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MARCO POLO LA GRANDE AVVENTURA a cura di Francesco Colotta testi di Alvaro Barbieri, Vito Bianchi, Furio Cappelli, Franco Cardini, Claudio Costa, Elisabeth Crouzet-Pavan e Lorenzo Pubblici
8. Sulla Via della Seta Nei luoghi del Milione 16. Storia di un mercante Uno sguardo nuovo 24. Venezia Quando Venezia si prende la scena 48. Mercante, esploratore e scrittore 48. «Di quei paesi riferiva tutto a milioni» 56. Fino ai confini del mondo 66. Come in una fiaba 74. Gregorio X Incontro in Terra Santa 80. Arghun Il Mongolo quasi crociato 84. Alla scoperta del Catai Cosí la Cina divenne… vicina 108. Il Milione degli animali Quante meravigliose creature! 118. Le grandi esplorazioni Viaggiatori coraggiosi
GLI UOMINI E I VALORI DI UN GRANDE PASSATO
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a vocazione al viaggio era sentimento diffuso nel Medioevo. Come sottolinea Franco Cardini, la vera protagonista dell’età di Mezzo «è la strada» che si percorre per spirito d’avventura, per devozione religiosa, per cercare fortuna, per affari, per… vivere. L’identikit del viaggiatore di quei secoli corrisponde al profilo di nobili, contadini, soldati, mercanti, fedeli, monaci, ai quali si affiancavano veri e propri professionisti dell’esplorazione. Compiono escursioni in regioni ignote anche i grandi capolavori della letteratura del Medioevo: Dante Alighieri nella Divina Commedia percorre un itinerario allegorico nell’universo ultraterreno; Geoffrey Chaucer nei suoi Canterbury Tales compone i racconti di un gruppo di
La Grande Muraglia (Changcheng), opera simbolo dell’antica Cina, della quale Marco Polo non fa cenno nel Milione. Un’assenza che continua ad alimentare il dibattito fra chi sostiene che il viaggiatore veneziano avesse comunque visto qualche tratto della fortificazione e chi, invece, è dell’avviso che non l’avessa mai incontrata nel corso dei suoi spostamenti nel territorio cinese.
pellegrini diretti alla tomba di Tommaso Becket; mentre Marco Polo nel Milione attraversa di persona nuove rotte commerciali nel lontano Oriente e ne narra le meraviglie. Proprio del grande viaggiatore veneziano si celebrano oggi i 700 anni dalla scomparsa, avvenuta il 9 gennaio 1324 nella casa di famiglia, subito dopo aver dettato le ultime volontà al sacerdote Giovanni Giustinian. L’anniversario verrà commemorato con un ricco calendario di mostre, convegni, spettacoli teatrali, letture pubbliche, patrocinati da istituzioni nazionali e locali. Anche «Medioevo» partecipa alla speciale ricorrenza, dedicando a Marco Polo il primo Dossier dell’anno, con contributi di storici illustri e una vasta indagine sulla matrice culturale della sua formazione di mercan-
te, esploratore e scrittore: la città di Venezia, il luogo in cui nacque, crebbe e dove la sua epopea volse al tramonto. 700 anni dopo, il profilo di Marco Polo non appare sbiadito dal tempo, ma spicca per la sua sorprendente «modernità». Nel Milione, uno dei primi bestseller internazionali, gli affascinanti resoconti sui costumi dei popoli d’Oriente risultano privi di quei pregiudizi che frequentemente correlavano le relazioni dei viaggiatori del tempo. Ai Mongoli e ai Saraceni, avvolti nel comune sentire occidentale da una fama agghiacciante, si guarda con interesse per il loro ricco patrimonio di tradizioni, anticipando quel gusto esotizzante che troverà ampia diffusione nell’Europa del Settecento. Emblema-
tiche, in proposito, si rivelano le dettagliate descrizioni delle usanze cinesi in materia sessuale, rese quasi con piglio antropologico: le donne che si offrono carnalmente per onorare lo straniero, il biasimo tibetano per le ragazze che arrivano vergini alle nozze, l’istituto della poligamia… Oggi, nell’era dei navigatori satellitari, dei viaggi virtuali on line, sopravvive il fascino del Milione. Da molti recepito solo come un racconto di avventura è, in verità, molto di piú: un’enciclopedia, un trattato geografico, un trattato di storia, per giunta incompleto. «Non ho raccontato neppure la metà di ciò che ho visto – avrebbe, infatti, confessato Marco Polo prima di morire – perché sapevo che nessuno ci avrebbe creduto».
Nei luoghi del Milione
L’inconfondibile profilo di Istanbul, al tramonto. Dalla città sul Bosforo ebbe inizio il viaggio raccontato nel Milione: «Al tempo che Baldovino era imperadore di Gostantinopoli – ciò fu ne gli anni di Cristo 1250 –, messere Niccolaio 8
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Polo, lo quale fu padre di messere Marco, e messere Matteo Polo suo fratello, questi due fratelli erano nella città di Gostantinopoli venuti da Vinegia con mercatantia, li quali erano nobili e savi sanza fallo. Dissono fra loro e
ordinorono di volere passare lo Gran Mare per guadagnare, e andarono comperando molte gioie [gemme e pietre preziose] per portare, e partironsi in su una nave di Gostantinopoli e andarono in Soldania [Sudak, in Crimea]».
Quest’ultima città, situata a ovest di Caffa, era un emporio frequentato dai Polo, i quali vi avevano un magazzino, ed era un centro molto importante per i mercanti che lavoravano in questa zona. MARCO POLO
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Nei luoghi del Milione Spezie in vendita nel Gran Bazar di Tabriz, nell’odierno Iran, e capitale della Persia mongola al tempo di Marco Polo. Il commercio delle spezie – pepe, cannella, zenzero, noce moscata, ma anche gomme, profumi, sostanze medicamentose… – costituí una delle piú importanti attività dei mercanti veneziani, i quali se ne rifornivano ad Alessandria, nelle colonie del Mar Nero o a Beirut. Dopo la crisi innescata dal tentativo portoghese di monopolizzare questi lucrosi traffici, la Serenissima tornò ad avere una posizione di assoluta preminenza. Nel Milione vi sono innumerevoli citazioni riguardanti le spezie, come quando si descrive una bevanda diffusa nel Catai: «Egli fanno una pogione di riso e co molte altre buone spezie, e cóncialla in tale maniera ch’egli è meglio da bere che nullo altro vino».
Un tipico paesaggio rurale nei pressi di Balkh, cittadina dell’odierno Afghanistan, che, fin da epoca molto antica, fu una delle tappe principali lungo le direttrici seguite dalle carovane che assicuravano i traffici commerciali fra Oriente e Occidente. Vi transitò anche Marco Polo, che cosí descrive la regione: «Quando si passa per questa terra, 10
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l’uomo cavalca bene 12 giornate tra levante e greco, che no si truova nulla abitazioni, perché gli uomini, per paura de la mala gente e degli osti, sono tutti iti a le fortezze de le montagne. In questa via àe acqua asai e cacciagioni e leoni. In tutte queste 12 giornate non truovi vivande da mangiare, anzi conviene che si porti».
Donne che indossano il burqa nei pressi di una moschea di Balkh. Marco Polo, che la chiama Balac, dedica alla città uno dei brani del Milione, nel quale fa mostra di essere a conoscenza del suo glorioso passato: «Balac fue già una grande città e nobile piú che non è oggi, ché li Tartari l’ànno guasta e fatto grande danno. E in questa cittade prese Alesandro per moglie la figliuola di Dario, siccome dicono quegli di quella terra. È addorano Maccometto. E sappiate che fino a questa terra dura la terra del signore delli Tartari del Levante, e a questa cittade sono li confini di Persia entr[o] creco e levante». Il «grande danno» allude alla devastante incursione dei Mongoli di Gengis Khan, nel 1220, che sterminarono gli abitanti e rasero al suolo le mura della città.
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Nei luoghi del Milione
Una veduta della catena montuosa del Karakorum, che Marco Polo oltrepassò, raggiungendo il Catai, ovvero la Cina. Questa la descrizione della città omonima, detta Carocaron: «Carocaron è una città che gira tre miglia, nella quale fue lo primo signore ch’ebbero i Tartari, quando egli si partiro di loro contrada. E io vi conterò di tutti li fatti delli Tartari, e com’egli ebbero segnoria e com’egli si sparsero per lo mondo. È fu vero che gli Tartari dimoravano in tramontana, entro Ciorcia [sede originaria dei Mongoli, dal nome dei Ju(r)cen, tribù tungusa fondatrice della dinastia]; e in quelle contrade àe grandi piagge, ove non è abitagione, cioè di castelle e di cittadi, ma èvi buon[e] past[ure] e acque assai. Egli è vero ch’egli none aveano signore, ma faceano reddita a uno signore, che vale a dire in francesco Preste Gianni; e di sua grandezza favellava tutto ’l mondo. Li Tartari li davano d’ogni 10 bestie l’una». 12
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Lago Karakul, altopiano del Pamir, Tagikistan. Un villaggio di iurte, le tipiche tende cilindroconiche, aperte alla sommità, usate come abitazioni dalle popolazioni kirghize e mongole. A questo proposito, scrive Marco Polo: «Da che ò cominciato de’ Tartari, sí ve ne dirò molte cose. Li Tartari dimorano lo verno in piani luoghi ove ànno erba e buoni paschi per loro bestie; di state in luoghi freddi, in montagne e in valle, ov’è acqua e (a)sai buoni paschi. Le case loro sono di legname, coperte di feltro, e sono tonde, e pòrtallesi dietro in ogni luogo ov’egli vanno, però ch’egli ànno ordinate sí bene le loro pertiche, ond’egli le fanno, che troppo bene le possono portare leggeremente. In tutte le parti ov’egli vogliono queste loro case, sempre fanno l’uscio verso mezzodie. Egli ànno carette coperte di feltro nero che, per che vi piova suso, non si bagna nulla che entro vi sia. Egli le fanno menare a buoi e a camegli, e’n su le carette pongono loro femmine e loro fanciugli».
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Nei luoghi del Milione
Sulle due pagine il Padiglione Jixian a Hangzhou, città che destò grande ammirazione in Marco Polo: «La sopranobile città di Quinsai (...) è la piú nobile città del mondo e la migliore. (...) Verso mezzodie àe un lago che gira ben 30 miglia, e tutto d’intorno à be’ palagi e case fatte meravigliosamente, che sono di buoni uomini gentili; 14
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ed àvi monisteri e abadie d’idoli in grande quantità. Nel mezzo di questo lago à due isole: su ciascuna à uno molto bel palagio e ricco, sí ben fatto che bene pare palagio d’imperadore. E chi vòle fare nozze o convito, fàllo in questi palagi; e quini si [è] sempre forniti di vasellamenti, di scodelle e di taglieri e d’altri fornimenti».
In alto una veduta della suggestiva foresta pietrificata di Shilin, nello Yunnan, nell’alta valle dello Yang-Tze. Marco Polo giunse in questa regione intorno al 1280, scoprendo una provincia nella quale prosperavano le coltivazioni, popolata da innumerevoli specie animali, nella quale si sopperiva all’assenza di vigneti, distillando grano e riso.
Qui sopra una veduta tipica di Suzhou, la Sugni di Marco Polo: «Sugni è una molto nobile città. È sono idoli e al Grande Kane; moneta ànno di carte. Elli ànno molta seta e vivono di mercatantia e d’arti; molti drappi di seta fanno. Ell’è sí grande, ch’ella gira 60 miglia, e v’à tanta gente che neuno potrebbe sapere lo novero». MARCO POLO
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a sempre, di Marco Polo si glorificano le gesta del viaggiatore che spalancò le porte del misterioso Oriente. Sul narratore del Milione – di cui quest’anno celebriamo i settecento anni dalla morte, avvenuta il 9 gennaio del 1324 – è disponibile una saggistica sterminata che riporta principalmente dati biografici, informazioni delle terre visitate e dei governanti con cui l’ingegnoso mercante intraprese le sue relazioni commerciali, politiche e culturali. Una prospettiva diversa, nuova e del tutto originale viene, invece, oggi offerta dal recente volume Le Venezie di Marco Polo. Storia di un mercante e delle sue città del medievista Ermanno Orlando, e del quale pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore il Mulino, alcuni stralci tratti dall’introduzione. La narrazione di Orlando rovescia i tradizionali paradigmi storiografici sull’argomento: al centro della trattazione non si erge soltanto la figura del grande esploratore con i suoi rinomati itinerari, ma l’ambiente nel quale trascorse l’età giovanile e il periodo dai suoi quarant’anni fino alla morte. A essere scandagliato è il substrato culturale della città lagunare nel Duecento e nel Trecento, contraddistinto dall’ambizione politica di una superpotenza che si stava aprendo a un mondo sempre piú globalizzato. In questo humus fecondo vengono forgiati il carattere e il talento di Marco Polo: la passione per il mare, la competizione commerciale, il rischio di iniziativa, l’attitudine al coraggio e all’avventura sono valori che influenzarono non solo l’autore del Milione, ma tutti i mercanti veneziani dell’epoca. Ecco perché la celebrazione di Marco Polo deve declinarsi come apologia di Venezia, o meglio delle Venezie, ovvero le terre apparentate alla Serenissima che il nostro mercante ebbe a frequentare: dal Mediterraneo al Mar Nero scorrono i nomi di località come Soldaia, Tana, Trebisonda, Tabriz, Laiazzo, San Giovanni d’Acri, Costantinopoli. Per comprendere l’epopea di Marco Polo, dunque, non si può che partire dalla storia di Venezia…
Uno sguardo nuovo
Miniatura raffigurante alcuni navigatori nell’Oceano Indiano, che si orientano servendosi delle stelle e di un astrolabio, dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo miniata dal Maestro della Mazarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. MARCO POLO
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Storia di un mercante
«Stando nella prigione di Genova» di Ermanno Orlando
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La lapide che ricorda la dettatura del Milione affissa su una delle pareti esterne di Palazzo San Giorgio, a Genova, nel quale Marco Polo venne recluso dopo essere stato fatto prigioniero nella battaglia di Curzola (1298). La targa venne affissa il 12 ottobre 1926.
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oteva essere l’autunno del 1298. Genova celebrava l’ennesima vittoria sull’acerrima rivale Venezia. Agli inizi di settembre, nelle acque di Curzola, in pieno Adriatico, la flotta nemica era stata spazzata via «senza speranza alcuna di riscossa». Ben poche galee riuscirono a scampare al disastro «dandosi alla fuga». Migliaia i morti. Ancora di piú i prigionieri: secondo alcuni 5000; secondo altri, addirittura 16 000. Tra questi, forse, Marco Polo, tradotto anch’egli nelle carceri genovesi, a Palazzo della Fontanella, dove già giacevano sti-
Invero, non è nemmeno del tutto sicuro che la cattura del viaggiatore veneziano fosse avvenuta a Curzola, nel settembre 1298. Forse la prigionia datava già da qualche anno, almeno dal 1296, a stare alle notizie fornite dal domenicano Iacopo d’Acqui, che nel suo Chronicon imaginis mundi (1334 circa) riferisce di uno scontro fra «galee di mercanti» combattuto di fronte a Laiazzo in cui sarebbe rimasto preda di pirati genovesi, i quali, allo stesso modo, lo avrebbero condotto in ceppi nelle prigioni della città ligure (versione, peraltro, piú confacente ai tempi di
pati 9.000 pisani, lí rinchiusi da oltre un decennio, sin da quando, nel 1284, Genova aveva sbaragliato Pisa alla Meloria. In quel luogo Marco aveva incontrato Rustichello da Pisa, letterato e uomo di penna, che prestava servizio nello scriptorium allestito in carcere dai detenuti pisani, a cui, come un fiume in piena, aveva dettato le memorie dei suoi viaggi fantastici nel continente asiatico, sino alla piú remota Cina: «stando nella prigione di Genova, fece mettere inniscritto tutte queste cose a messere Rustico da Pisa, lo quale era preso in quelle medesime carcere ne gli anni di Cristo 1298».
redazione del libro, che altrimenti dovremmo supporre molto brevi, vista la rapida liberazione di Marco in seguito alla pace di Milano sottoscritta tra Genova e Venezia il 25 maggio 1299). Poco importa la durata della cattività genovese. Rimane il fatto incontrovertibile: Marco nel 1298 era prigioniero a Genova, dove, in attesa di un riscatto o di una pace (come sarebbe avvenuto) che mettesse fine alla sua reclusione, aveva partorito, assieme al pisano Rustichello, uno dei libri piú straordinari e fortunati del medioevo occidentale, il Devisement du monde, meglio conosciuto come Il Milione. […]
Karakorum Venezia Costantinopoli
Trebisonda
Pechino
Samarcanda
Kashgar
Tabriz
Lanzhou Balkh
Acri Baghdad Hormuz
Hangzhou
Mare Arabico
Venezia-Acri-Hormuz-Pechino-Pagan
Golfo del Bengala
L’itinerario del viaggio compiuto da Marco Polo (1271-1295) con le tappe principali. In basso frontespizio di un’edizione del Milione tradotto in spagnolo dal teologo ed erudito Rodrigo Fernández de Santaella y Córdoba. 1503.
Mar Cinese Meridionale
Pagan-Pechino-Hormuz-Costantinopoli-Venezia
La pace firmata a Milano nel maggio 1299 tra Venezia e Genova prevedeva, tra le diverse clausole, l’immediato rilascio dei prigionieri. Marco era libero di rientrare in patria, portandosi appresso il prezioso manoscritto redatto durante la cattività. Se ne tornava con un testo incompiuto e per molti versi lacunoso; non c’era stato il tempo materiale per completare definitivamente l’opera e sottoporla a una revisione finale, necessaria per ripulire lo scritto, renderlo maggiormente omogeneo ed eliminare inesattezze, imprecisioni e sbavature di ritmo ed espressione. Avrebbe avuto tempo e modo di perfezionare il racconto una volta raggiunta la città natale. Nonostante le mancanze e imperfezioni, Il Milione godette sin da subito di uno straordinario successo, tanto da giustificarne le diverse traduzioni/versioni di cui ancora oggi disponiamo: in francese, franco-italiano, toscano, veneto e tedesco. Dell’originale scritto assieme a Rustichello, tuttavia, si perse molto presto ogni traccia. Lo si volle tradurre pure in latino, la lingua dotta per eccellenza, cosí da renderlo fruibile anche al pubblico internazionale dei colti e dei chierici e diffonderlo negli ambienti universitari. Della traduzione latina si fece carico, tra il 1310 e il 1317, su mandato dell’ordine, il domenicano Francesco Pipino da Bologna, che ne approntò una edizione manipolata, corrotta e in molte parti addomesticata, a misura e uso dei nuovi destinatari (nuova anche nel titolo De consuetudinibus et condicioniMARCO POLO
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Storia di un mercante
bus orientalium regionum). D’altronde, l’ordine dei predicatori aveva intuito sin da subito le potenzialità intrinseche (e forse anche la pericolosità) di quel libro cosí stupefacente, capace di squarciare il velo di mistero e ignoranza che ancora separava l’Occidente cristiano dal continente asiatico, rendendo di fatto accessibile e 20
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attrattivo quell’Oriente piú estremo che sino ad allora era languito nelle nebbie delle paure, dei pregiudizi, dei miti e delle leggende. Il Milione, infatti, una volta domato e asservito agli scopi missionari dell’ordine, poteva diventare un potente strumento non solo di conoscenza, ma anche di predicazione ed evangelizzazione
In alto un astrolabio di produzione iraniana. 17301775. New York, American Museum of Natural History Library. A sinistra miniatura raffigurante navi mercantili simili a quelle descritte da Marco Polo, da un’edizione de Li Livres du Graunt Caam, traduzione in antico francese del Milione. 1400 circa. Oxford, Bodleian Library.
nelle (sconfinate) nuove terre che ora si aprivano alla cristianizzazione. La versione latina del Milione non fu affatto l’unica rivista e contaminata. In tal senso, la palma sembrerebbe spettare all’edizione in volgare pubblicata a Venezia nel 1559 da Giovanni Battista Ramusio, contenuta in quella sorta di
editio variorum che sono le sue Navigazioni e viaggi. Sul Ramusio e la sua versione sono piovute addosso nel tempo le peggiori maldicenze: senza scrupoli il curatore quanto raffazzonata e interpolata l’edizione. Eppure, l’editio ramusiana risulta per molti versi intrigante, specie nell’ottica di questo libro – una celebrazione di Venezia, ancor prima di Marco –; quella sua militanza filo-veneziana, dai piú avvertita con fastidio e profondo sospetto, è il tratto che maggiormente ci affascina […]. Peraltro, non si tratta affatto di un patriottismo dissimulato, ma aperto, convinto e dichiarato, cosí da risultare meno subdolo e pericoloso: l’intento del Ramusio è esplicitamente quello di tessere le lodi di Marco in quanto veneziano e di farne un emblema di gloria patria. Nella sua versione si coglie per intero la fiera pietas erga patriam, la grandezza antica di Venezia e il suo ruolo egemone nell’agone mediterraneo; una dimensione eroica che nemmeno l’amarezza per un presente, di contro, cosí lontano dai fasti passati sembra in qualche modo illanguidire o rendere meno appetibile e seducente. La militanza del Ramusio è cosí invasiva da far scomparire del tutto l’apporto di Rustichello. Non c’è spazio nella sua versione per MARCO POLO
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Storia di un mercante
una figura tanto ingombrante come lo scrittore pisano; il libro fu sí redatto nelle prigioni di Genova, ma in latino e per mano di un anonimo estensore genovese, che frequentava quel luogo attratto dai racconti di Marco: «quel gentiluomo di Genova molto amico del predetto messer Marco, e che l’aiutò a scrivere e comporre latinamente il viaggio mentre era in prigione» […]
Apologia del mercante... e di Venezia
Se c’è un protagonista nel Milione questi è, naturalmente, Marco Polo stesso, «savio e·nnobile cittadino di Vinegia», o, in altro luogo, «nobile e grande cittadino della città di Vinegia». Ancor prima del Marco viaggiatore, tuttavia, a essere celebrato nel libro è il mercante. È lui l’eroe che sfida l’ignoto e l’infinito alla ricerca di nuovi guadagni, migliori profitti e inedite rotte commerciali. La sua è una attività che non conosce confini né di spazio né di tempo. Vive in una dimensione di perenne mobilità che finisce, immancabilmente, per ridisegnare la mappa del mondo conosciuto, allargandone ogni volta i confini e schiudendo nuovi orizzonti e nuove prospettive (di conoscenza, oltre che di commercio). Il mercator poliano è uomo saggio, curioso, intraprendente, se serve spregiudicato. È viaggiatore infaticabile, impavido, ardimentoso, capace di vivere gli scambi come avventura (e, nel suo caso, di trasformarli mirabilmente in racconto). È affabulatore, seduttore e fine conoscitore dell’animo umano (e non potrebbe essere altrimenti, visto che per vendere i suoi prodotti deve sapersi conquistare la fiducia dell’acquirente e magari anche ammaliarlo con i suoi modi di fare, i suoi discorsi e le sue storie). È scaltro ma anche prudente; sa rischiare, ma sulla base di calcoli attenti e ben ponderati; è uomo concreto e di esperienza, che non crede alle favole ma qualche volta le racconta (da buon imbonitore e piazzatore di merci). È elusivo se necessario e ciarliero quando occorre. Soprattutto, sa dischiudersi al mondo, anche a quello piú remoto, inaccessibile, misterioso e qualche volta anche respingente, contribuendo, di fatto, a quella reinvenzione dell’orbe e a quei processi di incipiente globalizzazione che si scorgono dovunque a partire dal pieno Duecento (non a caso, il secolo per antonomasia dei mercanti). Di Marco Polo, viaggiatore e mercante – mercator di fatto e di anima come è stato felicemente definito – si è scritto e detto di tutto. Ma, vale la pena ribadirlo, quel Marco non è un mercante qualunque, ma un «savio e·nnobile 22
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Miniatura raffigurante mercanti cinesi di grano e tessuti, da un’edizione del Le Livre des Merveilles illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
cittadino di Vinegia». L’elogio del mercante, infatti, diventa fatalmente nel Milione apologia della città che gli aveva dato i natali e che ne aveva forgiato lo spirito, l’indole, la cultura, le attitudini mentali, insomma, il genio. Marco è unico perché unica era Venezia. Dietro a Marco emerge con prepotenza quel substrato culturale e cognitivo che era proprio di ciascun veneziano del tempo […]. Affiora una civiltà di mercanti indaffarata, consapevole e (pre)potente, protagonista in quei decenni di un’epo-
pea di grandezza e dominio che merita allo stesso modo di essere raccontata. Perché Marco è Venezia. Perché se Marco incarna l’eroe che scardina le regole e le convenzioni sino a proiettarsi laddove nessuno aveva mai osato nemmeno avvicinarsi, riplasmando in tal modo i confini del mondo allora conosciuto, di questa riscoperta e ridefinizione dell’orbe, fatta a colpi di commercio, capitali investiti, dedizione, passione e abnegazione, la città lagunare è primattrice assoluta e indiscutibile.
DA LEGGERE Ermanno Orlando, Le Venezie di Marco Polo. Storia di un mercante e delle sue città, il Mulino, Bologna 2023 ISBN 978-88-15-38756-1 www.mulino.it
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Quando Venezia si prende la scena La città di Marco Polo conquista il suo ruolo di superpotenza grazie alle ripetute vittorie ottenute dalla sua flotta, alle quali si affianca una formidabile crescita economica. Mercanti e imprenditori determinati agiscono in un clima di straordinario dinamismo… di Elisabeth Crouzet-Pavan
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er evocare gli spazi marittimi sui quali si andò edificando la potenza di Venezia, i convogli di battelli, il porto e gli arrivi di prodotti mediterranei e orientali, vale la pena di cominciare con alcune immagini. Per tutti – uomini di ieri e di oggi –, esse proclamano che Venezia è la regina del mare; la rappresentano, come nell’affresco che Jacopo e Domenico Tintoretto immaginarono per il soffitto della Sala del Senato, nel Palazzo Ducale della città lagunare, nei panni di una sovrana che regna sui sudditi, mentre tritoni e nereidi vengono in corteo a recarle doni (vedi foto sulle due pagine). Nel cuore del Palazzo Ducale, là dove si decidono gli affari della Repubblica, nelle sale dove siedono i diversi consigli, sono stati affrescati grandi cicli pittorici che il visitatore può tuttora ammirare. E la storia della loro realizzazione è ben nota. Nel 1587, due patrizi illustri vengono incaricati di consultare le antiche cronache, per stilare l’elenco delle piú grandi battaglie navali combattute da Venezia. Si è infatti deciso di rinnovare la decorazione delle 24
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Il soffitto della Sala del Senato nel Palazzo Ducale di Venezia, al centro del quale spicca il Trionfo di Venezia regina dei Mari, affrescato da Jacopo e Domenico Tintoretto. 1581-1584.
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Venezia
PRONTI ALLO SCONTRO COL BARBAROSSA La tela di Francesco Bassano raffigurante papa Alessandro III mentre consegna la spada benedetta al doge Sebastiano Ziani si trova nella Sala del Maggior Consiglio, nel Palazzo dei Dogi, e fu realizzata nel corso degli anni Ottanta del XVI secolo, e precisamente fra il 1584 e il 1587, riprendendo un soggetto già scelto da Gentile Bellini alla fine del Quattrocento. Il dipinto di Bassano è, infatti, molto vicino a quella prima versione dell’opera: esso mostra il doge mentre si appresta a condurre, per conto del papa Alessandro III, l’armata veneziana alla battaglia contro l’imperatore Federico Barbarossa. Il pontefice gli sta consegnando la spada, mentre dietro si scorge una lunga processione di gentiluomini, con il palazzo e la basilica in prospettiva. Una numerosa folla assiste alla scena. Il fatto che l’episodio sia leggendario non impedisce che i Veneziani lo abbiano reputato veritiero e che sia stato raccontato dalle antiche cronache e illustrato da diversi dipinti. Proprio queste opere pittoriche, che rappresentavano «scene storiche», erano ritenute a Venezia prove indiscutibili. E quando si decideva di rifarle, perché erano state danneggiate dal tempo o distrutte da un incendio, si affidava spesso la nuova composizione a un pittore di grido, che doveva ispirarsi fortemente all’opera precedente. La libertà dell’artista era dunque assai ridotta.
due sale di Palazzo Ducale, tra le quali figura quella del Maggior Consiglio. Dieci anni prima un incendio aveva gravemente danneggiato la sede del governo e, nel 1587, dopo un lungo restauro, è giunto finalmente il momento di passare all’ornamentazione. Viene dunque commissionato a Paolo Veronese, Jacopo Tintoretto e Francesco Bassano un programma di pitture destinato a illustrare la lunga serie di vittorie, quasi tutte marittime, che, dalle origini, hanno scandito la storia della città. Del resto, un decoro di questo tipo non costituiva una novità. Già da tempo, infatti – fin da quando, nel 1365, la sala del Maggior Consiglio era stata ornata una prima volta – si era presa l’abitudine di illustrare in questi luoghi ufficiali la gloriosa storia della Repubblica.
Missione in Dalmazia
Ecco, ora, un’immagine della piú famosa cerimonia veneziana: la festa dell’Ascensione, ovvero la «Sensa». Ben presto, un particolare splendore caratterizza nelle lagune la celebrazione di questa ricorrenza, che sembra sia nata per commemorare la vittoriosa spedizione compiuta dal doge Pietro II Orseolo in Dalmazia (1000), prima tappa del processo che stava trasformando l’Adriatico in Golfo veneziano. Ogni anno, l’imbarcazione del doge attraversava il passaggio litoraneo di San Nicolò del Lido per rendere omaggio alle acque del mare che il vescovo, a sua volta, benediceva. Su questa an26
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Il doge, sul punto di salpare con la flotta contro il Barbarossa, riceve dal papa la spada benedetta, dipinto di Francesco Bassano il Giovane. XVI sec. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.
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LA SERENISSIMA NELL’ETÀ DI MEZZO 421, 25 marzo Data alla quale viene fissata la fondazione leggendaria di Venezia e che coincide con la costruzione della chiesa di S. Giacometo. 697 Elezione a Eraclea del primo doge Paulicio. 751 Il crollo dell’esarcato di Ravenna sotto la spinta longobarda accelera il processo di affrancamento delle isole lagunari dal dominio di Bisanzio. 810 Trasferimento a Rialto della sede governativa. 828 Giungono a Venezia, da Alessandria d’Egitto, le presunte reliquie di san Marco evangelista. 992 Crisobolla dell’imperatore bizantino Basilio II e del figlio coregnante Costantino VIII, concedente una tariffa preferenziale ai mercanti veneziani. 998-1001 Conquista della Dalmazia. 1082 Bolla aurea dell’imperatore d’Oriente Alessio I Comneno che privilegia il commercio veneziano. 1094 Consacrazione solenne della basilica di S. Marco alla presenza dell’imperatore Enrico IV. 1104 Presunta fondazione dell’Arsenale (il primo documento in proposito è del 1220). 1177 Incontro a Venezia del papa Alessandro III con l’imperatore Federico Barbarossa. 1202-1204 Partecipazione veneziana alla IV crociata che, deviata dagli scopi originari, vede la conquista e il saccheggio di Costantinopoli, da cui giungono a Venezia, fra gli altri, i quattro cavalli bronzei che ornano la facciata di S. Marco. 1211 Insediamento veneziano a Creta. 1295 Dopo oltre vent’anni d’assenza, Marco Polo ritorna a Venezia. 1298 La flotta genovese batte quella veneziana presso Curzola. 1348, marzo Inizia la spaventosa peste nera nella quale perisce, stando alle testimonianze, oltre la metà degli abitanti. 1381, 8 agosto Pace con Genova a conclusione del conflitto nel corso del quale questa aveva occupato Chioggia. 1404-1428 Annessione al dominio della Serenissima di Padova, Vicenza, Verona, Belluno, Feltre, Cividale, Udine, Salò, Brescia, Bergamo. 1464-1479 Cessione ai Turchi di Negroponte, delle Sporadi, di Lemno, Argo e, in Albania, di Croia e Scutari. 1489, 1° giugno Giunge a Venezia Caterina Cornaro, vedova dell’ultimo re di Cipro Giacomo Lusignano, che cede l’isola alla Repubblica. 1504 Oltre alla Puglia (Otranto, Brindisi, Trani, Monopoli), l’espansione di Venezia arriva alla Romagna.
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tica cerimonia, dopo le formidabili conquiste della quarta crociata, si innesta nel corso del XIII secolo il rito dello «sposalizio del mare». Il doge, d’ora in avanti, getta in mare un anello d’oro, simile a quello che il papa Alessandro III avrebbe donato al doge Sebastiano Ziani, in ricompensa dell’aiuto prestato da Venezia in occasione del conflitto tra il papato e l’imperatore Federico Barbarossa. Con questo gesto e pronunciando la formula «noi ti sposiamo, mare, in segno della vera e perpetua dominazione», ci si univa in matrimonio con il mare e, nel contempo, si rinnovava il ricordo del dominio di Venezia. Si potrebbero enumerare all’infinito i riti e i simboli che fanno della città lagunare la regina del mare; tutti la dipingono felicemente installata «sopra le acque salse», nel seno protettore dell’Adriatico.
La talassocrazia nel sangue
Non che il rapporto con il mare sia stato sempre, per tutti, cosí semplice e sereno. Le canzoni dei marinai, infatti, parlano in toni tremebondi della furia delle tempeste e dei terribili naufragi. Ciò non impedisce che si vada diffondendo presto un’idea dominante che le opere pittoriche, i testi e i rituali non si stancano di illustrare: il mare appartiene ai Veneziani, a quei marinai che, come dicono essi stessi, quando navigano nel Mediterraneo orientale si sentono come a casa. Caso unico fra tutti gli altri centri marittimi, questa città sviluppò dunque fino all’estremo un acuto senso della talassocrazia. Allo stesso modo, anche il culto del santo pa-
In alto miniatura raffigurante il doge Sebastiano Ziani che si reca al convento della Carità sul Bucintoro per rendere omaggio a papa Alessandro III. XVI sec. Venezia, Museo Correr. Nella pagina accanto il trasporto delle spoglie di san Marco da Alessandria a Venezia in una formella della Pala d’oro, voluta per decorare l’altare maggiore della basilica marciana. Realizzata nel 1105, fu poi arricchita nel 1209 con smalti provenienti da Costantinopoli.
trono, l’evangelista Marco, ebbe un ruolo importante nella formazione della coscienza di sé dei Veneziani. All’inizio del IX secolo, infatti, Venezia abbandona il suo primo patrono, il greco Teodoro, per porsi sotto la protezione di un santo latino, Marco, lo stesso che aveva evangelizzato le lagune. Secondo la tradizione, le reliquie dell’evangelista furono provvidenzialmente trasportate nell’828 da Alessandria a Rialto, dove venne costruita, in brevissimo tempo, la basilica destinata a ospitarle, quella di S. Marco, appunto. Il nuovo patrono serve dunque a emancipare da Bisanzio la giovane potenza veneziana, traduce, insomma, la sua volontà d’indipendenza. Ma la figura di san Marco viene anche utilizzata a beneficio delle imprese della flotta. Il racconto della translatio delle sue reliquie è, a questo riguardo, ricco di informazioni; esso descrive, tra l’altro, come i Veneziani siano riusciti a lasciare Alessandria con i santi resti, senza che le guar-
die musulmane battessero ciglio: per imbarcarli, ricorsero infatti a uno scaltro stratagemma, nascondendoli sotto un carico di carne di maiale. Al termine di un viaggio di ritorno punteggiato di miracoli, la comunità organizza ferventi cerimonie per celebrare il prezioso corpo santo, felicemente approdato a Rialto malgrado tutti i pericoli del mare. Cosa dedurne?
