Medioevo Dossier n.58, Settembre/Ottobre

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ARALDICA. LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA

N°58 Settembre/Ottobre 2023 Rivista Bimestrale

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ARALDICA LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA testi di Francesco Barone, Andrea Barlucchi, Sandro Carocci, Élisabeth Crouzet-Pavan, Paolo Grillo, Tommaso Indelli, Isabella Lazzarini, Patrizia Meli, Giuliano Milani, Serena Morelli, Roberta Mucciarelli, Massimo D. Papi, Francesco Pirani, Sergio Raveggi, Gerardo Sangermano, Alessandro Savorelli, Gian Maria Varanini

6. Presentazione Scienza araldica 8. Un emblema per tutti 14. Raccolte e repertori 16. Nel segno del leone ITALIA SETTENTRIONALE

20. Savoia Il primo aveva le mani bianche 28. Doria Genova caput mundi 32. Della Torre Una gloria effimera 36. Visconti Come un sole splendente 44. Dal Verme Uomini nuovi 48. Gonzaga Magnifica signoria 52. Della Scala Capitani sull’Adige 58. Da Carrara Fasti patavini 62. Tiepolo Da dogi a nemici pubblici 68. Malatesta Una storia a tinte forti

ITALIA CENTRALE

74. Malaspina Signori d’Appennino 82. Medici Governare è un’arte... 88. Piccolomini Il potere dei soldi 94. Della Gherardesca Nobili di Maremma 98. Chiavelli La ricchezza non basta 104. Colonna Discendenti dei Cesari

ITALIA MERIDIONALE

110. Angioini Tutto cominciò con Ingelger 116. De Comite Amalfitani sul Bosforo 120. Ruffo Al galoppo verso il potere 124. Chiaromonte Baroni di Sicilia


GLI UOMINI E I VALORI DI UN GRANDE PASSATO


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LA STORIA I LUOGHI I PROTAGONISTI

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Particolare del ciclo dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova: Ludovico Gonzaga ascolta un membro della sua corte, da alcuni identificato nel suo segretario Marsilio Andreasi, da altri nel diplomatico Raimondo Lupi di Soragna o nel fratello Alessandro. Gli affreschi vennero verosimilmente realizzati da Mantegna tra il 1465 e il 1474.


È

comprensibile la tendenza degli storici di oggi a interessarsi maggiormente alla riscoperta delle vicende del popolo minuto e della vita quotidiana del Medioevo: per troppo tempo non si era fatto altro che celebrare battaglie, monarchi e condottieri, ignorando le classi piú umili, le cui cronache si sono invece rivelate un’inesauribile fonte di dati, notizie e nuove chiavi interpretative per le ricerche storiografiche. E cosí, parole come araldica, aristocrazia, nobiltà, blasoni sono state, per vari decenni, trascurate dagli storici. Solo di recente, accanto alle sempre piú diffuse epopee di gente comune, gli stemmi gentilizi sono tornati a popolare le pagine della saggistica. Non si pensa piú, ormai, alla nobiltà secondo lo stereotipo della casta parassita e litigiosa, intenta in maggior parte a dissipare risorse. Al contrario, essa ha per lungo tempo rivestito un’insostituibile funzione di guida politica – spesso accorta – e, in alcuni ambiti, addirittura di volano imprenditoriale. Non è un caso che tra i capostipiti di alcune delle maggiori famiglie aristocratiche figuravano proprio mercanti o banchieri; inoltre commerci e artigianato fiorivano grazie al «tessuto» diplomatico predisposto dai nobili, che risultava favorevole agli scambi, sicuro per gli investitori e in grado di stimolare le forze produttive. Il nostro è chiamato il «Paese delle cento città», ma si potrebbe anche dire «delle mille famiglie». Nessun’altra nazione d’Europa può vantare il numero sterminato di casate nobiliari che punteggiano la geografia e la storia d’Italia, e le ragioni di questa polverizzazione del titolo feudale sono ancora oggetto di discussione accademica. Da una parte, questo fenomeno ha ostacolato la creazione di un grande Stato nazionale, alla base invece delle fortune politiche e commerciali di altri Paesi d’Europa in epoca moderna. Dall’altra, invece, grazie all’ascesa della piccola aristocrazia, nel nostro territorio si è generata una dialettica tra classe borghese e nobiliare, evitando grandi fratture sociali. Per meglio capire la mentalità e l’anima delle famiglie gentilizie, grandi o piccole che fossero, occorre però prima di tutto comprenderne i codici etici: in questo senso, l’araldica costituisce forse la disciplina piú significativa, perché racchiude in sé il linguaggio estetico e ideale dell’aristocrazia. Lo stemma non si limita a fungere da simbolo: con i secoli diventa un vero e proprio marchio spirituale, secondo per sacralità soltanto alle immagini religiose. In queste pagine esploreremo alcuni degli aspetti piú curiosi e meno noti di questo mondo rarefatto, popolato di simboli misteriosi e nomenclature inestricabili. Il nuovo Dossier di «Medioevo» invita, pertanto, a leggere le storia delle casate nobiliari italiane, tra le quali sono comprese anche alcune dinastie «italianizzate», come per esempio gli Angioini. Stemmi, motti e magioni nascondono pagine di straordinario interesse non solo per lo specialista, ma per chiunque intenda la storia come un racconto vivo e palpitante, fatto di donne e uomini desiderosi di affermare se stessi e la propria discendenza.


Un emblema per tutti Lo stemma è tradizionalmente considerato un sinonimo di nobiltà. In realtà, il desiderio di rappresentarsi attraverso un’insegna fu assai piú trasversale e sentito anche dalle classi popolari


Prato. Il Palazzo Pretorio. Le prime notizie sull’edificio, oggi trasformato in museo, risalgono al 1284, quando divenne sede delle magistrature forestiere. A destra miniatura raffigurante un cavaliere di Prato, dai Regia Carmina, opera in versi dedicata a Roberto d’Angiò. 1335-1340. Londra, British Library. L’immagine è stata scelta come emblema della Provincia di Prato.

di Alessandro Savorelli

«M

ercantuzzi di feccia d’asino (...) come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’ gentili uomini e delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono: “Io son de’ cotali”». È l’invettiva di una suocera di sangue blu (nell’ottava novella della VII giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio) contro il genero, plebeo ma ricco, accusato di inventarsi uno stemma («farsi arme») e un albero genealogico («io son de’ cotali»). E anche Giotto, in un racconto di Franco Sacchetti, insolentisce un «grossolano artefice» che si vuol far dipingere insegne araldiche: «Che arma porti tu? di qua’ se’ tu? chi furono gli antichi tuoi? deh, che non ti vergogni!» (Trecentonovelle, Novella LXIII). I letterati fiorentini condividevano dunque il pregiudizio, in seguito divenuto comune, che solo ai nobili fosse concesso fregiarsi di un blasone: nel loro sarcasmo c’è l’eterno disprezzo degli intellettuali contro i parvenus che scimmiottano gli usi delle classi alte. Sociologicamente, però, avevano torto. È vero che l’araldica era nata nel mondo feudale e della cavalleria (anche se altri se n’erano appropriati, a partire dal XIII secolo: borghesi, donne, ecclesiastici, e – in Normandia, Fiandre e Svizzera – persino contadini), ma in città «farsi uno stemma», magari «per andare in castellania» (cioè per ricoprire una carica pubblica, come nel caso dell’artigiano del Sacchetti), non era solo una vanità, ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Scienza araldica ma rispondeva all’esigenza di riconoscimento sociale. In un mondo semianalfabeta, uno stemma, un «segno» di identificazione personale, svolgeva la funzione che hanno oggi i marchi di fabbrica, la firma, la carta intestata, il biglietto da visita: inoltre i «clan», i «lignaggi», la cui solidarietà interna era un elemento portante delle strutture familiari urbane, si riconoscevano assai meglio da una figura dipinta su un portale che dal cognome, di uso ancora raro e oscillante. D’altra parte il dibattito sulla «vera» nobiltà era inconcludente: un giurista fiorentino scriveva nel 1377 che era da reputarsi

Gli stemmi dei Pugliesi (a sinistra) e dei Guazzalotti, due fra le principali famiglie magnatizie di Prato. In basso Particolare della Veduta simbolica della città di Prato con i santi Stefano e Giovanni Battista e i benefattori Francesco Datini e Michele Dragomari, affresco di Piero e Antonio di Miniato. 1413. Prato, Palazzo Pretorio.

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ARALDICA


nobile anche chi trattava «mercatanzie nobili e oneste, non vili, trafficando panni e lane» (escludendo dunque il commercio al minuto); viceversa i «nobili» da tempo inurbati, che Boccaccio e Sacchetti volevano tener distinti dai «mercantuzzi», sarebbero stati considerati gente di poco conto da un signore d’Oltralpe, per cui nobile è solo chi ha terre, castelli e maneggia la spada. Il mondo è fatto a scale... Sbarramenti legali all’uso di stemmi non esistevano. Semmai era un problema di denaro: bisognava pagare un pittore, un intagliatore di pietra o legno: lo stemma era infatti un oggetto d’uso con cui decorare un sigillo, la casa, cose di famiglia, sepolture di congiunti. C’è voluto del tempo perché gli storici abbandonassero l’opinione corrente che il blasone fosse nel Medioevo un caratteristico attributo e un diritto esclusivo della nobiltà. Oggi si calcola che almeno 2 su 5 degli stemmi medievali censiti in Europa siano stati portati da non nobili.

Nella città dei lanaioli

Per quantificare e dare un’idea della diffusione di stemmi non nobili in Italia, abbiamo scelto l’esempio concreto di un caso-limite, forse, ma indicativo: quello di Prato, un centro presso Firenze, dalle caratteristiche sociali particolari.

PAROLE GROSSE IN TRIBUNALE A Prato persino il conflitto tra «magnati» e «popolari» ebbe una curiosa espressione simbolica. Nel 1292 il Popolo istituí la magistratura del Gonfaloniere di giustizia, con il compito di reprimere abusi e privilegi della nobiltà, e gli attribuí una speciale insegna araldica, formata da una spada insanguinata sovrastante un lupo e un agnello che si abbeverano amichevolmente a un calice: ovviamente, una metafora delle due classi (ma, a dire il vero, l’agnello, nell’affresco del Palazzo comunale, ha piú l’aspetto di un gatto!). La pacifica scenetta non corrispondeva però alla realtà: quando i nobili venivano

Prato è una delle città «nuove» del Medioevo, senza vescovo, senza un passato di civitas: sorta attorno a un castello feudale dei conti Alberti, si liberò dalla soggezione ai propri signori reggendosi a Comune e riuscendo a conservare l’autonomia e un piccolo contado, pur nell’orbita di Firenze, fino al 1351. Borgo mercantile e manifatturiero, dove si sviluppò la produzione dei panni di lana, toccò il culmine delle sue fortune economiche tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, quando contava tra i 12 e i 15 000 abitanti.

trascinati in tribunale volavano parole grosse: «Taci o ti strapperò la lingua!», «Taci tu che sei solo il figlio di un fabbro!», grida un magnate della orgogliosa famiglia dei Pugliesi a un notaio, ricordandogli le distanze di casta! Gli «agnelli», del resto, esercitarono una pesante discriminazione politica nei confronti dei loro nemici, che furono costretti spesso a emigrare. Ciò non toglie che i nobili continuarono a ostentare uno stile di vita aggressivo: i piú potenti fra loro, i Guazzalotti, tentarono anzi di instaurare una vera e propria signoria sulla città nel corso del Trecento.

In alto Giustizia Militante, dipinto murale attribuito ad Arrigo di Niccolò. 1415. Prato, Palazzo Pretorio, Sala del Consiglio. In evidenza, il tondo con l’immagine allegorica del Gonfaloniere di giustizia.

Chi portava insegne araldiche in un centro simile, privo del ceto aristocratico che di solito alligna intorno a un conte o a un vescovo, o nei vasti contadi rurali? Nei registri fiscali del 1372, dopo che la grande peste aveva dimezzato gli abitanti della città, si possono identificare un centinaio di casati di qualche agiatezza che rappresentavano forse il 10% della popolazione: ebbene, di circa il 70% di essi è noto uno stemma (da testimonianze iconografiche originali o da blasonari compilati piú tardi). Se ne scorriamo la lista, al vertice della piramide sociale, per ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Scienza araldica

A sinistra e in alto stemmi di famiglie popolari pratesi, che dimostrano come gli elementi del linguaggio araldico siano gli stessi tanto per le famiglie nobili quanto per quelle di ceto piú basso.

prestigio ma non sempre per ricchezza, troviamo una quindicina di famiglie di «magnati» che avevano dominato il Comune nella sua fase d’origine e le cui insegne araldiche sono certo le piú antiche. Erano milites – cavalieri – ma, pur cercando di mantenere uno stile di vita aristocratico (il cavallo, le torri, le faide private, la spada sempre pronta»), esercitavano il prestito e la mercatura: solo tre di queste famiglie, provenienti dai fideles del conte, erano di origine feudale e potevano dunque vantare ascendenze, per cosí dire, «nobili». I magnati erano stati duramente colpiti dagli «ordinamenti di giustizia» (1292) – imposti dal «Popolo» a imitazione delle leggi bolognesi e fiorentine – che ne ridimensionarono il potere economico e politico, li esclusero dalle magistrature civiche e li avviarono a una rapida decadenza.

Ricchi, ma non nobili

Accanto a costoro era emerso un nuovo protagonista, il «Popolo», che riservandosi l’accesso alle cariche pubbliche forniva la classe dirigente della città. L’élite economica e politica era composta di circa 15 famiglie di «popolo grasso»: banchieri, mercanti, notai, giudici, medici, e, soprattutto, «lanaioli» (gli iscritti all’Arte della Lana alla fine del XIII secolo erano piú di 100). 12

ARALDICA

Qui sopra lo stemma dei Guizzelmi, un’altra nota famiglia popolare di Prato.

I loro blasoni stavano sulle lastre tombali, nelle cappelle di famiglia, sui palazzi. Sono dunque proprio quei mercanti che il Boccaccio prendeva in giro: ricchi, ma non certo nobili, anche se dei nobili imitavano i gusti e i consumi. Sotto di loro, circa altre 30 famiglie che potremmo definire di «ceto medio», e molte sono dotate di un blasone: ancora notai (come la famiglia di quel farabutto di ser Ciappelletto, sempre di boccaccesca memoria), lanaioli, artigiani. Benestanti, certo, ma che nessun cavaliere francese o tedesco avrebbe ritenuto degni di portare uno scudo: gente che si sporcava le mani nei fondaci e nelle tintorie, che perdeva la vista sui conti di bottega e sull’abaco, pur se, accanto ai membri delle famiglie «popolari» piú ricche, sedeva spesso sugli scranni del governo cittadino. Scendendo nella gerarchia sociale, ecco un’altra trentina di famiglie di nome e fortuna piú recenti. Sono di sostanze modeste (artigiani, piccoli proprietari, mercanti al minuto), che talvolta si arricchiscono di colpo in un paio di generazioni (e dunque decidono di «fare arme»), ma i cui capostipite erano farsettai, speziali, tintori, mugnai, ortolani, pizzicagnoli, berrettai, bottai, calzolai... Colleghi insomma di quell’artigiano maltrattato da Giotto. L’esempio piú illustre è quello del famoso mercante Francesco di Marco Datini: il padre era solo un oste ma, dopo anni nei fondaci di Avignone, Francesco tornò a Prato ricchissimo. Aveva sposato una giovane fiorentina della piccola nobiltà, che ogni tanto gli faceva pesare il suo lignaggio: una volta «arrivato», non si stancava di far dipingere e incidere a suon di fiorini il suo stemma nel grande palazzo, su porte, piatti, forchette, calici, cassapanche, letto, e, infine, sulla sua lastra tombale di marmo. Quando Luigi II d’Angiò fu suo ospite nel 1410, in cerca di prestiti, ebbe meno scrupoli dei novellieri fiorentini e gli concesse di aggiungere un fiammante giglio francese alle «bande» del


In alto lo stemma dei Buonristori, facenti parte anch’essi del novero delle famiglie popolari pratesi. A sinistra la lastra tombale del mercante pratese Francesco di Marco Datini, scolpita da Niccolò Lamberti, detto il Pela. Prato, chiesa di S. Francesco. suo scudo. «Il re v’ha dato il giglio ne l’arme vostra, ma che vi costa, oltre alle spese fattegli, fiorini 1000 gli prestaste!», si rammaricò un socio del Datini con buonsenso tutto borghese...

Segni, animali e giochi di parole

Non si pensi nemmeno che gli stemmi delle famiglie «popolari» differissero per contenuto e forma da quelli di nobili e magnati: gli elementi del linguaggio araldico sono gli stessi, magari in proporzioni diverse. In quelli dei milites prevalgono segni astratti (bande, fasce, pali), che stavano, ben riconoscibili da lontano, sugli scudi dell’antica cavalleria cittadina: ma il «nobile» «vaio» sta indifferentemente sullo scudo degli aristocratici Pugliesi, che dei Vai, rigattieri e – come dice il nome – fabbricanti di pellicce. Negli stemmi dei borghesi, grandi e meno grandi, prevalgono animali (il leone quasi sempre), piante e oggetti, spesso ispirati al nome del possessore: ecco cosí, in famiglie meno antiche, comparire verze (Verzoni), mazze (Mazzei), o piccoli e arguti giochi di parole, come il cane dei Buonamici e il leone dei Benricevuti che ha un pacchetto-regalo tra le zampe. Nel Medioevo, dunque, i segni araldici non sono necessariamente un distintivo di casta, ma il sintomo di una elevata mobilità sociale: e la proporzione continentale, di 2 a 5, tra stemmi nobili e non nobili, risulta, in qualche zona d’Italia – come mostra un esempio quale il nostro, di araldica quasi tutta «popolare» – completamente capovolta. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Scienza araldica

RACCOLTE E REPERTORI Alessandro Savorelli

Gli «stemmari» (un tempo chiamati, con un francesismo, armoriali) sono tra le fonti piú importanti dell’araldica. Ce ne sono migliaia nelle biblioteche e negli archivi d’Europa, ma quelli medievali, ovviamente i piú interessanti, sono piuttosto pochi, circa 350. La maggior parte risale al XV secolo, un buon numero al XIV, pochi al Duecento: su circa 250 manoscritti censiti nella Bibliographie héraldique internationale di Michel Popoff (liberamente disponibile on line all’indirizzo: http://sfhs-rfhs. fr/accueil/bibliographies), solo una trentina sono duecenteschi e qualche altra decina dei primi decenni del Trecento. Il valore dei documenti piú antichi è dato dalla rarità di molti degli stemmi che comprendono, e dal loro situarsi nel periodo in cui l’araldica medievale giunge a completa maturazione. Gli stemmari sono di vario genere, occasionali (compilati per eventi speciali: tornei, guerre, 14

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RAFFIGURAZIONI FANTASTICHE Una straordinaria parata della piú alta aristocrazia d’Europa, alla data del 1430 circa in 79 immagini, questo è il Grande Stemmario del Toson d’oro (Parigi, Biblioteca dell’Arsenale). La sua particolarità rispetto ad altri codici simili prodotti nel Medioevo è che gli stemmi sono raffigurati dall’anonimo miniatore di Lille attraverso altrettanti ritratti equestri «ideali», fantastici, astratti: di realistico c’è solo qualche dettaglio, come gli elmi cesellati nelle fogge dell’epoca. Piú che di un esercito, le movenze dei cavalieri, le loro torsioni da virtuosi della giostra sembrano passi di danza, le gualdrappe che lambiscono terra come strascichi di abiti, danno l’idea di una sfilata di moda. Il nome del codice deriva dal fatto che una serie di cavalieri riproduce i nobili cooptati nell’Ordine del Toson d’Oro tra il 1430 e il 1433, ma non si sa bene (il manoscritto è mutilo e ha subito molte manomissioni) se il codice fosse uno «stemmario universale», come fanno pensare i 950 stemmi divisi per aree geopolitiche che seguono le tavole miniate, o il registro d’onore figurato del grande Ordine borgognone.


UN CENSIMENTO VISIVO Gli stemmari esistenti in Italia sono poche decine: molti sono andati distrutti e quelli rimasti sono in genere raccolte di stemmi del patriziato su base cittadina. Una notevole eccezione su base regionale, è il grande stemmario Trivulziano, detto cosí perché in possesso della Biblioteca Trivulziana, a Milano. Questa splendida opera miniata, dipinta forse da Antonio da Tradate, fu composta quando a Milano regnava Francesco I Sforza, tra il 1450 e il 1466. Era una raccolta di uso ufficiale, un censimento visivo delle famiglie del ducato nei confini di allora. Le famiglie censite sono circa 2000, e il catalogo costituisce per lo storico una fonte preziosa. Nel codice sono compresi anche gli stemmi di decine di Comuni: e non solo le grandi città, ma anche centri minori, per la maggior parte dei quali lo stemma riportato è l’attestazione piú antica in assoluto. Le figure vi sono disegnate con freschezza e facilità straordinarie, con pochi sicuri tratti di colore che riempiono tutto lo scudo secondo l’«orrore del vuoto», tipico dell’araldica delle origini.

Nella pagina accanto, a sinistra particolare del Dering Roll, il piú antico stemmario inglese. 1270-1280. Londra, British Library. Nella pagina accanto, a destra il duca di Fiandra, dal Grand Armorial équestre de la Toison d’Or (Grande stemmario del Toson d’Oro). 1431-1435 circa. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

trattati, ecc.), generali (raccolte relative a un’area determinata o talora all’intero continente), istituzionali (elencano stemmi dei membri di qualche associazione o i signori e vassalli di una regione), marginali (compilazioni non di carattere araldico, ma ampiamente corredate di stemmi: un esempio sono le biccherne di Siena e la Cronaca del Concilio di Costanza). La maggior parte proviene dall’area «classica» dell’araldica medievale, cioè dal territorio in cui questa pratica legata al mondo feudalecavalleresco si consolidò e diffuse nelle forme piú pure: Francia, Inghilterra, Paesi Bassi, Germania occidentale. Pochi sono quelli italiani e spagnoli. Il primato spetta all’Inghilterra (quasi il 40% del totale degli stemmari e oltre il 60% di quelli del Duecento). Molti stemmari medievali sono stati pubblicati in epoca moderna, anche in anastatica (citiamo solo, celeberrimi, il Toson

Particolare di una tavoletta di biccherna senese dipinta da Diotisalvi di Speme con gli stemmi delle famiglie dei quattro provveditori in carica nel secondo semestre dell’anno 1267. Siena, Archivio di Stato. d’Oro, Gelre, il Codice Manesse di Heidelberg, il Trivulziano, il Le Breton, il Bellenville, il Rotolo di Zurigo): ma in genere sono scarsamente accessibili al lettore non specializzato, poiché molti sono esauriti, poche biblioteche li posseggono e spesso hanno prezzi molto alti. Vale perciò la pena segnalare che alcuni di questi documenti sono ora trascritti sul web. I possibili percorsi di ricerca sono molteplici e, come punto di partenza, possiamo segnalare la pagina di Wikipedia dedicata alla voce «armoriale», che contiene un’ampia selezione di collegamenti esterni; un’altra chiave di ricerca può essere il termine «Roll of arms», in quanto sono assai numerosi i repertori in lingua inglese. Consultare le varie risorse disponibili serve a percepire con chiarezza i tratti differenziali dell’araldica delle origini, tipicamente «seriale», tutta concentrata sul «segno», con molte variazioni sul tema ma pochissime figure (che proliferano in età moderna), semplicità, chiarezza e coerenza della struttura grafica, quasi nessun «inquarto» (pratica che si consolida alla fine del Medioevo). Gli stemmi a disposizione sono migliaia: pochi, in verità, rispetto alle centinaia di migliaia allora in uso, ma offrono comunque un significativo spaccato dell’araldica dell’alta e media nobiltà. Due stemmari francesi (Vermandois e Vijnbergen) si segnalano per essere divisi in comparti regionali e gerarchie feudali, secondo una speciale ottica geopolitica, estesa anche a fantasiosi regni orientali e africani.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Scienza araldica

Nel segno del leone Fu questo l’emblema del sultano Baibars, che, tuttavia, come altre immagini del genere non fu uno stemma vero e proprio, poiché l’Islam non sviluppò una tradizione araldica paragonabile a quella dell’Occidente di Alessandro Savorelli

N

el 1268 i brandelli degli Stati crociati in Palestina, a distanza di ventiquattro anni dalla definitiva caduta di Gerusalemme, subirono un’ulteriore, grave disfatta. Il 18 maggio, il sultano al-Malik az-Zahir, detto piú semplicemente «Baibars», prese d’impeto quella che era la piú grande città in mano ai cristiani – e ancora una delle piú cospicue metropoli del Mediterraneo – Antiochia. Ventitré anni dopo, con la caduta di Acri, lo Stato crociato d’Oltremare sparí del tutto. Baibars non difettava di senso dell’humour: il suo biografo gli attribuisce infatti una lettera a Boemondo d’Altavilla, principe di Antiochia, in cui il sultano racconta allo sconfitto, infierendo, i dettagli dell’impresa. «Espugnammo la città d’assalto all’ora quarta del sabato quarto del venerato mese di Ramadan (...) Avessi visto i tuoi cavalieri, prostrati sotto le zampe dei cavalli, le tue case prese d’assalto dai saccheggiatori e corse dai predoni, le tue ricchezze pesate a quintali, le tue dame vendute a quattro per volta e comprate al prezzo di un dinar! Avessi visto i Patriarchi colpiti da repentina sciagura, e i principi reali ridotti in schiavitú! Avessi visto gli incendi propagarsi per i tuoi palaz-

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Esempi di rank di emiri. Dall’alto, a sinistra, in senso orario: emiro Aqbugha, la losanga rappresenta il «fazzoletto» o «tovagliolo», attributo del «guardarobiere»; emiro Aslam, comandante militare; emiro Almalik, «maestro di polo» del sultano Qalaun; emiro Mahmud b. Shirwin; emiro Tashtamur al-Ala’i, «gran segretario» dell’Egitto; la figura è un astuccio per le penne stilizzato.

zi… avresti detto: “Oh foss’io polvere, e non avessi mai avuto una tua lettera con tale notizia”». Boemondo – pare – se la prese non poco: le beffe unite al danno!

Una titolazione roboante

Non stupisce che Baibars, dall’alto delle sue vittorie, facesse scolpire impressionanti titolature sulle porte delle città del Regno, nominandosi «il Signore piú Magnifico, il Grande, il Dotto, il Giusto, il difensore della Fede, il Guerriero delle Frontiere, colui che è soccorso da Dio, il Vittorioso, il Sultano dell’Islam e dei Musulmani, il Signore dei Re e dei Sultani, l’Uccisore degli infedeli e dei politeisti, colui che fa prevalere la verità e che salva le creature, il Re


dei Due Mari, il Signore della Qiblah, il Servitore dei due Nobili Santuari, il Restauratore dell’Augusto Califfato, l’ombra di Dio sulla terra, l’Associato al Comandante dei Fedeli». Accanto a queste iscrizioni compaiono spesso due «leoni», emblema di Baibars (che l’aveva adottato, chi dice da bars,«pantera», chi per il suo coraggio): essi sono dunque uno degli ultimi simboli saraceni che le armate cristiane ebbero modo di vedere in Terra Santa. In precedenza, i sultani ayyubidi avevano usato un «giglio», e Saladino, in particolare, un’«aquila». Segni molto comuni: e, cosa singolare, simili graficamente o del tutto identici alle figure corrispondenti dell’araldica occidentale. Ma in che rapporto sta dunque l’araldica isla-

mica con la «nostra» araldica? E anzi, esiste davvero un’araldica dell’Islam? Nel Medioevo, in età barocca e persino presso qualche storico moderno, a questa domanda si dà una risposta positiva. L’uomo medievale pensava all’araldica come a un sistema di segni sempre esistito e universale, e dunque non aveva difficoltà a supporre che anche in Oriente se ne facesse uso. Gli araldisti barocchi, per parte loro, sostennero una tesi oggi del tutto abbandonata: che l’araldica fosse nata proprio con le crociate, e che figure e colori fossero stati presi a prestito dagli orientali («azzurro», per esempio, viene da una parola persiana; «sinople», il termine che indica il verde, si diceva derivato dalla lussureggiante città di Sinope, e cosí via).

Rilievo raffigurante un leone, particolare della decorazione del ponte sul fiume Ayalon fatto erigere dal sultano Baibars nel 1273 nel territorio dell’odierna Lod (Israele).

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Scienza araldica

IMMAGINI QUASI CARICATURALI Nel Medioevo fiorirono molte leggende sull’«araldica saracena»: chi vide, per esempio, i gigli scolpiti sulla fortezza di Damasco cominciò a diffondere il mito di un «mamelucco Fiorentino» fondatore della città… La leggenda piú nota è quella di Ottone Visconti, che avrebbe assunto come stemma quello di un Saraceno da lui sconfitto in battaglia: il serpente (la «biscia») che ingoia il bambino rappresenterebbe appunto Maometto che distrugge Gesú. Naturalmente si tratta di invenzioni. Gli occidentali tentarono di ritradurre la simbologia islamica nel codice araldico vero e proprio, e questo si nota particolarmente nelle bandiere dei portolani, miscuglio di elementi veri, falsi o verosimili. Nelle arti figurative e nella letteratura si lavorò di fantasia: gli Arabi venivano di solito raffigurati con scudi e bandiere su cui campeggiano draghi, animali feroci, il volto di Maometto, o quella specie di «autoritratto» che è la «testa di moro»: famosa perché diventata lo stemma della Sardegna e della Corsica, e collegata alle leggende della Reconquista. Piero della Francesca dipinse le bandiere del re persiano Cosroe, giocando sul simbolo della mezzaluna, che era insieme quello dei musulmani e della famiglia Bacci, committente degli affreschi della chiesa di S. Francesco ad Arezzo. Nel Quattrocento la fantasia divenne inarrestabile: nella Cronaca del Concilio di Costanza gli araldisti tedeschi inventarono di sana pianta gli stemmi dei sultani: tre elefanti poggiati su altrettante corone per il sultano di Babilonia (Cairo), tre bandiere gialle per Baghdad e cosí via. Persino al leggendario «Vecchio della Montagna», il capo della setta degli «assassini» di cui parla Marco Polo, si trovò uno stemma: un monte sormontato, naturalmente, dai «ferri del mestiere»… tre pugnali!

In realtà, i simboli mamelucchi sono piú recenti dell’araldica occidentale: piú probabilmente, sia i cristiani che i musulmani attingevano a un bagaglio di figure universalmente diffuse, come motivi decorativi, già nel mondo antico. Tuttavia, di una vera e propria araldica dell’Islam non si può parlare, perché mancano i presupposti che la fecero nascere e diffondere in Occidente: gli usi militari connessi ai ruoli nella gerarchia feudale, l’ereditarietà, la codificazione di regole e segni relativamente stabile e rigida. Per l’Islam si può parlare di «simbologia», genericamente, non d’araldica, anche se in qualche occasione i simboli compaiono all’interno di uno scudo.

Nomi e versetti del Corano

Ricerche sistematiche sull’argomento non sono state condotte. Si sa che nelle aree turco-mongole era in vigore un sistema di segni geometrici, di origine tribale, detti «tamga»: ma questo sistema non si generalizzò ovunque. Un altro tipo di simboli molto diffuso sono le iscrizioni, col nome del sultano o versetti coranici, talora inseriti in uno scudo: cosí avvenne nel Regno moro di Granada che, per influsso occidentale, recava uno scudo con la scritta «la galib illa llah» («c’è un solo Dio vincitore»). Le sole conoscenze approfondite riguardano lo Stato mamelucco siriaco-egiziano (1250-1517). Lí si sviluppò non solo l’emblematica dei sultani, ma anche un sistema di segni d’identificazione personale in uso presso gli emiri, cioè gli alti funzionari civili e militari della corte e dell’amministrazione. Questi segni si chiamano rank (letteralmente:«colore»), e sono sottoposti a re18

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UN’ACQUISIZIONE RECENTE Nel Medioevo, e soprattutto a partire dal XV secolo, il simbolo che identifica l’Islam in Occidente è quasi sempre la mezzaluna (in arabo hilal). Perché? Gli storici non sanno spiegarlo: la luna naturalmente è sempre stata collegata a diversi motivi religiosi e astrologici, in tutte le culture, e anche nell’Islam. Lí però non ebbe mai quel ruolo simbolico cosí preponderante che si crede: anzi, nell’araldica occidentale essa è assai piú diffusa che in Oriente. Il pittore veneziano Carpaccio comunque non aveva dubbi, e dipingeva regolarmente i minareti sormontati dalla mezzaluna. Nel periodo turco i sultani la introdussero nei loro stendardi, ma, di nuovo, non si trattò di un segno esclusivo. Sulla luna turca fiorirono a posteriori molte leggende: il sultano Murad II l’avrebbe vista riflessa in una pozza di sangue dopo la vittoria di Kosovo Polje sui Serbi; Orkhan l’avrebbe sognata alla vigilia della conquista di Costantinopoli. Qualcuno sostiene che la mezzaluna, come simbolo mariano, fosse particolarmente venerata a Costantinopoli, e che, dopo la conquista i Turchi se ne sarebbero dunque impadroniti. In realtà solo nell’Ottocento la mezzaluna divenne di uso ufficiale. Ancora nel 1720, infatti, si racconta questo episodio. Alla corte di Luigi XV di Francia, durante un ricevimento per gli ambasciatori stranieri con tanto di fuochi d’artificio, a ciascuno di loro fu donato un oggetto recante lo stemma nazionale.

A destra bandiere con il leone mamelucco e con la mezzaluna, da un portolano spagnolo del XIV sec. Nella pagina accanto, in alto il sultano di Babilonia con la bandiera recante il leone mamelucco, dall’Atlante catalano, mappa cosí chiamata perché realizzata appunto da geografi catalani che operavano a Maiorca; ultimata nel 1375, l’opera fu donata al re di Francia Carlo V. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in basso lo stemma attribuito al leggendario «Vecchio della Montagna».

Quando l’ambasciatore turco – Yirmi Sekiz Mahmed Effendi – si vide porgere un «tripode decorato con la mezzaluna e la corona», ne chiese la spiegazione: «È lo stemma turco», gli dissero. «Ah, sí…?», pare abbia risposto, cadendo dalle nuvole, «Non lo sapevo!».

gole abbastanza stabili. Di solito le figure sono inserite in un cerchio, e sono accompagnate dal nome dell’emiro e dalla sua carica: decorano armi, oggetti personali, ceramiche, tombe, edifici. Le figure sono in numero limitato: alcune sono generiche (di nuovo: rosette, aquile, gigli, lune, semplici figure geometriche, ecc.), altre alludono al nome del loro possessore. A partire da una certa data i sultani mamelucchi usarono rank divisi in tre fasce orizzontali, la centrale col nome del sovrano e una formula standard. Ma le figure piú interessanti e curiose rispecchiano invece la carica ricoperta dall’emiro, o l’ufficio «rituale» che gli veniva attribuito. Abbiamo cosí: la «coppa» per il «coppiere», le «mazze da polo» per i maestri di questo sport, la «tavola» per gli «assaggiatori», il «fazzoletto» o «tovagliolo» (una figura romboidale, simile al segno dei «quadri» nelle nostre carte) per i «guardarobieri», l’«arco», la «spada», ecc. per i capi militari. Molto caratteristico, e molto diffuso, è il rank dei «segretari», raffigurante un astuccio per le penne, che somiglia proprio a quelli che si usano nelle scuole: una serie stilizzata di scanalature tonde e rettangolari. Altri rank sono meno chiari: recano «selle», «bandie-

rine», «chiavi». Può darsi che fossero riservati ai governatori, e questo potrebbe spiegare perché alcune bandiere islamiche riprodotte nei portolani spagnoli o italiani presentino queste figure: forse erano i segni di un emiro del luogo. Non si sa bene se il rank venisse concesso dal sultano o scelto autonomamente; né se cambiasse coi mutamenti di «carriera» degli emiri; né se fosse ereditario. Col tempo, i rank, per distinguersi l’uno dall’altro, impiegarono piú combinazioni di segni, in genere disposte su tre fasce orizzontali. L’uso limitato del rank, portato solo da sultani ed emiri, la scarsa o nulla diffusione negli altri settori della società, fa di questa curiosa «araldica islamica» un fenomeno molto circoscritto. Del resto l’iconoclastia tipica dell’Islam spinse a preferire come simboli le parole scritte negli eleganti caratteri arabi o cufici (come ancora si vede nella bandiera saudita), a fronte delle figure. In arabo la parola usata per «segno», «emblema», ecc. è alam: di solito identifica i grandi stendardi colorati, cosí frequenti nell’uso islamico, che la tradizione attribuisce nei colori bianco o nero a Maometto, bianca ai califfi omayyadi, nera a quelli abbasidi, verde agli sciiti. ARALDICA

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ITALIA SETTENTRIONALE

SAVOIA Il primo aveva le mani bianche

Attestata fin dalla vigilia dell’anno Mille, la dinastia dei Savoia ebbe in origine carattere locale. Ma poi, soprattutto grazie ad accorte strategie matrimoniali, seppe ritagliarsi un ruolo di spicco, fino a dare all’Italia i suoi primi re


di Massimo D. Papi

D

i Umberto I Biancamano, ritenuto il capostipite della casa di Savoia, non abbiamo notizie certe e, anche se il suo nome compare in documenti risalenti all’XI secolo, le sue vicende e la sua personalità sono piú legate alla ricostruzione leggendaria che non alla storia. Ricostruzione delle origini della famiglia che Amedeo VIII il Pacifico – straordinaria figura di politico, mistico, cavaliere, fondatore di ordini

religiosi e di università, infine antipapa – affiderà a «Cabaret» (Jean d’Ormeville), araldo della corte sabauda. Siamo nel XV secolo e tutte le grandi famiglie d’Europa desiderano dare lustro al loro casato, annoverando tra i loro antenati eroi o semidei, o ricorrendo ad avvenimenti fantastici. Jean d’Ormeville, piú intelligentemente, scriverà una storia «credibile» e, soprattutto, in linea con gli interessi politici

Enrico II ferito a morte in un torneo benedice il matrimonio di Emanuele Filiberto con Margherita di Valois, olio su tela di Francesco Podesti. 1843-1844. Agliè (Torino), Castello Ducale. MEDICINA

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del suo signore da poco nominato duca dall’imperatore. Umberto Biancamano sarà quindi figlio di un tal Beroldo duca di Sassonia, nipote di Ottone III. A questa origine sassone, sostenuta anche nei secoli successivi, Carlo Alberto preferirà – in relazione agli avvenimenti del XIX secolo – una origine «italica», con Biancamano discendente diretto di Berengario II, marchese d’Ivrea e – guarda caso – re d’Italia nel X secolo.

A difesa dei passi alpini

Umberto I fa la sua apparizione nella storia in occasione della morte, nel 1032, di Rodolfo III di Borgogna e dell’avvento del suo successore Corrado II. A quel tempo il dominio del capostipite di casa Savoia si estende su un vasto territorio montano in cui è compreso il passo del Piccolo San Bernardo; gli accordi con Corrado, desideroso che i passi alpini siano difesi da persone fidate e fedeli, gli fanno presto ottenere il controllo anche del Gran San Bernardo e del versante nord del Sempione. Favorita da un’invidiabile posizione geografica – perché in possesso delle piú utilizzate vie di transito tra Francia, Germania e Italia –, la casa 22

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di Savoia riuscí presto con un’abile politica matrimoniale a estendere il proprio dominio, oltre che sulle regioni transalpine di Moriana, Bugey, Bresse e altre terre borgognone, anche sulla contea di Aosta, su Torino, Ivrea e le valli di Susa e di Pinerolo. Da questo periodo si data la prima divisione in tre rami: Savoia, Acaia e Vaud; successive divisioni vedranno nascere i Savoia-Soissons, i Savoia-Nemours e


Nell’albero genealogico sono indicati i principali esponenti dei Savoia in età medievale, riportando in sintesi, con qualche salto di generazione, la discendenza in linea diretta.

i Savoia-Carignano; questi ultimi, nella persona di Carlo Alberto, saliranno al trono di Sardegna nel 1831 essendosi spenta con Carlo Felice la dinastia originaria. Tra i primi discendenti di Biancamano meritano di essere ricordati non tanto Oddone, che governò pochissimo, quanto sua moglie Adelaide che, rimasta vedova molto giovane, resse le sorti dello Stato per piú di trent’anni,

prima come reggente, poi a nome dei figli Pietro I e Amedeo II, a lei premorti, e infine anche per il nipote Umberto II.

