Medioevo Dossier n. 1, 2013

Page 1

MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E Dossier

Bimestrale - My Way Media Srl

ASTRI, SPIRITI E MAGIE € 6,90

N°1-2013

LA SUPERSTIZIONE NELL’ETÀ DI MEZZO

ASTRI, SPIRITI E MAGIE



ASTRI,

a cura di Francesco

Colotta

SPIRITI E MAGIE

LA SUPERSTIZIONE NELL’ETÀ DI MEZZO testi di Francesco Colotta, Claudio Corvino, Chiara Crisciani, Élodie Lecuppre-Desjardins, David Friedman, Marina Montesano, Piero Morpurgo, Elena Percivaldi, Francesco Pirani, Domenico Sebastiani 4 Presentazione Medioevo magico

76 I signori dell’occulto

Divinazione

79 Donne poco desiderabili

6 Leggere il futuro

84 Sventure a comando

9 Un cielo pieno di segni

Cabala

18 Il destino in un mazzo di carte

90 La Legge e il mistero

Necromanzia

93 Esoterismo in sinagoga

30 Oltre la morte

Magia nordica

33 La seconda vita dei trapassati

102 Nelle terre dei druidi

42 Le ore degli spiriti

105 L’incanto del grande Nord

Ermetismo

112 Un mistero in venti segni

52 La scienza dei significati nascosti

Magie letterarie

55 I segreti della natura

122 Il mito in versi

62 Fabbricanti di sogni e di ricchezza

125 C’era una volta un mago...

Stregoneria


MAGIA

Presentazione

Medioevo magico «T

utto è magia, o niente», scriveva il poeta tedesco Novalis in uno dei suoi Frammenti (1795-1800) echeggiando quelle suggestioni esoteriche di cui tanto si nutrí l’età romantica. E il suo aforisma può ben incarnare uno dei profili dominanti, anche se in parte abusati, del Medioevo mettendone in rilievo le tendenze occultiste, le superstizioni popolari. L’Età di Mezzo fu certamente un periodo storico «incantato», un tempo in cui realtà e immaginazione si incontravano nei luoghi enigmatici del simbolo: decifrare i significati arcani della natura, delle parole o trovare la chiave d’accesso al mondo degli spiriti conduceva a una forma di conoscenza superiore a cui l’uomo in quei secoli aspirava. Ma il dilagare delle pratiche esoteriche non ristabilí in modo diffuso lo «stato primordiale» semidivino dell’individuo, la sua dimensione «cosmica». Nel Medioevo la magia compí, invece, un altro e piú inaspettato «miracolo», che i lettori potranno scoprire percorrendo un lungo viaggio attraverso i segreti della divinazione, dell’ermetismo, dell’alchimia, della necromanzia, della cabala, della stregoneria, del druidismo. Il prodigio realizzato dalle discipline occulte dell’Età di Mezzo fu qualcosa di sorprendentemente «moderno»: inseguendo prospettive super-umane e sogni di immortalità, la magia fece convivere all’interno delle sue dottrine culture diversissime tra loro, spesso incompatibili e in stato di perenne guerra santa. L’Occidente attingeva a testi islamici nello studio dell’alchimia e dell’astrologia o mutuava insegnamenti ebraici. Lo stesso accadeva al Vicino Oriente, che si abbeverava alle fonti di provenienza cristiana ed europea. In alcuni casi una disciplina risultava il prodotto di sincretismi tra molte matrici filosofico-religiose e risalire alle

4

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


sue origini si rivelava, già allora, un’impresa: l’ermetismo, per esempio, combinò elementi di astrologia ebraica, tradizioni egizie, visioni gnostiche e pensiero pitagorico. La magia compí, poi, un altro piccolo miracolo: patrocinò un ideale incontro tra l’aristocrazia e le classi inferiori, assemblando scritti di notevole spessore intellettuale con il patrimonio di credenze popolari. Lo fece, tuttavia, solo su un piano astratto, perché a dominare la scena erano le pratiche di tipo colto, come l’alchimia, l’astrologia e la necromanzia. Anche i pensatori cristiani dell’Età di Mezzo, sant’Agostino su tutti, ritenevano che la magia fosse un nemico di alto profilo, professata da eruditi e quindi non liquidabile come un pittoresco universo di superstizioni: i riti evocavano i demoni che «possono compiere degli eventi sovrannaturali», ma «Dio è piú potente di loro e fa prodigi maggiori». A partire dal XIII secolo, proprio in alcuni ambienti della cultura cattolica, si riabilitò parzialmente l’attività degli operatori dell’occulto, dividendoli in buoni e cattivi. I cultori della magia naturale potevano agire anche a fin di bene – evidenziarono il teologo Guglielmo d’Alivernia e il filosofo Alberto Magno –, mentre chi evocava il demonio era sempre da considera-

re un caso da Inquisizione. Nonostante l’acutezza delle distinzioni tra incantesimi naturali e demonici, l’Età di Mezzo volse al termine in un clima di totale condanna per ogni manifestazione magica, preludio della piú feroce caccia alle streghe della storia. Di certo il Medioevo segreto ebbe il suo lato oscuro, agghiacciante. Permise l’affermarsi di credenze che spinsero gli adepti a commettere atti criminali. Talvolta era la stessa dottrina a predicare azioni violente contro il prossimo, ma, non di rado, i messaggi delle scienze occulte venivano travisati scatenando forme distruttive fini a se stesse. Per questo il leggendario Ermete Trismegisto, uno dei padri dell’alchimia, riteneva rischioso divulgare i saperi esoterici: «Il genere umano tende verso il male; il male è insito nella sua natura e gli si adatta. Se l’uomo apprendesse che il mondo è creato, che tutto si compie secondo la provvidenza e la necessità, che la necessità e il destino governano tutto, sicuramente disprezzerebbe l’insieme delle cose per il fatto stesso che sono create; attribuirebbe difetto al destino, e non si asterrebbe dall’operare malvagiamente». Conoscere ciò che doveva rimanere nascosto: ecco l’azzardo che compí il Medioevo.

Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

5


DIVINAZIONE

Astrologia

DIVINAZIONE

Città del Vaticano, Cappella Sistina. La Sibilla cumana, particolare degli affreschi della volta, realizzati da Michelangelo nel 1508-1510. Le sibille erano profetesse, spesso legate al culto oracolare di un santuario: la cumana era connessa con una pratica divinatoria istituzionale dei Romani, che consisteva nella consultazione di libri che si dicevano scritti da lei, i Libri sibillini.

6

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Leggere il futuro Conoscere il proprio destino è uno degli aneliti che hanno caratterizzato la natura dell’uomo fin dai primordi. Nel corso dei secoli questo bisogno insopprimibile si è espresso attraverso lo studio dei sogni, degli organi umani o animali, degli astri e di misteriosi mazzi di carte...



DIVINAZIONE

Astrologia

R

ipercorrere le sue origini è come affrontare un viaggio in un labirinto senza apparenti vie di sbocco. Antropologi, occultisti, studiosi delle religioni e filosofi hanno formulato nei secoli le ipotesi piú svariate sulla genesi del fenomeno, spaziando dalle pitture rupestri dell’età preistorica fino ai misteri dell’epoca greco-ellenistica. L’analisi meramente etimologica del termine «magia» evoca il nome dei magoi persiani, depositari dei riti segreti della religione fondata da Zoroastro e grandi esperti di divinazione. Fin dalla preistoria l’uomo ha scrutato i segni della natura sensibile ed extrasensibile nel tentativo di prevedere il futuro. Quest’antichissima aspirazione si manifestò in modo compiuto già al tempo dei Sumeri, che erano soliti utilizzare a questo scopo tecniche come l’oniromanzia (l’interpretazione dei sogni) e l’epatoscopia (l’analisi del fegato di vittime sacrificali). Anche i Babilonesi scrutavano il futuro analizzando i visceri umani e si affidavano, inoltre, ai responsi dell’astrologia e della lecanomanzia, ovvero all’interpretazione dei disegni della superficie dell’acqua a contatto con liquidi diversi. Altre forme divinatorie mesopotamiche comprendevano lo studio di fenomeni atmosferici, la posizione di oggetti lasciati cadere in modo casuale e l’esame di nascituri mostruosi. Nella civiltà egiziana la magia divinatoria era sostanzialmente di tipo oracolare e dipendeva dalle presunte manifestazioni concrete della volontà degli dèi. Oracolare fu anche la divinazione greca, con centro principale a Delfi. Nell’antica Roma il prevedere il futuro costituiva una questione di stato e veniva esercitata da appositi collegi sacerdotali: il santuario della Fortuna Primigenia, a Palestrina, era il luogo simbolo dei vaticini insieme al tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio all’interno del quale venivano custoditi i Libri sibillini, contenenti responsi sul futuro dell’impero e i metodi per placare l’ira degli dèi. L’avvento del cristianesimo in Occidente comportò la messa al bando delle pratiche magiche, soprattutto a Roma, dove Costantino, nel 319, proibí la divinazione privata, pena la condanna al rogo. Nel corso del Medioevo, tuttavia, la posizione della Chiesa nei riguardi di alcune tecniche di previsione del futuro si ammorbidí. Numerosi pensatori cattolici, primo fra tutti Tommaso d’Aquino, riconobbero una pur minima valenza all’astrologia osservando che «astra inclinant, non necessitant» («gli astri influenzano, ma non costringono»). Le profezie tratte dal movimento dei pianeti riscuotevano un seguito popolare tale da provocare fobie collettive in caso di previsioni apocalittiche. È quanto accadde in diverse zone d’Europa in seguito alle predizioni di cataclismi naturali formulate per il 1186 dall’astrologo Giovanni da Toledo a causa della tanto temuta congiunzione di tutti i pianeti in Bilancia. Non furono poche le persone che il 31 dicembre del 1185 in Italia, in Germania, in Francia e in Spagna si rifugiarono nelle grotte in attesa del nuovo anno. Nello stesso periodo il Tetrabiblos (risalente al II secolo) di Tolomeo venne tradotto per la prima volta in latino, influenzando l’evoluzione dell’astrologia occidentale.

8

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Il fegato di Piacenza, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.


UN CIELO PIENO DI SEGNI di Piero Morpurgo

R

iuscire a interpretare i segni del Cielo e della Terra era una necessità per chi governava, perché, in quanto signore del mondo, poteva infondere armonia tra i sudditi. Pertanto il sovrano si vestiva di immagini astrali: le tende di Alessandro Magno e Goffredo di Buglione (1060 circa-1100) somigliavano a meravigliosi planetari, mentre i mantelli dei re carolingi e normanno-svevi raffiguravano il Sole, la Luna e lo Zodiaco spesso accompagnati dalle immagini della Vergine e degli Evangelisti. I simboli del potere mettevano in risalto l’accordo del Cosmo con i sovrani: questi ultimi, impadronendosi dei segreti della Natura, avrebbero consolidato il proprio potere, ma perché ciò fosse possibile era necessario conoscere le leggi che regolano gli eventi planetari, le aggregazioni degli elementi, i fenomeni della vita animale e vegetale che influiscono sull’esistenza degli uomini e degli Stati. Pertanto occorreva delineare il sistema di relazioni che legavano la Terra al Cielo. L’intero Universo fu rappresentato come un sistema di sfere concentriche (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Cielo delle stelle fisse, tutte presiedute dal Primo Mobile) che ruotavano attorno alla Terra, la quale si trovava in condizione di riposo assoluto. Fin dal tempo di Carlo Magno si tentò di rappresentare i pianeti in cerchi concentrici; almeno sino al X secolo, però, mancavano gli strumenti per misurarne e raffigurarne il moto. Le novità arrivarono da chi si era recato nel mondo ispano-arabo: tra gli altri, fu Gerberto d’Aurillac (945 circa-1003) a introdurre dal mondo arabo, per l’appunto, l’abaco, la sfera armillare e l’astrolabio, strumenti astronomici mediante i quali divenne possibile non solo calcolare la durata delle giornate ma anche le eclissi, le diverse fasi della luna e la posizione dei pianeti nello Zodiaco.

Attriti e resistenze

L’osservazione degli astronomi evidenziò che le rotazioni celesti non avvenivano alla stessa velocità: i pianeti, infatti, non mostravano di avere un moto uniforme e questo in parte fu ricondotto a un complesso sistema di attriti e di resistenze che rallentava ora alcune sfere ora altre. Nell’effettuare queste rotazioni i pianeti attraversano dodici costellazioni: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scor-

Lodi, chiesa di S. Francesco. L’affresco attribuito a un artista denominato Maestro dei Quattro Elementi, proprio perché nell’opera, realizzata nel XIV sec., assegnò a ogni Evangelista ritratto un umore e un elemento: Acqua e Flegma a Matteo, Terra e Melancolia a Luca, Fuoco e Colera a Giovanni, Aria e Sangue a Marco. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

9


DIVINAZIONE

Astrologia

pione, Sagittario, Capricorno, Acquario e Pesci. Il Cosmo era costituito da una materia pura e immutabile da cui venivano prodotti i componenti della vita terrestre: i «quattro elementi»– fuoco, aria, acqua, terra – e i minerali che mescolandosi potevano produrre le diverse forme di vita vegetale e animale. Ne risultava l’idea che sia gli organismi sia le strutture della società fossero direttamente influenzati da un pianeta o da una costellazione; pertanto era necessario scrutare gli astri nel tentativo di prevedere quale fosse la sorte dei popoli, dei sovrani e talvolta anche degli animali. L’astrologia era una scienza saldamente legata all’astronomia, che presiedeva ogni altra attività: un medico come un architetto dovevano necessariamente saper scrutare gli astri, poiché tutto il mondo era intriso dei «semi» caduti dalla volta celeste; in particolare l’uomo era definito un «microcosmo» in quanto a ogni segno zodiacale corrispondeva un organo del corpo umano. Quel che fu davvero rilevante è che la discussione sull’azione degli astri e degli elementi offrí agli scienziati del Medioevo un mondo in cui l’uomo poteva cercare liberamente le regole della Natura, che non erano piú sotto lo stretto controllo dell’azione divina: cosí, per esempio, Thierry di Chartres († 1156 circa) limitò l’azione di Dio all’intervento creativo originario e affidò tutta l’organizzazione della Natura al moto del fuoco e al suo calore che è trasmesso attraverso le sfere celesti, e quindi alla forza generatrice degli elementi.

IL PRIMATO ARABO I primi strumenti per misurare e raffigurare il moto dei pianeti si diffusero grazie ai contatti con il mondo ispano-arabo: tra gli altri, a cavallo tra il X e l’XI secolo, Gerberto d’Aurillac (il futuro papa Silvestro II) introdusse dal mondo arabo l’abaco, la sfera armillare e l’astrolabio

Particelle invisibili regolano gli umori

La descrizione dei fenomeni naturali si fondava anche su una concezione «atomistica» della struttura dei corpi: si trattava di particelle piccolissime, che non potevano essere percepite dai sensi e che costituivano in modo omogeneo i «quattro elementi» originari. Tuttavia, il mescolarsi di questi principi nella struttura corporea è cosí indistinguibile che si può solo intuire la presenza di questi «atomi», cosí come – si diceva – si può immaginare che vi sia dell’acqua nel vino, ma non la si può distinguere. Quel che invece si può percepire è l’effetto delle «qualità» che, dipendendo dagli elementi, concorrono all’equilibrio armonico degli organi. Tale concezione permetteva di ipotizzare che la congiunzione di fuoco, aria, acqua e terra portasse a una distribuzione di particelle fredde, secche, calde e umide che avrebbero determinato la circolazione dei quattro umori del corpo umano: l’umor nero, l’umor viscoso, il sangue, la bile. Sulla base di queste teorie si ricavavano vere e proprie tabelle che avrebbero dovuto consentire allo scienziato di stabilire come riportare in equilibrio un organismo, che 10

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

SFERA ARMILLARE

Detta anche «armilla», consiste di parecchi cerchi graduati, mobili l’uno all’interno dell’altro, che rappresentano i cerchi massimi piú significativi della sfera celeste (equatore, eclittica, orizzonte, ecc.), rispetto ai quali si può determinare la posizione di un corpo celeste. Qui la vediamo in una stampa a colori del XVII sec., conservata a Torino, nella Biblioteca Reale.


ASTROLABIO

Con tale nome, dal greco astrolabon, che vuol dire letteralmente «che comprende le stelle», si indicano congegni di forma piana o sferica che permettevano di determinare le coordinate degli astri e la misura del tempo. Quello qui illustato è un esemplare di produzione araba, fabbricato a Saragozza nell’XI sec. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. La xilografia a colori (in basso) illustra l’uso dello strumento.

dimostrasse la sovrabbondanza di un umore (il freddo, per esempio), facendogli assumere una sostanza caratterizzata da una «qualità» contraria (il caldo o il secco). In realtà v’era una diffusa consapevolezza che simili ragionamenti non avessero un’effettiva validità scientifica e molti manifestarono il proprio scetticismo. Su un fatto c’era tuttavia – nei secoli XII-XIII – generale consenso: all’interno della Natura si potevano riscontrare regole e armonie utili alla salute dell’uomo e della società. Di fronte all’impossibilità di riscontrare certezze, v’era anche chi riproponeva il principio per cui ogni fenomeno sarebbe dipeso dall’agire divino, che si manifestava attraverso le sue gerarchie. Fu questo l’intento del Maestro dei Quattro Elementi che, nel Trecento, dipinse nella chiesa di S. Francesco a Lodi un affresco ove assegnò a ogni Evangelista un umore e un elemento, rappresentando cosí san Matteo con Acqua e Flegma, san Luca con Terra e Melancolia, san Giovanni con Fuoco e Colera, san Marco con Aria e Sangue. Rappresentazione che seguiva la dottrina medievale per la quale «il sangue imita l’aria, aumenta in primavera, domina nell’infanzia. La bile gialla imita il fuoco, aumenta in estate, domina nell’adolescenza. La bile nera ovvero la melanconia imita la terra, aumenta in autunno, domina nella maturità. Il flegma imita l’acqua, aumenta in inverno, domina nella vecchiaia. Quando questi umori affluiscono in misura non superiore né inferiore al giusto, l’uomo prospera». Questo sistema permetteva di definire la salute come l’equilibrio di diverse qualità e la malattia come il predominio di una sola.

Anche il globo soffre

Il desiderio di organizzare una vita meno esposta alle intemperanze della Natura connotò gran parte del pensiero medievale e moderno. Il senso della Natura che esprime il Medioevo denota timore e rispetto per la Terra, considerata un organismo animato che presenta risorse e pericoli. L’Anima del Mondo poteva soffrire, cosí come il suo corpo. Il globo era un organismo complesso, dotato di un sistema di circolazione (fiumi, laghi, mari) e che nascondeva al suo interno forze misteriose, all’origine dell’eruzione dei vulcani e dei terremoti. In piú di un caso, la Terra mostrò di non gradire le violenze di certi sovrani e apparve turbata: le fonti divennero torbide e salate, da alcune di queste sgorgò un succo color sangue, mentre le coste erano sconvolte da insolite ASTRI, SPIRITI E MAGIE

11


DIVINAZIONE

Astrologia

IL DOTTOR ZODIACO L’«uomo anatomico» o «zodiacale», illustrazione allegorica realizzata per il Très Riches Heures du Duc de Berry, il Libro d’Ore del duca Jean de Berry, dai fratelli miniatori Pol, Hermant e Hennequin de Limbourg. 1412-1416 circa. Chantilly, Musée Condé. La miniatura illustra la presunta influenza dello zodiaco sul corpo umano,

nonché le corrispondenze tra ciascun segno e altrettanti organi e parti del corpo umano: 1. Ariete/testa; 2. Toro/gola; 3. Gemelli/spalle; 4. Cancro/petto; 5. Leone/cuore; 6. Vergine/addome inferiore; 7. Bilancia/regione lombare; 8. Scorpione/genitali; 9. Sagittario/cosce;

1

2 3 4 5 6 7 8 9

10

11

12

10. Capricorno/ ginocchia; 11. Acquario/polpacci e caviglie; 12. Pesci/ piedi. Stando ai commenti riportati negli angoli del disegno, il genere umano può essere diviso in varie categorie. I caratteri si basano innanzitutto sui quattro umori tradizionali: sanguigno, flemmatico, 12

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

collerico e malinconico. L’uomo può inoltre essere classificato secondo il suo grado di calore o di secchezza, derivanti dalle proporzioni della mascolinità e della femminilità della sua indole, e, infine, dalla sua relazione con i punti cardinali.


ASTROLOGIA BELLICA Un cronista racconta che, in occasione di un assedio, il conflitto si protrasse per lungo tempo perché entrambi i contendenti avevano a disposizione un astrologo. Sembrerebbe, infatti, che ciascuno degli scienziati fosse in grado di prevedere le mosse del nemico scrutando le indicazioni degli astri. La singolare contesa «tecnico-scientifica» fu davvero ardua: lo scontro decisivo veniva continuamente rinviato proprio per le abilità di previsione degli scienziati che si contendevano il controllo degli astri. Le cronache riferiscono che il conflitto non si sarebbe risolto se, a distrarre uno degli astrologi, non fossero insorte liti e discussioni tra gli assediati: il nemico, approfittando della conseguente distrazione di uno dei due scienziati che si erano affrontati in una complessa battaglia stellare, riuscí allora ad avere la meglio.

Miniatura raffigurante lo Zodiaco, da un’edizione del trattato sugli automi scritto dall’inventore e matematico arabo Al-Jazari. XII sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi. maree. Espressione di armonia, la Natura non consentiva alterazioni di sorta. A questo proposito la posizione di Maimonide (1135-1204) è illuminante. Il filosofo ebreo condannava con forza quanti praticavano le arti magiche tentando di alterare il corso della Natura. Il messaggio era chiaro: non si può cercare di fermare la caduta delle foglie dagli alberi e impedire la maturazione dei frutti; non si possono utilizzare rimedi che provengano da pratiche magiche. In nessun caso si potrà forzare il corso della Natura e tentare di far produrre piú di quel che il normale susseguirsi dei fenomeni biologici consenta. Questa dichiarata difesa dell’ordine della Natura fu codificata da un punto di vista istituzionale nelle leggi promulgate da Federico II nel 1231. La sensibilità per l’equilibrio naturale fu tale che, per esempio, per garantirne la salubrità, l’imperatore vietò all’interno delle città l’esercizio di quelle attività che rischiavano di inquinare l’aria e l’acqua, dichiarati beni preziosi e insostituibili. Era convinzione dei governanti piú illuminati che gli equilibri della vita umana dovessero essere regolati da interventi legislativi intesi ad armonizzare la società con la Natura e con gli influssi degli astri.

La ragione contro i pianeti

Padova, Palazzo della Ragione. Particolare degli affreschi probabilmente ispirati dall’astrologo Pietro d’Abano. 1306-17. Il ciclo si articola in 12 comparti, suddivisi in riquadri con la

rappresentazione allegorica del mese, del segno zodiacale, del pianeta, dei mestieri, delle costellazioni. In questo caso, la fanciulla inghirlandata in un prato fiorito impersona il mese di Aprile.

L’affermarsi delle discipline astrologiche che teorizzavano come ogni persona fosse soggetta all’influenza dei corpi celesti sin dal concepimento aveva suscitato ansie e speranze: il turbamento provocato dall’idea che tutto fosse stato già scritto nei cieli era temperato dal desiderio di poter controllare il proprio e l’altrui destino avvalendosi di forze planetarie. Non mancarono le polemiche: in molti protestavano contro quei mentitori che sostenevano di prevedere gli eventi futuri o il carattere dei neonati; altri, pur concedendo che l’azione di Saturno potesse indurre la tristezza, esaltavano la forza della ragione umana, che era capace di riportare la gioia, contrastando l’azione nefasta dei pianeti. Ben piú accesi erano gli animi di quanti accusavano gli astrologi di speculare sull’ignoranza dei ASTRI, SPIRITI E MAGIE

13


DIVINAZIONE

Astrologia

LA RIVOLUZIONE DEI NUMERI Galileo affermò che per intendere l’Universo occorre imparare a «intendere la lingua e conoscere i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica». Su questa tesi si fonda la fisica moderna, ormai lontana dal concetto di numero che nel Medioevo fu inizialmente ancorato alle simbologie religiose: Alcuino di York discuteva con Carlo Magno del significato dei numeri nelle Sacre Scritture. Gerusalemme e Roma parvero imbalsamare l’aritmetica. La prima grande novità fu l’introduzione dell’abaco, strumento di calcolo che, già noto nell’antica Cina, ai Greci e ai Romani, tornò in uso in Occidente, pare a opera di Gerberto d’Aurillac, poi papa col nome di Silvestro II, che fu maestro di Ottone III. Purtroppo il sistema era lento e complesso, soprattutto per le difficoltà create dai numeri romani. Il vero cambiamento si verificò alla metà del 1200, con l’introduzione delle cifre arabe, anche se ancora nel 1299 l’Arte del Cambio di Firenze proibiva l’uso di questo sistema di numerazione. Tuttavia, nel XIII secolo si segnala una vera e propria rivoluzione dei numeri e Salimbene da Parma (1221-1289), nella sua Cronica, fornisce piú di una cifra: listini dei prezzi del cibo, importo di spese per la guerra, bilancio delle vittime di una battaglia.

Non piú relegata all’ambito teologico, filosofico o esoterico, l’aritmetica divenne allora uno strumento per redigere inventari, tenere conti di bottega, compilare registri. L’estendersi delle relazioni commerciali e dell’azione delle amministrazioni cittadine, per interventi di migliorie urbane, favorí questa rivoluzione scientifica. L’invasione dei numeri appare evidente nel racconto che Giovanni Villani (1280-1348) fece del rifacimento di Ponte Vecchio a Firenze, indicando larghezze e lunghezze dell’opera, dimensioni delle botteghe, rendite degli affitti. Ai numeri, in quanto espressione della Natura, fece riferimento una raffinata progettazione architettonica: nel 1587, a Venezia, si apre il cantiere per il Ponte di Rialto, preceduto da un intenso dibattito preliminare da cui emergeva la necessità di rispettare l’armonia della Natura, avvalendosi di archi a tutto sesto e di quattro appoggi, quanti sono gli arti degli animali superiori. L’utilizzazione pratica dei nuovi numeri arabi contribuí a rinnovare la civiltà medievale, ma occorrerà attendere ancora a lungo per un sistema di misura unitario: in Lombardia nel 1780 v’erano piú di 22 diverse misure di lunghezza, mentre in Sicilia ancora nel 1809 si riscontravano almeno 400 differenti sistemi per misurare i liquidi.


Nella pagina accanto allegoria dell’Aritmetica, ritratta in piedi tra Severino Boezio, filosofo e matematico, e Pitagora, dalla Margarita Philosophica Nova di Gregor Reisch, la prima enciclopedia a stampa. 1503. clienti e di scivolare verso pratiche magiche o demonologiche. Non mancò chi cercava un’improbabile mediazione. Infatti vi fu chi, per conciliare la fede e la scienza astrologica, elaborò un complesso sistema per cui da un lato si concedeva ai pianeti la caratteristica di esseri viventi, dall’altro si affermava che questi astri, come gli elementi e i metalli, erano sempre sotto il controllo degli angeli, che assolvevano cosí al loro compito di «ufficiali del Cielo». La teoria che individuava nel Cielo una serie di controllori rispondeva all’esigenza di affidare a guardiani imperturbabili un Cosmo che assisteva ad alcune irregolarità nel movimento dei pianeti.

L’importanza dell’armonia

La varietà dei comportamenti celesti e l’affollarsi tra le stelle di spiriti, rettori, angeli e diavoli, offriva figure che potevano indicare un carattere, una personalità, un’identità professionale. Questa moltitudine di inclinazioni umane è stata rappresentata nel Palazzo della Ragione di Padova. Il progetto, probabilmente su ispirazione dell’astrologo Pietro d’Abano (1248-1316), aveva lo scopo di rappresentare i diversi livelli di influenze astrali che potevano giungere sulla Terra. A mitigare il rischio che le immagini astrologiche distogliessero il cittadino dalla fede vennero anche inserite le raffigurazioni dei santi e delle diverse arti: l’attività dell’uomo risultava dal sentimento religioso indirizzato da un moto dei cieli presieduto dalla volontà divina che si intendeva con la ragione umana. Il tutto era rappresentato in una sala in cui venivano emanate le sentenze dei giudici, ove sedeva chi governava la città e ove i cittadini attendevano di conoscere il loro destino, frutto dei riflessi astrali, teologici e giuridici: il corpo umano e la struttura della società appaiono cosí governati da delicati equilibri che si dovrebbero accordare con le armonie cosmiche. Per apprezzare la società medievale e il suo pensiero scientifico occorre valutare l’importanza del concetto di «armonia». Non a caso Dante diede grande enfasi a questo tema, soprattutto quando ebbe modo di ascoltare nel Paradiso la perfezione delle sinfonie provocate dal ruotare delle sfere celesti: un complesso armonioso di suoni e colori che si riteneva giungesse sino alla Terra indirizzando la vita umana. Perché – si chiese allora piú di uno scienziato – ogni uomo prova piacere nell’ascolto di ritmi affascinanti? Si rispose che tale disposizione è data dal fatto che l’essere umano gioisce delle

armonie naturali. Questo non solo si dimostrava osservando come, sin dalla nascita, un bimbo provasse piacere nell’ascoltare la musica, ma anche perché nei suoni si riscontrava un ordine regolare che corrispondeva alla struttura del mondo naturale. E Adelardo di Bath ebbe modo di riscontrare non solo che gli infanti godevano della buona musica, ma anche che certi pesci venivano attratti da soavi melodie. La conoscenza delle armonie stellari che si riverberano sul corpo umano rendeva anche possibile la definizione di caratteri fisici che contraddistinguono gli orientamenti morali delle persone.

I sensi come specchio dell’indole

La fisiognomica offriva uno strumento potente che consentiva di scrutare l’indole degli individui, per poi far maturare liberamente quelle inclinazioni che favoriscono la felicità personale e sociale. Cosí, scrutando i cinque sensi di ogni persona, si tentava di percepirne le inclinazioni piú profonde: l’occhio è nel corpo come il Sole nell’Universo e da esso si manifestano l’orgoglio o l’umiltà; l’orecchio è lo strumento che giudica le armonie e dalla sua efficacia si potrà comprendere se l’individuo è attratto da circostanze abominevoli o se è incline a far del bene; il naso percepisce le armonie degli odori e dalle sue preferenze si potrà intuire se la persona è predisposta alla ribellione o all’obbedienza; la disposizione della lingua permette di distinguere quanto sia efficace il dominio della ragione sulle passioni e sui vizi; cosí pure il tatto offre un’idea di come si sappiano controllare i desideri, sottomettendoli al giudizio dell’intelletto. Anche tutte queste disposizioni dell’animo si supponeva che dipendessero dall’equilibrio degli elementi e degli umori la cui alterazione porta agli eccessi dell’ira (eccesso di fuoco-bile gialla e terra-bile nera) e dell’odio (sovrabbondanza di fuoco-bile gialla e aria-sangue). Per affrontare tali squilibri occorreva ripristinare l’armonia originaria del corpo, mediante una dieta calibrata per integrare il deficit di umori o fronteggiare la sovrabbondanza di qualità malefiche. Quanto al motivo che aveva provocato l’alterazione del carattere, nulla poteva essere escluso: il cambiamento poteva dipendere da delusioni amorose, investimenti sbagliati, lavori troppo rumorosi o molesti, abitazioni malsane. Per far fronte a tutto ciò occorreva restituire all’animo l’equilibrio originario; pertanto il paziente doveva essere confortato da persone amiche e da un ambiente rallegrato dal canto degli uccelli e dagli aromi delle erbe e dei fiori. Per questo si proponeva di creare in casa un «microclima» che ricordasse quello dei giardini. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

15


DIVINAZIONE

Astrologia

CECCO D’ASCOLI

I

l 16 settembre 1327 un rogo arse nella città di Firenze. Le fiamme erano destinate ad avvolgere il magister Cecco d’Ascoli, medico, filosofo e astrologo di larga fama, e a ridurre in cenere i suoi scritti, giudicati eretici e pericolosi dall’Inquisizione. Ma chi era Cecco? E perché finí cosí tragicamente i suoi giorni? Nulla sappiamo della sua formazione. La tradizione umanistica lo vuole studente a Salerno e poi a Parigi, ma non è possibile ricostruire l’itinerario che lo portò a lasciare la città natale, Ascoli, per studiare probabilmente medicina, filosofia e astrologia, forse a Bologna. Di sicuro, dal 1318, Cecco si trova nella città emiliana, dove partecipa al fervore culturale e anche alla vita di svaghi dell’ambiente universitario. Qualche anno dopo è già lettore presso lo Studio e proprio in relazione all’attività di insegnamento scrive alcune fra le sue opere piú importanti, che furono poi attentamente valutate dall’Inquisizione. Fra queste si segnala un Commento alla Sfera di Sacrobosco, che illustra e discute il principale testo degli studi universitari di astronomia nel Medioevo. Gli interessi di Cecco a Bologna non restano però confinati all’insegnamento e alla produzione intellettuale. Il magister non negava le sue simpatie politiche per il partito dei populares della città emiliana e la propria appartenenza alla causa ghibellina. Le sue argomentazioni sono di natura astrologica: il regime democratico di Bologna, infatti, edificato sotto il segno del Toro, godrebbe del favore della Luna, che ne rappresenta il simbolo vittorioso; al contrario il partito degli aristocratici, guidato da Saturno, sarebbe destinato alla sconfitta. Il Toro, secondo Cecco, porta il giogo cosí come gli uomini del popolo bolognese vestono la gorgiera; al contrario i «saturnini», cioè i nobili, indossano abiti scuri ed eleganti, ma drizzano gli orecchi come gli asini. Ma le condizioni politiche della 16

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Bologna celebrata da Cecco nei suoi scritti come città prospera e gaudente erano destinate repentinamente a cambiare. In seguito a una profonda crisi e a una cocente sconfitta militare, i Bolognesi furono indotti a offrire la guida del governo al cardinale Bertrando del Poggetto, nipote di papa Giovanni XXII, che rafforzò il controllo della Chiesa sulla città. Anche lo Studio subiva un forte contraccolpo: venne infatti meno il decisivo appoggio della potente famiglia dei Pepoli e molti studenti decisero di allontanarsi da Bologna.

La pagina di un’edizione cinquecentesca de L’Acerba, poema allegorico-didascalico rimasto incompiuto. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In questo mutato clima politico e culturale la produzione intellettuale di Cecco cominciò a destare sospetti di eterodossia. Cosí, pur se la carriera accademica del magister ascolano non conobbe nell’immediato un declino, i suoi scritti furono oggetto di esame da parte dell’Inquisizione. Il frate domenicano Lamberto da Cingoli, che

di Francesco Pirani si occupò del processo, non ebbe nessuna esitazione e condannò nel 1324 le idee espresse da Cecco nel Commento alla Sfera. Perché mai la scienza di Cecco doveva apparire cosí eterodossa? La sentenza non lascia dubbi: innanzi tutto, per il ruolo centrale accordato alla magia e all’astrologia nell’indagine sulla natura e sull’uomo. Secondo l’Ascolano, infatti, le disposizioni degli astri regolano e orientano gli umori, le disposizioni, le scelte e le attività umane. Per questo motivo appare utile allo scienziato indagare la natura con ogni mezzo di ricerca a disposizione, comprese la magia e la negromanzia, attività che si preoccupa di indagare la presenza dei demoni. Non occorre infatti dimenticare che prima dell’avvento del moderno metodo scientifico galileiano, i confini fra lo studio razionale del mondo naturale e l’investigazione delle forze anche occulte che animano l’universo erano piuttosto labili. Il nucleo dell’indagine intellettuale di Cecco risiede in questa concezione allargata della scienza, alla quale il magister fa professione di fede. Nella sua opera piú importante, un poema in volgare sulla natura, L’Acerba, afferma infatti di aver voluto dedicare tutta la vita allo studio della verità scientifica e di non aver tenuto in nessun conto il denaro. La chiave di volta per comprendere il mistero dell’universo risiede per Cecco nell’astrologia: poiché il destino degli uomini è soggetto alle disposizioni degli astri, occorre allora far ricorso a quella branca del sapere denominata «astrologia giudiziaria» che, a cavallo fra scienza della natura e magia, consente di prevedere gli eventi futuri. Le stelle per Cecco non esercitano soltanto un influsso sulla sorte degli uomini, ma agiscono anche sul loro equilibrio psicofisico: non soltanto le malattie sono causate dalla posizione degli astri, perfino i tratti del volto, il temperamento e il carattere delle persone sono impressi


dai corpi celesti. Per Cecco tutto l’universo è abitato da spiriti, ciascuno legato ai quattro elementi del cosmo: occorre dunque stare bene all’erta per cogliere il momento in cui si manifestano ed essere in grado di interrogarli, poiché essi conoscono gli eventi futuri. Nel IV libro de L’Acerba Cecco indugia nella spiegazione dei metodi attraverso cui comunicare con gli spiriti, che si rendono visibili ad esempio attraverso il sangue umano o i gatti morti, con resine e olio di aloe e in molti altri modi ancora. Evidentemente la Chiesa non poteva approvare tale impostazione dottrinale, che di fatto limita fortemente il libero arbitrio umano. Dal postulato secondo cui l’uomo e il mondo sono in gran parte in balia degli astri deriva inoltre una serie di conseguenze a dir poco pericolose per l’ortodossia. Infatti, per Cecco, anche la vita, la predicazione e la morte di Gesú Cristo sarebbero avvenute sotto uno speciale influsso astrale e sempre le stelle avrebbero annunciato una prossima venuta sulla Terra dell’Anticristo, che tanti profeti medievali aspettavano con ansia, nei panni di un uomo straordinariamente ricco. La condanna riportata dall’Inquisizione romana e la difficile situazione politica creatasi a Bologna dovettero consigliare al magister di lasciare la città per cercare fortuna altrove. Fortuna che ritrovò ben presto a Firenze nell’ambiente della corte angioina di Carlo di Calabria, ove venne nominato medico e astrologo del duca. Ma anche nella città di Dante in quegli anni la situazione politica era incandescente e presto la buona stella di Cecco cominciò a tramontare e non tardarono ad addensarsi malumori su di lui. Per l’ultimo atto della vita di Cecco occorre chiamare in scena un altro influente personaggio: Raimondo, vescovo di Aversa, cancelliere del duca di Calabria. Siamo nell’estate del 1327, l’inquisitore di Toscana è un uomo di profonda cultura, il frate francescano Accursio Bonfantini, colui che secondo la tradizione è considerato il primo «lettore» della Commedia di Dante. Il frate esamina

con zelo e con la debita calma le opere di Cecco, prima fra tutte L’Acerba, e procede con grande rispetto dei metodi inquisitoriali: infatti ordina una copia della sentenza pronunciata contro l’Ascolano tre anni prima a Bologna, cosí da avere un quadro esaustivo della questione. Nessuna fretta, Cecco è stato fatto rinchiudere in prigione e non può nuocere a nessuno. Riguardo al giudizio dottrinale espresso dal frate, non ci saremmo certo aspettati l’assoluzione: le idee di Cecco, cosí come avvenuto a Bologna, furono dichiarate ancora una volta pericolose ed esecrabili. L’inquisitore francescano giudica il Commento alla Sfera «superstizioso e pazzo» e valuta «piena di acerbità eretiche» l’opera in volgare. Nulla di nuovo, dunque, ma di qui alla condanna al rogo ce ne passa! Fortunatamente, oltre al testo della sentenza dell’inquisitore francescano,

Ascoli Piceno. La statua bronzea del monumento a Cecco d’Ascoli, scolpita nel 1919 da Edoardo Cammilli.

possediamo anche il suo libro di conti, dove annota con scrupolo tutte le spese sostenute, anche quelle apparentemente insignificanti. Cosí, sappiamo che la sera prima della pronuncia della condanna, il frate ricevette una visita probabilmente inaspettata, quella del cancelliere del duca: il libro contabile registra infatti le spese per una cena a base di frutta e vino. Quale motivo avrà mai indotto Raimondo a recarsi dall’inquisitore proprio quella sera? Avrà forse esercitato pressioni sulla condanna dell’Ascolano? Il sospetto è forte, ma le carte d’archivio probabilmente non riusciranno mai a dissolvere il mistero. Di sicuro sappiamo soltanto che il giorno 15 settembre 1327, dagli stalli del coro della chiesa di S. Croce in Firenze una voce si levava per condannare al rogo magister Cecco d’Ascoli e che il giorno dopo la sentenza ebbe luogo.

DOSSIER CROCIATE

17


DIVINAZIONE

Tarocchi

IL DESTINO IN UN MAZZO DI CARTE di Francesco Colotta

I

tarocchi svelano il futuro da secoli, ma non evocano soltanto la predizione di eventi futuri. Queste carte richiamano anche percorsi iniziatici o utilizzi meramente ludici. Possono cioè garantire all’uomo una trasformazione interiore in senso divino o servire solo a ingannare il tempo, come in un comune gioco di società. La loro incerta origine ha alimentato una vasta letteratura, popolata anche da luoghi comuni e teorie bizzarre. Sembra solo un’intrigante suggestione l’ipotesi che siano derivati da un antico testo egiziano, il Libro di Thot, contenente i segreti della creazione del mondo e del futuro dell’umanità. Né trova conferme storiche la tesi che ne fissa la diffusione nel Medioevo, a opera degli Zingari. Come del resto è molto dubbia la loro supposta nascita in ambienti cabalistici, in India, in Cina, in Marocco e tra le schiere dei Templari. Qual è la verità allora? La storia dei tarocchi è stata in parte scritta con attendibilità da studi soprattutto italiani.

Appannaggio degli ambienti di corte

Le prime tracce non vanno cercate in latitudini esotiche, talvolta al limite del fiabesco. Ma sorprendentemente a casa nostra, nelle sontuose corti di Milano e Ferrara del XV secolo. In quegli ambienti d’élite, nei mazzi tradizionali con i semi, si materializzarono altre carte, con figure allegoriche misteriose.

18

DOSSIER CROCIATE


Il gioco dei tarocchi. Affresco attribuito al Maestro dei Giochi, in stile gotico internazionale. 1440-1450. Milano, Palazzo Borromeo. L’opera faceva parte di un ciclo pittorico raffigurante i passatempi piú in voga nella Milano del Quattrocento. Nella pagina accanto, in basso tarocchi raffiguranti due versioni del Fante di Denari (a sinistra e al centro) e il Mondo (a destra). La prima appartiene al mazzo Brera-Brambilla (metà del XV sec.), le altre due al mazzo Visconti-Sforza (o Colleoni; seconda metà del XV sec.).

