MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
il medioevo
nascosto Luoghi ♦ storie ♦ itinerari
Parte I: Italia centro-settentrionale
medioevo nascosto. parte I: italia centro-settentrionale
€ 6,90 N°2 2013
Bimestrale - My Way Media Srl
il Medioevo
nascosto
parte i: Italia centro-settentrionale testi di Andrea Barlucchi, Marco Bicchierai, Franco Bruni, Dario Canzian, Luisa Castellani, Francesco Colotta, Alberto Di Santo, Maurizio Grattoni d’Arcano, Paolo Grillo, Chiara Parente, Luca Pesante, Francesco Pirani, Lucinia Speciale, Maria Paola Zanoboni, Maurizio Zuccari, Nicoletta Zullino
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ll’ombra dei grandi monumenti del Medioevo e delle città d’arte – da secoli, ormai, meta del turismo colto internazionale – l’Italia annovera un altro patrimonio architettonico, talora definito «minore»: sono centinaia e migliaia – tra borghi e contrade cittadine, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni – le testimonianze di questo «Medioevo nascosto», spesso calato all’interno di contesti paesaggistici anch’essi plasmati dall’operare umano e che ne esaltano la suggestione e il fascino. Un Medioevo che ci circonda e ci accompagna quotidianamente, ma che, forse per assuefazione, tendiamo a vivere in maniera distratta, inconsapevole. Eppure il messaggio che i secoli dell’Età di Mezzo hanno materialmente impresso sul nostro territorio è ancora miracolosamente lí, sotto i nostri occhi, a ricordarci la vicenda di una straordinaria e irripetibile eredità artistica, civile, di costumi e di storia. Questa monografia, dedicata all’Italia centro-settentrionale (e alla quale seguirà una seconda, incentrata sulle regioni meridionali e sulle isole) vuole essere un invito a incamminarsi sulle tracce di questo Medioevo diffuso e, davvero, infinito, per riscoprirlo e riprenderne consapevolezza. Nella prima parte, Luca Pesante racconta la nascita, la funzione e l’evoluzione dei luoghi simbolo del vivere medievale (il borgo, la piazza, il castello, la cattedrale…), nel contesto del millennio che li ha visti sorgere; nella seconda, Francesco Colotta presenta, dalla Val d’Aosta alle Marche, una scelta dei luoghi nei quali oggi possiamo ritrovarli. Una scelta inevitabilmente parziale e che non ha alcuna pretesa di completezza. Ma che, nondimeno, indicherà ai nostri lettori le vie da percorrere per giungere a una – personalissima – riscoperta di questo meraviglioso patrimonio. Andreas M. Steiner
Un’altra
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di Luca Pesante
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on la curiosità intelligente che accomuna ogni storico di qualità, Jacques Le Goff ha scritto: «L’Italia è donna, nel mondo medievale: gli altri sognano di possederla, in vario modo. E talvolta vi riescono». E, in effetti, la nostra Penisola, serbatoio inesauribile di meraviglie, nell'Età di Mezzo attira e appassiona stranieri di ogni tipo: dal pellegrino che va a Roma per inginocchiarsi in preghiera sulla tomba di Pietro, al predone che sogna i suoi tesori d’arte, fino al principe o al signore che cerca in Italia un titolo o una corona. A questo punto, però, si impone una premessa: che cosa sapevano vedere gli occhi di un uomo del Medioevo? Gli uomini di quel tempo non sanno, ovviamente, osservare e descrivere come potremmo fare noi oggi. I paesaggi sfuggono alla loro attenzione, se si escludono alcuni luoghi comuni letterari frequentati dai soliti Dante e Petrarca; ciò che li interessa è la realtà simbolica, dunque quel che si cela oltre l’apparenza. Il viandante, pertanto, non è attratto dalla bellezza dei monumenti, delle rovine e del paesaggio, egli è sensibile quasi unicamente al significato religioso e al trascendente che domina la sua vita. Ma, allora, come spiegare il fascino travolgente di Palazzo Vecchio a Firenze, degli affreschi di Assisi o della facciata del duomo di Orvieto? È la forza del simbolo che lí si traduce in bellezza, ma prima di tutto essa deve rappresentare, appunto, il simbolo di un altro significato. In un certo senso oggi viviamo ancora immersi nel Medioevo, molto spesso abitiamo, senza saperlo, spazi e luoghi medievali nati quasi un millennio fa. Ogni giorno passiamo davanti a un’infinità di simboli medievali che in qualche modo condizionano la nostra percezione estetica della realtà. Percorria-
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L’abbazia di S. Galgano (Chiusdino, Siena). Iniziata nel 1218, la costruzione ebbe termine nel 1288, dando vita a uno degli esempi piú interessanti dello stile gotico cistercense. L’abbazia visse il suo massimo splendore nel XIII e XIV sec., ma a partire dal XV, cominciò a decadere. Un declino che culminò nel 1781 con il crollo delle volte di copertura della chiesa abbaziale, nel 1786 con la rovina del campanile, nel 1789 con la sentenza ecclesiastica di profanazione.
Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
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medioevo nascosto mo le stesse strade, usiamo le stesse parole. Tutto ciò forma un patrimonio straordinario, una ricchezza unica: uno dei pochi elementi che davvero uniscono tutti i particolarismi della nostra Italia. La cultura materiale medievale che oggi circonda la nostra esistenza, nel senso di ciò che possiamo vedere e toccare, è senza dubbio una risorsa vitale per il nostro Paese, e proprio da lí, dalla sua riscoperta e valorizzazione, sarà possibile ridare dignità a una nazione che, talvolta, sembra aver dimenticato la sua storia. Nel cuore d’Italia, a Roma, il Medioevo inizia nell’agosto del 410, quando cioè Alarico e i Goti saccheggiano e devastano la città, provocando una carestia gravissima. La fatidica data del 476 passa a questo punto in secondo piano: in effetti ciò che avvenne in quell’anno, l’invio a Costantinopoli delle insegne del potere imperiale romano da parte del capo barbarico Odoacre, signore di Roma, non segna grandi trasformazioni rispetto a tutto quello che si era da tempo messo in moto (gli stessi contemporanei se ne accorsero a malapena). Fu invece la storiografia dei secoli seguenti a rivitalizzare tale data: lo fece, per esempio, Paolo Diacono alla fine dell'VIII secolo, parlando del 476 come dell’anno in cui l’impero perse il suo potere.
Un processo già in atto
La civiltà medievale trae origine dalle rovine del mondo romano, già in crisi a partire dal III secolo poi precipitato definitivamente con le invasioni barbariche del V secolo che accelerano un processo già in atto. Lo sviluppo demografico, l’attrazione verso territori piú ricchi, i cambiamenti climatici, ma, soprattutto, la fuga da altri popoli invasori spingono Goti e Longobardi verso la nostra Peniso-
Un’altra Italia A destra Firenze, sagrestia della basilica di S. Miniato al Monte. La costruzione dell’abbazia di Montecassino e la miracolosa resurrezione di un frate deceduto a causa di un crollo, affresco facente parte del ciclo delle Storie di san Benedetto dipinto da Spinello Aretino, dopo il 1387. In basso miniatura di scuola italiana raffigurante l’abate Desiderio di Montecassino che offre codici e possedimenti a san Benedetto, dal Codice Vaticano Latino 1202. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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la. E il mondo medievale è risultato dallo scontro tra cultura romana e cultura barbarica. La città romana perde le sue strutture vitali, i pochi abitanti sono ormai raggruppati all’ombra di qualche grande rovina, molti si spostano nelle campagne che, a causa dello sfaldamento della rete economica, si sono sempre piú allontanate dal centro urbano. Non si è piú in grado di mantenere le antiche e grandi strade basolate, che scompaiono in breve tempo, interrate dalle alluvioni a favore delle vie fluviali e dei percorsi naturali.
Seppure mossi da un impeto travolgente e distruttivo, gli invasori, ormai stanziati nel nostro territorio, sanno riconoscere ciò che del vecchio impero può essere loro utile, soprattutto nel campo della cultura e dell’organizzazione politica. Fondamentalmente incapaci di creare, essi riadoperano e riutilizzano, segnando in tal modo un regresso tecnico che lasciò a lungo il Medioevo privo di molti «saper fare»: l’incapacità di estrarre e lavorare la pietra ne farà per lungo tempo un’epoca caratterizzata dall’uso del legno pressoché in ogni attività umana,
momenti di un millennio cruciale 529. A Montecassino Benedetto da Norcia fonda l’oratorio conventuale di S. Martino; nasce l’Ordine benedettino 476. La deposizione di Romolo Augustolo segna la fine dell’impero romano d’Occidente
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568-575. I Longobardi arrivano in Italia e fanno di Pavia la capitale del loro regno
846. Gli Arabi saccheggiano Roma
800. Carlo Magno è incoronato imperatore dal papa: nasce il Sacro Romano Impero
1081. In Italia si diffonde l’istituzione dei Comuni
1095. Papa Urbano II bandisce la guerra santa per la liberazione di Gerusalemme: nascono le crociate
1120-1150. Primi statuti delle corporazioni di arti e mestieri
1154-1155. Prima discesa in Italia di Federico Barbarossa
dall’abitare al mangiare, fino al giocare. Lo sforzo estetico si concentra nella decorazione: cosí l’oreficeria, gli avori e i mosaici mostrano una raffinatissima forma d’arte barbarica. Tuttavia, per trovare il cuore della civiltà altomedievale si deve entrare in un monastero: luogo di conservazione e di trasmissione di arti e di saperi oltre che centro religioso, produttivo e modello economico. I centri urbani piú importanti in questi anni restano quelli in cui risiedono re barbarici e vescovi, o posti lungo le principali vie di pel-
1220. Federico II di Svevia diventa imperatore
1167. A Pontida viene costituita la Lega Lombarda
1226. Si apre lo scontro tra guelfi e ghibellini
legrinaggio; per il resto uno scenario di abbandono e desolazione avvolge ogni cosa. Già dai primi secoli del Medioevo l’Italia è sostanzialmente un insieme di città: cosí è vista dagli altri Paesi della cristianità, e tale rimane per lungo tempo, quando anche nello sviluppo europeo del Quattro e Cinquecento la realtà geopolitica è articolata sulla base dei centri urbani. Del resto, questa è una delle grandi costanti della storia italiana: il regionalismo, ben forte anche nella nostra età contem(segue a p. 13)
In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante papa Leone III che, nella notte di Natale dell’800, consacra Carlo Magno imperatore, dalle Chroniques de France. Seconda metà del XIV sec. Londra, British Library.
1347-1351. Pandemia di peste in Europa, che permane allo stato endemico con recrudescenze nei decenni e secoli successivi 1447. Gutenberg stampa la Bibbia con caratteri mobili
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la curtis, perno del primo feudalesimo Il disegno ricostruttivo raffigura una curtis, cosĂ come possiamo immaginarla agli inizi del X sec.: 1. stalle; 2. abitazioni per contadini liberi, legati al signore da un rapporto di dipendenza; 3. abitazioni per i servi; 4. magazzini; 5. dimora signorile, con torre ancora in costruzione; 6. cappella.
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Il sistema feudale
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Il sistema feudale, tipica invenzione dei primi secoli del Medioevo, è un sistema che mette insieme un tipo di società, un modo di produzione e un sistema di valori totalmente innovativi rispetto all’antichità classica. Si possono distinguere due epoche feudali, separate dal fatidico Anno Mille. Una prima epoca, che eredita la struttura della villa tardo-antica, si distingue per una proprietà fondiaria chiamata curtis, che è al tempo stesso un centro di produzione rurale, un luogo di rapporti sociali, e uno spazio in cui si esercitano poteri giuridici e politici. La seconda, che segue il Mille, è definita convenzionalmente «epoca signorile», poiché il sistema della curtis ha lasciato il posto a un sistema di castelli e villaggi guidato da un signore. Il sistema poggia su due fondamenti: la terra e i rapporti personali. Ogni regione ha completato questo passaggio con modalità e tempi estremamente differenti, anche perché il processo di feudalizzazione si lega alla fioritura urbana che si compie tra il X e il XIV secolo, in molti casi con significative differenze tra aree diverse della Penisola. E proprio nelle città si sperimentano pratiche di libertà che mettono in crisi il sistema feudale. La borghesia cittadina, con i suoi valori, estranei ai rapporti feudali di vassallaggio, inizia a corrodere da dentro il vecchio ordinamento. L’altro fattore che cambiò il volto del feudalesimo va ricercato nella lenta genesi degli Stati moderni che si sviluppa in due modi diversi: secondo un modello monarchico e un modello di città-stato. Il primo (attuato per esempio nella monarchia pontificia) che contrasta la frammentazione e la dispersione dei poteri; il secondo che invece conserva i poteri delle autonomie locali cittadine.
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Miniatura raffigurante la cittĂ di Venezia, realizzata sulla base della carta disegnata dal navigatore e geografo turco Piri Reis. XVII sec. Istanbul, Biblioteca Universitaria.
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poranea, ha origine nei secoli medievali. Anche se ciò non ha escluso il persistere, fin dall’antichità, dell’idea di Italia come una chiara e definita entità geografica, chiusa com’è dalle Alpi e dal mare. Tuttavia, il regnum Italiae, a partire da Carlo Magno – e poi sotto i re e gli imperatori germanici –, coincide soltanto con una parte della Penisola: ne restano di solito fuori Venezia, le terre pontificie e l’Italia del Sud. Lo stesso Carlo Magno parla di Italia come sinonimo di Lombardia, riferendosi al territorio compreso dalle Alpi al ducato di Benevento, esclusa l’area veneta, le terre ancora soggette al dominio bizantino e il Patrimonio di San Pietro, da poco donato al papa. Ma è probabile che egli avesse in mente, fin dall’incoronazione della notte di Natale dell’800 a Roma, di assumere, in quanto re dei Franchi e dei Longobardi, oltre alla guida del Sacro Romano Impero, anche quella di una cristianità occidentale unita. In realtà, quando nell’888 si chiude formalmente l’età carolingia, tramonta in modo definitivo il disegno di unificazione politica dell’Europa tradizionalmente attribuito a Carlo Magno, ma proprio in questo periodo si iniziano a sperimentare strumenti politici e forme istituzionali che segneranno la storia europea dei secoli successivi.
