia di s. maria di farfa
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l passato di potenza e di splendore dell’abbazia benedettina di Farfa risulta eccezionalmente documentato grazie al lavoro instancabile di Gregorio da Catino, che, accolto giovanissimo nel monastero dall’abate Berardo (10481089), si dedicò per oltre cinquant’anni alla compilazione di un mirabile corpus di cronache e repertori con cui si ripercorreva non solo la storia dell’insediamento attraverso la trascrizione di centinaia di privilegi, CATTEDRALI E ABBAZIE
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L’Italia delle abbazie
In alto una veduta panoramica dell’abbazia di Farfa (Rieti). A sinistra uno scorcio della navata della chiesa dell’abbazia di Farfa, che è stata ristrutturata in epoca rinascimentale, mentre il coro conserva le volte e le finestre gotiche. Sorretto da colonne di spoglio, il ciborio presenta sulla cuspide un rilievo altomedievale raffigurante l’Ascensione della Madonna. Nella pagina accanto l’abbazia cistercense di Casamari (Frosinone).
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esenzioni e donazioni, ma si permetteva una piú agevole amministrazione dell’immenso patrimonio fondiario. Favorita infatti dapprima dai duchi longobardi di Spoleto e passata successivamente sotto la tutela di Carlo Magno, che nel 775 le conferí anche lo speciale privilegio della defensio imperialis, l’abbazia di Farfa fu per lungo tempo liberata da ogni ingerenza del potere civile e religioso. Di qui il suo prestigio e la sua ricchezza – pari nel regno italico, a detta delle fonti, solo a quelli dell’abbazia di Nonantola – che si manifestarono non solo con il controllo di beni in tutto il centro Italia, ma addirittura con il possesso di una nave commerciale esentata dai dazi nei porti dell’impero carolingio. Schieratasi al tempo della lotta per le investiture con il partito imperiale, a seguito del concordato di Worms (1122) fu suo malgrado ricondotta sotto il diretto dominio dei pontefici, che spesso avocarono alle proprie finanze le risorse dell’abbazia,
avviandola cosí a una lenta ma inesorabile decadenza. Della splendida basilica carolingia restano soltanto l’abside (fuori del perimetro dell’attuale chiesa), la cripta a forma semianulare, una delle primitive due torri campanarie con all’interno importanti affreschi di scuola romana dell’XI secolo raffiguranti scene bibliche e l’Ascensione, le belle colonne di granito e di marmo cipollino, nonché, in corrispondenza dell’attuale transetto, il ricco pavimento originale lavorato a opus sectile sempre dell’XI secolo. L’edificio fu infatti ricostruito nel 1494 in forme rinascimentali per volontà degli Orsini – commendatari dal 1421 al 1553, il cui stemma troneggia al centro del bel soffitto in oro e azzurro a cassettoni – mutandone l’orientamento e trasformando in transetto l’antica navata.
CASAMARI (FR) abbazia cistercense
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ra il 1030 e il 1036 nasceva, per iniziativa di quattro sacerdoti della
vicina città di Veroli, un cenobio sul luogo dell’antica Cereate, patria del console romano Caio Mario e perciò detta anche Casa Marii. Già nel 1060 l’insediamento otteneva da papa Nicolò II il preceptum libertatis che lo poneva sotto la speciale protezione della Chiesa, esentandone i beni da ogni altra giurisdizione e lunga è la serie di privilegi, donazioni e franchigie che dimostrano la singolare benevolenza verso l’abbazia da parte dei pontefici. Tanto favore non giovò però in spiritualibus alla comunità benedettina. Narra infatti la duecentesca Cronaca del Cartario che nel 1143 i «monaci neri» di Casamari erano divenuti disonesti, riottosi e dimentichi della salvezza della propria anima e che Eugenio III, trovato il monastero ridotto all’indisciplina, dilapidato nelle sostanze e fatiscente nei fabbricati, introdusse nell’anno 1152 i piú rigorosi «monaci bianchi» dell’Ordine cistercense. Il favore pontificio tornò a manifestarsi dapprima con Innocenzo III, che concedeva il generoso
contributo di 200 once d’oro per la costruzione della monumentale chiesa – iniziata nel 1203 a opera del monaco architetto Guglielmo da Milano – e della quale il papa stesso volle offrire e benedire la prima pietra. Mentre il 15 settembre 1217 Onorio III consacrava solennemente alla presenza di 24 fra cardinali, vescovi e arcivescovi l’abbaziale, che divenne, insieme a quella di Fossanova, punto di irradiamento delle forme gotico-borgognone nel Sud dell’Italia. Del complesso monastico, sostanzialmente integro, restano la sala capitolare, il refettorio, i dormitori e il bellissimo chiostro quadrato, circondato da un elegante portico con colonnine binate sormontate da capitelli finemente intagliati, tra i quali famoso è quello sul lato meridionale, decorato con piccole teste, raffiguranti secondo la tradizione l’abate Giovanni V, Pier delle Vigne e l’imperatore Federico II, particolarmente legato all’Ordine cistercense, che nel 1222 aveva chiesto l’affiliazione all’abbazia. CATTEDRALI E ABBAZIE
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VO MEDIO E Dossier n. 63 (luglio/agosto 2024) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Cécile Caby è professoressa di storia medievale alla Sorbonne Université di Parigi. Enrico Faini è professore associato di storia medievale all’Università degli Studi di Firenze. Sonia Merli è storica del Medioevo. Chiara Piccinini è professoressa di storia dell’arte medievale all’Université Bordeaux Montaigne. Illustrazioni e immagini Doc. red.: copertina (e pp. 64/65) e pp. 6-9, 13 (alto, a destra, e basso), 15 (alto, a sinistra, e basso), 17, 18-21, 23 (basso), 24-25, 26 (destra), 28, 28/29, 33, 34 (basso), 36, 38-41, 42, 44-47, 49, 51 (basso), 54 (alto), 55 (alto), 58/59, 62, 66-69, 70, 73, 74 (alto), 89 (alto), 90-93, 96, 97 (basso), 98-105, 106, 107 (alto), 108 (alto), 109, 110, 110/111, 112-127; Giorgio Albertini: tavole alle pp. 10/11, 60/61 – Shutterstock: pp. 4/5, 13 (alto, a sinistra), 14, 15 (alto, a destra), 16, 26 (alto, a sinistra), 27, 31, 50, 52-53, 55 (basso), 56-57, 74 (basso), 75, 76-79, 89 (basso), 97 (alto), 128-129 – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: pp. 22, 32/33; Album/Collection KharbineTapabor: p. 23 (alto); AKG Images: pp. 29, 30, 30/31, 36/37, 48, 81, 86, 88, 94; Electa/ Nicolò Orsi Battaglini: pp. 34 (alto), 35; Darchivio/opale.photo: p. 43; Cortesia MIC/ Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 82; Album/British Library: p. 83; Album/ Prisma: p. 84; Mauritius Images/Mirko Costantini: p. 85; Mauritius Images/Moreno Geremetta: pp. 86/87; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Paolo Manusardi: p. 95; Archivio Mauro Magliani/Mauro Magliani: p. 107 (basso); Electa/Paolo e Federico Manusardi: p. 108 (basso); Mauritius Images/René Mattes: p. 111 – National Gallery of Art, Washington: p. 51 (alto) – Alamy Stock Photo: p. 54 (basso) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 12, 63, 71, 72
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com - tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevodossier; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49 57 20 16 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta, scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina: l’abbazia di S. Michele della Chiusa (o Sacra di S. Michele), fondata sul finire del X sec. all’imbocco della Val di Susa, non lontano da Torino.
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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