Un salvataggio miracoloso
Molto concretamente, questo racconto – che descrive la presenza, nel Mediterraneo orientale, di mercanti e bastimenti provenienti dalle lagune, già nel IX secolo –, testimonia la precoce forza del commercio veneziano; piú simbolicamente, esso annuncia anche che le imprese marittime dei Veneziani hanno ormai trovato un protettore privilegiato. In rotta verso l’Adriatico, le navi con il loro prezioso carico sono salvate dal naufragio dall’intervento del santo stesso. E, per decenni, la sacra reliMARCO POLO
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CITTÀ DEL LEONE E DEL NOCCHIERO L’episodio della «guerra delle reliquie» di san Nicola ben testimonia l’importanza del culto dei santi che proteggevano chi andava per mare. Bari conservava i resti di san Nicola e i Veneziani, che ne erano molto gelosi, approfittarono della prima crociata per organizzare, da Myra (città, oggi in Turchia, di cui Nicola fu vescovo e nella quale morí, n.d.r.), la traslazione solenne di altre reliquie del santo, che essi pretendevano fossero gli unici resti autentici. Fu subito scritto anche un testo nel quale si vantavano i benefici del doppio patronato sotto il quale Venezia era ormai posta. La città, scriveva l’agiografo, è oggi doppiamente felice; essa poggia, infatti, su due colonne: ha il leone (san Marco) che la rende vittoriosa in combattimento e il nocchiero (san Nicola) che non teme le tempeste.
San Nicola e san Pietro raffigurati in un particolare del Trittico dei Frari (pannello di sinistra), olio su tavola di Giovanni Bellini. 1488. Venezia, basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari.
quia fu in qualche maniera preposta alla protezione della città che nell’Adriatico subiva ancora gli attacchi di numerosi nemici. Tuttavia, alla fine del X secolo, la situazione si evolve. Venezia passa all’offensiva: le sue armi riportano i primi successi e il nome dell’evangelista vi è sempre associato. Quando il doge Pietro Orseolo II parte per una vittoriosa spedizione in Dalmazia, riceve dalle mani del vescovo lo stendardo di San Marco perché sventoli sui suoi successi militari. Sotto l’egida del suo patrono, la città moltiplica le imprese. E, da allora in poi, il nome, le raffigurazioni e i colori di Marco ne accompagnano l’espansione.
Una vocazione «naturale»
La vocazione marittima veneziana ha ragioni oggettive, per cosí dire fisiche. Città senza terra, che all’inizio non possedeva altra risorsa da offrire che il suo sale (vedi box a p. 38), Venezia si rivolse verso il mare: l’espansione marittima era la condizione dei suoi approvvigionamenti e della sua stessa sopravvivenza. Terra d’Oriente isolata in Occidente, seppe anche trarre profitto dal suo ruolo d’intermediaria, dai legami che la univano agli spazi bizantini. Ma, altrettanto presto, la comunità veneziana proclamò, e senza dubbio lo credeva fermamente, che essa aveva ricevuto il mare in sorte e che, sul mare, si sarebbe compiuto il suo destino. L’espansione comincia presto. Già nell’829, il testamento del doge Giustiniano Partecipazio attesta l’esistenza di traffici e di capitali «investiti nella navigazione in mare». Il bacino lagunare trae vantaggio dalla sua appartenenza all’impero bizantino: in effetti, soprattutto dopo la conquista dell’Italia da parte dei Longobardi, esso riveste un ruolo importante sia come sbocco che come sorgente di rifornimenti per l’impero d’Oriente. Dalla Laguna 30
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transita buona parte delle esportazioni bizantine verso l’Occidente (sete, spezie, metalli preziosi), mentre da Torcello e da Rialto partono per Bisanzio e per il Levante musulmano gli schiavi, il sale e il legno. Il volume degli scambi cresce rapidamente, grazie alle attività di redistribuzione dei Veneziani sulle grandi arterie fluviali dell’Italia settentrionale. I loro battelli risalgono fino a Pavia, dove approvvigionano la corte di mercanzie di lusso. Venezia commercia tanto con l’impero d’Oriente (un primo accordo fra il doge e Costantinopoli risale al 993) che con il mondo musulmano. Ma, sino alla fine dell’XI secolo, il grosso dell’attività marittima si svolge ancora in Adriatico, ove la flotta veneziana interviene anche militarmente, spingendosi fino nelle acque meridionali, dove le spetta il compito di assicurare la difesa dell’impero bizantino contro i Normanni. La crisobolla del 1082 ricompensa, infatti, i servizi resi (vedi box a p. 41). Le crociate segnano poi un altro momento importante. Almeno nella fase iniziale, la prima crociata non è molto favorevole agli interessi di Venezia, che vede la sua antica preponderanza rimessa in questione dalla concorrenza dei Pisani e dei Genovesi. Tuttavia, i mercanti veneziani ristabiliscono in breve le loro posizioni e, nei decenni centrali del XII secolo, ottengono profitti altissimi. Con i possessi latini di Siria e di Palestina, i traffici sono notevoli, ma è con l’Egitto e Costantinopoli che, per riprendere l’espressione di allora, viene il tempo del «gran guadagno». Primi sulle piazze di Alessandria e del Cairo, i Veneziani vendono materie strategiche, indispensabili alla costruzione navale e all’armamento – come gli schiavi –, acquistando
In basso Il leone di san Marco, olio su tela di Vittore Carpaccio. 1516. Venezia, Palazzo Ducale.
i prodotti locali (allume, lino, cotone) e i prodotti orientali che convergono sul mercato egiziano (spezie, sete). Nell’impero bizantino gli affari decollano. E, grazie ai vantaggi doganali dei quali sono stati gratificati, i Veneziani consolidano la propria posizione. La colonia di Costantinopoli si ingrandisce, diventando sempre piú ricca e numerosa. È però la quarta crociata (1204) ad assicurare definitivamente la supremazia di Venezia, trasformandola in una potenza imperialista. Certo, questo primato viene minacciato a piú riprese. Quattro guerre, fra la metà del XIII secolo e l’ultimo terzo del XIV secolo, oppongono Vene-
A METÀ FRA ACQUA E TERRA Il Leone di San Marco è il simbolo piú antico e universale della Repubblica di Venezia: rappresenta lo Stato, nella città e nelle terre poste sotto la dominazione veneziana, in una sorta di allegoria ripetuta all’infinito, ma è anche, e soprattutto, l’emblema del santo patrono. Il Leone di San Marco dipinto da Vittore Carpaccio (1516) traduce bene questo duplice messaggio. Provvisto di ali e di un’aureola, l’animale ricorda la protezione costante del santo su Venezia; esso posa la sua zampa sul libro aperto che reca l’iscrizione «La pace sia sopra di te, Marco mio evangelista». Secondo la leggenda, con queste parole un angelo si sarebbe rivolto al santo, annunciandogli che la Laguna sarebbe stata il luogo del suo riposo eterno. L’episodio, fabbricato dai cronisti, era destinato a giustificare il furto delle reliquie del santo compiuto dai Veneziani e a provare, nel contempo, che la costruzione di Venezia era stata voluta da Dio. Il leone, qui, è rappresentato in posizione «andante»: ha le zampe posteriori nell’acqua, l’elemento che ha permesso la gloria e la prosperità di Venezia e sulla quale sono raffigurate alcune galere. Le zampe anteriori, però, poggiano sulla terra, indicando cosí, in questo inizio del XV secolo, la sovranità della Repubblica sulla terraferma.
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zia e Genova, sconvolgendo la storia del Mediterraneo. Fra le due città marittime – nessuna delle quali riesce a trionfare sull’altra –, la lotta è segnata da battaglie accanite la cui violenza colpisce i contemporanei, da razzie e da saccheggi sul litorale, da atti di pirateria. Dopo la quarta guerra (quella di Chioggia; vedi box a p. 37), Venezia riesce tuttavia a imporre la propria egemonia in Oriente. L’apogeo viene raggiunto nel XV secolo. Il doge Tommaso Mocenigo descrive in una celebre arringa lo straordinario patrimonio della sua città: 3000 imbarcazioni, 300 navi e 45 galere solcano i mari battendo la bandiera di San Marco; ogni anno, nel commercio, si investono 10 milioni di ducati. Questa dominazione viene rimessa progressivamente in discussione dall’avanzata turca. Anche se frammenti di impero resistono fino alla caduta della Repubblica e benché la lotta contro i Turchi, bene o male, si prolunghi fino al XVIII secolo, il commercio dell’Europa con i Paesi lontani non passa ormai in prevalenza piú dal Mediterraneo: trionfano altre vie marittime, quelle dell’Atlantico in primo luogo.
Veduta aerea di Venezia. Sulla destra, adiacente alla basilica di S. Marco, il Palazzo Ducale. In basso uno dei due leoni alati posti sulle colonne che si ergono sulla Riva degli Schiavoni, di fronte all’accesso a piazza S. Marco.
UOMINI IN BARCA, FRA LE PALUDI Un testo databile fra il 537 e il 538 fornisce la prima descrizione della Laguna e dei suoi abitanti: è la lettera di Cassiodoro. Nato verso il 470-480 e morto intorno al 570-575, questi era un alto funzionario – ricopriva, infatti, la carica di prefetto del pretorio –, nonché uomo di fiducia del re ostrogoto. Alla vigilia dell’attacco bizantino contro l’Italia ostrogota, venne incaricato di coordinare l’approvvigionamento di Ravenna in vino, olio e grano. Cassiodoro negoziò dunque, attraverso una lettera, inviata ai capi veneziani, l’inoltro delle mercanzie. Il testo, fortemente retorico, dipinge un paesaggio fatto di paludi, canne e fango, in mezzo al quale si muovono uomini in barca, «acquatici come gli uccelli che essi cacciano». L’ambiente appare singolarmente ingrato e le risorse alquanto magre. I primi abitanti del bacino lagunare hanno già elaborato, per sopravvivere, una rudimentale economia dell’acqua, che il prefetto del pretorio dettaglia con curiosità: essi pescano, raccolgono il sale, effettuano trasporti in barca.
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La Repubblica dispone di possedimenti che sono in relazione diretta con il mare, il cui controllo condiziona enormemente il commercio. Queste città e queste isole, disseminate dalla Dalmazia fino a Cipro, costituiscono un vero impero. In questo vasto «Stato di mar», occorre tuttavia distinguere due tipi di territorio. Ai possedimenti detti del Golfo, vale a dire dell’Adriatico, si sono venuti ad aggiungere, dopo la quarta crociata, quelli del Levante.
Relazioni difficili
Da principio Venezia ha imposto la propria legge al Nord dell’Adriatico, sottomettendo un certo numero di città situate sulla costa dell’Istria. Pola, Trieste e Capo d’Istria le devono una rendita, ma sono soprattutto legate alla dominante da impegnativi contratti di commercio. Con le spedizioni del doge Orseolo, poco prima del Mille, la flotta veneziana affronta il medio Adriatico: vengono conquistate isole e città dalmate, Zara, Spalato, Ragusa, e il doge aggiunge al proprio titolo quello di duca di Dalmazia. Queste città, però, riconobbero a Venezia solo una sovranità lontana, e le numerose ribellioni di Zara provano che le relazioni
furono spesso difficili. Resta il fatto che, grazie a una serie di azioni belliche, Venezia conserva la supremazia in Adriatico. Nessuna nave da guerra può penetrare in questo spazio marittimo senza il suo permesso, e la squadra del Golfo è incaricata della sorveglianza. La supremazia sul Golfo mirava inizialmente a impedire a tutte le altre potenze di chiudere ai bastimenti veneziani l’entrata o l’uscita dall’Adriatico, ma essa consentí anche di stabilire in queste acque un fruttuoso monopolio commerciale. Alla metà del XIII secolo, grazie all’azione congiunta della sua flotta e delle sue pattuglie fluviali, Venezia era giunta a controllare i movimenti commerciali a nord di una linea che andava da Ancona a Zara. È però sul possesso del Levante che venne davvero costruito il primato veneziano. Dopo la presa di Costantinopoli (1204) e la caduta dell’impero bizantino, il doge Enrico Dandolo aveva rifiutato di essere eletto alla testa dell’impero latino che i crociati stavano organizzando. Ma alla sua città, come prezzo della conquista, venne attribuito, nel maggio 1204, il quarto dell’impero romano, che i vincitori stavano smembrando: le coste e le isole del Mar Ionio, MARCO POLO
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la maggior parte del Peloponneso, le Cicladi e alcune Sporadi, aree dell’Eubea, le posizioni di Gallipoli e di Rodosto (l’odierna Tekirdag) sugli Stretti (Bosforo, Mar di Marmara e Dardanelli) e, infine, il terzo ottavo di Costantinopoli, con la chiesa di S. Sofia. A questo vasto insieme si aggiunse poi un altro territorio: Venezia acquistò infatti Creta dai marchesi di Monferrato e il doge assunse cosí il titolo di «signore di una quarta parte e mezzo dell’Impero Romano». Tappa naturale sulle grandi vie del Mediterraneo orientale, l’isola di Creta, dunque, completò felicemente il sistema di scali, luoghi e possedimenti strategici che, da Corfú agli Stretti, interessavano di striscio il Mediterraneo. Altre garanzie, o concessioni, ingrandirono ulteriormente questo già favoloso bottino, indebolendo in proporzione la posizione delle città marittime rivali.
Una supremazia indiscussa
Di per sé, la Laguna non aveva niente da offrire, salvo il suo sale e la sua posizione: quella di un pezzo di mondo stretto fra terra e mare, alla frontiera fra l’Oriente e l’Occidente. Eppure, verso la fine del Medioevo, Venezia era diventata una delle piú grandi piazze di commercio, se non addirittura la piú grande in assoluto, di tutto l’Occidente. Come spiegare una posizione tanto eminente? La marina, ripetono all’infinito le deliberazioni pubbliche, fu e resta il primo fondamento della potenza. Ma come si presenta questa forza navale nel XIII secolo? Essa è composta da due tipi di bastimenti. Ci sono innanzitutto le navi tonde, a vela latina, utilizzate per il commercio e i carichi pesanti. Le navi da trasporto rientrano in questa categoria; munite almeno di due ponti, fatte per le lunghe traversate, hanno una portata media di 200 tonnellate, anche se qualche rara unità può arrivare fino a 500 tonnellate. Le navi lunghe, a remi, piú basse, piú maneggevoli, piú rapide, rappresentano il secondo tipo di bastimenti, riservato piuttosto alla flotta da guerra. In quel periodo, le navi lunghe piú frequentemente costruite dai cantieri veneziani sono le galere biremi, veloci imbarcazioni alle quali spetta il compito di proteggere il flusso della navigazione mercantile, assicurando la sicurezza del commercio. Questa divisione funzionale non è tuttavia cosí rigida. Malgrado la loro ridotta capacità di carico, le galere vengono anche utilizzate per trasportare mercanzie preziose; quanto alle navi, resistono bene ai combattimenti e possono essere requisite in tempo di guerra. Intorno al 1300, a Venezia, gli effetti di quella 34
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COSTRUZIONE DI UN MITO La tesi della legittima sovranità di Venezia sui mari cominciò a essere forgiata probabilmente nel X secolo, allorché l’espansione in Adriatico conobbe i suoi primi successi. Essa veniva, infatti, a rafforzare una prima interpretazione della storia di Venezia, alla quale avevano dato forma le cronache precedenti. Le lagune erano il rifugio propizio che Dio aveva riservato ai Veneziani. Per questi «uomini nati e nutriti d’acqua» la supremazia sui mari era una logica spettanza. La storiografia posteriore non fece che sviluppare questo tema. Lo si trova particolarmente ben illustrato dagli storici ufficiali come Marcantonio Cocco, detto il Sabellico, o Paolo Morosini, che raccontano le brillanti e leggendarie vittorie navali riportate, fin dai primi secoli, contro i Dalmati, i Goti, gli Slavi. In pieno XIX secolo, certe opere continuano a descrivere come le lagune, alle porte dell’Italia, ai piedi delle Alpi e a portata di tutti i Paesi transalpini e danubiani, siano votate al commercio, come esse siano sempre state popolate di marinai e di mercanti. Insomma, questi testi, poco importa se scritti nel XVI o nel XIX secolo, confortano un mito che la potenza veneziana, un tempo, finí per rendere quasi vero: quello di avere ricevuto in dono la dominazione sui mari.
Miniatura raffigurante il doge che impartisce ordini alle truppe della Serenissima. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
Ginevra Ginevra Milano Milano VENEZIA VENEZIA
CORSICA CORSICA
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SARDEGNA SARDEGNA
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Ragusa Ragusa (1205-1358)
Napoli Napoli
Durazzo Durazzo (dal 1205)
(1205-1358)
CORFÚ CORFÚ
Bona Bona
Lepanto Lepanto
Siracusa Siracusa
Tunisi Tunisi
AA MM
MALTA MALTA
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Tripoli Tripoli
Tessalonica Tessalonica (1423-1429) (1423-1429)
Butrinto Butrinto
(1386) (1386)
Acquisizioni veneziane Acquisizioni veneziane alla fine del XV sec. alla fine del XV sec. Territori acquisiti Territori acquisiti temporaneamente temporaneamente dai Veneziani dai Veneziani Colonie commerciali Colonie venezianecommerciali veneziane
LEMNO LEMNO
(1205-1268) (1205-1268)
(1205-1224)
LESBO LESBO NEGROPONTE M Focea CorintoNEGROPONTE (1205-1470) M aa rr (1204-1479) Focea Corinto (1205-1470) Patrasso Argo Patrasso II oo nn ii oo (1389-1394) Argo Efeso Atene Efeso (1389-1394) Nauplía Atene (1395-1402) Nauplía Modone Mileto (1389-1394) (1395-1402) Modone Mileto (1389-1394) (1205-1500) (1205-1500) Malvasia (dal 1463) Malvasia (dal 1463) Corone Corone (1205-1500) (1205-1500) La Canea Rodi La Canea Rodi Candia Cerigo Candia Cerigo CEFALONIA CEFALONIA (1204-1479)
Itinerari Itinerari commerciali commerciali
Rotte commerciali Rotte commerciali Rotte percorse Rotte galee percorse dalle veneziane dalle galee veneziane Vie commerciali Vie commerciali terrestri verso le Fiandre terrestri verso le Fiandre Impero latino Impero latino di Costantinopoli di Costantinopoli Stati latini Stati latini (1230) di Levante di Levante (1230) Impero ottomano Impero alla fine ottomano del XIV sec. alla fine del XIV sec.
Trebisonda Trebisonda
Costantinopoli Costantinopoli Eraclea Eraclea Gallipoli Gallipoli (1205-1224)
o l i a n aa tt o l i a A A n Lajazzo Lajazzo
Nicosia Famagosta Nicosia Famagosta Pafo Pafo CIPRO CIPRO (dal 1489)
CRETA CRETA
(dal 1206) (dal 1206)
(dal 1489)
Sidone Sidone Tiro Tiro
Aleppo Aleppo Antiochia Antiochia
Beirut Beirut Damasco Damasco Acri Acri
Gerusalemme Gerusalemme
Tobruk Tobruk Alessandria Alessandria
Damietta Damietta
t t o EE gg ii ii t t o ol o NN l
Territori sotto forte Territori sotto forte influenza veneziana influenza veneziana
Adrianopoli Adrianopoli Rodosto Rodosto
SCIRO (1205-1453) SCIRO (1205-1453)
(1407-1499) (1407-1499)
M ME (dal 1207) E DD I (dal 1207) I TT EE R R RRA E AN NEO O
La Repubblica di Venezia La Repubblica nel 1200 circa di Venezia nel 1200 circa
Sinope Sinope
(dal 1494)
(1205-1386) (1205-1386)
Messina Messina
M M aa rr N N ee rr oo
Cattaro Cattaro (dal 1494)
(dal 1205)
Palermo Palermo
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(dal 1420)
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Roma Roma
Soldaia Soldaia
Belgrado Belgrado
Spalato Spalato (dal 1420)
Tana Tana
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(1202-1358) (1202-1358)
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Porto Porto Pisano Pisano
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Ravenna Ravenna
Trieste Trieste
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Torino Torino Genova Marsiglia Genova Marsiglia
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Lione Lione
In alto le aree poste sotto il controllo della Repubblica di Venezia tra il XIII e il XV sec. A destra i quattro cavalli in bronzo dorato provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli e portati a Venezia dopo il saccheggio del 1204. IV sec. d.C. Venezia, Museo Marciano. Nella pagina accanto, in alto lo stendardo della flotta della Repubblica di Venezia alla battaglia di Lepanto. XVI sec. Venezia, Museo Correr.
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Venezia che viene chiamata «la rivoluzione navale» del Medioevo sono sensibili e le innovazioni di carattere tecnico si vanno moltiplicando. I vascelli tondi, che si tratti di cocche o di bastimenti, sono ormai muniti di vele quadre e di un timone assiale; quanto alle navi lunghe, le loro capacità sono aumentate. Vengono costruite le prime galere triremi. Poi, l’ingegneristica navale lagunare mette a punto la famosa galera che, fino alla fine del Medioevo, sarà il simbolo della potenza commerciale veneziana (vedi disegno alle pp. 44/45). Questa «galera grossa», ancora migliorata, raggiunge le massime dimensioni alla fine del Quattrocento, allorché si presenta come un bastimento, a due o tre alberi, che serve al trasporto di mercanzie o di passeggeri, come i pellegrini in rotta per Gerusalemme. La flotta di guerra, invece, è formata da «galere leggere»: battelli rapidi, muniti di un’unica vela latina, che pattugliano il Golfo e tutti i mari del commercio veneziano, scortando occasionalmente i convogli delle «galere grosse». Alla fine del XV secolo, si registrano ulteriori mutazioni. Da una parte, i vascelli tondi soppiantano gradualmente le galere per il trasporto delle mercanzie, dall’altra, nel momento in cui la flotta turca accresce la propria minaccia, l’Arsenale si specializza nella produzione di grandi galere da combattimento, dotate di un’ingente potenza di fuoco, prima di mettere a punto le galeazze rese celebri dalla battaglia di Lepanto.
Le basi della rete commerciale
Anche dopo la costituzione dello «Stato di terra», Venezia continuerà ad attribuire sempre la maggiore importanza ai suoi possedimenti d’Oltremare. Distesa sull’acqua, la ghirlanda costituita dalle basi e dalle colonie fornisce il collegamento indispensabile al grande commer-
QUANDO LA CROCIATA SI TRASFORMÒ IN UN ALIBI... Per trasportare in Egitto, obiettivo iniziale della crociata, uomini, cavalli e materiale bellico, i crociati si rivolsero a Venezia e ottennero i servizi della sua flotta. Tuttavia, non potendo pagare i bastimenti veneziani, i capi della crociata accettarono, nel 1202, di riprendere, per conto di Venezia, Zara, città della Dalmazia che si era ribellata alla città lagunare. Dopo diverse trattative, la spedizione fece vela verso Costantinopoli. Il fine era quello di ristabilire sul trono il legittimo imperatore Isacco, che era stato cacciato dall’usurpatore Alessio III. Costantinopoli viene presa nel luglio del 1203. Un anno piú tardi, nell’aprile del 1204, poiché l’imperatore non era riuscito ad affermare la propria autorità, i crociati
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si impadronirono nuovamente della città, la saccheggiarono e si spartirono l’impero. A credere alla nera leggenda che li riguarda, i Veneziani avrebbero a lungo caldeggiato la deviazione della crociata. I vantaggi che ricavarono dalla divisione dell’impero romano furono, infatti, immensi. Il doge Enrico Dandolo, uno dei capi della spedizione, fu dunque ritenuto il responsabile dell’operazione. Si deve notare che, a fronte di queste accuse, i Veneziani giustificarono sempre il proprio ruolo. Dal XIII secolo, piú di una cronaca asserisce che l’impero greco era caduto nelle mani degli eretici: con la presa di Costantinopoli, si doveva perciò restituirlo alla vera fede.
Nella pagina accanto I crociati, guidati dal doge di Venezia Enrico Dandolo, assalgono la città di Zara nel novembre del 1202, olio su tela di Andrea Michieli. XIII sec. Venezia, Palazzo Ducale. In basso Il doge di Venezia Bartolomeo Gradenigo assedia Chioggia nel 1379, dipinto di Giovanni Grevembroch. XVIII sec. Venezia, Museo Correr.
cio. Queste postazioni costellano la rotta marittima verso Costantinopoli e dominano anche quelle verso la Siria e l’Egitto. Dopo gli scali dell’Adriatico (Pola, Zara e Ragusa, poi Corfú da quando Ragusa affermò la propria indipendenza), due porti all’estremo sud del Peloponneso avevano un ruolo di «piattaforma girevole»: si trattava di Corone e Modone, gli «occhi della Repubblica», come li chiamavano i membri dei Consigli. Là, tutte le navi facevano scalo per rifornirsi di acqua e viveri. Le strade poi divergevano: per i convogli di Alessandria, di Cipro e di Beirut, all’andata e talvolta anche al ritorno, uno degli scali piú regolari era Creta, cerniera dell’intero sistema di navigazione; le galere della linea della Romania (vale a dire l’impero d’Oriente) si fermavano a Negroponte, prima di raggiungere Costantinopoli, poi Trebisonda e La Tana. L’impero, e principalmente le colonie di sfruttamento, avevano anche un attivo ruolo economico importante: queste terre esportavano prodotti alimentari e materie prime indispensabili alla metropoli, anche se Venezia continuò sempre a fare acquisti massicci, in particolare di cereali, in Italia (Puglia, Marche, Romagna) e in Oriente (Tracia, Mar Nero). L’Istria, la Dalmazia e i possedimenti albanesi fornivano vino, sale, pellami, legno, materiali da costruzione. Creta aveva il proprio ruolo di «nucleo e forza dell’im-
MOBILITAZIONE GENERALE La quarta guerra veneto-genovese ha inizio nel 1378. Rispetto a Genova, alleata del re d’Ungheria, del duca d’Austria e di Francesco da Carrara, signore di Padova, Venezia è isolata. Dopo le prime vittorie, la flotta veneziana, comandata da Vettore Pisani, subisce una grave disfatta al largo di Pola. Venezia non è piú in grado di controllare il suo Golfo: le lagune vengono assediate, Grado e Caorle conquistate. Dal lato di terraferma, le truppe di Padova organizzano il blocco; dalla parte del mare, le navi genovesi tengono sotto il loro fuoco i cordoni litorali. Chioggia cade il 16 agosto 1379. A quel punto, i lignaggi veneziani piú ricchi contribuiscono allo sforzo bellico, sottoscrivendo prestiti forzati; nella Laguna, il Comune ordina una lista di leve; dall’Arsenale escono nuovi bastimenti. Il bacino lagunare è finalmente sbloccato il 21 giugno 1380, quando i Genovesi capitolano a Chioggia. I combattimenti, tuttavia, proseguono ancora per un anno e hanno termine ufficialmente solo con la pace di Torino, siglata l’8 agosto 1381.
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IL MONOPOLIO DEL SALE I Veneziani iniziano ben presto a smerciare nell’Italia del Nord il sale ricavato dalle acque salmastre del bacino lagunare. Dal Mille, comincia a svilupparsi un fiorente commercio di esportazione e, nel secolo seguente, Chioggia, a sud della Laguna, dove sono concentrate le saline, diventa uno dei piú grandi centri per l’estrazione del sale dell’intera regione mediterranea. Nel Duecento, Venezia non si accontenta piú di vendere la produzione delle proprie saline, e intende instaurare a suo profitto un monopolio di forniture: allo scopo di alimentare le entrate fiscali e di finanziare il necessario approvvigionamento di cereali, occorreva riservarsi l’esclusiva del rifornimento di sale dei Paesi rivieraschi della bassa e della media valle del Po. Nel corso di questa prima fase, gli scontri sono incessanti, sia che Venezia attacchi i centri produttori rivali, sia che essa imponga, con la forza, le sue condizioni alle città vicine. Poi, i Veneziani compiono la scelta di approvvigionarsi nel Mediterraneo e dedicarsi al commercio marittimo con i Paesi lontani. Essi scoraggiano dunque la produzione adriatica, allo scopo di garantire gli sbocchi alle loro importazioni. Da Ibiza a Occidente, da Cipro a Oriente, marinai e mercanti riportano del sale che ha l’ulteriore vantaggio di zavorrare a buon mercato le navi. Tutti questi carichi, immagazzinati negli immensi depositi della punta della Dogana, vengono rivenduti a un prezzo da monopolio negli Stati veneziani, a cifre invece negoziate, ma comunque alte a causa della mancata concorrenza, in Lombardia, in Emilia, nelle Marche o in Romagna. Si è potuto calcolare che all’epoca della sua maggiore espansione, il mercato del sale veneziano arrivò a movimentare ben 33 000 tonnellate circa di prodotto.
L’area intorno al ponte di Rialto cosí come si può immaginarla alla fine del XII sec. Le coste di Rialto, da sempre cuore economico di Venezia, vennero collegate da un ponte di barche nel 1172, ma solo nel 1181 il collegamento fu stabilmente assicurato da un ponte di legno (1). Il Mercato di Rialto divenne allora una sorta di fiera permanente, in cui si contrattavano le merci che giungevano dall’Oriente. Intorno alla chiesa di S. Giacomo (2), sede dei banchi di scrittura – le banche dell’epoca – e sul ponte stesso (3), trovavano posto le mercanzie piú ricche, mentre quelle meno pregiate e piú ingombranti si commercializzavano sulle rive (4), come attestano alcuni toponimi quali Riva del Vin, Riva dell’Ogio (olio), ecc., sopravvissuti fino ai 38
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nostri giorni. Ancora per tutto il XIII secolo la maggior parte delle costruzioni fu realizzata in legno (5), su fondazioni costituite da pali infissi nell’instabile terreno lagunare fino a raggiungere lo strato di argilla e sabbia («caranto»; 6). Il problema dell’approvvigionamento d’acqua potabile venne risolto con una complessa installazione: un pozzo (7) sormontato da una vera (8) pescava in una cisterna (9) dalle pareti impermeabili, riempita d’acqua piovana attraverso le due o quattro «pilelle» o tombini (10) che circondavano il pozzo. Uno strato di sabbia all’interno della cisterna filtrava l’acqua, liberandola dalle impurità. In questo disegno ricostruttivo, fra le altre, è ben riconoscibile anche una bottega nella quale veniva venduto il sale (11).
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pero»: i mercati di Candia e della Canea offrivano cereali e vino – che i battelli venivano a imbarcare in enormi quantità dopo la vendemmia –, ma anche cera, olio, miele e formaggi. Il grano e il vino erano anche caricati a Negroponte: il vino (malvasia) partiva dagli scali del Peloponneso, via Venezia, verso l’Inghilterra e le Fiandre. Sulle banchine di Rialto venivano sbarcate frutta (arance, limoni) e uva secca, da Zante, Corfú e dal Peloponneso, olio, ancora da
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Corfú, cotone e zucchero, soprattutto dopo la cessione di Cipro alla Repubblica. I Veneziani innovarono poco in materia di tecniche commerciali e finanziarie. Anzi, si può parlare di un certo ritardo da parte loro, poiché, per esempio, la contabilità in partita doppia è attestata a Rialto un secolo piú tardi che a Genova. L’uso dell’assicurazione marittima e della lettera di cambio furono ugualmente presi a prestito da Genova e dalla Toscana. All’attività
monetaria i Veneziani si interessarono poco e, in questo campo, operavano a Rialto principalmente i mercanti-banchieri fiorentini. Certo, dalla Zecca veneziana era uscita, alla fine del XII secolo, una moneta d’argento stabile, il grosso, ma, per contro, Venezia ricominciò a battere l’oro (il ducato) solamente tre decenni dopo Genova e Firenze. Il progresso commerciale, dunque, si basò per lungo tempo su tecniche finanziarie semplici. MARCO POLO
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Iraklion, Creta. La fortezza di Koules, il cui primo nucleo fu costruito dai Saraceni nel X sec. L’aspetto attuale è frutto delle modifiche apportate dopo la riconquista dell’isola, prima dai Bizantini e quindi dai Veneziani. Nella pagina accanto il bailo, ambasciatore di Venezia a Costantinopoli, accolto dai ministri della città, disegno acquerellato di Giovanni Grevembroch. XVIII sec. Venezia, Biblioteca Correr.
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Nella società in nome collettivo, o compagnia, ogni socio portava una parte del capitale e partecipava al commercio; i profitti e le perdite erano divisi, al momento di regolare i conti, secondo i rispettivi apporti di capitale. Ma il tipo di associazione preferito rimase a lungo la società commerciale semplice, la classica commenda, che univa un finanziatore e un mercante al quale spettava il compito di far fruttare il capitale. Comunque, pur importate da altre città, le tecniche di cambio e di trasferimento di capitali, perfettamente dominate, servivano con efficacia il gioco degli affari. Invece di crearli, Venezia diffuse gli strumenti commerciali e finanziari che hanno permesso lo sviluppo economico dell’Occidente. Alla fine del Medioevo, la prosperità della piazza di Rialto e le pratiche contabili e finanziarie che vi erano impiegate suscitavano l’ammirazione dei visitatori stranieri. Il dinamismo e la prosperità si spiegano anche con la politica economica adottata dallo Stato veneziano, una politica che tendeva a fare di Venezia il punto di passaggio obbligato per tutti i traffici fra Oriente e Occidente. Si trat-
tava, insomma, di costringere il maggior numero possibile di partner commerciali ad approvvigionarsi sul mercato veneziano. Le città legate alla Repubblica da trattati dovevano cosí, per tutti i loro scambi marittimi, passare dal centro delle lagune.
