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IN EDICOLA IL 22 NOVEMBRE 2024
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RE ARTÚ E I CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA
LA SPADA NELLA ROCCIA I MISTERI DEL SACRO GRAAL NEL MONDO MAGICO DI MERLINO LANCILLOTTO E GINEVRA VIAGGIO NEI LUOGHI DELLA LEGGENDA
N° 1 Novembre 2024
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MEDIOEVO SPECIALE
speciale
Timeline Publishing S.r.l. – Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento – Aut. n° 0703 Periodico ROC
EDIO VO M E
RE ARTÚ
E I CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA
RE ARTÚ
E I CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA di Franco Cuomo, con contributi di Marina Montesano, Franco Cardini e Francesco Colotta
6. Presentazione Un’avventura senza tempo
62. La morte di Artú L’ultimo duello
8. Fortuna del mito Fascino di un’invenzione
68. L’eredità della cavalleria Ma l’Ordine vivrà per sempre
16. Le origini Il figlioccio del mago
74. Galahad Bello come un angelo
24. La Tavola Rotonda Seduti intorno al mondo 34. Merlino e Viviana Quando la passione annebbia la saggezza 40. Lancillotto Il servitore valoroso 44. L’Excalibur Sette metalli per un’arma invincibile
80. Il Santo Graal La piú desiderata tra le reliquie 86. Cavalieri di giustizia Avventure edificanti 92. L’eletto Tre per un privilegio 100. La santa apparizione Ecco il calice, finalmente! 108. La «cerca» del calice Un mito universale
48. Lancillotto e Ginevra Passione travolgente
114. Itinerari arturiani Sui sentieri della leggenda
56. Adulterio reale L’armonia spezzata
126. Cinema e letteratura Un eroe moderno
Una veduta dei resti del complesso monastico di Glastonbury, nel Somerset (Inghilterra sud-occidentale). Secondo la tradizione, qui si troverebbe la tomba di re Artú e della regina Ginevra (vedi anche a p. 122).
Un’ avventura senza tempo I
cavalieri della Tavola Rotonda e il loro re, Artú, rappresentano la quintessenza di quanto c’è al mondo di piú nobile, puro e generoso. Non sono però imparentati con gli dèi, a differenza degli eroi germanici e dei loro predecessori di altre civiltà. Sono uomini, con tutte le passioni, gli slanci e anche le debolezze che la natura umana comporta. In questo limite risiede in realtà la loro forza, che non li rende sempre invincibili in battaglia, ma insuperabili nell’offrire alla fantasia di chiunque un appiglio per potersi identificare in essi. È il segreto della loro popolarità, mai decaduta nei secoli, e oggi viva piú che mai, come dimostra il successo di film, libri, pubblicazioni divenute di per se stesse un «genere». Il legame tra le piú inverosimili gesta e le azioni piú comuni, tra le piú alte idealità e i sentimenti piú terreni, rende accessibili e familiari alla sensibilità dell’uomo contemporaneo i cavalieri di Artú. Il loro stesso giuramento esprime valori di un’attualità elementare, come la solidarietà, la lealtà, la pietà per il proprio stesso nemico, dei quali la società d’ogni tempo – e di oggi piú che mai – avverte uno struggente bisogno. Non escogita un’etica complessa, non elabora nuovi teoremi morali, ma semplicemente impone di non ricorrere mai alla violenza senza un giusto scopo, di non abbassarsi all’assassinio e al tradimento, di non negare misericordia a chi ne facesse richiesta. Con uno speciale accento sull’obbligo di proteggere i deboli contro qualsiasi prepotenza, facendo valere i diritti delle donne, delle vedove e dei fanciulli indifesi, senza mai battersi – è da sottolineare – per vantaggio personale. Sono principi nella cui legittimità è naturale riconoscersi per ogni società civile, oggi come in passa-
to. Ed è significativo che nello spirito di Artú avessero per esempio voluto specchiarsi durante la seconda guerra mondiale i piloti della RAF (Royal Air Force, l’aeronautica militare del Regno Unito, n.d.r.), chiamati a duellare sulla Manica contro un nemico che rappresentava il male nella sua forma piú assoluta dell’odio politico e razziale, della volontà di sterminio, del ricorso alla forza contro il diritto. Nella saga di Artú, il male e il bene non sono un’astrazione, ma la sintesi vitale di due realtà contrapposte, che convivono in una medesima impresa. Nella sua volontà di perseguire il bene, infatti, il cavaliere è perennemente insidiato dal male. E quelli che soccombono sono assai piú di quanti riescono ad avvicinarsi alla meta che si sono prefissati, sia pure solo intravedendola, senza tuttavia raggiungerla. Il punto di forza della leggenda è nel rappresentare questa lotta squisitamente interiore in termini spettacolari, raffigurando materialmente l’oggetto della ricerca nella mistica coppa del Graal, entro cui venne raccolto il sangue sgorgato dalle ferite del Cristo. Cosí, come sospesi tra cielo e orizzonte, i cavalieri percorrono le vie del mondo attraversando metaforiche foreste, vincendo incantesimi e talvolta perdendosi nel labirinto delle proprie visioni, al solo scopo di ritrovare una reliquia che è la sintesi estrema di ogni bene. Perennemente in armi e in preghiera, perennemente tesi alla realizzazione di un sogno, perennemente impediti dalla loro umana imperfezione, i cavalieri di Artú sono gli eroi di un’avventura senza tempo, intessuta di simboli e di segni misteriosi. Decifrarli può aiutare l’uomo del Duemila come quello di un remoto passato a capire se stesso.
Re Artú, olio su tela di Charles Ernest Butler. 1903. Collezione privata. RE ARTÚ
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Fascino di un’invenzione
Re Artú e i suoi cavalieri sono personaggi leggendari. Eppure, fin dalle prime apparizioni letterarie, furono considerati la piú nobile incarnazione dell’ideale cavalleresco. E, dunque, un esempio da imitare
N
egli annuari cavallereschi, il sodalizio della Tavola Rotonda è indicato dagli storici come «inesistente», ma non per questo è meno rilevante di tanti altri Ordini effettivamente esistiti, al fine di comprendere ciò che storicamente rappresentò il fenomeno della cavalleria. E c’è chi addirittura precisa che «tra gli Ordini falsi o supposti quello cosí detto della Tavola Rotonda occupa il primo posto». Il che trova conferma nei fiumi d’inchiostro versati sulla leggenda di re Artú e dei cavalieri da lui riuniti sotto le proprie insegne a Camelot, capitale fiabesca di un regno inventato. È curioso, ma non inspiegabile, che tra le centinaia di Ordini cavallereschi succedutisi nella storia dell’Occidente – alcuni dei quali gratificati dalla grande fama acquisita all’epoca delle crociate, come i Templari, i Teutonici e gli Ospitalieri, attuali cavalieri di Malta –, il primato della popolarità debba spettare a una confraternita di cui non si ha notizia certa. Certo, è arduo stabilire che cosa significhi ricoprire il primo posto, come si dice dei cavalieri di Artú, in una graduatoria di entità inesistenti. Si deve però considerare la particolarità del fenomeno cavalleresco nelle sue implicazioni leggendarie, che lo pongono frequentemente al limite della realtà storica, in una sorta di nebbioso limbo nel quale i fantasmi di eroici guerrieri senza nome si confondono con personaggi dall’identità ben definita, protagonisti di fatti d’armi e imprese spesso inverosimili, documentati però da precisi riscontri nelle cronache. Cosí, confondendosi tra loro, elementi storici e di fantasia danno origine a saghe nelle quali si stenta a distinguere quanto vi sia di vero e di inventato. 8
RE ARTÚ
La leggenda della Tavola Rotonda è tra queste. Dice dei suoi protagonisti Francesco Petrarca nel Trionfo dell’amore, senza addentrarsi in temerari approfondimenti sull’attendibilità storica di ognuno: «Ecco quei che le carte empion di sogni». Di questi sogni è fatta la matrice delle storie riunite nella saga di Artú, che per la sua complessità s’intreccia con altri miti eroici, magici e religiosi, come quelli della prodigiosa spada Excalibur, della mistica coppa del Graal, del Re Pescatore, del mago Merlino e del suo sfortunato amore per l’ingrata fata Viviana, chiamata nell’«antica lingua» Nimué. Si tratta, con ogni evidenza, del retaggio di una tradizione nella quale convivono elementi cristiani e celtici, com’è naturale in riferimento a un’epoca nella quale avviene il trapasso dalle antiche superstizioni al nuovo credo evangelico.
Due sconfinati universi spirituali
In questo scenario di paganità declinante, tra spiriti dei boschi e delle acque, fate gentili e infide, druidi dediti ad antichi sortilegi, s’intrecciano le imprese di Artú e dei suoi cavalieri. Mitiga il contrasto tra questi due sconfinati universi spirituali il tentativo letterario, frequente nei romanzi che s’ispirano alla Tavola Rotonda, di conciliarne le diversità, compenetrandole talvolta in una medesima situazione, se non addirittura in uno stesso personaggio. Tra questi artifici rientra la sostituzione improvvisa di figure che, fino a un certo punto, erano parse essenziali all’evolversi della trama con altre che ne assimilano i caratteri adattandoli a una mutata realtà civile. Esemplare in tal senso è il caso di Merlino, che in alcune versioni della storia si defila dopo l’incoronazione di Artú per lasciare spazio a un vesco-
Miniatura raffigurante re Artú a bordo di una nave insieme ai suoi cavalieri, da un’edizione del Lancelot du Lac. XV sec. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.
PAPI DEL MEDIOEVO
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RE ARTÚ
Fortuna del mito
I protagonisti della saga Ban
Leodegrance Elaine
Elaine
Uther Ginevra
Artú
Duca di Tintagel
Ygraine
Morgause
Lot
Morgana Elaine
Mordret
Lancillotto
Accolon Pellinore
Galahad Percival
Galvano
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RE ARTÚ
Ivano
Agravaine
Gareth
Lamorak
Angwyshaunce Tristano
Gaheris
Urien
Isotta
Marco
Genealogia di Artú elaborata sulla base della Morte d’Arthur di Thomas Malory.
Coniugati Amanti Prole Re/Regina Cavaliere
A sinistra miniatura raffigurante l’arrivo dei cavalieri per la festa di re Artú a Camelot, da un’edizione del Roman de Tristan di Thomas d’Angleterre. XV sec. Chantilly, Musée Condé. A destra medaglione in smalto di Limoges raffigurante re Artú. XVI sec. Écouen, Château d’Écouen, Musée national de la Renaissance. vo di nome Dubric, non essendo conveniente che un mago di connotazione druidica continui a gestire i destini di un re cristiano. Il che avviene con tale ambiguità da indurre al sospetto che Merlino e Dubric siano in effetti la stessa persona. Ma lo stesso Artú risente vistosamente, a tratti, della duplice natura barbarica e cristiana del suo ruolo. Come parrebbe dimostrare l’origine totemica del suo nome Artus o Artur, che nell’«antica lingua», impasto di dialetti celtici e gallese, significa Orso (arktos nel comune idioma dei Celti, art in Irlanda, arth in Galles, arzh in Bretagna). Nell’ambito delle società primitive, era infatti consuetudine che il capo s’identificasse con l’animale o la pianta della tribú, ovvero con il suo spirito profondo, rivelato attraverso una visione detta «totem». S’intendeva questa identificazione come un legame da protrarre oltre la vita, che nel caso di Artú diede origine alla poetica fantasia di una sua assunzione in Cielo, nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Per questo, nella nomenclatura celeste dei Druidi l’Orsa è detta Cerbyd Arthur, ovvero «Carro di Artú». V’è poi, nella contigua costellazione di Boote, una stella arancione di prima grandezza, detta Arturo, cioè Coda dell’Orsa (dal greco arktos, orso, e oura, coda), perché situata sul prolungamento della curva descritta dal timone o coda dell’altra. Sono dati che parrebbero evidenziare l’origine tribale del mito, accreditando l’ipotesi secondo la quale Artú sarebbe storicamente identificabile con un capoclan dei Cimbri in lotta contro gli Anglosassoni tra il V e il VI secolo in Inghilterra, cioè molto prima che l’idea della cavalleria si affermasse. Altre ricerche portano alla tesi del tutto fantastica che Artus o Arturus potesse essere un generale romano rimasto in Britannia dopo l’esodo delle legioni, intorno al 410, creando intorno a sé un movimento di civiltà che si sarebbe opposto all’imbarbarimento delle po-
polazioni. In tale disegno rientrerebbero le leggi tendenti alla protezione dei deboli contro l’abuso della forza, intento che nella sua essenzialità, corrisponde ai principi fondamentali della cavalleria.
Fiore dell’umanità intera
Avalla in termini letterari quest’idea sui nobili scopi di giustizia che avrebbero animato la nascente compagnia della Tavola Rotonda ciò che il poeta inglese Alfred Tennyson (1809-1892) fa dire al suo Artú nel poema Gli idilli del re: «Quando i Romani ci lasciarono e la loro legge allentò su di noi le sue redini, e le vie erano piene di rapine, qua e là un’azione di valore raddrizzava un torto casuale. Ma io fui il primo a riunire cavalieri erranti di questo e di altri regni. Fui il loro capo in quel bell’Ordine della Tavola Rotonda, gloriosa compagnia, fiore dell’umanità intera, modello al mondo possente, stupendo inizio di un’epoca nuova». A questi cavalieri Artú impose una legge severa e sublime: «Feci loro porre la mano nella mia e giurare di onorare il re, come se egli fosse la loro coscienza, e la loro coscienza come fosse il re; di cavalcare fuori della patria riparando gli umani torti, di non dire calunnie e di non porvi orecchio, di condurre dolce vita nella piú pura castità, di amare soltanto una fanciulla e unirsi a lei, meritando il suo amore attraverso anni di nobili imprese, fino a conquistarla». Ipotesi piú pertinenti allo scopo di collegare la saga di Artú agli usi cavallereschi e cortesi vennero successivamente formulate dal monaco Pierre Hélyot, detto anche il Père Hippolyte RE ARTÚ
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RE ARTÚ
Fortuna del mito
LA PENTOLA PORTENTOSA Uno dei miti piu popolari dei druidi riguarda una pentola magica, raffigurata come un calderone oppure come un vaso finemente lavorato, che produce inesauribili ricchezze, cibo e bevande rigeneratrici, in grado di guarire ogni male: qualità per molti aspetti simili a quelle del Santo Graal. Anche questa pentola è oggetto di una ricerca perigliosa in una regione chiamata Landa Desolata, custodita da un Re Ferito con un destino analogo a quello del Re Pescatore o del Re Magagnato, di cui si parla nella saga di Artú. Vuole una gentile tradizione che questa sorta di cornucopia sia nascosta dove nasce (o muore) l’arcobaleno, ed è li che si dirige chi la cerca. Antichi bardi raccontano che anche
(1660-1716) – un dotto esegeta degli Ordini monastici e militari d’ogni tempo –, il quale ricondusse la nascita della Tavola Rotonda a una sorta di ricorrente invito a cena tra signori di altissimo lignaggio. Anche lui si esprime in termini dubitativi, attribuendo a fonti non definite ciò che dice nella sua monumentale storia della cavalleria, in otto volumi: «Pretendono alcuni che un Ordine militare chiamato della Tavola Rotonda fosse istituito nell’anno 516 dal famoso Artú, re “favoloso” d’Inghilterra, il quale creò cavalieri di detto Ordine ventiquattro signori della sua corte, 12
RE ARTÚ
Galahad, Bors e Perceval (Parsifal) inginocchiati in preghiera davanti al Graal, illustrazione tratta da un’edizione manoscritta de La Quête du Saint Graal (romanzo composto agli inizi del XIII sec.). 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
che in certi dati giorni mangiavano insieme con lui a una tavola rotonda». Con troppa disinvoltura si è cercato di spiegare la forma della tavola attribuendola all’intenzione di non offendere la sensibilità dei convitati nell’assegnazione dei posti, come se bastasse sedere in circolo per trovarsi in una condizione di apparente parità. È una soluzione affrettata e perciò superficiale, che non fornisce lumi sul simbolismo profondo della Tavola Rotonda, da ricercare, come vedremo, tra le pieghe piú occulte dell’esoterismo cristiano. C’è chi ritiene,
Artú sia stato tra questi e che abbia felicemente concluso la ricerca, imposessandosi del tesoro occultato in una pentola. Ce n’è abbastanza per dedurne un nesso con il mito del Graal, quale trasposizione cristiana di una popolare fiaba pagana. Si attribuisce la paternità dell’operazione tendente a cristianizzare il Graal a san Bernardo di Chiaravalle, promotore instancabile di una «cavalleria di Dio», che parve trovare la sua espressione ideale nell’Ordine dei Templari, di cui egli stesso scrisse la Regola. Non è certo casuale che fossero i Templari a possedere la Sindone, cioè la reliquia piú rappresentativa (insieme al Graal, che però nessuno ha mai visto) della fisicità deI Cristo.
d’altronde, che la tavola di Artú sia tuttora esposta nel castello di Winchester, miracolosamente risparmiata dalla naturale corrosione del tempo. Il che la dice lunga sulla vocazione della fantasia popolare a intessere di pettegolezzo i grandi miti. Significativo appare, comunque, il ricorso all’aggettivo «favoloso» da parte del Père Hippolyte per indicare Artú come personaggio di pura immaginazione, ascrivibile a mondi piú fiabeschi che reali. Riconduce all’ipotesi di una origine conviviale della Tavola Rotonda l’eventualità che una simile denominazione stesse a indicare in epoca remota una sorta di duello in campo chiuso, una «singolar tenzone» al termine della quale i partecipanti si recavano a banchettare insieme a casa di chi l’aveva organizzata, sedendo intorno a un desco di forma circolare. Non era, evidentemente, un duello all’ultimo sangue.
Un’epopea «cortese»
Rimbalzando nei secoli, queste pallide quanto frammentarie notizie intorno all’esistenza di un barbarico eroe di nome Artú finirono per dare vita a un’epopea «cortese», da intendersi nell’accezione lessicale del termine come qualcosa di pertinente al gusto e alle abitudini della gente di corte. Sotto questo aspetto la nascita della saga di Artú sarebbe da ricondurre a «una reazione dell’individuo contro la massa, dello spirito individuale contro lo spirito universale, del poema eroico contro l’idea di nazione e di Stato». Contraddice però questa tesi per cosí dire elitaria, cara alla filologia romantica tedesca, la popolarità arrisa a tutta la letteratura germinata intorno alla Tavola Rotonda, sia per quanto riguarda i tentativi di storicizzazione che d’invenzione narrativa. Ne
Il calderone di Gundestrup, un grande vaso in argento di produzione celtica, databile al II sec. a.C. Copenaghen, Museo Nazionale Danese.
fa fede l’universale successo dei romanzi riuniti nel ciclo bretone, cosí chiamato per la centralità che in tali opere riveste il regno arturiano di Bretagna, e anche per distinguerlo dal ciclo carolingio, imperniato sulle gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini. Lanciarono il «genere» scrittori di grande fantasia, come Chrétien de Troyes e Maria di Francia (attivi entrambi nella seconda metà del XII secolo), ispirandosi agli antichi racconti dei bardi, poeti ai quali era demandato nelle comunità celtiche il compito di tramandare la memoria storica. Il riferimento a queste fonti, prevalentemente gallesi, lascia intuire che debba riconoscersi una certa veridicità alla leggenda, sia pure enfatizzata dalla naturale vocazione degli autori a idealizzarne i termini. Se ne dedusse, sul finire dell’Ottocento, che la letteratura fosse essenziale alla conoscenza della cavalleria quanto la storia – e secondo alcuni piú di questa, data l’insufficienza dei documenti d’archivio. In particolare, si disse che nei poemi epici e nei romanzi cortesi dovesse ricercarsi la chiave del mistero cavalleresco, cosí considerato per la sacralità dei riti che l’investitura richiedeva. Si ritenne, in altre parole, che la leggenda colmasse il vuoto storico di un’età oscura, fornendo un supporto immaginario alla carenza di dati reali, quanto bastava per poter ricavare, da uno scenario straordinario, un’ordinaria conoscenza di eventi e personaggi radicati in un indefinito passato. Il primo a tentare un’operazione del genere, elaborando dal racconto leggendario materia per una cronaca dal titolo Storia dei re di Britannia, fu il vescovo inglese Geoffrey di Monmouth, vissuto tra il 1100 e il 1155 a Oxford, dove tenne cattedra e trascrisse tra l’altro in latino, dalla RE ARTÚ
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RE ARTÚ
Fortuna del mito
Cronologia del ciclo arturiano toria dei Britanni, del monaco gallese Nennio. Fra i piú S antichi testi sulla storia dell’Inghilterra, contiene per la prima volta riferimenti ad Artú. X secolo Annales Cambriae, di autore ignoto. Cronache gallesi del V-X secolo, con accenni ad Artú, Merlino e Mordred. 1130 Vita di san Gildas, di Caradoc di Llancarfan. Nell’opera viene citata la vicenda del rapimento di Ginevra. 1136 Storia dei re di Britannia, di Geoffrey di Monmouth. Opera biografica, che dedica tre volumi ad Artú. 1135-1137 De antiquitate Glastoniensis ecclesiae, di William di Malmesbury. Compendio delle leggende su Artú e i cavalieri della Tavola Rotonda tratte in gran parte dalla Storia dei re di Britannia. 1125-1140 Gesta dei re degli Angli, di William di Malmesbury. Artú è descritto come un eroe che sconfisse i Sassoni. 1148-1150 Vita di Merlino di Geoffrey di Monmouth. Poema epico che narra alcune vicende della vita del mago. 1155 Romanzo di Bruto, di Robert Wace. Rielaborazione ampliata della Storia dei re di Britannia di Geoffrey di Monmouth: viene introdotto il tema della Tavola Rotonda. 1170 Érec e Énide, di Chrétien de Troyes. Érec, cavaliere della Tavola Rotonda e della sua amata, Énide. 1176 Cligès, di Chrétien de Troyes. Storia dell’iniziazione a cavaliere di Cligès, figlio dell’imperatore di Costantinopoli. 1170-80 Lancillotto o il cavaliere della carretta, di Chrétien de Troyes. Romanzo sull’amore di Lancillotto per Ginevra. 1170-80 Ivain o il cavaliere del leone, di Chrétien de Troyes. Storia di un cavaliere della Tavola Rotonda. 1175-1190 Percival o il racconto del Graal, di Chrétien de Troyes. Attraverso l’epopea del cavaliere Percival, il romanzo introduce il mito del Sacro Graal. XII secolo Il drago normanno, di Étienne di Rouen. Primo esperimento satirico sulle gesta di Artú. XII-XIII sec. Mabinogion, di autore anonimo. Gruppo di racconti gallesi che comprendono tradizioni legate al ciclo arturiano. XII-XIII sec. Peredur figlio di Efrawg, di anonimo. Romanzo gallese con la biografia di Peredur, da altri identificato con Perceval. XIII secolo Perlesvaus, di anonimo. Romanzo in antico francese, ideale continuazione del Perceval di Chrétien de Troyes. XIII secolo Tristano in prosa, attribuito a Luce de Gat ed Elia di Boron. Poema che recepisce la tradizione di Tristano e Isotta, inserendola nelle vicende della ricerca del Graal. 1210 Parzival, di Wolfram von Eschenbach. Primo grande romanzo di formazione tedesco, descrive la maturazione di Parzival, fino al piú alto grado di valore cavalleresco. XIII secolo Lancillotto in prosa, di anonimo. Serie di romanzi francesi che rielabora le tradizioni legate ad Artú. XIII secolo Giuseppe d’Arimatea, di Robert de Boron. Poema che rilegge il mito del Graal in chiave religiosa. XIII secolo Merlino, di Robert de Boron. Racconto francese in cui appare per la prima volta l’episodio della spada nella roccia estratta da Artú. XIII secolo Meliadus, di Rustichello da Pisa. Compendio in dialetto franco-veneto che contribuí alla diffusione delle leggende arturiane in territorio italiano. 1485 La morte di Artú, di Thomas Malory. Opera piú importante in lingua inglese sul ciclo arturiano. IX secolo
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RE ARTÚ
lingua gallese, un compendio di pretese profezie di Merlino. Giganteggiano nella Storia di Monmouth, pubblicata nel 1137, personaggi come Lear, Uther Pendragon e suo figlio Artú, dei quali si ha traccia reale, ma lo spirito affabulatorio del racconto raggiunge gli effetti di maggiore suggestione nell’atmosfera d’ombra e di mistero che avvolge uomini e cose. La lotta dei popoli è lotta di draghi e guerrieri d’iperbolica potenza, nella quale interagiscono sortilegi e profezie. Sovrasta le azioni dei viventi una cortina d’incantesimo, oltre la quale si muovono spiriti e demoni, divinità primordiali e nuovi santi. Aleggiano in questo clima rarefatto e tuttavia variegato, ricco di umori e di tensioni assai diversi tra loro, sentimenti grandi e meschini, nobili e perversi, tra i quali c’è spazio per gloria e disfatta, eroismo e viltà, amore e tradimento. Monmouth asserisce di avere attinto le sue notizie da un antico manoscritto gallese, procuratogli dall’arcidiacono di Oxford, ma essendo andato perduto tale testo è difficile dire quanto vi sia di vero nell’esistenza di una specifica fonte preesistente.
UNO SCRITTORE ALLA CORTE DI CHAMPAGNE Chrétien de Troyes cominciò a scrivere i suoi romanzi in versi negli anni Sessanta del XII secolo, allorché attorno alla regina Eleonora, moglie di Enrico II e nipote del trovatore Guglielmo IX d’Aquitania, si andava fondando il nucleo originale della «cultura cortese». La vera protettrice di Chrétien fu però una figlia di Eleonora, Maria, moglie di Enrico conte di Champagne. Il Percival o il racconto del Graal, composto a partire dal 1181 e rimasto incompiuto, fu l’ultimo romanzo di Chrétien. La sua prima opera, Érec e Énide, si data agli anni fra 1165 e 1170. In essa sono già delineati molti tra i temi consueti dell’autore: l’amore, l’etica cavalleresca, le difficoltà che temprano il protagonista e, in un percorso di tipo iniziatico, lo rendono degno della sua condizione e dell’amore della dama. Seguirono, nell’arco di poco piú di un decennio, Ivain o il cavaliere del leone, il Cligès (1170 circa), Lancillotto o il cavaliere della carretta: opere che – per le qualità intrinseche della scrittura, l’originalità dei temi, la funzione di apripista rispetto alla letteratura posteriore – hanno guadagnato a Chrétien de Troyes la fama di miglior romanziere del Medioevo.
terra, desumendone che per questo gli Angli dovessero considerarsi discendenti di Enea e dei Troiani. Molti scrittori erano stati cosí indotti a chiamare l’isola Seconda Troia o Troynovaunte, facendo riferimento nei loro testi a Bruto. Per questo vi fa cenno nel suo titolo anche Robert Wace, iniziando la consuetudine di usare il termine Brut come sinonimo di «cronaca». Peculiarità del Romanzo di Wace fu l’onesta revisione della fisionomia barbarica di Artú, al quale vennero attribuiti caratteri propri della «moderna» sensibilità cortese. Come si evince dalla sobria e civile descrizione che ne dà: «Molto amò il valore, molto amò la gloria, molto meritarono di essere rammentate le sue gesta. Si fece servire con cortesia e si comportò sempre con grande nobiltà. Tanto da superare finché visse tutti gli altri principi per cortesia e prodezza, generosità e valore».
Un’autorità «illuminata» Nella pagina accanto pagina miniata con scene della vita di Parsifal, da un’edizione del Parzifal di Wolfram von Eschenbach. 1228-1236. Monaco di Baviera, Bayerische Landesbibliothek.
Si hanno altri cenni alle imprese di Artú in opere circolate nello stesso periodo in cui Monmouth scrisse la sua Storia. Ne parlano diffusamente William di Malmesbury († 1143 circa) nella cronaca denominata Gesta dei re degli Angli e Caradoc di Llancafarn (XII secolo) nella Vita di San Gildas, dov’è anche menzionata la regina Ginevra o Gwynhwfar destinata a macchiarsi con Lancillotto dell’adulterio che segnerà il decadimento del sodalizio cavalleresco. È però Monmouth a scoperchiare per primo la pentola delle meraviglie arturiane in tutta la loro attrattiva, suscitando appassionate reazioni nel mondo ecclesiastico e cortese di Francia e Inghilterra. A lui deve riconoscersi la paternità del gran «colpo» editoriale, diremmo oggi, che portò Artú in testa alle classifiche dell’epoca con duecento copie vendute (cioè tante, se rapportate alla media dei consumi culturali) entro la fine del secolo. La cronaca di Monmouth è palesemente menzognera, ma geniale, nel senso che travalica il contesto storico a cui si riferisce per conferire uno spessore universale alle storie che tramanda. In quest’ottica, i cavalieri della Tavola Rotonda non hanno patria, né tempo, ma rappresentano la quintessenza di quanto v’è di buono e nobile al mondo. Si spiega in tal modo la rapida fortuna della leggenda volgarizzata da Monmouth oltre la Manica, dove venne tradotta e ingentilita nello stile dal poeta anglo-normanno Robert Wace (1100-1175 circa), che ne trasse, nel 1155, il Romanzo di Bruto. Monmouth aveva accennato nella sua Storia al romano Bruto come colonizzatore dell’Inghil-
A questo ritratto ideale si ispirò Chrétien de Troyes tra il 1160 e il 1180, quasi simultaneamente dunque all’uscita del Bruto, per delineare una definitiva immagine di Artú, nella quale diversi esegeti hanno intravisto l’intento politico di esaltare il prestigio della casa reale inglese. Lo si evince soprattutto dai toni, e in specie dalla fermezza con la quale Artú fa precedere l’enunciazione dei propri doveri da un’affermazione secca e categorica: «Io sono il re». È un esordio che esprime potenza senza arroganza, stemperando la forza nell’umiltà con la quale il sovrano rende conto degli obblighi cui è tenuto nei confronti dei suoi sudditi, senza indulgere ad alcun compiacimento dispotico o autoritario. «Io sono il re», dice Artú, «e perciò non devo mentire né consentire villania, falsità, prepotenza. Devo essere custode della ragione e del diritto, poiché spetta a un re leale mantenere la legge, la verità, la parola data e la giustizia. Non devo né voglio in alcun modo infliggere torto e slealtà, tanto in danno del debole che del forte, poiché nessuno deve avere motivo di dolersi di me. Non voglio che si perdano gli usi e i costumi che la mia stirpe seppe conservare (...) Voglio custodire e rispettare a ogni costo gli usi di mio padre Pendragon, che fu re e imperatore». La saga di Artú nella Storia di Monmouth inizia con un incantesimo d’amore a beneficio di Uther Pendragon, il cui nome significa Signore dei Draghi o Grande Drago. In forma diretta o indiretta, passando attraverso la mediazione di rifacitori successivi, vi hanno attinto tutti coloro che hanno scritto della Tavola Rotonda. Tra i quali primeggia Chrétien de Troyes, considerato a buon diritto il maggiore poeta medievale prima di Dante. RE ARTÚ
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RE ARTÚ
Il figlioccio del mago Il concepimento del futuro re Artú poté realizzarsi solo grazie al prodigioso intervento di Merlino. Il quale, in cambio, ottenne il privilegio di poter crescere quel bambino davvero speciale...
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ivenuto re di Britannia dopo aver sconfitto l’usurpatore Vortigern – protagonista di disonorevoli patteggiamenti con i Sassoni –, Uther Pendragon è preso da un ardente desiderio della bella Ygraine, moglie del duca Gorlois di Cornovaglia. Si rivolge allora a Merlino, che già molto lo aveva sostenuto con i suoi incantesimi nella riconquista del trono paterno, chiedendogli di aiutarlo a sedurre Ygraine. Merlino acconsente, a una condizione: che il figlio da loro concepito gli venga affidato, con licenza di allevarlo e di educarlo a suo modo. Uther accetta, e Merlino, senza frapporre indugio, realizza il suo desiderio, facendogli assumere le sembianze del duca di Cornovaglia. Tratta cosí in inganno dall’apparenza, Ygraine lo accoglie nel suo letto, tra le mura del castello di Tintagel, durante un’assenza del marito. Dalla loro unione nasce Artú, che, secondo i patti, viene affidato a Merlino, il quale lo conduce in un
Merlino presenta il futuro re Artú, olio su tela di Emil Johann Lauffer. 1873. Collezione privata. Vuole la leggenda che, subito dopo la nascita, il bimbo fosse stato preso in consegna dal mago, il quale, a sua volta, lo affidò a un gentiluomo di nome Antor. RE ARTÙ
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Le origini
FRA MAGIA E RELIGIONE L’antica magia celtica piú che la nuova religione cristiana aleggia sui natali di Artú, del quale si è scritto che «non appena giunse sulla terra fu preso dagli elfi, che gli fecero un incantesimo assai potente». È significativo che a scriverlo, sul finire del XII secolo, sia un sacerdote cattolico di Arley Regis nel Worcestershire, padre Layamon, suggestionato dalle leggende popolari. Precisa che spiriti della foresta e fate «diedero [ad Artú] il potere di essere il migliore di tutti i cavalieri, un futuro ricco da re, una lunga vita e infine virtú principesche, rendendolo l’uomo piú generoso tra tutti i viventi».
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luogo denominato la Foresta Selvaggia, dal quale uscirà per essere re. Questa volontà del mago di prendere in custodia il bambino si spiega con l’intento di salvare la discendenza e assicurare la continuità della stirpe. Merlino si rende conto che troppe congiure insidiano la corona, e che Uther sarà presto ucciso. Sa bene che ne deriverà una guerra di successione, tra pretendenti avidi di potere, che non esiterebbero a sopprimere il legittimo erede Artú. Per questo lo tiene nascosto fino a quando i baroni lealisti, dopo avere sconfitto i nemici del regno, lo porranno sul trono che gli spetta.
La spada nell’incudine
In questa fase di passaggio del ragazzo dall’anonimato alla corona si inserisce la leggenda pittoresca della spada nella roccia, che poi non era conficcata nella pietra, ma in un’incudine incastonata da Merlino stesso nel sasso. Si è
Miniatura raffigurante il giovane Artú che estrae la spada dall’incudine, da un’edizione dell’Histoire de Merlin illustrata dal Maître des Clères Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
fatta spesso confusione tra quest’arma e la portentosa Excalibur, ma si tratta di due storie distinte. Excalibur non verrà estratta da una roccia o da un’incudine, ma dal fondo melmoso di un lago, dove risiede la fata Viviana, amata da Merlino, che la presenterà ad Artú, nuovo re di Britannia; e Viviana gli farà dono di Excalibur. Divagazioni sull’infanzia clandestina di Artú riportano che Merlino, in attesa di poterne svelare l’identità, lo affidasse a sir Antor, gentiluomo di fama onorata e buon cuore, che lo crebbe educandolo alle regole della cavalleria insieme al figlio Kay, ragazzo aggressivo e prepotente, ma disponibile a instaurare con il fratellastro un accettabile rapporto. Artú stesso non è al corrente della propria identità in questa fase di preludio dell’epopea, e vive in una condizione di subordine il legame con Kay. Finché un giorno non avviene il prodigio che lo consacra inaspettatamente re. I baroni, stanchi di battersi tra loro, chiedono consiglio al saggio Merlino, e questi d’accordo con l’arcivescovo di Westminster invita tutta l’aristocrazia britannica a riunirsi nella cattedrale, la notte di Natale, a pregare per la pace. In realtà, è un incontro che nelle attese di ognuno prelude a una rivelazione, a un segno del Cielo, che ponga fine alla contesa. E anche in questo, come in ogni momento decisivo della saga di Artú, fin da prima che venisse concepito, s’intravede l’influenza risolutiva della mente di Merlino, d’intesa però questa volta con un alto sacerdote della giovane religione cristiana, che in qualche modo appare come una sua raffigurazione speculare. Nel cimitero della cattedrale c’è la fatale incudine con la spada infilata fino al manico nel ferro, e un’iscrizione sulla rupe sottostante che assicura: «Chi estrae questa spada è il legittimo re d’Inghilterra». In molti ci hanno provato, nessuno ci è mai riuscito. Lo farà per puro caso Artú, sempre che si possa considerare casuale ciò che il destino pilotato da un mago ha predisposto.
Uno scudiero distratto
Anche Antor, con il primogenito Kay e il figlio adottivo Artú, si reca al convegno di Natale, nel corso del quale si terrà pure un torneo. Kay vuole parteciparvi, e Artú gli farà da scudiero. In quanto tale, dovrà badare al suo cavallo, all’armatura e agli altri attrezzi da combattimento. Ma Artú è un ragazzo distratto, e solo all’ultimo momento si accorge di avere dimenticato proprio la piú importante delle armi, lo strumento per eccellenza del cavaliere cristiano, cioè la spada. Disperato, va in cerca di un’improbabile
Miniatura raffigurante la costruzione di Stonehenge con l’aiuto di Merlino, da un’edizione del Romanzo di Bruto di Robert Wace. Metà del XIV sec. Londra, British Library.
soluzione, quando, attraversando il cimitero, vede l’impugnatura dell’arma confitta nell’incudine. D’istinto, l’afferra e l’estrae senza sforzo. La porta di corsa al fratellastro, che però protesta vivacemente perché quel ferro non gli appartiene. Il battibecco attira curiosi. «Chi l’ha estratta?» «Io», dice Artú, suscitando l’ilarità dei presenti. Ma qualcuno gli dà credito, sia pure chiedendogli una dimostrazione: «Se tu l’hai estratta dall’incudine, ragazzo, potrai bene riconficcarcela sotto i nostri occhi». È quel che accade. Artú infila la spada dove l’ha presa e l’estrae nuovamente senza sforzo. Altri a questo punto vogliono provarci a loro volta. «Se tu ci sei riuscito», dice un guerriero dalle larghe spalle, «posso riuscirci anch’io». Lo spinge da parte e afferra l’impugnatura tentando inutilmente di estrarre la spada con tutte le sue forze. Altri si cimentano dopo di lui, senza riuscirci. A questo punto Merlino invita Artú a provarci un’altra volta. L’esito è scontato. Il ragazzo estrae la spada e la rivolge verso il cielo. Tutti accanto a lui s’inginocchiano, acclamandolo re. S’inginocchiano anche Antor e Kay. «Mio re», dice Antor, «non sono tuo padre, ma ora so di chi sei figlio». Artú gli tende la mano con RE ARTÚ
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Le origini
Miniatura raffigurante il concepimento di Merlino, da un’edizione della Histoire de Merlin, illustrata dal Maître d’Adelaide de Savoie. 1450-1455. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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affetto filiale, invitandolo ad alzarsi. Lo vuole accanto in cattedrale durante la cerimonia dell’incoronazione, officiata dal vescovo Dubric. È questo un momento essenziale per comprendere la convivenza di antica paganità celtica e giovane religione cristiana nella vicenda arturiana. Parrebbero in effetti incomprensibili le ragioni per le quali Merlino, dopo avere gestito il piano per il trionfo di Artú fin da prima del suo concepimento, accetti di mettersi cosí da parte quand’è giunta l’ora di coglierne i frutti. È lui che ha reso possibile l’incoronazione con l’ingegnosa magia della spada nell’incudine, ma è
Dubric che celebra la cerimonia dell’investitura, è Dubric che parla all’esercito prima della grande battaglia di Mont Baudon contro i Sassoni, è Dubric che diventa tutore spirituale del regno.