Le armi si addicono a Mafalda

Degno discendente di una dinastia di combattenti Amedeo III (1103-1148) partecipò alla crociata bandita da Luigi VII di Francia, suo nipote, ma morí a Cipro e non poté essere sepolto nell’abbazia cistercense di Hautecombe, sul lago di Bourget, che lui stesso aveva voluto come mausoleo di famiglia e che rimarrà tale fino a quando, nel 1706, Vittorio Amedeo II la sostituirà con la basilica di Superga. Le virtú cavalleresche di Amedeo III passeranno però, pressoché intatte, nella figlia Mafalda, decisamente esperta nelle armi che «conquisterà» il futuro marito, re Alfonso I del Portogallo, dopo averlo disarcionato in un torneo. I Savoia condussero sin dal Medioevo una mirata politica matrimoniale, tesa a unire la propria discendenza con le teste coronate di tutt’Europa; è sintomatico il fatto che Tommaso I (1189-1223), vicario imperiale di Federico II, si troverà a essere nonno di quattro regine rispetARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale per la conquista della corona napoletana. Amedeo VI trovò anche il tempo di organizzare giostre e tornei nel piú pieno spirito cavalleresco, in nome del quale egli, «cavaliere nel nome di San Giorgio», volle indossare una divisa verde e ordinò che tutto, intorno a lui, fosse di questo colore: la gualdrappa del suo cavallo, le tende da campo, le vele delle sue navi. Fondò anche, in occasione del suo giuramento di crociato, quell’ordine religioso-cavalleresco composto da quindici cavalieri, in onore delle quindici gioie della Madonna, che darà il nome alla piú alta onorificenza sabauda, l’Ordine del Collare della Santissima Annunziata: un collare d’oro, smaltato di verde, e tenuto assieme da tre «nodi d’amore» (o «nodi Savoia») a simbolo della fratellanza che univa i cavalieri sotto l’«impresa» FERT (una delle cui letture piú accreditate è Fortitudo Eius Rhodum Tenuit, «Il suo valore giunse a Rodi»). Suo figlio Amedeo VII (1383-1391), chiamato il Conte Rosso a motivo degli abiti donatigli dal cugino Carlo VI di Francia in occasione della campagna contro gli Inglesi, nel suo breve regno contribuí ulteriormente allo sviluppo dei domini dei Savoia, annettendo la contea di Nizza e assicurandosi cosí il vantaggio di uno sbocco sul Mediterraneo.

Un nuovo grande Stato tivamente sui troni di Francia, di Cornovaglia, di Napoli e d’Inghilterra e un secolo dopo una sua discendente, Giovanna, figlia di Amedeo V, sposerà l’imperatore di Bisanzio Andronico. In un insieme di figure caratterizzate dall’abilità nel mantenere relazioni diplomatiche e buoni rapporti con quante piú potenze possibili (particolarmente con Francia, Inghilterra e impero), spicca ogni tanto qualche personaggio capace di dare allo spesso scialbo impegno politico qualche aspetto brillante: è il caso di Amedeo VI, il Conte Verde (1343-1383), il quale, dopo aver combattuto per la Francia nel corso della guerra dei Cento Anni e aver esteso i confini del Piemonte scontrandosi con i marchesi di Monferrato e di Saluzzo, rispose all’appello di Urbano V per la crociata contro i Turchi in difesa dell’imperatore di Bisanzio Giovanni V. Anche se la crociata non fu mai fatta, Amedeo partí ugualmente per l’Oriente dove compí numerose imprese. Al suo ritorno combatté nuovamente l’espansione occidentale dei Visconti riportando notevoli successi. La sua lealtà nei confronti della Francia lo portò alla morte al seguito di Luigi d’Angiò nella sua spedizione 24

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Umberto III di Savoia, detto il Beato (1136-1189), conte di Savoia e conte d’Aosta e Moriana dal 1148, particolare di un affresco attribuito a Paolo Barbotti. 1866. Pavia, basilica di S. Michele Maggiore a Pavia. Figlio di Amedeo III, gli succedette al trono con il titolo di Umberto III. La sua figura divenne leggendaria nei secoli, soprattutto per la fervida fede che lo animava, che gli valse la beatificazione nel 1838 da Gregorio XVI.

Ulteriori progressi furono compiuti dal figlio Amedeo VIII (1391-1434) che, approfittando dell’estinzione di alcuni rami comitali, si annetté prima la contea di Ginevra, nel 1401, poi, nel 1418, il principato di Piemonte (già appartenente al ramo di Acaia, oggi estinto) e fece celebrare la cerimonia dell’annessione a Torino, disdegnando sia Chambery, capitale della Savoia, sia Pinerolo, residenza dei signori del Piemonte. Con questo atto – e unitamente al titolo di duca conferitogli dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo con l’intenzione di creare una potenza politica e militare alleata per contrastare i confinanti regno di Francia e ducato di Borgogna – Amedeo VIII sottolineava la nascita di un nuovo grande Stato che estendeva il suo territorio al di qua e al di là delle Alpi. Amedeo VIII promulgò, nel 1430, gli Statuti Sabaudi, tesi a dare al ducato un’amministrazione centralizzata, e, pur lasciando la capitale a Chambery, fondò a Torino l’Università. Poi, improvvisamente, nel 1434, lasciò il governo al figlio Ludovico I e si ritirò con sette nobili compagni a Ripaille sul Lemano dove condurrà vita monastica e fonderà l’Ordine di San Maurizio. Vi rimarrà cinque anni fino a quando, forse persuaso da Enea Silvio Piccolomini, il futuro


QUASI COME UN ATLANTE Comunemente contraddistinta dall’arme «croce bianca in campo rosso», stemma del Regno d’Italia dopo l’unificazione, la casa di Savoia, ha una sua vera arme d’origine consistente in un’aquila nera in campo d’oro», chiamata anche «Savoia antica». Successivamente venne a comporsi uno stemma sempre piú complesso, in cui sono rappresentati tutti i luoghi che, nel tempo, sono stati sotto il dominio o l’influenza dei Savoia. Per poter descrivere i sedici elementi che ne compongono lo stemma ufficiale è opportuno ricordare che la «destra» dello scudo corrisponde alla sinistra di chi guarda, e viceversa. Lo scudo è innanzitutto «inquartato», cioè diviso verticalmente e orizzontalmente in quattro parti uguali; il «primo gran quarto», quello cioè in alto a destra, è a sua volta «contrinquartato», suddiviso in altre quattro parti nella prima delle quali compare lo stemma di Gerusalemme, accanto quello di Lusignano, sotto a destra quello di Armenia, quindi quello del Lussemburgo. Il «secondo gran quarto», in alto a sinistra, si presenta diviso in tre parti, nelle quali sono raccolti lo stemma di Westfalia, quello di Sassonia e, in basso, quello di Angria. Il «terzo gran quarto», in basso a destra, è «partito», cioè diviso verticalmente in due parti, e presenta a destra lo stemma di Chablais, a sinistra quello di Aosta. Il «quarto gran quarto», in basso a sinistra, è «semitroncato partito», in pratica diviso in tre parti, due piú piccole a destra, una piú grande a sinistra; nella prima, in alto a destra, il simbolo del Piemonte, sotto lo stemma di Ginevra, a sinistra

Pio II, abdicherà al ducato e accetterà la tiara pontificia propostagli dal Concilio di Basilea, dissidente nei confronti del papa Eugenio IV: Amedeo diverrà papa, in realtà antipapa, col nome di Felice V. Do­po circa dieci anni di litigi e di diatribe con Roma, stanco di quella vita, rinuncerà anche a quella pesante carica e tornerà con i suoi compagni all’eremo di Ripaille dove morirà, scismatico, nel 1451.

In posizione indipendente

Inizia, con la fine del Medioevo, un periodo di lento ma costante declino, caratterizzato da governanti dediti ad altri interessi, come Amedeo IX (1465-1472), il quale, assorto nella sua vocazione religiosa, trascurò ogni interesse politico, o da altri troppo deboli, incapaci di ostacolare l’occupazione della Savoia da parte della Francia. Solo con Emanuele Filiberto e con suo figlio Carlo Emanuele I, che con aggressiva politica estera riuscirà nel 1588 a prendere Saluzzo, la Savoia riacquisterà il vigore di un tempo; nel secolo successivo la famiglia

quello del Monferrato. Tra il terzo e il quarto gran quarto è «innestato», quasi cioè si incuneasse dal basso tra i due, quello della contea di Nizza. «Sul tutto», sopra l’incrocio dei quattro gran quarti, la «Savoia antica»; «sul tutto del tutto», in questo caso «in cuore» dell’aquila della Savoia antica, «Savoia moderna» e infine, «nel punto d’onore del tutto», in alto al centro, «Sardegna».

perseguirà una politica di espansione territoriale, mantenendo per lo piú una posizione di indipendenza e destreggiandosi tra le opposte maggiori potenze: la Francia e gli Asburgo. Nonostante i loro territori fossero, durante la seconda metà del XVII secolo, sotto la dominazione francese, i Savoia uscirono da quel lungo periodo di guerre con notevoli profitti. Vittorio Amedeo II ottenne, col trattato di Utrecht (1713), il titolo di re abbinato al possesso della Sicilia. Nel 1720 scambierà la Sicilia con la Sardegna, acquisendo inoltre il Monferrato, poi sarà la volta di Novara, di Tortona e della sponda orientale del Ticino. Durante la rivoluzione francese e il successivo periodo napoleonico ai Savoia resterà solo la Sardegna. Riconquisteranno Genova nel 1815. Ma soltanto un concorso di circostanze straordinario – il genio di un ministro, Cavour, lo scompaginato esercito di un pontefice, Pio IX, e l’inaspettato regalo da parte di un guerrigliero repubblicano, Garibaldi – porterà Vittorio Emanuele II a essere acclamato re d’Italia nel 1861.

Stemma della Regia Casa di Savoja, da Teatro Araldico, ovvero Raccolta Generale delle Armi ed Insegne Gentilizie delle piú illustri e Nobili Casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta l’Italia, illustrate con relative genealogicostoriche nozioni da Leone Tettoni e Francesco Saladini. Claudio Wilmant e figli, Lodi, 1841-1851.

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SI FA PRESTO A DIRE BALZANA Alessandro Savorelli

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aloroso Marchese, signore di Monferrato (...) v’ho aiutato a conquistare imperi e regni, e terre e isole (...) Insieme abbiam dato la caccia all’imperatore di Romania, che voi avete diseredato per dare la corona a un altro». Con selvaggio entusiasmo di vincitore, Raimbaut de Vaqueiras, grande poeta provenzale, celebrava il suo signore, Bonifacio di Monferrato, all’indomani della IV crociata (1204). Bonifacio aveva ottenuto in feudo il regno di Tessalonica, nel quadro dell’impero latino d’Oriente, ma già dopo tre anni le sue fortune precipitarono: nel 1207 morí in combattimento contro i Bulgari (Raimbaut che lo seguí ebbe la stessa sorte) e il regno si dissolse pochi anni dopo. Per decenni i marchesi vantarono i loro diritti di re, ma con la riscossa dei Bizantini sotto i Paleologhi le speranze andarono in fumo. Nel 1282 Violante di Monferrato andò in sposa all’imperatore Andronico Paleologo, il quale ottenne che i marchesi rinunciassero alle pretese sul trono. Violante tentò per parte sua di dettar legge e «piazzare» i propri figli in qualche feudo d’Oriente: si ritirò anzi a Tessalonica (Salonicco), quasi in una piccola 26

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secessione. Per un ghiribizzo della storia, però, nel 1305 la dinastia degli Aleramici del Monferrato si estinse: e furono cosí i Paleologhi a ereditare il marchesato padano, dove regnarono per circa due secoli. Il minuscolo dettaglio di un portolano maiorchino, del 1330 circa, documenta questa fase confusa: su Salonicco è raffigurato non lo stemma bizantino, ma una bandiera rossa e bianca, la «balzana» del Monferrato, ossia uno scudo diviso orizzontalmente rosso e argento. Una figura semplice che però ha dato occasione di sfogo ai pedanti dell’araldica. Perché? Perché una «balzana» secondo alcuni è uno scudo

Il castello bizantino di Salonicco (Tessalonica). A sinistra, in alto lo stemma del Monferrato, con la balzana rossa e bianca.


diviso «bianco e nero», e dunque quella non si può chiamare cosí; perché lo scudo monferrino non è una «balzana» (cioè uno scudo «troncato» orizzontalmente in due parti eguali), ma si deve descrivere «d’argento al “capo” di rosso»: il «capo» infatti non copre la metà dello scudo, ma solo un terzo. Quando si cede al virus dell’anacronismo si arriva a queste sciocchezze, proiettando tre secoli prima le regole codificate dagli araldisti del Seicento. L’araldica medievale è assai fluida e mobile e ha un concetto delle regole molto piú elastico: in numerose descrizioni antiche e raffigurazioni la terminologia e il disegno sono difformi da quelli

«corretti», soprattutto quando si tratta del numero e delle dimensioni delle divisioni geometriche dello scudo. Tra una striscia di un terzo dello scudo e due strisce della stessa misura, cioè tra un «capo» e un «troncato», non si faceva sostanzialmente differenza. E se un ignoto trovatore cantava nel 1345 «il marchese ha la sua insegna, la «balzana», che Dio lo protegga!», vuol dire che il concetto di «balzana» era diverso da quello dei pedanti eruditi. Quando arriveranno gli araldi ufficiali, con le loro regole e le loro misurazioni al millimetro, l’araldica come sistema di segni si è già avviata a diventare un noioso gergo per iniziati.

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DORIA Genova caput mundi Abili mercanti e armatori, i Doria si servirono delle proprie capacità imprenditoriali per fare della città della Lanterna una delle grandi potenze, assumendone il controllo di Giuliano Milani

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econdo Il Milione di Marco Polo, nella Piccola Armenia «è una villa ch’a nome Laias, la quale è di grande mercatantia; e quivi si sposa [fanno capo] tutte le spezierie che vengono di là entro, e li mercatanti di Vinegia e di Genova e d’ogni parti quindi le levano, e li drappi di là e tutte le altre care cose». Niente di strano, dunque, se proprio in questo porto orientale, nel 1271, il genovese Iacopo Doria sbrigava affari per conto della compagnia commerciale di famiglia. Probabilmente Iacopo era arrivato a Laias (oggi nella Turchia sud-orientale) con un viaggio avventuroso: prima a bordo di una nave enorme per quell’epoca, la Paradisus Magnus, capace di contenere cento marinai. Il proprietario, suo padre Pietro, l’aveva affittata a Luigi IX di Francia, il futuro san Luigi, per consentirgli di combattere la settima crociata, ma la nave si era fermata a Tunisi, dove un’epidemia aveva falcidiato l’esercito e ucciso lo stesso re. A quel punto, forse, Iacopo aveva proseguito verso la Terra Santa al seguito di un altro sovrano, Edoardo d’Inghilterra, per poi inoltrarsi nell’interno. Tornato in patria, avrebbe avuto un certo ruolo nella difesa militare di Genova dagli attacchi di Carlo I d’Angiò, per poi diventare un attentissimo conservatore dei documenti del Comune e scrivere l’ultima parte degli Annales lanuenses, la cronaca che da piú di un secolo rivestiva la funzione di riferimento pubblico e ufficiale della memoria storica cittadina. Una vita attiva, dunque, su moltissimi fronti diversi: il commercio, la finanza, la guerra, la

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politica estera e quella interna, la cultura. Una vita che Iacopo condivideva con molti dei suoi parenti: proprio questa vastità di orizzonti e risorse rappresenta uno dei motivi che rendono interessante la vicenda medievale di una famiglia come i Doria, continuamente intrecciata con quella della loro città.

Commerci e politica

Il padre del trisavolo di Iacopo, Ansaldo, il primo su cui possediamo notizie precise, aveva già posto le basi per l’espansione successiva. Di lui sappiamo che praticava il commercio con profitto, tanto da possedere un notevole patrimonio e fondachi a Costantinopoli; che partecipò a spedizioni militari importanti contro gli Arabi per la creazione di basi da cui Genova potesse commerciare con l’Oriente; e infine che, in qualità di ambasciatore del Comune, si recò in Sicilia – altro scalo fondamentale nelle rotte genovesi – per trattare con il re normanno Guglielmo I. Dunque Ansaldo nutriva interessi commerciali comuni agli aristocratici di una città marinara e praticava attività politico-militari in qualche misura connesse con essi; le stesse strade

Genova in una xilografia tratta da Le Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel. 1493. Nella pagina accanto miniatura del Maestro delle Ore del maresciallo Boucicaut raffigurante la partenza di Luigi IX per la crociata, da un Trésor des Histoires. XV sec. Parigi, Museo del Louvre.


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QUELLI DELL’AQUILA NERA Cosí come gli stemmi di altre famiglie, anche quello dei Doria ha subito nel corso degli anni alcune modifiche che non si sono però discostate mai molto dagli elementi originali. Di origine forse feudale, ligure o provenzale, Ansaldo ricopre nel 1134 la carica di console del Comune a Genova e rappresenta la sua casata con uno scudo «spaccato [o troncato] d’oro e d’argento all’aquila spiegata di nero coronata, armata imbeccata e linguata di rosso» (lo scudo, diviso orizzontalmente in due parti uguali: la superiore d’oro e l’inferiore in argento – e questa evidente contravvenzione alle regole dell’araldica che impongono di non sovrapporre, e consigliano di non accostare, metallo con metallo testimonia l’antica origine della famiglia – fa da campo a un’aquila nera incoronata, con gli artigli, il becco aperto e la lingua rossi). Pochi decenni dopo Andrea e Manuele, imparentandosi con nobili famiglie sarde, daranno inizio alle stirpi Doria di Torres e di Arborea, apportando leggere modifiche all’arme agnatizia: «spaccato d’oro e d’argento all’aquila di nero e spaccato d’oro e d’argento alla divisa di rosso, sul tutto all’aquila coronata di nero». Abbiamo in questo caso due esempi di brisure, cioè piccole variazioni dello stemma all’interno della stessa famiglia con lo scopo di contraddistinguere i vari rami. In entrambi i casi, pur restando la partizione, gli smalti e la figura perfettamente riconoscibili, si abbandonano gli attributi «guerreschi» ma non i «nobili» dell’aquila; nel secondo, piú interessante dal punto di vista araldico, l’«ineleganza» dell’accostamento oro/argento è risolta con l’adozione di una fascia ristretta, una divisa appunto, che separa i due metalli ma che ricorda però nello smalto rosso i colori tralasciati. Nel 1311, infine, lo stemma Doria potrà fregiarsi di un ambito riconoscimento: in occasione della sua visita a Genova, l’imperatore Enrico VII gli concederà il privilegio del capo di Francia, «d’azzurro ai gigli d’oro».

In alto stemma della famiglia Doria.

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si troveranno a percorrere i suoi molti eredi. Per quel che riguarda il commercio è con Pietro, trisnipote di Ansaldo e padre di Iacopo, che l’attività di famiglia acquisisce dimensioni straordinarie. Ampliando l’impresa ereditata da suo padre Oberto, Pietro riuscí a mettere in piedi una flotta privata guidata appunto dalla gigantesca Paradisus Magnus, impiegata ogni anno nella rotta Genova-Tunisi-Terra Santa. Questa e le altre navi, come la Paradisus Minor o la Regina, di proprietà di Nicolò, fratello di Pietro, raccoglievano a Genova panni provenienti dalla Francia e dalle Fiandre e li portavano in Oriente dove caricavano coloranti per l’industria tessile e spezie che poi rivendeva-

no in patria. Le stesse navi erano usate anche per il trasporto di pellegrini. Da alcuni contratti giunti sino a noi sappiamo che non si doveva trattare di un affare marginale: da essi si evince, infatti, che i passeggeri da accompagnare fino ai luoghi santi potevano arrivare al numero di cento. I guadagni venivano reinvestiti nel prestito ad altri mercanti, e soprattutto nell’acquisto di terreni, per tutto il Medioevo la forma di investimento piú diffusamente praticata. Per poter compiere questi lunghi viaggi i Doria, come del resto gli altri mercanti genovesi, dovevano poter contare su scali sicuri. Pertanto, mentre andavano sviluppando il volume dei loro scambi commerciali, promossero la creazione di basi di potere familiare nelle isole del Mediterraneo. E laddove la penetrazione risultava impossibile, a causa della presenza di poteri stabili, intensificarono con questi i loro contatti diplomatici.

Le mire sulla Sardegna

In Sardegna, per esempio, il progetto di creare un vero e proprio staterello privato nella regione che si estende da Alghero a Castelsardo venne portato avanti a partire da Simone, il figlio di Ansaldo, che ottenne possessi dal signore locale Braisone d’Arborea in cambio dell’appoggio finanziario nell’elezione di questi a re di Sardegna. Nelle generazioni successive, attraverso un’oculata politica matrimoniale, i Doria riuscirono ad accrescere il loro dominio isolano barcamenandosi nelle complesse lotte per il potere che avevano luogo tra i vari «giudici» (signori) locali e le forze esterne come Pisa, altra potenza marittima dell’epoca. Solo dalla metà del XIV secolo dovettero cedere di fronte alla conquista della Sardegna a opera della corona aragonese, non senza aver alternato, fino all’ultimo, mediazione e guerra. In Sicilia, invece, la presenza di un potere centrale forte (prima la monarchia normanna, poi quella sveva) favorí una penetrazione meno diretta, piú basata sulla diplomazia. Se, come abbiamo visto, Ansaldo Doria era stato inviato ambasciatore presso la corona normanna, suo nipote Nicolò, dando prova di una certa lungimiranza politica, decise di adoperarsi perché Genova abbandonasse l’alleanza con i Nor-


manni e appoggiasse la conquista dell’isola intrapresa dall’imperatore Enrico VI. Questo legame tra i Doria e l’impero era destinato a durare nelle generazioni successive. Nel momento in cui il sostegno a Federico II, imperatore e re di Sicilia, divenne la discriminante su cui si divisero le aristocrazie delle città italiane, i Doria, sulla base di questa tradizione, aderirono al fronte ghibellino.

La vittoria della Meloria

L’adesione non comportò solo vantaggi per i membri della ricca famiglia, che piú di una volta dovettero fuggire dalla città cacciati dai guelfi genovesi. Infatti, mentre il ramo di Nicolò diventava una stirpe signorile in Sardegna, quello di Oberto, rimasto a Genova, affiancava all’attività commerciale la partecipazione alle istituzioni di vertice del Comune e attorno ai possessi urbani della zona di San Matteo costruiva un borgo fortificato i cui abitanti divennero per i Doria una clientela fedele. In altre parole diventava una di quelle fortissime consorterie familiari che nelle città italiane del Duecento furono alla base dei «partiti» cittadini. Quando Oberto, figlio di Pietro e fratello di Iacopo, diventato nel 1270 uno dei due capitani a cui era stata affidata la guida della città, in seguito a una sollevazione

del populus vinse contro Pisa la battaglia navale della Meloria, cruciale per il controllo del Mediterraneo, si trovava al comando della nave San Matteo, carica di marinai residenti proprio nel borgo dei Doria. Far parte della sfera piú alta della politica comunale non significava solo combattere nelle guerre e nei conflitti civili, ma anche possedere la cultura giuridica e istituzionale indispensabile per compiere ambasciate, prendere decisioni strategiche, risolvere problemi. Tanto piú che, come le altre famiglie dell’aristocrazia comunale italiana, i Doria non si limitavano a partecipare alla politica della loro città, ma ricoprivano gli incarichi di podestà e capitani del popolo chiamati dagli altri Comuni. In particolare Percivalle Doria (di cui ancora oggi non è affatto chiara la parentela) ebbe molti incarichi sia nelle città italiane che in Provenza e, cosa non rara per i professionisti del potere di quest’epoca, scrisse poesie amorose (in italiano) e di invettiva politica (in provenzale). Considerando le vicende dei Doria risulta forse piú chiaro come Iacopo potesse essere stato nel corso della sua vita un commerciante, un militare, un politico, un uomo di cultura. Nei tempi in cui si trovò a vivere, e in particolare nella sua città e nella sua famiglia, non si trattava affatto di sfere separate.

Miniatura raffigurante la battaglia della Meloria, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale

DELLA TORRE Una gloria effimera Grati per averli aiutati dopo la disfatta di Cortenuova, nel 1240 i Milanesi affidarono a Pagano Della Torre la guida della città. Ne scaturí un’egemonia di breve durata, ma la riconoscenza per la casata non venne mai meno 32

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di Paolo Grillo

I

Della Torre egemonizzarono la vita pubblica milanese per meno di quarant’anni, dal 1240, data della loro ascesa a capo dell’organizzazione del partito di Popolo ambrosiano, al 1276, quando vennero definitivamente sconfitti dal loro acerrimo nemico Ottone Visconti. Essi tennero formalmente la signoria della città per meno di tre anni, dal 1274 al 1276, un lasso di tempo brevissimo, se raffrontato all’indubbia importanza, nella storia di Milano, di una famiglia che segnò, con la sua progressiva affermazione, la definitiva crisi del regime comunale, aprendo la strada alla successiva conquista del potere da parte della dinastia viscontea. Signori della Valsassina, una terra tutto somma-

La cattura di Napoleone Della Torre, avvenuta a Desio nel 1277, a opera dell’arcivescovo Ottone Visconti, affresco di un anonimo pittore, convenzionalmente designato come Maestro di Angera. Fine del XIII sec. Angera (Varese), Rocca, Sala di Giustizia.


to marginale rispetto alla vita cittadina, i Della Torre seppero costruire la propria fortuna politica sfruttando abilmente i contrasti che dividevano la popolazione milanese. Riuscirono infatti sia a diventare i leader della fazione popolare, sia a prendere la guida del partito guelfo, filopapale, in tutto il Nord Italia. Quando, però, fidando troppo nella potenza acquisita, tentarono di liberarsi dell’appoggio del popolo milanese per instaurare una vera e propria signoria autoritaria, subirono una clamorosa sconfitta, che eclissò le sorti di quella che per alcuni anni era stata indubbiamente la famiglia piú potente di tutta l’Italia centro-settentrionale. L’ascesa dei Della Torre si lega a un momento molto particolare della storia ambrosiana, quando, all’indomani della dura sconfitta subita a Cortenuova nel 1237, la città attende, prostrata, l’occupazione imperiale da parte di Federico II. Approfittando dello sgomento popolare e del timore di un colpo di mano filoimperiale da parte dell’aristocrazia, Pagano Della Torre seppe proporsi come garante e tutore degli interessi collettivi e ottenne la carica di anziano: venne cosí riconosciuto come leader del partito di Popolo, lo schieramento che riuniva mercanti e artigiani in contrapposizione alla parte nobiliare. Personaggio di grande prestigio, Pagano, alla sua morte, riuscí a far proclamare suo successore il nipote Martino, dando origine a quella dinastizzazione della carica di anziano del Popolo che fu alle radici della potenza della famiglia.

nelle famiglie di schieramento guelfo, dando cosí una radice sociale e una copertura ideologica all’esercizio di quello che sempre piú andava configurandosi come un potere personale. Lo stesso papa Gregorio X, d’altronde, preoccupato dell’accresciuta potenza della famiglia, si rifiutò di nominare Raimondo Della Torre arcivescovo di Milano, destinandogli invece prima la cattedra di Como e poi il patriarcato di Aquileia. Al posto di Raimondo, successe a Leone da Perego Ottone Visconti che, impossibilitato a occupare la cattedra per l’ostilità dei Della Torre, si mise a capo degli aristocratici fuoriusciti e rifugiatisi nei loro castelli del contado. Il ruolo fondamentale ricoperto da Milano nell’ambito della Lega guelfa rese nel frattempo la città meta di molti sovrani europei: vi sostaro-

Un altro particolare del ciclo di affreschi della Sala di Giustizia della Rocca di Angera. Qui si vede Ottone Visconti che rientra a Milano, accolto dal popolo attraverso le sue rappresentanze religiose e politiche.

La cacciata degli aristocratici

Sotto l’impulso di Martino, i Milanesi riuscirono ad allontanare dalla città gli aristocratici, raccolti attorno all’arcivescovo Leone da Perego, giungendo, dopo un cinquantennio di lotte antinobiliari, a conquistare il potere, pur sotto l’ingombrante tutela torriana. Nel contempo, Martino seppe affermarsi come il coordinatore del partito guelfo filopapale nell’Italia settentrionale, forte anche del prestigio derivatogli dalla sconfitta inflitta nel 1259 al celebre ghibellino Ezzelino da Romano, che perse la vita tentando di forzare il passaggio dell’Adda. Embrione di quello che sarà il ducato visconteo-sforzesco, attorno a Milano andò formandosi un nucleo di città alleate: Bergamo, Brescia, Como, Lodi, Novara e Vercelli. Tali centri erano legati fra loro e alla metropoli ambrosiana dalla nomina a podestà di un membro della famiglia Della Torre, spesso con incarico pluriennale. Come a Milano, anche nelle città alleate i Della Torre proseguirono la loro politica volta a trovare appoggio nei gruppi organizzati del popolo e

no Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo d’Angiò, passata per la città nel 1268 e diretta a Napoli, Filippo l’Ardito, re di Francia, che nel 1270 riportava in patria il corpo del padre, Luigi IX il Santo, morto durante la sua sfortunata crociata contro Tunisi, e, infine, il re d’Inghilterra, Edoardo I, di ritorno dall’Oriente nel 1273. In queste occasioni, i ritmi di vita del Comune ambrosiano mutavano profondamente e il cuore della città doveva assumere un aspetto simile a quello delle grandi capitali europee e delle loro corti, poiché vi si svolgevano grandi feste, tornei e solenni investiture di cavalieri. Si pensi, per esempio, che Margherita di Borgogna giunse in città preceduta da 24 valletti, mentre 12 cavalieri le tenevano sollevato sul capo un velo di 40 braccia di lunghezza, destinato a ripaARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale

QUEGLI EDIFICI ALTI E MURATI Quello dei Della Torre è uno dei casati che, pur non avendo alcuna affinità di ascendenza o di parentela tra loro hanno avuto notevole diffusione a causa della estrema genericità del nome. Ne sono un esempio i Della Torre di Milano, i Della Torre di Ravenna e Pesaro – da cui discenderà Dante Alighieri –, i Della Torre di Cividale del Friuli e molti altri. Dal punto di vista araldico possiamo osservare che per i vari Della Torre – con le varianti Torri, Torrigiani e simili – il nome è generalmente collegato al possesso o alla residenza in quel particolare tipo di costruzione «alta e murata» tipica espressione delle famiglie egemoni, ricche e «nobili» (non humilis), in netta contrapposizione agli edifici comuni, piú modesti sia per l’altezza che per i materiali di costruzione, nei quali viveva la maggior parte della popolazione; il fatto inoltre che nelle città medievali potessero edificare torri soltanto i nobili ci fa capire quanto il possederne fosse simbolo manifesto di illustre e potente famiglia La presenza quasi costante di una torre nello stemma di coloro il cui nome si riallaccia a questo oggetto ripropone il problema – difficilmente risolvibile – delle «armi parlanti». Non meraviglia il fatto che i Rossi abbiano uno scudo «di rosso pieno», cosí come non stupisce che i Della Torre illustrino il loro stemma con una torre; è tuttavia oggetto di riflessione e di studio la correlazione tra i due elementi: il casato e il blasone. È il nome che offre il motivo della rappresentazione grafica – ed è il caso sicuramente piú diffuso – oppure, indipendentemente dal nome originario, è il disegno raffigurato nello scudo che in pochissimo tempo farà sí che il proprietario e i suoi discendenti vengano identificati, conosciuti e infine «chiamati» col nome di quel disegno? (un po’ come succede con quei «soprannomi» che spesso nell’uso comune sostituiscono il vero nome e rimangono anche alle generazioni successive). Oppure, infine, è lo stato sociale, il prestigio (e il simbolo di quel prestigio) che

rarla dal sole, e che, per celebrare l’arrivo di Filippo l’Ardito, vennero costruiti padiglioni sotto i quali, per otto giorni consecutivi, si tennero balli e banchetti. Simili celebrazioni si tramutavano in momenti di trionfo personale per i membri della famiglia torriana: sia Filippo l’Ardito che Edoardo I, infatti, furono invitati ad addobbare cavalieri i membri della famiglia e i loro piú stretti seguaci. Sempre piú lontani dalle ideologie civiche e comunali, i Della Torre cercavano legittimazione alla loro prevalenza in città nel legame con le grandi corti europee. L’autocelebrazione cavalleresca della famiglia, culminata nelle nozze fra Napoleone Della Torre e Margherita di Baux, esponente di una delle 34

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vengono doppiamente sottolineati dal nome e dallo stemma. E saranno proprio la capacità decisionale e il prestigio legato al potere economico e sociale di questa antica famiglia proprietaria di torri («quelli della torre», appunto), in quella Milano della quale avevano retto la Signoria sino alla sconfitta da parte dei Visconti nel 1277, a motivare la scelta dello scudo «D’azzurro alla torre al naturale merlata alla guelfa movente dalla punta, sul tutto due spade d’argento in decusse», tuttora emblema dei discendenti. Massimo D. Papi

piú nobili famiglie provenzali, coincideva infatti con il progressivo affermarsi di un potere dispotico in città, sempre piú svincolato dal controllo degli organismi comunali.

Legittimazione imperiale

Nel 1272 si stabilí che i podestà milanesi dovessero giurare fedeltà prima ai signori Della Torre e solo in un secondo momento alla collettività cittadina, mentre nel 1274 l’imperatore Rodolfo d’Asburgo, concedendo a Napoleone Della Torre il vicariato imperiale sulla città, sancí anche formalmente che il potere della famiglia derivava da un’autorità superiore e non dalle istituzioni civiche.

Stemma dei Torriani di Milano, da Teatro Araldico, ovvero Raccolta Generale delle Armi ed Insegne Gentilizie delle piú illustri e Nobili Casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta l’Italia, illustrate con relative genealogicostoriche nozioni da Leone Tettoni e Francesco Saladini. Claudio Wilmant e figli, Lodi, 1841-1851.


L’evoluzione del dominio torriano verso una vera e propria signoria fu però costellata di episodi cruenti. Cosí, quando nel 1266 Paganino Della Torre, nipote di Napoleone, venne ucciso a Vercelli da alcuni esuli milanesi, una cinquantina di parenti degli assassini venne fatta massacrare dal podestà Embaral di Baux. Napoleone cercò di prendere le distanze da una tale efferata rappresaglia e cacciò il podestà, ma in altre occasioni anch’egli dimostrò una crudeltà non dissimile. Nel 1271, per esempio, il tentativo di Lodi di sottrarsi al predominio torriano fu stroncato militarmente e portò al patibolo o al carcere i membri della famiglia che capeggiava la rivolta. Il continuo impegno militare finí con l’incidere pesantemente sulle finanze del Comune di Milano, impegnato, in quegli stessi anni, in un vasto progetto di investimenti pubblici. La conseguente crescita degli oneri fiscali causò forti malumori in città, anche perché alle opere di utilità collettiva, come la lastricatura delle principali vie cittadine, si affiancarono sempre piú spesso appalti destinati esclusivamente a servire gli interessi privati dei Della Torre, quali lo scavo di canali pubblici destinati a irrigare le terre di proprietà della famiglia.

SOTTO L’ALA DEL PATRIARCA L’esito disastroso della battaglia di Desio non segnò la fine della famiglia Della Torre, poiché i superstiti, con i loro seguaci, trovarono asilo ad Aquileia, presso il patriarca Raimondo, anch’egli un Della Torre, il quale conducendo una politica clamorosamente nepotistica, insediò i suoi parenti esuli in tutte le principali cariche della regione da lui governata. Per molti anni furono dunque membri della famiglia il conte di Gorizia e i podestà delle principali città dell’area, quali Trieste, Udine e Treviso. Partendo dal loro solido ridotto friulano, i Della Torre, approfittando di una momentanea crisi della dinastia viscontea, riuscirono nel 1302 anche a rientrare a Milano, dove Guido ottenne la signoria della città e suo nipote Cassone la carica di arcivescovo. Ormai, però, erano estranei alla vita urbana: sospettosi anche reciprocamente, dopo due soli anni Guido e Cassone entrarono in conflitto fra loro e non fu quindi difficile a Matteo Visconti, appoggiato dall’imperatore Arrigo VII, sconfiggerli e allontanarli definitivamente. Rientrati ad Aquileia, i Della Torre vi si stabilirono, esprimendo molti patriarchi e radicandosi solidamente nelle strutture feudali del vecchio principato ecclesiastico: sorte singolare, per coloro che erano stati i leader del movimento popolare nel piú ricco Comune dell’Italia settentrionale.

Sangue nelle strade

Come spesso accade, al diminuire del favore popolare per il governo torriano corrispose un aumento delle azioni repressive, finché si giunse, sul finire del 1275, a spargere sangue per le strade stesse di Milano. Una delegazione di cittadini, che si era recata al palazzo del Comune per protestare contro l’intollerabile pressione fiscale, venne caricata dalla cavalleria comandata da Cassone Della Torre. Numerosi furono i morti e l’impatto sull’opinione pubblica fu terribile. Anche il poeta Bonvesin da la Riva compose un poemetto allegorico dedicato ai mesi in cui raffigurò i signori di Milano nei panni del collerico Gennaio, tutto intento a domare a colpi di randello le proteste dei suoi confratelli. La definitiva perdita del consenso di quel popolo a cui doveva le sue fortune, segnò per la famiglia Della Torre anche la fine del potere sulla città. Nel gennaio del 1277, infatti, gli aristocratici esuli si ritrovarono a Como, una delle molte città alleate ribellatesi a causa del dispotismo torriano. Napoleone mosse per affrontarli, senza però condurre con sé le milizie comunali, che fino a quel momento l’avevano portato di vittoria in vittoria, ma facendo affidamento solo sul suo vasto consorzio familiare e sulle proprie clientele. Partito alla testa di un esercito privato,

Moneta in argento battuta ad Aquileia, al tempo del patriarca Raimondo della Torre. 1273-1299. Al dritto, il patriarca, seduto, con le insegne episcopali, regge un pastorale con la terminazione a croce; al rovescio, una torre a due piani.

come se si trattasse di una guerra feudale, il Della Torre subí una clamorosa sconfitta a Desio, finendo prigioniero nelle mani del suo nemico, il vescovo Ottone Visconti. Avrebbe potuto trattarsi di una sconfitta rimediabile, ma la disperata corsa verso Milano di Cassone Della Torre, intenzionato a mobilitare rinforzi entro le mura cittadine, si rivelò inutile. Pur vigorosamente arringato, il popolo milanese non si dimostrò per nulla intenzionato a rischiare il proprio sangue per la dinastia. Abbandonato dal gruppo su cui aveva basato le proprie fortune, Napoleone Della Torre morí rinchiuso in una gabbia appesa alla torre del castello Baradello, presso Como, mentre il suo rivale Ottone Visconti entrava in Milano, accolto da una popolazione che, fra due personaggi egualmente intenzionati ad affermare il proprio potere personale, aveva scelto quello in grado di garantire almeno la riconciliazione interna. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale

VISCONTI Come un sole splendente Dei fasti dei Visconti Milano, ma non solo, conserva testimonianze illustri. Specchio di una vicenda capace di segnare la storia dell’intera Europa

di Giuliano Milani

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opo quindici anni di tentativi, il 22 gennaio 1277, Ottone Visconti riuscí a entrare a Milano e a prendere possesso della cattedra arcivescovile. Fece una visita di ringraziamento nella basilica di S. Ambrogio, quindi si recò al palazzo comunale dove i consigli riconobbero il nuovo arcivescovo signore della città. A piú di due secoli di distanza dalle prime testimonianze della sua esistenza, la famiglia Visconti faceva cosi il suo ingresso sulla scena della grande politica italiana. Il rapporto che legava i Visconti all’autorità dell’arcivescovo di Milano – che in età altomedievale rappresentava la piú importante figura politica cittadina – era molto antico. Alla fine del X secolo, l’arcivescovo Landolfo, dovendo fronteggiare una sollevazione di aristocratici, aveva concesso a un gruppo di famiglie il diritto di riscuotere alcune imposte. Cosí egli aveva contribuito alla creazione di un nuovo ceto, i cui esponenti sarebbero stati definiti con il nome di «capitanei». Proprio tra i «capitanei» l’arcivescovo nominò in seguito un visconte, deputato, tra l’altro, a vigilare sulla produzione del pane,

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ad assistere l’arcivescovo stesso durante le processioni e a portare un vessillo nelle spedizioni militari. La carica di «visconte», una volta divenuta ereditaria, diede il nome alla famiglia che se la trasmetteva. I Visconti furono dunque dotati di un certo prestigio già nell’XI secolo: in virtú della particolare vicinanza al vescovo, riuscirono a ottenere incarichi politici e diplomatici e ad accumulare possedimenti fondiari e diritti economici a essi legati. Nel secolo XII, anche per effetto della loro appartenenza al ceto dei «capitanei», entrarono a far parte dell’organismo direttivo del primo Comune. Nel Duecento, grazie all’occupazione di posti importanti nella locale gerarchia ecclesiastica, incrementarono ulteriormente il loro patrimonio. Fu proprio la carriera ecclesiastica a costituire la base del potere di Ottone. Nel 1262 due parti del clero milanese (l’una maggiormente legata agli interessi aristocratici, l’altra piú schierata con il popolo), entrate in conflitto sull’elezione del nuovo arcivescovo, decisero di affidare la scelta al pontefice Urbano IV.


Nella pagina accanto stemma visconteo raffigurante il biscione che divora un bambino; di sfondo la «raza viscontea», il sole splendente, impresa di Giangaleazzo, primo duca di Milano, che, come il sole, fu fonte di vita per i suoi sudditi, affresco in una volta del portico del cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco di Milano.

In basso l’incoronazione di Giangaleazzo Visconti in un capolettera miniato del Messale di Sant’Ambrogio (o dell’Incoronazione), decorato da Anovelo da lmbonate. 1395. Milano, basilica di S. Ambrogio, Biblioteca Capitolare. Il duca, in scarlatto ed ermellino, s’inginocchia davanti a Venceslao di Lussemburgo e riceve la corona.

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Quest’ultimo, su consiglio del potente cardinale Ottaviano Ubaldini, vicario papale in Lombardia, elesse Ottone Visconti, non sostenuto da nessuno dei due schieramenti. L’esordio non fu affatto facile, poiché i Della Torre – una stirpe di «capitanei» che, alleatasi con il popolo, era giunta nella seconda metà del secolo a imporre la propria signoria sulla città – erano fortemente interessati a occupare la cattedra vescovile. Cosí sequestrarono i beni del vescovato e si opposero a Ottone con una lunga guerra che, come è stato accennato, si risolse nel 1277 a favore dei Visconti.