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

19


DIVINAZIONE

Tarocchi

Il Basso Medioevo dell’aristocrazia milanese era un grande tavolo da gioco. Non si contavano tra le sue fila gli appassionati a caccia di emozioni sempre piú forti e di novità. Un giorno quei nobili si stancarono delle carte tradizionali in circolazione all’inizio del Quattrocento. Per questa esigenza, ma anche per uno snobistico vezzo di erudizione, cominciarono a usare il cosiddetto «Mazzo degli Dèi», commissionato dal duca di Milano Filippo Maria Visconti (1392-1477) al pittore Michelino da Besozzo. È il 1415. L’aristocratico non bada a spese per regalarsi queste carte un po’ bizzarre, sborsando, sembra, ben 1500 ducati, una cifra corrispondente al valore di una villa esclusiva dei giorni d’oggi. Nel mazzo appaiono 16 nuove figure, tutte ispirate a divinità classiche, e divise nelle categorie della Virtú, della Ricchezza, della Castità e del Piacere. Si tratta di una prima svolta. Durante le partite non si bada solo ai punti da accumulare, ma anche alle possibili allegorie che ogni figura evoca. Metaforicamente gli dèi si sfidavano per far prevalere il proprio valore di riferimento. Castità contro Piacere. Virtú contro Ricchezza. E cosí via. Siamo all’origine del gioco dei «trionfi», la vecchia denominazione dei tarocchi. La storia seguente non cambia sce-

20

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

UN VARIOPINTO UNIVERSO DI SIMBOLI Nei mazzi dei Visconti il Bagatto era un prestigiatore, poi divenne un piú serio operatore dell’occulto. L’8 rovesciato sopra la sua testa è simbolo dell’infinito. I suoi strumenti, la bacchetta magica, la coppa, la spada e i dadi (o le monete) rappresentano i 4 elementi primordiali, il Fuoco, l’Acqua, l’Aria e la Terra. La carta, nella pratica divinatoria, è abbastanza positiva e indica l’abilità creativa di trasformare o manipolare gli eventi in senso fausto con una dose di furbizia. La Papessa medievale è vestita in modo umile, quasi come una monaca. In quel periodo la carta portava un altro nome, la Fede. Nel corso dei secoli l’immagine della donna ha assunto un aspetto regale. È una carta positiva e fa riferimento alla conoscenza femminile, l’affermazione dell’interiorità, piú improntata alla riflessione che al puro intuito. Ma indica anche la realizzazione di obiettivi attraverso la pazienza e la perseveranza. La carta dell’Imperatrice ha mantenuto le sue caratteristiche medievali. Simboleggia l’ambizione, l’intelligenza, il senso pratico e la produttività. Può indicare avvenimenti importanti in corso di maturazione in grado di dare sicurezza. L’Imperatore nel periodo visconteo appariva in posizione frontale, con il globo nella mano

I giocatori non badano solo ai punti, ma anche alle allegorie che ogni carta è in grado di evocare


sinistra e una verga nella destra. Nei secoli successivi, di profilo. Evoca il dominio sulle cose materiali, la ricchezza o sottomissione. Ma potrebbe anche segnalare una persona potente che ostacola i piani. Una carta piú positiva per gli uomini e meno per le donne. Il Papa, anche nei mazzi medievali, porta la tiara e in alcuni casi una croce astile. La carta indica rispettabilità, buon senso, legalità, alti valori morali, e consigli disinteressati. Nel campo sentimentale può preconizzare un rapporto profondo con solide radici spirituali. Nella carta degli Amanti, fin dalle origini Cupido è in agguato, pronto a scagliare la freccia verso una o piú coppie. Allora come ora il significato generale riporta al concetto dell’unione fisica, delle tentazioni. Ma possiede sfumature sia positive che negative. Può predire anche una difficile scelta in campo amoroso e un animo tormentato. Il Carro, nel periodo dei Visconti, era trainato da due cavalli alati e guidato da una donna. In seguito la figura divenne maschile. Simboleggia la capacità di percorrere un tragitto pieno di ostacoli con la padronanza degli eventi. Come carta è estremamente positiva, essendo sinonimo di trionfo, forza morale, viaggi fortunati.

nografia e procede ancora tra i palazzi della stessa corte milanese. Anche il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, non poteva fare a meno delle carte. Un vizio di famiglia comune al padre, il ben piú noto Gian Galeazzo (13511402), e pure alla sorella Valentina, che non riuscí a separarsi da un mazzo di «carte di Lombardia» nemmeno nel giorno del suo matrimonio con Luigi di Turenna nel 1389.

se processioni organizzate dai nobili nell’atto del loro insediamento al potere. Un’ipotesi piú colta, infine, suggerisce che la parola, invece, derivi direttamente dai Trionfi di Francesco Petrarca, con i quali il poeta celebrò quelle virtú umane degne di una dimensione divina. Ma torniamo al duca di Milano, un personaggio paranoico, un po’ cinico e anche ipocondriaco. Politicamente però sapeva il fatto suo, nonostante un’incurabile superstizione lo portasse a governare in base a consigli astrologici. C’è la sua firma sul mazzo italiano piú antico di trionfi, il Visconti di Modrone, oggi custodito nella biblioteca dell’Università di Yale, negli Stati Uniti. Sono 66 splendide carte, dipinte a mano e ricoperte da una lamina d’oro, con impressi alcuni inequivocabili segni che riconducono alla nobile famiglia lombarda: i motti A bon droyt («A buon diritto») e Phote mante («Bisogna mantenere»), oltre al classico «biscione» e alla corona con i rami di alloro e di palma.

Nemico del gioco d’azzardo

Filippo Maria era però un giocatore all’antica e nemico delle pratiche d’azzardo che in quegli anni impazzavano un po’ ovunque. Nel 1420 emanò al riguardo un editto per limitare tutte quelle forme spregiudicate di gioco in cui lievitava in modo eccessivo l’incidenza del caso. Le «bische» medievali preoccupavano infatti i governanti, alle orecchie dei quali erano giunte voci su partite con in palio cospicui montepremi, disputate a suon di bestemmie e aperte anche alle donne. Proprio allora nascono i trionfi. Il significato di questa denominazione non è mai stato chiarito del tutto. Potrebbe riferirsi al fatto che queste carte molto accattivanti valevano piú delle altre nel gioco. Ma sembra plausibile anche la connessione con i carri allegorici delle manifestazioni carnevalesche medievali o con le sontuoNella pagina accanto Luca da Leida, La cartomante. Olio su tavola, 1508 circa. Parigi, Museo del Louvre. A destra carte della Luna e del Fante di Denari, dal Mazzo Visconti-Sforza o Colleoni. Seconda metà del XV sec.

Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia di Carrara. Composto da 74 carte e realizzato dal pittore e miniatore cremonese Bonifacio Bembo, si tratta del mazzo quattrocentesco piú completo a oggi conosciuto.

L’EPOPEA DEL CID CAMPEADOR Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci collinari declinandoli nelle infinite sfumature di verde, con un occhio di riguardo per i valori lirici e romantici. Partendo da un disegno realizzato dal vero, gli artisti si accostano talvolta al gusto pittoresco, per dipingere opere che incontrano il favore del mercato. Tra quanti hanno immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

21


DIVINAZIONE

Tarocchi

FIGURE E MONITI GIUSTIZIA

La Giustizia è rimasta quasi inalterata dal Medioevo a oggi, con l’immagine di una donna che tiene una bilancia con la mano sinistra e la spada con la destra. Nei mazzi Visconti compariva anche un cavaliere. In senso piú astratto si riferisce all’equità, alla virtú e a un equilibrio ritrovato, ma dal punto di vista divinatorio può significare un momento della vita in cui si prendono decisioni difficili.

Richiamano gli aristocratici milanesi anche le incisioni del fiorino visconteo su tutte le carte di danari: un elemento decisivo per stabilire anche la loro data di nascita, tra il 1442 e il 1447, all’epoca in cui quella moneta era in corso nel ducato. Nel mazzo compaiono alcune figure tipiche di quelli che poi diventeranno gli arcani maggiori dei tarocchi: l’Imperatore, l’Imperatrice, il Carro, la Fortezza, la Morte, il Mondo e gli Amanti, insieme ad altre scomparse con il passare degli anni, come la Speranza e la Carità. La carta degli Amanti in questo storico mazzo è oggetto tuttora di una disputa sull’identità degli sposi raffigurati. In molti hanno riconosciuto le fisionomie di Filippo Maria Visconti e di Maria di Savoia, convolati a nozze nel 1428. Ma a una analisi piú attenta sorgono molte perplessità, visto che, quando la carta venne concepita (tra il 1442 e il 1447), il duca aveva abbandonato da tempo la moglie. Un’altra controversa identificazione chiama in causa la carta dell’Imperatore, ritenuta un ritratto fedele di Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437), che conferí a Filippo Maria il titolo di duca nel 1426. Ne conseguirebbe un’automatica associazione tra la carta dell’Imperatrice e l’inquietante moglie di Sigismondo, Barbara von Cilli, la nota «Messalina tedesca» che la leggenda dipinge come una sorta di vampiro.

Dai trionfi all’inquietudine

Il mazzo quattrocentesco piú completo è il cosiddetto «Visconti-Sforza» o «Colleoni», composto da 74 carte e realizzato dal pittore e miniatore cremonese Bonifacio Bembo. Siamo nel 1450. La rosa delle figure allegoriche si avvicina ancora di piú allo schema dei moderni arcani maggiori dei tarocchi. Alla precedente lista si aggiungono infatti l’Appeso, l’Eremita, il Papa e la Papessa (ex Fede). All’appello quindi mancano solo il Diavolo, anch’esso poi inserito nel mazzo ma in epoca moderna, e la Torre. Cambiano un po’ anche le espressioni e le atmosfere: si attenua l’aspetto trionfale ed emerge l’inquietudine relativa ai temi religiosi. 22

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

L’EREMITA

L’Eremita nei mazzi medievali è il vecchio saggio con la barba, appoggiato a un bastone, che porta in mano una clessidra, poi sostituita da una lanterna. È vestito come un mendicante e rappresenta la saggezza, la chiusura in se stessi nella ricerca della verità. Come carta divinatoria non è negativa, in quanto indica ponderatezza, prudenza e un percorso che porta verso una maggior serenità d’animo.

LA RUOTA DELLA FORTUNA

La Ruota della Fortuna era anticamente sorretta da un anziano e occupata da due persone. In seguito il vecchio scompare, mentre due animali si sistemano sugli ingranaggi della ruota. Esprime precarietà, in sostanza il rischio e quindi un futuro orientato verso l’incognita e l’avventura un po’ sventata.


LA FORZA

La carta della Forza nel Quattrocento vedeva protagonista una specie di Ercole, nell’atto di bastonare un leone. Oggi è raffigurata una donna mentre tiene la bocca aperta alla bestia, come metafora di risolutezza, coraggio e capacità di dominare le passioni attraverso l’intelligenza, la fiducia in se stessi e il magnetismo.

LA TEMPERANZA

La Temperanza non è molto cambiata nel tempo: una figura femminile alata mescola due liquidi utilizzando due vasi. Il significato è la ricerca di nuovi equilibri attraverso una compensazione di elementi non omogenei. Come carta divinatoria indica pazienza e ragionevolezza, quindi un’evoluzione positiva verso obiettivi di discreta entità.

L’APPESO

L’Appeso a testa in giú è immagine tipica di un supplizio medievale. Anticamente si chiamava «il Traditore» e stringeva nelle mani sacchi di monete. La sua espressione non è mai apparsa sofferente, in quanto la carta presagisce un’espiazione che conduce verso un periodo migliore.

LA MORTE

La Morte non rappresenta la carta peggiore. In alcuni mazzi medievali è sguarnita della falce, impugnando un arco, e in seguito appare anche sul dorso di un cavallo bianco.

Ma generalmente si presenta in piedi con la falce appoggiata a terra. Il significato piú comune viene identificato nella trasformazione radicale o nella fine di un ciclo.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

23


DIVINAZIONE

Tarocchi A destra il Matto. Carta del Mazzo Visconti-Sforza o Colleoni. Seconda metà del XV sec. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia di Carrara.

Qui sopra carta del Fante di Denari, con fondale punzonato in argento e figura in lamina d’oro, opera di Bonifacio Bembo, dal Mazzo Brera-Brambilla. Metà del XV sec. Milano, Pinacoteca di Brera. 24

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Una delle carte piú celebri del mazzo è la Papessa, raffigurata con un saio monastico e una tiara. In lei qualcuno ha riconosciuto il volto di Manfreda Visconti da Pirovano, eletta pontefice dalla setta religiosa nella quale militava e per questo condannata al rogo nel 1300. Si presenta invece effigiata in abiti cardinalizi la Morte, nella sua carta corrispondente. Come a testimoniare i rapporti conflittuali tra la famiglia Visconti e il Papato, che erano tornati però amichevoli qualche anno prima della comparsa della carta. Un’ulteriore traccia sull’origine italiana dei tarocchi conduce piú a sud di Milano, a Ferrara,


altro luogo in cui, nel Quattrocento, esplode la mania dei giochi di carte. Già nel 1423, in una epistola, si fa riferimento alle «Carte da VIII imperadori», di proprietà di Parisina Malatesta (1404-1425), moglie del signore della città. E nel capoluogo emiliano si trova citato ufficialmente per la prima volta, nel 1442, il termine «trionfi», piú o meno nello stesso periodo in cui fu prodotto il Mazzo Visconti di Modrone.

Boiardo, che fornisce quattro varianti. Tra queste la piú elementare è il classico «gioco a risposta», ovvero prevale chi butta la carta con il valore maggiore dello stesso seme. Una modalità di prese simile al tressette, alla briscola, e, in qualche modo, al bridge, con i trionfi ad agire da carichi, da atout. La carta del Matto, tradizionalmente senza numero, era considerata una sorta di jolly. Il vincitore, alla fine, oltre a onori e danari, sembrava poter pretendere anche scabrose soddisfazioni «in natura». Resta da stabilire quali fossero i trionfi che nel gioco valevano di piú. Le carte del Mantegna, realizzate nel 1456 a Ferrara o in un imprecisato luogo del Veneto, forniscono in un certo senso una risposta. La gerarchia, partendo dal gradino piú basso, era cosí composta: condizioni umane, Apollo con le Muse, Arti liberali, principi cosmici insieme alle virtú e sfere celesti. Al gruppo piú povero in termini di punti appartenevano per esempio il Matto o Misero, l’Imperatore e il Papa. Ai livelli superiori erano posizionate la Giustizia, la Temperanza e la Fortezza. Mentre in cima si trovavano il Sole e la Luna. La lotta simbolo del Medioevo tra Chiesa e Impero, almeno in questi particolari trionfi, era una battaglia di retroguardia tra le quasi scartine dell’Imperatore e del Papa. Con un epilogo a favore del potere spirituale.

La «capitale» dei tarocchi

Ferrara o Milano allora? A chi spetta la primogenitura sulle figure antesignane dei tarocchi? Si tende ad assegnarla alla metropoli meneghina per il fatto che le sue carte medievali sono sopravvissute. Al contrario della produzione ferrarese di quegli anni, della quale non resta nulla, anche se si deduce abbia dato particolare lustro ad alcune figure zodiacali nei suoi mazzi: il Sole, la Luna, le Stelle, soggetti che riflettono un’epoca di grande interesse per la cultura astrologica. Non a caso, un altro grande appassionato di pianeti era proprio Leonello d’Este (1407-1450), signore della città, anch’egli con una tradizione di giocatori in famiglia. Ai suoi tempi, a Ferrara, i trionfi avevano un mercato piú diffuso rispetto a Milano, dato che era possibile trovarli in merceria, come risulta dall’acquisto di due mazzi destinati ai fratelli di Leonello, Ercole e Sigismondo. È accertato comunque che, dopo il 1450, Ferrara assunse il ruolo di capitale dei futuri tarocchi, specie dopo l’avvento al potere di Borso d’Este (1413-1471), l’ennesimo aristocratico un po’ dispotico e bizzarro, con un debole per il tavolo da gioco. Presso la sua corte, nel 1454, il nobile mise in piedi un vero e proprio laboratorio specializzato per la realizzazione di mazzi di vario genere, affidandone la direzione a un uomo di Chiesa, don Domenico detto Messore. I primi trionfi ferraresi di cui sia rimasta traccia risalgono al 1470. I piú noti, dal nome controverso, sono incompleti e ammontano a 17 carte, oggi conservate nella Biblioteca nazionale di Parigi. Dalla Lombardia e dall’Emilia i trionfi si diffondono nel resto d’Italia, con regole però non molto definite. Ma come si giocava? Poco si riesce a ricavare da documenti ufficiali dell’epoca. Mentre qualche dettaglio sulle varie tecniche si trova contenuto nell’operetta del 1461 Cinque capituli sopra el timore, zelosia, speranza, amore et un Triompho del mondo di Matteo Maria

Enciclopedismo e allegorismo

Ducato in oro di Filippo Maria Visconti. 1412-47. Nel 1415, il duca di Milano aveva commissionato al pittore Michelino da Besozzo una serie di carte, nota come «Mazzo degli Dèi», che comprendeva 16 nuove figure, tutte ispirate a divinità classiche, e divise nelle categorie della Virtú, della Ricchezza, della Castità e del Piacere. Tale creazione, che ebbe grande successo negli ambienti aristocratici, è con ogni probabilità all’origine della diffusione dei tarocchi.

Questo mazzo, attribuito erroneamente al pittore Andrea Mantegna, non era solo uno strumento di gioco. Ma apparteneva a tutti gli effetti a quella produzione culturale del XV secolo che intendeva diffondere il sapere attraverso due principali tecniche divulgative: l’enciclopedismo e l’allegorismo. Insegnare e nello stesso tempo educare, in virtú dell’interpretazione morale dei simboli. In armonia anche con quell’Umanesimo quattrocentesco di marca neoplatonica, con il suo ordinare lo scibile in una gerarchia di livelli, che prevedeva Dio al vertice. Progressivamente i trionfi si democratizzano. Da passatempo delle corti aristocratiche diventano una mania popolare, grazie anche al fatto che non erano stati inclusi nella «lista nera» del gioco d’azzardo. Per gli appassionati cattolici, però, si profila un conflitto di coscienza. Diversi religiosi infatti tuonano contro il nuovo gioco, sulla scia della vibrante condanna di dadi, carte e naibi (mazzi di origine araba) espressa da san Bernardino da Siena nel 1423. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

25


DIVINAZIONE

Tarocchi

TUTTE LE SFUMATURE DEL BENE E DEL MALE Il Diavolo si manifesta quasi sempre come metà uomo e metà capra. Accanto a lui si trovano due dannati. Anche nelle raffigurazioni moderne accanto a un demonio ermafrodito ci sono un uomo e una donna legati con una corda. La carta simboleggia il non avere vie d’uscita, il subire costrizioni e l’irrompere di una passione morbosa. La Torre in alcuni mazzi rinascimentali era semplicemente «il Fuoco» o «la Casa del diavolo» e si presentava in fiamme dopo essere stata centrata da una saetta. Secoli piú tardi la torre appare distrutta proprio nel momento in cui è colpita dal fulmine. Il suo responso divinatorio è molto negativo. Superbia e presunzione sono puniti. Preannuncia attriti e delusioni. La Stella era in origine rappresentata da una donna con una stella in mano. Dopo il Rinascimento la figura si presenta in riva a un ruscello con due damigiane, mentre le stelle sono in cielo. È la carta della speranza, della coscienza cosmica, dell’attesa e del gusto per l’estetica. Indica un periodo di riscoperta di desideri alti e una buona prospettiva. La Luna è simbolo di un principio in costante cambiamento. Nel mazzo dei Visconti del 1450 si nota una donna con la luna nella mano destra e con il cordone attorcigliato della cintura nella mano sinistra. La luna è in cielo, come poi rimarrà in seguito, a irradiare il paesaggio sottostante costituto da due cani che latrano e da un gambero fuoriuscito dall’acqua. Ha piú sfumature negative che positive nella divinazione in quanto predice illusioni, inquietudini, difficoltà a trovare un equilibrio. La carta del Sole era diversa nei primi mazzi medievali. Appariva un Cupido sulle nuvole con nelle mani un sole dall’aspetto di una testa umana. In seguito il sole splende in cielo e illumina due gemelli, due innamorati o un bambino sopra un cavallo bianco. Evoca la libertà, la rinascita di prospettive nella vita, come in un ritorno all’infanzia e predice felicità, altruismo, vigoria, appagamento interiore. La carta del Giudizio simboleggia il destino in rapporto al tempo vissuto, che serve da ammonimento. Dio fa capolino tra le nuvole in mezzo a due angeli che suonano le trombe del giudizio. Mentre dalla terra i morti resuscitano. Cosí era anche nel Medioevo. Nella divinazione indica la maturità e un miglioramento nelle condizioni di salute. In linea di massima è una carta positiva. La carta medievale del Mondo raffigurava due putti che sostengono un cerchio con all’interno una città. Qualche secolo dopo comparvero i simboli dei 4 Evangelisti: angelo (Matteo), leone (Marco), toro (Luca) e aquila (Giovanni). Al centro restò il cerchio, ma senza putti e città, sostituiti da una figura di donna. Il significato della carta è l’energia creatrice dell’universo che si rigenera. Predice ottime prospettive nella vita, un nuovo inizio che porta alla realizzazione completa anche se con evoluzione lenta.

In alto il Mondo, dal Mazzo Visconti-Sforza o Colleoni. XV sec. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia di Carrara. La carta mostra la Gerusalemme Celeste all’interno di un tondo sorretto da due putti. 26

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Anche i trionfi vengono messi all’indice dai predicatori, che li definiscono un’invenzione del diavolo e un travisamento dei valori cristiani. Piú o meno la stessa condanna che i tarocchi moderni subiranno dalla Chiesa ufficiale. Ma la campagna proibizionista contro le carte fallisce miseramente, anche se portata avanti dagli emissari di Dio in terra. Tutti continuano a giocare: nobili, popolani, credenti, atei e probabilmente anche qualche ecclesiastico. Siamo alla fine del Quattrocento. Sta per tra-

montare un’era. Il gioco con le figure allegoriche da lí a poco cambierà di fatto nome e si chiamerà «tarocchi», termine da alcuni storici interpretato solo in senso dispregiativo. Comparirà per la prima volta nel Registro di Guardaroba del duca di Ferrara Alfonso I d’Este (1476-1534) nel 1516.

Il «sentiero del re»

Anche sull’origine di questa parola il mistero è abbastanza fitto. Molte tesi occultiste non convincono, come quella che individua l’etimologia nelle espressioni egiziane tar e rog, che unite significherebbero «sentiero del re». Non molto credibili sembrano anche i collegamenti semantici con la Torah, la legge rabbinica, e la Tariqah sufista, il «sentiero della fede». Sembra invece piú verosimile l’ipotesi che tira in ballo l’antico verbo italiano altarcare, cioè «discutere» e «litigare», un’espressione usata nel Medioevo con relazione al gioco «nel senso di rispondere con una carta potente», come risulta specificato nel dizionario Devoto-Oli. A partire dal XVI secolo, però, sono diversi i casi in cui la parola «tarocco» assume invece un significato totalmente negativo, come sinonimo di «stupidità», «falsità» o «truffa».


Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Particolare degli affreschi che illustrano il mese di Aprile, attribuiti a Francesco Del Còssa

(1435 circa-1477 o 1478). Al centro del gruppo è Borso d’Este, che, grande apassionato del gioco, promosse la diffusione dei tarocchi. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

27


DIVINAZIONE

Tarocchi

La carta dell’Imperatore, dal Mazzo Brera-Brambilla. Metà del XV sec. Milano, Pinacoteca di Brera. Nel periodo visconteo il sovrano appare in posizione frontale, con il globo nella mano sinistra e una verga nella destra. Evoca il dominio sulle cose materiali, la ricchezza o sottomissione. Ma potrebbe anche segnalare una persona potente, che ostacola i piani.

Si è fatta strada molto timidamente anche la congettura su una derivazione del termine dall’omonimo genere di arance, i tarocchi siciliani. Le carte sarebbero giunte nell’isola dai Paesi arabi. E siccome erano rivestite di sottili foglie d’oro in rilievo, apparivano somiglianti alla superficie ruvida dell’agrume. Nel Cinquecento esplode una sorta di disputa tra i fautori dei tarocchi e i loro nemici. Il poeta toscano Francesco Berni, nel Capitolo del gioco della Primiera, del 1526, bolla i vecchi trionfi come qualcosa di noioso e li definisce un passatempo per calzolai. Un altro affondo ancora piú diretto è contenuto nell’Invettiva di Flavio Alberto Lolli ferrarese contra il giuoco del tarocco, del 1550, nel quale il poeta emiliano si dichiara un pentito ex appassionato. Le risposte degli avversari non tardano a manifestarsi. Prima fra 28

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

tutte la controinvettiva di un altro poeta, Vincenzo Imperiali, che accusa il collega di essere una sorta di amante tradito dei tarocchi, pieno di risentimento solo perché gli avevano fatto perdere una montagna di soldi.

Le novità di Bologna e Firenze

Dal XVI secolo Bologna guadagna posizioni nella classifica delle città del gioco, specie dei vecchi trionfi. Balza agli onori soprattutto per l’innovazione apportata ai mazzi tradizionali, sfoltiti da 78 a 62 carte, eliminando i numeri da 2 a 5 per ciascun seme. Nasce cosí il «tarocchino bolognese», adottato presumibilmente per rendere piú snello il gioco e per diffondere le carte anche tra i ceti popolari. Lo dimostrerebbero i pochi mazzi di lusso, e la gran quantità invece di esemplari piú economici in stampa


xilografica prodotti in quel periodo nella città felsinea. A Firenze, invece, si manifesta una tendenza opposta, almeno per quel che concerne i futuri arcani maggiori. Nei mazzi toscani, infatti, risultano raddoppiati di numero, da 22 a 41, con l’aggiunta di 12 segni zodiacali, 4 elementi, le 3 virtú teologali e la Prudenza. Le nuove carte, complessivamente, toccano il numero record di 97 e prendono il nome un po’ stravagante di «minchiate», espressione triviale in linea con il crescente giudizio negativo che allora stava montando contro i tarocchi. Ma il termine potrebbe anche derivare dal verbo «sminchiare», usato in gergo a Bologna nel corso delle partite agli inizi del Rinascimento. Indicava lo scartare un carico.

La svolta verso la divinazione

La rivoluzione in senso divinatorio e occultista dei tarocchi ha come teatro la Francia. L’Italia, però, è di nuovo una sorta di anticamera del cambiamento. La prima prova dell’utilizzo delle carte per prevedere il futuro non trova posto nelle pagine dei classici esoterici stranieri del Cinquecento, ma nello sconosciuto saggio Le Sorti, del forlivese Francesco Marcolino, sempre risalente al XVI secolo. Recentemente recuperato dalla Fondazione Benetton, descrive un metodo di divinazione con 36 carte. Una testimonianza, seppur solo letteraria, sulla cartomanzia praticata proprio con i tarocchi proviene invece dal romanzo Il caos del Triperuno, opera anch’essa cinquecentesca scritta da Teofilo Folengo. Nel corso della narrazione, il personaggio Limerno deve fornire in versi una sua previsione del futuro con le carte dei trionfi. Ma il vero boom della cartomanzia si ebbe due secoli dopo, a Parigi. Siamo verso la fine del Settecento, e il professore di algebra JeanBaptiste Alliette, detto «Etteilla», mette a punto una tecnica divinatoria con i tarocchi a tre livelli: mondo spirituale, moralità e sfera materiale del soggetto. Una delle caratteristiche distintive del suo sistema di previsione del futuro è il valutare diversamente una carta se nel prospetto capita al dritto o al rovescio. La fama del matematico parigino come pioniere cartomante cresce al punto da attirarsi anche un po’ di invidie. Qualcuno, per denigrarlo, fa circolare la voce che sia un parrucchiere con goffe pretese di esercitare la chiaroveggenza. Probabilmente l’unico suo legame con le messe in piega deriva dal fatto che aveva soggiornato in un palazzo chiamato «la Casa del parruccaio». Nel saggio Manière de se récréer avec le jeu de cartes (1770), Etteilla rispolvera una tesi già formulata dal pastore protestante Antoine Court de Gébelin: i tarocchi nascondono i segreti del fantomatico Libro di Thot. Ma aggiunge

una rivelazione sconvolgente: il volume fu scritto 171 giorni dopo il Diluvio Universale, in seguito a una riunione di maghi presieduta da Ermete Trismegisto. Il testo sacro fu poi inciso su lamine d’oro e posto intorno al fuoco del tempio di Menfi. Il Medioevo e i suoi trionfi avrebbero poi stravolto l’aspetto delle carte. Nell’Ottocento la pratica dei tarocchi si allontana dalla versione ludica medievale e da quella divinatoria del secolo precedente. Viene compiuto un salto di qualità che spalanca le porte, attraverso la conoscenza delle carte, a un’ascesa verso una dimensione sovrannaturale. Il nuovo corso è illustrato in una delle «bibbie» occultiste, Dogme et Rituel de la Haute Magie (1854) dell’ex seminarista Éliphas Lévi (18101875), testo che formula il tentativo di unificare l’esoterismo in un sistema organico con cui ottenere appunto una trasmutazione interiore. Ma per l’adepto il percorso iniziatico è lungo e prevede 22 stazioni, lo stesso numero degli arcani maggiori. Ogni tappa infatti ha una cifra corrispondente a una lettera ebraica, a una car-

Sul finire del Settecento la cartomanzia si diffonde a macchia d’olio grazie a un matematico parigino ta dei tarocchi e a un motto latino che descrive il livello spirituale raggiunto. In fondo a questo itinerario si profila lo svelamento dei segreti della Kabbalah. Sulla stessa linea si pone l’opera del francese Paul Christian. Nel suo Histoire de la Magie (1870), descrive un rito di iniziazione egizia che si sarebbe svolto all’interno della piramide di Cheope. Chi era ammesso alla cerimonia veniva istruito all’interpretazione degli arcani dei tarocchi, impressi in alcune pitture. Una volta in possesso delle chiavi per decifrare le figure simboliche, poteva compiere il passaggio a una dimensione superiore. Dal Medioevo a oggi, la storia dei tarocchi ha serpeggiato un po’ ovunque e il fascino di queste carte misteriose è risultato spesso irresistibile, attirando masse di curiosi in tutto il mondo. Ma quello stesso magnetismo, proprio di ogni pratica dell’occulto, ha mostrato anche il suo lato piú oscuro. Quello che pure un navigato esoterista come l’inglese Kenneth Mackenzie scoprí nell’Ottocento. Un giorno scrisse di aver paura a comunicare il suo sistema di tarocchi, perché poteva «diventare un’arma pericolosa nelle mani di gente meno scrupolosa di me». ASTRI, SPIRITI E MAGIE

29


NECROMANZIA 30

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Oltre la morte


Un uomo risorge dalla terra, particolare del Polittico del Giudizio Universale di Rogier van der Weyden. 1443-1451. Beaune, Hôtel-Dieu.

Già in Mesopotamia e nell’antica Grecia era diffusa l’usanza di evocare i defunti nel tentativo di conoscere il proprio futuro. Furono quelle le prime testimonianze della necromanzia, una tradizione dalla quale derivarono pratiche magiche che ebbero grande successo in età medievale e di cui ancora oggi esistono significative sopravvivenze

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

31


NECROMANZIA

L’evocazione dei defunti

I

l rapporto diretto con i defunti ha un ruolo rilevante nella storia della magia. La necromanzia nacque come arte del parlare con le entità dell’oltretomba allo scopo di predire eventi futuri e solo nel Medioevo si trasformò in una pratica assimilabile alla magia nera. Per questa sua particolare ambivalenza essa occupa una posizione intermedia tra la pura scienza divinatoria e la stregoneria. Nell’antichità una delle prime testimonianze sull’evocazione dei morti si rintraccia nel poema sumerico Gilgamesh (giunto a noi in redazioni diverse, le piú antiche delle quali risalgono al III millennio a.C.): il protagonista consulta lo spirito dell’amico Enkidu per avere informazioni sul futuro. Simili tracce si trovano negli ebraici Libri di Samuele con il racconto della vicenda del re Saul, costretto a consultare una necromante a Endor al fine di ottenere consigli militari per la battaglia contro i Filistei. Anche in Grecia la credenza sul possibile contatto tra vivi e morti era molto sentita e non solo a livello popolare. I filosofi Aristotele e Democrito la condividevano, come del resto Socrate che credeva di essere seguito costantemente da un demone familiare. Omero, poi, fa evocare i morti a Ulisse nell’Odissea: seguendo un rito indicatogli dalla maga Circe, Ulisse riesce a stabilire un contatto con il defunto indovino Tiresia che gli predice il futuro. In Tessaglia – come raccontato dal poeta Lucano – viveva, inoltre, una maga, Erichto, capace di far rivivere i morti ai quali chiedeva rivelazioni da veggenti. La stessa maga compare nella Divina Commedia e viene accusata da Dante di aver provocato la caduta di Virgilio nell’Inferno. Alcuni papiri egizi, come la Storia di Setna Khamuas e le Lettere ai morti, descrivono riti per mettersi in contatto con i defunti al fine di conoscere il futuro. Mentre a Roma le famiglie ritenevano di essere protette dagli spiriti dei loro antenati (i cosiddetti Lari). La tradizione ebraica, invece, censurava ogni forma di evocazione degli spiriti stabilendo pene durissime per i praticanti: la legge mosaica prevedeva, in proposito, la condanna a morte per i colpevoli. Nell’Età di Mezzo, con la diffusione del cristianesimo, l’evocazione delle anime dell’aldilà fu duramente contrastata perché contraria al precetto secondo il quale solo a Dio spettava il compito di far resuscitare i defunti. Gli spiriti evocati venivano, pertanto, considerati demoni e la necromanzia un’attività stregonesca, nonostante il presunto interesse per la materia da parte di illustri membri del clero. Con il tempo si verificò anche un cambiamento lessicale del termine necromanzia che, in modo significativo, divenne «negromanzia» mettendo in risalto l’aspetto tenebroso della pratica. I riti avvenivano al calare del buio e spesso nel corso della notte di Natale, caratterizzandosi come pratiche oltraggiose nei confronti dei simboli cristiani. Lo spiritismo vero e proprio, con al centro l’operatore-medium che in stato di incoscienza entra in contatto con i morti, è invece una creazione moderna. Risale infatti al 1857, anno in cui il pedagogista francese Allan Kardec pubblicò il celebre e discusso Libro degli spiriti.

32

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Capolettera miniato raffigurante il cerchio magico e la pratica di alcuni riti, da un’edizione manoscritta della Storia Naturale di Plinio il Vecchio. 1481. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.


LA SECONDA VITA DEI TRAPASSATI

di Francesco Colotta

N

el Medioevo era molto diffusa la convinzione che i defunti potessero in qualche modo influire sul destino dei vivi. La credenza si fondava sulle innumerevoli tradizioni del tempo antico gravitanti attorno al criptico concetto di «necromanzia». La parola, in origine, derivava dalla fusione di due espressione greche, manteia («predizio-

ne») e nekros («morto»), indicando un’arte occulta soltanto di tipo divinatorio e perciò lontana dal significato demoniaco che le venne assegnato nell’Età di Mezzo. Fin dall’epoca dei Persiani il termine si riferiva a una particolare forma di previsione del futuro operata attraverso un contatto con l’aldilà: lo spirito di un morto, evocato, forniva indicazioni

Incisione raffigurante Saul che cade atterrito di fronte allo spirito di Samuele, evocato, su sua richiesta, dalla strega di Endor (a destra), famosa negromante. 1860.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

33


NECROMANZIA

34

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

L’evocazione dei defunti


Incisione raffigurante il dottor Faust all’interno di un cerchio magico e, sulla destra, il barboncino nero che sta per trasformarsi nel diavolo, da un’edizione del 1636 della Tragical History of Doctor Faustus di Christopher Marlowe, scritta tra il 1588 e il 1589. sull’avvenire e, talvolta, chiarimenti su una situazione del presente. Varianti sull’etimologia del termine posero, in seguito, le basi per lo stravolgimento del significato di questa disciplina occulta, associando al termine manteia il vocabolo latino niger («nero, oscuro»). Fu agevole, di conseguenza, l’identificazione tout court con una pratica legata a culti diabolici. Una variante non solo semantica è, invece, rappresentata dall’espressione «nechiomanzia», che si riferisce alle procedure volte a trarre vaticini dal processo di putrefazione del cadavere e dagli oggetti a lui appartenuti.

Le prime testimonianze

Una lettera paleoassira, risalente al 1800 a.C., testimonia lo svolgimento di un rito di evocazione degli spiriti per ottenere informazioni sul dio Assur. Nell’antico Egitto, addirittura, questa pratica occulta si estese anche agli animali, i cui corpi imbalsamati divennero oggetto di consultazioni. Nell’età antica l’interrogare i defunti a fini divinatori era considerato un atto lecito se patrocinato dalla religione ufficiale. Risultava in ogni caso sacrilego, invece, nell’ambito della tradizione giudaico-cristiana, che avversava qualsiasi usanza di tipo pagano e riteneva Dio il solo depositario di doti sovrannaturali. Il caso della strega di Endor, consultata dal re Saul per poter sconfiggere i propri nemici, viene descritto nei Libri di Samuele come un evento anomalo, una tentazione nella quale il sovrano cade e che poi si rivelerà un tranello. La messa al bando dell’evocazione dei morti, però, non sradicò la consuetudine di rivolgersi al mondo dell’oltretomba per avere rassicurazioni sul futuro. Spesso questo tipo particolare di pratica divinatoria si fondeva con le abitudini connesse al culto privato dei defunti ed esprimeva una radicata forma di sentimento civile difficile da sradicare. Anche in ambito pagano, comunque, la necromanzia era spesso mal tollerata, e cosí nella Grecia antica, che pure vantava una consolidata tradizione oracolare riferita ai defunti, soprattutto se eroi. Nell’Odissea, la celebre nekya («evocazione dei morti») di Ulisse nell’Ade che interroga lo spirito dell’indovino Tiresia offrendogli sangue di pecora, si presenta come un atto non proprio libero ma necessario e, in un certo senso, fastidioso perché imposto dalle (segue a p. 38) ASTRI, SPIRITI E MAGIE

35


NECROMANZIA

L’evocazione dei defunti

UN FENOMENO SENZA CONFINI La sinistra attrazione esercitata dall’aldilà e dai suoi abitanti è stata e continua a essere forte e diffusa in ogni parte del mondo. Ne sono prova riti e cerimonie che, frutto di tradizioni ancestrali, sono ancora oggi praticati in molti Paesi IL CASO DELLE SORELLE FOX

Negli Stati Uniti, intorno alla metà del XIX secolo, prese forma un movimento di idee che riteneva possibile stabilire contatti tra vivi e defunti. A fornire sostegno a questa credenza, che aveva improntato anche l’antica necromanzia, contribuirono non poco i misteriosi fenomeni parapsicologici verificatisi nelle abitazioni dalle tre sorelle Fox, nei pressi di New York. Nel 1848 le donne riferirono di aver interloquito con uno spirito. In seguito gli eventi medianici si ripeterono, generando un enorme interesse non solo in tutti gli Stati Uniti, ma anche in Europa. Nel 1857 in Francia il pedagogista Allan Kardec formulò ufficialmente i principi della dottrina dello spiritismo, in base alla quale il contatto tra vivi e morti poteva essere stabilito da un medium nel corso di un’apposita seduta. La nuova dottrina, ispirata dalla teosofia, professava anche il principio della reincarnazione dell’anima. Nel mondo cattolico molti ecclesiastici condannarono lo spiritismo come manifestazione del diavolo e proibirono la lettura delle opere di Kardec, che a Barcellona vennero addirittura bruciate in piazza. La scienza negli anni ha cercato di studiare a fondo il fenomeno delle manifestazioni spiritiche, indicando una possibile spiegazione nelle facoltà paranormali dell’operatore.

Incisione ottocentesca (a destra) raffigurante l’alchimista inglese Edward Kelley (1555-1597) che invoca l’apparizione di un defunto.

I MORTI VIVENTI AGLI ORDINI DELLO STREGONE

Il vudú è un culto religioso nato ad Haiti nel XVIII secolo come reazione al dominio francese e alla schiavitú. L’adepto si liberava della sua condizione di inferiorità attraverso forme di possessione evocando dèi o spiriti (chiamati Loa). In alcune ritualità di tipo magico si materializzavano gli zombie, i «morti viventi», persone in apparenza defunte alle quali uno stregone (bokor) aveva sottratto parte dell’anima. Lo stesso stregone, con una formula prestabilita, poteva farli resuscitare dal loro stato di letargia e renderli totalmente dipendenti dai suoi comandi.

36

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


UN RITO DI ORIGINE AFRICANA

Alcune pratiche religiose africane bantu, importate nel Sud America, prevedono cerimoniali di evocazione dei morti. Nel corso del XIX secolo in Brasile si diffuse la macumba, rito con cui l’operatore cerca di liberarsi dal male attraverso danze e balli dal ritmo ossessivo volti ad attirare dèi o familiari defunti. Simile al vudú, la macumba si caratterizza anche per lo svolgimento di sacrifici animali durante la cerimonia.

Rio de Janeiro, Brasile. Gli officianti di una macumba sacrificano una gallina per onorare gli orisha, semidivinità appartenenti originariamente alla mitologia del popolo Yoruba dell’Africa occidentale.

L’EPOPEA DEL CID CAMPEADOR Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci collinari declinandoli nelle infinite sfumature di verde, con un occhio di riguardo per i valori lirici e romantici. Partendo da un disegno realizzato dal vero, gli artisti si accostano talvolta al gusto pittoresco, per dipingere opere che incontrano il favore del mercato. Tra quanti hanno immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

37


NECROMANZIA

Il medico olandese Johannes Wier (1515-1588), autore di un trattato Pseudomonarchia daemonum (1577), nel quale dava conto dei suoi studi sulla natura degli spiriti evocati nel corso dei riti.

L’evocazione dei defunti

prescrizioni della maga Circe. A Roma, per esempio, abbondavano descrizioni fosche sui riti che stabilivano contatti con i defunti. Lucano nella Guerra Civile (I secolo) racconta la storia del timoroso soldato Sesto, figlio di Pompeo, che ricorse per insicurezza a una necromante, Erichto, rappresentata – non certo a caso – come malvagia e pericolosa. Alcuni autori non risparmiavano ai propri lettori resoconti minuziosi sui raccapriccianti rituali di evocazione degli spiriti, che di solito si svolgevano nei cimiteri: i cadaveri prescelti venivano orribilmente mutilati e, talvolta, bruciati alla fine della procedura. Casi di questo tipo dovevano essere frequenti, se prestiamo fede a un altro scrittore romano, Lucio Apuleio, secondo il quale «neppure i morti possono piú stare tranquilli nel loro sepolcro».

Cadaveri adatti allo scopo

La politica di Roma, a partire dal periodo augusteo, operò un giro di vite contro l’evocazione dei defunti, sospettando che fossero soprattutto le donne a esercitarla. Come sostenuto anche da fonti greche, esisteva una tipologia di salme che i necromanti ritenevano piú adatte ai loro riti: gli insepolti, i caduti in guerra, le persone decedute in modo prematuro e per morte 38

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

violenta a causa di condanne penali, di suicidio o di pene d’amore. La dottrina cristiana, come detto, affermava l’impossibilità per gli uomini di stabilire i contatti con i morti e pertanto considerava ogni apparizione di spiriti come uno scherzo del diavolo. Ma la Chiesa dovette combattere anche al suo interno contro questo tipo di deriva esoterica nel rapporto con i defunti. Nel Medioevo molte testimonianze sull’apparizione di spiriti diabolici provenivano proprio da ambienti religiosi e tra i cultori di un certo tipo di filosofia negromantica figuravano addirittura i nomi di alti prelati. Come risulta dalle carte dei processi inquisitori, l’imputazione di evocare i morti coinvolgeva spesso chierici e persone insospettabili di medio-alta cultura. Nell’XI secolo il benedettino inglese Guglielmo di Malmesbury accusò il pontefice Silvestro II di necromanzia. Nel XII secolo lo scrittore e vescovo inglese Giovanni di Salisbury, nel saggio Polycraticus, rivelò che un prete, con il quale aveva studiato da giovane, compiva inquietanti riti di evocazione degli spiriti, obbligando i suoi allievi a parteciparvi. Il religioso utilizzava la tecnica della bacinella ricolma d’acqua come superficie riflettente per attirare le anime dei defunti e un unguento speciale spalmato sulle unghie. Durante il rito il sacerdote pronunciava a voce alta nomi terrificanti, probabilmente di diavoli, ma Giovanni non li vide mai apparire, a differenza di altri partecipanti a quelle oscure liturgie, che si dissero convinti di aver intravisto alcune sagome. Nel Trecento si malignava che l’antipapa Benedetto XIII frequentasse necromanti e che fosse un assiduo lettore di testi esoterici, in particolare di un libro intitolato La morte dell’anima. Un altro caso noto, sempre nel XIV secolo, fu quello del monaco fiorentino Giovanni di Vallombrosa che si appassionò ai testi di necromanzia partecipando anche a qualche rito.