Due personaggi in uno?
Non c’è però alcuna contraddizione in questo avvicendarsi di ruoli. C’è, al contrario, lo sforzo sincero di rimuovere gli equivoci che la confusione del momento storico ha generato. La nuova Inghilterra aveva bisogno di un re cristiano, incoronato da un vescovo, ma, per poterlo incoronare, doveva prima liberare il cam-
zione della sede vescovile di Caerleon o Carlisle, epicentro del nuovo potere sacerdotale, in concomitanza con l’erezione da parte di Merlino del tempio megalitico di Stonehenge, monumento e sepolcro della religione druidica. È questa una delle piú estreme libertà che si prende l’autore della Storia dei re di Britannia, riferendo che, per celebrare la vittoria sul tiranno Vortigern, il mago Merlino decise di edificare un tempio che esprimesse una forza ineguagliabile. Inviò per questo il nuovo re Uther Pendragon in Irlanda, alla ricerca di un sacro recinto di pietra. Uther lo trovò, e Merlino, con le sue arti magiche, lo trasportò in volo dall’Irlanda alla pianura di Salisbury, dove tuttora i massi di Stonehenge protendono la bianca mole verso il cielo.
Il sacrificio di un bambino
Miniatura raffigurante Merlino bambino, con la madre, al cospetto di Vortigern, da un’edizione del Romanzo di Bruto di Robert Wace. Metà del XIV sec. Londra, British Library.
po dagli altri pretendenti, avvalendosi delle sole forze di cui disponesse per ancestrale eredità: quelle della magia. In quest’ottica, non è per niente azzardata l’ipotesi che, nell’economia del racconto, Merlino e Dubric siano la stessa persona, che da druido si fa prete. Ed è sintomatico che ciò accada nel momento in cui la violenza barbarica lascia il posto a valori etici evoluti, come la legalità e l’ordine, la pietà, la protezione dei deboli. Solo a questo punto Merlino si spoglia della stola di mago con cui è entrato in scena per indossare i paramenti sacri del vescovo. Accredita quest’interpretazione sincretica di Merlino-Dubric come immagine scissa di una medesima personalità l’attribuzione a entrambi di natali trasgressivi e innaturali. Merlino è figlio di un demone dei boschi e di una suora. Dubric, a sua volta, nasce dall’accoppiamento tra una monaca e una creatura infernale della famiglia degli «incubi», soliti frequentare i conventi in sembianze umane per corrompere i religiosi dei due sessi. Erano detti «incubi» quei diavoli che nell’unione sessuale esercitavano un ruolo attivo, maschile, seducendo suore; erano «succubi» quelli che svolgevano un ruolo passivo, assumendo l’aspetto di donna. Anche a Dubric vengono attribuiti nelle cronache atti d’indubbia valenza magica, come miracolose guarigioni. Ed è quanto meno curioso che la fantasia di Monmouth gli attribuisca la fonda-
Tentativi di dare consistenza storica al personaggio di Merlino (nell’«antica lingua» celtica Myrrdin, cioè la Forza) ne collocano la nascita intorno al 450, durante l’oscuro regno di Vortigern, esecrato dalle genti di Britannia per avere invitato le armate del re sassone Henguist a dargli manforte contro i Pitti. I rapporti tra i due tiranni, iniziati nel 449 con lo sbarco dei Sassoni nell’isola, si deteriorarono in fretta. Henguist offrí all’alleato la mano di sua figlia Reinwen, ma poi tentò di sottometterlo; e Vortigern fu costretto a ritirarsi sulle montagne del Galles, dove tentò di costruire una torre inespugnabile. Ma questa, inspiegabilmente, crollava tutte le volte che sembrava sul punto di essere finita. Si ricorse allora a una barbara usanza dell’antica religione, che insieme al mite culto degli alberi e delle acque praticava sacrifici umani. Consigliato da stregoni senza scrupoli, Vortigern ordinò alle sue guardie di cercare un bambino – orfano di padre, secondo quanto il rituale prescriveva – e di ucciderlo laddove doveva sorgere l’edificio, spargendone il sangue tra le fondamenta. Venne preso il piccolo Merlino, che per le note circostanze della sua nascita non aveva padre. Il bambino, che all’epoca non aveva piú di sette-otto anni, fu condotto sul luogo del sacrificio. Ma Vortigern, avendo appreso che a generarlo era stata una vergine dedita a pratiche sessuali con i demoni, volle interrogarlo personalmente prima di consegnarlo al carnefice. Scoprí in tal modo i poteri magici di Merlino, che gli fece molte sorprendenti profezie sul futuro dell’isola e del mondo intero, ma lo stupí soprattutto indicandogli la causa dell’instabilità della torre. «Dormono sotto le sue fondamenta due draghi», disse Merlino, «che agitandosi nel sonno ne scuotono le mura». Vortigern ordinò di scavare RE ARTÚ
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Le origini
e vennero trovati un drago rosso e uno bianco in un medesimo nido. Appena risvegliati, i due mostri si diedero battaglia, e il bianco sconfisse quello rosso, ma, ferito a propria volta, si accasciò morto.
Una profezia sinistra
Merlino spiegò a Vortigern il significato di questo evento prodigioso e la sua straordinaria portata profetica: «Questo combattimento prefigura quello che avverrà tra te e il tuo nemico Pendra-
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Miniatura raffigurante Merlino che consiglia Vortigern, da un’edizione del Romanzo di Bruto di Robert Wace. Metà del XIV sec. Londra, British Library.
gon», egli disse, «il quale diverrà cosí re di Britannia per essere a propria volta ucciso». Ciò accrebbe in Vortigern l’intento di rinserrarsi in una torre possente, dalla quale respingere gli attacchi del legittimo erede Pendragon, il cui nome stesso di Grande Drago ben s’inquadrava nella profezia. Merlino lo assicurò che poteva procedere alla sua costruzione, poiché ormai l’edificio non sarebbe piú crollato; e cosí fu. Il mago sapeva che ad abbatterlo sarebbe stato un giorno Pendragon e che tra le sue macerie Vor-
tigern avrebbe trovato la morte. Lui stesso avrebbe aiutato con le proprie arti magiche Uther a sconfiggere l’usurpatore per restaurare nell’isola la perduta legalità di un tempo. Ma questi eventi erano ancora lontani. Stando a una cronologia plausibile, in parte desunta dagli Annali anglosassoni, si può datare l’incontro di Merlino e Vortigern al 457 circa, la morte di Vortigern a una ventina di anni dopo e quella di Henguist, che gli sopravvisse nella sua fortezza del Kent, a una trentina, nel 488. Quest’ultima data è registrata negli Annali. Uther divenne dunque re, dopo avere ucciso Vortigern, intorno al 475, e a quell’anno deve farsi risalire l’innamoramento per Ygraine e il concepimento di Artú. Si sa che Pendragon regnò una quindicina d’anni prima di essere ucciso, e che le lotte dei baroni per la successione si protrassero per almeno un paio d’anni dopo la sua morte. Se ne deduce che Artú debba essere diventato re verso il 492, all’età di sedici anni.
Quasi un Anticristo
In attesa che tutto questo accadesse, intanto, il giovane Merlino era scampato alla morte, fornendo a Vortigern informazioni preziose. La torre che sarebbe diventata scudo e tomba del tiranno fu edificata in fretta, senza inconvenienti, e se ne attribuí il merito ai consigli del ragazzo, che ebbe cosí salva la vita e ne acquisí fama di mago. Si sparse anche voce che la sua nascita rientrasse in un piano satanico per contrastare l’incipiente ascesa del cristianesimo. Ne parla, sul finire del XIII secolo, il poeta francese Robert de Boron in una romanzesca cronaca dal titolo Storia di Merlino, nella quale il druido è rappresentato come una sorta di Anticristo del genere reso familiare all’immaginario medievale dall’Apocalisse di Giovanni. Spiega però Boron che il progetto malefico fallí per l’errore del demone incaricato di metterlo a segno, il quale, ingravidando una suora, contaminò il nascituro di spirito cristiano. Ne nacque un ragazzo dalla natura duplice, lacerato tra le secolari superstizioni del declinante culto druidico e la dirompente vitalità della nuova fede, ormai abbracciata da cavalieri e re. Di tutti i personaggi della saga, Merlino è dunque quello che piú palesemente ne incarna – ma anche ne sana, fin dove gli è possibile – le contraddizioni. Com’era stato tra gli artefici della fortezza di Vortigern per necessità, Merlino fu per scelta tra coloro che la distrussero, al fianco di Uther Pendragon, quando questi riconquistò il trono paterno. Ma l’episodio non è che l’antefatto, come si è visto, della saga di Artú.
Miniatura raffigurante l’incoronazione di Artú, da un’edizione del Romanzo di Bruto di Robert Wace. Metà del XIV sec. Londra, British Library.
Quanto a Merlino, continuò a tesserne l’intreccio dopo l’ascesa del suo pupillo al trono, ma defilandosi gradualmente dalla scena. Ebbe momenti di grande protagonismo anche dopo l’incoronazione di Artú, ma in maniera sempre piú occulta, sempre piú segreta. Fu mediatore discreto dell’incontro del re con la Dama del Lago, l’incantatrice Viviana, madre adottiva di Lancillotto e amante in seguito dello stesso Merlino. Dalle mani di quest’ultima il giovane Artú riceverà la spada Excalibur, cioè Tagliaferro, con una strana raccomandazione: «La sua forza non è nella lama ma nel fodero. Non separartene mai. Finché la guaina sarà nelle tue mani nessuno potrà batterti». Gliela sottrarrà con l’inganno la sorellastra Morgana, figlia del duca di Cornovaglia e di Ygraine, animata da inguaribile odio; e da quel momento il destino di Artú sarà segnato. Morgana è con i suoi poteri magici l’antagonista di Merlino, sorretta da una perversa volontà di distruggere tutto quello che lui ha costruito. Riuscirà ad ammaliare il fratellastro e a concepire con lui un figlio incestuoso di nome Mordret, quintessenza di malvagità e tradimento. Combattendo l’uno contro l’altro, Artú e Mordret si uccideranno a vicenda. Il che, come vedremo, non porrà fine alla saga. RE ARTÚ
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Seduti intorno al mondo A ogni Pentecoste, i cavalieri di Artú si riunivano per fare il bilancio delle esperienze vissute e metterle a confronto. Nell’occasione, si disponevano in cerchio, prendendo posto sui seggi distribuiti al margine di una tavola rotonda: una scelta della quale è facile cogliere l’allusione alla mensa dell’Ultima Cena
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uidato in segreto da Merlino e rappresentato pubblicamente dal vescovo Dubric, Artú mostrò di possedere, fin dall’inizio del suo regno, grandi doti di saggezza, bontà e senso del diritto. Fu immediatamente amato per questo, tanto dal popolo che dai cavalieri dei quali si era circondato. Tenne accanto a sé Antor, onorandolo come un padre, e nominò Kay suo siniscalco, che, in un misto di latino e lingua celtica, voleva dire «servitore anziano», da senior e skalc. Era qualcosa di piú e di diverso da una comune carica di primo ministro, implicando una speciale intimità con il re, della quale Kay fu all’altezza, nonostante un carattere intrattabile, che lo rese oggetto di molte buffe dicerie. Si scelse per aiutante di campo Bedivere, cavaliere coraggioso e leale, in grado di battersi contro qualsiasi nemico senza venire meno alle fondamentali regole della pietà. Chiamò altri degni gentiluomini a tenergli compagnia, in una condizione di parità, sia pure mantenendo tra tutti il primato che in quanto re gli spettava. Erano cavalieri dall’onore immacolato, scelti per ardimento e familiarità con ogni genere di armi, ma anche per cortesia e spirito conviviale, virtú nell’insieme indispensabili per non sfigurare tanto alla tavola del re che sul campo. Ne nacque un sodalizio anomalo, che in parte svolgeva funzioni di stato maggiore nell’esercito di Camelot, in parte lasciava la piú ampia
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scelta sulle azioni da compiere alla fantasia di ciascuno. Poiché gli scopi che Artú si prefiggeva regnando erano essenzialmente due: assicurare la pace in Britannia e sanare torti, dovunque venissero perpetrati e a danno di chiunque, dentro e fuori i confini del regno. In altre parole: pace e giustizia.
Un modello inimitabile
Aveva dunque bisogno, per poterli realizzare, di una compagine armata, in grado di respingere come un esercito tradizionale qualsiasi invasore, e di un autonomo corpo di cavalieri che se ne andassero errando a scopi benefici per il mondo, ciascuno per proprio conto, inseguendo la meravigliosa illusione di sconfiggere il male dovunque si annidasse. Per questo i cavalieri di Artú divennero la sintesi di qualcosa che nessun Ordine cavalleresco riuscí mai a esprimere in seguito, quali guerrieri ed erranti, pronti ad affrontare spalla contro spalla il combattimento campale o a vagare in solitudine. Il fatto che questo secondo aspetto fosse preponderante nelle loro imprese si tradusse nel prevalere dell’avventura, nel senso duplice che l’originaria radice adventus Miniatura raffigurante l’apparizione del Santo Graal ai cavalieri della Tavola Rotonda, da un’edizione della Quête du Saint Graal illustrata dall’atelier di Evrard d’Espinques. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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La Tavola Rotonda
SPADA E SPERONI D’ORO La tradizione voleva che si venisse ordinati cavalieri a ventuno anni o, con dispensa speciale, a diciotto, dopo essere passati per i gradi di paggio, donzello e scudiero, nel corso dei quali si apprendevano l’uso e la manutenzione delle armi, le regole del combattimento e della cortesia, i doveri verso se stessi e gli altri.
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L’aspirante doveva essere nobile di nascita per parte sia materna che paterna, ma anche a questo si poteva derogare qualora il re ritenesse di dover premiare un particolare atto di generosità o di valore. Una veglia di preghiera predisponeva all’investitura chi era chiamato all’ordine della cavalleria, il quale non poteva accedervi se non dopo avere ricevuto l’Eucarestia ed essersi «bagnato», cioè lavato in maniera solenne. Pronunciava soltanto a questo punto i suoi voti, giurando di non usare la propria spada se non per giusta causa e per raddrizzare torti, secondo la formula d’uso. Veniva quindi colpito di piatto con la spada dal re,
Miniatura raffigurante la vestizione di Galahad, figlio di Lancillotto, il piú giovane dei cavalieri della Tavola Rotonda, da un’edizione della Quête du Saint Graal illustrata dal Maître des Cleres Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France. suggerisce: di «avvento» e di «avvenimento», cioè di accesso a livelli superiori di coscienza (ed è questo il senso profondo dell’iniziazione cavalleresca), ma anche di azione volta alla realizzazione pratica dei propri ideali. A questi cavalieri erranti per scelta e vocazione, animati dall’urgenza di liberare gli altri dal rischio e dal dolore, Artú lasciò grande libertà di vagare in cerca dell’impresa loro piú congeniale da compiere purché non derogassero da alcune regole ben delineate, corrispondenti a una precisa gerarchia di valori. Di che cosa si trattasse lo si evince non soltanto dalla letteratura cortese, ma anche, in buona misura, dalla succinta prosa di scrittori non certo sospetti di cedimenti all’immaginario medievale, come l’americano John Steinbeck, che nelle Gesta di re Artú e dei suoi nobili cavalieri (romanzo pubblicato postumo, nel 1976, n.d.r.) cosí sintetizza il senso dell’iniziazione alla cavalleria di Camelot: «Giurarono di non ricorrere mai alla violenza senza un giusto scopo, di non abbassarsi mai all’assassinio e al tradimento. Giurarono sul loro onore di non negare misericordia a chi ne facesse richiesta, e di proteggere fanciulle, gentildonne e vedove, facendone valere i diritti senza mai sottoporle alla propria lussuria. Giurarono di non battersi mai per una causa ingiusta o per vantaggio personale. Questo giuramento pronunciarono i cavalieri tutti della Tavola Rotonda, e a ogni Pentecoste lo rinnovarono». Otto secoli prima, nell’enunciare gli stessi principi, Chrétien de Troyes aveva indicato come fondamento della cavalleria arturiana la lealtà, la
o da chi ne faceva le veci, per tre volte, in testa e sulle spalle, nel nome di san Giorgio e dell’arcangelo Michele, protettori della cavalleria, o di altri santi. Con un abbraccio, infine, veniva accolto nel «sublime Ordine»; non ancora frantumato in quel mosaico di confraternite, congreghe, compagnie militari e monastiche che ne avrebbe caratterizzato l’evolversi dalle crociate in poi. I chierici l’aiutavano a calzare gli speroni d’oro, simbolo della sua nuova condizione, e un padrino gli dava la spada. Cosí si diventava cavalieri, assumendo davanti a Dio impegni ai quali per nessuna ragione era lecito sottrarsi.
giustizia, l’onore, la fede, la tradizione (usage) e la generosità munifica (largesce). Il che non altera i termini del giuramento. L’appuntamento di Pentecoste evidenzia lo spirito religioso dell’Ordine della Tavola Rotonda, destinato a esprimersi nell’impresa piú ambiziosa che un cavaliere cristiano abbia mai sognato di compiere, cioè la ricerca della piú elevata reliquia della Passione, il Graal, il mistico calice dell’Ultima Cena, servito poi a Giuseppe d’Arimatea per raccogliervi il sangue sgorgato dalle ferite del Cristo.
Una comune base evangelica
Non è difficile riconoscere nella scelta della Pentecoste quale data per l’appuntamento ricorrente di questi cavalieri – erranti, ma tenuti a presentarsi tutti gli anni alla tavola del re per rendere conto delle proprie avventure – l’intenzione di proporre un’analogia con l’evento, anch’esso conviviale, nel corso del quale gli apostoli ricevettero l’illuminazione dello Spirito Santo. Al pari degli apostoli, i cavalieri di Camelot sono inviati per il mondo a compiere una missione di bene, fondata su una comune base evangelica. Agli apostoli spetta il compito di diffondere l’insegnamento del Cristo, ai cavalieri di farlo valere. Gli uni e gli altri dovranno affrontare prove indicibili, al termine delle quali si vince morendo. In questa simbologia pentecostale rientra la stessa Tavola Rotonda, che l’esoterismo cristiano assimila a quella dell’Ultima Cena. Per comprendere in che cosa consista questo intreccio, occorre tenere conto dei molteplici significati del Graal in quanto coppa della Redenzione, coppa della Cena, coppa del Sacrificio. Nella sua prima accezione, rappresenta il Cristo morto per gli uomini, e la sua tavola è il sepolcro. Nella seconda, è la grazia accordata da Gesú ai suoi discepoli, e la sua tavola è il desco dell’Ultima Cena.
Non si poteva barare su questo, come sul grado nobiliare della nascita. Farlo comportava l’espulsione con infamia dall’Ordine, mediante il taglio degli speroni su un letamaio. Un prete accompagnava questa penosa cerimonia recitando gli anatemi del Salmo 109: «Nessuno stenda verso di lui mano benigna, l’usuraio gli porti via ogni avere, sia cancellata la sua discendenza fino alla seconda generazione». Soltanto i figli di re, per la garanzia che offriva il sangue, potevano essere ordinati cavalieri al fonte battesimale, senza altra formalità che la volontà paterna di procedere alla loro investitura.
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La Tavola Rotonda
mensali, se con essi siede un re, dato che non tutti gli siederanno accanto, non tutti a una medesima distanza. Piú realistica e coerente con l’intento di raccogliere intorno a questa tavola il fiore della cavalleria cristiana tra un’impresa e l’altra – per un consuntivo e uno scambio di esperienze vissute –, appare una scelta ispirata all’ineffabile perfezione che la figura geometrica del cerchio di per se stesso esprime quale tracciato di punti equidistanti dal centro. Alla circolarità, del resto, richiama l’idea stessa di universo e firmamento, di cielo e terra. Circolare è il moto delle sfere, rotonda è la «ruota cosmica» dell’antica mitologia celtica. Rotonda è anche l’aureola dei santi.
Il seggio per il miglior cavaliere
QUASI COME A TEATRO L’ambizione di celebrare fastosamente la tradizione arturiana fu sempre presente nelle famiglie reali d’Inghilterra. Una delle piú spettacolari di queste occasioni celebrative fu l’istituzione da parte di Edoardo I, verso il 1280, di un torneo dedicato agli eroi della Tavola Rotonda, detta per questo Mensa Rotunda. Sembra che la manifestazione si svolgesse come una sorta di recita teatrale, poiché risulta che molti partecipanti s’iscrivessero con i nomi dei cavalieri di Artú, dei quali interpretavano le gesta. Una particolare solennità fu data alla Mensa che si tenne nel 1284 per festeggiare la vittoria di Edoardo sul Galles. Si legge negli Annali di Waverley che, in quell’occasione, i Gallesi cedettero al re d’Inghilterra «la vera corona del famoso re Artú insieme ad altri oggetti preziosi».
In alto miniatura raffigurante un torneo cavalleresco, da un’edizione del Roman du Saint Graal. 1450-1460. Digione, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante re Artú e i cavalieri della Tavola Rotonda, da un’edizione del ciclo arturiano illustrata dal Maître de Jacques de Besançon. XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Nella terza, infine, è il contenitore dell’autentico sangue del Salvatore, e la sua tavola è l’altare della Messa. Ma queste sono espressioni della sacralità del mito e della sua liturgia, lontane dall’umana pietà della Redenzione. Sono tavole divine, misteri aperti al culto, ma non alla comprensione dei fedeli. Per iniziare invece la queste, o ricerca, del Graal, si deve partire da una tavola profana, che rappresenti la storia dell’uomo nella sua essenza. È la tavola della cavalleria esoterica, che nella leggenda di Artú è rotonda, non certo per motivi di etichetta. Sarebbe infatti riduttivo e per certi versi abbastanza banale ricondurre le ragioni di questa sua forma all’intento di non urtare la suscettibilità dei cavalieri nell’assegnazione dei posti. A parte il fatto che non è comunque la circolarità di un tavolo a garantire la parità dei com-
«La si chiama Tavola Rotonda per indicare con ciò la rotondità del mondo», spiega a Percival la Regina della Terra Desolata, «e le orbite dei pianeti e degli astri nel firmamento». La Tavola è in questa luce una replica del mondo, e quanti vi seggano intorno sono apostoli e cavalieri senza eguali, semidei, eroi fuori del tempo, paragonabili a pure presenze intellettuali, come le Idee di Platone. Ma quel che piú conta, sul piano dell’analogia, è l’esistenza di un posto vuoto alla tavola di Artú, alla sua sinistra, detto il Seggio Periglioso o di Giuda in ricordo di quello occupato dal traditore alla mensa del Maestro. È «periglioso» perché evoca l’assenza del Cristo tradito e nessuno potrà mai sedervisi senza incorrere in rovinose sciagure, a meno che non si tratti di colui che per le sue virtú è stato in grado di condurre a termine la «cerca», giungendo cosí al traguardo del proprio percorso iniziatico. È perciò riservato al migliore cavaliere del mondo, che, insieme al Graal, riconduce tra gli uomini il Cristo sacrificato, È tuttavia opinabile che l’eroe di questa impresa possa prendere posto senza rischio nel seggio riservatogli, poiché tanta gloria l’esporrebbe al rischio d’inorgoglirsi. Ne verrebbe irrimediabilmente scalfita la sua purezza, e il frutto stesso della ricerca finirebbe per dissolversi. Circostanze concomitanti di guerra e d’amore determinano l’ingresso del piano destinato a fungere materialmente da Tavola Rotonda nella reggia di Camelot, in epoca successiva all’incoronazione del giovane Artú, saldamente insediato sul suo trono. Grazie a Merlino e al suo doppio Dubric, il re è ovunque vittorioso. Ha sgominato nemici provenienti dai monti e dal mare in dodici battaglie di cui dà minuziosa cronaca il monaco Nennio nelle Meraviglie della RE ARTÚ
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La Tavola Rotonda
Britannia, sul finire del IX secolo. Ha definitivamente sconfitto i Sassoni nella decisiva mischia di Mont Baudon, nel corso della quale ha messo da solo in fuga novecentosessanta guerrieri. Ha in tal modo assicurato al regno una pace di almeno cinquant’anni. Può adesso dedicarsi all’impegno per il quale verrà maggiormente 30
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ricordato: impedire o «raddrizzare» torti, proteggendo i deboli dagli abusi dei potenti. Né si tratta solo d’intervenire in difesa di coloro che la casistica indica comunemente come vittime delle angherie ricorrenti dell’epoca – fanciulle rapite, vedove, orfani deprivati dei propri diritti –, ma di chiunque subisca una prepoten-
Nella pagina accanto miniatura raffigurante re Artú che combatte contro un gigante, da un’edizione delle Chroniques de Hainaut di Jean Wauquelin. 1468. Bruxelles, Bibliothèque Royale.
za, di qualsivoglia censo e condizione, dentro e fuori i confini del regno. Con lo stesso zelo con cui si protegge la virtú di una contadina insidiata dal proprio signore, dunque, si deve scendere in campo per proteggere il feudo di quest’ultimo se a sua volta insidiato da un piú potente barone. È la legge di Artú, che lo ha detto chiaramente: «Io sono il re, e nessuno deve dolersi di me». Nessuno, senza eccezione: non il povero, ma nemmeno il potente, non il diseredato ma nemmeno il nobile coronato. Tuttavia, è cosa ben diversa rendere giustizia a una vergine oltraggiata dal doverla rendere a un principe a cui è stato invaso il feudo. Per sanare il torto subito dalla prima è sufficiente un cavaliere, uno dei tanti buoni guerrieri che Artú lascia errare a tal fine, affinché impongano caso per caso il rispetto della legge. Per respingere una forza d’invasione che ingiustamente si appropria di un regno c’è bisogno di un esercito, o di un eroe dotato di poteri che gli conferiscano il primato su ogni altro cavaliere. Un eroe di tali prerogative scende in campo allorquando l’esercito di un monarca malvagio invade le terre di un buon re, che mai aveva dato fastidio ad alcuno. Il regno invaso è Camelerd, sul quale tiene scettro il giusto Leodagan, padre della principessa Ginevra e un tempo amico di Uther, che gli aveva fatto dono di una tavola rotonda intorno alla quale potevano prendere posto centocinquanta cavalieri. A invaderne il territorio è il danese Rion insieme a Claudes, signore della Terra Deserta, che come altri luoghi della toponomastica arturiana esprime fin dal proprio nome ciò che rappresenta: solitudine, disamore, malessere. Le cose si mettono male per Leodagan, che certamente soccomberebbe senza l’inaspettata comparsa di quaranta cavalieri guidati da re Artú in incognito. Vengono atterrati nella battaglia che segue i piú valenti campioni dell’esercito invasore. È una catena di duelli spettacolari, che culmina in uno scontro apocalittico tra Artú e Claudes, sbalzato di sella. Altri guerrieri vengono trafitti dalla lancia di Artú, che infrange scudi e armature senza spezzarsi. Aleggia un’aura di magia sulle armi di questi quaranta cavalieri, che costituiranno il primo nucleo dell’Ordine vero e proprio della Tavola Rotonda. Nulla può resistere al loro assalto, nulla può respingerli. Dall’alto delle torri di Carohase, capitale di Camelerd, assistono alla battaglia, la principessa Ginevra e le sue dame, esaltandosi allo spettacolo che Artú dà del suo valore. Scende in campo anche Merlino, innalzando uno stendardo raffigurante un dragone
della lunghezza di una tesa e mezza, con la coda attorcigliata e la bocca fiammeggiante. È l’emblema di Pendragon e della sua discendenza. Come in altri combattimenti antecedenti, Merlino influisce con i propri incantesimi sul risultato della battaglia: puntando l’asta che regge lo stendardo contro la porta di un castello nel quale si sono rifugiati i guerrieri della Terra Deserta, ne provoca l’apertura, consentendo ai quaranta cavalieri di Artú di penetrarvi e farne strage; con un fischio modulato impone al vento di sollevare polvere negli occhi dei nemici; ordina alla tempesta di scatenarsi sui Danesi, impedendo loro di avanzare.
Il duello con il gigante
Ma miracoli e incantesimi non sono solo a favore di Artú. Nelle schiere della Terra Deserta combatte un gigante paragonabile per forza e statura a Golia, contro la cui corazza si scalfiscono le spade senza arrecare danno. Lo affronta Leodagan ed è gettato due volte nella polvere. Accorre Artú e s’interpone tra il re caduto e il gigante, puntandogli contro la lancia. «Non fatelo, sire», si raccomanda re Ban di Benoic, un alleato di Leodagan sceso in campo al suo fianco. «Non potete battervi con un gigante due volte piú alto e grosso di voi. Siete troppo giovane...». «Ho l’età giusta», grida Artú, tenendo ferma la lancia. «Lasciatemi combattere al vostro posto», insiste Ban, «sono piú esperto, piú vecchio». «Dio mi abbandoni il giorno che accetterò di far duellare qualcuno in vece mia», risponde fieramente Artú. «Non posso rinunciare a battermi con questo gigante. Piú lo guardo piú sono tentato di vedere quanto vale... Fatevi indietro, Ban. Non conoscerò mai il mio valore se non accetto di misurarmi con qualcuno piú forte di me». Ban si fece allora da parte, e tutti gli altri combattenti si fermarono per assistere a quanto stava per accadere tra quel piccolo temerario cavaliere e il gigante della Terra Deserta. Artú gli girò intorno e prese la rincorsa col proprio cavallo, l’altro l’aspettò impugnando scudo e lancia da fermo. Nell’urto violentissimo, Artú venne ferito al fianco di striscio, ma la sua lancia spezzò in due lo scudo dell’avversario e la corazza, penetrandogli a fondo nelle viscere. Alla vista del loro gigante atterrato in una pozza di sangue i nemici furono presi da grande panico, e gettate le armi fuggirono, inseguiti dai cavalieri di Artú, di Leodagan e dei loro alleati, che ne fecero strage. RE ARTÚ
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La Tavola Rotonda
I cavalieri della Tavola Rotonda Aglovale Tra i cavalieri posti a guardia di Ginevra prima dell’esecuzione, viene ucciso da Lancillotto e dai suoi fedelissimi.
Agravain Fratello di Galvano. Incita Artú a vendicarsi di Lancillotto. Balaain Cacciato dalla Tavola Rotonda per il suo carattere impulsivo, viene riammesso grazie ad alcune imprese memorabili.
Bedivere Uno dei primi cavalieri. Restituisce la spada alla Dama del Lago dopo la battaglia di Camlann.
Bors L’unico cavaliere che torna alla corte di Artú dopo l’impresa del Graal. Gaheris Bello, forte e valoroso. Figlio del re Lot di Lothian e delle isole Orcadi. Galahad Figlio illegittimo di Lancillotto. È uno dei cavalieri protagonisti della ricerca del Graal.
Galegantin Tra i cavalieri che partecipano alla caccia a Lancillotto. Galvano Nipote di re Artú. In piú fonti è indicato come il migliore tra i cavalieri arturiani.
Gareth Figlio di re Lot e della sorellastra di Artú, Morgause. Viene ucciso per sbaglio da Lancillotto.
Gueheriet Fratello di Galvano, partecipa alla lotta contro i Sassoni e alla ricerca di Lancillotto. Da quest’ultimo viene ucciso.
Hector Tutore del giovanissimo Artú, prima che diventasse re. Kay Uno dei primi cavalieri della Tavola Rotonda e fratellastro di Artú. Lamorak Considerato uno dei cavalieri militarmente piú preparati. In alcune fonti viene identificato come il fratello di Percival.
Lancillotto Il piú valoroso. Si invaghisce della moglie di re Artú, Ginevra. La conseguente relazione con la regina genera una faida tra i cavalieri.
Leodegrance Padre di Ginevra. È il custode della Tavola Rotonda. Lionello Allevato dalla Dama del Lago e cugino di Lancillotto, segue quest’ultimo nell’esilio.
Lucano Coppiere di Artú e fratello di Bedivere. È tra i pochi a sopravvivere alla battaglia nella piana di Salisbury.
Meleagant Figlio del re di Gore, rapisce Ginevra. Mordred Figliastro di Artú. Uccide il sovrano in un duello e a sua volta muore. Owain Uno dei primi cavalieri associati alla figura di Artú nella letteratura. È figlio di Morgana.
Percival Trova il Re Pescatore, discendente dei Re del Graal. Tra i protagonisti della ricerca del sacro vaso.
Sagremor Valente cavaliere che, subito dopo il culmine dello sforzo bellico, viene colto da una fame invincibile e perde ogni forza.
Tor Secondo la versione di Thomas Malory, insieme al fratello Aglovale, chiede a gran voce l’uccisione di Ginevra.
Tristano In una delle fonti del ciclo arturiano, viene citato come cavaliere della Tavola Rotonda. Sotto l’effetto di un filtro si innamora di Isotta, figlia del re d’Irlanda.
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La Tavola Rotonda di Winchester. 1275. Winchester, Castello di Winchester, Great Hall. Sul seggio di Artú è ritratto Enrico VIII d’Inghilterra, al centro campeggia la rosa dei Tudor. La struttura in legno è stata datata al regno di Edoardo I (1272-1307), mentre la superficie fu fatta dipingere da Enrico VIII intorno al 1522, in occasione della visita dell’imperatore Carlo V. RE ARTÚ
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Quando la passione annebbia la saggezza La saga arturiana è fatta di grandi imprese e di altrettanto grandi amori. Uno dei piú famosi è quello che si accende in Merlino, ammaliato dalla fata Viviana: un trasporto che gli fa abbandonare ogni cautela, fino a cadere vittima di un sortilegio che lui stesso aveva svelato alla bionda e seducente creatura...
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allo scenario epico della battaglia, rosso di sangue, Artú e i suoi cavalieri sono condotti alla bianca quiete delle stanze reali di Carohase liberata, dove Ginevra e altre dame li aiutano a svestire le armature, offrendosi di lavarli e medicarne le ferite. Artú si schermisce, ma, di fronte alle insistenze di Leodagan, accetta di farsi lavare dalla principessa il collo, le mani e il viso con acqua calda. È questo probabilmente il momento in cui Artú scopre la bellezza di Ginevra e se ne innamora. Lei, d’altronde, già lo ama da quando l’ha visto duellare dall’alto dei merli. Dopo che l’ebbe lavato, Ginevra pose sulle spalle di Artú un ricco mantello di porpora, colore che denotava la dignità reale, accompagnandolo alla sala del banchetto che era stato allestito in suo onore. Qui gli offrí del vino nella coppa d’oro del padre, invitandolo a bere senza farsi scrupolo dell’etichetta: «Non siate timido nel bere e nel mangiare, come non siete timido in battaglia». «Grazie», disse Artú, prendendo la coppa. «Possa Dio darmi la forza di disobbligarmi con voi». «Non siete voi che dovete disobbligarvi», sorrise Ginevra. «Avete già fatto per me piú di quanto meritassi, riscattando con le armi la corona di mio padre». Artú bevve e le fece segno di sederglisi accanto, dato che finora se n’era rimasta inginocchiata, come in adorazione, ai suoi piedi. Poi, vincendo
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la sua naturale timidezza, le chiese come mai non fosse ancora sposata. Ginevra rispose che la guerra spietata contro il regno paterno non le aveva concesso fino ad allora di pensarci, anche perché non le era capitato d’incontrare alcun giovane che realmente l’interessasse. Artú non osò chiederle come avrebbe dovuto essere un uomo per poterle davvero piacere. Ma lei, come leggendo nel suo pensiero, si lasciò andare a una confidenza ch’era in effetti un invito a farsi avanti: «Voglio un marito bello, coraggioso e forte, capace di abbattere giganti...».
La tavola del destino
La tavola intorno alla quale si svolge la conversazione è quella di forma circolare che Uther prima di morire donò a Leodagan, e che questi restituirà in seguito ad Artú. Tutto ciò che avviene da questo momento appare segnato da un destino radicato nella tradizione di entrambe le famiglie, di cui la Tavola Rotonda parrebbe appunto il simbolo piú evidente, essendo appartenuta tanto al padre di Artú che di Ginevra. Seggono in grande amicizia a questa mensa, capace di centocinquanta posti, cento cavalieri di Leodagan e i quaranta di Artú. Sono numeri che variano di versione in versione, come differiscono le dimensioni e le caratteristiche della Tavola Rotonda, a seconda della funzione che le si vuole attribuire. In Cornovaglia si favoleggia dell’incontro tra re Artú e un misterioso falegname, che si offre di costruirgli una tavola rotonda da mille-
La seduzione di Merlino, olio su tela di Edward Coley Burne-Jones. 1872-1877. Liverpool, National Museums, Lady Lever Art Gallery
PAPI DEL MEDIOEVO
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Merlino e Viviana A sinistra pagina miniata raffigurante il matrimonio fra Artú e Ginevra (registro superiore) e alcuni cavalieri in torneo. 1280-1290. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
seicento posti, sedendo alla quale ogni uomo parlerà col suo vicino «come fossero fratelli». Ma sono francamente troppi, milleseicento cavalieri, per potersi considerare una élite. Altre fonti leggendarie li riducono drasticamente a ventiquattro o anche soltanto a dodici, sottoposti a un continuo ricambio. Si muore spesso, infatti, nel corso delle temerarie imprese che si svolgono tra una riunione e l’altra; e nuovi cavalieri premono per poter essere ammessi nel sodalizio.
