Medioevo Dossier n. 59 - Novembre/Dicembre 2023

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TE LIBE RR RA A RE SA L NT A A

MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E Dossier

LA STORIA OLTRE IL MITO

LE CROCIATE di Franco Cardini

con contributi di Riccardo Facchini, Davide Iacono, Antonio Musarra e Franco Suitner

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€ 7,90

LE CROCIATE

N°59 Novembre/Dicembre 2023 Rivista Bimestrale

IN EDICOLA IL 18 NOVEMBRE 2023



LELA STORIA CROCIATE OLTRE IL MITO di Franco Cardini con contributi di Riccardo Facchini, Davide Iacono, Antonio Musarra e Franco Suitner

8. Il concetto di guerra santa Un nome per molte idee

70. Addio alla Terra Santa La fine di un’avventura

16. Il controllo del Mediterraneo E il mare tornò nostrum

76. Il sogno (infranto) di Innocenzo III Abbandonati da Dio

22. Due potenze in crisi Declini paralleli

82. Regole e precetti Reprimere è lecito

28. Una nuova età dell’oro Tempo di rinascenza

88. Nuovi scenari Verso un nuovo ordine mondiale?

36. L’appello di Urbano II Se il papa chiama...

96. Vecchie e nuove interpretazioni Il dibattito è aperto

44. La conquista di Gerusalemme Dalle parole ai fatti

106. Medievalismo e crociate Il revival dei cruce signati

52. Il regno franco di Gerusalemme Un reame «europeo» in Terra Santa

116. I canti delle crociate Un’epopea in rima

62. La reazione dell’Islam Gli «infedeli» alla riscossa




U

n campo di battaglia non solo sul terreno militare, ma anche su quello semantico, storiografico e letterario. Ecco come si presentano, ieri e oggi, le crociate. Lo scontro tra interpretazioni di un fenomeno cosí controverso infuria ormai da secoli: c’è l’idea di crociata epico-cavalleresca della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, composta in pieno clima di Controriforma e celebrativa della missione evangelizzatrice della Chiesa; c’è la crociata come guerra di ignoranza e fanatismo, esecrata dagli illuministi Voltaire e Diderot; c’è la crociata come epopea di dedizione, sacrificio ed eroico spirito di avventura, esaltata da Walter Scott e dagli altri scrittori romantici. C’è, infine, l’immagine di crociata emersa dal serrato confronto storiografico novecentesco: una reazione cristiana alla minaccia dell’Islam oppure, al contrario, l’aggressione delle aristocrazie europee a civiltà luminose e raffinate dell’Oriente, una sorta di prodromo alla grande stagione della politica coloniale… Quale fu il vero volto della crociata? Le letture piú autorevoli del secolo scorso – pensiamo alla ponderosa opera di Steven Runciman e all’interessante indagine di Alphonse Dupront sulle motivazioni interiori dei partecipanti all’impresa – hanno contribuito a rivoluzionare gli studi in materia. Imprescindibile nel dibattito contemporaneo si rivela l’apporto di Franco Cardini, riproposto in questo nuovo Dossier, che smaschera le tante mistificazioni colpevoli di aver alterato la sostanza storica del significato di «crociata». Che non fu, banalmente, una «guerra santa», ma piuttosto un evento bellico che coinvolse società segnate da grandi fermenti religiosi. Il movimento che prese forma a partire dalla fatidica data del 27 novembre 1095 nel concilio di Clermont, in seguito alla perorazione di papa Urbano II, si presentava inizialmente come un «pellegrinaggio in armi», con l’o-

biettivo di aiutare i cristiani d’Oriente nella Terra Santa, allora musulmana. Dietro alle apparenze si celavano, però, aspirazioni di svariata natura: alla saga di sentimenti religiosi e al fascino dell’avventura si affiancavano ambizioni politiche, ma anche la mera sete di ricchezze. I papi anelavano a espandere il proprio potere secolare anche al di fuori dei confini dell’Europa, mentre le mire sui porti mediterranei, con la prospettiva di controllare nuove rotte, spinsero alcune potenze commerciali a mobilitarsi – si consideri il ruolo da protagoniste assunto, in questo contesto, dalle Repubbliche Marinare. Il «pellegrinaggio armato» produsse assedi, battaglie, fiumi di sangue e indicibili atrocità, ma consentí anche un proficuo contatto tra Islam e mondo cristiano, le cui tracce furono evidenti nell’evoluzione delle arti e delle scienze. Tutt’oggi lo studio sulle crociate è un cantiere aperto, tante le questioni interpretative ancora da sciogliere. Caliamoci allora nelle pagine di questo Dossier, seguiamo i protagonisti nel loro viaggio verso Oriente, alla liberazione, ma soprattutto alla conoscenza, di una terra che non ha mai smesso di essere santa e… contesa. La redazione


Uno scorcio del Krak des Chevaliers (presso Homs, nell’odierna Siria), la fortezza musulmana, entrata in possesso degli Ospitalieri, che costituiva la principale difesa della contea di Tripoli. XII-XIII sec.


Un nome per molte idee

Derivato dalla croce portata da chi aveva scelto di prendere le armi per difendere la cristianità, il termine «crociata» compare, in realtà, solo dopo le spedizioni in Terra Santa. Per poi assumere, nel tempo, accezioni molteplici e controverse di Franco Cardini

O

ggi si parla molto di crociate. I temi della convivenza e della costruzione di una società multiculturale le hanno fatte tornare di moda: ma esse rappresentano, da un certo punto di vista, anche una sorta di «cattiva coscienza» dell’Occidente. Si è detto che siano state l’anticamera e il modello delle guerre coloniali, delle guerre di religione e di quelle ideologiche; che nel loro corso si siano verificati i primi casi di massacri in massa di Ebrei; che esse abbiano scavato un fossato incolmabile tra l’Europa occidentale e i mondi cristiano-orientale e musulmano, i quali all’Occidente – appunto – non hanno mai perdonato quella continua aggressione. Molti – cattolici e no – ritengono la Chiesa cattolica nel suo complesso responsabile di tali passati orrori e chiedono che essa ne faccia ammenda dinanzi all’umanità. D’altronde, però, non manca chi osserva che anche l’Islam ha la sua «guerra santa», il jihad; né addirittura chi si chiede se, di fronte a un mondo musulmano per tanti versi tornato aggressivo, l’ipotesi di una riscoperta della crociata, spoglia magari di elementi religiosi e mirante alla difesa dell’Occidente, non sarebbe oggi opportuna. Questi vari modi di considerare la storia e i problemi del presente partono forse tutti da una scarsa conoscenza della realtà effettiva di ciò che è stato, da una pervicace volontà di attualizzazione del passato e da una serie di malintesi sull’autentica, complessa natura storica sia dei molti eventi che noi, oggi, definiamo «cro-

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Reliquiario in forma di croce a doppio braccio, da Costantinopoli, databile al XIII sec. e montato su una base piú tarda, risalente al XV sec. Siena, Santa Maria della Scala, Tesoro.

ciate», sia dell’idea di crociata come in effetti essa si sviluppò in una dinamica durata molti secoli e ricca di mutamenti. Alla comprensione della realtà storica non giova l’abuso che della parola si fa a livello giornalistico. Si usa definire, al negativo, «crociata» ogni intensa campagna politica o morale i cui fini sono, dal punto di vista di chi la considera, ottusi e reazionari: per esempio, la stampa laica ha rimproverato spesso quella cattolica di scatenare delle «crociate» contro il divorzio, l’aborto, i metodi contraccettivi e cosí via. In questo modo di usare la parola sopravvive, ancor oggi, la polemica degli illuministi del XVIII secolo, come Diderot e Voltaire, che consideravano la crociata un tipico frutto dell’ignoranza, dell’intolleranza e del fanatismo medievali. Ma in altri ambiti si usa invece la parola in un contesto positivo: per esempio, quando diciamo che è necessaria una «crociata» contro il fumo, contro l’alcol, contro certe malattie. In questo modo di esprimersi è ancora viva l’eco del linguaggio del Romanticismo ottocentesco di autori come René de Chateaubriand che, appunto in polemica con l’illuminismo del secolo precedente, vide nelle crociate medievali il frutto di Nella pagina accanto miniatura raffigurante uno scontro fra crociati e musulmani nel corso dell’assedio di Antiochia (1098), durante la prima crociata, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon illustrata da Richard de Montbaston. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


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Il concetto di guerra santa

CHI PAGAVA I CRUCE SIGNATI? IL SOSTEGNO FINANZIARIO Se fin dai primi del XII secolo coloro che avevano accettato di partire pellegrini verso Gerusalemme portando anche le armi e disposti a combattere per conquistarla – in deroga alla pratica ordinaria, ch’era pacifica – furono detti cruce signati, dal segno distintivo che portavano sulle bisacce o sulle vesti (una croce rossa; da cui, piú tardi, «crociati»), il termine latino cruciata con le relative varianti nelle lingue moderne si affermò solo a partire dal XV secolo. Da allora la bulla cruciatae fu ritenuta indispensabile per l’avvio delle spedizioni; e si elaborarono anche speciali imposte (le decime, già collaudate fra XII e XIII secolo) e altre forme di contributo finanziario che i fedeli erano tenuti o invitati a versare per sostenere i costi delle spedizioni. In Spagna, per esempio, la parola cruzada avrebbe mantenuto a lungo un significato fiscale.

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Veduta di Gerusalemme nei pressi della Valle di Giosafat, olio su tela di Auguste de Forbin. 1826. Parigi, Museo del Louvre.

un puro entusiasmo religioso e della ferma volontà di recare in Oriente la civiltà cristiana e il messaggio della cultura occidentale. Fu in effetti proprio durante la Rivoluzione francese che tanto i giacobini quanto i controrivoluzionari presero gradualmente l’abitudine di definire «crociate» le varie forme di resistenza armata alle forze della Rivoluzione: gli uni per condannare come fanatica e reazionaria la scelta di quanti ai nuovi valori si opponevano con le armi, gli altri per esaltarla come meritoria dal punto di vista spirituale e religioso oltre che politico. In tale accezione, l’uso politico-propagandistico del termine si è protratto in varie occasioni nell’Ottocento e nel Novecento ed è stato talvolta anche di recente riproposto.


Insomma, il termine «crociata» è stato oggetto di una complicata e per molti versi paradossale «avventura semantica»: ha cioè conosciuto parecchi slittamenti e mutamenti di senso, che hanno allontanato la parola dalla sostanza storica del suo originario significato. Per riportare ordine in questo confuso orizzonte, bisogna forse anzitutto chiedersi con precisione che cosa sul serio sappiamo delle crociate nella loro realtà storica.

Interpretazioni contrastanti

A livello giornalistico e divulgativo, il movimento crociato si spiega in due modi avvertiti come fra loro opposti. Secondo alcuni, le crociate furono guerre dettate da una visione «fanati-

ca» e intollerante della religione; altri, invece, sostengono che si trattò di aggressioni al mondo musulmano determinate da motivi economici – qualcuno si spinge perfino a scorgere in loro le prime avventure «coloniali» – nell’ambito delle quali il movente religioso era solo un alibi. Ma a partire dall’ultimo decennio circa del XX secolo, le ripercussioni del processo di globalizzazione giunto alla fase attuale, la ricerca da parte delle principali potenze del mondo cosiddetto «occidentale» di un nuovo equilibrio mondiale e il diffondersi in vari ambienti dell’umma musulmana di teorie politico-religiose di tipo radicale (che genericamente sono state definite «fondamentaliste») hanno fatto riemergere, a proposito delle crociate, ancor piú vecchie e generiche interpretazioni che si ritenevano ormai desuete. Esse sono state oggetto, per esempio, di una nuova e del tutto inattesa «rivalutazione» – correlativa a un’ormai consolidata demonizzazione massmediale, che le condannava nel nome di un pacifismo e di un ecumenismo piuttosto anacronistici e antistorici, se applicati al giudizio fornito su eventi e situazioni del passato – fondata sulla tesi che con le crociate la cristianità medievale avrebbe reagito alla minaccia espansionistica dell’Islam (mentre, al contrario, la genesi del movimento crociato si situa nel corso dell’XI secolo, che corrisponde a una fase di frammentazione e di ristagno della compagine musulmana). O addirittura si è cercato di legittimare di nuovo una vetusta visione delle crociate ispirata a una sorta di tesi «geopolitica», alla luce della quale esse altro non sarebbero se non la versione medievale di un «naturale» e «necessario» conflitto tra Occidente e Oriente, tra Europa e Asia. Emerso con le guerre greco-persiane del VI-V secolo a.C., quel conflitto si sarebbe incarnato, nei secoli, in una serie di scontri emisferici: tra Romani e Parto-Persiani, tra cristiani e musulmani, tra «mondo libero» e «mondo socialista» durante il quarantennio della guerra fredda, infine tra «democrazia occidentale» e «fondamentalismo-terrorismo» islamico. Quest’ultima proposta consentirebbe d’inserire le crociate nel quadro dinamico del cosiddetto «scontro di civiltà», secondo lo schema disegnato dallo studioso statunitense Samuel P. Huntington. La superficialità delle cognizioni diffuse (anche nei cosiddetti ceti «colti») appare evidente quando dalla considerazione sintetica e generale delle crociate si passa a un esame piú analitico e fenomenologico. Esse vengono considerate, in modo riduttivo, come una serie di spediCROCIATE

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Il concetto di guerra santa

zioni organizzate tra la fine dell’XI e quella del XIII secolo (i manuali scolastici usano indicarle con un aggettivo numerale e contarne in genere otto: «prima crociata», «seconda crociata» e via dicendo) per la conquista, il mantenimento o la riconquista di Gerusalemme e dell’area geografica che era stata il teatro della vita terrena di Gesú e che per questo i cristiani definivano e ancora definiscono «Terra Santa». Quell’area, già dominata dall’impero romano e poi da quello bizantino, che della pars Orientis del primo era la prosecuzione, fu conquistata dagli Arabi musulmani un po’ prima della metà del VII secolo e quindi, nel biennio 1098-1099, dai crociati, che vi stabilirono una monarchia feudale durata circa due secoli.

Nella pagina accanto l’ingresso della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. In basso reliquiario a fiala, da Costantinopoli. VIII sec. Siena, Santa Maria della Scala, Tesoro.

Un fenomeno non solo medievale

Tuttavia, nella vita politica, giuridica e culturale dell’Europa la pratica dell’organizzazione di spedizioni alle quali spettava – sulla base di una legittimazione pontificia – il titolo di «crociata», e l’idea stessa di crociata, unita magari a quella della difesa della fede contro l’eresia o di difesa etnoreligiosa dell’Europa minacciata fra Quattrocento e Settecento dall’espansionismo di una potenza musulmana, il sultanato turco ottomano, non sono affatto esclusive del Medioevo. In questa sede, considereremo soltanto la storia medievale delle crociate: ma non dobbiamo dimenticare che alla luce di tale ideale, continuamente ridefinito e rivissuto, gli Europei promossero la conquista del Nuovo Mondo e le

guerre contro la potenza turca ottomana fino al Settecento. Ancora oggi, il nostro immaginario relativo alle crociate deve molto di piú a Torquato Tasso che non ai cronisti medievali. Lo stesso termine «crociata» (in latino cruciata) si impose tardi. Per tutto il Medioevo, a indicare quella che per noi è la crociata si usarono espressioni come iter (spedizione militare), peregrinatio (pellegrinaggio), piú tardi anche succursus (soccorso: sottinteso, ai cristiani di Terra Santa o di Spagna minacciati dagli infedeli) o passagium (un termine impostosi quando, a partire dal Duecento, il viaggio di trasferimento delle truppe si fece sempre piú spesso e prevalentemente, se non del tutto, per via nautica). A partire dalla metà circa del XIII secolo, i giuristi della Chiesa (canonisti) cercarono di fissare con precisione le caratteristiche del «voto», ovvero della promessa solenne che i cruce signati erano chiamati a formulare quando partivano per una di quelle spedizioni, impegnandosi a compierle secondo le indicazioni che il pontefice stilava in un preciso documento, una epistola bullata, cioè sigillata, che piú semplicemente si chiamava bulla (bolla). In cambio del loro comportamento disciplinato e del rispetto della solenne promessa fatta, i cruce signati avevano diritto ad alcuni vantaggi concreti (come la sospensione di certe condanne penali oppure la moratoria dei debiti per sé e per le loro famiglie finché non fossero tornati dalla spedizione) e a un ambíto premio spirituale, l’indulgenza plenaria (la stessa che, dal 1300, i pontefici concessero anche in occasione dei Giubilei). I canonisti, a quel punto, cominciarono a

«SACRUM» E «SANCTUM»: DUE TERMINI DA CHIARIRE... Si potrebbe sostenere che sanctum bellum e jihad dipendano dal modello biblico delle «guerre del Signore». Manca comunque, nel monoteismo di radice abramitica sotto qualunque delle sue tre forme religiose, l’idea che una guerra possa essere in quanto tale «sacra» (per quanto anche l’espressione sacrum bellum si trovi usata nei testi polemistici e propagandistici), alla stessa stregua in cui sacre si potevano dire le guerre amfizioniche dell’antichità greca, allorché tutta l’Ellade prendeva le armi contro il barbaro che avesse osato calcare il sacro suolo della patria, o le guerre rituali dette «dei fiori» nel mondo azteco. Vero è, tuttavia, che anche l’aggettivo sacrum compare a pieno titolo nelle fonti tardo-antiche e medievali, le quali ereditano dall’antichità romana la tradizione secondo la quale «sacro» è tutto quel che riguarda l’imperatore: sacra palatia le sue residenze, sacra militia l’insieme dei suoi

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funzionari e delle sue guardie del corpo. I canonisti del XIII secolo aggiunsero a tale appellativo anche quello di sanctum, per indicare tutto quello che, riguardando le proprietà e le attinenze dell’impero romano, era passato con la cristianizzazione alla Chiesa di Roma, sua erede nella pars Occidentis. La Palestina, e in genere l’area vicino-orientale che era stata teatro della vita del Cristo, era pertanto Terra Sancta: e diveniva del tutto legittimo rivendicarne il possesso anche con le armi. San Tommaso d’Aquino, alla luce del diritto naturale, sottolineava che nessuno, nemmeno gli infedeli, poteva legittimamente essere privato del diritto fondamentale di ciascun uomo alla vita, alla libertà e alla proprietà: comunque la crociata non violava, nei confronti dei musulmani, tale diritto, in quanto essi stessi si erano illegittimamente impadroniti, nel VII secolo, d’una terra di pertinenza dell’impero e della cristianità.


usare per tali spedizioni l’espressione crux, distinguendo una crux transmarina (quando esse erano dirette in Terra Santa o comunque contro gli infedeli) e una crux cismarina (quando si era chiamati a combattere all’interno della cristianità, contro i nemici religiosi o politici della Chiesa e del papato). Dichiararono che l’impegno contro gli infideles era equivalente a quello contro i mali christiani, e che spettava alla Chiesa indicare gli obiettivi di volta in volta piú opportuni. Spesso, a livello retorico o propagandistico, si parlò di bella sancta o sacra (guerre sante o sacre): ma sul piano giuridico e teologico tale espressione non venne mai chiaramente e definitivamente legittimata. Siamo abituati da una lunga tradizione retorica a definire la crociata come «guerra santa»: un’espressione con la quale si è soliti ormai tradurre nella nostra lingua anche la parola araba jihad. Si tratta, in entrambi i casi, di un abuso e di un malinteso. La teologia e la giurisprudenza cristiane conoscono in effetti un iustum bellum, e cioè «guerra giuridicamente legittima», nei termini già definiti da sant’Agostino: una guerra difensiva e dichiarata da un’autorità legittima. Ma esse ignorano in modo assoluto la dimensione della santificazione della guerra in quanto tale: non esiste nessuna guerra combattendo nella quale ci si santifica per il semplice fatto, appunto, di combattere.

Ma non esistono guerre «sante»

Anche il diritto romano distingue con estrema attenzione lo ius ad bellum, che riguarda le ragioni per le quali si accede allo stato di guerra, dallo ius in bello, che riguarda invece il comportamento tenuto dal singolo combattente: e per nessuna ragione chi, impegnato in un bellum definibile come iustum, si macchiasse di qualche delitto potrebbe trovare nella legittimità della guerra intrapresa un motivo di giustificazione per il suo comportamento criminale. In altri termini, nel mondo cristiano non esiste alcun sanctum bellum, vale a dire che nessuna guerra può santificare qualcuno per il fatto stesso di essere combattuta. Seppure in modo differente, ciò vale anche per l’Islam: il jihad non è una «guerra santa», ma un impegno assoluto assunto in una causa ritenuta teologicamente e giuridicamente gradita a Dio, che in qualche caso può essere anche un fatto militare, ma sovente è di tipo civile, morale o umanitario. L’impero romano-orientale (che noi definiamo ordinariamente «bizantino») si era avvalso della sacralità del sovrano e di quanto lo circondava e lo riguardava per sacralizzare, appunto, gli stessi eserciti imperiali, le loro insegne, le loro CROCIATE

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LE CROCIATE

Il concetto di guerra santa MARE DEL NORD

Crociate contro i Catari Crociate contro i Valdesi

Königsberg

OCEANO ATLANTICO

Parigi Tours

Verdun

Genova Aigues Marsiglia Morte

Cracovia

Vienna

Buda

Belgrado

Zara

Pisa

MAR NERO

Spalato

Napoli

Algeri

Brindisi

Palermo Tunisi

Prima crociata

Quinta crociata

Seconda crociata

Sesta crociata

Terza crociata

Settima crociata

Quarta crociata

Ottava crociata

Pest

Venezia

Roma Granada

Kiev

Ratisbona

Chambéry

Tolosa Madrid

Würtzburg

Metz Vézelay

Lione

Lisbona

Reconquista spagnola

Londra

Messina

Siracusa

MA

RM

Tripoli

ED

ITE

RR

AN

EO

Sofia

Trebisonda

Costantinopoli Durazzo Nicea Cesarea Pergamo Konya Edessa Sardi Atene Tarso Aleppo Antalya Antiochia Rodi Nicosia Candia Tripoli Damasco Acri Alessandria

Damietta

Gerusalemme

Il Cairo

armi e le loro guerre. Complessi rituali di benedizione accompagnavano le fasi salienti della vita militare; gli arcangeli e i santi guerrieri guidavano le armate e talora – proprio come gli dèi antichi – si degnavano di mostrarsi in battaglia; e il battesimo magari coatto dei barbari vinti era una forma di espansione del cristianesimo (dilatatio christianitatis) considerata come uno dei mezzi provvidenziali mediante i quali Dio accelerava i tempi verso l’ora suprema preconizzata dall’Apocalisse, quando tutto il genere umano sarebbe divenuto un solo gregge guidato da un solo Pastore.

Anche i vescovi prendono le armi

La cristianità orientale, tuttavia, si manteneva in disparte rispetto a tutto quel che poteva attenere al potere e alla forza mondani. Proprio in quanto strettamente soggetto all’autorità imperiale e da essa fortemente tutelato, il clero cristiano orientale – pur accettando di benedire armi e insegne guerriere – restava estraneo a qualunque forma di esercizio di potere, quindi anche a quella militare. In modo diverso andavano le cose in quella ch’era stata la pars Occidentis dell’impero, dove si erano affermate le monarchie «romano-barbariche» e dove le aristocrazie germaniche, con le loro forti tradizioni guerriere, avevano fatto ingresso nel clero occupando an14

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che le piú alte funzioni vescovili o abbaziali. Con l’impero carolingio del secolo IX, e ancor piú con quello della dinastia sassone del X, gli alti prelati erano stati coinvolti nelle funzioni di governo ed erano state loro affidate forti responsabilità civili: tutto ciò, per quanto a chi avesse ricevuto l’ordinazione sacerdotale fosse comunque vietato portare armi e combattere (Ecclesia abhorret a sanguine), comportava che sovente vescovi e abati venissero coinvolti in azioni militari che, sia pur indirettamente, erano chiamati a gestire, magari attraverso procuratori laici, detti advocati o defensores. Durante le guerre di Carlo Magno contro i Sassoni, all’epoca ancora pagani, i prelati che gli facevano da ministri e da consiglieri avevano avallato i battesimi forzati e addirittura il massacro dei nemici che, vinti, avessero rifiutato il sacramento che li immetteva a forza nella cristianità. I poemi epici elaborati tra il X e l’XI secolo, preceduti da una lunga tradizione orale anche se messi per iscritto solo piú tardi, presentano assai spesso situazioni di questo tipo: e significativamente – dal momento che Carlo Magno, nell’ultimo quarto dell’VIII secolo, aveva combattuto sia i Sassoni pagani sia i Mori musulmani di Spagna – trattano nell’insieme da «pagani» (quindi da idolatri e da politeisti) gli stessi musulmani, facendoci assistere di frequente a scene di battesimo coatto o di massacro dei renitenti. Quel sanctum bellum, che era cosa problematica sancire sotto il profilo teologico, si traduceva in una realtà praticamente vissuta e sentita sui campi di battaglia, dove le nuove istituzioni cavalleresche – legittimate e cristianizzate dalla Chiesa nel corso del X-XI secolo con la benedizione delle bandiere, delle armi e degli stessi novi milites, i «cavalieri novelli» – sembravano comportare da sole una legittimazione religiosa dello scontro armato e dove il nemico era sentito come «barbaro» non in quanto straniero, bensí in quanto non-cristiano. Questo sentire diffuso accompagnò l’intero XI secolo, durante il quale assistiamo in campo demografico, economico e produttivo a uno straordinario sviluppo dell’Europa sud-occidentale, egemonizzata dalla Chiesa latina e gravitante attorno al bacino mediterraneo, per quanto già avviata a espandersi verso nord e verso est. Torneremo su questa fase di rigoglio e d’espansione, che dette vita anche a nuove forme di convivenza politica e sociale e durante la quale la Chiesa latina, attraversata da una forte crisi ma impegnata anche in un profondo processo di riforma, autorizzò e addirittura

benedisse una serie d’iniziative di conquista militare e di ampliamento territoriale gestite da soggetti fra loro diversi, ma dotati tutti di una loro straordinaria energia dinamica e bisognosi di legittimare giuridicamente in qualche modo i loro atti di forza.

Un mondo frammentato

Fu cosí che gli Europei occidentali – che erano detti Franci quando provenivano dall’area franco-tedesca, e invece Latini quando appartenevano a quella italo-provenzale – approfittarono d’un momento in cui l’intero mondo musulmano appariva nella regione mediterranea in una fase di ristagno ed era distinto nell’obbedienza almeno formale a due califfati reciprocamente ostili, uno sunnita a Baghdad e uno sciita al Cairo. Un terzo califfato, quello di Cordova in Andalusia (sunnita anch’esso, ma avverso alla dinastia abbaside che dominava a Baghdad), era scomparso dando luogo alla frammentazione politica della Penisola Iberica, che si divise in una pluralità di grandi e piccoli emirati in costante lotta fra loro. Tale situazione dette ai regni cristiani del settentrione della Penisola Iberica, che avevano resistito nell’area asturiano-leonese alla conquista musulmana di circa tre secoli prima, la possibilità concreta di riorganizzarsi e di passare all’offensiva, avviando quel processo di progressivo ampliamento della loro compagine territoriale verso il centro e verso il sud che, con fasi differenti, durò circa quattro secoli e che la storiografia indica con il termine spagnolo di Reconquista. Molti furono i cavalieri in cerca di fortuna e di bottino, tuttavia animati anche da un rozzo eppur sincero spirito religioso, che vi parteciparono accorrendo in Spagna dalla Francia: essi percorrevano in armi la vecchia via dei pellegrini che conduceva al santuario di Santiago di Compostella, in Galizia, transitando dal fatale passo di Roncisvalle dove, secondo la Chanson de Roland (elaborata in quegli anni), il paladino Rolando, amato nipote di Carlo Magno, era caduto nel 778 battendosi contro i Mori con la sua gloriosa spada dall’elsa piena di sante reliquie.

Nella pagina accanto, in alto cartina con gli itinerari delle crociate in Terra Santa e in Europa. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante Carlo Magno che combatte contro i Saraceni, da un incunabolo dell’Olgier le Danois edito a Parigi da Antoine Vérard. Ante 1499. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria. In basso illustrazione raffigurante l’assedio di Antiochia, dalla Satyrica Historia di fra Paolino da Venezia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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E il mare tornò nostrum Le spedizioni crociate si inseriscono nel piú ampio contesto della secolare rivalità fra Occidente e Islam. Di cui l’egemonia sul Mediterraneo fu una delle cause principali Santiago di Compostella (Galizia, Spagna). La facciata barocca della cattedrale intitolata a san Giacomo Apostolo, dovuta alle trasformazioni sei-settecentesche dell’originario edificio romanico.


di Franco Cardini

I

l «cammino di Santiago», che attraverso l’Europa conduceva ai passi pirenaici e alla Spagna per giungere in Galizia, divenne durante l’XI secolo – auspice anche la grande abbazia benedettina di Cluny in Borgogna, motore culturale e liturgico nonché politico dell’epoca – il vettore dell’apporto europeo al movimento della Reconquista iberica. La Spagna musulmana, dopo la liquidazione nel 1031 del califfato di Cordova, era divisa tra vari emirati in lotta tra loro (reiños de taifas) e dilaniata dai conflitti tra famiglie arabe e berbere. La situazione rimase comunque in uno stato di instabile equilibrio, perché anche i regni cristiani, a nord, erano percorsi da rivalità e da inimicizie. Le cose cambiarono verso il 1055, quando Ferdinando I – dal 1037 acclamato re di Castiglia e di León – si sentí in grado di scatenare un’offensiva che mise in suo potere la bassa valle del Duero. Coimbra venne conquistata nel 1064, dopo che il sovrano aveva compiuto un pellegrinaggio a Compostella per chiedere l’aiuto dell’apostolo Giacomo nell’impresa: e in tale occasione cominciò ad affermarsi la fama dell’apparizione di Santiago Matamoros («uccisore di Saraceni»), che sarebbe avvenuta un paio di secoli prima, durante la battaglia di Clavijo. Frattanto, il fronte aragonese rischiava un tracollo per la morte del re Ramiro I durante l’assedio alla fortezza saracena di Graus. Poiché l’infante Sancho era ancora minorenne, spettò a papa Alessandro II prende-

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LE CROCIATE

Il controllo del Mediterraneo

UN POEMA PER IL GUERRIERO-PREDONE Durante la prima fase della Reconquista si andarono costituendo anche le basi dell’identità nazionale spagnola attorno a grandi nuclei epico-leggendari come quello di Rodrigo (o Ruy) Diaz de Vivar, il coraggioso capo di una banda di border fighters, guerrieri-predoni di frontiera abbastanza simili ai ghazi musulmani, che serviva alternativamente principi cristiani e musulmani e che per tale motivo viene conosciuto con l’epiteto arabo-ispanico di Cid Campeador (dall’arabo sidi, signore, e dal latino ispanizzato campiductor, condottiero). Vissuto tra il 1043 e il 1099, il Cid conquistò per Alfonso VI di Castiglia le città di Valencia (1094) e Sagunto (1098); egli è anche il protagonista del piú antico poema epico-storico della letteratura spagnola, il Cantar de mio Cid, la cui composizione è databile attorno al 1140.

re l’iniziativa che condusse alla conquista della piazzaforte di Barbastro, non lontano da Saragozza, grazie a una spedizione che si avvalse del contributo di molti cavalieri francesi e che provocò una forte ondata di entusiasmo guerriero e religioso. Coimbra e Barbastro, insieme, furono un colpo per al-Andalus. I «re» mori di Saragozza, di Badajoz, di Toledo e di Siviglia furono costretti a pagare un tributo a Ferdinando di Castiglia che, con un’orgogliosa cavalcata compiuta a scopo dimostrativo, giungeva fino a Valencia.

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Miniatura raffigurante Rodrigo Diaz de Vivar (el Cid) che uccide Martin Gomez in combattimento, dalla Crónica Geral de Espanha de 1344. Lisbona, Academia das Ciências. In basso uno scorcio del castello di Jadraque, in Castiglia, detto anche «del Cid», perché nel sito sorgeva una piú antica fortezza islamica che sarebbe stata conquistata dal Campeador. Secondo un’altra versione, la denominazione deriverebbe invece da Rodrigo Díaz de Vivar y Mendoza, primo conte del Cid e figlio primogenito del cardinale Mendoza, vissuto tra il XV e il XVI sec.

Ma nel 1065 egli spirava a León, poco dopo essere riuscito a venerare nella nuova cattedrale da lui fondata le reliquie di sant’Isidoro di Siviglia cedutegli dai Mori.

Sotto l’insegna di Pietro

La campagna di Barbastro del 1063-1064 fu forse un episodio epocale nei rapporti tra cristiani e musulmani. La bolla pontificia che la determinò e la sancí, la Eos qui in Hispaniam emessa da Alessandro II, costituí nella tradizione canonistica il modello dei successivi documenti pontifici piú tardi confluiti nel diritto della crociata: in essa si concedeva un’indulgenza a remissione dei peccati per i partecipanti all’impresa, tra cui il duca Guglielmo d’Aquitania e cavalieri provenienti da diverse parti della Francia. È probabile che Alessandro II – ovvero Anselmo da Baggio, uno dei capi del partito riformatore della Chiesa – abbia consegnato al duca d’Aquitania il vexillum sancti Petri che poneva i volontari della campagna sotto la tutela della Chiesa di Roma e che, al tempo stesso, adombrava un eminente diritto di quest’ultima sulle conquiste che dall’impresa sarebbero scaturite. I poemi epici che narrano delle lotte di Carlo Magno contro i Mori, le


chansons de geste, appartengono alla propaganda di imprese come questa e preparano il clima della «crociata», del quale anzi si può dire facciano pienamente parte. La Chiesa romana, allora gestita da un audace gruppo di riformatori che intendeva sottrarla al controllo dei poteri laicali e alcuni dei quali accarezzavano addirittura il disegno di proclamare la superiorità del clero sul laicato, appoggiò la Reconquista legittimandola con l’emissione di documenti papali e con l’accordare sovente ai combattenti il vexillum Petri, cioè un’insegna che aveva un duplice valore: uno religioso, indicante la tutela dell’Apostolo, e uno giuridico – intrinsecamente connesso con i vexilla nella pratica feudale –, che qualificava la sovranità eminente sul territorio nel quale esso veniva dispiegato. I regni di Castiglia e d’Aragona divenivano in tal modo vassalli della sede pontificia romana, esattamente come l’Inghilterra, conquistata nel 1066 da Guglielmo duca di Normandia, e come Puglia e Sicilia, strappate rispettivamente alla sovranità nominale bizantina e ai Saraceni dai fratelli Roberto «il Guiscardo» e Ruggero «il Gran Conte», entrambi appartenenti alla famiglia normanna degli Hauteville (Altavilla). Da molti decenni, infatti, l’inquieto Meridione della Penisola Italica era dominato nel continente dalle lotte fra quel che restava della sovranità bizantina e dei principati longobardi e la volontà d’indipendenza e di sviluppo di dinamiche città marinare quali Bari e Amalfi; e in Sicilia dalle lotte originate dalla crisi dell’emirato di Palermo, non diversamente da come si era verificato in Spa-

Il coronamento della facciata del santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo (Foggia), costruito, tra la fine del V e l’inizio del VI sec., per iniziativa del vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano. Era una delle grandi mete di pellegrinaggio e costituiva un polo di attrazione per gli avventurieri provenienti dalla Francia settentrionale e alla ricerca di nuove terre, di fortuna o anche soltanto d’ingaggio mercenario.

gna dopo la fine del califfato di Cordova, ma anche come accadeva, piú o meno nello stesso periodo, nella cristiana Inghilterra, dove la crisi della monarchia sassone aveva reso possibile l’intervento del duca di Normandia appoggiato dalla Chiesa e munito di un vexillum Petri. Nel Sud dell’Italia, dunque, giungevano avventurieri dalla Francia settentrionale, in una sorta di diaspora alla ricerca di nuove terre, di fortuna o magari soltanto d’ingaggio mercenario. Se in Spagna la direttrice di quest’immigrazione guerriera era stata il cammino di Santiago, la via dei pellegrini verso la Galizia, nell’Italia meridionale i guerrieri a cavallo viaggiavano lungo la via Francigena diretti a Roma, dove si venerava la tomba dell’apostolo Pietro, e di lí al Monte Gargano in Puglia, sede di un celebre santuario dedicato all’arcangelo Michele e collegato a una rete di luoghi di culto micheliti, da Saint-Michel «au Péril de la Mer», tra Bretagna e Normandia, a Saint-Michel-l’Aguilhe di Le Puy, in Alvernia, e alla Sacra di S. Michele in Piemonte.

L’apparizione di san Giorgio

La conquista normanna della Sicilia da parte del fratello minore di Roberto il Guiscardo, quel Ruggero I d’Altavilla poi detto il Gran Conte, fu resa possibile dal destrutturarsi del potere degli emiri palermitani, dall’instaurarsi di un pullulare disordinato di piccoli potentati e dall’invito rivolto al Normanno da parte del signore di uno di essi, Ibn al-Thummah, che controllava l’area tra Catania, Noto e Siracusa. Presa quasi immediatamente Messina nel 1061, la marcia del con-

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Il controllo del Mediterraneo

quistatore era proceduta peraltro abbastanza a rilento, nonostante le fonti occidentali assicurino – ma non è il caso di prestar loro troppa fiducia – che quanto meno la popolazione cristiana dell’isola era favorevole ai conquistatori. Nel 1063, tuttavia, la vittoria di Cerami, ottenuta anche grazie a un’apparizione di san Giorgio armato che era venuto in soccorso ai Normanni, aveva infuso coraggio ed entusiasmo. Fu un biennio di portenti, quello, per le armi cristiane: assalto pisano al porto di Palermo, spedizione di Barbastro, presa di Coimbra. Ma solo dopo che il Guiscardo, impegnato contro i Bizantini in Puglia, ebbe avuto ragione nel 1071 della loro resistenza, l’apporto di truppe fresche dal continente poté battere i Saraceni. Palermo difatti, assediata nell’agosto di quell’anno, cadeva nel gennaio seguente: l’ingresso dei vincitori avvenne senza stragi e la grande moschea fu trasformata in tempio dedicato alla Vergine Maria. Tuttavia, in seguito, la conquista dell’isola proseguí con una certa lentezza, nonostante la politica di terrore messa in atto dai Normanni. Ma una volta padrone della Sicilia, il Gran Conte si sforzò di restare in buoni rapporti con i suoi sudditi musulmani: ciò costituiva, fra l’altro, una garanzia per i rapporti con i vicini dall’altra parte del canale. Bisogna anche tener conto che quello della convivenza era un cammino inevitabile: all’atto della conquista normanna, la Sicilia era abitata quasi totalmente da Arabo-Berberi e da indigeni arabizzati e

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Rilievo raffigurante Porto Pisano, situato nei pressi dell’attuale Fortezza Vecchia di Livorno. 1290. Genova, Museo di Sant’Agostino.

islamizzati. Solo a Palermo e in alcune ristrette aree del nord-est vi erano comunità grecocristiane di una certa consistenza. Durante la campagna militare di conquista, Ruggero I aveva assicurato a tutti libertà di culto e arruolato molti musulmani nel suo esercito. Al tempo stesso, però, il Gran Conte aveva lavorato a un ripopolamento di cristiani latini nell’isola e, quando si era sentito un po’ piú sicuro, aveva assunto con cautela un atteggiamento piú severo nei confronti dei musulmani. È certo, comunque, che funzionari arabi continuarono a lavorare per tutto il periodo del regno normanno e anche oltre nel diwan, l’ufficio addetto all’organizzazione tributaria.

Le potenze marinare d’Italia

Un altro possente fattore della rinascita occidentale fu l’attività marinara, corsara e mercantile delle città italiche del Tirreno: anch’esse nel corso dell’XI secolo approfittarono della fase di ristagno nell’espansione islamica, alla quale sostituirono la propria per un lungo periodo di egemonia, che sarebbe andato esaurendosi solo alla fine del Duecento. La prima ad affermarsi fu Amalfi, già importante nel X secolo, che disponeva anche di un notevole ospizio in Gerusalemme; essa andò tuttavia declinando durante l’XI secolo, finché non cadde nelle mani dei Normanni. Pisa e Genova, invece, alla fine del X secolo e ai primi dell’XI erano ancora minacciate dai raid musulmani: al tempo stesso, però, il loro


decollo economico e marinaro era già iniziato. Del resto, di lí a poco, esse avrebbero provato la loro potenza nella non facile lotta contro il malik di Denia e delle Baleari, al-Mujahid, battuto tra il 1016 e il 1021. Da allora, i marinai pisani avrebbero svolto – talora con l’aiuto dei Genovesi ma piú spesso senza, poiché la corsa per l’egemonia sul Tirreno era già cominciata – una serrata attività guerriera, parallela e complementare rispetto a quelle mercantile e diplomatica: i rapporti con i principati costieri musulmani d’Africa erano buoni e furono precoci, e del resto il monaco Donizone, dotto biografo della marchesa di Toscana Matilde di Canossa, segnalava scandalizzato come in pieno XI secolo il porto della città toscana fosse visitato dai «tetri» Africani. Le imprese guerriere, tuttavia, si alternavano ai rapporti pacifici. Nel 1034 i Pisani avevano assalito la città algerina di Bona e nel biennio 1063-1064 il porto di Palermo. Con i proventi di quest’ultima razzia avevano innalzato la loro cattedrale, ed è assai interessante notare come, alla base delle forme e delle proporzioni della solenne chiesa e del vicino superbo battistero di Bonanno, vi fossero accurate misurazioni e attenti rilievi delle basiliche del Santo Sepolcro di Gerusalemme e della Natività di Betlemme.