Guadagni favolosi
Quanto ai mercanti veneziani, per proteggere l’attività del porto e della flotta, in un primo tempo dovevano avviare verso Rialto, e su battelli veneziani, il carico acquistato ad Alessandria o a Costantinopoli, quale che fosse la sua destinazione finale. In questi ultimi secoli del Medioevo, Venezia era dunque diventata, per tutta una parte del commercio internazionale, un punto obbligato di scarico delle merci, nonché il magazzino verso il quale le mercanzie, nella loro infinita varietà, dovevano necessariamente convergere e dove gli Italiani e gli altri venivano ad approvvigionarsi. Le favolose entrate che lo Stato veneziano incassava nel XV secolo – e che potevano ammontare fino a un milione di ducati all’anno – si spiegano cosí: su
PRIVILEGI CHE ANNIENTANO LA CONCORRENZA Come ricompensa per l’aiuto militare prestato dalla flotta veneziana, l’imperatore Alessio I Comneno accordò a Venezia, con la crisobolla (o bolla d’oro) del 1082, considerevoli vantaggi economici. La colonia veneziana di Costantinopoli si vide dotata di vaste infrastrutture: un forno, magazzini, tre scali o posti di ancoraggio sul Corno d’Oro… A Durazzo, cioè allo sbocco della via Egnatia, la grande arteria commerciale che attraversava la penisola balcanica, i lagunari, già numerosi e ben impiantati, ebbero un vero quartiere. Soprattutto, i Veneziani furono esentati dal pagamento dei diritti di dogana in quasi tutto l’impero bizantino. Il testo enumera una lunga lista di territori in cui i mercanti di Venezia potevano ormai «commerciare liberamente e in totale franchigia». A nord della Siria, in Cilicia, in Panfilia, su tutta la costa occidentale dell’Asia Minore, a Tessalonica, in Attica, a Nauplia, a Corinto, nel sud del Peloponneso, a Corfú, piazze e porti sono loro largamente aperti. Solo i porti del Mar Nero e le isole del Mediterraneo orientale (Creta e Cipro) non vengono citati a proposito di questo privilegio. La crisobolla chiude quello che per Venezia è stato un secolo di continua ascesa marittima. La sua preminenza in Adriatico, a nord di Durazzo, è riconosciuta. A Costantinopoli e nell’impero d’Oriente, i Veneziani godono di vantaggi tali che i loro concorrenti stranieri, come gli Amalfitani, si trovano relegati in posizione subalterna.
questi scambi, i differenti uffici economici imponevano ingenti diritti di dogana. Anche il sistema delle linee di navigazione, le cosiddette «mude», faceva parte di questa organizzazione. All’inizio del XIV secolo, il Senato organizza il primo convoglio di galere, al quale seguirà molto presto la messa in opera delle altre linee. E fino al principio del Cinquecento, malgrado alcune difficoltà, le mude continuano ad assicurare una rete di relazioni commerciali regolari. La marina mercantile veneziana si divide allora in due settori. I bastimenti della navigazione libera o disarmata (cocche e vascelli tondi) assicurano la maggior parte dei trasporti. Le galere del settore controllato dallo Stato navigano invece in convoglio – secondo itinerari e date stabiliti dal Senato – e trasportano i carichi piú preziosi, come le spezie o la seta. Questo sistema di trasporto puntava a razionalizzare gli scambi e ad abbattere i costi. Gli itinerari e la frequenza dei convogli erano modulati ogni anno in funzione della congiuntura. D’altra parte le navi, ben difese, navigavano di conserva (in convoglio); ne conseguivano un MARCO POLO
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aumento della sicurezza e della regolarità e, dunque, costi concorrenziali. Ogni anno, il Comune procedeva alla vendita all’incanto dei bastimenti – costruiti all’Arsenale – e determinava innanzitutto il numero dei convogli e delle galere, nonché le diverse clausole della messa all’asta. Solo gli armatori nobili, individualmente o in associazione, erano autorizzati a partecipare all’operazione. Dall’inizio del XIV secolo, furono lanciate due linee: un convoglio partiva verso Costantinopoli e il Mar Nero, un altro verso la Fiandra e l’Inghilterra. Poi, furono resi operativi convogli per l’Egitto e per Beirut. In maniera episodica, funzionò anche una muda verso Cipro e la Piccola Armenia. La rete fu completata, infine, dalle mude occidentali e da quella detta «al Trafego», che collegava Tunisi ai porti del Levante. All’inizio del XV secolo, una flotta composta da una ventina di grosse galere assicurava questi trasporti. Mezzo secolo piú tardi, navigavano quarantacinque «galere da mercato» e il sistema raggiungeva il suo apogeo.
Fino ai confini del mondo
Le fonti italiane del Medioevo descrivono il Veneziano come un corridore dei mari e un negoziante, un contabile e un sensale, tutto preso a contare i suoi colli di merce, a depositare nei magazzini il suo pepe e il suo cotone, a prestare e a investire, a navigare o a scrivere ai suoi fattori e agenti. La figura di Marco Polo, uno fra i piú celebri Veneziani del Medioevo, illustra bene i rapporti di questa comunità con il commercio e con gli orizzonti lontani. Negoziante, figlio e nipote di negozianti, viaggiatore e scopritore di Paesi, Marco Polo non è che il mediatore attraverso il quale ci sono state trasmesse le descrizioni delle meraviglie asiatiche e le sbalorditive avventure di Occidentali giunti
L’ARSENALE
Veduta della parte orientale di Venezia, con, in alto, l’Arsenale. XVII sec. Versailles, Musée national des Châteaux de Versailles et de Trianon. 1. Canale artificiale collegava l’Arsenale, che, per motivi strategici, non aveva sbocco diretto a mare, al Canal Grande. 2. Tesoni di San Cristoforo scali coperti che potevano ospitare fino a due galee, consentendo di lavorare anche col cattivo tempo. 3. Darsena Grande bacino interno, circondato da magazzini e scali coperti, fu realizzato nella vasta area prima occupata dal lago di San Daniele. 4. Isola di Sant’Elena vi sorge la chiesa che custodisce le reliquie della madre di Costantino, con l’annesso convento degli Agostiniani (1810). 5. Isola di San Pietro chiamata Olivolo o Castello, ospitava la chiesa di S. Pietro di Castello, sede vescovile e poi patriarcale di Venezia.
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fino ai confini del mondo. Egli ha anche il gusto delle cifre, il pensiero delle mercanzie e del loro prezzo. Amministra i suoi affari secondo le normali regole del capitalismo familiare, ed è vittima dei rischi e degli errori di calcolo che compiono tutti gli uomini di affari. I suoi viaggi, condotti partendo dai banchi d’Oriente, rivelano la presenza di colonie composte da Latini, impiantate dal Mediterraneo al Mar Nero, e tutto un sistema di scambi e di traffici. Rientrato a Venezia, Marco Polo torna a essere un mercante dall’onesta agiatezza, proprietario di una grande casa e di altri beni, perfettamente inserito nella società del suo tempo. Dopo di lui, altri mercanti-esploratori lasceranno Venezia per terre lontane, come Alvise Ca’ da Mosto, che intorno alla prima metà del Quattrocento si spinse fino al Senegal (vedi box a p. 47).
UNA CITTÀ NELLA CITTÀ L’Arsenale venne fondato alla fine del XII secolo, ai margini orientali della città, in mezzo agli stagni. Le prime installazioni erano modeste, ma verranno ben presto rinforzate da un immenso deposito per il legno e da un magazzino per le armi. Alla fine del XIII secolo, cominciano i lavori per la costruzione delle corderie, dette de la Tana, e l’edificio viene terminato intorno al 1320. I testi rivelano la piena attività di questa «casa del canevo», dove le fibre vengono immagazzinate e lavorate, dove si producono vele e cordami per tutta la flotta. Un’operazione di grande portata trasforma in seguito, a partire dal 1326, la capacità del cantiere: là dove si stendevano le paludi, nasce
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l’«Arsenale Nuovo». Da allora, questa struttura – in origine destinata all’immagazzinamento delle materie prime piú che alla costruzione navale –, assume un ruolo di crescente importanza nella produzione delle galere e non solo. Alla fine del XV secolo, armi bianche e armi da fuoco escono in gran quantità dalle officine allineate a sud della grande darsena e, piú tardi, vengono costruite le sale destinate a custodire l’equipaggiamento di cinquanta galere: l’Arsenale diventa cosí una gigantesca armeria. Una terza campagna di lavori – che porta alla creazione dell’«Arsenale Nuovissimo» – viene avviata a partire dal 1473, quando la flotta turca si fa piú minacciosa.
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Il cantiere pubblico appare allora a tutti gli osservatori come un’opera di eccezionale portata, una concentrazione di uomini e di mezzi unica nel mondo mediterraneo. Il cantiere pubblico si afferma come il fondamento della potenza marittima, il centro logistico sul quale si basano il commercio e l’impero. Sul fianco orientale di Venezia, dietro le mura, l’Arsenale diventa una città nella città. A fianco agli operai che costruiscono le galere, ci sono quelli che producono il rame e poi le donne, che cuciono e riparano le vele; e ancora, le sale dove si immagazzinano il carbone e il salnitro, dove si raffina lo zolfo, prima dei depositi di polvere da sparo e dei magazzini delle armi. Inoltre, al di fuori delle mura del cantiere, in tutta la zona
portuale, da San Biagio fino alla punta di Sant’Antonio, brulicavano i cantieri privati per le costruzioni navali, le attività associate alla costruzione e alla manutenzione delle imbarcazioni, alle imprese marittime. In prossimità delle abitazioni dove si accalcava una fitta popolazione di rematori, di facchini e di scaricatori, lavoravano i fabbri specializzati nella produzione di ancore e di chiodi per i lavori di marina. A San Biagio, i forni comunali, dove veniva cotto il biscotto per la flotta, si elevavano al di sopra del molo dove venivano ammassate le mercanzie. Infine, erano stati costruiti gli ospizi per i cosiddetti «arsenalotti», ovvero i marinai vecchi o malati, e questi edifici contribuivano a rinforzare la particolare identità del quartiere.
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GROSSE O MINUTE, COMUNQUE RICERCATISSIME I prodotti piú conosciuti del commercio veneziano sono senz’altro le spezie: pepe, cannella, zenzero, noce moscata, ma anche gomme, profumi, sostanze medicamentose… Secondo le epoche e l’evoluzione delle vie commerciali tra l’Oriente e il Mediterraneo, i mercanti veneziani si approvvigionavano di spezie «grosse e minute» ad Alessandria, nelle colonie del Mar Nero o a Beirut. Si è a lungo ritenuto che la scoperta della rotta del Capo, compiuta dai Portoghesi, avesse sferrato un colpo mortale al commercio italiano, poiché i mercanti veneziani, e quelli genovesi in misura inferiore, non erano piú i soli a poter rifornire di spezie l’Europa occidentale. Questa interpretazione è stata in seguito modificata. Nei primi anni del XVI secolo, i Portoghesi cercarono, è vero, di monopolizzare il commercio con le Indie e di
approvvigionare la Francia e l’impero. Ne risultò una penuria sul mercato del Levante come su quello di Rialto. Tuttavia, dagli anni Venti del Cinquecento, il grosso della crisi era superato. La piazza veneziana era di nuovo ben fornita, i suoi prezzi erano concorrenziali ed essa aveva ripreso, in particolare con i Tedeschi, la propria funzione distributrice. Si è potuto calcolare che il volume delle spezie che, nell’ultimo terzo del XVI secolo, raggiungevano l’Egitto attraverso il Mar Rosso, per essere poi avviate verso Venezia, fosse equivalente a quello della fine del XV secolo.
Disegno ricostruttivo di una galea veneziana del XIV sec. 1. proda; 2. sperone; 3. coperta; 4. stiva; 5. fondo con zavorra mobile, costituita da pietre e sabbia, che poteva essere rimossa per pulire le sentine; 6. forcata; 7. corsia; 8. pavesata; 9. schermo, scalmo al quale venivano legati i remi; 10. banco; 11. posticcio: questa sorta di cornice lungo le fiancate della nave era il punto avanzato al quale venivano fissati i remi e poteva costituire un camminamento per i balestrieri a bordo; 12. vela latina serrata; 13. antenna; 14. albero maestro; 15. coffa di maestra; 16. albero di mezzana; 17. cucina; 18. castello di poppa. Miniatura raffigurante l’arrivo di una nave di mercanti a Hormuz, da un’edizione del Milione di Marco Polo. 1410 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Nel corso del XV secolo, per alcuni dei prosperi uomini d’affari patrizi, il rapporto quotidiano e concreto con la mercanzia comincia ad affievolirsi. L’attività commerciale di uno di questi, Guglielmo Querini, che ha potuto essere ricostruita, testimonia di un netto declino della «colleganza» (denominazione adottata a Venezia per la commenda). Facendo largo ricorso ad agenti, incaricati dello sdoganamento delle sue merci, Querini può condurre i suoi affari senza muoversi da Venezia. Inoltre, esistono molteplici indicatori che mostrano la diversificazione degli investimenti da parte della nobiltà e il progressivo volgere del capitale veneziano verso le campagne. Resta il fatto che la portata di questi fenomeni evolutivi non deve essere esagerata. Con l’avanzare dell’età, fatta fortuna, il nobile merMARCO POLO
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PER I MERCANTI STRANIERI A partire dal XIII secolo, le relazioni commerciali tra Venezia e i Paesi tedeschi furono molto attive. L’area germanica formava, insieme con la piana italiana, uno sbocco naturale per il commercio lagunare. E Venezia, grazie alla strada per il Brennero beneficiava di un passaggio che molto presto fu largamente utilizzato. Inoltre, il centro veneziano aveva un’immensa necessità di metallo prezioso, poiché doveva finanziare, a Levante, un commercio costoso. Le miniere d’argento di Boemia e quelle d’oro dell’Ungheria soddisfacevano a questi bisogni e i mercanti tedeschi servivano da intermediari. Preso atto dell’importanza di questi scambi, il Comune veneziano apre dunque, fra il 1222 e il 1225, nel gomito del Canal Grande, sulla riva sinistra di Rialto, un insediamento destinato ai mercanti tedeschi. È il «fondaco dei Tedeschi», al tempo stesso magazzino e luogo di residenza, che ricalca il modello del funduk che i Paesi musulmani riservavano ai mercanti stranieri. I Veneziani, ad Alessandria, disponevano per esempio di installazioni similari, che essi amministravano tuttavia secondo la loro convenienza. I Tedeschi non ottennero mai, sul Canal Grande, un trattamento altrettanto favorevole. La sede del commercio germanico era posta sotto il controllo del Comune e dei suoi ufficiali, e la concentrazione di uomini e di mercanzie favoriva la sorveglianza. Il sistema stabiliva che i mercanti tedeschi di passaggio a Venezia dovessero risiedere
obbligatoriamente nel fondaco, dove dovevano anche immagazzinare e sdoganare le loro mercanzie, sia quelle destinate all’importazione, sia quelle designate per l’esportazione. Dopo la sua ricostruzione, all’inizio del XIV secolo, il fondaco si presentava come un’ampia costruzione, articolata su due piani e dotata di tre cortili interni. Le sue dimensioni sono appena inferiori a quelle dell’edificio attuale, costruito all’inizio del XVI secolo. Il volume degli affari era impressionante: nel 1470, il cronachista Paolo Morosini lo valuta sul milione di ducati all’anno; nel 1499, un pellegrino tedesco stima che la somma delle entrate doganali che la Signoria di Venezia ne ricava sia di 100 ducati al giorno.
tarizzazione non viene mai. Si devono attendere gli ultimi anni del XV secolo, perché, nei primi e rari palazzi, la struttura tradizionale dell’edificio sia trasformata: nelle antiche case-fondaco, gli ambienti a livello del canale erano riservati al magazzino e alle funzioni commerciali, mentre nei nuovi palazzi i depositi, le sale e gli uffici scompaiono, lasciando il posto a ingressi e vestiboli monumentali.
Una realtà cosmopolita
cante risiede senza dubbio piú volentieri nella sua casa di Venezia. Ma, per molto tempo, i rampolli della nobiltà trascorrono il periodo della gioventú come balestrieri sulle galere della Repubblica e facendo una sorta di apprendistato del commercio per conto della società di famiglia o presso i corrispondenti di parenti o amici, a Candia o ad Alessandria. Per altri, poi, proprietari di navi, l’ora della seden46
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Il Canal Grande di Venezia con il Ponte di Rialto, replica di autore anonimo dell’originale del Canaletto. XVIII sec. Madrid, Museo del Prado. Sulla sinistra, è ben riconoscibile il Fondaco dei Tedeschi.
Basta leggere i racconti dei viaggiatori per comprendere che Venezia appare agli stranieri venuti dalla Germania, dalla Francia o dalle Fiandre come una città strana, meravigliosa. Sui moli, nei granai e nei magazzini, le ricchezze si accumulano, i prodotti si ammassano: lo zucchero e il cotone, la seta e i tappeti, la frutta e le spezie. Lungo la riva del porto, o sullo sfondo del sorprendente scenario creato dalle cupole e dagli ori di S. Marco e di S. Zaccaria, passa e lavora una folla cosmopolita. Gli stranieri, venuti dai Balcani e dal Mediterraneo orientale, erano in effetti numerosi in tutta la zona del porto. Essi giungevano a ondate da
un mondo scosso dalle guerre e dalla miseria o da colonie subissate di tasse. Questa gente senza radici aveva spesso raggiunto, come prima tappa, i porti veneziani della Dalmazia, dell’Albania o della Grecia occidentale, per poi compiere il grande balzo verso la metropoli. Gli anni 1430-1440 avevano visto scatenarsi un primo grande flusso migratorio. Sotto la spinta turca del decennio 1450-1460, si mettono in movimento altri gruppi di popolazione che sbarcano sulla costa adriatica, dalla Puglia alle Marche, a Venezia. Tutti questi immigrati non sono senza arte né parte; basti pensare al considerevole apporto fornito dagli architetti di marina e dai carpentieri di origine greca alla costruzione delle navi veneziane. Gli immigrati si raccolgono dunque nel sestiere di Castello, in prossimità del porto e dell’Arsenale. Dal 1442, gli Albanesi, in maggioranza cattolici, avevano ottenuto il permesso di formare una confraternita nella parrocchia di S. Severo e, qualche anno piú tardi, questa «scuola» viene trasferita nella chiesa di S. Maurizio. Gli Slavi, a loro volta, si raggruppano nel 1451 nella «scuola» di S. Giorgio degli Schiavoni, la cui decorazione venne piú tardi affidata a Vittore Carpaccio. I Greci, invece, devono reclamare a lungo un luogo di culto che la Signoria è restia ad accordare loro. Funzioni religiose secondo il rito ortodosso vengono celebrate, all’inizio, in
Nella pagina accanto, in alto il Fondaco dei Tedeschi. In basso l’omaggio degli indigeni di Capo Verde ad Alvise Ca’ da Mosto in un dipinto realizzato da Francesco Grisellini per la Sala dello Scudo di Palazzo Ducale, su commissione del doge-letterato Marco Foscarini. XVIII sec.
ALVISE, ESPLORATORE E MERCANTE Marco Polo è certo il piú celebre viaggiatore veneziano, ma, accanto a lui, va almeno ricordato un altro marinaio, mercante e scopritore: Alvise Ca’ da Mosto. Nato nel 1432, dopo i primi anni dell’infanzia trascorsi a Venezia, prende a navigare dalla Manica al Mediterraneo, percorrendo tutte le tappe dell’apprendistato riservato ai giovani mercanti. Nel 1454, si imbarca sulle galere di Fiandra comandate da Marco Zeno e in breve diventa celebre. Dal suo incontro con l’infante di Portogallo, Enrico il Navigatore, nasce l’avventura dei grandi viaggi di esplorazione, che lo conducono, nel 1455, fino a Capo Verde, e l’anno successivo, a compiere un secondo periplo del mondo, nel corso del quale raggiunge la Casamancia, nell’odierno Senegal. Ma Alvise non è solo un esploratore che consegna le proprie scoperte a una relazione di viaggio. Egli è e resta soprattutto un mercante, che si interessa ai prodotti che Portoghesi e indigeni si scambiano, alla tratta degli schiavi. E proprio con i profitti che realizza rivendendo gli schiavi acquistati in Guinea finanzia il suo secondo viaggio.
diverse chiese, prima che i Greci si vedano concedere un luogo di culto esclusivo nella chiesa di S. Biagio. In seguito, le concessioni si susseguono: nel 1498, la comunità riceve l’autorizzazione a formare una confraternita e «nazione» greca; poi, nel 1514, le vengono attribuite la chiesa di S. Giorgio dei Greci e un cimitero. Pur essendo completata solo nel 1573, la chiesa costituisce tuttavia l’epicentro della colonia che imprime il suo marchio alla toponomastica: rio dei Greci, ponte dei Greci.
Un’influenza incontestabile
Infine, i rapporti che Venezia intrattenne con la propria eredità bizantina non furono mai semplici e la storia locale tese sempre a ignorare questi legami e questi apporti. Resta il fatto che l’influenza bizantina fu forte, come emerge dallo stesso paesaggio urbano. L’immagine di Costantinopoli e l’organizzazione degli spazi centrali della capitale imperiale ispirano senza dubbio la creazione, nel sestiere di San Marco, nell’ultimo terzo del XII secolo, di una piazza di dimensioni e struttura straordinarie in una città occidentale del tempo. Quanto alla basilica, costruita a imitazione della chiesa, oggi distrutta, dei Ss. Apostoli di Costantinopoli, venne ricostruita per ben due volte e, nel corso dei secoli, raccolse gli ornamenti, i trofei, le prede di guerra e le ricchezze dell’Oriente: al di sopra del portale, la quadriga di cavalli in bronzo dorato, portata a Venezia da Costantinopoli, dopo il saccheggio del 1204; sulla facciata sud, il gruppo in porfiro dei Tetrarchi, due colonne scolpite, bassorilievi bizantini. All’interno della chiesa, ancora marmi di reimpiego e decine e decine di colonne importate dalle terre bizantine. Ma non c’è solo questo monumento a rendere manifesti i legami della laguna con Bisanzio. Altre chiese, come quelle di S. Eufemia, di S. Polo, di S. Sofia o di S. Nicolò dei Mendicoli conservano una pianta basilicale. In altre ancora, meno numerose, si ritrova la pianta a croce greca. E questo modello, mantenutosi fedele allo stile e alle tradizioni bizantine, viene ripreso da alcune costruzioni del Rinascimento, come S. Giovanni Crisostomo, l’ultima opera di Mauro Coducci, completata poi da suo figlio Domenico. Allo stesso modo, le costruzioni di S. Michele di Murano e di S. Maria dei Miracoli (1481-1489) testimoniano di un neo-bizantinismo affermato quando, dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, Venezia poté raccogliere questa eredità ed effettuare una vera translatio imperii. MARCO POLO
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«Di quei paesi riferiva tutto a milioni»
(Giovanni Battista Ramusio, 1485-1557)
Marco Polo fece rientro nella sua Venezia nel 1295, dopo oltre vent’anni di assenza. Era reduce da un viaggio nelle piú remote regioni dell’Asia, del quale diede conto in un’opera dal valore documentario unico nel suo genere di Elisabeth Crouzet-Pavan 48
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In alto, a sinistra Marco Polo, in un ritratto affrescato nella Sala del Mappamondo di Palazzo Farnese a Caprarola. 1573-1575.
Miniatura raffigurante la partenza dei Polo da Venezia, da Li Livres du Graunt Caam (Il Libro del Gran Khan), edizione in francese arcaico del Milione. Inizi del XV sec. Oxford, Bodleian Library. Marco, allora diciassettenne, salpò nel novembre 1271, al seguito del padre Niccolò e dello zio Matteo, già da tempo inseriti nei redditizi traffici commerciali con l’Oriente. MARCO POLO
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Mercante, esploratore e scrittore
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distanza di oltre due secoli, l’umanista e geografo Giovanni Battista Ramusio (1485-1557) descrive, nell’opera Delle Navigazioni e Viaggi, la scena del ritorno dei Polo a Venezia, in un giorno del 1295. I viaggiatori rientrati nella Laguna, dopo ventisei anni di assenza e un viaggio disseminato di pericoli, sono tre: Marco Polo, suo padre Niccolò e suo zio Matteo. E ai tre Veneziani viene riservata, a leggere Ramusio, la stessa accoglienza ricevuta da Ulisse, quando era giunto nella sua isola di Itaca, dopo vent’anni di tribolazioni. Per tutti, essi sono morti da lungo tempo e nessuno riconosce dunque questi stranieri vestiti di stracci, che dall’andatura e dall’aspetto somigliano a Tartari. E nessuno li crede quando rievocano il loro lontano soggiorno in Cina, nemmeno i membri della loro stessa famiglia, installati nella dimora dei Polo, situata nel campo di San Giovanni Crisostomo. La narrazione continua e impiega, per stupire il lettore, tutti i procedimenti propri del racconto e il piú meraviglioso dei colpi di scena. I tre Polo invitano gli increduli, parenti e familiari, a un grande banchetto al quale si presentano magnificamente vestiti con abiti di raso, di damasco e di velluto. E Marco lascia tutti di stucco, facendo fuoriuscire pietre preziose in quantità dagli stracci che portava indosso al momento del suo arrivo. La scena è suggestiva, ma, va detto, totalmente inventata. Tuttavia, traduce bene l’entità della gloria postuma conosciuta da Marco Polo. Perché il racconto dei suoi viaggi – Il Milione (vedi oltre, alle pp. 66-73) – viene ricopiato in abbondanza, prima d’essere stampato e diventare oggetto di una serie ininterrotta di riedizioni.
Un racconto intriso di esotismo
Alla fine del Medioevo, Marco Polo è divenuto il mediatore attraverso il quale vengono trasmesse la descrizione delle meraviglie asiatiche e le stupefacenti avventure degli Occidentali che erano giunti ai confini del mondo. Egli fa sognare e racconta favole straordinarie. Certo, fornisce anche numerose indicazioni sulle distanze, le risorse dei diversi Paesi, ciò che vi viene prodotto, le mercanzie che vi si possono acquistare; descrive i vascelli cinesi, ci parla della stella polare o dei venti dominanti. Si fa geografo e antropologo, ma, al tempo stesso, rimane un mercante. Nel racconto l’esotismo è ben presente e il meraviglioso e lo straordinario vi si infiltrano continuamente. Chi legge Ramusio, non si stupisce se le pietre preziose cadono a cascata dagli abiti di Marco, 50
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Venezia. La corte seconda del Milion, sulla quale prospetta la presunta casa di Marco Polo. L’adiacente Teatro Malibran (XVII sec.) sorge invece sul sito della casa appartenuta alla famiglia Polo.
UNA CASA DI DODICI STANZE Al ritorno dalla Cina, alla fine del 1295 o, al piú tardi, nei primi mesi del 1296, i tre fratelli Polo acquistano a Venezia un’abitazione nella parrocchia di S. Giovanni Crisostomo. Siamo sulla riva sinistra del Canal Grande, nel cuore della città lagunare, in una delle zone a piú densa urbanizzazione, non molto lontano dal grande mercato di Rialto, situato sull’altra riva. L’investimento dimostra bene come i Polo abbiano scelto allora di fissare a Venezia la loro residenza e con essa capitali ed energie. La proprietà viene acquistata in regime di indivisione e la comunione dei beni e di vita viene mantenuta fino alla morte di Marco il Vecchio. Di questa casa, della quale oggi non resta traccia, conosciamo solamente l’esatta collocazione. Ma un importante incartamento, andato sedimentandosi nel tempo, sulla base dei testamenti, degli atti processuali, delle divisioni e delle sentenze via via pronunciate dalle differenti corti di giustizia veneziane, lascia indovinare una vasta proprietà a piú piani, che comprendeva una grande sala, o «portego», dodici stanze, una cucina e, nel cortile, un pozzo e una latrina, utilizzati sempre in comune, anche quando la casa venne divisa. Proprio questo incartamento ci ha permesso di seguire, da una generazione all’altra, il passaggio, spesso complesso e oggetto di dispute, di parti della proprietà.
I fratelli Polo si congedano dall’imperatore Baldovino Il di Costantinopoli, da un’edizione del Livre des merveilles miniata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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ASSOCIAZIONI TEMPORANEE D’IMPRESA ANTE LITTERAM Nel Medioevo la «colleganza», chiamata «commenda» al di fuori dei confini veneziani, è un contratto di società ampiamente utilizzato nel commercio marittimo. La colleganza semplice unisce un finanziatore (socius stans), che rimane a terra, con un mercante che viaggia e fa fruttare il capitale; gli eventuali profitti vengono divisi nella proporzione di 3/4 per il capitale e il resto per il lavoro. Nel rapporto di colleganza bilaterale, 1/3 del capitale è fornito dal mercante (socius procertans) e, alla scadenza del contratto, i 3/4 dei profitti vengono dunque divisi in proporzione agli investimenti di ciascuno dei due partner. Questo tipo di contratto fu a lungo il piú utilizzato per raccogliere capitali. L’associazione durava il tempo di un viaggio, ma talvolta poteva essere prolungata. Ogni accomandatario aveva tuttavia la possibilità di lavorare con piú finanziatori e ognuno di questi ultimi poteva, dal canto suo, investire con piú mercanti. Poteva anche accadere che un accomandatario fosse al tempo stesso investitore. Ne risultava, in primo luogo, una grande flessibilità del credito e delle associazioni a breve termine, nonché l’organizzazione di un sistema di finanziamento che, nei primi secoli dell’espansione commerciale veneziana, penetra molto in profondità nella società lagunare, poiché non necessita di un ingente accumulo di capitali. Altra conseguenza fu la fioritura di contratti e di società provvisorie, che frazionavano i rischi e le attività, ma che finivano per mobilitare capitali considerevoli, permettendo cosí un’attività globale notevole. Ne derivava, infine, un ritmo di arricchimento rapido, almeno a giudicare dalle fruttuosissime spartizioni degli utili che, a migliaia, sono attestate dai documenti notarili.
A sinistra miniatura raffigurante i fratelli Polo che partono da Venezia, tratta anch’essa dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Ancora una miniatura tratta dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina raffigurante lo scarico delle merci nel porto indiano di Khambhat. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
poiché egli ben conosce Il Milione e sa che l’Oriente è una terra prodigiosa, dalle ricchezze esuberanti e inesauribili: spezie e gioielli, zenzero, pepe e perle. Egli conosce senza dubbio i capitoli nei quali sono descritte le isole magnifiche e generose dell’Oceano Indiano. A Ceylon, si trovano zaffiri, topazi, ametiste e rubini eccezionali. Altrove, ai piedi delle montagne, alcune valli profonde pullulano di diamanti. Nella realtà, il ritorno dei Polo a Venezia fu meno fantastico. Quanto alla loro fortuna, essa fu incontestabilmente piú modesta. Il mito, nel corso dei secoli, ha ingigantito la loro ricchezza, inventato aneddoti e stranezze: ha, insomma, ricostruito e abbellito la storia della famiglia. E, spogliata dei suoi ornamenti leggendari, la vicenda dei Polo si scrive in maniera molto piú semplice. Una tradizione ben fondata li vuole originari di Sebenico, in Dalmazia, ma nulla lo conferma. Viene annotata, in compenso, la presenza di individui che portano questo nome nei documenti veneziani dei secoli XI e XII. Alcuni Polo vivono a Venezia, nelle parrocchie di S. Trovaso o di S. Barnaba, e altri sono attestati a Torcello, a Lio Maggiore e a Iesolo. A Chioggia è documentata la presenza di una famiglia Polo di antica origine, ricca e numero-
sa. In tutto il mondo lagunare, dal sud al nord del ducato, nella capitale, Rialto, come nelle isole e lungo i cordoni litorali, troviamo dunque alcuni Polo. Tuttavia, è impossibile costruire una genealogia e stabilire una continuità tra i nostri viaggiatori e l’uno o l’altro di questi personaggi.
Una storia familiare incerta
Occorre infatti attendere il XIII secolo perché un primo antenato esca dall’ombra: si tratta di Andrea Polo, ma la sua figura si disegna con grande fatica. La memoria del suo nome si è conservata, ma non c’è alcun documento che lo confermi. La sua parrocchia di residenza è probabilmente conosciuta: egli avrebbe vissuto, infatti, nella contrada veneziana di S. Felice. Non si sa altro, salvo una cosa, la piú importante: ebbe una figlia, di nome Flora, e tre maschi, Marco, detto il Vecchio, Matteo e Niccolò, padre di Marco, il viaggiatore. A questa storia familiare, che prende forma con difficoltà, un testo, alla fine, apporta qualche consistenza. Si tratta del testamento stilato da Marco il Vecchio, in data 27 agosto 1280, a Venezia, in cui il nostro uomo afferma che, dopo un lungo soggiorno a Costantinopoli e in Oriente, si è installato nella parrocchia veMARCO POLO
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In basso un paiza in argento. Dinastia Yuan, 1206-1368. Si tratta dello speciale passaporto rilasciato dal Gran Khan ai suoi ospiti illustri, fra i quali vi furono i Polo: Marco, infatti, ne parla nel Milione. È costituito da una lamina d’argento dorato, incisa sui due lati con la scrittura mongola phagspa, istituita direttamente da Gengis Khan. La frase incisa significa: «L’Imperatore è l’autorità suprema e a lui si deve obbedire, pena la morte».
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SIA MALEDETTO CHI VIOLA IL MIO TESTAMENTO Pochi mesi prima di morire, Marco Polo, giunto al suo settantesimo anno di età, chiamò il notaio Giovanni Giustiniani (che era anche il suo parroco) e il 9 gennaio 1324 dettò il suo testamento. Redatto in latino, con minuta scrittura gotica, il prezioso reperto è l’unico documento esistente riferito al grande viaggiatore autore del Milione ed è oggi conservato negli archivi della Biblioteca Marciana di Venezia. Nell’eccezionale documento – vergato su una pergamena che misura 67,5 x 24,5 cm – il nome di Marco Polo è citato due volte e, tra l’altro, si legge che «è dono d’ispirazione divina e decisione di provvida mente che, prima del sopraggiungere della morte, ognuno abbia la sollecitudine di disporre dei propri beni in modo che tali beni non rimangano male ordinati». Sentendosi «ogni giorno indebolire per malattia del corpo, ma per grazia di Dio sano di mente», Marco Polo nomina eredi le figlie Fantina, Bellela e Moreta, lasciando alla moglie Donata Badoer una pensione annua di 8 ducati oltre alla dote, il guardaroba e gli arredi, compresi tre letti completi di corredo. Pagata l’usuale decima, dopo alcuni lasciti e remissione di debiti che gli erano dovuti da parenti e religiosi vari, affranca lo schiavo Pietro tartaro, lasciandogli 100 lire di denari piccoli, oltre a tutto ciò che aveva guadagnato con il suo lavoro. È questa l’unica «pallida eco» del suo celeberrimo viaggio in Oriente. In questo modo Marco Polo ci dà l’ultima notizia che potremmo allegare al Milione: dall’impero del Gran Khan nel 1291 si era portato a Venezia un servitore tartaro. Il testamento si conclude con una esplicita minaccia: «E se qualcuno presumesse infrangere e violare questo testamento, incorra nella
Nella pagina accanto, in alto un’altra miniatura tratta dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina raffigurante Khubilai Khan che consegna ai fratelli Polo un paiza (vedi foto alla pagina accanto, in basso). 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso le prime righe del testamento di Marco Polo, dettato il 9 gennaio 1324. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Nel riquadro si legge il nome di Marco Polo (Marcus Pauli).
neziana di S. Severo, dove divide la residenza con la cognata Fiordelisa Trevisan, moglie di Niccolò. Egli ricorda l’impresa familiare, con base nel Mar Nero, a Soldaia (l’odierna Sudak, in Crimea), e i suoi due fratelli ai quali è legato, in seno a una «fraterna compagnia», dalla comunione dei beni. Ecco dunque lo scenario: i fratelli Polo appartengono a questa società dei Latini d’Oriente, ben impiantati nel Mediterraneo orientale come nei porti del Mar Nero. E la loro storia, con i suoi ritmi e le sue vicissitudini, riassume perfettamente la vicenda della loro città e del suo commercio. Dopo la quarta crociata e la costituzione dell’impero latino, in seguito alla cessione a Venezia di un vero e proprio impero coloniale (corrispondente in termini di superficie a un quarto e mezzo della Romania) e di importanti privilegi commerciali, era venuto il tempo di un primo apogeo. Nella seconda metà del XIII secolo, la prosperità veneziana non è intaccata, ma la sua preponderanza ha termine. La formidabile ascesa al potere di cui è protagonista la città rivale di Genova rimette brutalmente in causa i rapporti di forza e, ad Acri, ha inizio la lotta fra le due città mercantili. Finché, nel 1261, Costantinopoli viene
maledizione di Dio onnipotente et sub anathemate trecentorum decem et octo Patrum conscrictus permaneat, e sia costretto a pagare alle dette mie eredi 5 libbre d’oro, e questo mio testamento resti fermo». Marco Polo verrà sepolto, come da sua volontà, nel cimitero del Monastero di San Lorenzo a Venezia, ma all’inizio dell’Ottocento per effetto delle leggi sanitarie napoleoniche la sua tomba, come tutte le altre, verrà dispersa. (red.)
ripresa dai Greci, sostenuti dai Genovesi. L’imperatore latino, Baldovino, fugge e per la colonia veneziana di Costantinopoli, per gli interessi stessi di Venezia, il colpo è durissimo. I Polo non avevano però aspettato l’ingresso trionfale del nuovo imperatore greco per lasciare il Corno d’Oro. Il trasferimento dei loro affari da Costantinopoli a Soldaia, data infatti dalla fine del regno di Baldovino. Ed è da questo banco, nel 1261, che i due fratelli Matteo e Niccolò partono per il loro primo viaggio in Asia. Proprio nel 1261, quando alcune famiglie veneziane scelgono di rientrare in patria, altri mercanti, sull’esempio dei fratelli Polo, trasferiscono i loro affari, preferendo esplorare nuove piazze e battere nuove strade. In questa scarna cronologia, un’altra data è sicura: quella della nascita di Marco Polo, avvenuta nel 1254. Egli ha dunque l’età richiesta per partecipare, al fianco di suo padre e di suo zio Niccolò, al secondo grande viaggio dei Polo, a partire dal 1271. I tre viaggiatori fanno ritorno nella Laguna nel 1295. L’altro fratello, Marco il Vecchio, si era già da tempo ritirato a Venezia. Gli anni orientali terminano dunque per i principali protagonisti della famiglia. C’è ancora un viaggio di Niccolò, figlio di Marco il Vecchio, e uno di Matteo il Giovane, che si imbarca nel 1300 per Creta, munito di qualche avere per commerciare. Vengono dunque lasciati ai piú giovani, figli naturali o illegittimi, le fatiche e i rischi dei traffici.