Il mistero del cerchio magico

Un’ulteriore conferma del profilo demoniaco delle pratiche negromantiche del Medioevo si può ricavare da un libro di magia noto come Manuale di Monaco (XV secolo), il cui autore apparteneva presumibilmente al clero. L’intera pubblicazione contiene metodi di evocazione di spiriti maligni volti a tre scopi principali: influire sulla volontà altrui (come per esempio in un incantesimo d’amore) anche danneggiandola, creare una realtà illusoria a proprio vantaggio e conoscere informazioni segrete riguardanti tutte le dimensioni temporali, non solo il futuro. Uno dei principali adempimenti da compiere in un rito di necromanzia medievale era la delimi-


tazione del «cerchio magico» che poteva essere tracciato con una spada sul terreno o disegnato su una stoffa. All’interno del cerchio, dove si posizionava l’operatore, venivano di solito composte alcune frasi insieme a segni. Il cerchio, che in molti rituali magici assumeva un grande valore simbolico, rappresentava in questo caso solo un oggettivo recinto entro il quale celebrare le formule prescritte, un perimetro funzionale. La circonferenza tracciata – secondo alcuni occultisti - rappresentava per gli officianti una specie di zona protetta, un luogo in cui stare al riparo da possibili attacchi dei demoni evocati. L’asserzione trova conferma in antichi testi di letteratura cristiana, ma si tratta, perlopiú, di giudizi di tipo «propagandistico». Nel Medioevo, infatti, circolavano molti exempla, vale a dire parabole composte da predicatori volte a spaventare i potenziali cultori della magia demonica. Uno di questi aneddoti – riportati dal monaco cistercense Cesario di Heisterbach – narra la vicenda di un prete, ucciso brutalmente dagli spiriti maligni dopo essere uscito dal cerchio durante un rito di necromanzia. Cesario riporta anche la storia di un altro adepto imprudente che morí come una gallina, con il collo torto. In realtà, exempla a parte, in alcuni riti era prevista la presenza del demone nel cerchio e l’officiante non sembrava correre rischi per questa evenienza.

Alle entità veniva chiesto di apparire in sembianze non spaventose e, di solito, queste si materializzavano sotto forma di re, cavalieri, di un gruppo di marinai o di servitori. Nella formula di evocazione a scopo divinatorio e per conoscere segreti relativi al passato, l’immagine del demone si manifestava a un fanciullo vergine attraverso uno specchio, un cristallo, una lama o riflesso nelle unghie. In genere erano prescritti sacrifici animali da compiere: le vittime preferite erano un gallo bianco, un’upupa o un pipistrello. Alle volte occorreva far scorrere anche sangue umano, che si ricavava dai cadaveri o da piccoli frammenti di carne dei partecipanti. Esistevano, tuttavia, rituali non cruenti, con l’offerta ai demoni di sostanze alimentari a loro molto gradite come farina, latte, miele, orzo e sale.

L’esoterista tedesco Agrippa di Nettesheim (noto anche come Cornelio Agrippa, 1486-1535), autore di un trattato, De goetia et necromantia, nel quale descriveva l’evocazione dei defunti come un’arte occulta.

Esorcismi rovesciati

Per evocare gli spiriti si ricorreva a scongiuri («io vi ordino di apparire»), che spesso si mescolavano a preghiere, salmi, litanie dei santi. Non di rado nelle formule orali si pregava Dio affinché concedesse il potere di controllo sui demoni. Come si potevano spiegare tali incompatibili commistioni? Probabilmente i necromanti consideravano Dio e i santi cristiani come personalità al di sopra del bene e del male, disposte a concedere aiuto a chiunque li invocasse. «Oppure – come nota lo storico inglese Richard Kieckhefer – i necromanti forse si inducevano a credere che la loro causa fosse in realtà sacrosanta». Gli scongiuri utilizzati somigliavano alle formule dei rituali di esorcismo cristiano anche se apparivano capovolte in quanto al loro obiettivo finale: da una parte si ordinava a uno spirito maligno di uscire dall’anima dei viventi, mentre dall’altra si esigeva il contrario, ossia che il demone incidesse sul destino di una o piú persone. Secondo l’alchimista catalano Arnaldo da Villanova, gli spiriti diabolici non si materializzavano in seguito all’invito perentorio, coercitivo dell’operatore, ma per una loro spontanea volontà. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

39


NECROMANZIA

40

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

L’evocazione dei defunti


Al momento di officiare il rito, i necromanti indossavano un abito candido, simbolo di purezza Nella pagina accanto particolare del Trionfo della Morte, olio su tavola di Pieter Brueghel il Vecchio. 1562 circa. Madrid, Museo del Prado. Il dipinto raffigura una danza macabra, tema assai popolare nella letteratura medievale e piú volte rappresentato in pittura, soprattutto da artisti dell’area nord-europea.

Le indicazioni sui momenti propizi in cui effettuare l’evocazione rivelano un’influenza della magia astrale: i riti dovevano svolgersi il sabato notte con la luna che calava oppure il mercoledí e il giovedí con una fase lunare crescente. Allo stesso modo la fumigazione era una pratica in comune tra astrologia occulta e necromanzia. Si adoperavano all’occorrenza vapori di zafferano, mirra, aloe, ambra e incenso a seconda del tipo di spirito da interpellare e del giorno in cui il proposito si voleva compiere. All’officiante era richiesta una certa purezza interiore per poter effettuare il rito: i necromanti dovevano astenersi per un periodo dal cibo, dai rapporti sessuali, erano tenuti a detergere a fondo il loro corpo e, al momento del cerimoniale, indossavano un vestito bianco. Questo bisogno quasi ascetico di pulizia interiore poteva apparire alquanto inconsueto per una filosofia di tipo demoniaco, ma seguiva una precisa logica: secondo l’astrologo Cecco d’Ascoli questi accorgimenti servivano a garantire all’officiante una sorta di difesa spirituale contro i pericoli derivanti dalla presenza di entità maligne. Molti degli adempimenti liturgici illustrati nel Manuale di Monaco vennero descritti dal giudice domenicano Nicolau Eymerich nella sua Guida degli inquisitori (1376). Il monaco rivelò di averli appresi nel corso della sua attività inquirente, dopo aver sequestrato alcuni testi «maledetti» come Il Tesoro di negromanzia di Onorio e la Tavola di Salomone. Sul contegno ascetico dei necromanti prima del rito Eymerich esprime un’opinione diversa rispetto a Cecco d’Ascoli: il digiuno, la castità e le vesti candide erano manifestazioni di reverenza e sottomissione nei riguardi dei demoni. Già dalla fine dell’Alto Medioevo cominciò ad affacciarsi in diverse opere, soprattutto cristiane, il termine «negromanzia» e non «necromanzia». La componente latina dell’etimolo-

L’ESORTAZIONE DI LEONARDO La vasta schiera dei curiosi che si avvicinarono alla necromanzia annovera nomi illustri, tra i quali spiccano quelli di Cecco d’Ascoli e di Leonardo da Vinci. Lo scienziato e pittore toscano si interessò per un breve periodo all’evocazione degli spiriti e ne trasse un’opinione del tutto negativa: «La necromanzia, stendardo ovvero bandiera volante – scrisse –, mossa dal vento, è guidatrice della stolta moltitudine (…) affermando che li omini si convertano in gatti, lupi e altre bestie, benché in bestia prima entran quelli che tal cosa affermano. O matematici! Fate lume a tale grossolano errore!».

gia, poi, avrebbe preso il sopravvento. «Niger» era il lato oscuro del rito e nel corso dei secoli venne associato anche alla reputazione malvagia che gravava sulle popolazioni di colore. Secondo lo studioso di esoterismo Gian Piero Bona «la forma negromanzia da cui deriva negromante nel significato di mago o indovino, è una corruzione popolare in cui l’idea di negro o nero è stata sostituita per piú facile analogia di suono a quella di defunto, alludendo cosí sia alle ore notturne in cui la necromanzia in genere veniva praticata sia agli interventi infernali che si pensava la favorissero».

Conversioni forzate

La pelle scura nella storia fu interpretata spesso come sinonimo di magia nera. La valenza razziale di tale semplificazione emerse soprattutto nel Rinascimento e in età moderna, ma coinvolse in parte anche l’epilogo dell’Età di Mezzo. Il XV secolo fu il periodo delle grandi esplorazioni e il contatto degli Europei con le popolazioni indigene di colore aveva di fatto alimentato la tratta degli schiavi. La fine del Quattrocento segnò anche la fine del dominio islamico sulla Spagna al quale fece seguito la decisione dei sovrani cattolici di espellere i «marrani» (gli Ebrei) e di costringere i «moriscos»( gli islamici di al-Andalus) alla conversione. In Europa, in quel periodo di grandi radicalizzazioni politicoreligiose, non appariva desueto per la cultura cattolica sospettare la presenza del diavolo in tutto ciò che appariva estraneo alla tradizione occidentale: nel Medioevo fu, infatti, frequente l’identificazione degli Ebrei e dei musulmani come stirpi al servizio dei demoni e come praticanti di riti di stregoneria. Nel Rinascimento la necromanzia continuò a essere associata a un’arte occulta di tipo demonico, in linea con la tesi dell’esoterista Agrippa von Nettesheim espressa nel De goetia et necromantia agli inizi del Cinquecento. Uno dei suoi discepoli, Johannes Wier, nel noto trattato Pseudomonarchia daemonum (1577) svolse uno studio sulla natura degli spiriti evocati nel corso dei riti selezionandone 69, tutti maligni. Un manoscritto francese del XV secolo elenca alcuni nomi di demoni invocati abitualmente nei riti necromantici e nella lista figurano i profili di Machin e Gemer esperti di erbe e gemme. Si tratta di una citazione significativa che dimostra, ancora una volta, quanto l’erboristeria e le discipline magico-stregoniche fossero anticamente connesse. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

41


NECROMANZIA

Fantasmi

LE ORE DEGLI SPIRITI di Élodie Lecuppre-Desjardins

A

ll’inizio dell’XI secolo, quando il vescovo sassone Thietmar di Merseburg racconta a sua nipote Brigitte, badessa del monastero di Saint-Laurent, di strane apparizioni di fantasmi, quest’ultima, lungi dall’esserne stupita, gli risponde che «se il giorno appartiene ai viventi, la notte deve esser lasciata ai morti»; infatti, in una società in cui esiste una stretta correlazione tra vivi e defunti, si rende necessario separare questi due mondi, e collocare ciascuno in un proprio tempo e in un proprio spazio. Gli spiriti medievali, qualunque sia il loro aspetto, appaiono dunque piú facilmente quando le tenebre calano sul mondo con il loro velo di dubbio e di inquietudine. Tuttavia, la notte è solo una cornice propizia al soprannaturale, essa non drammatizza l’apparizione del morto, il cui ritorno ci rivela di piú sulla rappresentazione dell’aldilà e l’elaborazione del lutto che sulle angosce notturne dell’uomo medievale. Di qui, alcune domande che, indirettamente, potranno fornirci utili informazioni sui meccanismi della società medievale. Quando ritornano i morti? Sotto quale aspetto? A quale scopo? Nella lunga tradizione indoeuropea, la notte rappresenta l’oscurità primordiale, che nutre nel suo seno numerose entità e forze oscure avvolte in un’aura di mistero impenetrabile e terrificante. Tra queste, i morti alla ricerca della salvezza che, poco tempo dopo il loro trapasso, si manifestano ai parenti piú stretti sotto forma di corpi o di spiriti. Il racconto dell’apparizione di Heinrich Buschmann a suo nipote Arndt, tra l’11 novembre 1437 e l’Ascensione del 1438, cosí come è riportato dal domenicano Giovanni di Essen, ci chiarisce la preferenza degli spiriti per il mondo notturno. Quando Arndt domanda a suo nonno perché 42

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

gli appare di notte piuttosto che il giorno, quest’ultimo risponde: «Per tutto il tempo in cui non posso raggiungere Dio, io resto nella notte». Lo scritto dell’uomo di chiesa diventa qui l’eco della spiegazione teologica, secondo la quale la notte terrestre è nera come il peccato e popolata di anime prive dell’illuminazione divina. Per le medesime ragioni, numerose storie di spiriti collocano i loro personaggi nel periodo dell’Avvento. Se la Chiesa spiega che a Natale le anime sono liberate dai loro tormenti e possono cosí conversare con i vivi, l’oscurità naturale che accompagna questo periodo dell’anno non è certo secondaria nella scelta temporale. La notte, sorta di abito nel quale lo spirito trova l’agio della sua forma sconcertante ed enigmatica, alimenta la sensazione di eccezionalità che colpisce i testimoni di queste apparizioni.

Un privilegio dei santi

Che si tratti di una voce, di un’immagine appena distinta, di un soffio o, al contrario, di un essere dotato di fisicità, lo spirito ha comunque sempre un aspetto indefinito. L’Alto Medioevo, fortemente influenzato dalle teorie agostiniane, offre pochi esempi di visite dei defunti ai vivi. Per sant’Agostino, infatti, l’apparizione è privilegio dei santi, i morti non si preoccupano dei vivi e il loro palesarsi non è che un’immagine, una visione senza alcuna materialità, unicamente percepibile dagli occhi dell’anima. E poiché i sogni sono assediati dai demoni, bisogna diffidarne e cacciarne il ricordo. Tuttavia, i racconti di queste manifestazioni spettrali si liberano progressivamente di tale concezione fino a fornire i piú ampi dettagli sulle diverse forme del soprannaturale. Il morto si mostra allora attraverso una luce, un suono inumano o anche un aspetto Nella pagina accanto Morte, uno dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, dal Très Riches Heures du Duc de Berry, il Libro d’Ore commissionato

dal duca Jean de Berry, ai fratelli de Limbourg, celebri miniatori franco-fiamminghi. 1412-1416 circa. Chantilly, Musée Condé.


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

43


NECROMANZIA

Particolare del pannello centrale del Trittico delle delizie di Hieronymus Bosch. 1500-05. Madrid, Museo del Prado. La scena rappresenta «la cavalcata della libidine attorno alla fontana della giovinezza», composta da una moltitudine di uomini nudi che cavalcano gli animali piú svariati (leopardi, pantere, leoni, orsi, liocorni, cervi, asini, grifoni, ecc.), tratti dal repertorio dei bestiari medievali: l’immagine allude al peccato e alla tendenza dell’uomo ad abbandonarsi al piacere.

44

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Fantasmi

particolare e inconsistente. Robert d’Uzès, alla fine del XIII secolo, racconta che le anime dei suoi genitori vennero a rendergli visita «sotto forma di un drappo bianco contenente dei rami secchi» se erano felici, o di contro «sotto forma di drappi neri su sottili spiedi come carne arrosto» se molto infelici. Carlo IV (1348-1378) getta un altro ponte tra il visibile e l’invisibile quando riferisce di una notte agitata nel suo castello di Praga. Allarmato da un rumore di passi, chiede al suo compagno Bushko di alzarsi per controllare. Questi, non notando nulla di particolare, beve una coppa di vino e torna a coricarsi. Ma, proprio nel momento in cui si rimette a letto, la coppa continua a volteggiare e va a fracassarsi contro il muro. Benché qui lo spirito non si manifesti in modo tangibile, la sua presenza è comunque perlomeno percepibile. Infine, Gervasio da Tilbury, negli Otia imperialia redatti verso il 1210 per Ottone IV di Brunswick, racconta la trage-

dia di una vedova che, dopo aver promesso al marito di non risposarsi, finisce per cedere ai corteggiamenti di un nemico del defunto. La punizione non si fa attendere: il primo marito appare nella camera della donna, afferra un mortaio, e le fracassa il cranio. Certo, la vendetta e una volontà malvagia hanno guidato lo spirito verso il castigo della sposa infedele.

Preghiere e opere di carità

Nella maggior parte dei casi, comunque, gli spettri dell’Europa occidentale, a differenza dei loro simili nordici, ritornano per chiedere preghiere e opere di carità o per riferire sulla sorte delle anime dei trapassati. Gli spiriti si manifestano in prossimità delle loro tombe o nell’intimità del loro antico spazio domestico quando l’elaborazione del lutto e i riti funerari non sono stati ancora completati. L’omicidio, il suicidio, la morte di una partoriente sono altrettanti impedimenti alla parten-


UN CORTEO TERRIFICANTE E CHIASSOSO

za dell’anima per l’altro mondo. L’esempio di Giovanni Morelli, ricco mercante fiorentino dell’inizio del XV secolo, testimonia l’ossessione di un padre che, perduto suo figlio, si accusa di non avergli fatto impartire l’estrema unzione. L’immagine del giovane Alberto, deceduto il 5 giugno 1406, tormenta i genitori fino all’anniversario della sua morte, quando il padre si abbandona a una sorta di personale seduta spiritica alla quale seguirà un sogno in cui il figlio lo tranquillizza sulla propria sorte. Le anime del Purgatorio vengono cosí a turbare la coscienza cristiana chiedendo messe, preghiere ed elemosine. In questo moto di solidarietà che caratterizza i rapporti tra vivi e morti a partire dall’XI secolo (non dimentichiamo che la commemorazione dei defunti è stata istituita a Cluny il 2 novembre del 1030), i trapassati tornano indietro per sollecitare delle preghiere e invitare i vivi a fare penitenza. L’apparizione della banda Hellequin, di cui la

Ordéric Vital racconta nel libro VIII della sua Storia ecclesiastica la strana avventura di Walchellin, un giovane sacerdote della chiesa di Bonneval, a lui riferita dallo stesso protagonista. Quest’ultimo, nella notte del 1° gennaio 1091, di ritorno dalla visita a un malato, L’EPOPEAarmata, DEL CID CAMPEADOR avverte il chiasso di un’immensa che egli pensa essere quella di Robert de Belleme, un signore che terrorizza la regione. Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella Si nasconde, ma benvedutistica presto appare davanti dell’Ottocento: a lui un gigantei pittori armato napoletana che gli ordina di assistere al passaggio della riprendono banda Hellequin. Questa della scuola di Posillipo i suoi scorci si mette in moto e, uno dietrodeclinandoli l’altro, compaiono un gruppo di gente collinari nelle infinite sfumature di appiedata, seguito daverde, un altro che portanoper barelle con condiunbecchini occhio di riguardo i valori lirici sopra dei nani dalla testa deforme, e infineda daun defunti e romantici. Partendo disegno realizzato che espiano orribilmente le loro colpevoletalvolta al gusto dal vero, gli colpe. artisti Uno, si accostano di aver assassinato un prete, è legato a un tronco pittoresco, per dipingere operee che incontrano il torturato da un demone terrificante; un altro, che hanno favore del mercato. Tra quanti durante la sua esistenza ha compiuto stupri, è seduto immortalato angoli del borgo natosuattorno al una sella cosparsa dimonastero chiodi roventi. figurano Giacinto Gigante, Domenico A seguire questa cavalcata la cui descrizione Morelli,fantastica, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, non troverà eco se non nella pittura di Hieronymus Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono Bosch, figurano anche alcuni chierici, che supplicano invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla Walchellin di intercedere la loro salvezza, un Alinari, Brogi, luce per cavese: si sono spintie qui migliaio di cavalieri, alcuni chiedono al Mauri, dei chequali hanno siglato immagini di forte sacerdote di informare i loro parenti affinché riparino agli i suggestione. E il XX secolo sono invece errori commessi per fotografi la pace della a rimanere abbagliati dalla luce cavese: loro anima. Ordéric Vital redige si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno nell’occasione un elenco siglato immagini di forte suggestione. E il XX completo dei peccatisecolo e dellesono invece i fotografi a rimanere punizioni infernali a essi abbagliati. collegate.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

45


NECROMANZIA

Fantasmi A sinistra uno dei pannelli del polittico della Vanità e della Redenzione terrestre di Hans Memling. 1490 circa. Strasburgo, Musée des Beaux-Arts. Nell’iscrizione si legge: «Dalla terra risorgerò e sarò circondato dalla mia pelle e dalla mia carne».

Tra XI e XII secolo, la riforma ecclesiastica attribuisce agli spiriti una nuova funzione ideologica 46

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


prima notizia ci è data dal monaco Ordéric Vital (XI-XII secolo), indica che gli imperativi della grande riforma ecclesiastica hanno investito gli spiriti di una funzione ideologica. Infatti, la banda di anime in pena che mostra i castighi legati ai diversi peccati sottolinea gli orribili supplizi a cui sono sottoposti, per esempio, le donne di malaffare o gli usurai... È chiaro che questi racconti di spiriti sono stati in tutto e per tutto accolti dalla Chiesa per dare forza alla legge morale.

L’evoluzione dello status degli spiriti segue abilmente il ritmo delle riforme ecclesiastiche. Se l’Alto Medioevo rifiutava di lasciare spazio a questi esseri sottomessi all’influenza dei dèmoni, i monaci dell’XI secolo, al contrario, si impadroniscono dei miracula e dei mirabilia, per l’edificazione dei cristiani.

Incisione raffigurante una danza macabra, realizzata da Michael Wogelmut per una edizione del Liber chronicarum di Hartmann Schedel. 1493.

I sogni penitenziali

Cosí, collegati al IV Concilio Lateranense (1215), si sviluppano i sogni penitenziali, in cui

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

47


NECROMANZIA

Fantasmi

IL TORMENTO DI UNA VEDOVA Nel Natale del 1323 o del 1324, una donna chiede l’aiuto dei Domenicani di Alès (Francia meridionale), poiché suo marito, Guillaume de Corvo, morto da otto giorni, continua a tornare nella sua camera, sotto forma di una voce. Jean Gobi, il priore, approfitta dell’apparizione per erudire i suoi lettori sul fine ultimo delle cose, secondo lo stile di una disputatio ecclesiastica. II dialogo gira intorno a un peccato commesso dai due sposi e riconosciuto in confessione, ma la cui penitenza non è stata del tutto portata a compimento. La tecnica seguita dal priore consente alla vedova di superare la fase luttuosa, mentre i diversi argomenti trattati nella disputatio servono a stabilire il rituale per una «buona morte».

In alto miniatura raffigurante il fantasma di un pellegrino seguito da Satana, da Les trois pèlerinages di Guillaume de Digulleville. XIV sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève. 48

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

la figura del defunto dètta la condotta morale a coloro ai quali si manifesta. Ma il piú efficace recupero di questi racconti straordinari si trova nella creazione degli exempla, brevi storie utilizzate come arma di conversione dai predicatori, a partire dal XIII secolo. Gli spiriti assumono qui un atteggiamento amichevole e sono convocati per preparare i cristiani a morire santamente e

per istruirli sulla loro sorte futura. I resoconti delle conversazioni con gli spiriti, alla fine del Medioevo, vanno piú lontano e offrono perfino alcune risposte a grandi questioni dogmatiche come la Trinità o i suffragi. La Chiesa ha proposto una teoria degli spiriti adattandosi piú o meno a tradizioni locali fortemente radicate che, fino all’arrivo dell’Inquisizione, lasceranno vagare in prossimità dei villaggi le anime dei loro morti in attesa di essere accolte in Purgatorio. Dunque gli spiriti, errando nei misteri impenetrabili della notte, sono stati gradualmente asserviti per essere investiti di molteplici ruoli, tutti a vantaggio della causa cristiana. I racconti di questi messaggeri dell’aldilà hanno anzitutto dato nuove forme alla devozione, imponendo norme di comportamento e perfino talvolta diffondendo un discorso politico. I crimini della banda Hellequin non mettono forse a nudo le storture della corte d’Inghilterra? Dalle rivelazioni alle profezie, gli spiriti hanno cosí trovato posto tra gli strumenti dell’azione ecclesiale e politica della fine del Medioevo.


IL LIBRO MALEDETTO C’era un libro nel Medioevo che incuteva timore, nonostante nascondesse segreti inseguiti da tutti. Pochi osavano sfogliarlo, e non solo perché reperibile esclusivamente nelle biblioteche dei grandi eruditi o degli esperti di magia. Il misterioso volume, chiamato Picatrix, circolò soprattutto nel Rinascimento, quando si dice che vigesse il divieto tassativo di farne copia. Ma lo stesso alone sinistro accompagnò il testo in epoche piú recenti, alla fine del XIX secolo, per esempio, quando il pastore inglese James Wood Brown, in un saggio sul filosofo scozzese Michele Scoto (1175 circa-1236 circa), espresse l’augurio di non vederlo mai tradotto in una lingua moderna. Forse per paura che, finendo nelle mani sbagliate, potesse diventare uno strumento di distruzione, addirittura una minaccia per l’ordine dell’universo. Considerato il piú celebre trattato di magia cerimoniale del Medioevo, il libro contiene riferimenti a temi di natura necromantica, ermetica, alchemica e astrologica. La parola Picatrix, in realtà, si riferisce al nome dell’autore, forse è il suo pseudonimo: la paternità dell’opera, infatti, viene comunemente attribuita all’astronomo arabo Maslama ibn Ahmad al-Majriti con il titolo originale Ghayat-al-hakim (Il fine del saggio). Per alcuni studiosi, la datazione del testo risalirebbe al periodo compreso tra il 1047 e il 1051. Piú recentemente (è il caso dell’islamista Fuat Sezgin, nel 1971), la sua realizzazione è stata collocata nella prima metà dell’XI secolo e attribuita a un altro Maslama da Madrid; altri studiosi ancora attribuiscono la paternità dell’opera a un tale Maslama al Qurtubi («da Cordoba»), vissuto nel X secolo. In ogni caso, nel 1256, il libro fu tradotto in spagnolo per iniziativa di Alfonso X di Castiglia, ma tutti gli esemplari di questa edizione andarono perduti. Il trattato continuò tuttavia a circolare, e venne successivamente tradotto anche in altre lingue, diffondendosi nel resto

di Francesco Colotta

Pagine illustrate tratte da una edizione del Ghayat al-hakim (Il fine del saggio) conservata a Cracovia, presso la Biblioteka Jagiellonska. L’opera, piú conosciuta come Picatrix, è un trattato arabo di magia, la cui paternità viene dai piú attribuita all’astronomo Maslama ibn Ahmad al-Majriti, vissuto nella Spagna islamica fra il 950 e il 1005-1008.

d’Europa. Da un esemplare in latino, un manoscritto oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, è stata tratta la prima versione italiana completa, recentemente stampata. Scarse sono le notizie sull’autore del Picatrix, e non tutti gli studiosi che se ne sono occupati concordano nell’attribuire all’astronomo arabo la paternità del libro. Tra questi, per esempio, l’orientalista tedesco Hellmut Ritter (1892-1971), il pioniere che nel 1933 pubblicò la prima versione critica dall’originale del testo misterioso. Secondo Ritter (che in seguito, però, cambiò idea), la parola Picatrix non era altro che il nome latinizzato dell’autore dell’opera, il greco Ipprocrate (il medico vissuto fra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., universalmente indicato come il fondatore della medicina scientifica, n.d.r.). Una tesi che in seguito fu ripresa dall’orientalista francese Henri Corbin (1903-1978).

«miracolo» dall’ambito delle pratiche magiche, assimilabili alla pura superstizione. Pur esprimendo una condanna piú violenta per riti che prevedevano l’invocazione diretta del demonio, il futuro santo puntò il dito anche contro quelle forme di magia naturale, legata soprattutto agli studi sulle influenze astrali, di cui il Picatrix rappresentava una sorta di manifesto. Nel Duecento il Picatrix fu quindi messo all’indice dalla Chiesa, preoccupata per la crescente popolarità di ogni forma di magia e per il diffondersi dell’astrologia all’interno delle corti piú importanti d’Europa. Solo con l’avvento dell’Umanesimo, nel XV secolo, il clima si fece piú favorevole a una parziale

MAGIE, NON MIRACOLI

Appare significativo che uno dei testi medievali piú importanti sulla magia provenga dal Medio Oriente, forse dall’Egitto, cioè da un territorio in cui la condanna cristiana nei riguardi delle pratiche esoteriche non poteva trovare attuazione. Lanciata già da sant’Agostino, questa «crociata» fu ripresa con vigore da alcuni filosofi qualche secolo piú tardi, in particolare da Tommaso d’Aquino (1225-1274), che nella sua Summa Theologiae distinse con nettezza il concetto di ASTRI, SPIRITI E MAGIE

49


NECROMANZIA

Fantasmi

Ancora alcune pagine illustrate tratte da una edizione del Ghayat al-hakim (Il fine del saggio), opera meglio nota come Picatrix. Cracovia, Biblioteka Jagiellonska.

riabilitazione del testo, in seguito al diffuso interesse per le conoscenze sapienziali e le dottrine occulte. Agli albori del Rinascimento molti pensatori cristiani cercarono di conciliare la Fede con il retaggio delle credenze pagane dell’età classica comprendenti anche le pratiche magiche. Tra i fautori della «riabilitazione» dell’esoterismo si distinse il filosofo toscano Marsilio Ficino, il quale ammise di aver travasato parte dei contenuti del Picatrix nel terzo libro del suo De vita (1489), precisando però di averli depurati degli elementi piú «scabrosi». Nonostante le cautele nella selezione degli argomenti, Ficino fu aspramente criticato per avere «rivalutato» alcuni testi di magia. Gli attacchi nei suoi confronti si manifestarono in modo cosí violento da obbligarlo a difendersi pubblicamente attraverso un testo ad hoc: l’Apologia. Anche un altro celebre umanista italiano, Giovanni Pico della Mirandola, appassionato di magia naturale e di Cabala, aveva letto a fondo il Picatrix e ne conservava una copia, come, del resto, avevano fatto

50

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

qualsiasi principio superiore divenne, alla fine, inevitabile: sentendosi padrone di se stesso e della natura l’uomo poteva prendere il posto della divinità e liberarsi da ogni dipendenza che lo limitava nell’esercizio dei suoi poteri. A inaugurare questa nuova tendenza fu, tra gli altri, l’alchimista tedesco Agrippa di Nettesheim (noto anche come Cornelio Agrippa, 1486-1535) con il suo De occulta philosophia (1510-1530), opera che riecheggiava in parte alcune tesi del Picatrix, portate però alle estreme conseguenze. A Rinascimento inoltrato il Picatrix, le cui copie in circolazione erano nel frattempo aumentate, poté essere studiato in profondità da un maggior numero di eruditi. Alcuni notarono con sorpresa la presenza di un solido impianto filosofico nell’opera, che si presentava divisa in quattro libri. Nei primi due, dopo un’indagine sui principi che regolano l’ordine naturale, venivano svelate le modalità operative con le quali esercitare un’attività magica sul creato, attraverso l’uso dei talismani. Nel terzo libro, invece, erano elencate tutte le corrispondenze di pietre, animali e piante con i segni zodiacali e i pianeti. Nell’ultima parte, infine, trovavano spazio i dettagli sulle preghiere e le invocazioni da formulare nel corso di riti di magia talismanica.

IL PRINCIPIO SUPREMO

il filosofo Giordano Bruno e il poeta rinascimentale Ludovico Lazzarelli. Nel Rinascimento cominciò a farsi strada una visione piú radicale della figura e del ruolo del mago, visto non piú come semplice catalizzatore di forze celesti che lo trascendevano, ma come un demiurgo in grado di sedersi con pari dignità a fianco di Dio. Il conseguente scivolamento verso forme demoniche di ribellione contro

Già nelle argomentazioni introduttive del Picatrix emerge una visione filosofica ispirata al tema classico dell’emanazione nel mondo di attributi da parte di Dio e il conseguente processo opposto di ascesa dell’uomo verso il Creatore. Nel libro magico ogni cosa dell’universo appare in accordo con le altre e discende da un principio supremo, da un «unico» che la informa di sé all’atto di creazione. Dio è definito il fondamento, l’origine, verso cui ogni essere vivente tende grazie a una dinamica che spinge la


natura inferiore a inseguire quella superiore. L’uomo fa parte di un piccolo mondo, ma con l’aiuto della conoscenza può scalare varie stazioni, arrivando a cogliere e indirizzare un’emanazione sovrannaturale (lo spiritus), che lo pone nella condizione di incidere nella materia. Il prologo si chiude con un’invocazione dell’autore che non sembra lasciare dubbi sull’uso a fin di bene, addirittura «salvifico» delle formule e dei rituali contenuti nei vari capitoli del libro: «Supplico, pertanto, l’Altissimo Creatore, affinché questo mio libro venga in mano ai soli sapienti, affinché possano capire quanto sto per esporre e farne buon uso, e a coloro che, in virtú di quanto da esso conosceranno, vorranno operare per il bene al servizio di Dio». La prima parte dell’opera illustra i metodi attraverso i quali un sapiente può incanalare lo spiritus nella materia, incidendo su di essa e ponendola al servizio dell’uomo. Il mezzo indispensabile per realizzare l’impresa, oltre a un’approfondita conoscenza della natura, è rappresentato da un oggetto in grado di catturare influssi benefici provenienti dal cosmo: il talismano, di solito una pietra speciale o un metallo con impressa una figura astrologica, che si distingue dagli amuleti, in quanto questi ultimi rappresentano soprattutto un argine rispetto a possibili pericoli.

paziente. Tra i requisiti per una corretta preparazione del talismano rientrano anche le influenze astrali del momento, la posizione della Luna, per esempio, come illustrato in un passo del Picatrix: «Sappi cha le virtú dei talismani e gli stessi effetti a essi congeniti sono necessariamente vincolati ai corpi celesti e, quando gli stessi talismani seguono i movimenti dei cieli, sappi che in quel caso non troverai alcunché in grado di trattenere la loro forza o di distruggerli. Ciò a cui devi prestare attenzione mentre li componi è il principio per cui devi farli per amore e amicizia, con la Luna piena e rafforzata dalla buona sorte; ma stai ben attento a non far nulla di ciò che è stato detto se la Luna è calante e accompagnata da malasorte».

SIA LODE A DIO

La lunga e accurata preparazione, nonché la messa a punto del

IL GIORNO E IL COLORE

Il mago, con l’aiuto del talismano, entra in contatto con le forze nascoste del Creato, con i corpi celesti, ponendosi come una sorta di intermediario tra il sovrannaturale e l’umanità. Ai fini della buona riuscita di un rituale è richiesta un’accurata fase preparatoria, durante la quale rivestono un ruolo importante il giorno scelto per l’operazione e il tipo di materiale utilizzato per il talismano. Il colore di quest’ultimo, per esempio, è sempre collegato a un pianeta e a un metallo corrispondenti. Ogni singolo dettaglio deve essere curato con attenzione, per evitare non solo il fallimento della pratica magica, ma anche il pericolo di scatenare influssi rovinosi, paragonabili a una medicina somministrata erroneamente e capace di aggravare lo stato clinico del

talismano, non bastano però per rendere efficace il procedimento magico. Al suo compimento contribuisce anche una preghiera che accompagna il rituale, descritta in modo ambivalente, come invocativa e, nello stesso tempo, di lode nei riguardi di Dio. Nel Picatrix si cita in proposito il modello di invocazione che i sacerdoti caldei (riferito all’antica popolazione della Mesopotamia, nei primi secoli dell’era volgare con il termine «caldei» si indicavano gli esperti della scienza

astrologica, attivi nel Vicino Oriente, in Anatolia e sulla costa del Levante, n.d.r.) rivolgevano a Saturno per ottenere il buon esito dei raccolti. In presenza di condizioni planetarie favorevoli, si procedeva a una «suffumigazione» di vecchie pelli, insieme a sapori, sudori, 14 pipistrelli morti e altrettanti topi. Quindi si ponevano le polveri ottenute sul volto di un simulacro e anche attorno. La preghiera, oltre a garantire la protezione dagli influssi maligni, aveva anche la funzione di calamitare le forze planetarie, sotto forma di invocazione diretta agli spiriti associabili ai vari tipi di astri. Alcuni passi del Picatrix, come il soffermarsi su classificazioni di ogni elemento della natura, ricordano un certo enciclopedismo medievale che raffigurava il cosmo in modo unitario, sotto la guida di un principio supremo, divino. Non stupisce allora la minuziosa ripartizione dell’universo e della natura secondo un modello gerarchico, che si apre con l’analisi degli oggetti piú semplici (freddezza, umidità, siccità e calore) e termina con quelli maggiormente composti. Qualche studioso ha ipotizzato una similitudine tra la divisione dell’universo operata da Dante Alighieri e quella contenuta nel Picatrix, presumendo che il poeta fiorentino avesse tratto elementi utili dal ASTRI, SPIRITI E MAGIE

51


ERMETISMO

ERMETISMO

52

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

La tavola di smeraldo


La scienza dei significati

nascosti L’aspirazione dell’uomo alla dimensione divina ha attraversato religioni, filosofie e insegnamenti occulti. Il sogno di onnipotenza poteva compiersi con un cammino iniziatico che prevedeva, per esempio, l’interpretazione di una tavola di smeraldo o la scoperta della «pietra filosofale»

Siena, Duomo. Particolare del pavimento marmoreo raffigurante Ermete Trismegisto. La tarsia fu realizzata nel 1488, su disegno di Giovanni di Stefano. A questa mitica figura greco-egiziana, considerata depositaria della parola e della sapienza divina, furono attribuiti due scritti, il Corpus hermeticum e la Tavola di smeraldo, che sono considerati i capisaldi dell’ermetismo e dell’alchimia.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

53


ERMETISMO

La tavola di smeraldo

L’

Egitto fu uno dei centri esoterici dell’antichità e alcune divinità avevano l’attributo di «operatori magici»: Heka, Iside e soprattutto Thot. La tradizione individua in quest’ultimo il depositario dei misteri riguardanti la vita ultraterrena. Nell’età ellenistica l’identificazione di Thot con il dio greco Hermes produsse la nascita della leggendaria figura di Ermete Trismegisto, il «tre volte grandissimo». Questo personaggio mitologico è considerato il vero ispiratore dell’ermetismo e dell’alchimia, i cui capisaldi sono contenuti in due testi a lui attribuiti: il Corpus hermeticum e la Tavola di smeraldo, breve compendio che uno dei piú autorevoli occultisti contemporanei, Eliphas Levi, definisce «tutta la magia riunita in una pagina». L’ermetismo originario, sviluppatosi in Grecia a partire dal II secolo a.C., combinava elementi di filosofie pitagoriche, neoplatoniche, gnostiche, di magia egizia e di dottrine ebraiche, riflettendo la tendenza all’eclettismo tipica della cultura ellenistica. Seguendo questo indirizzo sapienziale e con un processo iniziatico, l’uomo poteva riscoprire i tratti della natura divina all’interno di se stesso. L’ermetismo si delineava come filosofia ancorata alla sfera del linguaggio: Ermete Trismegisto, possedendo le facoltà del dio greco del logos, Hermes, apriva le porte all’interpretazione di simboli e allegorie delle dottrine occulte e delle tradizioni misteriche religiose. Nell’XI secolo il Corpus hermeticum venne depurato da elementi magico-sapienziali da parte dello studioso bizantino Michele Psello con l’intenzione di armonizzare il testo al cristianesimo. Il dettato della Tavola di smeraldo, invece, cominciò a circolare in Occidente a partire dal Duecento e costituí una delle basi dottrinali anche della «Grande Opera» alchemica. Connessa all’ermetismo, l’alchimia era conosciuta in Egitto già nel II secolo a.C. Esisteva un’antichissima tradizione anche in India e in Cina, che però tendeva a un fine diverso dal tentativo di trasformare i metalli vili in oro caratteristico della pratica occidentale: nell’Estremo Oriente la «Grande Opera» consisteva nella ricerca di sostanze in grado di assicurare la longevità, un concetto antesignano di quell’«elisir di lunga vita» che poi caratterizzò l’alchimia nel Medioevo. Fu la cultura araba a fondere le due tradizioni intorno al IX-X secolo: la trasmutazione del metallo, grazie alla pietra filosofale, permetteva all’operatore di realizzare una trasformazione interiore, ottenendo l’onniscienza e l’immortalità.

Statua in marmo pentelico di Hermes Loghios. Copia romana da un originale greco della metà del V sec. a.C. forse riferibile alla produzione giovanile di Fidia, fine del I-inizi del II sec. d.C. Già Collezione Ludovisi. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Il dio era caratterizzato da un campo d’azione extracosmico, sottratto ai normali ordinamenti e la sua capacità di agire al di fuori degli schemi abituali lo faceva depositario di una sapienza segreta, trascendente l’ordine mondano: un aspetto che, in seguito, si tradusse nell’ermetismo.

54

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


I SEGRETI DELLA NATURA di Francesco Colotta Ritratto di Ermete Trismegisto, basato su un’incisione cinquecentesca e pubblicato ne L’école et la science jusqu’à la Renaissance, opera del letterato e bibliofilo francese Paul Lacroix. Parigi, 1887. La figura del «fondatore» dell’ermetismo è

storicamente inesistente ed è nata dall’identificazione, avvenuta in età ellenistica, del dio greco Hermes (dio della parola e, come tale, messaggero di Zeus) con il dio egiziano Thot (dio delle lettere, della misura, dei numeri).

P

ochi anni dopo la morte di Cristo, il filosofo greco Apollonio (vedi box a p. 57) si avventurò nei sotterranei della città anatolica di Tiana, situata nella parte sud-orientale dell’odierna Turchia. Decise di calarsi nel sottosuolo in prossimità di un monumento dedicato alla mitica figura greco-egiziana di Ermete Trismegisto (vedi box a p. 59), dando credito a un’iscrizione secondo la quale, nelle fondamenta di quel simulacro, erano custoditi i segreti della natura. Il pensatore, durante la perlustrazione, incontrò un proprio sosia e vide nelle vicinanze una statua che raffigurava una persona anziana. Il vecchio effigiato era proprio Ermete che teneva in mano una tavoletta di colore verde, sulla quale risultava impressa la rivelazione delle essenze nascoste delle cose. Questa narrazione, ammantata di leggenda, racconta la storia della Tavola di smeraldo, il cui contenuto fu divulgato in Europa nel XII secolo all’interno di un celebre libro «occulto», il De secretis naturae. Secondo la tradizione, nel volume si trovavano spiegati tutti i misteri sul creato appresi da Apollonio nei sotterranei di Tiana. Durante il Medioevo il testo, malgrado la sua limitata diffusione, divenne una delle fonti di riferimento per gli studiosi di esoterismo, accanto al parimenti noto Picatrix (vedi alle pp. 49-51), al «maledetto» Liber aneguemis, un testo di alchimia pratica, e al trattato di magia naturale De radiis attribuito al filosofo arabo AlKindi (800-873 circa).