In alto particolare della ricca decorazione della Cappella Palatina, situata al primo piano del Palazzo dei Normanni di Palermo. La chiesa, riservata alla famiglia reale, fu commissionata dal sovrano normanno Ruggero II, re di Sicilia dal 1130 al 1154, e dedicata a san Pietro Apostolo nel 1140. A destra particolare del Grifone di Pisa, scultura in bronzo proveniente dalla Spagna islamica e databile tra la fine dell’XI e gli inizi del XII sec. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

quanto non gradiva che nei confronti dei musulmani si prendessero troppe iniziative guerriere, che avrebbero potuto guastargli i rapporti di buon vicinato con l’Egitto e i potentati nordafricani. Oggi si tende invece a valutarne appieno l’importanza, di molto superiore a quella di una semplice ritorsione in seguito a qualche sgarbo di natura mercantile o corsara. Al-Mahdiyah era, con Mazara, la stazione mediana del Canale di Sicilia sull’asse est-ovest dei traffici dell’Islam mediterraneo tra Almeria e i porti del Nilo. Questo è sufficiente a far capire quanto alta fosse la posta. In effetti, pare che la spedizione – d’insolita imponenza per mezzi, uomini e navigli – fosse stata preparata a lungo e con cura anche di concerto con papa Vittore II, che aveva accordato ai partecipanti indulgenze spirituali analoghe a quelle concesse da Alessandro II per Barbastro. Per quanto i Pisani vi fossero a quel che pare prevalenti, la flotta era il risultato di una coalizione con Genovesi e Amalfitani cui partecipavano anche altri: per esempio il vescovo di Modena, Benedetto, in una funzione sembra anzi molto autorevole (rappresentava forse il papa, ed era comunque assai importante il suo ruolo nell’entourage di Matilde di Canossa).

La cautela del Gran Conte

Nel 1087, infine, si ebbe quell’assalto al porto di al-Mahdiyah per molto tempo sottovalutato dagli storici sulla base di qualche malevola fonte normanna vicina a Ruggero I: il Gran Conte conquistatore della Sicilia declinò la proposta pisana di partecipare all’impresa in CROCIATE

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Declini paralleli Dopo essersi affermati tra le grandi potenze del primo Medioevo, alle soglie dell’anno Mille l’Islam e l’impero bizantino entrano in crisi. Aprendo la strada alla ridefinizione degli equilibri geopolitici dell’intero scacchiere euroasiatico di Franco Cardini

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ra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, una tradizione storiografica di tipo evoluzionistico aveva proposto il termine di «precrociate» per definire le imprese della Reconquista nella Penisola Iberica e quelle delle città marinare italiche nel Mediterraneo durante l’XI secolo. Non c’è dubbio che l’episodio che noi chiamiamo «prima crociata» sia, nel suo contesto, nei suoi precedenti e nei suoi esiti, strettamente connesso con quelli qui finora ricordati. Ciò nondimeno, l’espressione «precrociate» appare rigidamente legata a una concezione deterministica della storia. Anziché usare quindi una terminologia necessitante sul piano delle parole, completiamo il quadro del contesto storico dell’XI secolo e seguiamo senza forzature preconcette il concreto processo storico che in quel tempo venne a maturare. A tale scopo, due elementi sono ancora necessari: uno sguardo sintetico alla coeva storia dell’Islam e dell’impero bizantino e una panoramica sullo sviluppo demografico e socioeconomico dell’Europa del tempo. Nel corso del VII secolo una nuova religione, l’Islam, strettamente connessa con ebraismo e cristianesimo, era riuscita a unificare le genti arabe. In seguito alla predicazione del profeta

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Muhammad (Maometto, 570-632) gli Arabi – una popolazione d’idioma semitico originaria del Meridione della penisola che da essa prende nome, e che era divisa in tribú caratterizzate sia dalla tradizione nomade (prevalentemente nel nord) sia dai costumi agricoli e sedentari (al sud) – avevano abbandonato il politeismo in favore della fede nel Dio creatore Allah (Islam: «fede», «abbandono in Dio», «intima concordia con la volontà di Dio»; affine a Salam, «pace»). Questo aveva conferito loro unità religiosa e politica e nello stesso tempo le motivazioni per l’avvio del jihad («sforzo spirituale sulla via del Signore») e dell’espansione della fede che, tra VII e IX secolo, li portò a conquistare – anche attraverso la rapida conversione delle genti circostanti – un’area immensa compresa tra il Caucaso e il Corno d’Africa e tra lo Stretto di Gibilterra e il Pamir.

Meglio convertiti che oppressi

Le ragioni della rapida diffusione dell’Islam tra le popolazioni mediterranee rivierasche, fino ad allora soggette all’impero bizantino, sono da ricercarsi tra l’altro nel fatto che il cristianesimo diffuso soprattutto in Siria e in Egitto era quello monofisita, considerato eretico da Bi-

Foglio di un’edizione manoscritta del Corano, vergata in caratteri cufici, dalla Grande Moschea di Kairouan (Tunisia). Inizi del X sec. Parigi, Institut du Monde Arabe. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’arcangelo Gabriele che rivela a Maometto la sura 8 del Corano, da un manoscritto prodotto nello scriptorium regio del sultano Murad III, che illustra il Siyar-i Nabi (Vita del Profeta), completato da Darir di Erzurum intorno al 1388. 1594-1595. Parigi, Museo del Louvre.


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In alto miniatura raffigurante il Mare Mediterraneo, da un’edizione del Kitab al-masalik wa ‘l-mamalik (Libro delle vie e dei regni) del geografo musulmano Ibrahim al-Istakhri. X sec.

Due potenze in crisi

sanzio e come tale perseguitato. Molti cristiani, stanchi dell’oppressione bizantina, preferirono cosí passare all’Islam e con ciò recuperare la libertà nel momento stesso in cui la conversione li rendeva fratelli ed eguali rispetto ai conquistatori. Ma anche quanti rimasero cristiani e furono dichiarati dai musulmani dhimmi, vale a dire «sottomessi-protetti», pur condizionati da un regime d’inferiorità sociale e civile peraltro abbastanza blando, poterono godere sotto l’Islam di una libertà che Bisanzio

aveva loro negato: per questo collaborarono volentieri con i nuovi venuti. L’espansione musulmana nell’area mediterranea fu piuttosto rapida: la Siria, l’Egitto, parte dell’Anatolia e il Maghreb vennero conquistati entro il VII secolo; nel secolo successivo, mentre venivano invasi e convertiti il Sud e il Centro della Penisola Iberica, erano occupate anche alcune grandi isole quali Creta, le Baleari (da cui si minacciavano le coste di Corsica e Sardegna), una parte delle coste sarde e soprattutto la Sicilia. Durante il IX secolo, mentre i musulmani provenienti dalla Tunisia portavano appunto a compimento la conquista della Sicilia, altri impiantavano centri corsari sulle coste della Provenza (Fraxinetum) e dell’Italia meridionale tirrenica (il Garigliano) e adriatica (l’emirato di Bari, fra 847 e 871). Questo vastissimo territorio fu originariamente organizzato sotto il governo centrale di un capo politico e religioso, il califfo (successore e vicario del Profeta), il cui titolo, all’inizio elettivo (632-666), divenne ereditario dapprima con la dinastia degli Omayyadi di Damasco (661-750), profondamente influenzati sotto il profilo culturale da Bisanzio, poi con quella degli Abbasidi di Baghdad (750-1258), erede sotto molti aspetti della tradizione imperiale e culturale iranica.

Il braccio armato dei califfi

L’unità politico-religiosa dell’Islam, assicurata da Muhammad e mantenuta oltre il periodo aureo del califfato omayyade fino a quello dei primi Abbasidi, doveva tuttavia lentamente infrangersi dando l’avvio a un lungo processo di frammentazioni territoriali e di gravi dissidi politico-religiosi, che determinarono anche il sorgere – dall’Egitto alla Spagna e in seguito anche Pagine della Tavola imbandita, sura V, dal secondo tomo di un’edizione magrebina del Corano in otto volumi. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Miniatura raffigurante una battaglia tra cavalieri arabi e bizantini, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

al Marocco – di autorità califfali alternative a quella abbaside, il proliferare di «emirati» (principati) rivali fra loro, infine l’affermarsi egemonico, in una vasta area compresa tra la Persia, la Siria e l’Anatolia, di un popolo nomade uraloaltaico recentemente convertito all’Islam, i Turchi, che si affiancarono al califfo di Baghdad proponendosi come suo braccio armato, ma ottennero in cambio l’inimicizia degli Arabi. Sul finire del X secolo, dalla Siria alla Spagna, l’Islam aveva ormai perduto il suo potere propulsivo; nel secolo successivo, soltanto le vittorie dei Turchi contro i Bizantini nella Penisola Anatolica parvero costituire un dato di rilievo vitale, mentre le potenze islamiche – scollegate fra loro, contrariamente a quel che gli Occidentali pensavano – perdevano terreno dalla Spagna alla Sicilia, alle coste e alle isole del Tirreno. La flessione della potenza islamica e l’avvio di una crisi nella sua compagine si accompagnarono, invece, a un processo di rinascita e di crescita delle popolazioni euro-occidentali che, a partire dalla fine del X secolo, appaiono investite da una straordinaria vitalità. Si discute ancora se essa sia stata, in qualche misura, causa o effetto del contrarsi della potenza islamica. Certo è che fattori climatici e demografici si trovano alla base dell’avvio, in tutta l’Europa occidentale, di un periodo positivamente attivo, caratterizzato dalla rinascita delle città e dalla ripresa dei commerci.

Una cerniera fra Oriente e Occidente

Nello stesso periodo, gli Occidentali trassero vantaggio anche da una fase non facile attraversata dall’impero bizantino. Poiché musulmani e Bizantini si erano divisi tra VII e X secolo il controllo del Mediterraneo, ora gli Occidentali si inserirono con energia negli spazi da essi lasciati liberi. L’impero bizantino fu la vera cerniera tra l’Oriente e l’Occidente del mondo

UNA VERA SUPERPOTENZA Nelle scuole dell’Occidente si è a lungo attribuito il merito di aver fermato la conquista araba dell’Europa alla battaglia di Poitiers (732, o forse 733) e a Carlo Martello, nonno di Carlo Magno. Ma quell’episodio militare fu di poco conto, com’è dimostrato dal fatto che l’attività dei raid saraceni in tutta la Francia meridionale continuò indisturbata anche dopo. Gli Arabi furono fermati semmai, piú o meno nello stesso periodo, dai Bizantini, che nella prima metà dell’VIII secolo sostennero duri attacchi alla loro capitale e contrastarono la penetrazione musulmana nell’Anatolia. Agli inizi dell’XI secolo, sotto la dinastia macedone, l’impero bizantino aveva raggiunto l’apogeo della sua potenza. Esso aveva una enorme espansione territoriale e comprendeva tutta l’Asia Minore fino all’Armenia, il nord della Mesopotamia e della Siria, Cipro, Creta, la Penisola Balcanica con tutte le regioni a sud del Danubio, fino a notevoli porzioni d’Italia. In questa realtà vasta quanto eterogenea, sia un esercito mercenario a disposizione del basileus (imperatore), sia contingenti locali, organizzati per «temi» (regioni), consentivano un efficace controllo militare; se la vastità dell’apparato amministrativo non ne permetteva la piena efficienza, l’intera area bizantina presentava comunque caratteri istituzionali e organizzativi ben definiti già dalla metà del IX secolo, epoca in cui si assiste a una vasta rinascita urbana e all’articolarsi di una grande mobilità mercantile, grazie al mantenimento del controllo stradale da parte dell’autorità regia.

medievale, crocevia di commerci e di culture. Splendida e ricchissima la sua capitale, Costantinopoli, col suo mezzo milione di abitanti, i suoi monumenti e le mura che dal V secolo avevano scoraggiato tutti gli invasori. Ma l’emergere di una ricca borghesia urbana ai danni dell’aristocrazia militare e fondiaria, realizzatasi nel corso dell’XI secolo, impose alla politica imperiale bizantina una diminuzione della tensione difensiva; lo smantellamento delle truppe locali dei singoli temi, in particolare, sguarní le aree di frontiera che divennero in tal modo incapaci di sostenere le pressioni esterne. A partire dalla seconda metà dell’XI secolo, gli CROCIATE

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LE CROCIATE Reliquiario della Vera Croce di produzione bizantina con coperchio scorrevole realizzato in un atelier della regione mosana. XI-XII sec. Parigi, Museo del Louvre. In basso la basilica di S. Sofia a Istanbul. Fatta costruire dall’imperatore Giustiniano, fu inaugurata nel 537. Dopo la conquista di Costantinopoli a opera dei Turchi nel 1453, fu trasformata in moschea e vi furono aggiunti i minareti.

Due potenze in crisi imperatori ricorsero con sempre maggior frequenza all’ingaggio di forze mercenarie che reclutavano tra gli Europei del Nord e dell’Ovest, ritenuti guerrieri rozzi ma efficaci, capaci di combattere con nuove tecniche caratterizzate dall’uso di un armamento pesante e di grandi, forti cavalli. Molto richiesti e apprezzati erano in particolare i mercenari normanni, provenienti dalla Francia settentrionale o dal Sud dell’Italia. Furono loro d’altronde, forse, a suggerire ai propri conterranei italo-meridionali, gli Hauteville, una politica aggressiva nei confronti delle propaggini nord-occidentali dell’impero, rappresentate dall’Epiro, sul quale negli anni Ottanta del secolo si abbatté un’offensiva di Roberto il Guiscardo.

Minacce su piú fronti

In effetti, l’impero appariva ormai in crisi, afflitto a est e a sud dall’espansione di due nuovi gruppi tribali turchi, i Selgiuchidi e i Danishmenditi, mentre a settentrione infuriavano le rivolte autonomiste delle nazionalità emergenti nella Penisola Balcanica, come quella serba e croata. Piú a nord ancora premevano le incursioni delle popolazioni nomadi della Russia meridionale – i Pecenghi, gli Uzi, i Cumani – e a ovest ci si doveva difendere dalla ricorrente minaccia normanna. Le sempre piú frequenti richieste d’ingaggio di mercenari occidentali favorirono le voci, correnti in Europa, secondo le quali gli imbelli Bizantini non avrebbero mai

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Uno scorcio dell’interno di S. Sofia a Istanbul.

potuto reggere i colpi dei barbari Turchi senza l’aiuto dei valorosi cavalieri d’Occidente. Le cose stavano in realtà altrimenti. Molte erano le ragioni di ostilità che esistevano tra le due parti del mondo cristiano, l’occidentale e l’orientale: al punto che i Bizantini guardavano con molta piú simpatia al mondo musulmano che non a quello europeo. Agli inizi del X secolo il patriarca Nicola il Mistico aveva potuto dichiarare a un emiro musulmano che l’insieme delle due sovranità, la romana (Romaioi si definivano i Bizantini, e Rum li chiamavano gli Arabi) e la saracena, assicuravano, attraverso l’accordo e la fratellanza, la luce della civiltà sulla Terra: ed era evidente, sotto il pacifico riconoscimento delle diversità, il vasto insieme di relazioni commerciali e di interscambi culturali realizzatosi tra le due civiltà nel corso del lungo vicinariato territoriale. Tuttavia, l’irruzione dei Turchi selgiuchidi aveva mutato questo quadro e nel 1171 la sconfitta bizantina nella battaglia di Manzikert, in piena Anatolia, gettò l’impero nello sconforto. Fu

all’indomani di quella giornata che le richieste d’appoggio militare agli Europei occidentali si fecero piú pressanti, per quanto, nei confronti di quelli ch’essi chiamavano Frankoi (Franchi) o Keltoi (Celti), i Bizantini provassero una congerie di sentimenti che andavano dalla diffidenza al disprezzo. Tutto ciò in un crescendo di situazioni di ostilità che erano culminate, sul piano religioso, nella definitiva apertura di quello scisma d’Oriente che, originato da divergenze teologiche in realtà leggere (ma sottesi alle quali c’erano piú forti e fondati motivi di volontà egemonica), avrebbe diviso fino ai giorni nostri l’ortodossia cristiana. Limitata alla sola figura del patriarca e non a tutta la Chiesa greca, la condanna depositata dai cardinali romani sull’altare della chiesa di S. Sofia nel 1054 sarebbe stata l’inizio di una frattura epocale, non ancora sanata. Al di là pertanto di quell’incidente, poi rivelatosi cosí gravido di conseguenze, a dividere i due mondi cristiani era un insieme di pregiudizi e di differenze di mentalità portatrici d’incomprensioni e di ostilità. CROCIATE

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Tempo di rinascenza A dispetto delle paure che l’avevano attanagliato, l’Occidente supera indenne il fatidico anno Mille e si appresta a vivere, anzi, una stagione di eccezionale fioritura economica e culturale

Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione manoscritta del De Universo di Rabano Mauro. XI sec. Montecassino, Archivio dell’Abbazia. Dall’alto, in senso antiorario, la città di Gerusalemme; un carro agricolo; una scena di vita all’interno di un monastero.

di Franco Cardini

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in dai primi anni dell’XI secolo, a fronte d’una sia pur relativa crisi dei mondi bizantino e musulmano, era ormai l’Europa occidentale ad apparire dinamica e vitale. Una fase climatica positiva aveva determinato l’arretramento delle malattie (specie broncopolmonari) che erano forte causa di mortalità infantile e, al tempo stesso, aveva causato una congiuntura agricola favorevole caratterizzata dal susseguirsi di buone annate, con raccolti abbondanti. Questo aveva reso piú rare le ricorrenti carestie e le conseguenti epidemie, che infierivano piú crudelmente su popolazioni le cui difese naturali fossero compromesse da un’endemica sottoalimentazione. Tali condizioni avevano determinato una decisa crescita demografica, con forti conseguenze positive sul piano dell’economia, della società e della cultura. Alla base della rinascita demografica europea va quindi posto questo miglioramento climatico, avvertibile sin dalla fine del X secolo: in questo senso può esserci qualcosa di vero nella vecchia leggenda dei «Terrori dell’Anno Mille» e, soprattutto, nell’ottimismo che si sarebbe impadronito degli animi all’inizio del secondo millennio, visto che la temuta fine del mondo non si era verificata e che, anzi, i nuovi tempi si annunziavano con un piú dolce tepore.


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Una nuova età dell’oro

Il cresciuto livello demografico, che rese necessario l’ampliamento delle città e la creazione di nuovi centri urbani, obbligava a una sempre piú massiccia produzione di derrate necessarie a sfamare una popolazione in crescita. Ci si dovette dare pertanto a disboscamenti, dissodamenti, bonifiche di paludi. Il moltiplicarsi dei centri urbani e la mobilità a essi relativa determinarono il crescente sviluppo di strade, allo snodo delle quali sorsero mercati e che si andarono corredando di santuari, ospizi, ponti.

Alle origini della borghesia

La vorticosa circolazione di beni e l’impennarsi dei bisogni e dei consumi gettò in una miseria piú o meno relativa i ceti signorili-militari, che dovettero ricorrere agli strumenti della vendita o del prestito anche per far fronte alle esigenze connesse a un evento nuovo, l’accresciuta circolazione monetaria e l’aumento delle merci sui mercati, che obbligava a provvedersi di sempre maggiori quantità di denaro liquido. Della situazione si avvantaggiarono invece alcuni istituti religiosi, soprattutto i monaci dinamici e intraprendenti di Cluny, nonché nuovi ceti emergenti urbani che prefiguravano ormai le «borghesie». Si moltiplicarono anche i centri di coniazione del denaro, le zecche. D’altronde la nuova situazione fu presto compresa anche dai membri del sistema feudo-signorile, fino ad allora statico, che entrò in una 30

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nuova fase di fermento, con i suoi milites (cavalieri) bisognosi di affermare la loro signoria su terre nuove e di procurarsi denaro liquido ottenendo ingaggi mercenari anche lontani, magari dagli imperatori di Bisanzio. Il proliferare delle fiere, cioè dei mercati stagionali (famosi quelli della regione della Champagne, nella Francia orientale) nonché dei pellegrinaggi – le cui grandi mete erano Santiago di Compostella, Roma, Gerusalemme – rendeva sempre piú frequentate le strade e imponeva la necessità di aprirne di nuove e di costruire ponti e ospizi. Il diffondersi di costumi devozionali quali il pellegrinaggio, strettamente legato alla venerazione delle reliquie e alle feste dei vari santuari, cui veniva di solito associato un mercato, rese necessario l’infittirsi del reticolo stradale e delle infrastrutture di controllo, manutenzione e sostegno caritatevole dei poveri: a tali servizi, in mancanza di autorità laiche sistematicamente preposte a presiedervi, provvidero i vescovi, le nuove congregazioni monastiche, come quelle di Cluny e di Cîteaux, e le istituzioni e confraternite devozionali e ospitaliere da esse incoraggiate e patrocinate. Sviluppo della pratica del pellegrinaggio, espansione commerciale e militare delle città marinare italiane, riscossa cristiana contro i Mori di Spagna, diaspora conquistatrice normanna, sono tanti aspetti diversi di una fase vitale e positiva del mondo euro-mediterraneo latino, che si


LE MOLTE VIE DELLA DEVOZIONE Antica tradizione viva almeno dal II-III secolo d.C., il pellegrinaggio cristiano a Gerusalemme aveva ricevuto un impulso qualificante dal 330 circa, quando sant’Elena, madre di Costantino, aveva – secondo la tradizione – miracolosamente rinvenuto le reliquie della Passione, soprattutto la Vera Croce, e identificato i luoghi del Calvario e del Sepolcro. Tali reliquie vennero sistemate in una grande basilica, la chiesa della Resurrezione, mentre alcuni santuari sorsero a Gerusalemme e in numerosi altri luoghi importanti per le memorie evangeliche. Tra l’VIII e il IX secolo prese piede un modello di origine celtica, soprattutto irlandese, che si impose anche nel continente grazie al prestigio crescente della Chiesa iberica in età carolingia: esso prevedeva che, per peccati particolarmente gravi, si imponesse al reo di pellegrinare a piedi e in povertà sino alla Città Santa. I musulmani, che avevano conquistato Gerusalemme nel 638, non avevano praticamente mai posto ostacoli a questa pratica devota dei cristiani, dalla quale del resto traevano notevoli benefici sotto forma d’imposizione di pedaggi e d’offerta di beni e di servizi. Durante tutto l’Alto Medioevo e anche oltre, fino al XIII secolo circa, chi avesse voluto recarsi a Gerusalemme era obbligato a percorrere a piedi strade abbastanza pericolose e insicure, sempre rigorosamente via terra, salvo tratti limitati come il canale d’Otranto tra la Puglia e l’Epiro, o il Braccio di San Giorgio, tra la sponda europea e quella asiatica del Bosforo. Si può dire che neppure l’affermazione dell’Islam e la crescente occupazione delle acque mediterranee a opera dei corsari musulmani a partire dal VII-VIII secolo nocquero sostanzialmente al flusso del pellegrinaggio occidentale, che tuttavia – anche a causa delle condizioni economiche e demografiche dell’Europa –

Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante un gruppo di pellegrini al Santo Sepolcro, da un’edizione del Liber peregrinationis di Ricard de Montcroix. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante due pellegrini, nella cornice di un Commentario dell’Antico Testamento. XIII sec. Tours, Bibliothèque municipale.

restò relativamente modesto sino a tutto il X secolo. All’inizio del secolo seguente, tuttavia, una ripresa avviata quasi in sordina si trasformò ben presto in qualcosa di vorticoso. I collegamenti viari migliorarono e le strade registrarono una rinnovata mobilità. Il reticolo degli itinerari di pellegrinaggio – che univano santuari grandi e piccoli ed erano in genere «assi attrezzati» provvisti di ospizi, ponti e guadi – vide con l’XI secolo l’imporsi di Roma, da sempre conosciuta e venerata per le reliquie dell’apostolo Pietro e per una serie di importanti memorie della Passione (la Scala Santa, la Veronica, il legno della Croce), e la straordinaria crescita d’importanza di Santiago di Compostella, in Galizia, dove sarebbe miracolosamente approdato, dopo una lunga navigazione, il corpo dell’apostolo Giacomo. Roma, Santiago e Gerusalemme erano i tre centri chiave di un sistema di santuari che copriva l’intera Europa e le coste cristiane del mondo mediterraneo. Santuari minori, molto spesso dotati di una loro notevole importanza, costellavano gli itinerari, consentendo al pellegrino che percorreva la strada verso le mete maggiori di visitare una serie di centri sussidiari: cosí, per esempio, i santuari mariani di Chartres e di Le Puy, quelli di Mont-Saint-Michel e del Monte Gargano, dedicati all’arcangelo Michele, la chiesa della Sainte-Foy di Conques (nella quale si conservavano le reliquie di santa Fede di Agen), il Santo Volto di Lucca. Lungo le strade sorsero anche – talvolta spontaneamente, talaltra organizzati soprattutto da istituti monastici – pii sodalizi che si attribuivano il ruolo di soccorrere i pellegrini, mantenere in buono stato di efficienza ponti e guadi, organizzare ospizi. Molti di questi sodalizi avevano il loro centro in zone inospitali, boscose o paludose, oppure su passi montani.

appoggiavano tutti a un centro propulsore: una Chiesa rinnovata nelle istituzioni e nelle prospettive, vigorosamente egemonizzata da alcuni istituti protagonisti (soprattutto la congregazione dei monaci benedettini che faceva capo all’abbazia di Cluny), caratterizzata dalla presenza di leader in parte membri essi stessi di tale congregazione, in parte invece prelati appartenenti per nascita a famiglie principesche e qualche volta addirittura regali.

Per una Chiesa rinnovata

La Chiesa altomedievale aveva conosciuto una rigorosa subordinazione dei sacerdoti e dei chierici rispetto ai poteri temporali dell’epoca. Nei regni romano-barbarici non meno che piú tardi nell’impero carolingio o in quello ottoniano, gli ecclesiastici erano considerati rigorosamente funzionali al potere. Ma lo sviluppo

economico e anche culturale dell’XI secolo aveva determinato l’emergere di nuove proposte: in particolare, si rivendicava da piú parti alla Chiesa il diritto di riacquistare quella forma primitiva caratterizzata dalla purezza spirituale e dalla libertà descritta nel Nuovo Testamento. Nei centri dell’impero romano-germanico, a caldeggiare la rinascita di una Chiesa apostolica libera da un potere laico abituato a concedere i privilegi dell’altare a personaggi ignoranti e corrotti furono soprattutto alcuni membri del ceto dirigente cittadino, ma anche molti che facevano parte degli stati subalterni. Nascevano cosí una nuova dimensione e una nuova visione spiritualistica della Chiesa, raccordate a un sempre piú diffuso sentimento che la maturità dei tempi fosse prossima e il Giudizio Universale alle porte. In Germania, e soprattutto in Italia, ciò avrebbe comportato lo scontro tra un CROCIATE

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LE CROCIATE Capitello raffigurante la Seconda Chiave del canto gregoriano, opera di scuola francese in origine facente parte della decorazione della Maior ecclesia di Cluny e oggi conservata nell’ex granaio (Farinier) dell’abbazia francese.

Una nuova età dell’oro alto clero tradizionalista e funzionale ai poteri laici e una vigorosa pattuglia di innovatori, sostenuta anche da un qualche favore popolare. La riforma della Chiesa, soprattutto con papa Gregorio VII (il cluniacense Ildebrando di Soana) assunse i tratti di quella che è stata definita «lotta per le investiture»; ma per i riformatori essa fu, soprattutto, la «lotta per la libertà della Chiesa». In apparenza, la posta in palio era un diritto di precedenza nella scelta dei prelati. Dal momento che, dai tempi dell’imperatore Ottone I, l’autorità diocesana dei vescovi era strettamente connessa all’esercizio di alcuni diritti pubblici e al godimento delle relative prerogative, chi avrebbe dovuto scegliere i prelati? Il clero e il popolo della diocesi, secondo gli antichi canoni, oppure l’imperatore che aveva interesse a scegliere i suoi funzionari o personaggi

a lui fedeli? Clero riformatore e monaci cluniacensi avrebbero individuato una soluzione nello sviluppo delle prerogative tradizionali, fino ad allora prevalentemente formali, del vescovo di Roma, considerato il capo della Chiesa in quanto successore di Pietro. I riformatori avrebbero mostrato di concepire tale funzione non piú in termini di autorevolezza morale, bensí di vero potere decisionale e gerarchico.

Lotta alla corruzione

Nella sostanza delle cose, si trattava di riqualificare e addirittura di rifondare il rapporto fra la società civile del tempo e il clero: gli aristocratici dei secoli IX-X avevano preso il costume di trattare istituzioni e proprietà ecclesiastiche come cosa privata di loro pertinenza, sovente scegliendo chierici e preti ignoranti o corrotti o vendendo al miglior offerente gli uffici episcopali o abbaziali. Gli imperatori romano-germanici della dinastia sassone, tra X e XI secolo, avevano intrapreso un’opera profonda di bonifica, cominciando proprio dall’episcopio romano; molto restava però da fare in termini di lotta alla compravendita venale degli uffici ecclesiastici (simonia) e contro i costumi corrotti o le abitudini concubinarie del clero (nicolaismo). Furono alcuni prelati provenienti soprattutto dalle regioni renane e un gruppo di monaci della congregazione benedettina di Cluny a elaborare un progetto generale di riforma della Chiesa: che però, andando ben oltre i suoi aspetti morali, mirava a rendere il ceto clericale indipendente dalle aristocrazie laiche, cioè a conseguire quella che i riformatori definivano libertas Ecclesiae; e, per alcuni esponenti d’un pensiero piú radicale, quali Ildebrando di Soana, a giungere alla teorizzazione d’una superiorità del clero sul laicato anche in termini di potere. Ciò condusse, nella seconda metà dell’XI secolo, a un vero e proprio scontro fra i riformatori da un lato e le gerarchie imperiali (laiche, ma anche ecclesiastiche: molti prelati che dovevano al sovrano o ai principi la loro posizione, non intendevano affatto perderla) dall’altro. Fuori dalle «terre d’impero», cioè da Germania, Italia centro-settentrionale e in parte Borgogna, la situazione era diversa. In Francia mancava un forte potere regio, quale la Germania aveva avuto tra la metà del X e quella dell’XI secolo: ne conseguiva che vescovi e abati erano spesso gli unici protettori dei fedeli piú umili, soggetti a far le spese delle continue guerre feudali endemiche che segnavano il Paese.


Una veduta dell’abbazia di Cluny, in Borgogna. Il primo nucleo del grande complesso monastico sorse agli inizi del X sec. per volere di Guglielmo III, duca d’Aquitania.

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LE CROCIATE

Una nuova età dell’oro

Qui la riforma coincise in grandissima parte con la necessità di imporre la pace; i prelati francesi e quelli delle regioni occidentali dell’impero elaborarono una prassi nuova, quella della pax Dei e della tregua Dei, che presto si rivelò formidabile strumento di egemonizzazione. Poiché molti membri delle aristocrazie guerriere si opponevano a questo processo di pacificazione – che andava contro i loro interessi, le loro abitudini, le loro tradizioni di gente abituata a viver di rapina e di vendetta –, la Chiesa organizzò a livello diocesano, già a partire dalla fine del X secolo, dei veri e propri «concili di pace», regione per regione. A ciò aggiunse la promozione di «leghe di pace» delle quali facevano parte milites convertiti al suo programma che – mettendosi magari a capo di milizie locali, espressione dei centri piú interessati a conservare o a ristabilire un regime di sicurezza e di tranquillità che consentisse la circolazione della gente e delle merci, garantisse il libero svolgersi delle «fiere» e cosí via – si opponevano ai tyranni, agli infractores pacis, insomma agli aristocratici piú riottosi e alle loro mesnies, «masnade» (il termine è originariamente tecnico, per indicare le bande di armati al seguito di un senior).

Sulle due pagine, e in basso miniature tratte dalla cosiddetta Bibbia dei Crociati, che descrive episodi della storia dell’antico Israele. 1244-1254. New York, The Morgan Library & Museum. A destra, il re Saul saluta i guerrieri di Israele, i primi dei quali si inginocchiano davanti a lui e gli giurano fedeltà; in basso, cavalieri israeliti partono per combattere contro i Filistei. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante Carlo Magno che piange la morte di Rolando, da un’edizione delle Grandes chroniques de France. XIV sec. Bruxelles, KBR.

Si può dire che proprio dai «concili» e dalle «leghe» di pace nacque e si sviluppò quel sistema di valori fondati sulla difesa dei deboli e degli umili ch’è la sostanza profonda del modello cavalleresco medievale, senza dubbio derivato dalle pratiche di guerra germaniche ma ripensato alla luce dei valori cristiani e dell’etica romana che gli ecclesiastici del tempo avevano saputo rimeditare e riproporre.

Alla ricerca del consenso

D’altronde, sotteso alla complessa riforma della Chiesa dell’XI secolo, c’era il crescente interesse dei laici per tutto ciò che si collegava con la fine dei tempi, l’avvento dell’Anticristo e il Giudizio Universale. La crociata sarebbe cosí uno degli esiti di questo forte movimento di riqualificazione istituzionale, morale e anche liturgica della Chiesa. La funzione del papato romano nella creazione del consenso necessario al movimento crociato fu fondamentale. Urbano II non era stato il primo tra i pontefici dell’Occidente a cercar di mobilitare attorno all’ideale di una 34

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COSÍ DISSE ROLANDO...

guerra esterna la rissosa aristocrazia militare europea, creando le condizioni per imporre una difficile pax interna alla cristianità. Grazie alla lotta per le investiture, la Chiesa aveva assunto in Occidente un rilievo sconosciuto nei secoli precedenti. Senza la grande impresa della riforma e dell’affrancamento delle istituzioni ecclesiastiche dai condizionamenti del potere secolare, che trovò la sua apoteosi nel programma teocratico di Gregorio VII, non sarebbe stata possibile l’elaborazione di modelli etico-cavallereschi con i quali si giustificava non soltanto la guerra, ma la sua necessità quale tappa dell’organizzazione ideale di una società che solo da questo momento riuscí a trovare per sé, quale unico comune denominatore, l’aggettivo «cristiana». L’ideale di milizia per la fede spinto sino all’aspirazione al martirio trasformò i caratteri, fino ad allora solo etici, della militia Christi in quelli militari del sostegno armato alla Chiesa fino alla conquista e all’imposizione della fede. Egemonizzata dai riformatori ecclesiastici, la cavalleria era matura per l’esperienza «crociata».

La radicalizzazione cristiana degli ideali cavallereschi, che fino ad allora avevano riguardato l’osservanza di un codice di lealtà guerriera e di fraterna solidarietà all’interno dei gruppi di compagni d’arme, si vede bene nel mutar di toni della tradizione epica, che proprio fra l’XI e il XII secolo si avviò a fissarsi sistematicamente per iscritto. Prendiamo la Chanson de Roland, un poema francosettentrionale anonimo composto fra la seconda metà dell’XI e l’inizio del XII secolo. Esso è coevo alla crociata, per quanto di essa non si parli. Suo scenario è la Spagna pirenaica, tra Saragozza e il passo di Roncisvalle: la zona della grande via di pellegrinaggio detta «cammino di Santiago». Ma neppure Santiago vi è nominato. Il poema tratta del sacrificio di Rolando, nipote di Carlo Magno, caduto combattendo contro i Mori. La sua base storica rinvia all’VIII secolo; il clima, tuttavia, è quello della crociata come l’immaginavano i laici del XII secolo: «Cosí disse Rolando: “Qui subiremo martirio / e ora so bene che non ci resta molto da vivere. Ma sarà fellone chi non si venderà caro. Colpite, signori, con le spade forbite, e disputate la vostra morte e la vostra vita, / sí che la dolce Francia non ne sia disonorata. Quando Carlo, mio signore, verrà su questo campo e vedrà un tale massacro di saraceni che per uno dei nostri ne troverà morti quindici, non potrà non benedirci”» (Chanson de Roland, vv. 1922-1931).

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Se il papa chiama...

...la cristianità risponde: secondo la tradizione, le crociate nascono all’indomani dell’appello lanciato da Urbano II a Clermont, nel 1095. Parole vibranti, alle quali i presenti reagirono gridando all’unisono «Dio lo vuole!» La battaglia di Ascalona, 18 novembre 1177 (particolare), olio su tela di CharlesPhilippe-Auguste de Larivière. 1842 circa. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.


di Franco Cardini

S

i può affermare che, alla fine dell’XI secolo, nel mondo mediterraneo v’erano tutti gli elementi e le precondizioni per il nascere di quella che poi fu detta la «crociata». Già papa Gregorio VII aveva formulato l’ipotesi e la volontà di organizzare una spedizione militare in Oriente e addirittura di mettersene a capo. Si tratta d’istanze che tenevano in considerazione il pericolo di un’avanzata turco-selgiuchide nella Penisola Anatolica e forse anche qualche difficoltà che i nuovi arrivati, musulmani freschi di conversione e quindi piú rigorosi, andavano procurando al secolare flusso dei pellegrini cristiani in Terra Santa. Ma la prospettiva di un soccorso occidentale ai Bizantini battuti a Manzikert era comunque ambigua: comportava la volontà di superare lo scisma del 1054 o al contrario di affermare, attraverso l’appoggio militare, un’egemonia degli Occidentali sugli Orientali? In ogni caso, non era plausibile che si trattasse della risposta difensiva a un pericolo diretto o indiretto che la cristianità latina correva a causa e da parte dei Saraceni.

Un movimento originale

Le cause della crociata sono interne al processo sociale, civile, economico, politico, culturale e religioso dell’Occidente latino e mediterraneo: non rappresentano affatto la replica a una sollecitazione esterna. Tuttavia, il movimento crociato non è per nulla l’esito «naturale» e «necessario» di alcuna premessa: esso si presenta dotato di una sua originale inconfondibilità nell’appello lanciato da Urbano II a Clermont d’Alvernia, alla fine del novembre 1095, cui seguono due fenomeni. Il primo si manifesta a livello delle aristocrazie militari ed è ciò che con Carl Schmitt potremmo definire «l’esportazione della violenza», attraverso la quale si pacifica all’interno una società dirigendone verso l’esterno forze e impulsi che al contrario condurrebbero alle lotte intestine e all’indebolimento dell’intera compagine che si vuole invece rafforzare. Il secondo fenomeno riguarda i molti laici prevalentemente subalterni e non insensibili al miraggio religioso-popolare del «ritorno alla Chiesa delle origini»: attraverso una rete di leggende e di reliquie, di voci profetiche e di visioni serpeggianti fra i pellegrini, essi sono sensibili al richiamo escatologico teso a fare della crociata «l’ultima delle guerre», quella che trascina sulla Terra il Regno dei Cieli. E dalla meditazione su questo appello, già avviata da cronisti che in CROCIATE

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LE CROCIATE

L’appello di Urbano II

Mappa della città di Gerusalemme disegnata su pergamena. XII sec. Cambrai, Bibliothèque municipale. Nella Città Santa, secondo alcuni predicatori, si sarebbe compiuta la Parusia (la seconda venuta di Cristo) e per questo bisognava riconquistarla. qualche caso erano stati anche testimoni oculari, nasce post eventum anche l’idea di crociata, suscettibile di molti e complessi sviluppi. Tra il 1095 e il 1096 ci si presenta uno stretto intrico di fatti e problemi nei quali sembrano convergere e risolversi alcuni elementi strutturali di medio e lungo periodo, maturati nel corso del secolo tra Spagna, Sicilia, Africa, Anatolia. La nostra storia incontra qui il suo primo, centrale protagonista: Oddone di Lagéry, nato verso il 1040 da aristocratica famiglia a Châtillon-sur-Marne, monaco benedettino e dal 1076 priore dell’abbazia di Cluny, esponente di spicco del gruppo dei riformatori. Il suo maestro Gregorio VII lo aveva nominato cardinale-vescovo di Ostia e legato apostolico in Germania presso l’imperatore Enrico IV. Divenuto papa nel 1088 col nome di Urbano II, egli continuò con rigore le linee della politica gregoriana opponendosi al sovrano, all’antipapa Clemente III, che questi aveva fatto eleggere, e al clero ostile alla riforma. Suoi alleati furono la marchesa di Toscana Matilde e il re d’Italia Corrado, figlio dell’imperatore ma ribelle al padre.