Un’onesta agiatezza
Marco il Vecchio e l’altro Marco, il viaggiatore, preferiscono investire capitali in contratti di colleganza, facendo fruttare i loro beni in affari di scarsa importanza. Ormai sedentarizzati, essi preferiscono godere della loro nuova dimora familiare. Dalle cuciture dei loro abiti le pietre preziose non escono piú copiose. A Trebisonda, al ritorno dal loro secondo viaggio, i Polo sono stati d’altronde spogliati di buona parte dei loro averi. Ma il testamento di Marco, redatto un anno prima della sua morte, avvenuta il 9 gennaio 1323, i suoi lasciti alla moglie e alle tre figlie, le sue disposizioni caritatevoli, rivelano un’onesta agiatezza. Agiatezza testimoniata anche dall’inventario, redatto piú di quarant’anni dopo, dei beni che una delle sue figlie aveva ricevuto da lui: drappi da letto e tessuti, mantelli e sete. La lista non enumera le meraviglie dell’Oriente, descrive piuttosto il quadro di vita di un mercante dotato di una grande casa, di beni adeguati, e convenientemente inserito nella società del suo tempo. MARCO POLO
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Fino ai confini del mondo
di Lorenzo Pubblici
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l tempo in cui i fratelli Polo intrapresero il primo viaggio verso l’Estremo Oriente (1250), l’Occidente cristiano aveva una nozione piuttosto vaga e spesso alterata dal fantastico di quelle terre lontane. Sin dai secoli dell’Alto Medioevo e fino al Duecento si riteneva che in Asia orientale vi fosse il Paradiso, pur senza saperlo ben localizzare. In pratica, si aveva di questa parte del mondo un’immagine statica e molto letteraria.
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Questa scarsa conoscenza era comunque circoscritta all’Estremo Oriente, poiché l’Europa dell’Est e anche i Paesi del Vicino Oriente erano ben noti agli Occidentali. I mercanti, in particolare, si spinsero assai presto verso Levante. È noto quali proporzioni assunse la colonizzazione latina in Crimea e su tutta la costa del Mar Nero; Amalfitani, Veneziani, Pisani e Genovesi furono molto attivi nelle regioni dell’impero bizantino già dal XII seco-
lo; Veneziani e Genovesi arrivarono sino alla foce del Don, sul Mar d’Azov, appropriandosi di Tana, e i Genovesi, in particolare, si spinsero fino al Mar Caspio; lo stesso Marco Polo dice: «’L mare che io v’ho contato si chiama lo mare di Geluchelan [la regione di Ghelan faceva parte della provincia persiana sulla costa del Mar Caspio o Mare di Geluchelan, come lo chiama Marco] (…) E nuovamente mercatanti di Genova mavicano per quel mare». In tale contesto il viaggio dei Polo rappresenta quasi un’eccezione, un evento che assume i caratteri di una vera e propria avventura, di cui fu protagonista la straordinaria intraprendenza del mercante duecentesco.
Miniatura raffigurante la carovana dei Polo in viaggio verso le Indie, da una tavola comprensiva di tutti i mari del mondo, nota come Atlante catalano, perché realizzata da geografi catalani che operavano a Maiorca; ultimata nel 1375, l’opera fu donata al re di Francia Carlo V. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
All’inizio del XIII secolo l’Asia fu oggetto di un vero e proprio sconvolgimento politico-geografico che ne mutò profondamente confini e struttura amministrativa. Attori di tale fenomeno furono i Mongoli, o Tartari (come li chiamavano in Occidente) o i Tartaro-mongoli, come li definiscono i Russi. Essi erano un insieme eterogeneo di stirpi nomadi, da lungo tempo in lotta per accaparrarsi i pascoli migliori, che, per motivi diversi e grazie all’opera di un grande condottiero, formarono il piú vasto impero che sia mai esistito. Temujin, noto a tutti come Gengis Khan, era il capo di una delle tante tribú della Mongolia orientale. Egli riuscí a unificare le tribú mongole costituendo una popolazione solida, compatta e omogenea, il cui esercito riscosse vittorie a ripetizione e pose in atto una serie di conquiste del tutto eccezionali.
Un impero sterminato
I Mongoli si appropriarono di un territorio le cui dimensioni erano impressionanti e, anche dopo la morte di Gengis, avvenuta nel 1227, di conquista in conquista, ampliarono il già vasto dominio. Il sovrano volle che, alla sua morte, l’impero fosse diviso fra i suoi quattro figli. Il maggiore di essi, Giuci, ebbe le steppe dei Khirghisi e i Paesi dell’Ovest, in pratica tutti i Paesi a nord e a ovest dei Monti Altai. A Ciagatay toccarono in eredità l’Asia Centrale, il Turkestan russo e i Paesi fino al Lago di Aral, e a Ogodej l’Estremo Oriente, cioè la Cina settentrionale e i territori vicini. Era antico costume mongolo lasciare al figlio minore le terre degli avi, e fu la sorte che toccò a Tuli, quarto figlio di Temujin. La parte di territorio che conosciamo col nome di Orda d’Oro coincideva piú o meno con l’attuale Russia centrale e sud-occidentale. L’immagine tradizionale dei Mongoli è quella di un popolo crudele, caratterizzato da una furia distruttiva straordinaria e privo di ogni interesse culturale. La storiografia ha discusso molto su questo aspetto e su quanto essi siano stati dominatori spietati o fautori di un processo di unificazione tutto sommato positivo. Va detto subito che quanto sappiamo su di loro proviene sostanzialmente dalle fonti prodotte da cronisti che subirono in prima persona la dominazione dei Tartaro-mongoli, quindi il loro giudizio non poteva essere troppo positivo. Il Pianto sulla distruzione di Rjazan’, una cronaca russa scritta in seguito alla conquista mongola della città medesima, nel 1237, e di Kiev nel 1240, li descrive come un castigo divino, una catastrofe spaventosa mandata da Dio per l’espiazione dei pecMARCO POLO
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Mercante, esploratore e scrittore A sinistra miniatura raffigurante Gengis Khan con due dei suoi quattro figli, da un’edizione del Giami’ at-Tawarikh (Raccolta di storie) dello storico persiano Rashid ad-din Fadl Allah. 1430-1434. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso mappa dell’impero mongolo: alla proclamazione di Gengis Khan imperatore (1206; giallo); alla morte di Gengis Khan (1227; verde); massima estensione dell’impero e dei khanati tra il 1259 e il 1368 (rosso); invasioni mongole in Europa tra il 1237 e il 1242 (frecce).
cati: «E scorreva come un fiume impetuoso il sangue cristiano in ragione dei nostri peccati». Sempre intorno alla metà del XIII secolo, però, Ata-Malik Juvaini, cronista originario dell’Iran nord-orientale, scrisse una storia dei Mongoli nella quale non esita a definire feroci e spietati gli invasori, ma ne elogia al tempo stesso la capacità di gestione delle città e riconosce la bellezza di alcune di esse, che sotto la loro dominazione vissero un’epoca di splendore «unico».
Mare del Nord Europa OR
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’ORO KHANATO DI OGODEI
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KHANATO DI CHAGATAI
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Arabia
AT O
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Il periodo compreso fra la costituzione dell’impero mongolo e il suo rapido declino (dagli anni Quaranta del Duecento ai Sessanta del secolo successivo) va sotto il nome di pax mongolica. Fu anche grazie all’unità amministrativa raggiunta in questo periodo se la «via di terra» per l’Oriente divenne sicura, consentendo agli uomini occidentali di spingersi laddove non avevano mai osato. Si pensi, per esempio, che,
HA
La pax mongolica
Africa
Karakorum
IMPERO DEL GRAN KHAN
Shangdu
Giappone
Khanbaliq/Dadu
Oceano Pacifico
India
Oceano Indiano Indonesia
Particolare di una statua in legno policromo dorato tradizionalmente identificata con Marco Polo che tiene un melograno, simbolo di ricchezza e prosperità. Copia ottocentesca dell’effigie del Veneziano venerata nel Tempio dei Cinquecento Dèi di Canton, in Cina. Venezia, Museo Correr.
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Sulle due pagine altre miniature tratte dall’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazzarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In questa pagina, Khubilai Khan consegna ai fratelli Polo una lettera per il papa; nella pagina accanto, Niccolò e Matteo Polo consegnano una missiva a Gregorio X.
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al tempo delle prime invasioni tartare, la Russia era un insieme di ben sessantaquattro domini nelle mani di centinaia di principi che si facevano la guerra in continuazione. Intanto in Occidente il potere era dominio sostanziale di tre grandi autorità: quelle del papato, di san Luigi di Francia e di Federico II. L’avanzata mongola era vista, soprattutto quando i Tartari giunsero fino all’Ungheria (1241) ed ebbero preso Pest e Buda, come una sorta di castigo divino, una punizione finale. Tale situazione fu presa molto sul serio dal papa, l’energico genovese Sinibaldo Fieschi, salito al soglio di Pietro col nome di Innocenzo IV nel 1243. Fu proprio il papa (in seguito al Concilio di Lione del 28 giugno 1245) a organizzare i primi viaggi
apostolici in Oriente presso il Gran Khan, al fine di conoscere meglio queste popolazioni e la loro civiltà, carpirne i segreti militari, valutare quanto fosse possibile avviarne l’opera di conversione e quali fossero le loro reali intenzioni. Gli emissari che meglio potevano assolvere tale compito erano gli Ordini mendicanti. E fu grazie anche a queste iniziative che, nell’immaginario collettivo, la penetrazione verso l’Estremo Oriente divenne meno irrealizzabile. Il primo Domenicano a viaggiare verso il Gran Khan e di cui si abbiano notizie documentate fu Andrea di Longjumeau, il quale dopo varie difficoltà raggiunse Tabriz, allora capitale della Persia mongola e oggi nel Nord-Ovest dell’Iran. I viaggi di Andrea e di un suo confratello, MARCO POLO
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Ascelino da Cremona, non ebbero risultati apprezzabili. Il primo, come detto, non proseguí oltre Tabriz; il secondo, pur arrivando fino al Karabagh, dov’era il campo del Khan Batu (maggio 1247), a causa forse della sua intransigenza, rischiò quasi la morte e fece rientro alla corte papale dopo aver ricevuto nelle proprie mani un editto del Gran Khan destinato a re Luigi IX di Francia.
Il viaggio di frate Giovanni
Ben altro risultato, anche ai fini della conoscenza di quella realtà lontana, ottenne il viaggio del francescano Giovanni di Pian del Carpine. La sua fu una missione che oggi potremmo definire di intelligence. Come abbiamo detto, al papa interessava infatti capire quale fosse il modo di combattere di queste popolazioni. Personaggio interessante, il frate umbro aveva forse conosciuto personalmente il santo di Assisi e aveva maturato una solida esperienza in campo diplomatico (rappresentando l’Ordine prima in Sassonia, poi in Germania, in Spagna e di nuovo in Sassonia dal 1221 al 1239). Nel 1245 gli fu affidata la missione ad Tartaros, grazie alla quale sappiamo molte cose sulle popolazioni tartaro-mongole. Il viaggio è narrato dall’Historia Mongalorum, un resoconto preciso e ricco di particolari sugli usi civili, religiosi e militari dei Mongoli. Dopo aver attraversato la Polonia e poi la Galizia, il frate giunse a Kiev, da dove proseguí verso Est fino all’accampamento di Batu sul Volga. In seguito all’incontro col Khan, il Francescano riuscí a ottenere il permesso di proseguire verso la capitale dell’impero, Karakorum, situata a est dei monti Altai, dove incontrò il Gran Khan appena eletto Güyük (agosto 1246).
I VIAGGI DI SAUMA Tutti conoscono, piú o meno bene, la vicenda di Marco Polo e molti sanno che c’è stato un viaggiatore arabo che ha forse viaggiato piú del mercante veneziano: Ibn Battûta. Meno noto è che, negli anni in cui Marco Polo viaggiava per conto del khan mongolo, un monaco cinese di nome Sauma percorse quasi le stesse sue tappe, ma al contrario, da Oriente a Occidente. La sua avventura è narrata in una cronaca, Storia di Mar Yahballaha e di Rabban Sauma, scritta da autore ignoto in siriano e scoperta nella seconda metà del XIX secolo.
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Inviato del khan Argun, sovrano dell’Iran, egli guidò, fra il 1287 e il 1288, una missione diplomatica presso i Regni occidentali di Francia e Inghilterra e la Santa Sede. Partí con l’amico Marco (che divenne Mar Yahballaha in seguito alla sua elezione come catholicos d’Oriente) dall’eremitaggio ove risiedevano, vicino a Kawšang. Furono a Khanbaliq, Tangut, Khotan e Kašghor. Non utilizzarono, come Marco Polo, la via del Pamir, ma passarono verso nord-ovest,
Nella pagina accanto ancora una miniatura dal Livre des merveilles di Marco Polo illustrato dal Maestro della Mazzarina raffigurante Khubilai Khan che riceve dai Polo i doni del papa. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
L’Historia rappresenta un risultato straordinario per dovizia di particolari e l’ampiezza del quadro presentato. L’esperienza di Giovanni di Pian del Carpine fu seguita da altre simili per scopo, ma solo l’Itinerarium di Guglielmo di Rubruck (fiammingo, anch’esso inviato dal papa) raggiunse la precisione e l’efficacia dell’Historia carpiniana nel raccontarci quel popolo nomade che tanto spaventava l’Occidente. Il primo viaggio in Cina fu intrapreso dai fratelli Polo, Niccolò e Matteo, rispettivamente padre e zio di Marco, «ne li anni di Cristo 1250». Partirono da Costantinopoli, dove avevano un’attività certamente ben avviata di commercio in pietre preziose e gemme («molte gioie per portare», come scrive Marco Polo; erano infatti beni che si potevano facilmente trasportare e di cui erano particolarmente amanti i sovrani mongoli). Da Costantinopoli «andarono in Soldania», l’odierna Sudak, in Crimea. Città a ovest di Caffa ed emporio frequentato dai Polo, i quali vi avevano un magazzino, Sudak era molto importante per i mercanti che lavoravano in questa zona: ne giungevano, infatti, molti dalla Turchia, ma non solo, diretti verso settentrione, soprattutto verso i mercati baltici. I fratelli Polo furono sicuramente nella città che Marco chiama Bolgara, l’attuale Bolgary a sud di Kazan’, sulla riva del Volga, dove incontrarono Berke, successo a Batu (generale e khan dei Tartari di Ponente), col quale ebbero un incontro felice: «E lo re fece grande onore a messere Niccolaio e a messere Matteo ed ebbe grande allegrezza della loro venuta». Successivamente i due furono a Bukhara, in Uzbekistan, anticamente capitale della Grande Turchia, dove conobbero Barac, re della Transoxiana, pronipote di Ciagatai. Rimasero nella città per ben tre anni e qui incontrarono gli ambasciatori del Gran Khan, coi quali partiro-
dal Tien Shan, e raggiunsero Talos. Furono nella regione del Khorosan e nella città di Tus, poi a Maragha in Azerbaigian. Qui Marco divenne catholicos d’Oriente e a Sauma fu affidata l’ambasciata per i sovrani d’Occidente. Sauma passò quindi da Trebisonda, navigò per il Mar Nero fino a Costantinopoli e poi verso l’Italia. Sbarcò a Napoli e si recò a Roma, dove non poté incontrare il papa, in quanto erano in corso le elezioni per designare il successore di Onorio IV. Partito da Roma passò per la Toscana, raggiunse Genova e andò a Parigi dove incontrò Filippo IV. La delegazione partí poi per l’Inghilterra (per la Guascogna, che era feudo inglese). Giunsero a Bordeaux, dove incontrarono Edoardo I, e da qui ripartirono per la corte di Arghun, dove giunsero probabilmente nell’autunno del 1288.
no per raggiungere il sovrano. La loro presenza a corte suscitò la curiosità di Khubilai, il quale volle che i fratelli veneziani recassero ambasciate al papa (era da poco stato eletto Clemente IV, succeduto a Urbano IV).
In attesa del nuovo papa
Partiti per fini commerciali, i fratelli Polo si trovarono cosí a dover rappresentare presso il papa nientemeno che il Gran Khan. Dopo un lungo viaggio di ritorno, furono ad Acri nel 1269 e rientrarono a Venezia. Al rientro appresero che era da poco (1268) morto il pontefice e dovettero attendere la nuova elezione. Di fatto questa non avvenne prima del 1271, anno in cui fu posto sul soglio di Pietro Tedaldo Visconti, legato papale che aveva affidato proprio ai Polo le lettere per il Khan. L’elezione del Visconti, col nome di Gregorio X, avvenne quando i fratelli, con Marco, erano già partiti da Laiazzo. In questo frangente si colloca un avvenimento curioso. Saputo dell’elezione papale, i fratelli rientrarono ad Acri, dove ricevettero ulteriori direttive per la loro missione. In quest’occasione furono loro affiancati due Carmelitani, Niccolò da Vicenza e Guglielmo da Tripoli. Questi viaggiarono con i tre mercanti fino a quando seppero che vi erano stati assalti musulmani a carovane in viaggio verso Levante. I frati non vollero proseguire oltre. L’itinerario dei fratelli Polo e del giovane Marco (giovane lo era davvero, ma non si pensi che fosse un’eccezione, per quei tempi, portarsi dietro un ragazzo di appena quindici anni, anche se il viaggio era pericoloso; anzi, era consuetudine nelle famiglie mercantili fornire ai figli un’educazione «commerciale» di base e inviarli a fare esperienze lontano da casa) rappresenta un esempio straordinario di come l’intraprendenza dei mercanti in quest’epoca fosse divenuta davvero notevole. Essi passarono per la Cilicia e l’Armenia, poi per Tabriz e Hormuz (Golfo Persico), poi attraversarono l’Afghanistan settentrionale e gli altopiani del Pamir fino alla valle di Tarym, e il deserto del Gobi. Approdarono alle regioni del Turkestan cinese, passando per la parte meridionale della Via della Seta, e, all’inizio dell’estate del 1275, giunsero a Clemenfu. Qui incontrarono il Gran Khan (Clemenfu, o Ciandu, era infatti la sua residenza estiva). Da questo momento inizia un periodo straordinario per Marco. Il Gran Khan lo elesse ambasciatore consentendogli di viaggiare in lungo e in largo per gli sterminati territori dell’impero, sempre ben protetto e attrezzato. MARCO POLO
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MARCO POLO E IBN BATTUTA: VIAGGIATORI A CONFRONTO
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Mare del Nord
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Mogadiscio
Mombasa
OCEANO ATLANTICO
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Surat
Mecca
DESERTO DEL SAHARA
Kilwa
Mar Arabico
MALDIVE
Grazie a questa sua nuova veste il nostro poté visitare luoghi che ad altri Occidentali erano praticamente inaccessibili, di cui ci ha lasciato descrizioni straordinarie.
RUSSIA
Una sposa per il re di Persia
Lago Baikal
Karakorum
T U R K E S TA N
OBI
EL G
D ERTO
DES
Kashgar
Shangdu Pechino (Cambaluc)
CINA
Yangzhou
Xi'an
TIBET
Suzhou Hangzhou
Chengdu
HI
MA L AY A Delhi
Fuzhou
Kunming
Chittagong
Guangzhou
INDIA
OCEANO
Pagan
PA C I F I C O Calicut
Mar Cinese Meridionale
CEYLON
Pasai Malacca
OCEANO INDIANO
SUMATRA GIAVA
Il viaggiatore arabo Ibn Battuta (13041368 o 1377) si rese protagonista di un’esperienza simile a quella di Marco Polo. Fra il 1325 e il 1354 visitò tutto il mondo musulmano dall’Africa settentrionale all’India, spingendosi anche nella Russia meridionale sino alla Malesia e alla Cina. Al suo ritorno in Marocco, dettò la relazione di questi viaggi (Rihla, ovvero Il dono degli osservatori) al letterato andaluso Ibn Juzayy: un’opera di grande interesse sia per le notizie geografiche sia per le informazioni di storia politica e storia del costume.
Durante questi anni Marco viaggiò attraverso lo Shen-si, il Sezechuan, fino a raggiungere lo Yunnan, nell’alta valle dello Yang-tze. Fu sulla costa orientale della Cina, da Pechino al FuKien sino al porto di Zaiton. Non bisogna però trascurare l’importanza che ebbe per le nostre conoscenze il viaggio di ritorno. Quasi sicuramente (è quanto afferma Marco nel Milione), nel 1291, vi fu un’ambasceria inviata da Arghun, re di Persia, in base alla quale egli chiedeva a Khubilai in sposa una principessa. Khubilai accettò e affidò ai tre Polo la giovane Cocacin, destinata ad Arghun. I nostri si imbarcarono nel 1292 a Formosa e viaggiarono per il Mare Cinese fino a Sumatra, dove rimasero per cinque mesi. Giunsero a Hormuz l’anno seguente. Per capire le difficoltà a cui andarono incontro si pensi che di oltre 600 persone facenti parte l’equipaggio originario ne sopravvissero solo 18. I tre Veneziani conclusero la missione lasciando la principessa a Ghazan, successore di Arghun che nel frattempo era morto. Dopo aver soggiornato, fra il maggio 1293 e il febbraio dell’anno seguente, in Persia, i nostri viaggiarono per terra fino a Trebisonda, sulla costa meridionale del Mar Nero. Da qui raggiunsero Costantinopoli e Negroponte. Furono a Venezia nel 1295 dopo quattro anni di viaggio e 17 passati in territori lontanissimi, e non solo geograficamente, da quell’Occidente europeo dal quale essi erano partiti. La figura di Marco Polo e l’attendibilità del Milione hanno fatto molto discutere gli studiosi. Ma ciò che vale la pena evidenziare è che dalle pagine del libro appare un uomo del suo tempo che sempre sottolinea, da «buon cristiano», se un popolo crede in Maometto oppure in Cristo, ma soprattutto appare un mercante, sempre preoccupato di contare, osservare le lavorazioni tipiche dei luoghi, gli animali da carne e da lavoro, le materie prime e i prodotti dell’operosità umana. L’opera poliana è quindi degna di fede molto piú di quanto l’andatura narrativa non faccia spesso ritenere e per noi, che questi avvenimenti li studiamo attraverso le fonti, Il Milione rappresenta un documento unico e lucido nell’aprire all’Estremo Oriente «ne gli anni di Cristo 1295». MARCO POLO
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Come in una fiaba
Particolare di una miniatura raffigurante cercatori di perle e pietre preziose destinate al Khubilai Khan, da un’edizione del Livre des merveilles illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. 66
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di Alvaro Barbieri
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ra le grandi creazioni della letteratura romanza del Medioevo, Il Milione è un’opera scaturita dalla collaborazione fortuita e feconda tra due figure del tutto diverse per provenienza, esperienze e mentalità: il veneziano Marco Polo e il pisano Rustichello, catturati dai Genovesi in due successivi scontri navali e incontratisi nel 1298 nelle carceri della Superba. Da un lato c’è l’uomo d’azione, formatosi nel mondo della mercatura, che ha percorso le immense estensioni dell’Asia gengiskhanide e solcato le acque dell’Oceano Indiano; dall’altro lato abbiamo invece il sedentario, l’uomo di penna che padroneggia gli strumenti della comunicazione letteraria. Come spesso accade nelle scritture di viaggio medievali, anche questo libro nasce dal contributo di due personalità distinte che mettono in gioco le loro rispettive competenze. I piú noti Itineraria scritti tra la fine del Duecento e la metà del Quattrocento risultano dal sodalizio di un viaggiatore-narrante con un letterato-estensore: la cooperazione tra i due autori è di solito registrata da una nota liminare (collocata nelle parti proemiali o nell’explicit) in cui il compilatore, auctor-scriptor, garantisce di aver verbalizzato fedelmente le parole di colui che ha vissuto e ricorda l’avventura, l’auctor-dictator.
Un’osmosi ricorrente
Sintomatico, a questo riguardo, il caso del missionario francescano Odorico da Pordenone, protagonista di un’eccezionale spedizione ad partes Indiae, il cui resoconto venne redatto nel 1330 dal confratello Guglielmo da Solagna. Ma analoghe forme di osmosi fra due autori si incontrano anche nel mondo islamico: il celebre Ibn Battuta (1304-1368/69) dettò le memorie delle sue peregrinazioni a un certo Ibn Djuzay, che le rifuse e ordinò in un’opera compatta e di mole considerevole. Come si vede, l’homo viator possiede conoscenze verificate de visu o raccolte da informatori, ma non è in grado di fissarle in forma letteraria, sicché deve avvalersi dell’homme du livre, il quale opera la trasposizione del vissuto sul piano testuale.
Un’altra miniatura dal Livre des merveilles di Marco Polo illustrato dal Maestro della Mazzarina raffigurante i fratelli Polo durante l’attraversamento della Persia. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Lo schema di collaborazione appena presentato ritorna nella composizione del Milione: a Marco Polo, infatti, vanno ascritti i contenuti informativi del libro; a Rustichello dev’essere attribuita la messa per iscritto di tali contenuti in prosa francese. Circa la genesi e le modalità di stesura non si può dire nulla di assolutamente sicuro. In assenza di dati certi, ci dobbiamo accontentare di quanto si ricava dal capitolo proemiale, dove si legge che il Veneziano, essendo «prigioniero nelle carceri di Genova, fece esporre [fist retraire] tutte queste cose [le notizie sull’Asia] a maestro Rustichello da Pisa, che si trovava in MARCO POLO
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quelle stesse carceri» (questa e le citazioni che seguono sono tratte dalla versione del Milione tradotta da Luigi Foscolo Benedetto e pubblicata da Garzanti, Milano 1942). Le esperienze e i saperi accumulati da Marco durante il soggiorno in partibus Orientis furono organizzati e messi in forma da Rustichello. Tuttavia, date l’ampiezza e l’organicità dell’opera, sembra molto difficile pensare a una semplice dettatura. È lecito anzi ipotizzare che il viaggiatore avesse messo a disposizione del maestro pisano un quaderno di appunti presi nel corso 68
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dell’itinerario e negli anni di permanenza nell’impero dei Mongoli, forse un brogliaccio di annotazioni di interesse mercantile strutturato alla maniera delle pratiche di mercatura.
La redazione originale
Il libro, lo si è già ricordato, venne composto originariamente in francese. Questa scelta non è affatto sorprendente per un testo di tipo didattico-informativo scritto in Italia settentrionale alla fine del XIII secolo. Nel DueTrecento il prestigioso volgare d’Oltralpe era
Come si evince dall’incipit del Milione, Marco e Rustichello aspiravano a raggiungere un pubblico internazionale, vasto e diversificato. Un pubblico che avrebbe dovuto comprendere tutti gli stati sociali laici: «Imperatori e re, duchi e marchesi, conti, cavalieri e borghesi, o voi, chiunque siate, che volete conoscere le varie razze umane e le singolarità delle diverse regioni del mondo, prendete questo libro». Il francese era di certo il mezzo piú adatto per indirizzarsi a un uditorio cosí eterogeneo. Si aggiunga che Rustichello, «professionista» della scrittura, aveva una buona dimestichezza con quella lingua, essendosene già servito in precedenza per scopi letterari: verso il 1272, aveva redatto una compilazione di materia arturiana nota come Roman de Meliadus. È inoltre probabile che anche Marco Polo avesse una qualche conoscenza dell’idioma di Francia, circolante a Venezia e largamente diffuso come strumento di scambio nell’Oriente latino e nei fondachi del Mediterraneo.
Un’infinità di trascrizioni
sovente utilizzato nella produzione letteraria nord-italiana, sia per compilazioni e rifacimenti di argomento cortese e cavalleresco (si pensi soltanto alla cosiddetta epica francoveneta), sia per la composizione autonoma di opere enciclopediche e storiografiche (basti citare il Trésor di Brunetto Latini e le Estoires de Venise di Martin da Canal). La lingua d’oïl non solo poteva vantare un’illustre tradizione letteraria, ma era anche la parlata romanza piú diffusa, quella cioè che poteva assicurare la piú ampia ricezione.
Miniatura raffigurante il Khubilai Khan che fa apporre il sigillo imperiale sulle monete, da un’edizione del Livre des merveilles illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Il testo originario del libro di Marco e Rustichello è andato perduto. A noi restano oltre 130 codici che tramandano molteplici versioni dell’opera, redatte in lingue differenti e secondo diverse strategie comunicative. Del Milione abbiamo dunque numerose versioni antiche (in toscano, veneto, latino, ecc.) composte in svariati ambienti socioculturali fin dai primi decenni del Trecento, versioni che documentano l’immediato successo dell’opera in luoghi e contesti diversi. Tra tutti i testimoni pervenutici, quello meno distante dalla stesura primitiva, tanto nella veste linguistica quanto nell’ordine della materia, è il manoscritto francese 1116 della Bibliothèque nationale de France di Parigi, correntemente indicato con la sigla «F». Nel manoscritto F l’opera poliana è chiamata Divisament dou monde, «Descrizione del mondo», titolazione che inserisce il libro nel filone della trattatistica geografica e che probabilmente risale alla volontà dei due coautori. Milione, denominazione documentata in alcuni esemplari della versione toscana trecentesca e abitualmente adottata in Italia, non è che la forma ridotta di Emilione, soprannome di un ramo della famiglia Polo. Altri codici riportano un ventaglio di diciture che sembrano orientare altrimenti l’interpretazione del dettato: il Livre des Merveilles mette l’accento sui mirabilia Indiae; il Del Gran Khan o l’Historia Tartarorum (segue a p. 73) MARCO POLO
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In alto la nave di Marco Polo in un’illustrazione inserita in una cinquecentina portoghese. Nella pagina accanto frontespizio del Libro del famoso Marco Polo, traduzione in spagnolo del Milione curata da Rodrigo Fernández de Santaella. 1503. In basso un ritratto del mercante veneziano nell’edizione pubblicata a Norimberga nel 1477.
UN CAPOLAVORO INCOMPIUTO Il segmento conclusivo del libro di Marco Polo è composto da una sequenza di capitoli sulle gelide regioni dell’estremo Nord e i potentati mongoli indipendenti, o solo formalmente dipendenti, dall’autorità di Khubilai Khan. Questa sezione appare meno coesa e strutturata rispetto al resto dell’opera: l’esposizione è meno posata e le «cartelle» geografiche sulla Russia e la Siberia occidentale sembrano affastellare i dati in modo frettoloso. Non solo. L’opera poliana si apre in modo maestoso, con un proemio ben articolato e di tono sostenuto. Ebbene, questa ampia ouverture non trova corrispondenza in un finale altrettanto solenne. Il Milione si conclude bruscamente, con una specie di «dissolvenza a nero», su una scena di battaglia: mentre ancora echeggia il frastuono dello scontro, un capo mongolo abbandona il campo per mettersi in salvo... A tali segni evidenti di incompiutezza si aggiungono ulteriori tracce di non-finito rilevabili da un estremo all’altro del testo: ambiguità delle voci narranti, instabilità del punto di vista, dimenticanze e pentimenti esplicitamente dichiarati: tutte sbavature affioranti a livello enunciativo che denunciano le esitazioni e il travaglio di una composizione ancora in progress. È possibile che la liberazione di Marco dalle carceri genovesi e il suo ritorno a Venezia e alla vita attiva abbiano provocato l’interruzione del sodalizio con Rustichello. In ogni modo, quali che siano state le vicissitudini dei coautori e le fasi della stesura, resta il fatto che al libro mancarono gli ultimi tocchi e il lavoro di revisione.
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Mercante, esploratore e scrittore Pagina tratta da una delle cinque edizioni manoscritte originali dei Viaggi di Marco Polo, appartenuta al re Carlo V di Francia. XIV sec. Stoccolma, Kungliga Biblioteket. Nella pagina accanto un’edizione in latino del Milione con annotazioni a margine di Cristoforo Colombo. XV sec. Siviglia, Bibliotheca Colombina.
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assegnano una posizione di primo piano a Khubilai e all’impero mongolo, ecc. Questa proliferazione di titoli è, almeno in parte, il riflesso dell’ibridismo del testo che si situa nel punto d’intersezione di generi diversi. E va detto che la polimorfia del libro di Marco, certo incrementata dalla molteplicità delle traduzioni e degli adattamenti, è già evidente nella stesura originaria, del cui disegno generale il manoscritto F offre un’immagine abbastanza attendibile.