Le strade non portano piú a Roma
Tra il V e il IX secolo l’Italia perde gran parte dei suoi caratteri originali: le città collegate da un’imponente rete di strade, le grandi strutture urbane che hanno segnato e favorito la vita sociale, circhi, teatri, templi, fori, terme, sopravvivono come ombre di un passato che a volte non si è piú in grado di ricordare. Papa Gregorio Magno scrive tra il VI e il VII secolo: «Le città sono state distrutte, i luoghi fortificati rovinati, i campi spopolati, la terra ridotta a solitudine. Quasi non ci sono piú contadini nelle campagne, né abitanti nelle città». In realtà, già dalla fine del II secolo, tutte le strade non portavano piú a Roma, e anche le rotte marittime decadono fino ad allontanare progressivamente le sponde del Mediterraneo una dall’altra. È questo il periodo in cui l’Italia inizia a non parlare piú la lingua latina: si diffonde la lingua «volgare», come ci testimonia il famoso Indovinello veronese, databile alla fine dell’VIII secolo. Il latino poteva essere ascoltato soltanto nelle chiese e nei monasteri. A Roma continua l’ascesa del potere papale, celebrato verso la fine dell’VIII secolo con l’intervento in Italia dei Franchi, grazie ai quali si viene a costituire uno Stato pontificio: il Patrimonio di San Pietro. Tutto questo si inserisce in un processo continuo di regionalizzazione dell’Italia, nonostante i vari tentativi sia con i Goti, che con i Longobardi e i Franchi, di tornare a una certa forma unitaria. In verità la nostra Penisola è caratterizzata da un policentrismo economico, politico e religioso. Basti pensare al potere sempre crescente delle grandi
diocesi di Milano o di Aquileia o alla capacità attrattiva dei grandi monasteri del monachesimo benedettino: Bobbio, S. Giulia a Brescia, Nonantola, Montecassimo, solo per citarne alcuni. Questi ultimi, oltre a diffondere un potente influsso culturale, costituiscono veri e propri microcosmi e modelli di sfruttamento agricolo delle campagne: i loro dissodamenti, canalizzazioni, allevamenti vengono imitati altrove per lungo tempo.
Caput mundi e caput fidei
Fin dall’inizio del Medioevo esiste dunque la tradizione di un’Italia regionale. Un misterioso geografo dell’VIII secolo, l’Anonimo Ravennate, elenca diciotto province: la Liguria Transpadana; la Venezia e l’Istria; l’Emilia; la provincia marittima di Luni; la Toscana; la Flaminia Ravennate; la Pentapoli; la Pentapoli annonaria; lo Spoletano; la Nursia; la Tuscia romana; la Campania; il Beneventano; l’Apulia; la Calabria; la Campania; la Lucania; il Bruzio di Reggio. Come appare evidente, sono già formate alcune costanti che attraversarono il Medioevo e l’età moderna, per giungere intatte fino ai nostri giorni. Ogni area ha la sua particolarità: Roma, carica di infiniti simboli e significati; Venezia, privilegiata per i suoi rapporti con Bisanzio; la Sicilia, con il succedersi di dominazioni: bizantina, araba, normanna, germanica, francese, aragonese; la Lombardia, ricchissima e in grado di estendersi fino all’intera Italia settentrionale per poi ridursi ai dintorni di Milano; e la Toscana, l’antica Tuscia, compresa in un ducato sotto i Goti, in una marca con Carlo Magno, con Matilde di Canossa giunta al culmine del prestigio, il cui punto di forza maggiore fu la posizione a sud dell’Appennino, sulla strada verso Roma. Quest’ultima, si è detto, non ha pari: essa incarna per tutto il Medioevo il mito della dominazione politica e culturale del mondo. Tanto che ogni progetto politico in Italia prendeva poi il nome di renovatio, nel senso di tentativo di ritorno alla grandezza imperiale. Molte altre città hanno cercato di passare per «seconda» Roma, vi riuscí solo in parte Costantinopoli. In realtà Roma non è mai stata una grande città medievale: verso il 1300 contava poche decine di migliaia di abitanti quando Firenze e Venezia raggiungevano i 100 000. Infestata perennemente dalla malaria e senza grandi attività produttive o mercantili, essa tuttavia rappresentava il museo delle meraviglie d’Italia, fra cui le piú note erano il Palatino, il Pantheon, il Colosseo e la Mole Adriana. Inoltre, nelle leggende medievali, Roma è anche la città degli acquedotti e dei ponti, mirabili opere che stupiscono e meravigliano l’uomo medievale. Dal 1300 è di nuovo al centro della cristianità, grazie ai Giubilei, istituiti inizialmente uno ogni mezzo secolo, poi ogni venticinque anni: in questo Roma è insieme caput mundi e caput fidei. (segue a p. 16) il medioevo nascosto
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un monastero benedettino dell’alto medioevo 1. la chiesa, piú o meno grandiosa a seconda delle possibilità economiche della comunità monastica a cui appartiene, è l’edificio piú importante; 2. lo scriptorium è destinato alla copiatura dei testi; 3. il chiostro, spazio in cui i monaci possono meditare e trovare un po’ di svago, è il centro della vita monastica; 4. la foresteria accoglie pellegrini e altri ospiti di passaggio; 5. la sala del Capitolo, al pianoterra, è il luogo in cui l’abate amministra il monastero; al piano superiore, si trova il dormitorio dei monaci; 6. nel refettorio comune i monaci consumano i pasti; 7. fuori dalla clausura, vi sono laboratori destinati ad attività di varia natura; 8. questo settore del complesso ospita anche la cucina e il magazzino per le provviste.
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Il monachesimo
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Ma da dove trae origine quel monachesimo che molto ha contribuito alla formazione dell’Italia medievale? Già dal III secolo, in Oriente, alcuni uomini in cerca della salvezza ultraterrena si allontanano dalla città nel rifiuto del piacere della carne, del cibo, della superbia, della vanità, ecc. Dal V secolo, anche in Occidente, fa la sua comparsa questa figura inedita, il monaco, l’uomo solo. Il suo deserto è la foresta, dove i monaci costruiscono i loro monasteri per vivere in piccole comunità. Tuttavia, essi non abbandonano completamente le città: a Roma, anche grazie a papa Gregorio Magno, nascono verso la fine del VI secolo monasteri urbani e suburbani. Ma solo a partire dal XIII secolo le comunità monastiche degli Ordini mendicanti assunsero un ruolo di grande rilievo nell’organizzazione della città medievale. Il grande protagonista resta Benedetto da Norcia, fondatore del monastero di Montecassino, la cui Regola, equilibrata e pragmatica, ebbe un successo straordinario con la diffusione dell’Ordine benedettino, anche grazie a Carlo Magno e Ludovico il Pio, che la imposero all’insieme del monachesimo occidentale. I Benedettini seppero sempre mantenere l’equilibrio tra lavoro manuale, come forma di penitenza e di auto-sostentamento, e la preghiera (e con essa il lavoro intellettuale e artistico). La cultura monastica, inoltre, introdusse modelli per il computo e misurazione del tempo che ancora oggi vengono in parte utilizzati. Il tempo scandito dalla liturgia delle ore, cosí come la diffusione dell’uso delle campane, nel VII secolo, estese il tempo della liturgia anche alla vita quotidiana. Dal X secolo, in concomitanza con il grande risveglio economico e demografico dell’Occidente, si sviluppò in Italia un grande movimento eremitico che diede origine a nuovi ordini orientati alla semplicità evangelica del cristianesimo primitivo; tra questi ebbe grande fortuna quello di Cîteaux, fondato in Borgogna nel 1098, promosso dal grande monaco Bernardo di Chiaravalle (1091-1153).
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medioevo nascosto Ai quattro modelli di impronta politica e culturale che si avvicendano nella nostra Penisola nel Medioevo (definiti da Jacques Le Goff: nazionale con i Goti, territoriale con i Longobardi, unitario con i Franchi e mediterraneo con i Normanni) si affianca dunque, dal X-XI secolo circa, il modello delle città. Oltrepassando i caratteri nazionali di ogni singolo Stato, la civiltà medievale definisce in modo estremamente chiaro, ancora oggi, la civiltà europea. L’Italia era il cuore della cristianità latina medievale, e, pertanto, in una posizione emblematica nella geografia d’Europa. Vale qui la pena di ripetere una considerazione molto spesso citata dagli storici: la storia d’Italia negli ultimi secoli del Medioevo coincide in gran parte con quella delle sue città. Dagli anni a cavallo tra l’XI e il XII secolo, lo sviluppo urbano si lega al fiorire dei liberi Comuni nel Centro-Nord della Penisola e alla formazione delle strutture del regno di Sicilia (1130) nel Mezzogiorno. Questa diversità e separazione è stata piú volte sottolineata, mettendo in luce da un lato l’esercizio del potere pubblico nell’Italia comunale dall’altro la politica accentratrice dei sovrani, che limitava la libertà delle città del Sud. In realtà sembra che i caratteri di ogni singolo centro fossero ben piú complessi per sopportare oggi una tale interpretazione.
Da rustici a cittadini
A partire dal Mille le città cominciano a rinascere. Molte erano scomparse con la lenta fine dell’impero romano e a causa di epidemie, carestie e invasioni che seguirono. La crescita economica va ora di pari passo con la coltivazione piú intensiva delle terre: le eccedenze agricole permettono di sfamare una popolazione sempre maggiore. Le attività artigianali impegnano uomini e donne che spesso reinvestono i guadagni per migliorare la loro qualità di vita urbana. I grandi cantieri (palazzi pubblici, cattedrali, ecc.) attirano una vasta manodopera dalle campagne, e i rustici in breve tempo si trasformano in cittadini. All’inizio dell’XI secolo, quando la maggior parte della popolazione viveva nelle campagne, esisteva già una componente di cittadini costituita da mercanti. I signori, i prelati e i nobili, oltre a un gruppo sempre piú numeroso appartenente a un ceto medio-alto, necessitavano di articoli e mercanzie di vario genere, che però non erano prodotti nel luogo in cui vivevano e dovevano essere pertanto importati da altri luoghi a volte lontani. Non solo vesti e tessuti pregiati, o vasellame e piccoli oggetti d’arte, ma anche merci ordinarie venivano spesso fornite dai mercanti lungo le vie d’acqua o di terra. Il progresso del commercio favorisce la spettacolare espansione dell’economia monetaria, che porta al ritorno della coniazione di monete d’oro e d’argento in Europa. Gli scambi ormai avvengono su due livelli: i mercati cittadini e le fiere; queste ultime, le grandi fiere annuali, radunavano mercanti di ogni 16
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Un’altra Italia Nella pagina accanto l’esterno di una delle absidi del duomo di Monreale (Palermo), intitolato a Santa Maria Nuova. La chiesa, con l’annesso monastero, fu edificata per volontà del re Guglielmo II di Sicilia, detto il Buono, tra il 1174 e il 1189. Negli stessi anni (1183), la cittadina divenne sede arcivescovile.
parte d’Italia, e venivano in alcuni casi istituite (si pensi alle fiere promosse da Federico II) per rilanciare l’economia di un territorio e di una città. L’accumulazione di denaro, primo effetto di questo processo, pose diversi problemi di tipo religioso, e soprattutto Domenicani e Francescani si attivarono per risolverne alcuni, adattando l’atteggiamento ideologico e psicologico della religione alla dirompente evoluzione economica. Le campagne appaiono deserte prima di questa rinascita. I pochi uomini si raccolgono intorno alle mura di un castello o di un’abbazia, per trovare un minimo di sicurezza dalla violenza che caratterizza pressoché ogni rapporto umano. Dopo il Mille, dunque, molte cose cambiano. Le guerre si erano diradate, le campagne tornano a essere solcate dagli aratri, anche grazie a nuove scoperte che perfezionano l’uso degli animali come forza motrice. Altri terreni vengono conquistati con il taglio degli alberi delle foreste. Il commercio e l’artigianato rendono la vita migliore, producendo ricchezze spesso reinvestite nella pratica dell’abitare. In tal modo i minuscoli castelli vedono il moltiplicarsi dei propri abitanti, si allargano le mura di cinta, si costruiscono nuovi spazi, si compie cioè quel passaggio da castrum a civitas, che tale potrà dirsi solo grazie alla presenza di un vescovo. Ma il fenomeno piú significativo dello sviluppo urbano è la formazione degli enti comunali. La parola «comune» indica l’assetto istituzionale di una comunità cittadina che si autogoverna. In particolare nell’Italia centro-settentrionale, è possibile leggere, con grande evidenza, la transizione fra città vescovile e città comunale tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del successivo: un passaggio, questo, che può dirsi compiuto quando si insedia al governo della città una magistratura permanente, anche se rinnovata periodicamente, costituita da un gruppo di consules coadiuvati da un consiglio cittadino. Ciò accadde – per esempio – nel 1085 a Pisa e a Lucca, nel 1095 ad Asti, nel 1098 ad Arezzo, nel 1099 a Genova, nel 1105 a Pistoia e Ferrara, e nel 1112 a Cremona.
Una realtà inedita
Alla formazione dei Comuni contribuirono in sostanza tre fattori: le aristocrazie militari, spesso legate al vescovo e dententrici di grandi beni fondiari; le élite commerciali, cioè gli uomini ricchi, come mercanti, cambiatori, banchieri; e i ceti intellettuali, gli uomini di cultura, come giudici, notai, in possesso del sapere necessario per le attività di governo. Questa varietà segna pertanto una specificità tutta italiana e dà forma a una realtà inedita ed estremamente innovatrice. Un altro elemento fondativo delle nostre cittadine comunali è il contado, la campagna che si apriva subito oltre le mura urbane. Pochi decenni dopo il suo sorgere, il Comune italiano, anche grazie alla forza militare, si proietta verso il territorio circostante, nel tentativo di costruirsi un proprio spazio rurale.