In cerca di una legittimazione

Nell’estate del 1094 Urbano II mosse quindi da Roma, città nella quale egli era quasi assediato e che difatti restò nelle mani dei fautori del suo avversario Clemente, per un viaggio attraverso l’Italia e la Francia che avrebbe dovuto legittimarlo come unico pontefice e durante il quale egli indisse riunioni di prelati, fu acclamato, consacrò chiese e altari, ma dovette spesso comportarsi quasi come un clandestino e un fuggiasco, braccato dagli avversari. In questo contesto riaffiorò spesso la questione orientale, costituita di due elementi: primo, l’auspicata composizione dello scisma d’Oriente che quarant’anni prima aveva lacerato l’unità tra le Chiese greca e latina; secondo, la minaccia dell’avanzata turca nell’impero bizantino e la necessità di rispondere a una richiesta d’appoggio militare che da quest’ultimo proveniva. Per la verità, quel che ai Latini poteva sembrare richiesta d’aiuto era piuttosto, da parte dell’imperatore bizantino, un’offerta di lavoro mercenario. Come sappiamo, i cavalieri occidentali pesantemente armati ed equipaggiati, che ave38

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vano selezionato forti razze equine da battaglia e messo a punto una tecnica di combattimento considerata nuova ed efficace, erano molto apprezzati come mercenari in Oriente: l’imperatore di Bisanzio si serviva soprattutto di Normanni provenienti dalla Francia settentrionale, per quanto i loro cugini ormai insediati in Italia meridionale lo combattessero. D’altro canto, il papa riformatore pensava che un aiuto militare «franco» potesse contribuire ad appianar la strada verso la composizione dello scisma: se ciò fosse accaduto, la sua autorità e il suo prestigio si sarebbero rafforzati al punto da rendere quasi impossibile qualunque contestazione da parte della fazione «enriciana» della Chiesa, cioè di quei prelati che parteggiavano per l’imperatore Enrico IV, alla riforma fieramente avverso. Già nel gennaio del 1094 si era tenuto a Guastalla – in territorio controllato da Matilde di Toscana, fedele al partito dei riformatori – un concilio durante il quale si era parlato della questione orientale. Nel marzo del 1095 Urbano II, giunto fortunosamente a Piacenza, presiedeva un altro concilio durante il quale sembra che egli incontrasse alcuni ambasciatori bizantini venuti a reclutare cavalieri: può darsi che tale reclutamento sia stato accolto, in buona o in mala fede, come un’istanza di aiuto. Il viaggio del papa procedette tra Italia e Francia sino ad approdare a metà agosto al santuario


mariano di Le Puy, in Alvernia, luogo in cui Urbano aveva convocato un nuovo concilio provinciale per la fine del novembre successivo. Il panorama francese era diverso dall’italico: non c’era una Chiesa in parte controllata da un forte potere regio da battere, c’era però una situazione di endemica guerra tra signorie, mentre la monarchia capetingia, ancora molto debole, sembrava preda del disordine morale e istituzionale. Contro questo disordine la Chiesa di Francia aveva da tempo, come già s’è detto, messo a punto gli strumenti della pax e della tregua Dei, in forza dei quali si colpiva di scomunica chiunque scatenasse azioni di violenza in certi luoghi o periodi dell’anno o giorni

della settimana, protetti dall’egida ecclesiastica (come santuari o mercati, solennità liturgiche e cosí via), o contro categorie di persone dichiarate intoccabili perché la loro posizione di debolezza li faceva considerare direttamente difendibili da Dio (chierici, pellegrini, vedove, orfani, poveri in generale).

La parola al pontefice

Durante il concilio di Clermont si trattarono vari problemi legati alla disciplina ecclesiale della Francia: ma alla fine di esso, il 27 novembre, Urbano II tenne un’allocuzione in presenza non solo dei prelati, ma anche dei molti laici ivi raccolti e soprattutto dei milites (cioè dei membri dei turbolenti gruppi feudo-cavallereschi Miniatura raffigurante papa Urbano II che consacra, nel novembre del 1095, l’altare del monastero di Cluny, in cui fu priore prima di diventare papa, dalla Cronaca dell’abbazia di Cluny. XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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LE CROCIATE

L’appello di Urbano II dei cristiani orientali che di quelle armi avevano bisogno per respingere il pericolo turco. Quei «cristiani orientali», in concreto, erano anzitutto il basileus e i Bizantini. La situazione anatolica e vicino-orientale (che del resto non era piú cosí precaria come un quarto di secolo prima, all’indomani della battaglia di Manzikert) era quasi sconosciuta nella Francia del tempo: note erano però le vicende spagnole, e abbastanza conosciuta – anche grazie alla poesia epica – la dimensione della guerra contro quei musulmani di cui non si conosceva bene la fede religiosa, ma che si configuravano comunque come «pagani» e «nemici della Croce».

Combattere per salvarsi l’anima

Miniatura raffigurante papa Urbano II che presiede il Concilio di Clermont, da un’edizione de Les Passages d’outremer faits par les François... 1474-1475 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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abituati alle guerre intestine). Anzi, con ogni evidenza essa era rivolta principalmente, per non dire esclusivamente, a loro. Del discorso di Urbano ci restano soltanto cinque versioni, tutte indirette, opera di altrettanti cronisti, qualcuno anche testimone oculare: ma insicure perché certamente redatte un po’ di tempo dopo, quando Gerusalemme era stata già conquistata. Nulla di piú facile, dunque, che il corso degli eventi posteriori abbia in qualche modo influenzato la memoria dei testimoni inducendoli a forzare le parole del papa. Dalle testimonianze risulta comunque che il pontefice esortò i milites a favorire il processo di pacificazione in corso in Francia – presupposto per un sereno sviluppo di quel Paese – non già abbandonando le armi, bensí accettando l’invito

L’itinerario militare proposto dal papa ricalcava obiettivamente quello del pellegrinaggio verso Gerusalemme. È tuttavia praticamente impossibile che a Clermont il papa abbia ipotizzato una conquista armata della città; era abbastanza comune che gli aristocratici si recassero in pellegrinaggio verso la Terra Santa, e spesso tali viaggi somigliavano ormai a piccole spedizioni militari, data l’insicurezza dei luoghi. Appare insomma chiaro che, a Clermont, il pontefice riprese le fila di un discorso già avviato forse a Guastalla e certo a Piacenza: visto che i guerrieri non sapevano far altro che combattere, ebbene che andassero a farlo in Oriente, dove avrebbero potuto guadagnar bene, aiutare i fratelli in Cristo e salvarsi l’anima; al tempo stesso liberando l’Occidente dalla loro scomoda presenza. In ogni caso, nel discorso del pontefice, l’idea di crociata appare già matura: incitamento a conseguire la gloria e la salvezza spirituale ma anche indicazione dei vantaggi materiali, esposizione della teoria dell’indulgenza concessa ai partenti, dichiarazione che non è il papa a esortare, ma il Signore. «Dio lo vuole!»: questo il grido che si sarebbe levato spontaneo dagli astanti e che, secondo i cronisti, sarebbe divenuto il motto della «prima crociata». L’appello ebbe successo: e gli astanti si comportarono esattamente come quando si formulava un voto di pellegrinaggio: cioè cucendosi sugli abiti il signum, il distintivo simbolo dell’impegno assunto, che in questo caso era il servizio a Dio e comprendeva la disponibilità al martirio; quindi, una piccola croce di stoffa rossa, che ancora non indicava la specifica meta gerosolimitana. Si stabilí che la partenza di quanti si erano impegnati sarebbe avvenuta per successivi contingenti, a partire dall’estate seguente. Intanto, però, accadevano altre cose.


Quel che Urbano II non aveva pensato, o forse non aveva osato formulare, fu a quanto pare affermato esplicitamente, in modo violento e confuso, da una quantità di «profeti», di predicatori vaganti, spesso al limite della disciplina ecclesiale, i quali in quegli anni di rinnovamento ma anche di crisi della cristianità scorgevano nei cieli e negli avvenimenti i segni della fine dei tempi, dell’avvento dell’Anticristo e della prossimità del Giudizio Universale.

Predicatori sospetti

La tradizione romantica, del resto appoggiata ai documenti del tempo, ci ha indotto a immaginare un nome e una figura grandeggianti in questo universo di allucinati: un monaco vagabondo d’origine piccarda, Pietro d’Amiens, detto Pietro l’Eremita. Non c’è ragione di sospettare che si tratti di un personaggio fantastico: egli è semmai il piú famoso, assurto a simbolo, dei tanti predicatori itineranti e disciplinarmente sospetti che percorrevano le vie di pellegrinaggio e i mercati del tempo parlando di fine del mondo, di avvento dell’Anticristo, di prossimità del Regno di Dio. I fautori della riforma avevano sfruttato queste spinte «po-

ISPIRATO DA UNA «VOCE DIVINA» Su Pietro d’Amiens o «Pietro l’Eremita», nato pare verso il 1050, si diffuse presto una leggenda che può avere qualche contorno reale. Pellegrino in Terra Santa, avrebbe assistito alle umiliazioni e alle sofferenze inflitte ai cristiani: tornato in patria, ne avrebbe perorato la liberazione. La principessa Anna Comnena, figlia del basileus di Bisanzio, che avvicinò Pietro a Costantinopoli, cosí lo descrive nel suo poema Alexiades: «Un celta di nome Pietro, soprannominato Cucupetros (dal latino cuculla, cappuccio), si recò a venerare il Santo Sepolcro ed ebbe a patire molti maltrattamenti dai Turchi e dai Saraceni che devastavano l’Asia intera, tanto che a mala pena tornò nel suo Paese. Non sopportò di aver mancato il suo scopo, volle anzi rimettersi per lo stesso cammino. Ma comprendendo che non doveva riprendere il pellegrinaggio verso il Santo Sepolcro da solo, per evitare che gli capitasse di peggio, escogitò un’abile trovata, quella di andar annunciando per tutti i paesi dei Latini: “Una voce divina mi ordina di annunciare a tutti i conti di Francia che in massa partano dai loro paesi e compiano il pellegrinaggio per venerare il Santo Sepolcro e si adoperino con tutte le forze e gli intendimenti a riscattare Gerusalemme dalla dominazione degli Agareni” [cioè gli Arabi, figli della schiava egizia Agar secondo il racconto della Bibbia: e quindi, in genere, i musulmani]».

Pietro l’Eremita predica la crociata, olio su tela di Francesco Hayez. 1827-1829. Milano, Collezione privata. CROCIATE

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LE CROCIATE

L’appello di Urbano II

IL FEROCE ACCANIMENTO DEI CRISTIANI

In alcune città del bacino del Reno e della regione boema, i massacri delle popolazioni ebraiche raggiunsero livelli di inaudita ferocia. Cosí narra il cronista Alberto d’Aquisgrana nella sua Historia Hierosolymitana: « Di là, non so se per giudizio di Dio o per qualche errore del loro animo (i pellegrini in cammino verso oriente) cominciarono a infierire crudelmente contro gli ebrei dispersi in alcune città e ne fecero crudelissima strage, specialmente in Lorena, asserendo che questo era il modo giusto di cominciare la spedizione e ciò che i nemici della fede cristiana meritavano. Questa strage di ebrei cominciò a opera dei cittadini di Colonia che, gettatisi d’un tratto su un piccolo gruppo di essi, ne ferirono moltissimi a morte: poi misero sottosopra case e sinagoghe, dividendosi il bottino. Vista questa crudeltà circa duecento ebrei di notte, in silenzio, fuggirono con delle barche a Neuss; ma i pellegrini e la gente che portava il distintivo della croce, imbattutisi in essi, li massacrarono fino all’ultimo e li spogliarono degli averi. Poi, senza indugio, si riversarono in gran folla su Magonza, come avevano stabilito. Allora gli ebrei, vedendo che i cristiani non risparmiavano neppure i piccoli e non avevano pietà per nessuno, si gettarono essi stessi sui fratelli, sulle donne, sulle madri, sulle sorelle e si uccisero vicendevolmente. E la cosa piú straziante fu che le stesse madri tagliavano la gola ai figli lattanti oppure li trapassavano, preferendo che essi morissero per loro propria mano piuttosto che uccisi dalle armi degli incirconcisi».

Ebrei messi al rogo, xilografia tratta dal Liber Chronicarum (o Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, pubblicato nel 1493.

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polari», queste istanze alla base delle quali c’era il sogno di una Chiesa povera e pura: tuttavia, ora che controllavano la Chiesa, avevano interesse a smorzare quei toni. Molti furono, alla vigilia della spedizione e durante i suoi preparativi, i predicatori come Pietro: di alcuni conosciamo anche i nomi. Questi «profeti», autorizzati o tollerati dalla Chiesa, percorsero Francia, Germania e forse anche l’Italia settentrionale, a quel tempo già aree di vigorosa e incipiente cultura cittadina, di ribollenti tensioni urbane, di forti passioni religiose al limite dell’eresia. Ora che i prelati riformatori sembravano aver vinto la battaglia ecclesiale, imponendo un affrancamento della Chiesa dall’interferenza del potere aristocratico e im-

periale, i tempi apparivano maturi. Il mondo era giunto al compimento della sua storia, il Regno dei Cieli era prossimo. A Gerusalemme si sarebbe compiuta la Parusia – ovvero la seconda venuta di Cristo – e lí bisognava recarsi. Ma anche in questi casi è necessario tenere presente che le nostre fonti sono tutte posteriori alla conquista della Città Santa, nel 1099, e che appare molto arduo a credersi che fin dall’inizio, nei progetti dei principi a capo delle colonne militari o negli infocati ma anche fumosi propositi dei «profeti», si potesse davvero concepire come obiettivo realisticamente raggiungibile la conquista di Gerusalemme. È probabile che i pauperes pensassero semmai a un pellegrinaggio, che però si andava configurando sempre di piú, ai loro occhi, come un Esodo a somiglianza di quello di Mosè e del popolo eletto nella Bibbia. Schiere di pellegrini inermi o forse sommariamente armati (perché il papa aveva parlato di un soccorso da fornire contro i barbari) si organizzarono nel corso del 1096 e seguirono i «profeti»; pare che molti membri piú o meno disadattati del ceto cavalleresco, i «poveri cavalieri», li inquadrassero. Un gruppo eterogeneo, questo dei «poveri cavalieri»: vi convergevano avventurieri in cerca di nuove terre e di facili prede e veri e propri convertiti ansiosi di dare uno sbocco penitenziale alla loro crisi religiosa.

Massacri alimentati dall’interesse

In questo contesto si ebbero numerosi massacri delle comunità ebraiche lungo i bacini dei fiumi Reno e Danubio, che le turbe dirette a est trovarono sulla loro strada (vedi box in questa pagina). La conversione degli Ebrei era profeticamente ritenuta il primo passo verso l’unione finale di tutte le genti, presupposto alla seconda venuta del Cristo. Circolavano d’altra parte, in Europa, notizie insistenti sull’amicizia tra Ebrei e musulmani, effetto forse anche di una lontana conoscenza di realtà spagnole; oltretutto i pellegrini cristiani concepivano se stessi come il nuovo popolo d’Israele, eletto da Dio per un nuovo Esodo, e ritenevano giusto pertanto veder distrutte le comunità dell’Israele antico, che non aveva riconosciuto il Messia. Infine, è evidente che nelle città attraversate dai pellegrini qualcuno soffiò sul fuoco: si stavano già organizzando i primi nuclei delle future borghesie cittadine, che avevano interesse a soppiantare gli Ebrei nell’esercizio dell’attività creditizia e nel rapporto privilegiato da essi mantenuto, specie in Germania, con i poteri regi e vescovili.


Miniatura raffigurante i partecipanti alla crociata «popolare» del 1096 assaliti e spogliati dei loro averi da parte degli Ungheresi, da un’edizione de Les Passages d’outremer faits par les Francois contre les Turcs depuis Charlemagne jusqu’en 1462 di Sebastien Mamerot. 1474-1475 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Il disordine chiamò altro disordine. I «crociati popolari» (l’espressione è moderna e piuttosto rozza: tuttavia, gli aggettivi sostantivati cruce signati e populares sono nelle fonti) furono a loro volta attaccati, perseguitati e dispersi prima dalle milizie episcopali delle città che avevano danneggiato, quindi da quelle di Coloman re d’Ungheria al quale l’idea che quelle folle indisciplinate attraversassero la pianura pannonica non piaceva per niente.

I pauperes a Costantinopoli

D’altronde era stata proprio la cristianizzazione degli Ungari, un secolo prima, ad aprire la via di terra dall’Europa verso Costantinopoli e Gerusalemme. Il re, tuttavia, non si sottrasse ai suoi doveri di garante della nuova strada percorsa dai pellegrini; in tal modo i resti del pellegrinaggio armato dei pauperes raggiunsero a suc-

cessive ondate, nell’estate del 1096, Costantinopoli. L’imperatore di Bisanzio, Alessio I Comneno, fece loro guadare in gran fretta il Bosforo, ma verso la fine di ottobre essi, ormai in territorio asiatico, furono massacrati dai Turchi. Pietro d’Amiens e alcuni superstiti riguadagnarono Costantinopoli in autunno, giusto in tempo per incontrare le sopraggiunte truppe dei baroni. Durante la crociata, Pietro continuò a rivestire un qualche ruolo; quindi, rientrato in Europa, fondò l’abbazia di Neufmoustier, presso Liegi, dove morí nel 1115. Della «crociata popolare» poco altro sopravvisse. Forse solo il ricordo di alcuni suoi capi, come quell’Emich di Leiningen tristemente noto per i suoi feroci massacri di Ebrei, che pare aver ispirato una leggenda passata al folclore tedesco e poi alle fiabe dei fratelli Grimm: il pauroso racconto del Pifferaio di Hameln. CROCIATE

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Dalle parole ai fatti Nella primavera del 1096 una schiera, assai composita, di «soldati di Cristo» dà inizio alla prima crociata. Destinata a concludersi, tre anni piú tardi, con la presa di Gerusalemme

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di Franco Cardini

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unque, cominciò cosí. Due o tre concili regionali tra Italia settentrionale e Francia centrale, indetti da un pontefice vincitore eppur fuggiasco dalla sua città; una tumultuosa primavera di partenze suscitate dalla predicazione di personaggi raminghi e quasi marginali; indisciplinate torme di pellegrini che talvolta si muovevano spingendosi dinanzi delle oche, secondo un vecchio superstizioso costume germanico, e che all’apparir lontano di ogni nuova torre, di ogni nuova cerchia muraria, si chiedevano l’un l’altro se quella fosse Gerusalemme; i massacri degli Ebrei renani e boemi. Fu questa la peregrinatio, alla quale tenne dietro l’iter dei principi e dei baroni con il loro seguito di milites e talora anche con le loro nobili consorti e le loro grandi o piccole corti. Fu questa la «prima crociata». Durò tre anni e qualche mese, dalla primavera del 1096 al luglio del 1099. Si concluse con la conquista di Gerusalemme e un orribile massacro dei suoi abitanti musulmani ed Ebrei: fu una fortuna che alla vigilia dell’assalto dei «Franchi» il governatore della città ne avesse fatto uscire i cristiani orientali, forse per non coinvolgerli in una lotta che li avrebbe visti forzatamente indecisi tra degli estranei, ch’erano pur sempre loro fratelli in Cristo, e della gente che parlava la loro stessa lingua e viveva come loro ma che apparteneva a un altro credo, sia pur affine. Se fossero rimasti in città, è probabile che i peregrini, i cruce signati, avrebbero massacrato anche loro. Guerrieri coperti di ferro e gente inerme – che in quei lunghi mesi aveva forse imparato a combattere e certo si era scoperta feroce pur restando animata da un profondo, oscuro senso di pietà religiosa – avevano attraversato la pianura anatolica e poi la Siria in due successive estati, disorientando i generali bizantini di Alessio I Comneno e cogliendo del tutto di sorpresa i Turchi selgiuchidi e gli Arabi fatimidi, che si contendevano da alcuni decenni l’area che oggi piú o meno corrisponde al territorio siro-libano-israelo-palestinese.

Fallimenti in sequenza

La «prima crociata» resta un enigmatico magma di casualità e di fatalità, e forse riuscí proprio in virtú del suo essere strampalata: prova ne sia che le successive sette (secondo il computo ordinariamente invalso), tutte pensate e organizzate con miglior logica e maggior cura tattico-strategica, fallirono inesorabilmente l’una dopo l’altra, oppure conseguirono risulta-

In alto miniatura raffigurante l’assedio di Gerusalemme da parte dei crociati nel 1099, da un’edizione delle Chroniques de Jérusalem abrégées. 1462-1468. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. In primo piano, sulla destra, la tenda di Goffredo di Buglione, che ne è uscito ed è ritratto al centro. Nella pagina accanto capolettera miniato raffigurante Boemondo I di Antiochia e il patriarca di Gerusalemme, Daiberto da Pisa, che navigano verso la Puglia, nel corso della prima crociata, da un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1250-1259. Londra, British Library.

A sinistra miniatura raffigurante un crociato in ginocchio, dal Salterio di Westminster. 1250 circa. Londra, British Library.

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La conquista di Gerusalemme

I FRANCHI: INSTABILI E INAFFIDABILI Per Anna Comnena, raffinata principessa greca, colta erede della civiltà ellenistica e porphiroghénita (ovvero nata nella porpora imperiale), la «prima crociata» è, né piú né meno, un’incursione barbarica. Ecco appunto il giudizio che, nell’Alexiades, la principessa formula a proposito dei «Franchi»: «Quando ancora non si era riposato neppure un po’ [il basileus Alessio I, suo padre] sentí la voce dell’arrivo di innumerevoli schiere di Franchi. Egli ebbe timore del loro arrivo conoscendo l’incontenibilità del loro slancio, l’instabilità e mutabilità del carattere e le altre caratteristiche che la loro natura presenta come proprie o come conseguenti e che si mostrano sempre a bocca spalancata davanti alle ricchezze, facilmente buttando all’aria i trattati alla prima occasione. Questo l’aveva sempre sentito dire e perfettamente verificato. Non si scoraggiò, tuttavia, ma si preparò in ogni modo a far fronte a eventuali scontri bellici. E la realtà era piú grave e piú temibile delle notizie che l’annunciavano. L’intero Occidente e tutti i popoli barbari che abitano la regione al di là dell’Adriatico fino alle Colonne d’Ercole, migrando in massa verso l’Asia traversavano l’Europa compiendo la marcia a gruppi nazionali».

In alto miniatura raffigurante l’assedio di Antiochia da un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1280 circa. Lione, Bibliothèque municipale. A sinistra acquamanile di produzione francese raffigurante un cavaliere. XIII-XIV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

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ti lontani ed estranei rispetto alle quanto meno esplicite intenzioni di chi le aveva bandite e dirette. I suoi protagonisti non sembrarono mai essersene davvero resi conto. All’osservatore moderno essi danno l’impressione di aver agito quasi alla giornata, abbandonandosi appunto a quel che i romanzi di cavalleria del XII-XIII secolo definiscono l’aventure.

Vantaggi collaterali

L’imperatore Enrico IV, Filippo re di Francia, Guglielmo Rufo re d’Inghilterra e il Gran Conte di Sicilia si guardarono bene dall’interessarsi o dal lasciarsi coinvolgere in un’impresa che si annunziava con tanto caotici contorni: eppure furono – imperatore a parte, per ragioni particolari – proprio loro, i sovrani delle cosiddette «monarchie feudali» del tempo, a trarre un primo immediato vantaggio dall’impresa del 1096-1099, che li liberò di un certo numero di riottosi nobili e consentí loro di rafforzare la loro compagine istituzionale e amministrativa. In effetti, gli esiti di quella forse improvvisata allocuzione pontificia di Clermont, alla fine del novembre 1095, dovettero stupire e probabilmente inquietare lo stesso Urbano II, che nei


mesi successivi si dette con una lunga e serrata serie di provvedimenti, tutti rigorosamente documentati, a cercar di frenare l’entusiasmo che aveva causato, insistendo che per nessuna ragione partenze numerose e inconsulte avrebbero dovuto turbare e tanto meno scompaginare l’ordine civile ed ecclesiale della cristianità d’Occidente: i mariti partissero ricevuto l’assenso delle consorti, gli ecclesiastici con il permesso del loro ordinario diocesano e, quanto ai monaci, non osassero abbandonarsi a scorribande che li avrebbero avvicinati ai famigerati gyrovagi. Il papa era preoccupato anche dinanzi a fenomeni come gli eccidi di massa degli Ebrei in Germania e in Boemia. Tuttavia, nel concilio di Bari del 1098, avrebbe dato prova di comprendere che ormai, dalla spedizione che noi chiamiamo «crociata» e che allora si trovava in Anatolia, stava nascendo qualcosa di nuovo. Sarebbe morto nel 1099, senza fare in tempo a sapere della conquista di Gerusalemme. D’altronde, Urbano II non aveva mai affidato la spedizione nata dalle sue parole – ma non sappiamo se davvero coerente, e fino a che punto, con la sua volontà e i suoi programmi – a coloro che erano stati casualmente testimoni della sua allocuzione di Clermont. Nei mesi successivi il papa, oltre a lavorare affinché essa non scompaginasse l’ordine tanto faticosamente e non ancora del tutto raggiunto, tessé una fitta rete di rapporti diplomatici e disciplinari con principi laici e prelati al fine di razionalizzare quel programma che, egli disse, era stato esposto solo in termini compendiosi.

conte di Blois e di Chartres, forse il piú ricco, potente e colto signore del Regno di Francia; il principe Ugo «il Grande» di Vermandois, fratello del re di Francia; Roberto, conte di Fiandra; Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, con i fratelli Baldovino di Boulogne ed Eustachio; infine Boemondo d’Altavilla, figlio primogenito di Roberto il Guiscardo e nipote pertanto del Gran Conte di Sicilia. Al loro seguito marciavano molti aristocratici e cavalieri con i propri fedeli. Del tutto assenti dalla crociata invece, come s’è detto, gli «unti del Signore», ovvero i re: l’imperatore Enrico IV, che era in rotta col papa, non poteva abbandonare la Germania (e del resto,

Miniatura raffigurante Ademaro di Monteuil alla testa di un gruppo di baroni in partenza per la prima crociata, da un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1280 circa. Lione, Bibliothèque municipale.

Al seguito dei baroni

Una pervicace tradizione collega la crociata con il desiderio di gloria, d’avventura e di bottino dei «cadetti» dei lignaggi vassallatici. Non c’è dubbio che ve ne fossero, fino agli enigmatici pauperes milites: e qualcuno di loro era un vero e proprio Raubritter, un «cavaliere-brigante», magari partito per la spedizione a titolo penitenziale. La maggioranza dei guerrieri faceva parte però del comitatus, della mesnie – cioè del seguito – d’un potente barone o addirittura d’un principe. All’impresa avevano difatti aderito, accettando di guidare altrettante colonne armate, i piú grandi signori dell’Europa del tempo: Raimondo di SaintGilles, conte di Tolosa e marchese di Provenza, signore di gran parte del Meridione francese e vassallo sia dell’imperatore sia del re di Francia; Roberto duca di Normandia, figlio di Guglielmo il Conquistatore e fratello di Guglielmo Rufo re d’Inghilterra; suo cognato Stefano

avendo subito compreso che la spedizione mirava a legittimare il potere anche politico-temporale del pontificato riformatore, non poteva obiettivamente non esserle ostile) e avversò insieme con i suoi fedeli la spedizione condannando anche con durezza i massacri degli Ebrei; il re di Francia, scomunicato e indebolito moralmente anche a causa di sue vicende private; i re della Penisola Iberica, a cui la crociata doveva forse, per analogia, il nucleo della sua idea iniziale, ma che non potevano farsi distogliere dallo sforzo della Reconquista. CROCIATE

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La conquista di Gerusalemme Tuttavia, gli assenti furono appunto tra i principali beneficiari dell’impresa. Essa infatti, allontanando dall’Europa tanti cavalieri predoni e turbolenti, facilitò il processo di pacificazione continentale e consentí un piú rapido sviluppo economico e civile; inoltre, facendo uscire almeno temporaneamente – ma in molti casi anche per sempre – dal continente europeo esponenti di tanto grandi dinastie principesche, spianò la via al rafforzamento dei poteri regi. Avendo appianato la via verso le monarchie feudali e nel contempo facilitato lo sviluppo delle città, la spedizione del 1096 è uno degli eventi fondanti dell’Europa moderna, alla coscienza della quale contribuí anche conferendole un nemico che in un certo senso svolse un ruolo unificante della sua identità: il mondo musulmano. Da questo punto di vista l’impresa si configura come un caso di «esportazione della violenza», un elemento non secondario della pacificazione almeno parziale dell’Europa.

Per fede, ma non solo

Ma perché tanti membri dell’alta aristocrazia feudo-signorile accettarono di partecipare a un’avventura che li distoglieva dalle loro terre e ne minava potere e autorità? In effetti, in molti casi non è difficile individuare elementi di crisi che turbano l’assetto e la stabilità politica di numerosi grandi principi. Raimondo di Tolosa, per quanto fosse piú potente dei sovrani di cui era vassallo, era minacciato da molti nemici interni ed esterni. Roberto di Normandia aveva perduto la sua corsa all’eredità politica del padre e sentiva di doversi rassegnare – nell’ambito dell’«impero di famiglia» normanno – al predominio politico del fratello Guglielmo re d’Inghilterra. Goffredo di Buglione non era piú giovanissimo e – come molti prelati presenti nella spedizione – aveva un passato di partigiano dell’imperatore da farsi perdonare. Boemondo d’Altavilla aveva a sua volta perduto il duello per il predominio familiare con il suo fratellastro Ruggero, sostenuto dal potente zio Ruggero, conquistatore della Sicilia. Non va dimenticato nemmeno il fattore religioso, che in alcuni casi era potente: Raimondo di Provenza, senza dubbio il principe piú autorevole, potente ed energico fra quanti avevano risposto all’appello di Clermont, sembra toccato da quella religiosità popolare forte e profonda che di lí a poco, nelle sue stesse terre, avrebbe fatto prosperare la setta ereticale dei Catari. Goffredo di Buglione ci appare preda di una sorta di turbamento di coscienza, una specie di quella che noi moderni chiameremmo una crisi 48

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sempre piú bisogno di denaro liquido ma non disponeva né delle fonti, né dei metodi necessari per ottenerlo: non riusciva a produrre redditi, non capiva come si potesse gestirli. Avida quanto prodiga, le ricchezze sapeva soltanto spenderle, scialacquarle o rapinarle; al massimo – ed era il punto piú alto cui riuscisse ad arrivare in termini di comprensione dei tempi nuovi – chiedeva denaro in prestito accettando gli alti tassi d’interesse e rovinandosi con vendite o ipoteche sui propri beni. L’avventura a est sembrava costituire una risposta incerta e precaria a questa crisi, ma la posta in gioco era alta. Il miraggio di principes e di milites era quello che compare nella poesia epica: nuove signorie su terre favolosamente opulente, ricchi bottini con cui riempire forzieri abituati a star semivuoti e candidati a vuotarsi di nuovo in troppo breve tempo. Emblematico di questo stato d’animo, in cui l’ingordigia si associa all’indisciplina, fu l’atteggiamento dei Franchi a Costantinopoli: si dettero prima a inconsulti atti di violenza e di rapina, infine accettarono i doni del basileus – pegno di stima e di ammirazione, quasi di paura, ai loro occhi; ma, per il sovrano bizantino, semplici premi d’ingaggio mercenario – e finirono col prestargli tutti o quasi il dovuto giuramento di fedeltà dandogli una parola alla quale avrebbero poi mancato.

Un attacco inaspettato Miniatura raffigurante un drappello di cavalieri, da un’edizione dell’Entrée d’Espagne. Metà del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Nella pagina accanto La battaglia di Ascalona, 18 novembre 1177 (particolare), olio su tela di Charles-PhilippeAuguste de Larivière. 1842 circa. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

mistica. Nato nel Brabante verso il 1060, Goffredo era stato a lungo un deciso sostenitore dell’imperatore Enrico IV: il viaggio intrapreso nel 1096 fu quindi per lui qualcosa di molto vicino al pellegrinaggio penitenziale per scontare il fatto di aver in passato scelto la «parte sbagliata»; forse, al ripiegarsi su se stesso di uno che si sentiva un perdente. Ma è molto probabile che una vera e propria crisi psicologica e spirituale sia alla base del viaggio o sia maturata nel corso di esso.

Il miraggio di ricchi bottini

Infine, su tutti – sui baroni come suoi loro vassalli – pesava il ruolo dei tempi nuovi, quelli che stavano imponendo una sempre piú profonda e vorticosa ascesa dell’economia monetaria. Terre e armi non bastavano piú: anzi, rendevano il denaro ancor piú necessario. Perseguitati dai debiti e dal loro stesso bisogno di oggetti di lusso come status symbol, gli aristocratici si andavano spogliando rapidamente delle loro ricchezze immobiliari. L’aristocrazia laica aveva

Le vicende dell’impresa che condusse alla conquista di Gerusalemme occupano il periodo compreso tra la primavera-estate del 1097 e l’estate del 1099. Distinti in differenti colonne che a tratti si riunivano, le truppe baronali e i pellegrini piú o meno inermi che esse avevano accettato di scortare – non sappiamo quanto volentieri – attraversarono l’altopiano anatolico e vinsero ripetutamente truppe turche inviate contro di loro da potentati che senza dubbio avevano sottovalutato la pericolosità di questi nuovi arrivati. Nell’estate del 1098 i Franchi riuscirono a impadronirsi di Antiochia, una delle piú grandi metropoli del Vicino Oriente. Il mondo islamico vicino-orientale non si aspettava quell’attacco, per piú versi folle; e, per giunta, era diviso a causa della rivalità fra Turchi e Arabi, fra sunniti e sciiti. Un elemento assai importante del successo dei Franchi, nonostante la loro ignoranza della geografia e della climatologia vicino-orientale (transitarono per il deserto altopiano anatolico in piena estate!) e la litigiosità fra i capi, fu senza dubbio il fattore sorpresa: gli emirati CROCIATE

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La conquista di Gerusalemme

QUANDO I CRONISTI «DANNO I NUMERI»... È arduo azzardare cifre credibili per la prima crociata: come sempre, per l’XI-XII secolo. Alla partenza, anzitutto: a parte le schiere militari, i gruppi di pellegrini – con donne, anziani, bambini – dovevano forse comporsi e scomporsi di continuo, con gente che abbandonava e altra che se ne aggiungeva. Per l’arrivo in Terra Santa, gli studiosi danno valutazioni molto diverse: dai 3000 ai 30 000, limitandosi agli armati (ma nel 1099 la distinzione tra armati e inermi doveva essersi quasi del tutto cancellata). Secondo gli usi del tempo, un guerriero pesantemente armato si accompagnava di solito a tre-cinque inservienti: ma è credibile che nel 1099 la spedizione potesse mettere ancora in campo piú di una decina di migliaia di armati «professionisti» – che per allora sono moltissimi – anche considerando che ormai parecchi Occidentali dovevano esser morti o aver abbandonato l’impresa e che pertanto il seguito di molti cavalieri doveva essere costituito da Bizantini, Siriani, Armeni, e magari pure da assoldati turchi o arabi? E in questo caso, quanti pellegrini dovremmo ipotizzare seguissero l’armata? Siamo abituati a ritenere che gli inermi soverchiassero di molto il numero degli armati: qualcuno ha parlato della proporzione (che appare

schematica) di 1 a 10. E se ancora nel 1098 guerrieri e pellegrini messi insieme potevano davvero essere oltre 100 000, come appare da questo rozzo computo, quanti si deve pensare fossero alla partenza dall’Europa? Senza dubbio molti di piú, poiché appare assai improbabile che il pur consistente numero di persone che si erano loro aggiunte per strada fosse tale da reintegrare le numerose perdite per abbandono o per decesso rispetto al contingente iniziale. Purtroppo, in questo e in altri analoghi casi, le cifre fornite dai cronisti – sia occidentali sia orientali – sono iperboliche e comunque inaffidabili sul piano delle nostre esigenze statistiche e quantitative, né sono del resto tra loro concordi.

Miniatura raffigurante un manipolo di cavalieri che raggiunge una fortezza, da un’edizione manoscritta dell’Entrée d’Espagne. Metà del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

d’Anatolia e di Siria, a loro volta del resto ostili tra loro, non arrivarono certamente a immaginare che si potesse essere cosí pazzi da affrontare gli eccessi estivi o invernali di un clima continentale tra i piú duri. Altro fattore di successo fu la confusione tattica e strategica dei crociati, la loro mancanza di un obiettivo chiaro: erano abili e coraggiosi guerrieri, ma indisciplinati, privi di un piano comune, incapaci di coordinare le loro forze. I Turchi erano abituati alle periodiche controffensive bizantine e alla presenza, anche se mai numericamente tanto massiccia, di mercenari occidentali: ma non potevano rendersi conto del fatto 50

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che ci si trovava dinanzi a un evento nuovo, un pellegrinaggio armato diretto a Gerusalemme. Tanto piú che questo non lo sapevano e per lungo tempo non lo capirono nemmeno i principi: la volontà di arrivare alla Città Santa, e magari la confusione tra quella celeste e quella terrena, erano semmai appannaggio dei «crociati popolari». Vero è che nel corso dell’XI secolo, soprattutto a partire dal quarto decennio, molti erano stati i pellegrinaggi occidentali compiuti in gruppi numericamente importanti e caratterizzati dalla presenza di armati il cui compito era difendere gli altri pellegrini. Sugli eventi che accompagnarono la «prima


crociata» siamo piuttosto ben informati: disponiamo di buoni e attendibili cronisti, spesso testimoni oculari, e anche di poemi epici, chansons, a quel che sembra piuttosto fedeli alla realtà storica. Ma si tratta di notizie magari anche dettagliate su fatti, battaglie, assedi, tradimenti, alleanze e inimicizie reciproche tra i capi, tensioni tra i principi feudali e i «profeti» carismatici che guidavano i pellegrini, momenti di rabbia e di rivolta; perfino eventi miracolosi o terrificanti.

Stime esagerate

Altri aspetti di quella che fu definita «la santa impresa» restano invece in ombra: soprattutto quelli che riguardano gli effettivi problemi quotidiani, dalla logistica agli atteggiamenti mentali individuali e collettivi. Non sappiamo neppure quanti fossero, tra guerrieri e pellegrini: né quando si mossero, a scaglioni, dall’Europa, né quando arrivarono in Palestina. Si sono proposte senza fondamento cifre impressionanti: oggi, sulla base di calcoli e ipotesi anche molto raffinati, si è giunti a stime molto

piú prudenti. Quell’orda di guerrieri armati e di pellegrini originariamente inermi, induriti dal lungo viaggio, inferociti dalle privazioni e preda d’un repentino fanatico entusiasmo, si abbatté su Gerusalemme tra la primavera e l’inizio dell’estate 1099; la città venne espugnata d’assalto il 15 luglio di quell’anno. La cortina muraria fu superata nell’angolo piú vulnerabile, quello di nord-est; i «Franchi» dilagarono nella città prima dalla Porta di Erode, lungo la cinta settentrionale; procedettero poi fino alla Spianata del Tempio, dove dall’VIII secolo sorgevano le due moschee della «Cupola della Roccia» e di al-Aqsa, e dove avvenne il massacro piú spaventoso; infine s’indirizzarono alla basilica del Santo Sepolcro dove sciolsero il voto. Il governatore musulmano, che si era ritirato nella Torre di David, fu lasciato libero con i suoi dietro versamento di un riscatto. La città fu ripopolata dai cristiano-orientali che ne erano stati espulsi e da altri loro correligionari siriaci e armeni: almeno in un primo tempo, difatti, fu proibito a musulmani ed Ebrei di soggiornarvi.

Miniatura raffigurante i crociati che espugnano Antiochia grazie al tradimento di Firouz, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Un reame «europeo» in Terra Santa Per consolidare il controllo dei territori conquistati, i principi venuti dall’Occidente danno vita a un singolare esperimento politico: creano un loro nuovo regno, con base a Gerusalemme di Franco Cardini

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ate l’entità numerica e l’eterogeneità qualitativa dei partecipanti, la spedizione del 1096-1099 somigliava piú a una migrazione di popoli che a un pellegrinaggio: almeno per gli standard del tempo. È vero che molti principi e prelati di quel secolo avevano intrapreso anche negli anni precedenti la strada del pellegrinaggio gerosolimitano portandosi dietro, oltre al seguito di armati, una vera e propria grande o piccola corte: ma, pure rispetto a quelle esperienze, la crociata si configurava come una troppo ampia e soprattutto inaspettata variante. In effetti – per quanto si possa ipotizzare che l’idea della conquista armata di Gerusalemme circolasse negli ambienti della Chiesa riformatrice fin dai tempi di Gregorio VII – si deve arrivare all’indomani della presa di Antiochia, quindi all’estate del 1098, per constatare come l’ipotesi che fosse possibile e opportuno spingersi fino 52

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all’assalto della Città Santa, sviluppata forse in ambiente popolare, avesse messo radici anche tra i principi, a partire dalla cerchia di Raimondo di Tolosa. La carenza di fonti impedisce di capire con chiarezza – a parte qualche indizio sparso – quale fosse intanto l’azione pontificia e come si comportasse Urbano II che guidava a distanza l’iter-peregrinatio. Di sicuro, dopo la conquista di Antiochia, morto il legato Ademaro di Le Puy, i principi si erano sentiti quasi abbandonati e, esitando ad affrontare il braccio di ferro tra loro per la leadership, avevano inviato una lettera al papa chiedendogli di raggiungerli o di guidare comunque in modo diretto la loro impresa. Ormai l’ambiguo legame di fedeltà che essi avevano stipulato a Costantinopoli con l’imperatore bizantino, legittimo signore dei territori da loro conquistati secondo la tradizione dell’impero romano, si era infranto. In quel

Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1280 circa. Lione, Bibliothèque municipale. A sinistra, i crociati sotto le mura di Gerusalemme: dall’alto, un’apparizione divina e un momento di preghiera nell’accampamento. Nella pagina accanto, dall’alto: Goffredo di Buglione prega sul Santo Sepolcro e poi si riunisce con i capi latini della spedizione.