Un’opera in tre blocchi
La redazione francese tràdita dal manoscritto parigino sembra incrociare il modello dell’itinerarium con quello del trattato geografico. Le notizie sull’Asia si distendono sul tracciato delle peregrinazioni orientali del Veneziano, sicché le schede geo-etnografiche relative alle regioni via via descritte, oltre a scandire la segmentazione in capitoli dell’atlante poliano, si sovrappongono alle tappe del viaggio. Tolta la sezione iniziale, che serve a fondare la credibilità degli autori, l’opera appare suddivisa in tre blocchi, che ricalcano la doppia parabola Europa-Oriente-Europa: il primo pannello, concernente i fatti di Persia e di Mongolia, rimanda al
percorso d’andata, attraverso la Via della Seta; il secondo, che tratta del Gran Khan e del suo impero, rinvia ai diciassette anni di soggiorno presso il sovrano mongolo; il terzo, infine, dedicato alle Indie, corrisponde al tragitto di ritorno per mare, lungo le rotte della Via delle Spezie. Un trattato, dunque, e al tempo stesso un racconto di viaggio. Ma non è tutto. L’abbondanza di notizie di natura commerciale e la precisa caratterizzazione merceologica dei prodotti inventariati fanno pensare a un’altra tipologia testuale, quella degli zibaldoni d’affari, dei manuali di mercatura. A tratti, inoltre, il tono scientifico del resoconto geografico è contaminato con temi e motivi propri del romanzo cortese. La marcia verso il cuore del potere gengiskhanide, incerta e piena di insidie, sembra riprendere lo schema narrativo della queste, mentre certi momenti della carriera di Marco nell’apparato imperiale mongolo ricordano da vicino l’ascesa e le imprese qualificanti dei cavalieri erranti del mondo arturiano. Ecco, in questa indefinitezza di statuto letterario, in questa mobilità estrema di forme e contorni, risiedono l’interesse e il fascino che il libro poliano esercita ancor oggi, a piú di sette secoli dalla sua composizione. MARCO POLO
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Incontro in Terra Santa A sinistra riproduzione ottocentesca di una miniatura del XV sec. raffigurante i Polo che consegnano al Gran Khan Khubilai la lettera a lui indirizzata da papa Gregorio X. Sulle due pagine uno scorcio degli ambienti sotterranei della cittadella di San Giovanni d’Acri, località nella quale si trovava Tedaldo Visconti al momento della sua elezione al soglio pontificio, nel 1271.
Prima d’essere eletto papa, Gregorio X ricevette a San Giovanni d’Acri i fratelli Polo. Un confronto del quale rimane traccia nelle pagine del Milione di Franco Cardini
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opo la morte nel 1268 di Clemente IV, il conclave che avrebbe dovuto deciderne il successore si trascinò per due anni a causa dei contrasti fra cardinali francesi e italiani. Il popolo di Viterbo cercò di spingere a una scelta rinchiudendo i prelati nel palazzo papale. Insolitamente, le preferenze si concentrarono su una figura estranea al conclave e dotata solo degli ordini minori: Tedaldo Visconti, piacentino, fu eletto papa il 1° settembre 1271 mentre si trovava a San Giovanni d’Acri, probabilmente sulla scorta della sua lunga esperienza politico-diplomatica. Il 1° gennaio 1272 il nuovo pontefice sbarcò a Brindisi dalla Terra Santa e, il 10 febbraio, entrò a Viterbo, dove pronunciò un discorso ai cardinali per presentare la grave situazione di quelle regioni, mettendo subito in chiaro quale sarebbe stato il suo principale interesse. Sempre a Viterbo, Tedaldo assunse il nome di Gregorio X, ricevette l’ordinazione sacerdotale e fu consacrato vescovo. L’incoronazione ebbe invece luogo a Roma, il 27 marzo in S. Pietro.
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Gregorio X
Mentre era ancora a San Giovanni d’Acri, Tedaldo incontrò un allora giovanissimo Marco Polo che, insieme con il padre e lo zio, si avviava sul cammino che l’avrebbe condotto in Cina alla corte di Khubilai Khan. Non si tratta soltanto di una curiosità, poiché Tedaldo cercò di sfruttare la novità di Occidentali diretti nel cuore dell’impero mongolo per provare a stabilire un contatto, come avevano già fatto, senza risultati, diversi missionari francescani nei decenni precedenti. Il drappello dei Polo era partito da Venezia nel 1271 ed era arrivato ad Acri; è a questo punto che incontrarono Tedaldo, giunto in Terra Santa al seguito del principe Edoardo d’Inghilterra; poi in estate lasciarono la città alla volta di Laiazzo; erano certamente lí all’inizio di settembre, quando arrivò la notizia che proprio Tedaldo era stato eletto pontefice. I mercanti veneziani ricevettero allora un’ambasciata dal nuovo pontefice, che chiese loro di rientrare subito ad Acri. Gregorio X pregò quindi i Polo di farsi accompagnare nel loro viaggio verso oriente da due frati domenicani: Guglielmo da Tripoli e Niccolò da Vicenza. Il gruppo tornò ancora una volta a Laiazzo, da dove iniziò l’avventura. Ma la situazione politico-militare era tutt’altro che tranquilla. Il sultano d’Egitto Baibars aveva proseguito le sue campagne contro gli Armeni di Cilicia, alleati dei Mongoli, mettendone a ferro e fuoco il territorio. Secondo il Milione, si deve a questa situazione di pericolo se i due Domenicani «ebbero gran paura di spingersi oltre; dissero perciò che non avrebbero proseguito il viaggio. Diedero a 76
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messer Niccolò e a messer Matteo tutti i privilegi e le lettere che avevano e si separarono da essi, andandosene col Maestro del Tempio»: ossia con Thomas Berard, allora (e fino al 1273) Maestro dei Templari, che non sappiamo esattamente a quale titolo si trovasse lí con loro, anche se l’Ordine aveva molti interessi nella regione.
Rapporti insospettati
Il repentino abbandono della missione ha destato non poche perplessità nei commentatori: difficile pensare che i due padri domenicani fossero tanto piú pavidi rispetto ai Polo, visto che a loro era stata affidata un’ambasceria pontificia. Inoltre, a quel tempo la guerra non era ancora giunta al suo culmine. Tuttavia, c’è forse un’altra chiave di lettura. Sappiamo che, nel 1273, Guglielmo da Tripoli compose in Acri un Tractatus de statu Sarracenorum, nel quale illustrava i tanti insospettati rapporti e i punti di contatto tra i princípi dell’Islam e il cristianesimo. A partire, prima di tutto, dalle comune origini veterotestamentarie. Nel suo libro, una concezione religiosa considerata in Occidente fino ad allora alla stregua di una bestemmia, acquistò di colpo le proporzioni di una fede sorella. D’altro canto, dopo la conquista mongola della Persia, i musulmani di Siria e d’Egitto avevano ragione di preoccuparsi seriamente, nonostante la vittoria riportata nel 1260 contro le forze lasciate in Siria da Hulegu Khan. Dinanzi al crescere di tale rivalità, anche il fronte cristianooccidentale – già percorso da numerose inimi-
In alto miniatura raffigurante papa Gregorio X che riceve i fratelli Matteo e Niccolò Polo, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto crociati fatti decapitare da Baibars in un’incisione realizzata da Gustave Doré per l’Histoire des croisades di Joseph-François Michaud, pubblicata in cinque volumi fra il 1811 e il 1828.
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Gregorio X con i Mamelucchi si potesse convivere. E che non fosse il caso di mettere in pericolo i ricchi affari che si potevano concludere a Damietta e ad Alessandria. Il che non impediva, è chiaro, di intessere relazioni commerciali con i Mongoli, cosí come si apprestavano a fare i Polo. Ma sotto il profilo delle alleanze politico-militari le cose andavano differentemente. Questo dato, ben piú della paura della guerra, può spiegarci la scelta dei due Domenicani. La lettura del trattato composto da Guglielmo non può che corroborare questa ipotesi: il frate lo stava elaborando proprio negli anni in cui sarebbe dovuto partire; dovrebbe infatti averlo cominciato nel 1271 e concluso due anni piú tardi. Forse il suo scopo era anche fornire un parere in vista del concilio di Lione del 1274, nel quale si sarebbe discussa la questione dei Mongoli e dei Mamelucchi. Guglielmo parla del sultano Baibars come di un uomo retto e virtuoso, che potrebbe nuocere molto con la forza dei suoi eserciti ai cristiani, ma che non li considera suoi nemici. A fronte di queste opinioni, come avrebbe potuto il Domenicano recarsi a parlamentare? La decisione di rientrare con il Maestro dell’Ordine del Tempio, allineato sulle medesime posizioni, è dunque giustificata dal contesto.
Ferite mortali
Gregorio X, cartolina cromolitografica n. 75 dalla Raccolta dei Sommi Pontefici Romani dedicata a papa Pio X e da questi benedetta. Roma, ottobre 1903.
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cizie e da durissimi conflitti d’interesse tra ordini militari, principi laici e città marinare italiche – si era spezzato proprio sulla scelta dell’alleato e dell’avversario cui contrapporsi. Per alcuni – gli Ospitalieri di San Giovanni, i Francescani, i mercanti genovesi, i Lusignano di Cipro, Manfredi, i principi armeni – bisognava appoggiare i Mongolo-persiani, che apparivano ben decisi a spazzare dalla Siria l’egemonia mamelucca. Al contrario, altri – i Templari, i Domenicani, i mercanti veneziani e pisani, Carlo d’Angiò fratello del re di Francia e dal papa designato re di Sicilia in luogo dello scomunicato Manfredi – erano del parere che
Insomma, si può dire che l’azione di Gregorio X verso l’Oriente si aprí con un fallimento; in generale, vecchio legato pontificio in Siria, egli non voleva arrendersi troppo presto al fatto che la realtà storica – e con essa la mentalità – stesse cambiando. Uomo all’antica, appena asceso alla cattedra pontificia volle gettare le basi per la soluzione dei tre problemi che a lui, abituato a pensare per categorie universali come dai tempi di Federico Barbarossa e d’Innocenzo III nessuno faceva piú sul serio, parevano altrettante ferite mortali nel corpo della cristianità: lo scisma della Chiesa greca, la vacanza del trono imperiale e la perdita del Sepolcro. Un siffatto programma richiedeva la generale pacificazione dell’Europa, e il papa intendeva attuarlo attraverso il Concilio Ecumenico apertosi a Lione nel maggio del 1274. Ma accadde che appunto quel Concilio, che doveva proclamare la renovatio del mondo secondo gli ideali universalistici, mise viceversa a nudo l’impossibilità di tradurre concretamente ideali del genere nell’epoca nuova. Cominciò col mancare chi avrebbe dovuto essere a guida della crociata, perché né Edoardo d’Inghilterra, né Filippo III di Francia presenziarono all’assise. Quanto alle
decime da versare per finanziare l’impresa, il problema in teoria fu risolto secondo le norme già stabilite da Innocenzo III e da Innocenzo IV. Ma si dovette in pratica constatare che sarebbe stato assai difficile vincere la resistenza del clero, che non intendeva pagare. Del resto, il fatto che Gregorio moltiplicasse le disposizioni piú minute e dettagliate per la futura spedizione ma non vi affiancasse neppure una indicazione almeno approssimativa sulla data di partenza degli eserciti, dimostra che anch’egli cominciava, se non proprio a dubitare, a rendersi progressivamente conto delle tante difficoltà. La decima da lui proclamata per gli anni 1274-1280 fu la prima veramente generale, organizzata secondo un piano di tassazione organico e capillare. Tuttavia, ciò non bastò a impedire che la raccolta del danaro presentasse gli inconvenienti consueti: abusi da parte dei collettori, resistenza da parte dei tassati – soprattutto perché si temeva che la decima si mutasse in imposta permanente –, esoneri accordati con criteri discutibili. Insieme al problema economico della crociata, il papa si occupò anche di quello militare. Quanto ai capi, solo Giacomo I d’Aragona si mise senza riserve a sua disposizione: ma Gregorio non si preoccupò eccessivamente della freddezza dei principi cristiani, perché confidava soprattutto nell’aiuto mongolo. Gli emissari del khan di Persia Abaga, convenuti a Lione, avevano infatti promesso che il loro signore si sarebbe impegnato contro i Saraceni; e dietro Abaga stava una delle sue mogli, la principessa Maria, figlia del basileus Michele VIII Paleologo che sognava un’alleanza tripartita fra il papa, Bisanzio e i Mongoli. Difatti, a Lione fu proclamata nel luglio 1274 anche l’unione della Chiesa latina con quella greca, e nel gennaio successivo a Costantinopoli; nel giugno di quello stesso anno prese la croce il re di Francia, e nell’ottobre fu la volta del re dei Romani Rodolfo di Asburgo.
La crociata mancata
Gregorio poteva credere a quel punto di essere a un passo dalla realizzazione dei suoi sogni. Ma i suoi piani, in realtà, disturbavano troppi interessi: soprattutto quelli di Carlo d’Angiò, che la riunione tra le due Chiese obbligava ad abbandonare un intrigo tramato con Venezia per restaurare l’impero latino di Costantinopoli; e anche quelli di Michele VIII, a cui l’amicizia con Abaga e con il papa in vista della crociata minacciava di creare seri dissapori con l’Orda d’Oro e con l’Egitto, il che avrebbe causato
all’economia bizantina un grave danno. E la crociata, difatti, non si fece. Gregorio X morí ad Arezzo ai primi di gennaio 1277, mentre da Lione tornava a Roma; sei mesi dopo lo seguí nella tomba il suo successore Innocenzo V che aveva tentato di portarne avanti il programma. I Mongoli di Abaga entrarono inutilmente in guerra con Baibars, e la morte stessa del terribile sultano, avvenuta a metà del 1277, non procurò ai franchi di Siria alcun vantaggio. Con Gregorio X nacque il piú organico e coerente piano di finanziamento della crociata – e della Chiesa stessa – che fosse mai stato concepito: e con esso anche la storia economica, finanziaria e piú tardi politico-religiosa della Chiesa (si pensi alla «protesta» di Lutero) conobbe una svolta radicale. Paradossalmente, però, quattro anni dopo la morte del re-crociato Luigi IX, emerse con la fine del pontificato di papa Gregorio il dato perentorio, anche se non ancora esplicito, che la «santa impresa» nata fra 1066 e 1099 era ormai divenuta impraticabile. Continuò, ed ebbe anzi molti revivals. Ma sotto altre vesti.
Il monumento funebre che custodisce le spoglie di Gregorio X nel Duomo di Arezzo. Ultimo decennio del XIII sec.
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ARGHUN, IL MONGOLO QUASI CROCIATO La grande esperienza di Marco Polo in Cina ebbe una conclusione dai toni fiabeschi. Incaricato da Khubilai Khan di un’ambasceria in India, al suo ritorno a corte trovò tre messi che provenivano dalla Persia. Riporta i loro nomi nel Milione come Oularai, Pasciai e Coia. Erano giunti a Khanbaliq (la «città del khan», progenitrice di Pechino) con un largo seguito, per richiedere una principessa da recare in sposa al loro signore Arghun. In quella fase storica (seconda metà del XIII-primi decenni del XIV secolo, n.d.r.), anche la Persia era sotto la dominazione mongola, per mano della dinastia degli Ilkhan. Ora, una delle mogli di Arghun Khan, Bolgara (cosí la chiama Marco Polo), era defunta. Di alta stirpe, aveva chiesto prima di morire che il suo posto fosse occupato da una donna di pari lignaggio. Arghun si rivolse cosí al prozio Khubilai, per celebrare un nuovo matrimonio che riconfermava per giunta l’alleanza tra i due regni. La principessa prescelta si chiamava Köchekin. Con grande fasto e dispiego di mezzi si organizzò il corteo che doveva condurla in Persia, e Khubilai Khan congedò i tre Veneziani da tempo presenti al suo cospetto (Marco, il padre Niccolò e lo zio Matteo). Avrebbero fatto parte del seguito, di fianco agli inviati di Arghun. Una volta giunti nell’ilkhanato di Persia, avrebbero poi proseguito il loro viaggio verso la madrepatria. Una sposa dal padre al figlio Come ha sottolineato la storica Marina Montesano, la circostanza narrata da Marco Polo è perfettamente confermata da un documento cinese rinvenuto nel 1941. Esso attesta che, nell’aprilemaggio 1290, erano presenti a Khanbaliq i messi Oulatay, Apusca e Coja. Si dispone in merito che facciano ritorno in Persia circumnavigando il subcontinente indiano, sulla rotta lungo la costa del Coromandel (nel Sud-Est del Paese), sfiorando quindi l’isola di Ceylon (Sri Lanka) sullo Stretto di Palk. Sarà proprio l’itinerario che indica Marco Polo per la prima «tratta» del suo 80
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percorso di ritorno. Quando tutti furono giunti alla corte persiana di Tabriz, si venne a sapere che Arghun era morto. La promessa sposa fu cosí consegnata al fratello Gaykhatu, che nel frattempo era salito al trono. Questi pensò bene di «riciclarla» assegnandola a Ghazan, figlio del defunto ilkhan, che avrebbe assunto la guida della Persia nel 1295. La notizia della morte dell’ilkhan prese in contropiede i frati francescani Guglielmo da Chieri e Matteo da Chieti. Erano stati incaricati di un’ambasceria presso il sovrano da papa Niccolò IV (1288-1292) e, al momento della partenza, a fine agosto 1291, non potevano sapere che Arghun fosse morto sei mesi prima, il 10 marzo. Lo stesso papa sarebbe morto l’anno successivo, chiudendo una pagina intensa di relazioni diplomatiche tra
Oriente e Occidente. L’estremo frutto di questa attività fu la missione affidata nel 1289 a fra’ Giovanni da Montecorvino (1247-1328), che riuscí a raggiungere la corte cinese di Khubilai Khan, spingendosi quindi oltre Karakorum (Mongolia centrale), la meta dei missionari-apripista dell’estremo Oriente, ossia fra’ Giovanni da Pian del Carpine (1190 circa-1252), emissario di papa Innocenzo IV, e il fiammingo fra’ Guglielmo di Rubruk (1210-15 circapost 1268), inviato di re Luigi IX di Francia. La missione in Cina fu un successo e, nel luglio 1307, papa Clemente V nominò Giovanni da Montecorvino arcivescovo di Kambalik. Il primo presule cattolico della Cina svolse il suo incarico fino alla fine dei suoi giorni, senza piú tornare in patria.
A destra disegno della lapide sepolcrale della cristiana Caterina Ilioni. 1342. Yangzhou, Yangzhou Museum. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la corte di Arghun Khan, da un’edizione del Jami’ al-tawarikh (Storia universale) di Rashid al-Din. XIV sec. Tutto ebbe inizio con la contrapposizione tra Mongoli e Arabi nello scacchiere del Medio Oriente. Gli ilkhan della Persia si trovarono sotto la minaccia dei Mamelucchi d’Egitto, e intavolarono relazioni con il papa e con i regni europei per stabilire un’alleanza contro il nemico comune. Essi infatti sapevano bene che la cristianità aveva a cuore la Terra Santa, e, per stabilire una comunicazione nel segno dell’amicizia, potevano fare affidamento sulla loro tolleranza nei riguardi dei cristiani d’Oriente. Inversione di rotta I Mongoli, d’altronde, si erano ormai assestati alle porte dell’Europa senza potersi spingere oltre, e dovevano fronteggiare molte difficoltà, sia nella propria compagine che sul fronte dei nemici esterni. Avevano perciò abbandonato la logica aggressiva delle richieste di sottomissione. Lo stesso Khubilai Khan, come testimonia Marco Polo, era tutt’altro che chiuso e ostile nei riguardi del mondo europeo, manifestando un sensibile cambiamento di rotta rispetto ai suoi predecessori. Se prima le missioni diplomatiche erano d’iniziativa del papa o del re di Francia, nel tentativo di frenare un’ondata feroce di violenza, d’un tratto le parti sembrarono invertite, quando Arghun, un fiero discendente di Gengis Khan, richiese insistentemente l’amicizia delle potenze cristiane. L’ilkhan Abagha, padre di Arghun, inviò una delegazione al concilio di Lione (1274). Presiedeva l’assemblea papa Gregorio X (1271-1276), l’autore di alcune missive recapitate dai Polo a Khubilai in persona. Lo stesso pontefice aveva in precedenza stabilito un contatto con il sovrano della Persia, e la comitiva giunta in Francia rendeva atto che qualcosa stava per cambiare. Abagha, addirittura, si sarebbe convertito? La
ITALIANI SUL FIUME AZZURRO Marco Polo assunse un incarico di governo nella città di Yangzhou, che ricorda come Iangui. Per tre anni fece le veci di uno dei dodici baroni preposti, direttamente nominati dal Gran Khan. Si trattava di una «potentissima» città, situata sulla direttrice del Fiume Azzurro (Yangtze Kiang). Nel XIV secolo vi si stabilí una comunità francescana. Nel 1951 si scoprí che, tra i materiali utilizzati nel 1360 circa per edificare una cinta muraria, c’era la lapide sepolcrale di una cristiana, oggi conservata nello Yangzhou Museum. L’iscrizione frammentaria, in caratteri gotici di buona fattura, riferisce che la donna, morta il 2 giugno 1342, si chiamava Caterina ed era figlia del defunto Domenico Ilioni, probabilmente oriundo di Genova. Si è persino trovata una ulteriore lapide del fratello di Caterina, Antonio, morto nel 1344, mentre il padre Domenico è attestato nel 1333 nella Cina del Nord, intento a raccogliere le ultime volontà di un altro italiano, Giacomo de Oliviero. La lapide di Caterina è ancor piú interessante per via delle figure che la corredano. L’artigiano che le incise interpretò con un tocco cinese le tipiche scene sacre dei cristiani. Una Madonna in trono col Bambino è sospesa in un cielo dove volteggiano due angeli, mentre dall’altro lato due ulteriori angeli depongono su un altare un bambino in fasce (Gesú). Seguono scene di martirio, con Santa Caterina d’Alessandria (omonima della defunta), ben riconoscibile dalle ruote del supplizio, due cadaveri e un Santo che sta per essere decapitato. Sulla destra un uomo inginocchiato (un prete?) protende un pargolo in direzione dei martiri, indicando forse la loro salvezza in Cristo.
Persia sarebbe divenuta una nuova potenza cristiana? Educato al rispetto e alla conoscenza del cristianesimo, che in Persia era professato dai nestoriani – ossia duofisiti, convinti che umanità e divinità fossero scissi in Cristo –, Abagha era buddhista. Suo padre Hülagü era nipote di Gengis Khan e fratello di Möngke, il terribile signore di Karakorum che accolse Guglielmo di Rubruk. Sensibile alla fede cristiana Proprio il padre di Abagha aveva abbattuto il califfato abbaside di Baghdad, dando luogo all’ilkhanato (1258), termine che sta a intendere un territorio conquistato per conto del Gran Khan. Ben presto si vide, però, che la situazione era resa critica dalla forza
dei sultani mamelucchi dell’Egitto. Questi inflissero due gravi sconfitte all’ilkhan Abagha e, quando questi morí, salí al trono il fratello Tekuder, desideroso di risolvere i problemi intavolando rapporti di amicizia con il sultano. Sia lui che l’altro ilkhan stabilitosi in territorio russo (nell’ilkhanato dell’Orda d’oro), si convertirono all’Islam. Tekuder prese cosí a chiamarsi Ahmed. Dovette però fare i conti con il nipote Arghun, che scatenò una ribellione, detronizzandolo e uccidendolo. Il nuovo ilkhan era buddhista come il padre, e altrettanto sensibile alla fede cristiana. La sua politica estera fu subito protesa al dialogo con l’Occidente. Dopo un primo contatto con papa Onorio IV, nel 1285, gli inviò nel 1287 il monacoMARCO POLO
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Arghun vescovo cristiano mongolo Bar Sauma, che rappresentava anche Sabalaha III, il patriarca dei nestoriani insediato a Baghdad. Quando giunse a Roma, il pontefice era, poi, deceduto. Fu tuttavia intavolato un lungo dialogo con i cardinali, in particolare con il francescano Girolamo d’Ascoli, che era probabilmente avvantaggiato dalla sua conoscenza del greco e dalla sua esperienza come legato papale a Costantinopoli. Bar Sauma – che ha lasciato un prezioso memoriale del suo viaggio – assicura che il suo patriarca segue la fede di san Tommaso, l’apostolo delle Indie. Alcuni figli dell’ilkhan sono stati battezzati, e il sovrano vorrebbe intavolare un’alleanza per liberare la Città Santa dal giogo dell’Islam. La missione prosegue, e il presule persiano suscita l’entusiasmo del re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314), a cui Arghun richiederà in seguito falchi da caccia e pietre preziose in dono. Bar Sauma ha anche modo di incontrare Edoardo I d’Inghilterra (1272-1307). Quando rientra a Roma, nel 1288, è stato eletto il nuovo pontefice, Niccolò IV, ossia lo stesso cardinale con cui si era intrattenuto in precedenza. Si crea cosí una forte amicizia tra il papa e il legato persiano, che proprio da Niccolò riceve la comunione nella Domenica delle Palme. Una conditio sine qua non Insieme a ricchi doni – tra cui un anello sfilato dal proprio dito nonché alcune reliquie delle vesti di Gesú e della Madonna –, il papa invia ad Arghun due lettere. Nella prima esprime gratitudine per l’attenzione rivolta ai missionari latini, e lo esorta al battesimo. Nella seconda intende sottolineare che la conversione è una conditio sine qua non. L’ilkhan non può proporsi come liberatore della Terra Santa se prima non entra nella comunione dei credenti. Senza la croce non si può essere crociati, e se non si è crociati come si possono ottenere la benevolenza del vero Dio e la vittoria? Il sovrano, d’altro canto, pensava che la conversione potesse essere affrontata in un secondo momento. Arghun insiste nel passare all’azione, e, nell’ambito di una quarta ambasceria, dopo la primavera del 1290, invia una lettera al
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In alto miniatura raffigurante una disputa fra nestoriani e cattolici a San Giovanni d’Acri. XIII sec. Nella pagina accanto ritratto di papa Niccolò IV (al secolo, Girolamo Masci), olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 16001624. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
papa dove giustifica il suo temporeggiamento sul proprio battesimo, che non vuole chiaramente affrontare: «Noi Mongoli, discendenti di Gengis Khan, noi diamo piena libertà ai nostri sudditi mongoli di farsi cristiani, o di restare quello che sono, solo il Cielo eterno ne sia a conoscenza! (…) Ora, se ti dico che non ho ricevuto il battesimo, ti offendi, ma se solo si prega il Cielo eterno e si pensa come conviene farlo, non è come averlo già fatto?» (traduzione di MostaertWoodman Cleaves/Franchi). Il Cielo, infatti, è la divinità suprema dei Mongoli, e sotto la sua maestà, insomma, il battesimo può attendere. Per l’ultima missione in Persia che organizza (1291), Niccolò IV torna a scrivere al sovrano senza sapere che è già deceduto. In una lettera del 21 agosto, si congratula per la rinascita in Cristo di un figlio avuto da Uruk Katun, moglie cristiana di Arghun con cui il
papa aveva stabilito un’amicizia epistolare. Proprio in onore del pontefice, quel figlio è stato battezzato nell’agosto 1289 con il nome di Niccolò! Arghun pensa probabilmente che questo basti a risolvere la questione religiosa che lo riguarda. Il papa, dal canto suo, si sente investito di una evidente paternità spirituale, e scrive personalmente al neobattezzato, come se fosse un confratello missionario in una terra ostile, che si deve muovere come un agnello in mezzo ai lupi. Memore dell’insegnamento di san Francesco, suggerisce a Nicolaus di mantenere le sue precedenti abitudini, senza ostentare la sua nuova condizione religiosa, onde evitare dissensi e scandali con i suoi conterranei. Un precedente illustre Nella predetta lettera ad Arghun, il papa si mostra a un certo punto un po’ imbarazzato. Il sovrano gli aveva infatti indirizzato una richiesta a cui teneva molto, ma che non poteva essere evasa – e di ciò se ne scusa –, perché non era affatto consona agli uomini di Chiesa. Di che cosa poteva trattarsi? Quasi sicuramente, secondo un’antica consuetudine di alleanze, l’ilkhan avrebbe voluto cementare la sua
amicizia con l’Occidente unendosi a una principessa, e magari si rivolse a Niccolò IV come a un sovrano qualsiasi che a tal fine poteva mettergli a disposizione una figlia o una nipote. In alternativa, avrebbe potuto attivarsi per cercare la sposa presso un’illustre casa regnante, come aveva fatto proprio con lui Khubilai Khan. D’altronde, c’era il precedente di suo padre, l’ilkhan Abagha, che aveva sposato nel 1265 la piccola Maria Paleologina (1258/9-1282), una figlia naturale dell’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo (1261-1282). Nella sua ultima missiva (23 agosto 1291), infine, il papa annuncia ad Arghun che ha bandito quella crociata che si concluderà con la perdita di Acri, ultimo avamposto europeo in Terra Santa. Niccolò IV confida nei propositi di Arghun, e lo invita nuovamente a battezzarsi, ma è meno tetragono del solito, poiché la guerra incombe. L’alleanza tra Mongoli e «Franchi» non ebbe mai luogo, e il lungo lavoro del papa si dissolse nella disfatta. Nicolaus, il figlio cristiano di Arghun, per giunta, si sarebbe poi convertito all’Islam. Avremo modo di ritrovarlo con tutt’altro nome, nella veste di fervente seguace del Profeta. Furio Cappelli MARCO POLO
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Cosí la Cina divenne... vicina La redazione del Milione svelò all’Occidente splendori e miserie dell’Asia profonda: Marco Polo fece luce su antiche civiltà, usi e costumi singolari, straordinarie ricchezze e saperi scientifici di prim’ordine di Vito Bianchi
In alto ritratto di Marco Polo con Il Milione sottobraccio, mosaico di Francesco Salviati. 1867. Genova, Palazzo Doria Tursi. Sulle due pagine le coste della Cina disegnate in un portolano. Venezia, Museo Correr. A oltre tre anni dall’inizio del suo viaggio (1271), Marco Polo raggiunse i confini di quello che allora era chiamato Catai e arrivò poi a Pechino. 84
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ell’immaginario collettivo, il viaggio di Marco Polo in Cina è stato a lungo associato quasi esclusivamente all’idea romanzesca che del personaggio viene offerta dalle pagine del Milione. Pure, la vicenda poliana si inserisce perfettamente in un contesto storico peculiare per i destini dell’Oriente e dell’Occidente. Innanzitutto Marco Polo nasce, cresce e viene educato in un ambiente che è specificamente quello dei mercanti, in una Venezia che, nel XIII secolo, ha condotto a maturazione l’assetto di un proprio, autentico, saldo impero commerciale,imperniato sul Mediterraneo e rivolto al Levante. Per l’economia euromediterranea è questo il periodo della «rivoluzione commerciale», durante la quale si ridefiniscono equilibri sociali che, nelle città sempre piú in crescita, portano all’affermazione prepotente del ceto mercantile. In contemporanea, dall’altra parte del mondo, si avvia una fase di grande apertura mercantilistica, con una decisa incentivazione delle vie di comunicazione (la Via della Seta, la Via delle Spezie, la Via del lapislazzuli), che permette un rinnovato e piú moderno scorrimento di merci e di idee. Si tratta di un fenomeno susseguente alla cosiddetta pax mongolica, l’epoca di pacificazione universale innescata dall’espansione dei Mongoli di Gengis Khan. L’estensione del dominio gengiskhanide fra Asia ed Europa aveva in effetti unificato una fascia territoriale enorme, in cui la circolazione e i collegamenti s’erano realizzati abbastanza tranquillamente, e comunque piú agevolmente rispetto al passato. Era durata qualche decennio. Poi, qualcosa aveva preso a cambiare. A Bisanzio, uno dei riferimenti per i traffici euro-asiatici, gli avvicendamenti del basileus potevano ribaltare gli indirizzi commerciali a seconda delle convenienze politiche o delle inclinazioni personali del sovrano di turno. Nei distretti siro-libano-palestinesi, le crociate avevano incattivito gli animi, e la disgregazione dei Regni latini di Terra Santa non prometteva nulla di buono per chi aveva fin li potuto commerciare piú o meno liberamente, imparando ad apprezzare la varietà dei prodotti che dal Levante affluivano verso i porti mediterranei. Inoltre, l’asse politico-religioso che s’era andato consolidando dal 1263 fra il khanato dell’Orda d’Oro (nella Russia centro-meridionale) e il sultanato d’Egitto, entrambi retti da dinastie votate all’Islam, stava allungando un’ombra oscura sulle reali possibilità che i commerci lungo le direttrici mediorientali potessero effettivamente mantenersi inalterati. Sicché piú d’una preoccupazione era subentrata
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in coloro che avevano l’abitudine di frequentare disinvoltamente gli empori egiziani, dell’Asia Minore e della Palestina. Su Alessandria, ad esempio, erano confluite per diverso tempo le porcellane, le spezie, le seterie e tutti i prodotti che partivano dalla Cina e via mare transitavano per le coste del Sud-Est asiatico, approdando al Golfo Persico, al Mar Rosso e alle sponde settentrionali dell’Africa. Il Delta del Nilo era fulcro degli scambi: i mercanti cinesi, indiani e asiatici in genere vi riversavano i loro pregiati articoli, che i commercianti europei (specialmente di Venezia) acquistavano in gran copia per rivenderne in Occidente.
Nuovi scenari
L’Egitto era stato quindi, per molti decenni, un crocevia essenziale nelle relazioni che avevano permesso alla galassia mercantile dell’Oceano Pacifico di correlarsi col Mediterraneo, al Cinese di incontrare il Veneziano. Ma i riassestamenti politici che si stavano configurando nel trentennio finale del Duecento sembravano dover inibire la continuazione di commerci aperti e durevoli. Per come si presentavano adesso, i residui possedimenti microasiatici dei Bizantini, le piazze mercantili mediorientali o quelle egiziane erano «a rischio», e andavano in qualche modo bypassati. D’altronde, rinnovati scenari s’erano profilati per i mercatores occidentali ancora piú a Oriente, con l’impero mongolo. Da quando si erano insediati a nord del Fiume Giallo, nel mitico Catai (eco toponomastica della dominazione esercitata dal popolo dei Kitai fra X e XII secolo), i gengiskhanidi avevano favorito le transazioni internazionali. Inserendosi
Ritratto di Khubilai Khan, dipinto su seta. Post 1294. Taipei, Museo Nazionale.
nella sequenza dinastica cinese, il nuovo imperatore Khubilai Khan, nipote di Gengis Khan, finirà per assoggettare anche la Cina meridionale e fonderà la dinastia chiamata Da Yuan (che significherebbe «Grande Origine» o «Forza Primordiale»), schiudendo la «scatola» delle preziosità cinesi. Per gli stranieri che si fossero recati in Cina, i vantaggi sarebbero stati tangibili: fra i privilegi sarebbe rientrato il diritto di muoversi liberamente nei territori imperiali, con la priorità nei trasporti delle merci. Peraltro, i commercianti ospiti non sarebbero stati gravati né dalle esazioni sulle mercanzie né dalle tasse doganali. E, alla bisogna, i forestieri piú preparati sarebbero stati utilizzati dagli Yuan per assolvere a mansioni burocratiche rilevanti, con incarichi governativi ragguardevoli, o col compito di consiglieri militari e finanziari.