Invisi ai guelfi

L’ostilità con i Della Torre segnò profondamente gli sviluppi successivi della signoria viscontea. Il conflitto rappresentava l’espressione locale della tensione tra guelfi e ghibellini, in virtú della quale, a partire dalla metà del Duecento, le lotte di fazione già presenti nelle varie città si erano allargate allo scontro tra 38

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Qui sopra l’impresa dei Visconti. Sulle due pagine l’albero genealogico della grande casata: il dominio dei Visconti su Milano ha inizio con Ottone (1207-1295), ma le prime testimonianze della famiglia risalgono all’Xl sec. La signoria raggiunse il massimo splendore con Gian Galeazzo, creato duca nel 1395.

poteri universali del papato e dell’impero. A Milano la signoria viscontea fu fortemente legittimata dall’amicizia con l’imperatore, che già nel 1294 conferí a Matteo Visconti, nipote di Ottone e signore dal 1287, il titolo di vicario imperiale. Al tempo stesso, tuttavia, proprio in virtú di questa alleanza, i Visconti dovettero fare i conti con l’ostilità dello schieramento guelfo. Cosí, nel 1302 i Della Torre, esuli da ventitré anni, rientrarono a Milano grazie all’appoggio di una lega formata da tutte le città guelfe dell’Italia settentrionale, cacciando Matteo e i suoi figli. Ma nel 1311 l’imperatore Enrico VII reinsediò a Milano i Visconti, dotandoli nuovamente del titolo di vicari. Negli anni successivi il papa tentò di arrestare la loro crescente potenza: egli promosse operazioni militari, lanciò accuse di empietà ed eresia che portarono all’istruzione di un processo per stregoneria e addirittura, nel 1322, bandí una crociata, annunciando la concessione dell’indulgenza plenaria a chi avesse combattuto ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale

ALLA RICERCA DI UN’ORIGINE MITICA Prima signori poi duchi di Milano, i Visconti legarono il loro nome al «biscione», stemma che araldicamente si blasona, secondo la tradizione, «d’argento alla biscia verde coronata d’oro ondeggiante in palo ingollante un fanciullo di carnagione» – anche se abbiamo esempi in cui la biscia è azzurra, o variegata d’azzurro e di verde, e la figura umana è un vecchio rosso; altre volte, come nel cimiero di Francesco Sforza, la biscia è rappresentata con ali di pipistrello e con zampe munite di artigli. Merita riflessione il fatto che il fanciullo sia sempre stato considerato «ingoiato» dall’animale, mentre sia le analoghe rappresentazioni iconografiche di figure umane divorate da demoni o da altre fiere, sia la stessa osservazione della natura ci fanno vedere come gli animali ingoino le loro vittime dalla testa e non dai piedi. In realtà, non si tratta di un serpente che divora un fanciullo, bensí di un fanciullo che «nasce», che viene partorito da un essere cosí straordinario, generando in tal modo quasi una stirpe di semidei, di eroi eccezionali, tali da vantare origini mitiche. E i Visconti che, generati da quel serpente, ne hanno assunto le virtú assieme ai simboli che la tradizione gli associa, cioè la prudenza, la riflessione, la perspicacia, non si sottraggono a quella consuetudine sull’origine mitica del lignaggio di cui ritroviamo nel Medioevo numerosi esempi, da Goffredo di Buglione, che metterà in risalto la propria nobiltà ed eccezionalità collegandole a una serie di eventi miracolosi del proprio avo, il cavaliere del Cigno, o per lo stesso mitico re Artú, figlio del Drago, che del drago assumerà le insegne. L’origine dell’arme viscontea non è tuttavia ancora certa: la tradizione piú diffusa è queIla basata sulle affermazioni di Galvano Fiamma, il quale raconta che Ottone Visconti al ritorno dalla prima crociata, assumesse come proprie le armi catturate a un principe saraceno: il biscione dei Visconti sarebbe quindi uno stemma conquistato in battaglia, le spoglie del nemico, un trofeo a perpetuo ricordo della vittoria. Massimo D. Papi

Sulle due pagine altre immagini dal Teatro Araldico... Claudio Wilmant e figli, Lodi, 1841-1851. In alto, stemma dei Visconti di Milano e impresa di Galeazzo II; nella pagina accanto, stemma dei Casati di Milano.

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contro i signori di Milano. Nemmeno i rapporti con l’impero furono sempre sereni. Nel 1327, per esempio, l’imperatore Ludovico il Bavaro fece arrestare Galeazzo divenuto signore cinque anni prima, suo figlio Azzone e i suoi fratelli Luchino e Giovanni, destinati a succedergli nella signoria. Causa scatenante degli attacchi che confluivano contro la signoria viscontea fu la straordinaria capacità di espansione territoriale che caratterizzò la famiglia nel corso del Trecento. Con

l’elezione di Ottone ad arcivescovo di Milano, i Visconti si erano trovati a poter contare sul controllo della piú grande diocesi d’Italia. Inoltre, già al tempo della signoria di Matteo e Azzone, si guadagnarono la dedizione di molte città lombarde e del Piemonte orientale. D’altro canto, una serie continua di imprese militari acquisí ai Visconti il dominio su larga parte del Nord Italia: sotto Luchino (1339-1349) vennero conquistate Parma e Pavia. Suo fratello Giovanni attorno al 1350 sottomise ancora Bologna e


MA NON FU SEMPRE ALLA PORTATA DI TUTTI Massimo D. Papi

Partendo dal presupposto giuridico, sostenuto già nel XIV secolo da Bartolo da Sassoferrato nel suo Tractatus de lnsigniis et Armis, secondo il quale «cosí come i nomi sono stati inventati per distinguere gli uomini, allo stesso modo e con lo stesso scopo sono state inventate le insegne», ne consegue che chiunque può fregiarsi di uno stemma con l’unica condizione – è sempre Bartolo a ricordarlo – che non appartenga già a qualcun altro. E nelle città italiane la moda dello scudo araldico si diffonde in maniera impressionante: ogni mercante, ogni bottegaio che abbia un po’ di soldi e un po’ di superbia fa a gara a farsi dipingere uno scudo dal pittore piú in voga, mentre gli altri se lo procurano dove e come capita. Franco Sacchetti nel suo Trecentonovelle, composto alla fine del Trecento, rende in modo mirabile questa frenesia di apparente nobiltà, soprattutto in due novelle: quella in cui un «uomo di picciolo affare» si rivolge addirittura a Giotto affinché gli dipinga le sue armi, e il grande pittore, per prenderlo in giro, gioca sul significato di «arme» e «arma» e gli disegna su una grande tavola tutti i pezzi che compongono l’armatura con la scusa che, non conoscendo né lui, né, tantomeno, i suoi avi, glieli aveva raffigurati tutti, cosí sarebbe rimasto contento. O l’altra, in cui un cittadino, dovendo andare a svolgere una mansione ufficiale in un’altra sede, si procura un elmo con cimiero ma poi, incontrando per strada un vero cavaliere con la stessa insegna, si rifiuta di combattere e glielo vende, comprandosi poi, sempre a caso, un altro cimiero. Naturalmente questa «democrazia» araldica non poteva durare a lungo e i primi a reagire furono i Savoia: Amedeo VIII, nel 1430, negava il diritto all’arme per chiunque non ne fosse in possesso fin da tempi remoti, o per concessione imperiale, o sua; e tra i borghesi poteva fregiarsi dello scudo il solo membro della famiglia che avesse ereditato la casa paterna, legando cosí nuovamente lo stemma al possesso di un territorio e limitando al contempo la moltiplicazione di insegne per i non nobili. Queste limitazioni non erano tuttavia sufficienti a creare una netta distinzione tra nobili e borghesi, come d’altronde non erano distinguibili gli stemmi degli uni da quelli degli altri e, non potendo ragionevolmente intervenire «all’interno» dello scudo se non stravolgendo tutta la casistica araldica esistente, si optò felicemente per un intervento «all’esterno» dello scudo. Prendendo l’esempio dai cimieri che dalla fine del Duecento sormontavano gli scudi sia dei cavalieri veri e propri sia di coloro che esercitavano le funzioni podestarili, si codificò tutta una serie di attributi quali corone, elmi e copricapi che ornavano lo stemma – in araldica «timbri» – dando loro un precipuo valore quale inimitabile contrassegno di nobiltà, ciascuno con un proprio grado e una propria dignità. Se chiunque, bene o male, poteva fregiarsi di uno stemma, solo il nobile poteva «timbrare l’arme» con il simbolo del suo grado.

In tutti i regni d’Europa la foggia delle corone araldiche è pressoché identica, delegandone la distinzione al numero delle «vette» (semicerchi che caratterizzano le corone «chiuse») per quella di re – otto vette ma solo cinque visibili – e per quella di principe – quattro vette, tre visibili – e al numero delle «perle» o dei «fioroni» per le altre dignità. Rimanendo in Italia, possiamo ricordare che la corona ducale porta nove fioroni, cinque visibili; quella di marchese quattro fioroni, tre visibili, alternati da altrettante punte, due delle quali visibili, sormontate ciascuna da tre perle poste una su due; la corona di conte è caratterizzata da sedici grosse perle, nove visibili; il visconte si fregia di otto perle, quattro grandi e quattro piccole alternate, delle quali sono visibili solo tre grandi e due piccole; per il barone esiste una corona tradizionale composta da un cerchio a cui sono attorcigliati sei giri di perle, tre visibili, e una corona «moderna» con dodici perle, nove visibili; il cavaliere ha quattro grosse perle, tre visibili; mentre i nobili generici, cioè senza titolo specifico, o come si diceva elegantemente la «nobiltà generosa», assimilabile ai patrizi, si fregiano di una corona simile a quella di marchese con solo una perla al posto delle tre, oppure di una corona con otto grosse perle, di cui solo cinque visibili. Tutte le corone possono essere però sostituite da altrettanti elmi, ognuno diverso per materiale, decorazioni, disposizione e celata.

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DAL LEONE ALLA BISCIA Gli Sforza quali duchi di Milano sono un «caso» araldico abbastanza singolare: si tratta, infatti, di uno di quei rarissimi esempi, forse l’unico, in cui con un matrimonio viene definitivamente abbandonata la propria arme e assunta in toto – senza cioè nessun «partito» o «inquartato» o altro seppur minuto riferimento alla propria – l’insegna della famiglia della moglie. Fu Muzio Attendolo di Cotignola (1369-1424), valente soldato di ventura al servizio del condottiero Alberico da Barbiano, a guadagnarsi il soprannome di Sforza – a motivo del suo coraggio e delle sue indiscusse capacità belliche («sforzare», nel linguaggio militare, significa espressamente

riuscire a penetrare con la forza nelle difese e nelle fortificazioni di una città) – assumendolo poi quale nome di famiglia e dando cosí inizio a una nuova dinastia. E il figlio di Muzio, Francesco, anche se illegittimo, ignorerà il vero cognome del padre, Attendoli, dichiarandosi soltanto Sforza e assumendo dal genitore le insegne che ne avevano contraddistinto la professione e che diverranno, anche se per poco, la sua arme: «D’azzurro al leone naturale tenente un ramo di cotogno verde» (il leone quale superba immagine di un valoroso condottiero e il cotogno quale puntuale riferimento a Cotignola, sua terra d’origine). Ma forse l’illegittimità pesava su Francesco piú di quanto si possa immaginare, e il provvidenziale matrimonio con Bianca Maria Visconti, nonché la sua capacità nel debellare la repubblica sorta alla morte del duca Filippo Maria, che gli permisero di entrare a Milano e presentarsi come duca ed erede legittimo di Filippo Maria Visconti, contribuirono non poco a fargli abbandonare lo stemma del padre per assumere l’«inquartato dell’impero e dei Visconti»: l’aquila nera in campo d’oro (per l’investitura ducale da parte dell’imperatore) e la biscia azzurra in campo d’argento. Massimo D. Papi

In alto lo stemma degli Sforza, con il leone e il cotogno. A sinistra lo stemma assunto da Francesco Sforza dopo il matrimonio con Bianca Maria Visconti. Nella pagina accanto, Madonna in gloria, Santi e gli offerenti Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti (nota anche come Pala Sforza), olio su tavola di Giulio Campi. 1540. Cremona, chiesa di S. Sigismondo.

Genova. Infine, contribuí all’espansione anche lo sviluppo di alleanze matrimoniali già dalla fine del XIII secolo. I matrimoni organizzati da Matteo di suo figlio Galeazzo con Beatrice d’Este e di sua figlia Caterina con Alboino della Scala legarono la sorte dei Visconti a quella delle maggiori famiglie signorili. Il dominio, che alla morte di Giovanni era stato spartito tra i successori Matteo II, Galeazzo II e Barnabò, fu riunificato nella persona di Gian Galeazzo, dal 1385 unico signore di una vasta costruzione territoriale che di lí a pochi anni sarebbe divenuta, per nomina dell’imperatore Venceslao, un ducato. In mille anni di storia, questa illustre famiglia ha dato innumerevoli personaggi che si sono distinti come militari, letterati, giudici, ecclesiastici, diplomatici e politici. Essa si è suddivisa in molteplici rami, alcuni dei quali fiorenti ancora oggi. Il ramo forse piú noto è quello dei Visconti di Modrone, alla cui branca terzogenita è appartenuto il celebre regista Luchino (19061976), a cui spettava il titolo di conte. ARALDICA

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DAL VERME Uomini nuovi Il declino dei governi comunali favorí l’avvento di famiglie come i Dal Verme, abili nell’imporsi alla guida di Verona all’ombra della dinastia scaligera di Andrea Barlucchi

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ei secoli finali del Medioevo, la crisi degli istituti comunali portò alla ribalta individui e famiglie ambiziose che fino a quel momento non avevano potuto emergere. L’esercizio delle cariche pubbliche e insieme delle armi furono i canali privilegiati attraverso i quali farsi strada. Assistiamo quindi al rapido sorgere di ingenti fortune e a un loro altrettanto rapido sfiorire. Una delle schiatte che meglio incarna la tumultuosità del periodo, con le sue possibilità di ascesa sociale e di repentine rovine, è quella dei Dal Verme, originari di Verona. La casata discende da un certo Vermis, semplice cittadino veronese abitante, verso la fine del XII secolo, nel quartiere periferico di Porta San Zeno. Già questa ubicazione decentrata della sua residenza ci parla di una schiatta non antica, forse immigrata dal contado. I primi Veronesi che portano questo cognome, attestati dal Duecento, esercitano quasi tutti la professione del giudice. Condivide con i Dal Verme questa origine leguleia un’altra famiglia che in futuro sarà ben piú grande, quella dei Della Scala. Si trattava di un ufficio importantissimo per la vita politica delle città comunali: i giudici conoscevano l’antica legislazione romana che allora si andava riscoprendo e insieme le consuetudini che il tempo aveva creato, ed erano quindi in grado di guidare le giovani classi dirigenti comunali nella difficile arte di governare. Cosí troviamo il giudice Nicola Dal Verme ricoprire la carica di console di giustizia per ben tre volte, tra XII e XIII secolo. Con lui, tipico homo novus, la famiglia esce dall’anonimato per entrare a far parte della classe dirigente. Probabilmente schierati con la fazione dei Monticoli quando ancora non si parlava di guelfi e ghibellini, e in seguito con Ezzelino da Romano, i Dal Verme attraversarono indenni il periodo delle lotte in44

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testine della prima metà del Duecento. Anzi, si può dire che in questo spazio di tempo la loro situazione economica fosse addirittura migliorata, dal momento che troviamo Nicola nel 1229 come primo di una lista di 150 cittadini che si offrirono come fideiussori per un prestito ottenuto dal Comune.

Il primo cavaliere

Nella seconda metà del XIII secolo la figura piú autorevole della casata è un altro Nicola, nipote del precedente. Sono gli anni dell’affermazione dell’egemonia scaligera su Verona, instauratasi anche grazie all’appoggio di influenti famiglie quali appunto i Dal Verme. Nicola è ricordato per essere il primo della casata a cingere, verso la fine del secolo, la spada di cavaliere e questo passaggio dalle file del notabilato borghese a quello dell’élite cavalleresca è sintomatico: i tempi stanno cambiando, le istituzioni comunali cominciano ad andare in crisi e con esse diventano incerte le possibilità di carriera legate esclusivamente all’esercizio delle cariche pubbliche, per cui molte famiglie, fiutando il vento, compiono questo salto, primi fra tutti – nella realtà veronese – gli Scaligeri. Il primo esponente della casata a svolgere insieme incarichi burocratici e militari fu il figlio di Nicola, Pietro Dal Verme, che divenne uno degli uomini di fiducia di Cangrande Della Scala nel momento di massima espansione del dominio di questa famiglia. Il culmine della sua carriera è rappresentato dagli anni 1329-37, quando ricoprí senza interruzione la carica di podestà di Treviso, appena conquistata dalle armi scaligere. Ma la sua fama è legata alla strenua difesa che operò nel 1337 del castello di Monselice, resistendo per quasi un anno alle milizie della lega veneziano-fiorentina; costretto ad arrendersi per fame, ebbe tuttavia l’onore delle armi,

La pianta della città di Verona in un’incisione realizzata per il Theatrum civitatum et admirandorum Italiae di Joan Blaeu, opera pubblicata per la prima volta nel 1663.


e se ne andò indenne «con grande arroganza», come notarono i cronisti. Pietro fu anche l’iniziatore della potenza territoriale della famiglia: tramite un’accorta politica di alleanze matrimoniali, insieme al fratello Jacopo riuscí a creare per i discendenti un vasto possedimento che aveva il suo centro nel castello di Sanguinetto, nella pianura veronese, del quale in seguito i Dal Verme vennero nominati conti. Gli anni Quaranta del Trecento segnarono la crisi e il ridimensionamento dell’apparato sta-

tale creato dagli Scaligeri; ciò fece crescere lo scontento tra le maggiori personalità e famiglie fedeli ai Della Scala e che ne condividevano le sorti. In questo clima maturò il tentativo di colpo di Stato (o congiura, secondo la terminologia del tempo) messo in atto nel 1354 da Fregnano Della Scala, un membro bastardo della famiglia che tentò di impadronirsi del potere in assenza del titolare Cangrande II. Pietro Dal Verme fu tra i protagonisti del tentativo, e per questo venne esiliato con tutta la casata. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO A destra il castello visconteo di Voghera, che ebbe tra i suoi proprietari anche i Dal Verme. In basso miniatura raffigurante uno schioppettiere che dà fuoco alla miccia del suo schioppo, da un’edizione del Bellifortis di Konrad Kyeser. XV sec. Gottinga, Niedersächsische Staats- und Universitätsbibliothek.

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AL PASSO COI TEMPI Jacopo Dal Verme fu celebrato dai contemporanei, non senza ragione, come il piú abile condottiero italiano della sua generazione. Era la ferrea disciplina imposta alle sue truppe, che lo rendeva in grado di controllare pienamente l’esercito, a consentirgli le manovre piú rapide e spericolate. Nel 1391 si trovò a confrontarsi contemporaneamente con due eserciti avversari, quello di Giovanni Acuto e quello del duca d’Armagnac, che avanzavano verso Milano: essendo in

Ma paradossalmente questa rottura con gli antichi patroni si rivelò benefica, perché indusse i Dal Verme a svolgere in prima persona un ruolo attivo nelle vicende politiche padane, aprendo cosí nuove e inaspettate possibilità di consolidamento della propria posizione.

Al soldo dei Visconti e poi di Venezia

Nella pagina accanto stemma dei Dal Verme di Verona, da Teatro Araldico, ovvero Raccolta Generale delle Armi ed Insegne Gentilizie delle piú illustri e Nobili Casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta l’Italia, illustrate con relative genealogicostoriche nozioni da Leone Tettoni e Francesco Saladini. Claudio Wilmant e figli, Lodi, 1841-1851. 46

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schiacciante inferiorità numerica, fece spianare dalle sue truppe gli argini dei fiumi in modo da rallentare la marcia degli uomini agli ordini dell’Acuto, e, con un rapido dietro front, aggredí l’Armagnac, che venne preso di sorpresa e catturato. Jacopo era anche attento all’evoluzione della tecnologia militare, e usava volentieri le prime armi da fuoco in circolazione. Nel 1397 per prendere il ponte fortificato di Borgoforte, nel Mantovano fece discendere il fiume da galleggianti incendiari, mentre un nutrito fuoco d’artiglieria teneva a bada i difensori.

La prima conseguenza fu il passaggio della famiglia al servizio dei Visconti di Milano, strenui avversari degli Scaligeri. Luchino Dal Verme, figlio del nostro Pietro, fu uno dei principali condottieri delle truppe milanesi nella seconda metà del Trecento. Vero fondatore della tradizione militare della famiglia, fu il primo in Italia a scontrarsi con l’Acuto, il famoso capitano di ventura inglese John Hawkwood che militò a lungo sotto le bandiere della repubblica fiorentina. Fatta la pace tra i Visconti e i loro avversari nel 1364, per trovare un posto dove mettere a frutto le sue doti si mise al servizio dei Veneziani, i quali gli affidarono il comando della spedizione militare a Candia; qui i coloni veneziani insediatisi pretendevano di non dover rinunciare al diritto a far parte delle magistrature della madrepatria, e quindi si erano ribellati sanguinosamente. Il suo amico Francesco Petrarca, col quale aveva stretto un curioso sodalizio a Milano e il quale gli aveva dedicato il trattato Doveri del Capitano, lo sollecitò caldamente ad accettare l’incarico. Egli riuscí nell’incombenza, al punto che la Repubblica lo gratificò dell’assegnazione del titolo di nobiltà. Le ultime vicende della sua vita sono oscure, forse mori nel 1367 a Costantinopoli dove si era recato per partecipare alla crociata. Al capezzale del padre morente abbiamo la prima notizia certa di Jacopo Dal Verme, allora appena diciottenne, destinato a passare alla storia come il migliore condottiero italiano degli anni a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Il giovane Dal


Verme fece le sue prime esperienze militari sotto le insegne scaligere, ma ben presto passò al servizio dei Visconti, conquistando la fiducia di Giangaleazzo ed entrando nel suo entourage. Fu uno dei suoi piú ascoltati consiglieri, e partecipò da protagonista al drammone familiare, dal sapore tipicamente rinascimentale, che consegnò al giovane Visconti l’intero Stato in precedenza diviso tra questi e suo zio Bernabò. Ai primi di maggio del 1385 Giangaleazzo mandò a dire allo zio che era sua intenzione recarsi in pellegrinaggio a un santuario nei pressi di Varese, e che voleva incontrarlo passando da Mila-

PROBLEMI DI ACCOSTAMENTO «Partito-dentato spaccato, n I e IV fasciato di rosso e d’argento di otto pezzi il terzo caricato di un bisante, nel II e III fasciato di quattro d’azzurro e d’argento». Nonostante le regole del blasone siano oramai codificate dalla tradizione, rimane sempre un margine interpretativo in cui può operare sia il buon gusto, sia, il piú delle volte, la pignoleria dell’araldista e alcuni particolari dello stemma dei Dal Verme ben si prestano per una esemplificazione. Si tratta, in sostanza di un «inquartato contrapposto», o «alternato», a quarti «fasciati» dove però la presenza sulla stessa linea di fasce dello stesso «smalto» (l’argento) nei quarti affiancati (I e II III e IV) crea un’immagine araldicamente non molto bella e visivamente non molto chiara. La felice soluzione a entrambi i problemi è data dall’impiego di una linea spezzata che evidenziando la separazione tra i campi annulla il fastidio per cosí dire, dell’accostamento. E qui entra in gioco il margine interpretativo: è sufficiente blasonare «partito-dentato spaccato» (vista anche la motivazione presumibile della linea dentata) oppure, forse meno professionalmente, «inquartato, la linea verticale dentata», o ancora, ritenendo la dentatura propria di quella parte dello stemma fasciato di quattro pezzi definire «il II e III semifilierato-dentato lungo la partitura»? In realtà, le definizioni si equivalgono e sono sufficienti per l’artista (scultore, pittore, incisore, ebanista, ecc.) a cui viene commissionata la realizzazione. E cosí per il «bisante», piccola figura rotonda d’oro (o d’argento, «bisante d’argento») simile a una moneta (anche se priva di ogni impronta di conio), che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni in quanto se anziché di «metallo» (oro, argento) fosse di «colore» (rosso, azzurro verde porpora o nero) si chiamerebbe «torta». Bisanti e torte (ma non mancano neppure le «torte-bisante» parte in metallo e parte in colore) stanno a indicare – in base a una spesso forzata non sempre giustificata simbologia araldica – i primi la funzione di tesoriere di corte o il diritto di battere moneta e le seconde il numero dei domini posseduti dalla famiglia; in entrambi i casi testimoniano la ricchezza. Ma molto probabilmente il loro impiego, se non decorativo, ha la sola funzione di «brisura», una piccola aggiunta – o una variante – all’arme originaria come distinzione personale o per i vari rami della famiglia. Massimo D. Papi

no. Venne dunque alla città scortato da un gruppo di finti pellegrini – tra i quali il nostro Jacopo – che nascondevano armi sotto le vesti; non sospettando nulla, Bernabò e due suoi figli gli andarono incontro privi di scorta, e vennero quindi catturati facilmente. Dal Verme si distinse nelle guerre che scoppiarono in seguito a questo colpo di mano e che portarono lo Stato visconteo a estendersi nella Pianura Padana verso oriente e meridione. Ma la sua grandezza venne fuori pienamente in occasione della morte improvvisa di Giangaleazzo nel 1402, quando solo l’abilità di Jacopo riuscí a non far disgregare l’apparato statale faticosamente messo in piedi dai Visconti.

Meglio gli affari delle armi

L’ultimo periodo della sua vita fu impiegato in questo sforzo. Jacopo ingrandí ulteriormente il patrimonio fondiario della famiglia, recuperando i beni nel Veronese che erano stati confiscati a seguito della congiura antiscaligera del 1354 e aggiungendo loro possedimenti nel Piacentino ottenuti grazie ai suoi buoni servigi sui campi di battaglia. Suo figlio Luigi continuò la professione del padre; sebbene meno fortunato in guerra, lo fu invece, e di molto, nel campo degli affari. Un matrimonio vantaggioso e un’accorta politica di ingrandimenti ne fecero un potente feudatario con beni saldamente impiantati nel Veronese, nel Piacentino e nel Pavese, impreziositi dall’acquisizione del castello di Voghera, dove stabilí una vera e propria corte. L’apice delle fortune familiari e insieme il suo repentino sfiorire venne toccato dalla generazione successiva. Il figlio di Luigi, Pietro, ereditò una posizione invidiabile all’interno del ducato di Milano, che all’epoca era passato in mano agli Sforza. Ma fu proprio la potenza acquisita a procurargli i contrasti con il duca che lo fecero cadere in disgrazia: la leggenda vuole che fosse l’onta di un matrimonio rifiutato con la casata ducale ad accendere l’ira del signore di Milano, ma evidentemente questo fu solo un pretesto. Pietro fu incarcerato e costretto a consegnare i suoi castelli; in seguito venne riabilitato, ma ormai il rapporto di fiducia era rotto. Si dice poi che sia morto avvelenato. I suoi discendenti lottarono per mantenere almeno una parte dei feudi, costretti ormai a vestire i panni della piccola nobiltà di provincia. ARALDICA

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GONZAGA Magnifica signoria La corte gonzaghesca fu animata da personaggi capaci di distinguersi come valenti condottieri e grandi mecenati

La dinastizzazione del dominio

di Paolo Grillo

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ono pochi i casi in cui la memoria di una stirpe signorile è rimasta tanto strettamente legata alla storia artistica e urbanistica della città da essa dominata quanto lo fu quella dei Gonzaga a Mantova. È infatti grazie al loro mecenatismo che la città sul Mincio si può ancora oggi fregiare dei grandi cicli di affreschi del Pisanello, di Andrea Mantegna e di Giulio Romano, nonché di opere architettoniche quali il S. Andrea di Leon Battista Alberti o il Palazzo Te dello stesso Giulio Romano. Non fu però solo la passione estetica ad animare le azioni dei Gonzaga nel campo artistico: tutte le opere da essi promosse, infatti, erano funzionali a fornire una giustificazione ideologica e retorica al potere esercitato dalla famiglia. Soltanto uno strettissimo rapporto con la città, realizzato sia sul piano politico, con un’efficace collaborazione con i ceti dirigenti urbani, sia su quello ideologico, avrebbe potuto rendere piú solida la dominazione gonzaghesca su un territorio pericolosamente stretto fra i due contrapposti espansionismi del Ducato di Milano e della Serenissima Repubblica Veneta. La signoria dei Gonzaga trovava infatti la sua ragion d’essere nella crisi del Comune mantovano, che portò già alla fine del XIII secolo l’importante famiglia locale dei Bonacolsi, di parte guelfa, a egemonizzare tutte le principali cariche cittadine. I Gonzaga, a loro volta proprietari terrieri di origini aristocratiche, fino agli inizi del XIV secolo furono alleati dei Bonacolsi, ma poi, accrescendosi sempre piú il loro potere ed essendo sempre piú in difficoltà la famiglia

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dominante, decisero di impadronirsi direttamente del governo cittadino. Conquistata una preziosa alleanza con i potenti signori di Verona, i Della Scala, Luigi Gonzaga nel 1328 effettuò un colpo di mano militare che lo portò a scalzare dal potere la famiglia rivale e a sostituirla alla guida del Comune. Per tutto il Trecento, però, il predominio gonzaghesco non si concretizzò nella creazione di nuove istituzioni che sostituissero o modificassero il vecchio quadro del governo comunale: i nuovi signori esercitavano il loro potere e il loro controllo su tutte le forme di vita associata, dalle strutture dell’amministrazione cittadina alle corporazioni di mestiere, ma in maniera quasi informale, agendo con la loro autorità ma sempre in linea con gli ordinamenti ereditati dall’età comunale.

Ritratto di Luigi Gonzaga, fondatore della celebre famiglia principesca. Nella pagina accanto Cacciata dei Bonacolsi (particolare), tempera grassa su tela di Domenico Morone. 1494. Mantova, Museo di Palazzo Ducale.

Ciononostante, col tempo, il potere dei Gonzaga crebbe progressivamente: nel 1339 lo stesso Luigi, grazie all’esborso di alcune migliaia di fiorini, fu nominato vicario imperiale e, fra XIV e XV secolo, la famiglia si sentí in grado di istituzionalizzare maggiormente il proprio controllo sulla vita cittadina. Il passaggio dal semplice predominio familiare nelle istituzioni comunali a una vera e propria dinastizzazione del dominio fu segnata da un episodio significativo: nel 1404 Francesco Gonzaga, che si fregiava del titolo di derivazione comunale di Capitano del Popolo di Mantova, riuscí a far inserire nello Statuto cittadino una norma che stabiliva l’ereditarietà di tale carica che dunque, alla sua morte, sopravvenuta tre anni piú tardi, passò al figlio Gianfrancesco. Questi però era ancora undicenne e il fatto che un ragazzino potesse ascendere alla guida della città suscitò una forte opposizione nel consiglio del Comune, opposizione che venne superata solo grazie all’intensa azione dei clienti dei Gonzaga e di Carlo Malatesta, zio e tutore di Gianfrancesco. L’avvenuta successione segnò in maniera inequivocabile la perdita di ruolo delle vecchie istituzioni cittadine e il definitivo consolidamento della dinastia gonzaghesca, che trovò poi una consacrazione, destinata a svincolarla anche formalmente dall’eredità comunale, quando, nel 1433, lo stesso Gianfrancesco venne creato marchese di Mantova dall’imperatore Sigismondo. Il titolo marchionale coronò l’azione politica di Gianfrancesco, che nel corso del suo dominio – durato quasi quarant’anni – fu chiaramente


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24 RISPOSTE Fedele al suo dettame di governare mantenendo il massimo favore popolare possibile, Gianfrancesco Gonzaga, forse su consiglio di Vittorino da Feltre, prese nel 1430 un’iniziativa alquanto singolare per l’epoca. Invitò infatti tutti i suoi sudditi a esprimere il proprio parere e consiglio su come migliorare lo stato della città e del suo territorio. Risposero in ventiquattro, non molti se raffrontati alla totalità della popolazione cittadina, ma neanche pochi considerato che in quegli anni non molti erano in grado di scrivere e che un certo numero di pareri fu in realtà frutto dell’elaborazione collettiva di piú persone. Le ventiquattro risposte alla domanda di Gianfrancesco, espresse soprattutto da giuristi e da mercanti, costituiscono un interessante spaccato su che cosa pensasse lo strato superiore dell’«opinione pubblica» mantovana del XV secolo. I pareri vertevano un po’ su tutto: la maggior parte dei proponenti chiedeva che si rendesse piú efficiente la giustizia e si favorissero i commerci con un’apposita politica fiscale, ma non mancava chi suggeriva di istituire un medico condotto in città, di pagare pubblicamente maestri che provvedessero all’istruzione dei piú poveri, di prendere provvedimenti che favorissero la pesca nel Mincio o di migliorare l’aspetto della città sloggiando le bancarelle dalla piazza del mercato. Particolarmente interessante, infine, fu la proposta di un uomo che forse per esperienza personale, chiedeva di limitare per legge il valore delle vesti e delle gioie che potevano indossare le donne, poiché i mariti «per contentar la moglie de ogne cosa» finivano per trovarsi «desfati de la roba».

In alto medaglia celebrativa in bronzo raffigurante Gianfrancesco I Gonzaga, primo marchese di Mantova, opera del Pisanello. 1439-1440 circa. Washington, National Gallery of Art. A sinistra Mantova, Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio. Particolare del ciclo pittorico dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi: Ludovico, seduto in trono, ascolta un membro della sua corte. L’artista realizzò gli affreschi verosimilmente tra il 1465 e il 1474. 50

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orientata a consolidare il proprio ruolo di governo a scapito delle superstiti istituzioni comunali. Egli creò infatti un Consiglio privato del principe destinato a sostituire il Consiglio del Comune e legò sempre piú l’amministrazione delle finanze cittadine a quella della propria corte. Inoltre, svincolando progressivamente il proprio potere da quello delle vecchie istituzioni cittadine, il Gonzaga cercò di elaborare forti fondamenti ideologici e culturali a sostegno della nuova forma di governo. Fin dal 1423 egli invitò dunque a Mantova, fornendogli una villa destinata a fungere, secondo la migliore tradizione umanistica, da «orto di delizie», Vittorino da Feltre, un intellettuale che teorizzava che il governo ottimale fosse quello del buon principe.

Ideali cavallereschi

Dopo la concessione del titolo marchionale, inoltre, Gianfrancesco fece celebrare l’evento dal Pisanello, commissionandogli un importante ciclo d’affreschi, recentemente portati alla luce nelle sale del palazzo ducale. Ispirati a episodi del ciclo dei romanzi cavallereschi, gli affreschi illustravano in maniera riconoscibile la situazione locale, per cui nelle fattezze di Camelot veniva rappresentata Mantova e il volto di Gianfrancesco si sostituiva a quello di Tristano, nella metafora celebrativa di un potere che voleva ispirarsi alla messa in pratica degli ideali cavallereschi e che trovava spesso la sua ragione di sopravvivenza proprio nel servizio in armi che i marchesi prestavano ora al Ducato di Milano, ora alla Repubblica Veneta. Gli indirizzi politici seguiti da Gianfrancesco Gonzaga erano dunque volti in campo interno a consolidare il proprio potere, ma sempre in stretto accordo con i maggiorenti cittadini, mentre sul versante esterno veniva abbandonata ogni velleità espansionistica, poiché le forze del marchesato non erano in grado di competere con quelle dei due potenti e ingombranti vicini e l’unica condotta in grado di garantire la sopravvivenza dell’autonomia di Mantova era un’attenta politica di equilibrio fra Milano e Venezia. Tale condotta fu proseguita e ulteriormente perfezionata dal figlio di Gianfrancesco, Ludovico Gonzaga, che fu marchese di Mantova dal 1444 al 1478 e sotto il quale la città visse forse il suo momento di maggior splendore. Tutelato dai pericoli esterni grazie all’equilibrio fra le potenze italiane, raggiunto nel 1454 con la stipula della pace di Lodi, e rafforzato da una solida alleanza militare con il ducato sforzesco, di cui Mantova, per dirla con le parole di un


MARCHESE, FINALMENTE! Lo stemma dei Gonzaga, come quello di molti altri signori o principi rinascimentali, è molto complesso e ha subito nel tempo numerose aggiunte e variazioni legate a matrimoni e a concessioni imperiali. Inizialmente fu adottata come arme «d’argento alla croce patente di rosso» a cui fu aggiunto, con la nomina nel XIV secolo a gonfalonieri pontifici, il «palo della Chiesa» (le chiavi incrociate sovrastate dalla tiara). Nel 1376, grazie al matrimonio con Agnese Visconti, Francesco Gonzaga ottenne il privilegio di «inquartare» alla propria quell’arme prestigiosa, che però dopo qualche anno, con la fine del matrimonio, non verrà piú utilizzata. Francesco, in virtú della sua politica tesa ad assicurarsi l’amicizia e la protezione dell’imperatore otterrà da Venceslao IV, nel 1394, di poter onorare il proprio stemma con l’insegna imperiale del leone di Boemia; nel 1396 anche Carlo VI di Francia gli concederà dei privilegi, ma il suo sogno, quello di ottenere il titolo di marchese, si avvererà solo nel 1403: in quell’occasione, oltre al titolo, l’imperatore gli concederà di fregiarsi dell’aquila imperiale che Francesco esporrà – le superiori rivolte, le inferiori anche convergenti verso il centro dello scudo – nei quarti della sua croce e la sua arma sarà la seguente: «d’argento alla eroe patente di rosso recante nei quattro quarti quattro aquile spiegate di nero, nel I rivolta a sinistra, nel III in sbarra rivolta a sinistra, nel IV in banda; in cuore della croce inquartato nel I e nel IV d’oro al leone rosso, nel II e nel III fasciato d’oro e di nero». Massimo D. Papi

cronista dell’epoca, rappresentava «il bastian de mezo», Ludovico poté dedicarsi al definitivo consolidamento del potere marchionale. Egli creò un «Collegio dei giudici», grazie al quale portò definitivamente sotto il proprio controllo anche l’amministrazione della giustizia, compiacendo contemporaneamente le élites mantovane cui fu riservato l’accesso al Collegio, dal quale gli stranieri furono esclusi.

Alla maniera degli imperatori

Se Gianfrancesco Gonzaga aveva celebrato il proprio potere commissionando al Pisanello il ciclo pittorico del palazzo ducale, Ludovico fece altrettanto nel castello di San Giorgio – fortezza che era il simbolo stesso del potere della famiglia – dove fece affrescare dal Mantegna la vasta sala oggi nota come Camera degli Sposi. Mentre, però, il Pisanello aveva dato una raffigurazione cavalleresca del governo gonzaghesco, Ludovico volle che il pittore da lui prescelto, Andrea Mantegna, raffigurasse la famiglia marchionale circondata dai simboli e dai ritratti dei grandi imperatori romani: nell’aspirazione di un potere sem-

Stemma dei Gonzaghi di Mantova, da Teatro Araldico, ovvero Raccolta Generale delle Armi ed Insegne Gentilizie delle piú illustri e Nobili Casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta l’Italia, illustrate con relative genealogicostoriche nozioni da Leone Tettoni e Francesco Saladini. Claudio Wilmant e figli, Lodi, 1841-1851.

pre piú centralizzato il Gonzaga voleva rifarsi direttamente all’ideologia imperiale e, tramite l’opera pittorica del Mantegna, rappresentare esplicitamente e propagandare tale suo fine. La stessa città cambiò progressivamente volto sotto l’impulso di Gianfrancesco e di Ludovico, che promossero sia la realizzazione di numerosi edifici di interesse pubblico, quali l’ospedale di S. Leonardo, il nuovo palazzo del Podestà e la torre dell’Orologio, sia la generale riqualificazione degli spazi attorno ai due capolavori di Leon Battista Alberti: le chiese di S. Andrea e di S. Sebastiano. Si trattava di interventi che indicavano anche materialmente, sulla struttura cittadina, il «buon governo» del principe e sancivano l’accordo e la pace sociale che caratterizzarono la vita mantovana nel Quattrocento. Con il finire del XV secolo, ebbe però termine anche la stagione piú felice del marchesato gonzaghesco: la discesa di Carlo VIII, le guerre d’Italia fra Francesi e Spagnoli e la generale crisi dell’assestato sistema politico degli Stati italiani causarono una profonda crisi nello Stato mantovano, troppo piccolo per potersi in qualche maniera opporre alla tempesta incombente. Una crisi di cui è specchio, in un certo modo, l’ultima grande realizzazione architettonica promossa dai Gonzaga: quel Palazzo Te che Giulio Romano edificò fra il 1525 e il 1534 su commissione del marchese (poi duca) Federico II. Al posto degli edifici di pubblica utilità fatti erigere dai suoi predecessori, il primo duca mantovano si fece infatti costruire un capriccioso rifugio suburbano, un luogo idilliaco dove trovare riparo dalle miserie circostanti. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale

DELLA SCALA Capitani sull’Adige Saldamente radicati nel tessuto veronese, i Della Scala si impongono come una delle maggiori potenze locali. Ed esercitano un dominio ferreo, del quale però rivendicano, almeno formalmente, la legittimità derivante dal consenso della popolazione di Gian Maria Varanini

A

gli inizi del Trecento, molte città di tradizione comunale dell’Italia centro-settentrionale – soprattutto in Lombardia, Veneto e Romagna – sono governate da regimi signorili. I titoli dei quali questi signori si fregiano sono vari: dominus generalis, capitaneus generalis civitatis, e cosí via. Altrettanto varie sono le circostanze e le modalità nelle quali è avvenuta la presa di potere da parte del signore: un momento critico delle lotte di fazione interne alla città, per esempio (come era accaduto a Mantova per i Bonacolsi o a Treviso per i da Camino), oppure il consolidamento definitivo di una posizione di

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autorevolezza e di egemonia già da tempo evidente, come per gli Estensi a Ferrara. Alquanto uniformi sono invece le modalità, con le quali il Comune cittadino delega al signore ampi poteri: l’assemblea comunale, ovvero l’arengo, appositamente riunita conferisce al signore l’arbitrium sullo Statuto, cioè lo autorizza a operare – a sua discrezione assoluta – senza tener conto alcuno delle leggi (ius proprium) che il Comune cittadino si era dato a partire dalla fine del XII secolo e che aveva progressivamente selezionato e riordinato. Il potere dei signori riceve dunque la sua legittimazione dal basso.