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Il regno franco di Gerusalemme momento, poi, il basileus era uno scismatico, che aveva rotto la comunione con la Chiesa latina. Andò quindi prendendo corpo l’ipotesi di una signoria franca in una terra che formalmente spettava all’imperatore della Nuova Roma, ma che era occupata da piú di quattro secoli e mezzo dai musulmani. Sia il collegamento tra la «prima crociata» e gli eventi militari connessi con la riforma ecclesiastica, sia quello tra il pontefice Urbano e i capi della spedizione sono tanto stretti e palesi che ci si aspetterebbe di vedere da un momento all’altro svettare, alto nella selva delle insegne, il vexillum Petri. Ebbene: no. Gli Occidentali che nel luglio del 1099 avevano conquistato la Città Santa – grazie anche al decisivo apporto dei marinai genovesi, esperti costruttori di macchine d’assedio ricavate dal legname delle loro navi smontate nel porto di Giaffa e trasportate con una marcia d’un centinaio di chilometri, in estate, fin sotto le mura gerosolimitane – avevano ancora tuttavia l’intenzione di erigere la loro conquista in signoria ecclesiastica o di attribuirne addirittura il diretto dominio alla Chiesa di Roma. Era impossibile pensare altrimenti. Fu eletto difatti subito un patriarca latino, nella persona di un prelato che godeva il sostegno dei Normanni; dal momento che ormai era in atto da quarantacinque anni uno scisma tra le due Chiese e ormai era chiaro che i rapporti dei conquistatori col basileus si andavano avviando verso l’ostilità, si giudicò evidentemente inopportuno affidarsi a un presule greco.

Il pontefice a un bivio

I papi riformatori avevano spesso accettato, nel corso dell’XI secolo, il dominio di terre prive di signori e l’avevano delegato a principi disposti ad accettare, in segno di vassallaggio, la loro insegna, il vexillum sancti Petri. Era accaduto per l’Inghilterra, per i regni iberici, per l’Italia meridionale: conquistatori desiderosi di legittimare il loro atto di forza avevano legato i loro destini a quelli della sede pontificia romana. Se il papa avesse accettato anche le offerte dei principi che nel 1099 avevano occupato Gerusalemme, sarebbe nato un nuovo regno vassallo della cattedra di san Pietro, come l’Inghilterra e la Sicilia. Tuttavia, per il diritto che nessun cristiano avrebbe mai potuto sconfessare, Gerusalemme apparteneva al basileus di Costantinopoli: il fatto che gli Arabi gliel’avessero strappata quasi mezzo millennio prima non cambiava nulla sul piano dei princípi. Fare un gesto che suonasse contestazione di 54

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quel diritto, da parte del pontefice, sarebbe equivalso a una sfida e a un’offesa troppo grandi: è vero che in quel momento tra Roma e Costantinopoli era in atto uno scisma, però nessuno lo giudicava né troppo grave, né irreversibile. Una provocazione come quella avrebbe significato scavare un fossato incolmabile fra Greci e Latini: nessun pontefice avrebbe mai potuto assumersi una simile responsabilità. A Roma si capiva bene, ormai, che i nuovi padroni di Gerusalemme stavano scegliendo di comportarsi da usurpatori nei confronti del sovrano bizantino: e non si voleva legittimare quella posizione insostenibile in sede di diritto, per quanto si fosse disposti ad accettarla nei fatti. Bisognava d’altronde amministrare l’esistente, accettarne l’ambiguità e cercare di non far precipitare la situazione. I capi militari della spedizione erano inoltre in discordia fra loro e non avrebbero mai accettato di sottomettersi a uno della loro stessa cerchia che fosse però troppo potente ed energico. Per questo scartarono Raimondo di Tolosa, che pur aveva un forte seguito e un ascendente anche carismatico fra i pellegrini, da quando aveva sostenuto il culto di una reliquia rinvenuta l’anno prima durante l’assedio di Antiochia, la Santa Lancia.

Un advocatus riluttante

Si finí invece con l’accordarsi sull’elezione di un principe malfermo in salute e non troppo energico, che non avrebbe mai avuto né la voglia né la possibilità di essere un vero capo: la scelta cadde su Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena. Si disse che fosse sua volontà – o volontà di qualche prelato che glielo suggerí – il non voler «portare corona d’oro là dove il Cristo era stato coronato di spine». In altri termini non si procedette a eleggere un re, bensí un semplice Advocatus Sancti Sepulchri, un procuratore per gli affari mondani dell’istituzione e delle proprietà della basilica della Resurrezione. Ciò significava che la signoria sulle nuove conquiste veniva affidata alla «Chiesa del Santo Sepolcro», cioè alla cattedrale patriarcale: e difatti il patriarca Daiberto, arcivescovo di Pisa, che era giunto subito dopo la conquista della città con una numerosa flotta, dette chiari ed evidenti segni di ritenersi detentore legittimo del potere. Proprio per questo, forse, il già ammalato Goffredo fu scelto come «Avvocato del Santo Sepolcro» dai capi crociati decisi a restare in Terra Santa, ma non disposti a farsi comandare da un signore piú energico. Del resto, morendo nel 1100, Goffredo non ebbe neppure il tempo di governare.

Miniatura raffigurante una veduta di Gerusalemme, da Advis directif pour faire le voyage d’Outremer. 1458 (?). Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Baldovino I conte di Edessa, re di Gerusalemme, nonché fratello di Goffredo di Buglione, da un’edizione delle Chroniques de Jérusalem abrégées. 1462-1468. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Schivo, solitario, ombroso, malinconico, forse roso dai rimorsi per aver tradito il suo signore Enrico IV e probabilmente animato dal segreto desiderio di finire i suoi giorni nella pace di un eremo, Goffredo di Buglione, per quanto fosse un buon guerriero, non era stato un vero leader dell’impresa del 1096-1099, i cui capi morali ed effettivi erano stati Ademaro vescovo di Le Puy e Raimondo di Tolosa. Per affrontare i costi della spedizione, egli si era quasi rovinato vendendo o impegnando le sue terre. Pare anche che – unico fra i principi – abbia giocato un ruolo ambiguo nella faccenda dello sterminio degli Ebrei nel 1096: una scelta, forse, fatta per sottolineare una volta di piú – e in modo assai poco onorevole – la distanza dall’imperatore che aveva tradito. Con Goffredo, il patriarca Daiberto (un altro che solo all’ultimo momento era salito sul carro dei vincitori nella contesa tra papato e impero) aveva potuto facilmente CROCIATE

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LE CROCIATE

Il regno franco di Gerusalemme

SI AVVERA LA PROFEZIA DELLE SCRITTURE Con lo spirito a metà strada tra il cittadino del Nuovo Regno dei Cieli dopo l’Apocalisse e il reietto di colpo divenuto gran signore (un tipico atteggiamento esistenziale colonialista), cosí descriveva la nuova terra e la nuova situazione all’indomani della conquista il chierico Fulcherio di Chartres: «Ecco che noi, che eravamo occidentali, siamo ora diventati orientali. L’italico o il franco di ieri si son fatti, una volta trapiantati, galilei o palestinesi; quello di Reims o di Chartres si è mutato in siriaco o in antiocheno. Abbiamo già dimenticato i nostri luoghi d’origine: molti dei nostri li ignorano o non ne hanno addirittura mai sentito parlare. Qui c’è già chi possiede casa e servi con tanta naturalezza come se li avesse ricevuti in eredità dal padre; chi ha preso per moglie – anziché una compatriota – una siriana, un’armena o magari una saracena battezzata; chi ha qui suocero, genero, discendenti, parenti. Uno ha ormai figli e nipoti, un altro beve il vino della sua vigna; un altro ancora si nutre con i prodotti dei suoi campi. Ci serviamo indifferentemente delle diverse lingue del Paese: tanto l’indigeno quanto il colono occidentale sono divenuti poliglotti e la reciproca fiducia avvicina le razze anche piú estranee fra loro. Si avvera quanto ha detto la Scrittura: “Il leone e il bue mangeranno a una medesima mangiatoia”. Il colono è ormai divenuto quasi un indigeno, l’immigrato si assimila all’originario abitante. Ogni giorno parenti e amici vengono a raggiungerci dall’Occidente, non esitando ad abbandonare laggiú tutto quel che posseggono; perché chi laggiú era povero qui, per grazia di Dio, ottiene l’opulenza; chi non aveva che qualche soldo, qui possiede dei tesori; chi non godeva neppure di un dominio, qui si vede divenuto padrone di una città. Perché dunque tornare, dal momento che abbiamo trovato un tale Oriente?» (Fulcherio di Chartres, Gesta Francorum Hierusalem peregrinantium, in Recueil des Historiens des croisades. Historiens Occidentaux, vol. III, Parigi 1844, p. 468).

imporre la sua volontà. Ma, morto Goffredo nel 1100, il prelato si scontrò col di lui fratello Baldovino di Boulogne, che – insignoritosi nel 1097 della città di Edessa – scese a Gerusalemme e si fece aggiudicare la corona: regale, stavolta, per quanto non fosse chiaro sulla base di quale autorità i principi crociati potessero eleggere un sovrano. Era nato il «regno franco di Gerusalemme», che durante due secoli si configurò come una monarchia elettiva con intermittenti caratteri dinastici, la cui corona si trasmetteva anche in linea femminile. Giova ripetere ancora come, dal punto di vista del mondo cristiano, Gerusalemme – Città Santa e quindi per eccellenza res sancta pertinente all’impero – non avrebbe mai potuto essere ragionevolmente sottratta al potere del basileus; né il vescovo di Roma, i cui predecessori si erano arrogati la sovranità eminente sulle terre prive di signore naturale, poteva contestare il diritto dell’imperatore romano d’Oriente al dominio sulla città di David. I principi crociati avevano inteso, come sappiamo, offrire al pontefice quella preziosissima

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gemma, naturalmente per riottenerla subito dopo in feudo in quanto vassalli del papa. Ma questi non poteva certo sfidare apertamente il basileus, anzi ben sapeva che, al contrario, una sua offerta al successore dei Cesari di rientrarne in possesso sarebbe stato uno splendido dono di riconciliazione in chiusura dello scisma aperto nel 1054: i conquistatori, però, non gli avrebbero mai consentito un tale bel gesto.

Il primo regno «laico» d’Europa

Non volendo accettare formalmente la sovranità eminente bizantina, i re della Gerusalemme crociata furono costretti a fare a meno nella pratica anche di quella pontificia. Se l’impero romano-germanico fosse stato in quel momento piú solido, essi si sarebbero forse rivolti a Enrico IV, il quale però era ormai del tutto screditato. Insomma, il regno nato dalla santa impresa venne fondato, paradossalmente e contro la volontà di chi doveva cingerne la corona, come superiorem non recognoscens. Era di fatto un precedente, un «modello» di monarchia laica nata da una «guerra santa». Era un «paradosso moderno», inconcepibile all’inizio del XII secolo e in anticipo di almeno due secoli sulla storia europea. I guerrieri della croce avevano determinato la nascita del primo regno «laico» d’Europa; e lo avevano fondato fuori d’Europa. La conquista di Gerusalemme era stata possibi-

In alto e qui sopra due vedute della fortezza di Kerak, in Giordania, costruita dai crociati nel XII sec. per controllare i territori occupati a est del Giordano. Sulle due pagine la Torre di David, nella Città Vecchia di Gerusalemme. CROCIATE

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LE CROCIATE I resti del castello di Nimrod, sulle alture del Golan, una delle numerose fortezze poste a presidio degli interessi crociati in Terra Santa.

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Il regno franco di Gerusalemme le anche grazie a un ulteriore elemento che i Franchi non avevano affatto chiaro: la duplice divisione che attraversava il mondo islamico e lo scomponeva in una complessa geografia di rivalità (quella religioso-territoriale tra il califfato sunnita di Baghdad e quello sciita del Cairo, quella etno-culturale tra gli Arabi, abituati a una tradizione di buoni rapporti con i cristiani sia esterni sia interni rispetto all’Islam, e i Turchi, convertiti di recente e giunti altrettanto da poco sul teatro mediterraneo). Ancora una volta, il paradosso: il successo della crociata sarebbe servito in un modo o nell’altro a risolvere almeno in parte queste tensioni e a indicare all’Islam la strada di una rinnovata concordia, della quale esso per la verità non aveva sentito fino allora né la vocazione né il bisogno. In effetti, la conquista «franca» di Gerusalemme era stata, per il mondo musulmano vicinoorientale (tra Damasco, Baghdad e il Cairo) un’autentica, inattesa, inspiegabile sciagura. Cosí la rievoca, per esempio, il cronista Ibn AlAthír: «Contro Gerusalemme mossero dunque i Franchi dopo il loro vano assedio di Acri, e giunti che furono la cinsero d’assedio per oltre quaranta giorni. Montarono contro di essa due torri, l’una delle quali dalla parte di Sion, e i musulmani la bruciarono uccidendo tutti quelli che erano dentro; ma l’avevano appena finita di bruciare che arrivò un messo in cerca d’aiuto, con la notizia che la città era stata presa dall’altra parte: la presero infatti dalla parte di settentrione, il mattino del venerdí ventidue sha’bàn (492 dell’Ègira, 15 luglio 1099). La popolazione fu passata a fil di spada e i Franchi stettero per una settimana nella terra facendo strage dei musulmani (…) tra cui una gran folla di imam e dottori musulmani, devoti e asceti (...) Dalla Roccia predarono piú di quaranta candelabri d’argento, ognuno del peso di tremilaseicento

dirhem [dal greco drachma: moneta d’argento in uso nei Paesi arabi], e un lampadario d’argento e piú di venti d’oro, con altre innumerevoli prede».

Il risveglio dei poteri musulmani

Antiochia, Edessa e Gerusalemme erano state conquistate subito, poco dopo l’arrivo dei crociati nel Vicino Oriente, fra 1098 e 1099: ma questi travolgenti successi avevano provocato un rapido risveglio dei poteri musulmani locali, che si erano quasi subito riavuti dalla sorpresa e avevano cominciato a riorganizzarsi per contrattaccare. I guerrieri occidentali, mentre continuavano a chiedere all’Europa latina aiuto per conservare e ampliare le nuove conquiste – e ne ricevevano in effetti, soprattutto sotto forma di spedizioni marinare da parte delle città italiche (Genova e Pisa immediatamente, un po’ piú tardi Venezia) –, miravano a sfruttare la rivalità tra i califfati concorrenti, quello sunnita di Baghdad e quello fatimide del Cairo, l’incerta frontiera tra i quali passava proprio per l’area siro-libano-palestinese. Cosí, grazie all’aiuto delle flotte italiche, si riuscí progressivamente anche se con una certa lentezza a conquistare l’intera costa del Mar di Levante, dal Golfo di Alessandretta fino all’Istmo di Suez; frattanto si organizzavano raid anche nell’entroterra, in modo da sottomettere l’uno dopo l’altro i principali centri di Galilea, Samaria e Giudea. Verso la fine del primo quarto del XII secolo, l’intera ampia regione dal Tauro al Sinai e dalla costa del Mediterraneo al Giordano, con un’enclave a est di quest’ultimo rappresentata dall’area attorno alla fortezza di Kerak, era presidiata dai Franchi: anche se le strade restavano insicure e la guerriglia musulmana era ormai endemica. Il nuovo regno si presentò essenzialmente co-


me il risultato della compresenza di una pluralità di soggetti distinti tra loro: la corona, i principi territoriali con i loro vassalli, le borghesie cittadine, i coloni delle città marinare, le comunità di villaggio arabe (musulmane o anche cristiane) e, soprattutto al nord, le numerose e fiorenti comunità armene. Il re di Gerusalemme stendeva in realtà il suo potere diretto su un’area non troppo ampia della Giudea, distinta in circoscrizioni comitali che la inquadravano e tra le quali la piú importante era la contea di Giaffa e Ascalona, che controllava la fascia costiera della Palestina meridionale. Problematico era il collegamento feudale tra il re e i grandi principi che costituivano l’alta aristocrazia del regno: il principe normanno d’Antiochia, il conte lorenese di Edessa, quello provenzale di Tripoli, il principe di Galilea e dell’Oltregiordano: almeno nei casi di Edessa e di Antiochia, si trattava di signorie nate addirittura prima del regno gerosolimitano.

Regno di Cipro

La bilancia commerciale s’inverte

El Mansûra Il Cairo

Le città erano abitate da una popolazione composita: milites, burgenses d’origine occidentale ma anche orientale, con i loro organi e i loro privilegi (i communia; o, nell’idioma franco-settentrionale ch’era il piú diffuso, le communes). Le colonie commerciali delle città marinare, che in genere comprendevano una chiesa, un pozzo o una cisterna, un forno, un «fondaco» o «caravanserraglio» (cioè un magazzino-ospizio), riproducevano in alcuni quartieri dei centri soprattutto portuali la vita e le istituzioni delle rispettive madrepatrie e si amministravano autonomamente attorno a un nucleo di privilegi concessi loro dalle autorità locali. Queste colonie commerciali delle città italiche sorgevano in quartieri urbani ben distinti dagli altri, addirittura dotati di loro fortificazioni; prospicienti il mare, disponevano di infrastrutture portuali. Erano empori commerciali di straordinaria importanza, ai quali giungevano merci dalle città mercantili dell’entroterra come Damasco e Aleppo e addirittura da piú lontano, attraverso la Via della Seta che metteva in comunicazione l’Asia sud-occidentale con la Cina. Da lí partivano verso l’Europa i carichi di spezie indispensabili alla medicina, all’alimentazione, alla conservazione dei cibi, ma soprattutto all’attività manifatturiera e anche all’arte (per esempio le materie coloranti). Ma lí giungevano anche panni di lana e tele di canapa, prodotti alimentari, legname da costruzione, metallo greggio e armi, sempre piú richiesti in Oriente. In questo modo, nel corso del Duecen-

Sultanato di Rum

Contea di Edessa (1098-1146)

Piccola Armenia

Edessa

(1138-1375) Adana

Ager Sanguinis 1119

Atabeg di Mosul

Aleppo

Antiochia

Principato ato to Regno di Antiochia di Aleppo

Eufrate

(1098-1268)

(1192-1489)

Or

on

Famagosta

Contea di Tripoli Krak dei (1102-1146)

Nicosia

te

Cavalieri Homs

Tripoli Beirut Tiro

Beaufort

Montfort

Giaffa Ascalona Damietta

Damasco

Le Chastellet o

Acri

Chastel Pélerin Cesarea

Regno di Damasco

Nimrod

Belvoir

Giordan

Mar Mediterraneo

Palmira

Ajlun Amman

Gerusalemme

Gaza

Regno di Kerak Gerusalemme (1099-1187)

Califfato fatimide di Egitto (968-1171)

Golfo di Suez

DESERTO DI SIRIA

Stati latini d’Oriente Regno di Gerusalemme Contea di Tripoli

Shawbak Petra

SINAI

‘Aqaba

Mar Rosso

to, la bilancia commerciale (fino ad allora favorevole all’Oriente) s’invertí, e grazie all’afflusso di oro nelle casse dei mercanti latini l’Europa poté accedere alla coniazione della moneta d’oro, dal IV al XIII secolo privilegio quasi esclusivo dei Bizantini e di alcuni potentati musulmani. Sotto il profilo della vita religiosa, la Chiesa latina impiantata nel regno con l’arrivo dei crociati non aveva né abolito né fagocitato le diocesi tenute da vescovi orientali, che in genere erano greci o anche arabi; ma aveva affiancato e per cosí dire «doppiato» tali istituzioni, fatto questo in conseguenza del quale le due compagini cristiane, quella d’obbedienza pontificia e quella bizantina, convivevano mantenendosi separate; lo stesso accadeva per le religiones, gli Ordini monastici. Un’originale creazione della Terra Santa crociata furono le militiae, che noi moderni chiamiamo impropriamente «Ordini religioso-militari»: si tratta di Ordini religiosi la cui regola era originariamente ispirata a quella canonicale agostiniana, ma che meglio si adattarono poi a quella cenobitica benedettina. Al loro interno, oltre ai relativamente pochi sacerdoti, v’era un ampio gruppo di fratres «laici»: alcuni di essi si

Principato di Antiochia Contea di Edessa Principali fortezze crociate Principali fortezze musulmane

Mappa del regno di Gerusalemme e degli altri Stati latini d’Oriente.

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LE CROCIATE

Il regno franco di Gerusalemme

POTENTI E RICCHISSIMI Gli Ordini militari furono grandi costruttori. Le fortezze templari e ospitaliere, costruite l’una dietro l’altra in un duplice cordone parallelo dal Nord siriano al Sud palestinese a presidio della costa marittima, delle strade dell’interno e delle rive del Giordano, restano ancor oggi testimonianze impressionanti d’un grandioso progetto di difesa e di razionalizzazione territoriale. Le nuove istituzioni religioso-militari attrassero ben presto molti cavalieri che dal continente si convertivano e sceglievano di dedicarsi agli ideali cavallereschi misticamente rinnovati. Non basta: gli Ordini, nei quali si praticava un’inflessibile povertà personale, cominciarono a ricevere anche molte donazioni di beni mobili e immobili, al punto da diventare ricchissimi e impiantare «magioni» in tutta la cristianità. Vennero loro affidate anche forti somme di denaro, gestendo le quali essi poterono organizzare nuove e piú efficaci forme di attività bancaria. Depositando, per esempio, somme di denaro nelle differenti sedi templari, i mercanti potevano, per mezzo di lettere autenticate dai sigilli dell’Ordine, disporne in qualunque luogo nel quale l’Ordine fosse insediato senza spostare fisicamente il contante.

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davano ad attività varie secondo la tradizione inaugurata da Benedetto da Norcia, mentre altri (distinti in milites e in servientes a seconda che avessero o no, prima di entrar nell’Ordine, ricevuto quella vestizione rituale chiamata «addobbamento» che permetteva di accedere al rango di cavalieri) avevano il compito di combattere per difendere i pellegrini e per presidiare le strade da e per Gerusalemme e gli altri centri urbani. Alcuni Ordini, come i Cavalieri di San Giovanni, detti appunto Ospitalieri, o piú tardi quelli di Santa Maria, che appartenevano esclusivamente alla nazione germanica e furono perciò detti Teutonici, si erano riservati il ruolo specifico di organizzare ospizi per accogliere i pellegrini. Questi Ordini religioso-militari furono una speciale e, almeno sulle prime, sconcertante innovazione nata in seno alla Chiesa latina. Già in Europa, al tempo della pax e della tregua Dei, si erano affermate e sviluppate fraternitates guerriere, libere confraternite di cavalieri o comunque di armati che, mettendo in comune i beni e rinunziando alla loro gestione privata, si davano, a titolo penitenziale, a difendere con la spada i diritti dei chierici e dei gruppi piú fragili della società del tempo: i poveri, i deboli, i pellegrini, le vedove, gli orfani.


Nel secondo decennio del XII secolo, in due differenti punti di Gerusalemme – cioè attorno alla moschea di al-Aqsa, sulla spianata del Tempio, che i crociati chiamavano Templum Salomonis e che in un primo tempo era stata adibita a corte del re, e attorno all’ospedale di San Giovanni, presso la basilica della Resurrezione –, due fraternitates si andarono organizzando fino a ottenere dai pontefici il consenso a trasformarsi in veri e propri Ordini religiosi: erano cosí nati i Pauperes milites Christi et salomonici Templi, i Templari, e gli Ospitalieri, al cui interno era presente una vera e propria contraddizione in termini: quella di monaci-guerrieri, autorizzati a portar le armi in deroga all’antico divieto.

Bernardo, patrono eccellente

L’idea – geniale ma sconvolgente – di Ordini religiosi all’interno dei quali vi fossero combattenti era giustificata dalle specifiche necessità d’un mondo in stato di endemica guerra, ma suscitò naturalmente nella Chiesa molte perplessità: per rimuoverle ci volle tutta l’autorità del piú grande mistico del XII secolo, il cistercense Bernardo, abate di Clairvaux (1090-1153, canonizzato nel 1174), che al pari di qualunque altro monaco diffidava del pellegrinaggio e riteneva che la vera Gerusalemme andasse cercata

nel cuore del cristiano. Tuttavia, egli s’interessò alla fraternitas templare, ne sostenne la legittimazione come militia da parte della Chiesa e, per i Templari, scrisse anche un Liber de laude novae militiae, in cui si confrontavano i vizi della cavalleria mondana con le virtú di quella dei convertiti alla vita religiosa. Nato paradossalmente al di fuori dei confini europei, il regno crociato di Gerusalemme fu forse il primo esempio di monarchia feudale d’Europa. Ma fu un regno fatto di discordie: lotte della corona contro i nobili, dei nobili fra loro, degli Ordini militari, delle «borghesie» urbane, dei Comuni marinari italici che vi avevano l’egemonia delle città costiere e del commercio. Allo scopo di mettere un qualche ordine nella contraddittoria selva dei privilegi concessi dai poteri signorili ai piú vari soggetti, e nel complesso contenzioso che ne derivava, si sviluppò nel regno un grande sistema giuridico-amministrativo, che dette vita a un corpus che riuniva il diritto feudale, cittadino e commerciale e che insieme con il diritto romano – che era stato reimportato e reimposto in Europa nel corso del XII secolo grazie alla volontà dell’imperatore Federico I e all’opera delle prime Università – costituí la base giuridica del mondo occidentale.

Pellegrini scortati dai Templari davanti a Gerusalemme, in una stampa ottocentesca di scuola inglese. Nella pagina accanto disegno ricostruttivo del Krak dei Cavalieri, che, nel 1142, fu ceduto agli Ospitalieri dal conte Raimondo II di Tripoli.

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Gli «infedeli» alla riscossa L’Islam, in parte sorpreso dalla determinazione dei «soldati di Cristo», dopo lo sbandamento iniziale seppe presto riorganizzarsi e recuperare gran parte delle posizioni perdute Veduta d’insieme e particolare di una miniatura raffigurante un attacco proditorio dei Saraceni ai danni di un manipolo di crociati, da un’edizione delle Chroniques de France ou de Saint Denis. Secondo quarto del XIV sec. Londra, British Library.


di Franco Cardini

I

l regno si andò rapidamente assuefacendo alle circostanze climatiche, geografiche e culturali del Vicino Oriente: le aristocrazie feudo-cavalleresche, discendenti dai conquistatori dell’impresa del 1096-1099, si adattarono ai costumi, alle lingue, alla cucina del luogo e sovente s’imparentarono con lignaggi locali, specie con grandi famiglie nobiliari armene o siriane-cristiane, allora potenti e numerose. Anche le «borghesie» urbane e i medi e piccoli proprietari terrieri fecero altrettanto: mentre gli Arabi musulmani, passato il primo sanguinoso periodo della conquista, ripresero le loro attività di contadini nelle campagne e di mercanti, di artigiani, di pescatori nelle città. Per quanto le istituzioni conservassero e anzi imponessero un regime di reciproca separazione fra etnie, confessioni e religioni diverse, e le lingue delle leggi scritte restassero il latino e il franco-settentrionale (ma si usavano anche gli idiomi italico e occitano), la tendenza della Terra Santa crociata era quella della progressiva realizzazione di una «società coloniale»: ben se ne rendevano conto gli osservatori che provenivano dall’Europa e che, per i componenti di quella società, coniarono il termine di poulain, che sostanzialmente significa «meticcio», «bastardo». Tuttavia, comunque, la Terra Santa crociata restava una sorta di protesi transmarina d’Europa: e difatti la si definiva ordinariamente Outremer, «terra d’Oltremare». Era chiaro che senza un continuo, stretto legame con l’Europa,

essa non avrebbe potuto sopravvivere: dall’Europa giungevano merci delle quali i «Franchi» e i «Latini», residenti in Siria e in Palestina, non potevano fare a meno, cosí come giungevano tendenze culturali e stili architettonici, per quanto le maestranze locali non mancassero poi di rielaborarli talvolta in modo geniale. E dall’Europa, vale a dire dal papato e dai regni europei, giungevano il sostegno e la legittimazione necessari alla monarchia feudale gerosolimitana per sopravvivere.

Un amaro risveglio

Intanto, però, il mondo musulmano circostante si stava riavendo dalla sorpresa e riorganizzando. La riscossa partí dalle città siro-mesopotamiche del Nord, cioè da Aleppo e da Mosul, governate nel nome del califfo di Baghdad e del suo consigliere-protettore turco-selgiuchide, il sultano, da una dinastia di energici atabeg (in turco: «padre dei capi», cioè governatore generale), fondata da Imad ad-Din Zenqi. La caduta nel 1146 in mani turche della città armena di Edessa (oggi Urfa, in Turchia), che Baldovino di Boulogne (futuro re di Gerusalemme) aveva eretto in capitale di contea circa mezzo secolo prima, costituí per l’intera cristianità d’Occidente, ormai abituata a sentire la Terra Santa come propria, un amaro risveglio. Zenqi non faceva mistero di voler rigettare in mare i conquistatori franchi, ma aveva mire ancor piú ampie: in realtà, era evidente che CROCIATE

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LE CROCIATE

La reazione dell’Islam Sarebbe stato sufficiente collegarsi a questo fronte in un’alleanza cristiano-musulmana, per la quale esistevano tutte le condizioni (lo stesso accadeva, in circostanze simili, nella Penisola Iberica), e il Regno sarebbe stato al sicuro.

Una visione schematica della realtà

Miniatura raffigurante Luigi VII di Francia che prende la croce alla pesenza di Bernardo di Clairvaux, de Les Passages d’outremer faits par les Francois contre les Turcs depuis Charlemagne jusqu’en 1462 di Sebastien Mamerot. 1474-1475 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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avrebbe ambito a unificare sotto il suo potere tutti gli emirati della regione tra il Mar di Levante e l’Eufrate; inoltre, musulmano sunnita intransigente come tutti i Turchi, egli guardava con ostilità al califfato sciita del Cairo. La nobiltà franco-siriaca, costituita dai discendenti dei protagonisti della prima crociata ormai radicati in Terra Santa e che rappresentavano la classe dirigente del Regno, conosceva bene questa situazione e sapeva che l’ampliarsi e il rafforzarsi del potere dell’atabeg di Damasco e di Mosul stava determinando, in tutto il mondo islamico del Vicino Oriente, paure e sospetti, inimicizie e gelosie. Dal sultano di Baghdad al califfo del Cairo agli emiri arabi di Siria, il piú forte dei quali era quello di Damasco, si andava costituendo un ampio fronte ostile a Zenqi.

Ma le cose, viste dalla sponda europea, si presentavano altrimenti. Vi era un diffuso «atteggiamento mentale crociato» fatto di molte componenti: la memoria dell’epopea del 1096-99; l’affermarsi della cultura cavalleresca rinnovata dalla fondazione degli Ordini militari e tradotta in termini di difesa della cristianità; il miraggio dell’avventura e della fortuna conquistata grazie all’audacia e al valore; la volontà della Chiesa di Roma di mantenere il suo ascendente sui ceti feudo-cavallereschi europei attraverso la mobilitazione in difesa della fede; le prospettive d’una diffusione del Vangelo anche attraverso la conquista militare come si stava verificando nel Nord-Est europeo; le mire d’espansione e di sviluppo delle città marinare che si arricchivano alternando guerra e commercio; il diffondersi d’una visione schematica della realtà (animata dalla poesia epica, ma anche dalla letteratura dei chierici), secondo la quale l’Islam costituiva un blocco monolitico nemico della croce. Pur non essendo ancora stato teorizzato, tale modo di pensare e sentire si andava affermando anche perché la presenza del mondo musulmano in Siria, Spagna e Africa trasmetteva ai cristiani dell’Occidente europeo la (falsa) sensazione di trovarsi minacciati da un accerchiamento ostile e che ciò potesse compromettere lo stesso sviluppo di un’Europa che invece, essendo in una fase di vorticoso incremento demografico ed economico, aveva bisogno semmai di espandersi. Forse anche i prelati, gli aristocratici e i mercanti insediati in Terra Santa alimentarono, involontariamente, l’equivoco. Senza dubbio essi avrebbero gradito il contributo, magari temporaneo, alla difesa del Regno, dove le forze valide scarseggiavano endemicamente, da parte di cavalieri disposti ad accoppiare un pellegrinaggio ai Luoghi Santi a qualche campagna militare. Tuttavia, l’ultima cosa della quale avevano bisogno era l’arrivo in terra d’Oltremare di armati desiderosi di radicarvisi conquistando nuove terre (in questo modo mettendo in pericolo gli equilibri raggiunti) e trattando in blocco l’Islam come il nemico assoluto. Ma i loro inviti e le loro richieste d’appoggio furono accolte in Europa come un’accorata invocazione di soccorso. E difatti, quella che noi chiamiamo «cro-


A destra miniatura raffigurante re Luigi VII che parte per la seconda crociata indetta da Bernardo di Clairvaux, da un’edizione delle Grandes chroniques des rois de France di Robert Gaguin. 1514. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. In basso miniatura tratta da un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1280 circa. Lione, Bibliothèque municipale. Dall’alto, i principi latini si riuniscono ad Acri, l’assedio di Damasco.

ciata» (termine ancora inusitato), e che fino ad allora si era detta iter (spedizione militare) o peregrinatio (pellegrinaggio), assunse a partire da quel momento anche il nome di succursus.

Anche i re prendono la croce

Della necessità di una nuova grande spedizione come quella di mezzo secolo prima, tesa ora non piú a conquistare bensí a tutelare le conquiste, si convinse papa Eugenio III che indusse a sostenere l’opportunità e la santità dell’impresa lo stesso Bernardo di Clairvaux, il quale – per obbedienza e per desiderio di veder convertiti i cattivi cristiani d’Europa – predicò nel 1146-1147 la crociata in Terra Santa e teorizzò anche analoghe iniziative per la Spagna e il Nord-Est europeo. Stavolta non ci si poteva piú affidare ad aristocratici in crisi, ad avventurieri in cerca di fortuna e a predicatori itineranti: nella seconda crociata, perciò, si coinvolsero i due principali sovrani dell’Occidente, ovvero il «re dei Romani» (come veniva indicato l’imperatore romano-germanico, eletto dai principi tedeschi ma non ancora incoronato per mano del papa) Corrado III e il re di Francia Luigi VII, che partí con la consorte Eleonora d’Aquitania, gran signora e protettrice di artisti e poeti. CROCIATE

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LE CROCIATE

La reazione dell’Islam

La grande spedizione, che si mosse dall’Europa nel 1147, fallí principalmente per colpa del re di Francia il quale, ascoltando pessimi consiglieri, non riuscí a trovare un accordo né con il basileus Manuele Comneno di Bisanzio né con il re Ruggero II di Sicilia, che invece sarebbero stati i due monarchi cristiani da coinvolgere in un progetto di serio controllo del Mediterraneo orientale. Inoltre, il monarca capetingio si lasciò convincere ad assediare Damasco, il cui emiro sarebbe stato il naturale alleato dei Franchi contro il pericolo espansionista rappresentato dall’atabeg di Aleppo e di Mosul, e che invece le scelte errate dei consiglieri di Luigi VII, abbagliati dal miraggio della conquista della ricca capitale della Siria, costrinsero proprio all’alleanza con il suo naturale avversario (che era e restava tale, per quanto suo correligionario). Dopo un lungo, inutile, rovinoso assedio alla città di Damasco, le truppe giunte dall’Europa se ne andarono in un clima di discordie e di reciproche recriminazioni, mentre la lunga scia del rancore coinvolse anche i baroni franco-siriaci di Terra Santa e determinò la convinzione, tra i principi musulmani di tutta la regione, che fosse ormai giunto il momento di cacciare gli intrusi. Cominciò da allora, sia pur con alterne vicende, l’irreversibile decadenza del regno franco di Gerusalemme. Pochi anni dopo Damasco cadde in potere della dinastia zenqide; ne divenne governatore un intelligente ed energico principe curdo, Yussuf ibn-Ayyub Salah ed-Din (il «Saladino» degli Occidentali), il quale avviò una complessa manovra fatta di congiure e di colpi di testa che lo condusse a conquistare anche il Cairo, dove abolí il califfato fatimide restaurando cosí l’unità sunnita dell’Islam vicino-orientale. Vittorioso sui suoi antichi signori, gli Zenqidi di Aleppo e Mosul, e divenuto a sua

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Ritratto del Saladino, olio su tela di Cristofano dell’Altissimo. 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi.

In basso resti della cittadella di Saladino (Qalat Salah al-Din), nei pressi di Latakia (Siria), fortezza fondata nel X sec. dai Bizantini e fortificata dai musulmani nel XII-XIII sec. Nella pagina accanto particolare della statua equestre del Saladino collocata nella Cittadella di Damasco. 1993.

volta sultano di Damasco e del Cairo, il Saladino maturò l’obiettivo di cacciare i Franchi da Gerusalemme e impadronirsi della Palestina: ciò gli avrebbe permesso di conseguire la continuità territoriale dei suoi principati. Intanto, il regno e i principati franchi che piú o meno disciplinatamente si riconoscevano suoi vassalli stavano precipitando nel disordine. La successione al trono era complicata e resa incerta dagli intrighi di corte, i grandi feudatari tendevano a sviluppare ciascuno una loro politica personale e dinastica, gli Ordini militari e le città marinare italiane si combattevano in un complesso quadro di rivalità incrociate che vedeva Templari contro Ospitalieri, Pisani e Veneziani contro Genovesi e cosí via. Finché il quadro dei poteri islamici nella regione era rimasto incerto e caratterizzato dalla frammentazione, la difficoltà delle differenti forze a organizzarsi e a soverchiare l’avversario aveva garantito un precario equilibrio: ma l’egemonia ormai conquistata dal Saladino aveva creato, a partire dalla fine degli anni Settanta, condizioni completamente nuove.

Nasce il «partito della guerra»

A quel punto, tra i Franchi, si erano andati determinando due partiti: l’uno, guidato da famiglie di vecchio radicamento in Terra Santa (come gli Ibelin o i conti di Tiberiade), tendeva al mantenimento dello status quo e, pur auspicando l’arrivo di nuovi contingenti militari dall’Europa in difesa della Terra Santa, temeva una mobilitazione generale come quella del 1148 che ne aveva sconvolto il quadro politico; l’altro, formato da principi giunti oltremare piú di recente e desiderosi di mutamenti che consentissero loro di tentare nuove conquiste, sosteneva invece che fosse il caso di sfidare il Saladi-


no e di provocare una nuova generale mobilitazione della cristianità occidentale. Alcuni audaci e facinorosi avventurieri, come Rinaldo di Châtillon signore di Kerak, in Transgiordania, e il Maestro dell’Ordine del Tempio Gerardo di Ridefort, appoggiavano il «partito della guerra» e, per mezzo di raid e attacchi proditori, cercavano di far precipitare la situazione. La corona era cinta in quel momento da un giovane e saggio re, Baldovino IV, fin da bambino ammalato di lebbra. Egli riuscí a lungo a tenere a bada il Saladino e al tempo stesso a dominare il clima di rivalità e d’intrighi che lo circondava: ma quando nel 1185 egli morí consunto dal male che lo aveva da tempo costretto a trascinarsi in lettiga sui campi di battaglia e per le strade del suo regno, sua sorella ed erede Sibilla, moglie di un nobile che era uno dei capi del «partito della guerra», Guido di Lusignano, non poté evitare che la situazione precipitasse.

Una disfatta umiliante

Nell’estate del 1187 il Saladino invase dalla Siria il territorio del Regno e l’esercito franco mosse da Gerusalemme per fermarlo. Lo scontro avvenne in Galilea, su un’altura prospiciente il lago di Tiberiade detta «i corni di Hattin». Per i Franchi fu una cocente disfatta. Nella battaglia furono catturati Guido di Lusignano, nel frattempo divenuto re di Gerusalemme, e il Maestro templare, poi utilizzati come ostaggi per ottenere la resa di varie piazzeforti. La reliquia della Vera Croce, che i Franchi recavano in battaglia come santa insegna, fu presa e distrutta. Il sultano decapitò di propria mano il prigioniero Rinaldo di Châtillon, come aveva promesso in un voto solenne per punirlo di aver osato attaccare una carovana d’inermi pellegrini musulmani diretta alla Mecca; i Templari e gli Ospitalieri catturati furono tutti uccisi, perché la loro regola vietava di riscattarli e imponeva loro, se usciti da una prigionia, di riprendere immediatamente le armi. Dopo Hattin, la strada per Gerusalemme era aperta. Il Saladino vi pose l’assedio, ma non ebbe bisogno di espugnarla: il suo difensore, Baliano d’Ibelin, ottenne una capitolazione onorevole che permise agli Occidentali che vi erano rinchiusi di evacuare in modo ordinato e senza subire perdite. Il Saladino vi entrò trionfalmente il 2 ottobre, distrusse la croce dorata che coronava la cupola della moschea di Omar – trasformata in chiesa dai cristiani – e fece purificare il venerabile edificio con acqua di rose. Accogliendo l’appello del pontefice, i sovrani d’Europa, in quel momento in lotta tra loro,

IL SALADINO AI CORNI DI HATTIN Cosí lo storico arabo Ibn al-Athír descrive lo scontro combattuto ai «corni di Hattin»: «Il sabato venticinque rabi’ secondo (4 luglio 1187), il Saladino e i musulmani, montati a cavallo, avanzarono verso i Franchi. Anche questi montarono in sella e i due eserciti vennero a contatto, ma i Franchi soffrivano gravemente della sete ed erano sfiduciati. Si accese e infuriò la battaglia, con tenace resistenza dalle due parti: gli arcieri musulmani lanciarono un nugolo di frecce, come sciami diffusi di cavallette, e uccisero in questo combattimento molti cavalli dei Franchi. Essi, strettisi coi loro fanti, puntavano combattendo su Tiberiade nella speranza di giungere all’acqua, ma il Saladino resosi conto di questo loro obiettivo lo impedí, piantandosi con l’esercito in faccia a loro. Egli girava tra le formazioni musulmane eccitandole con ordini e divieti opportuni, e tutti obbedivano ai suoi ordini e si fermavano ai suoi divieti. Uno dei suoi mamelucchi giovanetti fece una terribile carica sui Franchi, e vi compí prodigi di valore finché sopraffatto dal numero fu ucciso; e allora tutti i musulmani caricarono, facendo vacillar le linee nemiche con grande strage. (...) La strage e la cattura furono cosí grandi fra loro che chi vedeva gli uccisi non credeva possibile che ne avessero catturato anche uno solo, e chi vedeva i prigionieri non credeva possibile che anche uno solo fosse stato ucciso. Dai tempi del loro primo assalto al litorale di Siria, nell’anno 491 (1098) a ora, mai i Franchi avevano subito una simile disfatta».