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La città, dunque, dà origine a una nuova società, fondata sulle attività economiche e commerciali e sperimenta diverse tecniche intellettuali necessarie per la vita urbana, per esempio la pratica del diritto. Con il movimento comunale, ampiamente diffuso in Italia settentrionale e centrale, un gruppo di uomini che costituisce il consiglio municipale detiene il governo della città. A differenza del sistema feudale, il potere urbano è ora in mano a cittadini teoricamente di pari dignità, anche se in realtà molte differenze (economiche e giuridiche) pesano nell’avanzamento in una carriere politica. In tutto questo fanno la loro comparsa nuovi valori, come, per esempio, il senso della bellezza, dell’ordine e della pulizia. A partire dal XII secolo la città diviene pertanto anche centro di cultura: presso le scuole urbane si può imparare a leggere, scrivere e far di conto, ma nasce anche una cultura ludica fatta di processioni, feste e giochi, che costituirono, tra l’altro, l’occasione di rinascita del teatro. L’uomo medievale vede nella città un luogo di prosperità, bellezza e ricchezza. Le sue linee verticali che si impostano su torri e campanili conducono idealmente verso il cielo e a Dio. Nuova solidarietà, inoltre, si crea all’interno delle città: le corporazioni delle arti, regolate da statuti, controllano e proteggono i membri all’interno delle loro strutture. Cosí accade per le altre grandi organizzazioni di mutua 18
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In alto Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove. Particolare degli affreschi con Allegorie ed Effetti del Buono e Cattivo Governo in città e nel contado, realizzati tra il 1337 e il 1339. L’opera, al di là del valore artistico, è una vivida testimonianza del paesaggio dell’epoca. A destra particolare di una miniatura raffigurante alcuni mercanti al lavoro nelle loro botteghe, da un’edizione del De Sphaera di Leonardo Dati. 1470. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
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I paesaggi I paesaggi medievali sono il risultato delle attività umane svolte nell’ambiente naturale. Si è già detto come l’Età di Mezzo nasca dalle ceneri e dalle rovine dell’antichità classica, e ciò appare oltremodo evidente dalle forme e strutture dei paesaggi urbani e rurali; vale tuttavia la pena di ripetere che nei primi secoli medievali viene a perdersi quella imponente struttura razionale, costituita da centuriazioni, strade, ville, fattorie, centri produttivi di diversa natura, che in gran parte ha definito la grandiosa organizzazione economica dell’antichità. Nell’Alto Medioevo non si è piú in grado di mantenere le complesse infrastrutture dei secoli precedenti, le campagne vengono progressivamente abbandonate, il paesaggio rurale è dominato da boschi, foreste e paludi. Solo dopo il Mille, nell’ambito di un consistente aumento demografico, nuove tecniche agricole, un maggiore uso del ferro nella lavorazione della terra, e altre conquiste (o riconquiste), volte a migliorare la qualità e la resa del lavoro, portano alla lenta rioccupazione delle campagne. Il taglio dei boschi permette di ottenere nuove superfici seminative, in grado di produrre gli alimenti necessari per una popolazione sempre in crescita. Ma una radicale trasformazione dei paesaggi si deve all’età comunale, quando le città iniziano a estendere un controllo politico ed economico oltre le proprie mura, fino a creare un legame inscindibile tra centro urbano e campagna.
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medioevo nascosto solidarietà sorte a partire dall’XI secolo e che in breve tempo divennero potenti e ricche istituzioni religiose: le confraternite. La gran parte delle città italiane che noi oggi abitiamo ha pertanto origine nel Medioevo, e ancora oggi gli spazi, la distribuzione delle strade, i loro nomi, sono gli stessi che uomini vissuti secoli addietro hanno abitato e utilizzato. A questi esempi si potrebbero aggiungere infiniti elementi dei quali abbiamo dimenticato l’origine medievale, ma ce n’è uno che, piú di altri, merita di essere citato, perché rimasto in alcuni casi intatto e che ha contribuito a formare la nostra idea di città: è il loro profilo, lo skyline che si osserva nell’approssimarci oggi a piedi o in macchina verso città come Siena, Perugia o Orvieto, solo per citarne alcune. Possiamo facilmente immaginare lo stupore che un pellegrino o un viandante del XIV secolo, dopo giorni di cammino, avrà avuto scorgendo le torri e i campanili del centro abitato.
Un’altra Italia evento drammatico, normalmente, al loro interno, serpeggia una continua lotta fratricida per il potere: famiglie rivali gareggiano per esibire la propria ricchezza e costruire torri piú alte di quelle degli avversari. Molto spesso si rimediava distruggendo quella dei rivali. Esistevano pertanto vere e proprie fortificazioni, quasi piccole cittadelle murate, all’interno del paesaggio urbano di ogni città. La forma dell’abitato urbano medievale è quasi sempre radiocentrica: lo sviluppo edilizio che osserviamo ancora oggi avvolge solitamente un elemento generatore, che può essere l’abbazia, il castello o la
I luoghi del potere
L’immagine carica di simboli di una città si manifestava – e ancora oggi spesso si manifesta – attraverso le sue mura, che la proteggono e la definiscono, e attraverso le torri e i campanili che ne indicano i luoghi di potere. Due dimensioni dunque saltano ancora oggi all’occhio: una orizzontale e una verticale. Nella prima si comprende il legame inscindibile della città con la campagna che la circonda (la stessa parola civitas va intesa proprio nel rapporto tra il centro abitato e il contado), nella seconda si comprende la topografia delle varie forme di potere. Se le mura di una città aiutavano a racchiudere un sentimento collettivo, un senso di appartenenza e una coscienza di unità, soprattutto durante epidemie, carestie o qualsiasi altro
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per la difesa, ma non solo 1. il mastio, solida torre principale, non era soltanto adibito a rifugio in caso di attacco, ma ospitava anche le stanze padronali (2); 3. e 4. all’interno del castello si aprivano solitamente due corti, una delle quali riservata alla famiglia padronale; 5. una grande sala centrale era il cuore del complesso: vi si amministrava la giustizia, ma poteva anche ospitare feste e banchetti.
Il castello
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Nell’antichità classica, il termine latino castrum indicava l’accampamento militare, ma già nell’Alto Medioevo definisce un centro abitato o una civitas fortificati. Dall’epoca carolingia signori, grandi proprietari, ma anche vescovi e abati, edificano fortezze e strutture di difesa per proteggere i propri possedimenti. Dunque la facoltà di erigere castelli non spetta piú soltanto al re, ma anche a chiese e a privati. Il proliferare delle fortificazioni accentua il processo di frammentazione del potere regio e imperiale. Verso il Mille il castello è ancora una semplice struttura collocata su un’altura e circondata da una palizzata in legno e da un terrapieno. A volte si cercava la protezione di un corso d’acqua o di un impervio declivio. Al suo interno, oltre al signore, iniziano a trasferirsi i contadini, essendo questo molto spesso l’unico modo per sopravvivere alle scorribande di predoni e malviventi. In alcune regioni, per esempio nel Lazio, l’incastellamento ha innescato una radicale trasformazione del paesaggio e dell’economia rurale. Da una forma di insediamento a carattere sparso gli abitanti delle campagne si concentrano in nuclei abitati fortificati. In seguito, si assiste in molti casi a due ulteriori e significative trasformazioni: il passaggio definitivo dal legno alla pietra per la costruzione degli edifici, e l’accorpamento progressivo, entro nuove mura, delle strutture costruite a ridosso della vecchia cinta muraria.
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l’esempio di siena Disegno ricostruttivo del duomo senese: iniziato nel 1229, fu compiuto nelle strutture fondamentali nel 1264 e portato a termine nel XIV sec. 1. la facciata gotica tricuspidata, ornata di tre portali e di numerose statue, è dovuta nella parte inferiore a Giovanni Pisano e allievi (1284-96), nella superiore a Giovanni di Cecco (1376-82); 2. il campanile, costruito in stile romanico nel 1313, presenta una decorazione a strisce marmoree bianche e nere; 3. l’interno si articola in tre navate, scandite da pilastri polistili; 4. dalla chiesa si accede alla Libreria Piccolomini, costruita nel XV sec. per custodire la biblioteca di Pio II e affrescata dal Pinturicchio e allievi (Scene della vita di Pio II); 5. la cupola, esagonale, fu ultimata nel 1263; 6. nel 1339 si decise di ampliare il duomo, facendo in modo che l’attuale ne diventasse solo il transetto, ma i lavori furono interrotti nel 1357 a causa di vari imprevisti e della Peste del 1348; di quell’intervento, oggi noto come Duomo Nuovo, rimangono la navata est e la facciata (detta il «Facciatone»).
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piazza del mercato (in altri casi alcune città medievali ereditano la struttura ortogonale della città romana, senza sostanziali modifiche). Da un nucleo centrale posto nella posizione piú eminente e difendibile le case e le strade si dispongono dunque progressivamente seguendo l’orografia del terreno. In questo c’è un carattere fondamentale che definisce l’Età di Mezzo: se nell’antichità classica ogni intervento umano ha inciso profondamente la forma naturale, imponendo strutture geometriche e rigidi modelli urbani, il Medioevo, al contrario, si adatta e in un certo senso si conforma, anche metaforicamente, al paesaggio rurale e alla natura. Del resto la pratica del diritto, prima ancora di essere basata sui codici normativi, ha origine dalla consuetudine, cosí come una grande via di pellegrinaggio deriva da uno stretto sentiero percorso inizialmente da pochi uomini poi da un numero sempre piú consistente di viandanti che tornano sui loro passi.
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Il teatro della vita quotidiana
All’interno delle mura di una città esiste una marcata suddivisione tra gruppi, comunità, etnie, mestieri e poteri diversi. E tutte queste diversità si riflettono sulla forma della città, sui nomi delle strade e sull’aspetto delle abitazioni. Il ghetto – per esempio – è il luogo degli Ebrei, che vivono lí, senza obbligo (almeno sino alla fine del Medioevo), per meglio mantenere le proprie caratteristiche e tradizioni di vita; ma cosí fanno, sebbene in modo diverso, i funari, i calderari, i frati mendicanti, i nobili, i forestieri ecc. ecc. Meglio che altrove tale specializzazione si «legge» nelle piazze. Le piazze, teatro principale della vita in una città medievale, sono di solito tre: la piazza del potere religioso, quella del 22
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La cattedrale
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La cattedrale è uno dei simboli della città medievale, al punto che solo la sua presenza, cioè la presenza di una sede vescovile, permette di definire una città come tale (civitas). All’origine del nome vi è la cathedra del vescovo, anticamente posta in fondo all’abside, che di norma era situata nella chiesa principale della diocesi. Dopo il Mille si costruiscono cattedrali sempre piú imponenti in grado di contenere una popolazione sempre maggiore e, soprattutto, capaci di esibire il potere e la ricchezza della città. La cattedrale funge spesso da elemento generatore della topografia urbana di una città: piazze, strade, palazzi pubblici e privati si orientano a partire da essa, vero emblema cittadino. Al suo interno, o al suo riparo, si compiono pertanto le svolte e le conquiste decisive in ambito religioso, intellettuale, economico, artistico. Basti pensare all’intento pedagogico, oltre che puramente artistico, dei cicli decorativi interni o esterni, quando posti sulle facciate. La parola «duomo», dal latino domus (casa), designa anch’essa in molti casi la cattedrale, ma piú che la casa del vescovo essa indica la casa di Dio.
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Un’altra Italia potere politico e quella del potere economico. La prima è la piazza della cattedrale, cioè il luogo delle sacre rappresentazioni e della liturgia, che, attraverso le campane della chiesa, regolava il ritmo della vita di ogni giorno. La seconda, la piazza dominata dai palazzi pubblici, è di solito la piú vasta e mostra ben in evidenza i simboli del potere politico. La terza, la piazza del mercato, non si discosta di molto dalla precedente; in realtà piú piazze potevano servire per il mercato, suddivise in base alle merci in vendita. Ancora oggi moltissimi splendidi esempi sopravvivono nelle nostre città e non è raro trovare il mercato del pesce o delle verdure esattamente nel medesimo luogo utilizzato per lo stesso scopo secoli fa.
Una società prevalentemente agricola
Detto questo, vale forse la pena di ripetere come la società italiana medievale fosse una società prevalentemente agricola; anche nell’Italia urbanizzata del Centro-Nord, nel momento di massima espansione demografica delle città, gli abitanti delle campagne erano di gran lunga piú numerosi rispetto ai cittadini. La popolazione agricola viveva generalmente in villaggi, che potevano essere privi di fortificazioni o cinti da mura o altre opere di difesa. Si allontanavano al mattino con il sorgere del sole per recarsi al lavoro nei campi circostanti, per raccogliere frutta nei boschi, per condurre al pascolo il bestiame, per cacciare o per pescare. Esisteva anche un popolamento sparso, con strutture isolate rispetto al villaggio. Le famiglie contadine erano nella maggior parte dei casi famiglie nucleari, cioè composte dai
La piazza In molte città europee è possibile osservare una continuità d’uso tra il foro della città antica e la piazza principale della città medievale. La sovrapposizione della chiesa al tempio conferma tale continuità anche nell’impostazione rettangolare dello spazio aperto; tuttavia, già dall’età tardo-antica, i nuovi edifici del culto cristiano (il battistero o il palazzo vescovile) modificano la forma della piazza religiosa. Con l’avvento dell’età comunale, nella piazza del potere pubblico si celebrano il simbolo del governo della città stessa e la sua supremazia sulle campagne e sulle terre circostanti: i palazzi, le logge, le fontane, sono generalmente disposti in modo da rendere subito riconoscibile la gerarchia dei poteri. Nelle piazze delle cattedrali tardo-medievali, lo spazio è organizzato allo stesso modo, cioè con l’intenzione di dare massimo slancio e imponenza agli edifici emblematici. In molte città, oltre alla piazza del palazzo comunale e della cattedrale, figura una terza piazza, in cui si esercitano la mercatura, il cambio e altre attività commerciali.