Questa è l’evoluzione generale, ma resta vero che ogni singola affermazione signorile segue un proprio percorso, ha delle precise specificità. Lo storico Ernesto Sestan (1898-1986) mise in rilievo, giustamente, il fatto che molte famiglie che prendono il potere in città importanti vengono da una tradizione di signoria rurale, hanno «un piede in campagna e uno in città», possiedono masnade e castelli.

Sempre nell’ambito urbano

Diverso è invece l’itinerario dei Della Scala di Verona, che, fra XIII e XIV secolo, danno vita a una delle piú precoci e forti signorie cittadine. I Della Scala sono infatti (e lo conferma il loro nome, legato a un toponimo urbano) una famiglia di antica tradizione cittadina, esistente sin dall’XI secolo e presente da subito nel consolato del Comune di Verona. La loro ascesa sociale si compie tutta all’interno del mondo urbano. Nei decenni centrali del Duecento, i Della Scala navigano abilmente nelle travagliatissime vicende delle fazioni cittadine, il partito dei Conti (ostile a Federico II) e quello dei Monticoli (filoimperiale, capeggiato da Ezzelino III da Romano); indubbiamente hanno un certo prestigio, se la contrada ove possiedono una casa-torre, vicina alla piazza del mercato e al palazzo del Comune, si chiama proprio hora illorum de Scalis (o de Sca-

la), ovvero «contrada» degli Scaligeri. Ma tutto sommato Mastino Della Scala, il leader della famiglia (ma non l’unico attivo sulla scena politica), appare un cittadino come tanti. L’anno cruciale della sua vita, e della storia della città intera – ancora oggi «scaligera» per antonomasia – fu il 1259. Aveva ancora il potere di fatto, in Verona, Ezzelino III da Romano: nel gennaio 1259 Mastino Della Scala è infatti podestà del Comune per suo conto. Dieci mesi dopo, sconfitto e ucciso Ezzelino, Mastino è ancora al vertice delle istituzioni cittadine, ma questa volta come potestas populi, cioè come podestà del popolo organizzato in corporazioni di mestiere. Come tale (o come «capitano del popolo e della città di Verona»), e contemporaneamente come podestà dei mercanti (a capo della Casa dei mercanti, la potentissima istituzione che gestiva i traffici, e in particolare il commercio fluviale sull’Adige) egli compare negli anni immediatamente successivi. In un momento delicatissimo della storia della città, l’uomo giusto si era trovato al posto giusto. Mastino Della Scala si era mostrato in grado di rappresentare gli interessi di quella «nuova» società di commercianti, imprenditori tessili, cambiatori, notai, che era cresciuta in età comunale e che aveva fatto di Verona una grande e ricca città.

Verona. Il castello, oggi noto come Castelvecchio, costruito tra il 1354 e il 1356 da Cangrande II Della Scala per avere un nucleo fortificato di controllo sull’Adige in corrispondenza dell’accesso settentrionale alla città, dopo la congiura del fratellastro Fregnano Della Scala. Il complesso si integra con un ponte a tre arcate, attribuito a Giovanni da Ferrara e Jacopo da Gozo.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

In basso il sarcofago di Alberto I Della Scala, realizzato nel 1301 e riccamente scolpito. Il manufatto si trova a Verona, presso le Arche Scaligere, il monumentale complesso funerario in stile gotico della famiglia degli Scaligeri.

Italia settentrionale

Per oltre un quindicennio, Mastino Della Scala (poi detto Mastino I) fu in Verona un signore di fatto, appoggiato e «legittimato» dal popolo organizzato. I membri della sua famiglia occupavano nel frattempo posizioni strategiche in città. Dei tre fratelli di Mastino, Guido Della Scala fu eletto vescovo e resse la diocesi dal 1268 al 1273, Alberto fu podestà dei mercanti ininterrottamente (fino alla morte) dal 1270, Bocca morí combattendo contro Mantova. Non vi è da stupirsi quindi che, quando Mastino fu

ucciso in un ultimo episodio delle lotte di fazione nell’ottobre 1277 (un colpo di coda della vecchia aristocrazia, emarginata e in larga parte espulsa dalla città), il consiglio del Comune cittadino abbia dato i pieni poteri (l’arbitrium di cui si diceva sopra) ad Alberto Della Scala, già da tempo noto ai suoi concittadini come podestà dei mercanti. Il governo del Comune è dunque legittimamente assunto, con una ratifica formale del consiglio cittadino.

Un tiranno premiato dal consenso

Alberto (poi detto Alberto I) fu, nel senso stretto e «tecnico» del termine, un tyrannus. Anche a lui, tuttavia, come ad altri signori del suo tempo, furono riservati da alcuni contemporanei giudizi positivi: «tiranno» sí, ma sostanzialmente accettabile, non privo di moderazione, e anche rispettoso delle forme del governo comunale (e le forme, in questo ambito, non sono prive di importanza: Alberto I evitò anche di organizzare una sua cancelleria, continuando a servirsi quasi esclusivamente di notai comunali). Se gestí con molta energia il potere in città e nel distretto – sorvegliando per esempio i castelli del territorio con guarnigioni da lui direttamente dipendenti, oppure imponendo un figlio illegittimo (Giuseppe Della Scala: deforme e non molto sveglio, se54

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Nella pagina accanto, in alto la cosiddetta Iconografia Rateriana, prima rappresentazione grafica di Verona che prende il nome dal vescovo che la commissionò, Raterio di Liegi (892-974). L’originale andò perduto durante la Rivoluzione Francese; la prima copia, realizzata con tecniche simili all’originale è datata 1739 e apparteneva all’intellettuale veronese Scipione Maffei. Verona, Biblioteca Capitolare. In basso stemma degli Scaligeri di Verona, da Teatro Araldico... Claudio Wilmant e figli, Lodi, 1841-1851.

SOPRANNOMI... BESTIALI Molto si è scritto sulle scelte onomastiche della famiglia dei signori di Verona, che furono ossessivamente riproposte nell’imagerie di corte, e che nella letteratura di propaganda del Trecento (filoscaligera e antiscaligera) si prestarono a infiniti e facili giochi di parole, accostamenti, allusioni. Fu il figlio di Mastino I, Alberto I, a consolidare questa tradizione, assegnando nel 1291 al terzogenito (il futuro Cangrande I) il nome di Canfrancesco, ben presto – sin dall’infanzia – sostituito dall’appellativo Canis grandis o (Magnus). Si sono tirate in ballo persino tradizioni longobarde, ma in realtà la consuetudine dei nomi canini ha un’origine molto banale. Risale infatti al soprannome del membro piú eminente della famiglia, assegnatogli con tutta probabilità – secondo un’abitudine diffusissima nell’Italia del XII e XIII secolo – per il suo aspetto fisico: Mastino si chiamava in realtà Leonardino, e appunto Leonardinus de Scalis qui Mastinus dicitur è detto in un importante atto ufficiale del 1254. Gli altri nomi che compaiono nella famiglia Della Scala nei secoli XI-XIII sono infatti i normalissimi Adamo, Federico, Bonifacio, Bartolomeo, ecc. Interessante è piuttosto un’altra scelta onomastica di Alberto I Della Scala, che chiamò il suo secondogenito con l’inusitato nome «longobardo» di Alboino, riallacciandosi cosí alla tradizione (solidissima nella cultura cittadina, sin dall’Alto Medioevo di Teodorico e di Berengario I) di Verona «città regia». È questa una scelta che si inserisce in quello sforzo di nobilitazione, che caratterizza la storia della famiglia scaligera nella seconda metà del Duecento.

condo il giudizio forse eccessivo di Dante) come abate del grande monastero di S. Zeno – Alberto I godette tuttavia di un largo consenso della élite cittadina. Difese infatti – ciò che era essenziale – gli interessi territoriali e commerciali della città: strinse una duratura alleanza con Mantova, fronteggiò l’aggressiva politica del Comune di Padova, si alleò con Mainardo II, conte di Tirolo, che controllava la via commerciale dell’Adige e del Brennero. Certo, i Della Scala restavano pur sempre dei parvenus, privi com’erano di grandi tradizioni aristocratiche, e fors’anche di basi economiche autonome, che prescindessero dalle finanze comunali o dalle investiture di beni delle chiese; e il loro potere era legato comunque al consenso assicurato dal Comune cittadino al signore. Ben consapevoli di questa duplice limitazione – sociale e politica – Alberto I e i figli che gli successero al potere (Bartolomeo dal 1301 al 1304, Alboino dal 1304 al 1309, Cangrande I dal 1309 al 1329) tentarono di porvi rimedio. Per acquisire un maggiore prestigio e una migliore immagine sociale, nulla di meglio della politica matrimoniale. Già Federico Della Scala, appartenente a un ramo laterale della famiglia, aveva sposato negli anni Ottanta una diARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

scendente degli Svevi, figlia di Corrado d’Antiochia. Ma, soprattutto, nell’ultimo decennio del secolo Alberto I si legò – grazie ai matrimoni dei figli e delle figlie – alle piú autorevoli famiglie italiane e alpine: gli Estensi, i Visconti, i conti di Gorizia. Le fastose celebrazioni di queste nozze – con curie cavalleresche nelle quali non pochi tra i «nuovi ricchi» veronesi, o tra gli esponenti della piccola nobiltà del con56

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Italia settentrionale

tado, vennero armati cavalieri – costituirono una novità per Verona, come infatti i cronisti dell’epoca segnalano con molta evidenza. I rapporti feudo-vassallatici furono riesumati e rimessi in onore (anche se con cautela e fuori del Palazzo comunale per non indispettire lo «zoccolo duro» del consenso borghese e artigiano): nel monastero di S. Zeno per esempio, ove l’abate scaligero costruí e affrescò un nuo-

Il monumento equestre di Cangrande Della Scala, da alcuni attribuito a Giovanni di Rigino. Prima metà del XIV sec. Verona, Museo di Castelvecchio.


UN BLASONE DOPPIAMENTE PARLANTE Molto si è discusso sulla natura delle «armi parlanti» (quelle cioè che nelle loro figure, piú raramente nei colori, ricordano il nome della famiglia), ed è una questione difficilmente risolvibile stabilire – in mancanza di documentazione – se sia stato il «segno» a determinare il nome della famiglia, o viceversa. Per gli Scaligeri, però, pur essendo la situazione in apparenza doppiamente complessa, disponiamo di elementi molto precisi in relazione alle trasformazioni e ai motivi che le hanno determinate. Allo stemma originario: «Di rosso alla scala di 4 (o 5) pioli d’argento posta in palo», Cangrande, volendo celebrare il suo nome e la sua gloria, aggiunse un elemento che lo ricordasse, assumendo uno scudo «Di rosso a due cani affrontati e rampanti d’argento tenenti una scala di 4 pioli dello stesso». Uno stemma, quindi, doppiamente parlante che, voluto per celebrare oltre al casato un nome, quello di Cangrande appunto, sarà poi esso stesso a determinare in seguito la scelta del nome proprio di alcuni discendenti, quali Mastino e Cansignorio; quest’ultimo fratello, uccisore e successore di Cangrande II, il quale vorrà, invece, uno stemma tutto suo – anch’esso parlante – per nobilitare e perpetrare, anch’esso, la memoria del nome «Di rosso al cane alato d’argento». Variano gli elementi figurativi, ma, nel pieno rispetto della tradizione araldica familiare, non mutano i colori. Massimo D. Papi

vo palazzo. E la città intanto cominciava a riempirsi di nobili fuorusciti appartenenti alle piú illustri famiglie fiorentine, bolognesi, emiliane, siciliane (dagli Uberti agli Alighieri e ai Malaspina, dai Carbonesi ai da Fogliano, dai da Sesso ai Chiaromonte). Sotto l’altro profilo, quello politico e istituzionale, il problema del consolidamento del regime signorile si poneva sotto due aspetti. Da un lato, l’arbitrium conferito dal Comune cittadino non era ereditario, ma ad personam: l’automatismo nella successione al potere fu un traguardo mai scontato per tutte le signorie cittadine (quasi tutte le crisi – nella storia viscontea, estense, gonzaghesca – coincidono con questi passaggi delicati). Alberto I superò abilmente questo scoglio associandosi nel capitanato il figlio primogenito, Bartolomeo, che compare al suo fianco in molti documenti ufficiali.

Scelte obbligate

Dall’altro lato, un vero salto di qualità in termini di riconoscimento pubblico poteva venire, per il potere signorile scaligero, soltanto dalla ratifica dell’autorità imperiale, che nella concezione dell’epoca costituiva la fonte di ogni legittimità. Il problema è, anche in questo caso, di carattere generale. Come è stato efficacemente detto, rispetto alla politica italiana dei secoli XIV e XV l’impero tedesco (da Ludovico il Bavaro a Carlo IV, da Venceslao a Sigismondo, a Federico III) diviene progressivamente una «macchina per legittimare», che compie in modo automatico una serie di scelte obbligate, ratificando l’esistenza di poteri che avevano altre basi di

consenso, ben piú concrete e reali che non il riconoscimento imperiale. E, per molti aspetti, già la celebre spedizione di Enrico VII, sceso in Italia nel 1310, può essere letta secondo questa chiave interpretativa. Lo strumento della legittimazione è la carica di vicario imperiale, concessa vita natural durante tanto a signori di tradizione ghibellina (Matteo Visconti di Milano, Passerino Bonacolsi di Mantova, oltre a Cangrande Della Scala) che guelfa: in ogni caso, la contropartita è un robusto esborso in denaro. Certo, Cangrande Della Scala, com’è noto, interpretò il suo ruolo di vicario imperiale con un’ampiezza di vedute, un respiro, un’ambizione non comuni, su ampi scenari territoriali. Basterà ricordare che negli atti ufficiali egli si sottoscrive «vicario di Verona e Vicenza», ma anche «capitano e rettore dell’unione e della lega dei fedeli dell’Impero in Lombardia». Ma da allora in poi nessuno dei suoi successori, neppure un Cansignorio e un Antonio Della Scala, nella seconda metà del secolo, rinunciò mai al rassicurante riferimento alla carica vicariale (quando poi non ci si acconciò – come capitò a Mastino II Della Scala alla fine degli anni Trenta – persino a chiedere il vicariato pontificio a papa Giovanni XXII). Anche il prestigio che riverbera dai poteri universali, dunque, fa tuttora parte degli strumenti di cui questi dòmini si avvalgono nell’esercizio spregiudicato e per taluni aspetti innovativo (nella politica fiscale, o in quella ecclesiastica) del potere.

Stemmi dei Della Scala di Verona. L’aggiunta all’arme originaria dei due cani rampanti si deve a Cangrande.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale

DA CARRARA Fasti patavini Alla città di sant’Antonio la dinastia carrarese regalò una breve ma smagliante stagione di fioritura economica e culturale

In alto medaglia con il profilo di Francesco II da Carrara, signore di Padova, opera di un ignoto artista padovano. XIV sec. Washington, National Gallery of Art. Sulle due pagine uno scorcio del Palazzo della Ragione, l’antica sede dei tribunali cittadini di Padova, innalzato a partire dal 1218 e poi piú volte rimaneggiato.

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di Isabella Lazzarini

N

el 1337 Marsilio di Pietro da Carrara venne acclamato signore di Padova dopo che una lega antiscaligera capitanata da Venezia e da Firenze aveva scacciato i Veronesi dalla città patavina: si trattò, dopo decenni di complessi rivolgimenti, dell’esordio effettivo, trionfale, di una signoria cittadina che sarebbe durata, attraverso momenti di grande splendore, sino al 1405. L’alleanza fra i Carraresi e la città di Padova, sede nell’età precedente di un potente e antico organismo comunale, ebbe proprio nella liberazione dalla dominazione scaligera il suo «momento fondante»: la celebrazione del potere dei Carraresi – che si dispiegò in una straordinaria stagione politica, ma anche artistica, storiografica, letteraria – si incardinò, a differenza di altre coeve signorie venete, proprio sulla natura non tirannica, civile, della signoria e soltanto la sanguinosa successione delle guerre veneziane avrebbe condotto, ai primi del Quattrocento, a un parziale scioglimento del rapporto di reciprocità fra la città e la dinastia. I da Carrara erano nel Duecento una potente famiglia padovana di parte guelfa, sin dall’XI secolo attestata nel castrum Carrarie, centro amministrativo, economico e militare dei beni fondiari della famiglia nel contado padovano e nel XII secolo annoverata fra le file della vassalità episcopale. Nei conflitti dell’età sveva e nei contrasti cittadini del secondo Duecento e del primo Trecento, scenario ideale per il crescente espansionismo delle città dell’antica Marca trevigiana, vennero poste le premesse perché i

CRONACHE DI UN’ETÀ DELL’ORO Sede di uno studium universitario di estremo rilievo, centro nel XIV secolo di una corte brillante e vivace che, proprio in età carrarese, seppe attrarre una personalità culturale del calibro di Francesco Petrarca, Padova fu connotata anche da una tradizione storiografica di inusuale ricchezza. Da Rolandino da Padova, storico della controversa età ezzeliniana, a Galeazzo, Bartolomeo e Andrea Gatari, che seguirono le vicende della dinastia carrarese sino all’epilogo quattrocentesco, il secolo e mezzo che andò dalla caduta di Ezzelino da Romano al primo Quattrocento conobbe a Padova un fiorire senza paragone di cronache in latino e in volgare. In particolare, la dinastia carrarese suscitò un eccezionale flusso di testi di grande ricchezza e in qualche caso di assoluto rilievo. Si tratta di un corpus a piú voci, di carattere tanto diverso quanto diverse erano le anime culturali della città: la personalità preumanistica e universitaria di Albertino da Mussato, la fedeltà alla tradizione cronachistica cittadina di Guglielmo Cortusi, la disincantata cultura politica e cancelleresca di Nicoletto d’Alessio, la formazione mercantile e la vocazione urbana dei Gatari ci restituiscono, insieme con il corpus anonimo dei diversi testi che compongono le Gesta magnificae domus Carrariensium, un quadro a diverse facce del complesso rapporto fra la domus magnifica dei da Carrara, la città di Padova, il mondo della terraferma veneta, e del suo degradarsi sino al drammatico epilogo.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

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«UNA MAGNA COSA PER LA CITÀ» Marsilio da Carrara morí poco dopo avere restituito trionfalmente la città ai Padovani: il nipote Ubertino intraprese l’edificazione, nel cuore della città, del primo nucleo di quella che sarebbe divenuta un’immensa reggia, collegata alle mura tramite un «traghetto» pensile e completata dalla costruzione di un castello addossato alla cinta di mura. La costruzione della reggia e le opere civili a essa collegate come il riassetto delle mura, delle strade, degli argini, dei canali contigui, durarono per decenni. Le cronache definirono il complesso della residenza signorile una «magna cosa per la cità»: inglobando parte dei preesistenti uffici comunali, essa divenne agli occhi dei Padovani simbolo della reintegrata sovranità cittadina. Per la decorazione pittorica della reggia, iniziata immediatamente e portata avanti nell’età di Francesco il Vecchio, i Carraresi reclutarono rinomati artisti come Guariento, Altichiero, Giusto de’ Menabuoi. L’imitazione dell’antico, fusa con il realismo padovano di matrice giottesca, corroborò nei diversi cicli pittorici delle sale della reggia – per lo piú di tema classico – quel che è stato felicemente definito il carattere augusteo della dominazione carrarese.

da Carrara maturassero in egemonia dinastica la propria eminenza cittadina. Nel 1318, infatti, il Comune di Padova, lacerato dai conflitti interni fra guelfi e ghibellini e minacciato dall’avanzata di Cangrande Della Scala, nominò Giacomo I di Marsilio da Carrara capitano generale e perpetuo della città (1318). Si trattava di un episodio precoce: la debolezza di Padova non consigliò al Carrarese di persistere nella signoria e la città passò nelle mani dei capitani imperiali e, tra il 1328 e 1337, direttamente ai Della Scala, signori della vicina Verona, di cui Marsilio di Pietro da Carrara divenne il vicario. L’aggressività scaligera sca60

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Affreschi con scene del Vecchio Testamento realizzati da Guariento di Arpo nella Reggia Carrarese. 1349-1354.

tenò peraltro la risposta veneziana, che condusse alla restaurazione, questa volta duratura, del Carrarese nella città patavina. Questi si propose come continuatore della tradizione autonomistica del Comune cittadino, ma la tutela cui la signoria carrarese venne, sin dalle sue origini, sottoposta da parte della Serenissima pose pesanti ipoteche sulla sua effettiva autonomia e condizionò il suo futuro politico.

Un’epoca di conflitti

Tra il 1338 e il 1355 tre Carraresi si succedettero dopo la morte di Marsilio: il difficile assestamento dinastico ebbe infine coronamento nella signoria di Francesco I il Vecchio, che inaugurò per Padova un cinquantennio di quasi indiscusso dominio signorile e di indipendenza cittadina. Sotto Francesco il Vecchio la struttura politica della signoria venne precisandosi in un’articolata società di corte, in grado di attrarre e assorbire élite aristocratiche e mercantili di diversa provenienza. Fu peraltro un’età di conflitti prolungati e sempre piú gravi, in particolare con Venezia: l’alleanza di Francesco con Ludovico d’Ungheria a partire dal 1359 gli portò consistenti accrescimenti territoriali nel Bellunese, ma gli alienò definitivamente la Serenissima, la cui ostilità condusse alla cosiddetta «guerra dei confini» (1378-1381). Nell’ultimo ventennio del secolo la lotta per l’egemonia territoriale nell’entroterra veneto vide la comparsa di un altro protagonista di grande rilievo, il signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti. Nel confronto fra Milano e Venezia per il controllo delle ricche città della terraferma veneta, Padova era l’elemento piú debole: dopo diverse campagne militari, lo Stato carrarese venne diviso fra i due. La città fu conquistata dalle milizie viscontee nel 1388: Francesco il Vecchio venne imprigionato e morí in Lombardia nel 1393. Non sorprende che Padova si sia arresa alle truppe milanesi quasi senza combattere: negli ultimi anni le pesanti esazioni rese necessarie dalle guerre di Francesco il Vecchio, nonché una sorta di «tradimento» dell’alleanza fra il signore e la città, perpetrato dal Carrarese proprio nella sua insistita volontà espansionistica, gli avevano alienato buona parte dei ceti eminenti padovani, dissipando il mito di pater patriae che ci ha tramandato la ricchissima produzione cronachistica coeva. Francesco II da Carrara, detto il Novello, nato nel 1359, fu l’ultimo signore di Padova. Sfuggito in modo rocambolesco alla prigionia viscontea nel 1388, riuscí a rientrare in Padova


QUASI UNA FERRARI ANTE LITTERAM

Riproduzione dello stemma dei da Carrara, tratto dal repertorio Famiglie Celebri d’Italia, di Pompeo Litta.

«D’argento al carro di rosso posto in palo», cosí può essere espresso il blasone di questa famiglia, che Giovanni Battista Crollalanza, nel suo Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, definisce in forma piú dettagliata: «D’argento ad un traino di carro con le sue quattro ruote, il tutto di rosso, posto in palo, il timone in alto». Ciò ripropone il problema del «linguaggio araldico»; il blasone del Crollalanza non aggiunge alcun elemento – rispetto al primo – la cui menzione risulti necessaria o indispensabile per la descrizione dello stemma: ricordare il colore delle ruote sarebbe stato necessario soltanto se questo fosse stato diverso da quello del carro, cosí come è pleonastica la direzione del timone in quanto essendo il carro rappresentato in verticale («in palo») è anche, naturalmente, rivolto verso l’alto come di regola sono le figure verticali negli scudi, cosí come quelle orizzontali sono, sempre di regola, volte a destra. Ma torniamo alla figura in se stessa. È chiaramente un arme «parlante» in quanto illustra semplicemente il significato del nome e non fornisce quindi nessuna indicazione utile per la storia della famiglia; c’è forse qualche nesso, ma non per gli smalti, con l’insegna del territorio di Carrara, il cui stemma, tratto da un bassorilievo sulla facciata del palazzo comunale del XIII secolo, è «D’azzurro alla ruota di carro d’oro caricata del motto “fortitudo mea in rota”», con chiaro riferimento alla fiorente attività economica del marmo e del suo trasporto. Massimo D. Papi

nel giugno del 1390, dopo che poco piú di un anno e mezzo di dominio visconteo in città era stato sufficiente per ricompattare un partito filocarrarese. Tra il 1390 e il 1405 fiorí l’ultima, grande stagione del dominio carrarese su Padova. Nei progetti di Francesco Novello, infatti, il recupero di Padova era solo il primo passo di un programma di ben piú vaste proporzioni, che sembrò potersi realizzare alla morte di Gian Galeazzo Visconti.

In basso Il sepolcro di Jacopo da Carrara, morto nel 1350, nella chiesa degli Eremitani, a Padova. Per circa un secolo, sotto la signoria carrarese, la città conobbe un periodo di splendore.

Approfittando del vuoto di potere causato dalla morte del duca di Milano, il Carrarese occupò Verona: per Venezia questa iniziativa non era tollerabile. Nell’estate del 1405 le truppe veneziane penetrarono nel Padovano: dopo un drammatico assedio, la città si arrese e Francesco Novello venne tradotto a Venezia, dove venne strangolato con due figli su mandato del Consiglio dei Dieci. Un trentennio piú tardi, l’ultimo tentativo carrarese di rioccupare Padova conobbe un epilogo analogamente tragico: Marsilio, il figlio superstite di Francesco Novello, venne riconosciuto mentre cercava di introdursi in città nel 1435. Condotto a Venezia e sommariamente processato, venne a sua volta giustiziato sulla riva degli Schiavoni. Con la morte di Francesco Novello si concluse per Padova un’epoca connotata, pur attraverso conflitti e pestilenze, da una cultura urbana e signorile di altissimo livello, che aveva saputo ammantare il dominio carrarese di una complessa ideologia civile radicata nella storia e nella tradizione di autonomia del Comune patavino: proprio in quella autonomia cioè che Padova avrebbe faticato molto a rinvenire, in forme diverse, nella successiva, lunga età del dominio veneziano. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale

TIEPOLO Da dogi a nemici pubblici Arricchitisi come mercanti, i Tiepolo manifestarono ambizioni politiche, coronate con successo. Ma le loro fortune si spensero nel sangue di una congiura

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di Élisabeth Crouzet-Pavan

I

l 12 maggio 1797, quando le truppe francesi giungono sulla sponda della Laguna, il Maggior Consiglio, l’organo sovrano della Serenissima Repubblica di Venezia, tiene un’ultima seduta che ratifica quanto preteso dall’ultimatum francese. La Repubblica di Venezia mette cosí fine alla sua lunga esistenza.Viene instaurata una municipalità democratica provvisoria e comincia allora un periodo di intenso dibattito politico, sociale e culturale. I giornali, i circoli dei caffè, le associazioni-club si moltiplicano. Ed è proprio una delle società fondate in quel periodo, la «Società di pubblica istruzione» che ci interessa in modo particolare. Essa tenta di far conoscere la storia veneziana e i suoi

principali avvenimenti, chiamata in questo a svolgere un ruolo importante nello sviluppo dei lavori che riguardano Baiamonte Tiepolo e la congiura del 1310. Il 9 luglio 1797 ha luogo una seduta pubblica della municipalità provvisoria, che propone una riabilitazione della memoria di Baiamonte e viene presentato un rapporto, che precisa gli onori resi per decreto a colui che, fino ad allora, era considerato dalla storiografia veneziana come un traditore, un cospiratore, un «nemico della patria». Perché una simile impresa di rilettura storica? Quali sono questi avvenimenti del 1310? La storia politica di Venezia – e di certo le cronache locali sottolineano e celebrano molto presto

Veduta di Palazzo Ducale a Venezia, olio su tela del Canaletto (al secolo, Antonio Canal). Ante 1755. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

La Congiura di Bajamonte Tiepolo, dipinto di Gabriel Bella (1730-1799). Venezia, Fondazione Querini Stampalia.

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questa particolarità – appare singolarmente calma rispetto a quella delle altre città italiane. Qui, a parte i disordini dei primi secoli e i sanguinosi tumulti che contrassegnano nel X secolo il regno dei dogi Candiano, non ci sono le lotte di fazione, né le crisi e i mutamenti di regime che scuotono a intervalli regolari le altre città. Il risultato è la formidabile durata della Repubblica veneziana, che si prende l’abitudine di imputare, fino alle recenti revisioni storiche, alla superiorità delle istituzioni lagunari e alla singolare virtú del patriziato che governa questo Stato.

La campana dà l’allarme

Tuttavia, nel 1310, una cospirazione che raggruppa diverse famiglie dell’aristocrazia veneziana, i loro alleati e i loro clienti, minaccia questa calma e questi equilibri. Si tratta della cospirazione Tiepolo-Querini. La sera del 14 giugno 1310, un raduno di uomini in armi ha luogo nelle abitazioni di Baiamonte Tiepolo e Marco Querini, capi delle due principali casate implicate in questo complotto. La cospirazione, dopo diversi maneggi e riunioni preparatorie, comincia la notte stessa. Avvisato da alcuni fedeli, il doge Piero Gardenigo fa lanciare l’allarme. La campana suona al campanile di S. Mar64

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co. Le guardie degli uffici responsabili dell’ordine pubblico vengono mobilitate, ma si tratta di pochi effettivi che di solito non assumono che funzioni di polizia. I nobili, vicini al doge, fanno quindi armare i propri clienti, domestici e servitori. Si armano precipitosamente anche gli operai dell’Arsenale. E vengono pure richiesti aiuti ai podestà delle comunità del dogato: da Chioggia a Murano e a Torcello. Bisogna però lasciar loro il tempo di arrivare. Lo scontro ha luogo. Comincia al mattino. Divisi in due gruppi, i congiurati, dietro i gonfaloni dei Tiepolo e dei Querini, devono convergere verso piazza S. Marco e il palazzo ducale, sede del governo. Eppure, la truppa al comando di Baiamonte Tiepolo perde del tempo al mercato di Rialto. Gli uomini che la compongono si abbandonano a un saccheggio metodico nelle sedi delle due magistrature: gli archivi bruciano, l’argento è depredato. Ma l’effetto sorpresa va perduto e la congiunzione delle forze dei congiurati non avviene. Baiamonte e i suoi sono dunque sorpresi nella Merceria, la lunga e stretta via che collega Rialto a S. Marco. E devono ripiegare nella confusione piú totale. Quanto agli altri combattimenti, hanno luogo sulla piazza, nel fragore del temporale e dei


tuoni, sotto una pioggia torrenziale e al bagliore dei lampi, ci dicono le cronache, secondo le quali questo scatenamento delle forze naturali è certo il segno della collera divina contro i cospiratori. Sconfitti, i congiurati rifluiscono verso Rialto, abbandonandosi alla violenza e al saccheggio. E, con Baiamonte, si asserragliano in un edificio. I combattimenti riprendono verso la fine del pomeriggio, seguiti da lunghi maneggi che, alla fine, approdano a qualcosa. Alcuni congiurati vengono catturati e condannati alla pena capitale. La maggior parte è bandita, mentre, per i leader principali della rivolta, ha inizio la confisca dei beni. La casa di Baiamonte sarà piú tardi demolita, mentre quella di Querini verrà trasformata in macello. E poi, a Venezia, le misure di sicurezza interna si moltiplicano. È allora che viene creata – all’inizio a titolo provvisorio – per soffocare la rivolta e punire i colpevoli, la magistratura del Consiglio dei Dieci, chiamata a rivestire un ruolo di primaria importanza nella storia politica della Repubblica.

Una taglia stratosferica

Baiamonte era stato esiliato in Dalmazia. Ma, ben presto, poiché egli non rispettava quest’ordine di bando e continuava, si pensava, a cospirare e a rappresentare una minaccia, il timore dei governanti ebbe la meglio. Fu organizzata una sorta di battuta di caccia e sulla sua testa, dalla fine di giugno 1310, fu posta una taglia di 2000 ducati, una somma enorme per l’epoca. Furono stipendiate delle spie per seguire i suoi spostamenti nell’Italia del Nord, poi lo sorvegliarono a Padova dove aveva tro-

vato rifugio. Eppure, malgrado le ingenti somme stanziate e le forze spiegate, Baiamonte, a differenza di altri capi della cospirazione, riuscí a sottrarsi per lungo tempo ai sicari inviati contro di lui. A partire dagli anni Venti del XIV secolo, il consiglio dei Dieci si concentrò, quindi, sulla sua eliminazione fisica. I decreti che lo concernevano si moltiplicarono fino a che venne votato un ultimo testo, in data 31 gennaio 1329. Gli assassini, questa volta, riuscirono senza dubbio nella loro impresa, poiché non si conserva piú alcuna menzione di Baiamonte dopo questa data. Non è difficile immaginare che una tale cospirazione abbia suscitato diverse interpretazioni. Essa sopraggiunse, infatti, dopo quell’importante avvenimento che costituí a Venezia, nel 1297-1298, la Serrata del Maggior Consiglio, che portò alla definizione giuridica di una nobiltà di funzione, da allora in poi la sola autorizzata a governare. Nei violenti avvenimenti del 1310, poi, è stato visto spesso il tentativo di riaprire con la forza il gioco democratico, anche se non deve essere sottovalutata la parte avuta dagli odi tra famiglie (come quello che opponeva i Tiepolo ai Dandolo) e dalle ambizioni personali di Baiamonte Tiepolo. In effetti, la storia dei Tiepolo conforta un’interpretazione di questo genere. Della famiglia si ha davvero notizia solo a

Ritratto del doge Giovanni Mocenigo, tempera su tavola di Gentile Bellini. 1479 circa. Venezia, Museo Correr.

UN EQUO CANONE PER MERITI «DI PATRIA» Nicolò Rosso, mercante di specchi nella Merceria di S. Marco, indirizza una supplica nel 1468 al doge Giovanni Mocenigo, nella quale domanda di far valere i suoi diritti. Egli discende «per sangue» dalla donna che gettò dal suo balcone un mortaio di pietra sulla testa del traditore Baiamonte Tiepolo, mentre procedeva a cavallo verso piazza S. Marco. Come ricompensa del gesto, il doge aveva promesso a questa fedelissima veneziana che mai l’affitto della sua abitazione con annessa bottega – proprietà del procuratore di S. Marco – sarebbe aumentato. Nel 1468, durante l’assenza di Nicolò, chiamato a servire sulla flotta veneziana, l’affitto in questione era stato invece considerevolmente aumentato ed egli domandava, quindi, il ritorno alla situazione precedente. In appoggio alla sua supplica, egli pone i libri della Procuratia dove figura, immutato, l’ammontare dell’affitto. Soprattutto, in appoggio alla sua petizione, «tuto el populo de Venesia i qual tuti grandi mezani e picoli» che sanno e possono attestare all’unisono che «una femena buto uno morter sul cavo de messer Baiamonte Tiepolo». E il Consiglio dei Dieci, in memoria del fatto, gli accorda soddisfazione.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

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IL POTERE SI VEDE DAL BERRETTO L’arma dei Tiepolo è «Inquartata: nel I e IV di rosso alla mezz’aquila bicipite d’argento, armata e coronata d’oro, movente da sinistra e tenente con l’artiglio sinistro un giglio dello stesso caricante il petto dell’aquila; nel II e III d’azzurro al castello d’argento finestrato di nero a tre torri banderuolate. Sul tutto un bandierale d’azzurro al corno dogale d’argento». In quest’arma araldicamente abbastanza comune, a quarti alternati, spicca la peculiarità – sia nella foggia che nell’emblema – dello scudetto. Lo scudo, cioè il supporto su cui vengono posti i colori e tracciate le figure che compongono e caratterizzano lo stemma (nell’insieme «arme») ha assunto nel tempo varie forme: quadrato, triangolare, a testa di cavallo, ovale, accartocciato ecc., a seconda dei periodi, dei luoghi o delle mode; ma lo «scudetto», il piccolo scudo posto «sul tutto» al centro dello stemma, molto spesso sull’inquartatura o sulla partizione, è solitamente «sannitico», cioè quadrato per i due terzi superiori e arrotondato e appuntito in basso e, altrettanto solitamente, reca l’arme originaria della famiglia (un esempio per tutti, «savoia antica» come scudetto posto sul tutto nel complesso stemma sabaudo) nel desiderio di farne vanto nonostante le successive acquisizioni a seguito di alleanze, concessioni, conquiste o pretensioni. I Tiepolo, in un raro scudetto quadrato, pongono altrettanto raramente l’insegna di una carica, il berretto di stoffa attorcigliata proprio dei dogi. Massimo D. Papi

Una variante seicentesca dello stemma dei Tiepolo, sormontato dal castello a tre torri e che reca nello scudetto il berretto di stoffa attorcigliata, simbolo della carica dogale.

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partire dal XII secolo, anche se, dando credito alle genealogie veneziane, la casata avrebbe origini molto piú antiche: la famiglia, infatti, sarebbe giunta da Rimini a stabilirsi nella Laguna già intorno al 724! Per i mercanti, nel XII secolo, si è aperto il tempo di grandi guadagni. I Tiepolo, come altri popolari, approfittano del formidabile incremento dei traffici mediterranei. E nei decenni che seguono, concretizzano in termini politici questa ascesa. Il gruppo di famiglie dirigenti conosce una reale apertura e l’elezione del 1229 alla prima magistratura del Comune, al dogato, è una chiara dimostrazione che il potere è aspramente conteso. Venti elettori si pronunciano in favore di Marino Dandolo che sosteneva le antiche famiglie, altri venti votano invece per Giacomo Tiepolo che rappresenta le nuove famiglie. L’elezione viene ripetuta. Invano. Si lascia quindi alla sorte l’incarico di decidere e Giacomo Tiepolo ha la meglio.Viene cosí coronata la carriera di un «uomo nuovo» e di una personalità d’eccezione. Questo armatore, questo mercante si era integrato nella classe dirigente diventando giudice del Comune, conte di Zara, duca di Creta, ambasciatore di Costantinopoli, consigliere ducale... In tal modo si realizza l’inserimento di alcune grandi famiglie popolari al vertice del Comu-

ne di Venezia. Il dogato del primo Tiepolo è brillante. Nel periodo in cui egli regge le sorti della città,Venezia consolida le proprie posizioni in Romania, stabilisce la sua sovranità su Ragusa e impone condizioni commerciali particolarmente dure a Ferrara...

L’omaggio delle corporazioni

Ma forse questa politica era troppo personale e, nel 1249, Giacomo deve rinunciare alla sua carica.I figli si precipitano a occupare tutti gli spazi di potere che la carriera del padre aveva loro aperto. Pietro è scelto, a piú riprese, da alcuni Comuni italiani come podestà. Lorenzo, dopo aver ricoperto diverse cariche e dignità, viene eletto al dogato (1268-1275). I festeggiamenti che seguono la sua elezione, ben conosciuti grazie alle descrizioni che ne fanno le cronache dell’epoca, organizzano intorno alla sua persona un vero rituale di unità. Le corporazioni di mestiere, secondo un ordine ben stabilito, vengono a rendere omaggio al doge e alla dogaressa, presentando i migliori prodotti delle rispettive arti. Nell’ultimo terzo del XIII secolo, Lorenzo tenta dunque di resuscitare la politica di apertura di suo padre e, di fatto, sotto il suo dogato, la vecchia borghesia mercantile consolida le proprie posizioni.


STEMMI INSANGUINATI

Lo stemma dei Barbaro, caratterizzato da un grande anello rosso dal nome singolare di «ciclamoro».