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La reazione dell’Islam Lettera del sultano Saladino all’imperatore Federico Barbarossa. Berlino, Staatsbibliothek. Nella pagina accanto mappa della città di Gerusalemme al tempo delle crociate, da un manoscritto miniato del XIII sec. Uppsala, Biblioteca dell’Università.

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GERUSALEMME RICONQUISTATA Quando la notizia della sconfitta patita nel 1187 ai corni di Hattin giunse in Occidente, papa Gregorio VIII promulgò il 29 ottobre da Ferrara la drammatica bolla Audita tremendi: «Avendo udito la notizia del tremendo giudizio divino con cui la mano del Signore si è abbattuta sulla terra di Gerusalemme, noi e i nostri fratelli siamo confusi da tanto orrore e afflitti da tanti grandi dolori da non sapere che cos’altro fare se non piangere col Salmista: “Dio, i gentili sono entrati nel tuo retaggio, hanno profanato il tuo sacro Tempio, hanno rovinato Gerusalemme, hanno dato le carni dei tuoi santi in pasto alle belve della terra e agli uccelli dell’aria”; poiché il Saladino, approfittando della discordia scoppiata in quella terra a causa della malvagità degli uomini istigata dal demonio, è giunto là con gran quantità di uomini armati. Gli sono andati incontro il re, i vescovi, i Templari, gli Ospitalieri, i baroni e i cavalieri col popolo tutto portando in campo come insegna la reliquia della Croce (...) Ci fu battaglia, e i nostri furono sbaragliati: perduta la Croce del Signore, trucidati i vescovi, catturato il re e quasi tutti passati per le armi o trucidati, salvo pochissimi salvatisi con la fuga; i Templari e gli Ospitalieri furono tutti decapitati sotto gli occhi stessi del re» (Magnum Bullarium Romanum, III, Augustae Taurinorum 1859, p. 49). Ma queste drammatiche righe, vergate alla fine d’ottobre, erano già superate nel momento in cui venivano scritte: l’Europa non lo sapeva ancora, ma ormai da quasi un mese la Città Santa era di nuovo nelle mani dei musulmani.

giunsero a una serie di sia pur precarie paci e marciarono alla volta di Gerusalemme per differenti strade.

Una corona contesa

In questa terza crociata, come quarant’anni prima, erano coinvolti i principali monarchi: l’anziano imperatore Federico I Barbarossa, che morí durante il viaggio, in Anatolia, nel 1190; il re di Francia Filippo II Augusto; il re d’Inghilterra Riccardo I Cuor di Leone. Fu soprattutto quest’ultimo che si ostinò in un’impresa inutile e disperata, che ebbe se non altro il risultato che la città costiera di Acri, conquistata dal Saladino, fu ripresa dai crociati e divenne, da allora, la capitale del regno. Ma nel 1192 anche il re d’Inghilterra decise di rientrare in patria, dopo aver strappato l’isola di Cipro ai Bizantini e avervi

insediato come re il suo protetto Enrico di Lusignano, fratello di Guido re di Gerusalemme (che era tuttavia stato esautorato). Da allora i Lusignano, il cui regno sull’isola sarebbe durato tre secoli, avrebbero rivendicato alla loro dinastia il titolo di re di Gerusalemme; mentre in Terra Santa i baroni, gli Ordini militari e le città marinare, ristretti in un Regno che comprendeva ormai quasi soltanto i porti costieri, riducevano la corona a oggetto di continue contese tra varie dinastie. Essa passò dai Brienne agli Hohenstaufen con Federico II e Corrado di Svevia (Corradino), venne in seguito rivendicata dagli Angioini e si trasformò alla fine del XIII secolo in un titolo puramente nominale, rivendicato fino ai giorni nostri, attraverso complesse pretese giuridiche, da tutte le principali dinastie europee, dagli Asburgo ai Borboni ai Savoia. CROCIATE

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La fine di un’avventura Con la caduta di Acri nel 1291, l’Occidente vede dissolversi il sogno di una Terra Santa cristiana. Il disimpegno militare è pressoché totale e le spedizioni crociate divengono un ricordo di Franco Cardini

L

e due grandi spedizioni del XII secolo, provocate dalle cadute di Edessa nel 1146 e di Gerusalemme nel 1187, erano state gestite dai sovrani d’Europa ed erano fallite. Papa Innocenzo III, salito al soglio pontificio nel 1198, rivendicò a quel punto il diritto della sede pontificia di decidere e controllare direttamente le imprese future. Ma quella che egli favorí in ogni modo, la quarta crociata del 1202, si concluse due anni dopo con un esito imbarazzante, la conquista e il saccheggio (ricco di episodi di sacrilegio) di Costantinopoli e la fine dell’impero bizantino, sostituito da un fatiscente «impero latino», in realtà sostenuto dai Veneziani, ma titolari del quale furono dinastie feudali poco autorevoli. Ecco come il primo imperatore latino di Costantinopoli, Baldovino conte di Fiandra, si esprimeva per lettera, rivolgendosi al papa: «Poiché per lo zelo della paterna sollecitudine e per lo speciale amore verso la nostra confederazione, la Vostra Santità desidera conoscere quello che ci capita, stabilimmo di illustrarvi ordinatamente quale meravigliosa novità ci abbia concesso la divina clemenza e quale gloria mirabile abbia attribuito per tutti i secoli non a noi per la verità ma al suo nome stesso. Alle sue meraviglie a nostro riguardo fanno seguito meraviglie sempre maggiori, di modo che non debba esserci dubbio neppure fra gli infedeli che la mano del Signore compia questi miracoli, poiché si sono verificate eventualità per nulla da noi sperate o da noi procurate in precedenza, anzi proprio allora il Signore ci procurò aiuti imprevisti, quando sembrava che non restasse piú alcuna possibilità di umano consiglio. Se ben ricordiamo, per 70

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la verità, attraverso i messaggi inoltrati alla Vostra Paternità conducemmo la narrazione delle nostre vicende e della nostra situazione fino al punto che, dopo aver presa in pochi con la violenza la popolosa città [di Costantinopoli], dopo aver scacciato il tiranno (Alessio III Angelo), e dopo aver incoronato Alessio (IV Angelo figlio di Isacco Angelo), la nostra sosta fu promessa e programmata per l’inverno, per piegare con la forza gli eventuali nuclei di resistenza contro Alessio (IV Angelo)» (Antonio Carile, Le crociate, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 92-93).

Un impero effimero

Questo tono ossequioso e pomposo non deve ingannare. In realtà i feudatari occidentali si divisero la Grecia, mentre ai Veneziani spettava la parte del leone: essi non solo portarono nella loro città da Costantinopoli un bottino ricchissimo (di cui sono ancora testimoni i quattro cavalli bronzei della basilica di S. Marco), ma da allora in poi il loro doge inalberò l’orgoglioso titolo di «signore della quarta parte e mezzo dell’impero romano». A Venezia interessavano soprattutto le isole, come piloni del grande ponte coloniale che attraverso il Mediterraneo orientale portava fino al Mar di Levante. Ma l’impero «latino» si dissolse nel 1261 – anche a causa della pressione dei Genovesi, nemici dei Veneziani – per dar luogo a un’ormai esangue restaurazione greca, gestita dalla dinastia dei Paleologi. Una nuova spedizione per la riconquista di Gerusalemme, che nel frattempo era dominata da un ramo degli Ayyubidi (la dinastia fondata dal


Il ritorno dalla crociata, olio su tela di Carl Friedrich Lessing. 1835. Bonn, Rheinisches Landesmuseum.

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Capolettera miniato raffigurante Costantinopoli assediata dai crociati. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Addio alla Terra Santa Saladino), fu condotta tra 1217 e 1221. I crociati s’impigliarono in un lungo, snervante assedio alla città portuale di Damietta, sul delta del Nilo: la ragione di quella scelta strategica consisteva nel fatto che i due porti nilotici, Alessandria e Damietta, erano i principali empori del sultanato egiziano; si pensava, quindi, che organizzarne il blocco militare avrebbe provocato il collasso economico del sultano costringendolo a cedere Gerusalemme in cambio della sua interruzione. Il disegno fallí: e quella impresa, la quinta, rimane famosa solo perché un crociato inerme, Francesco d’Assisi, ottenne di esser ricevuto dal sultano al-Malik al-Kamil, ed ebbe con lui, a quanto sembra, un amichevole colloquio. Al-Malik al-Kamil fu coinvolto in una nuova crociata, pochi anni dopo, nel 1229: l’avversario-interlocutore di allora fu l’imperatore romano-germanico e re di Sicilia Federico II di Svevia, discendente di quel Federico Barbarossa che aveva partecipato giovane alla seconda crociata ed era morto durante la terza, e che aveva affermato con forza come all’imperatore romano-germanico spettasse la prerogativa di essere il capo della crociata. Federico II non lo smentí: e fin dall’incoronazione imperiale (1215) fece voto di partire per la

santa impresa. Ma temporeggiò troppo a lungo, fino a essere per questo scomunicato da papa Gregorio IX (1228). Aveva sposato Iolanda di Brienne, erede della corona gerosolimitana, ed era dunque anche re di Gerusalemme. Partí per la sesta crociata all’indomani della scomunica: per dimostrare la sua buona volontà o per sottolineare che la sanzione pontificia non lo toccava? Incontrò nel 1229 il sultano al-Malik alKamil e ne ottenne per via diplomatica la cessione di Gerusalemme, ma limitatamente ai Luoghi Santi cristiani e smantellata: la Città Santa – dove il sovrano scomunicato assunse la corona regale – era cosí una specie di «città aperta». Questo comportamento valse a Federico, in sua assenza, l’invasione del regno di Sicilia da parte di una truppa di volontari che il papa aveva equiparato ai cruce signati e che dall’insegna pontificia erano detti «clavigeri». Successivamente, dopo un’effimera pace, l’imperatore fu scomunicato di nuovo e contro di lui vennero bandite nuove crociate.

Lo spauracchio mongolo

Intanto Gerusalemme, priva di mura, venne razziata nel 1244 da nomadi provenienti da una regione dell’Asia centrale, il Kwarezm. L’accordo stipulato tra Federico e al-Malik al-Kamil, che a noi oggi pare lungimirante, all’epoca non aveva persuaso né i cristiani, né i musulmani. Quei nomadi kwarezmiani che si erano abbatMiniatura raffigurante Federico II che prende accordi con il sultano al-Malik al-Kamil, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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QUANDO FRANCESCO INCONTRÒ IL SULTANO Che Francesco d’Assisi, nel 1220, abbia incontrato presso Damietta il sultano del Cairo al-Malik al-Kamil, nipote del Saladino e allora padrone di Gerusalemme, è attestato da diverse fonti occidentali e anche da qualche prova orientale. Niente di strano in ciò: i rapporti amichevoli tra cristiani e Saraceni, negli intervalli della guerra, erano consueti e abitualmente praticati da molto tempo. Piú difficile cogliere il senso dell’atteggiamento intimo del Povero d’Assisi: che abbia tentato di «convertire» il sultano, come si dice seguendo una tradizione che dovette radicarsi ben presto, appare difficile da credere. Cercava il martirio? In realtà, è probabile che i due abbiano – tramite interprete – semplicemente parlato di Dio. Per il sultano, Francesco era un sufi, un uomo di Dio e come tale meritevole di rispetto; oppure un amabile pazzo: e l’Islam tradizionalmente rispetta i pazzi. Da parte sua Francesco, che in gioventú aveva forse letto romanzi di cavalleria e che era figlio di un mercante, aveva probabilmente nei confronti della civiltà musulmana una sorta d’attrazione e di simpatia che si riscontra spesso nei testi romanzeschi e novellistici non meno che nei diari di pellegrinaggio.

tuti su Gerusalemme erano solo uno degli effetti minori dello sconvolgimento causato in tutto il macrocontinente eurasiatico dalle conquiste del capo mongolo Gengis Khan, che era scomparso nel 1227 ma i cui discendenti erano giunti a lambire la stessa Europa orientale. In un primo tempo, in Europa si era temuto che quell’ondata barbarica fosse l’avvisaglia dei popoli di Gog e Magog, avanguardie dell’Anticristo, e che i Tempi Ultimi fossero prossimi. Ben presto, però, si venne a sapere che tra i Mongoli vi erano comunità cristiane nestoriane e i nuovi Ordini mendicanti, francescani e domenicani, non esitarono a inviare loro missionari verso l’Asia profonda. Alcuni pensatori proposero di tentare la via di un’alleanza tra Mongoli e cristiani, che avrebbe schiacciato l’Islam come in una morsa. Un’ipotesi del genere aveva già interessato il re di Francia Luigi IX, il quale tentò nel 1248 di ripetere l’esperimento dei cruce signati del 1217 attaccando il sultanato egiziano sul delta del Nilo. Ma l’esito dell’impresa (classificata come settima crociata) fu disastroso: il re fu preso prigioniero e assisté, in tale condizione, al colpo

San Francesco davanti al sultano al-Malik al-Kamil (o La prova del fuoco), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

di Stato della guardia del sultano, una casta di guerrieri d’origine servile, chiamati «Mamelucchi», che provenivano per la maggior parte dalla Nubia o dalla Russia meridionale ed erano un miscuglio di Africani, Tartari, Circassi e Turchi. In seguito, il pagamento di un grosso riscatto permise a Luigi il rientro in patria. Il suo viaggio aveva infiammato le fantasie dei poeti e aveva perfino causato un movimento religiosopopolare, quello che – forse a causa di alcune misteriose presenze carismatiche che lo guidavano – fu detto della «crociata dei pastorelli».

L’avvento dei Mamelucchi

In seguito il sultanato d’Egitto, al quale i nuovi signori mamelucchi avevano conferito una rinnovata aggressività e che era giunto a dominare incontrastato la Terra Santa, aveva respinto nel 1264, nella battaglia di Ain Jalud, un’offensiva mongola proveniente dalla Persia che i discendenti di Gengis Khan avevano conquistato sei anni prima eliminando l’ultimo califfo abbaside. Quella battaglia spazzò via gli ultimi sogni di un’alleanza mongolocrociata: da allora, i Mamelucchi perseguirono CROCIATE

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LE CROCIATE

Addio alla Terra Santa

LA CROCIATA «PRIVATA» DI TIBALDO Nel pieno del XIII secolo l’egemonia delle città marinare italiche nel Mediterraneo (a cui se ne aggiungevano altre, dalla dalmata Ragusa all’occitana Marsiglia alla catalana Barcellona) era al suo culmine e si era avviata una complessa rivoluzione commerciale al centro della quale vi erano un nuovo strumento economico, la moneta d’oro coniata prima da Genova e poi subito dopo, con maggior successo, da Firenze, e un profondo progresso nelle costruzioni e nelle tecniche nautiche. Ciò consentiva il trasporto di quantità importanti di armati e di cavalli per mare, anche affrontando lunghi viaggi: ormai i pellegrinaggi e le spedizioni militari oltremare non si facevano piú via terra, bensí mediante vascelli. L’iter militare indirizzato al recupero di Gerusalemme poteva ormai definirsi passagium ultramarinum: e vi erano passagia generalia, quelli banditi da una bolla ufficiale pontificia, e passagia particularia, voluti e finanziati da singoli principi o da gruppi di personaggi che intendevano onorare in questo modo un loro voto liberamente formulato. Come Tibaldo IV, conte di Champagne e di Brie, dal 1234 proclamato re di Navarra in quanto erede dello zio materno, che aveva deciso di onorare il voto di recarsi in Terra Santa; e cosí, nel 1239 si imbarcò da Marsiglia per una crociata che durò un anno e che non figura nei consueti «elenchi». Il suo passagium particulare non sortí risultati degni di nota, eccezion fatta per la bella canzone da lui stesso composta: «Signori, sappiatelo: chi ora non andrà / in quella terra in cui il Redentore fu ucciso e resuscitò / e chi non prenderà la Croce d’oltremare, / è difficile che possa mai andare in Paradiso. / Chi ha in sé pietà e rimembranza / deve prendere vendetta dell’alto Signore / e liberare la sua terra e il suo Paese. / Rimarranno di qua tutti i malvagi / che non amano Dio, né il bene, né l’onore, né il pregio; / e ognuno di loro dice: «La mia donna, che farà? / Non lascerò per alcuna ragione i miei amici». / Essi sono caduti in troppo irragionevole preoccupazione, / poiché in verità nessuno amico è pari a Colui / che fu posto per noi sulla Santa Croce» (Canzoni di crociata, a cura di Saverio Guida, Parma 1992, pp. 106-107).

Miniatura raffigurante la presa di Damietta, da un’edizione della Vita di San Luigi di Jean de Joinville. 1360 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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con spietata sistematicità il loro disegno di eliminare quel che restava del regno franco fondato a Gerusalemme nel 1099-1100. In modo inesorabile, città e piazzeforti ancora in mano ai cristiani occidentali e agli Ordini religioso-militari caddero l’una dietro l’altra.

Un’impresa impossibile

Nel 1270 Luigi IX partí per una nuova crociata: lungo la rotta marittima che lo conduceva oltremare fece sosta a Tunisi, forse convinto che l’espugnazione di quella città, che dominava il Canale di Sicilia dal quale dovevano obbligatoriamente transitare tutti i convogli navali dal Mediterraneo occidentale diretti in Terra Santa, fosse indispensabile premessa alla riconquista di Gerusalemme. Ma sul litorale tunisino il santo re morí, forse in seguito a un’infezione tifoidea. Quattro anni piú tardi, nel 1274, durante il II concilio di Lione, papa Gregorio X chiese a tutti i cristiani occidentali che avessero in ciò delle competenze d’inviargli dei memoriali che gli consentissero di giudicare se una crociata per recuperare Gerusalemme e risollevare le sorti del Regno ormai languente di Acri fosse obiettivamente ancora possibile. La sua richiesta dette l’avvio a un genere letterario, quello dei trattati sul recupero della Terra Santa, che si continuavano a scrivere ancora fra Cinque e Seicento e che riempiono intere biblioteche. Sono fonti preziose per quantità e accuratezza di notizie, ma finiscono col farci capire come l’impresa fosse ormai impossibile e in fondo non interessasse sul serio a nessuno, dal momento che i pellegrinaggi cristiani continuavano indisturbati e la riconquista mu-

sulmana della Terra Santa aveva dimostrato come i commerci non ne subissero danno. Nel frattempo, i Mamelucchi procedevano imperturbabili nel loro lavoro di cancellazione del regno crociato. L’ultima piazzaforte, Acri, venne espugnata nel 1291 e fu sottoposta a un feroce massacro. Templari e Ospitalieri, dopo una strenua resistenza, furono costretti a spostare le loro sedi centrali nelle isole di Cipro e di Rodi. Nove anni piú tardi, nel 1300, il pontefice Bonifacio VIII indiceva a Roma il primo grande Giubileo, per il quale si accordava ai partecipanti la stessa indulgenza plenaria fino ad allora riservata ai pellegrini in Terra Santa. Poi ancora, nel 1312, durante il concilio di Vienne, papa Clemente V decideva lo scioglimento dell’Ordine del Tempio, già da cinque anni sul banco degli accusati in un vergognoso processo inquisitoriale voluto dal re Filippo IV di Francia per sbarazzarsi dell’ingombrante presenza dei monaci-cavalieri in Francia e mettere infine le mani sui loro beni. Al di là del loro differente valore, entrambi questi episodi sanciscono il fatto che, nella pratica – per quanto mai lo si sia ammesso –, la cristianità aveva rinunziato a riconquistare la Città Santa. Tuttavia non aveva affatto rinunziato alla crociata: anzi, al contrario. Fra l’altro, è proprio nel corso del Duecento che si registrano fra Italia e Provenza le prime testimonianze che ormai anche quella parola fatidica, in seguito abusata ma fino ad allora ignota, cominciava a entrare in effetti nell’uso.

Qui sopra una lettera del re Luigi IX di Francia. 1252. Parigi, Archives Nationales. In alto, sulle due pagine vignetta raffigurante Luigi VII che guida la crociata verso Tunisi, da un’edizione della Satyrica historia di Paolino da Venezia. 1344. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Abbandonati da Dio

Salito al soglio pontificio nel 1198, Innocenzo III si batté per la riconquista dei Luoghi Santi, ma i suoi sforzi furono vani. Le crociate, però, non finirono e si organizzarono nuove spedizioni, spesso sfociate in vere e proprie persecuzioni


di Franco Cardini

Q

uelle sin qui sinteticamente richiamate sono le «crociate» per cosí dire «classiche», quelle che ancor oggi vengono considerate tali nei libri di scuola e in molte opere divulgative: cioè quelle che, a partire dal pieno Duecento, sarebbero state definite passagia generalia, a cui molti se ne dovrebbero aggiungere – e non li abbiamo qui ricordati tutti – di particularia. Una lunga e venerabile tradizione, aperta dalla raccolta di fonti dal titolo Gesta Dei per Francos, pubblicata nel primo Seicento dallo studioso ugonotto Jacques Bongars a gloria del Regno di Francia, «figlio primogenito della Chiesa», che con Enrico IV aveva allora ritrovato da poco la pace e la concordia, ci ha abituati a esaurire la storia delle crociate nel racconto delle vicende delle spedizioni fra XII e XIII secolo dirette verso la Terra Santa. È questo, però, l’esito di una tradizione storiografica e scolastica ormai invecchiata, che si disperde nei rivoli delle narrazioni di fatti nemmeno sempre importanti e non riesce a dar conto, invece, della complessità del fenomeno. Noi preferiamo tentar di recuperare qui il percorso genetico del «fatto» crociato e dell’idea di crociata e della loro contestualizzazione nella «lunga durata» d’un tema storico che va ben al di là del Medioevo: seguendo anche l’intreccio delle «altre» crociate, quelle considerate periferiche, secondarie o addirittura «distorte» e «deviate», dal momento che, in realtà, il senso della loro storia sta proprio in questa complicata dinamica. Va in effetti ribadito con energia che la riduzione del movimento crociato e delle idee-forza che lo promossero e lo sostennero a una serie d’imprese militari non ha senso. Esse – alcune delle quali anche modeste, e durate quasi sempre un tempo abbastanza breve – vanno inserite nel contesto della loro epoca: è improponibile tentarne un giudizio che non stia in rapporto con altre questioni coeve. Per esempio, va sottolineato come il periodo «classico» delle crociate, i secoli XII-XIII, sia stato in effetti uno dei momenti piú felici e positivi della storia del Medioevo e dell’Europa: fu il ritorno dell’Occidente all’economia di mercato, il tempo del

Medaglione in lapislazzuli con la rappresentazione della Crocifissione, particolare della decorazione della copertina di un evangeliario di produzione bizantina. Venezia, basilica di S. Marco, Tesoro.

Nella pagina accanto mosaico raffigurante papa Innocenzo III, dall’abside dell’antica basilica di S. Pietro. 1205-1209/1212. Roma, Museo di Roma.

grande commercio internazionale delle spezie dall’Asia orientale al Mediterraneo; fu il tempo del decollo della società urbana, delle cattedrali, delle università; e ancora il tempo nel quale, grazie alla mediazione ebraica e musulmana, l’Occidente si riappropriò della grande scienza filosofica e geografica antica cui aggiunse gli apporti dell’astronomia-astrologia, dell’alchimia-chimica, della medicina persiane, indiane e perfino cinesi passate attraverso il filtro arabo. Non è quindi plausibile il sostenere che le crociate abbiano allontanato l’Occidente dall’Oriente, per quanto altrettanto insensato sia rivendicare loro il merito di averli avvicinati. In realtà, esse furono il volto militare di un processo di scambio, di confronto, d’integrazione, anche di conoscenza e di stima reciproca, che ebbe il suo aspetto migliore nelle vicende della storia degli scambi culturali e commerciali. Dev’essere d’altronde tenuto ben presente il fatto che le crociate – che cominciarono a chiamarsi cosí proprio mentre, stando alla cronologia alla quale siamo abituati, stavano esaurendosi – continuarono ben oltre la soglia di quel Medioevo al quale di solito vengono indissolubilmente legate, prima trasformandosi in «guerre turche», poi subendo sovente una serie di impropri e forzosi revival. Ma essi poterono proporsi, e la stessa avventura semantico-lessicale del termine ne è prova, grazie alla straordinaria e articolata forza con la quale la dimensione crociata si era imposta nella cultura europea tardomedievale e protomoderna ai livelli politico, mistico, giuridico, finanziario, letterario, artistico: una forza che ha agito nella nostra cultura perfino inconsapevolmente, anche nei lunghi periodi in cui essa l’aveva rinnegata e dimenticata, finendo per riemergere inaspettatamente. La crociata è un fiume carsico, una Balena Bianca nella storia dell’Occidente.

Il grido di Clermont: storia o mito?

«Deus vult!», «Dio lo vuole!», si dice avessero gridato le folle a Clermont, in quel novembre del 1095. Forse non è vero: ma è uno di quei miti storici che non si dimenticano e che tante altre volte, magari laicizzato e perfino distorto CROCIATE

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LE CROCIATE

Il sogno (infranto) di Innocenzo III

in un motto grondante un orgoglio blasfemo, è risuonato nella nostra storia anche recente e recentissima. Ma già dinanzi alle peripezie, alle sofferenze e agli orrori che accompagnarono l’attraversamento dell’altopiano anatolico, tra 1097 e 1098, molti cavalieri, chierici e pellegrini si saranno certo chiesti con angoscia: «Deus quid vult?». E piú tardi, dinanzi ai ripetuti rovesci, alle umilianti sconfitte, alla perdita di Gerusalemme e di tutta la Terra Santa, allo spettacolo di un’impresa crociata che sembrava aver abbandonato e persino dimenticato il suo primitivo santo scopo – il recupero dei Luoghi Santi – ed essersi trasformata in espressione di volontà di potenza, furono in molti (eretici, so78

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prattutto: ma anche mistici, poeti, pensatori) a esprimere un talora lucido e deciso, talora sofferto e disperato: «Deus non vult!».

I dubbi di san Bernardo

La contestazione della crociata che ancora non si chiamava cosí cominciò quasi subito: lo stesso Bernardo di Clairvaux, che aveva impegnato la sua straordinaria autorità per appoggiare la spedizione del 1147-1148 guidata dai re di Francia e di Germania, subí il contraccolpo del suo fallimento. L’abate cistercense reagí con un doloroso trattato, il De consideratione, nel quale si chiedeva perché Dio potesse aver umiliato i suoi fedeli accordando la vittoria ai «pagani» e

La caduta di Costantinopoli, dipinto del Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti; 15181594). 1580 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.


puntava l’indice contro i peccati dei cristiani, che li avevano resi indegni della vittoria. Il successo della prima crociata aveva effettivamente stupito l’Europa; il fallimento delle successive la disorientò e la scandalizzò. Se l’impresa era santa, allora perché falliva? Forse a causa dei peccati dei cristiani? O per il tradimento di alcuni vili e falsi fedeli? O, piú semplicemente, perché non era santa per nulla, e Dio puniva l’arroganza di chi per tale aveva voluto farla passare? Nella crisi delle certezze della cristianità latina posta dinanzi al cattivo esito delle crociate si radicarono anche molti pregiudizi destinati a durare a lungo. Si andarono diffondendo, per esempio, disprezzo e diffidenza per i Bizantini, accusati di essere viziosi, imbelli e occulti alleati dei Saraceni contro i «Franchi» (cioè gli Europei occidentali).

Un’impresa poco «cristiana»...

In effetti, i Greci avevano assistito con inquietudine allo svilupparsi del movimento crociato, dal quale si sentivano minacciati. D’altra parte, l’impero bizantino era in effetti ormai preda di una crisi politica che alla fine del XII secolo sfociò in guerra civile: e di tale debolezza approfittarono come già sappiamo alcuni principi d’Occidente che – con l’appoggio di una flotta veneziana guidata dallo stesso doge, Enrico Dandolo – si stavano recando in Terra Santa (nei manuali, questa è la «quarta» crociata): o, quanto meno, tali erano le loro intenzioni iniziali. In realtà, per pagare in qualche modo il nolo della flotta veneziana che li trasportava, prima espugnarono la città dalmata di Zara che dava ombra alla città di San Marco, poi s’impadronirono di Costantinopoli saccheggiandola (1204) e fondarono, come si è detto, l’effimero «impero latino di Costantinopoli». Papa Innocenzo III, che in un primo momento aveva dato segno di disapprovare e condannare la deviazione dell’impresa, a cose fatte si decise ad accettarla: se non altro perché essa poneva teoricamente fine allo scisma d’Oriente. In realtà, l’abolizione forzata dell’autonomia della Chiesa greca fu una delle ragioni principali di un rancore e di una diffidenza che ancor oggi la Chiesa ortodossa dimostra di non aver del tutto metabolizzato nei confronti di quella cattolica. Ed eccoci dinanzi a un altro paradosso. Innocenzo III, forse il piú grande papa del Medioevo e uno dei piú grandi dell’intera storia della Chiesa, dedicò una cura particolare alla crociata: fu lui a fondare la teoria e la pratica in ossequio alle quali la sua organizzazione fu sottratta ai principi laici e accentrata nelle mani

Rilievo forse raffigurante l’assedio di Tolosa da parte di Simon de Montfort, nel 1218. XIII sec. Carcassonne, cattedrale di St.-Nazaire. della Curia pontificia che la gestí e la diresse, da allora in poi, con energia. Legittimando, sia pur senza entusiasmo, la crociata che si era conclusa con la conquista di Costantinopoli, Innocenzo accettò un precedente denso di conseguenze. Eppure, ciò avvenne proprio perché quello straordinario pontefice era scosso per quanto stava accadendo nella contesa con l’Islam, specie in area iberica. I nuovi padroni musulmani di Spagna erano gli Almohadi, una setta ispirata a un duro radicalismo religioso, originaria del Maghreb, i cui membri si erano riversati in Spagna per sostenere i correligionari musulmani che stavano cedendo sotto i colpi della Reconquista cristiana. Nel luglio del 1195, gli Almohadi avevano fieramente battuto i cristiani iberici nella battaglia di Alarcos. Quindici anni dopo, la notizia della conquista da parte degli Almohadi della piazzaforte di Salvatierra, nel 1210, indusse il papa a far predicare una nuova crociata nella Spagna controllata dai cristiani e nella stessa Francia: i signori aquitani, che

In basso San Bernardo di Chiaravalle, particolare della Crocifissione con Patriarchi, Santi e Beati affrescata dal Beato Angelico nella Sala Capitolare dell’ex convento di S. Marco a Firenze. 1441-1442. Firenze, Museo Nazionale di S. Marco.

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LE CROCIATE

Il sogno (infranto) di Innocenzo III

I PAGANI PERSERO, I CRISTIANI VINSERO Nelle feroci crociate del Settentrione si forgiò gran parte dello spirito crociato delle aristocrazie europee: fra XII e XV secolo, compiere alcuni mesi di servizio insieme con i Cavalieri dell’Ordine Teutonico contro i pagani locali fu un frequente titolo di vanto di molte famiglie aristocratiche non solo tedesche, ma anche inglesi, francesi e italiche. Ecco come un anonimo poeta svedese descriveva l’epos crociato contro i Tavasti finnici, popolazione uralo-altaica insediata nell’area baltica: «Ebbero vento favorevole, partirono. / Anche i pagani si preparavano intanto; / sapevano bene che essi sarebbero venuti per loro danno, / e non per loro vantaggio. / I cristiani approdarono là nel porto; / molte, innumerevoli prue dorate potevano essere viste là dai pagani / che dovevano rattristarsi piú che sorridere. / Volevano volentieri provare le loro spade sui tavasti pagani; / penso che poi lo facessero. / I tavasti fuggirono allora / da oro, da argento, da immensi greggi; / i pagani persero, i cristiani vinsero. / A chi voleva andare incontro ad essi / e farsi cristiano e ricevere il battesimo, / lasciavano vita e proprietà / e possibilità di vivere in una pace senza litigio. / Al pagano che rifiutava davano morte» (dal poema-cronaca svedese Erikskronikan).

avevano formulato voto di partenza per la Siria, furono autorizzati a scioglierlo passando invece i Pirenei per misurarsi con gli infedeli invasori della Penisola Iberica. I re Alfonso di Castiglia, Pietro d’Aragona, Sancho di Navarra, a capo di un esercito composto di cavalieri franco-meridionali, spagnoli e portoghesi, riportarono cosí il 17 luglio del 1212 la grande vittoria di Las Navas de Tolosa. Alla riscossa avevano offerto il loro decisivo contributo anche gli Ordini religioso-militari iberici, che nel corso del XII secolo erano fioriti in Spagna e in Portogallo sul modello di quelli della Terra Santa: gli Ordini di Santiago (detto anche «del Pereiro»), di Calatrava, di Alcantara. Las Navas fu un grande trionfo, che rinfrancò l’intera cristianità. Si poteva tornare a sperare 80

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La battaglia del lago Peipus ricostruita nel film Aleksandr Nevskij, girato da Sergej Ejzenstejn nel 1938.

nella riscossa. Innocenzo III sognava una vittoria in Terra Santa. Ma intanto, a parte l’esito della crociata del 1202-1204 che aveva cancellato l’impero bizantino, nell’Europa settentrionale procedevano già dal XII secolo le crociate di conquista e di missione dei Cavalieri Teutonici e dell’Ordine dei Pauperes Milites Christi della Livonia (detto, dalla loro insegna, «dei Portaspada») contro Slavi, Balti e Finni, che erano senza dubbio pagani, non certo però Saraceni né responsabili dell’avanzata dell’Islam. In tutto il Nord-Est del continente europeo la fede cristiana e la fedeltà alla Chiesa di Roma stavano avanzando, in realtà, insieme con il progredire degli insediamenti urbani e agricoli dei nobili, dei mercanti e dei coloni tedeschi, che all’Est cercavano un loro «spazio vitale», mentre sul Baltico fiorivano le ricche e potenti città marinare e mercantili della Lega Anseatica. Intanto, nel fatidico 1212, oltre alla vittoria di Las Navas de Tolosa la cristianità aveva assistito anche al fenomeno sconcertante di gruppi di pellegrini guidati forse da «fanciulli» (donde il nome, crociata dei pueri, o degli «innocenti»: una parola che però, in latino, può voler dire anche mercenari o teppisti) che avevano percorso la Francia, la Germania e l’Italia diretti verso la Terra Santa, con l’intenzione di conquistarla armati solo della fede. Il tragico epilogo di questi folli pellegrinaggi (giovani morti di malattia, resi schiavi, corrotti da uomini senza scrupoli) aveva forse commosso il papa e lo aveva indotto a pensare nuovamente alla crociata come a un nuovo Esodo che portasse la cristianità verso la Terra Promessa.

La diffusione del catarismo

Fin dalla seconda metà del XII secolo si stava diffondendo, specie tra Francia meridionale e Italia settentrionale, una setta ereticale proveniente pare dal mondo bizantino attraverso i Balcani, quella catara. Era, in realtà, una vera e propria religione di tipo dualistico e neomanicheo, diversa dal cristianesimo, che però si presentava come un pio movimento di contestazione cristiano-popolare contro la Chiesa opulenta e corrotta. L’eresia catara stava facendo molti proseliti soprattutto nel Meridione della Francia; e i tentativi di arginarla attraverso il confronto religioso, la disputa, la predicazione si erano rivelati insufficienti. Nel 1209, in seguito all’assassinio del legato pontificio in Linguadoca, fu quindi bandita la crociata – e pare che il primo apparire di tale parola si debba proprio a questo evento – contro appunto quegli eretici che (dalla città occita-


na di Albi, dove erano particolarmente forti) erano detti «Albigesi». A chi accettava di partire per combattere i catari la Chiesa riconosceva uguali privilegi e prerogative dei cruce signati verso la Terra Santa. Lo stesso accadeva nei confronti di chi s’impegnava nel Nord-Est europeo. Quello perpetrato in Linguadoca fu un terribile massacro, che per molti decenni infierí, spopolandola, su una delle piú ridenti, ricche e colte contrade dell’Occidente. Fu anche un’impresa politico-militare di conquista dell’aristocrazia franco-settentrionale sul Meridione. Nel 1213, durante la battaglia di Muret, cadde combattendo conto i crociati Pietro d’Aragona, uno degli eroi di Las Navas de Tolosa. Egli si era impegnato a fianco del marchese di Provenza, suo alleato e vicino, contro gli aggressori venuti dalla Francia del Nord.

L’ultima volontà del pontefice

Solo nel 1244, a prezzo di feroci stragi, i cavalieri franco-settentrionali cui era stata affidata la gestione dell’impresa ebbero ragione delle ultime ridotte di resistenza catara. Vittorie in Spagna, avanzata del cristianesimo imposto con la

forza nel Nord-Est europeo, crisi del regno latino di Gerusalemme, conquista cristiana della cristianissima Costantinopoli, crociata che massacrava i cristiani nel Sud della Francia, crociate «popolari» e indisciplinate che si risolvevano in scandali e in eccidi. Ce n’era, di che preoccupare il papa. Nel 1213, Innocenzo III aveva riunito a Roma il IV concilio lateranense, nel quale la crociata fu uno degli argomenti fondamentali. Ma egli moriva due anni dopo: trionfante su tutto, ma sconfitto proprio su quel punto al quale teneva forse piú di ogni altro. Di lí a poco, esito ultimo della sua volontà espressa durante il concilio, partí come già si è detto una nuova crociata (la quinta) verso la Terra Santa: ma fu deviata verso il delta del Nilo e si risolse in un nulla di fatto, a parte la presenza tra gli armati di Francesco d’Assisi, naturalmente ossequioso nei confronti degli ordini del pontefice, ma fermo testimone di un altro modo di porsi di fronte agli infedeli. Con la visita di Francesco al sultano al-Malik al-Kamil, l’impresa avrebbe segnato il superamento dell’ideale crociato e forse perfino, nel nome della pura e umile testimonianza, di quello missionario.

La battaglia di Las Navas de Tolosa (o Alacab, vinta contro i Mori, nei pressi della Sierra Morena, da Don Alfonso VIII di Castiglia, aiutato dai re d’Aragona e di Navarra, il 16 luglio 1212), olio su tela di Francisco de Paula Van Halen. 1864. Madrid, Museo del Prado.

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Reprimere è lecito Nel solco degli ideali di Clermont, la Chiesa definisce un apparato dottrinario e giuridico minuzioso, utile a giustificare le crociate bandite senza sosta per tutto il Trecento e oltre 82

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tedeschi della Lega Anseatica e ne convertivano con la forza le genti. Dopo la metà del Duecento, una volta placatasi la tempesta mongola che aveva sconvolto quasi per intero il continente eurasiatico, si sviluppò un intenso movimento di missionari, diplomatici, mercanti, esploratori che condusse gli Europei fino alla Cina e all’India sulla base della speranza – utopica – di convincere i temibili conquistatori a far causa comune con la cristianità europea contro l’Islam. Ancora una volta, la crociata dispiegava e dimostrava intera la sua vitalità: ma in ambiti diversi da quello che era il suo dichiarato scopo principale. Il fatto è anche che essa era divenuta uno strumento di polizia contro i nemici della Chiesa. Dopo averla impiegata contro i catari, che erano avversari religiosi, la si usò contro i nemici politici del papato, per esempio i ghibellini italiani. Crociate furono predicate contro Manfredi e poi Corradino di Svevia, verso la metà del Duecento contro Ezzelino e Alberico da Romano, alla fine del secolo contro la famiglia romana dei Colonna, piú tardi ancora contro i Visconti di Milano, gli Ordelaffi di Forlí e altri signori ghibellini d’Italia.

La demonizzazione del nemico

di Franco Cardini

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l movimento nato dall’esortazione di Clermont del 1095 si era andato complicando e articolando: i regnanti cristiani dell’Occidente avevano cercato di dirigerlo e di gestirlo e avevano fallito. Esso, ormai, non era altro che uno strumento di controllo politico e giuridico nelle mani della Santa Sede che cosí condizionava i governi cristiani, imponeva tasse e altre forme di prelievo di denaro, dettava alleanze. In Spagna, nel Duecento, i re di Castiglia e d’Aragona erano riusciti a ridurre l’Islam al possesso del solo Meridione andaluso; nel Nord-Est europeo, i monaci-cavalieri Teutonici e Portaspada dominavano il Baltico d’accordo con i mercanti

Trionfo di San Tommaso d’Aquino, affresco di Andrea Bonaiuti. 1366-1368. Firenze, S. Maria Novella. Cappellone degli Spagnoli.