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genitori, uno o due figli e dai nonni. Il sistema delle colture regolava i ritmi e i tempi del lavoro, orientato ad assicurare a tutti i componenti della famiglia i cereali necessari per il sostentamento. Chi abitava le campagne ha sempre perseguito un desiderio di autosufficienza, ha sempre cercato di non dipendere dall’esterno. È ciò appare chiaro se si considera l’estrema fragilità della vita agricola di fronte ai capricci della natura, con la conseguente e costante minaccia di carestia e la difficoltà di spostamento per il trasporto di beni. Oltre agli stanziali, un folto gruppo di rustici era invece in continuo movimento, come per esempio i pastori transumanti che si spostavano continuamente alla ricerca di nuovi pascoli per il bestiame. In ogni caso il contadino era parte di una comunità rurale locale, cioè membro di una parrocchia, dove probabilmente era stato battezzato dopo la nascita, e parte di una famiglia che costituiva la prima e naturale cellula sociale. Alla comunità rurale si sovrapponeva il potere di un signore, laico o ecclesiastico, proprietario di appezzamenti piú o meno estesi che, soprattutto negli ultimi secoli del Medioevo, ridimensionava la signoria rurale sulla spinta di una riorganizzazione promossa dai governi cittadini. Nel Mezzogiorno esistevano invece terreni dichiarati «demaniali», non sottoposti a un signore, ma dipendenti direttamente dalla corona. In generale, nel primo caso citato, le terre erano suddivise in tre grandi parti: la prima direttamente lavorata dal signore, la seconda frazionata in concessioni familiari e assegnata ai contadini, la terza costituita da boschi e incolti d’uso comune.
La società medievale si muoveva costantemente, con un movimento continuo e frenetico, spostandosi da un luogo all’altro e spingendo sempre oltre la linea dell’orizzonte. Gli uomini del Medioevo conoscono due orizzonti: quello oltre il terreno o la foresta che i loro occhi vedono ogni giorno dal luogo in cui abitano e l’orizzonte vasto – in verità piú spirituale che geografico – della cristianità. Santiago di Compostela, Roma, Gerusalemme sono luoghi compresi entro quest’ultima linea. I veri eroi sono reputati coloro che oltrepassano tale frontiera per giungere in Africa, Crimea o nella lontanissima Asia. La maggior parte degli uomini medievali è spinta a mettersi in cammino dallo spirito stesso della religione cristiana: ognuno è pellegrino in questa terra, fino alla morte.
Il trionfo di Roma e del papato
Il viaggio ha sempre origine da un impulso di trasgressione e di conoscenza: una dura prova che offre la possibilità di riscattarsi da una condizione esistenziale di frustrazione, incapacità morale, identità perduta. Nei secoli dopo il Mille almeno tre circostanze determinano una forte intensificazione dei viaggi: lo sviluppo dell’economia di mercato, le crociate, e la pratica di pellegrinaggio in occasione dei Giubilei. In quest’ultimo caso – già dal 1300, anno del primo Giubileo – si compie una delle piú grandiose manifestazioni di massa della cristianità medievale, che fu pertanto anche un evento politico ed economico. Con essa si celebrava innanzitutto il trionfo di Roma e del papato, ma rappresentava anche la risposta a una forte istanza del popolo cri-
Nalla pagina accanto ancora un particolare degli affreschi con Allegorie ed Effetti del Buono e Cattivo Governo in città e nel contado, realizzati tra il 1337 e il 1339 da Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena. In basso particolare di una miniatura raffigurante una piazza animata da scene di vita quotidiana, da un’edizione del De Sphaera di Leonardo Dati. 1470. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
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L’Itinerario di Sigerico e l’origine della via Francigena Stade Amsterdam Utrecht Londra
Canterbury
Bruxelles Sombre
Praga
Arras Lussemburgo Laon Reims Chàlons-sur-Marne Parigi Troyes
Bar-sur-Aube
Magonza
Strasburgo
Basilea
Besançon Pontarlier
Berna
Vaduz
Losanna St. Maurice
Bourg-Saint-Pierre Aosta Ivrea Pavia Piacenza Vercelli
Lione
Tolosa Verso Compostela
Arles
Andorra
Lubiana
Susa Berceto Pontremoli Luni Lucca San Gimignano Siena San Quirico Bolsena Viterbo Sutri
Roma Verso Gerusalemme
Madrid
Esiste una fonte eccezionale che ci mostra il percorso della via Francigena nell’Alto Medieovo: si tratta della descrizione del viaggio che l’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, fece a Roma nel 990. Eletto arcivescovo nel 989, Sigerico si mise in cammino per ricevere il pallium da papa Giovanni XV. Giunto al cospetto del pontefice nel luglio del 990, nel corso del suo breve soggiorno a Roma Sigerico annota nel suo diario tutti i luoghi da lui visitati. Nella Vita di San Dunstano, l’arcivescovo elenca, una dopo l’altra, tutte le submansiones incontrate sulla strada de Roma usque ad mare (le 78 tappe del viaggio di ritorno, da Roma fino a Calais sulla Manica). Sono indicati borghi, città, santuari, chiese, ospedali cosí come punti di attracco di traghetti, punti di ristoro e stalle per il ricovero delle cavalcature. Ne risulta una sorta di guida al viaggio lungo la via Francigena.
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Napoli
In alto cartina con il tracciato della via Francigena e l’indicazione di alcune delle tappe principali. In basso Pontremoli (Massa Carrara). Il medievale castello del Piagnaro, che prende nome dalle piagne, lastre in arenaria utilizzate in Lunigiana per realizzare tetti e coperture.
In alto Fidenza (Parma). Rilievo che orna la torre del Trabucco del duomo, con un corteo di pellegrini. Si trascrivono di seguito le tappe da Roma fino ad Aosta: I Urbs Roma (Roma, Borgo Leonino); II Iohannis VIIII (La Storta); III Bacane (Valle del Baccano, Campagnano di Roma); IV Suteria (Sutri); V Furcari (Vetralla); VI Sc.e Valentine (Bullicame, presso Viterbo); VII Sc.e Flaviane (Montefiascone); VIII Sc.a Cristina (Bolsena); IX Aqua Pendente (Acquapendente); X Sc.e Petir in Pail (Podere in Voltore, Abbadia San Salvatore); XI Abricula (Le Briccole, Castiglione d’Orcia); XII Sc.e Quiric (San Quirico d’Orcia); XIII Turreiner (Torrenieri, Montalcino); XIV Arbia (Ponte d’Arbia, Monteroni d’Arbia); XV Seocine (Siena); XVI Burgenove (Abbadia a Isola, Monteriggioni); XVII Aelse (Pieve d’Elsa, località scomparsa, nei pressi di Gracciano d’Elsa, Colle Val d’Elsa); XVIII Sc.e Martin in Fosse (Molino d’Aliano, Colle Val d’Elsa); XIX Sc.e Gemiane (San Gimignano); XX Sc.e Maria Glan (Pieve di S. Maria Assunta a Chianni, Gambassi Terme); XXI Sc.e Petre Currant (Pieve dei SS. Pietro e Paolo a Colano, Castelfiorentino); XXII Sc.e Dionisii (Borgo San Genesio, San Miniato); XXIII Arne Blanca (Fucecchio); XXIV Aqua Nigra (Ponte a Cappiano, Fucecchio); XXV Forcri (Porcari); XXVI Luca (Lucca); XXVII Campmaior (Camaiore); XXVIII Luna (Luni, Ortonovo); XXIX Sc.e Stephane (Santo Stefano di Magra); XXX Aguilla (Aulla); XXXI Puntremel (Pontremoli); XXXII Sc.e Benedicte (Montelungo, Pontremoli); XXXIII Sc.e Moderanne (Berceto); XXXIV Philemangenur (Felegara, Medesano, o forse Fornovo di Taro); XXXV Metane (Medesano o forse Costamezzana, Noceto); XXXVI Sc.ae Domnine (Fidenza); XXXVII Floricum (Fiorenzuola d’Arda); XXXVIII Placentia (Piacenza); XXXIX Sc.e Andrea (Corte Sant’Andrea, Senna Lodigiana); XL Sc.e Cristine (Santa Cristina); XLI Pamphica (Pavia); XLII Tremel (Tromello); XLIII Vercel (Vercelli); XLIV Sc.e Agath (Santhià); XLV Everi (Ivrea); XLVI Publei (Montjovet); XLVII Agusta (Aosta). Facendo il percorso inverso, si osserva come i viaggiatori britannici, attraversata la Manica, da Calais si dirigevano ad Arras, Reims e Besançon, seguendo poi la valle del Rodano fino al lago Lemano. Dopo aver visitato l’abbazia di Saint-Maurice, i pellegrini si dirigevano verso il Gran San Bernardo, che, una volta attraversato, conduceva ad Aosta. Molte strade percorse fino a questo punto erano di origine romana. Per esempio, oltre Lucca, si sarebbe potuta raggiungere Roma, non solo con la Cassia, ma anche tramite la via Aurelia, che transitava da Pisa. Ma la via costiera viene preferibilmente scartata, sia perché esposta agli attacchi provenienti dal mare, sia perché per lunghi tratti attraversava territori infestati dalla malaria, come le paludi della Maremma.
stiano che dal XII secolo, dalla nascita di un nuovo luogo dell’aldilà chiamato Purgatorio, aveva iniziato a fare seriamente i conti con la propria vita ultraterrena. E proprio con la concessione di un’indulgenza, una volta giunti a Roma dopo giorni e giorni di cammino, la Chiesa poteva abbreviare la durata dei tormenti «purgatori» che ogni peccatore avrebbe sofferto post mortem, un privilegio questo che accrebbe ancor piú il potere del papa. Il bagaglio del viaggiatore è scarso, per lo piú una bisaccia, qualche moneta per chi ne aveva la possibilità. I piú ricchi portano con sé un cofanetto con alcuni oggetti preziosi, che costituisce in molti casi l’intero patrimonio personale. Il simbolo del viaggiatore è il bastone, come possiamo vedere in innumerevoli miniature, a forma di tau per permettere l’appoggio ai malfermi viandanti. Quando è possibile, si sceglie la via fluviale, perché l’imponente rete di strade romane è da tempo abbandonata, scomparsa e dimenticata; altrimenti si è costretti a percorrere viottoli o tratturi che soltanto il continuo calpestio degli uomini rende visibile e percorribile.
Il richiamo delle reliquie
Il viaggiatore per eccellenza resta per lungo tempo il pellegrino. All’alba dell’XI secolo i traguardi piú sognati sono Roma, Gerusalemme e Santiago di Compostela, cioè i piú celebri santuari del Medioevo; a essi si vengono poi ad aggiungere moltissimi luoghi santi, di minore rilievo, in cui si poteva vedere o toccare una particolare reliquia, venerare un’immagine santa, come il santuario dell’Arcangelo sul Gargano, in Puglia; o Lucca, dove era conservata l’immagine lignea del Cristo detta «Santo volto»; dal 1164 circa, Milano, dov’erano stati portati i corpi dei Re magi; o Loreto in cui, dal tardo Duecento, era possibile venerare la «Santa casa» di Maria, misteriosamente lí trasportata dagli angeli per salvarla dalla furia distruttrice degli infedeli in Asia Minore; o ancora Orvieto, dov’era conservata la straordinaria reliquia del Sangue del Cristo. Una fittissima rete di percorsi e di stazioni di posta e di conforto punteggiava i collegamenti tra questi luoghi del Sacro. Fin dalla tarda antichità le inventiones, cioè le scoperte improvvise, e le traslationes, di ogni tipo di reliquia, erano all’origine di grandi movimenti devozionali e di culti spontanei. Attorno ai santuari si animava ben presto un ricco mercato, di solito in occasione della festa del santo: erano le fiere, che non solo favorirono la crescita economica di un territorio, ma resero possibile anche una vasta diffusione della cultura. La rete stradale andò cosí strutturandosi insieme al proil medioevo nascosto
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medioevo nascosto Sulle due pagine veduta di San Gimignano (Siena). La città, ancora cinta dalle mura duecentesche, conserva quasi intatta la struttura urbanistica e architettonica medievale, nella quale sopravvivono 13 delle originarie 72 torri.
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cesso di sviluppo urbano e rurale negli ultimi trequattro secoli di Medioevo. Il Camino de Santiago, la via segnata dalla presenza di straordinarie chiese e cittadine che conduceva sulla tomba dell’apostolo Giacomo, attraversava la Spagna settentrionale per poi ramificarsi in una miriade di diverticoli in Francia, Italia e Germania proprio per collegare le diverse stationes, anch’esse in grado di offrire qualche indulgenza.