Sperare nel ritorno
Ma non è la morte dei compagni a provocare un particolare sgomento tra i superstiti quanto la sorte degli «smarriti». Sono cosí chiamati i cavalieri dispersi sulla via del Graal, che è come dire nel corso del viaggio intrapreso alla ricerca di se stessi. Vengono considerati tali, e iscritti a lettere incancellabili nella coscienza dei confratelli, tutti coloro che, allo scadere di un anno e un giorno dall’ultimo appuntamento, non ritornano, né danno notizia di sé. Se ne parla con pena e disagio, ma anche con la speranza che Dio li faccia tornare. Ecco quel che si dicono, incontrandosi nella foresta, Galvano ed Hector, fratellastro di Lancillotto, avventurosi cavalieri della Tavola Rotonda. Hanno vagabondato a lungo e non nascondono la loro delusione per non avere avuto, fino a quel punto, nessuna avventura degna di essere raccontata. 36
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«Mi dolgo», dice Galvano, «di non avere alcunché di straordinario da narrarti». «Ho incrociato piú di venti compagni», risponde Hector, «e mi hanno fatto tutti la stessa lamentela». «Hai notizie di Lancillotto?». «No, non se ne sa niente. Come fosse stato inghiottito in un abisso. Sono molto in pena per lui». «Anch’io. Temo sia stato fatto prigioniero». Subentra a questo punto la preoccupazione per gli altri di cui non si hanno notizie. Non ci si interroga sull’eventualità che siano morti, che di tutti i mali sarebbe il minore, trattandosi di un evento al quale ciascuno è preparato. Di gran lunga piú spaventevole appare il mistero che li avvolge. È come se un sortilegio possa essersi abbattuto su di loro, imprigionandoli nei lacci di un incantesimo ammaliatore che il piú delle volte è metafora di seduzione. «Sai almeno qualcosa di Galahad, di Percival e Bors?». «Per niente», risponde Hector. «Sembrano tutti perduti nel nulla, senza lasciare traccia». «Che Dio ce li riconduca, perché se falliscono loro nella ricerca del Santo Graal nessun altro al mondo potrà riuscirci». «Ma io credo che ce la faranno, perché sono i migliori». Galvano è convinto fino a un certo punto, tanto che s’impegna per giuramento a ricercare i compagni «smarriti» con lo stesso zelo che por-
In alto miniatura raffigurante una festa alla corte di re Artú, in cui la regina Ginevra è attorniata da dodici sovrani, da un’edizione de Le Roman de la Quête du Graal. 1450-1460. Digione, Bibliothèque Municipale.
rebbe nel soccorrere una dama. Sono discorsi, tuttavia, che insinuano un’inquietudine inconfessabile nell’animo dei due cavalieri. «Abbiamo cavalcato finora tutti soli», dice Hector, «senza trovare un bel niente. Proviamo adesso ad andarcene insieme per vedere se avremo piú fortuna». Galvano acconsente, e il viaggio prosegue fuori dal bosco, verso una rassicurante pianura. Anche Artú si rivolge a Merlino, come suo padre Uther venti anni prima, per poter realizzare il suo desiderio d’amore. È anche questo un segno di continuità nella tradizione di famiglia, come il possesso della Tavola Rotonda da parte di Leodagan. Si tratta, tuttavia, di richieste dissimili, alle quali Merlino corrisponde con differente disposizione d’animo. Artú vuole sposare la principessa di cui è innamorato, secondo le buone regole della cavalleria, e per questo si serve di Merlino come di un genitore che si faccia carico di chiederne la mano, correttamente. Uther Pendragon voleva sottrarre Ygraine, come fece, al suo legittimo sposo Gorlois di Cornovaglia. Nel caso di Artú, dunque, Merlino è chiamato a farsi onesto latore di una lecita e sicuramente bene accetta richiesta di nozze. Nel caso di Uther, invece, dovette ordire un inganno considerato da lui stesso disdicevole, seppure necessario al concepimento del principe predestinato a regnare in Britannia.
Come il piú zelante dei padri
DAME ALLA MODA Come vestivano Ginevra e le sue dame? Ecco in che modo Chrétien de Troyes descrive un mantello smesso dalla regina e da lei donato a Énid, ragazza di modeste condizioni: «Era un capo magnifico, di eccellente qualità. Il colletto era ornato di una doppia pelle di zibellino. Nei fermagli c’era un’oncia d’oro, con un giacinto da un verso e un rubino che brillava come un carbonchio dall’altro. La fodera era di bianco ermellino: nessuno ne aveva mai visto di cosí fine e bello. La stoffa era riccamente decorata sui bordi di ricami multicolori: azzuni, rossi, violetti, bianchi, gialli, verdi e turchesi» (da Érec et Énide, 1160 circa).
È significativo che per questa mera formalità il giovane Artú si rivolga a Merlino, Per almeno due buone ragioni: perché ne rilancia la presenza, rarefatta dopo l’incoronazione celebrata dal vescovo Dubric, in riferimento a una scelta d’indubbia valenza pubblica e religiosa; e perché infine riconosce a Merlino quel ruolo paterno che nessuno ha mai assolto con eguale zelo nei suoi confronti. Di tono affettuosamente filiale, seppure schivo e riservato, è l’approccio del giovane re con il suo tutore di fatto sull’argomento che gli preme. Artú è di carattere ombroso, geloso dei propri sentimenti. La prende quindi alla lontana, ammantando di ragione di Stato quello ch’è un suo intimo e spontaneo desiderio. «I miei baroni desiderano che io prenda moglie». «È giusto, mio re, se lo desideri anche tu». «Sí, credo che sia tempo». «E c’è una fanciulla che ti piaccia piú delle altre?». «Sí, io amo Ginevra, figlia del re Leodagan, che possiede la Tavola Rotonda donatagli da mio padre Uther Pendragon». «È un bel segno», approvò Merlino compiaciuto, RE ARTÚ
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Merlino e Viviana
come apprendendo soltanto allora la notizia, che in effetti già sapeva per la sua magica vocazione a leggere le cose future nel gran libro dell’Universo. Non sapeva però leggere con altrettanta lucidità ciò che lo riguardava da vicino. Altrimenti non si sarebbe innamorato a sua volta della fata Viviana, detta poi Dama del Lago, lasciandosene ingenuamente sedurre come un comune mortale. È questa un’altra delle storie che s’inseriscono con spietato simbolismo nel tessuto della saga. Merlino vi è descritto come uomo senza età, depositario di eterni segreti che nell’insieme rappresentano la Scienza primordiale dell’Eden, racchiusa nel frutto che ai mortali non fu dato gustare. Quest’uomo partecipe della conoscenza divina, in grado di dominare la natura in ogni suo aspetto, incontra nella fitta foresta di Brocelianda la giovinetta Viviana dai lunghi capelli biondi e dagli occhi di un trasparente bagliore turchese, che ha fama di potersi trasformare in stagno e ruscello. È seduta sulla sponda della fresca sorgente di Barenton, che simbolicamente rappresenta la Fonte della Vita. I loro sguardi si incrociano e insorge in entrambi una illusione: Viviana vuole la Scienza di Merlino, Merlino vuole Viviana. Nessuno dei due realizzerà il suo desiderio fino in fondo, impediti entrambi da un’ossessione che per Merlino è passione accecante d’amore, per Viviana delirio di potenza. Il che non significa che Viviana non fosse anche attratta da Merlino, e che Merlino non fosse geloso dei propri segreti.
Un gioco fatale
Comincia come un gioco. Lei lo invita a lavarsi nel suo specchio d’acqua profumato d’erbe selvatiche, poi a stendersi nel muschio e poggiare il capo su un cuscino di fiori. Gli confessa che le piacerebbe imparare in che modo ci si possa trasformare in rana, lucertola o serpente. «Non v’è nulla di piú facile», risponde Merlino, «per chi conosce l’arte magica». «Mi piacerebbe», insistette lei, «far sorgere palazzi e castelli dalle profondità lacustri». «Anche questo è cosí semplice che te lo insegnerò in un momento. Vieni, avvicinati...». Cosí, su quel letto di muschio Merlino confidò a Viviana un’infinità di segreti meravigliosi, badando però a non rivelarle nulla che potesse usare contro di lui. Lei lo intrattenne piacevolmente, senza però concedergli piú di una carezza. C’era come un baratto segreto tra loro. Entrambi sapevano ciò che l’altro voleva, e per questo si guardavano dal darglielo se non a 38
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piccole dosi, consapevoli che, esaudendone del tutto il desiderio, avrebbero perso ogni speranza di esaudire il proprio. Ciò non vuol dire che il loro rapporto non fosse dei piú felici e che ciascuno non si sforzasse di procurare all’altro le piú piacevoli sorprese. Merlino svelava formule, ricette, misteriose cabale, che lei scrupolosamente annotava sui suoi rotoli di pergamena. Dal suo canto, la fata lo ricambiava procurandogli abbandoni dei quali mai prima d’allora il mago si era potuto beare. Merlino le costruí un castello sull’acqua e le insegnò il dominio sulle creature dell’aria e degli abissi, delle piante, delle rocce. Viviana divenne cosí una maga tanto esperta da far ritenere a Merlino di poter essere per lui una degna compagna. Sbagliava. Quando il loro rapporto parve alla soglia della perfezione e della realizzazione piena di ogni desiderio vagheggiato da Merlino, lui lesse nella mente di lei la volontà d’impossessarsi di uno strano segreto. Voleva sapere come si potesse addormentare d’incanto un uomo senza limiti di tempo, legandolo a sé in una prigione senza sbarre né muraglie, mediante una magia che nessuno fosse in grado di disfare. «Perché vuoi conoscere una cosa simile!». «Perché il mio amore è tale da volerti mio per sempre, come io sono tua». Ma Merlino aveva compreso che in tal modo Viviana voleva ridurlo in suo potere per essere l’unica detentrice della sua sapienza, e anche lei aveva compreso. Parlarono perciò liberamente. «Tu non ti fidi di me», disse Viviana, «altrimenti esaudiresti questo mio ultimo desiderio. Evidentemente non mi ami quanto dici». «Neanche tu, a dire il vero, mi hai dato la prova estrema del tuo amore», disse Merlino. Lei reagí rimproverandolo: «Non capisci che non v’è piú niente che m’interessi al di fuori di ciò che mi hai insegnato? Non capisci ch’io voglio che le nostre volontà diventino una cosa sola, e che tu segua la mia come io finora ho fatto con la tua?». Merlino sospirò. «Capisco che vuoi privarmi di ogni volontà, Capisco che vuoi rendermi tuo prigioniero, senza darmi quello che io desidero in cambio». Lei l’invitò allora a seguirlo in un luogo meraviglioso, circondato da cespi di rose selvatiche, dov’era una caverna fresca e spaziosa, nella quale nessuno avrebbe potuto disturbarli. «Qui», disse, «potremo vivere io e te soli, giorno e notte, nutrendoci di una gioia perenne...». Merlino annuí con aria stanca, rassegnato all’inganno nel quale stava per cadere. «Ma prima», disse Viviana, «dimmi l’ultimo segreto».
Merlino e Viviana nella foresta di Brocelianda, illustrazione realizzata da Gustave Doré per un’edizione in lingua francese del poema Viviane di Alfred Tennyson. 1868.
Merlino glielo disse, e proprio nel mentre glielo rivelava sentí un irresistibile sonno calargli sulle palpebre. Poi la voce di lei, spietata, che gli gridava: «Folle, Merlino!... Fosti folle a credermi». Il bosco che gli si richiudeva intorno, implacabile, fu l’ultima cosa che vide. Si risvegliò in una torre d’aria, cristalli e ragnatele che Viviana, con i suoi nuovi poteri, gli aveva costruito intorno. «Verrò a trovarti di tanto in tanto», disse Viviana allontanandosi, «per raccontarti quali prodigi avrò fatto con la magia che mi hai insegnato». Merlino restò lí murato nel nulla, prigioniero di una forza generata dall’illusione, e che nessuno pertanto avrebbe mai potuto vincere. Inutilmente i cavalieri erranti alla ricerca del Graal
sentirono talvolta i suoi lamenti nel loro girovagare, senza poterlo in alcun modo aiutare. A Galvano, che riconoscendone la voce gli chiede di mostrarsi, Merlino risponde: «Non mi vedrete mai piú. Il mondo non ha torri cosí forti come la prigione d’aria in cui Viviana mi ha rinchiuso». «Come può esservi capitata una cosa simile, a voi che siete l’uomo piú saggio del mondo?». «Il piú folle, non il piú saggio. Perché l’amo ancora, piú della mia libertà». Si dice che tuttora lo si senta gemere in certe ventose notti armoricane, tra gli alberi superstiti della perduta foresta di Brocelianda, dove sconta in eterno la sua ingenuità. RE ARTÚ
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Il servitore valoroso Rimasto orfano del padre, il prode Lancillotto viene adottato da Viviana, che si fa carico della sua educazione. E gli ammonimenti della fata suonano come un vero e proprio decalogo per chiunque ambisca al titolo di cavaliere
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iviana non esce dalla saga di Artú dopo avere imprigionato Merlino, né acquista una connotazione negativa per l’azione che ha compiuto. Da fanciulla dei boschi è diventata Signora del Lago, accreditata nell’importanza del suo ruolo dall’inestimabile dono della spada Excalibur al re. Maestoso è il bassorilievo che Artú fa scolpire in ricordo di Viviana sulla porta principale di Camelot, raffigurandola come una dea lacustre, grondante acqua dai fianchi, coi seni adorni di «sacri pesci». I meriti della Donna del Lago verso la cavalleria vanno però ben oltre. Adotta l’orfano Lancillotto, figlio di re Ban, che era stato alleato di Artú e di Leodagan nella guerra di liberazione di Camelerd contro i Danesi, proponendosi di farne il migliore cavaliere del mondo. A tale scopo gli insegna i doveri cavallereschi con toni da manuale, storicizzandone le origini ad arte. È una lezione che letta in un’ottica moderna consente di comprendere quale fosse l’opinione corrente su un fenomeno che aveva un simile peso nella società medievale. In ciò che Viviana spiega al giovane Lancillotto, sembra prevalere l’intento di fargli capire che cavalleresco non è di per sé ciò che è nobile ma ciò che è utile o necessario al bene sociale nella sua complessità. «Sappi che l’Ordine dei cavalieri non fu costituito per gioco», gli dice, «né perché alcuni uomini fossero sin dall’inizio del mondo di nascita piú gentile o lignaggio piú nobile rispetto ad altri, dato che tutti veniamo da uno stesso padre e una stessa madre. Si costituí quando nel mondo cominciarono a prevalere invidia e avidità; quando la forza cominciò a soverchiare il diritto. A quel tempo gli uomini erano tutti uguali, sia per rango che per nobiltà; ma quando i deboli non ebbero piú la possibilità di opporsi ai forti scesero in campo uomini che, ponendosi al di sopra di tutti, si assunsero il compito di garantirli e di difenderli. 40
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Questi uomini fecero proprio il dovere di tutelare il diritto dei miseri, comandare secondo giustizia e combattere gli oppressori, ponendo fine alle loro prevaricazioni e ai loro oltraggi». Lancillotto aveva appena compiuto diciott’anni quando Viviana gli tenne questa lezione nel suo castello sull’acqua. Il giovane non perse una parola, né profferí domande, tanto era chiaro l’insegnamento della fata divenuta sua madrina. E la Dama del Lago cosí proseguí: «Per assolvere questo compito furono scelti tra tutto il popolo gli uomini di maggior valore, i piú gagliardi e forti, i piú agili e ben fatti, e che si distinguevano per bontà, prodezza e ardimento. Divennero cosí cavalieri coloro che possedevano le doti piú nobili, sia nel corpo che nell’anima».
Un itinerario impegnativo
Nulla però venne loro donato e tutto dovettero guadagnarsi a caro prezzo: Viviana tenne a precisarlo con chiarezza, perché il suo ragazzo non fosse fuorviato dall’illusione che solamente di fiori e di facile gloria fosse cosparso l’itinerario cavalleresco. «Non divennero cavalieri per gioco», lo avverte, «né senza rimetterci nulla. Fu imposto loro un giogo assai pesante, con l’obbligo di mostrarsi pietosi senza villania, affabili senza fellonia, pronti ad alleviare le sofferenze altrui, generosi, tempestivi nel soccorrere i bisognosi, ma contemporaneamente implacabili nel contrastare ladri e omicidi; e anche buoni giudici, privi di sentimenti d’amore e d’odio, determinati a non tollerare il torto per nuocere al diritto». Non era tutto. C’era una condizione piú dura per poter divenire cavaliere, e Viviana la tenne per ultima: «Sappi che non dovrai mai, per paura della morte, compiere un’azione disonorevole. Poiché il disonore è piú temibile della morte stessa». Lò ammoní poi di considerare che l’Ordine cavalleresco fu istituito «anche per tutelare la santa
Nella pagina accanto frontespizio di un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac, illustrata dal Maître des Cleres Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Dall’alto, in senso orario, i riquadri mostrano episodi della vita di Lancillotto: la nascita; Viviana che si occupa della sua educazione; l’investitura a cavaliere; l’arrivo alla cappella del Santo Graal.
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Lancillotto A sinistra miniatura raffigurante l’arrivo dei soldati alla reggia di Camelot, da un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac. XV sec. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la fata Viviana nel suo castello incantato, con, in braccio, Lancillotto in fasce, da Le Livre de Messire Lancelot du Lac. 1480 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
CORTESIE PER GLI OSPITI L’arrivo dei cavalieri erranti a un castello rappresentava un avvenimento fra i piú eccitanti nella routine cortese. Cosí vengono accolti Lancillotto e altri compagni della Tavola Rotonda da ospitali valvassori: «Non appena mettono piede a terra, la dama ordina ai figli di togliere la sella ai cavalli e di averne cura. Alle figlie comanda di prendere le armi e di consegnare a ciascuno un mantello da mettere in luogo della corazza. Il padrone è a caccia nella foresta con altri due figli, ma lo si vede presto tornare. Anche lui fa una festosa accoglienza ai cavalieri e tutta la casa si mette all’opera. Ognuno si affretta al proprio lavoro: chi aiuta a preparare il pasto, chi ad accendere le candele. Altri preparano asciugamani e bacili, e versano acqua senza economia. Tutti si lavano e vanno a prendere posto a tavola» (da Lancillotto o il cavaliere della carretta, 1160-1180). 42
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UNO SOLO FRA MILLE Scrive il mistico catalano Ramón Llull nel suo Libro dell’Ordine della Cavalleria (1275 circa) che vi fu in tempi remoti un’età oscura, nel corso della quale «scomparvero dal mondo lealtà, solidarietà, verità e giustizia». Per cui «dilagarono slealtà, inimicizia, ingiuria e falsità, provocando errore e sconcerto nel popolo di Dio». Fu necessario allora restaurare la giustizia perduta «attraverso il timore», e perché ciò potesse avvenire «tutto il popolo fu diviso per migliaia, e da ogni mille ne fu scelto uno che si distinguesse dagli altri per gentilezza d’animo, lealtà, saggezza e forza». A quest’uomo in grado di prevalere su tutti per nobiltà, coraggio, tenacia e bontà d’animo fu dato per compagno l’animale piú bello, nobile, veloce, pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio, cioè il cavallo. Per questo, conclude Ramón Llull, il prescelto fra mille venne detto cavaliere. È una storia identica a quella che la Signora del Lago racconta a Lancillotto per prepararlo alla cavalleria.
Chiesa, che non può servirsi delle armi né restituire male per male, ma offrire la guancia sinistra dopo essere stata colpita sulla destra». Stupiscono queste parole in bocca a una fata celtica nel pieno dei propri poteri, che non le vengono certo dal Dio cristiano. Vale però per lei tutto quello che si è già detto a proposito di Merlino e di altre figure della saga, sospese tra
la declinante paganità druidica e la dottrina evangelica in ascesa. L’appartenenza a un mondo contrassegnato da un mistico rapporto con la Natura non impedisce loro di adattarsi alle nuove regole, mimetizzandosi nelle pieghe di una realtà in evoluzione cosí rapida da generare intorno confusione.
Sottomissione totale
Merlino si confonde con il vescovo Dubric, Viviana cita il Vangelo, e Lancillotto stesso ha un’identità dubbia. C’è chi lo considera un’incarnazione del dio celtico Lug dalla lunga mano, armato di lancia. Altri però rimarcano, con piú fondamento, l’etimo del suo nome Ancellot, cioè «piccolo servitore», espressione che nella tradizione magica indica creature assoggettate a una fata. Potrebbe alludere al vincolo di totale sottomissione che s’imporrà per amore di Gi-
nevra, alla quale si presenta vestito di bianco al termine dell’insegnamento impartitogli dalla Signora del Lago. Cosí, puro d’animo e di aspetto, Lancillotto è accolto festosamente a Camelot, dov’è fatto cavaliere dal re e armato di spada dalla regina. Commosso nel ricevere l’arma, esprime subito il desiderio di poter diventare suo «servitore». RE ARTÚ
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Sette metalli per un’arma invincibile
Affiorata magicamente dalle acque di un lago, la spada Excalibur diviene l’inseparabile e portentosa compagna di Artú. Celando nel fodero le sue straordinarie proprietà
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ossiamo leggere il disperato epilogo della passione di Merlino per Viviana come metafora della pazzia del mago al decadere di quel mondo incantato che era stato tutto per lui. Del suo letargo immortale si è molto parlato come di una raffigurazione dello spirito divino imprigionato dai lacci degli istinti naturali, ma dietro queste belle immagini c’è forse solamente la follia di un vecchio che vaga nella selva degli anni, senza piú riconoscersi se non specchiandosi alla Fonte della Vita. Si tratta pur tuttavia di una follia in grado di produrre grandi effetti nell’economia generale della leggenda arturiana, poiché in questa fase per cosí dire «acquatica» della sua esistenza Merlino procura ad Artú l’arma di ogni sua vittoria, cioè la magica spada Calibur o Excalibur, che significa dotata del potere di fendere il ferro. È Viviana che la recupera con l’aiuto di un demone a lei sottomesso dal fondo limaccioso del lago di cui è diventata, grazie alle arti di Merlino, la Signora. Il mostro lacustre, indeciso e ribelle, tergiversa prima di consegnargliela, poi tenta di sottrargliela, sfilandola dal fodero che Viviana tiene stretto. A lei rimane in mano la guaina incrostata di conchiglie, mentre la lama scompare tra le alghe. Colta però da una improvvisa illuminazione, la Signora del Lago ripulisce il fodero dalle incrostazioni e vi scopre un’iscrizione runica. Ne decifra i caratteri con la scienza infusagli da Merlino, pronuncia la formula ed Excalibur riemerge dalle acque, compie nell’aria un mezzo giro e le si offre dalla parte dell’elsa. «Dio sia lodato!», esclama Merlino nell’assistere alla scena da riva. «Artú ha la sua spada».
In questa pagina tavola a colori raffigurante Artú che, in viaggio con Merlino verso l’isola di Avalon, vede affiorare dal lago la mano che gli porge la spada Excalibur, da un libro per bambini della metà dell’Ottocento.
Excalibur era un’arma di antica fattura, dell’epoca nella quale i guerrieri usavano il bronzo, ma forgiata in una lega di sette metalli che la ponevano in sintonia con i pianeti, rendendola praticamente invincibile. Nella sua lama c’erano infatti il ferro e l’oro, l’argento, il mercurio, lo stagno, il rame, il piombo.
Una grigia apparenza di morte
Insieme, Merlino e Viviana verificarono lo stato della spada nell’intimo rifugio del castello da lui costruito sull’acqua per i loro convegni segreti. La permanenza millenaria nell’oscuro limo dell’abisso ne aveva deteriorato lo splendore, conferendole una grigia apparenza di morte, che ne accresceva però la suggestione. L’impugnatura si fondeva elegantemente con la parte viva dell’arma, dominata dall’elsa in forma di croce leggermente incurvata. Adornavano il fodero, in prossimità della cinta, pietre preziose che la melma non aveva privato dell’antica luce. «Rischia di andare in pezzi», disse Merlino, osser-
Nella pagina accanto miniatura raffigurante re Artú che riceve la spada Excalibur, da un’edizione in lingua francese del De casibus virorum illustrium di Boccaccio. 1435-1440. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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L’Excalibur
LAME DA FAVOLA Nell’armeria leggendaria della fiaba cavalleresca, rimangono famose quanto Excalibur la Durendal (nome in francese antico della spada che noi conosciamo come Durlindana) del paladino Orlando, che fendeva come burro la pietra, e l’Altachiara di Carlo Magno, detta anche la Gioiosa per la voce argentina con la quale soleva cantare in battaglia. Possedevano spade benedette o fatate il primo cavaliere dell’Islam, Ali, genero di Maometto, che, impugnando la scimitarra Dhu I-Faqar, impose l’etica della guerra santa, e il re dei Tatari Agricane, che, armato della sua Tranchea, assalí per amore di Angelica il Catai. Fama di santità e di magia avevano la Preziosa dell’emiro Baligante, l’Almace del vescovo guerriero Turpino, la Balisarda di Rinaldo e la Murgleis di Gano, spada considerata «sapiente» perché sapeva chi colpire. Erano armi fortificate da riti demoniaci o benedizioni possenti, rese spesso invulnerabili da prodigiose reliquie celate nell’impugnatura. Excalibur è la piú antica di tutte, collegandosi alla tradizione della grande mitologia nordica, dove non c’era eroe o semidio che non disponesse di armi magiche, dotate il piú delle volte di una loro «umanità», perversa o generosa. Infida era la Dainslef, che procurava ferite insanabili, intransigente la Tyrving, che esigeva una vita ogni qual volta veniva sguainata, misericordiosa la Hviting, che feriva e rimarginava, ferocemente allegra l’Atveig, che cantava nell’uccidere. Le dominava tutte per fama la Gram di Sigfrido, forgiata dal nano Regin, che poteva tagliare in due un’incudine o, indifferentemente, un fiocco di lana portato dal vento.
vando la guaina talmente corrosa da sembrare ormai sul punto di disfarsi. «L’importante è che sia indistruttibile la lama», replicò Viviana, accarezzandone il filo. Merlino scosse il capo. «No, mia cara. Hai ancora tante cose da imparare. È nel fodero, non nella spada, la vera magia di Excalibur...». Lo disse in tono di amara premonizione, ben sapendo quale destino lo aspettasse. Alludeva in tutta evidenza al potere femminile della natura, Gran Madre di tutte le cose, a cui nemmeno il pensiero può resistere. Restaurarono perciò il fodero con ogni cura, scrostandolo e ricucendo le originarie lamine di ferro su un nuovo strato di cuoio. Merlino si accertò, quindi, che le rune fossero ben visibili e disse: «Calibur sarà invincibile fin quando il fodero rimarrà nelle mani di Artú, ma se qualcuno dovesse riuscire a sottrarglielo sarà per lui l’inizio della fine». Non deve stupire l’attribuzione di misteriosi poteri a una spada, che è strumento di vita o di morte nelle mani di chi se ne serve. Nella cavalleria delle origini, sospesa tra mito e storia, era consuetudine diffusa personalizzare l’arma del cavaliere riconoscendole una volontà propria e un proprio nome. 46
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Füssen (Germania), Castello di Neuschwanstein. Pittura murale raffigurante Sigfrido, mentre si fa forgiare dal nano Regin la spada Gram, che gli servirà per affrontare in un duello il drago Fáfnir. 1882-83.
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Passione travolgente L’amore per Ginevra fa compiere a Lancillotto ogni sorta di impresa: nulla riesce a fermarlo, pur di raggiungere lo scopo. Fino al duello finale contro Meleagant, combattuto e vinto sotto gli occhi dell’amata 48
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Lancillotto e Ginevra, olio su tela di Herbert James Draper. 1890 circa. Collezione privata.
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Lancillotto e Ginevra
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nche se contrassegnate inizialmente da un amore appassionato e tenero, le nozze di Artú non furono felici. Portarono gloria e fortuna, poiché, senza Ginevra, non sarebbe mai nato l’Ordine della Tavola Rotonda vero e proprio, ma anche decadimento e rovina, poiché, senza Ginevra, l’Ordine, una volta costituito, non sarebbe mai finito. La bellissima regina venuta da Camelerd, in altre parole, ebbe un ruolo vitale quando si trattò di legare in un impeto d’amore uomini che esprimessero il meglio delle virtú cavalleresche d’ogni tempo; cosí come letale fu l’effetto dell’adulterio nel quale dette virtú si consumarono quando s’innamorò di Lancillotto, cavaliere fino ad allora esemplare nella fedeltà e nell’amicizia. La sua influenza sugli uomini e sugli eventi della Tavola Rotonda fu dunque determinante, nel bene e nel male. La vittoriosa campagna contro i nemici di re Leodagan e l’innamoramento di Artú per sua figlia incrementano a tal punto la combattività del giovane re da indurlo a conquistare l’isola e molti altri territori. Fuggono davanti alla sua cavalleria, riempiendo i fiumi dei propri cadaveri, Sassoni e Danesi. Nelle profonde correnti dell’Avon, dopo il suo passaggio, giacciono strani pesci rivestiti d’acciaio, che hanno per pinne spada e lancia. È la sinfonia della guerra che si fonde con quella dell’amore. Artú guida eserciti contro gli Scozzesi sui monti e gli Irlandesi oltremare: sbarca in Norvegia e nella Piccola Bretagna, in Francia, travolgendo chiunque gli si opponga. Nel cantare le sue gesta, i bardi si abbandonano a una fantasia eroica, che non ha riscontri reali nella storia, ma che scandisce nella leggenda il tempo dell’innamoramento, dando la misura di quanto fossero complementari alla gloria i trionfi del cuore.
Il ritorno della Tavola
E Artú è uomo «amante dell’amore», come scrive lucidamente Wace, «ma anche della gloria». Ne fa fede la propensione a essere amabilmente mite quando le cose vanno alla sua maniera, ma estremamente duro con coloro che si oppongono ai suoi piani. Il che però si giustifica col fatto che i suoi piani sono sempre ispirati a un disegno di giustizia, e chi li contrasta è dalla parte del male. Non va sottovalutato il particolare che, con l’arrivo a Camelot della giovane regina, ritorna la Tavola che era appartenuta a Pendragon e che ora Leodagan restituisce al genero. Non è un mero dettaglio, ma un elemento sostanziale di una saga nella quale i simboli non sono apparenza: solo da quel momento, infatti, 50
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Miniatura raffigurante Lancillotto che viaggia sulla carretta guidata da un nano, simbolo di infamia, pur di raggiungere Ginevra, da un’edizione del Lancelot du Lac illustrata dal Maître des Clères Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France. il sodalizio di Artú diventa l’Ordine della Tavola Rotonda con la sua ritualità ben definita, e con l’obbligo per gli adepti d’incontrarsi a un appuntamento annuale. Artú riversa su Ginevra un amore senza limiti. Ginevra lo contraccambia in eguale misura. Lo arma personalmente quando parte per un’impresa, allacciandogli con dita tremanti ogni fibbia. Lo bacia una volta con tale slancio che Merlino, avendo assistito alla scena, dice al re: «Pensa a quel bacio quando sarai in battaglia». Non è solo un bel verso del poema Of Arthour and of Merlin – gioiello sentimentale del XIII secolo –, ma una sottolineatura di quali nessi esistano tra l’emozione amorosa e il coraggio sul campo. Ne danno conferma, ancor piú delle partenze, i ritorni dei guerrieri. Le dame si contendono i corpetti madidi di sudore che i cavalieri portano sotto la cotta di maglia. Fanno a gara nell’impossessarsi di questa specie di camicia che ogni combattente indossa, e che è spesso impregnata di sangue oltre che di sudore, per conservarla come reliquia erotica. Ginevra e le sue dame aiutano Artú e gli altri cavalieri a spogliarsi, con uno zelo ancora piú esaltato di quello con cui li avevano «serviti» nel vestirsi, compiacendosi d’imbrattarsi a loro volta del fango che li ricopre. Li conducono poi frenetiche ai bagni, dove li lavano in comode tinozze, e non c’è cavaliere che resti senza una fanciulla «di conforto». Artú è talvolta descritto come annichilito dalla bellezza di Ginevra, perduto nei suoi occhi e incapace di prestare attenzione ad altro. Ginevra, dal canto suo, è talmente presa d’amore che perde cognizione di tutto ciò che la circonda. Eppure lo tradirà, senza smettere di amarlo. Non ebbero figli insieme, e questo impedí ad Artú di avere un erede legittimo. Ne ebbe uno incestuoso dalla perversa fata Morgana, figlia di primo letto di Ygraine, ma questa è una storia sulla quale converrà tornare quando sarà l’ora della morte di Artú. Lancillotto, di cui Ginevra s’innamora, è uno dei cavalieri che hanno visto il Graal senza riuscire a prenderlo perché intorpidito dalla fatica e dal peccato. Per questo, come si legge nel romanzo della «cerca», il giovane si considera «uno dei piú sventurati cavalieri del mondo». «Ah, povero fallito», lo compiange uno scudiero, «ave-
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Lancillotto e Ginevra
Miniatura raffigurante Lancillotto che balla una carole, da un’edizione del Roman de Lancelot illustrata dall’atelier di Évrard d’Espinques. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. te ben ragione a essere cosí triste, voi che un tempo passavate per il miglior cavaliere del mondo e che adesso venite giudicato il peggiore!». Lancillotto non sa cosa rispondere, poiché si ritiene effettivamente colpevole della scelleratezza di cui viene accusato, e lo scudiero infierisce: «Foste il fior fiore della cavalleria, ed eccovi trasformato in fantasma per opera di colei che non vi ama e non vi stima. Vi ha tolto la compagnia degli angeli. Vi ha sedotto a tal punto da farvi perdere la gioia dei cieli e gli onori della terra...». Lei è Ginevra, e non è vero che non l’ama, anche se col suo amore l’ha enormemente danneggiato, mettendolo in condizioni tali da «non poter vedere il Graal se glielo mettessero davanti piú di quanto un cieco potrebbe vedere una spada se gliela ponessero sotto gli occhi». Con questa similitudine quanto mai efficace un vecchio eremita cerca di far capire a Lancillotto, guerriero afflitto e frastornato, ciò che in realtà gli è capitato. La stessa regina non è poi cosí colpevole, gli lascia capire il sant’uomo, poiché l’antico Nemico se ne è servito per disarmare della sua virtú il migliore di tutti i cavalieri impegnati nella «cerca». «Eri cosí armato di tutte le bontà e virtú terrene quando entrasti nel grande ordine della cavalleria», gli spiega, «che il Nemico ebbe paura di non riuscire a sorprenderti. Non conosco altri giovani che ti siano stati pari. Avevi carità, umiltà, fede. Il Nemico che si compiace di dannare gli uomini fin dalle origini del mondo studiò la tua forza e scommise con se stesso che ne avrebbe avuto ragione. Scelse la regina Ginevra quale inconsapevole strumento della tua rovina, e il giorno in cui fosti fatto cavaliere l’indusse a guardarti con piacere, Quando te ne avvedesti, pensasti a lei, e da allora non fosti piú libero...». Il resto è letteratura d’amore. I due amanti bruciano di desiderio, ma stentano a decidersi di compiere il passo che trasformerà la loro attrazione silenziosa in adulterio. Dà loro l’occasione per farlo divenire un evento traumatico e spaventoso. La regina viene rapita dal brutale Meleagant, figlio di Bandemagus, re di Gorre, che si avvale di arti magiche oltre che di una spada invincibile per imporre il terrore dovunque gli aggradi. È un uomo spietato e selvaggio, animato da una lussuria insaziabile, per appagare la quale rapisce giovani dame e anche cavalieri, imprigionandoli in un tetro castello. Si dice che nessuno sia mai riuscito a uscirne dopo esserci entrato. Non esita, dopo avere teso l’agguato alla regina e averla ca-
ricata di forza sul suo palafreno, a dileggiarla, dicendole che da tempo la concupiva e che ormai la sua virtú non ha piú scampo. Li insegue il fedele siniscalco Kay, unito da legame fraterno ad Artú fin dall’infanzia, ma il suo cavallo torna insanguinato dalla foresta nella quale il rapitore si è dileguato. Continua la caccia Galvano, uno dei piú nobili e valenti cavalieri della Tavola Rotonda, primogenito del re Lot di Orkney, ma ne perde le tracce. Si unisce a lui Lancillotto, che per la fretta, però, lo lascia indietro, proseguendo da solo la ricerca della prigione in cui Ginevra è stata condotta da Meleagant.