Un’opportunità da non mancare
Già un primo viaggio, intrapreso nel Levante intorno al 1260, aveva fatto capire a Niccolò e Matteo Polo (padre e zio del nostro Marco, mercanti veneziani con basi commerciali anche in Crimea), che con gli stranieri il gran khan intratteneva ottimi rapporti. Era un’opportunità da non lasciarsi sfuggire: pertanto, nel 1271 i due decisero di ripartire per il Catai, portandosi appresso il diciassettenne Marco. Il viaggio, come testimoniato nel Milione, non sarà dei piú semplici, fra deserti e
BEN VENGANO I MERCANTI EUROPEI Le agevolazioni di cui godevano i forestieri nell’impero asiatico del gran khan Khubilai permettevano un accumulo di sostanze che, spesso, venivano trasferite nei Paesi di provenienza dei mercanti. A immiserirsi era di conseguenza la classe mercantile cinese, condannata a una progressiva scomparsa, o al massimo a una stentata sopravvivenza: tradizionalmente attivi e influenti, con la loro vitalità i finanzieri cinesi (e specialmente quelli meridionali) rappresentavano una minaccia per un organismo statale che necessitava d’esser padroneggiato, anche economicamente, dai nuovi dominatori mongoli. Khubilai Khan voleva evitare che le pulsioni nazionalistiche e le rivolte potessero essere alimentate da congrui sostegni materiali: di conseguenza, l’amministrazione imperiale mirava a sostituire gradualmente i mercanti indigeni con personale europeo o centro-asiatico con personale europeo o centro-asiatico.
montagne, malattie e banditi. Ma alla fine, dopo mesi e mesi di peripezie, i Polo giungeranno in Cina. Il flusso di viaggiatori, mercanti o ambasciatori che a vario titolo aspiravano a un colloquio col gran khan rendeva i Polo dei visitatori uguali a tanti: avrebbero potuto essere congedati abbastanza presto se non si fossero
Particolare di una scultura in pietra raffigurante un dragone, da Shangdu, capitale estiva dell’impero cinese sotto la dinastia Yuan.
SPLENDORI IMPERIALI La sbalorditiva sensazione che dovette suscitare in Marco Polo la città di Shangdu è fedelmente documentata dalle vestigia che le indagini archeologiche vanno restituendo. Imponenti porte urbiche, muraglie marmoree con l’anima in loess pressato, vie ordinate, torrioni, magazzini, botteghe, abitazioni, rioni popolari e quartieri nobiliari sono riconoscibili nel verdeggiare della pianura circostante. I resti d’un amplissimo cortile sembrerebbero indiziare il favoloso giardino imperiale, che accoglieva animali e uccelli rari e che, ingentilito da piante esotiche, invitava al divertimento e allo svago la corte khanale. Delle architetture palaziali sono state rinvenute decorazioni floreali in marmo, basi di colonne, pavimentazioni policrome, gocciolatoi sagomati a testa di drago e tegolame invetriato. Impronte di edifici buddisti, taoisti, confuciani e musulmani paiono poi confermare quell’eclettismo religioso che i gengiskhanidi propugnavano per realizzare una pacifica coesistenza fra le varie fedi del loro immenso potentato.
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UNA REALTÀ MULTIETNICA La mescolanza di culture che l’impero degli Yuan si trovava a gestire riemerge dalle ricerche archeologiche condotte presso la necropoli di Zhenzishan, a sud-est di Shangdu, dove accanto a sepolture che denunciano prevedibilmente un’etnia cinese o mongola sono riemerse le spoglie di individui di razza bianca. A meno di non volerli collegare con «i piú bianchi uomini del Paese e’ piú begli e’ piú savi» che Marco Polo poté discernere per il Tenduc (forse eredi di un originario ceppo indoeuropeo dell’Asia centrale, accertato con sicurezza fino all’VIII-IX secolo), quei resti, assieme al reperimento di alcune iscrizioni in arabo, sarebbero il sintomo di una polarizzazione multiculturale e multietnica.
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In alto miniatura raffigurante i fratelli Polo al cospetto di Khubilai Khan, da un’edizione del Devisement du monde, traduzione in francese del Milione. 1520-1530. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra la città di Cambaluc (Pechino) nel mappamondo di fra Mauro. 1459. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
TUTTI VESTITI A FESTA Le feste organizzate da Khubilai Khan, cui assistette Marco Polo, erano davvero speciali: piú di mille banchettanti in contemporanea potevano desinare nel palazzo che accoglieva il convivio dello Zuoma. Durava tre giorni la festa piú splendida e costosa, riunendo aristocratici, guardie imperiali e ministri in un grandioso padiglione che possedeva una travatura di bambú ed era ornato da figure serpentiformi in lacca aurea attorcigliate ai pilastri. Nel salone, che era alto piú di cento piedi e che veniva saldamente ancorato all’esterno tramite tiranti di corda tinteggiata, campeggiavano dipinti murari con ornamentazioni floreali e zoomorfe. Tutti i convitati erano tenuti a presenziare ai festeggiamenti con l’abito zhisun, donato loro dall’imperatore e caratterizzato dall’avere un colore uniforme per il copricapo e il vestito: e a ogni tornata di quei roboanti sollazzi s’imponeva il cambio obbligatorio degli indumenti, che dovevano essere sempre diversi.
mostrati di un qualche interesse per l’apparato istituzionale, ovvero per l’economia di uno Stato in evoluzione, di un impero dalla duplice anima: una che allignava in Cina, e l’altra che non dimenticava la Mongolia. Una urbana, l’altra nomadica. Ecco perché c’era Dadu/Pechino, «Capitale di sotto», detta anche Khanbalik (la «Città del khan»), emblema del vivere cittadino, proiettata nel futuro degli Yuan; e c’era piú a nord Shangdu/Kaiping, «Capitale di sopra», affacciata sulla steppa e, quindi, sul passato mongolo. Proprio qui, nell’estate del 1275, pervennero i Polo, In questa pagina miniature tratte da un’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto, un banchetto alla corte del Gran Khan; a sinistra, una festa alla corte di Khubilai Khan.
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MARCO POLO I resti dell’Antico Palazzo d’Estate (Yuanming Yuan), grandiosa residenza imperiale a Pechino, edificata nel XVIII sec. e distrutta nel 1860, durante la seconda guerra dell’oppio.
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dove Khubilai Khan trascorreva i mesi caldi evadendo dall’afa e dall’umido pechinese, e dove dispiegava il suo enorme padiglione regale, sfarzoso e adatto a contenere centinaia di ospiti. Farà abbastanza in fretta, Marco Polo, a entrare nelle grazie del gran khan. E avrà, cosí, la possibilità di muoversi nell’immensità dell’impero Yuan, in qualità di inviato del sovrano.
Manodopera coatta
In Europa, nel Medioevo, le città contavano soltanto alcune migliaia di abitanti, e gli edifici monumentali consistevano di norma nel palazzo dell’autorità pubblica e nella cattedrale, emblema del potere religioso. Molto piú estese appar-
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vero invece a Marco Polo le città cinesi: fra giardini stupendi e deliziose pagode, miriadi di residenze accoglievano centinaia di migliaia (e a volte milioni) di persone. Khanbalik-Pechino era allora l’apoteosi del Levante piú sfolgorante e meraviglioso. Khubilai ne aveva voluto fare un simbolo della potenza imperiale, e non s’era fermato davanti a niente pur di ultimare il suo programma edificatorio. Il denaro era stato profuso a cascata, e una quantità esorbitante di contadini aveva dovuto lasciare i campi per lavorare forzatamente alla costruzione della megalopoli. Certo, la manodopera strappata alle campagne per essere trascinata nei cantieri cittadini, e i raccolti compromessi dalla mancanza di brac-
In basso, nel riquadro il Ponte del Fosso Nero, sul fiume Yongding, nei pressi di Pechino. L’opera destò l’ammirazione di Marco Polo e, in età moderna, è stata ribattezzata con il nome del viaggiatore veneziano.
cianti, avrebbero messo in ginocchio l’agricoltura. Il malessere dei Cinesi verso il governo sinomongolo degli Yuan si sarebbe acuito. Ma nulla avrebbe mai distolto il gran khan dal proposito di esternare la grandiosità del proprio dominio. Marco Polo rimase abbagliato da Khanbalik e dal suo impianto urbanistico regolare che, traboccante di quartieri per artigiani e mercanti, di complessi religiosi e zone residenziali, si ispirava ai classici canoni cinesi, con il palazzo del khan e la «città imperiale» a insistere sul grande asse viario centrale sud-nord. Vaste e superbe architetture sovrastavano le porte cittadine, e ne facevano delle gemme in cui s’avvertiva l’influenza dell’arte himalayana.
L’opulenza di Pechino attraeva frotte di commercianti e tonnellate di mercanzie, le piú svariate, le piú costose, che impressionarono Marco Polo per il valore e per i quantitativi disponibili: perle, gioielli, carri colmi di seta da scaricare nelle fabbriche di tessuti, generi di consumo d’ogni fatta attivavano nugoli di compratori e venditori. Le transazioni si effettuavano con banconote di vario taglio, garantite dal sigillo di Khubilai ed emesse dalla banca imperiale, che Marco Polo poté riconoscere come un prodotto della lavorazione della corteccia del gelso. Se usurata, la cartamoneta veniva tranquillamente cambiata (benché la sostituzione implicasse una tassa del tre per cento), di modo che le capacità d’acquisto restassero inalterate. Muovendosi per la Cina, Marco Polo ebbe cognizione di un sistema viario perfettamente organizzato: sulle tante arterie erano dislocate, a distanze regolari, delle stazioni attrezzate per il riposo dei viandanti e per il cambio delle cavalcature, specie in relazione ai servizi postali e alle messaggerie del gran khan. Vettovaglie,
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carri e portantine non mancavano mai, in una maglia che integrava i trasporti terrestri coi collegamenti fluviali. Date le distanze enormi da percorrere, infatti, gli spostamenti di uomini e soprattutto di derrate avvenivano tramite i fiumi e i canali, su battelli e chiatte. Anche per la realizzazione dei collegamenti acquatici gli Yuan facevano ricorso ai lavori forzati: moltissimi Cinesi erano costretti ad abbandonare mestiere e famiglia per provvedere allo scavo di nuove canalizzazioni. La mobilitazione coatta di manovalanza era volta al miglioramento della viabilità per il transito dei carichi mercantili, e in particolare per assicurare i rifornimenti di viveri (riso in primis) e di beni voluttuari alla classe dominante, stanziata prevalentemente a Pechino. Corvées da un lato, quindi, e grandiosità dall’altro. Sulla pelle d’una marea d’operai semi-schiavizzati, la dinastia Yuan rimpolperà la propria gloria: il «Grande Canale», scavato in epoca Sui (581-618) e assai rimaneggiato fra XIII e XIV secolo, coi suoi 1794 chilometri di lunghezza costituirà il corso artificiale piú lungo del pianeta, da Pechino ad Hangzhou.
Un habitat familiare
Il potere insomma manifestava e glorificava se stesso con l’esibizione delle acque irreggimentate di fonti, laghi artificiali, giardini e canali. L’abbondanza idrica e le giravolte delle fontane erano uno spettacolo che Marco Polo riscontrò un po’ dovunque, nelle province visitate durante il suo andirivieni da Pechino, e che dovevano
QUELLA «LANA» RESISTENTE AL FUOCO... Le pietre nere che prendevano fuoco, il carbon fossile che si cavava in quantità dal ventre delle montagne era il combustibile principale dei Cinesi. Costava assai meno della legna, e rendeva molto di piú: e Marco Polo intuí al volo la possibilità che quello strano materiale offriva di risparmiare legname e di venire incontro alle esigenze del popolo, col suo prezzo piú che abbordabile. Da alcune zone montagnose della Cina (a tutt’oggi non ancora bene individuate) derivava poi quella che in Europa era conosciuta come lana di «salamandra». Chiaramente, e Marco lo capí bene, non si trattava della lucertola che le superstizioni occidentali credevano resistente al fuoco. Lungi dalle leggende fantasiose, era l’asbesto a fornire le fibre lanose che, pestate in mortai di rame e liberate con una lavatura dalle scorie terrose, venivano intessute per foggiare drappi di amianto. Inizialmente scuri, quei panni divenivano poi immacolati con una passata finale sulla fiamma: e di siffatto procedimento Marco potrà avere conferma tramite il suo compagno Zufircar, un ingegnere turco che per circa tre anni dovette essere preposto dal gran khan alle miniere della Cina nord-occidentale.
In alto, sulle due pagine un tratto della della Grande Muraglia, imponente opera difensiva nata allo scopo di contenere le incursioni del Nord e tracciare una linea di demarcazione tra i territori dell’impero cinese, occupati da comunità stanziali, e le popolazioni nomadi. A sinistra il Grande Canale, che unisce Hangzhou (nella foto) a Pechino, scavato in epoca Sui (581-618) e rimaneggiato fra il XIII e il XIV sec.
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ricordare Venezia, l’osmosi terracquea d’una città cresciuta nell’acqua e che sull’acqua aveva costruito le proprie fortune. A un veneziano, l’habitat cinese doveva apparire quasi familiare. Solo che in Cina tutto assumeva forme e proporzioni inimmaginabili. Una quindicina di chilometri a sud-ovest di Pechino un viadotto fenomenale, costruito intorno al 1189, cavalcava le acque con una miriade d’archi e pilastri in marmo. Era il Ponte Lugou (oggi segnato anche come Marco Polo Bridge): adorno di statue leonine e di balaustre scolpite, apparve al Veneziano cosí largo da consentire il transito di dieci cavalli affiancati. Sotto le arcate, le correnti sospingevano i vascelli che muovevano le mercanzie dell’entroterra, e il brulichio di merci si intensificava specialmente sui grandi corsi fluviali come il Fiume Azzurro, immensa arteria mercantile della Cina. In corrispondenza degli empori, i ponti potevano essere sormontati da case e botteghe in legno che indiziavano artigiani, negozi, compravendite, mentre nelle lo-
calità piú importanti le navi attraccavano vicino a strabilianti architetture marmoree, che Marco ammirò decorate da pitture meravigliose. Trasportati per ogni dove, spezie e aromi pervadevano il Catai, e lo zenzero era un articolo diffusissimo. Di seta, poi, straripavano i negozi delle circoscrizioni settentrionali. L’industria tessile produceva stoffe impreziosite da ricami in oro, che illeggiadrivano le dimore aristocratiche cinesi oppure venivano esportate. Sui banchi delle rivendite si poteva trovare persino il corallo, che in alcuni dipartimenti tibetani le fanciulle mettevano al collo, e con cui si ornavano le divinità, essendo un materiale di gran pregio. Ma di questa mercanzia Marco Polo non dovette stupirsi: ben comprendeva che gli effetti globalizzanti della rivoluzione commerciale potevano spostare i coralli dai fondali del Mediterraneo (lungo la costa algerina e tunisina, attorno alle Baleari, nei mari di Sardegna, di Sicilia, dell’Elba, delle isole Ionie e di Trani) alle giogaie del Tibet, e oltre. MARCO POLO
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I mille volti di un impero Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto, Khubilai Khan riceve perle e turchesi; a destra, la raccolta del pepe; nella pagina accanto, una battaglia fra Mongoli e Birmani. 94
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IL «VENTO DIVINO» FRENA L’ESPANSIONE Khubilai Khan proprio non ammetteva che il Giappone/Cipangu si sottraesse al pagamento del tributo. Cosí, nel 1274, decise di attaccare l’arcipelago giapponese.Tuttavia l’invasione fallí: la resistenza dei difensori si combinò con una tempesta tremenda, che nottetempo finí per decimare le navi e l’esercito degli assalitori. Di nuovo nel 1281, e con un apparato bellico ancor piú dirompente, Khubilai tornerà ad assalire il Giappone. Ma di nuovo gli ardimentosi samurai riceveranno insperata manforte dall’ennesimo tifone, abbattutosi sulla flotta del gran khan alla fonda presso Takashima. Nella mentalità religiosa giapponese, l’inatteso uragano era il segno evidente di un intervento superiore: il kamikaze, il «vento divino», aveva messi in salvo i Nipponici, manifestando la sacra tutela estesa su di loro dai numi celesti. Sulla piú consona terraferma invece, a settentrione della Cina, Khubilai seppe farsi valere. Per soffocare una rivolta nella Manciuria e nella Mongolia orientale, nel 1287-88 il gran khan intervenne in prima persona. A bordo di un alto padiglione trasportato da elefanti, si incamminò alla guida delle sue truppe nelle piane mancesi, incontro a Nayan, l’avversario principale. Colto di sorpresa dal dispiegamento di forze ben superiori, il rivoltoso dovette soccombere al termine di un combattimento selvaggio, di cui Marco Polo conobbe esattamente l’andamento, raccontandone poi nel Milione.
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ttorno al 1280 Marco Polo mosse per lo Yunnan, a sud del Fiume Azzurro. Lambí le propaggini tibetane e, fra Xichang e Kunming, scoprí una provincia ubertosa, ricca di garofano aromatico e cannella, popolata dalla fauna piú diversa, odorosa del muschio estratto dagli zibetti, prodiga di zenzero e grossi pesci lacustri. Scarseggiavanoi vigneti, ma un buon vino lo si distillava dal grano e dal riso, mescolati a spezie che mai avrebbero raggiunto le botteghe europee. I torrenti donavano pagliuzze auree, mentre i commerci impiegavano talora per moneta il salgemma, trasformato in panetti mediante cottura. In alternativa, in alcuMARCO POLO
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ne località potevano usarsi delle conchiglie particolarmente pregiate. Il viaggiatore veneziano conobbe pure la pesca delle perle nei laghi, che era monopolizzata dall’amministrazione imperiale, e poté prendere informazioni sull’estrazione del turchese dalle montagne. Dal ventre di enormi coccodrilli che proliferavano nelle paludi fluviali si ricavava invece un fiele ritenuto efficace per curare i morsi dei cani, le malattie dei bambini e le difficoltà delle puerpere nel partorire. La molteplicità d’uso e la non semplice reperibilità rendevano quel medicinale carissimo sul mercato, cosí come un costo elevato aveva la ricercatissima polpa di alligatore. Piú oltre, sulla strada da Dali a Bhamo, fece ancor piú meraviglia a Marco Polo scoprire presso i maschi di etnia Dai l’usanza di decorare la dentatura, sia inferiore che superiore, con un rivestimento dorato. Già i tatuaggi delle persone e la vasta piana dell’Irrawaddy evocavano la Birmania: la capitale, Bagan, era detta la «città dei centomila templi», e sfavillava di costruzioni che i regnanti birmani avevano commissionato per magnificenza personale e per zelo religioso. Le torri
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ricoperte d’oro e argento, le campanelle pendule dalle architetture a giocare col vento esprimevano la grandezza e la raffinatezza di un reame che rientrava nelle mire egemoniche di Khubilai. A ponente si profilava la Penisola indiana coi suoi elefanti, i suoi eunuchi, le sue copiose rivendite di nardo, galanga, zenzero. Sull’altro versante, l’ulteriore Indocina risultava divisa in tre Stati: l’Annam, che comprendeva il Tonchino e il Nord vietnamita; il Champa, che si allungava dal Vietnam alla Cocincina; e il reame khmer della Cambogia. Negli anni Ottanta del XIII secolo, la Penisola indocinese diverrà bersaglio di incursioni e occupazioni quasi ininterrotte da parte delle truppe di Khubilai.
Il mare non si addice agli Yuan
L’avanzata nel Sud-Est asiatico rappresentava la naturale prosecuzione dell’espansionismo Yuan, e presupponeva motivazioni sostanzialmente economiche: l’Indocina era un ottimo mercato d’esportazione dei prodotti cinesi. Da lí, il passo per assoggettare l’Indonesia era breve: pur tuttavia, le spedizioni degli Yuan nell’arcipelago indonesiano non saranno mai coronate da pieno successo. La mancanza di appoggi terrestri
Veduta dell’area archeologica di Bagan (Pagan), nel Myanmar (già Birmania). XI-XIII sec.
costituiva sempre un grave handicap, per armate che con le intraprese marittime non avevano mai avuto eccessiva confidenza. Lo si dovette constatare anche nel corso dei due assalti condotti dal gran khan contro il Giappone (il Cipangu) e conclusisi con un fallimento, al tempo in cui Marco Polo si trovava in Cina. Oltre l’impero sino-mongolo del Catai c’era in effetti un Oriente ulteriore che si immaginava traboccante di perle rosse. Era una terra luccicante per l’oro che rivestiva massicciamente i palazzi regi, che foderava le residenze signorili, che adornava i saloni, le camere, le finestre, le pareti dei castelli con uno spessore di almeno due dita: mai nessun commerciante ne aveva carpito un solo grammo, ed era perciò che se ne sarebbero potute reperire quantità esorbitanti: o perlomeno questo contenevano le previsioni, che altro non erano se non visioni oniriche, di
cui Marco Polo sentí spesso parlare (e che rivelerà, primo fra gli Europei, agli Occidentali). Frequentando i porti cinesi, il Veneziano si entusiasmò inoltre per gli enormi vascelli a quattro o a sei alberi che incasellavano decine e decine di cabine, per l’agio dei mercanti. Fasciati da un doppio strato di legno d’abete, i traghetti che dalla Cina muovevano per il subcontinente indiano possedevano uno scafo suddiviso da paratie in compartimenti stagni, di modo che le falle provocate da uno scoglio o da una balena non pregiudicassero la linea di galleggiamento e l’integrità delle mercanzie stivate nella pancia delle navi. Per calafatare le chiglie, Polo notò che non si usava la pece, bensí un composto di resina, calce e canapa tritata, estremamente vischioso. Su quegli straordinari navigli trovavano posto centinaia di marinai che, alla bisogna, sedevano a vogare
Statua colossale di Lao Zi, filosofo cinese di cui non si conoscono con esattezza né il nome, né le vicende della vita; probabilmente è figura del tutto leggendaria. Epoca Song, X-XIII sec. Quanzhou, Cina. A lui viene comunque attribuita la redazione del Daodejing, scrittura sacra fondamentale del taoismo.
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Statuine in terracotta raffiguranti, da sinistra, un mercante, un guardiano e una domestica. Epoca Yuan, 1279-1368.
I QUATTRO QUARTI DELLA SOCIETÀ Il sistema legislativo degli Yuan suddivideva il popolo in quattro categorie. La piú importante annoverava i Mongoli. Poi venivano i Semuren (la «Gente dagli occhi colorati»), comprendenti gli Europei o gli Asiatici che si erano affiancati ai conquistatori mongoli nelle loro imprese: ed erano gli appartenenti a questo gruppo sociale che potevano esercitare i commerci, accedere alle cariche istituzionali e usare le armi. Piú sotto stavano gli Hanren (la «Gente di razza Han»), in prevalenza abitanti della Cina settentrionale. Ultimi, i
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Nanren (la «Gente del Sud») erano i Cinesi di piú fresca sottomissione, residenti nei territori meridionali dell’ex reame Song. Le loro prerogative apparivano davvero minime, se non proprio nulle: il divieto di addestrarsi nell’uso delle armi e di portarne, l’inibizione ad apprendere la lingua mongola, l’interdizione a contrarre matrimoni misti erano misure volte a tenere lontani dalle cariche statali e da ogni intromissione politico-istituzionale i cittadini di un Sud prospero e civilizzato.
in file di quattro per ciascun remo. Alla nave-madre facevano da corona barche di dimensioni minori, trainate con corde o legate in sospensione sui fianchi del battello: venivano impiegate nelle emergenze, nelle operazioni di marineria minuta, oppure per imbarcare carichi supplementari di pepe, trasportato a ritmo continuo sulle rotte oceaniche: cosicché, a fine stagione, l’usura delle carene consigliava di aggiungervi un’ulteriore fasciatura di tavole, sempre serrate da una duplice chiodatura in ferro, fino a un massimo di sei rinfasci.
Ragazze morigerate
Bronzetto raffigurante un viaggiatore occidentale. In alto, a destra una banconota stampata in epoca Yuan, 1279-1368.
Girando per le regioni che toccavano il Pacifico, Marco Polo conobbe altre sfaccettature dell’universo cinese. I precetti confuciani avevano influenzato larghi strati della società, in particolare nei territori prossimi allo Shandong, la provincia natía di Confucio. Il viaggiatore veneziano restò meravigliato dalla morigeratezza delle Cinesi di buona famiglia: erano fanciulle che rifuggivano dalle feste e dai balli, dalla baldoria e dai discorsi spinti, che non parlavano mai a sproposito, che snobbavano i corteggiatori, e che solo in compagnia delle madri uscivano, di tanto in tanto, per recarsi a pregare nel tempio, o in visita ai parenti: sempre MARCO POLO
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UNA SELEZIONATA SCHIERA DI CONCUBINE Aveva una sessantina d’anni. Aveva la gotta, e Marco Polo se ne accorse. Ma Khubilai Khan, e anche questo non passò inosservato al Veneziano, conservava pure un appetito sessuale incredibile. Una libidine che andava saziata con quanto di piú prelibato in fatto di giovinette fosse reperibile. Le mogli imperatrici non erano sufficienti al sovrano, che pure con loro era solito giacere generando decine di figli. Le fanciulle piú belle, le piú famose per la loro pelle vellutata, fiorivano notoriamente presso l’antica tribú mongola degli Ongirat: la stessa che aveva fornito la prima e prediletta moglie, Borte, al fondatore dell’impero, Gengis Khan. Cosí, anche per riallacciarsi idealmente al suo illustre predecessore, Khubilai faceva accuratamente selezionare le sue compagne di letto solo fra le ragazze ongirate. Funzionari erano regolarmente inviati a fare una scelta dei migliori esemplari muliebri, che venivano passati in rassegna e giudicati da commissioni esaminatrici. A ciascuna donzella si attribuiva un punteggio a seconda dell’avvenenza. E alla prima scrematura seguiva un’ulteriore cernita, compiuta direttamente a corte. Qui la selezione si faceva ancor piú rigorosa: le candidate al giaciglio imperiale dovevano infatti passare controlli severissimi ed essere sottoposte a un tirocinio di buone maniere. Se ne testava la verginità, le abitudini igieniche e perfino la bontà dell’alito. Russare nel sonno significava essere scartate: non ammetteva molestie olfattive o uditive, Khubilai, allorché sei nuove ragazze, a turno, venivano introdotte nella sua camera privata, ogni tre notti. Le dame che non avevano superato l’ultima prova, quelle «quasi buone», restavano comunque nell’orbita khanale come vallette, ricamatrici o spose di un qualche funzionario.
Miniatura raffigurante il banchetto organizzato per festeggiare il genetliaco di Khubilai Khan, da un’edizione del Livre des merveilles du monde di Marco Polo. XV sec. Oxford, Bodleian Library.
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mantenendo, però, lo sguardo basso, per non incrociarlo con gli sconosciuti. In casa, le donzelle bene educate se ne restavano a lavorare nelle proprie stanze, e raramente comparivano dinanzi al padre, ai fratelli, o anche ai familiari piú anziani. Va da sé che la verginità, in un simile contesto, era un requisito fondamentale in funzione del matrimonio. Per Marco Polo era dunque comprensibile che, considerata la preziosità dell’essere vergini, le donne camminassero a passettini, per non allargare piú di tanto il compasso delle cosce e compromettere la compattezza della vulva: e l’inviato del gran khan non poté fare a meno di paragonare la compostezza delle gentildonne cinesi alla sguaiataggine delle femmine di origine mongola, che addirittura non mostravano remore nell’andare a cavallo a gambe larghe, col serio rischio – secondo l’autore del Milione – di rimanerne deflorate!
Evocare gli spiriti
Ma oltre alla verecondia la Cina serbava sacche di superstizione che si esprimevano nell’adorazione di una molteplicità di entità spirituali, e in forme di religiosità prossime alla magia e alla superstizione. Marco Polo dovette conoscere personalmente l’operato di alcune vecchie che, millantando d’essere in contatto con idoli di un’altra dimensione, erano capaci, fra fumi d’incenso ed evocazioni spiritiche, di far recuperare gli oggetti smarriti o rubati alle sfortunate vittime di furti o dimenticanze. Collegandosi con spiriti ultraterreni, le vegliarde riuscivano infatti a indicare i luoghi e i possessori delle cose perse o trafugate, e a mostrare il sistema idoneo a recuperarle. Su coloro che rifiutavano di restituire il maltolto si abbatteva la maledizione della maga: le ladre erano condannate a ferirsi a una mano o a cadere nel fuoco, oppure a incappare in brutti incidenti domestici; i furfanti maschi, a loro volta, qualora avessero negato la restituzione della refurtiva, sarebbero incorsi nella frattura di un piede, di una gamba, di un braccio o in un qualsiasi altro malanno derivante da occupazioni di stampo prettamente virile. Si trattava insomma di malocchi, per certi aspetti affini al Vudú. Sortilegi, che andavano in qualche modo ricompensati con regali, ma a cui non dovette mai prestare troppa fiducia un uomo razionale come Marco Polo. Comunque, molti fra i Cinesi incontrati dal Veneziano credevano negli astri: per ogni neonato venivano appuntati luogo, giorno e ora della
SE IL CAPPELLO È APPESO ALLA PORTA... Marco Polo sentí dire che nelle province tibetane per le strade, negli alberghi, in alcuni accampamenti, stuoli di vecchie madri proponevano le loro figlie a chi avesse voluto approfittarne. Le donne piú adatte al matrimonio erano quelle che avevano giaciuto col maggior numero di uomini, e che potevano certificare l’entità dei loro incontri sessuali tramite la quantità di gioielli ricevuti in regalo dai mercanti in transito. Piú erano le collane di cui ciascuna ragazza poteva fregiarsi, maggiore la dote che avrebbe recato al marito. Un buon partito, dunque: le spose piú desiderabili erano evidentemente originate da forme abbastanza esplicite di prostituzione. Ma al di là delle tradizioni autoctone raccolte dal viaggiatore veneziano (e dei giudizi morali), presumibilmente il mercimonio era sintomo di un tenore economico precario, che spiegava il locale brigantaggio e i miseri vestiti di canapa e pelli di cui, pure, seppe Marco Polo. Nell’itinerario che dovette portarlo nello Yunnan, Marco Polo non rinuncerà a condire con un sorriso episodi di puro e semplice meretricio: fra le scene piú sapide del viaggio, in un’atmosfera boccaccesca si ritroverà dinanzi all’inveterata abitudine che alcune donne avevano di concedersi ai forestieri di passaggio, col beneplacito del coniuge, o del padre, o comunque del padrone di casa. Anzi era proprio lui, l’uomo di famiglia, a invogliare mogli e figlie ad accondiscendere alle libidini degli estranei, poiché questa era reputata un’azione gradita alle divinità, che avrebbe apportato benessere al raccolto e felicità alla compagine familiare. Sicché il cappello, o qualsiasi oggetto personale che lo straniero appendeva fuori dalla finestra, aveva un significato inequivocabile: «non disturbare». Vedendo quell’indicazione, il marito che frattanto s’era allontanato nella residenza di campagna evitava accuratamente di ritornare al focolare domestico, almeno finché il segnale non fosse stato rimosso: e potevano trascorrere, ricorda Marco Polo nel Milione, anche tre giorni filati!
Particolari del Festino notturno di Han Xizai, dipinto su rotolo di seta realizzato da Gu Hongzhong. Pechino, Museo della Città Proibita. L’opera narra la vita licenziosa di un funzionario imperiale, Han Xizai, sospettato di infedeltà, intento a un festino notturno insieme a complici e belle ragazze. Il pittore fu mandato alla festa dall’imperatore, affinché spiasse il comportamento del funzionario e ne riferisse attraverso le immagini.
procreazione, insieme alla stella che aveva sovrinteso alla nascita. Astrologi erano consultati sull’opportunità di intraprendere un’impresa o un viaggio, e la scienza divinatoria manteneva intatta la sua secolare popolarità.
A tavola solo se puliti
In diverse province della Cina Marco Polo constatò che l’igiene corporale era curata con scrupolo pressoché sconosciuto nel resto dell’ecumene: tutti i giorni, sin da bambini, i piú costumati avevano per regola quella di lavarsi ben bene in bagni dotati di acqua fredda, ritenuta piú salutare per il fisico. Drappelli di servitori aiutavano le persone nel detergersi, e non era possibile mangiare se non prima d’essersi lavati. Nelle città visitate, Marco Polo osservò inoltre come l’entrata di ciascuna abitazione recasse scritti i nomi del signore, della signora, dei figli e dei loro servi. Per gli alberghi vigeva la regola di registrare la presenza e il periodo di permanenza degli ospiti, e di cancellare la registrazione al momento della loro partenza: gesti, pratiche, abitudini che al Veneziano parvero segni indubitabili di una grande ed evoluta civiltà. MARCO POLO
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Una seduzione durata 15 anni
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egli anni Ottanta del XIII secolo Marco Polo si recò a Yangzhou, delegato da Khubilai a esercitare i poteri di funzionario imperiale, verosimilmente addetto al mercato del sale. Conobbe allora alla perfezione le stratosferiche entrate che la movimentazione del prodotto recava all’erario statale. Yangzhou, presso il delta del Fiume Azzuro, collegata a Pechino dal Canale Imperiale, adagiata fra bellezze naturali che tuttora attirano un flusso annuale di milioni di turisti, costituí una tappa rilevante per
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il Veneziano. A lui, qui, è attualmente dedicato un museo cittadino. Una statua di Marco Polo sorge invece in una piazza ad Hangzhou. È la città che nel Milione è chiamata Quinsai (da Xingzai, «Sede di passaggio», cioè «Capitale provvisoria», come i Song definivano una località dove ritenevano di aver radicato solo temporaneamente la corte imperiale, in attesa di riconquistare le terre settentrionali della Cina). Si trattava, in ogni caso, di una metropoli esemplare nel delineare le peculiarità della cultura cinese, e di cui Marco Polo ha offerto una descrizione ineguagliabile.
Veduta della città di Hangzhou. Sullo sfondo si riconosce la sagoma della pagoda Leifeng.
ATMOSFERE INCANTATE Oltre ad Hangzhou Marco Polo conobbe Suzhou, ricca di artigianato e commercio di seterie e spezierie, prodiga di rabarbaro che cresceva in gran copia sulle montagne del circondario, e di zenzero fresco. Con la ricchezza dell’economia locale si accordavano le delizie cittadine, la dolcezza dei giardini, l’orditura romantica dei corsi d’acqua e dei magnifici ponti in pietra. «In cielo il paradiso, in terra Suzhou e Hangzhou», era il proverbio. Da allora, dal tempo delle esplorazioni poliane, l’incantesimo che impregna la città non s’è disciolto, e il piacere delle passeggiate fra camminamenti e isolotti, la poesia che dalla natura erompe nel verde degli alberi e negli spruzzi colorati dei fiori, fanno intendere il motivo per cui Suzhou, col suo fascinoso e incomparabile paesaggio a nord di Shangai, sia soprannominata la «Venezia della Cina».