La propaganda guelfa dipingeva questi principi – invero spesso crudeli e anche superstiziosi fino all’empietà, che si circondavano di astrologi arabi e avevano sovente al loro servizio milizie saracene – come «peggiori degli infedeli» e complici dei potentati musulmani: un’accusa che in certi momenti di crisi – come l’insorgere dell’epidemia di peste del 1347-50 – emerse anche contro gli Ebrei, accusati di congiurare con i Saraceni per la rovina dei cristiani. Di Ezzelino da Romano, era circolata perfino la leggenda che fosse figlio del diavolo: e un intellettuale padovano, Albertino Mussato, tradusse questa paurosa diceria in una bella tragedia in versi latini, l’Ecerinis, dove il tiranno vanta titanicamente quella terribile paternità definendo perciò se stesso «figlio di un dio», come si diceva fosse Alessandro Magno. La predicazione della crociata, sia quella contro gli «infedeli» o i «pagani», sia quella contro i mali christiani, è uno dei primi esempi sistematici di organizzazione del consenso che noi conosciamo, fondato sugli abili predicatori popolari, gli efficienti mercanti che appaltavano e raccoglievano le decime per la crociata e la severa Inquisizione. Essa si era d’altronde resa necessaria in quanto lo scandalo e l’indignazione per le crociate bandite in partibus fidelium, la «croce portata contro i cristiani», erano andati CROCIATE

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LE CROCIATE

A sinistra Il ritrovamento del corpo di Manfredi tre giorni dopo la battaglia di Benevento del 1266, olio su tela di Giuseppe Bezzuoli. 1838. Benevento, Museo del Sannio. Ispirandosi alla Divina Commedia, il pittore illustra l’episodio del ritrovamento del corpo di Manfredi, morto da eroe contro le truppe francesi di Carlo I d’Angiò, appoggiate dal papato. Sulla destra del dipinto, il vescovo di Cosenza, legato pontificio, indica che il sovrano svevo, scomunicato da papa Clemente IV, non può essere seppellito in terra consacrata, ma solo fuori dal regno.

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Regole e precetti

diventando sempre piú frequenti: se ne sarebbero fatti interpreti anche personaggi come Dante e Petrarca; l’insoddisfazione e la stanchezza per la «degenerazione» della crociata furono tra gli elementi che, alla lunga, produssero la Riforma protestante. Bisogna d’altronde dire che, per giungere alla legittimazione delle crociate antiereticali e addirittura di quelle politiche, era stato necessario accompagnare il sapiente apparato persuasivo e repressivo percorrendo un lungo cammino anche giuridico. I documenti conciliari e le encicliche dei papi fra XI e XIII secolo erano stati la base d’una specifica dottrina, ben presto inquadrata nei rigorosi schemi del diritto canonico. L’iter Hierosolimytanum, detto anche semplicemente succursus e addirittura pax e iubilaeum (con allusione alle indulgenze spirituali cui i partecipanti avevano diritto) e poi passagium – con bella espressione, che richiamava l’intera esperienza esistenziale cristiana della vita come viaggio e ritorno alla Casa del Padre – si giustificava in quanto esperienza armata («pellegrinaggio armato», se vogliamo servirci di un ossimoro peraltro giuridicamente non illegittimo) volta alla conquista, al mantenimento o alla riconquista della città di Gerusalemme. Intorno a questa concezione della crociata, si era andata formando nel tempo una tradizione giuridica di tipo canonistico: l’impresa, che in origine aveva per scopo la conquista, poi la di-

fesa e quindi il recupero di Gerusalemme, era diventata l’unità di misura di una serie di spedizioni che, pur considerate esse stesse crociate e come tali fornite delle medesime prerogative, sarebbero state caratterizzate da scopi immediati e diversi: la liberazione della Spagna dai Mori, piú tardi la difesa dell’Europa contro i Turchi, oppure la tutela della Chiesa nei confronti dei pericoli ereticali o addirittura degli avversari politici. La disciplina del voto crociato, elaborata dai grandi canonisti del XIII secolo, avrebbe permesso l’applicazione di una serie di provvedimenti di equipollenza. La Chiesa si arrogava quindi il diritto di commutare voti crociati utilizzandoli in altre spedizioni, esse stesse crociate; oppure di liberare singoli fedeli dal loro voto crociato dietro l’esborso di una somma di denaro, che poteva servire a inviare alla crociata un’altra persona al suo posto o a venir impiegato per un altro scopo.

Nessuna pietà per gli eretici

Teologi e canonisti finirono per dichiarare la crociata interna alla cristianità (crux cismarina) addirittura piú giustificabile e meritevole di quella esterna (crux transmarina). Se erano disposti a discutere l’opportunità o meno di punire i pagani per il fatto di volersi ostinare a non riconoscere il vero Dio, dal momento che l’ignoranza della Verità non poteva in sé essere considerata una colpa, erano però tutti concordi


nel dichiarare che gli eretici, o comunque coloro che si erano volontariamente allontanati dalla Chiesa e dall’ortodossia, dovessero per questo essere puniti e addirittura costretti a rientrare nei ranghi che avevano abbandonato. Il IV concilio lateranense del 1213, al celebre canone Excommunicamus, poi dall’Hostiensis (il canonista Enrico di Susa, cardinale-vescovo di Ostia) incluso fra i testi basilari per la legislazione crociata, ammetteva la predicazione della croce contro gli eretici e chiunque li proteggesse. Da allora in poi prese piede l’uso di «esporre in preda», a chi volesse conquistarli, i beni dello scomunicato, ai quali egli non aveva piú diritto; questa pratica, definita dalla frase «terram exponere catholicis occupandam», si sarebbe perpetuata soprattutto in Francia dove, dal Cinquecento in poi, l’exposition en proie fece la fortuna di parecchi zelanti cacciatori di ugonotti: ma già durante la crociata degli Albigesi non mancò di dar luogo a quei tristi eccessi che sono di pubblica ragione. L’Hostiensis ammetteva senza riserve la legittimità della crociata contro eretici e scismatici, argomentando che questi erano ben piú colpevoli dei Saraceni perché, mentre i secondi si erano limitati a strappare la Terra Santa ai cristiani, i primi avevano diviso o minacciavano di dividere, spiritualmente e materialmente, in modo pericoloso per la stessa fede, Chiesa e cristianità. Stabilita cosí in linea di principio la legittimità delle crociate, transmarine o cismarine che fossero, i giuristi passavano a descriverne le caratteristiche. Dal momento che, secondo il principio agostiniano fatto proprio anche da Tommaso d’Aquino, una guerra aveva bisogno, per essere detta giusta, di venir dichiarata da un potere le-

Nella pagina accanto, a destra miniature raffiguranti il miracoloso intervento della Vergine in favore dei soldati cristiani attaccati dai Mori, da un’edizione delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. In basso ritratto di Ezzelino III da Romano, dipinto di autore veneto anonimo. XVI sec. Padova, Musei Civici.

gittimo che ne assumesse la responsabilità, mentre tale potere risiedeva generalmente nei principi laici, il passagium generale in Terra Santa poteva essere invece autorizzato solo dal pontefice. Ciò perché stava a lui soprattutto rispondere della fede e fronteggiare i pericoli che la minacciavano, e anche perché soltanto lui poteva accordare l’indulgenza nei termini che la crociata richiedeva e disporre del voto relativo. Difatti, l’atto del prendere la croce era la forma costitutiva del voto di pellegrinaggio in Terra Santa, come lo fu piú tardi per il voto dell’iter militare in Spagna, in Prussia, in Provenza e dovunque esso prendesse il carattere di crociata.

Voti e intenzioni

In questo senso, il diritto della crociata s’inseriva nella teoria generale del voto, che era di origine piú remota: poiché la formulazione di tale voto era libera, una volta avvenuta vincolava con valore obbligatorio. In altri termini, il voto comportava, giuridicamente parlando, un’obbligazione paragonabile a quella di un contratto, tanto che si giungeva a sostenerne la necessaria trasmissibilità agli eredi. Ciò, beninteso, nel caso che il voto fosse stato fatto pro subsidio, cioè con l’intenzione di arrecare alla Terra Santa un aiuto militare; se invece il voto fosse stato fatto pro devotione, cioè col solo fine di pregare sul Sepolcro, esso era solvibile solo dal contraente. Questi due tipi di voto sono, sul piano giuridico, l’effettiva discriminante fra la crociata e il pellegrinaggio. Ma i voti potevano

TUTTI CONTRO QUELL’«UOMO MALEDETTO»... Il cronista francescano Salimbene de Adam, parmense, rievoca cosí la crociata bandita dalla Chiesa fra 1258 e 1259 contro i signori ghibellini Ezzelino e Alberico da Romano: «Dominò a Treviso per molti anni Alberico da Romano, il cui governo fu crudele e duro, come conobbero quelli che ne fecero esperienza. Costui fu davvero un membro del diavolo e un figlio di iniquità, ma morí di mala morte assieme alla moglie, ai figli e alle figlie. (...) In seguito a ciò, con il consenso di tutta la città [di Venezia], tanto degli uomini che delle donne, [il cardinale Ottaviano degli Ubaldini] predicò la crociata contro il maledetto Alberico e chiunque assumesse la croce e andasse in guerra o mandasse al suo posto qualcuno a sue spese per distruggerlo, aveva l’indulgenza plenaria di tutti i suoi peccati. (...) Tutti dunque si animarono e assunsero la croce, dal piccolo fino al piú grande, dall’uomo fino alla donna, a causa della predicazione del cardinale, che era persona di tanta autorità e rivestiva tale funzione, e a causa della malvagità di quell’uomo maledetto, e per l’impiccagione di quei nobili che aveva ingiustamente ordinata, e a causa di quelle donne che vedevano turpemente disonorate e inoltre anche per l’indulgenza plenaria che ricevevano» (Salimbene de Adam, Cronaca, a cura di Giuseppe Scalia, I, Bari 1966, pp. 528-532).

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LE CROCIATE Miniatura raffigurante il re Saul (sulla sinistra, con la tunica arancione) che guida vittoriosamente gli Israeliti contro gli Ammoniti: gli uni e gli altri sono rappresentati come cavalieri e guerrieri medievali, dalla Bibbia detta «dei Crociati». 1244-1254 circa. New York, Pierpont Morgan Library.

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Regole e precetti essere commutati, col consenso della Chiesa, in altri giudicati di valore uguale o superiore: questo principio generalmente accettato, per quanto non senza qualche perplessità (secondo l’Hostiensis, essendo il voto un contratto diretto fra l’uomo e Dio, nessuna autorità umana poteva rimetterlo o commutarlo), dette luogo, dai tempi di Innocenzo III in poi, alla pratica, ben presto divenuta abituale, di riscattare o commutare anche il voto crociato.

Promesse vincolanti

Perché ciò potesse accadere bastavano, secondo il parere di Raimondo di Peñafort, una giusta causa e l’autorizzazione papale. Cosí, se in linea di principio non sembrava lecito rifiutare la croce a chiunque volesse prenderla, si provvedeva poi mediante la redemptio a farne riscattare il voto con una somma di denaro, in modo che chi non poteva soccorrere con le armi il Sepolcro provvedesse almeno a finanziare le spedizioni dei guerrieri valenti. Oppure s’inducevano i cavalieri che avevano formulato il voto per la Terra Santa ad accettare la commutatio, a scio-

gliere cioè la loro promessa di soldati del Cristo combattendo non contro gli infedeli di Palestina ma contro quelli di Spagna o contro i pagani del Nord Europa, oppure addirittura contro gli eretici e, durante il conflitto tra guelfi e ghibellini, contro i fedeli dell’impero. Il sovrano o il barone che avessero poi contratto il voto ma, per gravi e indilazionabili ragioni pubbliche o private, fossero o si fingessero costretti a rimandare la partenza, potevano fruire della dilatio: l’Europa si popolava cosí di re e di principi che ostentavano la croce sulle vesti per potersi macchiare delle peggiori soperchierie, lungi dall’idea di mantenere almeno immediatamente la loro promessa e al riparo delle immunità che la Chiesa offriva ai crociati. Questo fu uno dei motivi principali di antipatia e di diffidenza che la crociata coagulò intorno a sé dal Duecento in poi. Era contemplata, in ultimo, anche la remissione assoluta del voto, la dispensatio: ma essa, a giudicare dalle testimonianze rimasteci, si concedeva piuttosto raramente. È giusto osservare a questo punto che le diverse manipolazioni del voto furono rese possibili e


A PIEDI SCALZI, COME PELLEGRINI A partire per la crociata ci si impegnava con un voto solenne, dal quale si poteva venir liberati solo mediante autorizzazione ecclesiastica. Il rito della traditio crucis, della consegna della croce di stoffa (solitamente di colore rosso: anche se una fonte, per la verità insicura, parla di croci di colori diversi, a seconda della nazionalità), dovette modellarsi fin dall’inizio sulla consegna e l’assunzione dei simboli di pellegrinaggio consueti (come la conchiglia per il pellegrinaggio a Santiago di Compostella). Durante la prima crociata, era abbastanza frequente scoprire croci impresse, come stigmate, nelle carni dei caduti martiri: tale prodigio era considerato segno di elezione. Portando la sua croce, il pellegrino si sentiva emulo del Cristo. A partire dal XII secolo la crucesignatio divenne un rito liturgico della Chiesa. Il pellegrino si presentava in veste da penitente, a piedi scalzi, dinanzi all’altare; pronunziava solennemente il suo voto, che veniva registrato dal notaio; quindi il vescovo officiante lo segnava sulla fronte e gli consegnava dunque i simboli che qualificavano la sua promessa: il distintivo della croce, il baculum cioè il «bordone» (il bastone da pellegrino), la pera cioè la «scarsella» (la borsa che si appendeva al bordone). Infine il pellegrino usciva dalla chiesa a piedi scalzi, quindi come penitente, con ciò avviando simbolicamente il cammino. Nella crucesignatio non c’è traccia d’armi né di riti guerrieri: la crociata si riassume tutta e soltanto nel pellegrinaggio. Scalzo, con scarsella e bordone, uscí anche san Luigi nel 1248 dalla basilica regia di St.-Denis per avviarsi alla sua crociata contro l’Egitto.

in qualche caso necessarie dall’oggettiva abbondanza di persone di qualsiasi condizione che chiedevano di prendere la croce: alcuni convinti e quasi folgorati dall’ispirata parola di un predicatore; altri indotti in punto di morte dalla speranza di acquistarsi in extremis un merito dinanzi al tribunale divino (e in questo caso il voto veniva ereditato dai congiunti stretti del defunto, che di solito usavano riscattarlo versando una certa cifra: una specie di pia tassa di successione, insomma); altri ancora costretti dalla Chiesa, che poteva imporre la crociata – come già il pellegrinaggio – a titolo di penitenza per crimini particolarmente gravi; altri infine attratti dai vantaggi immediati che avrebbero potuto ricavare dal voto. Vantaggi spirituali e temporali: ma quali, in concreto?

Il tempo delle indulgenze

Soprattutto l’indulgenza, cioè la remissione della pena temporale per i peccati di cui si fosse fatta una perfetta confessione. Essa era cosí importante che la crociata veniva popolarmente detta anche «giubileo », «tempo d’indulgenza », «perdono». Tommaso d’Aquino si pose il problema se l’indulgenza, cosa spirituale, potesse o no venir lucrata per una guerra, cosa temporale: e lo risolse affermativamente nel caso della crociata, che pur essendo una guerra era strettamente ordinata allo spirituale. In un primo tempo l’indulgenza era plenaria per tutti i partecipanti all’impresa, ma in seguito pare si sia

sviluppato un sistema preciso d’indulgenze gradualmente dosate a seconda dell’entità di ciascuna prestazione: con Alessandro III, si stabilí che solo chi s’impegnava a compiere un servizio di almeno due anni poteva fruire dell’indulgenza nella forma plenaria. Un potente sistema finanziario raccoglieva il denaro necessario alle spedizioni: elemosine, donazioni pro anima (cioè in suffragio), ma anche vere e proprie imposte, come la «decima», inaugurata come contributo straordinario ai tempi della preparazione della crociata contro il Saladino e poi ripetutamente bandita in seguito. Papa Gregorio X (12711276) la mise definitivamente a punto. Le tasse pontificie venivano di solito riscosse da banchieri che ne avevano l’appalto e che quindi – avendo già anticipato somme di denaro alla Curia – intendevano rifarsi. Relativamente poco di queste somme, talora ingenti, giungeva alla Curia: diocesi per diocesi, i vescovi ne trattenevano una parte, mentre i sovrani chiedevano e ottenevano sempre piú spesso di poter incassare e gestire direttamente quelle somme. Naturalmente furono rare le occasioni in cui il denaro rastrellato serví sul serio a una spedizione contro gli infedeli. L’avidità mostrata dalla Curia pontificia, dai prelati e dai sovrani con il pretesto delle tasse per la crociata fu una delle principali ragioni per le quali essa perse sempre piú popolarità.

In alto miniatura raffigurante un cavaliere che riceve il simbolo della croce da un monaco. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. In basso pagina miniata di un’edizione manoscritta del Secreta fidelium crucis di Marino Sanudo il Giovane. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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Verso un nuovo ordine mondiale?

Accantonate le velleità di riconquista della Terra Santa, l’Occidente deve confrontarsi con la crescente potenza ottomana. E la crociata si trasforma in modello per una serie di imprese condotte su fronti ben diversi

A sinistra l’elsa di una spada appartenuta al sovrano nazride Abu Abdallah Muhammad, piú noto agli Occidentali e nelle cronache cristiane come Boabdil. XV sec. Madrid, Museo del Ejército.


di Franco Cardini

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n altro paradosso, in questa storia di paradossi. A partire dal Trecento, la crociata domina l’Europa: trionfa in Spagna, determina le sorti del Nord-Est europeo, è una ben oliata macchina giuridica e finanziaria. Ma Gerusalemme è stata perduta e, al di là della fictio iuris secondo la quale ogni minimo ingranaggio della gran macchina crociata è teso a riconquistarla, piú nessuno ci prova sul serio (anche se, va detto, progetti e programmi in tal senso continuano a proliferare). In realtà l’Europa dei papi, delle monarchie feudali che an-

La caduta di Granada nel 1492, olio su tela di Carlos Luis Ribera y Fieve. 1890. Burgos, Cattedrale.

davano trasformandosi in Stati assoluti (e il processo intentato dal re di Francia ai Templari fra 1307 e 1312, con il relativo scioglimento dell’Ordine, è un momento di tale trasformazione), dei principati e delle libere città mercantili ha altro cui pensare. Nella Penisola Iberica, le vittorie castigliane e aragonesi del Due-Trecento – come quella, memorabile, del Rio Salado nel 1340 – avevano ridotto l’Islam iberico, al-Andalus, al pur splendido emirato di Granada, a sud della Sierra Morena. È vero che fra Tre e Quattrocento la CROCIATE

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LE CROCIATE

Miniatura raffigurante il Prete Gianni, misterioso principe cristiano d’Asia, seduto sul suo trono in Etiopia, da un portolano del portoghese Diego Homem. 1558. Londra, British Library.

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Nuovi scenari

Reconquista si era arrestata: la Spagna era stata coinvolta nella guerra dei Cent’anni, e ciò aveva consentito agli emiri di Granada di continuare a governare in pace il loro principato. Le cose cambiarono nel 1479, quando la Spagna cristiana trovò un nuovo equilibrio politico grazie alle nozze fra i sovrani dei due Regni tradizionalmente rivali, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Intanto, la fase finale della crisi granadina aveva già avuto inizio. Dopo la splendida signoria dell’emiro Maometto I, fondatore della dinastia nazride di Granada e del palazzo dell’Alhambra, l’emirato aveva dovuto affrontare una lunga sequenza di sommosse, di colpi di Stato, di iniziative sediziose. Ad Almeria e a Malaga, emirati separatisti appoggiati dai Castigliani e dal Marocco minavano la sicurezza dell’emirato granadino, dove la dinastia nazride era stata rovesciata nel 1453 dall’avventuriero Mulay Saad, nel 1460 spodestato dal figlio Mulay Abu’l Hasan che nel 1481, al termine di un’ennesima tregua con gli Aragonesi-Castigliani, aveva avviato una nuova fase di ostilità. I Mori conquistarono Zahara, i cristiani Alhama: cominciò cosí quella che ormai è nota come «guerra di Granada». Ma i Nazridi erano divisi: da una parte l’emiro Abu’l Hasan e suo fratello Zaghal, dall’altra il ribelle Abu Abdallah Muhammad (il «Boabdil» delle cronache cristiane), figlio maggiore di

Abu’l Hasan, ribelle al padre. Sconfitto e catturato da Ferdinando, Boabdil fu da questi liberato e riprese la guerra dinastica contro lo zio, che nel frattempo aveva sostituito Abu’l Hasan. Si aprí una fase del conflitto tanto feroce quanto ingarbugliata: i Mori si combattevano fra loro, disputandosi la ricchissima capitale, mentre Zaghal teneva a bada con valore anche i cristiani. Ferdinando, comunque, era deciso a farla finita, con l’aiuto di un nuovo splendido comandante militare che si andava facendo strada: Consalvo de Córdoba, «el Gran Capitán». Sisto IV aveva inviato al re d’Aragona, in pegno di vittoria, una splendida croce argentea che i crociati usarono come insegna. Dopo la caduta delle ultime piazzeforti, tra cui Malaga, Zaghal depose le armi e ai primi del 1490 licenziò le sue truppe. Boabdil aveva promesso di restituire Granada quando anche lo zio si fosse arreso: ma a quel punto rifiutò di piegarsi e assunse su di sé l’onere di guidare l’estrema resistenza musulmana. Sotto Granada, Castigliani e Aragonesi avevano raccolto un’armata che qualcuno ha voluto ascendesse a 80 000 uomini: Isabella, Ferdinando e Consalvo guidavano l’assedio. Lo sterminato campo cristiano era una città di tende: fu battezzato Santa Fe. Piú che dalla forza delle armi, i Mori furono piegati dalla fame nel duro inverno della città cinta dalla Sierra bianca di neve. La resa – ne-


goziata dal Gran Capitán direttamente in arabo, lingua che egli conosceva – avvenne il 2 gennaio del 1492, ma i re cattolici attesero l’Epifania, festa dei Re Magi, per entrare in città. Cerimonie di gioia, spettacoli e processioni si tennero per l’occasione in tutta Europa: a Roma il papa aragonese Alessandro VI Borgia ordinò festeggiamenti di fiaba per questa vittoria. Lo spirito della crociata iberica si sarebbe trasferito anche nel Nuovo Mondo, fornendo le giustificazioni giuridiche, eroiche e morali alle gesta dei conquistadores nel Cinquecento.

Le mire del Portogallo

Lo spirito cristiano e cavalleresco della crociata fu esportato pochi anni piú tardi nel Nuovo Mondo dai conquistadores, che vissero i loro scontri contro Aztechi e Incas un po’ come epopee della croce, un po’ come romanzi d’avventura cavalleresca. L’estremo confine sud-occidentale della crociata era segnato dai Portoghesi. Nato nel corso del XII secolo dalla Reconquista, come evoluzione di una contea del Regno di Castiglia, il Portogallo non aveva mai dimenticato le sue radici crociate: e aveva teso a interpretarle nel senso dell’esplorazione oceanica, il cui fine principale era divenuto quello di circumnavigare il continente africano per giungere via mare al favoloso regno d’un leggendario principe cristiano: il «Prete Gianni», identificato con un sovrano prima mongolo, poi indiano, infine etiope, dal quale ci si attendeva un risolutivo aiuto contro l’Islam. Anima di questo progetto ardito e ambizioso, che riposava tuttavia su una straordinaria perizia marinara e cartografica – e che avrebbe difatti portato, alla fine del Quattrocento, all’impresa di Vasco da Gama –, fu l’infante Enrico di Aviz (1394-1460), detto appunto «il Navigatore», figlio cadetto di re Giovanni I. La fama crociata di Enrico si dovette a un’impresa che fece grande scalpore: la presa di Ceuta, in Marocco (15 agosto 1415). Rinforzata da apporti inglesi, fiamminghi, normanni e italici, la flotta portoghese era guidata dal re in persona. L’attacco fu rapidissimo: in un giorno la piazzaforte fu conquistata e nella sua grande moschea, trasformata in cattedrale, il sovrano armò cavalieri i suoi tre figli Edoardo, Pietro ed Enrico. Nel 1420 Enrico diveniva, con la benedizione di papa Martino V, Gran Maestro dell’Ordine del Cristo, che in Portogallo aveva ereditato beni e tradizioni templari. Nel 1470 i Portoghesi conquistarono Tangeri; e avrebbero potuto portare a termine la conquista del Marocco, se non fossero stati

Enrico il Navigatore e il principe Giovanni, futuro Giovanni II di Aviz, detto il Principe Perfetto, particolare di uno degli scomparti del Polittico di San Vincenzo, olio e tempera su tavola di Nuno Gonçalves. 1470 circa. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga.

attratti dall’esplorazione navale della costa occidentale dell’Africa: il Capo di Buona Speranza sarebbe stato doppiato nel 1488. Procedeva intanto anche la crociata nel NordEst europeo, in zone originariamente slave o baltiche, che aveva per protagonista l’Ordine religioso-militare di S. Maria dei Teutoni, in origine ospedaliero, caratterizzato dalla presenza esclusiva di genti di origine germanica. La penetrazione dell’Ordine teutonico fu fondamentale nella ridefinizione dell’intero quadrante nord-orientale del continente: come già abbiamo accennato, esso appoggiava l’insediamento di contadini provenienti dalla Sassonia e ai mercanti del Baltico, soprattutto delle città CROCIATE

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LE CROCIATE

Nuovi scenari facenti parte della cosiddetta Lega Anseatica, e giunse a costruire un proprio principato che comprendeva Livonia, Lituania, Estonia e Lettonia ed entrò naturalmente in conflitto coi principati russi cristiani di obbedienza ortodossa e di tradizione bizantina, con alcuni principati tartari e con il Regno jagellonico di Polonia, che a Grünwald nel 1410 gli avrebbe inflitto la definitiva sconfitta. Da allora l’Ordine, vassallo in parte dell’impero e in parte del Regno polacco, si sarebbe stabilizzato nel Brandeburgo, in alcune zone della Slesia e in Prussia, ex territori slavo-baltici ormai germanizzati; venne poi sciolto al tempo della Riforma, allorché il suo Gran Maestro Alberto di Hohenzollern, aderendo alla Chiesa protestante, poté laicizzare e privatizzare il principato, diventando marchese di Brandeburgo e creando il nucleo originario del futuro Regno di Prussia. Una sezione di esso, restata fedele alla Chiesa di Roma, sopravvive ancor oggi come Ordine canonicale. Intanto, però, si era affacciato sulle coste del Mediterraneo orientale ed era ormai giunto a lambire i Balcani un nuovo pericolo, che avrebbe indotto la crociata a mutare volto: da guerra per la riconquista (almeno teorica) di Gerusalemme ad antemurale per la difesa dell’Europa cristiana. Nella Penisola Anatolica si erano insediate varie tribú turche sin dall’XI secolo e già l’impero bizantino era stato costretto a misurarsi con esse.

La minaccia che viene dall’Asia

Tuttavia, nel corso del Trecento fecero la loro comparsa nuove ondate di popolazioni uraloaltaiche provenienti dall’Asia centrale, erodendo quel che ivi rimaneva dell’impero in mano alla dinastia dei Paleologhi e dei principati greci nati dal contraccolpo della quarta crociata, nonché minacciando da vicino i possedimenti e gli interessi costieri e insulari di Genovesi e Veneziani tra Penisola Ellenica, isole dell’Egeo e Mar Nero. Tra queste tribú, che forse impropriamente si definiscono in modo semplicistico «turche», si distingue quella che dal suo capostipite Osman o Othman dette origine ai Turchi che noi conosciamo come Osmanli o Ottomani. Il pericolo che gli Ottomani si impadronissero della stessa Costantinopoli e contribuissero a strangolare le fiorenti attività commerciali veneziane e genovesi provocò una lunga serie di spedizioni crociate che i pontefici favorivano sia perché cointeressati alle fortune mercantili delle città italiche, sia perché convinti che la minaccia turca avrebbe indotto finalmente la Chiesa greca a rinunziare allo scisma del 1054 e quindi all’autocefalia, ovvero alla caratteristi92

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ca secondo la quale ancora oggi le chiese ortodosse orientali, sebbene in comunione con Costantinopoli, non ne dipendono ma vengono rette da un proprio sinodo. Fu cosí che una serie di principi, cointeressati agli insediamenti occidentali in Grecia, che si erano creati all’indomani della quarta crociata oppure allettati dalle prospettive di conquista, dette vita a una lunga serie di spedizioni: da ricordare almeno la cosiddetta «crociata di Smirne» del 1344, contro i corsari turchi che infestavano la costa anatolica; l’impresa di Pietro I re di Cipro nel 1365 contro il porto di Alessandria e quella di Amedeo V di Savoia del 1366, che si concluse con la presa cristiana di Gallipoli, chiave dei Dardanelli; quella del 1390 di Luigi di Borbone contro al-Madiyah. Un posto a parte spetta alla sfortunata spedizione franco-ungherese guidata dal re d’Ungheria Sigismondo, futuro imperatore, e da Giovanni conte di Nevers, che piú tardi sarebbe diventato Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna: essa si concluse nel 1396 con la dura sconfitta di Nicopoli. Da ricordare, ancora, il raid del maresciallo Boucicaut nel 1403; e la crociata del 1444, che si concluse con la disfatta di Varna sul Mar Nero.

Dal terrore alla rivalsa

Intanto gli Ottomani erano riusciti a impadronirsi non solo di quasi tutta l’Anatolia, ma anche a spingersi a nord-ovest del Bosforo e del Mar di Marmara, occupando buona parte della Tracia, della Macedonia, della Bulgaria e spingendosi sino ai confini di Albania, Serbia e Valacchia. Il nuovo sultano Maometto II da un lato intendeva conquistare la capitale bizantina, dall’altro si dirigeva in profondità verso il NordOvest della Penisola Balcanica. Nel 1453 gli Ottomani conquistarono Costantinopoli. L’eco di questo evento epocale e terribile fu enorme. La notizia della caduta della capitale dell’impero provocò un’ondata di paura, ma anche di volontà di rivalsa: si parlò immediatamente di una nuova e piú grande crociata che avrebbe dovuto vedere coinvolti tutti i principi e le potenze cristiane sotto la guida del papa. La risposta cristiana fu comunque energica: e, nel 1456, gli Ottomani furono fermati sotto le mura di Belgrado dal valore dell’ungherese Janos Hunyadi e dall’ardore della predicazione del minorita Giovanni da Capestrano. Fra 1453 e 1714, vale a dire tra la presa di Costantinopoli e la pace di Passarowitz, l’Europa conobbe un rinnovato periodo di progetti crociati, mentre vere e proprie spedizioni, riuscite o

Miniatura che ritrae il sultanto ottomano Maometto II, detto il Conquistatore, da Foggie diverse di vestire de’ Turchi. XVII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Nella pagina accanto ritratto di papa Pio II, dipinto su tavola di Giusto di Gand e Pedro Berruguete. 1472-1476. Urbino, Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche.

no, furono frequenti in relazione con le diverse fasi dei rapporti tra il sultano e i Paesi cristiani. Vi furono tentativi di unire seriamente gli Europei contro il nuovo pericolo, e tra essi va ricordata l’attività tra 1458 e 1464 del papa umanista Pio II, al quale si deve forse la prima lucida intuizione dell’importanza che la lotta contro i Turchi poteva avere nella definizione di un’identità europea. L’unità dei cristiani di confessione latina, stretti in una sorta di lega santa presieduta dal pontefice, fu lo strumento che il papa cercò invano di imporre a partire dal congresso di Mantova del 1459-1460. Deluso e amareggiato, il papa giunse a redigere nell’autunno del 1461 uno scritto sconcertante: l’Epistola ad Mahometem, diretta al sultano Maometto II, nel quale lo si diceva piú grande di tutti i signori cristiani. Se avesse accettato il battesimo, avrebbe potuto essere il nuovo CoCROCIATE

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LE CROCIATE

Nuovi scenari

In alto miniatura raffigurante gli Ottomani che si preparano ad assaltare Rodi, da un’edizione dei Gestorum Rhodie obsidionis commentarii di Guillaume Caoursin. 1482-1483. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Miniatura raffigurante Rodi al momento dello sbarco degli Ottomani, da un’edizione dei Gestorum Rhodie obsidionis commentarii di Guillaume Caoursin. 1482-1483. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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CROCIATE

stantino e dominare la cristianità. La lettera naturalmente non fu inviata al sultano. In realtà, si trattava di una epistola excitatoria, destinatari della quale erano i principi cristiani stessi, che il papa voleva umiliare e spronare.

Guerre e paci

Con grande abilità il sultano riuscí da parte sua a rompere il fronte delle potenze cristiane, alternando una tattica di attacchi che servivano anche a terrorizzare le popolazioni (come nel Friuli nel 1479 e a Otranto nel 1480) all’offerta di accordi diplomatici e offrendo privilegi commerciali o forme di alleanza politico-diplomatica ora a questo ora a quel governo europeo. Tale tattica fu proseguita anche nei secoli successivi, in un’alternanza di paci temporanee e di piú o meno brevi guerre. Si può dire che tra XV e XVIII secolo l’alternanza tra l’adesione ai pro-

grammi crociati e una qualche forma di appoggio alla diplomazia ottomana fu la caratteristica di tutte le potenze europee. I sultani turchi tesero dal canto loro ad approfittare di tale situazione, alternando fasi di distensione, durante le quali cercarono di creare discordia tra i principi cristiani – soprattutto tra Veneziani e imperatore, Ungheresi e imperatore, Francesi e imperatore, Spagnoli e Francesi –, e fasi in cui s’ impegnarono invece in campagne militari, magari mirate e ristrette ma sempre molto energiche. Si ebbero cosí episodi come la conquista di Belgrado e di Rodi tra il 1521 e il 1522, l’assedio di Vienna del 1529, la guerra a Venezia nel 157072 che condusse alla vittoria di Lepanto del 7 ottobre 1571 ma anche alla perdita di Cipro, la guerra turco-veneta di Candia tra 1644 e 1669, e infine il nuovo assedio di Vienna nel 1683. Il problema crociato era entrato con decisione


in una nuova e diversa fase. Ora esso si configurava fondamentalmente come guerra contro gli Ottomani e difesa dei confini mediterranei e balcanici dell’Europa. Per questo, in un certo senso, la crociata andò spegnendosi nel corso del Settecento, quando ormai, dopo il secondo assedio di Vienna, la potenza ottomana era praticamente esaurita. Da questa visione nuova della crociata, che per la perdita obiettiva di tensione religiosa e per l’abbandono totale del suo rapporto con Gerusalemme si potrebbe considerare parte del processo di laicizzazione della politica e della società civile tipico dell’età moderna, dipende l’eclisse definitiva di quel movimento avviato nell’XI secolo e piú volte mutato nei suoi connotati di fondo, mai però totalmente abbandonato o denunziato.

Un giudizio durissimo

Il razionalismo, la lotta contro il fanatismo e il tendenziale pacifismo dei philosophes fecero sí che nel XVIII secolo si scorgesse proprio nella crociata una sorta di forma ideale della guerra di religione condotta con fanatismo e causa di barbarie. Reagendo a una tradizione storica barocca che nelle guerre contro i Turchi celebrava la gloria della cristianità in armi, Voltaire e gli autori dell’Encyclopédie – che difatti detestavano Torquato Tasso, massimo cantore poetico delle crociate – formularono sulle «sante imprese» un giudizio durissimo, che fu uno degli elementi di base che contribuirono a diffondere nell’Europa dei Lumi la «leggenda nera» del Medioevo. In questo modo la crociata, della quale non si poteva né ignorare né negare il carattere diacronico, che la faceva giungere fino al presente, fu però in un certo modo simbolicamente isolata nel Medioevo e presentata come tipica di tale epoca di violenza e di superstizione. Il romanticismo avrebbe rovesciato il segno di tale valutazione: avrebbe mantenuto il legame tra crociata e Medioevo, ma avrebbe interpretato l’entusiasmo dei pellegrini armati come sincero e spontaneo moto collettivo di un popolo cristiano. Piú tardi l’Ottocento colonialista le avrebbe assunte a simbolo della vittoria della civiltà occidentale sul resto del mondo. Da allora le crociate sono state spesso oggetto di valutazioni complesse e articolate, che risentono però quasi sempre dell’originaria dicotomia e della foga polemica che hanno caratterizzato la

La battaglia di Lepanto, in un dipinto di scuola veneta. XVI sec. Venezia, Museo Correr.

discussione attorno a esse nata tra Sette e Ottocento. Sempre diversa e sotto un certo aspetto sempre la stessa, inquietante e iridescente.

Gli epigoni moderni

Si parlò di nuovo di crociata, e di un revival della crux cismarina, alla fine del Settecento, quando stendardi crociati vennero innalzati di nuovo in Vandea, in Spagna, nell’Italia delle insorgenze antigiacobine, contro le armate repubblicane e rivoluzionarie di Francia; in quello stesso senso, la «crociata» sarebbe stata rievocata ancora nella Spagna delle «guerre carliste» e poi ancora della guerra civile tra 1936 e 1939; oppure si sarebbero immaginati guerrieri della croce i volontari, soprattutto francesi, accorsi a Roma negli anni Sessanta dell’Ottocento per difendere lo Stato della Chiesa assediato dal giovane regno d’Italia. D’altra parte, sarebbe stata ancora una volta la Francia – quella della Restaurazione e poi quella del Secondo impero – a rievocare di nuovo la crociata, sia per spronare all’impresa che, conquistando Algeri nel 1830, avrebbe eliminato l’ultimo principato corsaro barbaresco d’Africa, sia per giustificare gli interessi coloniali in Siria e in Libano. Del resto, da quest’uso un po’ spregiudicato del passato storico scaturirono anche buoni risultati sul piano dell’arte e della ricerca: Napoleone III finanziò tanto i pittori «orientalisti» come Delacroix, che ebbero le crociate tra le loro fonti d’ispirazione, quanto gli eruditi che misero insieme la monumentale raccolta di fonti crociate conosciuta come Recueil des Historiens des Croisades. Orientalismo artistico-letterario e orientalistica scientifica si avvantaggiarono di quest’uso politico-retorico dei Gesta Dei per Francos. Ma abbiamo visto proprio al tempo nostro che il ventre che ha partorito tutti questi eventi è ancora gravido. Sullo scorcio fra II e III millennio, si è sentito di nuovo parlare di crociate, di nuove battaglie di Poitiers, di nuove vittorie di Lepanto, di nuova «minaccia islamica». La crociata resta la Balena Bianca dell’Occidente. Di tanto in tanto, nelle pieghe della follia politica e massmediale dei nostri giorni, si prova ancora l’antico brivido: e si ha ancora la sensazione di avvertire, nel silenzio turbato solo dal gridare degli uccelli, il terribile profumo di alghe e di terra della Bestia che sale dal mare. CROCIATE

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Il dibattito è aperto Definire il fenomeno crociato è un compito che ancora oggi impegna gli storici. Per stabilire le reali coordinate della «guerra santa», occorre infatti considerare una eccezionale molteplicità di elementi di Franco Cardini e Antonio Musarra

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osa sono state, dunque, le crociate? Guerre di religione, guerre ideologiche, guerre coloniali? Il primo esempio di aggressione sistematica dell’Occidente all’Oriente? Un lontano modello dei massacri razzisti? La pubblicistica – medievale e moderna – le presenta, spesso, come bella sacra. Talvolta, l’aggettivo sacrum è sostituito, non sempre con la necessaria attenzione ai valori teologici, da sanctum. Tuttavia, all’interno del cristianesimo non è stata mai formulata una vera e propria teologia della «guerra santa»; tantomeno le crociate, spedizioni nate dalla volontà di conquistare, conservare o recuperare i Luoghi Santi e canonisticamente fondate a partire dal Duecento su tale intenzione, sono state mai concepite come «guerre di religione» e ancora meno considerate parallele o alternative rispetto all’impegno missionario nella conversione degli infedeli. Se, malgrado tutto, episodi di conversione forzata si verificarono, essi non hanno mai ricevuto legittimazione da parte della Chiesa in quanto esito di una volontà missionaria. Ciò vale, del resto, anche per l’Islam: il jihad 96

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Miniatura raffigurante papa Urbano II che si reca a Clermont, per partecipare al Concilio indetto nell’estate del 1095, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

non è una «guerra santa», ma un impegno assoluto (uno «sforzo») assunto in favore di una causa ritenuta teologicamente e giuridicamente gradita a Dio, che in qualche caso può essere anche un fatto militare, ma che spesso è di tipo civile, morale o umanitario. Oggi, il termine jihadismo sembra aver sostituito quelli, precedenti, di «fondamentalismo» e di «islamismo». Vero è che esso ha, rispetto a quelli, una sfumatura di legittimità maggiore: vi sono effettivamente gruppi di musulmani che si definiscono tali in quanto impegnati nel jihad. Ma le cose sono piú articolate.


Miniatura raffigurante angeli che decorano la Ka’ba della Mecca alla nascita del profeta Maometto. 1595. Istanbul, Museo Topkapi.

Sopra la caduta di Granada (1492), in un dipinto ottocentesco di Carlos Luis Ribera. Burgos;· Cattedrale. Sotto l’impugnatura della «Spada di Boabdil» (sec. XV). Madrid, Museo del Ejército.