Come un cammino iniziatico
Il percorso è pieno di eventi apparentemente insignificanti, che simbolizzano però le difficoltà di un cammino iniziatico. Il cavallo gli si sfianca sotto dalla fatica e muore non appena lo sostituisce con uno in forze. Rimane piú avanti appiedato e senza lancia. Incontra un nano che guida una carretta e gli fa segno di salire. Lui esita, poiché la carretta è un mezzo di trasporto infamante, sul quale vengono condotti al patibolo ladri e assassini. Vince però l’urgenza di ritrovare Ginevra, e accetta di servirsene. Il dettaglio è talmente importante che, nei poemi della Tavola Rotonda, Lancillotto è detto il Cavaliere della Carretta. Una denominazione apparentemente sprezzante, ma che denota la mortificazione a cui deve sottostare chi voglia intraprendere un cammino di perfezione. La carretta è altresí il segno dello stato d’inferiorità in cui Lancillotto si è posto soggiacendo alle tentazioni dei sensi, come la lancia perduta è simbolo del disarmo spirituale a cui queste lo espongono. In questo contesto velato, non è privo di significato il fatto che a proporgli di salire sul disonorevole veicolo sia un nano. Né è privo di significato ciò che accade – o meglio, che non accade – tra lui e una bellissima castellana dalla quale viene ospitato per una notte. Lei gli si corica accanto, affascinata dalla sua malinconica bellezza, ma lui nemmeno la sfiora, preso com’è dal miraggio di Ginevra. Qualsiasi altra tentazione non ha senso. Cosí, Lancillotto respinge quella donna che cortesemente l’ha ospitato non per villania, ma perché «il cuore non gli consente di fare altrimenti». La dama lo capisce a tal punto che gli farà da guida fino al regno di Gorre, dov’è la prigione dell’amata. Un’altra dimostrazione di quanto sia intensa e incontrollabile la passione di Lancillotto per Ginevra si ha poco piú avanti, allorquando trova sulle sue tracce un pettine d’avorio. «È della donna di Artú», dice la giovane accompaRE ARTÚ
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gnatrice. Non di Ginevra o della regina, ma della «donna di Artú», a volere cosi sottolineare la colpa di cui, desiderandola, Lancillotto si macchia. Brilla tra i denti del pettine una ciocca dei dorati capelli di Ginevra. Lancillotto nel toccarli sviene. Quando si riprende, li sfila uno per uno dal pettine, baciandoli e passandoseli sul viso, per riporli poi sul petto in una tasca. Non gli resta a questo punto che affrontare Meleagant e liberare Ginevra. Al regno di Garre si accede attraverso due soli valichi, detti Ponte dell’Acqua e Ponte della Spada. Il primo è sommerso da una corrente tumultuosa e nera, che trascina nelle profondità dei suoi gorghi chiunque vi si avventuri. Il secondo consiste in una lama bianca e tagliente protesa tra le rupi, su un abisso in fondo al quale ruggisce un fiume cosí rapido e furente da far pensare che provenga dall’inferno. Due belve incatenate sull’altra sponda, leoni o leopardi, si agitano furiosamente, mostrando artigli e zanne taglienti. 54
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Lancillotto sceglie il Ponte della Spada. Due ragazzi di gentile aspetto tentano di dissuaderlo, ma lui risponde: «Ho una tale fede, una tale confidenza in Dio che sono certo di non dover nulla temere, poiché mi salverà. Non temo questo ponte, né l’acqua sottostante piú di quanto tema la sicura terraferma». Poi, nell’avviarsi a mani e piedi nudi sulla vacillante lama sospesa, Lancillotto aggiunge: «Meglio morire che tornare indietro». Deve tenersi strettamente aggrappato, per non precipitare, al filo della lama che gli strazia dita e palmo delle mani, ma è sorretto da una tale forza d’amore che la sofferenza gli è gradita.
Accecato dall’amore
È come in estasi, del tutto indifeso di fronte al sentimento che lo conduce alla regina. Non è piú nemmeno certo del suo nome. Ha dimenticato di esistere. Non sa da dove viene né dove va. Va per amore, ma non sa nemmeno se è amato oppure no. Ha messo tutto da parte, salvo lei. Non c’è posto per niente altro nei suoi
Miniatura raffigurante Lancillotto che attraversa il Ponte della Spada per raggiungere il castello in cui Ginevra è tenuta prigioniera, da un’edizione del Lancelot du Lac. 1310-1315. New York, The Morgan Library and Museum. Nella scena si distinguono tutti i dettagli della vicenda: le due belve feroci che attendono al varco il cavaliere, e l’amata che assiste all’impresa insieme alle damigelle.
pensieri, se non per Ginevra. Non c’è posto neanche per le due bestie feroci che l’attendono sull’altra riva, le quali scompaiono non appena lui giunge scavalcando il baratro. Cosí, con il vuoto mentale, Lancillotto sconfigge gli inganni dell’illusione per entrare nel regno di Garre. Ammirato dal coraggio e dalla dedizione di questo cavaliere per la sua regina, il re Bandemagus vorrebbe restituirgli la prigioniera. Meleagant, però, si oppone, pronto a difendere la sua preda con le armi. Ne segue un duello spettacolare, al quale assistono dalle finestre della loro merlata prigione Ginevra e le damigelle rapite. Pregano tutte perché il cavaliere sconosciuto possa liberarle, ma la situazione appare disperata. Lancillotto ha il corpo e le mani straziati dai tagli che si è procurato attraversando il Ponte della Spada. Con intuizione tutta femminile, però, una delle ragazze si rende conto che le sue forze si moltiplicherebbero se sapesse che alla finestra c’è a guardarlo la regina. Vorrebbe
chiamarlo, attirarne l’attenzione. Non sa però come si chiama. Lo chiede allora a Ginevra, che senza staccare lo sguardo dai duellanti glielo dice. «Lancillotto», grida allora la giovane dama con quanto fiato ha in gola, «Volgiti e guarda chi ti guarda!». Lancillotto si gira e vede alla finestra l’unica creatura al mondo che gli interessava di vedere. È per lui un momento di felicità immensa, ma anche di estremo pericolo, poiché non riesce piú a distogliere gli occhi da Ginevra e gli è impossibile concentrarsi sul combattimento. Cade anzi in contemplazione, senza piú curarsi dell’avversario, dai cui assalti si difende distrattamente. Para e risponde ai colpi come un automa, tenendo alto lo sguardo verso la finestra. Giostra però con grande abilità per poter avere sempre di fronte la regina. E vince, trascinato da un impeto d’amore che è piú forte della magia di Meleagant, il quale chiede tregua e perciò, secondo le regole della cavalleria, viene risparmiato. RE ARTÚ
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L’ armonia spezzata
Il trasporto di Lancillotto per Ginevra è soggetto a interpretazioni contrastanti: per alcuni, l’eroe è un uomo totalmente soggiogato, altri, invece, leggono il suo comportamento come un atto d’obbedienza. È però certo che, assecondando la propria passione, i due tradiscono doppiamente Artú, nell’amore e nella fedeltà cavalleresca
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inevra, dopo che Lancillotto l’ha liberata insieme a tutti gli altri prigionieri di Garre, non gli riserva un’accoglienza delle piú calorose. Tergiversa, si schermisce, lo rimprovera di non essere accorso con la dovuta sollecitudine. E perché mai? Come giustifica una rimostranza tanto ingiusta? Perché per un attimo esitò a salire sulla carretta che doveva condurlo a lei, gli rinfaccia. È vero, ammette lui, e chiede perdono. Ed è per lo meno singolare, a questo punto, che la tirannia sentimentale di Ginevra imponga a Lancillotto di vergognarsi non di essere salito sulla disonorevole carretta, ma di avere semplicemente esitato («per la durata di due passi») a farlo. A parte il fatto che viene da chiedersi in che modo Ginevra, prigioniera nel castello di Meleagant, possa aver saputo dell’episodio. Ma la cosa non è poi cosi straordinaria: aleggia intorno alla Tavola Rotonda una sorta di pettegolezzo magico, per cui tutti sanno sempre tutto degli altri. Tranne Artú, che dell’adulterio si accorge soltanto quando gli viene messo sotto gli occhi.
Un’esitazione inaccettabile
Il risentimento di Ginevra è severo: «Ondeggiaste dubbiosamente, sia pure per un istante, un istante solo, tra l’onore e l’amore». E questo è talmente grave ai suoi occhi che tutto il resto non conta: non contano le terribili prove sostenute da Lancillotto, il rifiuto dei piaceri offertigli dalla castellana, i tagli sopportati sul Ponte della Spada, l’implacabile duello con Meleagant. Per riparare, Lancillotto accetterà di mostrarsi vile in un torneo, come la regina gli chiede. Dimostrerà in tal modo, esponendosi al disprezzo degli altri cavalieri, quanto sia sottomesso al suo volere. In pratica, «non ha che un solo cuore», scrive Chrétien de Troyes nel Cavaliere della carretta, «che però non è piú suo, ma di colei nelle cui mani lo ha riposto». Il nodo si scioglierà lentamente, tra schermaglie che tendono ad accreditare l’amore come sentimento cieco e inesorabile, che impone al cavaliere il sacrificio assoluto di sé e del proprio onore. I maggiori critici del Ciclo arturiano sono divisi su questo integralismo della passione d’amore: c’è chi, come il filologo tedesco Wendelin Förster (1844-1915), considera Lancillotto vittima di «un amore servile che lo trasforma in uno strumento inferiore nelle mani dell’amata», e chi, come lo statunitense William A. Nitze (1876-1957) definisce la sua sottomissione alla volontà di Ginevra come «un atto d’obbedienza liberamente scelto».
Sta di fatto, però, che i due amanti non possono attendere il dissolversi lento della ritrosia di Ginevra, incalzata dalle continue prove che Lancillotto le fornisce del suo amore. L’attrazione che provano l’uno per l’altra è incondizionata e sorprendente, votata all’imprevisto. La sera stessa del duello, prima di lasciare il castello che è stato il suo carcere, Ginevra chiede a Lancillotto di raggiungerla in segreto. Con un semplice battito di ciglia attira la sua attenzione e gli indica la finestra della propria stanza, dicendogli sotto voce: «Questa notte, quando tutti dormiranno, penetrate nel giardino e venite a quella finestra. Naturalmente non potrò farvi entrare né accogliervi in camera, voi sarete fuori e io dentro, non potrete arrivare a me né io a voi, se non con la parola o tendendoci la mano...». Gli raccomanda di badare a che nessun indiscreto lo scopra. «Siate certa che prenderò tutte le precauzioni», la rassicura Lancillotto.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Lancillotto che, nel letto, racconta a Ginevra di come, durante il torneo, la sua forza fosse venuta meno dopo essersi accorto che la regina lo stava guardando, da un’edizione del Livre de Lancelot du Lac realizzata in Francia. 1316 circa. Londra, British Library.
In una notte senza luna
La notte senza luna facilita l’incontro. Attraverso una breccia nelle mura diroccate, Lancillotto raggiunge la finestra. Lei l’aspetta in una nudità quasi integrale per l’epoca. Chrétien la descrive «senza cotta né veste, con una semplice camicia scarlatta». Si copre le spalle, per proteggersi dal freddo, con un manto di marmotta. Robuste sbarre alla finestra non impediscono loro di baciarsi e di prendersi la mano. Ma la vampa del desiderio si trasforma ben presto in un tormento irresistibile. Ginevra maledice l’inferriata. Lancillotto vi si aggrappa con le mani ancora sanguinanti per i tagli riportati sul Ponte della Spada, scuotendone le sbarre. «Sono troppo solide», si cruccia sconsolata la regina. «Non riuscirete mai a strapparle». «Non credo che questo ferro possa fermarmi», risponde il cavaliere. «Solo la vostra volontà potrebbe impedirmi di raggiungervi. Se mi date il vostro permesso, supererò qualsiasi ostacolo; se me lo negate, per niente al mondo cercherò di entrare». «Certo che ve lo do il mio consenso, ma badate a non fare rumore». «Non temete. Mi sento di strappare queste sbarre senza svegliare nessuno». «Aspettate solamente che mi sia messa a letto». La regina è soprattutto preoccupata che possa accorgersi di loro il siniscalco Kay, che dorme nella stanza accanto, dove Meleagant l’aveva rinchiuso dopo averlo catturato durante l’inseguimento nella foresta. Lancillotto, per rassicurarla, si prende cura di controllare anche nella stanza di Kay, fortunatamente immerso RE ARTÚ
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Adulterio reale
in un sonno profondo. Ritorna quindi alla finestra di Ginevra, afferra le sbarre a mani nude, le piega e le scalza. Sono cosí taglienti e acuminate che la falange di un dito gli si apre fino al nervo. Nemmeno ci fa caso ed entra nella stanza come un pellegrino in un santuario, inginocchiandosi al letto di Ginevra come di fronte a una reliquia. Lei gli tende le braccia e lo trascina su di sé sul letto. Ma «se l’amore della regina è immenso, quello di Lancillotto lo è mille volte di piú». Cosí Chrétien de Troyes s’ingegna di misurare succintamente la forza che si traduce per entrambi in «una gioia a null’altra simile, una felicità quale nessuno ha mai conosciuto». Ne è talmente emozionato a propria volta che si astiene dal descriverle, definendole «cose che non si devono narrare in un romanzo». Lo farà Dante nel canto V dell’Inferno, per bocca di Francesca da Rimini, che spiegherà il proprio adulterio con il turbamento procuratole – a lei quanto a Paolo – dalla lettura di ciò che accadde tra Ginevra e Lancillotto: «Solo un punto fu quel che ci vinse. / Quando leggemmo il disiato riso / esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò tutto tremante».
Convegni segreti e sotterfugi
Solo al rientro nella sua stanza, verso l’alba, Lancillotto si accorge delle dita piagate dalle sbarre che ha divelto. Non se ne rammarica: dice a se stesso che avrebbe preferito avere le braccia troncate piuttosto che non riuscire a svellere quell’inferriata. Dopo questa notte trascorsa tra mura ostili, nel regno maledetto di Gorre, iniziano i convegni segreti e i sotterfugi, contrassegnati da una passione sempre piú visibile, destinata a degenerare in scandalo. Si dice in Inghilterra per indicare una donna senza ritegno: «È una vera e propria Ginevra». Eppure il suo adulterio non fu piú scandaloso, a giudicarlo in superficie, dei tanti di cui sono prodighe le cronache di ogni tempo. Appare al contrario, per certi aspetti, banale. «Tu hai rovinato lo scopo della mia vita», le dice Artú nell’apprendere della relazione con Lancillotto, che ha fino ad allora considerato come il piú leale dei suoi amici e il migliore dei cavalieri consacrati alla ricerca del Graal. Letta cosí, senza un approfondimento, la frase non dice molto. Potrebbe averla detta, senza modificare una sillaba, un qualsivoglia marito tradito d’ogni tempo e paese. Se però la si legge in riferimento al contesto in cui è pronunciata – con particolare attenzione al 58
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DA REGINA A DONNA DI FACILI COSTUMI Durante il regno di Enrico VIII (1509-1547), il quale, come suo padre (Enrico VII), tenne in gran conto la pretesa discendenza arturiana, la propaganda reale rispolverò il tema del difficile rapporto di Artú con Ginevra per giustificare i noti eccessi matrimoniali del sovrano, culminati con l’esecuzione di Anna Bolena, nel 1536. Non è da escludere che risalga a quell’epoca l’uso dell’espressione «una vera e propria Ginevra» per indicare donne di facili costumi. Il momento politicamente piú difficile si ebbe nel 1533, con il ripudio di Caterina d’Aragona, che provocò la crisi dei rapporti con il papato. Alle pesanti critiche di cui Enrico VIII fu oggetto in quell’occasione da parte degli Spagnoli, l’ambasciatore inglese replicò che i «guai personali» del sovrano andavano giudicati con rispetto e con pietà, poiché superavano quelli di «qualsiasi buon principe fin dai tempi di Artú».
ruolo della dama nell’immaginario cavalleresco –, la battuta ha tutto il senso di una resa incondizionata a eventi ormai irrimediabili. È l’ammissione desolata di un fallimento che non ha nulla di personale, ma sconvolge i punti essenziali dell’intero progetto di Artú, con irreparabili contraccolpi sull’Ordine stesso della Tavola Rotonda. Il tradimento di Ginevra e Lancillotto viola a un sol tempo due codici di norme inderogabili per chi crede – come Artú e i suoi cavalieri – nella fratellanza e nell’onore, nella parola data e nei valori cortesi, da intendere nella loro accezione piú pura di amore e di amicizia. È violato il codice cavalleresco ed è violato il codice galante, concatenati nell’idealità cortese da un’elementare complementarità, poiché l’amore distoglie dall’avventura e l’avventura dall’amore. Con l’infrangersi di questo equilibrio, va in frantumi l’orgoglio fino ad allora intangibile del re, che perde ogni fiducia nei propri sogni. Insieme ai sogni scompare la sua fede nel disegno civile cui aveva affidato la prosperità del regno. Con conseguenze disastrose per il benessere del popolo, che da quel momento languirà nella discordia e nella carestia. Ne deriverà un lento decadimento, un inarrestabile degrado del leggendario sodalizio, che nemmeno gli straordinari intenti riposti nella «cerca» del Graal riusciranno ad arginare. Cosí finirà Artú, vittima di una disillusione che l’indurrà a una rovinosa malinconia, tra errori e intrighi della peggior specie, fino alla definitiva disgregazione del regno. Dall’adulterio di Ginevra si evince una delle piú moderne lezioni che possano trarsi dalla
Miniatura raffigurante il duello fra Lancillotto e Meleagant, da un’edizione del Lancelot du Lac illustrata dal Maître des Clères Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Adulterio reale
UNA FORESTA DI STEMMI I tornei erano quanto di piú festoso e pittoresco si potesse immaginare. Vi dominavano i colori e l’entusiasmo. Ecco lo spettacolo che appare davanti agli occhi degli spettatori che giungono in una piana, sulla quale sta per iniziare un torneo: «Sventolano molti stendardi vermigli. Si vedono molti colletti e molte maniche, bianchi e blu, offerti come pegno d’amore. Vengono issate fitte lance, alcune azzurre o rosse, altre d’oro e d’argento, altre a bande o strisce di vario colore. I cavalieri si allacciano gli elmi di ferro e d’acciaio, luccicanti di verde, di giallo e di rosso nel sole del mattino. Si vede una foresta di stemmi e di brillanti usberghi, di spade sospese al fianco e di buoni scudi fiammanti, azzurri, rossi e d’altri mille colori, alcuni d’argento con il centro d’oro. Si vedono eccellenti cavalli scalpitare e poi correre gli uni contro gli altri, balzani e sauri, bruni e bianchi, neri e bai. Ora il campo è tutto coperto di armature. Da ogni lato si lanciano i combattenti» (da Érec et Énide, 1160 circa).
leggenda di Artú e dei suoi eroi visionari, perennemente in armi per la realizzazione di un sogno, perennemente in procinto di farcela, perennemente sconfitti alla soglia dell’impresa definitiva per la loro umana imperfezione. Una imperfezione ineluttabile che nemmeno la mistica illusione del Graal è in grado di sanare, forse perché anch’essa generata dall’orgoglio di poterlo possedere piú che dalla venerazione dovutagli. È azzardato attribuire a Ginevra (piú che a Lancillotto, vedremo perché) la responsabilità del disfacimento della Tavola Rotonda?
Annientamento e rinascita
Per rispondere a questa domanda, si deve tenere conto della parte che aveva la presenza femminile nell’investitura cavalleresca, non in quanto riflesso passivo della presenza maschile – come sarebbe per la dama da idolatrare, la dama da soccorrere, la dama a cui dedicare la gloria delle proprie imprese –, ma come protagonista essenziale del rito stesso dell’iniziazione. Per poter acquistare la dignità di cavaliere, infatti, non bastava il solenne impegno di rispettare fondamentali principi di lealtà e onore, carità e via dicendo. Non bastava promettere di non abbassarsi mai all’assassinio e al tradimento. Non bastava soccorrere castamente qualsiasi fanciulla, vedova o gentildonna in difficoltà. Perché l’iniziazione potesse compiersi, era necessario passare attraverso l’annientamento e la rinascita dell’individuo, procurati mediante riti analoghi a quelli che nelle società primitive scandivano l’evolversi dell’esistenza. Il fine occulto dell’investitura cosí concepita era
Nella pagina accanto miniatura raffigurante un duello a colpi di lancia fra cavalieri nel corso di un torneo, da un’edizione del Lancelot du Lac illustrata dal Maître de Jacques de Besançon. 1494. Parigi, Bibliothéque nationale de France. In alto, sulla sinistra, compare l’editore dell’opera, Antoine Vérard, che dona una copia del volume al re, Carlo VIII, seduto nella tribuna reale.
il conseguimento di uno stato di perfezione «edenica», cioè antecedente al peccato originale. Per ottenerlo, era necessario reintegrare simbolicamente nell’adepto una sensibilità androgina primordiale, fondata sulla fusione armonica della natura maschile e di quella femminile. In quest’ottica, il simbolismo della dama da ricercare per completare la propria identità cavalleresca va ben oltre l’apparenza dell’amore. Si tratta in realtà di un elemento rituale indispensabile alla trasformazione del cavaliere in uomo nuovo, pronto a dominare la convivenza in sé delle piú contraddittorie pulsioni umane.
Un percorso sempre piú arduo
Finalizzato a tale scopo, l’accesso al castello (e all’anima) della dama comporta il superamento di prove inaudite. Ma questo non è che l’inizio di un percorso sempre piú arduo, che coinvolge il cavaliere in azioni al di là di ogni fantasia. È intuibile di quale sacralità venisse ammantato, a queste condizioni, qualsiasi vincolo contratto all’interno dell’Ordine cavalleresco, tanto di amicizia che di amore. E si capisce quali contraccolpi potesse produrre in quest’Ordine qualunque atto tendente a spezzarne l’armonia. Nel caso di Lancillotto e Ginevra, l’armonia spezzata è quella del talamo reale. Entrambi gli amanti non sembrano rendersi inizialmente conto della catastrofe che hanno in tutta leggerezza provocato. Si muovono in questo scenario di colpa con una disinvoltura mondana che parrebbe trasporli molto al di là dei loro tempi, quasi in un limbo contrassegnato da una sorta di bovarismo ottocentesco. È probabilmente per questo che la loro vicenda suscitò tanta commozione tra i preraffaelliti, che in piena età vittoriana vi si aggrapparono con trasgressiva voluttà. Piú che ai valori violati, Ginevra e Lancillotto appaiono attenti alle apparenze. La cosa davvero importante per entrambi è che non si sappia della loro relazione. È evidente il fraintendimento dei codici che regolano il sodalizio a cui appartengono, ma anche l’aspirazione a un compromesso che risparmi a tutti l’onta di uno scandalo. Non negano la validità delle norme, ma sono in tutta libertà convinti che la violazione non debba considerarsi poi cosí disdicevole se si è in grado di tenerla segreta. Come adultera, Ginevra ha ben poco di quella barbarica libertà dei sensi che respinge l’idea di peccato per celebrare il trionfo estremo della natura. Ancor meno mostra di averne Lancillotto sacrificando la propria vanità eroica, come si è visto, per obbedire all’intimazione dell’amata di umiliarsi. RE ARTÚ
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L’ ultimo duello
Per l’Ordine della Tavola Rotonda, la relazione fra Lancillotto e Ginevra si rivela fatale: gli eventi precipitano sino allo scontro nella piana di Salisbury, nel quale soccombe anche Artú
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enuto a conoscenza del tradimento, il piú intrepido dei re si scoprirà isolato nella sua fragilità. Reazioni contrastanti divideranno i suoi cavalieri. Premono su Artú perché riscatti il proprio onore Agravain e Gaheris, fratelli di Galvano, che per le sue qualità è detto «il primo dei buoni cavalieri», uomo di gran senno e solauz (sole) della Tavola Rotonda. Lui reagirà in maniera sbiadita e incerta, decidendo di ignorare finché potrà l’accaduto. Lo istiga alla vendetta anche il suo incestuoso figliolo Mordret, che incarna forze demoniache trasmessegli dalla madre Morgana, sorellastra di Artú per parte di Ygraine. Artú rifiuta di credergli, ma lo autorizza insieme ad Agravain a uccidere Lancillotto se lo sorprenderanno con la regina. Si arrende infine di fronte all’evidenza quando l’intrigante Morgana gli mostra per magia quello che è accaduto tra i due amanti. Lancillotto viene scacciato e Ginevra trascinata in un giudizio di Dio, che si concluderà con un fatale verdetto di colpa. Indignata per essere stata sottoposta pubblicamente a questa prova, inveirà contro il marito, chiamandolo uomo «di gran nome e poco amore». La salverà dal rogo Lancillotto, portandola nella torre detta della Guardia Gioiosa, un luogo magico nel quale si è insediato dopo averlo liberato dai cattivi spiriti che l’infestavano. Era chiamata un tempo la Guardia Dolorosa, ma il giovane Lancillotto, armato ancora dell’originaria purezza, vi si era introdotto sfidando con la forza della sua fede (e della sua intelligenza) le presenze malefiche. Per poterle sconfiggere, avrebbe dovuto trascorrere quaranta giorni con le povere creature imprigionate in quelle stanze chiuse, scoprire la ragione della loro angoscia e agire di conseguenza; oppure violare, a rischio della propria vita, il segreto della Sala Proibita, dov’era la chiave del sortilegio. Aveva scelto questa seconda via, piú 62
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sbrigativa e avventurosa. Si era trovato di fronte un pilastro di bronzo e una damigella di rame che teneva nelle mani due chiavi. Ne aveva provato la piú grande sul corpo della fanciulla, liberandola dall’incantesimo che la teneva prigioniera. Aveva poi aperto con la seconda il pilastro, traendone fuori un forziere. Non sapendo che cosa contenesse, lo aveva accertato nel solo modo possibile, scardinandone il chiavistello con un colpo di spada. Sollevato il coperchio ne era venuto fuori un turbine di vento e di lugubri lamenti, prodotti dagli spiriti infernali che vi erano stati rinchiusi a guardia del castello. Immediatamente questi si erano dispersi e la stanza con il pilastro era scomparsa. Anche l’orrido cimitero che cingeva dall’esterno le mura era sparito, lasciando germogliare un ridente giardino al proprio posto. Cosí, salutato come un liberatore dalla ragazza di rame e dalle altre creature imprigionate in quel luogo, ne aveva preso possesso, cambiandone il nome da Guardia Dolorosa in Gioiosa.
Il rimorso degli amanti
Tuttavia, quelli che vi trascorse insieme con Ginevra non furono giorni felici, poiché l’animo di entrambi era soffocato dal rimorso. Tanto piú che, per salvare la regina, Lancillotto aveva dovuto uccidere in duello Agravain, Gaheris e il loro fratello minore Gahret Beaumains, cosí chiamato dai compagni della Tavola Rotonda per le sue belle mani. Stravolto dall’ecatombe dei fratelli e soprattutto dalla morte del piú piccolo – che per le sue doti di bontà era «il piú amato» a Camelot –, Galvano è preso da un odio irriducibile per Lancillotto. Sommandosi a quello di Artú, il suo rancore scatena una guerra contro il compagno di un tempo, che si è ritirato al di là del mare, nella Piccola Bretagna di Francia. Inizia cosí la disgregazione della Tavola Rotonda, allorquando i suoi migliori cavalieri si lasciano trascinare
Il salvataggio della regina Ginevra da parte di Lancillotto, illustrazione di William Hatherell, da Re Artú. Collezione privata.
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da sentimenti che, come il rancore di Galvano, contraddicono i loro voti. Si combatte aspramente per giorni. Artú e Galvano da una parte, Lancillotto e suo fratello Hector dall’altra. Lancillotto cerca in tutti i modi di dimostrare al re che la sua fedeltà è rimasta intatta. Gli è data occasione di provarlo il giorno in cui viene disarcionato da Artú in uno scontro violentissimo. Si rialza in tempo per vedere Artú disarcionato a sua volta da Hector, che gli grida: «Colpiscilo, Lancillotto!... È alla tua mercé!». «Che dici, Hector?!... Non potrei mai far del male al mio re». «Colpiscilo», insiste Hector, «e questa guerra finirà». Ma Lancillotto scuote il capo, ritirandosi. «Non posso», dice, «e semmai sarei pronto a difenderlo... Contro di te, contro tutti». Profondamente colpito dalla generosità del rivale, Artú è preso da una grande inquietudine. Dice a Galvano, che insiste nel chiedere vendetta: «Vorrei che quest’avventura non fosse mai cominciata». Galvano lo convince a riprendere il combattimento, ed è anche questa una prova della perdita di ogni volontà da parte di Artú, debilitato dall’afflizione del tradimento. Infine i due campioni si affrontano. «Questa guerra non finirà», grida Galvano in viso a Lancillotto, «fino a quando non avrò vendicato i miei fratelli!». «Comprendo il tuo dolore», risponde Lancillotto, «ma non dovresti dimenticare che per salvarti la vita ho affrontato da solo il terribile gigante Karadoc, uccidendolo...». Questo cenno a passate avventure irrita ulteriormente Galvano. «Ah, Lancillotto, tutto il bene che mi hai fatto l’hai annullato con la strage dei miei fratelli, ch’io amavo piú d’ogni cosa al mondo. Non potrà esserci mai piú pace tra noi». «I tuoi fratelli li ho uccisi per difendermi, da solo contro tre, in leale duello». «Affronta me adesso in leale duello», ribatte Galvano a questo punto, sfoderando la spada, «da solo a solo». Lancillotto è pronto. Para il primo colpo dell’avversario e risponde. Si scambiano fendenti da far tremare la terra, che devastano scudo e usbergo di entrambi.
L’incarnazione di un dio solare
È la resa dei conti tra due invincibili, e anche una sorta di ordalia nei confronti delle colpe di cui si è macchiata la regina. Ciò induce Lancillotto ad assalire l’antagonista con tutte le sue forze, infliggendogli ferite profonde. Galvano è però dotato di un’energia segreta, della quale 64
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Lancillotto è al corrente: le sue forze aumentano nelle ore che vanno dall’alba a mezzogiorno, per poi diminuire. Le fonti letterarie attribuiscono questa sua prodigiosa virtú al dono di un pio eremita, ma è lecito supporre che possa trattarsi di uno strascico di superstizione celtica e che nella leggenda il cavaliere rappresenti l’incarnazione di un dio solare. Non a caso Galvano è chiamato «sole» della Tavola Rotonda, e il suo nome originario, Gawain, è spesso sostituito nei testi celtici con quello di Gwalchmai, che vuol dire Corvo di Maggio, uccello del tempo in cui l’astro solare sta per raggiungere il suo massimo splendore. Lancillotto si tiene in difesa nelle ore in cui l’energia di Galvano cresce, per attaccarlo a fondo quando comincia a declinare. Si astiene dal proseguire quando Galvano è tanto debole da non reggersi in piedi, poiché sarebbe disonorevole approfittarne. A chi lo incita a finire l’avversario in difficoltà
Miniatura raffigurante Lancillotto e la regina Ginevra, da un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac. 1480 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
In alto, a destra miniatura raffigurante Morgana che sorprende Lancillotto e Ginevra, da un’edizione del Livre de Messire Lancelot du Lac. 1480 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
risponde: «Dio mi guardi da una simile vergogna». Per due volte Galvano è steso al suolo. Per due volte Lancillotto lo risparmia, dandogli tregua fino a quando non gli saranno tornate le forze. Indebolito infine dalla copiosa perdita di sangue, Galvano muore ugualmente, perdonando il suo generoso antagonista. Chiede di essere sepolto nella stessa tomba del fratello Gahret, alla cui lapide fa aggiungere la propria. Vuole che vi sia scritto «Qui giace Galvano ucciso da Lancillotto», affinché si sappia con quale prode cavaliere avesse incrociato per l’ultima volta la spada. Esprime anche il desiderio che Lancillotto si rechi a visitare il suo sepolcro.
Un cammino di redenzione
Interpretato come un giudizio di Dio, l’esito del duello potrebbe rappresentare l’occasione per il riscatto spirituale di Ginevra. Lancillotto se ne rende conto e, come estremo atto d’amore, la restituisce al re, chiedendo il perdono, ma solo per lei. Il commiato tra i due amanti segna l’inizio di un cammino di redenzione, che condurrà entrambi a sublimare in pentimento ed espiazione il proprio amore, convogliando la loro passione ancora intensa in pura esaltazione spirituale. «Solamente mia e tua», dice Ginevra a Lancillotto nel salutarlo, «è la causa di questa terribile guerra e della morte dei piú nobili cavalieri del mondo, giacché per via del nostro amore giacciono adesso senza vita... Perciò, amor mio, per quanto ti abbia amato, i miei occhi non potranno piú sopportare la tua vista, dato che a causa nostra è stato distrutto il fiore della cavalleria».
È un addio definitivo, crudele. «Un ultimo bacio», supplica Lancillotto. «No, mai». Stoltamente, Artú affida Ginevra a Mordret, perché la conduca in convento, continuando a combattere contro Lancillotto una guerra che indebolisce giorno per giorno la sua armata. Ne approfitta Mordret, che s’impossessa del trono e tiene in ostaggio la regina, di cui si è invaghito al punto da volerla sposare. Ginevra ne ha ribrezzo. Si chiude con uno stratagemma nella Torre di Londra, decisa a respingerne fino alla morte le profferte. Ed è appena il caso di ricordare che all’epoca non esisteva alcuna Torre di Londra, poiché soltanto nel Natale del 1066 Guglielmo il Conquistatore ne avviò la costruzione; ma la letteratura cortese, di molti secoli successiva ai fatti a cui si riferisce, trasferisce spesso al proprio tempo situazioni e personaggi. Appreso il tradimento di Mordret, ad Artú non rimane che togliere l’assedio al castello di Lancillotto, che ha frattanto ripreso l’antica denominazione di Guardia Dolorosa anziché Gioiosa, precipitandosi con i resti del suo esercito nel regno, dove il figlio lo attende in armi per ucciderlo. È lo strumento di sua madre Morgana, che agogna da sempre la rovina di Artú in odio alla stirpe di Uther Pendragon, sostituitosi a suo padre Gorlois nel letto di Ygraine. Come figlio di Ygraine e di Pendragon, Artú rappresenta tutto ciò che le fu tolto da bambina, e che nemmeno con l’uso piú spregiudicato delle arti magiche è mai riuscita a riprendersi. Anche perché contrastata in questo da Merlino, RE ARTÚ
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LA LEGGENDA RIVIVE NELL’ARTE Enorme fu la popolarità della saga di Artú nell’Inghilterra vittoriana per il diffondersi di dipinti ispirati alla leggende della Tavola Rotonda. Ne ebbe il merito il movimento dei preraffaelliti, cosí chiamato per l’intento artistico di opporsi all’accademismo contemporaneo ricercando i propri modelli tra i pittori del Quattrocento italiano anteriori a Raffaello, in particolare Giotto e Simone Martini. Teorico e capofila del gruppo costituito nel 1848 fu Dante Gabriel Rossetti. Fecero parte della «confraternita preraffaellita», tra gli altri, Edward Burne-Jones, William Morris e William Holrnan Hunt. Ebbero molta parte, tra i soggetti prescelti da questi artisti, episodi delle Sacre Scritture e della storia inglese. Rimarchevoli, tra le opere ispirate alla Tavola Rotonda, sono Il sepolcro di re Artú (1855-60, Londra, Tate Gallery) e lo studio per La visione del Santo Graal e Lancillotto (1857, Birmingharn, City Museurn and Art Gallery) di Dante Gabriel Rossetti, e La regina Ginevra (1859, Londra, Tate Gallery) di William Morris.
vigile guardiano delle fortune di Artú. Ma Merlino non è piú in grado di frapporsi tra lei e il fratellastro, che si reca ad affrontare suo figlio con un’ultima schiera di stanchi cavalieri. Si incontrano nella pianura di Salisbury, per una battaglia definitiva, che ha il sembiante apocalittico di uno scontro tra il Bene e il Male. Se ne ha una descrizione grandiosa e terrificante nella Morte Darthur di Thomas Malory (scrittore inglese del XV secolo), il quale, a tre secoli da Chrétien de Troyes, propone la piú sofferta versione della saga, infondendole quella rabbiosa malinconia che gli derivava dalla sua condizione di prigioniero. Scrisse infatti l’opera nel carcere di Newgate, durante il regno di Edoardo IV (esattamente, afferma, il nono anno dall’incoronazione, cioè il 1470), dov’era rinchiuso per avere probabilmente combattuto dalla parte dei Lancaster nella guerra delle Due Rose. Decisamente autobiografico appare alla luce di tali notizie il suo risentito disprezzo per i cavalieri che tradirono Artú alleandosi con Mordret: «Guardate quale danno avete commesso, Inglesi. Proprio lui avete tradito ch’era il migliore re, il migliore cavaliere del mondo, e che piú di tutti amava la cavalleria... Com’è possibile che ora gli Inglesi non ne siano piú soddisfatti?... Ecco il peggiore difetto di noi Inglesi: non c’è niente che ci soddisfi a lungo». È facile riconoscere dietro il pretesto arturiano un’allusione alla guerra delle Due Rose, nel corso della quale Malory dovette misurarsi con il tradimento e l’insoddisfazione del popolo diviso tra Tudor e Lancaster. Una montagna di morti è lo scenario conclusivo della battaglia di Salisbury. Vi giacciono sepolti i corpi degli ultimi cavalieri della Tavola Rotonda. Padre e figlio ancora in vita si fronteggiano. Artú sta in guardia con la lancia tesa verso Mordret, Mordret in guardia con la spada puntata verso Artú. 66
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Nel cambiare posizione, Mordret si scopre. Artú gli si scaglia contro trafiggendolo. Spinge a fondo l’asta con entrambe le mani, fino a farne uscire la punta dal dorso. Contemporaneamente («in quel momento esatto», dice Malory), Mordret lo colpisce con un fendente a lato del capo, mortalmente. Cadono come abbracciati, Mordret morto e Artú morente.
Le ultime volontà del re
Accorrono in soccorso del re il fedele Bedivere e Lucan, uno degli ultimi sopravvissuti. Intorno, nel mucchio dei morti, vagano gli sciacalli in cerca d’armi e gioielli. Bisogna portare il re lontano da quel luogo nefasto, tra mura sicure. «Vorrei tanto potermi muovere», dice Artú, «ma non ce la faccio. Non sto in piedi, mi gira la testa». Bedivere e Lucan decidono di portarlo via ugualmente, ma Lucan muore nel tentativo, poiché il re nell’abbracciarlo lo stringe con tale forza da spezzargli le costole in una contrazione di dolore. Rimasto solo con Bedivere, Artú prende Excalibur e gliela porge, ordinandogli di portarla su una vicina riva (quasi certamente di un lago, alla confluenza dell’Avon e altri fiumi che attraversano la piana) e scagliarla nell’acqua, il piú lontano possibile. Parrebbe un modo di volerla sottrarre alla rapacità degli sciacalli, ma è con molta piú verosimiglianza un dovere da assolvere verso la Signora del Lago, a cui va restituita. Bedivere prende la spada dall’impugnatura ingioiellata e corre verso l’acqua. «Torna a dirmi ciò che hai visto», gli grida dietro Artú. Lungo la strada Bedivere è affascinato dalla preziosa bellezza della spada. Non ha mai impugnato qualcosa di tale valore. Si chiede se valga la pena sbarazzarsi di un’arma cosi splendidamente rifinita. Decide di nasconderla per poi tornare a riprenderla.