Dalla Francia verso Roma
In Italia, a partire dall’XI secolo andò sempre piú consolidandosi l’itinerario chiamato «via Francigena» (vedi box alle pp. 26-27): i pellegrini provenienti dalla Francia, diretti a Roma, scendevano dal Moncenisio, passando poi in Piemonte e in Lombardia, attraversavano il Po a Piacenza per dirigersi verso l’Appennino e immettersi lungo l’antico percorso della via Cassia per toccare Siena, Acquapendente, Viterbo e, infine, Roma. Una volta giunti sulla tomba di Pietro i pellegrini potevano proseguire verso Montecassino, dove riposava il corpo di san Benedetto, e ancora verso il Monte Gargano, in Puglia, nei cui pressi era possibile imbarcarsi per l’Epiro, da dove la via Egnazia li conduceva a Costantinopoli, e da qui, via mare o scendendo lungo l’Anatolia, fino a Gerusalemme. Come accade lungo il Camino de Santiago, anche lungo la via Francigena è possibile imbattersi in
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edifici che, in un modo o nell’altro, ripetevano la forma o la struttura dei luoghi santi di Gerusalemme: cosí, per esempio, il Santo Sepolcro di Acquapendente (VT), un’edicola che riproduce al suo interno il Sepolcro gerosolimitano. Il Giubileo del 1300 portò un grande numero di pellegrini lungo le strade verso Roma, Dante li chiama «romei», da distinguersi con coloro diretti sulla tomba di San Giacomo che invece vengono indicati semplicemente come «pellegrini». La via Francigena, nata in età longobarda, ben presto si raccorda ai percorsi d’Oltralpe, divenendo il principale collegamento tra l’Italia e l’Europa, ma soprattutto essa fu la principale via di pellegri-
Nel riquadro il cortile interno del Palazzo Comunale di San Gimignano, affrescato con stemmi dei personaggi che avevano ricoperto cariche pubbliche nel contesto del Comune. L’edificio venne edificato fra il 1289 e il 1298 sui resti di una costruzione preesistente.
naggio verso Roma e poi verso la Terra Santa. In effetti Roma, per lungo tempo, non rappresentò il punto di arrivo del lungo cammino; fu invece da molti considerata come una tappa intermedia del viaggio. Dall’età carolingia la Francigena assume un rilievo europeo: i Franchi intendono rafforzare i Miniatura collegamenti tra i luoghi del potere e, pertanto, si preoccupano di assicurare raffigurante un agevoleunattraversaastronomo, daèun mento alpino. Attribuita a Carlo Magno la fondatrattato di astrologia zione dell’abbazia di S. Antimo, vicino a Montalcidel iXIV sec. Venezia, no, ma prima ancora (726) Franchi fondarono l’abbazia dei santi Pietro Biblioteca e AndreaNazionale a Novalesa, Marciana. nella val Cenischia, sulla grande strada romana tra Susa e il Moncenisio, da dove partivano le due strade per Avignone e per Parigi. Nel IX secolo la via Francigena diviene dunque l’asse del collegamento tra l’impero carolingio e il papato. Nei secoli successivi sorgono nuove abbazie nei punti chiave del percorso, a dimostrazione di come il suo ruolo non passò mai in secondo piano rispetto ad altre direttrici. In ogni caso non va dimenticato che la via Francigena, come del resto ogni itinerario medievale, non era percorsa solo da pellegrini; essa era anche, e soprattutto, una via di commercio e di scambi culturali. L’intensificazione dei trasporti terrestri nel corso del Medioevo si riflette sul potere delle città: la proiezione europea di Milano, per esempio, molto dipese dalle direttrici stradali che la collegavano con il Centro Europa, e lo stesso vale per molte altre città italiane.
L’epopea del cid campeador Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci collinari declinandoli nelle infinite sfumature di verde, con un occhio di riguardo per i valori lirici e romantici. Partendo da un disegno realizzato dal vero, gli artisti si accostano talvolta al gusto pittoresco, per dipingere opere che incontrano il favore del mercato. Tra quanti hanno immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.
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a cura di Francesco Colotta
itinerari
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32 Valle d’Aosta 34. Verrès. La città delle donne 38. Châtillon 42 Piemonte 44. Asti. Famiglie in lotta 48. Il ricetto di Candelo 50.Oglianico 52 Lombardia 54. Soncino. Tra l’acqua e i mattoni 57. Cornello dei Tasso 60. Castiglione Olona
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62 Trentino-Alto Adige 64. Chiusa e Vipiteno. La dogana e il gobbo 70. Castello di Avio 72 Veneto 74. Monselice. La fortezza di Ezzelino 77. Montagnana 78. Torcello 82 Friuli-Venezia Giulia 84. Venzone. Dove il Medioevo è rinato 90. Cividale del Friuli
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52 92 Liguria 94. Finale Ligure. Sentinella sul mare 98. Triora 100. Le isole di Porto Venere 102 Emilia-Romagna 104. Bobbio. I santi e i diavoli 107. San Leo 108. Vignola 112 Toscana 114. Sansepolcro. Borgo
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incantato 120. Altopascio 122. Radicofani 124 Marche 126. Tolentino. I miracoli di frate Nicola 130. Ripatransone 133. Fonte Avellana 134 Umbria 136. Bevagna. Un giorno nell’Età di Mezzo 142. Panicale 144. Monteleone di Spoleto
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SVIZZERA FRANCIA
Cervinia
Etroubles Courmayer
Aosta
Chatillon Quart
Aymavilles
Nus
Introd
valle d’aosta
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Montjovet
Issogne Cogne
FRANCIA
Fenis
Verrès
Bard
PIEMONTE
lcuni tra gli abitanti originari della Valle d’Aosta si chiamavano Salassi, una popolazione di origine celtica che occupò la regione fino all’avvento dei Romani (25 a.C.). Alla fondazione di Augusta Praetoria Salassorum (l’odierna Aosta) fece seguito la nascita di piccoli centri come Quart, Châtillon, dove si conservano resti dell’età romana, il fundus Charvensod e Nus, sede di un castello che la leggenda vuole abbia ospitato il procuratore Ponzio Pilato. Questi insediamenti conobbero un certo sviluppo urbano solo nel Medioevo, quando i loro possenti castelli vigilavano su vie e valichi chiave per il traffico commerciale. Nel V e VI secolo la Valle d’Aosta subí l’invasione dei Burgundi, dei Longobardi e degli Ostrogoti; poi passò nelle mani dei Franchi (774) e dei Borgognoni (904). Poco dopo l’anno Mille si appropriò della regione il conte Umberto I Biancamano, capostipite della dinastia dei Savoia.
In alto Issogne, castello. La bottega di uno speziale, particolare di uno degli affreschi con scene di vita quotidiana che ornano le lunette del porticato affacciato sul cortile dell’edificio. Il ciclo pittorico fa parte del fastoso apparato decorativo voluto dal priore Giorgio di Challant, che tra il 1487 e il 1509 volle celebrare nell’edificio la grandezza della propria famiglia.
La Valle d’Aosta, comunque, mantenne una sostanziale indipendenza nei secoli in cui fu annessa alla Savoia, grazie alle concessioni di carte di franchigia alle comunità locali, che progressivamente diventavano sempre piú organizzate e numerose. Questa tendenza particolarista favorí lo sviluppo di fortezze a difesa di piccole porzioni di territorio e vide l’affermarsi di alcuni borghi di importanza strategica per loro ubicazione naturale, primo fra tutti Bard, il cui castello assunse il nome di inexpugnabile oppidum. Imponenti rocche segnarono la storia anche di Verrès, uno dei centri di potere della Valle d’Aosta nel XV secolo, e di Fenis, sul cui modello venne costruito nell’Ottocento il Museo del Borgo Medievale del Valentino, a Torino. Furono bastioni parimenti solidi, infine, i castelli di Aymavilles e Introd, località oggi nota come luogo di soggiorno estivo dei pontefici.
A sinistra il castello di Fenis. Fondata nel XIII sec. la fortezza ha assunto il suo aspetto attuale in seguito alle modifiche apportate dapprima con Aimone e poi con Bonifacio I di Challant, rispettivamente all’inizio e alla fine del XIV sec. A queste si sono aggiunte le ricostruzioni promosse durante il regime fascista, tra cui, in particolare, la reintegrazione della doppia cinta muraria, che ha avuto un esito suggestivo, ma filologicamente discutibile.
i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Aosta •AYMAVILLES: acquedotto romano e rocca medievale. •BARD: forte medievale e geosito archeologico. •CHÂTILLON (vedi box a p. 38). •ÉTROUBLES: torre del XII secolo e campanile romanico. •FENIS: rocca e chiesa dell’Età di Mezzo. •INTROD: maniero del XII secolo. •ISSOGNE: chiesa del X secolo e rocca medievale. •MONTJOVET: rocca di Chenal. •NUS: castelli di Nus e di Pilato. •QUART: necropoli di Vollein e fortezza del XII secolo. •VERRÈS (articolo alle pp. 34-41).
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Valle d’Aosta
verrès
la città delle donne di Francesco Colotta
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ell’Età di Mezzo esisteva un’importante arteria commerciale che univa il Nord Europa alla Pianura Padana: una strada impervia, per la quale, nei periodi climaticamente propizi, transitavano molti mercanti con il loro seguito di beni e veicoli di trasporto. La via, che collegava la Lombardia alla Svizzera, attraversava la valle laterale del fiume Evançon, nelle vicinanze di Verrès, un borgo chiave dal punto di vista strategico. In corrispondenza di quel piccolo abitato valdostano, nel Basso Medioevo, venne eretto un imponente e singolare castello che, nel corso dei secoli, assunse anche la fama di luogo sinistro. E in Valle d’Aosta si racconta ancora oggi che la rocca sia abitata dalla contessa Bianca Maria di Challant. La giovanissima nobile risedette davvero nella fortezza dal 1522 al 1525 prima di essere condannata a morte per un delitto che, però, non aveva commesso. Altri fantasmi e memorie di personaggi vivono in questo borgo, che ha avuto una storia quasi «femminista», vista l’importanza che le donne hanno rivestito nelle sue cronache. Prima fra tutte la nobile Caterina di Challant, che, nel XV secolo, conquistò la stima dei sudditi per i suoi atteggiamenti democratici e per il piglio da condottiera.
Un cuore antico
Un panorama selvaggio avvolge l’abitato di Verrès, che si presenta incastonato tra gli imponenti rilievi circostanti. Non siamo in pianura, ma a quasi 400 m di altezza sopra il livello del mare, a qualche decina di chilometri da Aosta. Nel luogo in cui ora sorge la cittadina, in un tempo remoto si insediò una popolazione misteriosa, i Salassi, che una tradizione valdostana fa discendere da Ercole. Si trattava, in realtà, di genti di origine ligure-gallica, in precedenza stanziate in un’imprecisata zona dell’Europa centrale. Verrès, però, ha radici soprattutto romane. La sua nascita risale con tutta probabilità all’età imperiale, intorno al 25 a.C., anno in cui i Romani cacciarono i Salassi dalla Valle d’Aosta, fondando Augusta Praetoria, la futura Aosta. Verrès all’epoca si chiamava Vitricium, come 34
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risulta dall’Itinerario antonino, che risale al III secolo d.C. L’etimologia del nome, secondo alcune ipotesi, deriverebbe dal latino vitrum, con riferimento a una florida industria del vetro che era presente in loco. Il nome, nei secoli seguenti, comparve sotto altre forme: Bitricium, in base a quanto scritto nella Cosmografia ravennate del VII secolo; Utricio nelle pagine della Tabula Peutingeriana, una carta geografica ante litteram, redatta nel XII secolo, ma che riproduce un originale risalente ai primi secoli dopo la nascita di Cristo.
Intorno a un monastero
L’antica Verrès aveva un ruolo di primo piano tra i possedimenti romani in Valle d’Aosta. Era una classica mansio, vale a dire una stazione di sosta che permetteva ai viaggiatori di soggiornarvi qualche giorno e approvvigionarsi. Il nome di uno dei suoi rioni cittadini, Martorey, evoca il periodo in cui la zona si cristianizzò, intorno al IV secolo. Il toponimo trarrebbe origine da un edificio religioso in cui erano conservati i resti di alcuni martiri. Altro luogo simbolo della devozione cristiana è il convento di Saint-Gilles, costruito nel X secolo, che divenne presto un importante centro di aggregazione anche per le comunità residenti nel circondario. Grazie alle donazioni dei fedeli e alla rilevanza politica attribuitagli dalla Chiesa di Roma, il convento contribuí non poco allo sviluppo della città. L’odierna struttura risale in gran parte al XVIII secolo ma conserva molti elementi originari dell’Età di Mezzo. Nei suoi locali, nel maggio 1880, si fermò per una notte Napoleone Bonaparte, all’epoca in cui era impegnato nella sua seconda campagna in Italia.
L’era dei De Verrecio
Molti potenti signori del Medioevo ambivano al controllo della città, a dimostrazione del prestigio e della ricchezza che Verrès aveva raggiunto. Nel XIII secolo la famiglia De Verrecio era la piú influente del borgo, ma anche i De Arnado e il prevosto del monastero di Saint-Gilles ambivano ai posti di comando. Dai documenti coevi risulta che fossero proprio i De Verrecio, di fatto,
Veduta di Verrès, dominata dalla mole poderosa del castello degli Challant, eretto alla fine del Trecento e completato e rimaneggiato nel XVI sec.
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itinerari In basso il castello di Verrès. Costruito su di un picco roccioso a strapiombo sul torrente Evançon che domina il borgo sottostante, la fortezza sfrutta le prerogative difensive e strategiche del sito, controllando sia l’imbocco della valle di Challand-Ayas, sia l’asse viario principale della regione.
Valle d’Aosta a governare: su loro iniziativa, nel 1312, i cittadini ottennero alcune libertà in materia di successione, oltre a una regolamentazione del sistema tributario e del codice penale. L’investimento nella pace sociale cittadina non garantí, però, un lungo periodo di stabile amministrazione alla famiglia locale dominante. Le tensioni stavano per esplodere. Nel 1333 i De Verrecio, che sognavano di strappare al rivale vescovo di Aosta il possesso del vicino castello di Issogne, passarono all’azione e la rocca, nonostante fosse stata irrobustita, subí danneggiamenti.
Contro la legge Salica
Alla metà del XIV secolo, con l’uscita di scena dei De Verrecio, Verrès ebbe nuovi padroni: prima il conte di Savoia Amedeo VI e, poco
IL CASTELLO La rocca di Verrès, a pianta quadrata, misura 30 m di lato, mentre le sue mura perimetrali misurano ben 2,50 m di spessore. La cinta muraria esterna fu fatta costruire da Renato di Challant nel XVI secolo per rendere adatto il castello all’uso di armi da fuoco. Agli albori dell’Età Moderna la rocca cadde nel piú totale degrado. Solo grazie all’architetto Alfredo D’Andrade (1839-1915), fu restaurata e finalmente restituita al suo medievale splendore.
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dopo, Ibleto di Challant. Quest’ultimo, che già possedeva Châtillon, Saint-Vincent, Montjovet e Challant, riuscí a mettere le mani in modo incruento sul contesissimo territorio di Issogne, trattando con il vescovo di Aosta. Ibleto provvide a ristrutturare il maniero di Issogne, ridotto in rovina, e ad avviare, nel contempo, la costruzione della rocca di Verrès, che fu ultimata nel 1390. La edificò seguendo criteri originali per l’epoca, con una struttura quadrangolare monoblocco, spartana, senza alcun elemento decorativo e priva anche di mura di cinta esterne. Ibleto morí nei primi anni del XV secolo proprio nel castello di Verrès lasciando i suoi beni e il controllo della città al figlio Francesco. Una nuova guerra, intanto, si profilava all’orizzonte a causa di una complessa situazione familiare che avrebbe reso ardua la gestione dell’eredità di Francesco, il giorno in cui questi fosse passato a miglior vita. Quando la dipartita si verificò, nel 1442, la città e i suoi possedimenti, per esplicita disposizione del de cuius (nel diritto successorio, espressione con la quale si indica il defunto, dalla frase latina de cuius hereditate agitur, «dell’eredità del quale si tratta», n.d.r.) vennero ereditati dalle figlie Caterina e Margherita, in spregio alla legge Salica, che non consentiva la successione a favore delle donne.