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Vecchie e nuove interpretazioni

Il diritto musulmano classico distingue il mondo in due grandi parti: il dar al-Islam, nel quale l’Islam è trionfante o decisamente maggioritario e nel quale si vive secondo le sue leggi e la guerra è, piú che proibita, impossibile e improponibile; e il dar al-Harb, abitato dai pagani (cioè dagli idolatri, che debbono scomparire o 98

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perché sterminati o perché convertiti) e dalle genti dette ahl al-Kitab («popoli del Libro», cioè monoteisti che conoscono il vero Dio che è stato loro rivelato da un Libro sacro: Ebrei e cristiani, ma secondo certe scuole islamiche anche mazdei, mandei, yezidi e buddhisti). Queste genti debbono essere assoggettate all’I-


Gerusalemme. Veduta della Cupola della Roccia, il terzo luogo islamico piú sacro dopo Mecca e Medina, costruita dai musulmani omayyadi al centro del Monte del Tempio.

slam e riconoscerne la superiorità in quanto «sigillo della Profezia», fede perfetta, ma non possono essere costrette alla conversione all’Islam e possono, con alcune restrizioni civili, restare nel dar al-Islam ed esercitare privatamente il loro culto in quanto dhimmi («soggetti», ma altresí «protetti»). Del resto la parola

Harb, «guerra», è l’esatto contrario di Islam, termine strettamente connesso con Salam, «pace»: anzi, dal momento che l’arabo è consonantico, si tratta in ultima analisi della stessa parola, s-l-m, che significa appunto «pace», «concordia», «intimo consenso» (sottinteso: tra volontà divina e volere umano chiamato a conformarsi CROCIATE

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LE CROCIATE

Vecchie e nuove interpretazioni

a essa). Islam è quindi sinonimo di Din («fede»), inscindibile da Dawla («legge»). L’Islam si sorregge su cinque «Pilastri» o princípi basilari (Arkan al-Islam), i cinque essenziali doveri ai quali il buon musulmano deve ottemperare: la professione di fede, la preghiera rituale giornaliera, il digiuno del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita e l’«elemosina legale» (zakat). Ma sono molte le scuole giuridiche che, a questi cinque «Pilastri», aggiungono anche il jihad, che è letteralmente il benemerito sforzo del fedele che volontariamente si impegna in una direzione gradita a Dio. Tale direzione, come si è detto, può anche comportare la guerra, e in effetti ciò è spesso accaduto nel mondo musulmano. In realtà, qualunque impegno anche civile, sociale, umanitario assunto nel nome di Dio e per compiere la Sua volontà è jihad. Che poi nell’Islam, come nell’ebraismo e nel cristianesimo, esista una vera e propria «guerra santa», cioè una guerra che per il solo e semplice fatto di essere combattuta «santifica», vale a dire rende pienamente accetti a Dio, è di per sé improponibile. Non esiste in alcuna delle tre religioni abramitiche una guerra che santifichi solo perché combattuta con uno scopo religioso: l’uomo deve rendere conto a Dio anche dei suoi singoli atti, non solo dello scopo cui essi sono diretti.

Due imperi in lotta

Certo è, comunque, che nell’Islam si è fatto spesso ricorso alla dimensione del jihad nel senso di «guerra voluta da Dio e da lui ben accetta». D’altronde l’Islam, pur pretendendo di proporsi come fede unificante e pacificante per tutti i fedeli, fin dalla morte del Profeta ha conosciuto la divisione e la guerra interna (fitna) tra i suoi due gruppi principali, i sunniti e gli sciiti. Tale differenza di confessione corrisponde entro certi limiti anche a una differenza-rivalità etno-culturale: lo sciismo si è affermato soprattutto in area persiana, mentre la «sunna» – largamente maggioritaria – ha riguardato nella quasi totalità gli altri gruppi etnici. Esistono tuttavia sciiti anche fra gli Arabi e gli Uraloaltaici. La fitna, fra Quattro e Settecento, ha assunto anzitutto l’aspetto della lotta tra i due imperi ottomano (sunnita) e safavide persiano (sciita). Ma lo jihadismo è, nella forma in cui lo conosciamo oggi, figlio di una situazione piú complessa che si è andata creando solo a partire dalla fine del XVIII secolo. La crociata, pur ricollegandosi sia al concetto di «guerra santa» sia al concetto di jihad, è 100

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un’altra cosa. La sua genesi è lunga e tormentata e prende le mosse quanto meno da Agostino di Ippona, che aveva basato la propria idea di «guerra legalizzata» sul modello delle guerre volute da Dio nell’Antico Testamento. Il bellum era da considerarsi iustum solo se comandato da un’autorità legittima, investita di questo potere da Dio stesso. Ora, nel momento in cui, nel corso dell’XI secolo, si produsse una frattura tra papato e impero, la possibilità di proclamare guerre di questo genere venne immancabilmente meno. A ciò il papato sopperí facendosi interprete del presunto volere divino, legalizzando, sacralizzando e perfino santificando alcune guerre. È il caso, per esempio, di papa Alessandro II (1061-73) che, scrivendo al clero di Volterra, indicava la procedura da seguire da parte dei combattenti decisi a recarsi nella penisola iberica per combattere i mori: ognuno doveva confessare i propri peccati e ricevere la penitenza piú adatta. «Quanto a noi – afferma il papa – per l’autorità dei santi apostoli Pietro e Paolo, li liberiamo da questa penitenza e rimettiamo i loro peccati». Non si tratta, ancora, di un’indulgenza, teorizzata solamente in pieno XII secolo, ma di una commutazione: la spedizione faceva le veci della penitenza. In effetti, ciò è quanto avrebbe avuto luogo con la prima crociata. Alessandro II non bandí alcuna spedizione, limitandosi a sostenere un’azione nell’ambito di quella che piú tardi sarebbe stata definita Reconquista. Nel novembre del 1095, alla conclusione del concilio di Clermont, papa Urbano II si sarebbe spinto oltre incitando i cavalieri cristiani a un’operazione dagli obiettivi differenti: l’aiuto ai cristiani d’Oriente e forse addirittura, secondo una versione del suo discorso, la riconquista di Gerusalemme. Una spedizione che assunse gli ambigui tratti della «guerra santa», voluta da Dio – «Deus vult!», avrebbero acclamato i partecipanti, secondo qualche cronista – nel momento in cui la Christianitas si convinse che la vittoria sarebbe giunta con l’aiuto del Cielo. L’appello di Urbano II risponde, nei fatti, ai canoni di una vera e propria «teologia della storia»: a causa dei peccati – nostris peccatis exigentibus –, Dio aveva permesso ai saraceni di occupare i Luoghi Santi; tuttavia, Egli perdonava il suo popolo desideroso di correggersi, ed ecco perché adesso recava aiuto alla riconquista cristiana che si realizzava un po’ ovunque: dalla penisola iberica alla Sicilia, all’Oriente. Rispetto alla Reconquista iberica e all’azione di contrasto alla pirateria saracena nel Mediterraneo operata dalle città marinare italiane, l’o-

Affresco raffigurante Elena, madre dell’imperatore Costantino, che scopre la croce di Cristo a Gerusalemme. 1246. Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro.


biettivo gerosolimitano rappresentava però qualcosa di nuovo. Prendiamo la spedizione che precedette di poco l’impresa, quella di Mahdia, promossa da papa Vittore III nel 1087, alla quale presero parte Pisani e Genovesi: possedeva tutti i crismi della crociata, come l’approvazione papale, la demonizzazione dell’avversario, il perdono dei peccati per i combattenti, il martirio per coloro che in combattimento avrebbero trovato la morte. E naturalmente le motivazioni materiali, sempre presenti.

Ma Gerusalemme era lontana. L’idea di liberare la Città Santa non era, certo, nuova. Un’avvisaglia di tale intenzione si era avuta all’inizio del secolo, dopo la distruzione della chiesa del Santo Sepolcro da parte dell’imam fatimide d’Egitto al-Hakim, nel 1009. Un’ulteriore avvisaglia, molto piú chiara, era legata all’arrivo in Levante negli anni Settanta del secolo dei Turchi Selgiuchidi, sostituitisi velocemente al piú mite dominio arabo, i quali nel 1071 erano riu(segue a p. 104) CROCIATE

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Vecchie e nuove interpretazioni


Goffredo di Buglione depone nella chiesa del Santo Sepolcro i trofei di Ascalona, agosto 1099, olio su tela di François Marius Granet. 1839. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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Vecchie e nuove interpretazioni Nella primavera del 1095, durante un concilio tenutosi a Piacenza, Urbano II ricevette alcuni ambasciatori greci venuti a sollecitare l’invio di un contingente di guerrieri «franchi» da ingaggiare come mercenari. Ciò può aver favorito e, in qualche modo, indirizzato le decisioni papali. Nel novembre successivo, a Clermont, in Alvernia, dopo aver descritto le sofferenze dei cristiani d’Oriente, il papa esortava i cavalieri presenti a partire pellegrini in Oltremare. «A chiunque avrà intrapreso il viaggio per Gerusalemme – si legge in uno dei canoni del concilio – allo scopo di liberare la Chiesa di Dio, ammesso che sia per pietà e non per guadagnare onori e denaro, questo viaggio verrà computato come penitenza completa». Tutto converge. Si ha qui la meta della spedizione: Gerusalemme; il suo scopo: la liberazione dei cristiani; il suo valore di penitenza. E una sola condizione: che il viaggio sia compiuto con spirito di penitenza privo di obiettivi mondani. Come interpretare, dunque, la crociata? Come definirne le motivazioni concrete e profonde? Si trattò di una «guerra santa» o di un «pellegrinaggio armato» o di entrambe le cose o di chissà cos’altro? Senza dubbio il fatto centrale è la meta, Gerusalemme, cui si connette tutto un immaginario apocalittico ed escatologico in precedenza assente. Un tratto, questo, sufficiente da solo a fare della crociata (o quanto-

sciti a sconfiggere, nella piana di Manzicerta, l’esercito bizantino catturando nientemeno che il basileus, Romano IV Diogene.

Un’idea «forte»

Tre anni piú tardi Gregorio VII, appena asceso al soglio papale, espresse in almeno sei lettere il proposito di recarsi personalmente in Oriente alla guida di una spedizione, e anche di raggiungere Gerusalemme. Tuttavia, quell’impresa sarebbe stata organizzata effettivamente soltanto alla fine del secolo. Perché? Diciamo che l’appello di Clermont, oltre a raccogliere attese di lunga durata, colpí l’immaginario di un pubblico assai pronto a recepire un’idea «forte» come quella di procedere manu militari alla liberazione di Gerusalemme. Tale idea intercettò una serie di importanti circostanze: da tempo l’esercito bizantino faceva uso di mercenari occidentali, in genere normanni, i quali negli anni Ottanta del secolo avevano compiuto una serie di raid contro le coste dalmate dell’impero. Il nuovo basileus, Alessio I Comneno, richiese espressamente l’aiuto del papa. 104

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante Alessio I Comneno benedetto da Cristo. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante Pietro l’Eremita che arringa i crociati sotto le mura di Gerusalemme. 1268. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

meno della prima crociata) anche un pellegrinaggio. Ma le opinioni al riguardo sono molte. In sintesi, circa la natura delle crociate si sono delineate quattro fondamentali tendenze: i «generalisti» ritengono che il termine «crociata» vada applicato a qualunque forma di guerra giustificata dalla volontà sacrale di riconquistare Gerusalemme (il tormentato tema della «guerra santa»); i «popularisti» (dall’aggettivo sostantivato latino populares, sovente usato specie dai cronisti della prima crociata) pensano che l’essenza della crociata stia nel suo carattere profetico, escatologico, di collettiva esaltazione; i «tradizionalisti» insistono invece sul definire come crociate esclusivamente le spedizioni organizzate per la conquista, la difesa o il recupero di Gerusalemme e del Santo Sepolcro; i «pluralisti», infine, intendono la storia delle crociate nel lungo periodo e guardano ai vari e differenti fronti su cui si sono dispiegate spedizioni militari che hanno assunto il nome di crociata.

Una realtà estremamente complessa

Quanto ai motivi delle crociate, il campo appare diviso tra i «materialisti» di varia tradizione culturale, che giudicano le ragioni religiose «sovrastrutturali» rispetto alla realtà socioeconomica del mondo eurasiafromediterraneo; e gli «olisti», secondo i quali il vivo pro-

cesso dinamico di una realtà complessa come quella costituita dal movimento crociato ed espressa dall’idea di crociata va affrontato tenendo presenti tutte le sue componenti, dalla fede religiosa alle istanze di pellegrinaggio, alle attese millenaristiche, agli interessi economici, alle vicende diplomatiche, all’immaginario relativo all’Islam, ai pregiudizi diffusi dalla propaganda e dalla predicazione. Nella diversità degli orientamenti, una cosa è certa: per quel poco che è dato saperne, la crociata, nel suo sorgere, è un complicato, disordinato insieme di elementi e di motivazioni. Per parlare di crociata si ha insomma bisogno di numerosi «ingredienti»: sant’Agostino con il suo concetto di bellum iustum, i guerrieri germanici, Carlo Magno e le sue «guerre missionarie», un papato e una Chiesa alla ricerca di difensori, un nuovo concetto di miles Christi, la remissione dei peccati, il diffondersi del pellegrinaggio penitenziale, un contesto di riforma ecclesiale e spirituale, le spedizioni genovesi e pisane nel Tirreno dell’XI secolo, le azioni di Reconquista nella penisola iberica, una cristianità d’Oriente in pericolo, un papa coraggioso e, last but not least, Gerusalemme, la Città Santa, meta primigenia di quel pellegrinaggio armato dai caratteri della «guerra santa» che siamo soliti definire crociata. La crociata non è tutte queste cose, ma scaturisce da tutte queste istanze.

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Il revival dei cruce signati


La presa di Costantinopoli da parte dei crociati (12 aprile 1204), noto anche come L’ingresso dei crociati a Costantinopoli, olio su tela di Eugène Delacroix. 1841. Parigi, Museo del Louvre.

Dall’Ottocento e fino ai giorni nostri l’ideale crociato è tornato a piú riprese alla ribalta. Con pregevoli ricadute artistiche, ma anche con letture distorte, nel cui nome si sono consumati episodi di inquietante violenza di Riccardo Facchini e Davide Iacono

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ella primavera del 1291 cadeva San Giovanni d’Acri, l’ultimo baluardo cristiano in Terra Santa. L’evento segnò la fine delle crociate in Oriente. Nei secoli a seguire esse si riproposero, piú o meno esplicitamente, ogni qual volta la minaccia ottomana in Europa si faceva piú pressante. Fino al Settecento dei Lumi, quando l’importanza attribuita al pensiero razionale, alla tolleranza religiosa e all’anticlericalismo, contribuií definitivamente al tramonto del mito della crociata. Filosofi e storici – Voltaire, Gibbon e Hume – liquidarono le crociate come una barbara follia medievale; come un dispendioso e inutile sforzo, portato avanti da avidi briganti o da una Chiesa ingannatrice. Durante l’Ottocento romantico, invece, le crociate furono riabilitate, insieme ai secoli di Mezzo. A metà strada tra medievalismo e orientalismo, il mito della crociata si rivelò utile per sostanziare le nuove ideologie nazionali e coloniali. In particolare, fu la campagna egiziana di Bonaparte del 1798-1799 – la prima invasione occidentale del Levante dai tempi di san Luigi IX – a riattivare l’immaginario europeo. Paradossalmente, mentre Napoleone poneva fine all’ultimo Stato crociato, con i Cavalieri di San Giovanni a Malta che si arrendevano al passaggio dell’armata francese, l’Europa tornava a sognare guerre sante e cavalieri in marcia verso l’Oriente. Il nuovo approccio alle crociate si discostava da quello illuminista grazie a un esercizio spesso immaginativo, speculativo, tipico della sensibilità dell’epoca. Mentre l’illuminismo aveva «respinto» la religione come materia CROCIATE

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LE CROCIATE

Medievalismo e crociate

superstiziosa e causa di fanatismo, ora la prospettiva cambiò nuovamente. Infine, l’Islam in generale e il dominio turco in particolare, erano denigrati, persino demonizzati come violenti, corrotti, decadenti; antitetici alla libertà, al progresso e alla civiltà. Tra i piú influenti sostenitori di un recupero positivo delle crociate vi fu François-René de Chateaubriand (1768-1848). Monarchico e riconvertito al cattolicesimo, Chateaubriand sviluppò in particolare le sue idee sul tema nell’Itinerario da Parigi a Gerusalemme, un resoconto di un viaggio pubblicato nel 1811. L’autore, il cui viaggio culminava nell’investitura a cavaliere del Santo Sepolcro, rifiutava l’aridità dei philosophes, mettendo al centro il potere edificante della religione e della fede; le crociate divennero cosí una missione cristiano-culturale dell’Occidente europeo a fronte di un decadente mondo musulmano e vicino-orientale.

Un’opera monumentale

In quegli stessi anni lo storico Joseph-François Michaud sviluppò una storia delle crociate basata su fonti primarie, spogliate dalla critica protestante o dallo sdegno illuminista. Attraverso una narrativa potente, costruita su un uso acritico delle fonti rafforzate da voli immaginifici, la monumentale Histoire des croisades (scritta tra il 1811 e il 1822) costituí un successo letterario e accademico. Fervente monarchico, Michaud credeva che la crociata fosse stata, anche se un sostanziale fallimento militare, una ricchezza, un orgoglio e «una rivoluzione felice» per tutte le nazioni europee in essa coinvolte. La barbarie delle popolazioni occidentali non assomigliava in alcun modo a quella di Turchi e Bizantini, intrappolati in mentalità religiose e costumi che negavano ogni speranza di progresso: gli Occidentali possedevano invece l’onore e la cavalleria che incoraggiavano la giustizia e la virtú. L’opera di Michaud ebbe una tale forza da influenzare addirittura la storiografia post-romantica sulle crociate, incarnata da autori come René Grousset, Carl Erdmann e Steven Runciman. In questo clima di rinnovato spirito crociato i Francesi invasero e conquistarono l’Algeria nel 1830, in una campagna descritta come erede della crociata di san Luigi IX a Tunisi del 1270, mentre nel 1843 si aprivano le Salles des Croisades del castello di Versailles, volute da re Luigi Filippo. Le crociate diventarono parte del patrimonio nazionale francese, tanto che tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, la Société de l’Orient latin 108

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Luigi Filippo, la regina, il re Leopoldo I e la regina dei Belgi visitano la grande Sala delle Crociate, luglio 1844, olio su tela di Prosper Lafaye. 1844. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

avviò, con il sostegno di Napoleone III, una vasta raccolta di fonti crociate nota come Recueil des historiens des croisades. Nel pieno del revival cavalleresco che caratterizzò l’Inghilterra vittoriana, il tema della crociata era stato letto nel contesto dell’espansione dell’impero britannico in Oriente. Il tema aveva affascinato il futuro primo ministro Benjamin Disraeli, il quale, di ritorno da un viaggio in Terra Santa sulle orme dei crociati, scrisse il libro Tancred or The New Crusader (1847), in cui emergevano gli ideali neo-cavallereschi del movimento conservatore della Young England di cui era a capo. Nel 1856, l’orgoglio nazionale britannico arrivò a celebrare il re crociato per eccellenza, Riccardo I d’Inghilterra, con una colossale statua eretta fuori il Palazzo di Westminster. Nell’Italia, coinvolta nelle guerre d’Indipendenza, il richiamo alla crociata stimolava l’orgoglio guerriero, divenendo metafora del riscatto nazionale. Cosí nell’opera di Giuseppe Verdi I Lombardi alla prima crociata (1843), ispirata a un poema di Tommaso Grossi, i patrioti erano i crociati che dovevano liberare l’Italia/Terra Santa dagli invasori austriaci/saraceni. Fu lo stesso poema di Grossi a ispirare a Francesco Hayez


Ritratto di François René de Chateaubriand, olio su tela attribuito all’atelier di Anne-Louis Girodet de RoussyTrioson. Primo quarto del XIX sec. Saint-Quentin, Musée des beaux-arts Antoine Lécuyer.

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Medievalismo e crociate La sete patita dai crociati sotto Gerusalemme, un’opera monumentale commissionatagli nel 1833 dal re-cavaliere Carlo Alberto di Savoia per il palazzo Reale di Torino. In Belgio, invece, il neonato regno – istituito dopo la ribellione nel 1830 contro il Regno Unito dei Paesi Bassi – si raccoglieva attorno alla figura di Goffredo di Buglione, che diveniva un mito unificatore per un Paese diviso tra Fiamminghi e Valloni. Un’impressionante statua equestre dedicata al difensore del Santo Sepolcro veniva allora innalzata nel 1848 davanti al Palazzo Reale di Bruxelles, con lo scopo di creare una coscienza nazionale all’ombra delle glorie del passato.

Paralleli espliciti

Fu però durante la Grande Guerra che si assistette a un uso sistematico delle categorie di «crociata» e «guerra santa». La propaganda fece leva nell’identificazione del cavaliere crociato con il soldato per legittimare un esercizio giusto, divino, della violenza e della conquista. Cosí la brutale guerra di trincea si trasformava in una nobile lotta, combattuta in difesa della libertà e della giustizia contro la barbarie, per impedire, per esempio, al militarismo prussiano di dominare l’Europa e liberare i Luoghi Santi dalla dominazione turca. Soprattutto i britannici «War Memorials», sparsi per il Commonwealth, presentavano i soldati come novelli crociati caduti in nome della buona causa o vegliati da vetrate raffiguranti san Giorgio, san Michele, san Luigi

FRA COLONIZZAZIONE E RICERCA STORICA L’appropriazione imperialistica del passato crociato è rappresentata perfettamente dal Crac des Chevaliers (il fortilizio costruito dagli Ospitalieri nella contea di Tripoli, tra Tortosa ed Emesa, in Siria, n.d.r.), che, nel novembre 1933, finisce sotto il controllo dello Stato francese. I restauri, una volta terminati, ne fecero una delle principali attrazioni turistiche del Levante francese fino al 1946, anno della conclusione del mandato. Coinvolta nella produzione di una «grande Francia» che si irradiava non solo nello spazio ma anche nel tempo, la fortezza degli Ospitalieri era considerata un patrimonio la cui esistenza confermava l’eterna grandezza della civiltà francese e una legittimazione della colonizzazione del Medio Oriente. Allo stesso tempo, però, è importante osservare come le urgenze politiche portarono alla pubblicazione di importanti scritti sulla storia delle crociate e a fare di quell’epoca un’età d’oro per lo studio dei castelli in Terra Santa, come dimostrano i lavori degli storici Camille Enlart (1862-1927) e Paul Deschamps (1888-1974).

A destra il Crac des Chevaliers in un manifesto di promozione turistica realizzato da Jean-Picart Ledoux. 1935.

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Riccardo I e Saladino alla battaglia di Arsuf, incisione di Gustave Doré per un’edizione della Storia delle crociate di Joseph-François Michaud. 1877. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto, in alto manifesto di propaganda della Legione dei volontari francesi che fa appello a una «grande crociata» contro il bolscevismo. 1939-1945.

IX, Riccardo I, Giovanna d’Arco o re Artú e i suoi cavalieri. A Paisley, in Scozia, uno di questi monumenti fu chiamato The Spirits of the Crusaders, e raffigura un cavaliere a cavallo fiancheggiato da quattro «tommies» (soprannome con il quale venivano chiamati i fanti inglesi della prima guerra mondiale, n.d.r.) che stoicamente arrancano con il capo chino. Anche nel documentario del 1918, Pershing’s Crusaders, il parallelo tra i militari americani e i crociati è esplicito. La ricezione romantico/imperialista del movimento crociato raggiunse il suo grado zero con i mandati di Regno Unito e Francia in Palestina e in Siria dopo la prima guerra mondiale. Il 9 dicembre 1917 il generale Edmund Allenby, capo delle forze di spedizione inglesi, conquistava Gerusalemme togliendola di mano ai Turchi e faceva il suo ingresso nella città. Era dal 1244 che nessun conquistatore occidentale metteva piede nella Città Santa e, per l’occasione, il giornale londinese Punch raffigurò – in

una vignetta intitolata significativamente «The Last Crusade» («L’ultima crociata») – Riccardo Cuor di Leone guardare verso Gerusalemme e affermare «My Dream Comes True» («il mio sogno diventa realtà»). L’immaginario della crociata riemerse nel periodo tra le due guerre, in particolare durante la guerra civile in Spagna, dove il caudillo Francisco Franco si accompagnò all’idea di cruzada e al richiamo della Reconquista nell’intento di liberare la Spagna dal comunismo e dall’ateismo. Allo stesso modo l’Italia fascista legittimava l’occupazione dell’Etiopia, oltre che sul solco di Roma antica, come una crociata per la conversione dei copti, mentre a Mogadiscio, in Somalia, la cattedrale, inaugurata nel 1928, era ispirata a quella di Cefalú, simbolo della riconquista cristiana della Sicilia. Durante la seconda guerra mondiale, sicuramente con meno intensità rispetto alla prima, l’immaginario crociato riemerse in particolare CROCIATE

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LE CROCIATE

Medievalismo e crociate

in occasione dell’Operazione Barbarossa (che non a caso prese il nome di un imperatore tedesco e crociato). L’invasione della Russia sovietica venne presentata dalla propaganda del Terzo Reich come una «crociata contro il bolscevismo» per la libertà dell’Europa. All’appello risposero le brigate di volontari dei vari partiti fascisti dei Paesi collaborazionisti che, come quelle provenienti dalla Francia di Vichy o dal Belgio di Degrelle, si dotarono di un bagaglio eroico neocrociato. Il manifesto della Legione dei volontari francesi contro il bolscevismo recitava per esempio «La Grande Croisade». Negli Stati Uniti il discorso crociatista perdurò nella forma di un messianismo democratico e fu per esempio riutilizzato dal generale Dwight D. Eisenhower, che intitolò Crociata in Europa il resoconto della sua campagna militare.

Un mito che non muore

Nel 1975 Franco Cardini sottolineava l’importanza dello studio, oltre che della crociata «storica», anche del mito a essa collegato, che egli vedeva «tanto profondamente radicato nella coscienza e nella cultura dell’Occidente». Tale mito, negli anni del secondo dopoguerra, sembrò affievolirsi rispetto ai decenni fin qui esaminati, ma, in verità, si adeguò ai mutati contesti storici e sociali. Esso abbandonò quasi del tutto il discorso storiografico, che iniziò quindi un percorso autonomo, il piú possibile scevro da incrostazioni ideologiche, e si riversò soprattutto nel mondo sociale e politico dell’Occidente. Soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, la mitizzazione della guerra santa non fu però compiuta allo scopo di rivendicare la superiorità dell’Europa/Occidente nei confronti dell’infedele, con il quale, anche a causa del processo di de-colonizzazione, si veniva sempre meno a contatto. Il nemico in funzione del quale il neocrociatismo iniziò a strutturarsi non era il mondo arabo, ma quello comunista, e tale ostilità trovò terreno fertile nel contesto cattolico-tradizionalista, consistente in uno sfaccettato movimento – caratterizzato, tra le altre cose, da una forte matrice antisovietica – sviluppatosi in seguito alla chiusura del Concilio Vaticano II, di cui criticava aspramente le aperture alla modernità. Nel 1974, sulle pagine di Cristianità, organo ufficiale del movimento Alleanza Cattolica, compariva infatti un articolo in cui si commentava la necessità di un’azione concreta a favore delle popolazioni oppresse dai totalitarismi di matrice comunista, paragonandola all’aiuto prestato dai crociati ai cristiani d’Oriente. Una simile necessità era ribadita anche in un contri112

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Costumi per un allestimento dell’Ivanhoé, melodramma basato sul romanzo di Walter Scott con musiche di Gioacchino Rossini, dall’Illustrated London News del 31 gennaio 1891.

buto comparso nel 1982 sulla rivista La Torre. In questo caso la crociata veniva addirittura presentata come una forma di «vera» Ostpolitik. L’autore auspicava che Giovanni Paolo II, novello Urbano II, «in piedi sulla loggia di S. Pietro, attorniato dai notabili» si rivolgesse «urbi et orbi alle masse di cristiani» affinché si mobilitassero «in direzione della Polonia».

Per costruire un’identità

Il consolidamento dell’identità neo-crociata nel campo cattolico-tradizionalista si verificò però agli albori del XXI secolo, soprattutto a causa dell’ascesa dei fenomeni migratori e ai tragici eventi dell’11 settembre 2001. Al contrario di quanto si possa pensare, non si assistette però nel mondo neocrociato di matrice cattolica, almeno in Italia, a una mitizzazione della guerra santa finalizzata a esacerbare lo scontro di civiltà con l’Islam. La crociata non fu vista tanto come un ideale a cui tendere, quanto come una categoria da difendere al fine di costruire un’identità da opporre, da un lato, al «relativismo» occidentale e, dall’altro, alla «colonizzazione» islamica condotta dalle comunità musulmane insediatesi in Europa. Nel giugno del 2010, per


LA VERSIONE DI SIR WALTER A colpire l’immaginario romantico sulle crociate non furono però le opere degli storici: musica, arte e letteratura furono influenzate infatti soprattutto dalla storia della prima crociata raccontata da Torquato Tasso e dai cavallereschi romanzi di Sir Walter Scott. Scott, in particolare, può essere considerata una delle personalità piú influenti nella creazione di un immaginario sul Medioevo e le crociate, che costituiscono lo sfondo o il tema centrale di Ivanhoe (1819), The Talisman e The Betrothed, pubblicati insieme come Tales of the Crusaders (1825). Lavori che ebbero risonanza in tutta Europa con adattamenti teatrali, come l’opera lirica Ivanhoé di Gioacchino Rossini, rappresentata la prima volta al Teatro dell’Odéon di Parigi nel 1826 e alla quale assistette un estasiato Walter Scott in persona. La fortuna di Scott è proseguita sino ai piú recenti adattamenti cinematografici dell’epopea crociata. Ne Le crociate, film del 2005 di Ridley Scott, Saladino è per esempio raffigurato come il romantico cavaliere-gentiluomo (cortese ma temibile in battaglia) delle opere dello scrittore inglese.

A destra tavola raffigurante sir Kenneth, re di Scozia (a destra), al cospetto di Riccardo Cuor di Leone, da un’edizione del romanzo The Talisman di Walter Scott. 1887. I personaggi in secondo piano sono Henry Neville e Thomas de Vaux.

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LE CROCIATE

Gerusalemme, 9 dicembre 1917. Le forze di spedizione inglesi, guidate dal generale Edmund Allenby, entrano in città dopo averla strappata ai Turchi.

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Medievalismo e crociate

esempio, comparve sulle pagine del quotidiano Il Foglio, una Apologia della Crociata, una sorta di manifesto del neo-crociatismo cattolico di stampo tradizionalista. Per l’autore, Roberto de Mattei, la crociata era infatti «una “categoria dello spirito” che non tramonta», non «solo un evento storico circoscritto al Medioevo ma (…) una costante dell’animo cristiano». Un punto di vista che ne evidenza l’attività «mitopoietica» svolta nei confronti di alcuni movimenti cattolici che ne hanno fatto un modello di esemplare militanza cristiana. La risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 fu, come ben sappiamo, sia militare che culturale, due aspetti che non possono essere disgiunti. La reazione degli Stati Uniti, prima contro l’Afghanistan e poi, nel 2003, contro l’Iraq, fu infatti caratterizzata da forte tinte medievaliste e tra queste, ovviamente, l’idea di crociata rappresentò un tema fondamentale della propaganda statunitense. Il 17 settembre 2001, il presidente George W. Bush tenne infatti a Camp David un discorso che ebbe una significativa eco sia nel mondo

occidentale che in quello di cultura islamica. Riferendosi a come e per quanto gli Stati Uniti avrebbero reagito agli attacchi, il presidente dichiarò: «Questa crociata, questa guerra al terrorismo, richiederà del tempo». Affermazioni simili, nei mesi successivi, divennero all’ordine del giorno nel contesto staunitense, dove soprattutto gli intellettuali neoconservatori sfruttarono ampiamente il concetto di guerra santa all’interno del dibattito pubblico. In quegli anni, infatti, l’amministrazione Bush, insieme ai suoi intellettuali di riferimento, riuscí a ridefinire un’idea di crociata funzionale alla legittimazione delle azioni militari condotte in Medio Oriente. Tale rimodulazione risultava essere il frutto di una commistione di idee «medievali» e moderne: in essa, infatti, trovava spazio l’atteggiamento di matrice progressista di chi vede in popolazioni «arretrate» – in questo caso quelle di religioni islamica – le portatrici di ideali spregiatamente definiti «medievali»; al tempo stesso, per combattere questa guerra contro il «Medioevo» islamico ci si appellava, paradossalmente, a un concetto autenticamen-


te medievale, come la crociata. Essa, in questo caso, veniva declinata secondo i dettami delle discutibili teorie di Samuel Huntington, che vedevano la presenza di un plurisecolare «Scontro di Civiltà» tra Islam e Occidente, risolvibile solo attraverso l’esportazione in contesti «medieval-islamici» dei modernissimi ideali di tolleranza, libertà e democrazia.

Fanatismo islamofobo

Il 22 luglio 2011, il trentatreenne Anders Behring Breivik si rese responsabile dell’uccisione di 77 persone tra Oslo e la cittadina di Utøya, dove si stava svolgendo un campus di giovani organizzato dal Partito Laburista Norvegese. Ciò che emerse nelle settimane successive sconvolse l’opinione pubblica quasi quanto gli atti criminali in sé. All’indomani del tragico evento, iniziò a circolare in rete un manifesto redatto da Breivik, mostrando al mondo intero l’esistenza di qualcosa fino a quel momento neanche ipotizzato: una forma di terrorismo autoctono, «bianco», dalle decise tinte medievaliste. L’attentatore, infatti, non solo si definiva «cavaliere templare», ma sosteneva di essere il rappresentante di un «Movimento crociato pan-europeo», necessario per impedire l’islamizzazione del Vecchio Continente. Intere parti del suo manifesto erano dedicate a una approssimativa analisi della storia delle crociate, in cui venivano deformate le interpretazioni storiografiche piú vicine al mondo cristiano-cattolico (come quelle degli storici Thomas Madden e Jonathan Riley-Smith), sfruttandole per legittimare il suo piano di stampo suprematista e «controjihadista». Purtroppo, il caso norvegese non è rimasto isolato. Il 15 marzo 2019, a Christchurch, in Nuova Zelanda, il ventottenne Brenton Tarrant attaccava una moschea e un centro islamico durante la preghiera del venerdí, uccidendo 49 persone. L’attentatore aveva armi e dotazioni con su scritti nomi e date di un suo personale pantheon neocrociato e islamofobo: «Carlo Martello», «Skanderberg», «Marco Antonio Bragadin», «Sebastiano Venier», «Poitiers 732», «Vienna 1683». Nel suo delirante manifesto, caricato on line, Tarrant affermava di aver ricevuto una benedizione da un rinato movimento di «Cavalieri Templari» legato ad Anders Breivik, e citava inoltre Urbano II, il papa che indisse la prima crociata nel 1095. Nel testo emergeva quindi la lucida e al tempo stesso farneticante consapevolezza di sentirsi in qualche modo l’ultimo alfiere di una «crociata perenne», che partiva dagli scontri tra Franchi

e Saraceni e arrivava fino alla difesa di Vienna contro l’avanzata ottomana. Come per Breivik, anche in questo caso, purtroppo, la rete si è rivelata il terreno fertile per la formazione di un terrorista «autoctono», nutritosi di messaggi suprematisti diffusi da quella stessa rete di blog e forum a cui faceva riferimento l’attentatore norvegese. Un fenomeno spaventosamente simile a quello che ha portato spesso i «rivali» jihadisti, in particolare i foreign fighters europei di origine islamica, a sviluppare un odio viscerale per la cultura occidentale, definita ovviamente, a piú riprese, una degenerata cultura di stampo «crociato».

Paisley, Scozia. The Spirits of the Crusaders, monumento che celebra i combattenti della prima guerra mondiale di Alice Meredith Williams. 1922.

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Un’epopea in rima

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Gli appelli a combattere per i Luoghi Santi risuonarono anche in forma di componimenti poetici. Opere che non rispondevano solo a istanze letterarie, ma anche di autentica propaganda di Franco Suitner

I

ntorno al 1270, probabilmente qualche anno prima, mentre il re Luigi di Francia sta preparandosi alla crociata, un suo suddito se ne va cavalcando tutto solo per la campagna. Riflette sulle brutte notizie che arrivano dalla Terra Santa e in particolare da San Giovanni d’Acri, sottoposta ad assedio. Immerso in questi pensieri, finisce col perdere la strada, finché giunge a una casa solitaria. Dentro ci trova dei cavalieri. Due di loro, dopo aver mangiato, si distraggono parlando dell’attualità. Uno si è fatto crociato, l’altro invece non vuole saperne. Ne nasce una disputa accanita, alla quale assiste il nuovo arrivato, che zitto zitto si pone all’ascolto e ne riferisce poi fedelmente. Potrebbe trattarsi di una discussione moderna sull’opportunità o meno di intraprendere una spedizione militare in Oriente, di un dibattito giornalistico fra partigiani della pace e alfieri delle ragioni dell’Occidente. È invece un testo medievale, immaginato e messo su carta da Rutebeuf, il maggior poeta satirico francese del XIII secolo. Pur non essendo uno dei suoi lavori piú felici, il testo emana una suggestione particolare. E il dibattito che vi è riprodotto è tutt’altro che inedito. Si trova svolto, in forme simili e spesso piú rigorose, in trattatelli specifici e soprattutto nelle prediche degli ecclesiastici che incitavano alla crociata e assumevano su di sé il compito, non sempre facile, di propagandare la spedizione e di convincere gli indecisi. Tuttavia, la forma poetica conferisce alla situazione descritta una suggestione particolare. Non è possibile qui elencare tutti gli argomenti usati dal crociato e le risposte, non sempre pertinenti, del cavaliere che vuole sottrarsi all’impegno e che alla fine, tuttavia, finirà con l’accettare le ragioni dell’antagonista. Come si può facilmente immaginare, i motivi addotti per scegliere la Croce sono intrisi di idealismo. Il cavaliere crociato fa appello alla possibilità

Uno scontro tra cristiani e Saraceni, in uno degli affreschi realizzati da Ugolino di Prete Ilario e aiuti per la Cappella del Corporale nel Duomo di Orvieto. 1357-1364.

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LE CROCIATE

I canti delle crociate

SORDELLO, TROVATORE PAUROSO La pubblicistica dei poeti è, con poche eccezioni, a favore della crociata. I toni sono perentori e sopra le righe, e lasciano talora indovinare le resistenze e gli scetticismi di una parte dell’ambiente circostante. Le minacce e gli anatemi sembrano indirizzati a un’area di renitenza non facilmente circoscrivibile. Sono rarità assolute i componimenti che rispecchiano posizioni contrarie, e non ne saprei citare che svolgano come si dovrebbe i loro motivi. Il trovatore italiano Sordello, per esempio, si rifiuta di partire, ma non cerca di argomentare nobilmente la sua posizione, che appare solo una scelta di comodo, e il poeta non fa nulla per tentare di nasconderlo. Si rivolge a Carlo d’Angiò, in partenza per la crociata del 1248 (la settima), e lo prega di lasciarlo stare perché il viaggio gli fa paura. Non conosce abbastanza il mare, e questo, quando il tempo è cattivo, lo terrorizza: Non ho ancora imparato abbastanza sul mare, benché su di esso sia stato gentilmente istruito, perché possa fare la

Miniatura raffigurante crociati in viaggio alla volta della Terra Santa, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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traversata, per quanto mi sforzi; perciò voglio pregare il conte che non gli rincresca se non parto con lui; non devo essere rimproverato, poiché ho tanta paura del mare, quando il tempo è cattivo, che penso che oltremare non posso andare in nessun caso, e il conte non deve certo volere la mia morte. (...) Prego il mio signore che non gli piaccia farmi passare il mare contro il mio desiderio; nel mare ogni uomo va a perdizione, perciò non voglio mai passarlo in vita mia. È possibile che le motivazioni addotte non siano insincere. Il pericolo del mare può sintetizzare la somma dei grandi rischi dell’avventura crociata, ma certamente il rifiuto di partire è presentato sotto forma burlesca, secondo un registro non raro nella poesia di Sordello. La lirica dei trovatori esalta di norma il coraggio (proeza), non la codardia. Che le paure di chi chiede di restare possano essere introdotte in poesia solo sul piano del comico la dice lunga su quale fosse il messaggio dominante.


che soffrono gravi disagi per ammassare un po’ di denaro, poi vanno a Roma o nelle Asturie o ancora per altre strade: vanno tanto in cerca delle buona sorte che non hanno piú né una serva né un servitore. Si può assai bene, anche restando qui guadagnarsi il cielo senza gran fatica. Se voi andate laggiú, oltremare, renderete omaggio alla follia. Io dico che è un folle dalla nascita, chi si mette a servitú di altri, quando può guadagnarsi Dio stando qui, vivendo dei propri beni». Sono semmai gli uomini di Chiesa, secondo il nostro personaggio, che dovrebbero dare il buon esempio, mentre in genere se ne guardano bene. A essi spetterebbe vendicare Dio, dal momento che vivono delle sue rendite. Quelli che partono per il viaggio d’oltremare non ne ricavano del bene. Il cavaliere che rifiuta la Croce vuol vivere in pace coi suoi vicini, divertirsi, condurre un’esistenza piacevole senza minacciare nessuno. È molto meglio restare in Francia, il bel Paese dove è molto piú facile che si possa incontrare veramente Dio, senza sfidare i pericoli del mare e della guerra: che si offre facilmente, a chi decide di partire, di conquistare grandi onori in Terra Santa. Partecipando a questa impresa, osserva il crociato, è facile conquistarsi il Paradiso. Bisogna prendere come esempio il re di Francia, il quale non teme di sacrificare se stesso e i propri figli per l’impresa. Non si deve temere la morte, perché può sopraggiungere in ogni momento. Non si può conoscere la vera durata di una vita, la morte coglie implacabile, sia i giovani che i vecchi. Dato che prima o poi bisogna morire, è meglio farlo da eroi, per una giusta causa, oltremare, piuttosto che da vigliacchi nel proprio letto, come gli animali! L’oppositore si difende come può, e non si vergogna di fare spesso ricorso ad argomenti un po’ prosaici, nei quali si sente il forte richiamo della realtà di fronte ai sogni di eroismo e di santità del suo interlocutore: già molti si rovinano per partire per lontani pellegrinaggi, come quello a Roma o a San Giacomo di Compostella, nelle Asturie.