La tomba di Re Artú, acquerello su carta di Dante Gabriel Rossetti. 1860. Londra, Tate Gallery.
Artú gli domanda con un filo di voce se ha fatto ciò che gli aveva ordinato. «Sí», risponde il cavaliere, che mai gli aveva prima mentito. «E che hai visto di straordinario nell’acqua?». «Niente». «Allora mi hai disobbedito. Corri a gettare nel lago la mia spada, se non vuoi che ti maledica in punto di morte... Vai! Nessuno deve averla dopo me». Ne parla con amore disperato, come di una donna. Bedivere si allontana e per la seconda volta non ha il coraggio di liberarsi di Excalibur. Artú gli rivolge la medesima domanda. «Che hai visto?...». «Ho visto l’acqua incresparsi e le onde impallidire». «Non è vero. Mi hai disobbedito». Mandato una terza volta sulla riva, Bedivere esegue l’ordine. Prende la spada e la getta lontano, facendola vorticare sulla piatta superficie del lago. La lama risplende nella notte tracciancio in cielo un’argentea mezzaluna e ricadendo verso l’acqua, dal verso dell’impugnatura. Un braccio femminile emerse allora dalle profondità e la mano, aprendosi, l’afferrò strettamente. La brandí verso le stelle, scuotendola per tre volte in segno di saluto, e scomparve in un rigurgito di spuma. Questo raccontò di aver visto Bedivere quando Artú per la terza volta glielo chiese. Il volto del re, nell’udirlo, si distese in un sorriso.
«E adesso», disse, «accompagna pure me sulla riva». Faticosamente Bedivere ce lo condusse, piangendo, poiché sentiva che stava per morire. Una barca con molte damigelle di bellissimo aspetto a bordo, che indossavano abiti bianchi con neri cappucci, venne loro incontro dalle brume del lago. C’erano tra loro tre regine coronate, tra cui Artú riconobbe Morgana, stranamente dolce con lui, come riconciliata nell’epilogo lungamente desiderato. «Quanto mi hai fatto attendere, fratello...». Le altre, singhiozzando, aiutarono Morgana a distendere il corpo di Artú nella barca, Scoppiò a piangere anche Bedivere, che mai dal giorno della sua iniziazione cavalleresca si era separato dal suo re: «Mio signore», diceva, «che ne sarà di me senza di voi?». «Cerca la consolazione in te stesso, amico mio», rispose Artú, «perché su me non puoi piú fare affidamento. Vado ad Avalon, a curare questa mia ferita. Se non dovessi sentire piú niente di me, prega per la mia anima». Cosí salutò il suo piú fedele cavaliere Artú, con il capo sanguinante nel grembo di Morgana, mentre la barca si allontanava sul lago scomparendo nella nebbia. Brillavano poco lontano, illuminati dalla luna, i bianchi massi di Stonehenge. RE ARTÚ
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Ma l’Ordine vivrà per sempre La morte di Artú non cancella gli ideali della Tavola Rotonda, destinati ad affermarsi, nel tempo, come valori universali La morte di Artú, olio su cartone di James Archer. 1860. Manchester, Manchester Art Gallery. L’artista ha composto la scena ispirandosi al racconto dell’episodio cosí come viene narrato dallo scrittore inglese Thomas Malory nella Morte Darthur.
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opo la morte di Artú, Bedivere vagò affranto, in una cupa foresta. Passati molti giorni, vi scoprí un eremo, dov’era una tomba scavata di fresco. Seppe che vi era stato seppellito un gentiluomo portato da tre regine, e capí ch’era la tomba di Artú. Si dice che vi fosse incisa una lapide con l’iscrizione: «Qui giace Artú che fu re una volta e lo sarà in futuro». La si può porre in relazione con la voce popolare per cui Artú sarebbe un giorno tornato, con i suoi puri cavalieri, a salvare il mondo dalla degenerazione. Una fantasia che non sembra essersi estinta, a giudicare da ciò che ne scrisse lo storico ed esoterista francese Victor-Émile Michelet (1861-1938) nel suo saggio su Il Segreto della cavalleria (1930), indulgendo a favolistici entusiasmi: «Re Artú non è morto. Dorme nell’isola di Avalon, sempre atteso dai Britanni, con la spada Excalibur al fianco. Nemmeno Merlino è morto. Dorme il suo sonno nella foresta di Brocelianda, immerso nel verde, di Paimpont. La sua arpa è nascosta nella grotta di Fingal, in Scozia. Quando verrà l’Anticristo a tentare di appropriarsi del Santo Graal, Artú e Merlino si risveglieranno per proteggere il vaso sublime. Nuovi cavalieri si leveranno con loro per riprendere l’antica “cerca”. Anche se è molto improbabile che la sacra coppa possa trovarsi ancora tra noi», ammette questo fine esegeta dell’ermetismo cavalleresco, poiché «quando nessun mortale RE ARTÚ
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L’eredità della cavalleria
è piú degno di possederlo, il santo calice abbandona la Terra e sale al Cielo, dov’è sorretto dalle mani degli angeli».
Un segreto incomunicabile
Per Michelet, il fenomeno cavalleresco non verrà mai meno, poiché «questo mondo sprofonderebbe il giorno in cui non producesse piú un cavaliere». Si sforza, quindi, di spiegare e di tenere velato al tempo stesso quello che definisce il mistero della cavalleria, qualcosa di assolutamente incomprensibile né rivelabile a chi non lo conosce per esperienza diretta. Ne parla come di un segreto incomunicabile, ma non perché rimanga tale: è incomunicabile perché tentare di spiegarne con parole il succo sarebbe come voler descrivere il sapore di un’arancia a chi non l’ha mai gustato. Il mistero della cavalleria, pertanto, se non lo si vuole ridurre a un’asettica cognizione storica, è conoscibile soltanto attraverso una percezione 70
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naturale dei principi che sottintende. Principi semplici come la pietà e le altre belle cose di cui si parla nel giuramento della Tavola Rotonda, accessibili a chiunque nel loro significato comune, ma difficili da praticare per chi non ne avverte l’occulta necessità. In questo risiede anche l’attualità paradossale dello spirito cavalleresco, in apparenza cosí lontano dalla realtà contemporanea, ma fondato su valori mai desueti, come la solidarietà e la trasparenza; valori per niente trascendentali, che la comunità umana ripropone in ogni tempo, enfatizzandone la portata in un’ottica sociale che prescinde dal mutare dei costumi e delle idee. La loro universalità va oltre le contingenze storiche; ed è facile capirlo se si considera che la cavalleria, prima di essere una istituzione, fu un’idea. Della sopravvivenza di Artú come figura viva nell’immaginario popolare aveva parlato in questi stessi termini Thomas Malory, cinque secoli prima di Michelet, riferendo: «Dicono in
Miniatura raffigurante i funerali di Lancillotto, da un’edizione del Livre de Lancelot du Lac. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
molte parti dell’Inghilterra che re Artú non sia morto, ma che per volontà di Nostro Signore Gesú si trovi ora in altro luogo, e che da lí ritornerà...». Ginevra viene a sapere della morte di Artú nel convento di Almesbury, dove si è ritirata in clausura. Aveva detto nel vederlo partire, avvolto in una fosca coltre di nebbia verso l’ultima battaglia: «Gli anni diventeranno secoli e sul mio nome cadrà in eterno il disprezzo». Non sono passati che giorni. È ancora nel pieno tormento dei rimorsi che non ha avuto il tempo di sedare. Si chiude in una malinconia inesorabile, che la condurrà nel giro di pochi anni alla morte.
Il sogno di Ginevra
Mezz’ora prima di morire, Ginevra sogna che un sacerdote sta giungendo «piú in fretta che gli è possibile» per prendere il suo cadavere e seppellirlo accanto a quello di Artú. Esclama poi morendo, come a voler scacciare l’ultima pulsione d’amore per Lancillotto: «Invoco Dio onnipotente che non mi faccia mai piú rivedere Lancillotto con i miei occhi terreni». È una preghiera ambigua, che sottintende il desiderio d’incontrarlo all’altro mondo. Ginevra parla di «occhi terreni», che tra l’altro stanno per chiudersi. È un sacrificio retorico e tutto sommato assai mite. Si aspetta di potersi rifare con occhi celesti. Spira prima dell’arrivo del misterioso sacerdote che ha sognato, il quale non è altri che Lancillotto, fattosi eremita. Giunge con altri cavalieri ritiratisi come lui a vita religiosa nel cenobio di Glastonbury, dov’è sepolto re Artú. Vagano nella foresta circostante i cavalli lasciati da loro liberi nell’abbracciare la vita eremitica. Prendono il corpo di Ginevra e lo trasportano a Glastonbury, dove tuttora si dice che la coppia reale sia sepolta. Non appena l’amata viene calata accanto ad Artú nella tomba, Lancillotto sviene. È una debolezza che denuncia il persistere nel suo cuore di brandelli dell’antica passione. Un sant’uomo lo rimprovera per questo, e lui ammette sconsolato che la sua pena non avrà mai fine. «Se ricordo la sua bellezza e nobiltà, pari a quelle del re, e se vedo i loro due corpi giacere accanto, sento venire meno il mio cuore», dice Lancillotto, «e se penso che per mia colpa sono sepolti nella terra, raffronto la loro bontà alla mia malvagità...». Questi tremendi sensi di colpa – e i digiuni a cui si sottopone per attenuarne il peso – consumano rapidamente il gagliardo cavaliere di un tempo, che stenta ormai a tenersi saldo sulle gambe. Anche la sua morte, come quella di Ginevra, è preceduta da un sogno premonitore. Non è lui a farlo ma il vecchio priore, il quale si sveglia in piena notte – e sveglia gli altri confra-
telli –, in preda a una gioiosa eccitazione. «Ho sognato che ero insieme a Lancillotto», racconta commosso, «e c’erano piú angeli intorno a noi di tutti gli uomini che avremmo potuto incontrare in un giorno...». I confratelli trovano che non ci sia nulla di straordinario in tutto ciò, dato che è un sogno. Ma il vecchio insiste: «Ho visto gli angeli sollevare Lancillotto e trasportarlo fino alle porte del Paradiso, che al suo arrivo si aprivano in un tripudio di luce...». Cosí, sorridendo per la prima volta da quando si era ritirato nell’eremo, Lancillotto aveva varcato quelle porte, animato da una nuova, inverosimile felicità. «È un sogno come un altro», commentò un frate. «Non significa niente», disse un secondo religioso. «Andiamo a vedere come sta Lancillotto», consigliò un terzo. Lo trovarono che sembrava dormire, ma era morto. Aveva il volto disteso in un sorriso dal quale si capiva che era finalmente felice.
Miniatura raffigurante la morte di Artú per mano di Mordret, da un’edizione in lingua francese del De casibus illustrium virorum et feminarum di Giovanni Boccaccio, le cui illustrazioni vengono attribuite al cosiddetto Master of the Getty Froissart, artista attivo a Bruges sul finire del XV sec. Londra, British Library.
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L’eredità della cavalleria
Ciò che distingue Lancillotto da ogni altro cavaliere della Tavola Rotonda, ponendolo al di sopra di tutti anche quando viola i codici, è la sua straordinaria capacità di conciliare gloria e disonore, fino a morire in santità dopo avere provocato la rovina di quanto c’era di meglio, in fatto di generosità e purezza, sulla terra. Per comprendere l’immensità del danno provocato da lui e da Ginevra si deve infatti considerare che l’Ordine fondato da re Artú non aveva nazionalità né tempo, ma esprimeva un’armonia cosmica fondata sull’intreccio di tutte le piú nobili virtú.
Un’entità sovranazionale
Per comodità letteraria, lo si pone in bilico tra Francia e Inghilterra, distribuendone le sorti tra Piccola e Grande Bretagna, ma ogni sua relazione con regni effettivamente esistiti non è neanche casuale, è accidentale. Poiché nell’immaginario medievale la compagnia di Camelot rappresenta un’entità sovranazionale, multirazziale, sincretica, nella quale convivono le piú svariate utopie, sostenute dall’apporto della migliore cavalleria di ogni tempo e Paese. In questa luce, Artú è qualcosa di molto piú elevato di un re cavaliere: è la personificazione di un principio, e la sua cavalleria ne è lo strumento. Ne fanno parte gentiluomini provenienti da universi decisamente lontani, se non addirittura contrapposti a quello arturiano, come il saraceno Palomydes, l’irlandese Alano e il danese Ogier, che ritroveremo in pieno ciclo carolingio – quindi in altro tempo e in altro luogo, e anche in altra situazione – tra i baroni di Carlo Magno. Ne fanno parte re di fiabeschi reami, come Pellinore delle Isole, Leodagan di Camelerd e perfino Bandemagus di Gorre, padre dell’infido Meleagant. Ne fanno parte figli di re, come Galvano e i suoi fratelli, come Tristano, come Bors e lo stesso Lancillotto. La Tavola Rotonda, in definitiva, è una milizia indecifrata, nelle cui fila si alternano uomini di una purezza eccezionale – come Galahad e Percival – e altri dall’animo torbido, come Mordret, o vanaglorioso, come Kay. Ma non soltanto i cavalieri, anche i gregari esprimono doti stupefacenti o bizzarre nella grande armata di Artú, dove la magia è di casa. Ci sono, nella bassa forza, giovani in grado di attraversare un’intera foresta su per i rami, senza mai toccare terra, come Sgilt dal piede leggero; di colpire un passero in Irlanda tirando un sasso dal Galles, come Medyr; di sentire il risveglio di una formica nel silenzio dell’alba a trenta o quaranta leghe di distanza, come Clust. Si racconta di tre soldati che combatterono al 72
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fianco di re Artú l’ultima battaglia contro Mordret, sopravvivendo per ben strane ragioni a quell’immane massacro. Il primo si chiamava Sand, ed era cosí bello che nessuno tentava di colpirlo, credendo fosse un angelo; il secondo si chiamava Morgan, ed era tanto brutto che nessuno osava avvicinarglisi, scambiandolo per un diavolo. Il terzo non si sa bene perché se la cavasse: si chiamava Cynwyl e fu detto «il Santo», poiché era stato l’ultimo a vedere ancora nel pieno delle sue forze re Artú. Il carattere individuale delle imprese che s’intrecciano intorno alla Tavola Rotonda fa sí che diversi cavalieri si succedano nel ruolo di protagonista, compiendo azioni eroiche o meno, ma sempre tendenti a mostrarne in termini specifici la personalità, il temperamento, la capacità di coronare in ascesi la ricerca, quale che sia. Ed è per questo che, a differenza di quanto accade nel ciclo carolingio, poemi e romanzi di quello arturiano si articolano su un tessuto eterogeneo di storie parallele o sovrapposte, i cui personaggi vanno visti e compresi nella loro particolarità. Il che consente a ciascuno di esprimere autonomamente, nell’ambito della propria avventura, quell’incantata «meraviglia» che è il fine di chi ne canta le gesta.
Fra generosità e misericordia
Ostacola il piú delle volte l’evolversi naturale della trama lo stridore, nell’animo di un medesimo cavaliere, di tendenze opposte. Sono gli stessi codici cavallereschi a provocarle nella loro complessità, prescrivendo le pratiche di virtú che spesso si elidono o addirittura confliggono. Lo dimostra lo stato di lacerante indecisione in cui viene a trovarsi Lancillotto, il piú sensibile alle contraddizioni, ma anche, e di gran lunga, il piú abile nel superarle, allorquando deve scegliere se far prevalere, a conclusione di un duello, la generosità (largesce) o la misericordia (pitiez). Ha appena atterrato un nemico di ragguardevole forza, ponendo cosí termine a una tenzone incerta fino all’ultimo. Una fanciulla si fa avanti chiedendogli in dono (don) la testa del vinto, che l’ha in precedenza oltraggiata. Lancillotto solleva la spada con due mani per esaudirne il desiderio, ma l’uomo implora pietà. Entrano cosí in conflitto due forze ispirate da principi opposti e in eguale misura vincolanti per un cavaliere. Se respinge la richiesta della ragazza, viene meno la generosità; se uccide il nemico, battuto, viene meno la pietà; ma né l’una, né l’altra possono essere disattese. Piú del dilemma di Lancillotto contano i toni accorati con cui Chrétien de Troyes lo descrive,
Nella pagina accanto Sir Galahad, olio su tela di George Frederick Watts. 1860-1862. Harvard, Harvard Art Museums, Fogg Museum.
CAVALIERI VOLANTI Gli ultimi a incarnare per gli Inglesi lo spirito di Artú furono i piloti della RAF (Royal Air Force, l’aeronautica militare del Regno Unito) nella battaglia d’Inghilterra, dall’agosto 1940 al maggio 1941. Come gli antichi cavalieri, questi uomini combatterono contro un nemico che incarnava il male nella sua forma piú estrema dell’odio politico e razziale, della volontà di sterminio, del ricorso alla forza contro il diritto. In molti si erano scelti come emblema la spada Excalibur o il drago di Artú. Non erano che settecento guerrieri erranti sulla Manica, in attesa di sacrificarsi in una lotta tra le piú impari della storia. I Tedeschi attaccarono con oltre 3000 aerei (per metà bombardieri e metà caccia). Gli Inglesi disponevano solo di 700 caccia. Ebbero perdite tremende, ma vinsero, procurando alla Germania la sua prima, umiliante sconfitta. Disse Winston Churchill di questi piloti, perlopiú giovanissimi, che mai, nella storia un popolo, si era trovato a dover ringraziare a nome delle future generazioni un numero cosí ristretto di eroi.
dai quali si desume in che prigione possa venirsi a trovare – prigione, dice proprio cosí – chi ritiene di dover osservare a ogni costo l’etica cortese. «Lo stringono in questa prigione generosità e pietà», lamenta Chretién, esprimendo un disagio che è piú suo che dell’eroe, «dandogli un tormento cosi forte da trasformare ciascuna in pena e sprone. Vorrebbe accordare all’uno e all’altra ciò che chiedono: generosità e pietà impongono di esaudire entrambi...». Ma come fare? «Se la damigella porterà con sé la testa sarà sconfitta la pietà, se non l’avrà sarà sconfitta la generosità». Ricordandosi ciò che Viviana gli aveva insegnato sulla morte, che nessun cavaliere doveva compiere un’azione disonorevole per timore, Lancillotto risolve la questione rimettendo in gioco la propria vita: concede al vinto la grazia e lo sfida nuovamente a duello, per poi tagliargli la testa e farne dono alla fanciulla. È una soluzione rischiosa, data la forza dell’avversario, ma la sola che gli consenta di conciliare le inderogabili necessità della largesce e della pitiez. RE ARTÚ
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Bello come un angelo
A
Lancillotto, che aveva fallito per
La Tavola Rotonda di re
umana imperfezione nella ricerca Artú e la curiosa favola Dopo essere stato fatto del Graal, toccò la ventura di arma- del Seggio Periglioso, cavaliere da Lancillotto, re cavaliere il giovane che l’avrebbe terzo quadro del ciclo portata a compimento e che, senza sulla ricerca del Graal ignaro che si tratti di che lui lo sapesse, era suo figlio. Accadde in un realizzato da Edwin Austin convento di suore, dove Lancillotto era stato Abbey per la Boston suo figlio, il giovane affabilmente ospitato insieme ai suoi cugini Public Library. Bors e Lionello, reduci da imprese diverse. A 1893-1902. Galahad scompare. Lancillotto le monache avevano riservato attenPer poi presentarsi a zioni speciali, preparandogli un letto principeGli avevano poi chiesto la grazia di armare Camelot, accompagnato sco. cavaliere un giovinetto da loro stesse allevato con il piú trepido affetto. da un misterioso Era Galahad, il quale non aveva nemmeno l’età vecchio dalla barba e per la cavalleria. Parve tuttavia a Lancillotto, nel guardarlo in viso, che avesse tutte le doti per dall’abito bianchi: è entrare a farvi parte. «Questo ragazzo è la nostra gioia, la nostra consol’inizio di una nuova lazione e la nostra speranza», disse la badessa, «e siamo certe che non possa ricevere l’Ordine della serie di eventi cavalleria da gentiluomo piú perfetto di voi». prodigiosi... Lancillotto non aveva mai visto un ragazzo di 74
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aspetto piú forte e gentile al tempo stesso. «Nel nome di Dio», rispose, «farò quel che chiedete». Impose quella notte al neofita, come prevedeva il rituale dell’investitura, una veglia d’armi e di preghiera. All’alba, poi, lo fece cavaliere, battendogli la spada di piatto in testa e sulle spalle, gli cinse l’arma in vita e gli disse che Dio l’accoglieva nell’Ordine della cavalleria per la sua bellezza, nonostante fosse ancora un adolescente. Galahad aveva in effetti un’espressione angelica nel viso dai lineamenti regolari e un’aitante figura. Promanava dai suoi occhi una densa e luminosa energia.
Iniziato dal padre
Lancillotto gli calzò uno dei suoi speroni d’oro, e Bors l’altro. Cosí Galahad venne iniziato alla cavalleria da suo padre, che non sapeva di esserlo. Non poteva infatti riconoscere in quel ragazzo mai veduto prima il figlio avuto dalla principessa Elaine di Corbenk, figlia di re Pelles, detto anche il Re Pescatore, la quale lo aveva affidato alle suore di un convento. Ma il Re Pescatore era anche il signore del castello del Graal, il cui nome, Corbenic, voleva dire in caldeo «Santissimo Vaso», ed Elaine la sua vestale. È per questo, con ogni evidenza, che Galahad irrompe giovanissimo tra i cavalieri della Tavola Rotonda, ordinato cavaliere
dall’ignaro genitore, quale predestinato alla ricerca dell’inestimabile reliquia. Terminata la cerimonia dell’investitura, dovendo Lancillotto ripartire con Bors e Lionello per Camelot, chiese a Galahad se intendeva seguirlo alla corte di re Artú. «No», rispose Galahad, senza fornire alcuna spiegazione, «non verrò». Lancillotto si rivolse allora alla badessa: «Ditegli voi di seguirci. Come cavaliere, gli servirà piú stare a corte che in convento». «Verrà, ma non subito», rispose la badessa. «E quando?». «Quando sarà giunto il momento». Era evidentemente al corrente del destino a cui Galahad era chiamato per discendenza dal Re Pescatore. I tre cavalieri lasciarono cosí l’abbazia prendendo la via di Camelot, ma sia Bors che Lionello sembravano animati da una strana curiosità, che induceva entrambi a scrutare il viso del cugino con un’attenzione insolita. «Non ho mai visto», disse a un tratto Bors, «qualcuno che assomigliasse tanto a Lancillotto». «Sembra del nostro stesso lignaggio», gli fece eco Lionello. «Potrebbe trattarsi di Galahad, messo al mondo dalla bella figlia del Re Pescatore», aggiunse Bors, con il palese intento d’indurre Lancillotto a dire la sua. Ma Lancillotto tacque. RE ARTÚ
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Galahad
Miniatura raffigurante Galahad che riceve la spada e uno sperone d’oro durante l’ordinazione a cavaliere, dal frontespizio del terzo libro di un’edizione del Roman de Tristan de Léonois illustrata da Évrard d’Espinques. 1463. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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«Porta splendidamente in viso», insistette Bors, «tutti i segni della nostra famiglia». «Sembra anche a me», assentí Lionello, lanciando un’occhiata allusiva al profilo di Lancillotto, il quale però non disse nulla.
Il segno premonitore
Quando giunsero al castello, trovarono Artú e gli altri cavalieri in preda a una grande emozione, per avere ricevuto un segno che preannunciava straordinari eventi. Era comparsa nell’acqua dello stagno antistante il palazzo reale una pietra galleggiante di marmo vermiglio, nella quale era infissa fino all’elsa ingioiellata una spada. Brillava sull’impugnatura una scritta a lettere d’oro: «Nessuno mi estrarrà da qui se non il migliore cavaliere del mondo, al cui fianco devo pendere». È singolare come a questo punto della storia torni a proporsi qualcosa di già visto: una spada da estrarre – da una pietra in questa occasione, da una incudine molti anni addietro – per dimostrare la propria predestinazione a un’im-
presa eccezionale. Estraendo la portentosa Excalibur, Artú aveva dimostrato di essere il re designato dalla storia. Allo stesso modo, adesso, un ignoto cavaliere doveva candidarsi a un primato finora detenuto da Lancillotto a pieno titolo. La cosa piú stupefacente è che a nessuno, nemmeno ad Artú, venga spontaneo un commento, un cenno al precedente prodigio, che aveva oltre tutto segnato l’esordio del regno. Tutti si domandano chi debba provare a estrarre la spada, e la loro curiosità non va oltre. Lo stesso Artú parrebbe in preda a una certa indecisione. Alla vista di Lancillotto appena sopraggiunto, gli dice: «Questa spada è vostra di diritto, perché so che siete il migliore cavaliere del mondo». «No, non mi appartiene», si schermisce Lancillotto, «e non tenterò di estrarla. Sarebbe un inutile azzardo, dato che non ne sono degno». «Provate lo stesso, e vedremo se riuscirete». «No, sire. Non lo farò. Un tremendo castigo colpirà chi tenterà senza riuscirci». «Come fate a saperlo?».
«Lo so per certo. Come so che sta per cominciare la grande avventura del Graal». Senza capire che cosa intendesse dire, né volendo insistere oltre, il re si volse a Galvano: «Provate voi, caro nipote». «Permettetemi di rifiutare, mio sire», rispose Galvano, «visto che anche Lancillotto ha rifiutato. Non ho nessuna possibilità di riuscirci, se lui che è tanto migliore di me non vuol provarci». «Provate lo stesso. Non per la spada, ma per far piacere a me».
Sforzi inutili
Galvano a malincuore obbedí, poggiando la mano sull’impugnatura e tirando con forza, ma inutilmente. Il re l’invitò allora a desistere: «Rinunciate, mio buon nipote. Avete obbedito quanto basta». «Caro Galvano», interloquí a questo punto Lancillotto, «questa spada ti toccherà tanto da vicino da farti desiderare di non averla mai sfiorata, neanche in cambio di un castello». «Quand’anche dovesse costarmi la vita», disse Galvano, «l’ho fatto per assecondare la volontà del mio re». Artú fu toccato da queste parole, e perché Galvano non fosse il solo ad avere tentato di estrarre la spada invitò Percival a provare. «Lo faccio con piacere», disse Percival, «ma solo per tenere compagnia a Galvano». Provò, senza riuscirci; e visto che i migliori cavalieri avevano fallito, nessun altro volle tentare, dando ragione a Lancillotto. «Credo che ora possiamo andare a pranzo»,
In questa pagina ancora due miniature del frontespizio del terzo libro di un’edizione del Roman de Tristan de Léonois illustrata da Évrard d’Espinques. 1463. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra Galahad estrae la spada dalla pietra vermiglia che galleggia nel lago. In basso il torneo dei cavalieri della Tavola Rotonda organizzato da Artú a Camelot per celebrare la comparsa della spada e l’annuncio dell’apparizione del Santo Graal.
disse il siniscalco Kay, «visto che l’avventura c’è stata». Era infatti consuetudine dei cavalieri della Tavola Rotonda non mettersi a mensa se prima non fosse accaduto qualcosa di straordinario, mirabolante o avventuroso, su cui intrattenersi a conversare durante il pasto; e questo fenomeno della spada nella pietra galleggiante lo era. Si avviarono dunque tutti a tavola, dove un altro prodigio li attendeva. Era miracolosamente comparsa sulla spalliera del Seggio Periglioso, il posto vuoto della Tavola Rotonda, destinato a colui che avrebbe dimostrato di essere il migliore dei cavalieri, questa scritta: «Quattrocentocinquantaquattro anni sono trascorsi dalla passione di Gesú Cristo, e il giorno della Pentecoste questo scranno deve trovare il suo signore».
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Galahad
Significava che bisognava mettersi alla ricerca del Graal, ma forniva anche un’utile informazione al lettore moderno, confermandogli che la saga di Artú andava collocata in epoca di gran lunga antecedente a quella storica della cavalleria. Quattrocentocinquantaquattro anni dalla morte del Cristo, piú trentatré di vita, facevano 487, una data che giustificava il collegamento di Artú alle vicende di Vortigern, Henguist e altri re barbarici, del tutto estranei all’universo cavalleresco di cui sarebbe diventato in seguito lo splendido protagonista. Una data, in breve, che confermava la matrice favolistica della saga e le funamboliche invenzioni di quanti ne avrebbero tratto materia letteraria, sette secoli piú tardi. La scritta suscitò nuova emozione tra i cavalieri che stavano per sedere ai loro posti. Anche per78
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ché la Pentecoste era quel giorno. In attesa dunque di altri segni, si decise di coprirla con un panno e tenerla celata fino a quando non fosse giunto il cavaliere designato a tanto onore. Il quale non si fece attendere.
Il cavaliere senza scudo né spada
Un prodigio ne annunciò l’arrivo subito dopo la prima portata. Porte e finestre si chiusero da sole, mentre la sala andava illuminandosi di una luce soffusa. Nello stupore generale, Artú parlò per primo: «Abbiamo visto cose strane quest’oggi, ma credo che stasera ne vedremo di piú strane». Comparve in quel momento un vecchio dalla barba e dall’abito bianchi, che conduceva per mano un giovanissimo cavaliere, senza scudo né spada, in armatura dello stesso colore
Miniatura raffigurante Galahad condotto al Seggio Periglioso, da un’edizione della Quête du Saint Graal (erroneamente attribuita a Walter Map) illustrata dal Maître du Lancelot. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
vermiglio del marmo galleggiante nello stagno. «La pace sia con voi», disse il vecchio agli astanti con un gesto benedicente. Poi, ad Artú: «Ti porto, sire, il Cavaliere Desiderato, nato dalla stirpe di re Davide e di Giuseppe d’Arimatea, grazie al quale dovranno compiersi molte meraviglie». «Siate il benvenuto», rispose Artú, «se le vostre parole sono vere. E sia benvenuto il cavaliere, se si tratta di colui che stavano aspettando». «Vedrete tra breve l’inizio di una bell’avventura», replicò il vecchio, aiutando il ragazzo a togliersi l’armatura e coprendolo di un mantello anch’esso vermiglio, foderato di ermellino. Lo condusse poi senza parlare al Seggio Periglioso, e tirò via il panno che lo ricopriva. La scritta era cambiata. Vi si leggeva: «Galahad». Il vecchio gli fece segno di sedere: «Ecco il vostro posto, mio signore». Lancillotto riconobbe allora nel giovinetto suo figlio, che aveva fatto quella mattina cavaliere. Una grande gioia gli esplose in cuore, e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Galahad intanto congedava il vecchio, ribadendo la propria identità: «Tornate pure donde siete venuto, e salutate tutti coloro che si trovano nella santa dimora del mio avo Pelles, il Re Pescatore». La voce dell’arrivo di questo straordinario cavaliere, che ora sedeva sul Seggio Periglioso, giunse alle stanze della regina. «È cosí giovane», riferí una damigella, «che ci si chiede donde gli venga un tale potere». Nessuno, infatti, era mai riuscito a sedere su quello scranno senza restare fulminato, storpio o privo di senno. «Dimmi, com’è fatto?», chiese la regina. «È bellissimo, ma incredibilmente giovane; e cosí somigliante a Lancillotto che tutti dicono provenga dal suo sangue». Allora Ginevra fu presa da un gran bisogno di vederlo, perché aveva capito che era nato da Lancillotto e dalla figlia del Re Pescatore. Se n’era molto crucciata un tempo, ma ora gli anni avevano stemperato la sua gelosia. Finito ch’ebbero di desinare, intanto, Artú volle condurre Galahad allo stagno nel quale galleggiava la pietra con la spada. Gliela mostrò, dicendogli che i suoi piú illustri cavalieri, quella mattina, avevano inutilmente tentato di estrarla. «Non c’è da stupirsi», rispose Galahad, «perché toccava a me questa impresa. Come vedete, sono venuto senza spada perché contavo su questa». Pronunciate queste parole, allungò la mano verso l’elsa dell’arma e senza sforzo l’estrasse. «Adesso», commentò, mettendosela al fianco, «non mi manca che lo scudo». «Dio ve ne manderà uno», disse il re, «come ha fatto con la spada».
Sopraggiunse in quel momento al galoppo su un cavallo bianco, come un’apparizione, una fanciulla con i capelli sciolti al vento. «Lancillotto», chiamò. «Eccomi», rispose lui, facendosi avanti. Lei lo guardò con una tristezza infinita, senza riuscire a trattenere le lacrime. «Hai visto quante cose sono cambiate da questa mattina? Eri il migliore cavaliere del mondo, e ora ce n’è uno migliore di te...». «Non me ne dolgo. Quest’avventura mi ha tolto di testa tante cose». L’amazzone si rivolse allora al re: «Vengo per annunciarti un onore senza eguali... Sai di che parlo?». Artú scosse negativamente il capo. «Parlo del Graal», proseguí lei, «che apparirà stasera nel tuo palazzo per nutrire del suo cibo i compagni della Tavola Rotonda». Esaurito il messaggio, la ragazza riprese il galoppo e disparve.
Un torneo memorabile
Frastornato da questo incalzare di miracolosi eventi, Artú decise di tenere occupati fino all’ora di cena i cavalieri in un torneo di cui lasciare il ricordo nei secoli. Vi partecipavano infatti meravigliosi gentiluomini, destinati a restare insuperati nella leggenda della cavalleria. Si giostrò per l’intero pomeriggio sui prati di Camelot, fino a quando quasi tutti i cavalieri furono battuti da Galahad, che spezzava lance su lance. Non vi era piú nessuno in sella al tramonto, salvo Lancillotto e Percival, i soli che avevano resistito ai colpi di Galahad, contraccambiandoli. Artú ordinò allora d’interrompere la gara e di rientrare nel castello, non ritenendo che cavalieri di tale valore dovessero cimentarsi oltre. Il popolo si strinse festoso intorno al corteo, per vedere da vicino il cavaliere che avrebbe portato a Camelot – cosí si credeva – il tesoro piú prezioso del mondo. Quando Galahad si tolse l’elmo mostrando le sue dolci sembianze di virile adolescente, la regina indugiò a guardarlo in attonito silenzio. Rivolta poi alla damigella che gliene aveva inizialmente parlato disse: «Sí, è davvero il figlio di Lancillotto, perché non ho mai visto due volti cosí somiglianti. Non c’è quindi da stupirsi che sia cosí valente». «Volete dire che anche il valore lo si acquista per nascita?». «Certo, quando si è figlio del miglior cavaliere del mondo». Merita di essere meditata, quest’amorevole ma fragile battuta, riferita a Mordret, figlio del buon Artú e, ciononostante, incarnazione di ogni male. RE ARTÚ
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La piú desiderata tra le reliquie Dopo la sua prodigiosa ma effimera apparizione, il Graal diventa l’obiettivo principe dei cavalieri della Tavola Rotonda. Che si mettono dunque alla sua ricerca
Sir Galahad, olio su tela di Arthur Hughes. 1894 circa. Collezione privata. 80
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uando fu l’ora di cena e i cavalieri sedettero alla Tavola Rotonda, si udí un tuono cosí potente da far temere che le mura potessero crollare. Si insinuò poi nella sala un raggio di sole che inondò di una luce intensissima i presenti, come se stesse per avvolgerli lo Spirito Santo. Era proprio la sera della Pentecoste, e tutti, all’unisono, pensarono alla mistica cena di quattrocentocinquantaquattro anni addietro. Apparve in quel momento, avvolta di seta bianca, un’immagine levitante del Graal. La sala «si riempí di buoni profumi, come se tutte le spezie del mondo vi si fossero sparse», si legge nella «cerca» falsamente attribuita a Mastro Map (Walter Map, scrittore di origine gallese, 1140 circa-1208/1210, n.d.r.), mentre la visione compiva il giro della sala. I piatti di ogni commensale si riempirono al suo passaggio, ma la cosa piú sorprendente fu che davanti a ciascuno comparvero i cibi che lui aveva mentalmente desiderato e richiesto in quel momento. E quando tutti furono serviti, la santa coppa disparve. Alimenti di sapore cosí straordinario, cosí variato da cavaliere a cavaliere, erano una sicura allegoria della grazia con la quale Dio voleva nutrirli per mostrare la sua benevolenza in quella Pentecoste. Artú lo disse: «È un segno d’amore, del quale dobbiamo gioire». La gioia (joie) è nella cavalleria espressione di felicità o commozione. Un cavaliere piange di gioia laddove la gente comune si limita a fare festa. Non piange nella sconfitta o nel lutto, evitando di dare spettacolo del proprio dolore. Tutti si uniformarono quindi all’invito di Artú, magnificando l’infinita bontà del Signore con accenti di profonda gratitudine.