LA PREVOSTURA DI SAINT-GILLES La fondazione del monastero risale al X-XI secolo. Gli edifici principali e il campanile hanno origini rinascimentali, ma l’aspetto medievale di alcuni particolari è tuttora evidente. La parrocchia, invece, fu costruita nel XVIII secolo sulle rovine di una chiesa romana dell’Età di Mezzo. Oggi di quell’antica struttura sopravvive un campaniletto parzialmente nascosto.
In alto una veduta della prevostura di Saint-Gilles di Verrès, i cui canonici sono citati per la prima volta in un documento redatto verso il 1050. La prevostura possedette anche uno scrittorio e una scuola per la formazione del clero e, nel Basso Medioevo, grazie a privilegi e donazioni di autorità e fedeli divenne la piú importante istituzione religiosa della Valle d’Aosta. A destra uno dei saloni del castello di Verrès.
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Valle d’Aosta
CHÂTILLON
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olti borghi della Valle d’Aosta hanno rivestito un ruolo da protagonisti nella storia perché sorti accanto a vie commerciali o nel mezzo di valli militarmente strategiche, e, insieme a Verrès, Châtillon ne è uno degli esempi emblematici. Secondo alcune fonti documentali, nel Medioevo, la cittadina fu il centro piú importante della regione dopo la capitale Aosta. Chi vi transitava, per esempio, era obbligato a pagare un pedaggio e spesso decideva di fermarsi nelle accoglienti «strutture ricettive» dell’epoca. Già in età romana Châtillon era un luogo celebre in quanto posto sull’antica via consolare delle Gallie, di cui oggi resta ancora qualche traccia nel territorio del Comune: il ponte sul torrente Marmore e alcune strutture nei pressi del moderno castello Gamba. Nell’Età di Mezzo le sorti del borgo si legarono alla potente famiglia Challant, in particolar modo alla battagliera Caterina che, nel XV secolo, scelse una rocca della zona come sua residenza. Oggi il castello di
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Châtillon (detto anche di Passerin d’Entrèves) domina ancora la città dall’alto, ma nei secoli ha subito massicce ristrutturazioni, a causa dei molti assedi subiti. Il borgo era famoso durante il Medioevo anche per la sua industria di cannoni, probabilmente la prima della storia nel territorio che comprendeva la Valle d’Aosta e il Piemonte. Un ulteriore contributo all’economia locale veniva dall’attività estrattiva delle miniere di ferro di Ussel. Il centro storico di Châtillon conserva diverse abitazioni di pregio risalenti al Rinascimento, ma nel circondario si contano varie testimonianze riferibili al Medioevo, prima fra tutte la torre di Conoz, che alcuni documenti fanno ritenere sia stata costruita nel XIV secolo. La torre a pianta quadrata di Nèran, invece, sarebbe stata edificata ancor prima, nel XII secolo.
In basso la torre situata a nord del borgo di Conoz, una frazione di Châtillon. La costruzione potrebbe risalire al XIV sec.
Châtillon. Il castello Passerin d’Entrèves. Dopo essere passato tra le mani di diverse famiglie nobiliari, alla fine del XIV sec. divenne proprietà dei visconti di Aosta, in seguito divenuti signori di Challant.
Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.
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Inevitabile fu la contestazione dei discendenti maschi non diretti di Francesco, guidati dal cugino Giacomo di Challant Aymavilles e dal padre del defunto marito di Caterina, il conte di Monbreton, che strinse un’alleanza con il duca di Savoia. Le agguerrite figlie di Francesco non si fecero intimidire e costrinsero la possente coalizione rivale a ricorrere alla forza. Dopo un breve periodo, Margherita lasciò la sua parte di eredità alla sorella che, però, non rimase sola ad affrontare i nemici di famiglia e i Savoia. Caterina accanto a sé aveva un nuovo consorte, coraggioso e temprato alle battaglie: Pierre Sarriod, il signore di Introd.
Nella pagina accanto Verrès. prevostura di Saint-Gilles. Particolare degli affreschi che ornavano la cappella sepolcrale voluta da Ibleto di Challant. XV sec.
Senza paura per le strade della città
La guerra scoppiò su tutti i fronti, non solo su quello militare. Mentre i soldati del duca di Savoia sferravano un’offensiva, a Caterina furono sottratte le figlie, che vennero affidate al nonno paterno. La giovane ribelle si trovò accerchiata. Subí l’inevitabile confisca dei beni, ma non si arrese, confidando anche nel consenso popolare che riscuoteva, soprattutto a Verrès. Fece epoca il suo sprezzo del pericolo nel circolare liberamente per la città con la scorta di pochi armati. Era la mattina del 31 maggio 1450. Caterina aveva accettato l’invito a pranzo del locale prevosto nel monastero di Saint-Gilles. Vide, nella piazza antistante, la popolazione che festeggiava danzando e decise di unirsi ai balli senza dar peso alle differenze sociali. Il gesto fu molto apprezzato dai cittadini e tuttora viene rievocato ogni anno in occasione dello storico carnevale del borgo valdostano. Gli abitanti di Verrès volevano Caterina come governante e si schierarono al suo fianco contro le truppe del duca di Savoia. Grazie anche al massiccio contributo di altri volontari giunti dai dintorni, Caterina, asserragliata nel castello di Châtillon, resisteva. Concedendo privilegi ed esenzioni fiscali ai combattenti, motivò ancor di piú l’esercito popolare su cui poteva contare. I suoi sudditi da quel momento erano davvero pronti a tutto pur di difendere la loro signora, ma l’eroismo non bastò. Nel 1456 Pierre d’Introd perse la vita in battaglia e Caterina non volle piú continuare da sola l’impresa militare. Si arrese e cedette i suoi possedimenti al cugino Giacomo, con la benedizione dei Savoia. La vedova continuò, a ogni modo, a combattere, seppur solo a livello legale, per riavere le figlie con sé e riuscí infine a riabbracciarle. Dentro, però, covava il desiderio di riprendere con le armi i territori che aveva appena perduto. E ci riprovò, senza fortuna, dopo il suo terzo matrimonio. Nel 1465, proprio a Verrès, il suo esercito fu sconfitto ancora 40
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una volta. Secondo la tradizione, anche il suo fantasma, oltre a quello di Bianca di Challant, si aggirerebbe ancora oggi nei luoghi in cui visse, in particolare nella rocca di Châtillon.
Ricchezza e decadenza
Nonostante la sconfitta dell’amata Caterina, per la città iniziò un periodo di grande crescita economica, testimoniata dagli ampliamenti delle due costruzioni simbolo effettuati all’inizio del Cinquecento: il monastero e il castello. Saint-Gilles poté inaugurare nel 1512 la sua torre campanaria, oltre a un nuovo edificio. La rocca, invece, fu dotata di mura di cinta che la resero ancora piú difficile da espugnare. In quel periodo la popolazione viveva in perenne stato di allerta a causa della guerra che infuriava tra Francia e Spagna. I buoni rapporti con i Francesi evitarono un estendersi del conflitto in terra valdostana. Un secolo dopo la situazione economica mutò radicalmente, facendo precipitare Verrès in una grave crisi. I traffici commerciali erano diminuiti per cause naturali: i cambiamenti climatici avevano comportato l’espansione dei ghiacciai sui passi alpini e, nel contempo, si era diffusa una terribile epidemia di peste. La stessa natura, però, salvò quella zona della Valle d’Aosta dalla povertà: l’allevamento, l’agricoltura e, soprattutto, i giacimenti minerari favorirono la ripresa. In epoca contemporanea la città conobbe un periodo di notevole sviluppo industriale, con la nascita del cotonificio della società milanese Brambilla, fondato nel 1914, al quale seguí l’avvio di altre attività. La presenza di molte industrie fece temere ai Verrezziesi che la città potesse subire massicci bombardamenti nel corso della seconda guerra mondiale da parte dell’aviazione alleata. Il pericolo fu scongiurato e gli abitanti in segno di ringraziamento alla Provvidenza costruirono una grande croce sul mont Saint-Gilles, in modo che potesse per sempre vigilare dall’alto sul destino dei loro discendenti.
visite e appuntamenti MAV – MUSEO DELL’ARTIGIANATO VALDOSTANO DI TRADIZIONE Località Chez Sapin 86, Fénis (AO) Orario dal 1° ottobre al 31 marzo: ma-do, 10,00-17,00; dal 1° aprile al 30 settembre: ma-do, 10,00-18,00; chiuso dal 1° novembre al 30 marzo Info tel. 0165 763912; e-mail: info@mav.ao.it; www.mav.ao.it MUSEO DELLE ALPI
Forte di Bard, Bard (AO) Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0125 833811; www.fortedibard.it CARNEVALE STORICO DI VERRÈS Verrès (AO) Periodo carnevale Info tel. 333 1748905; e-mail: info@carnevaleverres.it; www.carnevaleverres.it
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SVIZZERA
Vogogna
Verbania Avigliana VALLE D ’ A O S T A Guardabosone
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Tanaro
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Saliceto
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Vercelli Oglianico Tic in Lanzo Torinese o Chiusa di Criè San Michele Rivoli Torino Po Avigliana Chieri Pecetto Alessandria Tortona Torinese Portacomaro Volpedo Carmagnola Asti Novi Cassine Alba Ligure Bra Saluzzo Acqui Terme Revello Cortemilia Barolo Ovada Serralunga Fossano d’Alba Roccaverano IA Cuneo UR Mondoví IG L IA
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a regione etimologicamente «ai piedi dei monti» fu abitata in età antica da un crogiolo di popolazioni di origine celtica: Liguri, Taurini, Graioceli e Bagienni, che convissero con altri gruppi provenienti dalla Gallia. Le difficili condizioni ambientali non consentirono un rapido sviluppo urbano, che fece registrare un’impennata soltanto nel periodo della dominazione romana, a partire dal II secolo a.C. Oltre all’attuale capoluogo della regione, l’allora Iulia Augusta Taurinorum (Torino), sorsero nella parte orientale Tortona, Asti, Alba e Acqui Terme, borghi destinati in un primo periodo ad assolvere alla funzione di campi militari. Nel 402 i Romani respinsero i Visigoti a Pollenzo, nell’odierna Bra, ma presto capitolarono di fronte ad altre truppe barbariche.
Con il tramonto dell’impero romano d’Occidente nella regione presero il sopravvento i Burgundi, gli Ostrogoti, i Bizantini e i Longobardi, sconfitti, poi, nell’VIII secolo da Carlo Magno, presso Chiusa di San Michele. Nel X secolo in Piemonte, finito sotto l’egida del regno italico, si diffuse il feudalesimo, con la conseguente ascesa di potenti piccole realtà locali come Chieri e Rivoli nella zona del Torinese. Qualche anno piú tardi cominciava a prendere forma uno dei borghi tuttora meglio conservati, il ricetto di Candelo, nel Biellese, un conglomerato di duecento edifici medievali che introduce un modello urbanistico che ritroviamo, per esempio, anche a Oglianico. In alcuni documenti comparivano con
A sinistra Cortemilia (Cuneo). La pieve di S. Maria, la cui prima attestazione risale al XIII sec. La fondazione del luogo di culto potrebbe tutavia essere piú antica. Nella pagina accanto Saliceto (Cuneo). Particolare delle decorazioni affrescate all’interno del castello dei Del Carretto.
frequenza i nomi di Volpedo, già dotato di un villaggio fortificato e Carmagnola, città di manzoniana memoria. Anche il Cuneese ebbe una vivace storia altomedievale e ne furono protagoniste le cittadine di Cortemilia, nota per i suoi caratteristici porticati antichi, la misteriosa Saliceto, Revello e Saluzzo, che nel XII secolo diventò marchesato. Altri piccoli borghi acquisirono celebrità perché attraversati dalla rotta del pellegrinaggio sulla via Francigena, come Roppolo, con il suo splendido castello. Nel XII secolo, con l’epoca dei Comuni, il localismo esplose nella sua forma piú compiuta, come testimoniato dall’adesione di diverse città piemontesi alla Lega Lombarda. Altre piú indifese realtà urbane, come la piccola Avigliana per esempio, riuscirono a tener testa alle mire centraliste del figlio di Federico Barbarossa, Enrico VI. Nel Duecento sulla regione dominavano i Savoia e nelle cronache conquistarono spazio centri come Pecetto Torinese e Lanzo Torinese, legati a doppio filo alla politica torinocentrica di quel periodo. Sofferto fu il destino del borgo di Ovada, situato al confine con la Liguria, che i Savoia riuscirono solo saltuariamente a strappare al controllo di Genova. La cittadina divenne in modo definitivo piemontese solo dopo l’età napoleonica. i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Alessandria •ACQUI TERME: castello medievale e chiese del X secolo. •CASSINE: chiesa gotica e palazzi quattrocenteschi. •OVADA: centro storico di struttura medievale. •TORTONA: resti di mura del I secolo a.C., chiese e palazzi antichi. •VOLPEDO: pieve romanica altomedievale. Provincia di Asti •ASTI (articolo alle pp. 44-51). •PORTACOMARO: ricetto del X-XI secolo. •ROCCAVERANO: torre duecentesca. Provincia di Biella •CANDELO (vedi box alle pp. 48-49). •MAGNANO: ricetto medievale. •ROPPOLO: chiesa romanica di S. Michele del XII secolo. Provincia di Cuneo •ALBA: torri e chiese medievali. •BAROLO: castello risalente al X secolo. •CORTEMILIA: centro storico con numerosi monumenti dell’Età di Mezzo. •REVELLO: chiese medievali e
ruderi di un’antica rocca. •SALICETO: castello del XII secolo. •SALUZZO: residenza fortificata (Castiglia) e chiese medievali. •SERRALUNGA D’ALBA: castello del XIV secolo. Provincia di Novara •ORTA SAN GIULIO: basilica e castello del XII secolo. Provincia di Torino •AVIGLIANA: rovine del castello (X sec.) e chiesa romanicogotica. •CARMAGNOLA: castello e collegiata medievali. •CHIERI: duomo del V secolo e altre chiese antiche. •CHIUSA SAN MICHELE: resti di mura longobarde. •LANZO TORINESE: torre duecentesca e ponte trecentesco. •OGLIANICO (vedi box a p. 50). •PECETTO TORINESE: chiesa duecentesca. •RIVOLI: castello medievale e casa del Conte Verde (XIV secolo). Provincia di Verbano-Cusio-Ossola •VOGOGNA: castello e palazzi medievali. Provincia di Vercelli •GUARDABOSONE: centro storico ricostruito nell’aspetto medievale originario.