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Quinsai gli apparve innervata di strade e canali che armonizzavano il traffico umano fra piú di un milione e mezzo di case e ville. Ornate spesso da giardini fiabeschi, le architetture residenziali apparivano decorate con pitture e sculture deliziose. Gli sfarzosi appartamenti dell’aristocrazia, inframmezzati da templi sontuosi e monasteri imponenti, davano su un meraviglioso specchio d’acqua che lievi imbarcazioni carezzavano mollemente. In mezzo al lago, due isolotti incastonavano dei padiglioni arredati con mobilia lussuosa e vasellame di pregio, per chi volesse festeggiarvi nozze e convivi. I battellini, dipinti con figure sinuose, erano accessoriati di tutto punto per intensificare il piacere: avevano comode poltroncine sopra e sottocoperta, e in cabina possedevano oblò apribili o richiudibili, a piacimento, per creare un po’ d’intimità o anche per lanciare sguardi sul paesaggio intorno. Fra file ordinate di piante, i viali cittadini disponevano ad Hangzhou di un congegno di drenaggio delle acque pluviali, e luccicavano magnificamente lastricati in pietra e mattoni. Su e giú per vie ombrose, a tutte le ore e fino a sera, andavano le vetture, gonfie di tende e cuscini, dei signori in cerca di trastulli nei parchi verdeggianti.
Scene di vita quotidiana
Nei quartieri in cui medici e astrologi esercitavano le rispettive professioni si insegnava a leggere e a scrivere. Per le piazze era un brulicare di mercanti e un pullulare di mercanzie. C’era di tutto, e tutto era disponibile, a volontà: verdura e frutta, pesche gialle e bianche, pere, riso, spezie, e carni di capriolo, cervo, daino, lepre, coniglio, pernice, fagiano, anatra, oca, e capponi, e pollame vario. Si poteva trovare (per mangiarne) anche carne di cane, mentre nelle macellerie si reperivano tranci di vitello, bue, capretto e agnello. Sulle tavole delle pescherie guizzavano pesci di mare o di lago, che Marco Polo ritenne grassi e saporiti poiché l’immondizia metropolitana, riversata in acqua, doveva convertirsi in eccellente mangime ittico. Il pepe, poi, fluiva a iosa, al ritmo di quasi diecimila libbre giornaliere. Gioiellerie, vinerie o drogherie orlavano ciascun piazzale al pianoterra. Ai piani alti s’elevavano invece le dimore di persone pacifiche ed educate. L’assenza di gelosie e di invidie, il rispetto per le donne e il senso benevolo dell’accoglienza erano i pregi di una città che finí per sedurre Marco Polo. Alla seduzione non erano estranee le dame di piacere: le si «annusava» anche di lontano, per 104
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Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto, una veduta della città di Hangzhou; nella pagina accanto, a destra, gli esattori delle imposte della stessa Hangzhou.
i profumi in cui si fasciavano, e le si trovava per tutta la città, con seguito di fantesche, in alloggi traboccanti di finezza. Non si trattava di mere prostitute: le intrattenitrici cinesi di Hangzhou somigliavano piuttosto a etere greche o a geishe giapponesi. Erano infatti colte ed esperte non solo nel regalare carezze e lusinghe, ma anche nel dialogare e trovare parole adatte a ciascun uomo. A controllare l’amministrazione locale provvedevano i magistrati nominati da Khubilai. I funzionari avevano il compito di assegnare la vigilanza sui molteplici ponti cittadini, mentre dalla cima d’una torre, eretta su una collinetta, un guardiano poteva scrutare l’area metropolitana e lanciare l’allarme nel caso di risse, ribellioni o incendi. Tutto sembrava perfetto e perfettamente organizzato. Nondimeno per le strade, negli occhi della gente, Marco sentí fermentare l’odio, som-
messo, generalizzato: capí, il legato del gran khan, quanto i cittadini di Hangzhou detestassero incrociare sentinelle e soldati mongoli, ritenuti degli intrusi, degli occupanti illeciti, che avevano tolto ai Cinesi la loro legittima dinastia.
Zucche e grasso come esche
Nella provincia del Fujan, Marco Polo vide pure cittadelle fortificate e centri urbani piú o meno estesi, in contrade floride per selvaggina e uccellagione, ordinate in poderi che, lavorati a oltranza, restituivano frutta eccezionale. Nelle campagne scorrazzavano bestiole desuete per l’Occidente: i polli pelati (le galline more a seta, curiosi gallinacei coperti da peluria nera), e i «papioni» (probabilmente scimmie cinocefale d’Asia), che danneggiavano i raccolti e, di notte, si avvicinavano a rubare le cibarie delle carovane in sosta. I carovanieri avevano perciò studia-
to un trabocchetto, che consisteva nello svuotare una zucca e nel riempirla con del grasso a mo’ di esca: i fastidiosi incursori vi infilavano la testa e non riuscivano piú a liberarsi, perdendo l’orientamento e finendo per essere accalappiati: le loro carni, cucinate, dovevano piacere molto, e il loro vello si poteva rivendere a ottimi prezzi. Per intrappolare invece i grossi felini carnivori venivano impiegati dei cagnolini bianchi, che col loro latrare attiravano le fiere in buche profonde e camuffate: anche in questo caso, gli animali catturati potevano essere uccisi per mangiarne la carne e rivenderne la pelle. Oppure venivano recuperati vivi, per esaudire le richieste dei signori che amavano circondarsi di fauna esotica nelle loro lussuose residenze. Quella sorta di mercato zoologico era peraltro soltanto una voce, e nemmeno la principale, dei commerci esercitati nella Cina orientale. Nei capoluoghi, artigiani e mercanti trasformavano in denaro le cospicue risorse territoriali: e cioè l’immancabile seta, la galanga, lo zenzero e una spezia simile allo zafferano (forse la curcuma longa, che dava una sostanza dorata con la quale si trattavano le foglie secche del tè). Nella città di Fuzhou i commercianti indiani portavano gemme e perle: e Marco Polo venne certamente attratto da quella mercanzia. Tuttavia, ancor piú fu incuriosito da una strana congrega religiosa, che non sembrava né islamica, né zoroastriana o buddista, e che manteneva un fitto mistero sui suoi riti. Marco si recò piú volte in visita alla misteriosa setta, e constatò che essa si serviva di un Salterio. Un testo MARCO POLO
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Alla scoperta del Catai no a che punto bluffassero gli adepti di una confessione che, nella Cina meridionale, contava centinaia di migliaia di seguaci.
Stato di polizia contro le sommosse
Il frontespizio di un’edizione a stampa del Milione. 1597. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Nella pagina accanto un globo terrestre di produzione cinese. XVIII sec.
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cristiano, dunque, che gli accoliti, interrogati, dissero di avere ricevuto in eredità dagli avi. In realtà, non di cristianesimo puro si trattava, bensí di manicheismo. Dai cristiani non avrebbero avuto nulla da temere, mentre l’ideologia manicheista era rea di aver supportato alcune rivolte contadine che, in passato, s’erano estese a diverse province cinesi. Accentuare quindi gli aspetti propriamente cristiani nell’esternazione del culto garantiva ai seguaci di Mani una copertura. Tuttavia la loro posizione giuridica andava regolarizzata con l’iscrizione nell’elenco degli uffici religiosi Yuan. Sollecitati da Marco Polo, i rappresentanti della confraternita si presentarono a corte per sanare l’illegittimità e ottenere la registrazione ufficiale nella lista del cristianesimo. Non sappiamo fi-
Visto il coinvolgimento in precedenti ribellioni, non si può escludere che alcune derive manicheiste – non a caso, perciò, semi-clandestine e restie a omologarsi – concorressero all’organizzazione di insurrezioni antigovernative. Nel Fujian, in effetti, Marco Polo dovette riscontrare la frequente deflagrazione di sommosse che obbligavano gli Yuan a presidiare l’intera provincia con una folta milizia. Lo stato di polizia si estendeva a borghi, villaggi, città, a distretti dove talvolta il risentimento popolare era molto forte, come ebbe modo di comprendere il viaggiatore veneziano. Della società cinese Marco Polo dovette insomma conoscere glorie e miserie, splendori e problematiche: percorrendo lo smisurato Regno degli Yuan, il Veneziano aveva sí rimirato tutta la grandiosa potenza dell’imperatore, i suoi palazzi, i suoi sollazzi, l’ordine e la giustizia che – pur faticosamente – Khubilai aveva imposto. Ma non aveva chiuso gli occhi sulle ristrettezze che angustiavano il popolo, e sulle costrizioni imposte ai dominati, sulle masse di bambini che nelle città venivano abbandonati per strada dai genitori indigenti, e che lo Stato provvedeva a tenere negli orfanotrofi, o ad affidare ad aristocratici facoltosi. E, probabilmente, un quindicennio di Cina era abbastanza. Gli stimoli a restare iniziavano a scemare. Ma chiedere anzitempo congedo dal gran khan, prima che il sovrano lo avesse decretato, prima che gli fosse piaciuto, era un passo rischioso: indispettire l’imperatore avrebbe anche potuto costare la testa ai richiedenti. Ci voleva un’occasione propizia. Che si presentò, nel 1291. Sorse allora la necessità di accompagnare in Persia, via mare, la principessina Kokacin (nome che in lingua mongola sta per «Celeste», ossia «Bella come il cielo»), affinché andasse in sposa ad Arghun, il dinasta persiano fedele alleato di Khubilai Khan. L’imbarco sarebbe avvenuto a Quanzhou, uno fra i porti piú attivi della Cina. Vi transitavano le merci piú svariate, e in volumi stratosferici: soltanto il pepe acquistato ogni anno nell’impero degli Yuan era piú di dieci volte superiore alla quantità che se ne esportava in Occidente. Per ogni nave di spezie che arrivava ad Alessandria – fu il computo di Marco – cinquanta ne attraccavano a quell’immenso scalo cinese, da cui Khubilai traeva pro-
INVENZIONI EPOCALI L’intensificarsi delle relazioni fra il Ponente e il Levante, la fluidità degli spostamenti, il lievitare degli interscambi scientifici hanno da sempre incentivato il dare e l’avere fra culture che, quando s’accostavano l’una all’altra, fecondandosi reciprocamente, generavano progresso. Si vuole che uno dei doni cinesi all’Europa sia stata la ferratura dei cavalli, la quale poté facilitare la percorrenza delle vecchie strade cadute in rovina assecondando la «rivoluzione commerciale». E s’è scritto che la tecnica del giogo a spalla, trasposta dalle campagne cinesi a quelle europee, dovette agevolare l’aratura profonda quadruplicando la forza di trazione animale. Le mappe, le carte nautiche, furono tutti regali fatti dalle scienze cinesi all’ecumene medievale. E già dalla fine del XlI secolo erano approdate in Italia le procedure per l’allevamento dei bachi e la filatura della seta, da cui nasceranno le famose produzioni di Lucca, Venezia, Firenze, Bologna e Genova. Macchinari per filare, ricamare o cucire (anche broccati dorati) rappresenteranno l’ennesimo lascito dell’industria e dell’artigianato di Cina. E assieme agli occhiali e al calcolo meccanico del tempo, che furono realizzazioni di matrice occidentale, Engels elencherà nel XIX secolo altre cinque scoperte tecnicoscientifiche ritenute basilari per lo sviluppo della società europea, tutt’e cinque derivate dalla Cina: la carta, i caratteri mobili, la polvere pirica, l’ago agnetico e la stampa. Karl Marx andrà ancora piú avanti, sottolineando come l’avvento della borghesia fosse stato annunciato proprio dalla polvere da sparo che aveva distrutto la classe
fitti enormi tassando gli scambi delle mercanzie, e talvolta esigendone la metà del valore complessivo: aloe e sandalo erano fra i prodotti che maggiormente rendevano all’erario imperiale. E nonostante i dazi elevati, i commercianti realizzavano guadagni talmente grossi che piú volte tornavano a mercatarvi. Tutto il traffico marittimo del Sud-Est asiatico, le rotte degli oceani Pacifico e Indiano, e le flotte mercantili in collegamento con Golfo Persico, Mar Rosso o Africa orientale gravitavano su Quanzhou: è pertanto comprensibile perché a Pechino, proprio negli anni poliani, potessero osservarsi perfino delle... giraffe africane!
Le ultime immagini
Anche da quello andava a separarsi Marco Polo, dalle estemporaneità, dall’eccentricità che il gigantismo degli Yuan imponeva. L’ultima Cina che il viaggiatore veneziano avrebbe visto accostandosi al porto d’imbarco sarebbero state le circostanti coltivazioni di cedro, di canna da zucchero, di longan (od «occhi di drago») e di cotone, e le decine di pozzi per l’estrazione
dei cavalieri, dalla bussola che aveva dischiuso le rotte del mercato mondiale e portato alla creazione di colonie, e dalla stampa che diventerà uno strumento del protestantesimo.
carbonifera, le montagnole di caolino che servivano all’industria ceramica, le fabbriche del raso da esportare fino in Europa. Fino all’ultimo istante, altri idiomi entrarono nelle orecchie di Marco, alcune conoscenze, che si intrecciavano al patrimonio accumulato dal giorno della partenza dalla Laguna, vent’anni prima. Il giovane figlio di Niccolò Polo era cresciuto ed era maturato, come uomo, in Oriente. Seppure non parlasse il cinese, ormai distingueva alla perfezione i differenti dialetti che, nelle diverse contrade, adattavano la parlata nazionale alle inflessioni locali. A Marco Polo pareva ancora di sentirli, tutti quei linguaggi, ciascuno legato a un ricordo, a un gesto, a una delle anime della Cina. Gli era restato tutto dentro. E tanto piú ne avrebbe rinserrato nella memoria quanto piú, allontanandosi lentamente dalla costa, avvertiva il distacco da un pianeta che, mentre salpava, da buon mercante, spassionato e realista, sapeva che probabilmente mai piú avrebbe toccato. Se non coi ricordi: quei ricordi da far confluire nelle pagine, per noi preziosissime, del Milione. MARCO POLO
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Quante meravigliose creature! 108
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Miniatura raffigurante Kubilai Khan che partecipa a una battuta di caccia su una portantina trasportata da elefanti, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Oltre a notizie storico-geografiche, Il Milione riporta una gran mole di informazioni di ordine zoologico. Ecco dunque un’analisi dell’opera vista con gli occhi di un veterinario... di Claudio Costa MARCO POLO
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Il Milione degli animali
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arco Polo è l’emblema stesso del viaggiatore e del mercante italiano. Egli mise a frutto un talento che andava ben oltre le consuete competenze richieste dalla sua professione: fu ambasciatore nelle lontane terre della Cina e, con le sue memorie, si è rivelato uno scrittore di importanza fondamentale, portando a conoscere mondi ancora largamente inesplorati, di cui evidenzia in modo attento preziosi aspetti geografici e antropologici. E, proprio leggendo Il Milione, ci si rende conto di come l’importanza del suo lavoro non si fermi all’osservazione dei territori e dei suoi abitanti. Marco Polo può infatti essere considerato come uno dei primi naturalisti al mondo, sebbene legato alla mentalità e alla cultura del suo tempo. Dà conto di un centinaio di animali, reali e fantastici, e molte sue osservazioni risultano essere ancora oggi assai interessanti dal punto di vista scientifico. I primi animali che il mercante descrive attraversando il Medio Oriente, sono curiose pecore dalla coda molto grossa: «E v’ha montoni come asini, che pesa loro la coda bene trenta libbre (9
kg), e sono bianchi e buoni da mangiare» (Di Camandi, nell’Iran sud-orientale). Ci sono infatti antiche razze di pecora (Awassi, Karakul, somala, persiana e altre ancora) a coda grassa, cioè con un accumulo di grasso (lipoma) simile a quello che forma le gobbe del cammello. A differenza del grande mammifero del deserto, il lipoma di questi ovini non si situa sulla schiena, ma sulla groppa, sopra la coda o nella coda stessa. Solo gli animali ben nutriti sviluppano questa riserva, che permette di far fronte alle stagioni di siccità, quando il cibo scarseggia. 110
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Dida da fare A sinistra riproduzione ottocentesca di una miniatura del XV sec. raffigurante i Polo che consegnano al Gran Khan Qubilay la lettera a lui indirizzata da papa Gregorio X.
Il viaggiatore veneziano rimase colpito anche da un’altra stranezza, cioè dalla vista di pecore prive di orecchie. Riferendosi a una città della costa nel territorio dello Yemen, annota: «Hanno montoni che non hanno orecchie né foro, e colà dove debbono avere gli orecchi hanno due cornetti e sono bestie piccole e belle» (Della città d’Escier, sull’Oceano Indiano). Questo aspetto si spiega per il fatto che, a volte, a causa di un gene recessivo, nelle greggi delle razze a coda grassa nascono pecore con padiglioni auricolari assenti, o molto piccoli, a punta («orecchie di el-
Sulle due pagine miniature tratte dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, gli animali della regione di Malabar (India); a sinistra, un accampamento di pastori. Nella prima, si noti la presenza di creature reali e fantastiche, come l’unicorno.
fo»), oppure arrotondati («orecchie di topino»), o chiusi e a punta, a formare una sorta di cornetti. Queste pecore non sono del tutto sorde perché sentono attraverso la pelle, anche se comunque il loro udito è debole.
Orecchie minuscole
Due antiche razze mediorientali, la Awassi e la Karakul, rappresentano circa il 10% della popolazione con orecchie ridottissime. Ci sono anche razze piú moderne, come la piccola pecora del deserto e la Zulu, che però
derivano anch’esse da antiche razze nordafricane e mediorientali. Nella Penisola araba, l’attenzione di Marco Polo fu attirata dall’uso di nutrire con pesce le pecore e altri erbivori: «E si hanno pesci assai e si hanno tonni assai (...) e sappiate che danno ai buoi e ai cammelli e ai montoni e ai ronzini piccoli, da mangiare pesci, e questa è la vivanda che danno alle loro bestie. E questo perché in loro contrada sí non hae erba (...). Gli pesci di che si pasciano queste bestie, si pigliano di marzo e d’aprile e di maggio, e sí [in cosí] grande quantità MARCO POLO
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che è una meraviglia. E li seccan e li ripongon per tutto l’anno e cosí li danno alle loro bestie. Verità è che le loro bestie vi sono avezze che cosí vivi (...) escono dall’acqua sí [cosí] gli si mangiano (...) hanno di molto buon pesce e ne fanno biscotti (...) e gli fanno seccare» (Della città d’Escier). Probabilmente i pesciolini dati in pasto agli erbivori, nelle città arabe del Golfo Persico, erano esemplari di pesce azzurro, che anche oggi viene pescato ed essiccato al sole, come per esempio la sardina (Sardina pilchardus), l’aringa (Clupea harengus), l’acciuga (Engraulis encrasicholus), lo sgombro (Scomber scombrus) e cosí via. In natura sono stati d’altronde osservati cervi, dunque animali anch’essi erbivori, intenti a divorare uccellini o topini, come pure pesciolini imprigionati nelle pozze. Si può quindi arguire che tutti gli erbivori mangino farine di carne e di pesce, se li si abitua a farlo. I ruminanti le assimilano bene, poiché allevano nel rumine (la prima cavità del loro apparato digerente) un gran numero di batteri e protozoi che hanno una vita molto breve (uno o due giorni). Quando muoiono, questi microrganismi galleggiano e finiscono nell’abomaso, il quarto stomaco degli erbivori, e qui vengono infine digeriti. Il liquido ruminale, ricco di questi batteri e protozoi, se viene essiccato, è del tutto simile alle 112
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farine di carne o di pesce. Ecco perché, per aumentare le produzioni, si integrava la dieta degli erbivori con le farine animali.
Topi... faraonici
Nel Milione sono descritti gli usi e i costumi di molti popoli, ma soprattutto dei Mongoli, che si cibavano dei «topi dei faraoni». Molti studiosi, a partire da Giovanni Battista Ramusio (14851557), hanno cercato di identificare questi roditori, ma invano. Cerchiamo di esaminare alcune possibilità. Scrive Marco Polo: «Egli mangiano di topi di faraone che ve n’ha grande abbondanza da tutte le parti» (Del novero degli Grandi Cani, quanti e’ furono); «hanno assai e rati de faraon grandi, e in grande abondanzia. I ne viveno tutto l’istade [estate], perché sono molto grandi» (Delle parti di verso tramontana). Il topo del faraone, che nel testo originale in francese antico (lingua d’oïl) del Milione è citato come «le rat de pharaon», è propriamente la mangusta egizia (Herpestes ichneumon), già venerata nell’antico Egitto, perché mangiava serpenti e topi, proteggendo case e granai. Le manguste sono sí commestibili, ma non sono molto numerose in Mongolia, ancora meno nel Nord della Siberia. Marco Polo, che osservò questi animali proprio sulle montagne, nota
Sulle due pagine miniature tratte dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto, le genti di Sumatra, che si cibano di carne umana e adorano i cani; nella pagina accanto, il re dell’oro che sorveglia le sue greggi.
inoltre che si trovano solo d’estate, perché vanno in letargo, cosa che non rientra nel comportamento delle manguste. Quindi questa ipotesi è da scartare. I topi dei faraoni potrebbero essere semplicemente piccoli roditori. Nelle steppe siberiane ce ne sono molti e di varie specie, come il gerboa maggiore (Allactaga major). È del tutto simile al topo del deserto egizio, ma è piú grande, con grandi orecchie e una coda lunghissima. Il corpo può raggiungere anche i 25 cm di lunghezza e i 450 gr di peso. Tuttavia, è piú probabile che Marco Polo si riferisse alle marmotte siberiane (Marmota sibirica), piú chiare e piú grosse di quelle alpine. Arrivano a pesare fino a 9 kg (contro i 5 kg di quelle alpine) e sono simili alle manguste. Sono presenti a milioni in tutte le steppe asiatiche, e anche sugli altipiani siberiani e tibetani. In effetti, Guglielmo di Rubruck (1215 circa-1295 circa), nel suo Viaggio in Mongolia (Itinerarium, cap. V), ci racconta che i Tartari mangiavano qualsiasi tipo di roditore delle steppe, sia i gerboa che le marmotte. Solo queste ultime però assomigliano alle manguste egizie e sono in grado di sfamare un’orda mongola. Ascoltiamo Guglielmo: «Prendono anche i topi, di cui molti tipi abbondano qui. I topi
con la coda lunga non li mangiano, ma li danno ai loro uccelli (rapaci da falconeria). Mangiano topi e tutti i tipi di ratti che hanno la coda corta (lemmings, criceti e pika). Ci sono anche molte marmotte, che si chiamano Sogur, e che si riuniscono in una buca in inverno, venti o trenta insieme, e dormono per sei mesi; ne catturano in gran numero. Ci sono anche dei conigli, con una coda lunga come quella di un gatto, e all’estremità della coda hanno i peli bianchi e neri (questa descrizione corrisponde al gerboa maggiore, che però è un roditore, non un coniglio, n.d.A.)».
Veicoli di contagio
Le marmotte asiatiche vengono tuttora cacciate in Mongolia sia per estrarne l’olio, che contiene un antinfiammatorio naturale, sia per le pelli, ma, soprattutto, per le carni, simili a quelle delle lepri, benché piú grasse. Le marmotte sono animali molto resistenti e pericolosi per l’uomo, perché possono essere portatrici sane di numerose zoonosi (le malattie che dagli animali si trasmettono agli uomini), come la peste, di cui ci parla anche Marco Polo. Egli racconta infatti che il Gran Khan adottava politiche di aiuto con detassazioni e forniture di derrate alle popolazioni dell’impero colpite da maltempo, invasione di locuste e pestilenze: «Il Gran Khan manda MARCO POLO
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Miniatura raffigurante i dragoni dello Yunnan (Cina), dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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sempre ogni anno i suoi nunzi e provveditori per vedere se le genti hanno danno delle loro biade (...) per difetto di tempo (...) di cavallette, di vermi, o altre pistolenze» (Giovan Battista Baldelli Boni, Il Milione di Messer Marco polo viniziano illustrato e comentato secondo la lezione ramusiana, Firenze 1827; p. 209). I vermi che danneggiano i raccolti potrebbero essere i nematodi delle risaie, divoratori di radici e di germogli del riso, e varie specie di parassiti allo stadio larvale, come i bruchi mangiatori di foglie. I danni da cavallette erano dovuti alle locuste migratorie che compiono ancora oggi migrazioni gregarie di milioni di individui, devastando intere coltivazioni. Quando una zona risulta sovrappopolata, per carestie o mancanza di
predatori, le forme immature delle locuste, dette ninfe, generano sostanze chimiche chiamate locustoli, che inducono all’aggregazione anche di milioni di individui e alla formazioni di sciami. Queste gigantesche «orde» compiono migrazioni anche di centinaia di chilometri, divorando tutto ciò che incontrano.
Pestilenze ed epidemie
Le pestilenze che potevano colpire le messi erano molteplici: i «carboni» (macchie nerastre), sia nel riso che nel grano, e vari tipi di muffe e funghi, che distruggevano gran parte dei raccolti. Tuttavia le pestilenze piú dannose erano le epidemie, molto diffuse nel Medioevo, sia per gli uomini che per gli animali: infezioni
Crimea arrivò a Genova a metà del XIV secolo e poi in tutta Europa causando milioni di morti. Questa epidemia si trasmetteva con il morso delle pulci o inalando le goccioline degli starnuti dei contagiati. Colpí per primi i Mongoli della Tartaria attraverso le marmotte. Il contagio avvenne mangiando o manipolando le carni crude, e le pelli di marmotte infette, o con il morso delle pulci delle marmotte (Ceratophyllus silantievi), lunghe pochi millimetri e dal tipico colore ambrato. Nel pungere, questi insetti iniettano una saliva anticoagulante, come le zanzare, che può ospitare il batterio della peste.
Profumi: una passione imperiale
virali di vaiolo, morbillo e influenza, spesso trasmesse dagli animali come polli, suini e bovini. Molto diffuse nell’età di Mezzo erano anche le epidemie batteriche: lebbra, peste, colera, salmonellosi tifoide e paratifoide, trasmesse soprattutto da quelle che Marco Polo chiamava le «acque ree» (acque colpevoli) cioè le acque superficiali infette. Le pandemie, cioè le epidemie mondiali di peste bubbonica e peste polmonare sostenute da due ceppi batterici diversi di Yersinia pestis, furono devastanti nel Medioevo, causando milioni di morti e generando una profonda crisi economica. In particolare, ci fu un’epidemia di peste polmonare, detta «peste nera», una forma molto piú letale di quella bubbonica, che dalla
Nel descrivere gli usi e i costumi di Kubilai Khan (1215-1294), l’osservatore veneziano riferisce di una vera e propria passione dell’imperatore per i profumi, in particolare per il muschio bianco, che veniva fissato, come altre essenze, nell’ambra grigia. L’essenza di muschio bianco, quella vera (rarissima), si estrae dai grani odoriferi emessi, per marcare il territorio, dal mosco, che è un piccolo ruminante, mentre l’ambra grigia o ambracano, altrettanto rara e costosa, è invece un sapone biliare prodotto dai capodogli per proteggere le pareti intestinali dai bordi taglienti dei becchi dei calamari ingeriti, che vengono avvolti da questa secrezione ed espulsi. L’ambra grigia ha due proprietà: rilascia un ottimo profumo, soprattutto se bruciata, e riesce a fissare e trattenere le essenze di altri profumi prolungandone l’effetto. «In questa contrada [Cina, Tibet e Siberia orientale], si trova il piú nobile e fino muschio, che ci sia nel mondo, ed è una bestiola piccola come una gazzella, cioè della grandezza di una capra. Ma la sua forma è tale. Ha i peli a similitudine di cervo molto grossi: li piedi e la coda a modo d’una gazzella. Ha quattro denti, cioè due dalla parte di sopra e due dalla parte di sotto lunghi ben tre dita e sottili, bianchi come avorio e due ascendono in su e due discendono in giú ed è bello animale da vedere. Nasce a questa bestia, quando la luna è piena nell’umbilico sotto il ventre un’apostema di sangue, e ci cacciatori nel tondo della luna escono fuori a prendere detti animali e tagliano quest’apostema con la pelle e la seccano al sole: e questo è il piú fino muschio [muschio bianco] che si sappi, e la carne di detto animale è molto buona da mangiare e se ne piglia in gran quantità, e Marco Polo, ne portò a Venezia la testa e i piedi, (...) secchi» (Baldelli Boni, p. 131). Simile a un cerbiatto, il mosco è privo di corna, alto 50 cm per 15 kg. Un tempo diffuso in tutta l’Asia centrale, è dotato stranamente di canini MARCO POLO
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MARCO POLO In basso tavola a colori raffigurante uno yak, da The Naturalist’s Pocket Magazine or compleat cabinet of the curiosities and beauties of nature, opera pubblicata a Londra nel 1798. Nel Milione, Marco Polo scrisse di aver incontrato esemplari della varietà selvatica di questo mammifero bovide, diffuso nella regione tibetana, grandi come elefanti.
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Il Milione degli animali
sporgenti verso il basso. Per marcare il territorio il maschio secerne grani molto profumati da alcune ghiandole sul ventre. Bastano tre piccoli grani da un grammo l’uno per fare un litro di muschio bianco alcolico. Nelle foreste, solo i servi dell’imperatore potevano raccogliere i grani del cervo mosco per estrarne un profumo buonissimo, molto amato dall’imperatore, che si chiama muschio bianco. I grani si trovano in terra, oppure si possono estrarre dal cervo con una cannetta di bambú.
Caccia al capodoglio
L’ambra grigia o ambracano, invece, veniva raccolta sulle spiagge o estratta direttamente dai capodogli, come spiegato nel Milione: «Si trova (...) alle rive di quest’isola [Sumatra] molto ambracano, che vien fuori dal ventre delle balene [capodogli] e per essere gran mercanzia [per disporne in quantità tali da farne un ampio commercio] s’ingegnano d’andarle a prendere con alcuni ferri [arpioni] che hanno le barbe [uncini] che ficcati nella balena non si possono piú cavare, alli quali [agli arpioni] è attaccata una corda lunghissima con una botticella che va sopra il mare acciocché come la balena è morta la sappino dove trovare e la conducano al lido dove li cavano del ventre l’ambracano e della testa assai botte d’olio» (Baldelli Boni, p. 451). La caccia ai capodogli non era mai stata descritta né praticata in Europa prima che Marco Polo ne desse notizia. E questo è solo uno dei tanti esempi di come Il Milione sia un testo ricchissimo di informazioni riguardanti nuove tecniche in svariati settori (caccia, produzione, organizzazione, costruzione edile e navale). Solo nel 1598 l’ammiraglio olandese Cor-
neliz osservò un vascello indiano cacciare una balena con il sistema descritto da Marco Polo, e a sua volta ne diede notizia. Oltre alla seta, nel Medioevo si conosceva un altro tessuto molto prezioso, perché resistente al fuoco e al calore, cioè l’amianto. Allora, in Occidente, si pensava fosse prodotto con la pelle delle salamandre dopo la muta. Veniva infatti denominato lana di salamandra. Il nostro viaggiatore parla anche della produzione dell’amianto, estratto nei monti Altai in Mongolia: «In questa montagna è un’altra vena della quale si fa la [lana di] salamandra. La salamandra non è bestia, come si dice, che viva nel fuoco, ché niuno animale può vivere nel fuoco; ma dirovvi come si fa la salamandra [lana di salamandra] (...). Egli è vero che questa vena [minerale] si cava, e istringesi insieme, e fa fila [i fili] come di lana. E poscia la fa seccare e pestare in grandi mortai di cuoio: poi la fanno lavare e la terra (...) quella che v’è appiccicata (...) si cade [si separa] e rimangono le fila come di lana. Questa si fila e fassene panno da tovaglie (...) esse sono brune; mettendole nel fuoco, diventano bianche; e tutte le volte che sono sudice si mettono nel fuoco e diventano bianche come neve (...) a Roma hae una di queste tovaglie che ‘l Gran Cane [Gran Khan] mandò al papa» (Chingitalas). La convinzione che l’amianto avesse origine animale nasce probabilmente dall’aspetto seto-
so e filamentoso della pelle morta della salamandra (Salamandra salamandra), simile al tessuto di amianto anche nel colore. Che la salamandra viva o nasca nel fuoco è un mito antico, e forse trae origine dall’abitudine delle salamandre di scegliere, come luogo di letargo, le legnaie esterne alle case, perché piú riparate. Si infilano nelle crepe dei ceppi, e, quando questi vengono messi sul fuoco, le salamandre escono fuori di corsa, altrimenti morirebbero. La lana di salamandra è citata anche in un altro testo medioevale, cioè la lettera all’imperatore di Costantinopoli del Presbiter Johannes (in realtà Ung Khan, poi storpiato in Prete Gianni, che Marco Polo cita piú volte): «Salamandre: esse non vivono se non nel fuoco, e per resistere alle fiamme producono una pellicola come quella dei bachi da seta. Gli uomini di quella regione estraggono la pellicola e la lavorano per formare con essa degli abiti da donare al Prete Gianni. Questi abiti non possono essere lavati se non nel fuoco». Il passaggio nel fuoco brucia tutte le sostanze organiche eventualmente presenti.
Il favoloso ruc
Tra i numerosi animali descritti nel Milione, che hanno tutti una storia interessante, ci sono anche gli animali fantastici, come l’uccello ruc, che si sarebbe potuto vedere nell’odierna isola di Madagascar: «Dicono quelle genti che a un certo tempo dell’anno viene verso mezzodí, una maravigliosa sorte di uccelli che chiamano ruch, quale è
Kubilai Khan impegnato in una battuta di caccia al cervo con il falcone in un’altra miniatura tratta dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
della somiglianza dell’aquila, ma di grandezza incomparabilmente grande, ed è di tanta grandezza e possanza che piglia con le unghie dei piedi un elefante e levatolo in alto lo lascia cadere, qual [dove] more. E poi montatoli sopra il corpo si pasce. Quelli che hanno veduto detti uccelli riferiscono che quando aprono le ali da una punta all’altra vi sono sedici passi di larghezza [32 m] e le sue penne sono lunghe ben otto passi [16 m] e la grossezza è corrispondente a tanta lunghezza. E messer Marco Polo credendo che fossero grifoni, che sono dipinti mezzo uccelli e mezzi leoni, interrogò questi che dicevano di averli veduti i quali li dissero [gli dissero che] la forma dei denti esser tutta d’uccello come saria [fosse] di aquila. Avendo il gran Khan inteso di simili cose maravigliose, mandò i suoi nunzi (...) per investigare (...) delle cose meravigliose che erano in quella [isola]. Costui [il nunzio] di ritorno portò al gran Khan una penna di detto uccello ruc, la quale li fu affermato [fu riferito a Marco Polo] che misurata, fu trovata di novanta spanne [34 m] e che la canna della detta penna volgea [era spessa] due palmi [37,74 cm] che era cosa meravigliosa a vederla» (Baldelli Boni, p. 455). I ruc non esistono, sono animali della mitologia araba, citati anche nelle fiabe delle Mille e una notte: Sindbad, per esempio, viene prelevato da un ruc nella valle dei diamanti, infestata dai serpenti. In Madagascar viveva l’uccello piú grande del mondo e cioè l’uccello elefante (Aepyornis maximus), ormai estinto e descritto nel Medioevo dai mercanti arabi. L’uovo fossile di uccello elefante non è raro da trovare e potrebbe avere alimentato il mito, dato che è il piú grande del mondo: può raggiungere fino a 30 cm di altezza e 21 di diametro, pari a 160 volte un uovo di gallina. L’uccello elefante non era simile a un avvoltoio, piuttosto a uno struzzo, alto piú di 3 m, e il suo nome viene proprio dalla leggenda dei ruc che mangiavano gli elefanti. Sempre dal Madagascar e dall’Africa orientale provengono le foglie di una palma da rafia (Raphia farinifera) lunghe fino a 20 m e le cui fibre sono utilizzate per produrre la rafia: una corda molto resistente. Probabilmente il Gran Khan ricevette in regalo proprio una foglia di palma da rafia. In effetti sembra una penna e ha esattamente le dimensioni descritte nel Milione. Nel presentare l’uccello ruc, Marco Polo cita il grifone. Si tratta di un animale mitologico con il corpo di leone e la testa d’aquila. Probabilmente prende origine dall’avvoltoio monaco (Aegypius monachus), uno degli uccelli piú grandi del mondo, con un’apertura alare fino a 3 m, e presente in tutta l’Asia. MARCO POLO
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Viaggiatori coraggiosi Quella di Marco Polo fu certamente un’esperienza straordinaria, ma non fu l’unica: anche altri Occidentali si spinsero in terra d’Asia. Primi fra tutti i religiosi decisi a convertire i Mongoli di Franco Cardini
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MARCO POLO
C’
è una storia non troppo conosciuta, che corrisponde a una «grande illusione» e a una «falsa partenza». Fra il 1271 e il 1295, il viaggiatore e mercante veneziano Marco Polo viaggiò, per terra e per mare, da Venezia alla Siria al Golfo Persico, alla Cina e di lí, attraverso lo Stretto di Malacca, l’Oceano Indiano, la Persia e il Mar Nero, riguadagnò la patria. Catturato dai Genovesi dopo la battaglia di Curzola del 1298, Marco Polo dettò le sue memorie a un compagno di prigionia, Rustichello da Pisa. Ne uscí un celebre libro redatto in franco settentrionale, il Devisement du monde, forse piú noto con il titolo di Livre des Merveilles, e ben presto volgarizzato in varie redazioni italiche e conosciuto come Il Milione. Un libro strano e affascinante, a metà fra il testo memoriale autobiografico, il manuale geoantropologico, il taccuino d’appunti del mercante e il reportage cronistico: si è molto discusso sulle sue caratteristiche di autenticità, attendibilità e originalità.