Una voce fuori dal coro
Uscí dal coro Galvano, formulando d’improvviso un giuramento che contribuí a eccitare gli animi: «Faccio voto per me stesso d’iniziare domattina la Ricerca e di protrarla per un anno e un giorno, e anche piú se necessario...». Si fece silenzio in sala, e la gioia parve dissolversi nell’aria. «Giuro di non tornare a questa corte», riprese Galvano, «se non dopo avere visto in maniera piú sensibile ciò che ci è stato appena mostrato». Era il desiderio di conoscere il Graal nel suo mistero, al quale si accompagnava in molti casi la letale tentazione di poterlo possedere. Era il desiderio piú difficile da controllare, poiché i piú puri intenti rischiavano in esso di vanificarsi nell’ambizione e nell’orgoglio. Altri ne furono attratti, giurando come lui di dedicarsi all’impresa del Graal, decisi a non piú tornare prima RE ARTÚ
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di essersi seduti alla tavola in cui si serviva ogni giorno quel cibo divino. Animati dalle piú diverse sollecitazioni, anche se principalmente dalla fede, giurarono tutti. Artú ne fu sconsolato. «Ah, Galvano», si lamentò, «con questo giuramento mi vuoi morto, perché mi privi della migliore compagnia del mondo. Quanti dei miei cavalieri faranno ritorno? Quanti morranno?... Ah, Galvano, non immagini come ciò mi pesi. Li ho istruiti e amati come figli o fratelli, con ogni mia energia. Come figli o fratelli mi mancheranno». Il suo sguardo si fece indicibilmente triste, da gioioso che era fino a qualche attimo prima. «Mi ero abituato alla loro compagnia», disse, «e non so proprio come farò a sopportarne l’assenza». Galvano tacque, e il re allora lo apostrofò severamente: «Tu mi hai tradito, Galvano... Hai fatto piú male oggi alla cavalleria di tutto il bene che le hai procurato in passato. Non potrò piú gioire, né dominare la paura di perdere per sempre i miei fratelli». Tentò di risollevarlo Lancillotto, ricordandogli che un cavaliere non deve concepire nel cuore la paura, ma l’azzardo e l’ardimento, senza perdere mai la speranza. «E quand’anche dovessimo morire in questa “cerca”», disse, «non riesco a immaginare un onore piú grande». La notizia del giuramento e dell’imminente partenza dei cavalieri, intanto, raggiunse le
In basso miniatura raffigurante la partenza di un gruppo di cavalieri per la crociata, da un’edizione della Quête du Saint Graal. 1280 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
stanze delle donne, che caddero nella piú disperata costernazione. Dominando la propria emozione, Ginevra chiese chi fossero i partenti. «Tutti», le fu detto. «Anche Galvano, anche Lancillotto del Lago?» «Sí, certo. Galvano ha giurato per primo, e subito dopo Lancillotto. Non c’è nessuno della Tavola Rotonda che non abbia fatto voto di partire». La regina allora non riuscí a trattenere le lacrime. Le altre dame si unirono al suo pianto, mentre il re premeva su Lancillotto in un ultimo vano tentativo di modificare il corso degli eventi.
La curiosità di Ginevra
Al mattino, ai rintocchi della Messa, i cavalieri si recarono tutti in cappella già in armi. Li raggiunse la regina con le sue dame, che sembravano in lutto per l’angoscia di perdere i propri uomini. Ginevra fece chiamare in disparte Galahad con il pretesto di voler conoscere meglio, prima della partenza, il cavaliere che si era seduto indenne sul Seggio Periglioso, Voleva in realtà spingerlo a parlarle di suo padre. Voleva sentire quale legame ci fosse stato in realtà tra Lancillotto ed Elaine, e da che specie di amore fosse stato generato il loro figlio. 82
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IL PANE INNANZITUTTO I cavalieri alternavano i banchetti a frequenti digiuni, che rientravano nelle pratiche di devozione. Messi da parte i gusti di corte, i cavalieri erranti si nutrono frequentemente di quel poco di pane e acqua offerto loro dagli eremiti, rifacendosi quando sono ospiti nei castelli, dove c’è dovizia di cacciagione, animali da cortile e in specie carne di maiale. Non si mangia carne di cavallo se non in caso di stretta necessità, né di manzo o di montone, trattandosi di animali preziosi per il lavoro nei campi e per la lana. Assai apprezzati sono i pesci, perlopiú d’acqua dolce, e si consumano anche cetacei (la balena è considerata pregiata per la sua rarità) e talvolta ostriche cotte. Per il resto, la cucina di un piccolo aristocratico medievale è piú vicina a quella di un ricco contadino che non a quella di un re. In tavola c’è molto pane per accompagnare le zuppe, uova e pollame – in prevalenza oche – formaggi, latte, pesce secco o affumicato. Il pane, in tutte le sue varietà, rimane la base del nutrimento medievale ed è sempre presente nella bisaccia sia del pellegrino che del cavaliere errante.
Gli chiese da dove venisse, dove avesse trascorso l’infanzia, e da quale stirpe discendesse. Galahad rispondeva evasivamente, senza fare cenno ai suoi genitori. Ma piú andava avanti, piú Ginevra si convinceva che era davvero il figlio di Lancillotto, al quale somigliava non soltanto nei lineamenti e nella prestanza fisica, ma nei gesti e nei piú insignificanti atteggiamenti, soprattutto per il modo con cui si sottraeva alla sua curiosità. E poiché voleva sentirglielo dire apertamente, glielo chiese in modo esplicito: «Qual è il segreto della vostra nascita? Chi è vostro padre? Dev’essere certamente un grande cavaliere...». «Non so», rispose Galahad, «non lo conosco». «È chiaro che non volete rivelarmelo», disse Ginevra rammaricata, «eppure se fossi al vostro posto non mi vergognerei a nominare mio padre, perché si tratta senz’altro del piú bel cavaliere che esista, del piú nobile di animo e del piú generoso, del piú coraggioso, del piú meritevole d’ogni encomio...». «Visto che ne siete cosí certa, mia regina, perché non provate voi a dirmelo?». «Con piacere. Se a voi costa tanta fatica, sarò io a dirvelo: vostro padre è Lancillotto del Lago, figlio di re Ban di Benoic, il piú bello, il piú gentile, il piú amato cavaliere di questi nostri tempi. Non mi sem-
Miniatura raffigurante, sulla sinistra, Artú che conversa con i suoi baroni, mentre Lancillotto e Ginevra parlano sotto voce alle sue spalle, e, sulla destra il re e la regina che presenziano a un banchetto, da un’edizione del Lancelot du Lac realizzata in Francia. Inizi del XIV sec. Londra, British Library.
bra giusto che vogliate tenerlo celato, perché non potreste essere nato da gentiluomo piú degno...». «Ma signora, visto che lo sapete tanto bene, perché me lo chiedete?». Cosí, con una certa freddezza, si concluse l’approccio della regina con Galahad, il quale raggiunse gli altri in chiesa. Il prete, durante la Messa, chiese al re se non ritenesse opportuno che i cavalieri ripetessero, prima di partire, il giuramento sulle sacre reliquie conservate nella cappella reale. Artú acconsentí con rassegnato distacco. «Sí, se volete, dato che non può essere altrimenti».
Un incontro fugace
Ginevra incontrò fugacemente Lancillotto, prima che venisse abbassato il ponte levatoio. Egli le chiese allora di dargli il suo consenso. «Non me ne andrò» disse «senza aver avuto il tuo permesso». «Sai bene», rispose mesta la regina, «che se dipendesse dal mio assenso non partiresti mai... Prego comunque Dio che ti salvi e ti protegga, dovunque tu vada». Si congedarono cosí, con indicibile amarezza, tra i nitriti dei cavalli appena bardati e i lampi delle armature. Ebbe inizio in tal modo la piú inverosimile impresa cavalleresca di ogni temRE ARTÚ
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po, generata da un’illusione molto simile a una generosa follia. Come avevano deliberato nel corso della notte, i cavalieri si separarono non appena ebbero superato il borgo circostante le mura, disperdendosi per sentieri diversi nella foresta. All’inseguimento di un sogno che ne condusse molti alla morte, qualcuno alla gloria. Ne nacquero numerose storie, indipendenti e collegate tra loro, che non ebbero sempre a che fare con il Graal, ma, nell’insieme, generarono un inesauribile repertorio di meravigliose avventure. Galahad fu l’unico di tutti i cavalieri a partire senza scudo, consapevole com’era che avrebbe dovuto trovarselo da solo, poiché ce n’era uno d’origine sovrannaturale – come la spada che cingeva – destinato a lui soltanto. Non aveva idea di dove potesse trovarsi, e per questo si affidò al caso, cavalcando per quattro giorni nella foresta, senza che gli accadesse nulla di notevole. Al quinto s’imbatté in un’abbazia, i cui monaci lo accolsero cordialmente, com’erano soliti fare con i cavalieri erranti. Fu piacevolmente sorpreso nell’incontrare in convento due compagni della Tavola Rotonda, Ivano il Bastardo e re Bandemagus, con i quali s’intrattenne a chiacchierare dopo cena. Chiese a entrambi che cosa li avesse spinti in quel luogo. Risposero che c’era uno scudo miracoloso, del quale si diceva che nessuno potesse portarlo senza restare ucciso o gravemente ferito. Era loro giunta questa voce ed erano accorsi per verificarla. L’indomani mattina avrebbero provato lo scudo. E cosí fecero. Il giorno seguente, subito dopo la Messa, Bandemagus chiese al priore di poter prendere lo scudo. Il frate ne fu scosso.
LA PIETÀ DI GIUSEPPE A Robert de Boron si deve la fusione del tema celtico e cavalleresco del Graal con la tradizione evangelica, sia pur apocrifa: «Nella casa di Simone c’era un vaso di pregevole fattura nel quale Gesú celebrava il proprio sacramento. Quando fu trascinato via per essere portato innanzi a Pilato, un Giudeo lo trovò, lo prese e lo tenne con sé»; la coppa viene donata a Pilato e da questi a Giuseppe d’Arimatea che «mentre Lo lavava vide il sangue stillare chiaro dalle piaghe sanguinanti e (...) corse a prendere il vaso e l’appose là dove il sangue colava, pensando che fosse il recipiente piú degno di raccogliere le gocce che vi sarebbero cadute». Per molti, il Graal diviene allora il calice della
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celebrazione eucaristica e il vaso che raccoglie il sangue stillato dalle ferite del Cristo. Tuttavia, il Giuseppe d’Arimatea proposto da Robert de Boron non deriva direttamente dai Vangeli sinottici, ma da quelli apocrifi: in particolare, quelli di Pietro e di Nicodemo; quest’ultimo ne fa il primo testimone della Resurrezione del Cristo, che lo battezza e lo benedice. Le pagine dei Padri della Chiesa sui passi evangelici che lo riguardano, gli garantirono una certa fama anche nel mondo medievale: il personaggio di Giuseppe d’Arimatea compare, infatti, in numerosi exempla di predicatori e poi nel repertorio degli enciclopedisti. Rimane però oscuro il passaggio che lo vide trasformarsi nel custode del Sacro Calice.
«Perché volete correre un rischio di questo genere?». «Per vedere se possiede veramente i poteri che si dicono». «Ve lo sconsiglio. Non ne riceverete che danno». «Comunque sia, voglio vederlo». Il frate lo accontentò, conducendolo in una cripta dietro l’altare maggiore, dov’era custodito questo famoso scudo, interamente bianco con una croce rossa. «Eccolo», disse il monaco. I tre cavalieri lo guardarono ammirati, poiché era molto bello, ed emanava un profumo che sembrava la quintessenza di tutti gli aromi del mondo. «Non oserei mai servirmene», disse Ivano. «Non me ne sento degno». «Io sí», disse Bandemagus, «qualunque cosa possa accadermi». Ciò detto l’imbracciò, assicurandoselo al collo. Si volse quindi a Galahad chiedendogli di aspettarlo. «Tornerò presto a riferirti l’esito di quest’avventura». Non fu un esito felice.
Assalto improvviso
Miniatura raffigurante Giuseppe d’Arimatea che raccoglie in un calice il sangue di Cristo, da un’edizione della Quête du Saint Graal illustrata dal Maître des Cleres Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Bandemagus cavalcò per appena un paio di leghe, seguito da un paggio che il frate gli aveva raccomandato di portarsi dietro nell’eventualità di una disgrazia. E questa venne d’improvviso, quando un cavaliere sbucato come un turbine dagli alberi gli si precipitò contro lancia in resta. Bandemagus non ebbe il tempo di evitarlo, né di accennare una difesa. La lancia gli volò in pezzi nell’urto e l’altro gli volteggiò intorno colpendolo di spada con tale violenza da tranciargli la cotta di ferro e frantumargli in profondità la spalla sinistra. Mentre Bandemagus cadeva, il misterioso cavaliere gli strappò via lo scudo, gridandogli con voce tremenda, senza mostrare il volto: «Fosti stolto e insensato a portare questo scudo, perché nessuno ne ha diritto se non il migliore tra tutti!...». «Chi ti manda?», chiese Bandemagus, paralizzato al suolo. «Dio, per punire la tua arroganza». Chiamò quindi il paggio, che aveva assistito terrorizzato alla scena, e gli diede lo scudo: «Portalo a chi ne ha diritto, al buon soldato di Cristo che attende nell’abbazia. Portalo a Galahad, e digli che il Grande Maestro lo saluta». «Chi devo dire che mi manda?». «Il mio nome non posso dirlo, né a te né a nessun altro». «Ditemi almeno la verità su questo scudo». «Questo sí, te lo dirò, ma non da solo. Torna col cavaliere a cui lo avrai consegnato e lo saprai». Il ragazzo soccorse Bandemagus, mentre il cavaliere senza nome scompariva nel verde da cui era venuto. La ferita era profonda. Il paggio lo aiutò, trascinandolo fino al cavallo e
ponendolo in sella, dove lo assicurò con delle cinghie. Il tragitto fino al convento fu per lui penoso a causa delle fitte che lo sconquasso alla spalla gli procurava. I frati lo attendevano certi che gli fosse accaduta una disgrazia e, non appena giunse, lo adagiarono in un comodo letto, esaminandogli la ferita, che parve a tutti tremenda. Galahad chiese a un monaco che sembrava intendersene di medicina piú degli altri se aveva possibilità di cavarsela. «Vivrà se Dio vorrà», rispose il frate, lasciando intravvedere qualche speranza. Il paggio intanto aveva reso a Galahad lo scudo, come gli era stato ordinato dal misterioso cavaliere. «Chi l’ha tolto a re Bandemagus vi manda il suo saluto», disse, «e vi invita nella foresta a nome del Grande Maestro, per spiegarvi la ragione di tutte queste meraviglie». Galahad montò in sella, impaziente di sapere: «Conducimi sul posto». Il cavaliere li aspettava sul sentiero lungo il quale aveva disarcionato Bandemagus. Si salutarono con grande cortesia. «Strane cose sono successe a causa di questo scudo», disse Galahad, «e voi di certo ne sapete la ragione». «Sí, la conosco, e voglio dirvela», rispose subito il cavaliere. «È una storia che comincia quarantadue anni dopo la passione di Gesú, quando Giuseppe di Arimatea, il gentile cavaliere che ne aveva deposto il corpo dalla croce, lasciò Gerusalemme per venire con la sua famiglia da questa parte del mare...». Iniziò cosí un lungo discorso, dal quale Galahad apprese che la croce rossa era stata tracciata da Giuseppe con il proprio sangue poco prima di morire, nell’affidare lo scudo a un re saraceno di nome Evelake, da lui stesso convertito. «Sarà sempre fresca e rossa come adesso», gli aveva detto, «fino a quando questo scudo durerà, vale a dire per molto, molto tempo ancora...». Lo aveva quindi avvertito di conservarlo gelosamente, perché nessuno avrebbe mai potuto portarlo «senza rimpiangere di averlo fatto», a eccezione di un cavaliere predestinato a servirsene per compiere un’impresa eccezionale. «Guai a chi avrà l’ardire d’imbracciarlo», aveva concluso, morendo, «prima di colui al quale Dio l’ha destinato». E cosí, secondo la volontà di Giuseppe di Arimatea, primo Grande Maestro della linea di sangue del Graal, si era compiuta la volontà di Dio proprio quel giorno, in apertura della mistica avventura della «cerca». «Ecco la ragione delle sciagure occorse ai cavalieri che avevano preteso di portare indenni questo scudo», disse il cavaliere senza nome, e come fosse d’aria disparve. RE ARTÚ
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Avventure edificanti Errando in cerca del calice, i cavalieri non vengono meno ai propri obblighi, intervenendo a difesa dei piú deboli, contro ogni sopruso
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ompletato con lo scudo crociato di rosso il proprio magico equipaggiamento, Galahad riprese la sua cavalcata solitaria, pregando il Signore di ispirarlo sulla via da prendere. Dal cielo una voce gli ordinò di recarsi in un luogo detto Castello delle Fanciulle per liberare chi vi era imprigionato. Fu facile trovare l’edificio, su un colle che dominava una gran vallata verde, attraversata da un fiume chiamato Severn. Ricevette le informazioni necessarie da un contadino, che gli consigliò di guardarsi da quel luogo maledetto. Galahad gli chiese perché. «Perché al suo interno non c’è pietà per nessuno», rispose il villano, «ma solo crudeltà e disonore». «Chi lo abita?». «Gente malvagia. Fate attenzione: statene lontano». Galahad controllò le proprie armi e galoppò
verso il castello. Gli vennero incontro sette ragazze, a cavallo di altrettanti corsieri riccamente bardati, facendogli segno di fermarsi. «Tornate indietro, cavaliere», intimò la prima. «Avete superato i confini», aggiunse un’altra. «Non ci sono confini che m’impediranno di arrivare al castello», rispose Galahad, continuando la corsa, «Nessun cavaliere ci è mai riuscito», gli gridarono dietro le ragazze. E, proprio in quel mentre, uscirono dalla fortezza sette cavalieri con le lance abbassate, pronti a caricare, intimandogli di mettersi in guardia: «Difendetevi, chiunque voi siate. Noi non sappiamo che significhi la parola misericordia!». «Come, volete battervi tutti e sette contro me solo?». «È cosí che si fa da queste parti». Non sapevano di avere di fronte il miglior cavaliere del mondo.
Il Castello delle Fanciulle, pittura murale realizzata da Edwin Austin Abbey per la Boston Public Library. 1895. Nella scena, l’artista immagina l’arrivo di Galahad al cospetto delle ragazze che erano state imprigionate dieci anni prima da sette malvagi cavalieri.
Galahad li lasciò avanzare, disarcionando il primo con un colpo di lancia cosí secco da rompergli il collo. Gli altri sei lo colpirono tutti insieme sullo scudo, spezzando cosí le proprie lance senza smuoverlo di sella. In tre caddero nell’urto. Non ne restavano ancora in arcione che tre. Galahad estrasse allora la spada colpendo ora l’uno ora l’altro, fino a separarli e ridurli a malpartito. La mischia si protrasse fino a mezzogiorno, poiché gli avversari di Galahad erano guerrieri fortissimi e ostinati. Si spaventarono però nel sentirsi le forze venir meno, dopo tante ore di combattimento, mentre il sangue filtrava copiosamente dalle maglie dell’armatura. «Non è un comune mortale», gridò atterrito quello che sembrava il piú malconcio, e fu come un segnale di fuga. Si allontanarono tutti di corsa,
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Cavalieri di giustizia
IL RE PESCATORE La comparsa del Re Pescatore nei romanzi arturiani coincide con l’introduzione del mito del Santo Graal. L’enigmatico personaggio, sofferente per un’infermità, viene descritto come l’ultimo discendente di una dinastia di re incaricati di custodire un oggetto dotato di poteri magici e taumaturgici. La menomazione fisica del sovrano, che ha determinato anche la decadenza delle sue terre, potrà essere sanata solo se qualcuno gli chiederà notizie del prodigioso oggetto: Percival, che incontra il re per caso, evita di porgli la domanda. Il nome assegnato al sovrano deriverebbe dal suo principale
passatempo quotidiano, la pesca nel fiume nei pressi del castello di Corbenic (la residenza del re in cui il Santo Graal era custodito), ma l’appellativo fu in seguito associato, in un’ottica cristiana, all’attività di proselitismo degli apostoli (definiti «pescatori di uomini») o anche al significato di saggezza di alcune specie ittiche nella mitologia celtica. Sempre secondo una lettura cristiana, l’infermità del Re Pescatore costituirebbe il simbolo dell’espiazione dei peccati. In altre interpretazioni la sua menomazione, generata da un colpo di lancia, viene collegata alla lesione subita al costato da Cristo, durante la crocifissione.
senza ritegno, portandosi dietro anche quello dal collo spezzato. Galahad non li inseguí, perché il suo scopo non era ucciderli ma liberare il Castello delle Fanciulle. Venne calato in quel momento il ponte levatoio e si fece avanti un canuto sacerdote con una chiave in mano. «Prendetela», disse il vecchio a Galahad, consegnandogliela, «perché da questo momento il maniero e tutti i suoi abitanti appartengono solamente a voi». Lui la prese e varcò il ponte a sua volta, penetrando nella rocca. Gli venne incontro una moltitudine di ragazze, tante da non poterle nemmeno contare, che lo acclamarono come un liberatore. Lo circondarono in preda alla piú intensa commozione, contendendosi l’onore di potergli tenere il cavallo per le briglie. «Sia benedetto Dio che vi ha mandato in questo luogo di dolore», disse una ragazza, «perché altrimenti nessuno ci avrebbe mai liberato». «Ma da chi?», chiese lui. «Chi è che vi teneva prigioniere?». «I sette che avete sconfitto, e che certamente torneranno se ci lascerete sole». «Ma perché? Chi sono?». Venne allora spiegato a Galahad che, dieci anni prima, quei sette cavalieri erano stati ospitati dal duca Lianour, signore del castello, e che l’avevano ricambiato con l’assassinio e il tradimento. Lo avevano ucciso e ne avevano violentato la figlia. Si erano impadroniti dei suoi beni, assoggettando la gente del contado. Avevano 88
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Sulle due pagine miniatura raffigurante, a sinistra, Percival che riceve una spada dalle mani del Re Pescatore, e, sulla destra, la processione del Santo Graal, da un’edizione del Perceval di Chrétien de Troyes. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
quindi messo insieme una banda di predoni, mettendo a ferro e a fuoco le terre circostanti. Ma la giovane figlia del duca Lianour, da loro imprigionata dopo la violenza subita, li aveva apostrofati con una fiera profezia: «Avete fatto tutto questo per una ragazza, e per una ragazza lo perderete». «In che modo?». «Verrà un cavaliere a liberarla, come voi l’avete imprigionata». I sette allora decisero di catturare da quel momento tutte le ragazze che passavano nei pressi del castello, credendo in tal modo di scongiurare il rischio che un cavaliere potesse liberarle tutte o individuare tra loro quella da salvare.
Tutti in festa per la liberazione
Mentre Galahad era intento ad ascoltare questo racconto, il castello cominciò a riempirsi di nobili e contadini, parenti delle fanciulle sequestrate, che venivano a festeggiare il loro liberatore. Galahad restituí la chiave della rocca alla figlia del duca Lianour, legittima erede di ogni cosa, e fece giurare ai feudatari della contrada di riconoscere questo suo diritto. Giunse infine, mentre si faceva festa, la notizia che i sette malvagi cavalieri erano stati uccisi. Si seppe poi che a eliminarli erano stati Galvano, suo fratello Gareth e Ivano, capitati sulla loro strada. A cercare lo scontro erano stati i sette fratelli, avendo riconosciuto in Galvano, Ivano e Gareth cavalieri di quel medesimo sodalizio della Tavo-
la Rotonda a cui apparteneva chi li aveva appena sconfitti. Decisi a vendicarsi, avevano attaccato a tradimento. Erano stati però affrontati con tale impeto da restare tutti uccisi al primo impatto. Un eremita rimproverò Galvano per questo, citandogli come modello di comportamento Galahad, che era capace di vincere un duello senza necessariamente protrarlo fino all’ultimo sangue. In quel modo, egli disse, Galahad aveva dato luogo a una perfetta parabola sull’inferno e la redenzione delle anime. Galvano non capiva la similitudine. «Spiegatemela», disse. L’eremita lo accontentò, illustrandogli in tutta semplicità che per Castello delle Fanciulle dovesse intendersi l’inferno, e che i sette malvagi cavalieri rappresentavano i sette peccati capitali. «E le ragazze da loro rapite?». «Esse sono anime virtuose, indebitamente trattenute all’inferno prima della Redenzione». Galvano parve molto impressionato. «Ma in questo modo Galahad...». Non finí la frase, incerto su quanto stava per dire. La finí per lui l’eremita: «Sí, Galahad in quest’avventura è come il figlio di Dio, mandato sulla Terra a redimere le anime pure, vale a dire, nel caso in questione, le innocenti damigelle». Queste avventure occorse a Galahad e altri compagni della Tavola Rotonda dimostrano come nell’ambito della «cerca» si sviluppassero azioni del tutto autonome rispetto al tema cen-
trale del Graal, destinate a produrre un intreccio eterogeneo e complesso, ricco di simboli e insegnamenti dal significato spesso occulto. È la peculiarità della letteratura d’ispirazione arturiana, i cui eroi sono splendidi o miseri protagonisti di avventure che, nell’insieme costituiscono il tessuto della saga, ma, prese una per una, diventano teatro intimo di questo o di quel personaggio, evidenziandone vizi e virtú.
L’importanza del saluto
Per comprenderne appieno le ragioni, bisogna tenere conto del fatto che ciascuno ha un proprio retaggio leggendario alle spalle, al quale si possono far risalire certi comportamenti altrimenti inspiegabili. Nel caso di Galvano, eroe incompleto per la sua incapacità di cogliere il senso profondo di quanto gli succede – come si è visto in riferimento al massacro dei sette cattivi cavalieri –, influisce certamente un episodio della sua prima giovinezza, quand’era stato appena ricevuto nell’Ordine della cavalleria. Sembra che un giorno, incrociando a corte una dama di un certo lignaggio, avesse trascurato per pura distrazione di salutarla, venendo cosí meno alle regole cortesi. Lei, sentendosi oltraggiata, gli aveva lanciato contro un sortilegio augurandogli di rassomigliare al primo uomo che avesse incontrato. Di lí a poco Galvano incrociò un nano ch’era stato figlio di re e che il maleficio di una strega aveva ridotto in quelle condizioni. L’incantesimo RE ARTÚ
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contro Galvano non era cosí potente da trasformarlo fisicamente in qualcosa di simile a quel nano; aveva però la forza di fargliene assimilare interiormente la mostruosità. Cosí Galvano imbruttí dentro, diventando deforme nell’animo. Ciò spiega anche la sua morte in duello con Lancillotto, per la smania di mettere a segno una vendetta che contraddiceva le piú elementari regole della cavalleria, sfidando all’ultimo sangue un compagno della Tavola Rotonda che gli aveva salvato un tempo la vita. E spiega inoltre il suo nobile anelito finale al perdono, che gli consente di liberarsi morendo dell’odio. Certi particolari dall’apparenza insignificante al lume del comune buon senso, come il mancato saluto alla dama e il maleficio che ne deriva, non vanno sottovalutati, ma presi per ciò che realmente significavano nell’ambito di un’ottica cortese. Nella quale non era il buon senso cosiddetto «comune» a prevalere, ma l’inderogabilità delle regole. Si comprendono, in questa luce, la gravità della «scortesia», sia pure involontaria, di Galvano – nel senso lessicale di cortesia negata – e la reazione risentita della dama. Nel loro ordine sociale, il saluto rappresentava un rito d’armonia, tendente a ravvivare la bellezza oltre che la forza dei legami. Trascurarlo denunciava insensibilità o malanimo. Ne derivava un inevitabile senso di malessere, dal quale venivano azionate quelle forze negative della natura che la dama in questione aveva diretto contro Galvano, sanando cosí la ferita riportata nell’orgoglio. Gli effetti dell’incantesimo furono comunque parziali, perché valse a frenarli il voto di salutare sempre le dame che Galvano fece in un’altra avventura. Perciò il suo spirito è solo per metà quello di un nano e per l’altra metà quello di un eroico gigante. Le dame costituiscono nell’ambiente cortese una pericolosa variante dei rischi che si incontrano in battaglia. Ne fece direttamente le spese Balaain, detto anche il Cavaliere dalle Due Spade, il giorno in cui alla corte di Artú si presentò un’allegra damigella proveniente dalla magica isola di Avalon, la quale si lamentava di una spada che portava al fianco e della quale non riusciva a liberarsi. «M’impedisce», diceva, «di gustare i piaceri della vita». In molti cavalieri si fecero avanti per liberarla di quella che era per lei divenuta una vera e propria cintura di castità. Ci riuscí finalmente Balaain, al quale la ragazza disse di tenere la spada in suo ricordo. «Badate: non separatevene mai», gli disse la fanciulla, «e porterete sempre in voi il potere della Morte». 90
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Vennero interrotti dall’arrivo di una seconda damigella, che, agitatissima, si rivolse al re chiedendo la testa della prima, nonché di Balaain, accusandoli di avere rispettivamente ucciso suo padre e suo fratello. Ma Balaain l’affrontò a propria volta e, avendo riconosciuto in lei l’assassina di suo padre, le tagliò il capo di netto. Artú ne fu indignato, indipendentemente dal fatto che la ragazza decapitata fosse o meno un’assassina, poiché trovava riprovevole il ricorso a una giustizia cosí sommaria nei confronti di una donna. Scacciò quindi dalla Tavola Rotonda l’impulsivo Balaain, che, per potervi essere riammesso, compí molte memorabili imprese, tra cui la cattura del tracotante re Rion di Northgalis, detto anche il «re delle barbe dei re» per essersi fatto un mantello con quelle dei sovrani soggiogati. Artú non era tra questi, ma Rion aveva ugualmente avuto l’ardire di chiedergli la barba con un provocatorio messaggio, in seguito al quale era esplosa tra i due regni una insanabile contesa.
Simboli facilmente decifrabili
Anche questa storia contiene un insieme di simboli facilmente decifrabili. La prova di Balaain è analoga a quella sostenuta da Artú con la spada nell’incudine e da Galahad con la pietra galleggiante. Lui l’estrae da un fodero al fianco di una donna, dovendo per questo competere con altri cavalieri e dimostrare di essere il migliore. Nel momento stesso in cui ci riesce, però, dà inizio al proprio declino con un’azione disdicevole. Balaain avrà sfortuna, da quel momento, tutte le volte che si prodigherà per una donna. Prende con sé la dama di un certo Cavaliere Bianco, ucciso con un colpo di lancia sferratogli alle spalle non si sa bene da chi, e la conduce in cerca del misterioso assassino. Altri cavalieri si aggiungono lungo il tragitto, e, ogni volta, il nuovo arrivato è trafitto alla schiena da un colpo di lancia. Balaain se lo vede cadere a fianco, mentre cavalcano insieme, senza mai scorgere l’aggressore, che lascia come unica traccia uno spezzone d’asta nel dorso del morto. Individuerà infine l’invisibile cavaliere in un gigante «crinito di rosso», di nome Garlan, fratello di Pelles, il Re Pescatore, la cui leggenda s’intreccia in piú occasioni con quella della Tavola Rotonda. Balaain conduce con sé al castello di Pelles la dama del Cavaliere Bianco, poiché vi sono ammessi soltanto gentiluomini in compagnia femminile, e durante un banchetto uccide il gigante spaccandogli il cranio con un fendente. Viene inseguito da Pelles e dai suoi armigeri, ma, fuggendo per il castello, trova una lancia
Nella pagina accanto miniatura raffigurante il Re Pescatore svegliato dall’apparizione di una figura ardente che lo colpisce con una lancia, da un’edizione dell’Estoire del Saint Graal realizzata in Francia. 1316 circa. Londra, British Library.
luminosa, con la quale si difende, procurando a Pelles una profonda ferita. A questo punto Balaain perde conoscenza, e, quando si risveglia, tutto è sparito intorno a lui. C’è solo Merlino, che lo avverte di avere colpito il Re Pescatore con la Lancia Meravigliosa della passione, causandogli la Piaga Dolorosa. Ne deriva una desolazione irrimediabile, alla quale soltanto la medicina del Graal potrebbe porre termine, restituendo le forze al re ferito. È una replica, se cosí possiamo chiamarla, della leggenda del Re Méhaigné o Magagnato, cioè ridotto per sua grave colpa in condizioni da non potersi piú muovere, che s’inserisce variamente in quelle del Re Pescatore, di Artú e della Tavola Rotonda. In comune con le altre versioni ha la sacralità della lancia che produce la ferita, indifferentemente dal fatto che a servirsene sia un cavaliere qualunque invece di un angelo, come accade altrove. La dama del Cavaliere Bianco è intanto morta, e sul capo di Balaain pesa una maledizione. Provoca un’altra tragedia nel tentativo di consolare un cavaliere in preda alla disperazione
perché la compagna lo ha lasciato. Tenta di riconciliarlo con la donna, ma gli fa invece scoprire che lei lo tradisce, scatenandone la gelosia. Con inevitabile tragedia finale: i due amanti vengono decapitati dal cavaliere tradito, che a sua volta si uccide. Il vagabondare di Balaain, Cavaliere dalle due spade, si conclude su un’isola turrita, dove per consuetudine chi sbarca è tenuto ad affrontare il Cavaliere della Torre. Balaain lo fa di malavoglia, maledicendo quest’usanza inutilmente cruenta. I due contendenti si feriscono a morte, cadendo l’uno accanto all’altro. Morendo, Balaain riconosce nell’avversario suo fratello Balaan. Darà loro sepoltura Merlino, deponendoli in un sepolcro sovrastato da un letto. Chiunque tenterà di dormirci perderà senno e memoria. Spezzerà questo incantesimo Lancillotto, con un anello donatogli dalla fata Viviana, Signora del Lago. Avrà in cambio la spada di Balaain, che non gli porterà fortuna: è l’arma con cui ucciderà, al termine di un duello non voluto, il suo amico Galvano. RE ARTÚ
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Tre per un privilegio Dopo un lungo peregrinare, tre dei valorosi «cercatori» giungono in vista della meta. Tuttavia, dopo gli ennesimi rovesci della sorte, soltanto uno di loro, Galahad, può finalmente guardare all’interno del Santo Graal e coronare con successo il suo percorso iniziatico
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re soli cavalieri giunsero al termine della ricerca che si poneva come traguardo la visione senza veli del Graal, ma che in effetti simboleggiava il raggiungimento di una piena coscienza di sé. Percorsero fino in fondo questo cammino di perfezione il giovane Galahad, il gallese Percival e Bors di Ganis, figlio di re Bors. Ma Galahad fu l’unico di questi tre compagni della Tavola Rotonda a raggiungere lo stadio estremo dell’iniziazione, reso allegoricamente nel racconto dall’inestimabile privilegio di poter guardare all’interno del santo vaso, fulgido «di rosso corallo palpitante, come se fosse vivo». Galahad non sopravvivrà a tanto splendore, avendo
esaurito in questa estasi finale la ragione stessa della sua venuta al mondo. Non giunge fino al Graal, pur essendo riuscito a vederlo, Lancillotto, impedito, come si è già detto, dallo stato peccaminoso in cui si era posto amando la regina. È tuttavia opinabile se questa possa considerarsi a tutti gli effetti un’esclusione, poiché Galahad è suo figlio ed erede di un retaggio personale che solo lui poteva trasmettergli. Non a caso, Galahad, quando giunge a Camelot, assume il titolo di Miglior cavaliere del mondo, che prima era del padre. Non a caso, una fanciulla irrompe a cavallo, quando ciò accade, per annunciare che la successione si è compiuta e che Lancillotto non è piú il Migliore. Non a caso, il vecchio che presenta Galahad a corte ne rievoca i natali. La stessa unione di Lancillotto con la vergine del Graal, per quanto sacrilega, è necessaria perché si compia la profezia che indica come predestinato alla ricerca il puro figlio dell’ultima
Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione della Quête du Saint Graal realizzata a Pavia o Milano e illustrata dal Maître du Lancelot. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra, Percival e la tentatrice; a destra, il cavaliere abbandonato dalla damigella che lo aveva tentato.
discendente di Giuseppe d’Arimatea e dell’ultimo discendente della contigua stirpe di Evelake, il re pagano da lui convertito e ribattezzato con il nome di Mordrain. Elaine è la figlia del Re Pescatore, quindi erede a pieno titolo di Giuseppe, capostipite della «famiglia» del Graal; Lancillotto è figlio di re Ban, il quale, a sua volta, discende da Nasciano, fratello di Evelake.
Il padre si sacrifica per il figlio
Incorrendo perciò nella «macchia» di questa trasgressione, che prelude a quella piú risaputa con la regina Ginevra, Lancillotto segue il corso fatale di una necessità leggendaria, soggiacendo a eventi che comportano il sacrificio del proprio primato cavalleresco per passarlo al figlio Galahad. Di quest’ultimo si dirà che «Cristo si specchia nella sua anima a nudo», tale è la sua purezza. Si dirà di Lancillotto che nessuno fu come lui «piú duro della pietra, piú amaro di un tronco, piú nudo e piú spoglio di un albero di fico».
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L’eletto
Sta di fatto, però, che da questo imperfetto cavaliere fu generato il piú perfetto di tutti. Non si può dunque liquidare Lancillotto come «bruciato» dalla nascita di Galahad, ma si deve piuttosto riconoscergli un coinvolgimento piú pieno, grazie al figlio, nella grande avventura della «cerca» del Graal. Il che vuol dire, in termini piú sottili, ammettere una sua «rinascita» in Galahad. I presupposti rituali ci sono: è Lancillotto a fare Galahad cavaliere, ignorandone l’identità; e il passaggio delle consegne viene annunciato a corte con la solennità di un proclama, da un’amazzone che per la commozione singhiozza. Non va inoltre sottovalutato che anche Bors, il terzo dei cavalieri ammessi alla visione del Graal, è cugino stretto di Lancillotto, in quanto figlio del fratello di suo padre. Ce n’è abbastanza, insomma, per considerare Lancillotto come presenza viva tra coloro che portarono a compimento la ricerca, anche se nei fatti questa estrema consolazione gli fu negata.
Con vele di seta bianca
Non fu per un appuntamento che Galahad, Bors e Percival si ritrovarono dopo un lungo peregrinare, tra miracoli e duelli, tranelli e insidie delle forze del male, su di una spiaggia dalla quale stava per sciogliere le vele una nave addobbata di seta bianca. Vi giunsero per strade diverse, dopo avere superato molte difficili prove, come attratti da un medesimo richiamo; e quando furono in navigazione, felici di trovarsi ancora insieme, Bors disse a Galahad una frase bellissima: «Credo che se tuo padre Lancillotto fosse qui non mancherebbe piú niente alla nostra ricerca». Percival fu il primo dei tre cavalieri a raggiungere la riva sulla quale imbarcarsi per il viaggio definitivo, rischiando nell’ultimo tratto di perdere a causa di una donna tutto ciò per cui si era battuto fino ad allora. Percival era talmente ingenuo e inesperto d’amore da non rendersi conto di quale insidia si celasse nello sguardo sorridente della damigella appena scesa da una lussuosa barca, subito dopo il suo arrivo, su quella medesima spiaggia. Aveva una voce argentina e lo chiamava per nome. «Che cosa fai qui, Percival? Chi ti ha portato su questo scoglio cosí isolato, dove si muore di fame e di noia?». «Non so che cosa sia la noia», rispose Percival, «e quando ho fame busso a una porta che non è mai chiusa...». Sentendo che citava il Vangelo, la ragazza cambiò frettolosamente discorso: «Percival, sai da dove vengo?». 94
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Bozzetto della Sala del Graal per una messa in scena (mai realizzata) del Parsifal di Richard Wagner. 1879.