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Piemonte
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famiglie in lotta di Luisa Castellani
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el suo Memoriale, il cronista astigiano Guglielmo Ventura antepose al racconto dei primi episodi di lotta cittadini la registrazione di un fatto raro: un’eclissi parziale che oscurò il sole e che una folla di uomini aveva osservato, riflessa in un ampio bacile, dalla piazza dei Guttuari in Asti. «Dopo ciò – aggiunse – vi fu grande discordia tra i Solaro da una parte e i Guttuari e i loro seguaci dall’altra». Era il 1271. Di lí a poco un altro evento straordinario, l’apparizione di una stella cometa, avrebbe preannunciato nuove disgrazie. Eppure fino ad allora la vita cittadina era stata calma: agli occhi del cronista, infatti, la rottura dell’equilibrio politico pareva tanto inu-
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A sinistra mappa della città di Asti dal Theatrum statuum regiae celsitudinis Sabaudiae ducis, Pedemontii principis, Cypri regis di Joan Blaeu, stampato ad Amsterdam nel 1682. In basso lo stemma dei guelfi Solaro, l’antica casata che fu protagonista della storia di Asti tra XIII e XIV sec. Nella pagina accanto la torre dei Comentini. Alta poco meno di 40 m, è una delle uniche due torri astigiane rimaste integre dalla loro costruzione, che risale al XIII sec. Il palazzo sottostante è invece una costruzione neogotica del XIX sec.
suale quanto il verificarsi di un’eclissi o la comparsa nei cieli di una cometa. In quegli anni, il Piemonte centro-meridionale conosceva la conquista angioina e Asti, sorretta da un governo stabile, aveva potuto svolgere un importante ruolo di antagonista. Il Comune, tuttavia, fu progressivamente abbandonato dai suoi alleati e, nel dicembre del 1269, si risolse a firmare un armistizio triennale con Carlo I d’Angiò.
Dalle parole alle sassate
Fu proprio la tregua, e in particolare l’avvicinarsi del pagamento di una rata di mille fiorini d’oro, a scatenare una violenta lite durante una seduta del consiglio comunale tra i guelfi Solaro, sostenitori di Carlo d’Angiò e della tregua stessa, e la parte ghibellina, guidata dalla famiglia Guttuari. Quella mattina del 1271, la «credenza» astigiana si trovava riunita come di consueto sulle volte del duomo, ma una discussione degenerò fino al ferimento a sassate di Robaldo Catena, genero di Ruffino Guttuari, da parte dei fratelli Francesco e Bonifacio Solaro. All’episodio seguí una vera e propria organizzazione delle parti: le principali famiglie ghi-
belline si strinsero in una società detta «Becchincenere» da un tipo di coltello rostrato. I Solaro, dal canto loro, non si fecero intimorire: raggiunsero Robaldo Catena oltralpe, in uno dei banchi di pegno di famiglia in cui aveva cercato rifugio, e lo uccisero. La faida andò avanti per mesi, con tanto di battaglia campale nella piazza di San Secondo, cuore economico della città. Tuttavia, confrontati alle lotte civili che negli stessi anni sconvolgevano altre importanti realtà comunali, quali Bologna, Firenze e Perugia, gli episodi astigiani hanno piú l’aspetto di tafferugli che non di vere e proprie guerre.
I popolari al governo
A limitare la portata delle violenze tra i due gruppi magnatizi dei Solaro e dei Guttuari fu infatti una forza interna al governo: il Popolo. L’immissione di populares nelle cariche istituzionali del Comune era avvenuta per gradi, da quando, verso gli anni Venti del Duecento, si erano andate affermando le prime organizzazioni di Popolo su base rionale: le società d’armi che prendevano nome dal quartiere d’origine. Verso gli anni Settanta del Duecento i populares, attraverso la partecipazione politica delle il medioevo nascosto
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Piemonte
Società, ottennero alcune cariche rappresentative (ambasciatori, sindaci e sapienti), nominarono un proprio capitano (il primo fu il genovese Oberto Spinola, nel 1273) e riuscirono a imporre alcuni provvedimenti tipicamente anti-magnatizi, quale il divieto di portare armi in città. L’azione del Popolo si fece sentire nella politica di controllo sul contado astigiano – dove furono frenati i continui tentativi da parte dei gruppi magnatizi cittadini di costituire nuclei signorili autonomi – e nella riorganizzazione del sistema fiscale. In questo senso, le linee politiche non si discostavano dalle strategie attuate ovunque il Popolo partecipasse alla conduzione del governo.
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titolo
La torre a pianta quadrata fatta innalzare dalla famiglia dei Guttuari. L’altezza attuale dell’edificio è inferiore a quella originaria, per via dell’abbassamento imposto verosimilmente nel XVI sec. Anche la terminazione, con la terrazza merlata, è frutto di rimaneggiamenti e restauri eseguiti in età moderna.
Tuttavia, il ruolo piú significativo e originale avuto dal Popolo in Asti, fu quello di «bilanciere» tra le due fazioni magnatizie. Per circa un quarto di secolo esso agí in modo da impedire che l’una prevalesse sull’altra e imponesse la propria egemonia, prestando un fondamentale ruolo di mediatore tra le parti. Quando, negli anni Settanta del Duecento, i ghibellini Guttuari sembrarono sul punto di instaurare una signoria, gli avversari Solaro poterono contrastarla con il sostegno del Popolo.
Qualità morali e ricchezza materiale
Nel decennio successivo, l’equilibrio raggiunto tra le parti e tra magnati e Popolo determinò un clima di collaborazione vivace e proficua, di cui i contemporanei erano ben coscienti. Il cronista Ogerio Alfieri, illustre rappresentante di una grande famiglia dell’aristocrazia urbana, commentava cosí: «La città di Asti è ricca di cittadini sapienti e nobili, agiati e potenti. Inoltre Asti è ricca di un Popolo sapiente, buono e danaroso». Le qualità morali (sapiente, buono) si coniugavano allora con la ricchezza materiale. Tuttavia, il ruolo di interlocutore avuto dal Popolo durò finché durarono le condizioni esterne di pace e le necessità interne di consolidamento del territorio e delle alleanze. Poi, la difficile triangolazione tra le due fazioni, cariche di tensioni, e il Popolo fallí. I magnati sperimentarono formule di coesione nuove, che spiazzarono e indebolirono il Popolo: essi si riunirono in gruppi familiari allargati, detti hospicia (vedi box alla pagina accanto). I primi a dare vita a questo genere di parentela, nel 1296, furono i Solaro (hospicium de Solario), i quali contavano su oltre una cinquantina di uomini adulti con lo stesso cognome. Ai Solaro si affiancarono altre due famiglie astigiane, i Cazo e i Mignano, con le quali vi erano stabili rapporti economico-societari che risalivano al principio del XIII secolo. Qualche tempo dopo (1298) anche i Guttuari – sciolta l’antica società dei Becchincenere – si aggregarono agli Isnardi, loro soci in affari fin dal 1266, dando luogo allo hospicium de Castello. Di lí a poco introdussero nel potente consortile anche l’antica famiglia aristocratica dei Turco. I due maggiori hospicia cittadini, sebbene accomunati dall’esercizio su ampia scala di attività di prestito, avevano stili di vita e comportamenti politici diversi. I Solaro avevano una mentalità profondamente urbanocentrica: erano grandi possessori di castelli, ma privilegiarono sempre le dimore cittadine. Qui potevano controllare meglio le botteghe, i banchi di cambio e di prestito, l’attività politica. Anche quando furono esiliati, nel maggio 1303, i Solaro non si rifugiarono nei loro castelli in campagna, ma
Qui sotto la parte sommitale della torre Troiana, unica struttura superstite del palazzo dei Troja, uno dei complessi medievali piú importanti della città. A destra, in basso la torre De Regibus, la cui costruzione è da ricondurre alla fine del XIII sec. In origine era alta poco meno di 40 m e terminava con una terrazza merlata.
preferirono trovare accoglienza nei vicini Comuni di Alba, Chieri e Villanova. Benché fossero ricchissimi, essi non eguagliarono mai lo stile di vita principesco degli avversari De Castello. Al contrario, i De Castello avevano modi da parvenu, rilevati dagli stessi contemporanei. I loro palazzi erano i piú sontuosi di Asti, la torre dei Guttuari – abbattuta durante i tumulti del 1304 – svettava alta e bella sopra tutte, e l’intero hospicium ostentava oro, argento, cavalli e armi come nessun altro in città. E poi, le donne dei Guttuari erano note per l’avvenenza e lo sfarzo dei loro abiti. I De Castello non mostrarono interesse ad allacciare rapporti con i Comuni vicini: il loro raggio d’azione politico era piú vasto. Furono podestà a Pavia e a Milano; ebbero strette relazioni d’affari con Genova e con diverse località della Borgogna, della Lorena, e dei Paesi Bassi. Dal punto di vista politico, essi preferirono collegarsi ai maggiori principi piemontesi, i marchesi di Monferrato e di Sa-
luzzo – e talvolta Filippo d’Acaia –, dei quali imitavano le abitudini. Quando furono banditi da Asti, Guttuari, Isnardi e Turco si rifugiarono nei loro castelli, affiancando alle attività militari missioni diplomatiche e comportamenti convivial-cortesi. Tuttavia, a distinguerne lo stile di vita da quello dei marchesi era l’oculata gestione del denaro, che affluiva copioso dai loro banchi di pegno disseminati in Europa.
Quasi una gens
Vi furono lunghi periodi, precedenti e successivi le cacciate dell’una o dell’altra fazione, in cui in Asti era tutto un sorgere di costruzioni fortificate. I Solaro avevano due principali nuclei abitativi: il piú antico era detto Canetum e sorgeva tra le attuali via Carducci e via Hope, sulla direttrice tra la chiesa di S. Secondo e il castello vescovile. Un altro era detto de Sancto Martino, ed era nelle vicinanze dell’omonima chiesetta, forse sul sito dell’attuale palazzo Ottolenghi. Vi
parentele artificiali Fino alla metà del XIII secolo, in Piemonte il termine hospicium era diffuso tra le famiglie dell’aristocrazia rurale, a indicare una parentela sia biologica, sia basata sulla comune proprietà di un bene. Successivamente, il termine si diffuse in ambito urbano per definire una parentela artificiale connotata dallo stile di vita aristocratico. La caratteristica saliente dello hospicium astigiano è che alla base dell’unione di due o piú famiglie non vi era la proprietà di un bene comune (come per i consortili di torre lucchesi o per gli alberghi genovesi), bensí la compartecipazione a società finanziarie e la scelta politica. Dunque i casati appartenenti a uno stesso hospicium non vivevano in case adiacenti, né condividevano beni e diritti signorili nel contado, ma i loro membri lavoravano fianco a fianco nelle casane di famiglia e sedevano vicini nei consigli comunali.
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era anche un altro nucleo, piú ridotto, che condivideva con l’antico monastero femminile di S. Anastasio un grande isolato affacciato sulla via Maestra (ora corso Alfieri) e di cui rimane ancora una torre. Le abitazioni dei Solaro distavano poche centinaia di metri l’una dall’altra, e, nel complesso, si estendevano su una superficie molto vasta. Sicuramente si trattava del gruppo patriarcale piú grande di Asti e tra i piú grandi del Piemonte coevo, cosí numeroso da essere paragonato, un secolo dopo, alla gens Fabia dell’antica Roma. Gli agglomerati abitativi dei Solaro erano fortificati e ben difesi, in particolare il Canetum, che doveva probabilmente il nome a una sorta di originaria palizzata difensiva. Tuttavia, tale era stata la furia devastatrice degli avversari politici, che il palazzo di Leonardo Solaro, caput hospicii all’inizio del Trecento, fu incendiato e raso al suolo nel 1303; al suo rientro in Asti, dopo l’esilio, Leonardo Solaro occupò il vicino palazzo dei di Montiglio.
L’occupazione del Castelvecchio
Se i Solaro potevano contare da tempo su una serie di palazzi sufficientemente muniti e vicini tra loro, i Guttuari e i loro consorti Isnardi non disponevano, sino alla fine del Duecento, di un polo abitativo altrettanto difendibile. Tuttavia, tra la primavera e l’estate del 1297, approfittando di uno dei lunghi soggiorni del vescovo nel contado, essi ne occuparono la residenza cittadina – il Castelvecchio – e la dotarono di vallo e fossato. Il Castelvecchio era la piú antica fortezza urbana, sorta sulle rovine del castrum romano, nel settore settentrionale di Asti, a pochi isolati di distanza dalle caseforti dei Solaro. I De Castello (proprio dal castello
il RICETTO DI CANDELO Un borgo irreale di appena duecento abitazioni contadine, tutte di origine medievale, un capolavoro della storia e un miracolo di sopravvivenza architettonica. Il ricetto (dal latino receptum, ritiro, rifugio) di Candelo, piccolo paese della provincia di Biella, appare ancora come una tipica struttura fortificata del XIII-XIV secolo che serviva alla conservazione di riserve di vettovaglie per i signori locali e solo in casi estremi poteva essere utilizzato come rifugio contro gli attacchi dei nemici. Costituiva di certo un ottimo nascondiglio, ma non era in grado di resistere a lungo a eventuali assalti militari per l’estrema fragilità delle costruzioni. Nei secoli sono stati apportati pochi rimaneggiamenti alle case, alle splendide mura difensive costruite con semplici ciottoli di torrente e anche alle strettissime stradine interne, le cosiddette rue. Secondo alcuni recenti studi di università straniere, il ricetto di Candelo è uno dei borghi medievali meglio conservati d’Europa. Situato nel Comune omonimo, occupa una superficie di 13 000 mq, ha un perimetro di circa 500 m. Quasi tutti gli edifici sono a due piani tranne il palazzo del principe che risale alla fine del Quattrocento e fu voluto dal feudatario Sebastiano Ferrero.
la cinta muraria è realizzata in ciottoli a spina di pesce e racchiude l’intero complesso. È interrotta solo nel lato sud dal Palazzo Comunale, edificato agli inizi del XIX sec.