Alessandro Savorelli

«C

onosco solo due signori, Cristo e le lettere», ripeteva Ermolao Barbaro (morto nel 1493), il piú celebre esponente dell’antica famiglia patrizia veneziana. Era un raffinato umanista, professore di filosofia a Padova, cultore della bella forma, traduttore e commentatore di classici, da Aristotele a Plinio: voleva la filosofia congiunta all’eloquenza, e chi non ci stava era bollato di «filosofastro plebeo e legnoso». Talmente innamorato delle lettere, da sostenere il primato dello studio sulla politica e persino il «celibato» dei dotti, in modo che non si distraessero troppo dagli studi! Eppure, come altri membri della sua famiglia, ebbe cariche e ricoprí uffici di Stato e diplomatici, anche se non riuscí particolarmente bene in questo campo, come accadde a Francesco (che invece dell’elogio del celibato scrisse però un libretto sull’arte di scegliere la moglie: De re uxoria). Altro personaggio famoso fu Giosafat, che a metà del Quattrocento, per un ventennio, esplorò terre quasi sconosciute, la Russia meridionale, il Caucaso, le regioni del Caspio, lasciando importanti relazioni di viaggio. Magistrati, mercanti, amanti dell’arte, mecenati, umanisti i Barbaro lo furono quasi tutti.A contrasto con la vocazione di un’intera stirpe per la cultura e l’eleganza, il loro stemma, che si vede spesso a Venezia, alimentò una curiosa leggenda guerresca. La figura che porta ha un nome singolare, «ciclamoro», derivato da un’etimologia greca. È un anello rosso, di grandi dimensioni, che riempie tutto lo scudo. Qualche volta è detto «anello d’amore», ma con l’amore lo stemma dei Barbaro ha poco a che fare: ne fu data infatti un’interpretazione leggendaria, che rammenta un crudo episodio delle crociate. L’episodio è raccontato in piú versioni. Secondo una di queste, Marco Barbaro combatté

sotto le mura di Ascalona, in Palestina, durante una spedizione promossa nel 1122 dal doge in difesa degli Stati crociati. Nella mischia, un saraceno si avventa sulla sua bandiera (che portava allora tre rose d’oro) e la fa a pezzi: Barbaro, mortalmente offeso, acchiappa il nemico, gli stacca un braccio di netto, e quindi, usando il moncherino come un pennello, disegna su un fazzoletto un cerchio rosso e lo inalbera sul pennone. La scena è tuttora affrescata nel Palazzo Ducale. Secondo altre leggende, il cerchio rosso è il turbante insanguinato del moro o il segno lasciato da una ferita alla testa dell’imperatore di Bisanzio, soccorso dal Barbaro: da allora la famiglia avrebbe sostituito lo stemma originario col macabro trofeo. È certo una storia horror e puerile: ma il successo di queste trovate, nell’araldica medievale, è travolgente, poiché sono numerosi gli stemmi interpretati poeticamente in modo analogo. I «pali» rossi in campo oro dello stemma aragonese-catalano avrebbero un’origine simile: l’eroe aragonese Goffredo il Villoso era stato massacrato durante uno scontro coi Normanni, e l’imperatore Carlo il Calvo, chinandosi su di lui, toccò le ferite con le dita, passandole sullo scudo dorato del suo fedele vassallo. Ancora: Roberto signore di Barletta fece lo stesso nel 1093, tingendo con le dita la sua bandiera del sangue d’un pirata saraceno: da allora lo scudo bianco con 4 «fasce» rosse è lo stemma della città pugliese. Piú cruenta la leggenda sullo stemma austriaco («di rosso, alla fascia d’argento»): Leopoldo d’Asburgo menò tale strage di infedeli alla crociata, che la sua tunica era tutta rossa, inzuppata del sangue nemico. Quando si tolse la cintura, solo la stoffa coperta da quest’ultima era rimasta bianca: e la tunica anziché finire in lavanderia, divenne una bandiera.

Ed è ancora un Tiepolo, Giacomo, figlio di Lorenzo, che, alla morte del doge Giovanni Dandolo, nel 1289, viene messo in lizza per la successione dai popolari. Ma questi ultimi, stavolta, falliscono e, con l’elezione di Pietro Gradenigo, si assiste al trionfo delle famiglie aristocratiche, mentre Giacomo si rifugia nella sua villa in terraferma. Tutti i Tiepolo, anche quelli che non appartenevano direttamente al ramo dogale, pagano pesantemente l’insuccesso della cospirazione di

Baiamonte. Per lungo tempo vengono esclusi da alcune cariche politiche e viene interdetto loro di fregiarsi dei propri stemmi. I lignaggi che non avevano preso parte alla congiura modificano quindi i loro emblemi. La memoria dei misfatti del «traditore» Baiamonte è serbata con cura per meglio festeggiare, ogni anno, l’anniversario di san Vito, la felice vittoria della Repubblica. E bisogna attendere la municipalità provvisoria per vedere un Baiamonte «riabilitato», finalmente promosso a eroe democratico. ARALDICA

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MALATESTA Una storia a tinte forti

La tempra di Mastino, le ambizioni di Sigismondo, il tragico idillio fra Paolo e Francesca... C’è tutto questo e molto altro nella saga dei signori di Rimini di Andrea Barlucchi

F

ra tutte le stirpi signorili, guerriere e intriganti che illuminano di sinistro fascino i secoli finali del Medioevo italiano, quella dei Malatesta gode di una fama particolare, dovuta alle vicende sanguinose e fuori dell’ordinario che ne segnarono l’esistenza. Famiglia grande nella fortuna e nella improvvisa sventura, essa appare quasi come il paradigma di un’epoca che si suole dipingere tragica quanto grandiosa. Come al solito le origini della famiglia sono incerte. Registriamo, senza commenti, il fatto che in pieno Quattrocento l’ormai potente signore di Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta si fece realizzare dai letterati di corte una genealogia che pretendeva di agganciare la sua famiglia nientemeno che alla stirpe degli Scipioni. L’unico elemento certo è il loro radicamento, alla metà del XII secolo, a Pennabilli nella media valle del Marecchia e soprattutto nel piccolo castello di Verucchio, vicino a Rimini. Si sarebbe trattato, secondo un anonimo cronista, di una famiglia di «cattani», cioè vassalli vescovili, detentori di diritti su uomini e pievi della Chiesa ravennate, e l’ipotesi è verosimile. Signorotti di campagna, insomma, e di questa origine modesta sono conferma anche i versi di Dante, che li accomuna nel suo iroso disprezzo a tutta la «gente nova» venuta dal contado.

Un ingresso poco trionfale

Ma la città esercitava su questi ambiziosi signorotti un’attrattiva irresistibile: Rimini allora era un centro in piena espansione, legato da intesa politica con le città di Ravenna, Ancona, Senigallia, Fermo e Osimo, proteso 68

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Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo, affresco di Piero della Francesca. 1451. Rimini, Tempio Malatestiano. Il nobile, inginocchiato, si rivolge al santo protettore che siede sulla sinistra, su un trono, e presenta, secondo alcune interpretazioni, una somiglianza con l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo.

verso l’Adriatico e i suoi traffici, e a questa realtà in crescita i Malatesta volgono le loro mire. Per la verità, l’ingresso a Rimini dei nostri non è fra i piú trionfali: si narra che nel 1175 Giovanni Malatesta, signore di Verucchio, dovette presentarsi di fronte alla cittadinanza tutta con un cappio al collo e tenendo una spada per la punta, cioè rivolta verso se stesso, in segno di sottomissione e di pentimento per non si sa quali offese arrecate. In ogni modo, la documentazione testimonia la


presenza a Rimini, agli inizi del Duecento, dei primi Malatesta, fino a che, nel 1216, si decisero a prendere la cittadinanza. In breve divennero uno dei casati piú in vista, e nel 1229 Malatesta della Penna venne eletto podestà. Ma il personaggio piú importante di questo periodo degli inizi, vero fondatore delle fortune familiari, è suo figlio Malatesta da Verucchio, detto il Centenario per la sua longevità, ma meglio conosciuto grazie a Dante come il Mastin Vecchio. E la tempra di un mastino dovette real-

mente avere questo instancabile condottiero e insieme abile uomo politico, protagonista nel panorama italiano della seconda metà del Duecento. Il vantaggioso matrimonio con la figlia del vicario imperiale di Romagna lo aveva fatto erede di un cospicuo patrimonio di terre e castelli, e insieme di un posto rilevante tra le file del ghibellinismo. Egli seppe però cogliere il momento opportuno per saltare il fosso e abbracciare la causa di quelli che si cominciava a (segue a p. 72) ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia settentrionale A sinistra la Rocca Malatestiana di Verucchio, costruita da Sigismondo Malatesta nel 1449, una delle piú grandi e meglio conservate fortificazioni malatestiane. Nella pagina accanto Paolo e Francesca, olio su tela di JeanAuguste-Dominique Ingres. 1819. Angers, Musée des Beaux-Arts. In basso una delle varianti dello stemma dei Malatesta. Disporre di alcune varianti dell’arme di famiglia è una caratteristica comune a molti casati con personaggi di spicco o che hanno esercitato il potere su territori piú o meno vasti.

TRE DONNE DALLE CHIOME DORATE Molte famiglie, avendo avuto al loro interno personaggi di rilievo o avendo esercitato nel corso della loro storia il proprio dominio su varie città e territori, dispongono di alcune varianti del loro stemma. Non si tratta di vere e proprie «brisure» – aggiunte o variazioni all’arme di famiglia col preciso scopo di distinguere il grado di discendenza e di parentela, ben regolamentate e utilizzate, per esempio, dalla nobiltà anglosassone –, quanto piuttosto di scelte individuali e contingenti operate dai vari protagonisti, quasi a sottolineare che con essi ha inizio non solo un nuovo corso della loro dinastia, ma della storia tutta. Anche la signoria dei Malatesta, nelle alterne vicende dell’esercizio del suo potere, presenta alcune varianti dello stemma, pur rimanendo esso sempre riconoscibile, poiché mantiene le partizioni, le figure e i colori principali dell’arme originaria. Lo scudo si presenta diviso in quattro parti dall’incrocio di una linea verticale e una orizzontale, con due tipi di figure disposte in modo alternato: la prima delle quali posta nel quarto «nobile» (in alto a destra e ripetuta per simmetria in basso a sinistra) si lega al nome della casata: «Inquartato, nel I e IV di verde a tre teste di donna di carnagione orocrinite poste 2, 1; nel II e III d’argento a 3 sbarre scaccate di due file di nero e d’oro». Tra le varianti: lo stesso scudo che pur mantenendo il verde e l’argento dei campi raffigura le teste (due in alto, sulla stessa linea, la terza piú in basso) in oro con un berretto rosso, anziché rosa con i capelli d’oro, e gli scacchi delle sbarre in rosso e oro; oppure lo stesso stemma con tutt’intorno una «bordura innestata d’argento e di nero» (cioè una cornice con i due colori che si «innestano» l’un l’altro tramite una linea spezzata a «denti di sega»). Massimo D. Papi

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AMANTI SVENTURATI Contribuisce a costruire, intorno ai Malatesta, l’alone di famiglia maledetta e sanguinaria la leggenda di Paolo Francesca, immortalata da Dante e ripresa da molti altri. Paolo detto il Bello sarebbe stato il figlio terzogenito di Malatesta da Verucchio (il Mastin Vecchio), mentre Francesca da Polenta avrebbe sposato suo fratello maggior Giovanni, sciancato dalla nascita perciò soprannominato Gianciotto (Johannes Zoctus, cioè Giovanni Zoppo). L’intesa adulterina fra i due sarebbe stata scoperta e la macchia all’onore lavata col sangue degli amanti. Nessun documento ufficiale, però, attesta la veridicità dei fatti. Di certo i personaggi sono esistiti: Paolo fu uomo politico, anche se non di primo piano, e ricoprí la carica di Capitano del Popolo a Firenze nel 1283. Un mese prima della scadenza del mandato dette le dimissioni, e i commentatori hanno avuto buon gioco ad attribuirgli, per questo gesto, una indole delicata e sognante, inadatta al clima tumultuoso della Firenze di fine Duecento votata al contrario all’amor cortese. In realtà, i motivi della sua defezione furono meramente politici. Di maggior spessore è la figura di Giovanni, che, nonostante la menomazione fisica, fu uomo d’arme e politico di razza, dal momento che resse piú volte la podesteria di Pesaro e successe al padre nel govemo di Rimini. Questa sua insospettabile energia, unita al fatto di essere «sozzo nella persona» cioè deforme, ne avrebbe tratteggiato la figura sanguigna e vendicativa. Praticamente niente si sa di Francesca salvo che era una dei da Polenta e che dette a Giovanni una figlia.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO intravedere come i definitivi vincitori. In breve divenne il capo dei guelfi romagnoli, e in questa veste combatté piú volte, con alterne vicende. A un certo punto riuscí anche a fare prigioniero il suo acerrimo nemico, il conte Guido da Montefeltro, che liberò dietro pagamento di un grosso riscatto. Il Montefeltro d’altra parte era dotato di un ricco patrimonio, e quindi con lui conveniva comportarsi in tal senso. Non cosí nei confronti del capo dei ghibellini riminesi, tal Parcitade de’ Parcitadi: avendone catturato il figlio nel 1295, durante il colpo di mano che portò alla definitiva conquista della città, lo fece sgozzare in carcere. Da questo momento sino alla morte, avvenuta nel 1312, Malatesta signoreggiò a Rimini senza rivali, lasciando un dominio che si estendeva alle città di Pesaro, Fano, Senigallia e Cesena. Uscito di scena il grande vecchio, i numerosi figli e nipoti che avevano dato inizio a rami collaterali della famiglia si contesero l’eredità per mezzo di congiure, tradimenti e colpi di mano. Ebbe la meglio il ramo insediatosi a Pesaro, con Malatesta detto Guastafamiglia, che nel 1335 sbaragliò i rivali e si fece proclamare «Difensore» del popolo di Rimini. Sotto il suo governo la città si cinse di una nuova cerchia di mura, e aumentò il suo dominio nelle Marche. Inizia con lui la corsa affannosa a un titolo che legittimasse il potere esercitato dai Malatesta in virtú di una effettiva supremazia, ma privo di un fondamento giuridico. La faccenda non era di secondaria importanza, e riguardava un po’ tutti quei signorotti dell’Italia centrale che, approfittando della crisi delle istituzioni comunali e della latitanza del papato ritiratosi ad Avignone, si erano impadroniti di città e castelli. Passata la peste del 1348, il papa si decise a riprendere in mano la situazione, e inviò in Italia l’energico cardinale Albornoz. Costui iniziò la sua opera dichiarando di voler spazzare via gli usurpatori che infierivano sulle popolazioni «come fanno i tori con le vacche», ed effettivamente sfruttando le discordie locali riusci a restaurare l’autorità della Chiesa; si rese però anche conto che con alcuni di questi «tori» sarebbero dovuti necessariamente venire a patti. Uno di questi fu proprio il Guastafa72

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Italia settentrionale

Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, opera di Agostino Duccio che fa parte della decorazione della cappella delle Sibille nel Tempio Malatestiano di Rimini. L’elefante è una figura fondamentale dell’araldica malatestiana.

miglia, che nel 1355 ottenne il titolo di Vicario Pontificio; l’opinione delle «vacche» di cui sopra perse rapidamente interesse agli occhi del cardinale, mentre il Malatesta ebbe legittimato il suo potere in cambio del pagamento di una certa somma di denaro e del giuramento di fedeltà al papa. D’altra parte non si trattava di un titolo nobiliare, non era perpetuo ma doveva essere rinnovato a scadenze regolari, e questo metteva nelle mani del pontefice un’arma di ricatto notevole.

Un sedicenne al potere

L’apice e al tempo stesso la rovina della famiglia si collocano nel XV secolo con Sigismondo Pandolfo, personaggio di indiscutibile statura che ha lasciato dietro di sé opere notevoli. A soli 16 anni reggeva già le sorti dello Stato e comandava le sue truppe in giro per l’Italia al soldo dei vari potentati. Ma le sue energie non furono dedicate soltanto all’arte della guerra; Rimini divenne nei decenni centrali del Quattrocento una delle capitali del Rinascimento, grazie anche all’opera di Isotta degli Atti, sua amante e poi moglie devota fino alla morte. Al posto delle vecchie case dei Malatesta sorse Castel Sismondo, residenza signorile e fortezza militare, e la chiesa di S. Francesco, dove riposavano i suoi antenati, venne ristrutturata da architetti del valore di Leon Battista Alberti, divenendo il cosiddetto Tempio Malatestiano. Ma, nel momento di massimo splendore, Sigismondo compí un errore di valutazione che doveva rivelarsi fatale: al soldo del re d’Aragona contro Venezia e Firenze, colse a pretesto un ritardo nei pagamenti per cambiare campo, finendo per ritrovarsi isolato politicamente. Fu poi il nuovo papa Pio II Piccolomini, da sempre ostile ai Malatesta, a dare il colpo di grazia alla dinastia, accusandolo di ogni genere di misfatti e attaccandolo in coalizione con il secolare nemico Montefeltro, tanto che Sigismondo riuscí a mantenere a stento il controllo di Rimini. I suoi discendenti tentarono invano di recuperare l’antico dominio, finché nel 1528 dovettero lasciare la città per non farvi piú ritorno.


Stemma della familglia bolognese dei Galluzzi.

NOBILTÀ E FIEREZZA DEL RE DELL’AIA Alessandro Savorelli

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ancava solo la scritta «wanted», o qualcosa di simile, all’infamante ritratto di Alberto Galluzzi che il Comune di Bologna fece dipingere sul Palazzo Pubblico nell’anno 1388: l’uomo era stato scoperto a capo di una congiura che aveva lo scopo di consegnare la città ai Visconti, i suoi complici arrestati e puniti, egli stesso condannato in contumacia. L’effigie sul Palazzo comunale l’additava dunque al popolo come un «traditore»: e il suo reato era tanto piú grave in quanto egli era stato uomo d’arme del Comune, aveva percorso tutto il cursus honorum, ricoprendo via via le piú alte magistrature cittadine e apparteneva a una famiglia di inossidabile militanza guelfa, che risaliva già ai tempi della spedizione di Carlo d’Angiò. Cambi d’alleanze (che noi diremmo oggi «trasformismo»), per verità, non infrequenti. I Galluzzi erano sempre stati una delle consorterie piú influenti della città, già dal periodo consolare, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Ebbero un momento di difficoltà quando, nel 1282, il regime popolare emanò le leggi antimagnatizie, ma già nel Trecento, quando la pressione contro i magnati si allentò, ripresero un posto di spicco nella politica bolognese. Quella dei Galluzzi era la classica famiglia «nobile», che possedeva molte case e terre in città e nel contado, e i cui membri praticavano per lo piú i mestieri tipici del loro ceto: il soldato e il magistrato (podestà e capitano del Popolo). Uno di questi podestà, Antonio Galluzzi, fu coinvolto a Firenze nella contesa tra Neri e Bianchi, e assistette ai gravi disordini che devastarono la città all’inizio del Trecento. Messo sotto accusa dal Comune per non aver impedito le violenze tra fazioni, fu condannato a pagare una multa esorbitante, pari a un patrimonio di grossa entità, 8000 lire! (che i buoni uffici del Comune di Bologna gli consentirono poi di farsi revocare).

Morí ultrasettantenne in patria ed ebbe funerali solenni che culminarono nella ordinazione a cavaliere dei suoi figli. Se si discende da un Alberto Gallo, come la nobile stirpe bolognese, e ci si comincia a chiamare «Galluzzi» in famiglia, non ci vuole tanta fantasia a scegliersi una figura araldica: i Galluzzi aggiunsero poi al loro stemma il segno del partito guelfo, il «capo d’Angiò» col rastrello e i gigli derivati dall’arme del re di Napoli. Il gallo è, del resto, un animale dai contenuti simbolici densi: virilità, orgoglio, bellicosità, l’allegoria della rinascita del giorno e il ricordo biblico del triplice «rinnegamento» di san Pietro. Se si sfoglia un blasonario e si scorre ai tanti Galli, Gallo, Galletti, Galliani, Galluccio ecc., si scoveranno numerose famiglie che hanno usato questo pennuto come «parlante». Lo stesso vale per città e Comuni: molte cittadine francesi, dove il gallo divenne un emblema nazionale (per esempio Gaillac), e italiane (Gallarate, Gallese, Gallipoli e molte altre) ne fanno uso. Il caso di Gallipoli è una falsa etimologia, cosa che in araldica accade spesso: il nome della città viene dal greco «kalé polis» («città bella») e col gallo non ha niente a che fare, ma l’assonanza era troppo forte per non cadere nel trabocchetto! Piú singolare invece è il gioco di parole messo in atto dalla città tedesca di Frankfurt am Oder, oggi ai confini con la Polonia: poiché infatti letteralmente «Frankfurt» si traduce «guado dei Franchi», il gallo del suo stemma ricorda la popolazione germanica dei Franchi attribuendo tuttavia loro (anacronisticamente!) l’emblema classico dei Galli – cioè degli antichi abitatori della Francia... Ultima annotazione: gli stemmi lasciati dai magistrati al termine del mandato sono spesso utili per datare edifici e opere d’arte: il galletto del capitano del Popolo Gerardo Galluzzi, ben visibile sulla facciata del Palazzo dei Priori a Perugia, assolve questa funzione e fissa la cronologia di una fase della costruzione al 1294.

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MALASPINA Signori d’Appennino Insediati in Lunigiana, i Malaspina, divisi in molteplici rami, dominarono a lungo quelle terre. Nelle quali ancora oggi si possono ammirare i loro numerosi castelli

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di Patrizia Meli

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ell’immaginario collettivo odierno c’è un’idea ben precisa di come vivesse nel Medioevo una famiglia «feudale»: arroccata nel suo bel castello turrito, guerreggiava quasi ininterrottamente coi suoi vicini, arrotondando le entrate con ruberie ai viandanti che passavano nelle vicinanze. A questa immagine un po’ fosca si affianca quella di una vivace vita culturale: menestrelli e poeti girovaganti da un castello all’altro allietavano le giornate delle nobildonne e dei cavalieri coi loro racconti. Ebbene, i Malaspina nel corso della loro storia hanno in un certo qual modo rappresentato tutto ciò. Innanzitutto, non c’è alcun dubbio che la loro sia stata una grossa famiglia feudale: come gli Estensi e i Pallavicino, sono un ramo degli Obertenghi la piú importante fa-

Il Castello Malaspina di Fosdinovo (Massa Carrara). La costruzione della poderosa fortezza ebbe inizio nella seconda metà del XII sec. e fu seguita da ripetuti rimaneggiamenti nelle epoche successive.


miglia italiana nei secoli X-XI. Dei numerosi possedimenti che costituivano il territorio obertengo, ai Malaspina toccarono soprattutto quelli posti sui due versanti dell’Appennino, nella zona grosso modo compresa fra le valli dei fiumi Magra e Trebbia. A causa dell’offensiva dei nascenti Comuni di Genova e Piacenza, all’inizio del XIII secolo i Malaspina furono costretti ad abbandonare gran parte dei possedimenti occidentali, spostando il loro raggio d’azione in Lunigiana, dove non c’erano Comuni in ascesa e l’unico vero ostacolo era rappresentato dal vescovo di Luni. La Lunigiana era una zona strategica assai importante: era infatti attraversata dalla via Francigena, una delle principali vie di comunicazione d’Italia, percorsa non solo dai pellegrini che andavano a Roma, ma anche da mercanti ed eserciti per spostarsi da un capo all’altro della Penisola.

Un’arteria d’importanza cruciale

Controllando dunque questa fondamentale via di traffico e alcuni dei valichi appenninici piú frequentati, come la Cisa, i Malaspina avrebbero potuto creare uno dei piú potenti Stati italiani, ma ciò sarebbe stato possibile solo unendo tutte le forze della famiglia e avendo un capo unico per tutti i

ECHI DI ANTICHE GLORIE I Malaspina avevano la maggior parte dei beni in Lunigiana, regione che da allora è stata strettamente legata al loro nome. Ma la Lunigiana odierna, già definibile in modo vago, è ben piú piccola di quella medievale. All’epoca, infatti, abbracciava tutto il bacino della Magra e la pianura costiera compresa, grosso modo, fra Marina di Pietrasanta e Moneglia: corrispondeva quindi alle attuali province di La Spezia e Massa Carrara, sconfinando nel Lucchese, nel Parmense e nel Reggiano. Questa zona prese il nome dalla colonia romana di Luna. Nell’Alto Medioevo questa città, sede vescovile, era in piena crisi sia per la diffusione della malaria che per l’interramento del suo importante porto. Invasa a piú riprese da Normanni e Saraceni, all’inizio dell’XI secolo la città fu abbandonata e il vescovo, dopo aver vagato di castello in castello, si stabilí definitivamente a Sarzana nel 1204. Per dare un’idea dell’importanza e della ricchezza di Luni, basti ricordare che una volta i suoi saccheggiatori la scambiarono per Roma!

possessi. Invece essi seguivano la legge longobarda che prevedeva il diritto all’eredità di tutti i figli maschi legittimi: ciò provocò il proliferare di vari rami, spesso rivali fra loro, e il conseguente frazionamento dei possessi, e si arrivò al punto che alcuni appartenenti alla famiglia governavano in realtà solo uno o due castelli con l’immediato territorio circostante. ARALDICA

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Lo stemma dei Malaspina nel castello di Fosdinovo. Nella pagina accanto il monumento funebre del marchese Spinetta Malaspina, opera di Piero di Niccolò Lamberti, Antonio da Firenze e Giovanni di Martino da Fiesole. 1430-1435. Londra, Victoria and Albert Museum.

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Quindi, sebbene fossero riusciti a limitare le prerogative del vescovo di Luni con la pace di Castelnuovo del 1306, i Malaspina cosí divisi non furono in grado di opporre grande resistenza alla penetrazione in Lunigiana sia di altre famiglie, come i genovesi Fieschi e Campofregoso, sia dei grandi Stati, come Lucca e Pisa nel XIV secolo e, soprattutto, Milano e Firenze nel secolo successivo. Solo nel corso del Cinquecento si iniziò a istituire la primogenitura mettendo fine all’eccessiva frantumazione. Ma era troppo tardi: il Granducato di Toscana si era ormai impadronito di buona parte della Lunigiana e diversi marchesati,

formalmente indipendenti, erano sotto la sua influenza. Gran parte del territorio cosí controllato era montagnoso e non permetteva quindi lo sviluppo dell’agricoltura. Per arrotondare le entrate, i Malaspina avevano poche chance: potevano approfittare del passaggio dei mercanti, imponendo loro di pagare dei pedaggi o, piú semplicemente, derubandoli; oppure sfruttare la loro abilità guerriera. Alcuni optarono per la prima possibilità: la famiglia deve infatti il suo nome al capostipite, Alberto II († 1140 circa), soprannominato «Malaspina» perché dedito al saccheggio di (segue a p. 80)


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Sulle due pagine uno scorcio del Castello Malaspina di Fosdinovo. Nella pagina accanto affresco raffigurante Spinetta I a cavallo, con il castello di Fosdinovo sullo sfondo. Fosdinovo, Castello Malaspina. In basso una maschera in ferro, utilizzata come strumento di tortura. Fosdinovo, Castello Malaspina.

UN AVAMPOSTO STRATEGICO Raggiungibile con l’autostrada A12 Genova-Rosignano, il castello di Fosdinovo in Lunigiana, che fu feudo dei Malaspina del Ramo Fiorito dal XIV al XVIII secolo, riveste una notevole importanza storica e architettonica. La costruzione dell’imponente fortezza, innalzata a dominio e difesa del primitivo castro di Fosdinovo, ebbe inizio nella seconda metà del XII secolo per volere dei cosiddetti «Nobili di Fosdinovo», un gruppo di signori che, insieme a un altro gruppo gentilizio feudale, i Bianchi d’Erberia, divennero feudatari del potente conte vescovo di Luni ma, nel 1340, a causa del declino vescovile, dovettero vendere le loro terre, i distretti e le giurisdizioni a Spinetta I Malaspina detto il Grande. È a lui, principalmente, che si deve l’ampliamento della rocca e del paese che, intorno al 1500, prenderà il titolo di «Città Imperiale». Il castello rimase in possesso dei Malaspina fino al 1796 quando, a causa dell’invasione napoleonica, dovette essere ceduto. Rimase di proprietà dello Stato fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando venne riacquistato dal marchese Alfonso Malaspina, che lo riportò all’antico splendore. Purtroppo, durante l’ultima guerra l’edificio subí notevoli danni a causa dei bombardamenti degli alleati che stavano sfondando la vicina linea gotica. Oggi, dopo i molti interventi di restauro che lo hanno interessato, è di nuovo visitabile. Storia e leggenda si incrociano intorno a quello che fu un avamposto strategico dei feudi malaspiniani dai cui camminamenti di ronda si può godere di un panorama vastissimo, che va dalle vette delle Alpi Apuane fino al golfo della Spezia. E, una volta nella sala del trono, alzate gli occhi. Le macchie di umidità che si vedono raccontano la storia di Bianca Maria Aloisia, colpevole di amare uno stalliere; nel 1620, il padre la fece murare viva insieme al suo cane e a un cinghiale, simbolo di ribellione. Da quel momento, nelle macchie sul soffitto pare di poter riconoscere il padre, la figlia e i due animali. D’altronde, è noto, era meglio non farsi nemico un Malaspina: i padroni di casa si liberavano di spie e nemici tramite botole, trabocchetti e passaggi segreti, che conducevano direttamente alla stanza delle torture, situata alla base di una delle torri. Nella sala delle armi sono ancora visibili alcuni degli strumenti che le guardie usavano per torturare le loro vittime. In due delle torri, inoltre, si aprono dei pozzi rasoio: erano cunicoli circolari in cui cadeva la vittima, che veniva straziata da lame sporgenti dalle pareti. Ma il castello non era solo luogo di orrori. Vi si svolgeva anche una splendida vita di corte, e fastosi ricevimenti si tenevano nel grandioso salone delle feste, completamente affrescato con storie e personaggi della famiglia, tra cui spicca il grande condottiero Spinetta Malaspina. Marina Aurora e Mila Lavorini

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO viandanti, mercanti e signori vicini; d’altra parte, nello stesso periodo viveva un altro obertengo, Oberto († 1148), il cui soprannome era chiarissimo: «Pelavicino». Molti Malaspina si dedicarono invece all’esercizio dell’attività militare. Quando non erano impegnati in guerre per la difesa e l’ampliamento dei loro domini, offrivano i loro servizi ai Comuni dell’Italia centro-settentrionale o ai grandi signori, come i Visconti o gli Angiò, sempre piú bisognosi di eserciti professionisti. Con un gruppo di armati non sempre provenienti dal territorio da loro governato, venivano arruolati per un certo periodo di tempo negli eserciti che si fronteggiavano in varie zone d’Italia: in cambio delle loro capacità militari, ottenevano soldi e anche possessi. Molto spesso i Malaspina non si limitavano a combattere in un esercito, ma erano chiamati anche a comandarlo: cosí, tanto per fare un esempio, nel corso del Trecento piú di un esponente della famiglia fu nominato Capitano generale della guerra dal Comune di Firenze.

Un ospite d’eccezione

Ma il loro tempo non era occupato solo dalla guerra: nei loro castelli i Malaspina furono anche protettori di letterati. Fra il XII e il XIII secolo a Oramala, castello lombardo nella valle di Staffora, era attiva una corte trobadorica. Lo stesso Alberto Malaspina, forse prendendo a esempio il duca Guglielmo IX di Aquitania, si cimentò personalmente in questo campo. Un secolo piú tardi fu loro ospite l’esule Dante e non c’è castello oggi in Lunigiana che non vanti, a torto o a ragione, di averlo ospitato. Non tutti i Malaspina erano privi di ambizione: Spinetta il Grande, nato intorno al 1282 dal marchese Gabriele di Verrucola Bosi, guidò la

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IL SECCO E IL FIORITO Curiosa e originale figura araldica è quella «parlante» dei Malaspina: una figura che non ha molti altri riscontri, almeno nella forma caratteristica che assunse nel Medioevo. Lo «spino» appare (nello stemma dei Malaspina dello «Spino fiorito», la branca a cui appartenne Spinetta) «verde», dritto e ornato da cinque rami laterali, muniti a loro volta ciascuno di tre spine fiorite sulla cima: in età moderna la figura decadde talora in una banale versione naturalistica, perdendo tutta la sua originaria stilizzazione e spigolosità gotica. La branca dello «Spino secco» usò – ovviamente – uno spino non «verde», ma «nero», e privo di fiori: talora compare però una figura diversa, ossia un leone che regge lo spino tra le zampe, o affiancato da due rami spinosi. La storia dello stemma è comunque complessa e piú volte, nel tempo, ha subito variazioni a seconda dei numerosi rami collaterali della famiglia. In età moderna, i Malaspina posero lo stemma in petto a un’aquila imperiale, a simboleggiare le investiture ricevute sui feudi della Lunigiana. Alessandro Savorelli


UNA CROCE PER PISA Si tramanda che lo stendardo crociato di Pisa, destinato a garrire sui mari del Mediterraneo per diversi secoli, sia stato consegnato alla città da papa Benedetto VIII nel 1017, poco prima che un bastimento salpasse alla volta della Sardegna per liberarla dai saraceni. Ma forse la croce pisana era già in uso da tempo, perfino lungo le coste di Spagna, altro sanguinoso scenario della lotta fra Islam e mondo cristiano. Secondo un’altra teoria, la bandiera rossa venne concessa alla città da Federico Barbarossa come premio per la fedeltà pisana verso l’Impero. Quanto alla foggia insolita dell’emblema, molto vicina a quella della croce d’Occitania, attestata almeno dal 1211, si pensa che possa avere avuto origine da modelli armeni, importati dai crociati e, nello specifico, dai Templari. Le dodici perle che ornano gli spigoli rappresenterebbero gli Apostoli che circondano il corpo di Cristo. Perduta la libertà nel 1406, quando Pisa dovette piegarsi alla Repubblica fiorentina, la gloriosa insegna scomparve dai mari. Tornò a battere soltanto nel 1941, quando venne inserita, insieme agli antichi stemmi di Venezia, Genova e Amalfi, nella bandiera ufficiale della Marina italiana.

Nella pagina accanto, al centro lo stemma dei due rami dei Malaspina: lo «Spino secco» (a sinistra) e quello «secco». Nella pagina accanto, in basso il Castello Malaspina di Massa.

riscossa del proprio gruppo familiare contro il Comune di Lucca che alla fine del secolo si era impadronito di gran parte dei domini dei Malaspina di Verrucola: l’opera di Spinetta fu favorita dal fatto di essere riconosciuto come capo indiscusso della famiglia in seguito alla decisione, sua e dei fratelli, di non spartirsi i possessi paterni. Le vicende della vita di questo personaggio furono alquanto alterne. In una prima fase, durante la permanenza in Italia dell’imperatore Enrico VII, fu in grande auge: esercitò la carica di vicario imperiale a Reggio Emilia e, oltre alle proprietà paterne, ottenne diversi possedimenti in Garfagnana e in Lunigiana. Dal 1319 fu però costretto all’esilio da Castruccio Castracani e si rifugiò presso il signore di Vero-

na, Cangrande della Scala, di cui fu consigliere e aiutante. Per riottenere i suoi possessi lunigianesi, Spinetta, da sempre seguace del partito ghibellino, arrivò ad allearsi con la guelfa Firenze, a cui nel 1341 cedette i beni in Garfagnana. Tornato signore in Lunigiana, alla morte di Castruccio (1328), allargò i suoi domini ottenendo Sarzana (dal 1334 fino al 1343, quando fu definitivamente ceduta a Pisa) e Fosdinovo (dal 1340). Alla sua morte, nel 1352, gli successero i figli dei suoi due fratelli, Isnardo e Azzolino: quelli di Isnardo ottennero Verrucola Bosi, mentre gli eredi di Azzolino ebbero Fosdinovo, primo nucleo dell’unico marchesato malaspiniano destinato a diventare un vero e proprio Stato, il Principato di Massa e Carrara. ARALDICA

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MEDICI Governare è un’arte...

...e furono poche le dinastie capaci di esercitarla con l’autorevolezza e il piglio dei Medici. Una famiglia forse neppure fiorentina d’origine, ma che della città del giglio seppe fare il centro del mondo Replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera, il cui appellativo deriva dalla catena chiusa da un lucchetto che la circonda (non visibile in questa riproduzione), è un documento di straordinaria importanza per la conoscenza 82

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dell’assetto urbano di Firenze nella seconda metà del Quattrocento, epoca in cui i Medici avevano già ampiamente consolidato il proprio potere. Si tratta, inoltre, del primo esemplare noto nella storia della topografia che ritragga dettagliatamente tutta la città con i suoi edifici e la sua fitta rete viaria.


di Sergio Raveggi

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el gennaio 1374 Filigno di Conte de’ Medici (nipote dell’Averardo che fu Gonfaloniere di Giustizia) decide di dare inizio a un libro di memorie. Il testo sarà quasi tutto dedicato ad appunti di genere patrimoniale (compravendite, divisioni di beni, importi dotali...), ma nella premessa, come spiegazione all’impellenza di scrivere, c’è una preoccupata riflessione sulla propria stirpe: siamo stati una grande famiglia, rispettata e temuta, ma il futuro è incerto e i presagi sono foschi, tra «battaglie cittadinesche», morti per peste, la carenza che ormai abbiamo di uomini di valore. Invece nel 1429, secondo il racconto di Giovanni Cavalcanti, il morente Giovanni di Bicci de’ Medici si accomiata dai figli Cosimo e Lorenzo

con l’orgoglio di chi può dispensare un patrimonio larghissimo e sagge regole di comportamento politico: fate in modo di essere sempre graditi ai buoni cittadini e a tutto il popolo, che hanno considerato costantemente i Medici un riferimento sicuro (addirittura la «tramontana stella»); e se non vi allontanerete dai comportamenti dei vostri predecessori il popolo sarà sempre propenso a elargirvi cariche politiche. Come si vede, da Filigno a Giovanni, in mezzo secolo tutto sembra cambiato: si è passati dal timore di perdere alla consapevolezza di essere vincenti. In effetti in quest’arco di tempo a Firenze molto è avvenuto: il Tumulto dei Ciompi (1372), la caduta del regime dei governi a forte impronta popolare, la nuova dominazione di un ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale ristretto numero di famiglie, primi fra tutti gli Albizzi, che hanno imposto dal 1382 un regime oligarchico, esili, epidemie e guerre, fallimenti e nuove fortune private. Tra questi marosi, alcuni membri della famiglia Medici, e in particolare il ramo di Averardo detto Bicci, hanno saputo navigare con perizia; e ora si intravedono davvero i presupposti per un approdo mai riuscito a nessuno a Firenze, cioè imporsi come dinastia egemone. Le mosse decisive devono comunque essere ancora tutte compiute.

Parentele che contano

Almeno dalla metà del XII secolo i Medici si segnalarono a Firenze come cittadini di rilievo. Piú tardi terranno a gloriarsi di essere stati in antico nobili del contado originari del Mugello, il che è evenienza in qualche misura plausibile, ma non provata. Invece è certo che, pur non risultando far parte in senso stretto del ceto consolare, hanno già allora importanti parentele, la comproprietà di una torre e il patronato di una chiesa nel centro cittadino. Se una partecipazione politica in ruoli di rilievo non è visibile prima della metà del Duecento, le notizie precedenti ci sono pervenute in modo tanto frammentario da non permettere giudizi netti.

L’EMBLEMA MISTERIOSO Con la dissoluzione del sistema feudale ebbe inizio, dal XII secolo, quel fenomeno di «inurbamento» che vide le città riempirsi non solo di nobiltà feudale, ma anche di famiglie di minor rango e comunque facoltose che, arricchendosi ulteriormente attraverso l’attività di commercianti o, come i Medici, di banchieri, contrastarono e conquistarono il potere. Lo stemma perse ben presto il legame col territorio, che aveva caratterizzato gli scudi di antica nobiltà feudale, per divenire simbolo della famiglia, legato al nome e alla discendenza; e, dunque, non essendo piú vincolato alla proprietà terriera, chiunque, con poche limitazioni, poteva scegliersi lo stemma che preferiva. Anche i Medici, come tutte le famiglie di oscure origini ma divenute, grazie alle loro capacità, ricche e potenti, vollero adottare un «segno distintivo» con cui adornare non solo i loro palazzi e le loro tombe, ma anche gli abiti, le suppellettili, le stoviglie. Ma se talvolta, per gli stemmi di famiglie feudali, è possibile ricostruirne le origini e le motivazioni, cosí non è per quelli liberamente

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Miniatura raffigurante uno scontro sui tetti di Firenze tra le fazioni dei Bianchi, la parte dei Cerchi, e dei Neri, la parte dei Donati, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto la casa torre degli Albizzi a Firenze. XIII sec. In basso lo stemma dei Medici, nella Sagrestia Vecchia della basilica fiorentina di S. Lorenzo.

scelti; non è infatti noto il motivo per cui la predilezione dei Medici sia caduta su uno scudo «d’oro alle sei palle rosse poste tre, due, uno» (anche se ne esistono varianti con diverso numero e disposizione, mai con diversi smalti); possiamo quindi raccogliere solo tradizioni o formulare ipotesi, lasciando al lettore il piacere della scelta. Si è ritenuto per molto tempo che le «palle» medicee (semisfere sporgenti dallo scudo) fossero la rappresentazione di «pillole», e questo in base alla consuetudine molto diffusa di assumere quale simbolo un oggetto o un colore che richiamasse o facesse diretto riferimento al nome, le cosiddette «armi parlanti». In questo caso le pillole come riferimento al medico. Si è ritenuto anche che quei sei «oggetti» non fossero palle, né pillole, ma monete, basandosi sul fatto, storicamente certo, che i Medici, essendo iscritti all’Arte del Cambio e avendo praticato l’attività di banchieri, avessero voluto ricordare nel proprio stemma sia la loro Arte, sia l’origine della loro fortuna e abbiano perciò adottato il simbolo dell’Arte del Cambio «di rosso seminato di bisanti d’oro» invertendone gli smalti. Un’ulteriore ipotesi, basata sulla tecnica

costruttiva degli scudi, vede in quelle sei sporgenze le borchie di rinforzo o la parte esterna delle ferrature che sorreggevano le cinghie e l’impugnatura. Ma, se non è certa l’origine dello stemma, lo è invece la sua versione successiva, quando finalmente Piero de’ Medici, nel 1465, poté nobilitare il proprio scudo e portarlo alla stregua delle antiche famiglie nobiliari mostrando un «privilegio» di tutto rispetto: la concessione da parte del re di Francia Luigi IX di potersi fregiare, in memoria della grandezza del padre Cosimo, dello «scudetto di Francia», un piccolo scudo azzurro con tre fiordalisi d’oro da porre nella parte piú nobile dello scudo. E Piero lo fece con gran gioia. Da allora lo stemma dei Medici si presentò con la palla rossa in alto sostituita da una palla azzurra caricata dai tre fiordalisi. Finalmente, con i quattro papi Medici, Leone X (Giovanni 1513-21), Clemente VII (Giulio 152324), Pio IV (Giovanni Angelo 1559-65) e Leone XI (Alessandro, pontefice solo per pochi mesi nel 1605) l’arma poté fregiarsi anche del triregno e delle chiavi. Massimo D. Papi

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La fisionomia dei Medici pare comunque quella di mercanti e popolani e infatti accedono a incarichi di governo durante il «Primo Popolo»; uno di loro, nel 1260 è ufficiale dei balestrieri dell’esercito guelfo a Montaperti e però, dopo la sconfitta militare e il drastico cambiamento di regime, un altro siede nel consiglio ghibellino, cosicché non deve stupire se i danni inferti ai loro beni dalle rappresaglie dei vincitori sono assai limitati. L’ambigua coloritura guelfa diviene invece piú accesa all’instaurarsi del regime legato a Carlo d’Angiò, nel 1267, e, da allora, la scelta di campo è definitiva, come per quasi tutti a Firenze. Piú di altri, magari, paiono essere propugnatori di un guelfismo intransigente e aggressivo, come provano le lagnanze del ghibellino Neri Strinati che all’inizio del Trecento denunzia nelle proprie memorie quanto i Medici approfittino di ogni occasione per vessarli e depredarli senza pietà, «peggio che i Saracini in Acri», e ancora come è dimostrato dalla scelta di schierarsi con la fazione dei Neri e qualche anno dopo dall’aperto ap86

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A sinistra Ritratto di Lorenzo il Magnifico, olio su tavola di Luigi Fiammingo. 1550. Firenze, Museo degli Argenti. In alto, a destra ritratto di Cosimo il Vecchio (particolare), olio su tela del Pontormo (al secolo, Jacopo Carucci). 1519-1520. Firenze, Galleria degli Uffizi.

poggio ai tentativi eversivi di Corso Donati, il maggiore esponente del radicalismo guelfo. Nella prima metà del Trecento la casata dei Medici è estesa in vari rami e spesso chiamata a rivestire incarichi pubblici; non è tra le piú eminenti, ma, diciamo, immediatamente alle spalle delle cinque o sei famiglie di primo piano. Nelle congiure e nella sollevazione per abbattere la signoria del Duca d’Atene (1343) hanno un ruolo importante, anche perché un loro congiunto è stato giustiziato dal despota.