Una tradizione consolidata
Poco noto è il fatto che Marco Polo s’inseriva, in un certo senso, in una tradizione già consolidata. Prima di lui, religiosi, missionari e mercanti, in un modo o nell’altro e per differenti ragioni, avevano percorso almeno in parte gli itinerari che egli stesso toccò. Dopo la grande avventura di Alessandro Magno, l’Asia, per il mondo ellenistico-romano e poi per il Medioevo euro-occidentale, era rimasta un continente profondo e misterioso, dal quale giungevano scarse e preziose merci insieme a favolose notizie di mostri, d’immense ricchezze, di deserti sterminati e di città popolose: mai il commercio e le strade lungo le quali esso si svolgeva – veicolando, fra l’altro, verso il Mediterraneo e l’Europa le apprezzate merci ch’erano sovente anche materie prime importanti per la medicina, la produzione manifatturiera e l’alimentazione, le «spezie» – erano affidati alle carovaniere percorse dai mercanti arabi, siriani e persiani. Fra l’XI e il XII secolo, sulla scia del movimento crociato, i mercanti delle città marinare soprattutto italiane (Amalfi, Genova, Pisa, Venezia), ma anche provenzali e catalane (Marsiglia, Montpellier, Barcellona), avevano fondato tra impero bizantino, Vicino Oriente, Egitto e isole mediterraMiniatura raffigurante l’arrivo di una nave di mercanti a Hormuz, nel Golfo Persico, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. MARCO POLO
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Le grandi esplorazioni
Le rotte del commercio
Fra antichità e Medioevo, tre «grandi vie» del commercio intercontinentale collegavano l’Asia e l’Africa al Mediterraneo e all’Europa. La prima era già ben conosciuta agli stessi Romani: era la «Via delle Spezie» (o «dell’Incenso»): le preziose materie prime indispensabili per la medicina, la manifattura tessile, la cosmesi, la conservazione degli alimenti giungevano via mare dall’India e dal Sud-Est asiatico attraverso l’Oceano Indiano e approdavano negli scali dell’Arabia meridionale (l’Arabia Felix), dov’era situato il mitico regno della regina di Saba. Da lí si biforcavano. Potevano superare il Mar Rosso e il deserto arabico, nell’Egitto sud-orientale, per giungere al Nilo e di là, lungo il grande fiume, arrivare ai porti del Delta, soprattutto ad Alessandria; oppure percorrevano a dorso di cammello le carovaniere lungo la costa araba occidentale, parallela al Mar Rosso, fino al Golfo di Aqaba, da dove poi giungevano a Gaza e a Tiro; là s’incontravano con le piste provenienti dalle città carovaniere arabo-siriache, come Petra e Palmira; oppure procedevano verso Damasco e Beirut. Una variante di questa via oceanica penetrava 120
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neo-orientali numerose colonie commerciali: tali sedi servivano da emporio e da collettore per le merci provenienti dall’Asia, oltre che prodotte in loco, e delle quali l’Europa aveva un crescente bisogno. Fino alla metà del Duecento, i mercanti occidentali non pensarono mai che fosse possibile, conveniente e opportuno spingersi oltre il margine sud-occidentale del continente asiatico per attingere direttamente alle merci che venivano dalla favolosa India, di cui si parlava sulla scorta delle leggende nate dopo l’avventura di Alessandro Magno, o da quel «Catai», la Cina, ch’era poco piú che un nome. Ma qualcosa cambiò, appunto, verso la metà del XIII secolo. Maturò allora la «grande illusione» che fosse possibile convertire al cristianesimo quei popoli remoti; e si ebbe una «falsa partenza» dei rapporti tra Europa ed Estremo Oriente, che si cercò a lungo di raggiungere via terra. Entrambe svanirono per una serie di mutate circostanze storiche poco meno di un secolo piú tardi, verso la metà del Trecento. L’Estremo Oriente sarebbe stato raggiunto solo alla fine del Quattrocento, ma grazie alla navigazione oceanica.
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dall’Oceano Indiano nel Golfo Persico: là le navi mercantili potevano guadagnare il porto di Bassora, raggiungere Baghdad lungo lo Shatt al Arab e il Tigri, oppure risalire l’Eufrate, per ricongiungersi con le piste terrestri fra Mosul e Aleppo. Quella che gli Arabi chiamavano «la Strada dei Quaranta Giorni» (Dar al-Arbain) si diramava dal Nilo in tre direzioni: verso oriente e il Mar Rosso, dove si collegava con la Via dell’Incenso; verso occidente e le oasi del Sahara; verso sud, a partire da Assiut, dove il fiume era meno facilmente navigabile e da dove ci si collegava con la regione sudanese del Darfur. Era quella la pista dell’avorio, dell’oro e degli schiavi, che collegava il Nilo con la lontana Africa occidentale (il Mali e Timbuctu). La «Via della Seta» prende il nome dalla merce piú famosa e ricercata che costituiva materia d’importazione in Europa prima che, nell’XI-XII secolo, i preziosi bozzoli venissero importati anche in Grecia e in Italia meridionale, e, quindi, in altre parti dell’Europa occidentale. I vari itinerari delle carovaniere che
Ra’s al-Hadd R
Verso l’India
Mar d’Arabia Verso l’India
In alto, sulle due pagine carta della Penisola Arabica con le principali rotte commerciali marittime e terrestri conosciute in età antica. Nella pagina accanto, in basso testa femminile in pietra con iscrizione in alfabeto sabeo sulla fronte. I mill. a.C. collegavano la Cina alle coste della Siria e a quelle del Mar Nero, fino a Damasco e a Costantinopoli, si diramavano in almeno tre differenti tracciati, che non si devono immaginare come «strade» (nel senso delle consolari romane o delle moderne vie di comunicazione), bensí come fasci di piste con molti diverticoli: ma comunque sempre «assi attrezzati», che passavano attraverso oasi, incrociavano pozzi d’acqua potabile, erano costellati a distanza abbastanza regolare da caravanserragli (dal persiano karvansaray, «palazzo della carovana», n.d.r.) posti a circa 30-35 chilometri l’uno dall’altro (la distanza media che si può percorrere in un giorno «al passo», a dorso di cammello).
La via piú settentrionale si snodava lungo i margini della taiga (foresta boreale a prevalenza di conifere sempreverdi, n.d.r.) siberiana, e – considerata da ovest verso est – collegava Kiev (da dove si poteva raggiungere bene Cracovia, e di là l’Occidente) e Krasnodar, non lontana dal Mar Nero, a Saray da dove, sempre tenendosi a nord del Caspio e del lago d’Aral, si percorreva la «Zungaria» (tra Aral e Balhaš); da lí si poteva giungere all’antica capitale mongola di Karakorum oppure percorrere la Cina occidentale (Sinkiang). Gli itinerari meridionali procedevano invece – li descriviamo sempre nella medesima direzione – da Trebisonda sul Mar Nero o da Damasco e Baghdad attraverso la Persia fino
Altari e bruciaprofumi per incenso di fattura sabea. San’a, Museo Nazionale.
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MARCO POLO
Le grandi esplorazioni
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Itinerario di fra Guglielmo di Rubruck (1252-1256)
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Itinerario di Marco Polo (1271-1295)
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Via della Seta Grande Muraglia Cinese
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L’inizio di un’avventura
GOLFO DEL BENGALA
tribú mongola
a Merv, dove si sdoppiavano. Verso nord toccavano Bukhara, Samarcanda, il Ferghana, giungevano a Kashgar nel Sinkiang e da lí, attraverso città carovaniere celebri come Turfan, arrivavano alla Grande Muraglia e poi a Pechino. Se invece da Merv si preferiva la via di sud-est, si andava verso Balkh, si ritrovava l’altra strada a Kashgar, ma poi si continuava a sud-est per Khotan, Cherchen e Xian. Le due vie «meridionali» attraversavano entrambe il bacino del fiume Tarim, nel Sinkiang. Abbiamo descritto questi itinerari procedendo da occidente verso oriente – cioè in senso inverso rispetto a quello percorso per secoli dalle carovane che portavano dalla Cina al Mediterraneo le sete, le porcellane, i bronzi lavorati, le MARCO POLO
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Conquiste dei successori mongoli
Diocesi
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Itinerario di fra Giovanni di Pian del Carpine (1245-1247)
Divisione del territorio intorno al 1260
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Conquiste di Gengis Khan (1206-1227)
Principati russi tributari dell’Orda d’Oro
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gemme e le spezie –, perché cosí essi ci sono stati illustrati da un nutrito gruppo di viaggiatori-diplomatici-missionari che li percorsero fra Due e Trecento e ai quali naturalmente tennero dietro i mercanti, come i fratelli veneziani Matteo e Niccolò Polo tra il 1260 e il 1269, che qualche anno piú tardi ripresero la via dell’Asia, portando questa volta con sé il piú o meno diciassettenne Marco, figlio di Niccolò. Ma come iniziò la grande avventura? A renderla possibile fu, in realtà, la pax mongolica imposta dalle genti tartare che, unite all’inizio del XIII secolo da un grande capo militare e politico, Temujin, meglio conosciuto con l’epiteto di «Gengis Khan» («l’Oceanico Signore»), avevano conquistato e unificato l’Asia Centrale impadronendosi quindi della Cina, della Persia – dove abbatterono il califfato abbaside –, delle
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Sulle due pagine cartina con gli itinerari percorsi dai viaggiatori europei nel XIII secolo. Qui accanto miniatura raffigurante il gran consiglio (kuriltai) nel corso del quale Temujin si proclamò «Gengis Khan» («Oceanico signore»), da un’edizione del Giami’ at-Tawarikh (Raccolta di storie) dello storico persiano Rashid ad-din Fadl Allah. 1430-1434. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso la chiesa di S. Gregorio ad Ani, gioiello architettonico del Medioevo armeno, situata su un altopiano lungo la Via della Seta. Abbandonata da oltre tre secoli, e oggi in territorio turco, un tempo Ani era detta la città «delle Mille e una chiesa».
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pianure russe fino alla Crimea; e puntando quindi a sud-ovest, verso la Siria e la Palestina, a nord verso l’Europa. Esauritasi la loro travolgente cavalcata – che per oltre una quarantina d’anni aveva minacciato di travolgere l’intero continente asiatico – e morto nel 1227 Gengis Khan, l’immenso impero a cui quest’ultimo aveva dato vita fu spartito tra i suoi quattro figli, che dettero origine ad altrettanti regni, collega-
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MARCO POLO
Le grandi esplorazioni
ti tra loro da una sorta di legame genealogicofederale: nonostante la reciproca rivalità, che condusse anche a molti conflitti, l’«impero federale» mongolo riuscí a mantenere il continente asiatico in ordine e in pace per circa un secolo e mezzo. Tale circostanza, associata al fatto che tra le popolazioni mongole e sparse tra Persia, India e Cina occidentale v’erano molte comunità cristiane monofisite o nestoriane e che tra i primi obiettivi delle loro conquiste v’erano stati alcuni potentati musulmani, determinò la speranza – a lungo cullata dai papi e da molti sovrani europei – che con i Mongoli si potessero stabilire rapporti diplomatici di buona amicizia, o persino forme d’alleanza militare in funzione antislamica; o che, addirittura, quelle genti asiatiche «pagane», ma che apparivano aperte e tolleranti sotto il profilo religioso e non del tutto estranee al cristianesimo, potessero venir convertite alla fede. Nel 1241 i cavalieri mongoli guidati da Batu Khan, nipote di Gengis Khan, avevano dato l’impressione di voler fagocitare tutta l’Europa. In quell’occasione, mentre essi dilagavano in Polonia e in Ungheria, si erano diffuse voci a proposito di un interesse di questi nuovi «barbari» a puntare verso Colonia, dove avrebbero
voluto impadronirsi delle presunte reliquie dei Magi, ch’essi consideravano loro antenati. La leggenda d’un legame tra i Tartari e i primi adoratori pagani del Cristo si fondava su alcuni apocrifi, ma, soprattutto, sulle notizie secondo le quali fra quei terribili barbari vi sarebbero stati gruppi di cristiani. Comunità cristianonestoriane erano in effetti presenti nel mondo nomade uralo-altaico fin dai primi secoli di sviluppo della nuova religione; e i dignitari della Chiesa nestoriana avevano un certo ascendente presso i khan. Nel XIII secolo si erano fatti strada taoismo e buddhismo: anzi, quest’ultimo talvolta era sembrato prevalere tra i vertici delle gerarchie tribali mongole, anche se le genti tartariche restavano fedeli agli antichi culti a carattere sciamanico.
L’Europa è salva
Ma Batu Khan s’era presto ritirato e gli Europei avevano tirato un sospiro di sollievo. Fu presto chiaro che i nuovi conquistatori non avevano né le intenzioni, né – forse – l’energia sufficiente a spingersi ancora verso ovest. Le notizie sul filocristianesimo dei Mongoli, alimentate anche dalla leggenda – giunta in Occidente già alla metà del XII secolo – di un misterioso e potente principe cristiano d’Asia, detto «Prete Gianni», avevano intanto indotto molti a elaborare una sorta di «ideologia» della crociata cristiano-tartara. In quegli anni la Terra Santa era in pericolo: Gerusalemme era stata riconquistata dai musulmani guidati dal Saladino nel 1187 e due potenti principati guidati da altrettanti suoi discendenti, rispettivamente in Siria e in Egitto, davano chiari segni di voler cacciare i feudatari «franchi» (cioè euro-occidentali) dalla costa palestinese
In alto miniatura raffigurante il Prete Gianni, misterioso principe cristiano d’Asia, seduto sul suo trono in Etiopia, da un portolano del portoghese Diego Homem. 1558. Londra, British Library.
che ancora restava nelle loro mani e ch’era difesa anche dagli Ordini religioso-militari (Templari, Giovanniti, Teutonici) e dai mercanti-coloni italiani e occitani che vi erano insediati. Nel 1244, durante il concilio di Lione, papa Innocenzo IV mise a punto un complesso programma diplomatico-missionario il cui scopo era raggiungere i capi dell’«impero federale» mongolo, stringerci un’alleanza contro i musulmani e portare loro, nel contempo, quel messaggio cristiano che non sembrava d’altronde essergli del tutto ignoto. Si pensò naturalmente ai nuovi Ordini mendicanti come ai piú adatti a portare a buon fine l’arduo, delicato compito: e Francescani e Domenicani vi si accinsero con il solito spirito d’emulazione. Innocenzo IV pensò a due differenti ambascerie, che avrebbero dovuto percorrere, rispettivamente, i due rami della Via della Seta: quello meridionale, che – partendo dalla costa siro-palestinese – si addentrava nella Persia, e quello settentrionale che, avrebbe dovuto raggiungere la Mongolia vera e propria attraverso la Russia. La «Via meridionale» venne affidata al francescano Lorenzo dal Portogallo, ma sembra ch’egli non abbia mai intrapreso il viaggio. Ci si affidò allora al domenicano Ascelino da Cremona, che scelse un itinerario piuttosto tortuoso: sbarcato ad Acri, puntò a nord-est, verso la Mesopotamia, la Georgia e l’Armenia meridionale, per addentrarsi da lí in Persia; era di ritorno ad
Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante Gengis Khan che combatte contro i Cinesi sulle montagne, da una raccolta di poemi epici. 1397-1398. Londra, British Library. In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante una battaglia tra Peceneghi e le truppe del granduca di Kiev Svjatoslav I, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
UN VARIEGATO MOSAICO DI POPOLI E DI LINGUE I viaggiatori duecenteschi che percorsero la «Via settentrionale della Seta» si trovarono di fronte a un coacervo di genti e d’idiomi d’origine uralo-altaica nel quale avevano molta difficoltà a districarsi. I Turchi Qipchaq, che le fonti occidentali chiamano «Cumani», si erano insediati in un’area vastissima, tra il basso corso del Volga, il nord del Mar Nero, il Mar Caspio e l’Irtysh. Nell’XI secolo, con l’aiuto dell’imperatore di Bisanzio, Alessio I Comneno, essi avevano battuto i Peceneghi, o Polovzi, di stirpe simile alla loro, che per molto tempo erano stati il terrore dei principati russi del Dnepr e del Don. Altri popoli vicini, come gli Yämäk, parlavano una lingua di famiglia turca simile alla loro, usavano l’alfabeto uigurico: è difficile distinguerli dai Qipchaq. Lungo il corso inferiore del Volga vivevano altre genti: i Saqsin (Saxi per i Latini), i Wedin, considerati musulmani dalle fonti ungheresi, i «Bulgari del Volga», i Brodnici. Preziosa, in proposito, è la testimonianza di Benedetto di Polonia, compagno di viaggio di Giovanni di Pian del Carpine.
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Le grandi esplorazioni
QUANDO I MONGOLI SI PRESENTARONO AL CONCILIO... Dopo la conquista di Baghdad del 1258, l’ilkhan Hulagu aveva mostrato chiaramente di puntare sulla Siria. Ciò aveva per un verso incoraggiato, per un altro preoccupato i baroni franchi di Siria, titolari di quel che restava del regno crociato di Gerusalemme. Il legato pontificio Tommaso Agni da Lentino si era alla fine deciso a inviare una missione diplomatica, composta naturalmente da Domenicani, presso l’ilkhan, il quale aveva infine accettato, a quanto pare, di restituire Gerusalemme ai cristiani d’Occidente, se gli fosse capitato di conquistarla (da qui ha forse origine la falsa leggenda della conquista tartara della Città Santa nel 1300). Dopo la sconfitta mongola di Ain Jalud, presso il Giordano, le speranze si fecero però meno intense. Nel 1263 Hulagu inviò a papa Urbano IV un’ambasceria, che però fu intercettata e trattenuta da Manfredi di Svevia, re di Sicilia e avversario del pontefice. Solo un chierico ungherese giunse alla corte pontificia. Nel 1274, comunque, al secondo concilio di Lione, erano presenti alcuni inviati dell’ilkhan, accompagnati dal domenicano inglese David d’Ashby. Questi aveva scritto un’operetta sui Tartari, che però è andata purtroppo perduta.
In alto due Francescani, particolare del Miracolo della sorgente, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. A sinistra particolare di una miniatura raffigurante i Polo che si separano da due frati predicatori a L’Aïas, da un’edizione del Livre des Merveilles. XVI sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
Acri nel 1247. Ben poco sappiamo di lui e dei suoi accompagnatori, i frati Simone di SaintQuentin e Andrea di Longjumeau: il primo stese una relazione del viaggio che ci è pervenuta sia pur lacunosamente, poiché alcuni passi di essa furono inseriti nella piú celebre enciclopedia del tempo, lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais. I Domenicani si sarebbero, da allora, «specializzati» nelle ambascerie e nelle missioni tra Armenia e Persia. La «Via settentrionale» toccò invece ai Francescani. La conosciamo in quanto fu percorsa da 126
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un celebre frate minore, Giovanni di Pian del Carpine, di cui trattano sia Vincenzo di Beauvais sia Salimbene da Parma. Egli ci ha lasciato una celebre Historia Mongalorum, pervenutaci in due distinte redazioni entrambe scritte da lui; mentre un suo confratello e compagno di viaggio, Benedetto di Polonia, redasse un piú compendioso diario della medesima avventura.
Nella «steppa della fame»
Latore di una lettera del papa al capo dell’impero familiare-federale mongolo, il «Gran Khan», Giovanni partí con i suoi compagni nell’aprile 1245 da Lione, attraversò Germania, Boemia, Polonia e Ucraina e quindi, seguendo il corso del Dnepr, raggiunse la corte di Batu Khan sul Volga. Muniti d’un salvacondotto del principe, i frati procedettero poi attraverso la Cumania (Russia meridionale), varcarono l’Ural e si addentrarono nell’immensa regione desertica, arida e stepposa a nord del Caspio e del lago d’Aral fino al Syr Darja. Quindi, seguendo la pista della «steppa della fame» – tra il lago Balhaš e i monti del Kirghizistan –, raggiunsero la valle del fiume Ili e di lí pervennero, nel luglio 1246, al centro dell’impero tartaro, la città-accampamento di Karakorum, dove furono accolti dal Gran Khan Güyük. Trascorsi alcuni mesi presso il sovrano, Giovanni e i suoi compagni s’incamminarono di nuovo nel novembre verso ovest: il viaggio di ritorno durò un anno esatto. In realtà, la sua Historia Mongalorum è un immenso repertorio di fatti, ma anche un’indagine relativa alle leggende e alle tradizioni dei Paesi attraversati e delle genti. L’ora della crociata cristiano-mongola contro l’Islam vicino-orientale sembrava sul serio
scoccata. Nel 1248 Luigi IX di Francia, sostando a Cipro diretto in Egitto – dove si apprestava ad attaccare il delta del Nilo –, ricevette un’ambasciata dell’ilkhan (il «khan territoriale») di Persia alla quale rispose inviando come suo rappresentante frate Andrea di Longjumeau, lo stesso che – avendo già preso parte al viaggio di Ascelino – conosceva le contrade persiane. Il Domenicano s’imbatté però in un periodo di vacanza del trono, poiché l’ilkhan era da poco scomparso: e la sua missione non ebbe seguito. Ben diversamente andarono le cose con un Francescano, anch’esso inviato da san Luigi non appena questi fu liberato dalla prigionia egiziana nella quale aveva concluso la sfortunata avventura della sua crociata. Egli scelse per un nuovo viaggio politico e missionario, che avrebbe dovuto stavolta arrivare al Gran Khan, il Francescano fiammingo Guglielmo di Rubruck: questi avrebbe dovuto compiere il viaggio scegliendo l’itinerario settentrionale, secondo una spartizione dell’Asia da evangelizzare che i due Ordini mendicanti fratelli e rivali avevano stabilito fra loro. Il viaggio di fra Guglielmo e del suo compagno, Bartolomeo da Cremona, durò ben quattro anni, dal 1252 al 1256. Cominciò da Acri, dove l’Ordine francescano aveva un importante centro conventuale, e da qui i frati raggiunsero via mare il porto di Soldaia (oggi Sudak), in Crimea. Dal Volga fino a Karakorum, Guglielmo seguí fedelmente l’itinerario ch’era già stato del suo confratello Giovanni di Pian del Carpine. L’allora Gran Khan, Mongka, gli affidò un messaggio per il re di Francia: il fatto che poco dopo, nel 1258, suo fratello Hulagu, ilkhan di Persia, avrebbe conquistato Baghdad ed estinto il califfato abbaside, fece crescere le speranze crociate tra i cri-
In alto miniatura che raffigura i Mongoli come cannibali, secondo la credenza diffusa al tempo, in Europa, che questo popolo avesse le caratteristiche piú disgustose, dalla Chronica maiora di Matteo da Parigi. XIII sec.
Capolettera miniato da un’edizione della cronaca di viaggio di Guglielmo di Rubruck. 1253-1255.
stiani d’Occidente. In questo senso, il viaggio di fra Guglielmo segnò l’apice della «grande illusione». Al ritorno, il Francescano scelse la pista a nord del lago Balhaš, percorse quindi la «depressione caspica» fino alla sponda occidentale del «mare interno», alla foce dell’Araks, da dove la carovaniera, attraverso Azerbaigian e Armenia, gli consentí di guadagnare la costa cilicia e di lí, via mare, il suo convento in Acri.
Una relazione assai dettagliata
Il resoconto del viaggio abbonda di notizie sia sui costumi «pagani» (sciamanici) dei Tartari, sia sul mondo dei cristiani di Karakorum, dove, insieme con i nestoriani, c’erano anche i cristiani «latini» provenienti dall’Europa (circostanza confermata dalla scoperta di una stele funeraria relativa a una famiglia di mercanti originari di Genova e stabilitisi in Mongolia). Interessanti risultano anche i rilievi geografici di Guglielmo, che, da buon Francescano, affrontava spregiudicatamente le auctoritates antiche: e sottolineava, per esempio, che il Caspio era un mare clausum, non un’insenatura dell’oceano come sostenevano Plinio e Isidoro da Siviglia; e che in Asia non v’era traccia alcuna delle razze mostruose di cui avevano parlato Solino e Isidoro (blemmii dal volto sull’addome, panotii dalle grandi orecchie di cui si servivano come mantelli e cosí via). Ma il sogno della crociata euro-mongola contro l’Islam, che pur aveva messo lunghe e robuste radici (riaffiorò quasi un secolo e mezzo piú tardi, al tempo di Tamerlano) s’infranse nel 1260 in Palestina, nella battaglia degli stagni di Ain Jalud sul Giordano, dove il generale tartaro Qitbuqa (un cristiano nestoriano al quale l’ilkhan di Persia Hulagu, il conquistatore di Baghdad, aveva affiMARCO POLO
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Le grandi esplorazioni colò ripartirono nell’autunno del 1271 per l’Oriente: ad Acri furono di nuovo ricevuti dal cardinal Visconti, che si accingeva a raggiungere l’Italia perché il troppo lungo conclave viterbese l’aveva alla fine eletto papa (e sarebbe stato Gregorio X, il pontefice famoso per aver avviato una grande inchiesta sulle prospettive di fattualità effettiva della crociata).
La missione come esilio
Miniatura raffigurante Khubilai Khan che riceve dai Polo i doni inviati da papa Gregorio X, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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dato il compito di battere i sultani mamelucchi d’Egitto, e che si vantava di discendere dai Magi) fu battuto e perse anche la vita. In quello stesso anno, da Costantinopoli – che solo per pochi mesi sarebbe rimasta ancora fra le mani degli «imperatori latini» insediatisi con la IV crociata del 1204 – partivano Matteo e Niccolò Polo, desiderosi di instaurare rapporti commerciali stabili con i Mongoli della cosiddetta «Orda d’Oro», che dominavano la Russia meridionale, l’Ucraina e la Crimea. Dopo aver soggiornato tre anni a Sarak sul Volga, alla corte di Berke Khan, i due fratelli proseguirono seguendo in parte l’itinerario di Giovanni di Pian del Carpine fino a Bukhara, dove una serie d’imprevisti li costrinse a restare bloccati per circa tre anni. Ripartiti, si accodarono a un’ambasceria mongolo-persiana diretta al Gran Khan Kubilai, che aveva intanto conquistato la Cina: con lui soggiornarono a lungo, fra la sua capitale estiva di Dolon-Nor (Tolun), a nord della Grande Muraglia, e quella, splendida, di Pechino, che i Mongoli chiamavano Khanbaluk. Il viaggio di ritorno, con ricche merci e messaggi del Gran Khan per il papa, durò tre anni. Il potente sovrano si era fatto promettere che sarebbero tornati e li aveva incaricati di recargli, fra l’altro, un po’ d’olio delle lampade del Santo Sepolcro di Gerusalemme, a cui attribuiva grandi virtú taumaturgiche. Ad Acri, nel 1269, il legato pontificio, il Piacentino cardinal Tedaldo Visconti, li consigliò di rientrare a Venezia per attendervi l’elezione del nuovo pontefice: papa Clemente IV era infatti morto l’anno prima, ed era necessario ch’essi consegnassero al suo successore il messaggio del Gran Khan. La vacanza pontificia fu però troppo lunga: e il richiamo dell’Asia, gli impegni con il Gran Khan, la prospettiva di nuove avventure e di nuovi guadagni, era troppo forte. Matteo e Nic-
Con il padre Niccolò e lo zio Matteo viaggiava il giovanissimo Marco, che si accingeva a vivere il quarto di secolo piú bello della sua esistenza. Tuttavia, mentre Marco accumulava i ricordi e le esperienze che avrebbe poi riversato, grazie all’aiuto di Rustichello, nel Livre des Merveilles, i contatti tra Europa latina e mondo mongolo continuavano. Nel 1278 papa Nicolò III inviò ad Tartaros, diretta in Persia e in Cina, un’ambasceria della quale facevano parte i francescani Gerardo da Prato, Antonio da Parma, Giovanni da Sant’Agata, Matteo d’Arezzo, Andrea de’ Mozzi da Firenze. Le polemiche all’interno dell’Ordine francescano erano ormai durissime: e la Santa Sede si serviva spesso della «missione d’Oriente» per inviarvi, in una sorta di piú o meno larvato esilio, gli scomodi «Spirituali», fautori d’un’interpretazione rigorosa del messaggio di Francesco. Cosí fu spedito in Armenia frate Angelo Clareno. Mentre i sultani mamelucchi d’Egitto stringevano sempre piú la loro morsa su quel che restava del Regno crociato di Gerusalemme e sulla sua capitale, Acri, erano soprattutto gli ilkhan di Persia a proseguire con decisione la loro attività diplomatica nei confronti del mondo latino. L’ilkhan Arghun si serviva soprattutto di mercanti genovesi, numerosi nel suo principato, e di religiosi nestoriani. Nel 1285 un’ambasciata tartaro-persiana guidata dal genovese Tommaso degli Anfossi giungeva presso Onorio IV; due anni dopo, arrivava, ancora inviato da Arghun, il nestoriano Rabban Sauma, che a Roma s’incontrava con il collegio cardinalizio – la sede pontificia era di nuovo vacante – e procedeva quindi in direzione di Parigi, dove incontrò re Filippo IV di Francia, e poi di Bordeaux, dove ebbe un abboccamento con il re d’Inghilterra Edoardo I; infine, di ritorno a Roma, vide anche il nuovo papa, Nicolò IV. Nel 1288 giunse dalla corte persiana un nuovo ambasciatore genovese, Buscarello di Ghisulfo. Esito di questi contatti fu una nuova missione francescana, guidata da Giovanni da Montecorvino, che raggiunse l’India nel 1291 e che nel 1294 era a Pechino, dove avrebbe aperto una chiesa, convertito molti
Un’altra miniatura dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine raffigurante Ghazzan Khan che riceve un messaggero. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
UGOLINO, TESTIMONE FANTASIOSO Nell’anno del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, il 1300, si andò diffondendo in Occidente la falsa notizia secondo cui Ghazzan Khan di Persia, appoggiato dai re d’Armenia, di Georgia e, secondo alcuni, di Cipro, aveva riconquistato per intero la Siria e la stessa Gerusalemme riconsegnandola ai cristiani. In una lettera del 7 aprile del 1300, lo stesso pontefice annunziava la lieta novella a Edoardo I d’Inghilterra. Stando ad alcune cronache, l’ilkhan aveva preso non solo la Siria, ma anche l’Egitto: e nell’Epifania del 1300 aveva ascoltato la messa nella basilica del Santo Sepolcro in Gerusalemme, facendosi battezzare: come sempre in questi casi, la falsa notizia non era priva di alcuni elementi di verità, sui quali non ci soffermeremo. Ricordiamo solo come a Firenze, in una via non lontana dalla basilica francescana di S. Croce, un tale Ugolino, ch’era stato pellegrino a Roma, fecesse eternare su una lapide di pietra la memoria della restituzione del Sepolcro e della presenza di cristiani e Tartari insieme a Roma per festeggiare il Giubileo. Si trattava cioè della memoria di un fatto mai avvenuto, ma del quale molto si era parlato e che tutti ritenevano vero: «Ad perpetuam rei memoriam pateat omnibus evidenter hanc paginam inspecturis qualiter omnipotens Deus specialem gratiam contulit christianis. Sanctum Sepulcrum, quod extiterat a Saracenis occupatum, reconvictum est a Tartaris, et Christianis restitutum. Et cum eodem anno fuisset a papa Bonifacio solepnis remissio omnium peccatorum videlicet culparum et penarum omnibus euntibus Romam indulta. Multi ex Christianis et Tartaris ad dictam indulgentiam Romam accesserunt».
personaggi anche d’alto rango e sarebbe stato nominato arcivescovo e patriarca dell’Oriente. Ma Arghun Khan, che forse nutriva davvero qualche interesse nei confronti della fede cristiana, morí nel 1291: l’anno stesso in cui i Mamelucchi conquistavano Acri, ultima roccaforte crociata in Terra Santa. Degli echi in Asia di quell’episodio abbiamo notizia anche attraverso un altro intelligente viaggiatore, il domenicano fiorentino Ricoldo di Montecroce. Ma nel 1295 il successore di Arghun Khan, Ghazzan, sceglieva di convertirsi all’Islam; i Tartari dell’Orda d’Oro si erano già convertiti da oltre mezzo secolo. La cristianità occidentale aveva perduto per sempre la sua grande occasione di espandersi in Asia. Di questa intensa e feconda attività diplomatica e missionaria, con le sue prospettive guerriere e mercantili, restarono le tracce nel Trecento, con viaggiatori quali Odorico da Pordenone e con il proseguire dell’organizzazione della Chiesa latina missionaria fra Armenia, Georgia, Persia, India e Cina, segnate anche dal sangue di molti martiri. E resta un mito fondato sulla «falsa notizia» della conquista mongola di Gerusalemme, della sua liberazione dai musulmani e della sua riconsegna ai cristiani latini, che sarebbe avvenuta proprio nell’anno del Giubileo, il 1300. Una lapide dell’epoca ricorda ancora, a Firenze, l’evento mai accaduto. MARCO POLO
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