Influssi vicino-orientali

Il De secretis naturae, curato dal traduttore Ugo di Santalla (attivo in Spagna nella prima metà del XII secolo), è tratto da un manoscritto arabo che risale al periodo del califfato abbaside di al-Ma’mun (786-833): il Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione). Il traduttore rivide solo in parte il contenuto dell’opera, che mantenne, anche nell’edizione latina, forti influssi culturali provenienti dal Vicino Oriente. Non a caso, il De secretis venne redatto nell’epoca del cosiddetto «Rinascimento del XII secolo», caratterizzato da un diffuso interesse in Europa per i trattati arabi di ASTRI, SPIRITI E MAGIE

55


ERMETISMO

La tavola di smeraldo astronomia, matematica, fisica e medicina. Accanto alle pubblicazioni di argomento scientifico, affluivano in Occidente anche opere letterarie, filosofiche e religiose che contenevano richiami all’ermetismo, all’astrologia e alla tradizione alchemica. La Sicilia e la Spagna, in particolare Toledo, furono i centri principali di questo intenso lavoro di raccolta e traduzione di volumi che giungevano dall’altra sponda del Mediterraneo. Ugo di Santalla visse a lungo proprio in terra spagnola e si specializzò nello studio di testi astronomico-astrologici. Nell’Età di Mezzo circolarono altre opere in latino simili al De secretis naturae, alcune delle quali riportavano la versione integrale della Tavola o solo qualche informazione su di essa: il De essentiis di Ermanno di Carinzia, il Liber Hermetis de alchimia e il piú diffuso Secretum secretorum dello Pseudo-Aristotele. Fu soprattutto il De secretis naturae, però, a far conoscere in Occidente il contenuto della Tavola di smeraldo sulla quale, secondo la leggenda, Ermete

Il De secretis naturae ruota intorno al principio secondo il quale, dietro la realtà manifesta, esiste un’identità occulta delle cose aveva inciso l’enigmatico testo con la punta di un diamante. Esistevano, invece, diverse ipotesi su chi avesse ritrovato il prezioso reperto. Alcuni attribuivano la scoperta non ad Apollonio, ma a Sara, la moglie di Abramo. Altri, invece, affermarono che era stato Alessandro Magno a scovarlo nella tomba di Ermete Trismegisto che il mito colloca in Egitto. Con il passare dei secoli la figura assunse soprattutto l’aspetto di divulgatore e non piú di unico depositario dei segreti del cosmo: in buona sostanza, lo si riteneva solo il custode di quel sapere celeste che i primi discendenti di Adamo avevano impresso su una superficie smeraldina, cosí da poterlo tramandare ai posteri.

L’idea chiave della trattazione

«Una verità certa senza dubbio, l’alto proviene dal basso e il basso dall’alto». L’incipit del testo ermetico impresso sulla tavola riassume l’idea chiave di tutta la breve trattazione, svelando i fondamenti di una conoscenza che, dal semplice studio dei fenomeni della natura, conduce a una dimensione divina. Non solo la tavola, ma anche l’intero De secretis 56

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

naturae ruota intorno a un principio base di tipo rivelativo: dietro la realtà manifesta esiste un’identità occulta delle cose. Chi è in grado di decrittarla apprende i segreti divini ed entra, inoltre, in possesso della capacità di incidere nella realtà materiale attraverso una tecnica di trasmutazione alchemica. Nel libro sono evidenti influssi specificamente islamici, in particolare di ambienti sciiti all’interno dei quali, nel Medioevo, trovavano accoglienza temi come l’ermetismo e l’alchimia. Due studiosi europei, Fritz Zimmermann e Paul Walker, sono andati piú in là, arrivando a stabilire una connessione diretta con l’ismailismo, ossia la corrente piú radicale dello sciismo. L’opera, malgrado ciò, contiene diverse deviazioni rispetto alla dottrina islamica ortodossa, a partire dalla quantità dei nomi attribuiti a Dio, che risultano essere 24 e non 99 come descritto nel Corano. Non è agevole, perciò, la collocazione nell’ambito della teologia musulmana di un testo che si pone al centro di un crocevia attraversato da numerose tradizioni, perlopiú esoterico-sapienziali.

Le affinità con lo stoicismo

Nel racconto sulla Tavola di smeraldo l’uomososia incontrato nel sottosuolo da Apollonio rappresenterebbe la «natura perfetta». Un concetto che trova corrispondenza, nella letteratura ermetica araba, con la figura del personale angelo planetario (una sorta di alter ego), a cui spetta il compito di guida nel difficile percorso di accesso a un superiore stato di conoscenza. Il De secretis naturae presenta numerose affinità, inoltre, con alcune correnti della filosofia greca, in particolare con lo stoicismo. Questa parentela si evidenzia nella visione cosmologica dell’opera, che individua in una sostanza la fonte di ogni cosa: il calore primordiale, dal quale traggono origine le qualità elementari della materia vivente. Attraverso il calore si assiste a un vero e proprio accoppiamento tra forme sessuate, opposte del cosmo, tra diverse polarità. Tutte le parti possono unirsi tra loro per formare organismi piú complessi, sia quelle maggiormente pure e «nobili», poste in posizione elevata, sia quelle situate in basso. Non esiste, quindi, alcuna gerarchia nell’universo. Ogni legame è possibile in senso sia verticale che orizzontale. C’è una mente alla base di questo dinamico sistema di genesi della realtà astrale, umana, minerale e vegetale: è Dio. È lui che comincia il processo di creazione astraendo la parte piú pura del calore con la quale vengono formati lo spirito e il corpo dell’uomo. Interviene in modo diretto, però, soltanto in quella fase iniziale e


L’ALTO VIENE DAL BASSO... Riscoperta dal filosofo neopitagorico Apollonio di Tiana, la Tavola di smeraldo è uno dei caposaldi della scienza ermetico-alchemica

TUTTE LE COSE SI FORMANO DA UNA SOLA COSA

Ecco il testo della Tavola di smeraldo, l’opera attribuita a Ermete Trismegisto: «Una verità certa senza dubbio, l’alto proviene dal basso e il basso dall’alto, la realizzazione dei prodigi viene da una sola cosa cosí come tutte le cose si formano da una sola cosa con un unico procedimento, suo padre è il Sole, sua madre la Luna, il vento lo recò nel suo ventre, la terra lo nutrí, padre dei talismani, custode dei prodigi, perfetto nelle forze, fuoco divenne terra, separa la terra dal fuoco, il sottile è piú nobile del denso, con mitezza e decisione sale dalla terra al cielo e discende alla terra dal cielo, e in esso vi è la forza dell’alto e del basso, perché possiede la luce delle luci e perciò la tenebra fugge da esso, forza delle forze domina ogni cosa sottile, penetra in ogni cosa densa, secondo la creazione del macrocosmo si produce l’opera, e questo è onorifico e perciò sono chiamato Hermes tre volte saggio» (dal De secretis naturae di Ugo di Santalla).

FILOSOFO E GUARITORE

Apollonio di Tiana, il presunto scopritore della Tavola di smeraldo, era un filosofo neopitagorico la cui nascita si data intorno al 2 d.C. Originario di Tiana (città dell’Asia Minore, nei pressi dell’odierna Kemerhisar), si diceva fosse in possesso di poteri sovrannaturali e, secondo alcune fonti, visse quasi 100 anni. Le poche notizie biografiche provengono da un testo di Flavio Filostrato, Cose riguardanti Apollonio di Tiana, che esalta le capacità di taumaturgo del pensatore greco. Per queste doti e per il suo stile di vita ascetico fu considerato una figura divina, tanto da essere soprannominato il «Cristo pagano». Gli furono attribuiti diversi miracoli come la guarigione di un uomo dalla cecità, la resurrezione di una bambina e l’aver predetto l’assassinio dell’imperatore Domiziano. Scrisse anche la Vita di Pitagora e Intorno ai sacrifici.

ASTRI, DOSSIER SPIRITICROCIATE E MAGIE

57


ERMETISMO

La tavola di smeraldo

non prosegue la sua opera in eterno, come invece postulavano gli atomisti. Dio si preoccupa, pertanto, di generare la «sostanza madre» che sarà poi in grado, autonomamente, di dare vita al resto dell’universo. In seguito il calore stesso scinderà da sé la propria parte piú sottile, quella che tende a salire verso l’alto, da quella pesante e fredda. In un secondo momento, per un processo naturale, il calore piú puro e sottile ridiscenderà accoppiandosi con gli elementi sottostanti. Elevandosi di nuo58

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

vo, dopo un ulteriore rimescolamento con le sostanze piú fredde, darà infine origine ai sette cieli dei pianeti.

Un’omissione singolare

Nel De secretis naturae l’azione di Dio si svolge in armonia con quella delle stelle, che, per sua «delega», sovrintendono sul mondo terreno. Questo principio non risulta, invece, enunciato in modo esplicito nel Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione). L’omissione appare al-


IL PADRE DELL’ALCHIMIA Per alcuni Ermete Trismegisto («tre volte grandissimo») era solo un misterioso autore di testi di letteratura sapienziale dell’età ellenistica. Ma per la mitologia, in seguito a una sorta di processo di assimilazione, assunse l’aspetto di una divinità che univa due tradizioni religiose: quella relativa al dio greco della parola, della magia e dell’atletica Hermes e quella del dio egizio della letteratura e dei numeri Thot. Entrambi rivestivano anche la funzione di guida per le anime dei defunti nel regno dell’oltretomba. Insieme alla Tavola di smeraldo viene attribuito a Ermete Trismegisto, considerato anche il vero padre dell’alchimia, il celebre Corpus hermeticum, uno dei testi di riferimento per il pensiero ermetico medievale e rinascimentale.

quanto singolare, considerato che l’astrologia era stata importata in Occidente perlopiú proprio dai Paesi arabi. È probabile che nella sua traduzione Ugo di Santalla abbia cercato, motu proprio, di armonizzare la dottrina cristiana con una delle arti divinatorie allora maggiormente avversate dalla Chiesa, ma che riscuoteva grande popolarità anche tra i fedeli e in importanti corti europee. L’idea di un Dio che accorda agli astri una funzione determinante nel destino del cosiddetto «mondo sublunare» poteva fornire un aspetto ortodosso a una credenza che nel Medioevo aveva già cominciato in parte a cristianizzarsi. Due grandi filosofi cattolici del XIII secolo, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, avevano infatti riconosciuto alle stelle un’influenza, seppur limitata, sulle azioni degli uomini.

Con questa nuova formulazione, comunque, l’astrologia «invasiva» dell’antichità, secondo cui gli esseri mortali erano impotenti di fronte all’influsso dei pianeti sul destino, veniva di fatto svuotata di efficacia. All’individuo veniva garantita, insomma, la capacità di gestire in modo attivo l’esperienza terrena, usufruendo del libero arbitrio, secondo il principio tomista «astra inclinant, non necessitant» («gli astri influenzano, ma non costringono»).

Il fuoco, origine di ogni cosa

La teoria del calore primordiale alla base della creazione accomuna la tradizione ermetica del Vicino Oriente alla filosofia greca, dimostrando come il pensiero ellenistico, in particolare lo stoicismo, fosse diffuso e studiato nel mondo arabo. Zenone, ispirato da Eraclito, considerava il fuoco come sostanza che contiene in sé l’origine di tutte le cose e come componente della parte spirituale piú elevata dell’uomo. L’individuazione di una sostanza primigenia di natura divina era, tuttavia, un tema ricorrente nella speculazione antica, non solo in ambito stoico. Alcuni pensatori greci, per esempio, ritenevano che esistesse un ulteriore elemento in grado di spiegare l’origine del mondo, oltre ai tradizionali quattro individuati da Empedocle (acqua, aria, terra e fuoco): si trattava della «quintessenza», identificata da Aristotele, per esempio, nell’etere. L’azione di Dio che separa la parte piú

Nella pagina accanto la pagina di un’edizione manoscritta del trattato Kitâb sirr al-asrâr, il cui testo fu ripreso dal Secretum Secretorum dello Pseudo-Aristotele. Nelle tabelle al centro è espresso un calcolo delle probabilità di vita o di morte di un paziente, stilato sulla base del valore numerico del suo nome di battesimo. A destra pagina miniata dell’Aurora consurgens. XIV sec. Zurigo, Zentralbibliothek. L’opera è un trattato di alchimia, già attribuito a Tommaso d’Aquino e ora a un autore indicato come Pseudo-Aquino. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

59


ERMETISMO

La tavola di smeraldo

Una delle tavole che illustrano l’opera di Georgius Aurach de Argentina, Pretiosissimum Donum Dei. XVII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Bibliothèque de l’Arsenal. L’illustrazione riproduce la Solutio Perfecta, come coincidenza degli opposti e dissoluzione dell’elemento solido nell’elemento volatile.

60

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


L’ERMETISMO COME RELIGIONE Tutto nacque ad Harran, città turca che nell’antichità si chiamava Carre (passata alla storia per la disastrosa sconfitta subita dai Romani nel 53 a.C. a opera dei Parti). In quel centro dell’Anatolia meridionale, a partire dal II secolo d.C , alcuni filosofi e seguaci di dottrine esoteriche iniziarono a professare l’ermetismo, che fondeva alcune tradizioni gnostiche, ebraiche e di derivazione platonica. In breve tempo il numero dei seguaci aumentò considerevolmente, specie tra le file dei Sabei, una popolazione dalle incerte origini residente in quel periodo in Mesopotamia. Il culto ermetico venne, in seguito, riconosciuto anche dalle autorità religiose musulmane. Nel IX secolo al-Ma’mun, a capo di un potente califfato abbaside nel Vicino Oriente, obbligò le genti atee sotto la sua influenza a scegliersi una religione. Non furono pochi quelli che optarono per l’ermetismo. Secondo alcuni storici, anche i Sufi (aderenti a una corrente mistica dell’islamismo) adottarono nei loro testi alcune dottrine di matrice ermetica. La conquista della Penisola iberica da parte degli Omayyadi nell’VIII secolo, favorí l’inizio della diffusione di testi arabi in Europa. Qualche secolo dopo giunsero i manoscritti piú conosciuti: il complesso manuale di necromanzia Picatrix e il Kitab sirr al-haliqa, che portava con sé l’enigma della Tavola di smeraldo.

pura e leggera del calore presenta molti elementi in comune con la pratica alchemica dell’estrarre l’essenza delle cose attraverso il processo di distillazione. L’alchimia, quindi, replicando i metodi di formazione del cosmo, fornisce all’uomo la possibilità di ascendere al livello di Dio.

Una disciplina antica e oscura

Questa «scienza occulta» nel Medioevo non rappresentava certo una novità. Si era diffusa nella cerchia degli ermetisti arabi, ma in precedenza aveva trovato molto spazio nella filosofia greca, dal pitagorismo a Platone, dagli stoici allo gnosticismo. Il De secretis naturae e il suo «antenato» Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione) rappresentarono, pertanto, un approfondimento su una disciplina tanto antica, quanto ancora oscura. La tradizione alchemica, grazie a quel misterioso libro medievale, secondo la studiosa di ermetismo mediorientale Pinella Travaglia che ne ha curato l’edizione italiana, «non si era mai introdotta con forza, fino ad allora, con sistemi di tale complessità». Numerosi riferimenti alla tradizione alchemica sono presenti, ovviamente, nel capitolo dedicato all’origine dei minerali. Il calore primordiale alla base di ogni processo di creazione genera

Particolare della pagina di un’edizione manoscritta del Kitab sirr al-haliqa (Libro della creazione), opera araba del IX sec. redatta durante il califfato abbaside di al-Ma’mun. Dal suo contenuto è tratto il De secretis naturae curato da Ugo di Santalla.

due elementi opposti, il fuoco e l’acqua. Quest’ultima, anch’essa con un processo di «polarizzazione», dà luogo al mercurio che, a sua volta, combinandosi con lo zolfo genera tutti i metalli. I minerali subiscono l’influenza dei pianeti e incidono allo stesso modo sulla vita degli astri, nel rispetto di quella visione cosmologica che rende possibile qualsiasi unione tra elementi, prescindendo da un ordine gerarchico. Nel manoscritto si sostiene che i minerali, nella loro primigenia manifestazione, erano in realtà oro. In seguito la reazione con altri elementi aveva corrotto quella purezza originaria che, tuttavia, sopravviveva come loro base costitutiva. In qualunque momento, quindi, poteva essere riesumata attraverso un processo alchemico. Il mondo vegetale, come quello minerale, viene generato dall’acqua che si unisce alla terra nel momento in cui i pianeti compiono una determinata rotazione. Il libro nei suoi ultimi capitoli, assume la forma di un trattato enciclopedico soltanto descrittivo dei fenomeni della natura. Le piante, per esempio, vengono ritratte con dovizia di particolari nel loro aspetto esteriore, come del resto anche l’uomo, a cui è dedicata la successiva sezione del manoscritto, prima dell’ultimo capitolo che presenta il testo della Tavola di smeraldo. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

61


ERMETISMO

Alchimia

FABBRICANTI DI SOGNI E DI RICCHEZZA

62

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


di Chiara Crisciani Il gabinetto dell’alchimista, olio su tela di David Teniers il Vecchio (1582-1649). Carcassonne, Musèe des beaux-arts.

V

olendo unificare in una sola definizione le forme di alchimia che si sono presentate in varie civiltà (in Cina, nel mondo ellenistico, nei domini islamici), si può dire che l’alchimia è una pratica operativa di trasformazione concreta di sostanze materiali, effettuata in laboratorio. Tale trasformazione è volta a

«perfezionare» tutti i livelli materiali del creato (tra cui il corpo dell’uomo) e si effettua per lo piú tramite un agente perfezionante che non esiste in Natura. È questo agente (lapis, elixir, medicina) il principale scopo delle operazioni alchemiche in quanto trasmette la propria perfezione ai corpi opportunamente preparati su cui viene proiettato. Su questa base – anche nel caso dell’alchimia latina medievale (XII-XV secolo) – vari sono gli obiettivi particolari degli interventi dell’alchimista. Innanzitutto si ha la trasmutazione dei metalli, la cosiddetta alchimia metallurgica, cioè quella serie di operazioni per cui i metalli vili, tramite il lapis, sono portati alla perfezione di oro e argento. Accanto a questo scopo principale si registra anche la produzione di sostanze inalterabili (perle e gemme artificiali, vetri e pigmenti speciali), nonché la ricerca di «medicine» equilibrate e perfette (ricavate da metalli o anche da ingredienti organici) in grado di conferire incorruttibilità al corpo umano: o meglio, nella cultura cristiana, la guarigione rapida e completa dalle malattie e il prolungamento della vita in salute ed efficienza fino a quel «termine previsto da Dio» per l’organismo (alchimia dell’elixir o alchimia della prolongevità). È evidente la contiguità tra le pratiche degli alchimisti e quelle degli artigiani (vetrai, tintori, fabbri, orefici, farmacisti), ma tra gli uni e gli altri c’è una differenza fondamentale.

Un sapere filosofico

Se infatti le attrezzature e alcuni procedimenti sono spesso assai simili, gli alchimisti si distinguono da tutti gli altri perché inquadrano le loro operazioni in articolate riflessioni scientifico-filosofiche e religiose che le giustificano, le fondano e le orientano. Le pratiche artigianali rinviano, invece, a una tradizione orale, a un apprendistato di bottega, a ricettari; l’alchimia – in cui pure questi aspetti sono presenti – si struttura anche e soprattutto come una disciplina, cioè come un insieme assai vasto di dottrine e di testi. Sottesa alla ricetta qui dunque sta la teoria; accanto alla tradizione orale si snoda una tradizione scritta, la piú solida forma di legittimazione di un sapere che si definisce filosofico (l’alchimia è «la piú eccellente e nobile parte della filosofia»; è «arte filosofica»). D’altra parte, se fanno riferimento ai molti libri e allo studio che sono indispensabili per praticare l’«arte filosofica», gli alchimisti precisano anche la particolare natura della loro «filosofia», diversa per molti aspetti dalle concezioni filosofico-naturalistiche e mediche di orientamento aristotelico e di carattere eminentemente dottrinario. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

63


ERMETISMO

Alchimia

Quello alchemico, infatti, è essenzialmente un sapere operativo, un «sapere che nasce dal fare», nel senso che solo operando, propriamente, l’alchimista conosce. Se necessari sono i libri, nel fare filosofico dell’alchimista ancor piú rilevanti sono l’odorato, il gusto, il tatto, e soprattutto gli occhi acuti e addestrati, le mani agili e robuste con cui egli percepisce, manipola e saggia le sostanze materiali su cui lavora e che trasforma. Per queste sue caratteristiche l’alchimia non è – contrariamente a convinzioni diffuse – una protochimica, una tecnica dei metalli, forse ancora incerta ed erronea ma sostanzialmente in continuità con la chimica moderna: non lo è perché le finalità e i metodi sono diversi, e sono quelli di una filosofia operativa per perfezionare (anche se è certo vero che la strumentazione tecnica e varie procedure transitano dall’alchimia alla chimica). L’alchimia non è però neppure una tecnica di elevazione solo spirituale, che avrebbe a che vedere essenzialmente con le trasformazioni dell’anima, allegoricamente espresse dalle vicende dei metalli, perché se è vero che gli alchimisti sottolineano l’importanza di un’evoluzione interiore dell’operatore e il rilievo di certe sue qualità, queste sono solo alcune tra le condizioni perché il lavoro concreto di effettiva trasformazione di sostanze materiali sia efficace.

Un collaboratore di Dio

È indubbio, d’altra parte, che il progetto alchemico volto a perfezionare, qui e ora, la materia ha delle evidenti connotazioni religiose. L’alchimista si presenta infatti come un filosofo operatore che «si prende cura del mondo» (istanza tipica dell’ermetismo, che è uno degli sfondi filosofici dell’alchimia araba e latina); che sa insinuarsi, con dolcezza e competenza, nei processi naturali, e intreccia con la Natura complessi rapporti di rispetto reverente, di soccorrevole intervento, di collaborazione; che agisce, infine, come chi ri-crea aspetti della realtà materiale perché li rende concretamente perfetti. Non di rado allora l’alchimista medievale si dice co-creatore, cioè collaboratore di Dio nel progetto di ripristino di una piena perfezione dei corpi. Questo compito è religioso ma anche filosofico, perché punta a perfezionare, ma secondo dottrine ed experientia (non cioè per vie irrazionali o miracolose). L’alchimia – il termine stesso, i testi fondamentali – compare nella cultura latina occidentale solo nel XII secolo, e gli autori dell’epoca ne parlano come di un’assoluta novità, del tutto ignota ai Latini. Novità, perché? Nella cultura classica, non mancavano certo conoscenze su minerali, metalli, trasformazioni tecniche; e anche nei secoli di degrado degli studi queste conoscenze rimangono vive, benché frammen64

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Pagina tratta da un’opera sull’alchimia del XV sec. in cui viene spiegato

che il Sole e la Luna sono composti integralmente da calore e umidità.

UN SOVRANO PER APPRENDISTA Inaugura lo schema di rapporto maestro-allievo, poi spesso riproposto, il Liber de compositione alchimie di Morieno (la prima opera alchemica tradotta dall’arabo nel XII secolo e diventata subito un testo di fondazione e di riferimento anche per gli alchimisti latini), che offre un esempio molto bello di iniziazione-ammaestramento. Vi si racconta la tortuosa formazione di Morieno, cui segue la descrizione del periodo di vita eremitica tutta da lui dedicata all’arte alchemica e alla devozione, fino a che il re Calid non chiede di essere a sua volta istruito nell’arte. Morieno attende che le brame di ricchezza terrena e l’iraconda imperiosità di Calid si trasformino in autentico desiderio di conoscenza e in umile affetto; lo sceglie, anch’egli con affettuosa benevolenza, come erede del suo sapere; lo esorta allo studio e gli spiega alcune teorie e certe strane definizioni degli autori letti. Infine, si accinge all’opus, invita Calid a collaborare e a vedere. Solo a questo punto i libri non servono piú all’allievo perché – come spiega Morieno – «colui che ha visto la composizione di quest’opera non è piú come colui che continua a ricercarla nei libri».


UN TESORO CHE NON PERISCE «È questa, figlio, la pietra eccelsa (...) che trasforma tutti i corpi imperfetti in corpi capaci di produrre all’infinito vero oro e vero argento. E similmente diciamo che ha virtú ed efficacia al di sopra di tutte le altre medicine, e che può guarire realmente tutte le malattie del corpo umano (...). Per questo, poiché è di natura sottilissima e nobilissima, e riporta tutte le cose al loro temperamento perfetto, conserva la salute e rafforza le energie, e le moltiplica al punto che ringiovanisce i vecchi (...) Perciò, figlio, se la possiedi tu possiedi un tesoro che non perisce. Inoltre questa medicina ha ancora un altro potere, che è quello di rendere senza difetti qualsiasi altro essere animato e di vivificare tutte le piante a primavera, a motivo del suo grande e meraviglioso calore» (da Pseudo-Lullo, Testamentum, in M. Pereira, L’oro dei filosofi. Saggio sulle idee di un alchimista del Trecento, CISAM, Spoleto, 1992).

Seduto al suo tavolo da lavoro, sul quale si vedono una bilancia e alcune coppe, un alchimista prepara un composto, dal The

Ordinal of Alchemy, scritto dal poeta e alchimista inglese Thomas Norton. 1477 circa. Londra, The British Library.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

65


ERMETISMO

Alchimia

TRA FORMULE E PREGHIERE Tra quanti si dedicano alla ricerca della «pietra filosofale» o alla distillazione della «quintessenza» non mancano gli uomini di Chiesa, che alternano lo studio delle Scritture e la preghiera con le speculazioni filosofiche in grado di giustificare le possibili affinità tra alchimia e religione BONAVENTURA DA ISEO

Bonaventura da Iseo è definito dallo stesso Salimbene «sapiente, industrioso e sagacissimo», ed è autore del Liber Compostille. Qui leggiamo significativi prologhi (sul senso dell’arte, la sua finalità, l’organizzazione del lavoro alchemico, l’uso del «talento» ricevuto da Dio) e molte ricette: alcune sono specificamente alchemiche e mineralogiche; altre piú alchemico-mediche. Importante è il contributo di Bonaventura all’alchimia delle acque medicinali, al confine tra alchimia, medicina e farmacologia.

RUGGERO BACONE

Non sono pochi i nomi di Francescani legati all’alchimia. Ruggero Bacone, nel XIII secolo, ha un ruolo di primo piano sia nell’integrazione filosofica dell’alchimia araba nella cultura latina, sia nel proporre la nuova linea dell’alchimia dell’elixir. Secondo Salimbene de Adam, praticare l’alchimia (qui intesa come arte metallurgica) è l’undicesimo «difetto» del discusso generale dell’Ordine Elia da Cortona (cui sono attribuiti opuscoli e sonetti alchemici), e si affianca al suo orgoglio e alla sua cupidigia di ricchezze.

66

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

ARNALDO DA VILLANOVA

Nel XIV secolo spiccano due nomi: Arnaldo da Villanova e Giovanni di Rupescissa. Il primo non è francescano, è un medico famoso sia nella professione (è medico di papi e di sovrani) sia nell’insegnamento all’Università di Montpellier. Laico, Arnaldo però fa propri gli ideali evangelici dei Francescani Spirituali di Provenza, che sostiene con la predicazione, con gli scritti polemici e con opere devozionali in volgare, con l’appoggio presso i potenti, con la proposta di riforme; ad Arnaldo sono attribuite varie opere alchemiche, coerenti nel proporre fini sia trasmutatori che terapeutici.


GIOVANNI DI RUPESCISSA

Giovanni di Rupescissa infine appartiene invece proprio alla corrente degli Spirituali. Il suo libro sulla quintessenza porta a pieno sviluppo l’integrazione tra tecniche distillatorie e alchimia terapeutica. C’è chi ha trovato singolare questo interesse e ha colto una specie di ironia della storia nell’attenzione che i Francescani, fautori della povertà, dimostrano per l’alchimia, l’arte di produrre oro e ricchezza. In realtà, il loro interesse è decisamente rivolto all’alchimia terapeutica e al prolungamento della vita. E non è affatto strano che chi, come Bacone o gli Spirituali, insegue un programma di profonda renovatio religiosa ed ecclesiale, veda nell’alchimia – arte della trasformazione e del perfezionamento della materia – un ausilio prezioso per i propri scopi e, al tempo stesso, un caso esemplare di rinnovamento.

tarie e affievolite, nei lapidari, nei ricettari tecnici, nelle enciclopedie altomedievali. Tali informazioni e nozioni sono prive, però, di quello sfondo teorico e filosofico che definisce il progetto di trasformazione-perfezionamento della materia che è specifico dell’alchimia. Sono appunto queste teorie e queste prospettive filosofiche a essere viste, giustamente, come «nuove». Nuove e tutte mutuate dalla cultura araba, erede e trasformatrice dell’alchimia ellenistica: è la cultura araba, infatti, che crea le teorie specifiche, i concetti, la stessa terminologia tecnica e i principali orientamenti dottrinari su cui si fonda l’alchimia latina medievale.

Un sapere non istituzionalizzato

Dopo una prima fase di avida apertura di fronte a questo sapere si affermano, anche in Occidente, linee e correnti alchemiche relativamente autonome dall’influenza islamica, e correlate invece agli sviluppi scientifici e filosofici che, specialmente con l’istituzione delle università, la nascita degli Ordini mendicanti e lo sviluppo della cultura di corte, rendono particolarmente vivace il panorama dottrinario del Due e Trecento. Pur integrato in questo panorama, il programma alchemico, soprattutto per il peso dato all’operatività, alla trasformazione concreta, a un rapporto collaborativo con la Natura, sarà però sempre anomalo rispetto alla filosofia naturale aristotelica allora dominante: non a caso gli studi alchemici non vengono inseriti nei curricula universitari, e l’alchimia resterà un sapere non istituzionalizzato,

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

67


ERMETISMO

Alchimia LA PERFEZIONE IN 4 MOSSE Un’esauriente lista delle operazioni che l’alchimista compie sui metalli e minerali è fornita nella Summa di Paolo di Taranto: sublimazione, distillazione, calcinazione, dissoluzione, solidificazione, indurimento, cerazione. A queste vanno poi aggiunte le operazioni di saggiatura – cimentazione e coppellazione – note a vari tipi di artigiani fin dall’epoca ellenistica. Anche Ruggero Bacone, nell’Opus Tertium, fornisce un elenco ancora piú dettagliato di procedimenti. Numerosi e vari sono peraltro gli schemi che definiscono l’insieme dell’opus. Per lo piú, l’intento del processo e la sua scansione sono ridotti a quattro fasi (che sono ripetibili a vari livelli e possono comportare molte operazioni): ridurre una qualunque sostanza a una massa informe, indistinta (nigredo); ritrovare in questa i quattro elementi e raffinarli (ablutio); ristrutturarli in modo equilibrato (congelatio); fissare (fixatio) la perfezione cosí raggiunta. Questo prodotto proietterà poi la sua perfezione su altri corpi, a loro volta preparati con vari procedimenti.

68

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


strutturato certo, ma solo secondo le regole della propria tradizione. La traiettoria dell’alchimia latina presenta vari momenti significativi tra il XII e il XV secolo. In una prima fase s’impone, comprensibilmente, la prospettiva metallurgica: da un punto di vista teorico, perché le dottrine arabe forniscono conoscenze sul mondo inorganico poco sviluppate nel sistema naturalistico aristotelico; da un punto di vista operativo, per l’ovvio interesse economico che le pratiche di trasmutazione comportano. Non a caso principi e potenti sono attenti a queste promesse e troviamo alchimisti ospiti, con alterne vicende, presso corti piccole e grandi; interessi alchemici di vario tipo sono presenti tanto alla corte dei Papi nel Duecento, quanto a quella di Federico II. Qui Michele Scoto (uno dei primi autori latini di alchimia) scrive testi in cui coordina nuove dottrine arabe con già noti apporti artigianali, e collega la pratica alchemica alla scienza astrologica, in base alla riconosciuta corrispondenza tra metalli e pianeti.

L’obiettivo piú ambizioso

Nell’alchimia metallurgica, il testo latino piú significativo è la Summa perfectionis magisterii (attribuita all’alchimista arabo Geber e in realtà scritta dal francescano Paolo di Taranto intorno alla metà del Duecento). L’alchimia vi è presentata come scienza e tecnica ma anche come una parte della filosofia: filosofi sono detti, infatti, gli artefici dell’opus. Questo – cioè la serie completa delle operazioni per produrre il lapis philosophorum, la pietra filosofale, per predisporre i metalli da trasformare, per effettuare infine la trasmutazione – è spiegato con chiarezza e con la sicurezza dello specialista. La trasmutazione metallica, però, suscita presto perplessità. Come è possibile modificare i metalli, che sono specie fissate dalla Natura? Questo progetto non è dunque anche un superbo e vano attentato alle stabili leggi imposte da Dio alla sua creazione, o comunque – piú aristotelicamente – insite nel divenire naturale? La Natura (e i suoi prodotti) sono in ogni caso superiori all’arte, che si sforza sí di imitarla, ma non potrà mai eguagliarla, anche perché l’artefice non può conoscere i piú sottili e profondi processi naturali. Mai potrà dunque riprodurre in breve tempo in laboratorio e con i suoi fuochi ciò che la Natura crea in secoli e secoli nelle viscere della Terra. Questi sono alcuni argomenti del dibattito sull’alchimia (quaestio de alchimia) che si va sviluppando nel Duecento e nel Trecento e cui partecipano, tra gli altri, pensatori come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Egidio Romano. Accanto alle critiche teoriche, le accuse: se, come pare, gli alchimisti non possono imitare la Natura, non ottengono dalle loro operazioni oro vero;

In alto e nella pagina accanto illustrazioni tratte da una edizione dello Splendor Solis, trattato sull’alchimia pubblicato per la prima volta negli anni Trenta del Cinquecento. Ignoto è il nome del suo autore, ma è stato piú volte ipotizzato che possa trattarsi di Salomone Trismosin, leggendario insegnante di Paracelso.

cercano di spacciare per tale un oro falso, «tinto», cioè metalli vili modificati solo all’apparenza e in superficie: essi sono dunque falsari. Su queste premesse, gli Ordini religiosi vietano lo studio e la pratica dell’arte, e papa Giovanni XXII condanna gli alchimisti falsari nel 1317. Queste condanne – che testimoniano per altro l’ampia diffusione dell’alchimia – non hanno, sembrerebbe, effetti rilevanti, visto che testi di trasmutazione continuano a essere scritti e anche dedicati a pontefici. E se l’inquisitore Nicola Eymeric, sul finire del Trecento, considera tutti gli alchimisti falsari e li accusa di patto demonico, altri testimoni, i giuristi, ricordano invece trasmutazioni efficaci (Giovanni d’Andrea dichiara di avervi assistito, e proprio alla Curia papale), e giudicano legittima l’arte trasmutatoria, purché sia esercitata sotto il controllo del principe. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

69


ERMETISMO Alchimia ERMETISMO Alchimia CAMERE SEGRETE Che cosa concretamente faceva l’alchimista, e com’era il suo laboratorio? Si dice che fino a qualche decennio fa fosse possibile, per alcuni privilegiati, visitare laboratori di alchimisti in Marocco; anni or sono sono stati ritrovati i resti di un laboratorio per la distillazione, con l’attrezzatura relativa, al centro di Parigi, distrutto – non si sa il perché – nella seconda metà del XIV secolo. Anche nel Palazzo Reale di Palma di Maiorca è stata scoperta di recente una camera segreta, forse il laboratorio di un alchimista al servizio del sovrano. Queste testimonianze e reperti archeologici, se ci confermano l’esistenza di artefici dediti non solo alla stesura di trattati, non conservano però purtroppo sufficienti tracce dell’effettivo procedere del lavoro alchemico: una volta di piú i nostri informatori privilegiati

70

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

sono gli alchimisti stessi. Non mancano, per esempio, descrizioni del laboratorio. Un testo del Trecento raccomanda che sia sistemato cosí: «L’artefice deve disporre di una abitazione particolare, lontano dalla vista degli uomini. In essa dovranno esserci due o tre camere in cui si possano fare le operazioni per sublimare, per eseguire soluzioni e distillazioni». Nello stesso secolo, il francescano Bonaventura da Iseo, nel suo celebre Liber Compostille, aggiunge che queste stanze devono essere alcune luminose, altre in penombra, ben dotate di finestre. Concorda poi con la necessità che il laboratorio sia isolato, sia per salvaguardare l’operatore dalle rimostranze dei vicini a causa del fracasso, dei fumi e degli odori prodotti, sia per garantirgli una certa discrezione. Bonaventura, come altri,


dedica ampie descrizioni ai molti tipi di forni, fornaci, recipienti per i diversi usi che si trovano nel laboratorio di un alchimista. In numerosi manoscritti – fin dai piú antichi – queste accuratissime descrizioni sono accompagnate da disegni molto dettagliati, che fanno la gioia degli storici delle tecniche e degli strumenti; in altrettanti casi, le operazioni alchemiche sono invece allegoricamente rappresentate da splendide illustrazioni simboliche. Ma, a proposito di manoscritti, va detto che quelli latini medievali sono scarsi fino al XIV secolo: alcuni hanno ipotizzato che ciò sia dovuto al fatto che fino a quest’epoca la pratica fosse prevalente sullo sviluppo della teoria, e che i pochi testi, utilizzati come prontuari nell’attività di fumosi laboratori, tra fuochi, acidi e liquidi corrosivi, subissero spesso danni e distruzioni.

Illustrazione di un vaso per la quintessenza, con cui, nel linguaggio alchemico, si intendeva la forza attiva di un corpo.

L’«INVITO A COMPARIRE» DEL RE D’INGHILTERRA Conosciamo numerosi salvacondotti, specie della corte inglese nel Trecento, con cui vari sovrani consentono, anzi impongono, ad artefici (di cui ci è noto solo il nome), di presentarsi a corte con i loro strumenti per la trasmutazione, poiché al re è giunta fama dei loro successi. Il tono e le formule non lasciano dubbi sulla effettiva libertà di manovra dell’alchimista: «Se di buona grazia vorranno venire da noi, allora siano condotti gentilmente e con garanzia; e se non vorranno raggiungerci di buona voglia, allora siano arrestati e ci vengano presentati, dovunque ci troveremo».

In alto ricostruzione del laboratorio di un alchimista del XV-XVI sec. Nella pagina accanto Il laboratorio di alchimia, dipinto di Giovanni Stradano. 1570. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera fu destinata allo studiolo di Francesco I, un piccolo ambiente nel quale il granduca amava ritirarsi in solitudine coltivando i propri interessi scientifici e magico-alchemici.

Comunque, nel XIV secolo, l’alchimia metallurgica sembra risentire di queste esclusioni e critiche. La trasmutazione dei metalli resterà certo tra gli scopi dell’alchimia, ma è proprio il programma di trasformazione della materia che (forse anche per la difficoltà di fondare pienamente la trasmutazione) si articola e si allarga ad altri obiettivi.

L’elixir, fonte di salute e longevità

In questa direzione gli alchimisti del Trecento sviluppano le prospettive molto innovative che già Ruggero Bacone aveva avanzato sulla base dello pseudo aristotelico Secretum secretorum. Per Bacone l’alchimia è scienza complessiva di

ogni tipo di generazione e trasformazione, e fonda pertanto la medicina e l’alchimia pratica; questa è in grado di produrre oro piú perfetto di quello naturale: soprattutto può predisporre «medicine» in cui l’incorruttibiltà (perfezione) dei metalli nobili si unisce alla dinamicità della vita. Si tratta di «farmaci», di elixir che moltiplicano dunque la loro perfezione anche sul corpo dell’uomo, garantendo salute e longevità. Questo orientamento «terapeutico» (che avvicina strettamente, pur nelle molte differenze, alchimia e medicina) è tipico dell’alchimia latina nel tardo Medioevo: si esprime in testi molti ampi, filosoficamente impegnativi, ricchi di scambi con la filosofia naturale e la medicina contemporanee (il Testamentum attribuito a Lullo, il Rosarius attribuito al famoso medico Arnaldo da Villanova). L’alchimia dell’elixir si collega inoltre, nel Trecento, alla preesistente tradizione farmacologica delle acque distillate; nuovi ritrovati tecASTRI, SPIRITI E MAGIE

71


ERMETISMO

Alchimia

nici consentono poi la distillazione del vino. L’acqua ardente e l’alcol cosí ottenuti si incontrano con l’idea di elixir nell’opera di Giovanni di Rupescissa: egli definisce «quintessenza» questo prodotto, che ripeterebbe sulla Terra l’incorruttibile materia dei corpi celesti. Con l’alcol è poi possibile, a suo avviso, estrarre la quintessenza di altre sostanze, e ottenere farmaci piú efficaci di quelli tradizionali. Queste correnti medico-farmacologiche rappresentano il massimo sviluppo dell’alchimia latina medievale: anche da esse prenderà le mosse Paracelso nel XVI secolo. Chi è l’alchimista? È vero che, specie nel XIII e XIV secolo, si ha l’impressione che chi si dedica a queste ricerche sia medico, o almeno abbia una buona preparazione medica. Niente di piú che un’impressione, allo stato attuale delle indagini, perché la figura dell’alchimista in quanto tale, il suo ruolo, la sua appartenenza sociale sono assai difficili da decifrare: mancano, in questo caso, i documenti che informano su altri mestieri e professioni. Ricerche, percorsi di formazione, prestazioni che, come appunto quelli alchemici, non sono istituzionalizzati sono infatti affidati quasi solo alle testimonianze altrui (troppo spesso polemiche o malevole), e ai testi alchemici stessi: non sono documentati da cartulari universitari, né da registri di corporazioni, né da tariffari.

L’alchimista si descrive

Nei testi degli alchimisti, tuttavia, si trova una documentazione che è senz’altro significativa circa l’immagine che essi intendono dare del loro sapere e di sé. Innanzitutto l’alchimista si presenta come filosofo e artefice. Abbondano cosí, in apertura dei trattati, i rinvii alle lunghe e ripetute letture, ai molti libri, alle veglie di studio; si affiancano a indicazioni su robustezza, salute, vigoria fisica, sensi acuti e allenati, condizioni altrettanto indispensabili per fronteggiare le fatiche fisiche dell’opus. Molto sottolineate sono poi certe attitudini caratteriali di cui l’alchimista deve disporre: egli sarà dotato – ripetono i testi – di benevolenza, umiltà, devozione (necessarie per ottenere l’aiuto divino in un’attività che si affianca a quella del Creatore); di operosità, costanza, pazienza (senza le quali sarebbe impossibile controllare ed eseguire con successo le operazioni di laboratorio). Due sono le condizioni che vengono dette indispensabili al lavoro dell’alchimista. Innanzitutto, occorre che l’operatore abbia un’ampia disponibilità economica; quest’arte – si ribadisce – non è per i poveri: ingredienti, libri, attrezzature, lo stesso laboratorio costano; né l’alchimista sa valutare con certezza 72

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

il tempo necessario alla riuscita (continua infatti a raccomandare la pazienza), e quindi non può programmare con sicurezza il proprio investimento. Cosí suona un’avvertenza spesso ripetuta: «Nessuno intraprenda queste operazioni se non ha fondi abbondanti almeno per due anni per poter comprare tutto ciò che è necessario all’arte. Se uno inizia ugualmente, e poi gli mancano i soldi, perderà le sostanze e tutto».


Nella pagina accanto la miniatura realizzata dal pittore, decoratore e poeta Jean Perréal come frontespizio per il suo poema Complainte de Nature à l’alchimiste errant (Rimostranze della Natura all’alchimista vagabondo). 1516. Parigi, Musée Marmottan. In basso un pezzo d’oro e uno d’argento che sarebbero stati ottenuti, grazie alla trasmutazione, dal ceramista e alchimista tedesco Johann Friedrich Böttger (1682-1719), che lavorò al servizio di Augusto II, re di Polonia. 1713. Dresda, Staatliche, Kunstsammlungen. I due oggetti, probabilmente ricavati dalla fusione di alcune monete, furono fabbricati per stupire il sovrano e guadagnarne i favori.