Una rivolta incontrollabile

Piú volte negli anni seguenti, evidentemente scontenti degli spazi politici loro attribuiti, sono invischiati in sobillazioni e congiure e nel settario clima fiorentino del secondo Trecento la famiglia si divide tra fautori degli Albizzi e fautori dei Ricci. Tornano di nuovo in primo piano nell’immediato antefatto del Tumulto dei Ciompi, quando Salvestro eletto Gonfaloniere dichiara intollerabile che «il popolo fusse da pochi potenti oppresso» come scrive Machiavelli, con l’intento, si capisce, di cavalcare il crescente malcontento a proprio vantaggio, ma la situazione gli sfugge di mano essendosi ormai innescata una rivolta incontrollabile. Con maggior cautela si muove, dall’inizio del Quattrocento, Giovanni di Bicci, esponente di un ramo familiare fino ad allora secondario, che al crescente successo economico aggiunge


QUELL’ARMA PARLANTE, MA NON TROPPO... Molte città italiane hanno assunto o mantenuto come proprio stemma l’insegna che un tempo era propria della famiglia che, detenendo la signoria, ne aveva determinato, o accresciuto, la potenza e il prestigio: un omaggio quindi – e un’identificazione – nei confronti di quella dinastia e di quel momento di memorabile e irripetibile splendore. Altre, indifferenti al volgere degli eventi, non hanno mai cessato di inalberare e difendere le «antiche insegne» – solitamente di origine romana, o ritenute tali – legate alla fondazione della città. E quel sentimento di identità dei voleri e dei destini del singolo con quelli non solo dei propri concittadini ma anche degli «antenati» – che, protetti dallo stesso segno e dagli stessi colori, serenamente hanno riposato, lavorato e prosperato ma in caso di necessità hanno impetuosamente e valorosamente combattuto fianco a fianco, certi del favore divino quale premio sia alla loro dedizione a quell’insegna sia all’orgoglio della propria cittadinanza – non permetterà che effimeri mutamenti di governo o alternarsi di alleanze politiche cancellino o sostituiscano quelle che sono il cuore e l’anima della città. Se le esigenze poi saranno tali da non consentire deroghe, il mutamento ci sarà ma, come nella Firenze del 1251, nel modo meno doloroso possibile: con una damnatio memoriae di parte dei cittadini, non della città. Il Giglio di Firenze – uno dei pochissimi oggetti, assieme alla rosa, che l’araldica raffigura stilizzati, cioè diversi dalla loro immagine naturale – ha un’origine incerta e discussa e l’evidenza di «arma parlante» non risolve certo al questione: un mitico generale romano, Fiorino, da cui il nome e l’insegna; o un insediamento dell’etrusca Fiesole nella sottostante pianura alluvionale dell’Arno ricca di questi fiori? Piú verosimile, forse, l’augurale nome di «florido, fiorente» dato dai Romani a questo nuovo accampamento. Nessun cronista medievale, o storico, fornisce notizie certe sull’origine dell’insegna «di rosso al giglio bottonato e bocciolato di bianco» (il Giglio fiorentino si rappresenta in fiore e con gli stami, contrapposto al Giglio capponato, con soli i tre petali) anche se si ritiene facesse bella mostra di sé nei primordi del libero Comune di Firenze dopo la morte, nel 1115, della contessa Matilde, ultimo vicario Imperiale. E rimarrà tale, bianco su campo rosso, fino al 1251 quando, con al presa del potere da parte del partito guelfo, si cacceranno sí dalla città i ghibellini ma nessuno caccerà e dimenticherà la vecchia insegna e, nel suo rispetto, nulla verrà tolto o aggiunto: si manterranno segno e colori, solo invertiti. Massimo D. Papi

un’ascesa politica progressiva, iniziata in età matura, basata sulla ricerca del consenso, in particolare negli ambienti degli artigiani minori e condotta senza destare sospetti tra i membri del partito degli Albizzi, al quale non appartiene, ma col quale convive senza scontri, ottenendo numerose cariche politiche di primo piano. Fedele al testamento politico del padre, Cosimo, prendendo in mano le redini della famiglia, si muove con una buona dose di mercantile understatement. In una fase in cui il regime oligarchico mostra segni di usura, è attento ad attirare a sé il favore popolare e a trasformare il gruppo dei propri seguaci (in gran parte parvenus) in un partito, dissimulando però i piani con l’impegno negli affari, con soggiorni all’estero, con la passione per gli studi classici, con lunghe permanenze nelle sue proprietà rurali. Infine Rinaldo degli Albizzi si rende conto del pericolo e, grazie

alla connivenza del collegio di governo da lui manovrato, lo fa arrestare nel settembre 1433. L’accusa di cospirazione contro la Repubblica dovrebbe prevedere la pena di morte (e peraltro pare anche si cercasse piú sbrigativamente di eliminare il prigioniero con il veleno), ma Cosimo, corrompendo prima i guardiani e poi chi doveva giudicarlo, riesce a ottenere l’incolumità e la condanna a dieci anni di esilio, in ciò aiutato non poco dalle pressioni dell’amica Venezia. E a Venezia sconta un anno di esilio, manovrando da lontano per accrescere le tensioni in patria e il risentimento popolare contro gli Albizzi, fino a sovvertire gli equilibri politici a Firenze, cosicché già nel settembre 1434, in virtú dell’entrata in carica di un governo a lui favorevole, Cosimo può tornare da trionfatore, mentre l’esilio è ora comminato a Rinaldo degli Albizzi e a una settantina di suoi partigiani.

Il leone, simbolo della guelfa Firenze, nella versione del Marzocco scolpito da Donatello. 1420. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. L’animale poggia una zampa su uno scudo che reca lo stemma con il giglio fiorentino.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale

PICCOLOMINI Il potere dei soldi Ricordati soprattutto per le gesta di Enea Silvio, eletto papa col nome di Pio II, i Piccolomini schivarono abilmente insidie e conflitti politici, soprattutto grazie alle proprie ingenti ricchezze

di Roberta Mucciarelli

C

orreva l’anno del Signore 1277 quando tre sapienti redassero a Siena un elenco delle domus nobiliari a cui, da quel momento, era formalmente vietato l’accesso alla suprema magistratura cittadina. La norma, di stampo antimagnatizio, si inseriva in un piano legislativo di piú ampia portata mirante a garantire un quieto e ordinato svolgersi del vivere civile che, la vocazione al dominio, le inveterate tradizioni di autonomia politico-militare e le attitudini bellicose dei «grandi», mettevano costantemente in pericolo. Non che Siena, al pari di tutto l’Occidente europeo, non fosse avvezza 88

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Sulle due pagine particolari delle Storie di Pio II – che illustrano la vita e le vicende di Enea Silvio Piccolomini – opera del Pinturicchio. 15031508. Siena, Duomo, Biblioteca Piccolomini. Nella foto in alto, lo stemma della casata.

a episodi di violenza e sopraffazione nobiliare. Ma il fatto nuovo è che, in questo torno di tempo, qui come in molte altre città dell’Italia comunale, tali comportamenti aggressivi e atteggiamenti di tracotanza non sono piú tollerati. Il popolo, ovunque in ascesa, vuole imporre adesso regole chiare al gioco politico e dire basta alle vendette, ai colpi di mano e ai combattimenti di chi, da secoli, era abituato ad affermare e ostentare con forza il proprio status.


Una serie di provvedimenti antimagnatizi, di radicalità inusitata, colpirono dunque un po’ ovunque nell’Italia dei Comuni – a partire dagli ultimi decenni del XIII secolo – gli esponenti di questo ceto di «grandi» o «magnati» identificati per lo piú attraverso il duplice criterio della pubblica fama e del cavalierato. Spesso però per evitare confusioni e possibilità d’errore su chi dovesse intendersi con il termine magnate, i legislatori ne approntarono una lista nominati-

va. A Siena, in quell’anno 1277, per spazzar via ogni ambiguità, si nominò una commissione di saggi incaricata di individuare le famiglie del casato su cui doveva esercitarsi la proscrizione. Ne contarono cinquantatré. E tra i lignaggi – e i circa duemila individui che componevano questo gruppo – figuravano anche i Piccolomini. A che data e chi fosse il primo della famiglia a intraprendere l’avventura finanziaria e mercantile che avrebbe condotto lui e i suoi consorti in ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale L’incoronazione di papa Pio II, avvenuta nel 1458, in una tavoletta di biccherna dipinta dal Vecchietta (al secolo, Lorenzo di Pietro). 1460. Siena, Archivio di Stato. Nella sottostante fascia orizzontale compare una veduta della città di Siena inquadrata da due chimere e dagli stemmi delle famiglie Baldi e Umidi. Al di sotto sono dipinti altri otto stemmi delle famiglie da Bagnaia, Giovannelli, Piccolomini, Tommasi, Pini, Del Rondine, Tolomei e Venturini.

LA SPASMODICA RICERCA DI UNA GLORIOSA ANTICHITÀ Qualcuno in età moderna riscrivendo la storia genealogica delle famiglie magnatizie, poi denominate dei «Gentiluomini», non esitò, secondo una prassi che fu assai ricorrente, a ricondurre le loro origini a tempi lontanissimi e a capostipiti fantastici. Alludendo talora alla derivazione da Bacco di Piccolomo, vissuto sotto il Regno dell’etrusco Porsenna, talaltra riconducendo invece la fioritura in terra di Siena a Chiaramontese, della stirpe romana dei Parenzi, eruditi e genealogisti non si risparmiarono per provare la «chiarezza del sangue» e la «vetusta nobiltà» del lignaggio piccolomineo. Mirabili congetture ed elaborate elucubrazioni si sprecarono.

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Durante il XVII secolo, al soldo dei conti Piccolomini di Modanella, ci fu chi, senza tema del ridicolo, legò l’arme della famiglia (una croce azzurra in campo bianco con cinque o piú crescenti d’oro) a quella del celebre Orazio Coclite; chi ritenne senza ombra di dubbio la casata essere assai piú antica, avendo essa avuto principio dai re d’Alba molti anni avanti Roma; e chi, nell’approntare un catalogo degli uomini piú ragguardevoli nel governo civile, fece iniziare la lista con un Caio Montone Piccolomini, patrizio senese, vissuto nell’anno 2641 dell’era etrusca. Favole ovviamente. Del resto questi fantasiosi compilatori di memorie


FRATELLI IN FUGA Lo stemma di Siena è talmente famoso da avere un nome. Si chiama balzana, aggettivo riservato ai cavalli con i piedi o altre parti del corpo di colore bianco. E c’è chi dice che il blasone sia davvero collegato ai cavalli, nella fattispecie a quelli, uno bianco e l’altro nero, in groppa ai quali giunsero i fondatori della città. Erano Senio e Aschio (o Ascanio), figli di Remo, fuggiti da Roma per scampare alla caccia intrapresa dai sudditi dello zio Romolo (altro emblema cittadino è, appunto, la lupa capitolina). Bianco e nero sarebbe stato anche l’ambiguo colore del fumo scaturito dalla pira votiva che i fratelli innalzarono agli dèi. I colori della balzana sono onnipresenti, a Siena, che perfino nella costruzione del duomo ha voluto alternarli, così come il giorno si sussegue alla notte. L’esplicita simbologia dell’arme comunale viene sottolineata dalla semplicità severa dello scudo, totalmente privo di ornamenti. L’emblema del popolo senese era invece un leone d’argento in campo rosso, oggi rappresentato nello stemma della Provincia.

giro per l’Europa, facendo la fortuna del casato, non è certo. E neppure si può dire con certezza se davvero i Piccolomini che attraversarono le Alpi lo fecero alla maniera romantica con cui certa storiografia di fine Ottocento immaginò il mercante senese del XIII secolo: a dorso di un cavallo, con torselli ripieni di tesori da vendere.

Un’ascesa irresistibile

Quel che invece è sicuro è che quando, nei primi decenni del secolo, la documentazione getta luce sulle attività finanziarie della famiglia, essa è già parte di quell’élite urbana – di stampo bancario – che fonda la sua qualificazione su una cospicua base economica costruita grazie ai legami con la Curia romana e alla frequentazione delle fiere della Champagne, corridoio di lucrosi rapporti creditizi, attestati dal 1221, con la nobiltà laica ed ecclesiastica internazionale. Sono i denari accumulati Oltralpe a consentire

familiari vantavano un illustre precedente, se si pensa che anche il grande pontefice umanista Pio II Piccolomini non aveva potuto fare a meno, a metà Quattrocento, di rivendicare orgogliosamente per la stirpe alla quale apparteneva nobilitanti origini romane: «Familia Picolomineorum ex Roma in Senas translata, inter vetustiores et nobiliores civitatis habita...». La realtà era meno romantica. Le origini dei Piccolomini ben poco avevano a che fare con Roma. La «nobiltà» della famiglia doveva ricercarsi altrove: nel denaro accumulato non senza fatica e con molta astuzia nel commercio e negli scambi. Di denaro soprattutto.

la scalata al vertice sociale. Il banchiere-usuraio Ranieri di Rustichino – come si autodenuncerà nel testamento rogato il 19 settembre 1239 – con i soldi guadagnati illecitamente compra terre fuori le mura, acquista case nella zona di Porrione e Malborghetto, fonda un ospedale dedicato a Santa Maria Maddalena di cui riserva a sé e agli eredi il diritto di giuspatronato. Contemporaneamente, grazie alla fama e all’esperienza acquisita negli affari, ha accesso alle magistrature finanziarie del Comune, sempre piú spesso è chiamato dal governo cittadino a presenziare ad atti di natura politica, piú volte in virtú della sua professione riveste la funzione di Console all’interno dell’arte di Mercanzia. Sono questi i primi segnali di un ruolo pubblico del casato che si consoliderà negli anni a venire. Per quattro generazioni i discendenti di Ranieri sono attivi nella finanza e nel commercio. Mettono in piedi una società, aprono le sue porte a uomini e capitali esterni, stabiliscono collegamenti e sodalizi d’affari con compagnie e operatori stranieri, operano nel mercato internazionale, regionale (Siena, Firenze, Pisa) e interregionale (il patriarcato di Aquileia, Padova, Trieste, Venezia), non disdegnano di affiancare agli affari creditizi la compra e lo smercio di tessuti francesi e fiamminghi. Poi, giudicati maturi i tempi, dismettono l’attività. C’è aria di crisi in giro e i banchieri-mercanti Piccolomini scansano l’ondata di fallimenti che di lí a breve avrebbe travolto molte societates senesi e fiorentine ritirandosi dal giro. Ma a quel punto, sono le ultime decadi del XIII secolo, l’obiettivo era raggiunto. I nipoti del vecchio Ranieri, a cui l’impegno ARALDICA

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Il Palazzo Piccolomini e l’omonima fontana a Pienza (Siena), la città ideale che Pio II volle realizzare trasformando il borgo natale di Corsignano in Val d’Orcia secondo il progetto urbanistico affidato a Bernardo Rossellino. Nella pagina accanto, in alto lo stemma della famiglia Piccolomini, caratterizzato dalle cinque lune poste a croce.

professionale non ha impedito di dedicarsi alla politica e all’amministrazione delle finanze comunali, hanno fatto il loro ingresso nella militia cittadina e, al pari dei membri delle famiglie di antica tradizione equestre, godono dei privilegi e del prestigio che il titolo conferisce. E quindi, in quel 1277, essi fanno parte dei potentes messi al bando. Né la legislazione antimagnatizia, né il ripiego delle attività finanziarie e creditizie demolirono la posizione dei Piccolomini.

Capacità di adattamento

Il carattere «non punitivo» della normativa senese, gli ampi spazi di intervento pubblico che il regime popolare riservò ai magnati disponibili ad adeguare i loro comportamenti alle nuove norme, la duttilità della famiglia che seppe ri92

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convertire su scala locale capitali e spirito imprenditoriale operarono perché durante tutta la prima metà del Trecento essa continuasse a occupare, forte di ricchezza e prestigio, il vertice socio-economico cittadino. Gli uffici pubblici, la banca e la terra rappresentarono i cardini di un equilibrato sistema di attività che permise loro di adattarsi con successo alla mutata situazione politica ed economica. Le magistrature finanziarie e i ruoli militari e diplomatici in seno al Comune garantirono distinzione e visibilità pubblica, i capitani e le podesterie fuori e dentro i confini dello Stato dettero agli uomini che vi si indirizzarono la possibilità di integrare i propri cespiti di ricchezza. I prestiti all’erario pubblico, in permanente difficoltà, e il capillare svolgimento della pratica feneratizia, in città e nel contado, con-


IL CIELO IN UNO STEMMA «D’argento alla croce d’azzurro caricata di cinque crescenti montanti d’oro». Tra le figure che in araldica rappresentano i corpi celesti, il primo posto è occupato dalle stelle, forse a causa della piú facile rappresentazione e della piú immediata lettura. Per non essere confuso con un cerchio o una palla, il sole viene di solito rappresentato come un volto umano circondato da raggi – quasi sempre 16 – alternativamente dritti e serpeggianti; la luna raramente è rappresentata piena, in genere si raffigura la mezzaluna. In questo caso l’araldica, che tendenzialmente è molto precisa nelle indicazioni relative ai nomi, alle posizioni e ai particolari degli oggetti che riproduce, usa indiscriminatamente il termine «crescente» per indicare sia la luna in realtà «crescente» che quella «calante»: che abbia cioè le corna rivolte a sinistra o a destra. Dimenticando in questo sia la diffusissima rima popolare: «gobba a levante luna calante, gobba a ponente luna crescente», sia l’altrettanto nota prova della «falsità della luna»: quando dice C decresce e quando dice D cresce, riferendosi evidentemente al fatto che le lettere dell’alfabeto che si possono leggere a seconda della direzione delle punte sono esattamente al contrario rispetto alla sua fase astronomica. Ma l’araldica pare non curarsi di tutto questo e il «crescente» viene blasonato «montante», con le corna in alto, «rovesciato», in basso, «volto», verso destra, «rivoltato», verso sinistra. Non molto concordi sono gli araldisti su quale di queste quattro posizioni sia da ritenere naturale e

sentirono di ricavare margini di profitto forse limitati rispetto a quelli di alcuni decenni prima, ma di livello non trascurabile in anni che furono critici.

Dalla terra la ricchezza

Principale motore del sistema fu la terra. Nel 1318 una fonte fiscale lacunosa ci mostra un patrimonio familiare che si distende per circa 1720 ettari di terreno raggiungendo un valore complessivo di 103 000 lire senesi: alla base, un cospicuo movimento di espansione nel contado, specificamente nel settore sud e sud-orientale, a cui la famiglia si era volta fin dai primi anni del XIII secolo. Qui si era comprato, permutato, accorpato, si erano allocati, preferibilmente a mezzadria, poderi e terreni; qui si erano concentrati castelli e diritti

Qui sopra lo stemma della città di Pienza, nel quale compare la mezzaluna dei Piccolomini.

quindi non soggetta a essere blasonata ma in genere non si blasona quella rivolta a destra, mentre abbastanza spesso, e di solito quando il crescente è la sola figura dello scudo, viene rappresentato con un profilo femminile e in quel caso viene detto «crescente figurato». Ma tornando ai Piccolomini sarà proprio questa piccola mezzaluna che caratterizzerà il loro casato e apparirà nello stemma della città di Pienza assieme al grifo coronato – anticamente un leone – e alla pianta di lupino. Massimo D. Papi

di giurisdizione su uomini e cose; qui si producevano i beni da commercializzare sul mercato, e qui di preferenza si continua a indirizzare gli investimenti durante tutto il XIV secolo. Eppure questo deciso interesse per la terra non produsse mai tentazioni centrifughe. Al contrario, l’intensa e costante presenza del lignaggio nella vita cittadina – perseguita attraverso la tessitura di legami matrimoniali con uomini e donne appartenenti all’élite urbana – il mantenimento di buoni rapporti con i governi popolari e la fattiva collaborazione nella gestione della «cosa pubblica», furono fattori determinanti per assicurare ai Piccolomini un ruolo di primo piano nelle vicende politiche ed economiche di primo Trecento. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale

DELLA GHERARDESCA Nobili di Maremma Reso tragicamente immortale dai versi di Dante, il conte Ugolino fu in realtà un valente statista, nonché l’artefice primo delle fortune della sua casata di Andrea Barlucchi

L

a pagina piú intensa di umana pietà di tutta la Divina Commedia è stato definito da Natalino Sapegno il canto dell’Inferno, dedicato ai traditori, nel quale giganteggia la tragica figura del conte Ugolino Della Gherardesca. Su di lui fiumi di inchiostro sono stati versati dai commentatori del poema, generalmente inclini a sottolinearne la ferocia del tratto, fisico e psicologico, immortalato dal poeta in quel gesto di forbirsi la bocca sulla nuca del teschio in precedenza addentato. Siamo in sostanza ancora una volta di fronte a quel Medioevo di maniera, fatto di personalità tagliate con l’accetta, dure con se stesse come con gli altri, nel modo in cui sono state forgiate dai tempi. Ma bisogna guardarsi dal condividere una simile impostazione, che si rivela, a una disamina spassionata, falsa e tendenziosa. Il conte Ugolino fu in realtà un abile e accorto uomo di Stato, il quale riuscí a portare la sua famiglia ai vertici della vita politica italiana. Apparteneva a uno dei piú antichi lignaggi toscani, i discendenti del conte Gherardo (da cui il nome della casata), proprietario di feudi in Maremma, vissuto nella seconda metà del X secolo. Secondo un’altra ipotesi – non accettata però da tutti gli storici – l’origine del casato sarebbe invece ancora piú antica e risalirebbe addirittura a un oscuro fratello del re longobardo Rachis, un tal Ratcauso vissuto nell’VIII secolo. Un figlio di costui, Walfredo, sarebbe stato uomo dalla santa vita, fondatore di monasteri e innalzato alla gloria degli altari. Egli si sarebbe volontariamente rinchiuso in convento, portando con sé i figli maschi a condurre un’esistenza ascetica; è evidente però che non tutti devono aver secondato i desideri paterni, altrimenti non si vede come materialmente la stirpe sia potuta continuare. In

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ogni caso, se l’ipotesi dell’ascendenza longobarda venisse comprovata, gli attuali Della Gherardesca potrebbero vantarsi di essere una delle piú antiche famiglie nobiliari non soltanto d’Italia ma d’Europa.

Conti di Volterra

Quando la documentazione in nostro possesso si fa piú consistente, cioè intorno all’anno 1000, troviamo i Della Gherardesca ben radicati nel territorio della Toscana centro-meridionale, dove, accanto alle loro proprietà private, riescono ad assicurarsi, nella generale latitanza delle strutture statali, diritti giurisdizionali di varia natura su terre, uomini, saline e miniere. Alcuni di loro arrivano a fregiarsi addirittura del titolo di conti di Volterra, fatto comprovante una grande potenza già accumulata a questa data, poiché l’antica città etrusca controllava un territorio vastissimo nel cuore della Toscana. Ancora non si è definitivamente fissato il cognome (lo sarà solo nel corso del Duecento), ed è usuale connotarli anche come «i Tedicinghi» dal nome di Tedice che ricorre frequentemente nelle varie generazioni. Già da questa epoca cominciano a delinearsi i contorni del territorio, che tradizionalmente verrà riconosciuto come «la Gherardesca», distribuito su alcune aree principali: le colline pisane, la foce del Cecina e della Cornia, con appendici nell’entroterra. Nell’XI secolo la famiglia, divenuta ricca di diramazioni collaterali, comincia a disperdersi, ogni ramo radicandosi in un determinato territorio. Viene persa la signoria di Volterra, ma in compenso ogni singolo ramo pretende di potersi fregiare del titolo comitale; i due fenomeni vanno di pari passo, sono anzi due facce della stessa medaglia. Questo però non significa un indebolimento


Ugolino con i figli in carcere, olio su tela di Giuseppe Diotti. 1836 circa. Bergamo, Accademia Carrara.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO della potenza della casata, ma semplicemente un processo di ridefinizione di ruoli e strategie all’interno di quella che è ormai diventata una vasta consorteria. Cosí alcune famiglie opteranno per la cittadinanza pisana, investendo capitali nell’acquisto di terre nel basso Valdarno e inserendosi fra i protagonisti della vita politica urbana. Quei «conti di Maremma dai selvatici manieri» cantati dal Carducci sono quindi in realtà molto poco selvatici e altrettanto decisamente cittadini. Cosí la storia ci racconta di un Gherardo che si distinse nell’impresa delle Baleari, quando nel 1113-14 una squadra navale, composta congiuntamente da Pisani e Catalani e rinforzata da truppe di diverse città italiane, si scontrò piú volte vittoriosamente con i Saraceni e mise al sacco Maiorca, stabilendo per un certo periodo la supremazia assoluta della città toscana nel Mediterraneo occidentale. Il primo podestà pisano di cui si abbia notizia, nel 1190, è un certo Tedice Della Gherardesca. Altri membri della famiglia occupano, a piú riprese, la massima carica istituzionale cittadina, affiancati e spesso inframezzati da esponenti di un’altra grande consorteria, quella dei Visconti, la storica rivale con la quale si svolgerà la lotta finale per la supremazia sullo scorcio del Duecento. Comincia infine a coagularsi intorno ai Della Gherardesca, fra le file della nobiltà feudale inurbata, quella solidarietà che porterà alla costituzione del partito ghibellino; a essa si contrappone la coordinazione di famiglie facente capo ai Visconti, che si riconoscerà nell’antagonista partito guelfo. Sono quindi già tutti presenti, al passaggio tra il XII e il XIII secolo, gli ingredienti che, unendosi, daranno vita alla micidiale miscela che esploderà nella guerra civile di fine Duecento.

Italia centrale

L’AQUILA DIMEZZATA Lo stemma dei Della Gherardesca si presenta «partito: nel I d’oro all’aquila uscente dell’impero. Nel II troncato di rosso e d’argento». Lo scudo, diviso perpendicolarmente in due parti uguali – partito, appunto –, presenta nella I parte, la destra, la metà di un’aquila nera, con due teste, ali spiegate, artigli, becco aperto e con la corona, in campo d’oro; l’altra parte dello scudo, la sinistra, è divisa a sua volta, orizzontalmente – troncato – in due parti: rosso in alto, argento, o bianco, in basso. Divenuti signori di Pisa, i Della Gherardesca hanno voluto aggiungere i colori di questa città – il rosso e l’argento – al loro stemma, preferendo però «coprire» metà aquila, che diverrà quindi uscente da sotto la parte sinistra, anziché ridurre le dimensioni della loro arme originale e relegarla, seppur intera, in una parte dello scudo.

In basso miniatura raffigurante Ugolino della Gherardesca che rientra a Pisa, mentre i suoi nemici si danno alla fuga, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Un altro evento importante nell’ascesa della famiglia si verifica a metà del XIII secolo, quando i Della Gherardesca acquistano molte proprietà in Sardegna. Arriviamo cosí all’epoca del conte Ugolino, vero e proprio apice della potenza della famiglia. Bisogna dire innanzitutto che egli era riuscito a imparentarsi con la casa imperiale, avendo suo figlio Guelfo sposato Elena, figlia di re Enzo, a sua volta figlio naturale dell’imperatore Federico II. Ugolino dette uno straordinario impulso all’escavazione dell’argento nei possedimenti di famiglia in Sardegna, facendo di Villa di Chiesa (l’odierna Iglesias) la seconda città dell’isola, cingendola di mura e dotandola di un proprio codice di leggi. Per difendere i suoi possessi in Sardegna fu costretto ad accostarsi politicamente al partito guelfo, fatto che si può dire segni l’inizio di quella fama di traditore per la quale verrà immortalato nell’Inferno dantesco.

Rafforzato dalla... sconfitta

Approssimandosi la minaccia genovese, il governo pisano affidò la difesa a un duumvirato del quale la figura preminente era senza dubbio il nostro conte Ugolino; costui aveva il comando di 12 galere nella giornata sfortunata della Meloria, quando nel 1284 le navi liguri annientarono la flotta pisana. Ma paradossalmente questa sconfitta, invece di indebolirlo, gli consegnò in mano le chiavi del potere cittadino, in virtú proprio dei suoi precedenti rapporti con il 96

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DI «TERRE» E DI «MONTI»

Alessandro Savorelli

Per noi «terra» significa «paese»,«regione. Nel linguaggio medievale invece «terra» significava anche genericamente «centro abitato». I cronisti usano espressioni come «presero la terra», per dire che qualcuno conquistò un borgo. C’era inoltre un significato giuridicoistituzionale: nel Nord «terra separata» era un centro sottratto al contado di una città e amministrato a parte. Nell’Italia centrale «terra» indica sovente un centro di carattere intermedio tra la civitas (sede di diocesi) e il semplice castrum. Nei documenti e nei sigilli l’espressione è rigorosa: Prato era un grosso Comune autonomo, ma non potendo chiamarsi ufficialmente «città» si definiva appunto «terra». È nello Stato della Chiesa che la categoria è piú precisa. I centri convocati ai parlamenti del Ducato di Spoleto erano sottoposti a sanzioni di 20 000 marchi per le città, di 10 000 per le terre, di 1000 per gli altri Comuni. Poiché correvano soldi, la distinzione era rigorosa: e infatti le terre erano un numero definito, 11, e mettevano in rilievo questa qualifica nei sigilli, con altisonanti epiteti e versi rimati. Ancora piú tecnico era il termine nella Marca, che ebbe propri statuti nel 1354 (Constitutiones aegidiane). I centri abitati qui erano divisi in «città», «terre», «castelli» e «ville». Delle «terre», lo storico Bandino Giacomo Zenobi (19341994) ha dato una sintetica definizione: erano «Comuni liberi privi del titolo formale di città», ma forniti di potere legislativo interno, diritto d’elezione di magistrati, giurisdizione civile o penale e controllo su un contado. La

campo guelfo che lo mettevano nella migliore posizione per negoziare la pace. Egli resse cosí la signoria di Pisa in maniera incontrastata per circa quattro anni. È in questo periodo che si rinnovano i sospetti di doppio gioco che già in passato avevano gettato un’ombra sulla sua persona, sospetti ingiusti e dettati da una miope visione politica. In realtà la sua apparente condiscendenza alle richieste degli avversari – Genovesi, Fiorentini e Lucchesi – nascondeva lo scopo di dividerne il fronte, alimentando le reciproche rivalità. Se Pisa riuscí a sopravvivere al terribile momento, forse lo dovette proprio a questa sua duttile politica. Egli, però, vittima della famosa congiura, venne rinchiuso per molti mesi nella torre dei Gualandi insieme a diversi familiari; nel

differenza dalle città era quantitativa, mentre è qualitativa rispetto ai castra, privi di una legislazione statutaria e di autonomia amministrativa. Le terre marchigiane erano circa 65, e a lungo la loro aristocrazia difese i propri privilegi dal potere papale. La posizione speciale delle terre si riflette in un’araldica civica di antica origine e di qualità: stemmi semplici (che spesso sono riprodotti sugli statuti), ben costruiti graficamente, senza gli eccessi naturalistici di quelli di molti piccoli Comuni moderni. La presenza di figure geometriche (fasce, croci, bande: come a Matelica,Tolentino, Offagna, Offida, ecc.) argomenta per l’antichità di questi segni che derivano da vessilli militari, come accade nei grandi Comuni cittadini: San Ginesio porta una strana figura, un «capo-palo» che compare già in una tavola gotica sulle bandiere delle sue milizie. Ma la figura piú caratteristica sono i «monti», che riflettono l’orografia e la toponomastica locale (qualche volta oggi non piú in uso). Piú di un terzo delle terre usa questa figura combinata con altri simboli (animali, croci, alberi, fiori): Corinaldo, Filottrano, Ripatransone, Cingoli, Montecchio, Montalboddo, Montolmo, Monteprandone, Montelupone, Montalto, Montegiorgio, Monterubbiano, Montesanto, Montefortino, Montegranaro, Montemilone… Le Constitutiones stabilivano anche norme araldiche, prevedendo che le terre dovessero portare nello stemma e nel sigillo le chiavi pontificie: ma poche obbedirono. E anche questo fu un modo per riaffermare simbolicamente la propria autonomia.

marzo del 1289, approssimandosi a Pisa l’esercito di Guido da Montefeltro che lo avrebbe certamente liberato, tutti i prigionieri morirono in maniera misteriosa, e la voce popolare creò la leggenda ripresa poi dall’Alighieri. In essa la realtà è palesemente falsata relativamente all’età dei figli e nipoti di Ugolino, dipinti come fanciulli, mentre erano già uomini fatti, qualcuno con alle spalle anche delitti politici. In seguito, la potenza dei Della Gherardesca sembrò resuscitare nella prima metà del secolo successivo, quando il ramo dei Donoratico tenne la signoria di Pisa per qualche decennio; ma si trattò solo di una parentesi e, pur rimanendo una delle famiglie preminenti del patriziato toscano, essi non riuscirono piú a far tornare lo splendore dei giorni del conte Ugolino.

In alto lo stemma della cittadina marchigiana di Montelupone (Macerata) incastonato nella Torre Civica della piazza del Comune. Rappresenta un lupo su sei colli con una zampa in basso e l’altra sull’ultimo colle.

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CHIAVELLI La ricchezza non basta Artefici delle fortune della Fabriano medievale, frutto innanzitutto della fabbricazione della carta, i Chiavelli ne traggono lauti guadagni. Ma la loro parabola s’interrompe bruscamente nel giorno dell’Ascensione del 1435 di Francesco Pirani

T

ra le famiglie signorili che animarono la vita politica delle citta italiane nel Basso Medioevo quella dei Chiavelli non è sicuramente una delle piú famose, eppure, grazie a una energica gestione del potere, essi seppero assicurarsi per oltre due secoli una posizione di preminenza incontrastata su un importante centro della Marca anconetana, Fabriano. Il suo nucleo insediativo era situato lungo l’asse viario che collegava la Toscana alle regioni adriatiche. I Chiavelli furono pronti a intuire le potenzialità di sviluppo economico e politico di quel piccolo borgo fortificato: ben presto decisero infatti di rinunciare alle loro prerogative di signori rurali per puntare tutto sul consolidamento della nuova realtà urbana in ascesa. Verso la fine del XII secolo, epoca in cui sono attestati i nomi dei piú antichi esponenti della casata, i Chiavelli assunsero l’impegno di garantire la pace all’interno delle mura di Fabriano, venendo a patti con altri potenti signori rurali della zona. Nello stesso tempo veniva raggiunto un importante accordo fra tutti i detentori di diritti signorili nel territorio fabrianese e gli uomini del nucleo urbano, un accordo non piú fondato sulle consuetudini feudali ma sulla validità della norma pattuita. Rinaldo e Alberico di Rodolfo Chiavelli furono i primi fra i signori a sottoscrivere l’atto, consolidando cosí il legame fra la casata e la città. Ed è infatti attraverso l’assidua presenza di numero98

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Fabriano. Uno scorcio della piazza del Comune, con il Palazzo del Podestà e la Fontana Sturinalto.

CRESCENZIO, ABATE SPREGIUDICATO I segreti e i misfatti di Crescenzio Chiavelli, vissuto nella prima metà del Trecento, sono noti attraverso le colorite deposizioni rese da vari testimoni in due diversi processi giudiziari. Le accuse parlano chiaro: Crescenzio, con la complicità del fratello Tommaso, aveva imposto nel 1308 la sua elezione ad abate in un importante monastero delle Marche, S. Vittore delle Chiuse, ricorrendo alla violenza. Aveva inoltre pagato una cospicua somma al vescovo di Camerino per ottenere la conferma della sua elezione, macchiandosi cosí della colpa di simonia.


Ma le accuse non si fermano qui: Crescenzio Chiavelli era ritenuto reo anche di peculato per avere venduto beni preziosi di proprietà del monastero a vantaggio dei suoi familiari e di concubinaggio con una monaca, che teneva reclusa in un castello vicino. Si diceva inoltre che sottoponesse a vari maltrattamenti i monaci, privandoli del vitto e del vestiario necessario. Come se non bastasse, altre testimonianze rese da alcuni studenti di varie parti d’Italia asseriscono che Crescenzio condusse una vita

dissoluta nel periodo in cui frequentò l’Università di Bologna. Qui il monaco andava vestito lussuosamente, girava armato di spada e pugnale e frequentava allegre compagnie femminili, di cui i testimoni non hanno neppure reticenza a fare nomi. Crescenzio ebbe la faccia tosta di non presentarsi a nessuno dei processi in cui veniva accusato: la sua protervia fu comunque premiata, se si considera che mai nessuna condanna venne pronunciata contro di lui.


L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale Ex voto per grazia ricevuta, dedicato a santa Maria Maddalena, protettrice dei cartai fabrianesi, tempera su cartone di autore ignoto. 1599. Fabriano, chiesa di S. Maria Maddalena.

si esponenti della famiglia nelle istituzioni cittadine che passò il progressivo rafforzamento politico dei Chiavelli a Fabriano nel Due e nel Trecento: alcuni membri vennero eletti consoli, altri podestà, altri ancora rappresentanti per importanti ambascerie.

Da uno schieramento all’altro

Nei numerosi scontri fra guelfi e ghibellini durante la prima metà del Trecento i Chiavelli furono una delle famiglie marchigiane piú impegnate a creare disordini e ad agitare la violenza. Tommaso di Alberghetto, impostosi nel 1325 come gonfaloniere e difensore del popolo di Fabriano, spadroneggiò in città e avversò con ogni mezzo l’autorità della Chiesa avignonese, prendendo con decisione le parti dell’antipapa Niccolò V. Qualche anno piú tardi suo figlio Alberghetto II era eletto vicario imperiale da Ludovico il Bavaro e, combattendo sotto le insegne imperiali, mise a ferro e fuoco molti centri delle Marche: nella conquista di Roccacontrada, l’odierna Arcevia, allora castello fedele al papato, fece infatti trucidare molti uomini. Le sue imprese gli valsero ben presto la scomunica e la dichiarazione di ribelle alla Chiesa, ma per 100

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ragioni di opportunismo politico decise poi di venire di nuovo a patti con il governo pontificio. Il reiterato passaggio da uno schieramento politico a quello avverso valse ad Alberghetto una serie di condanne e assoluzioni come pochi seppero collezionare in quell’epoca di feroci scontri politici e ininterrotte guerre. L’esercizio delle armi era per i Chiavelli un’attività redditizia che ben si addiceva alla loro ascendenza signorile. Nel 1215 Alberto di Rinaldo riceveva dal Comune di Assisi una quietanza di pagamento per il servizio militare reso a cavallo nella guerra contro Perugia: una delle tante guerricciole fra Comuni vicini divenuta famosa per il fatto che fra i prigionieri assisiati a Collestrada c’era anche un giovane di nome Francesco, rimasto profondamente segnato da quella esperienza. Oltre un secolo e mezzo piú tardi, fra Tre e Quattrocento, Chiavello e Tommaso di Guido Napoletano svolgevano la professione di capitani di ventura al servizio delle grandi potenze dell’Italia settentrionale: la signoria viscontea e la Repubblica di Venezia. Nulla di originale, tuttavia. L’esercizio delle armi costituiva infatti l’attività piú comunemente praticata da molti signori dell’Italia


tardo-medievale per poter ottenere facili guadagni. Quello che invece contraddistingueva i Chiavelli da tutti gli altri era uno spietato senso per gli affari, un fine spirito imprenditoriale proteso verso la produzione artigianale e i commerci, raramente riscontrabile in una famiglia di origine signorile. Nel Basso Medioevo, Fabriano si era andata rapidamente trasformando in un dinamico centro produttivo specializzato nella lavorazione del ferro, della lana e del cuoio. Ma il settore di punta era l’industria cartaria, che esportava il pregiato prodotto finito sui mercati di mezza Europa: nel XIV secolo le rive del torrente che divideva in due l’abitato andarono progressivamente costellandosi di gualchiere per la carta. Grazie alla loro intraprendenza economica, i Chiavelli non mancarono di approfittarne e di trarre lauti guadagni dall’industria cartaria. Ecco dunque nel 1349 Guido Napolitano investire cospicue somme in varie società mercantili: una per il commercio della lana, una per quello delle conce, una per quello delle selle; dieci anni piú tardi Guido acquistava due gualchiere per produrre la carta alle porte della città. Nell’anno 1400, suo fratello Gualtiero disponeva in punto di morte di donare alla chiesa di S. Caterina in Fabriano i due terzi del suo patrimonio immobiliare, fra cui un mulino con due macine per fare la carta.