UN TESTAMENTO SPIRITUALE II massimo riscontro musicale del mito del Graal si ha nel Parsifal di Richard Wagner (1877), testamento spirituale non soltanto di un artista – è stato scritto –, ma di un secolo. In quest’opera, incentrata sulla tentazione del puro eroe, sorretto contro il male da idealità di fede, si avverte infatti la visione premonitrice della decadenza a cui va incontro la civiltà moderna. Ma essa rappresenta qualcosa di piú di quanto il suo valore artistico esprima: è la prova dell’universalità della saga di Artú, a cui Parsifal-Percival appartiene. Wagner s’era già ispirato alla mistica umanitaria del Graal con il Lohengrin (1850), storia di un cavaliere che giunge nel mondo dal castello in cui è custodita la reliquia, animato dal solo scopo di difendere i deboli contro i forti. A sorreggere nelle sue imprese Lohengrin, che in antico francese suona Li loheren Gerin (Gerin Loreno), è la certezza nella giustizia divina. Figura di una spiritualità fiabesca, egli viaggia per vie d’acqua condotto da un cigno. Nell’opera wagneriana è il figlio di Parsifal.
«Come sapete il mio nome?». «Io ti conosco piú di quanto immagini» gli rispose la giovane. «Da dove venite?». «Dalla Foresta Desolata, dove ho visto in azione il Miglior Cavaliere». Gli spiegò quindi che era una povera fanciulla indifesa, depredata di una grossa fortuna, e che per questo aveva bisogno dell’appoggio di un buon cavaliere. «Sapete bene», aggiunse, «che in quanto gentiluomo della Tavola Rotonda il vostro giuramento v’impegna a soccorrere qualsiasi fanciulla ve lo chieda». «Sí, certo, l’ho giurato», la rassicurò Percival, «e visto che me lo chiedete lo farò». Lei sussultò di gioia e quasi lo abbracciò. Fece montare una tenda da due servi e invitò Percival a distendersi all’ombra. «Vieni a riposarti», disse, «togliti da quel sole che brucia». Lo aiutò quindi a liberarsi dell’elmo, dell’usbergo e della spada, lasciandogli solo la tunica addosso.
Schermaglie amorose
Percival si addormentò e al risveglio ebbe fame. Gli furono serviti cibi delicati, dal forte aroma di spezie orientali. Bevve del vino, che non sapeva cosa fosse, fino a sentirsi avvampare. Guardò dopo di allora la ragazza con occhi diversi, scoprendo di non avere mai visto niente di cosí
Una pagina della partitura del Parsifal di Richard Wagner. Bayreuth, Richard Wagner Museum.
bello e desiderabile al mondo. Lei rispose a queste sue occhiate con finto imbarazzo, fingendo di volersi sottrarre al suo desiderio, ma solo per accrescerlo; e, quando ritenne di averlo esasperato al punto giusto, diede a vedere di essere pronta a cedere. Ma soltanto se lui si fosse impegnato a essere suo per sempre. «Lo prometti da leale cavaliere?». «Sí», disse lui senza pensarci. «E allora sappi che non ti negherò mai niente», disse lei. «Farò sempre ciò che vorrai, perché anch’io ti desidero... piú di quanto tu desideri me». Cosí dicendo gli si distese accanto, togliendosi i calzari. Percival si girò verso di lei, su di un fianco, e vide per caso la sua spada per terra, dove l’aveva poggiata. Lo sguardo gli cadde sull’elsa in forma di croce, e immediatamente comprese ciò che stava per succedere. Invocò Cristo ad alta voce, e tutto intorno a lui – tenda, cibo e damigella – scomparve come un vilissimo miraggio. Si rialzò di scatto sullo scoglio, in tempo per vedere la barca che si allontanava in un turbine di vento, lasciando una scia di fuoco sull’acqua, con a bordo la passeggera che gli inveiva contro: «Ah, Percival, tu mi hai tradito!». Nudo e disperato, prese anch’egli a inveire contro se stesso. «La mia meschinità mi ha perduto», gridava. RE ARTÚ
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Sulle due pagine ancora due miniature tratte da un’edizione della Quête du Saint Graal realizzata a Pavia o Milano e illustrata dal Maître du Lancelot. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra, Bors accorre in aiuto della damigella; a destra, Percival raggiunto da un inviato del Signore.
«Sono il piú vile degli uomini. Ecco la punizione che mi merito...». Cosí dicendo, Percival estrasse la spada dal fodero e si trafisse la coscia sinistra tanto a fondo da inondare di sangue lo scoglio su cui si trovava. Si rivestí come poteva e si distese privo di forze sulla nuda terra, con il mare davanti e la roccia alle spalle. Sopportava senza gemere il dolore lancinante, pregando Dio di non abbandonarlo a una morte senza grazia. Era sul punto di perdere i sensi quando vide in lontananza dirigersi verso di lui una nave tutta bianca, che in breve raggiunse la spiaggia. Ne scese un gentiluomo dall’espressione dolce, caritatevole, il quale gli chiese come si sentisse. «A dire il vero, miseramente», disse Percival, «per via di una ragazza...». «L’avevi mai vista prima?». «No, per niente. Ma so bene ch’è stato il Nemico a mandarla». «Ah, Percival, sarai sempre cosí ingenuo?!... Era lei
stessa il Nemico, colui che un tempo fece parte delle schiere degli angeli e anzi era il piú bello, e che oggi ha il potere sui demoni...». «Sí, sempre lui... Ora lo capisco». «Stai attento, d’ora in poi. Se dovesse succederti di nuovo non verrà piú nessuno a salvarti. Ma non temere, Dio non ti ha dimenticato». «Da quando siete qui non sento piú dolore», disse Percival. «La vostra vista e ciò che dite mi stanno rimettendo in forze. Voi non siete di questo mondo... e sono certo che se restassi al vostro fianco non avrei mai piú fame né sete».
Una voce dal ventre della nave
Nell’ascoltare queste parole l’uomo venuto dal mare scomparve, e una voce dal ventre della nave chiamò: «Sei salvo, Percival. Hai vinto. Vieni a bordo e lasciati portare dove ti condurrà la ventura». Percival provò una grande gioia e si armò di tutto punto, nuovamente in forze. Salí quindi sulla nave, mentre la voce l’informava
che avrebbe presto rivisto i suoi compagni piú cari, Bors e Galahad. Anche Bors, lungo la strada che lo portava verso la spiaggia sulla quale la nave bianca l’attendeva, venne in altro modo tentato da una dama, che abitava in una torre con dodici bellissime ancelle. Bors era meno ingenuo di Percival, poiché a differenza di lui aveva esperienza di donne. Si rese perciò subito conto di quali fossero le intenzioni della castellana, che risplendeva di una bellezza fuori del comune, accentuata da meravigliosi abiti e gioielli. «È la piú bella e la piú ricca del mondo», gli disse un’ancella nel presentargliela, «e non aspetta che voi». La dama gli fece segno di sedersi accanto a lei. Bors accondiscese, e lei, candidamente, gli confessò che l’avrebbe reso piú ricco e potente di tutti i suoi antenati se le avesse concesso il proprio amore, dato che lo desiderava piú di qualsiasi altro uomo al mondo. Bors si ritrasse, dicendo che doveva riprendere il cammino.
«Almeno per una notte», insistette lei, «solo una notte... Altrimenti morirò qui, ora, sotto i vostri occhi». Ciò detto, corse lestamente su per le scale della torre, seguita dalle dodici ancelle. Si affacciò quindi tra i merli, dicendo che si sarebbe gettata nel vuoto. «Abbiate pietà», gridarono allora le ragazze, «perché se si uccide ci lasceremo morire allo stesso modo anche noi». La dama mise un piede oltre gli spalti, pronta a compiere il salto. Le ragazze urlarono: «Pensate alle nostre anime!...». Bors ci pensò, e dentro di sé disse ch’era meglio che si perdessero le loro anziché la propria. Visto dunque vano qualsiasi tentativo di persuaderlo, la dama si lasciò cadere dall’alto della torre con le sue dodici devote. Si udí un gran fracasso, come se tutti i diavoli si fossero dati convegno in quel luogo, e tutto disparve – torre, dama e damigelle – in una nuvola di fumo. Non fu questa, tuttavia, la prova piú tremenda
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Nella pagina accanto facsimile novecentesco di una miniatura raffigurante Galahad, Percival e Bors con il Santo Graal. L’originale dell’opera risale al 1286 ed è conservato presso la Biblioteca dell’Università di Bonn.
che Bors dovette affrontare prima di raggiungere la spiaggia. Si trovò infatti a dover scegliere, nell’attraversare una fitta foresta, se salvare suo fratello Lionello che veniva portato via in catene da quattro masnadieri o una fanciulla che in altra direzione veniva trascinata da un cavaliere in armi. Lionello era uno spettacolo penosissimo a vedersi, tutto nudo e sanguinante sotto le frustate dei suoi aguzzini. E poiché lo amava molto, Bors fu sul punto di lasciar perdere la ragazza per accorrere in suo aiuto. Ma le implorazioni di lei erano talmente strazianti da spezzare il cuore. Cosí, memore anche del giuramento che gli imponeva di soccorrere qualsiasi donna in difficoltà e, soprattutto, di non tenere mai conto del proprio interesse personale – quale poteva essere la naturale predilezione per un fratello –, Bors s’impose tra le lacrime di abbandonare Lionello al suo destino per impedire l’oltraggio alla ragazza. Spronò il cavallo e si lanciò all’inseguimento dell’indegno cavaliere. Vedendolo sopraggiungere, il rapitore lasciò cadere la ragazza e si mise in guardia, ma Bors lo investí con tale furia da fracassargli scudo e costole, lasciandolo a terra tramortito. «È mio cugino germano», disse lei rialzandosi, «che facendomi oltraggio voleva provocare una faida nella quale sarebbero morte piú di cinquecento persone». Il che valse ad alleviare l’angoscia di Bors per il destino del fratello, poiché, sacrificandolo, non aveva solo salvato l’onore di una ragazza ma impedito una strage.
Duello fratricida
Lionello, tuttavia, non morí. Bors lo ritrovò qualche giorno dopo, rimesso in sesto e bene armato, che si recava a un torneo. La sua felicità fu immensa e, sceso da cavallo, gli andò incontro per abbracciarlo. Ma lui lo respinse in un impeto d’odio, mostrandogli la spada. «Ci è mancato poco che mi ammazzassero per colpa tua!», gli disse, con voce alterata dal risentimento, «eppure l’avevi visto bene che rischio correvo. Mettiti in guardia, perché sto per ucciderti!». Bors, che per niente al mondo avrebbe incrociato la spada con quella del fratello, gli si inginocchiò ai piedi, tentando di fargli capire le sue ragioni. Non riuscendo a convincerlo, gli chiese perdono. Ma neanche questo valse a nulla. «Rimonta in sella e combatti», ripeté Lionello, «se non vuoi che ti ammazzi cosí come ti trovi, a piedi». Bors fece allora come gli diceva, e non appena in arcione venne colpito con tale violenza da ricadere al suolo. Non ebbe il tempo di rialzarsi. Lionello gli diresse addosso il cavallo, calpe-
standolo fino a rompergli le ossa. Balzò poi da sella e, avvicinatosi, gli slacciò l’elmo per meglio tagliargli la gola. Levò alta la spada e stava per colpire, quando una voce lo trattenne. Era un eremita che l’invitava alla pietà. «Non farlo se non vuoi dannarti l’anima». Lionello gli urlò di togliersi di mezzo, ma il sant’uomo insistette, chinandosi ad abbracciare Bors. «Quest’uomo è uno dei migliori cavalieri del mondo», disse, stringendolo forte tra le braccia. «Uccidi me, piuttosto. Sarà una perdita molto meno grave». «Eccoti accontentato», gridò allora Lionello, fracassandogli la nuca con un terribile fendente. Sopraggiunse in quel momento un cavaliere diretto al medesimo torneo nel quale Lionello avrebbe dovuto battersi. Inorridí alla scena, tanto piú che riconobbe entrambi come compagni della Tavola Rotonda, alla quale lui stesso apparteneva. Era infatti Colgrevance, leale servitore di Artú. «Che succede Lionello?... Sei impazzito?!». «Togliti di mezzo, Colgrevance. Se no ammazzo anche te». «Fermati. Nessun gentiluomo ti lascerebbe uccidere tuo fratello, per di piú ferito, senza intervenire». «Vuoi difenderlo? Bene, combatti!». I due si affrontarono, senza che Bors, immobilizzato al suolo, potesse dividerli. Lionello era talmente ardito e feroce nei suoi assalti che in breve Colgrevance ebbe scudo ed elmo a pezzi; e sentendosi venire meno sotto i colpi prese a invocare Bors di fare qualcosa. Improvvisamente rianimato da una forza sovrannaturale, questi si alzò per separare i contendenti. Non fece in tempo a salvare Colgrevance, che cadde proprio in quel momento con il corpo squarciato dal torace fino al ventre, chiedendo a Dio pietà per la sua anima. Si trovò dunque solo, ancora una volta, di fronte al fratello che gli puntava contro la spada, deciso a prendersi anche la sua vita. «Che Dio mi danni», disse a questo punto Lionello, puntandogli l’arma alla gola, «se avrò pietà di te...». Allora Bors raccolse piangendo la propria spada, rendendosi conto che se intendeva continuare la sua impresa era giunto il momento di difendersi. Dio n’ebbe compassione, evitandogli di doversi battere con il fratello. «Fuggi, Bors», disse qualcuno dal cielo, e in quel momento una folgore incenerí i loro scudi, avvolgendoli in una nuvola rovente. Cosí Bors, rimontato velocemente in sella, poté raggiungere il mare, dove Percival sulla nave bianca l’attendeva. RE ARTÚ
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Ecco il calice, finalmente!
La «cerca» si conclude e il predestinato, Galahad, vede coronati i suoi sforzi. Subito dopo, il cavaliere stesso viene assunto in cielo e, dopo che Percival depone le armi e si ritira in convento, Bors rimane il solo testimone di quella vicenda straordinaria
G L’albero d’oro, ultimo quadro del ciclo sulla ricerca del Graal realizzato da Edwin Austin Abbey per la Boston Public Library. 1893-1902. Nella scena, l’artista immagina il culmine dalla vicenda, quando il vescovo Giuseppe (figlio di Giuseppe d’Arimatea), circondato da uno stuolo di angeli, appare a Galahad, recando il santo calice.
alahad non giunse solo alla nave sulla quale Bors e Percival si erano già imbarcati, ma in compagnia di una dolcissima damigella. Lo stupore suscitato dal suo arrivo fu presto sedato dalla rivelazione che si trattava della sorella di Percival, figlia come lui di re Pellinore delle Isole. Si era offerta a Galahad come guida per condurlo alla visione del «piú straordinario prodigio» che cavaliere avesse mai incontrato. Galahad aveva riconosciuto in lei una iniziata in grado di aiutarlo nella ricerca e di buon grado l’aveva presa con sé. Gli eventi non l’avevano smentito. Grazie a lei, vennero individuate molte tracce di ciò che cercavano, man mano che s’inoltravano nel mistico percorso, come una ricca corona d’oro e una spada cosparsa di scritte in caldeo, che invitavano a non servirsene se non si era certi di essere la persona giusta. Aveva l’impugnatura ricavata dalle costole di un serpente di Celidonia e di un pesce dell’Eufrate. Toccando l’una si poteva sopportare la calura piú infuocata, toccando l’altra si dimenticava ogni gioia o dolore del passato, raggiungendo uno stato di perfetta indifferenza. Solo Galahad era riuscito a impugnarla. Il fodero di pelle di serpente era però sorretto da una bandoliera cosí malandata e RE ARTÚ
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La santa apparizione
di vile fattura che i tre cavalieri se ne stupirono. Vi pose riparo la sorella di Percival, sostituendolo con una cinghia che sembrava d’oro. «L’ho intessuta dei miei capelli», disse, «quando seppi che la ricerca era iniziata».
Il sangue come medicamento
Di piú non disse. Mostrò piú avanti il meglio del proprio spirito caritatevole lasciandosi cavare un’intera coppa di sangue dal braccio sinistro per guarire una principessa colpita dalla lebbra. «Soltanto il sangue di un’altra principessa», le avevano detto, «può salvarla, purché vergine come lei e figlia di re...». Non era sopravvissuta a questo suo gesto generoso, e, morendo, aveva chiesto di non essere sepolta, bensí affidata alle correnti marine in una barca senza vela. «Non siate tristi», aveva loro raccomandato, «perché vi prometto che al compimento dell’opera mi rivedrete». Fu esaudita e adagiata in una barca, con una pergamena 102
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Miniatura raffigurante Galahad e i suoi compagni, da un’edizione della Quête du Saint Graal realizzata a Pavia o Milano e illustrata dal Maître du Lancelot. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
che indicava il suo rango sotto il capo. Il resto è un succedersi di esperienze visionarie che preludono all’apparizione definitiva del Graal. Vi è coinvolto anche Lancillotto, il quale trova la barca con il corpo incorrotto della principessa e vi sale, lasciandosi trascinare come lei «dove Dio vuole». Giunge cosí anche lui al castello del Graal, nel quale l’invita una voce che però lo previene: «Troverai solo una parte di ciò che desideri ardentemente vedere». Una volta entrato, venne abbagliato da una luce cosí accecante che gli parve di trovarsi nella casa del sole. Vorticanti ali bianche ne rifrangevano il chiarore. Intravide in tanta luminescenza il santo vaso ricoperto di una stoffa vermiglia che ne impediva la piena visione. «Fuggi, Lancillotto, non entrare», lo avvertí la stessa voce che l’aveva in precedenza invitato, «non puoi spingerti piú avanti». Lancillotto esitò, con una gran pena nel cuore, perché la visione del Graal era lo scopo estre-
mo della sua vita. Ma un soffio caldo lo investí in pieno viso, procurandogli un bruciore insopportabile, mentre molte mani invisibili lo trascinavano via. Fu ritrovato fuori del castello il giorno dopo, attonito e silenzioso, incapace di parlare o farsi intendere a gesti. Rimase cosí per ventiquattro giorni, insensibile «come una zolla di terra». Ebbe la consolazione, tuttavia, dopo essersi ripreso, di ricevere una visita di Galahad, che s’intrattenne con lui per qualche tempo. Era la prima volta che padre e figlio si incontravano, da quando Lancillotto l’aveva fatto cavaliere e Galahad ne aveva preso il posto; e anche l’ultima. Si augurarono buona fortuna e si raccontarono le rispettive avventure con le lacrime agli occhi. Galahad gli mostrò la Spada dalla Strana Bandoliera, come veniva chiamata l’arma a cui la sorella di Percival l’aveva guidato, e Lancillotto ne baciò devotamente il pomo, che era un’unica grande pietra luccicante.
Un’altra miniatura tratta da un’edizione della Quête du Saint Graal realizzata a Pavia o Milano e illustrata dal Maître du Lancelot, raffigurante Galahad e la sorella di Percival. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Rimasero insieme per sei mesi, senza accorgersi del tempo che passava. Fino a quando, con l’arrivo della primavera, si presentarono due cavalieri che, nel nome del Signore, invitarono Galahad a seguirli. Era tempo di riprendere la ricerca. Galahad abbracciò Lancillotto, scoppiando a piangere: «Non so se ti rivedrò mai piú», disse. «Non pensare a me», lo consolò lui. «Pensa solo a far bene ciò che devi».
Un’estasi senza eguali
La stessa luce infuocata che aveva respinto Lancillotto fu per Galahad e i suoi compagni aura benefica di un’estasi senza eguali, sovraffollata di simboli che non possono spiegarsi senza lederne il significato profondo, riconducibile a una molteplicità di miti, religioni e speculazioni filosofiche. Parla da sola la bellezza delle immagini, che ciascuno è libero d’interpretare a proprio modo. RE ARTÚ
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La santa apparizione
Si unirono ai tre cavalieri della Tavola Rotonda altri nove gentiluomini, provenienti dall’Irlanda, dalla Danimarca e dal Galles. Cosí furono in dodici, come gli apostoli alla cena. Abbandonarono la sala, lasciandoli soli alle loro emozioni, re Pelles, suo figlio Eliezar e una nipote che si diceva fosse la ragazza piú religiosa del mondo. In quanto «famiglia» del Graal non c’era motivo che s’intrattenessero con coloro che si accingevano a cogliere il frutto della propria ricerca. Venne invece ad accoglierli un vescovo attorniato da uno stuolo di angeli, che si presentò come Giuseppe, figlio di Giuseppe d’Arimatea, costruttore del Palazzo Spirituale del Graal, ormai morto da secoli. Raggiunse con i suoi angeli una tavola d’argento sulla quale risplendeva il santo vaso, senza veli, con accanto una lancia sanguinante. Un angelo la sollevò, tenendola diritta sul calice, perché il sangue vi colasse dentro senza spandersi.
Sulle due pagine ancora due miniature tratte da un’edizione della Quête du Saint Graal realizzata a Pavia o Milano e illustrata dal Maître du Lancelot. 1380-1385. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra, la morte della sorella di Percival; in basso, Lancillotto presso la cappella del Graal.
L’ostia, il bambino e l’uomo
In quel liquido rosseggiante Giuseppe immerse una mano, traendone un’ostia di pane. La sollevò verso il cielo e tutti videro apparire su di essa un bambino, che misteriosamente vi entrò dentro. Videro anche, a questo punto, il pane mutare forma e crescere, mostrando al proprio interno il corpo incarnato di un uomo. «Cavalieri che vi siete dati tanta pena per vedere sia pure una parte delle meraviglie del Graal», disse loro il vescovo, «sedete adesso a questa tavola e sarete nutriti per mano del vostro Salvatore del migliore cibo che c’è al mondo». Sedettero tutti con il viso contratto dallo stupore, e un altro grande prodigio si manifestò dinanzi ai loro occhi. Venne fuori dal vaso un uomo di corporatura robusta e viso aitante, con mani, piedi e costato trapassati, il quale rivolse loro questo saluto: «Mi avete tanto cercato, figli
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La santa apparizione
Nella pagina accanto La damigella del Santo Graal, olio su tela di Dante Gabriel Rossetti. 1874. Collezione privata.
miei leali, che non mi è piú possibile celarmi ai vostri occhi. Conviene dunque che vediate in questa vita mortale una parte dei miei misteri, visto che la vostra fede vi ha condotti a questa tavola, dove nessuno si è mai seduto dal tempo di Giuseppe». Detto questo, diede a tutti l’Eucarestia. Quattro vergini avevano intanto portato accanto al tavolo un letto sul quale giaceva un vecchio sofferente, che sembrava avere molti secoli d’età. Era il Re Magagnato, cioè Mordrain, storpiato da un colpo della Santa Lancia infertogli da un angelo alle gambe per punirlo di avere spiato senza esserne autorizzato il Graal. Era stato per questo paralizzato in tutte le sue membra, salvo che nella lingua, e condannato all’immobilità fino a quando il migliore di tutti i cavalieri, l’unico in grado di contemplare da vicino il santo vaso, non fosse sopraggiunto a redimerlo. E questo finalmente si stava avverando, con l’arrivo di Galahad, considerato a Cobernic lo specchio umano del Cristo. «Dio ti ringrazio», disse Mordrain nel vederlo, «per avermi colpito nell’atto di violare i tuoi segreti. Guariscimi adesso nella tua misericordia». La sala s’illuminò allora di una luce piú intensa, e Gesú si volse a Galahad, sollecitandone l’intervento: «Desidero che tu non lasci questo palazzo senza avere prima guarito il Re Magagnato». Galahad domanda in che modo. «Prendi la lancia insanguinata e bagna con la sua punta le ferite. Non v’è altra via di guarigione». Il miracolo avviene e il re, risanato, si riveste, cammina, glorifica il Signore. Con atteggiamenti del tutto simili a quelli del paralitico guarito nel Vangelo. Vuole la favola che Mordrain lasciasse subito dopo il castello per ritirarsi in un eremo nel quale visse ancora per molti anni.
Il compimento dell’impresa
Viste queste meraviglie, Galahad pregò il Signore di chiamarlo a sé, fuori di questo mondo divenuto per lui senz’avventura. Dio gli promise di esaudirlo in breve tempo, ma volle prima donargli l’opportunità di spingere la propria esperienza verso livelli superiori, dove nessuno dei suoi compagni sarebbe mai potuto giungere. In vista di tali eventi venne ad arenarsi accanto al Palazzo dello Spirito la barca sulla quale la morta sorella di Percival aveva lungamente navigato. Significava che la ricerca stava per compiersi nella sua forma piú completa. Chiamato ancora una volta a contemplare il calice, Galahad venne invitato dal Signore a guardare al suo interno, cosa che il giovane fece con grande umiltà e coraggio. Gli occhi gli si 106
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sgranarono e cominciò a tremare tutto, poiché «la sua carne mortale percepiva le cose dello spirito». Galahad si contrasse tutto nell’immane sforzo di comprendere ciò che vedeva nell’interno del santo vaso. Poi, levando le braccia al cielo, disse: «Vedo svelato quello che la lingua non può descrivere, né il cuore immaginare. Vedo ciò che è all’origine dei grandi ardimenti e delle imprese piú sublimi. Vedo la meraviglia di tutte le meraviglie, il segreto dei segreti... Perciò di una sola cosa ti prego, mio Signore, di farmi passare cosí come mi trovo, da questa vita all’altra». Gli si fece allora vicino Giuseppe, che, prendendolo teneramente per la mano, si rivolse a lui con queste parole: «Vieni. Dio ha scelto me per accompagnarti. Seguimi, dunque, senza alcun timore». Galahad fece allora segno ai suoi due compagni di avvicinarsi. Li abbracciò entrambi e chiese loro di salutare, se mai l’avessero incontrato un giorno, Lancillotto. Si volse quindi verso il Santo Graal spalancando le braccia e cadde prosternato, con il viso sulla pietra. La sala brillò d’iride, mentre intorno si spandeva un canto gioioso. Vennero subito a sollevarlo degli angeli e a trasportarlo in Cielo. Bors e Percival si guardarono, avvertendo tutto il peso della loro solitudine. Scese in quel momento dall’alto una grande mano, che prese con un sol gesto vaso e lancia, facendoli rapidamente sparire nel nulla. I due compagni si sentirono ancora piú soli, rendendosi conto del terribile significato di questa sparizione. Voleva dire che sulla Terra non c’erano piú uomini degni di contemplare il Santo Graal. Ne furono talmente scossi che avrebbero rischiato di perdere ogni speranza nell’esistenza se non fossero stati sostenuti dalla fede in ciò che ritenevano di avere visto. Percival abbandonò quel giorno stesso le armi per ritirarsi in convento, dove visse ancora un anno e tre giorni. Bors andò con lui, senza però rinunciare alla cavalleria. Morto Percival, non seppe piú che fare in quell’eremo, indossò nuovamente l’armatura e tornò a Camelot, dove Artú con i pochi cavalieri superstiti trascorreva mesti giorni senza amore. Erano gli ultimi tempi della sua vita e dell’Ordine stesso della Tavola Rotonda, perché la ribellione di Mordret stava per produrre i suoi frutti avvelenati. Il re pianse, nel rivedere Bors che credeva «smarrito» come tanti altri dei suoi migliori cavalieri. E Bors l’intrattenne per molte sere con il racconto delle proprie avventure, aiutandolo a ritrovare, prima della fine, la sua perduta capacità di stupirsi.
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Un mito universale Ambito dai cavalieri della Tavola Rotonda, il Santo Graal diviene anche una delle piú agognate reliquie della cristianità. La sua ricerca è dunque un tema ricorrente, nel quale non è difficile cogliere elementi che attingono a un patrimonio mitico non soltanto occidentale di Franco Cardini e Marina Montesano
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ello sviluppo del ciclo di romanzi del Graal si può rilevare la graduale prevalenza degli elementi di origine cristiana rispetto a quelli presumibilmente derivati dalla tradizione celtica. L’incompiuto romanzo in versi di Chrétien de Troyes (Perceval o Il racconto del Graal) aveva lasciato aperti problemi e interrogativi di ogni genere. Il Peredur, il Perlesvaus e la prima continuazione del Perceval insistevano sul versante celtico; la seconda e la terza continuazione, ma soprattutto il testo di Robert de Boron e la Queste (la «cerca»), ci pongono invece dinanzi a un quadro completamente cristianizzato ed eucaristico (sia pure complicato da qualche elemento gnostico); piuttosto defilato risulta il Parzival di Wolfram van Eschenbach, che ambienta il Graal in un contesto orientale. Il significato dei testi del Graal «cristianizzato» del pieno Duecento è sostanzialmente chiaro, mentre piú dibattuto è il problema di quale senso dare tanto al corteo del Graal quanto, piú in generale, all’intera vicenda narrata nel Perceval di Chrétien e nelle prime continuazioni. Alcuni avevano voluto vedere già in questi primi testi un’ispirazione pienamente cristiana: le immagini che compongono il corteo del Graal (in particolare, il Graal stesso e la lancia insanguinata) sarebbero mutuate dall’iconografia cristiana. Il Graal richiamerebbe l’allegoria eucaristica, mentre la lancia sarebbe quella di Longino (il santo leggendario che trafigge il costato del Salvatore, il cui nome deriva forse dal greco longkhè, «lancia»). L’iniziazione di Percival andrebbe letta come una metafora dell’evoluzione del ceto cavalleresco del tempo: dalla cavalleria mondana della Tavola Rotonda a quella mistica, ascetica e cristiana. L’interpretazione integralmente «cristiana» – che cioè esclude «prestiti» da altri 108
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contesti culturali – dei primi testi che parlano del Graal non è tuttavia quella prevalente nella storiografia contemporanea, in quanto appare evidente la presenza di sicuri e abbondanti riferimenti al mondo celtico. Quel che appare, invece, certo è la piena appartenenza degli autori al mondo e allo spirito cristiani: non è credibile l’ipotesi di una sopravvivenza, nella Francia del XII e XIII secolo, di un culto pagano-celtico, di una persistenza cosciente o di un revival pagano, di un’«Antichiesa» del Graal, erede di un qualche sistema mito-cultuale precristiano travestito da leggenda eucaristica.
Elementi ricorrenti
Gli elementi essenziali che appaiono nella cerimonia del Graal, oltre alla coppa-piatto, sono la lancia e, in un caso, la testa. Vediamo dunque quale può essere il senso complessivo dell’episodio, da una parte, quello dei singoli elementi che lo compongono, dall’altra. È probabile che la queste del Graal si rifaccia alle avventure nell’aldilà e alla ricerca di oggetti magici di cui la letteratura di derivazione celtica offre esempi frequenti. Secondo l’opinione comune, i Celti che durante il VI-V secolo a.C. occuparono i territori dell’attuale Francia centro-settentrionale, del Belgio, del bacino renano (conosciuti con il nome di «Galli») o delle Isole Britanniche e della Penisola iberica (i Celtiberi), avrebbero lasciato le tracce piú evidenti della loro civilizzazione in Irlanda, nel Galles, nella Cornovaglia e nell’Armorica: le aree che meno avevano subito la conquista e l’acculturazione romane. Da queste regioni scaturí un tipo di letteratura in cui emergono diversi tratti culturali di origine celtica; si tratta tuttavia di prodotti tardi, di epoca medievale, che dunque non presentano una tradizione originaria, ma in-
Il bagno mistico, pannello centrale di un trittico dipinto da Jean Bellegambe il Vecchio. 1510-1520. Lille, Musée des beaux-arts. Nella composizione, ai piedi della Croce, si riconosce una fontana colma di sangue, a evocare il Santo Graal, cioè il calice in cui, secondo la tradizione, Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo.
PAPI DEL MEDIOEVO
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La «cerca» del calice
trecci di tradizioni differenti, in cui gli elementi riconoscibili come «celtici» sono soltanto uno fra i molti influssi presenti. La Tavola Rotonda ricalcherebbe una tavola dei festini celtica; a questa «corte» di guerrieri la tradizione celtica ne farebbe corrispondere una parallela nell’aldilà, governata da un re prodigo che dimora in un castello meraviglioso, in cui un calderone magico garantisce universalmente l’abbondanza. L’aventure alla ricerca di oggetti magici (pietre, talismani, coppe meravigliose, armi dotate di straordinari poteri, ecc.) nell’Altro Mondo è alla base di molti racconti irlandesi e gallesi, come per esempio quelli detti Mabinogion, composti agli esordi del XIII secolo; l’eroe designato a tale queste deve superare molte difficili prove, in una sorta di iniziazione che gli consentirà l’accesso al misterioso aldilà.
I segni della regalità
Nel Perceval di Chrétien de Troyes, uno degli oggetti magici, la lancia – che sanguina per il colpo inferto – ferisce il Re Pescatore. La ferita rende il re, e specularmente le sue terre, sterili. La «cerca» del Graal, cioè del calderone dell’abbondanza, da parte di un eroe giovane e puro consente il ripristino dell’integrità del sovrano e del regno. La lancia e la coppa sono i segni della regalità: se Percival avesse chiesto il significato di questi oggetti, avrebbe svelato le fonti del potere regale, ripristinandolo. Inoltre, il Peredur e il Perlesvaus presentano forse alcuni elementi arcaici, vivi nella tradizione orale, ma non ripresi da Chrétien: la testa tagliata sul piatto e la vendetta di sangue che guida l’aventure del protagonista ne sarebbero le prove piú evidenti. 110
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In alto miniatura raffigurante i cavalieri eletti e il Graal, da un’edizione della Quête du Saint Graal illustrata da Pierart dou Tielt. 1351. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
In basso, sulle due pagine LourouerSaint-Laurent (Francia centrale), chiesa di S. Lorenzo. Particolare di uno degli affreschi, raffigurante la Crocifissione. XII-XIII sec. Sulla sinistra, si riconosce Longino, che trafigge il costato di Cristo con la lancia.
L’incertezza nella decifrazione del mito del Graal deriva essenzialmente dalla presenza di simboli formalmente molto simili in culture anche geograficamente lontane tra loro. Alla metà del IX secolo, al tramonto dell’impero carolingio, il vescovo Audrado di Sens, autore di scritti profetici frutto di visioni, compose un poemetto, il De fonte vitae, dedicato a Incmaro di Reims, il grande studioso ed ecclesiastico del quale Audrado si sentiva evidentemente debitore. Nel poemetto si narra di un viaggio verso «il luogo piú bello del mondo», dove scaturisce il Fonte della Vita, al quale si può attingere solo se si è in possesso di uno speciale vaso. Nel contesto del poema di Audrado, i simboli sono chiari: la sorgente è il Cristo «Fonte di Vita»; l’Acqua è il Divino Sangue, sprizzato nella Passione, che rivive attraverso il mistero eucaristico; il Vaso è lo Spirito che consente di attinge-
re al Fonte e di bere, entrando in piena comunione, materiale e spirituale, con il Cristo. Le fonti a cui Audrado si ispira sono innanzitutto bibliche ed evangeliche – dal Cantico di Salomone all’Apocalisse –, ma anche classiche. Attraverso la cultura classica – mediata da autori come Boezio, Venanzio Fortunato e Alcuino –, giungevano ad Audrado echi della tradizione greca e di quelle orientali, che erano peraltro presenti anche negli stessi testi vetero- e neotestamentari.