Partire è una follia

Vanno sfidando la sorte per nulla. Egli è affezionato alla sua terra e alla sua famiglia, e non vuole mettere tutto in gioco per inseguire un sogno di gloria. È possibile conquistarsi il Paradiso anche restando nel proprio Paese: «Mi stupisco di vedere persone

Miniatura raffigurante una personificazione della Carità che dà da mangiare a due pellegrini.

«Signor crociato, mi stupisco molto: molta gente semplice si reca oltremare, saggi, generosi, ben muniti, dalla vita molto decorosa, e bene operano là, io credo, per cui la loro anima è considerata per il meglio. Tuttavia, essi non valgono piú nulla al momento del ritorno. Se Dio si trova in qualche posto nel mondo, questo posto è la Francia, sicuramente: non crediate che Egli si nasconda fra gente che non l’ama per niente». Il dibattito è espresso in forme convenzionali, ma non si può dubitare che rifletta un problema reale. Gli argomenti formulati dai personaggi nel testo sono verosimilmente quelli che passavano per la testa di migliaia di cittadini dell’Europa occidentale che all’epoca si trovavano di fronte alla necessità di assumere decisioni come quelle che angosciano i nostri due cavalieri. Tracce di questo problema si trovano anche in altri testi di crociata del tempo. L’idea di crociata non era sempre e ovunque popolare, visti i risvolti sconvolgenti che aveva sulla vita economica, civile, sociale dei popoli che ne venivano coinvolti. I testi poetici sono fra i maggiori testimoni di queste tensioni e ciò è normale, visto che sono uno dei veicoli privilegiati per la maCROCIATE

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LE CROCIATE

I canti delle crociate

nifestazione dell’io individuale. È significativo che il disagio nei confronti della partenza possa affacciarsi proprio nella forma del dibattito, tanto cara al mondo medievale e al tempo della scolastica. Il poeta si preoccupa di controbattere alcune delle obiezioni piú correnti alla crociata, tiene a mettere in luce la nobiltà di chi partecipa e l’assurdità di lasciarsi andare a calcoli meschini. La forma della contraddizione sembra particolarmente adatta al tema e rispecchia discussioni che si sentivano fare comunemente. Parte degli argomenti sono quelli che spesso, anche in epoche vicine a noi, hanno accompagnato i dibattiti fra i sostenitori di una partenza per la guerra e coloro che sono piú tiepidi. Chi rimane a casa sembra ai primi pauroso, è accusato di amare troppo la comodità, è indegno di gloria e ricompense.

L’amore è solo per i valorosi

L’aspetto piú curioso è che in poesia il tema interferisce con l’universo ideologico della cortesia. Chi rimane, e magari lo fa per stare piú vicino all’amore, non ne è degno. È giusto quindi che, oltre a perdere la gloria e la salvezza eterna, perda anche l’amore delle donne, che va solo ai valorosi e a chi integralmente sa mettersi in gioco. In Ein tumber man iu hât, un componimento notevole, attribuito a Heinrich von Rugge, Minnesänger della cui esistenza sappiamo pochissimo, chi resiste alla partenza si identifica col nemico stesso di cortesia. Heinrich, che era probabilmente un cavaliere, scrive sotto l’impressione di un evento sconvolgente per il mondo a cui appartiene: il grande imperatore Federico I Barbarossa è morto, annegato durante il guado di un fiume nel corso del lungo viaggio che doveva portarlo a combattere in Terra Santa (1190). I cavalieri tedeschi, e con loro forse anche Heinrich, continuarono da soli l’impresa. È comprensibile però che in questo momento fossero disorientati, e che si sentisse la necessità di qualcuno che li ammonisse e incoraggiasse. Vi sono uomini volgari, osserva il poeta, che propongono di restare a casa, passando il tempo piacevolmente con le proprie donne, ma si tratta di un’illusione. Le donne di questi cavalieri si accorgono che essi non valgono nulla, e li rifiutano: che cosa se ne fanno del servizio di questi vigliacchi? Il secondo principale argomento messo in campo da Heinrich è lo stesso che già avevamo incontrato in Rutebeuf: è inutile preoccuparsi tanto per mettersi al riparo dal pericolo, dato che in ogni momento possiamo comun120

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Miniatura raffigurante una coppia in un giardino, da un’edizione del Rustican (o Livre des proffitz champestres et ruraulx) di Pietro de’ Crescenzi. 1459-1470. Chantilly, Musée Condé.

que morire, e nessuna forma di prudenza, o di vigliaccheria, può garantirci la vita. Tanto vale accettare il rischio e non temere la morte, insomma è meglio partire. Troviamo svolto lo stesso concetto, per esempio, in Ar nos sia capdels e garentia del trovatore alverniate Pons de Capduelh, poeta che si sarebbe egli stesso crociato, secondo l’antica biografia provenzale, e che sarebbe anzi morto in Terra Santa. Egli osserva che «chi laggiú muore ottiene piú che a restare in vita / mentre chi vive stando qui ha meno che se morisse: / una vita meschina val poco e, chi ben muore / è come uccidesse la sua morte e poi vive senza pene».

Nel giorno del Giudizio

Nessun barone può vantarsi di essere coraggioso, se non si reca a soccorso della croce e del Sepolcro. Nel giorno del Giudizio Dio chiederà conto ai codardi del loro comportamento: «Ah, cosa diranno nel giorno del Giudizio / quelli che non si muoveranno, non attirati, /


GUAI A CHI RESTA! La canzone Ahi! Amours, con dure departie di Conon de Béthune offre un concentrato dei motivi propagandistici a favore della crociata. Vi incontriamo, fra l’altro, l’affermazione, molto comune, che se il corpo del cavaliere si allontana per andare in Terra Santa il cuore dell’amante rimane invece in potere della donna. Partire per liberare i luoghi in cui Cristo è morto è un dovere, e la maledizione si abbatterà su tutti quelli che non lo fanno, a meno che non siano troppo poveri, vecchi o malati. Chi resta dovrà partecipare in altro modo: il clero e gli anziani raccoglieranno elemosine, le dame resteranno in fedele attesa degli uomini. La gloria che attende i guerrieri supera i rischi e i pericoli della spedizione, tirarsi indietro ora sarebbe vergognoso:

Miniatura raffigurante la battaglia di Roncisvalle. XIV sec. Bruxelles, KBR. Combattuto nel 778 da Carlo Magno contro i Baschi, forse appoggiati dall’esercito musulmano, lo scontro, grazie ai componimenti poetici medievali, divenne, nell’immaginario collettivo, uno dei piú grandi confronti tra forze cristiane e musulmane. quando Dio dirà: “Falsi, pieni di codardia, / per voi fui crudelmente battuto e ucciso?”. / Allora anche il piú giusto avrà paura». Le ragioni dei poeti sono quasi sempre a favore della crociata. I motivi del disagio appaiono solo in forma indiretta, riportati dagli stessi che non li accettano e non li ritengono validi. Questi argomenti appaiono come condensati in una famosa canzone del trovatore francese Conon de Béthune, un nobile di alto rango pienamente coinvolto nell’avventura crociata. Partecipò alla terza ed ebbe un ruolo politicamente delicato nella quarta. Suo padre Roberto V, conte di Béthune, morí nell’assedio di Acri. La canzone Ahi! Amours, con dure departie è stata probabilmente composta in occasione della terza crociata e offre un suggestivo concentrato dei temi a cui abbiamo accennato, legandoli però al motivo iniziale del dolore per la separazione dalla donna amata. Nel testo spiccano i versi riferiti alla castità delle donne rimaste in patria. Se esse tradissero lo farebbero coi peggiori, dato che tutti gli uomini buoni sono partiti. I versi cosí fiduciosi lasciano trapelare una preoccupazione comune e diffusissima, sempre presente alla mente di chi lasciava per cosí lungo tempo la madrepatria. Il poeta tedesco Hartmann von Aue osserva che se la donna fa partire con giusta disposizione d’animo il suo cavaliere e si mantiene casta è come se partecipasse alla santa impresa. Fra i

Ahimé, amore, quale dolorosa separazione dovrò fare dalla migliore che mai fu amata e servita! Possa Dio nella sua bontà ricondurmi a lei, poiché realmente me ne stacco con dolore! Ahimè! Cos’ho detto? Non me ne stacco! Se il corpo va a servizio di Nostro Signore, il cuore rimane tutto in suo potere. Per lei, sospirando me ne vado in Siria, perché non devo venir meno al Creatore. Chi gli farà mancare aiuto in questa necessità, sappiatelo, non ne riceverà in una piú grande: lo sappiano bene i signori piú grandi e i minori, che si deve far fatti da veri cavalieri là dove si conquista il paradiso, l’onore, il pregio, la gloria e l’amore dell’amica. Dio è assediato nei luoghi santi che ci ha lasciato; ora si vedrà come lo soccorreranno coloro che liberò dalla scura prigione del peccato quando morí sulla croce che ora tengono i Turchi. Sappiate che sono disonorati quelli che rimarranno, se non sono poveri, o vecchi, o malati; coloro che sono sani, giovani e ricchi non possono certo star qui senza infamia. Tutto il clero e gli uomini anziani che resteranno qui, facendo elemosine e opere buone, prenderan parte, tutti, a questo pellegrinaggio, e cosí le dame che vivranno in castità restando leali verso chi partirà; se fanno una follia, per una decisione cattiva, lo faranno con uomini mediocri e malvagi, perché tutti i buoni partiranno in questo viaggio. (...) se ora lasciamo lí i nostri mortali nemici, la nostra esistenza sarà per sempre disonorata.

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LE CROCIATE

I canti delle crociate

Miniatura raffigurante la partenza per la quarta crociata, da un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1460-1465. Ginevra, Bibliothèque de Genève.

due amanti si crea una divisione di ruoli in funzione di uno stesso scopo. Nelle sue liriche Hartmann prende spesso le distanze dall’amor cortese, ma nel passo che segue, in sostanza, accomuna la donna a una possibile scelta di vita superiore, spiritualmente impegnativa, quella che dichiara di avere deciso già per se stesso: «La donna che manda il suo amato / con cuore leale in questo viaggio, / acquista già metà della ricompensa, / se a casa si comporterà / in modo d’aver reputazione di castità. / Se lei prega qui per tutti e due, / cosí lui va laggiú per entrambi» (Swelch frouwe sendet ir lieben man). Il trovatore Albrecht von Johansdorf, che scrive alla fine del XII secolo ed è quindi contemporaneo di Hartmann, si rivolge a Dio perché gli faccia ritrovare pura, al ritorno, la sua donna, e si augura invece di morire durante l’impresa se questo non dovesse accadere: «Ho preso la croce a servizio di Dio / e parto da qui per i miei peccati. / Ora Egli mi aiuti, se dovessi ritornare: / la donna che per 122

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me ha gran pena, / possa io ritrovarla integra nel suo onore. / Cosí Egli esaudirà ciò che desidero. / Ma se lei dovesse deviare la sua vita, / mi faccia Dio piuttosto morire» (Diu êrste liebe, der ich ie began). Albrecht è un delicato cantore dei motivi psicologici connessi alla partenza per la crociata. In Ich und ein wîp descrive, fra l’altro, la preoccupazione di chi si mette in viaggio per i cambiamenti che accadranno in patria durante la sua assenza. Lo preoccupa ciò che può succedere a coloro che restano. Al ritorno, molti che ora sono in buona salute saranno morti, e lui non li ritroverà piú. Già in un anno, osserva, tante vite sono state spezzate. Il destino è imperscrutabile, il mondo non è fedele a nessuno, di nulla ci si può fidare, e quando lo facciamo ne siamo mal ricompensati. Par di capire che questo pensiero possa estendersi anche alla donna amata, che è adirata con lui temendosi abbandonata. Non saprei se sia del tutto casuale che Albrecht sia un trovatore tedesco. Come in tutti i Min-


ALMENO UN SONETTO PER L’AMANTE LONTANO L’ambiente che fa da sfondo al famoso Lamento di Rinaldo d’Aquino è quello assolato di una città marina del Sud Italia, forse Messina. Gli anni possono variare dal 1227-28 al 1240-42. Alcune navi stanno per partire per la Terra Santa (alzando le vele con le funi, le còlle), portando con sé l’amante della donna, che straziata dal dolore si lamenta. L’interpretazione tradizionale parla di una partenza per la crociata, anche se potrebbe anche trattarsi di uno dei tanti «passaggi» di pellegrini che avvenivano in quest’epoca. La donna raccomanda a Dio («alta potestade») l’uomo amato che va ad affrontare mille pericoli e quasi maledice la Croce cristiana, che è causa di sventura solo per lei. L’imperatore che regge tutto il mondo in pace (probabilmente Dio, non Federico II), solo a lei sembra aver dichiarato guerra. Per l’uomo amato ha sopportato sofferenze e persecuzioni, probabilmente è stata separata da lui, rinchiusa come una prigioniera, «in celata tenuta». Il registro cortese si mescola in questi passi a quello religioso, e il lamento assume toni solenni, che ricordano quelli della Madonna ai piedi della Croce nella coeva poesia delle laude. Alla fine, par subentrare nella protagonista una relativa rassegnazione. Le navi stanno partendo e lei si rivolge a un giullare, Dolcetto, affinché con le sue parole componga un «sonetto», una poesia cantata, e lo mandi in Terra Santa presso il suo amato, dato che lei non può avere pace (abentare) né di giorno né di notte: Giamai non mi conforto né mi voglio ralegrare, le navi so’ giute al porto e vogliono collare, vassene lo piú gente in terra d’oltramare: oimé, lassa dolente, como deggio fare?

Santus, santus, santus Deo che ’n la Vergine venisti, salva e guarda l’amor meo, poi da me lo dipartisti. Oit alta potestade, temuta e dottata: la mia dolze amistade ti sia acomandata!

Lo ’mperadore com pace tutto lo mondo mantene ed a meve guerra face, che m’à tolta la mia spene. Oit alta potestate temuta e dottata, la mia dolze amistate vi sia acomandata!

Le navi sono a le còlle in bonor possan andare, e lo mio amore co’lle e la giente che v’à andare. Oi Padre Criatore, a porto le conduce, che vanno a servidore de la santa croce.

Vassene in altra contrata e no lo mi manda a dire ed io rimagno ingannata: tanti sono li sospire che mi fanno gran guerra la notte co la dia, né ’n cielo ned in terra non mi par ch’io sia.

La croce salva la gente e me facie disviare, la croce mi fa dolente e non mi val Dio pregare. Oi croce pellegrina, perché m’ài sí distrutta? Oimè, lassa tapina, ch’i’ ardo e ’ncendo tutta!

Quando la croce pigliao, certo no lo mi pensai, quelli che tanto m’amao, ed i’ llui tanto amai, ch’i’ ne fui battuta e messa in pregionia e in celata tenuta per la vita mia.

Però ti priego, Dolcetto, tu che sai la pena mia, che me ne face un sonetto e mandilo in Soria, ch’io non posso abentare la notte né la dia: in terra d’oltremare sta la vita mia!

nesänger, nei suoi testi è evidentissima l’influenza dei modelli provenzali. Tuttavia, sappiamo che per vari motivi le perplessità circondano l’idea di crociata piú in Germania che in altri Paesi d’Europa. L’imperatore si contrappone al papa per lunghi periodi e non sempre desidera regalare ai religiosi un terreno su cui essi giocano un ruolo dominante. Inoltre la religiosità nordica, della terra della futura Riforma, presenta fin da epoche remote una tendenza piú interiore e sofferta rispetto a quella dei Paesi latini. Non tutti apprezzavano il mercato delle indulgenze, che trova in occasione delle crociate il suo primo grande e spregiudicato spiegamento. I motivi del disagio non si trovano certo solo in testi tedeschi, ma in alcuni di questi sono svolti con una particolare delicatezza. Una grande traccia di disagio, sia pure svolta in forme topiche, si trova in tutta Europa in alcuni componimenti particolari, che formano come una famiglia a sé fra i testi di crociata, e

che per certi motivi è apparentemente piú rischioso mettere in rapporto a questi. Alludo ai componimenti in cui campeggia il grande tema dell’«addio», della separazione a cui la guerra, il viaggio d’oltremare, costringe uomo e donna che si amano.

Cantare la nostalgia

Già i temi dell’addio e della lontananza degli amanti sono elementi fondamentali del sistema cortese, e si manifestano nella lirica, per esempio attraverso il genere dell’«alba», il componimento che descrive il doloroso momento della separazione mattutina degli amanti che hanno trascorso la notte insieme, o attraverso gli innumerevoli componimenti che esprimono la nostalgia della lontananza. La separazione della partenza per la guerra, in particolare per la crociata, è qualcosa di analogo, ma dà vita a componimenti che si conquistano una loro particolarità nella poesia del Medioevo. CROCIATE

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LE CROCIATE

Processione dei crociati intorno a Gerusalemme, 14 luglio 1099, olio di Jean-Victor Schnetz. 1841. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nel dipinto è raffigurato Pietro l’Eremita, il predicatore itinerante che, fallita la crociata «dei poveri», si uní ai baroni sulla strada per Gerusalemme.

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I canti delle crociate

Particolarmente suggestivo, in questi testi, è l’intervento della voce femminile, della donna che lamenta in prima persona la partenza dell’amante. In una canzone di Albrecht von Johansdorf, per restare con questo poeta, la donna si domanda come potrà riuscire a conciliare il dolore della separazione con l’esigenza di continuare a vivere, di non ammalarsi e morire per la disperazione: «“Ahimé”, disse una donna, / “quanto dolore mi procura amore! / Quanto l’amore mi fa soffrire! / O creatura senza gioia, / come farai ora, quando da qui partirà / colui col quale eri sempre felice? / Come potrò vivere con gli uomini e col mio dolore?”» (Guote liute, holt die gâbe). In alcuni componimenti il lamento prende una tale consistenza che la voce femminile recitante pare ormai perdere ogni freno e non sapersi piú controllare. In quello forse piú noto, di area francese, la donna che parla è come tentata di maledire la crociata, Gerusalemme e i príncipi cristiani che le rovinano la vita privandola

dell’amore e del sostegno dell’amato. A leggere bene, si capisce che non arriva a nutrire un giudizio negativo sull’impresa d’oltremare. Una simile posizione controcorrente andrebbe al di là delle sue possibilità, e di quelle sottese del trovatore. Essa sembra ritenere la crociata in fondo giusta e inevitabile, ma enfatizza il danno morale e materiale che scarica su di lei.

Un parente di san Tommaso?

Lo stesso tema dà luogo, in area italiana, a quello che possiamo considerare un vero e proprio piccolo capolavoro del genere, il famoso Lamento per la partenza del crociato del poeta meridionale Rinaldo d’Aquino. Alcuni studiosi pensano che Rinaldo, chiamato con riguardo «messere» negli antichi manoscritti, possa essere appartenuto alla stessa famiglia di san Tommaso, ma l’identificazione è tutt’altro che sicura, e altri personaggi dallo stesso nome se la contendono. Il suo lamento, Giamai non mi conforto, è stato molto amato dalla critica romantica e «ridimen-


UN TORMENTO PALPABILE Lo sfondo crociato di questa canzone in lingua d’oïl, di contrastata attribuzione, può sembrare un pretesto, ma carica la situazione di drammaticità, perché questa separazione degli amanti non è paragonabile ad altre. Il tormento che si intravvede, al di là della consueta topicità delle realizzazioni artistiche, è reale, e si inquadra nelle ragioni di disagio che abbiamo descritto. Il poeta trae un’occasione lirica fortemente emotiva dai casi offerti dalla storia: Gerusalemme, un gran danno mi arrechi, poiché mi hai tolto colui che piú amavo. Sappi veramente che non ti amerò piú, poiché è ciò da cui traggo la gioia piú triste; molto spesso ne sospiro e ne soffoco, al punto che mi adiro con Dio, che mi ha privato della gran gioia che avevo. Bel dolce amico, come potrete sopportare la gran pena per me quando sarete sul mare salato, dal momento che nulla potrebbe esprimere il gran dolore che è penetrato nel mio cuore?

sionato» da quella piú recente. Ad avere ragione, pur con qualche esagerazione, erano i romantici. Ad alcuni moderni è dispiaciuta proprio la caratteristica che ne fa la forza, la semplicità e l’immediatezza, che ne rivelano il carattere popolareggiante e lo distanziano dalla maggior parte dei testi della scuola siciliana. Il fatto che il componimento presenti imperfezioni tecniche, che riguardano la rima o la misura dei versi, indizio del suo carattere non aulico e intellettualistico, non inficia il valore estetico e non diminuisce – anzi, forse accresce – la sua capacità espressiva generale. Non importa che il tema sia topico e che i modelli vengano probabilmente dalla Francia. Il componimento ha una freschezza, un’eleganza e un nitore che non temono confronti con i possibili modelli, almeno quelli giunti fino a noi. La situazione disegnata, reale o piú probabilmente fittizia, è comunque suggestiva e ci restituisce uno sfondo non privo di un tocco di esotismo. La commistione di tema cortese ed elemento religioso che osserviamo nel componimento è determinata dallo sfondo della crociata (o del pellegrinaggio, che è lo stesso). Non appare solo in simili testi, né solo nel nostro Rinaldo. Aveva sicuramente una sua piccola tradizione, anche nell’ambito di questo particolare motivo dell’«addio». Lo possiamo desumere da una poesia molto precoce del trovatore Marcabru, databile quasi un secolo prima di questa. In A la fontana del vergier, il poeta che cammina nella campagna si imbatte in una fanciulla, fi-

Quando mi ricordo del dolce e chiaro viso che solevo baciare e abbracciare, è gran meraviglia ch’io non impazzisca. Possa Dio aiutarmi, non posso fuggire: mi tocca morire, è il mio destino; so bene che chi muore per amore, non ha che un giorno per raggiungere Dio. Ahimé! Preferisco mettermi in viaggio per poter trovare il mio dolce amico che restare qui abbandonata.

glia del signore di un castello, che sospira e versa lacrime di sofferenza per la partenza del suo valoroso amico.

Sia maledetto il re!

Crociati in vista di Gerusalemme, olio su tela di Edwin Austin Abbey. 1901. New Haven, Yale University Art Gallery.

La giovane se la prende con lo stesso Gesú Cristo, a cui piace che i migliori del mondo se ne vadano via, e un po’ anche lei con un sovrano, il re Luigi VII promotore della seconda crociata, quasi maledetto perché emana editti e predica quell’impresa che a lei invece provoca un dolore cosí grande: «“Gesú”, diss’ella, “re del mondo, / per Voi aumenta il mio gran dolore: / giacché l’ingiuria che Vi si fa mi turba, / perché i migliori di questo mondo / partono per servirvi, ma voi cosí volete”. //“Con Voi se ne va il mio amico, / il bello, cortese, nobile e valente. / Qui mi restano la grande angoscia, / il continuo desiderio e il pianto. / Ahi! Sia maledetto il re Luigi, / che dispone i bandi e le prediche, / causa del dolore entrato nel mio cuore!”». La crociata è il destino, lo strumento crudele che dà vita alla separazione, la piú dolorosa e canonica delle situazioni «cortesi». Dal punto di vista tutto particolare della protagonista pare la cosa peggiore che possa capitare, su questa terra. Il trovatore la consola, invitandola a pensare alle gioie che Dio ha in serbo per ognuno di noi. La fanciulla però resta irremovibile nella sua prospettiva, sebbene Marcabru sia un grande sostenitore della crociata: «Dio avrà pietà di me», dice lei nell’ultima strofa della canzone, ma questo potrà accadere solo nell’altra vita… CROCIATE

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CRONOLOGIA

L’ARALDICA NEL MEDIOEVO

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Scienza araldica

330 ca. In seguito ai ritrovamenti che secondo la tradizione si debbono a Sant’Elena, madre di Costantino, vengono fondate a Gerusalemme e a Betlemme alcune basiliche per ricordare i principali momenti della vita del Cristo; inizia la devozione per i Luoghi Santi cristiani. 614 Gerusalemme conquistata dai Persiani guidati dal Gran Re Cushraw (Cosroe); la basilica della Resurrezione, al cui interno si trova l’edicola del Santo Sepolcro, viene distrutta e la reliquia della Vera Croce portata a Ctesifonte come trofeo di guerra. 622, 15 giugno Ègira (hijrah, migrazione) del profeta Muhammad da La Mecca a Yatrib (piú tardi detta Medina, «la Città»). 629 L’imperatore bizantino Eraclio libera Gerusalemme dai Persiani, conquista Ctesifonte capitale del Gran Re e vi riporta la reliquia della Vera Croce; si restaura la basilica della Resurrezione. 632 Morte del profeta Muhammad a Medina. 638 Il califfo Umar conquista Gerusalemme. 639 Inizia la conquista araba dell’Egitto. 641 Gli Arabi conquistano Alessandria. 647 Inizia la conquista araba dell’Ifriqiyah (corrispondente all’antica provincia romana d’Africa), terminata attorno al 705. 649 Al-Muhawyya, governatore di Siria, attacca l’isola di Cipro. 655 Grande vittoria navale musulmana di Phoenicus (oggi Finike) contro i Bizantini. 711 Gli Arabo-Berberi avviano la conquista della Penisola Iberica. 732, 25 ottobre Battaglia di Poitiers (la data è quella piú comunemente accettata). 750 Fondazione del califfato abbaside. 756 L’umayyade Abd ar-Rahman I fonda l’emirato di Córdoba. 759 I Franchi cacciano i musulmani da Narbona. 762 Fondazione di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside. 797 Avvio delle relazioni diplomatiche fra Carlo Magno e Harun ar-Rashid. 801 I Franchi riconquistano Barcellona. 827 Inizio della conquista aghlabita della Sicilia (completata nel 902). 827-961 Emirato arabo nell’isola di Creta. 833 Conquista musulmana di Palermo. 844 Assalto normanno a Siviglia, respinto da cristiani e musulmani che combattono insieme. 846 Incursione araba su Roma. 847-871 Emirato arabo di Bari. 849 Battaglia di Ostia, conclusasi con la vittoria dei cristiani sugli Arabi. CROCIATE

859 I Normanni incendiano la moschea di Algesiras, in Spagna. 870 Occupazione musulmana dell’isola di Malta. 882-915 Insediamento saraceno al Garigliano. 890-972 Insediamento saraceno a Fraxinetum (La Garde-Freinet), presso l’odierna Saint-Tropez. 902 Conquista musulmana delle Baleari. 910 Fondazione in Ifriqiyah del califfato fatimide sciita. 912 Inizio della penetrazione musulmana nell’area del Volga. 915 Fondazione della città tunisina di al-Mahdiyah. 929 L’emiro omayyade Abd ar-Rahman III di Córdoba si arroga il titolo califfale. 960-961 I Bizantini riconquistano Creta. 966 I Danesi di Harald Blåtand («Dente Azzurro») assaltano Lisbona. 969 Fondazione del Cairo. 982 A Capo Colonna, in Calabria, i Saraceni battono l’imperatore romano-germanico Ottone II di Sassonia. 985-1003 Ripetuti attacchi saraceni contro Barcellona. 997 Al-Mansûr, vizir del califfo di Córdoba, attacca e saccheggia la città di Santiago di Compostella. 1009 Il califfo fatimide d’Egitto al-Hakim fa distruggere la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. 1015-1021 Guerre genovesi-pisane contro al-Mujahid, emiro delle Baleari. 1020 Attacco saraceno a Narbona. 1031 Fine del califfato omayyade di Córdoba. 1034 Spedizione pisana contro Bona. 1062 Fondazione di Marrakesh. 1063-1064 Campagna di Barbastro, in Aragona. 1064 Presa castigliana di Coimbra. 1085, 6 maggio Alfonso VI di Castiglia conquista Toledo. 1086 I Castigliani sono sconfitti dagli Almoravidi a Zallaqa. 1087 Spedizione pisana contro al-Mahdiyah. 1090 Ruggero d’Altavilla occupa Malta e Gozo. 1094, 15 giugno Il Cid conquista la città di Valencia. 1095, Concilio di Clermont d’Alvernia. 18-27 novembre 1096-1099 PRIMA CROCIATA in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione duca di Lorena comanda i Lotaringi; Roberto duca di Normandia e Roberto conte di Fiandra capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo marchese di Provenza guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale.


1098, giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. 1099, 10 luglio Il Cid Campeador muore a Valencia. 1099, 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del Regno «franco» di Gerusalemme. 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. 1108 Vittoria degli Almoravidi sui Castigliani a Uclés. 1113-1115 Spedizione pisano-catalana contro le Baleari. 1118, Gli Aragonesi conquistano Saragozza. 19 dicembre 1128 Concilio di Troyes: la fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici trasformata in militia (Ordine religiosocavalleresco). 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima vera e propria enciclica regolatrice del movimento crociato. 1147, 13 aprile Enciclica papale Divina dispensatione. 1147, luglio Campagna tedesco-danese contro i agosto Wendi. 1147, I crociati prendono Almeria. 17 ottobre 1147, I crociati prendono Lisbona. 24 ottobre 1148-1152 SECONDA CROCIATA in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. 1148 I crociati prendono Tortosa di Spagna. 1149 I musulmani sgombrano le residue piazzeforti di Catalogna. 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. 1187 Vittoria saracena a Hattin; il Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. 1187-1192 TERZA CROCIATA Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. 1195, 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. 1202-1204 QUARTA CROCIATA È la cosiddetta «crociata dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’Impero latino. 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi».

1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola Iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. 1212 Crociata «dei fanciulli» (o «degli innocenti»). 1212, 17 luglio Le truppe cristiane franco-ispano portoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. 1217-1221 QUINTA CROCIATA, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. 1228-1229 SESTA CROCIATA (crociata di Federico II); Gerusalemme è recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. 1233 Bolla Vox in Roma: papa Gregorio IX proclama la crociata contro gli Stedinger. 1236, 29 giugno San Ferdinando III di Castiglia prende Córdoba. 1239 Passagium particulare di Tibaldo IV conte di Champagne e di Brie, re di Navarra. 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. 1248, Ferdinando III di Castiglia conquista 23 novembre Siviglia. 1248-1254 SETTIMA CROCIATA (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. 1258-59 Crociata guelfa contro Ezzelino e Alberico da Romano. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 OTTAVA CROCIATA (seconda crociata e morte di Luigi IX, vittima di un’epidemia durante l’assedio di Tunisi). 1274 Concilio di Lione ed emanazione delle Constitutiones pro zelo fidei. 1291 Caduta di Acri. 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII. 1307 Inizio del processo ai Templari. 1312 Nel concilio di Vienne, papa Clemente V scioglie l’Ordine del Tempio. 1314 Morte sul rogo di Jacques de Molay, ultimo Maestro dell’Ordine del Tempio. 1340, Alfonso XI di Castiglia vince i Merinidi 30 ottobre del Marocco nella battaglia del Rio Salado. 1344-1346 «Crociata di Smirne». 1355 Assalto genovese a Tripoli d’Africa. CROCIATE

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1365, Pietro di Lusignano, re di Cipro, assale 10-16 ottobre e saccheggia Alessandria. 1380 Dimitri Donskoi, Gran Principe di Mosca, batte i Tartari a Kulikovo. 1388 Genovesi, Pisani e Siciliani occupano l’isola di Jerba. 1389, 15 giugno Battaglia di Cossovo (nell’odierno Kosovo): il sultano ottomano Murad I annienta la potenza serba, ma cade nello scontro. 1390 Crociata franco-genovese contro al-Mahdiyah, guidata da Luigi II duca di Borbone. 1396, Battaglia di Nicopoli; sconfitta dei 25 settembre crociati. 1402 Battaglia di Ankara: il sultano ottomano Bayazet sconfitto e preso prigioniero da Timur Beg (Tamerlano). 1405 Morte di Timur Beg. 1410 I Cavalieri Teutonici vengono sconfitti dai Polacchi nella battaglia di Tannenberg. 1415, 15 agosto I Portoghesi conquistano Ceuta. 1444, Battaglia di Varna; sconfitta dei 10 novembre crociati. 1448, A Cossovo Murad II batte i crociati 17-19 ottobre ungheresi. 1453, Il sultano ottomano Maometto II prende 29 maggio Costantinopoli. 1456, 6 agosto Janos Hunyadi d’Ungheria conquista Belgrado; in segno di festeggiamento si indice la festa della Trasfigurazione. 1459 Convegno di Mantova, indetto da papa Pio II per organizzare una nuova crociata. 1463 I Bosniaci cominciano ad abbracciare l’Islam abbandonando cristianesimo greco e bogomilismo. 1466 I cavalieri teutonici definitivamente costretti alla pace con il regno di Polonia. 1470 I Turchi prendono Negroponte. 1471 I Portoghesi conquistano Tangeri. 1475, 6 giugno I Turchi prendono Caffa. 1480 Approfittando delle divisioni tra i capi tartari, il Gran Principe di Mosca Ivan III sospende il pagamento del tributo a essi dovuto. 1480, agosto Una flotta turca assalta e conquista Otranto; istituzione dell’Inquisizione spagnola. 1481, 3 maggio Muore Maometto II. 1492, 2 gennaio I re cattolici conquistano Granada. 1497-1510 Conquista di varie rocche tra Melilla e Tripoli da parte degli Spagnoli. 1502 Il khanato tartaro dell’Orda d’Oro si scinde nei tre khanati di Khazan, Astrakan e Crimea. 1504, 4 maggio A Venezia il Consiglio dei Dieci discute una proposta di taglio dell’Istmo di Suez. CROCIATE

1516-1518 Guerra fra Turchi ottomani e sultanato mamelucco del Cairo; i Mamelucchi sottomessi agli Ottomani. 1517 Gli Ottomani occupano Gerusalemme strappandola al controllo mamelucco. 1520-1566 Sultanato di Solimano il Magnifico. 1521, 30 agosto I Turchi prendono Belgrado. 1522 I Turchi conquistano l’isola di Rodi, cacciandone i Cavalieri di San Giovanni, ai quali l’imperatore Carlo V concede d’insediarsi a Malta. 1526, Vittoria turca a Móhacs; 29-30 agosto trattato di Madrid fra Carlo V e Francesco I per una «crociata generale». 1529, I Turchi prendono Buda. 10 settembre 1529, Primo assedio turco fallito di Vienna. settembre-ottobre 1530 I Cavalieri di San Giovanni si insediano nell’isola di Malta e a Tripoli. 1533 Khair ad-Din («Barbarossa») nominato da Solimano capo della marina sultaniale. 1534 Khair ad-Din saccheggia le coste italiche e occupa Tunisi, cacciandone l’emiro protetto dagli Spagnoli. 1535, Crociata di Carlo V contro Tunisi. giugno-luglio 1535 «Capitolazioni» tra Francesco I e Solimano. 1536 Trattato franco-turco. 1538, settembre La flotta della Lega veneto-pontificioimperiale viene sconfitta da Khair ad-Din alla Prèvesa, all’imboccatura del golfo di Arta; Solimano conquista Aden per contrastare la penetrazione portoghese nell’Oceano Indiano. 1540 Pace separata di Venezia con Solimano, cui la Serenissima cede le sue ultime fortezze nel Peloponneso. 1541 Fallito attacco di Carlo V ad Algeri. 1543 Pubblicazione a Basilea del Machumetis Sarracenorum principis vita ac doctrina omnis, quae et Ismahelitarum lex et Alchoranum dicitur, di Theodor Buchmann (Bibliander); i Franco-Turchi assediano Nizza. 1544 Convocazione del concilio di Trento; pubblicazione del De orbis terrae concordia di Guillaume Postel. 1546 Morte di Khair ad-Din. 1547 Andrea Arrivabene pubblica a Venezia la prima versione a stampa in volgare italico del Corano. 1550, giugno Spedizione navale organizzata da settembre Carlo V contro al-Mahdiyah, base del corsaro Turghud Ali («Dragut»). 1552 Conquista moscovita di Khazan, capitale dell’Orda d’Oro.


1551, 14 agosto Gli Ospitalieri di Tripoli si arrendono ai Turchi; il sultano nomina governatore di Tripoli Turghud Ali. 1556 Conquista moscovita di Astrakhan. 1560, I crociati conquistano e quindi perdono marzo-luglio di nuovo l’isola di Jerba. 1562, 15 marzo Nel duomo di Pisa viene costituito per volontà di Cosimo I granduca di Toscana il Sacro Militare Ordine Marittimo dei Cavalieri di Santo Stefano. 1565 I Turchi assediano invano l’isola di Malta; sbarco barbaresco in Andalusia appoggiato dalla popolazione moresca. 1566 I Turchi strappano ai Genovesi l’isola di Chio. 1566, 30 agosto Muore Solimano il Magnifico. 1568 Trattato turco-imperiale di Adrianopoli. 1568-1570 La rivolta dei moriscos viene repressa dagli Spagnoli. 1569 Progetto ottomano di un canale tra Volga e Don per collegare Mar Nero e Mar Caspio. 1569-1574 Tunisi ripetutamente perduta e ripresa dagli Ottomani. 1570-1572 Guerra di Cipro fra Turchi e Veneziani. 1571, 7 ottobre Battaglia di Lepanto. 1578 Battaglia di al-Qasr al-Kabir e morte di Sebastiano del Portogallo. 1583-1587 Si allacciano rapporti diplomatici e mercantili tra Inghilterra e Impero ottomano. 1593-1606 Guerra austro-turca. 1609, Editto regale di definitiva espulsione dei 9 dicembre moriscos dalla Spagna. 1622 Gli Inglesi, coadiuvati da forze persiane, cacciano i Portoghesi dal golfo di Hormuz. 1627 Incursione dei pirati barbareschi in Islanda. 1644-1669 Guerra di Candia fra Turchi e Veneziani. 1664 Il feldmaresciallo Montecuccoli vince i Turchi a San Gottardo sulla Raab. 1669 Ambasceria turca a Parigi, che ispira a Molière la cerimonia dell’investimento del Bourgeois gentilhomme. 1672-1676 Guerra turco-polacca. 1677-1681 Guerra russo-turca. 1681-1684 Guerra tra Francia e bey d’Algeri. 1682-1699 Guerra turco-austro-polacca. 1683, 17 luglio- Secondo fallito assedio turco di Vienna. 13 settembre 1684-1699 Guerra di Morea fra Turchi e Veneziani. 1685, Un bombardamento veneziano 25-27 settembre d ell’Acropoli di Atene danneggia i Propilei e il Partenone, che i Turchi avevano adibito a depositi di munizioni. 1686, Carlo di Lorena conquista Buda. 2 settembre

1688, 2 agosto Battaglia di Mohacs. 1691 I Turchi sconfitti a Slanhamen. 1691-1698 Escono traduzione latina e commento del Corano del padre Lodovico Maracci. 1696, 28 luglio I Russi prendono Azov. 1697, I Turchi sconfitti nella battaglia 11 settembre di Zenta. 1697 Esce a Parigi, postuma, la Bibliothèque orientale di Barthélemy d’Herbelot. 1699, Pace di Karlowitz. 26 gennaio 1711, 21 luglio Pace turco-russa: lo czar costretto a cedere la piazzaforte di Azov. 1715-1718 Guerra turco-veneta detta «di Corfú». 1716, 5 agosto Vittoria di Eugenio di Savoia a Petrovaradin. 1718, 21 luglio Trattato di Passarowitz, redatto in latino e in turco. 1722-1727 Campagne militari russe e turche nel Caucaso. 1729 Esce il primo libro in turco da una tipografia di Istanbul (chiusa nel 1742, riapre nel 1784). 1736-1739 Guerra austro-russo-turca. 1739, Pace di Belgrado. 18 settembre 1742, 9 agosto Prima rappresentazione di Le fanatisme. Mahomet le Prophète, di Voltaire. 1768-1774 Guerra russo-turca. 1774, 21 luglio Trattato di Kuchuk Kainarji fra Russia e Turchia. 1781 Trattato austro-russo per la spartizione dell’Impero sultaniale. 1783-1792 Guerra russo-turca per i territori tartari fra Mar Nero e Mar Caspio. 1792 Trattato di Jassy fra Russia e Turchia. 1793 Riforme del sultano ottomano Selim III («Nuovi Regolamenti»). 1798 Bonaparte in Egitto. 1801 La Russia annette la Georgia. 1804 Attaccando la Persia, la Russia annette Armenia e Azerbaijan; rivolta serba contro il sultano. 1806-1812 Guerra russo-turca. 1816, 9 aprile Alla Camera francese, René de Chateaubriand presenta una mozione per «l’ultima crociata» contro i Barbareschi. 1821-1831 Insurrezione greca e guerra greco-turca; insurrezioni in Valacchia, in Moldavia, in Morea. 1826 Il sultano Mahmud II abolisce il corpo dei Giannizzeri. 1828-1833 Guerra russo-turca. 1830 Occupazione francese di Algeri.

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VO MEDIO E Dossier n. 59 (novembre/dicembre 2023) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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