La massima fioritura

Qualche tempo dopo, Chiavello, figlio di Guido Napolitano affidava un’elemosina annua di 25 fiorini d’oro a un’altra chiesa urbana, quella di S. Lucia, eletta dal casato come luogo di sepoltura: la cifra sarebbe stata dedotta dal reddito di alcune delle numerose gualchiere per la carta possedute dalla famiglia. Il prestigio politico, il valore militare e i grandi patrimoni accumulati dalla famiglia costituirono nel secondo Trecento le basi per rendere stabile la signoria cittadina dei Chiavelli. Nel 1393 Guido Napolitano riceveva da papa Bonifacio IX la nomina di vicario apostolico, fatto che sanzionava il riconoscimento formale del suo governo su Fabriano. Si inaugurava cosí uno dei periodi piú floridi nella storia della famiglia: nel primo Quattrocento, sotto il dominio chiavellesco, Fabriano ospitava ventiquattro cavalieri armati, altrettanti dottori in legge e sette eccellenti medici. I Chiavelli avevano intanto eretto un palazzo nella piazza maggiore della città, mentre nella piazza del mercato si allineavano le loro botteghe e officine per la lavorazione della lana e del cuoio. Chiese ed edifici pubblici venivano abbelliti e ornati di opere d’arte commissionate da

LA DINASTIA CHE NON C’ERA I simboli di ogni età sono perennemente stati esposti alla cosiddetta damnatio memoriae, il processo, cioè, mediante il quale viene cancellata ogni traccia visibile, ogni testimonianza riguardo una persona, un’istituzione, un sovrano, ecc., in modo che non ne resti nemmeno il «ricordo». Come, insomma, se qualcuno o qualcosa non fossero mai esistiti per i posteri. Per quanto riguarda gli stemmi, e in particolar modo quelli medievali, le ricorrenti faide, le lotte di fazione, le guerre dinastiche, le scomuniche, portavano continuamente alla distruzione delle insegne dipinte o scolpite, dello sconfitto: un re deposto, un tiranno cacciato, una fazione rovesciata. Quanto accadde allo stemma dei Chiavelli è davvero un caso limite: si riuscí cosí bene a farne sparire le tracce, al punto che i piú diffusi ed esaurienti repertori d’araldica moderni non riportano in proposito alcuna notizia. L’eccidio del 1435 che condusse alla tragica fine della signoria, significò dunque anche l’oblio totale delle loro insegne. Non esiste forse una famiglia italiana, che abbia dominato tanto a lungo su una città (circa due secoli), della quale sia scomparsa ogni memoria simbolica: e la circostanza è tanto piú sorprendente, in quanto l’episodio della fine dei Chiavelli è avvenuto non in tempi remoti, ma in epoca relativamente vicina a noi. Per puro caso, in tempi abbastanza recenti, durante lavori di restauro, venne ritrovato uno stemma Chiavelli, che fu riposizionato nell’abside di una chiesa di Fabriano. È uno stemma semplice, tecnicamente un «fasciato increspato di nero e d’oro, al capo dell’Impero» (quest’ultimo denotava la fede ghibellina della famiglia). Il termine «increspato» designa le speciali fasce spezzate a zig zag: ma è probabilmente una definizione moderna; non si può escludere che nel Medioevo le fasce aguzze, come «inchiavardate» tra loro, fossero sentite «parlanti», per il nome Chiavelli. Alessandro Savorelli

Lo stemma dei Chiavelli, «fasciato increspato di nero e d’oro, al capo dell’Impero».

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale Adorazione dei Magi (particolare), tempera e oro su tavola di Gentile da Fabriano. 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi.

NIENTE TASSE PER IL MAESTRO La signoria dei Chiavelli può forse apparire dal punto di vista culturale, a tinte un po’ sbiadite se confrontata con quella di altre famiglie della stessa area geografica, come i Da Varano di Camerino e i Trinci di Foligno. Il modo di agire dei Chiavelli era infatti dettato da uno spirito imprenditoriale piuttosto che da amore per le lettere. Quella di Alberghetto di Guido, umanista studioso di latino e greco, ottimo oratore, rimase infatti una figura isolata: la biblioteca familiare da lui fondata venne bruciata in seguito all’eccidio del 1463. Ma è attraverso lo sviluppo delle arti figurative che si può cogliere il tono culturale della signoria chiavellesca: fra Tre e Quattrocento

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Fabriano rientrava infatti a pieno titolo fra i principali centri da cui si irradiò il gusto pittorico del «gotico fiorito». A Fabriano vide infatti la luce uno dei massimi pittori dell’epoca, Gentile. La città natale non doveva però esercitare troppa attrattiva su un personaggio eclettico e abituato a viaggiare fra le maggiori corti d’Italia. Nel marzo 1420 Tommaso Chiavelli accordò a Gentile la facoltà di restare in città, concedendogli alcune esenzioni fiscali, come il pittore stesso aveva scrupolosamente richiesto: l’artista ripartí tuttavia ben presto per Firenze, ove la sua raffinatissima arte poteva godere di maggiori consensi e possibilità di successo.


vari esponenti della famiglia. Nel 1415, quasi a compimento del processo di ascesa familiare, Tommaso promulgava nuovi statuti per la città: la raccolta di leggi, che fino ad allora aveva costituito il piú alto simbolo dell’autonomia cittadina, veniva ora emanata «ad onore ed esaltazione del magnifico signore e dei suoi figli», cosí come si può leggere nel proemio del testo.

Messa di sangue

Un potere destinato a durare ancora per molto? Il precipitare degli avvenimenti che seguirono ci insegna che non fu cosí. L’autorità dei Chiavelli riceveva larghi consensi fra il popolo minuto e i piccoli artigiani, che mal sopportavano la rigidità degli ordinamenti corporativi e la speculazione dei ricchi mercanti cittadini. Questi ultimi, tuttavia, si sentivano limitati nei loro interessi economici dal regime instaurato dai Chiavelli, teso a comprimere il ruolo politico delle arti maggiori. L’avversione alla signoria culminò nel 1435 nell’organizzazione di uno spietato eccidio di tutti i componenti della famiglia. Un’antica narrazione dei fatti conserva intatte le tinte fosche che caratterizzarono l’efferata esecuzio-

ne. Il giorno dell’Ascensione di quell’anno una quindicina di congiurati entrò nella chiesa di S. Venanzo, ove i Chiavelli erano radunati per assistere al rito della Messa. Il piano d’azione era già stato predisposto alla perfezione, tuttavia la sacralità del luogo induceva i congiurati a esitare: mentre veniva cantato il Credo, uno di essi si mosse come a chiedere il perché della generale reticenza ad agire, ma gli altri accolsero quel gesto come un segnale. Fu cosí che si levarono le grida d’attacco e vennero sfoderati i coltelli: in un battibaleno trovarono la morte con inaudita ferocia Tommaso Chiavelli, suo figlio Battista e otto suoi nipoti, sei dei quali, tutti figli di Battista, ancora in tenera età. Alcuni dei bambini vennero inseguiti e sgozzati in sagrestia. mentre altri furono raggiunti piú tardi nel palazzo, strappati dal petto della nutrice e scaraventati contro il muro. Soltanto le donne della casata furono risparmiate nella strage, anche se private dei loro beni dotali ed esiliate. Una carneficina poneva cosí fine alla storia di una famiglia che per due secoli aveva retto le sorti della città dí Fabriano, assicurandole una larga prosperità economica.

Marche di fabbrica del 1559 dei lanaioli fabrianesi, in un manoscritto membranaceo del XVII sec. Fabriano, Archivio Storico Comunale.

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COLONNA Discendenti dei Cesari La famiglia dei Colonna rivendicava origini illustri e risalenti addirittura all’antica Roma. Ma, accanto alla gloria, ebbe come obiettivo il potere, anche nelle gerarchie ecclesiastiche di Sandro Carocci

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ggi come nel passato, tante famiglie nobili vantano una discendenza remota, chi da una gens dell’antica Roma, chi da Carlo Magno o da qualche altro imperatore. Ma si tratta, appunto, di vanterie, di invenzioni, o nel caso migliore di supposizioni. In Italia, solo per poche famiglie tuttora esistenti è possibile ricostruire, con criteri scientifici e generazione dopo generazione, l’albero genealogico circostanziato fino al primo Duecento. Soltanto per un pugno di casati, poi, non si rivela impresa disperata, o puro esercizio di fantasia, l’arretrare ancora nel tempo. E i Colonna sono fra questi. La loro stirpe deriva, infatti, dal casato dei conti di Tuscolo, protagonisti attivi e influenti della vita romana del tardo X secolo e dell’età della Riforma gregoriana. Alla fine dell’XI secolo, quando il potere della famiglia inizia a essere minacciato dalla crescente autonomia del papato, assistiamo a una sorta di manovra di sganciamento. Un figlio del conte Tolomeo I di Tuscolo, Pietro, comincia a essere chiamato «della Colonna». Per qualche tempo opera assieme ai parenti, soprattutto nelle loro continue ribellioni al papato. Ma presto lo vediamo seguire una politica diversa, piú prudente, ovviamente causa di contrasti, anche violenti, con i suoi consanguinei. È tuttavia una scelta vincente, poiché i Tuscolani imboccano con rapidità la strada della decadenza, mentre i Colonna proseguiranno di fortuna in fortuna. All’inizio, è vero, necessità e prudenza consigliano loro di appartarsi dal gioco politico romano, dedicandosi a consolidare e ad accrescere i loro possedimenti nel Lazio meridionale: la

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Stemma dei principi Colonna, dall’Araldo nel quale si vedono delineate e colorite le armi de’ potentati e sovrani d’Europa… di Angelo Maria da Bologna, frate minore osservante. Inizi del XVIII sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. Nella pagina accanto Sciarra Colonna e Guglielmo Nogaret assalgono Bonifacio VIII il 7 settembre 1303, litografia acquarellata. Prima metà del XIX sec. L’episodio è ricordato come lo Schiaffo di Anagni, poiché si trattò di un oltraggio morale ai danni di papa Caetani.

città di Palestrina e i castelli di Zagarolo, Trevi e Colonna. È da quest’ultimo, un piccolo villaggio fortificato, che il ramo dissidente dei conti di Tuscolo prende il suo nome: con buona pace dei successivi Colonna, che vanteranno, già nel Medioevo, di trarre il proprio cognome dalla Colonna Traiana o, addirittura, da origini ancora piú illustri, cioè dalla colonna sulla quale Cristo venne flagellato, colonna che nel 1222 un cardinale di famiglia si preoccupa di importare dalla Terra Santa e di far sistemare, con gran cerimoniale, nella chiesa romana di S. Marcello.

Il secondo fondatore

Questo cardinale, Giovanni, è per molti aspetti il secondo fondatore della famiglia. Nominato alla porpora nel 1206, e subito – racconta un cronista – potentissimo, Giovanni è un personaggio centrale della lotta fra la Chiesa e Federico II, al quale tuttavia finisce con avvicinarsi nel 1240, suscitando la reazione del papa. Tutto il suo casato cade allora in disgrazia, ma nel frattempo i domini familiari si sono enorme-


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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale

mente ampliati, e i Colonna hanno acquistato potenti piazzaforti e palazzi in Roma. Loro è il mausoleo di Augusto, ben fortificato; loro gli edifici situati presso la Colonna Traiana, dove sorge tuttora il palazzo familiare; loro, infine, la collinetta di Montecitorio, munita di fortificazioni e ornata di superbi edifici. I Colonna, a questo punto, sono divenuti una delle piú importanti famiglie della grande nobiltà romana, dei cosiddetti baroni. Si tratta di poche stirpi celebri, che posseggono numerosi castelli nelle campagne circostanti la città, che 106

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dominano la vita politica comunale e che, soprattutto, sono strettamente legate alla Curia pontificia. Alla Chiesa forniscono condottieri, alti funzionari e, soprattutto, prelati di ogni tipo; dalla Chiesa ricevono appoggi di ogni genere e ricchezze immense. Alcune di queste famiglie riescono già nel Duecento a inviare un proprio membro sulla cattedra pontificia; i Colonna, per adesso, si devono accontentare di cardinali (Giacomo, Pietro, Giovanni, Agapito... ), vescovi, canonici. Per ottenere queste cariche lucrose non bastano


gli appoggi a Curia, servono anche capacità e cultura. Ecco allora che i Colonna acquistano, già nella prima metà del Duecento, una bella casa in Bologna dove mandare i propri giovani a studiare diritto all’università, ed ecco anche la grande preparazione culturale di cui danno prova non solo i chierici di famiglia, ma anche i laici: come un altro Giovanni, capo della famiglia nella seconda metà del XIII secolo, condottiero, podestà di numerosi Comuni italiani e potente senatore di Roma, che nel 1280, alla morte in odore di santità della sorella Margherita, è in grado di prendere la penna e di scriverne, in fluente latino, una lunga biografia. È una delle tante prove dell’elevata preparazione culturale e dell’amore per le lettere che connotano la famiglia, e che hanno trovato la massima espressione nella protezione accordata, ad Avignone, a Francesco Petrarca.

Bonifacio scatena la guerra

Insieme a Orsini e Annibaldi, alla fine del Duecento i Colonna sono la piú influente famiglia romana. Un qualche contrasto con i nuovi venuti nel mondo baronale, quei Caetani, parenti di papa Bonifacio VIII che cercano in tutti i modi di acquistare beni in città e fuori, è dunque inevitabile; ma lo scontro frontale che nel giro di pochi anni oppone i Colonna al papa nasce certamente anche dall’orgoglio di questa antica stirpe, dal fastidio verso l’arroganza di quella piccola famiglia ciociara, i Caetani, che il papa vuole loro anteporre. I fatti sono noti: il 3 maggio 1297, nei pressi del lago di Albano, i Colonna assalgono e saccheggiano una carovana di ottanta muli che portavano a Roma l’immenso tesoro (oltre 200 000 fiorini!) accumulato da Bonifacio VIII durante il suo cardinalato. Il papa reagisce furente, ottiene dai due cardinali Colonna l’immediata restituzione della somma, e impone poi una serie di garanzie che avrebbero significato la rovina della famiglia. Inizia allora una lotta feroce, in cui Bonifacio VIII investe tutte le sue energie e il suo odio: persegue con accanimento i sostenitori dei nemici, raduna un esercito imponente, proclama una crociata contro i ribelli, assedia e conquista i loro castelli, e infine li fa distruggere sistematicamente, cospargendo quindi di sale le rovine, in segno di perpetua sterilità. I Colonna si disperdono per l’Europa, in un esilio minacciato dai sicari papali e dalle peripezie della clandestinità, come quella, raccontataci dal Petrarca, di Sciarra Colonna, che durante una fuga in nave viene catturato dai pirati e per quattro anni, incatenato, costretto a remare

IMPOSSIBILE EQUIVOCARE «Di rosso alla colonna d’argento, base e capitello d’oro, sormontata da una corona dello stesso». Nella comune simbologia araldica la colonna ricorda, tra le virtú, la costanza, la rettitudine e la forza; oppure induce a meditare – e questo è l’aspetto «anagogico» dei simboli – sulla Flagellazione e sulla Passione di Cristo, dando anche un alto senso morale e religioso al complesso fenomeno araldico; nel caso dei Colonna, però, questi criteri, o altri, che avrebbero potuto presiedere alla scelta di tale arme non sono applicabili, in quanto si tratta di «arme parlante» o, come dicevano un tempo gli araldisti, «agalmonica»: uno stemma, cioè, in cui sussiste una palese correlazione tra il nome del proprietario e l’oggetto rappresentato nel suo scudo. La ricca, nobile e potente famiglia romana dei Colonna, che vanta anche un papa, Martino V, dimostra quanto sia errata la diffusa opinione che le armi parlanti siano meno «nobili» di altre. Massimo D. Papi

In alto lo stemma della famiglia Colonna. Si tratta di un’arme parlante, in cui, cioè, l’oggetto rappresentato illustra il nome del proprietario. Nella pagina accanto uno scorcio dei resti della rocca dei Colonna a Castel San Pietro Romano, borgo dei Monti Prenestini (Roma).

sulle galee prima di essere riscattato. Ma infine, nell’ottobre del 1303, Bonifacio VIII muore. Viene allora il momento della resa dei conti. Tramite alleanze preziose (come quella con il re di Francia Filippo il Bello), lunghi processi e anche passando a vie di fatto, con una guerra accanita, i Colonna riacquistano quasi tutti i loro antichi domini, riedificano le loro fortezze romane, ottengono che cardinali e prelati di famiglia siano reintegrati nelle loro cariche. Nella Roma dell’età avignonese, sono cosí, assieme agli Orsini, la famiglia piú potente; ad Avignone, i palazzi dei loro cardinali rappresentano un punto di riferimento essenziale per i maneggi di ogni tipo, ma anche per gli intellettuali in cerca di protettori. Nel secolo successivo, i Colonna mantengono questa posizione di preminenza. Un loro cardinale, Oddone, nel 1417 sale anzi al soglio papale col nome di Martino V: un papa energico, deciso, che riconquista alla Chiesa lo Stato Pontificio, andato perduto durante i decenni del Grande Scisma, e che fornisce alla famiglia ulteriore potere e ricchezze. Non meraviglia, quindi, che ancora per secoli i Colonna continuino a occupare una posizione di primissimo piano fra i ranghi della nobiltà italiana. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia centrale

UN’ARALDICA IN ODORE DI SANTITÀ

La necessità di rappresentarsi per mezzo di simboli e stemmi non fu propria soltanto delle case nobiliari. Anche le piú alte autorità ecclesiastiche (che non di rado accompagnavano il titolo religioso a uno feudale) elaborarono un complesso formulario iconografico, tutt’oggi in vigore. Esso ci mette in grado non soltanto di identificare un prelato, ma anche di illustrarne con precisione il grado gerarchico. Elmi e cimieri sono sostituiti dai copricapo, spade e lance dai bastoni pastorali, il cartiglio dal pallio. Osservando il colore di un cappello e il numero delle nappe che pendono da esso, per esempio, è possibile capire se abbiamo a che fare con un vescovo (cappello verde), un cardinale (rosso), un arcivescovo, un abate (nero o bianco, secondo l’Ordine) o un patriarca. Elementi aggiuntivi possono addirittura specificare incarichi od onori speciali nell’ambito della corte pontificia. Lo stemma del papa è sormontato da un ricco ombrello a padiglione, chiamato basilica, e sovrastato dalle chiavi di san Pietro. Ma in mezzo a tutti i segni sacri e pastorali c’è

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quasi sempre il blasone di un’importante famiglia aristocratica. Nei casi (abbastanza comuni nel Medioevo, piú rari durante il Rinascimento e le epoche successive) in cui il prelato non sia di nobili natali, lo stemma viene disegnato a bella posta e generalmente si caratterizza per il simbolismo religioso, caricandosi di croci, colombe, conchiglie (simboli di pellegrinaggio). Anche le badesse hanno diritto all’emblema (una targa romboidale), e ciò in conseguenza al grande potere che alcune fra loro esercitarono nei secoli. L’uso degli stemmi ecclesiastici ha subito un certo declino appena dopo il Concilio vaticano II, quando la Chiesa ha cercato di svecchiarsi e avvicinarsi ai fermenti culturali in corso, ma ha ora ritrovato piena fioritura. Sull’ingresso di moltissime chiese e basiliche pende una targa con l’emblema del vescovo locale. All’atto dell’investitura papale, lo stemma muta spesso qualche figura o colore (Giovanni Paolo II trasformò, per esempio, la croce e la «M» mariana da nera in oro).


Nella pagina accanto piatto in maiolica di Cafaggiolo con l’insegna di papa Leone X Medici. 1513-1521. Amsterdam, Rijksmuseum.

Stemma di Carlo di Borbone (1523-1590), cardinale di Avignone e poi arcivescovo di Rouen.

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ITALIA MERIDIONALE

ANGIOINI Tutto cominciò con Ingelger Napoli. Il Castel Nuovo (o Maschio Angioino), la poderosa fortezza voluta da Carlo I d’Angiò e costruita a partire dal 1279.


Originari della Francia, gli Angioini acquisirono il controllo del Mezzogiorno d’Italia, facendo di Napoli la capitale del proprio regno

di Tommaso Indelli

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a stirpe degli Angiò prende il nome dalla contea della Francia occidentale – capoluogo Angers – di cui era titolare fin dal X secolo. L’origine della signoria è incerta, ma va probabilmente ricercata nel IX-X secolo, durante il processo di disgregazione politico-territoriale del regno di Francia a seguito del conflitto tra Capetingi e Carolingi per la corona. In questo contesto di totale anarchia, un oscuro cavaliere – Ingelger – iniziò a ritagliarsi una base di potere nel territorio della futura contea. I possedimenti signorili furono organizzati in contea e consolidati dai suoi successori, tra cui sono da ricordare Folco il Rosso (929-942) e Goffredo Martello (1040-1060). Agli inizi del XII secolo, Folco V d’Angiò (1109-1129) abbandonò la contea per recarsi in Terra Santa e cingere la corona del regno di Gerusalemme, lasciando al figlio, Goffredo V «il Bello» († 1151), i possedimenti familiari. Goffredo fu conosciuto anche come «Plantageneto» – nome poi utilizzato per indicare l’intera stirpe angioina – dalla pianta di ginestra, plante de genêt – nella simbologia araldica familiare. Attraverso il matrimonio di Goffredo con la normanna Matilde († 1167), regina d’Inghilterra, e la nascita di un figlio – il futuro re Enrico II (1154-1189) – gli Angioini riuscirono ad acquisire il trono inglese. Da quel momento l’Angiò – con Poitou, Normandia e Aquitania – rimase in possesso della corona inglese fino al 1214, quando il re di Francia, Filippo II Augusto (1180-1214), sconfitto Giovanni Senza Terra (1199-1216), incorporò nel demanio regio quei possedimenti. Nel 1246, l’Angiò riacquistò la sua autonomia, perché il re di Francia, Luigi IX, lo concesse in appannaggio al fratello, Carlo, assieme alla contea del Maine. In quello stesso anno, dopo la morte del conte di Provenza, Raimondo Berengario IV († 1245), e il matrimonio tra la figlia del conte, Beatrice († 1267) – sorella di Margherita († 1295), moglie di re Luigi – e Carlo d’Angiò, anche la Provenza e la contea di Forcalquier – un’enclave nell’Alta Borgogna, territorio di pertinenza imperiale – passarono nelle mani di Carlo. La conquista di Napoli, nel 1266, rese Carlo d’Angiò signore di un’enorme compagine, i cui pezzi, però, mantenevano proprie distinte identità istituzionali e linguistiche, oltre che differenti vocazioni economiche, trovando l’unità solo nella persona del sovrano. Contrariamente alla Provenza, che seguí il destino del regno di ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia meridionale

I re di Sicilia e Napoli Beatrice contessa di Provenza † 1267

Carlo II lo Zoppo (principe di Salerno) conte d’Angiò e del Maine 1285-1290 conte di Provenza, principe di Acaia 1285-1289 re di Sicilia 1285-1309

=

=

Luigi (s. Ludovico) vesc. di Tolosa † 1297

Bertrando del Balzo conte di Montescaglioso di Squillace e d’Andria

Isabella di Villehardouin principessa d’Acaia e di Morea † 1312

Iolanda d’Aragona = † 1302

Eleonora † 1341 = Federico II d’Aragona re di Sicilia

Caterina d’Austria = Carlo = † 1323 duca figlia di Alberto I di Calabria re di Germania † 1328

Luigi principe di Taranto † 1362 Giacomo III d’Aragona-Maiorca † 1375 Ottone duca di BrunswickGrubenhagen † 1399

ARALDICA

Margherita di Borgogna contessa di Tonnerre † 1308

Beatrice

= Filippo di Courtenay imp. tit. di Costantinopoli † 1283

Roberto = duca di Calabria 1307 conte di Provenza 1309 re di Sicilia 1309-1343

Giacomo = Maria = Sancio d’Aragona d’Aragona re di Maiorca signore di Xerica

Andrea d’Ungheria † 1355

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=

Ladislao IV = Isabella re d’Ungheria † post 1300

In alto reale d’oro di Carlo I d’Angiò. Zecca di Messina, 1266-1285. Al dritto, il busto coronato del sovrano; al rovescio, lo stemma della casata angioina.

Maria D’Aquino † 1382

Filippo = principe di Acaia 1267 † 1277

Maria d’Ungheria figlia di Stefano V re d’Ungheria

Carlo Martello re tit. d’Ungheria

Azzo VIII = Beatrice d’Este † ante. signore di 1321 Ferrara

CARLO I Conte di Provenza 1245, d’Angiò e del Maine 1246 princ. di Acaia 1278, re di Gerusalemme 1278 re di Sicilia 1266-1285

=

=

Giacomo II re d’Aragona

=

Bianca † 1310

Sancia d’Aragona † 1345

Giovanni duca di Durazzo

Carlo = di Valois

Filippo principe di Taranto

Margherita † 1299

Margherita di Valois † 1328 figlia di Carlo di Valois

Giovanna I contessa di Provenza regina di Sicilia (1343-1371) e poi di Napoli dep. 1381 † 1382

Maria † 1366

=

Carlo duca di Durazzo † 1348 Roberto del Balzo Conte di Avellino † 1353 Filippo II princ. di Taranto † 1373


Napoli fino all’estinzione della dinastia angioina, Angiò e Maine tornarono alla Francia, in seguito al matrimonio tra Margherita († 1299), figlia di Carlo II di Napoli, e Carlo, duca di Valois († 1325), fratello del re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314). Carlo trasmise Angiò e Maine ai suoi discendenti, finché il re di Francia, Giovanni II il Buono (1350-1364), non decise di innalzarli a ducato e di concederli, in appannaggio, a suo figlio, Luigi d’Angiò, futuro pretendente al trono di Napoli.

Il ramo ungherese

L’origine del ramo ungherese della stirpe angioina va ricercata nella complessa politica matrimoniale perseguita da Carlo II d’Angiò. Presagendo l’estinzione della dinastia magiara degli Arpad, Carlo – che aveva sposato la principessa Maria († 1323), figlia del re Stefano V (1270-1272) – candidò al trono ungherese il figlio, Carlo Martello. La morte improvvisa di Carlo Martello, nel 1295, spinse il sovrano di Napoli a trasferire i diritti dinastici al nipote Carlo Roberto, il quale, a partire dal 1301, dopo la morte dell’ultimo Arpad – Andrea III – iniziò la conquista del regno magiaro. I pretendenti, infatti, non erano pochi, poiché sia il re di Boemia, Venceslao III († 1306), che il conte di Tirolo e di Carinzia, Enrico († 1335), aspiravano al trono. La guerra si concluse nel 1308, con la vittoria di Carlo Roberto. Per consolidare i rapporti tra i due rami della stirpe ed evitare conflitti violenti per la successione, il nuovo re di Napoli, Roberto d’Angiò, decise di combinare le nozze tra la nipote, Giovanna, e uno dei figli di Carlo Roberto, Andrea. Le nozze furono celebrate a Napoli, nel 1333, ma non ebbero l’esito sperato, perché i coniugi si detestavano e i loro pessimi rapporti, alla fine, sfociarono nell’assassinio di Andrea, nel 1345. L’uccisione del principe consorte fu, molto probabilmente, ordita negli ambienti di corte con la complicità di Giovanna. Il fratello di Andrea, Luigi il Grande – nel frattempo diventato re di Ungheria (1342-1382) – invase il regno di Napoli per catturare la cugina, ma non riuscí nel suo intento. In quei tristi frangenti morí – non si sa se assassinato o di morte naturale – anche Carlo, il figlio che Giovanna aveva avuto da Andrea. La regina riuscí a tornare a Napoli alcuni anni dopo ma, per le pressioni che Luigi

A destra Napoli, chiesa di S. Maria Donnaregina Vecchia. Il monumento funebre di Maria d’Ungheria, eseguito nel 1325, su commissione del figlio Roberto d’Angiò, da Tino di Camaino con la collaborazione di Gagliardo Primariore. In basso statua di Carlo d’Angiò, re di Sicilia e senatore di Roma. Opera di Arnolfo di Cambio, 1277 circa. Roma, Musei Capitolini.

esercitò sul papa, Clemente VI (1342-1352), signore feudale del regno, fu messa sotto processo per omicidio. Il processo si risolse in una farsa e presto Giovanna fu assolta grazie alla rinuncia, a favore del pontefice, della città di Avignone che, fino a quel momento, rientrava nei suoi domini. Nel 1370, alla morte – senza discendenti – del re di Polonia, Casimiro III (1333-1370), Luigi il Grande assunse anche la corona di questo regno con la complicità della madre, Elisabetta († 1380) sorella di Casimiro. Fu anche questa un’unione personale tra compagini che conservarono istituzioni e culture distinte e destinata a durare appena un decennio. Infatti, nel 1382, alla morte di Luigi, i regni di Polonia e Ungheria si separarono: la Polonia fu portata in dote da Edvige († 1399) – figlia del defunto – al marito Jagellone (1386-1434), granduca di Lituania. Poiché Jagellone era ancora «pagano», gli fu imposto il battesimo e solo allora poté sposarsi e diventare, ufficialmente, re di Polonia (1386). La corona d’Ungheria, invece, andò nel 1387 al duca di Lussemburgo, Sigismondo, marito dell’altra figlia di Luigi, Maria († 1395). ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia meridionale

O CESARE O NULLA «Tornò da Roma in trionfo due volte tutta Italia agitò di guerre condusse sul Tirreno in armi le sue terribili bandiere Stringeva già l’Arno ribelle ai ponti quando la morte gli vietò di compiere la sua sesta olimpiade». Cosí i versi latini di Jacopo Sannazzaro riassumono le imprese di Ladislao di Durazzo, ultimo re maschio di Napoli. Esaltato, impetuoso, smodato in ogni cosa, accarezzò seriamente l’idea di un Regno panitalico, che sembrò a portata di mano all’inizio del Quattrocento. Le sue virtú militari furono sovrastimate, ma la congiuntura favorevole lo trasformò in uno spauracchio per gli Stati pontifici, che devastò e occupò in gran parte, e per Firenze (l’«Arno ribelle» del poeta). Nel 1410 batté sul mare i rivali angioini di Francia, nel 1413 prese Roma; impadronitosi di Perugia, si accingeva a invadere la Toscana, quando, trentottenne, si ammalò gravemente. Con una violenta emorragia prostatica, si fece condurre a Napoli in lettiga e morí il 6 agosto 1414. Come già accadde con Enrico VII, Castruccio e GianGaleazzo Visconti, la morte del nemico salvò la Repubblica fiorentina. Un cronista, Pandolfo Collenuccio, diede voce ai sospetti che fosse stato eliminato per ordine di agenti fiorentini, che avrebbero convinto un medico perugino, la cui figlia Ladislao teneva per amante, a somministrare ai due un unguento afrodisiaco mescolato con «succo di napello, prestantissimo veneno»: questa specie di Rigoletto umbro volle cosí vendicarsi dell’oltraggio e – dice il cronista – riempirsi la borsa di fiorini. È una diceria mai confermata: probabilmente Ladislao aveva contratto una malattia venerea a seguito dei suoi eccessi erotici. La sua tomba in S. Giovanni a Carbonara (Napoli) è un monumento esagerato, come lui, di gusto barbarico. Come già aveva fatto in S. Pietro a Roma, con gesto irriverente per uno spazio sacro che gli fu mosso a biasimo, il sovrano è effigiato a cavallo e a spada sguainata. Le sue «terribili bandiere» recavano il motto «Aut Caesar aut nihil» («O Cesare o nulla») e forse anche le bestie araldiche che sovrastano il suo stemma coi segni degli ultimi Angiò (le fasce ungheresi, i gigli e la croce di Gerusalemme). La prima è lo struzzo con in bocca un ferro di cavallo, cimiero dei re ungheresi: nei bestiari medievali l’animale è proverbiale per la sua capacità di digerire tutto, come reciterà poi la celebre impresa di Paolo Giovio («Spiritus durissima coquit»), a tutti nota oggi come marchio editoriale. Il secondo cimiero, meno noto ma altrettanto spettacolare, reca gli Angeli, anch’essi attributo della Corona ungherese, e un elefante: quest’ultimo forse allude alla potenza, forse ad Annibale, forse a una nota simbologia della città di Roma. In ogni caso era il manifesto di un sogno imperiale mancato. Alessandro Savorelli

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IL TRIBUTO DELLA SORELLA La costruzione dell’imponente sepolcro di re Ladislao nella chiesa trecentesca di S. Giovanni a Carbonara, voluto dalla sorella Giovanna II succedutagli sul trono di Napoli, iniziò l’anno della morte del re e si protrasse per alcuni anni. Tradizionalmente attribuito ad Andrea da Firenze, in realtà probabile opera di piú artisti toscani e settentrionali, il monumento, che con i suoi 18 metri raggiunge l’altezza della cappella maggiore, è sostenuto da quattro colossali cariatidi che rappresentano le Virtú (Temperanza, Fortezza, Prudenza e Magnanimità), tra le quali si apre l’accesso alla cappella Caracciolo del Sole. In una grande nicchia formata da un arco a tutto sesto e da due archi trilobi trovano posto sei statue con figure sedute: al centro, Ladislao e Giovanna in trono, affiancati da gruppi di Virtú. In alto, il sarcofago è adornato con le quattro sculture di Ladislao, Giovanna e i genitori, Carlo III e Margherita, collocate entro piccole nicchie, ed è sormontato dalla figura del re giacente benedetto da un vescovo (sebbene nella realtà storica fosse morto scomunicato). Sulla sommità, corona il monumento la statua di Ladislao a cavallo, completa di armatura e con la spada sguainata, iconografia piuttosto rara all’interno di una chiesa. Completa l’insieme una folla di statuine raffiguranti apostoli, profeti e monarchi e di rilievi in cui è piú volte ripetuto lo stemma reale.


In alto stemma di Ladislao di Durazzo, re di Napoli, nel quale è raffigurato il cimiero con l’elefante. A destra e nella pagina accanto veduta d’insieme e particolare dell’imponente monumento sepolcrale in stile tardo-gotico fatto realizzare dalla regina di Napoli Giovanna II per il fratello Ladislao. La sua costruzione iniziò l’anno della morte del re (1414) andando avanti per alcuni anni.

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia meridionale

DE COMITE Amalfitani sul Bosforo Le vicende della famiglia De Comite e, in particolare, di Mauro e di suo figlio Pantaleone sono lo specchio di un proficuo e consolidato rapporto con la capitale dell’impero bizantino di Gerardo Sangermano

A

i frequenti e significativi rapporti lungo la duplice direttrice Occidente-Oriente, nei quali tanta parte ebbero il Mezzogiorno d’Italia e, in particolare, le città di mare della Campania, ci riporta una famiglia di Amalfitani, emigrati non sappiamo quando, ma che troviamo già affermati a Costantinopoli nell’XI secolo. Appartenenti all’antica nobiltà comitale, finirono poi per assumere quasi come «cognome» appunto quello di «de Comite»; si trattava di una famiglia numerosa, ma divenne nota soprattutto per due suoi esponenti, padre e figlio, Mauro e Pantaleone. Delle loro prime vicende non conosciamo molto, anzi quasi nulla, se non un tratto della loro genealogia: «Pantaleo filius Mauri de Pantaleone de Mauro de Mauronis Camite». Certo è che quando li incontriamo sono già ricchi da non credere e in posizione di potere: due vip con capitali disponibili e con le amicizie giuste anche in un ambiente non facile come quello della capitale bizantina. Piú portato alle opere di carità il padre; di temperamenco manageriale il figlio, senza dimenticare l’utilità e l’importanza di agire in un clima politico favorevole. Mauro, all’inizio dell’XI secolo, aveva, infatti, fatto edificare a proprie spese, al dire del cronista Amato di Montecassino, due hospitalia ad Antiochia e a Gerusalemme alle cui necessità provvedeva personalmente, in ciò tuttavia aiutato, ed è assai significativo, dalle «elemosine» sia degli Amalfitani che navigavano sia di quelli rimasti in patria, almeno stando alla testimonianza di Guglielmo di Tiro. Suo figlio Pantaleone, invece, intorno al 1062,

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aveva ben altre preoccupazioni. I Normanni erano sul punto di dilagare in Italia meridionale e la sua Amalfi vedeva ormai minacciate da vicino le proprie chances mercantili; e poi questi cavalieri del Nord non piacevano neppure ai signori di Bisanzio. Bisognava fare qualcosa a ogni costo e Pantaleone ci provò. Si rivolse allora a Benzone, vescovo di Alba – noto sostenitore del partito ostile al papa riformatore Gregorio VII e, di conseguenza, anche ai nuovi arrivati – sollecitando da lui la mediazione dell’antipapa Cadalo per un’alleanza in funzione antinormanna tra i due imperatori, Enrico IV e Costantino duca. E non fu tutto: egli stesso si fece «corriere espresso» di messaggi dell’imperatore bizantino volti a sollecitare, attraverso Benzone, Enrico, al quale infine Costantino giunse a promettere personalmente – ma certo garantito dagli Amalfitani legati a Pantaleone – «cento navi cariche di quantità sterminate di vettovaglie e alimenti per uomini e cavalli» destinate all’esercito tedesco nel porto di Amalfi e ancora «soldi in abbondanza in auro argento et palliis».

I Normanni hanno la meglio

Le cose però non sembravano mettersi bene. Ma Pantaleone non era certo tipo da arrendersi e giocò ancora una carta; nella sua casa, infatti, si fermarono ospiti, certo non casualmente, il principe di Salerno Gisulfo II, l’arcivescovo della città Alfano e altri vescovi, con un seguito di alcune centinaia di persone, pur essi in missione antinormanna presso Costantino. Ma non ci fu nulla da fare: Cadalo fu messo da parte da

Uno scorcio del Duomo di Amalfi (o cattedrale di S. Andrea).


Alessandro II, favorevole ai Normanni che cosí l’ebbero vinta, mentre l’ambasceria salernitana ritornava in patria senza speranze. Lo stesso Pantaleone, recatosi a Roma per incontrare l’antipapa, lo trovò già rinchiuso in Castel Sant’Angelo, tanto che, per raggiungerlo, lui e i suoi accompagnatori dovettero fingersi mercanti in giro per commerci. Pantaleone passò allora a occuparsi di altro. Dopo aver donato, infatti, alla cattedrale della sua città (1065) le splendide porte bronzee, ancora oggi in sito, fuse da Simeone di Siria a Costantinopoli, arricchí di simili doni preziosi anche S. Paolo fuori le Mura in Roma (1070) e la basilica di S. Michele Arcangelo sul Gargano (1076). Ma, a pensarci bene, forse era ancora un’operazione

finalizzata ad «avvicinare» i vincitori: infatti le date sono singolarmente coincidenti: il 1070 è l’anno a partire dal quale si fa ancora piú incisiva l’azione del filonormanno abate cassinese Desiderio, e il 1076 quello della definitiva conquista di Amalfi da parte del duca di Puglia. Del resto, nel 1071 suo padre Mauro è tra i potenti del mondo stretti intorno ad Alessandro II nella cerimonia di consacrazione della nuova basilica cassinese, voluta da Desiderio, nel corso della quale furono anche disegnati i nuovi equilibri politici, auspice ancora l’abate; lo stesso al quale Mauro aveva pochi anni prima (1066) donato le porte bronzee per la erigenda basilica (in seguito, insieme ai figli, gli regalerà anche una splendida cassetta di avorio, oggi ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia meridionale

SOTTO LA GUIDA DI FRA’ GERARDO L’ospedale fondato da Mauro de Comite in Gerusalemme, contiguo al monastero amalfitano di S. Maria de Latina, doveva essere, stando a piú testimonianze, di dimensioni davvero ragguardevoli sostenuto com’era da 64 pilastri e 124 colonne e capace di ben 1200 posti letto; al suo interno l’importante chiesa dedicata a san Giovanni Battista dalla quale l’ospedale stesso prese il nome. Gli addetti al servizio dei malati si diedero ben presto un’organizzazione quasi monastica, della quale fu primo responsabile – instilutor ac prepositus, sancisce la bolla di Pasquale II del 1113 – un Gerardus, uomo di vita santa, peraltro anch’egli laico. Questa fondazione assume rilievo perché proptio a essa si deve far risalire l’origine dei «Cavalieri Gerosolimitani», detti perciò «di S. Giovanni» o «Giovanniti» e da ultimo, in seguito ad altre vicende, «di Malta». Per una lunga e consolidata, e tuttavia discussa, tradizione storiografica, il fondatore dell’Ordine (solo con il successore, però, si ebbe la svolta militare tuttora vigente) l’umile fra’ Gerardo viene ritenuto un amalfitano di Scala (forse l’insediamento piú antico del Ducato) membro della famiglia «de Saxo» (Sasso) appartenente all’aristocrazia locale. Certezze non ve ne sono, ma di sicuro non possono essere sottovalutati né i diritti e le ragioni della coscienza storica, né la grande presenza amalfitana nel complesso ospedaliero e la continuità istituzionale e topografica con il monastero pur esso amalfitano, di S. Maria de Latina. Del resto negli ultimi trent’anni le stesse supreme Magistrature dell’Ordine sembrano aver accettato definitivamente questa tesi.

conservata nell’abbazia di Farfa), dopo che l’abate, nel 1065, aveva ammirato quelle collocate all’ingresso del duomo di Amalfi, manifestando il desiderio di poterne avere di eguali.