Insomma: l’alchimia (metallurgica) sarebbe un’arte che da ricchezza data produce e moltiplica ricchezza, e suscita per questo inquietudini etiche sulla destinazione sociale di tali ricchezze. È anche per questo che il luogo forse privilegiato per l’attività degli alchimisti metallurgici sono le corti, con i principi avidi e impazienti di risultati ma buoni finanziatori e patroni. E, d’altra parte, anche per le perplessità morali circa questo modo di produrre ricchezza alcuni maestri scolastici, che pure giudicano l’alchimia scientificamente possibile, ne sconsigliano vivamente la pratica: c’è infatti pericolo che intere province diventino preda di confusione economico-finanziaria per un’eccessiva produzione di metallo pregiato; per non parlare del rischio che, per la speranza di una ricchezza cosí facile, i mestieri vengano abbandonati e si sovverta cosí l’ordine sociale.

Cauti e attenti nel parlare

L’altra condizione, sempre raccomandata, è la discrezione: gli alchimisti devono essere cauti e attenti nel parlare, atteggiamenti che rimandano a preoccupazioni «monopolistiche» proprie anche ad altri professionisti; ma soprattutto alla convinzione che a questo eccelso sapere possa accedere solo chi l’alchimista stesso sele-

ziona con un linguaggio talora volutamente fuorviante. Del resto, avvertono molti autori, solo speciali illuminazioni divine, o meglio gli incontri provvidenziali che il principiante ha con maestri piú esperti possono chiarire i testi oscuri. In varie descrizioni di questi incontri, il rapporto tra alchimisti si snoda secondo tappe definite. Chi piú sa accerta nell’altro la presenza delle doti necessarie, e si adopera per potenziarle; i due leggono insieme i testi della tradizione, cercano di interpretarli e di superare le contraddizioni degli autori che, alla fine, si rivelano solo apparenti. Soprattutto maestro e allievo operano insieme: oltre allo studio diligente, alle prove ripetute con pazienza, l’«imparare facendo», insieme a chi è piú esperto, è la forma tipica di addestramento. Per conseguire perizia, impadronirsi di conoscenze, incontrare esperti o provvidenziali maestri, l’alchimista viaggia, e molto. Il viaggio può certo essere un topos che allude a un itinerario iniziatico dell’adepto; d’altra parte, però, l’alchimista Leonardo di Maurperg (sec. XIV) ha lasciato una descrizione molto minuziosa del suo lungo peregrinare. Reale o metaforico, forse proprio il viaggio indica l’essenza del programma alchemico: un percorso – della materia e dell’artefice – dalle carenze e dagli errori iniziali fino alla stabilità della perfezione.

IL MONITO DI ALBERTO MAGNO «Il settimo precetto è che tu dovrai soprattutto stare attento nel lavorare presso principi o potenti, a causa di due gravi inconvenienti. Se infatti avrai accettato l’incarico, di tanto in tanto ti chiederanno notizie e ti diranno: «Maestro, come ti sta andando? quando vedremo qualcosa di buono?». E poiché non sanno aspettare la fine dell’opus, ti diranno che non combini nulla, che si tratta di una truffa, e cosí via; e tu ne avrai un gran disagio. E se non otterrai un buon risultato, da ciò ricaverai perpetuo discredito. E se poi invece avrai conseguito un buon esito, trameranno per trattenerti presso di loro per sempre e non ti consentiranno di andartene. E in tal modo sarai impaniato e irretito dalle parole della tua stessa bocca, dai tuoi propri discorsi». La validità di questi ammonimenti, attribuiti ad Alberto Magno, sembra confermata da altre notizie – non molte, in verità – che abbiamo sulle vicende a corte di alchimisti medievali. Basti, tra tutti, il caso di Tommaso da Bologna, padre di Cristina Pizan. Medico e astrologo alla corte di Francia nel XIV secolo, egli non promette ricchezze, ma un farmaco meraviglioso (forse un tipo di oro

potabile). Ma il principe cosí curato sta male, e Tommaso, in ansia, scrive una lettera angosciata a un medico collega e amico: gli spiega la teoria che ha seguito, descrive il preparato e le sue virtú: dove ha sbagliato? Desiderava solo prodigarsi al meglio per i suoi signori, ma ha fallito e ora la rovina si sta abbattendo su di lui.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

73


ERMETISMO

Alchimia

INTUIZIONI E INVETTIVE DI UN ALCHIMISTA FILOSOFO Il Medioevo fu l’era della diffusione della «Grande Opera» in Occidente e anche l’età dei grandi alchimisti. Alcuni tra i piú noti provenivano da ambienti cristiani, come il già citato medico e scrittore spagnolo Arnaldo da Villanova (1240-1312). Famoso fu anche il connazionale Raimondo Lullo (1233-1316), autore dell’Ars magna e, soprattutto, del Liber de secretis naturae seu de quinta essentia – considerato da alcuni studiosi un testo apocrifo –, nel quale espresse la sua visione alchemica dell’esistenza: l’umanità, tendenzialmente portata al male, può emendarsi attraverso un processo di purificazione spirituale trasmutando gli elementi della natura. Seguendo questo percorso, l’individuo possedeva la facoltà o il libero arbitrio di scacciare i demoni che colonizzavano la sua sfera interiore. In un altro scritto attribuito a Lullo, il Testamento, si risale alla creazione del mondo che Dio compí a partire da una materia originaria, il mercurio (argentum vivum), da cui poi prese forma la quintessenza. Quest’ultima era ricavabile dall’uomo con un processo alchemico, purificando sostanze affini come, per esempio, l’alcol. Il lullismo ebbe una grande influenza sull’alchimia dei secoli seguenti, a partire dalle elaborazioni del medico svizzero Paracelso (1493-1541). Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim – questo era il vero nome dello scienziato elvetico – rivoluzionò la medicina del Rinascimento, servendosi proprio di credenze magico-alchemiche. Figlio di un medico di Zurigo, studiò medicina in Germania, Italia e Francia. I suoi metodi terapeutici sembravano funzionare, in base alle testimonianze di qualche notabile dell’epoca, e questa buona reputazione gli consentí di diventare docente all’università di Basilea. I resoconti sulle sue lezioni rivelano l’eccentricità e l’irruenza del cattedratico che non amava insegnare con metodi ortodossi. 74

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Utilizzava una lingua di sua invenzione ottenuta mescolando tedesco, dialetto locale, latino, e spesso si lanciava in invettive violentissime contro i suoi colleghi definendoli ignoranti e malandrini: «Sappiate dottori – dichiarò un giorno – che la mia barba ha piú esperienza di tutte quelle delle vostre università, il piú sottile capello della mia nuca ne sa piú di tutti voi, le fibbie della mie scarpe sono piú sapienti dei vostri sapienti piú famosi». Suoi bersagli preferiti erano anche i farmacisti «salami da minestra, cuochi di sozzerie, bercioni che sporcano e impasticciano, buoni solo a far bricconate e cose tali che manco alle scrofe riescono». La sua totale avversione nei riguardi della scienza ufficiale era tale da spingerlo a bruciare in pubblico i libri di Galeno e Avicenna, autori di riferimento nell’ambito della teoria e della pratica medica nel Medioevo. Riversò una buona parte delle sue tesi innovative in materia negli Archidoxae medicinae libri e ne La grande chirurgia. Nell’Età di Mezzo, in accordo con le antiche intuizioni di Ippocrate, si credeva che la malattia dipendesse dallo squilibrio tra i quattro umori corporei (la bile nera, la bile gialla, il flegma e il sangue) riparabile con farmaci, dieta e salassi. Paracelso contestava questo radicato assunto ritenendo fondamentale, invece, un approccio terapeutico a piú ampio spettro, tale da prendere in considerazione anche la dimensione spirituale e psicologica del paziente: l’anima e il corpo dovevano essere curati insieme secondo un principio tuttora seguito dalla medicina olistica. Riecheggiando la tradizione ermetico-alchemica, Paracelso sosteneva che il corpo umano fosse costituito dagli stessi elementi di cui si componeva l’intero creato: il sale, lo zolfo e il mercurio. Una perfetta unione di queste sostanze all’interno dell’organismo assicurava uno stato di salute buono, mentre la loro separazione – e, di

conseguenza, la loro riconoscibilità come elementi individuali – provocava gravi patologie. L’eventuale terapia farmacologica si basava sulla somministrazione di composti ottenuti con un procedimento alchemico su sostanze minerali. La filosofia paracelsiana destinò, pertanto, le conoscenze esoteriche a un utilizzo etico seguendo il principio secondo il quale «non è già come dicono, che l’alchimia fabbrichi oro e argento», ma attraverso di essa si fabbricano gli «arcana». rivolgendoli contro le malattie. Paracelso lasciò alla cultura e alla scienza rinascimentale un patrimonio pratico, non solo teorico. Prediligeva, infatti, compiere esperimenti in laboratorio, luogo nel quale – secondo lui – il medico doveva farsi le ossa invece che perdere tempo su testi obsoleti. Se la via da lui indicata era destinata a rivelarsi ben presto profondamente sterile, non fu però senza meriti la sua lotta polemica contro gli ambienti tradizionali legati a schemi ormai infecondi e superati. Dopo avere insegnato ed esercitato la professione medica in Svizzera e Germania meridionale, morí in circostanze misteriose.

Ritratto dell’alchimista e filosofo svizzero Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, noto come Paracelso (1493-1541).


di Francesco Colotta

DOSSIER CROCIATE

75


STREGONERIA

STREGONERIA

76

Donne diaboliche

I signori dell’occulto

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

I saperi esoterici furono spesso utilizzati dagli operatori di magia al fine di colpire altre persone. La diffusione di simili pratiche stregonesche indusse la Chiesa a ricorrere a forme violente di repressione, esercitate dai giudici dell’Inquisizione

Un gruppo di streghe si prepara al volo magico, incisione di Adrianus Hubertus. XVI sec.


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

77


STREGONERIA

Donne diaboliche

L’

attività di operatori dell’occulto, in particolare donne, volte a recare danno ad altre persone si definisce comunemente «stregoneria», una disciplina confinante e in alcuni casi sovrapponibile alla «magia nera». I primi atti di stregoneria della storia risalgono al II millennio a.C. e sono testimoniati dal Codice di Hammurabi, che prevedeva dure sanzioni per chi operava incantesimi a scapito del prossimo. Le streghe facevano paura nell’antica Roma e non solo per la rappresentazione letteraria fornita dagli Epodi di Orazio e dalla Guerra Civile di Lucano, che le descrivevano come autrici di sortilegi amorosi culminanti con sacrifici di bambini. Incuteva timore anche la diffusa pratica delle tabulae defixionis, malefici incisi su piastre di piombo. Le leggi romane prima e dopo l’avvento di Cristo cercarono di arginare il fenomeno che, però, non fu mai debellato anche dopo la repressione di Costantino nel IV secolo e del Codice Teodosiano del 439. Nel corso del Medioevo l’attività delle streghe si fece piú organizzata, come denuncia il Canon episcopi (906) del benedettino tedesco Reginone di Prüm. Si trattava, perlopiú, di sopravvivenze di antiche pratiche pagane che, solo a partire dal XII secolo, la Chiesa cattolica decise di stroncare su tutta la linea. In accordo con la tesi di Tommaso d’Aquino che nella stregoneria vide la mano del demonio, il papato e l’impero istituirono un tribunale speciale per debellare il fenomeno dei sortilegi, insieme a quello delle eresie. Nel 1233, con la bolla Ille humani generis di papa Gregorio IX, fu di fatto istituto il tribunale dell’Inquisizione che, con il passare degli anni, fece ricorso a metodi sempre piú violenti di repressione. Per un periodo si verificò una sovrapposizione dei reati di stregoneria e di eresia, specie in concomitanza con il diffondersi del catarismo. Il 1487 rappresentò un altro momento chiave nella caccia alle streghe: in quell’anno fu pubblicato il terribile Malleus maleficarum, manuale destinato agli inquisitori, che forniva loro indicazioni su come estorcere le confessioni agli imputati anche attraverso la tortura. Dopo un breve periodo di tregua, la caccia alle streghe riprese duramente anche nel Rinascimento per poi declinare in età moderna. L’avvento dell’illuminismo trasformò la stregoneria in un problema attinente piú alla sfera psichiatrica che alla manifestazione del maligno. In seguito il dibattito culturale sul fenomeno si concentrò intorno a due correnti di pensiero. Da una parte emerse una visione positivistica che considerava le streghe una pura invenzione dei tribunali ecclesiastici medievali e rinascimentali colpevoli di aver condannato delle innocenti al rogo. A questa teoria si contrappose una concezione di tipo antropologico che identificò nel fenomeno dei sortilegi e della magia nera una sopravvivenza di riti precristiani.

78

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Incisione raffigurante una strega bianca e una nera. XVII-XVIII sec. Secondo le credenze popolari, alle prime si attribuivano poteri taumaturgici, mentre le seconde provocavano solo disgrazie, malattie e morte.


DONNE POCO DESIDERABILI... di Claudio Corvino

U

no dei piú antichi processi di stregoneria celebrati in Italia si svolge il 30 aprile del 1384, a Milano, alla presenza di padre Ruggero da Casate. L’imputata, moglie di un Lombardo de Fraguliati di Vicomercato, si chiama Sibillia, nome che sembra quasi alludere alle sue attività divinatorie, delle quali viene, tra l’altro, accusata. Sibillia (l’apprendiamo attraverso le antiche carte stilate da un notaio) confessa a padre Ruggero di andare in giro, la sera del giovedí, con una certa Signora Oriente e con la sua «società». Candidamente, ammette di rendere sempre omaggio a Oriente, non credendo assolutamente di commettere peccato. In questi raduni sono presenti, a coppie, anche tutti gli animali esistenti: se uno solo fosse mancato – cosí sostiene la donna – l’intero mondo sarebbe andato distrutto. Aggiunge che però l’asino non può prendervi parte, perché «portat crucem». Durante queste riunioni, la misteriosa Signora Oriente risponde a tutte le domande che le vengono poste, predice il futuro e svela cose occulte, azzeccandoci sempre. Cosí Sibillia, a sua volta, è in grado poi di rispondere ai quesiti di molte persone, probabilmente dei suoi compaesani. In seguito, tutti insieme, fanno un banchetto a base degli animali presenti, che verranno poi resuscitati dalla Signora Oriente. Non ha mai detto al suo confessore queste cose, riferisce Sibillia, perché non l’ha mai sfiorata l’idea che potessero essere peccaminose. Padre Ruggero, ascoltata la confessione dell’imputata confermata da «testimoni fide digni» (ci chiediamo cosa possano aver confermato: che era tutto vero? Che era un sogno? Che gli animali resuscitavano?) – condanna Sibillia a una penitenza costituita nel portare indosso due croci rosse e a star ferma in determinati giorni sulla porta di alcune chiese, durante la Messa e la predica.

ora definisce ludum, «gioco», di Diana, che chiamano Erodiade (quam appellant Herodiadem) – da quando era piccola, e di aver sempre fatto reverenza a questa Signora dicendo: «Bene stage Madona Horiente». Al saluto questa rispondeva sempre «Bene veniatis filie mee» («Ben venute figlie mie»). Beltramino le chiede anche quante volte fosse andata al «gioco» dopo la prima condanna, e Sibillia confessa di averlo fatto solo due volte perché, dopo aver gettato una pietra in una certa acqua, le fu definitivamente impedito di partecipare. «Hai mai nominato Dio, durante il gioco?», chiese Beltramino alla donna. Ma questa rispose di no, perché «non osano nominare Dio in sua [di Oriente] presenza». Un’altra imputata ai due stessi processi fu Pierina de Bugatis. Anche della sua confessione abbiamo un resoconto fatto nel 1390 dal medesimo inquisitore, che racconta delle stesse riunioni, chiamate «ludum Dianae quam vos apela-

Due streghe preparano una pozione evocando con riti magici un temporale con grandine. Incisione realizzata per il frontespizio del De lamiis et phitonicis mulieribus, trattato sulla stregoneria scritto dal giurista tedesco Ulrich Molitor, e pubblicato nel 1489.

Di nuovo alla sbarra

Ma i guai non vengono mai soli e, sei anni dopo, il 26 maggio, la donna viene riportata in tribunale, con le stesse accuse, davanti a un altro inquisitore, Beltramino da Cernuscullo. Anche questa confessione ricalca la precedente, ma Sibillia aggiunge di andare alle riunioni di cui parlava anni prima – e che ASTRI, SPIRITI E MAGIE

79


STREGONERIA

Donne diaboliche

tis Herodiadem» («gioco di Diana che voi chiamate Erodiade»). In piú, Pierina ci informa che, oltre all’asino, anche la volpe è esclusa dal gioco, ma che vi partecipano uomini vivi e morti, decapitati e impiccati. Al solito si uccidono e si mangiano gli animali, ma in seguito le ossa vengono rimesse nelle loro pelli e, colpite dalla bacchetta di Madonna Oriente, gli animali risorgono. Al secondo processo aggiungerà anche che le ossa mancanti vengono sostituite con legno. Al raduno sono insegnate le virtú delle erbe e svelati molti misteri riguardanti le malattie, le cose rubate, i malefici. Pierina inoltre racconta qualcosa di insolito: Oriente e la sua «banda» vanno per le case dei ricchi e qui mangiano e bevono e, là dove queste sono pulite e ordinate, quella le benedice. Sibillia e Pierina furono entrambe condannate a morte perché relapse, recidive.

Una strega e uno stregone operano come attendenti di Satana, illustrazione realizzata per le Storie prodigiose di Pierre Boaistuau, meglio noto come Pierre Launay, compilatore, traduttore e scrittore francese. 1560.

Questi processi, anche se di «seconda mano» perché riportati in un resoconto dell’epoca, sono particolarmente importanti per vari motivi. Innanzitutto perché ci offrono un quadro delle credenze stregoniche abbastanza antico, risalente alla seconda metà del Trecento, prima quindi dell’epoca delle grandi persecuzioni che avverranno due o tre secoli dopo. Vediamo dunque le varie «superstizioni» delle imputate, soprattutto quella che riguarda la «Società di Diana», ancora parzialmente libere dalle griglie interpretative elaborate dai vari trattati, che tenderanno a vedere il diavolo dappertutto e a riunire ciò in cui credevano gli imputati sotto le stesse etichette di diabolismo, satanismo e quello che sarà infine conosciuto con il concetto cumulativo di «stregoneria».

Culture a confronto

In secondo luogo, nei «dialoghi» tra Pierina, Sibillia e l’inquisitore Beltramino, possiamo vedere dal vivo l’incontro/scontro tra due culture diverse e lontane, due mondi che sembrano ancora non conoscersi bene, dove uno tenta di incorporare od omologare l’altro. Non sono mancati storici che hanno voluto vedere in questo diffuso atteggiamento una costante, un meccanismo elaborato poi in una teoria storiografica che ha visto nella stregoneria un’origine tutta ecclesiastica: in altre parole la strega, la

80

ASTRI, SPIRITI DOSSIER CROCIATE E MAGIE


LE STREGHE DI CHELMSFORD Nel 1589, in una cittadina dell’Essex, dieci persone finiscono sotto processo per stregoneria. Alla fine, quattro donne sono dichiarate colpevoli e per tre di esse la sentenza viene immediatamente eseguita L’ESECUZIONE

L’impiccagione di Joan Prentice, Joan Coney e Joan Upney, condannate per stregoneria nel 1589, a Chelmsford, nell’Essex, in un’incisione dell’epoca.

LA VOLPE

Una donna che assiste alla pubblica esecuzione ha in grembo una volpe, animale la cui proverbiale astuzia, nel Medioevo, viene sempre collegata al diavolo.

UN’AVVERSIONE ANTICA

Nella scena compaiono anche alcune rane, che fin dai tempi della biblica invasione, sono viste come segno di una potenza malefica. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

81


STREGONERIA

Donne diaboliche sua nascita, sarebbe il prodotto della diabolizzazione forzata, da parte delle élites colte, di credenze, atteggiamenti e superstizioni preesistenti nelle campagne e nei luoghi periferici dell’Europa. Una teoria dell’acculturazione, questa, che sembra essere un rifacimento accademico del piú semplice e antico parere di Reginald Scot, che nel suo The Discoverie of Witchcraft, del 1584, scriveva: «La credenza nelle streghe non è che una costruzione operata dai predicatori che hanno rifuso insieme i racconti delle nonne, le storie popolari, le finzioni dei poeti».

L’interpretazione di un giudice?

ANIMALI BUONI E CATTIVI Quando Sibillia confessa che al ludum non era presente l’asino, riprende certamente una credenza diffusa anche nel Medioevo italiano, che vedeva in questo un animale a stretto contatto, se non con il sacro, per lo meno con la santità. Molti furono infatti i santi che preferirono l’asino al cavallo, cavalcatura questa certamente preferita dalla nobiltà e quasi in contrapposizione, in «duello agiografico» con quella. Gli stessi membri del ceto ecclesiastico, anche di alto rango, usavano l’asino come cavalcatura, volendo cosí distinguersi dai ricchi cavalieri che governavano costosi destrieri riccamente bardati. L’asino, che una fantasiosa etimologia di Isidoro di Siviglia vorrebbe connesso al verbo «sedere», non era soltanto una prova e un distintivo di umiltà. In realtà questo cocciuto animale era realmente piú utile del cavallo nel trasporto di tutti coloro che non avevano ragioni belliche, agonistiche o di dimostrazione dello status sociale. L’asino poteva infatti trasportare per sentieri quasi inaccessibili e montuosi, per lungo tempo, anche persone che non avevano alcuna pratica di equitazione, soprattutto gli ammalati. Lo stesso san Francesco, come racconta il biografo Tommaso da Celano, «tanto era vivo il suo amore per la salvezza delle anime, che per conquistarle a Dio, non avendo piú la forza di camminare, se n’andava per le contrade sulla groppa di un asinello». Meno chiaro è invece il motivo per il quale, secondo Pierina, la volpe non potesse partecipare alle riunioni notturne. Pur con le dovute cautele, visto che spesso gli animali sono dotati di simbolismi ambivalenti, la volpe nell’arco del Medioevo sembra appartenere alla schiera degli animali demoniaci, la cui proverbiale astuzia viene sempre collegata al diavolo. Lo stesso Dante, ogni volta che citerà la volpe lo farà in senso negativo: «l’opere mie / non furon leonine, ma di volpe», confessa Guido da Montefeltro nell’Inferno, mentre nel Purgatorio i Pisani sono paragonati a questi animali: «volpi sí pieni di froda / che non temono ingegno che le occupi (intrappoli)».

82

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Ma osserviamo meglio questo meccanismo di cui diciamo, tra le righe vergate dal notaio Hermenzarius. In realtà le due donne, nel primo processo del 1384, hanno definito la «Signora del gioco» Madonna Oriente (o Horiente). Quegli altri nomi che vedremo apparire in seguito, Diana, Erodiade (quam vos apelatis Herodiadem), sembrerebbero un’aggiunta di Ruggero da Casate, che all’epoca del secondo processo, nel 1390, era ormai defunto. Siamo di fronte, probabilmente, a un caso di interpretatio del giudice: di fronte a «storie» che non gli sono familiari (Oriente, con l’«acca» o senza?), corre ai ripari nelle rassicuranti citazioni di piú seri testi In alto un asino, particolare della Veglia dei Pastori affrescata da Benozzo Gozzoli nella Cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi a Firenze. 1459.

Particolare della Diana di Versailles, statua raffigurante la dea cacciatrice. Copia di età ellenistica da un originale del IV sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.


teologici che sembrano trattare gli stessi argomenti, primo tra tutti il Canon Episcopi, del X secolo, che parla proprio di donne che vanno al seguito di Diana. Sembrerebbe quasi che Ruggero abbia proiettato il suo sapere e le sue conoscenze su quel farraginoso insieme di credenze folcloriche che riportavano le imputate. In un altro luogo, non in un’aula di tribunale, avremmo potuto anche ammirare il suo acume, quell’aver cioè collegato, contaminato, le storie di Pierina e Sibillia con un mondo di credenze molto piú ampio, antico e diffuso, soprattutto, con quella che vedremo essere la «Società di Diana». Potremmo anche farlo ma, quello stesso acume, anzi, proprio quelle conoscenze di Ruggero, e piú ancora di Beltramino, hanno fatto condannare le due donne. È il caso di dire, come scriveva Michel de Montaigne, «dopotutto, arrostir vivo un uomo vuol dire mettere un prezzo ben alto alle proprie congetture». Ma quelle di Ruggero non furono soltanto ipotesi personali di un pur dotto uomo di Chiesa. Quello che si affaccia tra le righe degli atti del processo è un quadro ben piú ampio, coerente anche se non compatto, di credenze popolari tradizionali diffuse in Europa da vari secoli e i cui echi sopravvivono ancor

oggi in forme attenuate, contaminate, talvolta commercializzate. Stiamo parlando di figure, di spiriti protettori e benefici, immaginati in genere come esseri femminili, e in stretto contatto con le anime dei morti, che talvolta guidano una sorta di esercito o una vera e propria «caccia infernale» o selvaggia. Donne-anime che sembrano sopravvivere ancora oggi in quelle misteriose, un po’ streghe, un po’ fate, «donni di fora», «donne di casa» o «di notte» siciliane, nella Bella ‘Mbriana che sopravvive nelle case dei Napoletani, o sotto altre forme e nomi in varie zone d’Europa. O magari, ma in un modo appena riconoscibile, in quella vecchina a cavallo della scopa che porta cose buone (o carbone) ai bambini: la Befana.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

83


STREGONERIA

Malocchio

SVENTURE A COMANDO di Claudio Corvino

F

ra tutte le superstizioni, la credenza nel malocchio è quella che sembra resistere maggiormente in tutte le culture. Sembrerebbe quasi che gli unici cambiamenti intervenuti riguardino il modo in cui gli uomini se ne sono difesi, o il giudizio che ne hanno dato. Nella sua essenza, la credenza era e rimane legata al potere che avrebbe l’occhio di emanare un «fluido» distruttivo e malaugurante. Una superstizione cosí diffusa ha ovviamente origini antiche: «Non avere gelosia, non dirigere l’occhio invidioso contro la casa del tuo prossimo. Non avere invidia della donna del tuo prossimo, né del suo servo, né della serva, né del bue, né dell’asino, né di alcuna cosa del tuo prossimo» (Esodo, 20: 17). Già in questa norma biblica osserviamo la preoccupazione, magica piú che morale, di difendersi da un occhio invidioso, e «invidia», da in e video, «guardare contro», era il termine con il quale gli antichi definivano il malocchio. Termine

84

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

analogo è anche fascinum (da cui affascinare), imparentato, secondo un’incerta etimologia, con il greco baskainti, baskanon, collegati all’atto di mormorare, augurar male, invidiare, insomma, fare il malocchio.

Lo stregone «involontario»

Nel mondo medievale, in genere, non è tanto facile trovare un’accusa di malocchio allo stato puro. Questo, sia perché un’imputazione di tal fatta rimaneva relegata a un livello puramente folclorico, che non sempre giungeva agli onori della cronaca, sia perché, quando assumeva una certa rilevanza, veniva interpretata e inquinata dalle griglie demonologiche e teologiche. Un bell’esempio, squisitamente popolare, è contenuto in un processo del Cinquecento, dove è narrato di un uomo (definito stregone «involontario») che uccise il suo stesso bestiame con uno sguardo: un raro caso di malocchio autoprodotto.


L’organo della vista, quindi, era considerato la principale fonte del pericolo perché rappresentava, secondo antiche teorie democritee, la porta d’ingresso e d’uscita di quel sottile fluido in grado di provocare disgrazie: «può esserci una fascinazione emanata dagli occhi a danno di un’altra persona, e questa può essere nociva e malvagia. È proprio di questo tipo di fascinazione che hanno parlato Avicenna e Al-Gazali; a cui va aggiunta anche l’opinione di san Tommaso. Infatti egli sostiene che la mente di un individuo può essere influenzata da un’altra mente; e quell’influenza che viene esercitata su un’altra persona spesso proviene dagli occhi, poiché negli occhi può esservi concentrata qualche sottile sostanza». A sostenere la magnetica teoria sono il tedesco Heinrich Institor e lo svizzero Jacob Sprenger che redassero, sul finire del Quattrocento, il Malleus Maleficarum, il terribile manuale degli inquisitori. Era scontato, perlomeno per chi li conosce, che poche righe piú avanti i due avrebbero tirato in ballo il solito patto diabolico, che permetteva alle streghe di compiere i loro malefici attraverso gli occhi. Prima del Duecento, invece, nelle campagne e

nei villaggi medievali il diavolo non compare ancora, e il malocchio sembra essere un fatto privato, ristretto ai rapporti di vicinato. Era un modo di farsi una ragione di alcuni disastri altrimenti inspiegabili: una improvvisa moria di animali, una febbre violenta, il deperimento o la morte di un bambino. Di fronte a un male apparentemente sconosciuto, si ricercava la causa in uno sgarbo fatto a un vicino già sospetto di gettare il malocchio, o nello sguardo invidioso di chi desiderava troppo qualcosa che non aveva.

Ugiat, occhi mistici del dio Horus, dipinti su un sarcofago egiziano. XII dinastia, 1991-1783 a.C. Collezione privata. L’ugiat era simbolo di salute e di protezione magica: amuleti cosí conformati venivano posti in prossimità della mummia per proteggerla e sanare le sue ferite.

Un male temutissimo

Altro fertile terreno di sviluppo di questa credenza era la sfera legata alla sessualità. In una società a economia essenzialmente agricola, dove i figli rappresentavano un’indispensabile ed economica forza lavoro, l’impossibilità di procreare era un fatto particolarmente grave. Temutissima, perlomeno a giudicare dai tanti mezzi magici elaborati per scansarla, era l’impotenza coeundi o generandi, la cui causa non poteva che essere il solito malocchio, e non solo nelle campagne e tra analfabeti. Il dotto Guiberto di Nogent (1053-1124), nel De vita sua, racconta che il padre, già sposato, era rimaASTRI, SPIRITI E MAGIE

85


STREGONERIA

Malocchio TALISMANI ROSSO SANGUE

Piero della Francesca, Madonna di Senigallia. 1470. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Al collo del Bambino è ben riconoscibile una collana con pendente in corallo.

86

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

La piú classica delle difese contro il malocchio, sono da sempre le corna animali. Originariamente la loro efficacia derivava forse dal fatto di essere appuntite, con azione quindi difensiva e offensiva, ma non è escluso il richiamo al toro, al suo vigore sessuale, che comprende l’idea di fecondità e abbondanza. Spesso il corno o cornetto, variante delle corna, era fatto in corallo, di per se stesso considerato apotropaico per il colore rosso sangue, simbolo di vita, e per la sua naturale forma puntuta. La credenza viene confermata dal tema iconografico delle varie collanine di corallo, con o senza corna, che appaiono in vari dipinti. E se la Chiesa osteggiava tale credenza superstiziosa, d’altro canto sembrava accoglierla in quelle opere destinate alla devozione dei fedeli. È il caso della Madonna e angeli del pittore lombardo Butinone, del XV secolo, o della Vergine dei Consiglieri di Luis Dalmau. Evidente è anche il corallo rosso che appare al collo del Bambino nella Madonna di Senigallia di Piero della Francesca e nella Madonna col Bambino di Antonello da Messina.


Miniatura raffigurante un contadino che si strappa i capelli per l’invidia che suscitano in lui le messi del campo del suo vicino, cresciute ben piú rigogliose delle sue. Seconda metà del XV sec. Gotha, Forschungsbibliothek. Un sentimento del genere poteva ben essere la causa di pratiche mirate a scatenare il malocchio ai danni dell’agricoltore «fortunato».

sto ben sette anni senza figli a causa di un ma- Allora, si dice, il conte si ammalò di cuore e di leficium di una matrigna invidiosa. stomaco fino al punto di essere nauseato da La credenza era talmente condivisa da tutte le bevande e cibi. I cavalieri, preoccupati della sua classi sociali che poteva essere addirittura di- sorte, s’impadronirono della strega e, legandola DEL CID CAMPEADOR scussa in un processo di divorzio ai massimi L’EPOPEA mani e piedi, la collocarono su un mucchio di diventa deiaccesi temi ricorrenti nella livelli della società. È il caso del nipote di Car- Cava paglia e diuno fieno e la bruciarono». napoletana pittori lo Magno, il re Lotario II di Lotaringia e della vedutistica La reazione controdell’Ottocento: il malocchio,i all’epoca in della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci moglie Tetberga. In una testimonianza del cui si svolgevano i fatti, non sembra ancora declinandoli nelle infinite sfumatureinquisidi processo, riportata dall’arcivescovo di Reims collinari contaminata dal sistema processuale conI un occhio dispinti riguardo perfedeltà i valori lirici Incmaro nell’860, ci si chiede se per caso Lo- verde, torio. cavalieri, dalla verso il Partendo da giustizia un disegno tario non sia stato nell’impossibilità di procre- e romantici. loro conte, si fanno darealizzato sé, perché si dal vero, gli artisti si accostano talvolta al gusto are a causa dei misteriosi sortilegi di Valdrada, tratta di un fatto privato. Come pure dovevapittoresco, per dipingere opere che incontrano il la sua amante. A maggior prova, viene riporta- no esserlo le accuse contro coloro che gettafavore del mercato. Tra quanti hanno to anche il caso di un giovane nobile che, vano il malocchio. immortalato angoli del borgo nato attorno al stessa causa, fu impossibilitato per due anni a Attribuire a un essere umano, sia pur dotato di monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico consumare il suo lecito matrimonio. poteri oscuri, le cause delle proprie disgrazie, Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, poteva in qualche modo rendere umani, e Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono Giustizia per il conte quindi concepibili, gli stessi eventidalla calamitosi, invece i fotografi a rimanere abbagliati Un’ultima testimonianza sull’«innocente» cre- luce altrimenti rinchiusi in una sfera troppo cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, mistedenza, ambientata in periodo pre-demonologi- Mauri, riosache e molto controllabile. mali diventahannopoco siglato immagini diI forte co, nel 1127, ce la offre Jean-Claude Schmitt nel suggestione. no cosí, seEnon evitabili, in qualche razioil XX secolo sono invece modo i suo Medioevo superstizioso, a proposito del con- fotografi nali, oaperlomeno sottoposti a un controllo rimanere abbagliati dalla luce cavese: rate di Thierry. A questi, mentre andava a Lilla per si sono zionale, comunemente accettato: se ilhanno vicino è spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che la prima volta, «venne incontro una strega, siglato iettatore, posso o, in casi Eestremi, linimmagini di evitarlo forte suggestione. il XX scendendo nel fiume che il conte stava per at- secolo ciarlo. In invece quest’ottica, la stessa invidia contadisono i fotografi a rimanere traversare passando per il ponte proprio accan- abbagliati. na medievale può essere vista, piú che come un to alla iettatrice (sic) che lo asperse d’acqua. fatto psicologico individuale, come una sorta di ASTRI, SPIRITI E MAGIE

87


STREGONERIA

Malocchio

legge sociale che mira a controllare il giusto equilibrio di una società con scarsi mezzi di sussistenza, dove la collaborazione e la cooperazione sono a volte indispensabili. Chi si tira fuori dal giro, chi invidia, può essere accusato di portare disgrazia, come, al contrario, chi emerge in modo eccessivo, socialmente o economicamente, può aspettarsi di essere colpito da malocchio. La credenza, allora, può essere vista come un male necessario a cui l’intero villaggio si sottopone per riconfermare i ruoli e le leggi non scritte della comunità.

Un delitto contro la fede

Corrispondono a questa visione «privata» della credenza anche le pene, lievi, che i confessori comminavano a chi la condivideva: «Digiuna quaranta giorni», consigliava discretamente il Penitenziale di Burcardo da Worms. Ma siamo nell’XI secolo, e le cose erano destinate a cambiare, e di molto, quando, poco dopo la metà del Duecento, papa Alessandro IV ordinò agli inquisitori di occuparsi non solo di eresia, ma di

88

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

porgere attenzione anche «ai sortilegi e alle divinazioni che sapevano di eresia». Anche per questa genia di «iettatori» il destino fu segnato. Il malocchio ebbe allora l’onore di essere annoverato tra i delitti piú feroci contro la fede, contro Dio stesso. Anche per loro, di certo streghe e stregoni, si spalancarono le porte del tribunale e la confessione divenne un obbligo giuridico, come per tutti gli altri colpevoli di eresia, indipendentemente dal fatto che ne fossero convinti o no. A dare manforte a quella tristissima «macchina processuale» sopraggiunsero i dotti e illuminati tuttologi dell’epoca, che avrebbero analizzato e disquisito saggiamente sulla fascinazione, se fosse poetica o volgare, ovvero trasmessa con le parole, piuttosto che filosofica o fisica, cioè una sorta di contagio o infezione, e cose di questo genere. Le varie Summae degli Uffici dell’Inquisizione, come quella stilata nel 1270 nell’ambiente del vescovo Benedetto di Marsiglia, avrebbero aggiunto ai loro titoli anche l’indispensabile Della forma e

In basso miniatura raffigurante un cavaliere che incontra una personificazione dell’invidia, dal Livre du Coeur d’Amour épris. 1457. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto Padova, Cappella degli Scrovegni. La personificazione dell’Invidia dipinta da Giotto tra le allegorie dei Vizi e delle Virtú. 1303-05.


del modo di interrogare gli auguri e gli idolatri, in cui rientravano anche iettatori o fascinatori. Poco piú tardi, all’inizio del Trecento, Bernardo Gui, nel suo Manuale dell’inquisitore, aggiungerà un intero capitolo dedicato agli «stregoni, gl’indovini e coloro che invocano i demoni». Siccome anche gli iettatori, lo vedremo subito, si supponeva invocassero il diavolo, il capitolo sarà tutto per loro. Se la fascinzaione può essere di vati tipi, su di una cosa sembrano essere ora tutti d’accordo: ha soprattutto un’origine diabolica, frutto di un esplicito intendimento tra essere umano e diavolo. In altre parole, il diffusissimo, ovvio, condiviso, quanto irreale patto diabolico: «Esiste una particolare e frequente fascinazione – scrive nelle sue Disquisitiones magicarum il gesuita Martin del Rio nel 1599 – che dipende dal maleficio del diavolo che si esercita tramite streghe e stregoni che vogliono arrecare male, secondo il patto stipulato con loro».

L’onnipresente zampino del diavolo

Piú deciso è Pierre de Lance, che, nel suo Incredulité et mescréance du sortilège (1622), a proposito della fascinazione taglia corto: «Io lascerei da parte la distinzione fatta dai moderni, alcuni dei quali la dividono in poetica o volgare, filosofica o naturale (...) e questo perché non riconosco altro che quella demoniaca e quella che di solito si prende per un incantesimo o sortilegio». Ogni forma di fascinazione proviene in un modo o nell’altro dal diavolo, e non si permetta una visione diversa da questa altrimenti, scrive Jean Gerson (1402), si cadrà in un terribile errore, perché: «Secondo noi c’è patto implicito in ogni osservazione superstiziosa il cui effetto non si può attendere razionalmente né da Dio né dalla natura». Ma la storia del malocchio non termina tra i roghi, ai quali la credenza sopravviverà piú forte di prima. Parallelamente all’interpretazione demonologica, si farà strada, o meglio tornerà in voga, quella naturalistica e psicologica, che scorgerà nel malocchio delle cause «naturali». In questa sorta di laicizzazione del fenomeno, pietra miliare fu Francis Bacon, che ne fece un puro rapporto psicologico, sostenendo che: «Nessuna affezione è stata osservata atta a fascinare o stregare tranne l’amore e l’invidia: l’una e l’altra comportano veementi desideri, i quali danno luogo a immaginazioni, suggestioni, e facilmente si manifestano negli occhi» (De invidia). Siamo sulla strada demitizzante che condurrà ai testi sulla iettatura degli intellettuali napoletani della fine del Settecento (Valletta, Marugi, De Jorio), che apriranno la strada, ironica e imbarazzata del «non è vero, ma ci credo». ASTRI, SPIRITI E MAGIE

89


CABALA

Esoterismo religioso

CABALA

La Legge e il mistero

90

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

L’esoterismo religioso ebbe un ruolo di primo piano in molte civiltà antiche. Nel Medioevo alcuni «saperi segreti» dell’ebraismo si diffusero in Occidente, dando vita a forme di misticismo radicale identificate sotto il nome di «cabala». Un termine che, in età moderna, ha assunto un significato del tutto fuorviante rispetto alla sua accezione originaria Il profeta Samuele, olio su tela di Claude Vignon (1593-1670). 1630-40. Rouen, Musée des beaux-arts.


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

91


CABALA

Esoterismo religioso

U

na lettura superficiale potrebbe rappresentare l’ebraismo come una tradizione di tipo morale che esprime un formalismo rigoroso regolato solo dalla legge sacra. Una simile schematizzazione escluderebbe l’esistenza di una componente mistica nella storia religiosa del popolo d’Israele, di una dimensione che permette di stabilire un contatto diretto con Dio attraverso un percorso iniziatico. La cabala (kabbalah), complesso di dottrine esoteriche ebraiche, smentisce questo perentorio assunto, pur traendo ispirazione dal patrimonio razionale di un testo classico della religione di Mosè: la Torah. L’enigmatica dottrina cabalistica opera un’esegesi particolare della legge ebraica con due diversi livelli di lettura: una esteriore e solo letterale del sistema normativo, l’altra piú autentica e segreta accessibile a pochi iniziati. La cabala cominciò a diffondersi in Occidente, soprattutto in Spagna, tra il XII e il XIII secolo in seguito alla pubblicazione di due testi mistici, lo Zohar (Lo splendore) e il Sefer Yetzirah (Libro della formazione). Contemporaneamente, nel XII secolo, in Germania si andava affermando il movimento dei chassidím che teorizzava una forma mistica di ebraismo con forti influenze neoplatoniche e ascetiche. Nello stesso periodo in Francia veniva redatto il Sefer haBahir, testo ebraico che rappresentava l’universo secondo un’ottica gnostica. I secoli in cui la cabala prese piede in Europa corrispondono al periodo di sviluppo delle correnti gnostiche e teosofiche del cristianesimo, anch’esse informate all’esistenza di un percorso spirituale in grado di far conoscere all’uomo i misteri dell’identità divina. Il ruolo dell’esoterismo nell’Età di Mezzo compí, quindi, un salto di qualità, radicandosi in ambienti religiosi che non tolleravano molto il proliferare di dottrine segrete. L’esoterismo mistico ebraico, però, fu in un certo senso «moderato»: i cabalisti ortodossi rifiutarono sempre le forme estatiche, eccessivamente visionarie, optando per un rapporto piú lucido e razionale con l’essenza divina guidato dall’interpretazione rigorosa dei testi. Dal XVI secolo si svilupparono altre forme di cabala, che tradirono l’anima mistico-religiosa della dottrina. In queste forme fuorvianti prevaleva l’aspetto divinatorio, se non addirittura stregonesco: dai numeri primordiali e dai segni dell’alfabeto che avrebbero dovuto avvicinare l’adepto alla visione di Dio si passò a complessi calcoli di combinazioni tra cifre e lettere, utili solo per prevedere il futuro. La degenerazione dell’originaria funzione della cabala ebraica provocò il proliferare di significati negativi intorno al termine che poteva indicare anche un raggiro, un imbroglio.

Rotoli in pergamena con il testo della Torah, termine che designa il Pentateuco, vale a dire i primi cinque libri della Bibbia. Produzione tedesca, XV sec.