Due grandi archetipi
Il calice e la coppa, insomma, sono veri e propri grandi archetipi, densi di significato presso tutte le culture del mondo eurasiatico mediterraneo. Nei Salmi biblici il cantore offre a Dio la coppa della salvezza e riceve da lui quella delle benedizioni o del castigo; il Vangelo parla del calice del dolore; al contrario, la coppa che trabocca è
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La «cerca» del calice
UNA MOLTIPLICAZIONE «MIRACOLOSA» La straordinaria notorietà raggiunta dal ciclo del Graal a partire dai secoli XII-XIII, soprattutto nell’interpretazione piú chiaramente cristiana che ne faceva il calice eucaristico, determinò l’apparizione di numerose reliquie che si pretendeva fossero il Graal, sebbene nel «ciclo vulgato» si dicesse che, alla morte di Galahad, esso era asceso al cielo. Si reinterpretarono in senso graalico anche reliquie che la cristianità conosceva da tempo. I pellegrini altomedievali segnalano la presenza del calice dell’Ultima Cena nella chiesa dell’Anàstasis di Gerusalemme. Le descrizioni lo dicono un calice d’argento, dotato di manici e piuttosto
simbolo di gioia e di abbondanza (proprio come nella tradizione celtica). Nell’Apocalisse, infine, sono menzionate le coppe ricolme dell’ira divina. Ma la coppa è centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste; mentre nella tradizione islamopersiana, il mitico re Gemshid possiede una coppa nella quale si può vedere l’intero universo: coppe e bacili sono infatti strumenti abituali per i riti divinatori come per l’elaborazione di potenti filtri. Quest’idea della coppa come sede di potenza e di sapienza si ritrova nella tradizione islamica della mistica sufi, allorché a una coppa è paragonato il cuore dell’ari (cioè il saggio, l’iniziato). Spieghiamoci meglio: nell’Avesta, il libro sacro dello zoroastrismo, il segno visibile della regalità solare, lo xvarenah, da cui hanno origine le tre funzioni sociali – studiate da Georges Dumézil per gli indoeuropei e da Georges Duby nel Medioevo occidentale –, cioè i sacerdoti, i guerrieri e i produttori, è detenuto dal sovrano primordiale Yimí Xshaàta. Questo sovrano è identificato nella tradizione islamica, nella quale, con la conquista della Persia, molti miti iranici sono confluiti con l’eroe civilizzatore Gemshid, che altri non sarebbe se non il Salomone biblico, il fondatore del Tempio sulla roccia del monte Moriah. E a Gemshid-Salomone apparterrebbe appunto l’oggetto magico e regale della prodigiosa coppa «che mostra il mondo». 112
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capiente: sembra, infatti, che contenesse oltre sette lini. L’oggetto fu trafugato con tutta probabilità dal califfo fatimide al-Hakim, nel 1009, per poi scomparire. Tuttavia, con l’intensificarsi dei pellegrinaggi nell’XI secolo e il fenomeno crociato, l’Occidente conobbe l’arrivo di numerose presunte reliquie di questo genere. Nel maggio 1101, i marinai genovesi conquistarono la città di Cesarea; fra i tesori saccheggiati vi era il Santo Catino, un piatto largo in pasta vitrea verde di forma esagonale, ancora oggi visibile nel museo della cattedrale di S. Lorenzo a Genova. Il culto per questo oggetto, tuttavia, non si avviò immediatarnente, ma fu
Ritroviamo coppe e bacili come simbolo di potere o come oggetti magici anche nella tradizione greca, ma è nel mondo germanico che la coppa ha certamente un significato di trasmissione della sovranità. Per esempio, nel Tesoro del Duomo di Monza si conserva il calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale. Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico, la coppa emblema di regalità e il bacile calderone dell’abbondanza e della conoscenza, appartenente al dio Dagda, si sovrappongono; le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza a un candidato – ricordiamo che nel Perceval di Chrétien è una donna a portare il Graal – altro non sia che il segno della sua elezione e la coppa piú bella e preziosa sia l’offerta atta a celebrare l’eroe, il piú valoroso fra i guerrieri. Si può dunque ipotizzare che la coppa, come simbolo di regalità e, al contempo, di abbondanza, sia un archetipo delle culture indoeuropee. Al pari della coppa, anche la lancia è un intenso e diffuso simbolo. Una coppa e una lancia (quella di Longino) sono entrambi simboli della Passione, e la loro presenza associata suggerisce che la «processione del Graal», descritta da Chrétien de Troyes nel Perceval, abbia un significato innanzitutto eucaristico. Ma la lancia è a sua volta simbolo di sovranità. Da essa deriva lo scettro, e in greco il ter-
promosso solo in seguito alla diffusione della letteratura graalica. Intanto, acquistava fama crescente il Santo Calice – una pietra di calcedonio montata in oro –, custodito nella cattedrale di Valencia, che la tradizione locale diceva fosse il calice dell’Ultima Cena, portato a Roma da san Pietro e giunto nella Penisola iberica per sottrarlo alla persecuzione di Valeriano. Il Catino di Genova e il Calice di Valencia ripropongono il dilemma fra il Graal di Chrétien e quello di Wolfram: si trattava di una coppa-catino o di una pietra? L’identificazione di entrambi con il recipiente dell’Ultima Cena è stata forse resa possibile dal fatto che, secondo la tradizione piú accreditata, il sacro oggetto era stato ricavato da un’unica pietra.
In alto, a destra il Santo Catino, piatto in vetro verde forse risalente al I-II sec. d.C. o anche di epoca fatimide (IX-X sec.), portato a Genova dai marinai che conquistarono Cesarea. IX-X sec. Genova, Museo del Tesoro di S. Lorenzo. Nella pagina accanto coppa in vetro blu soffiato e molato di produzione longobarda. VI sec. Monza, Tesoro del Duomo. Si tratta del calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale.
mine sképtron (verga, lancia, scettro) si associa al concetto di «fulmine» e ha valore magico quale strumento al tempo stesso di salvezza e di perdizione: come la lancia di Achille che – non diversamente dalla clava del dio celtico Dagda – poteva al contempo ferire e guarire. Conosciamo, per i Longobardi, un chiaro uso della lancia come simbolo supremo di regalità: il gesto di afferrare la lancia, nel corso della saga longobarda, è il simbolo del passaggio del potere quando i legami di sangue nella successione regale vengono a mancare, secondo il modello esemplato dalla vicenda del mitico re Lamissione, distintosi già nell’infanzia per avere afferrato la lancia protesa verso di lui dal sovrano Agilmundo.
Prossima al fulmine
Nella mitologia celtica la lancia è attributo del dio Lug, che la prende dalle mitiche «Isole del mondo»: è una lancia di fuoco, che infligge colpi mortali, dunque è prossima al fulmine. La stessa arma compare nelle mani di molti fra i guerrieri mitici della tradizione celtica, come Cuchulainn e suo fratello Conall. Un motivo di origine celtica è quasi sicuramente la testa tagliata e recata nel piatto-Graal che appare nel Peredur, anche se tale immagine in ambito cristiano non poteva non ricordare la decollazione di san Giovanni Battista. Troncare la testa ai nemici era abitudine comune per i guerrieri celti; l’atto aveva un significato rituale e cultuale, oltre che semplicemente guerriero. Lo si deduce, per esempio, dall’episodio del Mabinogion noto come Branwen, figlio di Llyr: il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un
lungo viaggio; quando infine viene sepolta, essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace. Il costume sopravvisse fino ai primi secoli della cristianizzazione: nella Vita del vescovo – e poi santo – Germano di Auxerre, per esempio, si racconta che, prima di abbracciare il cristianesimo, egli fosse solito sospendere, secondo l’antico costume pagano, le teste degli animali cacciati ai rami di un albero sacro; l’impiccagione rituale, d’altronde, era costume dei Germani e degli Scandinavi, che sacrificavano cosí al dio Wotan/Odino. Il tema della testa tagliata e del valore della testa (e del cranio scarnificato) sul piano magico è ben noto in molte culture, soprattutto – ma non soltanto – indoeuropee e uralo-altaiche. Il fatto che in area euroasiatica si ricavassero coppe dai crani dei nemici uccisi (come nel noto episodio di Alboino e del re dei Gepidi narrato da Paolo Diacono) collega il tema del sacrificio con quello della regalità, del potere e dell’abbondanza: i temi del Graal. Possiamo dunque affermare che il duplice significato dell’abbondanza e del potere-regalità connota con una certa costanza gli oggetti che compongono la cerimonia del Graal. La leggenda graalica potrebbe dunque essere letta come la versione medievale, pervenuta attraverso un’eredità celtica reinterpretata in termini cristiani, del racconto archetipico dell’iniziazione di un giovane re-guerriero destinato a ristabilire la prosperità del suo regno, minacciata dalla vecchiaia, dalla malattia e dall’impotenza di un Re Ferito. Un racconto che, con molte variabili, i folcloristi hanno individuato e analizzato nel patrimonio mitico di molte civiltà. RE ARTÚ
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Edimburgo
Bamburgh
Vallo di Adriano Carlisle
Isola di Man
York
Nella figura di Merlino, che trasportò in Inghilterra dall’Irlanda il recinto sacro di Stonehenge, l’antica paganità celtica si fonde con elementi della nuova religione cristiana. Alderley Edge
Nella battaglia di Badon Hill (nella versione francese Mont Baudon) Artú sconfisse i Sassoni. Lincoln
Torre di Londra. Cambridge Cardigan
Gloucester Badon Hill
Caerleon Secondo la tradizione, Artú sarebbe nato nel castello di Tintagel, per volere di Merlino. Glastonbury
Exeter Dozmary Pool-Altarnun 114
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Tintagel St Michael’s Mount
Londra
Bath Cadbury Castle (Camelot)
Stonehenge Winchester
Tavola di Winchester
Sui sentieri della leggenda Dal castello di Uther Pendragon alla rocca dove nacque Artú, da Camelot a Stonehenge, dalla dimora della Dama del Lago ad Avalon. Un affascinante itinerario alla riscoperta dei luoghi in cui la tradizione colloca le gesta del ciclo arturiano a cura di Francesco Colotta
Nella pagina accanto cartina della Gran Bretagna con i principali luoghi nei quali si sarebbero consumati gli eventi narrati nei romanzi del ciclo arturiano. In questa pagina castello di Tintagel, Cornovaglia (Inghilterra). Gallos (vocabolo che significa potere in lingua cornica), statua in bronzo che si ispira alla figura di re Artú, realizzata dall’artista Rubin Eynon e collocata nei pressi del sito nel 2016.
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Itinerari arturiani
Castello di Pendragon
LA DIMORA DI UTHER Secondo la leggenda, il castello di Pendragon sarebbe stata la residenza originaria del sovrano Uther, padre di Artú. Situata nel Nord dell’Inghilterra, nella contea di Cumbria, la rocca risale in realtà a un’epoca posteriore (XII secolo) rispetto all’ambientazione letteraria del ciclo arturiano e oggi ne sopravvivono alcuni resti. La tradizione locale identifica in Uther il condottiero che, agli inizi del Medioevo, avrebbe difeso quell’area settentrionale dalle invasioni degli Anglosassoni. Si narra inoltre che tra le mura del castello si sarebbe conclusa la vicenda terrena dello stesso re.
CASTELLO DI TINTAGEL
LA NASCITA DI ARTÚ La Storia dei re di Britannia di Geoffrey di Monmouth racconta che Artú sarebbe stato concepito grazie a un inganno architettato dal sovrano britannico Uther Pendragon, con l’aiuto di Merlino: secondo la celebre cronaca, Uther, assumendo le sembianze del duca di Gorlois, trascorse infatti una notte nel letto dell’avvenente moglie del nobile, Ygraine. Il fatto sarebbe avvenuto nei locali del castello di Tintagel, situato nella costa settentrionale della Cornovaglia. Nella stessa fortezza – sempre in base al racconto di Geoffrey di Monmouth – Artú venne alla luce e fu allevato di nascosto da Merlino. Indagini archeologiche hanno appurato che la rocca, oggi visitabile e alla quale si accede attraverso una lunga scalinata che si inerpica sulla scogliera, risale al XII-XIII secolo, quindi a un periodo successivo a quello in cui 116
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A destra Tintagel, Cornovaglia (Inghilterra). I resti della fortezza medievale tradizionalmente identificati con il castello in cui Artú sarebbe venuto alla luce. In basso contea di Cumbria (Inghilterra settentrionale). I resti del «Castello di Pendragon», fortilizio medievale (XII sec.) nel quale avrebbe dimorato Uther, padre di Artú.
Nella pagina accanto, in basso ancora un’immagine del castello di Tintagel, in Cornovaglia. A destra un segnale geodetico collocato sulla sommità della collina di Solsbury, da alcuni identificata con il luogo in cui si combatté la battaglia del Monte Badon.
l’epopea arturiana avrebbe avuto inizio. Tuttavia, ulteriori ricognizioni hanno scoperto tracce di costruzioni – pertinenti a un monastero, a un palazzo principesco o a un insediamento commerciale – databili dal VI-IX secolo. Tra i ritrovamenti figura anche la cosiddetta «Pietra di Artognou», il cui nome, che deriva dall’iscrizione presente sulla parte inferiore del reperto, fu impropriamente associato a quello di Artú.
MONTE BADON
DOVE ARTÚ SCONFISSE I SASSONI La storia riporta le gesta vittoriose delle truppe romano-britanniche e celtiche contro l’esercito invasore degli Anglosassoni, nella celebre battaglia del Monte Badon, che ebbe luogo intorno alla fine del V secolo. Secondo una versione leggendaria dell’evento bellico, a comandare le forze romano-britanniche e celtiche sarebbe stato re Artú. A sostenerlo,
in particolare, è la Storia dei Britanni (IX secolo), scritta dal monaco gallese Nennio, una delle fonti che ispirarono Geoffrey di Monmouth e Chrétien de Troyes nella stesura del loro fortunato ciclo di romanzi. Geoffrey di Monmouth colloca il sito dello sconRE ARTÚ
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Itinerari arturiani tro sulla collina di Solsbury, nei pressi dall’odierno villaggio di Batheaston, nel Somerset, a pochi chilometri da Bath. In quel luogo sorgono tuttora i resti di un’antica fortezza. Altri cronisti collocano il teatro della battaglia in località diverse: Badbury Rings (Dorset), Buxton (Derbyshire) e il castello di Liddington (Wiltshire).
CAMELOT
LA FORTEZZA INESPUGNABILE Camelot non riveste un ruolo di particolare rilievo nelle principali opere medievali dedicate al ciclo arturiano, per esempio nelle versioni di Geoffrey di Monmouth e Chrétien de Troyes. Fu Thomas Malory, nel XV secolo, a identificarla tout court con la fortezza di Artú, con il suo quartier generale, collocandola nel territorio dell’odierna Winchester. Successivamente sono state formulate altre ipotesi di localizzazione: Saltwell Park, nei pressi di Gateshead, nel Tyne and Wear; il sito dell’antica Viroconium, a Wroxeter, nelle
Midlands Occidentali; Caerleon, in Galles, il cui anfiteatro – tuttora in parte sopravvissuto – è stato associato al simbolo della Tavola Rotonda; il castello di Dinerth, sempre in Galles; Cadbury Castle, nel Somerset, in passato noto come Camalet, facilmente riferibile al toponimo Camelot; il luogo dell’antica fortezza di Camulodunum, l’odierna Colchester, la cui contrazione avrebbe anch’essa dato luogo al nome Camelot. Recenti ipotesi hanno valutato come possibile collocazione anche il castello di Carlisle (XI-XII secolo), nella contea di Cumbria. Miniatura raffigurante re Artú che fa il suo ingresso a Camelot, da un’edizione del Roman du Roy Meliadus de Leonnoys di Helie de Borron realizzata a Napoli. 1352 circa. Londra, British Library. Il celebre castello è stato, nel tempo, variamente collocato: l’ipotesi che lo identifica con Cadbury Castle, nel Somerset, si basa sull’assonanza del suo nome di un tempo, Camalet.
In alto la tavola di Winchester, conservata nella Sala Grande del castello (per la descrizione approfondita del manufatto, vedi alle pp. 32-33). In basso il circolo megalitico di Stonehenge, presso Amesbury (Wiltshire, Inghilterra).
WINCHESTER
TRACCE DELLA TAVOLA ROTONDA Di impianto medievale e tuttora ben conservato, il castello di Winchester, nell’Hampshire, venne fatto costruire dal normanno Guglielmo il Conquistatore nell’XI secolo. Al suo interno custodisce uno dei reperti piú evocativi del ciclo arturiano: una tavola rotonda in legno, di colore bianco e verde, del diametro di 5,5 m, appesa a un muro della Sala Grande della fortezza, sulla quale sono riportati 25 nomi dei cavalieri arturiani. Secondo la leggenda, il manufatto sarebbe stato realizzato dal mago Merlino. Indagini storiche hanno invece accertato che la tavola venne fabbricata nel XIII secolo e, nel Cinquecento, fu restaurata per volere del sovrano Enrico VIII, figlio di Enrico
VII, il quale affermava di essere discendente diretto di Artú.
STONEHENGE
GLI INCANTESIMI DI MERLINO Nei testi del ciclo arturiano compare anche il celebre sito preistorico di Stonhenge, con i suoi megaliti, situato nei pressi di Amesbury, nello Wiltshire. Il complesso viene in particolare associato alla figura di Merlino. Secondo una leggenda – riportata da Geoffrey di Monmouth – sarebbe stato proprio il mago, grazie alle sue arti, a rendere possibile il trasferimento delle imponenti pietre dal Monte Killaraus in Irlanda, dove erano state portate da alcuni giganti. All’interno del circolo megalitico (la cui prima fondazione, lo ricordiamo, si colloca, in realtà, alla metà del
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Itinerari arturiani
III millennio a.C.), sempre secondo la ricostruzione di Geoffrey di Monmouth, avrebbe trovato poi sepoltura il corpo del padre di Artú, Uther Pendragon.
ALDERLEY EDGE
IL LUNGO SONNO DEL SOVRANO Nei pressi dell’odierno villaggio di Alderley Edge, una ventina di chilometri a sud di Manchester, sotto una roccia, i cavalieri della Tavola Rotonda e il loro capo Artú si sarebbero addormentati per lungo tempo. Piú tardi, in un periodo imprecisato, un agricoltore locale li avrebbe scorti all’interno di una grotta – in corrispondenza di un basamento in arenaria – delimitata da un cancello, ancora immersi in un sonno profondo…
ST MICHAEL’S MOUNT
QUANDO ARTÚ SFIDÒ UN GIGANTE La letteratura del ciclo arturiano racconta che il re dovette fronteggiare un giorno un gigante: lo scontro sarebbe avvenuto sull’isola di St Michael’s Mount, nella Cornovaglia occidentale, dove inoltre si sarebbe in precedenza rifugiato Giuseppe d’Arimatea – il seguace di Cristo che, secondo i Vangeli, depose il corpo del Messia dalla Croce –, che alcune leggende identificano con il primo custode del Santo Graal.
DOZMARY POOL
LA DIMORA DELLA DAMA DEL LAGO Il piccolo lago Dozmary, nei pressi del paese di Altarnun, nel Nord della Cornovaglia, viene indicato dalla tradizione come una delle dimore della Dama del Lago. In particolare come il luogo in cui sir Bedivere – secondo la versione di Thomas Malory – avreb120
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A destra l’isola di St Michael’s Mount, nella Cornovaglia occidentale. Qui Artú si sarebbe battuto contro un gigante. Qui sotto Alderley Edge (Cheshire, Inghilterra nord-occidentale), località in cui Artú e i cavalieri della Tavola Rotonda si sarebbero fermati a riposare, cadendo in un lungo sonno.
Qui accanto Excalibur, acquerello su carta di William Russell Flint. 1910. Collezione privata. Nella pagina accanto una veduta del lago Dozmary, presso Altarnun (Cornovaglia settentrionale).
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Itinerari arturiani
In alto la Torre di S. Michele, in origine compresa in una chiesa del XII sec., sulla sommità della Glastonbury Tor, sito che viene collegato alle leggende sull’isola di Avalon.
be scagliato la spada Excalibur, poi afferrata dalla misteriosa donna. Altre localizzazioni proposte dalla tradizione sono Pomparles Bridge, a Glastonbury, il lago Looe e il Llyn Llydaw nel Galles.
GLASTONBURY. LA TOMBA DI ARTÚ In Inghilterra, nel Somerset, si conservano i resti di un complesso monastico medievale fondato nell’VIII secolo: è l’abbazia di Glastonbury. Storia e leggenda si intrecciano tra le mura del monastero, che venne ricostruito dai Benedettini nel Duecento, dopo un rovinoso incendio. Nel suo sito, secondo la tradizione, si troverebbe la tomba di re Artú e della regina Ginevra, nel centro della mitica Avalon: «Hic jacet sepultus inclitus rex Arthurus in insula Avalonia» («Qui è sepolto il celebre re Artú nell isola Avalonia»), recita un iscrizione che – in base al racconto del cronista me122
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Qui sopra l’abbazia di Glastonbury (Somerset, Inghilterra), che ospiterebbe la tomba di Artú e Ginevra. Nella pagina accanto, in alto il villaggio di Bamburgh (Northumberland, Inghilterra), dominato dalla rocca medievale che viene identificata con la Guardia Gioiosa, la fortezza di Lancillotto. Nella pagina accanto, in basso Edimburgo (Scozia). La collina nota come Arthur’s Seat (Trono di Artú).
dievale Giraldus Cambrensis – era incisa anticamente su una croce sotto la quale sarebbero stati rinvenuti due scheletri. Successive ricognizioni effettuate in loco da archeologi e storici hanno escluso la presenza di reperti riconducibili a sepolture altomedievali. È probabile che la leggenda relativa alla tomba di Artú fosse stata fatta circolare ad arte dai monaci nel periodo in cui si stava provvedendo alla ricostruzione dell’abbazia, nella speranza di finanziarne i lavori con gli introiti derivanti dal massiccio afflusso di curiosi e pellegrini. Nelle vicinanze dell’abbazia si staglia un’alta collina (Glastonbury Tor), anch’essa legata alla leggenda dell’isola di Avalon.
EDIMBURGO
IL TRONO DEL RE Fra le colline che si elevano nel centro dell’antica capitale scozzese di Edimburgo, sorge la cosiddetta Arthur’s Seat (Il Trono di
Artú), la sezione piú alta dei rilievi, 250 m circa sopra il livello del mare. Porta questo nome poiché, in passato, venne proposta l’identificazione con il leggendario sovrano di uno dei protagonisti del poema altomedievale Y Gododdin, ambientato in quella zona.
BAMBURGH
LA ROCCAFORTE DI LANCILLOTTO Nel villaggio di Bamburgh, sulla costa del Northumberland, dominato da una suggestiva rocca medievale, sarebbe sorta la fortezza del cavaliere Lancillotto: la celebre
Guardia Gioiosa (Joyous Gard), citata da Thomas Malory nel suo romanzo quattrocentesco Morte Darthur (La morte di Artú). Al di là delle fantasie letterarie, il sito, forse già nel V secolo, rivestiva un notevole rilievo politico, in quanto considerato una delle principali roccaforti del regno di Bernicia. Passò, poi, nelle mani degli Angli.
LYONESSE
QUI NACQUE TRISTANO Ancora in Cornovaglia, di fronte all’arcipelago delle Scilly, sarebbe un tempo sorta una
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Itinerari arturiani
A destra la Roche Rock, (Cornovaglia centrale), uno sperone roccioso presso il quale un eremita di nome Ogrin avrebbe offerto rifugio a Tristano e Isotta in fuga dal re Marco. In basso il Cromwell Castle, sull’isola di Tresco, una delle Scilly, al largo della Cornovaglia. Secondo la leggenda, di fronte all’arcipelago si sarebbe trovata Lyonesse, una grande isola nella quale sarebbe nato Tristano.
grande isola: Lyonesse, la terra natale di Tristano, assurto a cavaliere della Tavola Rotonda in base ad alcune versioni duecentesche del ciclo arturiano, in particolare il Romanzo di Jaufré. Figlio del sovrano Meliodas, Tristano non avrebbe però mai governato su quel possedimento di famiglia, in quanto l’isola sarebbe sprofondata in mare quando ancora egli stava prestando servizio presso la corte dello zio Marco, sovrano di Cornovaglia. Altre ipotesi localizzano la leggendaria terra nell’odierno porto di Dunwich, nella contea del
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Suffolk. Un’altra tradizione identifica, infine, Lyonesse con Avalon.
ROCHE ROCK
IL RIFUGIO DI TRISTANO E ISOTTA Uno sperone roccioso nei pressi di Roche, nella Cornovaglia centrale, si staglia imponente insieme ai resti di una cappella del XV secolo. In questo suggestivo scenario Tristano e Isotta avrebbero trovato rifugio, ospitati dall’eremita Ogrin, per sfuggire all’ira del re Marco.
ITALIA
ETNA
IL VULCANO CHE RIPARÒ EXCALIBUR Esiste una versione letteraria relativa all’ultimo periodo di vita di Artú con ambientazione italiana. Il sovrano, ferito gravemente in duello da Mordred e con la propria spada spezzata, avrebbe visto l’arcangelo Michele in sogno, che gli avrebbe indicato un luogo in cui recarsi per riparare l’arma: la bocca ribollente dell’Etna. Grazie al vulcano, la spada tornò intatta e Artú, rimasto affascinato dalle bellezze naturalistiche di quella zona della Sicilia, decise di stabilirvisi. Si dice che da quel momento il re avrebbe vegliato su Catania, per proteggerla dalle eruzioni.
MODENA
LE STORIE DI ARTÚ Tracce di Artú sono rintracciabili anche in Emilia-Romagna, tra i rilievi dell’archivolto della Porta della Pescheria, nel Duomo di Modena, realizzati da un allievo della scuola di Wiligelmo. Databili al XII secolo, precorrono di diversi anni le prime stesure letterarie del ciclo arturiano. Questa sorprendente anticipazione in terra italiana della leggenda potrebbe essere originata dai contatti intercorsi tra i cavalieri di varie parti d’Europa nel corso delle missioni militari in Terra Santa. Si può ipotizzare, infatti, che in quegli ambienti la vicenda di Artú circolasse oralmente già da tempo e fosse stata poi recepita in Italia.
A destra Otranto, cattedrale dell’Annunziata. Il ritratto di re Artú nel mosaico pavimentale realizzato dal presbitero Pantaleone su commissione del vescovo Gionata. XII sec. In basso, a sinistra Modena, Duomo. L’archivolto della Porta della Pescheria, sul quale si susseguono scene ispirate al ciclo bretone, di cui sono protagonisti Winlogee e Artus de Bretania (Artú). 1110-1120. In basso, a destra l’interno della Rotonda di Montesiepi (Siena), con al centro del pavimento la spada che, secondo la tradizione, san Galgano conficcò nella roccia per sancire la fondazione del suo eremo e il suo «arruolamento» nella militia Christi.
OTRANTO
IL SOVRANO NELL’EDEN Il mosaico pavimentale che orna la Cattedrale di Otranto, pregevole commistione di forme romanico-bizantine, presenta una raffigurazione singolare di Artú. Il leggendario sovrano compare nell’episodio della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre in groppa a un caprone e con in mano uno scettro o un bastone curvo. Il mosaico venne realizzato tra il 1163 e il 1165, qualche anno in anticipo – anche in questo caso – rispetto alle prime versioni letterarie del ciclo arturiano. Ma secondo alcuni studiosi, l’immagine di Artú fu aggiunta posteriormente.
MONTESIEPI
L’ALTRA SPADA NELLA ROCCIA La spada tuttora conficcata nella roccia, nello splendido eremo romanico-gotico di Montesiepi (XII secolo), nel Senese, evoca l’arma che Artú estrae dall’incudine che la serrava nel cimitero della Cattedrale di Winchester. Quel ferro, in realtà, è connesso con le gesta del nobile, eremita e santo Galgano Guidotti (1148-1152): secondo la leggenda, una notte avrebbe compiuto in sogno un viaggio nell’aldilà, accompagnato dall’arcangelo Michele. Al risveglio, si sarebbe ritrovato in un pozzo e, una volta riemerso, in corrispondenza del colle di Montesiepi, fu accolto dai dodici apostoli, disposti a cerchio in un edificio rotondo, altra similitudine con i romanzi arturiani. In quel frangente gli apparve la scultura del Cristo e da quel momento si convinse a dedicare la propria vita alla religione. Gli apostoli lo invitarono, quindi, a fondare un eremo, e Galgano lo edificò, dopo aver piantato la propria spada nel terreno. RE ARTÚ
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Cinema e letteratura
Un eroe moderno
Artú e i suoi cavalieri nella letteratura e nel cinema La rinascita del ciclo arturiano mosse i suoi primi passi nel Settecento, in piena epoca romantica, con il ritorno in auge dei miti celtici e germanici in alcuni ambienti culturali britannici e tedeschi. Nel XIX secolo, sulla scia della rivoluzione letteraria introdotta dallo scozzese Walter Scott, le gesta leggendarie di Artú si innestarono nel nuovo corso dei romanzi storici, convivendo con il rigore filologico delle ricostruzioni. Tuttavia, al di là della Manica, dietro la riesumazione delle imprese del monarca si nascondeva anche un preciso intento politico, come ha sottolineato lo storico della letteratura Marc Rolland: la «materia di Bretagna», in effetti, si adattava efficacemente all’attualità dell’epoca, ossia alla «difesa del regno insulare contro Bonaparte». Uno dei capofila della riscoperta arturiana fu l’inglese Alfred Tennyson, che attinse alle fonti tardomedievali, in particolare a Thomas Malory, lo scrittore del XV secolo che fu autore della Morte Darthur.
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Nel poemetto The Lady of Shalott (1833), descrive il dramma di Elaine di Astolat, giovane donna che si innamora perdutamente di Lancillotto e, non corrisposta, muore di dolore. In seguito, sotto il titolo Idilli del re (1885), Tennyson riuní gran parte dei suoi componimenti in materia. In quegli anni, intanto, uno dei grandi nomi della letteratura americana, Mark Twain, si interessava al ciclo arturiano, ripercorrendolo sotto forma di viaggio nel tempo, nel celebre Uno yankee alla corte di re Artú (1889). Nel secolo successivo continuarono i tentativi di gettare un ponte tra i racconti della tradizione medievale e l’età contemporanea: una connessione metaforica tra il Novecento e la presunta epoca del sovrano di Bretagna, per esempio, viene creata nel
romanzo Re in eterno (1958) di Terence Hanbury White, alla luce della tragica esperienza della seconda guerra mondiale. Nel 1965, invece, vide la luce il primo titolo della serie fantasy Il risveglio delle tenebre, dell’inglese Susan Cooper, incentrata sulla lotta tra il bene e il male per il possesso di oggetti sacri come la spada, il Graal, i segni e l’arpa. LA «LINGUA DI OGGI» PER LE GESTA DEL RE Gli anni Settanta videro il proliferare di opere dedicate ad Artú e ai suoi cavalieri, a partire dalla serie concepita dalla britannica Mary Stewart, della quale fanno parte La grotta di cristallo (1970), La grotta nelle montagne (1973) e L’ultimo incantesimo (1979), cronaca delle vicende arturiane secondo la prospettiva di Merlino. Fece poi scalpore, nel 1976, la pubblicazione postuma del romanzo dello scrittore statunitense e Nobel della Letteratura John Steinbeck, Le gesta di re Artú e dei suoi nobili cavalieri, un originale tentativo di «trasferire nella lingua di oggi» la storia del sovrano, come riferí lo stesso autore. Nello stesso periodo venne pubblicata, con il medesimo intento, anche la trilogia dell’inglese Victor Canning, The Crimson Chalice (1976), The Circle of the Gods (1977) e The Immortal Wound (1978). Mentre inserisce elementi tratti
dalle leggende arturiane nel contesto delle invasioni turche nell’Europa del XIV secolo, il romanzo Il re pescatore (1979) dello statunitense Tim Powers. Negli anni Ottanta si moltiplicarono ulteriormente le serie; tra le piú fortunate, possiamo ricordare quelle firmate da Gillian Marucha Bradshaw (Hawk of May, Kingdom of Summer e In Winter’s Shadow), Marion Zimmer Bradley (Il ciclo di Avalon), e Guy Gavriel Kay (Trilogia di Fionavar). Nel decennio successivo il filone si arricchisce di nuovi capitoli: lo statunitense Stephen R. Lawhead compone, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, numerosi romanzi dal titolo esplicativo (Taliesin, Merlin, Arthur, Pendragon e Grail). Particolare successo di pubblico, inoltre, riscuotono i racconti di Norma Lorre Goodrich: da Merlino (1990) a Re Artú (1991), da Ginevra (1992) a Il Santo Graal (1992). All’inizio degli anni Duemila il britannico Kevin Crossley Holland realizza Il ciclo di Artú, trilogia adatta al pubblico dei piú piccoli e dei giovani. In Italia, nel 2002, con il romanzo L’Ultima legione, lo storico Valerio Massimo Manfredi compie invece un excursus dal periodo conclusivo dell’impero romano d’Occidente fino alla leggenda arturiana. Incentrato sul tema della ricerca del Sacro Graal
In alto Nigel Terry (a sinistra), nei panni di Artú, e Robert Addie, nel ruolo di Mordred, in una scena del film Excalibur (1981), diretto da John Boorman. Nella pagina accanto, in alto la copertina di un’edizione italiana (1980) del romanzo postumo di John Steinbeck dedicato alla vicenda arturiana. Nella pagina accanto, in basso una foto di scena del film A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court (1921), tratto dall’omonimo romanzo di Mark Twain.
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Cinema e letteratura
in chiave contemporanea è, infine, Il calice della vita (2013) dello statunitense Glenn Cooper. DAI MANOSCRITTI ALLA CELLULOIDE Oltre che fornire lo spunto a poeti e romanzieri, le imprese del re di Bretagna sono state piú volte portate sul grande schermo. Il primo film ispirato al ciclo arturiano è del 1909: il regista romano Mario Caserini girò Parsifal, con protagonista Alberto Capozzi, uno dei piú noti interpreti italiani del muto. Una seconda escursione cinematografica risale al 1921, con A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court dello statunitense Emmett J. Flynn, interamente tratto dall’omonimo romanzo di Mark Twain. Negli anni Quaranta, il mito del sovrano fece definitivamente il suo ingresso a Hollywood, con La corte di re Artú (1949) di Tay Garnett, una commedia musicale che vede protagonista il celebre cantante Bing Crosby. Produzioni hollywoodiane sono anche I cavalieri della tavola rotonda (1953) di Richard Thorpe – interpretato da Mel Ferrer e Ava Gardner –,
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e Il principe coraggioso (1954), di Henry Hathaway, che narra di un complotto contro Artú. Enorme successo ebbe in seguito La spada nella roccia (1963), un classico del cinema di animazione prodotto dalla Disney e diretto da Wolfgang Reitherman. Un’altra ambiziosa pellicola statunitense, Camelot (1967), di Joshua Logan, incentrata sulla passione infelice tra Lancillotto e Ginevra, non totalizzò grandi incassi al botteghino, ma vinse tre Oscar. L’epopea di Artú e della Tavola Rotonda venne quindi rivisitata in chiave parodistica dal gruppo comico inglese dei Monty Python in Monty Python e il Sacro Graal (1974). Film di rilevante spessore artistico sul tema vennero realizzati in particolare in Francia: Lancillotto e Ginevra (1974) di Robert Bresson ridimensiona gli elementi fiabeschi e rilegge la vicenda dei due amanti, scandagliandone i sentimenti; mentre ne Il fuorilegge (1978) Éric Rohmer rilegge le avventure di Percival nell’ottica metaforica di un’iniziazione alla vita
In basso, sulle due pagine una sequenza di King Arthur (2004) di Antoine Fuqua, pellicola che rilegge piuttosto liberamente la vicenda, facendo del protagonista un ufficiale di cavalleria romano di nome Lucius Artorius Castus.
e collocandole in suggestive scenografie teatrali. Un’altra produzione disneyana, Un astronauta alla tavola rotonda (1979), di Russ Mayberry, si ispirò alla già sfruttata versione letteraria del ciclo di Mark Twain. INDIANA JONES PARTECIPA ALLA «CERCA» Gli anni Ottanta si aprirono con una nuova, significativa pellicola di produzione statunitense, Excalibur (1981), diretta da John Boorman, nella quale il rispetto delle fonti letterarie coesiste con la raffigurazione di un Medioevo occulto, misterioso che sconfina nella science fiction. Adattamento musicale dell’omonima opera di Richard Wagner è, invece, Parsifal (1982), una coproduzione franco-tedesca firmata da Hans-Jürgen Syberberg. Anche in un episodio della fortunata tetralogia di Steven Spielberg, Indiana Jones e l’ultima crociata (1989), trovano spazio le gesta arturiane: il protagonista riceve infatti da un miliardario l’incarico di ritrovare il Santo Graal.
Nell’originale La leggenda del re pescatore (1991), Terry Gilliam rielabora, spaziando tra il grottesco e il drammatico, il mito della ricerca del sacro calice con ambientazione contemporanea. Nel 1995, Sean Connery, nel ruolo di Artú, e Richard Gere, nei panni di Lancillotto, interpretano Il primo cavaliere di Jerry Zucker. Nello stesso anno, Un ragazzo alla corte di re Artú di Michael Gottlieb racconta le avventure di un ragazzo californiano che viaggia a ritroso nei secoli e si ritrova al cospetto del sovrano di Bretagna. Tra le piú recenti versioni cinematografiche si menzionano: King Arthur (2004) di Antoine Fuqua, con Artú valoroso guerriero di origine romana, che sposa la causa delle popolazioni britanniche; King Arthur, il potere della spada (2017) di Guy Ritchie, che si basa sulla versione letteraria di Thomas Malory. Francesco Colotta
In alto l’attore britannico Charlie Hunnam presta il volto ad Artú, nella trasposizione cinematografica della vicenda firmata da Guy Ritchie, King Arthur, il potere della spada (2017).
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VO MEDIO E Dossier n. 20 (maggio 2017) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Franco Cuomo (1938-2007) è stato giornalista, scrittore e autore di opere teatrali. Franco Cardini è storico del Medioevo. Marina Montesano è professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi di Messina. Francesco Colotta è giornalista. Illustrazioni e immagini: AKG Images: copertina pp. 24/25, 30, 41, 66/67, 68/69, 78, 94/95, 126 (basso);– Bridgeman Images: pp. 6, 19, 21-23, 35, 45, 48/49, 54/55, 56, 59, 62/63, 71, 73, 76, 80/81, 96-97, 104/105, 118, 120 (basso) – DeA Picture Library: pp. 9, 14; M. Seemuller: p. 10; A. Dagli Orti: pp. 42, 95; M. Carrieri: p. 112; G. Wright: p. 119 (basso) – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 11, 16/17, 28-29, 36/37, 38/39, 98, 109, 110/111; Rue des Archives/PVDE: pp. 18, 20, 52/53; Rue des Archives/Tallandier: pp. 26/27, 36, 50/51; Album: p. 60; Rue des Archives/Diltz: p. 127; Keystone Pictures, USA: pp. 128/129 – Doc. red.: pp.12-13, 46/47, 88/89, 91, 92-93, 102-103, 105, 110, 113, 117, 125, 129 – Shutterstock: pp. 32/33, 115, 116, 116/117, 119 (alto), 120 (centro), 120/121, 121, 122/123, 123, 124 – Archivi Alinari, Firenze: BnF, Dist. RMN-Grand Palais/ image BnF: pp. 43, 44, 64-65, 70; UIG: p. 107 – Getty Images: Barney Burstein: pp. 74/75, 86/87, 100/101; Print Collector: pp. 77, 84/85; Heritage Images: pp. 82/83 – Scala, Firenze: Photo Josse: p. 82 – Giorgio Albertini: disegno a p. 114 – VisitBritain: Martin Brent: p. 122 (sinistra). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: La morte di Artú, olio su cartone di James Archer. 1860. Manchester, Manchester Art Gallery. L’artista ha composto la scena ispirandosi al racconto dell’episodio cosí come viene narrato dallo scrittore inglese Thomas Malory nella Morte Darthur.
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