Un’inutile intercessione

Ma il padre di Pantaleone è a Montecassino, forte dei legami di famiglia, anche per mediare una pace tra la sua Amalfi e Gisulfo II. Invano.

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In basso cassetta in avorio commissionata da Mauro de Comite a una bottega amalfitana. XI sec. Farfa, Abbazia benedettina di S. Maria.

Le porte bronzee realizzate a Costantinopoli da Simeone di Siria su incarico di Pantaleone de Comite e da questi donate alla cattedrale di Amalfi.

Cattivo cliente il principe salernitano: memore dell’ospitalità a Costantinopoli, concederà invece soltanto garanzie personali ai figli di Mauro. Anzi, neppure quelle. Quando ne catturerà anni dopo uno, chiederà un riscatto di 30 000 soldi doro; un’enormità anche per i Comite Maurone e infatti Pantaleone e i fratelli proveranno ad aprire una trattativa offrendone 10 000: tutto inutile, il prigioniero, dopo terribili torture, venne affogato in mare, malgrado l’intercessione pressante – e questo dimostra il potere della famiglia – dell’abate e dei monaci di Montecassino e dell’imperatrice tedesca Agnese, addirittura venuta a bella posta a Salerno. Un amalfitano «di fuori», con un suo prestigio anche politico Pantaleone; amalfitano come costantemente si qualificò e fu individuato pur vivendo di fatto sempre lontano dalla sua città. Cosí infatti ancora lo ricordava il carme pisano per la vittoria contro al Mahdia (1087), dominata dalla dinastia zirita dell’emiro Tamin, impresa alla quale il nostro partecipò con tutto il peso della sua potenza economica e della sua flotta e dove appunto «refulsit Pantaleo malfitanus inter grecos hypatos» («brillò Pantaleone l’“amalfitano” tra i Bizantini riconosciuto hypatos [console]»).


IL GOVERNO DEI «SEGGI» Per le scale di Palazzo Filomarino, nel centro di Napoli, che fu di Benedetto Croce, ed è sede oggi dell’Istituto italiano per gli Studi Storici, c’è un curioso bassorilievo. Raffigura un uomo barbuto e villoso – o squamoso – che brandisce un coltellaccio. Se chiedete chi è, vi si risponderà probabilmente: «Colapesce» o «Niccolò Pesce»: il protagonista cioè di una favola popolare, mezzo uomo e mezzo pesce, che sfruttava la sua natura anfibia nuotando sott’acqua e sbudellando i pesci col suo coltello. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’araldica? Un po’ c’entra: lo strano essere è infatti da molti secoli lo stemma di uno dei «Sedili» o «Seggi» di Napoli, il Sedile di «Porto». La tradizione vuole che durante gli scavi per la costruzione del loggiato del Sedile, nel Trecento, fosse rinvenuto un antico rilievo con la misteriosa figura. Chi dice raffigurasse Orione, chi altri personaggi mitologici: da allora l’uomo barbuto col coltello, identificato dal popolino con Colapesce, divenne il simbolo del Sedile. I «Sedili» erano le istituzioni amministrative in cui fu ripartita Napoli dal Medioevo fino al 1799. Da tempo gli edifici che le ospitavano non esistono piú. Benedetto Croce non sapeva rassegnarsi all’idea che quei monumenti legati alla tormentata storia della città fossero andati demoliti o – come scriveva – ridotti a ospitare «botteghe di statue sacre, di pasticceria e pompe funebri» o «una grande taverna di friggitore, che manda alle nari di chi s’approssima tutt’altro che incenso»… La storia dei Sedili è complicata: al tempo della conquista angioina la città era divisa in circa 20 «piazze» nobili («platee») e 25 piazze riservate al Popolo. Nel 1301 compaiono 5 Sedili nobili, 11 Sedili «misti» e 4 Sedili

riservati al Popolo. Poco dopo avvenne una serrata nobiliare. Si formarono cosí 5 Sedili, di cui 2 riservati alla nobiltà «piú antica» (quelli di «Capuana» e «Nido») e altri 3: «Montagna»,«Porto» e «Portanova». Attraverso i Sedili – spesso in aspra lite fra loro – si partecipava all’amministrazione civica, alla ripartizione della pressione fiscale e talora alla difesa militare della città; l’ascrizione ai Sedili era importante perché consentiva l’accesso alle cariche e alla gestione delle varie amministrazioni pubbliche. Alla fine del Trecento i nobili presero sempre piú il sopravvento, dominando di fatto i Sedili che eleggevano la magistratura «dei 6», un consiglio che mediava tra assemblee dei cittadini e lo Stato. Ma piú tardi ricomparvero altri 2 Sedili, quello di «Forcella» e quello del «Popolo». L’araldica dei Sedili di Napoli è tutta curiosa e interessante. I due Sedili piú antichi, Capuana e Nido, recavano per stemma un «cavallo», differenziandone solo i colori: non tutti sanno che il cavallo era forse in origine il simbolo di Napoli, che comparve sulle monete dopo il 1250. Su questo simbolo, che sembra derivato da due antiche statue equestri poste nel centro della città, fiorí piú d’una leggenda. Per esempio si diceva che Carlo d’Angiò, entrando in Napoli e scorgendo le statue dei cavalli, avesse enunciato il proposito di «metter loro il freno»: insomma un ben preciso programma politico! L’emblema del «ciuco», popolare nella città partenopea (il «ciucciariello», come si dice a Napoli) deriva proprio da una deformazione scherzosa dell’antico simbolo equino, che restò in uso fino ai tempi dei Borboni (il famoso «cavallino» dei primi francobolli napoletani). Del Sedile di Porto abbiamo detto: restano gli altri due, Portanova, con una «porta» d’oro e Montagna, con un «monte» che a volte si dipinge a due cime, come il Vesuvio: che del resto popolarmente a Napoli si chiama «’a muntagna», per antonomasia. Forcella e Popolo, i Sedili piú recenti, usarono per stemma semplicemente una «Y» (una «forcella» appunto) e una «P», sovrapposte all’insegna gialla e rossa del Comune di Napoli. Chi vuol vedere tutta la serie degli stemmi, la troverà sulla facciata della bellissima chiesa gotica di S. Lorenzo. Alessandro Savorelli

In alto manoscritto settecentesco con gli stemmi dei Sedili. Napoli, Biblioteca Nazionale. A sinistra gli stessi emblemi, in terracotta, sulla facciata della chiesa di S. Lorenzo, a Napoli. ARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia meridionale

RUFFO Al galoppo verso il potere

Forti dell’appoggio dell’imperatore Federico II di Svevia, che ne aveva assai apprezzato la passione per i cavalli, i Ruffo si imposero come una delle piú importanti casate del Meridione italiano 120

ARALDICA


di Serena Morelli Il castello Ruffo di Scilla (Reggio Calabria). In basso stemma del Regno delle Due Sicilie, olio su tavola. XIX sec. Aleppo, Collezione Georges Antaki.

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hi non ha mai sentito parlare di Paola Ruffo, ex regina dei Belgi? A chi non è mai capitato di vedere Melba, moglie di Fabrizio Ruffo, in qualche programma televisivo di successo? Spesso presenti sui nostri principali settimanali, la regina e la sua nipote acquisita fanno rivivere, anche tra chi non si intende di genealogie e di casate nobiliari, la memoria e i fasti della famiglia Ruffo. Di essa si sa che si è formata in tempi remoti in Calabria; meno risaputo invece è che alle origini della fortuna dei Ruffo c’è la passione per i cavalli e la competenza che essi avevano su tutto quanto riguardava l’ippica, passione che li rese particolarmente benvisti alla corte di Federico II, il quale con grande attenzione badava a che le proprie scuderie fossero sempre efficienti e fornite di animali di razza. Di origini forse normanne, la loro prima testimonianza documentaria come baroni in Calabria e a corte risale al 1239, anno in cui si ha notizia di un certo Giordano Ruffo, familiare di Federico II, castellano, maniscalco e autore di un trattato di ippiatria, la branca della veterinaria che si occupa dei cavalli. È, Giordano, il nipote di quel Fulco Ruffo, che fece parte dei rimatori della Scuola Siciliana presso Federico II, e di Pietro Ruffo al quale la famiglia deve la sua prima ascesa politico-amministrativa. Esperto e appassionato di cavalli

come Giordano, Pietro ricoprí un’importante carica in Calabria, quella di maestro maniscalco, addetto cioè alla cura delle scuderie regie, riuscendo a conquistare la fiducia dell’imperatore al punto da ricevere la nomina prima di giustiziere, poi di maestro maresciallo del Regno e quindi di vicario in Sicilia e Calabria. È dunque a partire dalla metà del Duecento che la famiglia assurge ai massimi livelli dell’aristocrazia e diventa protagonista delle vicende politiche del Mezzogiorno, grazie soprattutto ad alcuni rappresentanti del casato dalla personalità forte e incisiva. Tra questi, per parte femminile, Covella ed Enrichetta Ruffo e, per parte maschile, Pietro Ruffo e il suo omonimo nipote: esperto diplomatico e politico il primo, abile militare e condottiero il secondo.

Una lungimiranza interessata

Ma in che consisteva la potenza della famiglia Ruffo? E che cosa c’è all’origine della loro ricchezza? Senz’altro, tra le numerose variabili, un posto di rilievo lo ebbe la politica di Federico II, volta a garantirsi la fedeltà e il favore di una famiglia nobile in ogni regione del Mezzogiorno, consentendone il potenziamento del patrimonio territoriale. In Calabria l’imperatore privilegiò i Ruffo, la cui vicenda diventa emblematica delle modalità di ascesa sociale e dunque del successo di molte famiglie del Mezzogiorno

UN’INSEGNA COME UN LIBRO DI STORIA L’estrema complessità che caratterizza lo stemma del Regno delle Due Sicilie rappresenta una sintesi della storia familiare dei Borbone, sul trono dal 1734 al 1861. L’arme gentilizia d’origine, lo scudo azzurro gigliato d’oro, sta al centro del blasone, proprio sopra gli stemmi d’Asburgo e di Borgogna, strettamente imparentati. A sinistra, lo scudetto del Portogallo si sovrappone agli emblemi di Farnese, Asburgo, e Borgogna (qui nella sua variante antica, d’oro a tre bande azzurre). Nella parte alta dello stemma campeggiano i colori di Castiglia-León, Aragona e Sicilia, legati alla casa reale precedente. A destra, le palle della famiglia Medici (la palla azzurra con i gigli d’oro fu concessa a Piero de’ Medici da Luigi XI di Francia nel 1465 e da allora fu sempre portata in aggiunta all’arma originale di famiglia), mentre in basso si notano gli stemmi di Brabante, Fiandre, Angiò, Tirolo e Regno di Gerusalemme. I collari che pendono dallo scudo rappresentano gli ordini cavallereschi della casata, fra cui quello di San Gennaro (la croce rossa a otto punte nel centro) e del Toson d’Oro (piú in basso), massima onorificenza spagnola. Lo stemma fu definito in questa forma nel 1816 da Ferdinando IV che, terminato il dominio napoleonico, volle celebrare la restaurazione del Regno assumendo il titolo di Ferdinando I Re delle Due Sicilie.


L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia meridionale

DEVOTI A SAN GIACOMO «Troncato cuneato d’argento e di nero; il I a tre conchiglie di San Giacomo al naturale poste in fascia». Questo blasone indica uno scudo che, diviso orizzontalmente in due campi (argento in alto e nero in basso) da una linea «a denti di sega» – solitamente con quattro denti «pieni» superiori che si incuneano in tre «pieni» e due «mezzi» inferiori; diversamente andrebbero blasonati – presenta al centro del campo superiore b·e conchiglie, l’una accanto all’altra, di colore che – essendo «naturale» – può presentarsi grigio perla, giallo chiaro, marrone screziato, ecc. Questa la semplice descrizione formale; piú complessa la lettura simbolica e la contestualizzazione degli elementi: già la scelta di contrapporre gli smalti argento (bianco) e nero – al di là di ogni considerazione di gusto, di convenienza o di casualità, mai troppo esaminate o valutate – potrebbe lasciare adito a una ricercata e manifesta dichiarazione di compresenza di spirituale e di materiale, di divino e di terreno: «la mente al cielo ma i piedi per terra» in colui che questo stemma abbia assunto. Stretta connessione tra l’Alto e il Basso sottolineata anche dalla particolare linea che li unisce: non una retta che separa e distingue, ma una linea spezzata che «incunea» i due elementi in modo forte e stabile. E non è difficile, sfogliando la storia di questa famiglia la quale, sebbene non siano documentate le origini tardoromane dalla gens Rufa, svolse fin dal X secolo un ruolo predominante in Calabria, leggervi la compresenza di questi elementi. Si può obiettare, è vero, che anche i Capponi di Firenze – altra antica, nobile e prestigiosa famiglia – presentano uno scudo con gli stessi smalti e che le malelingue cittadine avevano visto in quello stemma il loro stare «un po’ di qua e un po’ di la» in ambito politico; ci piace però sostenere per i Ruffo – e anche per i Capponi – un motivo piú nobile. Anche le conchiglie hanno un significato, ma questa volta piú preciso: indicano la devozione all’apostolo Giacomo e il pellegrinaggio alla sua tomba, a Santiago di Compostella; cosí come i pellegrini al ritorno dalla tomba di Pietro a Roma portavano le chiavi o, dalla Terra Santa, la Croce di Gerusalemme. Ed è, la conchiglia, un attributo al quale i Ruffo di Calabria erano particolarmente affezionati, dal momento che sono gli unici tra i vari rami e linee collaterali – tutti con gli stessi smalti e la stessa partizione – ad averlo mantenuto. Non possiamo, infine, non ricordare il cimiero, quella costruzione sopra l’elmo che spesso – ma non sempre – riporta la figura dello scudo, come per dargli una forza ulteriore, un maggior prestigio e una ancor piú incombente minaccia presentandosi piú in alto e questa volta addirittura tridimensionale e «quasi viva». L’elmo dei Ruffo non si fregia però di una conchiglia, ma di un animale: un cavallo «nascente», di cui si vede cioè la sola parte superiore, con le zampe anteriori rampanti (talvolta ne vengono rappresentati solo il collo e la testa e in qualche raro stemma è sostituito da un grifo alato). E anche in questo caso non possono non venirci alla mente le singolari vicende della famiglia. Massimo D. Papi

continentale: il possesso di beni terrieri da un lato, l’appoggio delle monarchie dall’altro, in un rapporto funzionale e reciproco, grazie al quale le monarchie si avvalevano del supporto soprattutto militare di alcuni casati del Regno e questi beneficiavano di privilegi e concessioni che consentivano la formazione di ampie enclaves di potere nelle zone che erano loro affidate anche sotto certi aspetti amministrativi. 122

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Stemma dei Ruffo di Calabria.

A questo proposito sono esemplari le biografie di Pietro I e Pietro II Ruffo. Il primo fu tra i tenaci sostenitori di Federico II, al punto da ottenere come si è detto il vicariato su Calabria e Sicilia. Alla morte dell’imperatore ricevette da Corrado IV la contea di Catanzaro e fu tra i principali protagonisti delle vicende che animarono la successione di Federico II nel Regno di Sicilia. Ma il suo comportamento spregiudicato


lo fece entrare in conflitto con Manfredi. È probabile che egli cercasse di trasformare il vicariato che aveva ricevuto in una signoria personale con sede a Messina. L’operazione fallí, e la sua condotta, ambigua e vicina al partito dei papi, fu causa della rottura definitiva con il figlio di Federico II: Pietro Ruffo finí la sua vita a Terracina ucciso da un sicario di Manfredi nel 1257. Lo vendicò il suo omonimo nipote che si alleò con il papa e sposò la causa degli Angioini grazie ai quali la famiglia riuscí ad ampliare i suoi territori, anche in virtú di una politica matrimoniale che le consentí di imparentarsi con i principali esponenti della feudalità calabrese: Sanseverino, Caracciolo, Spinelli.

In difesa degli Angioini

Diverso per temperamento e per attitudini dal maresciallo federiciano, Pietro II si dedicò con passione e determinazione alla difesa della Calabria e della causa angioina; qui ebbe l’incarico di capitano generale del Regno, qui ebbe i suoi beni e qui difese, tra il 1268 e il 1269, la causa angioina, combattendo contro i seguaci di Corradino che cercavano di creare le condizioni per il ritorno degli Svevi. Piú tardi, quando, a partire dal 1282 e per tutto lo scorcio del secolo, i Siciliani e le armate di Pietro III d’Aragona invasero le aree piú meridionali del Regno, dilagando in Calabria e Basilicata e giungendo fin quasi alle porte della capitale, fu tra coloro che organizzarono la resistenza. I re angioini infatti si affidarono a fedelissimi capitani provenzali giunti al seguito di Carlo I, ma anche ai piú noti esponenti dell’aristocrazia locale. Tra questi i Sanseverino, i Mansella e, in Calabria, Pietro Ruffo. Purtroppo la sua vita si concluse tragicamente: venne, infatti, ucciso con un colpo d’ascia dal signore di Moliterno, Giovanni de Braida, che per motivi a noi ignoti era stato gravemente offeso dal Ruffo. Tra le figure femminili della famiglia la piú celebre è senz’altro quella di Covella, protagonista delle lotte che dilaniarono il regno di Giovanna I ( 1343-1381 ): di lei si racconta che fu l’artefice dell’assassinio di Sergianni Caracciolo, il plenipotenziario ministro della regina. Grazie a Enrichetta invece, figlia di Niccolò marchese di Crotone, la famiglia entrò in contatto in pieno Quattrocento con la monarchia aragonese e con il suo vasto entourage. Enrichetta sposò, infatti, Antonio Centelles, un barone di origine ispanica che però una volta insediatosi in Calabria si orientò su posizioni sempre piú autonome e antagoniste alla politica dei re. La contea di Catanzaro da lei portata in dote fini cosí per

TUTTO SUI CAVALLI Celeberrima e decantata la corte di Federico II, corte itinerante, dal carattere spiccatamente laico, raggiunse, come è noto, i livelli piú alti nella produzione poetica, ma fu attiva anche in altri settori dell’arte e della letteratura. E se Fulco Ruffo fece parte dei rimatori della Scuola Siciliana, Giordano, tra i testimoni del testamento di Federico II, feudatario dei beni che erano appartenuti al filosofo di corte, maestro Teodoro, preferí comporre in latino, intorno al 1250, un trattato di medicina ippiatrica. Destinato a tutti coloro che erano dediti all’arte della guerra e dunque ai nobili che possedevano cavalli da combattimento, il trattato si inserisce in quel filone culturale che diede lustro alle arti meccaniche e che trovò non pochi seguaci nello stimolante ambiente della corte federiciana. In linea con questa tendenza, grazie alla quale i saperi appartenenti alla tradizione orale vennero nobilitati dalla produzione scritta, Giordano Ruffo, senz’altro conoscitore della trattatistica bizantina sull’argomento, preferisce parlare in prima persona e fare riferimento all’esperienza diretta piuttosto che a fonti letterarie degne di fede. Egli si distingue cosi non solo per l’originalità dell’argomento affrontato ma anche per il carattere tecnico della descrizione, che a tratti si presenta come un vero e proprio manuale di chirurgia. Diviso in sei parti, il trattato affronta il tema della riproduzione e del primo addestramento del puledro (parti 1-3), insegna a riconoscere le qualità e i difetti dell’animale (parte 4), descrive le malattie (parte 6) e propone le cure piú adatte (parte 6). Finisce cosí per diventare uno strumento indispensabile ai possessori di cavalli, tanto da garantirsi un successo immediato e duraturo non solo alle corti dei signori dell’Italia meridionale: tradotto prima in volgare e poi in francese, fino al tardo Quattrocento diverrà fonte privilegiata anche per i testi di agronomia che comprendono una parte sugli animali, non necessariamente cavalli.

essere ancora una volta in primo piano negli avvenimenti del Regno, ma questa volta in una posizione avversa a quella della monarchia: il Centelles infatti finí con lo scontrarsi violentemente con i re aragonesi. Con Enrichetta Ruffo si estinse il ramo dei conti di Catanzaro e con Covella quello dei conti di Montalto e Corigliano. Ma la famiglia alla fine del Medioevo era ormai ampiamente ramificata e continuò a crescere; in particolare dai conti di Sinopoli ebbero luogo il ramo di Bagnara nel 1494, e quello di Scilla nel 1535. Grazie a essi il casato dominò per tutta l’età moderna la scena politica del Mezzogiorno e fu, con Fabrizio Ruffo, tra i principali fautori del ritorno dei Borboni dopo la rivoluzione del 1799.

In alto facsimile a stampa di una miniatura raffigurante Federico II di Svevia, da un Exultet conservato nel Museo Diocesano di Salerno.

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CHIAROMONTE Baroni di Sicilia Nel corso del Trecento gran parte della grande isola è sotto il controllo dei Chiaromonte. Le cui fortune declinano quando si fanno piú pressanti le mire degli Aragonesi

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di Francesco Barone Uno scorcio della facciata dello Steri, il palazzo palermitano dei Chiaromonte, la cui realizzazione fu avviata da Giovanni Chiaromonte nella prima metà del XIV sec.

L

a memoria del piú illustre e potente casato baronale della Sicilia del Trecento sfuma nelle brume semileggendarie della conquista normanna. Dagli eruditi siciliani del Seicento fino a Michele Amari, è invalsa la consuetudine di ricollegare le propaggini siciliane di questo gruppo familiare a un drappello di cavalieri giunti in Italia meridionale al seguito di Roberto il Guiscardo, che gli assegnò feudi in Calabria e Basilicata attestati anche in età sveva e angioina. Il richiamo retorico al sangue di un lignaggio comitale piccardo tradisce l’intento posteriore di giustificare i primati della famiglia nella storia siciliana del tardo Medioevo, con l’attribuirle una patente di antica nobiltà. Notizie attendibili sui Chiaromonte in Sicilia si rintracciano, infatti, solo dallo scorcio del Duecento. Il repertorio onomastico della stirpe (Manfredi, Federico, Giovanni, Enrico, Simone) rivela fin dagli esordi un incontestabile affiatamento con la monarchia sveva: una fedeltà ghibellina ininterrotta, confermata dall’appoggio offerto ai regnanti aragonesi dopo la svolta del Vespro. Fin dal 1293, i due fratelli Manfredi e Giacomo figurano tra gli intimi del sovrano nella cerchia esclusiva dei familiares regis. Ma il vero salto di qualità avviene nel 1296, quando Manfredi I il Vecchio è investito da Federico III d’Aragona dell’ufficio di siniscalco regio e del titolo di conte di Modica. Una storia di odio-amore quella tra i Chiaromonte e i sovrani aragonesi, definitivamente troncata dall’avvento al potere degli autoritari Martini, quando la mannaia del boia ghermisce l’inerme respiro del conte Andrea, in un’afosa estate palermitana del 1392.

Un patrimonio ingente

Nel corso del Trecento i Chiaromonte rendono matura la loro vocazione al potere, esercitandolo in ogni aspetto: politica, affari, carriere militari. Le basi iniziali della loro fortuna trovano solido fondamento nel possesso di un ingente patrimonio immobiliare sparso nei quartieri palermitani – dove già dal tardo Duecento dispongono di case, giardini, orti, mulini, taverne e botteghe –, e dai profitti delle risorse frumentarie e pastorali dei grandi feudi signorili posseduti un po’ in tutta l’isola. I capisaldi del dominio signorile chiaromontano, di ampio respiro regionale, corrispondevano alla contea di Modica (in Val di Noto, nella Sicilia sud-orientale: un distretto compatto comprendente le maggiori terre e casali dell’altopiaARALDICA

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L’ARALDICA NEL MEDIOEVO no ibleo, Comiso, Ragusa, Scicli e Spaccaforno, oltre la stessa Modica), e alla baronía di Caccamo (includente i casali di Misilmeri, Burgiofilaci e Petterano, in posizione strategica tra i rilievi madoniti del Val di Mazara), che Manfredi il Vecchio eredita alla fine del Duecento rispettivamente dalla consorte Isabella (figlia del signore di Modica, Federico Musca, sposata nel 1286) e dalla madre Markisia Prefoglio, di nobile famiglia agrigentina. L’occupazione di elevate cariche pubbliche negli apparati regi di governo e nei settori dell’amministrazione cittadina palermitana rappresenta la seconda via al potere dei Chiaromonte. Già nel 1314 Manfredi I riveste la capitanía di guerra di Palermo, mentre la città freme sotto il temibile assalto della flotta angioina; questa carica, che abbracciava un’ampia giurisdizione in materia civile e criminale, rimase a lungo appannaggio del ramo chiaromontano dei conti di Modica. Inoltre, molti giurati e consiglieri dell’universitas palermitana erano clienti o partigiani della famiglia, che acquisiva la facoltà di influenzare e orientare a proprio vantaggio la vita pubblica e politica della piú grande città del regno. Lo stesso Manfredi aveva in precedenza conseguito l’ufficio di siniscalco regio, deputato all’amministrazione della casa del monarca e delle numerose masserie e foreste regie disseminate in tutta l’isola.

Una residenza imponente e magnifica

Nel medesimo solco procedono gli altri discendenti del casato, che rivestiranno a turno le funzioni di siniscalco e forestario regio, di procuratore generale e maestro razionale del regno, di giustiziere della città di Palermo. L’ambitissima carica di ammiraglio, poi, fu tra quelle assegnate a piú d’un Chiaromonte, e vi si distinsero specialmente Giovanni il Vecchio (1339) e Manfredi III (1391). Il capillare inserimento nella vita cittadina palermitana si traduceva in una vivace sfilza di imprese commerciali e operazioni finanziarie che variavano dal redditizio controllo della rete urbana di distribuzione delle acque alla gestione di macellerie, rivendite e laboratori tessili, all’esportazione di frumento d’intesa con scaltri mercanti genovesi. Materializzazione architettonica della potenza e del carisma della famiglia nella vita della capitale del regno era l’imponente residenza fortificata dello Steri, il cui altero profilo svetta ancor oggi sulla piazza della Marina – nell’antica cittadella della Kalsa, sede degli emiri arabi –, dove fu innalzata a partire dal 1320 da Manfredi I Chiaromonte. Le travi affrescate del soffitto 126

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ligneo della celebre Sala Magna al primo piano dell’edificio – opera, fra il 1377 e il 1380, degli artisti Cecco di Naro, Simone di Corleone e Darenu palermitano – traducono, in una variopinta sequenza pittorica di scene e figure ispirate al ciclo dei romanzi cortesi, l’aspirazione chiaromontana a specchiarsi nei fasti della migliore tradizione cavalleresca. La storia trecentesca del Regno siciliano assiste all’urto violento delle fazioni aristocratiche (il cosiddetto «baronaggio») in lotta per l’egemonia, desiderose di controllare la persona del sovrano, monopolizzare gli uffici del regno, ingerirsi nei governi delle città demaniali. Pur non prefiggendosi lo smantellamento dell’autorità monarchica, le grandi famiglie comitali ne incrinarono sensibilmente l’effettivo potere, usurpandone di fatto le prerogative e sfruttando spregiudicatamente le risorse territoriali e fiscali del pubblico demanio. Dopo la morte del vicario Giovanni, nel 1348, la nobiltà del regno inaugura un’età di scontri aperti e feroci, in un clima arroventato di autentica guerra civile che segue a ruota la «malvasia epithimia» di peste del 1347. Già al tempo di re Federico III (1337), le tensioni latenti tra i grandi lignaggi regnicoli erano venute in luce nei rancori tra Chiaromonte e Ventimiglia, quando il ripudio di una donna chiaromontana da parte di Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, accese un torbido carosello di odi e vendette trascinato per anni. In tale frangente Giovanni II

In alto particolare del soffitto ligneo dipinto della Sala Magna allo Steri, Palermo. L’opera fu voluta da Manfredi Chiaromonte e realizzata tra il 1377 e il 1380. Sulle due pagine il castello chiaromontano di Palma di Montechiaro.


Chiaromonte, risoluto a far scontare l’affronto, sollevò un vespaio tale da inimicarsi il sovrano siciliano, contro cui strinse una momentanea, proditoria intesa con i letali nemici angioini, che avevano sempre puntato a riconquistare l’isola dopo la rotta del Vespro.

Una guerra «pestifera»

Il vero decollo del potere chiaromontano ha inizio intorno al 1351, quando l’autorità della famiglia su Palermo si fa sempre piú scoperta e incontrastata sotto l’azione unitaria dei tre fratelli Manfredi, Enrico e Federico. Nel 1354 – sotto la potestà di Simone, terzo conte di Modica – i Chiaromonte si schierano di nuovo e apertamente con i sovrani francesi di Napoli, aprendo le porte della capitale palermitana al Gran Senescalco Niccolò Acciaiuoli (1365). Per tutti gli anni Cinquanta infuria la «pestifera guerra»

(come la definí il cronista Michele da Piazza) tra due schieramenti della grande aristocrazia comitale, ammantati della fittizia etichetta di «latini» (Chiaromonte, Palazzi) e «catalani» (Alagona, Rosso, Sclafani e Ventimiglia). Al grido di «viva Palici et Claramunti» da una parte e «Alagona e Sant’Agata» dall’altra, le comitive mercenarie dei baroni presero a trucidarsi con abbondante spargimento di sangue, nelle città e nelle campagne. La lotta tra i due partiti si svolse però senza un vincitore definitivo, e nel 1362 a Castrogiovanni fu concordata la pace e un compromesso con la corona. Finché, dopo la morte senza eredi maschi di re Federico IV, nel 1377 i piú influenti signori isolani – Manfredi III Chiaromonte, Artale I Alagona, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta – si spartirono ufficialmente il governo di Sicilia a titolo di vicari. Innalzati a un livello quasi regale, i Chiaromonte raggiungono in tale epoca l’apice della


L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

Italia meridionale

UN’ONTA DA LAVARE COL SANGUE Il primo scontro fra titani nel cosmo della nobiltà siciliana del Trecento ebbe il suo prologo – come di frequente accadeva – in un matrimonio andato in malora, che riecheggia l’incidente tra Amidei e Buondelmonti del 1216, all’origine del contrasto tra guelfi e ghibellini nella città di Firenze. Nel 1315, Costanza Chiaromonte – figlia di Manfredi il Vecchio e Isabella Musca – era stata concessa in sposa a Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci. Sfortunatamente le nozze si rivelarono infeconde, e Francesco ripudiò la consorte, legandosi all’amante Margherita Passaneto che lo rese padre. Incurante delle conseguenze del proprio gesto, Francesco aveva sottovalutato la reazione del cognato Giovanni († 1342), forse per un eccesso di fiducia nei suoi rapporti con il sovrano. La macchina della vendetta non tardò invece a mettersi in moto nel cuore del Chiaromonte, che calcolò le sue mosse con meditata freddezza. Giovanni cercò influenti appoggi fuori dell’isola, trovandoli nell’imperatore Ludovico il Bavaro (divenendone vassallo), negli Scaligeri e anche nel re di Napoli Roberto d’Angiò. In quest’epoca le relazioni tra la corte siciliana e i Chiaromonte non erano delle migliori, e Giovanni fu costretto a una lunga assenza dalla sua isola. Nel 1332 vi fece ritorno, accompagnato da una schiera di mercenari tedeschi e spalleggiato dai Palizzi, nemici acerrimi dei conti ventimigliani. I suoi propositi di vendetta erano a un passo dal realizzarsi. Le strade di Palermo divennero allora sfondo di una vera e propria guerriglia urbana, che a fatica il re

Sulle due pagine altri particolari del soffitto ligneo dipinto dello Steri. 1377-1380. Nella foto in questa pagina, sulla gualdrappa del cavallo, compaiono gli stemmi dei Chiaromonte.

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Federico provò a impedire imponendo ai due contendenti di appianare le ostilità. Era un luminoso mattino d’aprile di quell’anno quando, in una violenta mischia con le masnade teutoniche del conte chiaromontano, Francesco Ventimiglia fu ferito e la sua vita messa in serio pericolo. Per un banale intralcio del suo destriero, Giovanni non riuscí a finire l’odiato avversario, che si diede prontamente alla fuga. Adirato per tali eccessi, il sovrano esiliò l’ostinato Chiaromonte, che solo nel 1338 poté rientrare in Sicilia, reintegrato nei beni e nelle antiche dignità grazie al sovrano Pietro II († 1342).

supremazia, spadroneggiando in due terzi dell’isola: dalla vasta contea di Modica, a Terranova e Licata, fino ai domini occidentali del Val di Mazara tra Caccamo e Mussomeli, la loro autorità si estende inoltre a Palermo, Trapani e Agrigento. Fino ai primi anni Settanta del XIV secolo la famiglia non aveva conosciuto vera unità politica né patrimoniale: una svolta di rilievo interviene con Manfredi II, che riuní nelle proprie mani i beni dei congiunti scomparsi assumendo autorità informale sull’intero gruppo familiare. La grandezza e la potenza di questo personaggio sono testimoniate dal suo consumato talento politico e militare e dall’accumulo di titoli altisonanti, tra cui quello di conte di Malta: nel 1373, vedovo della nobildonna Margherita Passaneto, aveva impalmato in seconde nozze Eufemia Ventimiglia, figlia del conte Francesco II, sedando l’annosa inimicizia con l’irriducibile casato ventimigliano. La fama del Chiaromonte correva fuori dell’isola, vantando stretti rapporti di fiducia con il pontefice Urbano VI (1389), con le Repubbliche Marinare di Venezia, Genova e Pisa, con la corte di Napoli e con Firenze.

Nell’agosto del 1388, Manfredi riscosse un brillante successo in veste di ammiraglio del regno: con l’approvazione e la benedizione di papa Urbano VI, capeggiò una spedizione navale contro le isole di Djerba e Kerkenna, nidi dei corsari maghrebini al largo delle coste tunisine. Il felice esito dell’operazione – condotta con unità navali genovesi, pisane, veneziane e siciliane – gli valse il principesco, quanto effimero titolo di duca di Djerba. Poco prima di morire, carico di potere e di onori, l’anziano Manfredi coronò il prestigio del casato con le nozze tra la giovanissima figlia Costanza (appena dodicenne) e il re di Napoli Ladislao di Durazzo (1414).

Verso il tramonto

La scomparsa di Manfredi nel 1391 segnò fatalmente l’inizio della fine per i Chiaromonte, e la ruota della fortuna – che aveva loro arriso sfacciatamente per quasi un secolo – smise di mulinare nel verso propizio. La catastrofe sopravvenne rapida e bruciante, nel giro di un anno appena, legata al disegno dei sovrani d’Aragona di troncare l’indipendenza del Regno siculo e


Caduto in disgrazia presso la corte, il Ventimiglia fu invece condannato alla pena capitale in qualità di ribelle. Stretto d’assedio nel suo castello di Geraci, in un tentativo di fuga disperata il conte ruzzolò col destriero lungo un dirupo, dove fu raggiunto e finito dal cavaliere catalano Francesco Valguarnera. In un atto efferato di cannibalismo rituale, i sudditi geracensi dell’odiato signore ne sbranarono il cadavere ancora caldo, affettandogli dita, asportandone gli occhi, frantumandone i denti a colpi di pietre e divorandone il fegato. La sospirata vendetta di Giovanni poteva dirsi oltremodo esaudita.

riassorbirlo nella confederazione aragonese. Lo scopo fu perseguito con implacabile fermezza da Martino il Vecchio, conte di Barcellona e duca di Montblanc (1410), cui il padre Pietro IV d’Aragona (1387) aveva affidato l’arduo progetto. Martino avrebbe dovuto restaurare il potere regio nella sua piena integrità, ridimensionando la preminenza dei baroni con qualsiasi mezzo si fosse reso necessario. Sul suo cammino, i Chiaromonte costituivano l’ostacolo maggiore e piú allarmante. Il temuto antagonista aveva nome Andrea, figlio illegittimo di Manfredi III (o forse del conte Matteo, figlio di Federico III Chiaromonte e Giovanna Moncada), succedutogli nel marzo 1391 in tutti i suoi titoli e responsabilità. Dapprima lo scaltro duca di Montblanc tentò la carta della diplomazia, cercando la via del compromesso con negoziati e ambascerie piene di rassicurazioni e promesse, purché la potente famiglia garantisse incondizionata fedeltà ai nuovi sovrani. Piú concretamente, egli mirava all’annientamento del casato chiaromontano, come apparve con chiarezza quando nell’aprile di quell’an-

no pose l’assedio a Palermo, entro le cui mura Andrea si rinchiuse con il sostegno della cittadinanza. In maggio la partita si risolse con un accordo che imponeva al Chiaromonte una netta sottomissione in cambio del perdono e della conferma di tutti i privilegi da parte di Martino. Ma quando Andrea si recò nell’accampamento aragonese in compagnia dell’arcivescovo di Palermo, fu messo immediatamente agli arresti con l’accusa di cospirazione e alto tradimento ai danni della corona. Ineluttabilmente, l’ora estrema si accingeva ormai a scoccare. Il Chiaromonte fu sottoposto a un sommario processo sfociato in una umiliante condanna a morte: tra i giudici che la pronunciarono, vi era anche un Salimbene Marchese addottoratosi in diritto con i denari del conte Andrea. L’esecuzione ebbe luogo il 1° giugno 1392: insieme al fedele segretario Antonio delle Favare, Andrea Chiaromonte fu atrocemente giustiziato con il taglio della testa nel piazzale antistante lo Steri, il sontuoso palazzo chiaromontano dove Martino si era sprezzantemente insediato, e alle cui pietre il suo signore rivolse un ultimo, malinconico sguardo. Per un residuo di pudore, il duca si astenne dal presenziare alla pena capitale. Una nuova era e nuovi padroni calcavano ormai la scena siciliana. Della tradizione chiaromontana sarebbe rimasto il ricordo durevole e leggendario in contrade dove regnarono da autentici sovrani, elargite ai falchi dell’ultima ora: l’ammiraglio del regno don Bernardo Cabrera e il maestro giustiziere Guglielmo Raimondo Moncada, conte d’Augusta. Ma, questa, è un’altra storia. ARALDICA

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VO MEDIO E Dossier n. 58 (settembre/ottobre 2023) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Francesco Barone è cultore della materia in storia degli insediamenti medievali presso l’Università di Catania. Andrea Barlucchi è ricercatore e professore aggregato di storia medievale presso l’Università di Siena, sede in Arezzo. Sandro Carocci è professore ordinario di storia medievale presso l’Università di Roma «Tor Vergata». Francesco Colotta è giornalista. Élisabeth Crouzet-Pavan è professoressa di storia medievale all’Université Paris IV-Sorbonne. Paolo Grillo è professore ordinario di storia medievale presso l’Università degli Studi di Milano. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Isabella Lazzarini è professoressa associata di storia medievale all’Università degli Studi del Molise. Patrizia Meli è dottoressa di ricerca in storia medievale. Giuliano Milani è professore di storia medievale all’Université Gustave Eiffel di Champs-sur-Marne. Serena Morelli è professoressa associata di storia medievale all’Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli». Roberta Mucciarelli è professoressa associata di storia medievale all’Università degli Studi di Siena. Massimo D. Papi è storico del Medioevo. Francesco Pirani è professore di storia medievale all’università di Macerata. Sergio Raveggi è storico del Medioevo. Gerardo Sangermano è storico del Medioevo. Alessandro Savorelli è araldista, già ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Gian Maria Varanini è storico del Medioevo, già professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi di Verona.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com - tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevodossier; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49 57 20 16 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta, scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina: particolare del frontespizio del Teatro araldico di Leone Tettoni e Francesco Saladini (1841-1851) e stemmi delle famiglie Tiepolo, Chiavelli e Ruffo.

Illustrazioni e immagini Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: copertina (cornice) e pp. 24-25, 34, 36, 4041, 100, 103, 105, 123; pp. 20/21; Electa/Sergio Anelli: p. 33, 36/37, 42; Album/ Quintlox: pp. 44/45, 108; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 62/63; Album/Fine Art Images: pp. 65, 94/95; Erich Lessing/K&K Archive: p. 72; AKG Images: pp. 77, 121; Heritage Images: p. 90; Album/Collection BHVP-Grob/Kharbine-Tapabor: p. 109 – Doc. red.: pp. 6/7, 9, 10-15, 16, 18-19, 22-23, 28-31, 32, 35, 38-39, 43, 46-49, 50 (basso), 51, 54-57, 60-61, 64, 66-69, 70 (basso), 71, 73, 78, 80 (centro), 81, 82-87, 88, 91, 93, 96-97, 101, 102, 104, 106-107, 111, 112-113, 115 (sinistra), 118 (basso), 119, 122-125, 126/127 (alto), 128-129 – Shutterstock: pp. 8/9, 16/17, 26/27, 52/53, 58/59, 70 (alto), 74/75, 76, 78/79, 79, 80 (basso), 88/89, 92, 98/99, 110/111, 114, 115 (destra), 1116/117, 118 (alto), 120/121, 126/127 (basso) – National Gallery of Art, Washington: pp. 50 (alto), 58. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da Timeline Publishing srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, Timeline Publishing srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: Timeline Publishing srl, via Angelo Poliziano 76 - 00184 Roma – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a Timeline Publishing srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.




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