92

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


ESOTERISMO IN SINAGOGA

Miniatura raffigurante la lezione di un rabbino sui contenuti e gli insegnamenti della Torah. XIV sec. Londra, British Library.

di David Friedman

L

a tradizione mistica dell’ebraismo è conosciuta come «Kabbalah». Il termine ebraico significa «Ricezione», e nel corso della storia è stato scritto in modi diversi – con una K, come in Kabbalah, o con una C, come in Cabala, o con una Q, come in Qabalah. Alcune delle diverse grafie con il tempo sono state associate a differenti aspetti di questa tradizione mistica e ai suoi vari derivati. Personalmente, preferisco utilizzare Kabbalah con la K, essendo questa la grafia che di solito viene identificata piú strettamente con la tradizione mistica ebraica classica. In origine, il termine Kabbalah era riferito alla trasmissione della Torah orale (ossia, l’interpretazione tradizionale della Torah scritta – i «Cinque Libri di Mosè», il Pentateuco) dal maestro al discepolo. Le pratiche e gli insegnamenti mistici oggi conosciuti come Kabbalah fanno parte di questa Tradizione Orale Ebraica, e risalgono agli antichi profeti della Bibbia, a Mosè e persino ad Abramo. In seguito, la parola Kabbalah venne a identificarsi quasi esclusivamente con la parte mistica di questa tradizione.

Profeti e musicisti

La Bibbia contiene molte profezie, ma le tecniche che i profeti biblici hanno usato per raggiungere le loro visioni mistiche raramente vengono descritte nel testo. E la profezia solitamente non si verifica senza addestramento e pratica. «I figli dei profeti», a cui ci si riferisce spesso nella Bibbia, si crede siano pupilli che stanno apprendendo tali tecniche. Inoltre il testo sacro ci racconta come gruppi di profeti vagassero per la Terra Santa insieme a musicisti. Attraverso pratiche contemplative, come la meditazione, il salmodiare di Nomi Sacri e la musica, i mistici allineavano i loro corpi, le loro menti e le loro anime a Dio, per raggiungere livelli di ispirazione e profezia. Il grande kabbalista italiano del XVIII secolo, il rabbino Moshe Chayim Luzzatto, insegnava che la profezia è primariamente un’esperienza di adesione a Dio, un’esperienza che riguarda il nostro naturale attaccamento al Divino. La nostra mente, le emozioni e le sensazioni corporee producono delle interferenze, che filtrano e limitano la nostra esperienza in modo da non ASTRI, SPIRITI E MAGIE

93


CABALA

Esoterismo religioso

Il profeta Elia incontra Acab e Gezabele, olio su tela di Frederic Leighton. 1862 circa. Nella pagina accanto Il viaggio di Abramo da Ur a Canaan, olio su tela di Jรณzsef Molnรกr. 1850. Budapest, Galleria Nazionale Ungherese.

94

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


essere sopraffatti dall’Infinita Natura della Realtà. Le tecniche che gli studenti praticano aiutano a soffocare gli aspetti piú grossolani della loro essenza piú bassa per poter sperimentare la realtà con meno veli e filtri. Questo è il motivo per cui i profeti biblici avevano una visione piú profonda di cosa sia veramente importante nella vita, e perché riprendevano costantemente i loro contemporanei affinché agissero in una maniera piú morale ed etica. La profezia era un’esperienza estatica, ma si raggiungeva con una profonda osservanza di un comportamento etico-morale, con purezza e santità. Le pratiche idolatre che prevalevano a quei tempi erano anch’esse estatiche, ma mancavano di rettitudine. A quanto si dice nell’Antico Testamento, sembrerebbe che le pratiche idolatre fossero una grande tentazione per gli antichi Israeliti perché erano legate alla sessualità, coinvolgendo prostitute del Tempio e altre perversioni immorali. Poiché le esperienze estatiche immorali erano cosí seducenti e facili da raggiungere, molti Israeliti sceglievano l’idolatria piuttosto che la profezia. Questa situazione è andata sempre peggiorando nel corso del

periodo del Primo Tempio (dal X al VI secolo a.C.). Anche se grandi profeti come Elia, Isaia, Geremia ed Ezechiele hanno cercato di invertire questa tendenza, i loro tentativi non hanno avuto grande esito e queste pratiche, insieme all’adulterio e persino all’omicidio, dilagavano sempre di piú. Secondo la Tradizione, il Primo Tempio di Gerusalemme, costruito da re Salo-

I profeti biblici ammonivano i loro contemporanei affinché agissero in maniera piú morale ed etica mone, venne distrutto dai Babilonesi proprio a causa di quelle trasgressioni, e gli Israeliti vennero esiliati. L’idolatria continuò a essere un problema per gli Ebrei a Babilonia e in seguito in Persia. Dopo settant’anni di esilio, riuscirono a tornare nella Terra Santa, dove costruirono il Secondo Tempio. Il Talmud narra un affascinante racconto di coASTRI, SPIRITI E MAGIE

95


CABALA

Esoterismo religioso leggia come, a quell’epoca, la profezia divenisse una tradizione segreta, nascosta. Quindi, la maligna tendenza a esperienze estatiche immorali e corrotte, in definitiva, proveniva dalla tendenza positiva alle sacre esperienze estatiche della profezia, dal Sancta Sanctorum! Ridimensionarne una significava automaticamente ridimensionare anche l’altra. Quel rito, in effetti, fu un compromesso. In seguito ci sarebbe stata meno idolatria, quindi gli Ebrei si sarebbero comportati in una maniera piú convenzionale e morale; ma ci sarebbe stata anche meno profezia. L’ebraismo allora si spostò da un approccio basato sulla profezia a uno fondato sulla ragione. Per cui, questo rito mistico coincise con l’inizio del processo di compilazione del Talmud, un codice di leggi ed etica che avrebbe guidato il popolo ebraico nel lungo esilio, che questi ultimi profeti sapevano prossimo. I rabbini continuarono a sviluppare il Talmud durante il periodo del Secondo Tempio e anche oltre, completandolo intorno al 500 d.C.

La metafora dei tre rabbini

Miniatura raffigurante Mosè che riceve le Tavole della Legge e che distrugge il vitello d’oro, dal Salterio di San Luigi. 1253-70. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto l’attore ceco Ferdinand Hart in una scena del film Le Golem, girato nel 1936 dal regista francese Julien Duvivier.

96

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

me i leader ebraici del tempo – che comprendevano gli ultimi profeti dell’Antico Testamento – decisero di porre un freno alla tendenza verso le esperienze estatiche idolatriche. La storia racconta che questi profeti officiarono un rito mistico con il quale «catturarono e distrussero» la maligna tendenza all’idolatria. Essa fuoriuscí sotto forma di un feroce leone dal Sancta Sanctorum, il cuore del Tempio, dove si trovava l’Arca dell’Alleanza, che conteneva le tavole di pietra con i Dieci Comandamenti e da cui, secondo la Bibbia, la voce di Dio parlò a Mosè e poi agli altri profeti. In seguito catturarono anche la maligna tendenza all’adulterio, ma non la distrussero perché, mentre la tenevano prigioniera, nessuno provò piú alcun tipo di desiderio sessuale, neanche gli animali o gli uccelli. I profeti si resero conto che distruggerla avrebbe significato annientare ogni forma di vita del pianeta, per cui la liberarono. Nel periodo del Secondo Tempio (dal VI secolo a.C. al I secolo d.C.) l’Arca venne nascosta e non piú custodita nel Sancta Sanctorum e ciò simbo-

Ci sono alcune allusioni alla tradizione mistica nel Talmud, dove questi insegnamenti sono nascosti in suggerimenti, metafore e storie riguardanti i mistici talmudici. Uno di essi era il rabbino Akiva, che riuscí a entrare e uscire dal Paradiso. Altri tre mistici che erano con lui non ci riuscirono: uno morí, uno impazzí e il terzo divenne eretico. Questa storia spesso viene usata come ammonimento affinché la gente non si lasci coinvolgere in ricerche mistiche. Tuttavia, può anche significare che, se si voleva essere dei mistici nel corso dei molti secoli in cui la Kabbalah rimase nascosta, non si doveva aver paura di morire o di essere considerati pazzi o eretici. Quindi, i mistici divennero parte di una controcorrente culturale dell’ebraismo piuttosto che far parte della corrente principale. Un altro famoso mistico talmudico fu il discepolo del rabbino Akiva, il rabbino Shimon Bar Yochai. Il Talmud ci racconta come egli criticò gli invasori romani della Terra Santa durante quel periodo (II secolo). Le autorità posero una taglia sulla sua testa, per cui si nascose in una grotta con il figlio, il rabbino Elazar, e i due sopravvissero, mangiando solo carrube e bevendo acqua di fonte per tredici anni. La tradizione sostiene che il rabbino Shimon Bar Yochai raggiunse un tale livello di illuminazione attraverso quell’esperienza, da diventare il piú grande mistico della sua epoca. Lui e i suoi insegnamenti vennero in seguito immortalati nello Zohar, il piú famoso libro della Kabbalah, pubblicato nel XIII secolo. Per il millennio successivo, la tradizione mistica dell’ebraismo rimase quasi completamente na-


L’UOMO D’ARGILLA Nella tradizione ebraica, il Golem è un essere animato creato interamente con materia inanimata. La lingua ebraica moderna usa la parola golem con il significato letterale di «bozzolo», ma viene anche usata in senso dispregiativo a significare «folle», «sciocco», «stupido» ed è anche un insulto gergale in yiddish, a indicare una persona impacciata o lenta. Il termine sembrerebbe derivare dalla parola gelem, che significa «materiale grezzo». Nella Bibbia, golem viene usato in riferimento a qualcosa di embrionale o incompleto: nel Salmo 139:16 ha il significato di «massa informe». Il Mishnah (prima redazione scritta della Torah orale risalente al III secolo circa) usa il termine per «persona ignorante» («Sette sono le caratteristiche di una persona ignorante e sette di una istruita», Pirkei Avoth 5:7). Il Golem piú conosciuto è quello creato nel XVI secolo dal rabbino Judah Loew il Maharal a Praga, per difendere il ghetto di Josefov dagli attacchi antisemiti che scuotevano all’epoca tutta l’Europa occidentale. Secondo la leggenda, il rabbino lo creò con l’argilla della Moldava, e per portarlo alla vita scrisse sulla sua fronte la parola ebraica emet («verità di Dio»). Quando la creatura divenne troppo pericolosa, Loew la distrusse cancellando la prima lettera della parola che aveva scritto sulla fronte, che quindi divenne met, «morte». Una curiosità: una moderna «leggenda metropolitana» sostiene che i resti del Golem si trovino ancora nella soffitta della sinagoga Staronova, a Praga, e che durante la seconda guerra mondiale un agente nazista cercò di salire nella soffitta dell’edificio per pugnalare la creatura, ma rimase misteriosamente ucciso.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

97


CABALA

Esoterismo religioso ALLA RICERCA DELLE DIECI TRIBÚ La vita di Abraham ben Samuel Abulafia, nato a Saragozza, in Spagna, nel 1240, fu caratterizzata da un incessante peregrinare. In età molto giovane venne condotto dai genitori a Tudela, in Navarra, dove venne istruito sulla Torah e sul Talmud dal padre Samuel. Dopo due anni dalla morte di questi, ormai ventenne, si recò in Palestina alla ricerca del leggendario fiume Sambation e delle Dieci Tribú perdute, ma non riuscí ad andare oltre il porto di San Giovanni d’Acri, a causa del caos in cui si trovava la Terra Santa dopo le crociate. Da lí decise di recarsi a Roma, ma si fermò a Capua, dove iniziò lo studio degli scritti di Maimonide. A 31 anni tornò in Spagna, a Barcellona, dove iniziò lo studio del Sefer Yetzira, ma ben

A sinistra l’Albero Sefirotico disegnato sul frontespizio di un’edizione del Portae Lucis di Joseph ben Abraham Gikatilla (1248–dopo il 1305), cabalista spagnolo e discepolo di Abulafia. 1516. In basso schema dell’Albero della Vita.

TRE COLONNE PER LA CREAZIONE L’Albero della Vita rappresenta il modello secondo il quale si è svolta la Creazione. La sua struttura è costituita da tre Colonne verticali parallele sulle quali sono raffigurate «Dieci piccole sfere», cioè le Sefirot, e ventidue «Canali» (o Sentieri) suddivisi in tre gruppi di linee diverse, tre orizzontali, sette verticali e dodici oblique. Le tre Colonne corrispondono alle «Tre Vie Iniziatiche»: quella di destra, «agevole», è la Misericordia; quella di sinistra, «ardua», è il Rigore; quella di centro «regale», è l’Equilibrio. La Colonna centrale ha il potere di conciliare e armonizzare gli opposti.

98

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


presto partí di nuovo e nel 1279 lo troviamo a Patrasso, in Grecia, dove scrisse il primo dei suoi libri profetici, il Sefer ha-Yashar (Libro del Giusto). Nel 1280 si recò a Roma per conferire con papa Nicola III, ma questi diede ordine di metterlo al rogo appena fosse sbarcato. Al suo arrivo, il papa morí improvvisamente e lui venne gettato in prigione per quattro settimane. In seguito è segnalato in Sicilia, dove venne accolto con ostilità dalla congregazione ebraica di Palermo. Si vide quindi costretto a riparare sull’isola di Comino, a Malta, dove tra il 1285 e il 1288 compose il Sefer ha-Ot (Libro del Segno). Nel 1291 scrisse le Imre Shefer (Parole di Bellezza), e da allora si persero le sue tracce.

Abulafia insegnava a pronunciare i nomi di Dio in vari modi, associandoli a respiri e movimenti della testa scosta. Vi erano mistici che la praticavano e studiavano segretamente, trasmettendola da maestro a discepolo, e «coloro che lo sapevano non ne parlavano; e coloro che ne parlavano non lo sapevano». La tradizione mistica dell’ebraismo iniziò a essere rivelata e conosciuta come Kabbalah nella Spagna del XIII secolo. Uno dei piú controversi kabbalisti di quell’epoca fu il rabbino Abraham ben Samuel Abulafia (vedi box in queste pagine).

22 lettere per creare l’Universo

Nato nel 1240, Abulafia vedeva se stesso come un profeta e quindi si riferiva ai propri scritti come Kabbalah Profetica, o Kabbalah Estatica. Gli scritti di Abulafia presentano tecniche di contemplazione che usano i nomi ebraici di Dio in vari modi. Egli insegnava a pronunciare questi Nomi usando le vocali primarie (a, e, i, o, u) associate a numeri specifici di respiri e di movimenti della testa. Queste tecniche possono essere usate per raggiungere stati superiori di coscienza che conducono alla profezia. L’origine della maggior parte di esse deriva dal Sefer Yetzirah (Libro della Creazione), un importante testo mistico antico, i cui insegnamenti, secondo la tradizione, vengono dal patriarca Abramo. Ciò si basa sul seguente passaggio che si trova alla fine del testo: «Queste sono le 22 lettere ebraiche con le quali Dio incise e creò il Suo Universo. E con esse formò tutto

ciò che fu mai formato e che sarà mai formato. E quando Abramo nostro padre guardò, vide, comprese, provò, incise e intagliò, ebbe successo nella creazione». Secondo la Genesi, l’Universo venne creato da Dio pronunciando parole in ebraico, e dicendo: «E Dio disse, sia fatta la luce, e luce fu». Quindi alle lettere ebraiche vengono attribuiti poteri creativi. Se si sanno usare le energie creative contenute nelle lettere ebraiche si può influenzare l’Universo. La famosa parola magica «Abracadabra» deriva proprio dalle parole aramaiche che significano «Creerò con la parola». Usando tali tecniche, profeti biblici come Mosè, Elia ed Eliseo sono stati in grado di effettuare dei miracoli e persino di resuscitare i morti. Il Talmud parla di mistici in grado di creare animali e persino umanoidi (conosciuti come golem; vedi box a p. 97) usando le tecniche del Sefer Yetzirah. In una di queste storie, Rava (un saggio e mistico del III secolo) creò una «persona» dall’argilla usando il Sefer Yetzirah e inviò la creatura a Rav Zeira, che era suo compagno nello studio e nella pratica delle arti mistiche. Quando Rav Zeira tentò di avere una conversazione con questa «persona» e vide che non era in grado di parlare, si rese conto che era un golem e gli disse di «tornare alla polvere». Rava viene citato anche nel Bahir (un altro antico testo kabbalistico), in cui si ASTRI, SPIRITI E MAGIE

99


CABALA

Esoterismo religioso

QUANDO LA SPAGNA SI CHIAMAVA AL-ANDALUS All’inizio dell’VIII secolo, quasi tutta la Penisola iberica venne conquistata da musulmani di origine berbera (i cosiddetti Mori) provenienti dal Nordafrica. La spinta di queste conquiste fu la politica espansionistica dell’impero islamico omayyade, che lasciò libere e indipendenti solamente alcune zone montagnose a nord della Penisola, corrispondenti approssimativamente alle odierne Regioni delle Asturie, Cantabria e Navarra. La capitale del califfato musulmano era Cordova, tra le ricche e sofisticate città dell’Europa medievale, dove il commercio fioriva accompagnato da un intenso scambio culturale. Già capitale in età romana della provincia Hispania Ulterior Baetica, che ebbe tra i suoi cittadini filosofi come Seneca il Giovane, oratori come Seneca il Vecchio e poeti come Lucano, la città, che aveva mantenuto una certa importanza nella Provincia Hispania dell’impero bizantino e sotto i Visigoti, conobbe il suo apogeo nel periodo del califfato omayyade, con una popolazione che oscillava tra i 250 000 e i 500 000 abitanti, divenendo una delle piú grandi città del mondo conosciuto, oltre che un centro culturale, politico ed economico di primaria importanza. Tra i suoi figli annoverava personaggi del calibro di Averroè, uno dei responsabili della diffusione della cultura greca in Europa occidentale, e di Maimonide, considerato il piú grande pensatore ebraico medievale. La corte era abitualmente frequentata da studiosi musulmani ed ebrei di chiara fama. Gli Ebrei e i cristiani, infatti, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, godevano di una certa libertà in quanto l’Islam li considerava entrambi «popoli del Libro». In questo clima di relativa tolleranza, e in concomitanza con il declino di Babilonia come centro del pensiero ebraico, al-Andalus, nome che gli Arabi avevano dato ai loro possedimenti iberici, divenne il centro principale della cultura ebraica. Conobbe poeti e prosatori come Judah Halevi (1086-1145) e Dunash ben Labrat (920-990), ma ancora piú importante fu lo sviluppo della filosofia ebraica. Fu questo l’humus che permise al rabbino Abraham Abulafia, nel XIII secolo, di trasformare la tradizione della Kabbalah da orale a scritta.

In alto frontespizio della prima edizione a stampa dello Zohar (lo Splendore), uno dei testi fondamentali della cabala. A sinistra il monumento in memoria del filosofo e medico ebreo Mosheh ben Maymon, meglio noto come Maimonide (1135 circa-1204), a Plaza de Tiberíades, nella Judería, il quartiere ebraico di Cordova, sua città natale. 1964.

100

DOSSIER CROCIATE

dice che se un mistico è completamente libero dal peccato, potrebbe persino creare una «persona» in grado di parlare. Le varie tecniche insegnate dal rabbino Abraham Abulafia usando le 22 lettere ebraiche (chiamate Lettere della Fondazione nel Sefer Yetzirah) rientrano in 5 categorie di base, che vengono presentate nel seguente passaggio del Sefer Yetzirah: «Ventidue Lettere della Fondazione – Le incise, le intagliò, le permutò, le pesò e le trasformò. Con esse dipinse tutto ciò che è formato e tutto ciò che formerà». «Incidere» è la capacità di contemplare una lettera e tenere la sua immagine nella memoria senza che si attenui e si dissolva. «Intagliare» è la capacità di ripulire lo spazio negativo intorno alla lettera in modo che si veda da sola, senza altre immagini in sottofondo.

Le «pietre» e le «case»

Una volta che si riesce a tenere in mente la lettera in questa maniera, essa può essere manipolata in vari modi, permutata, pesata e trasformata. «Permutare» una lettera significa unirla ad altre. In alcune tecniche, ogni lettera viene permutata con ognuna delle altre 21, in entrambe le direzioni – avanti e indietro –, come mostra il seguente passaggio del Sefer Yetzirah: «Aleph con ognuna delle altre Lettere e ognuna delle Lettere con Aleph; Bet con ognuna delle altre Lettere e ognuna delle Lettere con Bet». A volte gruppi di lettere – parole – vengono permutati gli uni con gli altri usando


ogni possibile combinazione. Ogni parola di 2 lettere ha 2 possibili permutazioni (ab, ba); ogni parola di 3 lettere ha 6 possibili permutazioni (abc, acb, bac, bca, cab, cba). Ciò viene espresso nel seguente passaggio del Sefer Yetzirah, dove le lettere vengono chiamate «pietre» e le parole vengono definite «case»: «Due pietre costruiscono due case; tre pietre costruiscono sei case; quattro pietre costruiscono ventiquattro case; cinque pietre costruiscono centoventi case; sei pietre costruiscono settecentoventi case; sette pietre costruiscono cinquemila e quaranta case. Da qui in poi andate avanti e calcolate ciò che la bocca non può dire e l’orecchio ascoltare». Da questo passo si può vedere come queste permutazioni possono essere molto complicate e richiedere molto tempo. Tuttavia, la tediosità del processo di scrivere queste infinite permutazioni può essa stessa porre in uno stato alterato di coscienza, e ciò è vero per molte tecniche meditative. Ciò che a prima vista sembra noioso e ripetitivo, da chi medita viene visto invece come un’opportunità di mettere il «pilota automatico» alla mente e raggiungere un piú alto e sottile livello dell’anima. E a volte attraverso la permutazione delle parole si può ottenere una prospettiva profonda nella natura di quelle parole, pervenendo ad altre formate dalle stesse lettere. Molte associazioni nei libri kabbalistici vengono effettuate usando la permutazione delle parole. «Pesare» le lettere ebraiche significa manipolarle usando il loro valore numerico. Trasformare le lettere in numeri viene in genere definito «gematria». La prima lettera ebraica – Aleph – equivale a 1, la seconda lettera – Bet – a 2, sino ad arrivare a 9. Le lettere intermedie dell’alfabeto equivalgono alle decine (10, 20, 30, 40, 50, ecc.) sino ad arrivare a 90. Le ultime equivalgono alle centinaia (100, 200, 300, 400). A volte è usata una gematria piú semplice, in cui sono tralasciati gli zeri e tutto viene ridotto a una singola cifra. Molte associazioni tra le parole nei libri kabbalistici sono effettuate usando tale sistema. «Trasformare» le lettere ebraiche avviene usando vari codici, secondo i quali una lettera è cambiata con un’altra. Ci sono molti codici diversi usati nella Kabbalah. Il piú semplice è

Frontespizio di un’edizione dell’Haggadah, raccolta d’insegnamenti scritti da autori ebraici e riguardanti l’etica, la religione, la politica e il folclore. XIII sec.

quello secondo il quale la prima lettera dell’alfabeto è scambiata con l’ultima, la seconda con la penultima e cosí via. Varie associazioni tra le parole della Bibbia utilizzano un codice simile. E i codici possono essere usati anche per scrivere messaggi segreti cifrati, come è stato raccontato, ad esempio, dal libro di Dan Brown, Il codice da Vinci.

La condanna di ben Adret

Le tecniche illustrate dal rabbino Abraham Abulafia nei suoi scritti, e persino lo stile dei suoi vari libri, usano tutti questi metodi. Il rabbino ha scritto libri in cui tutte le parole di interi paragrafi hanno la stessa gematria. Molti di questi lavori non erano mai stati pubblicati fino a poco tempo fa, principalmente a causa del fatto che Abulafia fu condannato aspramente da Solomon ben Adret (il Rashba), un importante rabbino del tempo. Nonostante ciò, Abulafia è stato citato da molti kabbalisti successivi, ed ebbe una forte influenza su molti maestri della Kabbalah. Uno dei suoi studenti, il rabbino Joseph ben Abraham Gikatilla, scrisse alcuni importanti libri kabbalistici, uno dei quali, lo Sha’arei Orah (Portali di Luce), è stato tradotto in diverse lingue. Venne tradotto in latino da Paolo Riccio all’inizio del XVI secolo, e venne usato da Johann Reuchlin per provare all’imperatore che i libri ebraici avevano un valore e non dovevano essere distrutti. Una ragione per cui Abulafia venne condannato dal Rashba è perché sosteneva di essere un profeta. Secondo la tradizione talmudica la profezia si può ottenere soltanto in Terra Santa, mentre Abulafia si trovava in Europa. La risposta di Abulafia fu che la Terra Santa è uno stato di coscienza, non soltanto un luogo fisico. Se si raggiunge tale stato di consapevolezza, la profezia può essere ottenuta ovunque e le tecniche contemplative che il rabbino Abraham Abulafia insegnava aiutano a raggiungere lo stato di coscienza che consente di avere esperienze estatiche, profetiche. Per questo tali tecniche hanno continuato a essere usate per secoli e vengono impiegate ancora oggi dai kabbalisti. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

101


MAGIA NORDICA

MAGIA NORDICA

102

Fate e druidi

Nelle terre dei

druidi

Le popolazioni celtiche, germaniche e scandinave elaborarono una tradizione leggendaria strettamente imparentata con la religione. E tra gli esiti del fenomeno non poteva mancare, anche a quelle latitudini, l’avvento di maghi e fate, a cui si accompagnò la nascita di sacerdoti ritenuti capaci di comunicare con le divinità

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


La scuola dei druidi, olio su tela del pittore belga Louis Delbeke (1821-1891). 1868. Bruxelles, Musées royaux d’Art et d’Histoire.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

103


MAGIA NORDICA

Fate e druidi

N

ell’antichità la magia fu in qualche modo connessa alla religione, ma non in modo esclusivo. Sia nell’ambito ermetico-alchemico, che in quello della divinazione, forme di «esoterismo di Stato» convivevano con riti privati spesso considerati demoniaci e quindi repressi dalle autorità. Nel mondo germanico e anche nelle Isole Britanniche il paganesimo ufficiale era intriso a tal punto di elementi magici da lasciare poco spazio a iniziative private. Odino, il re del pantheon nordico, rappresentava proprio il dio degli incantesimi e praticava il seidhr, una forma di sciamanesimo che gli aveva insegnato Freya, la dea del sole. Odino, inoltre, conosceva i segreti delle rune che gli conferivano enormi poteri magici, soprattutto di divinazione. Anche un personaggio in parte negativo della mitologia religiosa germanica, l’ambiguo Loki, aveva la conoscenza del seidhr e poteva mettere in atto oscuri sortilegi. Lo stesso faceva Hel, la guardiana degli inferi nonché figlia di Loki. Dal Medioevo giunsero testimonianze anche su una forma di necromanzia nordica che risulta citata in uno dei poemi dell’Edda in versi, la Völuspa (XIII secolo): Odino, nell’opera, si rivolge a una veggente morta per ottenere previsioni per il futuro. Nell’Età di Mezzo la tradizione pagana, in molte regioni del Nord Europa, resistette al dilagare del cristianesimo e anche dopo la conversione le credenze sui poteri magici delle divinità restarono radicate nella cultura popolare. Ancor piú intimamente legata a saperi esoterici è la religione dei Celti. La classe sacerdotale, i druidi, occupava un posto privilegiato nella gerarchia sociale allo stesso modo dei brahmani dell’India antica. La stessa etimologia, anche se controversa, del nome richiama i loro poteri occulti. Secondo una parte della storiografia deriverebbe dal termine celtico duir, «quercia» – l’albero sacro – e dalla parola vir cioè «saggezza». I druidi praticavano arti divinatorie e curavano i malati con il magnetismo, servendosi di amuleti per trasmettere i loro fluidi terapeutici. Il druidismo sopravvisse alla persecuzione dell’imperatore Claudio (10 a.C.-54 d.C.) e venne sconfitto dall’affermarsi, all’inizio del Medioevo, del culto di san Patrizio. Intorno alla metà del V secolo il religioso, secondo la leggenda, sfidò i sacerdoti dell’antica religione celtica sulla collina di Tara in Irlanda e compí un prodigio. Il sovrano irlandese Lóegaire, sbalordito dal miracolo, si inginocchiò al cospetto del missionario consegnando il suo regno alla Chiesa di Roma. Un incantesimo aveva deciso il destino religioso dell’Irlanda. La magia druidica, però, non venne estirpata del tutto e convisse talvolta con i costumi cristiani. Un altro grande santo irlandese san Colombano (VI-VII secolo) era solito usare pietre magiche a fini taumaturgici e la poesia del motteggio per allontanare i demoni, come gli antichi sacerdoti dei culti celtici.

Kells, Irlanda. Croce in pietra dedicata ai santi Patrizio e Colombano. Alta 3,3 m, fu innalzata nel IX sec. ed è nota anche come Croce del Sud. Nella parte inferiore del braccio verticale, su tre registri, sono scolpite le figure di Daniele nella fossa dei leoni; di Anania, Azaria e Misaele, i tre giovani che lodavano Dio nella fornace di Babilonia; di Adamo ed Eva; di Caino che uccide Abele.

104

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


L’INCANTO DEL GRANDE NORD di Marina Montesano

A

l di fuori dell’area mediterranea, altre testimonianze mostravano come la cultura magica dell’Europa altomedievale recasse nel proprio bagaglio forti tracce di tradizioni «altre» rispetto a quella latino-ellenistico-cristiana di cui sinora si è parlato. Chiediamoci allora quali altre tradizioni, quali altri popoli abbiano avuto un ruolo preponderante in questo panorama. Incontriamo per primi, in questo nostro cammino, i misteriosi Celti, l’insieme di genti ap-

partenenti a un comune gruppo linguistico che popolava una larga fascia dell’Europa atlantica e continentale. Dopo la conquista di Giulio Cesare, l’incontro e la fusione tra Romani e Celti di Gallia avevano dato luogo a una grande cultura gallo-romana, preludio di quella celto-cristiana. In merito alla storia della magia, si deve precisare che i contributi alla tradizione cristiano-occidentale sono stati di due tipi fondamentali: primo, i residui dei miti e dei culti

Il calendario di Coligny, un’epigrafe in lingua gallica incisa in caratteri latini su una tavola in bronzo, rinvenuta nel 1897 a Coligny, presso Lione. Fine del II sec. d.C. Lione, Musée gallo-romain de Lyon-Fourvière

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

105


MAGIA NORDICA

Fate e druidi

magico-religiosi «demonizzati»; secondo, corrispettivo e complementare al primo, altri miti e altri culti assorbiti dalla liturgia o dall’agiografia «popolari». Un capitolo importante in questo discorso non può non riguardare le feste. Se ci riferiamo a quella fondamentale fonte che è il calendario gallico di Coligny (si tratta di una incisione su bronzo risalente alla fine del II secolo d.C.), vi scorgiamo una notevole quantità di date festive (quaranta in tutto). Quattro date sono tuttavia fondamentali: Samain o Samonios, il primo novembre (nell’irlandese moderno troviamo Samhain per «novembre»); Beltane, il primo maggio; Lugnasad, il primo agosto; Imbloc (cioè la «purificazione»), il primo febbraio. Le feste di Samain e di Beltane dividevano l’anno in due parti uguali, dette rispettivamente la «metà scura» e la «metà

L’ABBAZIA DEL DUCA GUGLIELMO Nel X secolo in molte regioni d’Europa il controllo delle aristocrazie sulla vita della Chiesa si era fatto particolarmente intenso; tuttavia, non sempre questo fenomeno conduceva, com’è opinione comune, a un impoverimento della vita spirituale: vi sono infatti esempi di significato opposto. Uno fra questi è senz’altro offerto dalla nascita dell’abbazia di Cluny. Comunità benedettina fondata in Borgogna nel 909 dal duca Guglielmo d’Aquitania, essa non si differenziava inizialmente da fondazioni analoghe. Il duca Guglielmo ne aveva affidato la guida all’abate Bernone, dotando il cenobio di diritti fiscali e di terre, sulle quali avrebbero esercitato diritti di possesso e gestione, dal momento che la proprietà era formalmente devoluta agli apostoli Pietro e Paolo (simboli di Roma). Se gli scopi del fondatore, in modo non dissimile da altri casi, erano stati di ridurre Cluny a una Chiesa privata, con la finalità della gestione della terre e della preghiera rivolta alla salvezza della sua anima, la presenza di abati consci del loro ruolo volse la situazione in una direzione inedita: nel corso del secolo Cluny elaborò infatti, partendo dal modello del riformatore benedettino Benedetto d’Aniane, un monachesimo rigoroso, presto reso sostanzialmente indipendente da ogni potere laico. Un modello destinato a fare scuola.

106

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

chiara», caratterizzata la prima dal progredire del buio e del freddo, la seconda da quello della luce e della bella stagione. Vale la pena di notare come sul Samain si sia impiantata, a partire dall’XI secolo e per volontà di Cluny, la festa dei santi e dei morti, mentre il Beltane divenne la caratteristica festa cavalleresca della primavera, il Calendimaggio. Il Samain era una data dedicata ai morti, mentre il Beltane era dedicato a Beli o Belenos, l’Apollo – cioè la divinità solare – celtico.

La festa del fuoco

Mentre Samain a livello etimologico significa solo «riunione», il Beltane è la «festa del fuoco»; e si deve notare che a partire almeno dal tardo Medioevo la notte precedente il primo maggio (quella nota come «notte di Valpurga») sarebbe divenuta – con la Candelora, così vicina all’Imbloc per data e per significato – una delle notti caratteristiche del sabba. Beli, secondo una tradizione raccolta nel Galles, era marito della dea Ana o Anna, detta anche Dana. Da tale dea si facevano discendere i Tuatha Dé Danann, gli antichi abitanti dell’Irlanda, venuti dalla Terra degli Iperborei, e ai quali era sacra la betulla, albero che essendo a fogliame caduco era simbolo di morte e di resurrezione. Essi divennero nella tradizione isolana gli abitanti dei tumuli detti sidh ( «poggi delle fate»), abitanti cioè dell’ «Altro Mondo». Ana era una divinità troppo importante e affascinante perché i cristiani potessero evitarne la presenza: e il cristianesimo reagì in effetti nei suoi confronti secondo i suoi due modi classici, divergenti ma in realtà complementari: o battezzandola e trasformando appunto il suo culto (e difficile dire se soltanto a causa del nome) in quello di sant’Anna, oppure esaltandone gli aspetti sotterranei, come colei che regna sui defunti. In Bretagna, ad esempio, essa regna sugli anaon, che sono, appunto, i defunti. Siamo dinanzi quindi alla consueta dissociazione cristiana di un culto pagano in elementi


Nella pagina accanto il circolo megalitico di Stonehenge, situato nella contea del Wiltshire (Inghilterra). Il celebre monumento preistorico è stato da sempre associato alla celebrazione di cerimonie religiose e, in tempi moderni, ha attirato gruppi di epigoni dei druidi, che ne hanno fatto il loro periodico

luogo di ritrovo. Simili raduni, però, sono spesso degenerati, imponendone il divieto. A destra incisione raffigurante un druido, realizzata per l’opera dedicata a Stonehenge da William Stukeley (1687-1765), studioso di antichità britannico a cui si devono alcuni pioneristici studi sui circoli megalitici.

positivi da inglobare e magari da esaltare e in elementi negativi da condannare come demoniaci. Ana, se addirittura per un verso si connetteva alla Vergine Maria, per l’altro rimaneva la regina del popolo dell’«Altro Mondo», cioè delle fate e dei defunti. La regina delle fate che in pieno Duecento compariva nel Jeu de la feuillée del poeta francese Adam de la Halle (il primo esempio di teatro profano, cioè non a soggetto religioso, composto e rappresentato in Francia: si tratta infatti di una parodia carnevalesca di generi letterari più «seri», quali il romanzo arturiano o le canzoni di gesta cavalleresche), anche se ben accolta e festeggiata dagli uomini, era pur sempre una divinità terribile, che i suoi fortunati ospiti temevano. Era la signora di un corteggio extraumano, che il prudente poeta non si arrischiava a definire ma che oscillava inquietamente tra l’incanto celtico e l’orrore demoniaco.

Diana, divinità «infernale»

Il suo nome «Dana», del resto, la predisponeva alla sincresi, all’equivoco: divinità «lunare» in quanto compagna notturna di un dio solare, la si poteva facilmente, nel mondo gallo-romano, confondere con Diana. Le testimonianze di un permanente culto di Diana nel Medioevo (o di una divinità che le fonti ecclesiastiche celavano sotto il nome latino di Diana) sono molte; e, per quanto tutte ambigue, riconducevano al quadro di cerimonie notturne, forse a carattere processionale, forse con elementi orgiastici, comunque consacrate alle forze della natura e della rigenerazione, per cui in un modo o nell’altro connesse con il mondo dell’oltretomba. In questo senso la Diana notturna finiva per assomigliare alla greca Ecate, e i corteggi che l’accompagnavano assumevano una inequivocabile – per i cristiani – aria infernale. Ma, d’altro canto, il legame con il mondo dei morti (nella prospettiva celtica, degli avi) conservava un aspetto folcloricamente parlando positivo, connesso al mondo della feASTRI, SPIRITI E MAGIE

107


MAGIA NORDICA

Fate e druidi

L’ESEMPIO DI CLODOVEO È opportuno ricordare come la maggior parte delle testimonianze che ci sono pervenute circa la cultura dei Germani non ci consenta di conoscerli nel loro stato per così dire «originario». Il contatto con il mondo romano prima, cristiano dopo, dovevano aver influenzato i loro costumi in modo che è difficile determinare con precisione. La conversione al cristianesimo, soprattutto, rappresentò un cambiamento di immensa portata nella cultura di questi popoli, che tuttavia

condità che si basava sull’oltretomba e sulle vive forze della Terra, della morte e della rigenerazione stagionali. Un mondo agricolo o agricolo-pastorale, come appunto era quello celtico. Quindi la Ana-Dana-Diana con il suo corteggio poteva entrare nelle case, renderle benedette con la sua presen108

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

za, assidersi a banchetti che paiono tavole imbandite come offerta funebre agli spiriti domestici. È questo il quadro della cosiddetta «compagnia di Diana» che già emergeva con una qualche chiarezza a partire dal X secolo negli scritti di ecclesiastici quali Burcardo di Worms e Reginone di Prüm. In


forme di divinazione. Il termine stesso «druida» (che letteralmente significa «sapiente delle querce») e il legame con due piante sacre, la quercia e il vischio, fanno pensare al duplice ruolo dei druidi come guaritori per mezzo delle erbe e dei vegetali e come sacerdoti della natura e custodi di essa. Ancora, i druidi avevano il potere di scagliare malefici a distanza e di fabbricare magici filtri. Vediamo che i santi celti o entrati in contatto con loro – da san Patrizio a san Colomba – si adeguavano spesso a questa magia, quanto meno a quella «bianca». La lotta fra Patrizio e i druidi irlandesi presentata dalla tradizione agiografica assumeva spesso l’aria di una contesa tra maghi: egli usava il classico metodo druidico del «motteggio» (un carme satirico che si rivelava in realtà un potente incantesimo) e si trasformava persino in animale. San Colomba, secondo il biografo Adamnano, usava pietre magiche per consentire ai malati il recupero della salute; l’uso delle pietre a tal fine era un’altra caratteristica manifestazione della magia druidica. Anche il culto dei santi sembra essersi sostituito, nell’Irlanda celtica, a quello degli antichi eroi celebrati nei canti. mantennero ancora a lungo tracce dei costumi pagani. Per il futuro dell’Europa cristiana, fu soprattutto la conversione dei Franchi ad avere un peso rilevante. In un anno imprecisato fra il 493 e il 506, a Reims, il loro sovrano Clodoveo, sotto la guida del vescovo Remigio, accettò il battesimo. Questo condizionava l’intero popolo dei Franchi, che seguì l’esempio del sovrano: è tuttavia evidente che questo genere di conversione, per così dire «di massa», abbia dovuto lasciare in sostanza intatte molte delle abitudini cultuali precedenti.

Nella pagina accanto disegno raffigurante il dio Odino con i suoi due corvi, Huginn (il Pensiero) e Muninn (la Memoria). Inchiostro su carta di scuola islandese. XVIII sec. Copenaghen, Royal Library.

L’isola delle sacerdotesse In alto il battesimo di Clodoveo, re dei Franchi Salii, in uno degli arazzi con scene della vita di san Remigio, vescovo di Tours. 1523-1531. Reims, Musée Historique Saint-Remi. La scelta del sovrano di abbracciare la religione cristiana ebbe un peso determinante sul progressivo allontanamento dal paganesimo in Europa.

epoca medievale – per esempio nel Roman de la Rose, celebre romanzo cortese – essa veniva designata come Dame Habonde, cioè «Signora dell’Abbondanza». Un altro motivo di grande impatto nella cultura magica del Medioevo fu certo quello del sacerdozio druidico. Caratteristiche delle conoscenze druidiche erano la dominazione sugli elementi e specie sul tempo, la padronanza del calendario e in genere delle scienze connesse all’osservazione del cielo, la magia tempestaria (che in parte sembra essere penetrata nel culto cristiano attraverso le cosiddette rogationes, processioni con le quali si invocava la pioggia sui campi inariditi dalla siccità), la facoltà di assumere forme animali, l’esperienza in varie

Anche se il ruolo di druida era sostanzialmente maschile, sembra di poter affermare l’esistenza di qualche forma di sacerdozio femminile. Alle sacerdotesse di Carnac, per esempio, era affidato il «fuoco sacro» della festa solare di Beli. Ancora, il geografo latino del I secolo d.C. Pomponio Mela parlava delle sacerdotesse druidiche dell’isola di Sena, al largo dell’Armorica, in grado di sconvolgere le acque marine con i loro canti, trasformarsi in animale, curare anche le più difficili malattie e predire il futuro ai loro visitatori. Sulla grande abilità di certe donne galliche nel predire il futuro si hanno parecchie altre notizie di fonte romana: imperatori quali Alessandro Severo, Aureliano, Diocleziano vi ricorsero per conoscere la propria sorte. Poteva essere di competenza femminile, oltre che maschile, anche la magia tempestaria. Allorché la siccità minacciava i raccolti le sacerdotesse sceglievano una giovane vergine la quale, completamente nuda, doveva recarsi in una sacra foresta e raccogliervi – usando solo il mignolo della mano sinistra – l’erba sacra al solare Beli, la belinuncia; indi immergerla nelle acque di un fiume dalla riva del quale era tenuta ad allontanarsi camminando all’indietro, forse per simbolizzare (ma, ritualmente, anche per determinare con un procedimento di «magia simpatica», cioè di attrazione fra gesti o elementi analoghi) il corso a ritroso del sole, che ASTRI, SPIRITI E MAGIE

109


MAGIA NORDICA La fuga di Sieglinda in una delle tavole di Ferdinand Leeke (1859-1923) ispirate alla Walkiria di Richard Wagner. Mitiche fanciulle al servizio di Odino, le Valchirie raccoglievano i morti in battaglia per condurli nel Walhalla (la «sala del combattimento»).

110

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Fate e druidi

avrebbe recato sollievo alla regione riarsa. Il rito venne descritto come praticato da Burcardo di Worms ancora nell’XI secolo.

L’esercito degli eroi defunti

La mitologia germanica si qualificava, al pari di quella celtica, per il posto di rilievo dato alla «magia» esercitata dagli dèi e per il rapporto tra essa e il regno dei morti. Al culto dei defunti, e al rapporto di certe divinità con essi, parevano ricondurre certe tradizioni – giunteci attraverso la mediazione dei Latini o della mitologia scandinava, già influenzata dal cristianesimo – note

nell’Europa medievale e anche moderna soprattutto a livello folclorico. Per esempio, la tradizione del wuttende Heer, cioè dell’esercito degli eroi defunti scelti dalle Valchirie (le «sceglitrici dei caduti») per abitare con Odino nell’Aldilà (il Walhalla, che si può tradurre come la «sala del combattimento»), sopravvive, demonizzato, nella wilde jagd, la «caccia feroce» (o «caccia selvaggia», o ancora «caccia fantastica») della quale sono piene le fonti medievali. Già Tacito parlava del feralis exercitus, cioè delle ombre degli avi che di notte sarebbero magicamente venute tra i guerrieri germani per soc-


correrli nel bisogno. Il quadro delle anime inquiete, vaganti per i trivi o per le case, è ambiguamente sospeso tra un atteggiamento minaccioso e uno benevolo (i «morti che portano i doni», pure presenti nella tradizione nordica) nei confronti dei viventi. Esso si collegava anche all’oscura divinità infera nota come Hel, forse sopravvissuta dopo la cristianizzazione e convogliata nella figura femminile di Holda-Perchta, che univa in sé appunto i caratteri inferi con quelli di divinità dell’abbondanza, così come si è detto a proposito della celtica Dana. È invece riconducibile a

un altro personaggio del Jeu de la feuillée, di Adam de la Halle, il «demone» Hellequin, protagonista delle «feste dei folli» (sorta di corteggi carnascialeschi), probabile antenato del «nostro» Arlecchino da Bergamo. Si direbbe, insomma, che la tradizione germanica fosse straordinariamente congrua con quelle greco-romana e celtica per quanto riguardava certe figure di «signore dei morti» e di morti senza pace, che il cristianesimo avrebbe attribuito al mondo demoniaco; anche se il mondo germanico sembra essere stato animato, nei confronti dell’oltretomba, da un più netto senso di paura-ostilità, che lo differenziava ad esempio da quello celtico e lo avvicinava in qualche modo a quello cristiano. Difatti, nel mondo germanico si incontrano spesso pene severe per coloro che praticavano certe forme di magia; lo testimoniano diversi corpi di leggi – dalla Lex Salica all’Editto di Rotari –, che tuttavia furono redatte per iscritto solo dopo l’incontro con il cristianesimo: il che rende più complicato il leggerle come uno specchio delle tradizioni originarie dei Germani.

Una cultura di frontiera

Lo stesso discorso può esser rivolto alle saghe nordiche, nelle quali figuravano molti elementi magici: cappe che rendevano invulnerabili, formule magiche, apparizioni di fantasmi. Queste saghe – soprattutto le islandesi – sono autentiche miniere sia per quanto riguarda la magia, la stregoneria e le superstizioni popolari. C’è da notare però che la loro redazione scritta non fu anteriore al XII secolo, e dunque dopo il contatto con altre culture, a partire da quella cristiana. Ci sono altri motivi per i quali la cultura dei Germani appariva eminentemente come una cultura di frontiera e di sintesi. Pur non essendo un insieme di popoli che praticavano il nomadismo, nei primi secoli dell’era cristiana molti fra i Germani erano stati costretti da motivi contingenti, quali guerre e carestie, a intraprendere lunghe e tortuose migrazioni, attraverso le quali essi entrarono in contatto con le culture delle steppe eurasiatiche: i Goti e i Longobardi, fra gli altri, ne rimasero influenzati in modo particolare. È difficile dire se in seguito a queste relazioni, oppure a causa di contatti ancora precedenti, per noi oscuri; è tuttavia certo che i Germanoorientali assimilarono elementi delle culture sciamaniche scito-sarmatiche: la principale fra le divinità del pantheon germanico, Odino (che troviamo con tale nome nelle saghe nordiche, ma come Wotan al di fuori di queste), era allo stesso tempo sapiente, mago, necromante, veggente, fondatore dell’arte poetica; presentava insomma caratteri che lo avvicinavano molto alle religioni sciamaniche. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

111


MAGIA NORDICA

112

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Ogam


UN MISTERO IN VENTI SEGNI di Elena Percivaldi

V

enti segni diversi, incisi su legno, osso o pietra. Non lettere, ma tacche, scolpite in senso orizzontale, verticale o obliquo rispetto a uno spigolo: ecco l’alfabeto Ogam. Questo curioso sistema di scrittura fu utilizzato nelle Isole Britanniche a partire dal III secolo d.C. In tutto, le iscrizioni conosciute sono circa 370: per la maggior parte furono prodotte tra il IV e il VII secolo in Irlanda, Scozia, Cornovaglia e Isola di Man. La piú «orientale» è stata ritrovata a Silchester, nell’Hampshire inglese, ed è contemporanea alla ritirata romana sotto la spinta sassone. Tutte sono scritte in antico irlandese, tranne una ventina, molto tarde, in antico norvegese. E tutte riportano testi brevissimi: semplici iscrizioni tombali o indicazioni di proprietà su cippi di confine. Ma dalle fonti letterarie irlandesi sappiamo anche di un’altra funzione dell’Ogam: quella magico-sacrale e divinatoria. Ma chi inventò, e per quali ragioni, un sistema di scrittura cosí poco pratico? E a che cosa serviva esattamente? Per comprenderlo, occorre fare un passo indietro e ricordare che, sin dall’antichità, nei Paesi di cultura celtica – l’Irlanda era fra questi –, la scrittura non costituiva la base della memoria storica e della comunicazione. A padroneggiarla, innanzitutto, erano solo i rappresentanti della classe sacerdotale e detentori della sapienza, i druidi.

La «svogliatezza» dei druidi Il bosco sacro dei Druidi. Incisione ottocentesca da un’edizione della Norma di Vincenzo Bellini, opera ambientata nella Gallia dominata dai Romani, che narra appunto la vicenda di Norma, sacerdotessa dei druidi. Parigi, Bibliothèque de l’Opera Garnier.

La tradizionale avversione da parte del mondo celtico, tramandata già da Cesare, nei confronti della scrittura era giustificata da due ordini di motivi: «primo, [i druidi] non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione vengano a conoscenza del volgo; secondo, perché i loro discepoli, facendo conto sugli scritti, non le studino con minore diligenza. Succede spesso infatti che, confidando nell’aiuto della scrittura, non si tenga adeguatamente in esercizio la memoria». Mettere per iscritto un precetto religioso, una regola giuridica, una nozione ASTRI, SPIRITI E MAGIE

113


MAGIA NORDICA

Ogam

qualsiasi era dunque altamente sconsigliabile: si correva il rischio che formule magiche, rituali o altre nozioni considerate segrete cadessero nelle mani sbagliate con esiti funesti. All’inizio del Medioevo, l’Irlanda era ancora intrisa di cultura celtica. Tribú sparse sul territorio a macchia di leopardo, e in perenne lotta, costituivano l’unica forma di aggregazione sociale per circa mezzo milione di abitanti. La religione era pagana, con miti e leggende che affondavano le radici nella notte dei tempi. Un patrimonio composto e tramandato per via orale dai bardi, che, insieme ai druidi, completavano le categoria dei sapienti della società. Già menzionati da autori antichi quali Diodoro e Strabone, questi poeti e cantori avevano il compito di comporre e raccontare le gesta eroiche di sovrani e guerrieri e godevano di grande considerazione. Erano suddivisi in due gruppi: i baird, dediti a canti e orazioni, e i filid, che, in qualità di vati e sapienti, subentrarono gradualmente ai druidi nelle loro funzioni, fino a superarne lo status. Accanto al fili e al bard, l’airfideach si distingueva, invece, per le sue abilità nell’uso del flauto e dell’arpa, strumenti coi quali accompagnava le recite. Baird e filid accedevano al sapere gradualmente. Nelle scuole in cui venivano educati, si praticava un insegnamento orale attraverso il quale si imparavano a memoria i calendari, le regole di composizione delle poesie, le genealogie. I baird erano i depositari della tradizione orale e della memoria storica, i filid apprendevano invece i segreti della vita e della morte, a predire il futuro, a comunicare con i defunti e a curare gli ammalati, utilizzando le proprietà terapeutiche delle piante. I druidi assommavano in sé le competenze sia dei baird, sia dei filid, ottenute dopo un apprendistato di vent’anni. Tra le loro conoscenze, in Irlanda, figurava anche la padronanza dell’alfabeto ogamico.

Dal basso verso l’alto

Questo, dunque, è formato da venti lettere, ripartite in quattro gruppi di cinque segni, i primi tre costituiti da consonanti e l’ultimo da vocali. Le lettere sono notate per mezzo di linee, incise in numero da uno a cinque, sullo spigolo di una pietra o a ridosso di una linea verticale: a destra, a sinistra, perpendicolarmente o obliquamente rispetto allo spigolo se consonanti, sotto forma di punto se vocali (vedi schema a p. 118). Un segno posto sotto l’iscrizione indicava la direzione di lettura, di solito dal basso verso l’alto. Il testo, scritto senza interruzioni fra una parola e l’altra, poteva anche proseguire sullo spigolo inferiore e ridiscendere dall’altra parte. All’inizio e alla fine di ogni frase, infine, si incideva un segno. 114

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Ogni gruppo di lettere incise sulla linea di scrittura era chiamato aicme, ovvero «famiglia» o «specie» e ciascun segno – detto feda, «legno» – traeva la sua denominazione da una pianta, il cui nome iniziava con la lettera – o meglio, il suono – relativa. La linea di scrittura, che collegava tra loro le lettere, rappresentava in senso simbolico il tronco dell’albero, mentre le singole lettere ne erano i rami. Dal nome delle prime tre lettere l’alfabeto, nel suo insieme, è definito di bethe-luis-nin (probabilmente su imitazione del modello «alfabeto» e abecedarium) e ogni gruppo di cinque lettere prende il nome della prima: gruppo B, gruppo H, gruppo M, gruppo A. Sebbene fosse il piú diffuso, l’Ogam «arboreo» non era l’unico utilizzato. Vari trattati tecnici testimoniano l’esistenza di Ogam con nomi di liquidi, colori e uccelli. L’Auraicept na N-Éces (Manuale del Letterato) ne elenca addirittura 24, con nomi di scrofe, fiumi, fortezze, uccelli, colori, chiese, uomini, donne, utensili agricoli, re, corsi d’acqua, cani, bovini, vacche, uomini ciechi, uomini zoppi, bambini, piedi, nasi, santi, arti, cibi, erbe. Nella tradizione manoscritta, tuttavia, le vocali sono notate come piccole croci, che intersecano la linea di scrittura.

L’ascetismo come regola di vita

Quando, nel V secolo, giunsero sull’isola i predicatori Palladio e Patrizio, improntarono l’evangelizzazione a una forma di monachesimo che, tenendo conto della situazione culturale, religiosa e politica, assunse connotati molto diversi da quello benedettino che si stava imponendo sul Continente. Anziché la vita in comune, fu privilegiato l’ascetismo di marca orientale, che individuò nelle asperità del clima e dell’ambiente il mezzo per consentire l’elevazione spirituale (il deserto della Tebaide si trasformò nelle verdi praterie e nell’oceano). Grande significato fu inoltre attribuito allo zelo missionario, che spingeva i monaci a fondare cenobi ai confini del mondo conosciuto. L’importanza dei monasteri era decisiva. Non solo costituivano il punto di riferimento e di aggregazione per le comunità locali sotto il controllo dell’abate, ma diventarono centri di produzione e diffusione di una vasta letteratura a supporto dell’attività missionaria: dagli inni sacri alle liriche, dalle preghiere alle vite di santi, fino alla storiografia e all’annalistica. La lingua dell’Irlanda antica, che non aveva mai conosciuto la dominazione romana, ma aveva intrattenuto con l’impero solo rapporti commerciali, era il gaelico. Con l’evangelizzazione e la conseguente introduzione delle Sacre Scritture, i monaci dovettero dunque apprendere il latino come lingua straniera. Grazie al grande


L’Aghascrebagh Ogam Stone nella contea di Tyrone (Irlanda). È probabile si tratti di un segnacolo funerario o di una iscrizione commemorativa, incisa in una data anteriore al 500 d.C. Il testo, «Do Te Tto Maqi Maglant», menziona due nomi maschili, legati dal vocabolo Maqi, che significa «figlio di» ed è una forma ancestrale del moderno Mac.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

115


MAGIA NORDICA

Ogam

interesse nei confronti della grammatica e della scrittura in genere, dagli scriptoria irlandesi uscirono, dal VII secolo, alcuni dei piú splendidi manoscritti vergati in caratteri insulari. Ma i codici non contenevano solo Bibbia e Vangeli: il Book of Armagh (IX secolo) affianca al Nuovo Testamento e alle vite di santi testi di prosa in antico irlandese. Ai margini dei codici, i monaci inserivano note esplicative – le glosse – di particolarità grammaticali o termini ostici, preziosissime per ricostruire le varie fasi storiche del gaelico. Alcune riguardano anche gli Ogam. Si fa infatti risalire all’ambito monastico l’aggiunta di un quinto gruppo di altri cinque segni, detti forfeda, per i dittonghi, originariamente non presenti come suono in gaelico, ma utili in caso di traslitterazione in Ogam di parole latine (vedi schema a p. 118).

Rispetto reciproco

Il rapporto tra culture autoctona e monastica fu improntato al reciproco rispetto, anche se i filid – ancora pagani – guardavano con sospetto i missionari e il loro messaggio e non mancarono momenti di attrito. Eloquente fu l’atteggiamento di san Patrizio, che tentò di distinguere le funzioni religiose dei filid da quelle culturali, accettando le seconde e ne-

116

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

gando con forza le prime. Sembra che anche il grande evangelizzatore san Columba avesse appreso i primi rudimenti del sapere da un fili di nome Gemmnán, e che si riferisse a Cristo con l’epiteto «il mio druido», ma ciò – come testimonia Adomnano di Iona – non gli impedí di fronteggiare i druidi, arrivando ad avere la meglio su uno di loro. Comunque sia, in questo contesto, cultura monastica e tradizioni autoctone riuscirono a convivere e confrontarsi, fino a fondersi per dare vita a una nuova identità, talmente ricca e peculiare da costituire un unicum nell’intera storia europea. L’uso della scrittura non era ben visto dai filid. Col procedere dell’evangelizzazione e la progressiva diffusione del cristianesimo, anch’essi furono però costretti a utilizzarla, per evitare l’estinzione della loro tradizione. Sembra anzi assodato che i filid si siano serviti degli insegnamenti appresi proprio in ambito monastico per trascrivere il patrimonio di miti e leggende fino ad allora tramandato solo per via orale. Dalla metà del VII secolo il fili Cenn Faeladh (morto nel 679) avrebbe utilizzato la scrittura per fissare in forma poetica quanto imparato nelle scuole monastiche, fondendo i caratteri del fili con quelli del sapiens, il monaco dotto. Nello stesso periodo un altro fili mise per iscrit-


to la Razzia del bestiame di Cooley (Táin Bó Cúalinge), la cui elaborazione in forma orale si fa risalire forse già al IV secolo. Questa inedita situazione fece sorgere un nuovo problema: quale atteggiamento tenere nei confronti del sapere autoctono tradizionale. Se, cioè, respingere miti e genealogie in quanto mera espressione di leggende e superstizioni, oppure accettarle come storia reale da salvaguardare e tramandare. I dotti dell’epoca scelsero la seconda strada, cercando inoltre, dove possibile, di far interloquire gli antichi eroi delle saghe con personaggi storici realmente esistiti.

Testimonianze preziose

Comunque sia, tra il X e il XVI secolo furono messe per iscritto gran parte delle opere capitali della letteratura irlandese, dal ciclo di leggende epico-mitologiche dei Tuatha Dé Danann (popolazione leggendaria nelle tradizioni celtiche d’Irlanda, n.d.r.) e dell’Ulster a quello poetico di Finn Mac Cumhaill (cacciatore-guerriero della mitologia irlandese, n.d.r.). Questi e altri capolavori ci sono pervenuti in numerose miscellanee, alcune delle quali – il Libro di Ballymote, il Libro giallo di Lecan e il Libro di Leinster – contengono informazioni preziose sull’Ogam e sul suo utilizzo da parte dei filid. Fu in questo

In basso, sulle due pagine pietra ogamica a Dunmore Head, promontorio nella penisola di Dingle, nella contea irlandese del Kerry. L’alfabeto Ogam, un sistema di scrittura verticale, che procede dal basso verso l’alto, fu utilizzato nelle Isole Britanniche a partire dal III sec. d.C.

UN TESTO ENIGMATICO I rapporti tra Ogam e cristianesimo non furono però sempre tesi. Un’iscrizione ritrovata a Maumanorig (foto in alto), nella contea irlandese del Kerry, è un curioso esempio di scrittura ogamica utilizzata in ambito cristiano. Considerata una prova tarda di utilizzo dell’Ogam in ambiente dotto e non una testimonianza commemorativa in senso tradizionale, l’iscrizione presenta un andamento curviforme lungo due lati della pietra. Caso strano, le lettere non sono notate – come al solito – lungo il margine, ma sono incise a ridosso di una linea anch’essa tracciata dal lapicida, proprio come nei manoscritti. La scritta corre a ridosso di due croci patenti di diverse dimensioni, la piú grande inserita in un cerchio supportato da un elemento triangolare, con ogni probabilità precedenti l’iscrizione stessa. Va letta ANM COLMAN AILITHIR, ovvero «Monumento del pellegrino Colmán», ma il testo è stato a lungo di difficile interpretazione per via della presenza di alcuni segni apparentemente superflui, oggi dimostrati essere una glossa simile a quelle comuni nei manoscritti coevi.

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

117


MAGIA NORDICA

Ogam SEGNI E «FAMIGLIE» A

M

H

B

o

G

D

L

U

NG

T

V

E

Z

C

S

I

R

Q

N

1° AICME B L F S N

beith betulla luis sorbo selvatico fern ontano sail salice nion frassino

2° AICME

H hUath biancospino D dair quercia T tinne agrifoglio C coll nocciolo Q ceirt cespuglio/melo

3° AICME

M muin vigna G gort edera

NG nGéatal giunco Z straif susino selvatico R ruis sambuco

4° AICME

A ailm abete O onn ginestrone U úr erica E eadha pioppo I iodhadh tasso

5° AICME

EA éabhadh OL ór UI uilleann IA ifín AE eamhancholl

contesto, presumibilmente, che esso ebbe origine. Dire con certezza quando è impossibile. La leggenda trasmessa dal Manuale del Letterato suggerisce «al tempo di Bres figlio di re Elatha sovrano d’Irlanda»: l’artefice sarebbe stato un certo Ogma «figlio di Elatha figlio di Delbaeth, fratello di Bres», uomo molto dotato per il linguaggio e la poesia, che lo inventò con l’idea che «dovesse appartenere all’uomo colto ed escludere gli zotici e i mandriani». Il nome «Ogam» va però ricollegato anche a quell’Ogme o Ogma tradizionalmente identificato con Ercole, che già secondo il greco Luciano «dai Celti è chiamato Ogmios nella loro lingua» ed è per loro il dio della sapienza. Ma nella tradizione del Lebor Gábala (Libro delle invasioni), Ogma è un guerriero appartenente alle tribú della dea Danu, costituite dagli antichi dèi dell’Irlanda pagana. Con ogni probabilità – cosa del resto frequente nel mondo antico – è stata dunque operata una sovrapposizione tra la figu118

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


Nella pagina accanto l’alfabeto ogamico, formato da 20 lettere, ripartite in 4 gruppi di 5 segni. Le lettere sono notate per mezzo di linee, incise in numero da 1 a 5. Con le stesse lettere, si componevano gli aicmi (plurale di aicme, «famiglia»). Sulla sinistra è una pietra ogamica con caratteri in latino iscritti a fianco, presso una chiesa romanica del XII sec., nella penisola di Dingle.

Anglesey

Scozia

Irlanda Inghilterra Galles Cardiff

Diffusione delle pietre iscritte nel Galles

ra del dio e quella del guerriero, attribuendo a quest’ultimo l’invenzione dell’alfabeto. La maggioranza delle epigrafi, comunque, risale ai secoli IV-VII, il che ha fatto a lungo porre l’invenzione dell’Ogam intorno al IV secolo. Lo scavo di un crannóg (sito abitativo lacustre) nei pressi di Ballinderry, datato al 200 d.C., ha però restituito un dado da gioco osseo con inciso, sulla faccia del cinque, il segno ogamico che corrisponde alla lettera V. Questo ritrovamento dimostrerebbe che l’Ogam era in uso già nel III secolo e quindi la sua invenzione andrebbe retrodatata di almeno cent’anni.

Il latino classico come modello

Comunque sia, al di là delle leggende, l’elaborazione dell’Ogam avvenne con ogni probabilità in ambiente dotto, poiché tutti i dati in nostro possesso sembrano suggerire che il suo anonimo ideatore abbia tratto spunto dalle opere dei grammatici latini Elio Donato, Prisciano e Mario Vittorino. Un indizio è costituito dal raggruppamento delle vocali, che sebbene nell’Ogam differiscano leggermente nell’ordine rispetto al latino, sono però sempre cinque e possiedono la stessa natura. Anche per le consonanti la somiglianza è notevole. Il fatto che l’Ogam non presenti i segni introdotti in latino per traslitterare suoni greci o per lettere greche che mancavano, proverebbe che l’alfabeto latino servito da modello sia quello della prima classicità. Quasi tutte le iscrizioni superstiti sono state realizzate su pietra, secondo una prassi che risale alla cultura megalitica irlandese. Il tipo di supporto usato, e soprattutto la posizione a ridosso degli angoli, ne ha determinato in molti casi una conservazione lacunosa. Se le iscrizioni incise su materiali deperibili sono andate perdute, gli spigoli delle pietre hanno subito l’azione erosiva delle intemperie: molte, abbandonate in terreni adibiti a pascoli, sono state addirittura utilizzate come sfregatoio da parte dei bovini.

Pietre con iscrizioni ogamiche Pietre senza iscrizioni ogamiche

Cardiff 0

km

50

La funzione principale delle iscrizioni era sacrale e commemorativa. L’uso di porre sulle tombe o sui tumuli sepolcrali i nomi dei defunti non è originario dell’Irlanda, ma importato dal mondo classico. Dato il loro carattere, i testi sono molto brevi e le frasi contengono solo il nome proprio del defunto e le sue generalità. A volte presentano un solo nome proprio, al genitivo; piú spesso i nomi sono due, entrambi al genitivo e separati dal termine MAQI, «figlio». Per la maggior parte, quindi, le iscrizioni sono del tipo: «di X figlio di Y», sottintendendo quindi la parola «cippo», «tomba» o simili. In alcune epigrafi tarde il nome proprio, sempre in genitivo, è preceduto da ANM (ainm, «nome»). In altri casi appare il termine MUCOI, che introduce i nomi di tribú (tuatha), originati dai nomi di dèi e dèe che popolavano il pantheon dell’Irlanda pagana, dai quali le tribú vantavano discendenza. Se i reperti archeologici mostrano la funzione pratica dell’Ogam, la letteratura irlandese ne suggerisce invece un utilizzo anche magico e rituale. Nel già citato Táin Bó Cúailnge, l’eroe Cú Chúlainn incide a piú riprese messaggi di sfida ASTRI, SPIRITI E MAGIE

119


MAGIA NORDICA Miniatura raffigurante un copista, da un’edizione della Storia di Roma di Tito Livio. Maestro di Boqueteaux, 1350-1380. Parigi, Bibliothèque Sainte-Genenvieve. Ai monaci attivi negli scriptoria irlandesi viene fatta risalire l’aggiunta all’alfabeto Ogam di un quinto gruppo di cinque segni, detti forfeda, per i dittonghi, utili per la traslitterazione di parole latine.

120

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Ogam

nei confronti dei nemici. Eccone uno: «Non andate oltre, a meno che tra voi non si trovi un uomo, escluso il mio amico Fergus, che sia capace di costruire una pastoia come questa con una sola mano e di un sol pezzo». Fergus chiede ai druidi di interpretare il significato del messaggio, che egli definisce «segreto», poi decide di ignorarlo. Cú Chúlainn allora, imbattutosi in un attacco dell’esercito, uccide quattro guerrieri, taglia loro le teste e le infila su un grosso ramo forcuto. Quando i nemici si recano sul luogo, trovano sul ramo insieme alle teste un messaggio inciso a caratteri ogamici: «Esso diceva che un uomo solo aveva infisso quel ramo nel guado e che essi non dovevano proseguire finché uno di loro, non Fergus, avesse fatto altrettanto, e anch’egli con una sola mano». Fergus e i suoi cercano l’eroe per affrontarlo, ma egli sul loro cammino abbatte una quercia e vi incide in alfabeto ogamico che «nessuno doveva oltrepassare quella quercia finché un guerriero l’avesse superata con il carro al primo tentativo». I guerrieri accettano la sfida e inizia il massacro, che culmina con la vittoria finale di Cú Chúlainn. L’Ogam porta un messaggio di sfida anche in un episodio del Libro di Leinster: «Il prato del castello era cosí costituito: in mezzo vi era una colonna e intorno a essa un anello di ferro, l’anello della

Confraternita degli eroi, e su di esso un’iscrizione in Ogam che diceva: “A chi dovesse giungere sul prato portando con sé delle armi sarà proibito lasciare il campo senza essere stato provocato a singolar tenzone”. Il ragazzo lesse l’iscrizione e abbracciò la colonna». Entrambi gli episodi mostrano come tutti fossero in grado di leggere il messaggio Ogam senza difficoltà. Ciò che era ostico o di difficile comprensione, almeno nel Tain, era dunque il vero significato del messaggio, che richiedeva, per la sua interpretazione, l’intervento dei druidi. Emerge anche che i druidi non solo conoscevano bene la scrittura, ma sapevano interpretarla in quanto «intermediari del soprannaturale». La presenza della quercia si ricollega ancora una volta all’ambito magico.

Gettare i rami

Ai druidi, che amministravano anche la giustizia, sembra del resto fare riferimento una delle prime testimonianze di «divinazione» applicata, in Irlanda, in questo campo. La raccolta di leggi nota come Senchus Mor contiene la descrizione della procedura – detta crannchur, cioè «gettare i rami» – da seguire per stabilire la colpa o l’innocenza di un sospetto. Dapprima si ponevano in un sacco tre rametti di legno intagliati a rappresentare la colpa, l’innocenza e la Trinità; in seguito si procedeva all’estrazione di uno di essi, per stabilire il verdetto. Il testo non specifica con quali caratteri fossero intagliati i rametti, ma con molta probabilità – si ricordi il dado di Balinderry – si trattava di Ogam. Questo episodio, e un altro citato nel Corteggiamento di Etain, fanno riflettere sull’evidente scopo divinatorio dell’Ogam e riportano all’utilizzo delle rune da parte dei Germani. Nel Corteggiamento, il druido Dalan fa ricorso all’Ogam per sapere dove il dio Midir ha nascosto Etain: taglia quattro rametti di tasso e vi incide tre segni Ogam, utilizzandoli per trovare gli eochra ecsi, probabilmente le chiavi della divinazione. Ed ecco cosa scrive Tacito a proposito dei Germani: «Tagliano un rametto di albero da frutta in piccoli pezzi, li incidono con certi segni e li buttano a caso su una veste bianca. Dopo di che il sacerdote della tribú, se il consulto è per la comunità, o il capofamiglia, se è per questioni private, invocati gli dèi con gli occhi rivolti al cielo, ne raccoglie tre pezzi, uno per volta, e li interpreta secondo il simbolo espresso». Le analogie sono evidenti. Si è cercato, per questo e altri motivi strutturali (suddivisione dell’alfabeto in gruppi di lettere, eccetera) di mettere in relazione l’Ogam alle rune, ma in realtà essi conobbero sviluppi paralleli e indipendenti, e se mai vi fu un condizionamento dell’uno sull’altro, è l’Ogam che può aver in-


fluenzato le rune e non viceversa. Tanti valori – criptico, divinatorio, magico e memorialistico – sono presenti nell’Ogam anche in altri episodi, e nessuno esclude l’altro. Quanto raccontato nel Viaggio di Bran Mac Febal, inoltre, suggerisce anche uno scopo narrativo: «alle persone del conciliabolo – si legge – Bran raccontò tutti i suoi viaggi errabondi dall’inizio fino a quel momento. E scrisse queste quartine in Ogam, e poi disse loro addio. E da quell’ora, sui suoi vagabondaggi non si sa piú nulla». Naturalmente, di tutto ciò – per il materiale deperibile utilizzato – si sono perse le tracce. A reclamare per l’Ogam un ruolo che vada oltre la mera memorialistica funebre resta però il dado di Balinderry, testimone muto (e finora unico) di una ricchezza culturale irrimediabilmente perduta. Il momento di massima espansione dell’Ogam fu il V secolo, dopo di che si ebbe un arresto dovuto alla contemporanea diffusione della lingua latina e del suo alfabeto. Sia la nomenclatura sia il vocabolario cristiano – la parola QRIMITIR dal latino presbyter e il nome Colman (Colombanus) – sono presenti solo in una decina di iscrizioni. In epoca altomedievale alcuni cippi funerari furono deliberatamente mutilati del nome della tribú e del termine MUCOI, probabilmente a opera degli evangelizzatori per privare la tribú del proprio ancestrale legame «genealogico» con una divinità pagana, distruggendone l’idolo.

Una tradizione apprezzata

E proprio i codici conservano altri esempi di Ogam, a testimonianza che l’antica tradizione, sebbene associata al paganesimo, era ben conosciuta e apprezzata dai monaci per il suo sapore erudito. Lo dimostra il testo latino scritto in alfabeto ogamico e conservato nel manoscritto degli Annales di Inisfallen (1160 circa): NUMUS HONORATUR SINE / NUMO NULLUS AMATUR. E lo provano gli schemi di alfabeto presenti in numerosi codici vergati tra il IX e il XII secolo. Qualche esempio. Il ms. Reg. Lat. 1308 della Biblioteca Apostolica Vaticana (XII secolo) contiene l’intero schema alfabetico (ma senza forfeda) e risulta prezioso perché presenta un segno del tutto diverso per indicare la lettera «P». Il ms. 207 della Burgerbibliothek di Berna (IX secolo) fornisce un’interessante variante dei forfeda. Il ms. 904 della Stiftsbibliothek di San Gallo (IX secolo), contenente le opere grammaticali di Prisciano, presenta ai margini di alcuni fogli correzioni e glosse in Ogam. Citiamo anche il codice noto come Stowe Missal (trascritto

Due pagine manoscritte dal Libro di Ballymote, una raccolta di diversi testi, compilata intorno al 1391, per Tonnaltagh McDonagh. Uno dei manoscritti, la Contesa dei Poeti, contiene il trattato sulla scrittura ogamica. Dublino, Royal Irish Academy.

tra il 792 e l’803 circa), firmato dal copista col suo nome, SONID, in Ogam. E poi la pietra tombale rinvenuta presso il monastero irlandese di Clonmacnois col nome COLMAN in lettere mezze onciali e la scritta BOCHT («povero») in Ogam, e la nota obituaria degli Annali di Loch Cé (compilati tra il 1014 e il 1590) e degli Annála Connacht (compilati tra il XV e il XVI secolo), in cui un certo Muiris O’ Gibillain è definito «gran maestro di Erinn, eminente professore di poesia e di scrittura Ogam». Tutti esempi che mostrano chiaramente come l’Ogam non solo sopravvisse alla cristianizzazione, ma continuò a prosperare fuori e dentro i monasteri. Il fascino dell’Ogam risiede ancora, e probabilmente per sempre, nel mistero insoluto della sua origine e della sua funzione: antichissimo alfabeto per iniziati, nel quale i druidi hanno depositato pillole della loro sapienza ancestrale, o estrema forma di difesa di una cultura che, accerchiata dal testo scritto, intravede l’oblio delle proprie radici e, con un colpo di reni (e di ingegno), usa quel latino «invasore» per costruirsi un codice che perpetui, criptandole, le «sacre parole» di una civiltà al crepuscolo? Chiunque fossero i padri dell’Ogam, oggi possiamo dire che sono riusciti nel loro intento: quei segni remoti incisi sulla roccia perpetuano l’essenza culturale irlandese, in cui il mistero – anche quello dell’Ogam – continua a giocare ASTRI, SPIRITI E MAGIE

121


MAGIE LETTERARIE

MAGIE LETTERARIE

122

Merlino

Il mito in versi

Le storie fantastiche di maghi e fate ebbero una vasta fortuna tra poeti e prosatori. Nacquero cosĂ­ grandi cicli epici, come quello bretone e quello arturiano, di cui erano protagonisti personaggi leggendari e ancora oggi celeberrimi, primo fra tutti Merlino

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Miniatura raffigurante Merlino che detta a Blaise le sue avventure. 1280-90. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Blaise era un sacerdote, confessore della madre di Merlino, al quale il mago decise di affidare la trascrizione della sua biografia.


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

123


MAGIE LETTERARIE

Merlino

I

l Medioevo fu anche il periodo piú fecondo per l’affermarsi di una letteratura a sfondo magico. Uno dei protagonisti involontari di questo filone culturale è il poeta latino Virgilio che già nella tarda antichità, aveva progressivamente assunto la fama di guaritore, come descritto nella biografia di Elio Donato. Nell’Età di Mezzo le leggende sui presunti poteri sovrannaturali del poeta si moltiplicarono: si fantasticava che avesse costruito Castel dell’Ovo a Napoli a partire da un guscio di uovo di struzzo e che fosse stato lui a proteggere la città da pericolosi attacchi esterni grazie a un palladio (un simulacro) di sua creazione, sotterrato in un luogo segreto.

Ma fu in terra britannica che la letteratura produsse le leggende di carattere magico piú note, sancendo una frattura con la dominante tradizione epico-cavalleresca del ciclo carolingio francese. L’eroismo collettivo della Chanson de Roland cedette il passo alle peripezie di singoli avventurieri travolti da amori brucianti o costretti a guerreggiare a colpi di incantesimi. L’Historia Brittonum (IX secolo) di Nennio introdusse la figura di un re chiamato Artú, che aveva un dubbio fondamento storico, destinato a diventare in seguito uno dei protagonisti del mito del Graal, ossia della coppa contenente il sangue di Gesú Cristo. Il sacro calice, ritenuto in grado di sprigionare poteri magici, fu citato per la prima volta dal francese Robert de Boron nel suo poema Giuseppe d’Arimatea (1170-1212). Qualche anno prima lo scrittore britannico Goffredo di Monmouth nell’Historia regum Britanniae (1135) aveva raccolto le tradizioni relative a re Artú e ai cavalieri della Tavola Rotonda, che in seguito furono al centro di racconti sulla ricerca della sacra coppa. Sul Graal furono formulate interpretazioni di tipo esoterico prendendo spunto dal Parzifal (1210) di Wolfram von Eschenbach: l’oggetto venerato era in realtà una pietra miracolosa in grado di soddisfare qualsiasi desiderio. Il ciclo bretone delle leggende arturiane vide comparire tra i protagonisti la figura di un mago, Merlino, ai cui incantesimi si faceva risalire la nascita di Artú. Secondo la tradizione, Merlino era figlio di un demone e, nel Medioevo, la sua immagine letteraria appariva piú inquietante rispetto alle classiche raffigurazioni cinematografiche. Sul mago scrisse diffusamente Goffredo di Monmouth nella sua Historia e, successivamente, Robert de Boron nel poema Merlino (XIII secolo). Nonostante le ascendenze demoniache, comunque, il mago alla fine opta per il bene e si invaghisce della fata Viviana. Il suo contraltare femminile nel ciclo arturiano è rappresentato da Morgana, sorellastra di Artú, che la leggenda descrive come strega e guaritrice.

Mago Merlino in una cartolina-ricordo del King Arthur, messo in scena al Lyceum Theatre di Londra, nel 1895.

124

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


C’ERA UNA VOLTA UN MAGO,,, di Domenico Sebastiani

I

Miniatura raffigurante re Artú e i Cavalieri della Tavola Rotonda che combattono contro i Sassoni, dal Lancelot du Lac di Antoine Verard. 1494. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

n una recente pubblicazione dedicata all’immaginario medievale, Jacques Le Goff propone una serie di eroi e meraviglie, «cosí come il Medioevo li ha costruiti, venerati, amati e poi tramandati ai secoli futuri, dove hanno continuato a vivere trasformandosi, in una combinazione di rinvio al passato, di adattamento al presente e di apertura al futuro». È significativo che due soggetti Le Goff li abbia attinti dalla saga arturiana: re Artú, appunto, e Merlino. I personaggi del ciclo bretone sono, infatti, quelli che piú hanno acceso la fantasia e sollecitato l’immaginazione del pubblico, dal momento in cui furono creati a oggi.

I Cavalieri della Tavola Rotonda e il loro re incarnano quanto al mondo c’è di piú nobile, puro e valoroso, esprimono valori intramontabili quali la solidarietà, la lealtà, la pietà verso il nemico, la continua tensione verso la ricerca del Bene e della perfezione (rappresentati dal Graal) anche se poi, in quanto uomini, sono continuamente tentati dal Male. Sulla strada che porta ad Artú troviamo il misterioso Merlino, il ragazzo senza padre, ovvero una creatura che secondo le leggende avrebbe un’origine soprannaturale e fosca. Artú vive in simbiosi con il mago che è suo protettore, consigliere e quasi patrigno. MerliASTRI, SPIRITI E MAGIE

125


MAGIE LETTERARIE

Merlino l’Historia regum Britanniae, dedicandola a Roberto, conte di Gloucester. L’opera fornisce un resoconto dei re da Bruto, pronipote di Enea il Troiano, fino a Cavaladro, che cedette il Regno ai Sassoni nel VII secolo. Goffredo afferma di aver avuto da Gualtiero, arcidiacono di Oxford, un vetustissimo manoscritto composto in lingua antica britannica, e di non aver avuto altro merito se non quello di averlo tradotto in latino. Ma probabilmente l’antico codice non è mai esistito e quella di Goffredo non è che una finzione letteraria. Egli rielaborò e ordinò in maniera piú sistematica notizie attinte da precedenti cronache quali la Rovina e conquista della Britannia di san Gilda (504 circa?-570 circa), la Storia Ecclesiastica del Popolo Inglese di Beda il Venerabile (672-735), la Historia Brittonum, attribuita a Nennio (VIII-IX secolo), nonché gli Annales Cambriae, combinandole con il substrato delle leggende e dei racconti orali gallesi.

Il primo best-seller inglese

In alto i druidi, in una stampa francese dell’Ottocento. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. Nella pagina accanto miniatura raffigurante i cavalieri della Tavola Rotonda, dal Lancelot du Lac di Antoine Verard. 1494. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

126

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

no incarna il profeta e il pedagogo, costituisce la memoria dell’antica saggezza ed è al contempo il mentore di un giovane re destinato a prendere la guida del Regno di Britannia. Se Artú rappresenta il potere temporale, il guerriero, il re, Merlino impersona il potere spirituale, il druido, il sacerdote. Artú è debitore nei confronti di Merlino, che gli dispensa aiuti e consigli; in fondo deve all’intervento del mago la sua stessa esistenza. I destini dei due sono connessi, anche con riferimento alla propria fine; cosí come Artú non muore ma riposa nella mitica Avalon, Merlino vive occultato nella foresta di Brocéliande, in attesa di un suo possibile risveglio. Se Artú è un personaggio di probabile origine storica, Merlino invece è un prodotto essenzialmente letterario. La «creazione» di Merlino è dovuta alla fervida immaginazione di Goffredo di Monmouth (circa 1100-1155), nativo del Galles, monaco benedettino che visse poi a Oxford ove esercitò anche l’insegnamento, e fu successivamente nominato vescovo di Saint Asaph. Egli pubblicò nel 1138

L’Historia di Goffredo, definita il primo bestseller britannico e che porta alla ribalta la figura di re Artú, cui sono dedicati ben tre dei dodici libri in cui è diviso il racconto, darà l’opportunità a scrittori e poeti successivi di immortalare le favolose gesta di Artú e dei Cavalieri della Tavola Rotonda e la «cerca» del Graal: dal Perceval ou le Conte du Graal del francese Chrétien de Troyes (1135-1183) al Parzival di Wolfram von Eschenbach (1170-1220). Al centro della Historia Goffredo di Monmouth pose un’altra figura eccezionale, quella di Merlino, collocandolo temporalmente nell’epoca del re Vortigern, ossia nella prima metà del V secolo, ai tempi delle lotte che si svolsero in Britannia a seguito delle invasioni degli Angli e dei Sassoni. La vicenda di Merlino ci viene raccontata dal momento della nascita del mago fino al concepimento di Artú. Nel delineare il personaggio del profeta e mago, Goffredo probabilmente trasse spunto dalla figura di un certo Ambrogio, di cui parla in maniera confusa Nennio, che lo definiva ora un «fanciullo senza padre», ora un condottiero romano di stirpe regale o un sovrano, e comunque dotato di capacità profetiche nell’interpretare la lotta tra due vermi e predire l’imminente fine del re Vortigern. All’interno del corpus della Historia, in particolare nel VII libro, Goffredo colloca anche la profezia di Merlino, in cui il personaggio, al cospetto del re Vortigern, espone una serie di oscuri vaticini relativi alla storia britannica a partire dall’invasione sassone. Questi ultimi possono schematicamente dividersi in tre parti: nella prima Goffredo mette in bocca a Merlino eventi di cui era a conoscenza perché già


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

127


MAGIE LETTERARIE

Merlino

IL MISTERO DELLE PIETRE BLU Una delle vicende piú fantasiose scaturite dalla penna di Goffredo di Monmouth è il collegamento del complesso megalitico di Stonehenge con i poteri magici di Merlino. Stonehenge (il nome probabilmente significa «pietra sospesa», da stone pietra e henge, «sospendere», con riferimento agli architravi) è un sito neolitico che si trova vicino ad Amesbury, a 13 km circa dalla piana di Salisbury, nel sud dell’Inghilterra. Composto da un insieme di cerchi concentrici di megaliti di natura diversa (blocchi di pietra sarsen grigia e le cosiddette bluestones), fu probabilmente eretto tra il 2500 a.C. e il 2000 a.C. dagli abitanti preistorici delle Isole Britanniche. Il fatto che al solstizio d’estate il sole compaia nell’asse del suo ingresso, ha fatto supporre che fosse una sorta di santuario del culto solare. Goffredo narra che il re Aurelio Ambrosio, fratello di Uther, dopo aver assediato e ucciso il traditore Vortigern, si scagliò contro le truppe dei Sassoni, sconfiggendo il loro capo Henguist. Al termine delle battaglie, i Britanni ebbero la meglio, ma vi fu un grande spargimento di sangue e al fine di commemorare in modo perenne i caduti, Aurelio decise di far erigere uno splendido monumento nella piana di Salisbury. Chiamò tutti i migliori carpentieri, ma il vescovo di Caerleon lo consigliò di convocare il mago Merlino, l’uomo piú ingegnoso del Regno. Questi disse ad Aurelio di inviare il suo esercito in Irlanda a prendere le pietre del famoso Anello dei Giganti posto sul monte Killarao, per trasportarle a Salisbury, spiegando che quelle pietre erano dotate di grandi proprietà taumaturgiche ed erano state trasportate dall’Africa all’Irlanda quando questa era ancora popolata dai Giganti. Partí una spedizione con una flotta e quindicimila uomini che, arrivati sull’isola, dovettero scontrarsi con le truppe del re locale. I Britanni arrivarono poi sul monte Killarao al cospetto della gigantesca costruzione ma, nonostante gli sforzi immani, non riuscirono in alcun modo a smontare i megaliti. A quel punto, intervenne Merlino, che con estrema facilità smantellò le pietre, le fece caricare sulle navi e infine le ricollocò attorno alle tombe dei caduti nella piana di Salisbury, nello stesso modo in cui erano posizionate sul monte Killarao.

128

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

accaduti, nella seconda si riferisce ad accadimenti che egli poteva facilmente prevedere come probabili, nella terza, infine, ci sono vaticini pronunciati in forma talmente generica che i posteri avrebbero potuto adattarli a eventi a loro contemporanei. Se la Historia ebbe un successo enorme, fu tradotta in francese nel Roman de Brut del normanno Wace e se ne conoscono versioni anche in norvegese e polacco, la profezia ebbe una diffusione forse ancor maggiore, dato che oltre a essere contenuta in tutte le copie della Historia, fu oggetto di un testo autonomo di cui si conoscono oltre 80 manoscritti. I suoi vaticini furono considerati come veri anche dagli uomini piú colti del tempo, e furono utilizzati in senso nazionalistico in diversi Paesi europei. La profezia fu letta e tradotta anche in Italia, in Castiglia e Olanda, e se ne annovera una versione pure in islandese. Dodici anni dopo la pubblicazione della Historia, Goffredo compose un poema epico in 1529 esametri intitolato Vita Merlini, nel quale tornò sul personaggio dell’Incantatore. Successivamente la figura di Merlino fu sviluppata da Robert de Boron, scrittore borgognone attivo tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII


alla corte di Gautier de Montbeliard. Egli, nella sua trilogia Il Libro del Graal (Giuseppe di Arimatea, Merlin e Perceval, libro quest’ultimo conosciuto anche come Didot Perceval e probabilmente scritto da un suo allievo), attinse ampiamente alle vicende di Merlino cosí come erano state scritte da Goffredo, ma le rielaborò e integrò in maniera originale. Le vicende del mago furono poi narrate in altre due opere di grande rilievo, il cosiddetto Ciclo Vulgato e la Suite du Merlin.

Il concepimento del mago

Momento cruciale nella leggenda di Merlino è quello della nascita, che ne spiega anche gli straordinari poteri. Goffredo, influenzato dalle leggende della sua terra che parlavano sovente di donne visitate nel sonno dagli spiriti, inventa che Merlino viene generato da una donna vergine e di origine regale, la figlia di un re dei Demeti, e da un demone incubo (erano tali quei demoni che assumevano sembianze maschili, mentre succubi erano quelli con sembianze femminili). In Robert de Boron la narrazione si fa piú articolata e complessa. Il diavolo escogita il piano di mandare sulla Terra un suo inviato al fine di

I vaticini di Merlino furono considerati attendibili anche dagli uomini piú colti del suo tempo In alto miniatura raffigurante il concepimento di Merlino, opera del Maestro di Adelaide di Savoia, 1450-55. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La scena si ispira alla tradizione secondo la quale il mago sarebbe figlio di una religiosa e del demonio. A sinistra la fantasiosa ricostruzione di una cerimonia celebrata nel circolo megalitico di Stonehenge da parte delle antiche tribú britanniche, acquatinta di Robert Havell. 1815. Collezione privata.

generare un essere dotato di grandi poteri, che abbia come lui la capacità di conoscere il passato e che possa, vivendo tra uomini e donne, ingannarli e influenzarli con la sua autorità, in modo tale che gli venga restituito ciò che prima gli apparteneva. Cosí, dopo essersi accanito contro la famiglia di un ricco possidente, Satana manda sulla Terra un suo inviato, che giace con la figlia minore fecondandola. La donna, svegliandosi il mattino seguente, si rende conto di essere stata tratta in inganno dal Maligno. Disperata, cerca conforto nelle parole di un sacerdote il quale le dice che dovrà vivere il resto della sua vita in preghiera, nella pace e astenendosi da ogni tentazione della carne, cosí avrà salva la sua anima. I mesi passano e la donna non può piú nascondere il proprio stato di gravidanza. La notizia si diffonde e giunge alle orecchie dei giudici che ordinano di rinchiudere la donna in una torre, in compagnia di due levatrici che dovranno accudirla al momento del parto. Il giorno predestinato nasce il bambino, a cui viene dato il nome di Merlino. Già il suo aspetto è fuori dal comune, in quanto ASTRI, SPIRITI E MAGIE

129


MAGIE LETTERARIE

Merlino

è completamente ricoperto di peli. Appena nato, il bambino riceve l’intelligenza e il potere del Nemico, suo padre, ma interviene il Signore, che riscatta chi si pente e che ha misericordia della donna, in ragione della sua confessione di fede e del suo pio comportamento. Peraltro Dio non vuole defraudare il diavolo di qualcosa che gli spetta, e lascia al bambino la facoltà di conoscere le cose dette e fatte nel passato, conferendogli pure la capacità di conoscere il futuro. Merlino ha quindi, da subito, facoltà straordinarie e ci si presenta nella tipica veste del puer-senex. Già neonato, parla alla madre, che si dispera perché da lí a poco verrà forse giustiziata, rassicurandola e, dopo aver rivelato al giudice la sua origine semidiabolica, fa salva la vita di entrambi, e comincia a essere ammirato per le sue straordinarie doti di saggezza e chiaroveggenza.

con fuoco e fiamme quello rosso, per morire a sua volta poco dopo. Il re interroga Merlino sul significato della lotta e della vittoria di un animale sull’altro. Secondo Goffredo Merlino spiega a Vortigern che il drago bianco simboleggia i Sassoni e quello rosso i Britanni. In Boron la metafora è differente: Vortigern, grosso e potente, è rappresentato dal drago rosso, ma non potrà nulla contro il drago bianco che rappresenta i due figli di Costanzo (Aurelio e Uther), i quali approderanno al porto di Winchester e poco dopo lo assedieranno e uccideranno. Il re Aurelio Ambrosio muore prematuramente avvelenato,

Sangue nel cemento

Qui accanto l’elsa di Excalibur, la leggendaria spada di re Artú, conficcata nella roccia. Nella pagina accanto i resti del castello di Tintagel, nel nord della Cornovaglia (Inghilterra). La leggenda lo identifica con il luogo in cui sarebbe nato e vissuto re Artú.

Il crudele Vortigern (450 circa), usurpatore e inviso alle genti britanniche in quanto, per contrastare i Pitti al Nord, aveva chiamato in aiuto i Sassoni favorendone le continue invasioni dell’Isola, viene assediato dall’ex alleato Henguist. Pertanto decide di ritirarsi sulle montagne del Galles e costruire una fortezza inespugnabile; i suoi sforzi risultano però vani, in quanto ogni volta che una torre viene eretta, subito dopo finisce per crollare. Il sovrano allora convoca tutti i sapienti della corte chiedendo spiegazioni sull’accaduto. Essi consigliano al re, al fine di rendere la torre stabile, di mescolare al cemento usato nelle fondamenta il sangue di un bambino di sette anni nato senza padre (evidente reminiscenza dei sacrifici umani praticati dai druidi). Vortigern invia pertanto le sue guardie alla ricerca di un bimbo con quelle caratteristiche; il piccolo Merlino, ben sapendo il motivo della presenza dei messaggeri reali, provoca appositamente una lite, durante la quale un suo compagno di giochi gli rinfaccia di essere nato «senza padre». Dopodiché si consegna alle guardie dicendo loro di essere colui che Vortigern sta cercando, e chiede di essere portato al cospetto del sovrano. Giunto alla corte reale, rivela a Vortigern che nelle fondamenta della torre, sotto due massi, riposano due draghi che con il loro scuotimento provocano il crollo della torre. Merlino narra pure che essi sono ciechi, uno bianco e piú piccolo, l’altro rosso e piú grande e che, non appena svegliati, daranno vita a una lotta fatale. Effettuati gli scavi, tutto quanto profetizzato risulta vero; all’esito del terribile scontro, il drago bianco incenerisce 130

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

131


MAGIE LETTERARIE

Merlino

TUTTI I LUOGHI DEL RE Situato sulla costa atlantica settentrionale della Cornovaglia nei pressi dell’attuale villaggio di Trevena, Tintagel (in cornico Dintagell), ove la leggenda vuole che avvenne il concepimento di Artú grazie agli incantesimi di Merlino, è attualmente ridotto a pochi ruderi. Meta ogni anno di migliaia di turisti, le rovine superstiti, tuttavia, sono databili alla prima metà del XII secolo, per cui ciò che si può vedere oggi non è certo il luogo della lussuria di Uther e delle magie di Merlino. Storici e archeologi hanno a lungo indagato su Tintagel (ricordiamo gli scavi di Ralegh Radford negli anni Trenta del Novecento), giungendo alla conclusione che il luogo fu abitato da tempi molto antichi (forse fortificato, in quanto il prefisso Tin deriva dalla voce celtica Dyn, ossia «fortezza»), ma si ritiene che prima di essere un luogo militare o dimora principesca fosse un sito

religioso, forse un luogo di culto celtico. Alla base delle alte scogliere si trova una grotta, denominata l’«Antro di Merlino», in cui si può entrare solo durante la bassa marea. Luogo indissolubilmente legato alle leggende arturiane è Glastonbury, cittadina inglese del Somerset; abitato fin dall’età del Ferro, il sito è stato identificato con la mitica Avalon del ciclo arturiano. Nel II secolo divenne un centro religioso cristiano e nel VII vi fu fondata un’abbazia, che acquisí fama come leggendario luogo di soggiorno di Giuseppe di Arimatea, il quale vi avrebbe nascosto il Santo Graal e piantato l’arbusto spinoso nato dal legno della croce di Cristo. L’abbazia di Glastonbury, devastata da un incendio nel 1184, fu ricostruita per ordine di Enrico II Plantageneto, il quale cercò per scopi politici di associare il culto delle memorie arturiane alla propria dinastia. A tal

fine risponde l’artificioso ritrovamento della spada di Artú messo in scena dalla corte del sovrano in occasione della sua visita all’abbazia nel 1186. Nel 1276 vi furono solennemente inumati, da parte di re Edoardo I Plantageneto che ambiva al dominio sull’intera isola (Galles e Scozia compresi), i supposti resti di Artú e Ginevra, ritrovati anni prima dai monaci benedettini. La celebrazione delle esequie fu un abile espediente dell’ambizioso Edoardo, che intendeva assumere su di sé il ruolo di Artú, «rex quondam rexque futurus», come riportava la pretesa lapide rinvenuta dai monaci accanto al corpo del leggendario sovrano. Infine, quanto a Camelot, la mitica reggia di Artú, innumerevoli e a oggi vani sono stati i tentativi di individuarla in Caerleon (in Galles) o nella stessa Londra, ovvero in Cadbury (nel Somerset) o ancora in Winchester.

LA GROTTA

Ai piedi della scogliera su cui sorge il castello di Tintagel si apre l’«Antro di Merlino», una grotta in cui si può entrare solo durante la bassa marea. È cosí chiamata perché qui avrebbe visto la luce Artú, a cui il mago assicurò i suoi servigi.

132

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


IL CASTELLO

I resti del castello di Tintagel. Al di là delle leggende, il sito fu frequentato in epoca molto antica e forse utilizzato come luogo di culto.

senza lasciare eredi, e gli succede il fratello, Uther, che assume l’appellativo di Pendragon (cioè capo dei draghi). Merlino gli è a fianco, sia con i suoi consigli sia sul campo di battaglia. Infatti, nonostante le recenti vittorie, il Paese non è pacificato; i Sassoni meditano rivincite e premono sul Galles e sulla Cornovaglia. A ciò si aggiunge l’irrequietezza dei vari signori britannici. Uther, con l’appoggio del duca Gorlois di Cornovaglia, riesce a compiere una vittoriosa azione in Scozia contro i Pitti e a riconquistare Londra piegando i Sassoni.

Festa per la vittoria

Alla vittoria seguono i festeggiamenti. Uther invita tutti i nobili suoi alleati a corte per grandi banchetti. Il caso vuole che sia presente Igerne, la moglie del duca Gorlois, la dama piú bella del Regno. Il re la vede e, acceso dalla passione, si innamora perdutamente e inizia a coprirla di attenzioni. Igerne però, che è tanto virtuosa quanto bella, non cede e, in lacrime, confessa al proprio marito le proposte fattele dal re. Gorlois di Cornovaglia abbandona il palazzo reale insieme a Igerne. Al fine di vendicare l’offesa subita, il Pendragon dichiara guerra a Gorlois e lo assedia nella sua terra. Il duca di Cornovaglia mette al riparo la sposa nel castello di Tintagel, una roccaforte inespugnabile a picco sul mare, e si rifugia in altra sede. Mentre l’assedio continua, Uther non riesce a smettere di pensare a Igerne e chiama, come al solito, Merlino in proprio aiuto. Commosso da tanto amore che il re prova per quella donna, Merlino opera una metamorfosi. Quella notte stessa gli farà assumere l’identico aspetto del duca di Cornovaglia, in modo tale che nessuno sarà capace di distinguerlo e potrà cosí introdursi facilmente a Tintagel, insieme al mago stesso e a un servitore. Uther può soddisfare cosí la sua lussuria giacendo con Igerne, che è inconsapevole dell’inganno che è stato perpetrato ai suoi danni. In quella notte d’amore magico viene concepito Artú, mentre Gorlois, uscito per una sortita, cade ucciso in battaglia. Successivamente il re torna a conquistare la roccaforte e fa sua per sempre Igerne, che diviene sua sposa e gli do-

LA LEGGENDARIA AVALON

I resti della chiesa di S. Michele, sulla Glastonbury Tor, collina che domina la cittadina inglese del Somerset. Abitato fin dall’età del Ferro, il sito è stato identificato con la mitica Avalon del ciclo arturiano.


MAGIE LETTERARIE

Merlino

na, oltre ad Artú, anche una figlia, cui verrà dato il nome di Anna. Nella versione di Boron, Merlino, prima di tramutare le sembianze del re, si fa giurare che il frutto di quella notte sarà suo. Infatti, al momento della nascita di Artú, il mago torna al palazzo a rivendicare quanto gli spetta, si fa consegnare da Igerne il bambino e lo porta via. Lo affida poi al piccolo nobile Entor, dicendogli che sarà suo il compito di allevarlo, perché quel bambino è destinato a diventare un giorno il re di Britannia.

Il segno divino

Per permettere l’incoronazione del giovane Artú a sovrano dei Britanni dopo la morte di Uther, Merlino ricorre a un espediente sapientemente progettato: in accordo con l’arcivescovo, consiglia i baroni di riunirsi il giorno di Natale a pregare nella cattedrale, nella speranza che Dio invii un segno per indicare colui che dovrà diventare il nuovo re. Durante la messa compare prodigiosamente un blocco di roccia con un’incudine ove è conficcata una spada, con un’iscrizione secondo la quale chi sarà capace di estrarla sarà sovrano del Regno in nome di Gesú Cristo. Tutti i baroni si cimentano nel tentativo di estrarre la spada, ma nessuno vi riesce mentre Artú, che accompagna in qualità di scudiero il fratellastro Kay a un torneo, casualmente estrae

In basso particolare di una miniatura raffigurante l’Uomo Selvaggio, da un Libro d’Ore francese. XV sec. Clermont Ferrand, Bibliothèque Municipal.

senza alcuno sforzo l’arma che si trova conficcata nella roccia. Artú viene invitato dall’arcivescovo a rimettere la spada al proprio posto e a estrarla piú volte. I signori accettano con ritrosia che un semplice ragazzo sia loro sovrano; consci però che ciò è il frutto della volontà divina, lo riconoscono quale re di Britannia nel giorno di Pentecoste. La spada a cui si riferisce il famoso episodio viene spesso identificata, erroneamente, con Excalibur o Caliburnus, la mitica spada di Artú (in gallese Caledfwlch e in irlandese Calabolg, termine dal significato incerto, forse «dura come l’acciaio»), forgiata in un altro mondo e dotata di magici poteri. Questa viene donata al re dalla Dama del Lago, grazie all’intercessione di Merlino, e restituita alla fata, tramite il fedele Bedivere, dopo l’ultima battaglia di Camlan e prima del viaggio verso l’isola di Avalon. La figura di Merlino creata da Goffredo di Monmouth deriva indubbiamente dalla sintesi di differenti tradizioni e figure celtiche della sua terra natia. La principale risulta essere quella di Myrddin, bardo del VI secolo che, dopo essere stato sconfitto dal re Rhydderch nella battaglia di Arfderydd, sarebbe divenuto pazzo, ritirandosi a vivere nella foresta di Kelyddon, posseduto da spirito profetico. Altre due figure simili di folli profetizzanti nelle foreste provengono l’una dalla tradizione scozzese, come Laloecen, l’altra dalla tradizione irlandese, cioè Suibhne, il protagonista della Follia di Suibhne, un capoguerriero che dopo una lotta

L’UOMO SELVAGGIO C’è chi ha acutamente osservato (Gulisano) che Merlino, soprattutto come è descritto nella Vita di Goffredo di Monmouth, impersona il «Folle del Bosco», una figura molto diffusa nell’immaginario dell’uomo antico e medievale: quella dell’homo selvaticus, visitato da uno spirito profetico quasi soprannaturale, che abbandona il mondo civilizzato per vivere a contatto con la natura. Tale figura mitica era diffusa in tutto il mondo nordico, non solo celtico o britannico, basti pensare che se ne parla anche in un testo norvegese del XIII secolo, lo Speculum Regale, che narra come spesso gli uomini dopo le battaglie perdevano il senno, diventavano selvaggi e fuggivano nella foresta lontano da tutti, vivendo come bestie. Sui loro corpi crescevano penne simili a quelle degli uccelli, per

134

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

difendersi dalle intemperie, e diventavano rapidi e agili come scimmie e scoiattoli. Questo tipo di personaggio nel mondo medievale non era disprezzato, viveva al di fuori della società ma era temuto e rispettato in quanto conosceva il linguaggio della natura e degli animali, era custode di saperi ancestrali e misteriosi che sfuggivano agli uomini comuni, ma soprattutto era dotato della capacità di conoscere il futuro. Il mito dell’Uomo Selvaggio è rimasto a lungo nell’immaginario europeo, spostatosi poi nelle favole e nel folclore. Tuttora è presente, per quanto riguarda l’Italia, in molte zone dell’arco alpino, abitate un tempo da popolazioni di origine celtica.


fra clan impazzisce e decide di vivere il resto dei suoi giorni sugli alberi, senza mai scendere. Altro antenato di Merlino va individuato in Taliesin; secondo la leggenda narrata nella Storia di Taliesin egli sarebbe la metamorfosi finale di Gwion Bach, un nano che assume la bevanda della scienza preparata da una maga, feconda la maga stessa che lo aveva ingoiato sotto forma di chicco di grano e infine rinasce sotto forma di uomo, divenendo il piú grande indovino alla corte del re Maelgwen.

Gli eredi dei druidi

In tutte queste figure della tradizione favolistica celtica si possono intravedere gli eredi romanzeschi degli antichi druidi, i sacerdoti della reli-

Miniatura raffigurante i Cavalieri della Tavola Rotonda riuniti intorno al sacro Graal. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

gione celtica. Questi personaggi hanno caratteristiche comuni: sono nati senza padre, hanno il dono della metamorfosi e della «folle» prescienza di ispirazione divina, hanno il ruolo di consigliare i sovrani. Goffredo, riprendendo il personaggio del condottiero Aureliano Ambrosio di Nennio, latinizzò il nome celtico Myrddin in Merlinus. Peraltro il nome completo del personaggio creato da Goffredo (Merlino Ambrosio, dal gallese Emrys Myrddin) evoca l’ambrosia, il nettare degli dèi, la bevanda sacra della sapienza e della conoscenza. Riguardo alle forti influenze del primitivo mondo pagano e celtico nei confronti della figura del mago è esemplare il fatto che, fino al momento in cui il giovane Artú non si è ASTRI, SPIRITI E MAGIE

135


MAGIE LETTERARIE Galahad, Parsifal e Bors, tre dei cavalieri della Tavola Rotonda, con il Sacro Graal, riproduzione anastatica di una miniatura contenuta in un manoscritto del XIII sec. che narra le leggende del ciclo arturiano. Nella pagina accanto Lourouer-Saint-Laurent, chiesa di St-Laurent. Particolare del ciclo affrescato raffigurante la Crocifissione, con Longino che trafigge Cristo e Giovanni che ne raccoglie il sangue. XII-XIII sec.

136

DOSSIER CROCIATE

Merlino

impossessato del trono, l’indovino lo affianca e lo sostiene con il potere dell’antica e ancestrale magia. Non appena Artú estrae la spada dalla roccia e viene incoronato, Merlino, invece che raccogliere i frutti del suo progetto, si defila e scompare dalla scena, per lasciare spazio al suo alter ego, l’arcivescovo Dubric. Ciò in quanto la Britannia ha in quel momento bisogno di un re cristiano e di una legalità ricostituita, che prendano il posto dei precedenti valori pagani. Merlino pertanto incarna una sorta di «ponte» tra il mondo celtico precristiano e il nuovo mondo convertito alla fede del Signore: spogliandosi dei panni dell’antico sacerdote druido veste quelli di prete, e diviene il tutore spirituale del Regno. Goffredo di Monmouth, diversi anni dopo aver scritto la Historia, attorno al 1148-1150 pubblicò la Vita Merlini, nella quale il personaggio del mago ci viene raffigurato con

tratti profondamente diversi rispetto alla Historia. Egli è adulto e sovrano di Demetia, una regione del Galles. Dopo una terribile battaglia, nella quale perde tre amati fratelli, impazzisce e si ritira nella foresta scozzese di Kelyddon, dove profetizza vivendo in compagnia di cervi e lupi e apprende il linguaggio segreto degli astri e della natura. Ha una sorella, Ganieda, e per qualche tempo anche una sposa di nome Gwendolen. A contatto con l’elemento naturale, Merlino ci appare simile ai personaggi di Laloecen, Suibhne e Myrddin, ossia un «uomo selvaggio», folle e dotato di senso profetico.

Settanta porte e settanta finestre

Al termine, grazie all’acqua di una sorgente miracolosa, Merlino riacquista la ragione ma, disgustato e amareggiato dalle guerre fratricide che dividono il suo popolo, preferisce non


tornare piú nella civiltà e rimanere nascosto nella foresta, vivendo in un palazzo munito di settanta porte e altrettante finestre, fattogli costruire da Ganieda. Egli trasferisce le virtú divinatorie alla sorella e decide di tacere per sempre. In tale contesto Merlino appare un personaggio cosí lontano da quello della Historia che si potrebbe pensare all’esistenza di due figure distinte: il Merlino soprannominato Ambrogio e il Merlino soprannominato Silvestre o Celidonio. Probabilmente ciò fu dovuto al fatto che Goffredo di Monmouth, nel redigere la Vita Merlini, attinse a fonti scritte di cui non era ancora a conoscenza nel momento in cui scrisse l’Historia. Infatti i primi manoscritti gallesi che parlano del bardo Myrddin sono pervenuti in redazioni databili al XII secolo. Lo stesso dicasi per Laloecen o per Suibhne, la cui storia nella forma irlandese giunta a noi è del XII secolo, anche se probabilmente fu composta un secolo prima. L’opera di Robert de Boron costituisce la prima narrazione completa del mito cristiano del Graal, concepito come vaso o calice in cui Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue di

A contatto con l’elemento naturale, il mago ci appare come un Uomo Selvaggio

Cristo, anche se non fu il primo a parlarne. La ricerca del Graal viene inquadrata all’interno di un progetto di origine divina, in cui tutti i personaggi svolgono un ruolo ben definito. Merlino è colui che rende possibile l’attuazione del disegno provvidenziale, orientando la successione dei re bretoni fino ad Artú e guidando il prescelto Perceval nella sua mistica impresa. La duplicità e l’ambiguità della figura del Merlino di Robert, continuamente in bilico e combattuto tra il Bene e il Male, è già evidenziata da Le Goff e viene analizzata in modo approfondito da Agrati e Magini. Particolare è la sua nascita, frutto di un complotto di diavoli: secondo le credenze medievali il connotato tipico dell’Anticristo, strumento del male nel mondo, è quello di nascere dal connubio tra un diavolo e una vergine. Merlino eredita dal diavolo la capacità di conoscere il passato, nasce con il corpo villoso e viene descritto nella prima infanzia come essere sgradevole e ripugnante nell’aspetto. Egli si mostra cinico e pieno di disprezzo nei confronti delle persone che, a sua differenza, non sanno vedere oltre l’apparenza delle cose e degli eventi. Spesso e ASTRI, SPIRITI E MAGIE

137


MAGIE LETTERARIE

Merlino

LA TAVOLA ROTONDA DI WINCHESTER La Tavola Rotonda è l’emblema piú rappresentativo della corte di re Artú e dei suoi cavalieri. Sin dalle sue prime apparizioni, la Tavola è simbolo di una società cavalleresca perfetta, contraddistinta da forza guerriera e cortesia al servizio di chi patisca ingiustizie, per assumere successivamente significati piú complessi e di tipo religioso, emblema della militanza secolare della cavalleria di Dio, complemento dell’attività contemplativa associata alla Tavola del Graal. Intorno al tema della Tavola Rotonda sono fiorite diverse interpretazioni, cosí come ricerche su possibili influenze antecedenti. La tradizione cristiana vi riconduce l’immagine dell’Ultima Cena (fin dal 1102 si ha notizia di pellegrini e crociati che a Gerusalemme veneravano un tavolo rotondo di marmo, che si credeva quello dell’Eucarestia). La forma circolare è l’immagine della perfezione divina che rinvia al neoplatonismo cristiano, ma alcuni autori preferiscono spiegarla con la consuetudine dei guerrieri celti di sedersi in cerchio intorno al capo nei banchetti. Non si può trascurare che, in una società fortemente gerarchizzata, tale forma avesse la funzionalità anche pratica di sottolineare una parità, evitando ogni competizione e forme di privilegio. A Winchester, nell’Inghilterra meridionale, si trova un interessante reperto storico: una tavola di cinque metri di diametro, dipinta coi colori bianco e verde, appesa a una parete della sala (Great Hall) del castello normanno. È divisa in venticinque spicchi e presenta un’iscrizione che in inglese antico recita: «Questa è la Tavola Rotonda di re Artú con i suoi ventiquattro Cavalieri» (interessante osservare il simbolismo dei ventiquattro spicchi, il doppio di dodici, il numero degli Apostoli). Le analisi col carbonio 14 e l’esame stilistico dei disegni fanno risalire la sua realizzazione alla fine del XIII secolo, probabilmente su commissione dei Plantageneti e in particolare di Edoardo I, cultore del ciclo arturiano e che aveva già provveduto a «consacrare» ufficialmente Glastonbury. Della Tavola di Winchester si hanno notizie storiche certe solo a partire dal 1522, anno in cui venne fatta restaurare da Enrico VIII, il quale si fece ritrarre all’apice della stessa, arrogandosi il posto di Artú, e fece dipingere al centro una rosa rossa, simbolo della propria casata. È da questo momento che la Tavola di Winchester assunse un ruolo di reperto ufficiale nella storia inglese.

138

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Winchester. La tavola conservata nella Great Hall del castello normanno, che l’iscrizione attribuisce a re Artú e ai suoi ventiquattro cavalieri.

volentieri si lascia andare a un riso beffardo, sintomo di malvagità, e si diverte a ingannare il prossimo con le sue continue metamorfosi, capacità tipiche del Maligno. La figura dell’Anticristo, nell’immaginario medievale, era inoltre legata al mondo politico, a re e dinastie, dato che il suo scopo era quello di influire in modo negativo sulle vicende del mondo. Merlino, a tal proposito, «manovra» diversi re, dal crudele Vortigern fino a Uther e Artú. Il Merlino di Boron potreb-


be risultare peraltro oggetto di un’interpretazione diametralmente opposta, cioè come personaggio strumento del Bene. Come Gesú, nasce da una vergine, e riscatta la sua paternità diabolica con il suo sincero pentimento e con la sua condotta irreprensibile. Per questo motivo può vedere nel futuro, che risulta una tipica facoltà divina; per l’uomo medievale, infatti, il diavolo non era capace di profetizzare il futuro, ma poteva conoscere solo ciò che gli era concesso da Dio stesso. Altre caratteristiche depongono a favore della natura benigna di Merlino: egli risparmia gli astrologi di Vortigern, a patto che gli stessi rinuncino per sempre alla malvagia negromanzia, fa confessare le truppe prima di affrontare le battaglie in nome del Signore, fin da piccolo parla e agisce come un adulto, similmente al Cristo narrato dai Vangeli.

Il «profeta del Graal»

È stato notato (Zambon) come Merlino accentui, nel racconto di Boron, quelle caratteristiche di «cristianizzazione» del personaggio già presenti in Goffredo; infatti non si limita a essere consigliere dei sovrani britannici, ma diventa il «profeta del Graal», regista nascosto e saggio dei voleri del Signore. È lui che ordina di istituire, in nome della Trinità, la Tavola Rotonda, che egli stesso costruisce destinandola ai rappresentanti di un nuovo Ordine della cavalleria cristiana. La sua figura è importante anche ai fini narrativi; egli infatti, tra un’avventura e l’altra, detta l’intera vicenda del Graal a un suo alter ego, il chierico Blaise. Merlino e Blaise si dividono i compiti di narratori: il primo, come i druidi e Cristo, detta la parola, il secondo, come i monaci o gli Evangelisti, trascrive. Il risultato della narrazione sarà un preziosissimo libro, come raccomanda il mago al chierico, che diventerà una sorta di «Vangelo del Graal», ma che rimarrà oscuro e potrà essere compreso e apprezzato solo da pochi. Una delle versioni in prosa del Merlin di Robert de Boron fu incorporata, insieme a una lunga continuazione, nel piú imponente corpus di storie arturiane, noto come il Ciclo Vulgato o Lancelot-Graal. Tale opera fu probabilmente scritta tra il 1215 e il 1230 da autori rimasti anonimi, forse ecclesiastici, diversi per caratte-

Incisione di Gustave Doré (1832-1883) raffigurante Viviana con Merlino nella foresta di Brocéliande, dove la fata imprigionerà per sempre il mago servendosi dei suoi stessi incantesimi.

ristiche e gusto narrativo. Il Ciclo Vulgato si compone di cinque romanzi: ai primi tre, il Lancelot, la Queste del Saint Graal e la Mort Artu, furono aggiunti in un secondo momento la Estoire del Saint Graal e, infine, il Merlin. Quest’ultimo narra le gesta di Artú, continuamente affiancato, dalla incoronazione in poi, dal fedele mago che gli fa da padrino affettuoso. Merlino ci appare direttamente impegnato nelle battaglie militari condotte dal suo re, spesso capeggia gli eserciti in groppa a un destriero, dispiegando il vessillo con il drago. Non partecipa mai in prima persona, peraltro, a eventi cruenti. La sua veste è piuttosto quella di sapiente stratega, e laddove i poteri umani non bastano, interviene con le sue magie a sconcertare le truppe avversarie: devia il corso di fiumi, provoca incendi e uragani, fa scendere nebbie improvvise e cosí via. La Suite du Merlin, invece, fu composta probabilmente tra il 1230 e il 1240 e incorpora una seconda redazione in prosa del Merlin di Boron e una sua continuazione. Nella Suite, piú che gli eventi storiografici e la descrizione delle battaglie, predomina l’elemento fantastico e avventuroso. Merlino è sempre al fianco del suo re, ma la figura benevola e quasi paterna del mago del Ciclo Vulgato comincia a essere delineata in modo piú offuscato; anche le sue facoltà non sono piú infallibili e spesso egli non riesce a impedire eventi terribili o incantesimi maligni. Se nel Ciclo Vulgato sembravano non esservi limiti ai poteri dell’Incantatore, nella Suite egli si mostra spesso impotente e va incontro a una fine ignominiosa.

L’uscita di scena

La figura del grande Incantatore «esce di scena» in modo profondamente diverso a seconda degli autori. Nel racconto di Goffredo di Monmouth Merlino, dopo aver provocato con le sue arti magiche il concepimento di Artú, scompare e di lui non si parla piú. In Robert de Boron, invece, il mago, a conclusione della vicenda, torna da Blaise e gli detta la parte finale del libro, dopodiché si congeda dal chierico e da Perceval, dicendo che il Signore non vuole che si mostri piú alla gente, (segue a p. 142) ASTRI, SPIRITI E MAGIE

139


MAGIE LETTERARIE

Merlino

LA FORESTA INCANTATA Le gesta di Merlino, cosí come quelle del ciclo arturiano, si snodano sullo sfondo di luoghi spesso immaginari e non facilmente identificabili. Tra questi, la foresta di Brocéliande, teatro di varie avventure del ciclo bretone (in particolare Yvain il cavaliere del leone di Chrétien de Troyes), ove la leggenda vuole che Viviana abbia imprigionato per sempre il mago. La tradizione la identifica con la foresta di Paimpont (foto in basso), foresta di latifoglie, principalmente querce e faggi, situata nel territorio dell’omonimo Comune francese, nei pressi della città di Rennes in Bretagna. Leggende locali vogliono che sia ancora visibile l’albero in cui (secondo alcune versioni) la Dama del Lago avrebbe rinchiuso Merlino, cosí come altri siti, dalla Valle senza Ritorno alla tomba di Merlino (foto a destra), dalla Fonte della Giovinezza al castello della Dama del Lago. Merita una visita la suggestiva cappella di Trehorenteuc (IX-X secolo), ove si trovano interessanti mosaici e vetrate dipinte che rimandano al ciclo arturiano. Il cronista Robert Wace (XII secolo) visitò la foresta di Paimpont, ma non ne rimase particolarmente impressionato, come narrò nel Roman de Rou.

140

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

141


MAGIE LETTERARIE

Merlino

FORTUNA DEL PERSONAGGIO Il periodo cosiddetto «medievale» di Merlino può considerarsi terminato con la Morte Darthur di Sir Thomas Malory, pubblicata nel 1485, che ebbe un riscontro straordinario presso il pubblico dei lettori. Durante il Rinascimento la figura di Merlino fu tratteggiata con i contorni del moderno mago e alchimista, dello stregone capace di dominare il mondo naturale (si veda, tra gli altri, The Faerie Queen di Edmund Spenser). Nel corso del XVI secolo si diffuse una curiosa operetta a sfondo satirico attribuita per molto tempo a Rabelais, le Grandi e inestimabili cronache del grande ed enorme gigante Gargantua, che, con l’intento di sbeffeggiare gli Inglesi, ci presenta un re Artú inetto, il cui posto deve essere preso in battaglia dal gigante Gargantua. Merlino è al fianco del re come consigliere e crea i genitori del gigante mediante il sangue di Lancillotto e la limatura delle unghie di Ginevra. Tornando in Inghilterra, John Dryden nel 1691 porta in scena un’opera drammatica, con la musica di Henry Purcell, alla quale cambia il titolo da King Arthur in Merlin, or the British Enchanter, proprio con l’intento di mettere piú in risalto la figura del mago. Di Merlino si occupa anche Jonathan Swift, con il suo A Famous Prediction of Merlin, The British Wizard, nonché William Blake, nel suo Jerusalem del 1800. Durante il Romanticismo si assiste a una

forte rinascita dell’interesse nei confronti del mago in Germania, dove Immerman gli dedica un dramma nel 1832, Merlin eine Mythe, che Goethe saluta come «un altro Faust». In Francia, Edgar Quinet, nel suo Merlin l’Enchanteur del 1860, vede in Merlino il «primo patrono di Francia» e un’incarnazione dello spirito nazionale. Ritroviamo il mago in molti componimenti di Alfred Tennyson, da The Idyllis of the King a Merlin and Vivien del 1859. A metà del XIX secolo in Inghilterra la corrente dei cosiddetti preraffaelliti (Dante Gabriel Rossetti e piú tardi William Morris e Edward BurneJones) produsse romanzi, poesie e dipinti, in cui furono immortalate le gesta della saga arturiana e la figura dell’Incantatore. Gli scrittori del XX secolo hanno evidenziato soprattutto l’aspetto misterioso ed esoterico di Merlino: tra essi, i narratori John Steinbeck, con Le gesta di Re Artú e dei suoi nobili cavalieri del 1959 e Richard Thorpe, con I cavalieri della Tavola Rotonda del 1952. In tempi molto recenti si possono citare Le cronache di Camelot, dello scrittore Jack Whyte. Anche il fantasy conserva reminiscenze della figura di Merlino, basti pensare nel Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien al mago Gandalf, impegnato contro le forze del Male, oppure ad Albus Silente nella saga del «maghetto» Harry Potter creata da Johanna Rowling.

ma che non potrà morire prima della fine del mondo. Si costruirà un’abitazione e lí vivrà profetizzando quello che vorrà il Signore. Poi Merlino entra in un luogo misterioso detto «esplumoir» (da plume, penna, forse a indicare una gabbia in cui vengono rinchiusi gli uccelli durante la muta, con riferimento al concetto di metamorfosi o di rinascita) e, autoescludendosi, sparisce per sempre. Nel Ciclo Vulgato (in particolare nel Merlin), invece, Merlino esce di scena per amore. Egli infatti si era invaghito tempo addietro della bellissima Viviana, alla quale il mago si era presentato con l’aspetto di un giovinetto. L’ammirazione è reciproca, Viviana è avida del sapere e delle conoscenze dell’amico, e chiede a Merlino di insegnarle le sue arti, che provvede ad annotare su una pergamena. Il mago, ormai innamorato, è consapevole di andare 142

ASTRI, SPIRITI E MAGIE

Cosí John Mulcaster Carrick (1833-1896) ha immaginato la morte di re Artú. Olio su tela, 1862. Rientrato in Britannia da Roma alla notizia di sedizioni, il sovrano combatté lo scontro finale presso la baia di Camban. Ferito a morte, consegnò l’Excalibur a sir Bedevere, con l’ordine di gettarla nell’acqua. Apparve allora un piccolo vascello, con molte belle dame e una regina, che portarono l’eroe nella valle di Avalon, dove si dice ch’egli ancora attenda, con la sorella Morgan le Fay, di tornare tra i suoi e guidarli alla vittoria.


ASTRI, SPIRITI E MAGIE

143


MAGIE LETTERARIE

Merlino

SUL GRANDE SCHERMO

EXCALIBUR

Una scena del film diretto nel 1981, da John Boorman, con Nigel Terry nei panni di re Artú e Helen Mirren in quelli di Morgana.

Tra gli innumerevoli film (risale addirittura al 1899 Merlin The Magician, film muto di produzione statunitense) e le serie Tv che lo hanno visto protagonista, si possono segnalare tra gli altri Merlin of the Crystal Cave di Michael Darlow (1992), Merlin di Steve Barron (1998) che vede tra gli interpreti Rutger Hauer, Helena Bonham Carter e Isabella Rossellini, King Arthur di Antoine Fuqua (2004) e, soprattutto, Excalibur, di John Boorman (1980), un vero capolavoro del genere, in cui la figura di Merlino è interpretata in modo magistrale e allo stesso tempo stravagante dall’attore Nicol Williamson. Mentre tra i cartoon rimane indimenticabile La Spada nella Roccia di Walt Disney (1963), dove Merlino è presentato nella veste di mago buono, che educa e protegge il giovane Semola destinato a diventare re Artú, ma che è anche uomo del nostro tempo, con il compito – messaggio, questo, ricorrente nelle produzioni «medievali» della Disney – di emendare il passato per avviare gli uomini a un futuro migliore.

KING ARTHUR

Diretto da Antoine Fuqua, il film, uscito nel 2004, è interpretato, tra gli altri, da Clive Owen (Artú) e Keira Knightley (Ginevra). La pellicola propone una cornice storica insolita, in cui il re viene descritto come un romano-britannico ingenuamente convinto del ruolo civilizzatore di Roma.

144

ASTRI, SPIRITI E MAGIE


LA SPADA NELLA ROCCIA

Il giovane Semola, futuro re Artú, estrae la spada dalla roccia nel celebre cartoon disneyano. Diretto da Wolfgang Reitherman, il film si basa sul romanzo omonimo di Terence Hanbury White.

incontro alla sua futura fine mano a mano che trasmette poteri magici sempre piú ampi alla giovane. Viviana, infatti, si fa insegnare come poter addormentare un uomo, fino ad arrivare alla richiesta piú estrema: come tenere un uomo prigioniero a proprio piacere senza torri né mura, ma unicamente con le arti magiche, in modo tale che non possa mai andarsene se non per volontà di colei che lo ha stregato. Merlino si reca da Viviana e le rivela l’ultimo incantesimo, pur sapendo di essere destinato al sortilegio; lei lo fa addormentare sul suo grembo, poi gli traccia intorno un cerchio di nebbia. Quando Merlino si risveglia, si ritrova giacente su un letto confortevole, all’interno della torre piú bella che ci sia, ma dalla quale non potrà piú uscire. Viviana, invece, potrà andare e venire a proprio piacimento e spesso si recherà a trovare e confortare l’amico nella prigione d’aria dove lo ha rinchiuso.

Prigioniero in una caverna

In un’altra versione, all’interno del Lancelot del Ciclo Vulgato, Viviana, che viene chiamata

col nome di Niniana ed è indentificata con la Dama del Lago, apprende le arti magiche da Merlino e il segreto dell’eterna giovinezza, ma nutre nei suoi confronti sentimenti di ostilità e alla fine lo imprigiona per sempre dentro una caverna. Tragica e cruenta è invece la fine di Merlino nella Suite du Merlin. In questa versione Merlino, debole verso le donne e incline alla lussuria, avvicina la fanciulla (che qui si chiama Niviana) con la promessa di trasmetterle le arti magiche, ma con il fine di possederla carnalmente. Niviana detesta Merlino piú di qualsiasi uomo al mondo, ne vuole apprende-

re gli incantesimi, ma al tempo stesso medita su come potersene sbarazzare. Il mago, dal canto suo, è talmente ottenebrato dalla sua passione che, mano a mano che trasferisce i poteri magici alla fanciulla, perde i propri. Può prevedere il futuro degli altri, ma non è piú capace di intravedere il proprio. Un giorno, mentre i due attraversano la Foresta Perigliosa, Niviana chiede a Merlino di mostrarle il sepolcro, all’interno di una caverna, ove giacciono i cadaveri di due amanti che furono legati in modo indissolubile in vita. Niviana sa che ormai Merlino è in suo pieno potere e che è arrivato il momento decisivo. Prima lo convince a sollevare la pesantissima lastra del sepolcro, poi lo strega con le sue arti e lo addormenta, infine, senza pietà, lo getta nella bara che richiude per sempre con i suoi sortilegi.

L’ultima profezia

Cosí come nella storia è dotato del dono della metamorfosi, allo stesso modo Merlino ha visto la sua immagine e le sue caratteristiche cambiare a seconda di chi lo ha raccontato. C’è chi lo ha interpretato come una figura solamente leggendaria, altri come una figura ideale o archetipica, altri ancora come l’espressione dell’antico cristianesimo celtico, quello dei grandi evangelizzatori come san Patrizio, scorgendo nel personaggio le caratteristiche degli eremiti, dei monaci visionari, dei santi taumaturghi capaci di operare eventi miracolosi. C’è poi chi lo ha visto come la creatura piú saggia del mondo, o la personificazione dell’eterno mito dell’«uomo selvaggio», oppure ancora come una figura ambigua, beffarda incarnazione del Male, o al contrario profeta e interprete dei disegni divini. Forse Merlino, con tutte le sue contraddizioni, è un po’ di tutte queste figure, che riassumono in sé i desideri e le pulsioni che hanno mosso l’essere umano, sin dalla notte dei tempi. Questo spiega l’eterno fascino del personaggio, e la continua fonte di ispirazione che ha rappresentato nei secoli per poeti, narratori e artisti. Ci piace concludere con una delle profezie merliniane piú famose, che risuona di sconcertante modernità: «Verrà un tempo in cui gli uomini si inebrieranno del vino che sarà loro offerto e voltate le spalle al cielo, affisseranno gli occhi sulla terra. Allora gli astri distoglieranno lo sguardo da loro e altereranno il proprio corso. A causa del corruccio degli astri, le messi languiranno e l’acqua sarà negata alla terra. Le radici prenderanno il posto dei rami e i rami si muteranno in radici». Forse Merlino, nascosto nel suo esplumoir o rinchiuso per sempre nella sua prigione d’aria, è ancora lí ad ammonirci contro la decadenza dei tempi. ASTRI, SPIRITI E MAGIE

145


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.