In basso la casa del principe nel ricetto di Candelo, sorta nel 1496 per volere di Sebastiano Ferrero.
le torri sorgono agli angoli del ricetto. Originariamente erano aperte all’interno, per rendere piú agevoli le operazioni di difesa. Due di esse presentano dimensioni e forme differenti: la piú antica è quella piú alta, utilizzata nel Cinquecento come prigione.
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A sinistra e in basso esempi di strutture abitative presenti nel ricetto di Candelo.
In basso, sulle due pagine disegno ricostruttivo del ricetto di Candelo.
le strade, dette rue, sono realizzate con ciottoli di torrente, come le mura di cinta, e hanno una leggera pendenza da sud verso nord, per consentire all’acqua di superficie di defluire verso la torre di cortina.
la casa del principe
gli isolati si affacciano sulle rue e sono composti da numerose «cellule» edilizie, di dimensione e forma sostanzialmente uguali. Ciascuna di esse si articola su due piani: uno inferiore, dotato di portone e utilizzato per gli animali, e uno superiore, a cui si accedeva tramite una lobbia – balconcino in legno raggiungibile con una scala volante –, nel quale erano conservati il fieno e i prodotti agricoli. In caso di pericolo qui si stipava anche la famiglia. Ogni cellula, priva di scale fisse, camino, servizi igienici o altro era separata da quella corrispondente sul lato opposto dell’isolato da un’intercapedine (rettana).
s’incontra appena superato l’ingresso del ricetto, di cui è l’edificio piú imponente. Si tratta dell’abitazione che si fece costruire nel 1496 Sebastiano Ferrero, dopo avere ottenuto il feudo di Candelo dal duca Filippo di Savoia. Ferrero, a un certo punto, pretese la piena proprietà del ricetto, ma si scontrò con l’ostinata opposizione dei Candelesi, che si appellarono al duca e vinsero la causa.
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OGLIANICO
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ella seconda metà del Trecento, per difendersi dalle frequenti razzie di uomini armati e dalle aggressioni di popolazioni vicine, gli abitanti di Oglianico costruirono un ricetto, struttura urbanistica particolarmente diffusa nel Canavese, destinata al ricovero dei raccolti e degli animali e necessaria soprattutto quando il borgo era privo di mura e posto in una zona pianeggiante. A Oglianico il ricetto, a pianta quadrata, fu edificato a sud-est del borgo fino a inglobare anche la cappella campestre di S. Evasio. Sul lato est il torrente Levesa forniva una difesa naturale; il resto era protetto da una cinta muraria e da un fossato che all’occorrenza poteva essere chiuso. Al ricetto si accedeva attraverso la torre-porta, tipico esempio di torre medievale a tre lati con il quarto aperto verso l’interno, dotata di ponte levatoio. La torre, di quattro piani, fungeva anche da punto di avvistamento, sul quale montavano la guardia in coppia gli uomini di Oglianico. Dentro le mura, l’organizzazione dello spazio era
rigidamente regolata dalla funzione di stoccaggio e conservazione dei beni e dei raccolti. La strada principale, in asse con la porta d’accesso e orientata come un decumano (est-ovest), doveva essere larga abbastanza da consentire il passaggio contemporaneo di due carri nelle opposte direzioni e collegava il doppio anello di strade secondarie, delle quali una delimitava i due isolati centrali e l’altra, detta «di lizza», seguiva il perimetro delle mura. Le costruzioni erano all’insegna dell’essenzialità. Si componevano di un piano terreno o seminterrato e di un piano rialzato, collegati da una scala esterna; molte erano dotate di un piccolo balcone in legno per l’essiccazione dei cereali. Nel corso dei secoli, venuta meno l’esigenza difensiva, la struttura del ricetto è stata completamente inglobata nel borgo e le cellule edilizie trasformate in abitazioni. Tuttavia, il nucleo centrale attraversato dal decumano è conservato intatto. Molte case di Oglianico sono decorate da affreschi esterni di carattere devozionale, arricchiti da stemmi riferibili a vari personaggi di casa Savoia. Questo perché il borgo, sin dal Trecento, fu legato alla dinastia sabauda e a essa rimase sempre fedele, a dispetto di guerre, sequestri, prigionie e contenziosi di ogni genere avuti soprattutto con la vicina Favria, fedele ai Monferrato. Una «scelta di campo» che valse a Oglianico una privilegiata autonomia e il sostegno del castellano sabaudo di Rivarolo. Le fonti ci informano che, almeno fino al 1329, S. Evasio era una cappella
In alto particolare di un affresco che orna l’esterno di una casa in via Roma, raffigurante la Madonna con il Bambino, san Giovanni Evangelista e il beato Amedeo di Savoia. Il borgo del Torinese mantenne sempre uno stretto legame di fedeltà con la dinastia sabauda. A sinistra la torre-porta che dà accesso al ricetto di Oglianico.
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campestre, a breve distanza dal borgo; poco piú tardi, come abbiamo visto, finí incorporata nel ricetto e divenne parte di una cellula edilizia. Acquisita e recuperata dall’amministrazione comunale, la piccola chiesa custodisce al suo interno una parte importante delle testimonianze pittoriche offerte da Oglianico. Si tratta di un piccolo ciclo affrescato databile alla prima metà del Quattrocento, che ha come tema la raffigurazione degli Apostoli sovrastati dal Cristo in Maestà circondato dai simboli degli Evangelisti. È un’iconografia frequente nelle decorazioni absidali del periodo, che qui è arricchita dalla scena della Crocifissione con la Vergine e San Giovanni. Altra peculiarità è rappresentata dall’inserimento di due figure grottesche che fungono da capitello dell’arco absidale. In un tratto lacunoso dell’affresco si può intravedere una traccia pittorica di epoca precedente, probabilmente trecentesca, nella quale sembra di riconoscere vesti dai bordi ondulati, forse riferibili a figure di Apostoli. L’affresco quattrocentesco è stato attribuito con qualche probabilità alla bottega di Giacomino da Ivrea, molto attiva nel Canavese; solo un futuro e auspicabile restauro, però, sarà in grado di fare chiarezza sulla effettiva paternità dell’opera. Nicoletta Zullino
Asti, cattedrale dell’Assunta. Particolare dell’ingresso fatto costruire dalla famiglia Pelletta nella prima metà del XIV sec. Si tratta di una pregevole opera con sculture e bassorilievi di gusto francese e colonnine in cotto e arenaria che sorreggono la struttura a doppio arco (il primo a sesto acuto e il secondo carenato, posto al di sopra del primo). Al termine delle colonne, vi sono statue di santi (Gerolamo, Pietro, Paolo) e di un santo vescovo (Bruningo?). Tra i due archi, è l’immagine della Vergine. vescovile presero il «cognomen» dell’hospicium) non abitavano dentro la fortezza, ma vi si rifugiavano in caso di pericolo.
La restituzione dei gioielli
Benché l’hospicium avesse tentato di rendere inespugnabile il castello del vescovo, nel 1304 i Solaro e i loro seguaci lo misero a ferro e fuoco, costringendo gli occupanti alla resa. Poi lo saccheggiarono. Molti beni preziosi andarono perduti, distrutti o venduti. Tuttavia qualcuno fu piú fortunato, come quella domina Beatrice Guttuari che cinque anni dopo, in occasione di una pace tra guelfi e ghibellini, riuscí a farsi restituire dalle magistrature comunali «vesti di diversi colori e alcuni gioielli di perle e ambre». Del caos che regnò in Asti tra la fine del Duecento e il primo decennio del Trecento rimangono testimonianze di febbrili costruzioni di roccaforti e di assalti distruttivi, di porte cittadine sfondate dai fuoriusciti e di corse affannose verso il Castelvecchio o le abitazioni del Canetum. Non a caso il racconto dei disordini viene associato ancora una volta dal cronista Ventura alla rivolta dell’ordine naturale: «Avvenne il miracolo nei quattro elementi: (...) l’aria rimase ottenebrata e fosca; l’acqua cadeva dal cielo quasi di continuo (...); il fuoco distrusse tutte le loro sostanze; la terra rimase sterile e improduttiva».
visite e appuntamenti CRIPTA E MUSEO DI SANT’ANASTASIO Asti, Corso Alfieri, 365/a Orario da novembre-marzo: ma-do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; da aprile a ottobre: ma-do, 10,00-13,00 e 16,00-19,00 Info tel. 0141 437454; www.comune.asti.it MUSEO CIVICO DI STORIA NATURALE Carmagnola (TO), Parco Cascina Vigna, via San Francesco di Sales, 188
Orario ma-me, 9,00-12,30; gio, 9,00-12,30 e 15,00-18,00; sa-do, 15,00-18,00 Info tel. 011 9724390; www.storianaturale.org MUSEO DEL VINO Barolo (CN), Castello comunale Falletti di Barolo, piazza Falletti, 1 Orario tutti i giorni, 10,30-19,00; chiusura invernale Info tel. 0173 386697; e-mail: info@wimubarolo.it; www.wimubarolo.it
FESTA MEDIEVALE Cassine (AL) Periodo settembre Info tel. 0144 714230; e-mail: info@festamedioevale.it ; www.festamedioevale.it MORTORIO-PASSIONE E MORTE DI GESÚ CRISTO Garessio (CN) Periodo Pasqua Info tel. 0174 803145; e-mail: infoturismo@garessio.net; www.garessio.net/infoturismo/mortorio.htm
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SVIZZERA
Bormio Chiavenna Novate Mezzola Meraggio
Castiglione Olona
Varese
Castelseprio
TRENTINO ALTO ADIGE
Trento
Varenna
Gromo
Lecco Camerata Clusone Cornello
Lasnigo
Como
Gardone V. Trompia
Bergamo
Monza Fara Chiari Gera Novara Milano d’Adda Truccazzano Soncino Morimondo Pizzighettone
Pavia
Tremosine
Rogno
Gargnano
Brescia
Sirmione
VENETO
Verona Leno
Cremona
Monzambano
Mantova
Meda
Voghera
Alessandria
lombardia
PIEMONTE
Fortunago
Piacenza EMILIA-ROMAGNA
Zavattarello Varzi
Parma
Reggio nell’Emilia Modena
S
toria e leggenda si alternano nel definire il profilo della Lombardia nel corso dell’antichità. La presenza degli Etruschi fu cronaca reale, mentre la presunta impronta gallica nella fondazione di Milano sembra piuttosto il frutto di una tradizione popolare, riportata da Tito Livio. I Galli, a ogni modo, abitarono la regione intorno al IV secolo a.C. e presto dovettero sottomettersi a Roma. Piccoli insediamenti erano già popolati in quell’epoca, accanto alle antiche Milano, Bergamo, Brescia e Mantova: Fortunago, il cui nome deriverebbe da un suffisso celtico; Voghera, che divenne municipio; il castrum di Sabbioneta; la bella Sirmione, citata da Catullo; e Clusone, oggi nota per il misterioso orologio planetario che svetta nella torre del palazzo comunale. Nel territorio dell’odierno Bergamasco esistevano in epoca romana un gruppo di centri minerari riuniti sotto la denominazione di pagus Brembanum che comprendeva insediamenti nelle zone di San Giovanni Bianco e Lenna. Dopo il crollo dell’impero romano la Lombardia subí per un lungo periodo il dominio dei Longobardi, a partire dal VI secolo. La caratteristica divisione in fare (gruppi omogenei di famiglie) della loro popolazione permise lo sviluppo di autonomie urbane: a testimoniare quella tendenza localistica è il nome del borgo di Fara Gera d’Adda, nel quale si possono ammirare i resti di una basilica del VI secolo. Altri luoghi meno noti che presentano segni della dominazione longobarda sono Castelseprio, rinomata soprattutto per il suo parco archeologico, Castiglione Olona e Rogno. Nell’VIII secolo ebbe inizio la dominazione dei Franchi e, con essa, l’età del feudalesimo che nel Basso Medioevo – come nel resto d’Europa – fu soppiantata dalla nascita dei Comuni. Nel XII secolo la fondazione della Lega Lombarda e la rivolta di alcune autonomie cittadine contro i nuovi padroni del Nord Italia – gli imperatori germanici – coinvolse nella lotta politica anche centri poco popolosi situati sul lago di
Como: Varenna e Tremezzo si schierarono dalla parte dei ribelli, con Milano, insieme ad altri borghi della zona come Lasnigo. Nutrita era anche la lista delle cittadine che non aderirono all’alleanza, la cremonese Soncino, per esempio, acerrima rivale di Milano e Brescia. Alla fine del Medioevo in Lombardia si avvicendarono le signorie (i Gonzaga, gli Sforza e i Visconti), poi i Francesi e gli Spagnoli. Seguí un destino diverso, invece, la parte orientale della regione, che nel Quattrocento finí sotto l’influenza di Venezia. Gromo, uno dei centri piú floridi del Bergamasco, divenne una delle industrie d’armi di riferimento per la repubblica dei dogi. Altro piccolo borgo molto operoso dal punto di vista economico nel Basso Medioevo fu Cornello dei Tasso, frazione dell’odierno Comune di Camerata Cornello, grazie alla sua attività di spedizione della corrispondenza della quale si servirono in quel periodo le piú grandi potenze europee.
Clusone (Bergamo), Oratorio dei Disciplini. Particolare di uno degli affreschi che ornano l’esterno dell’edificio, raffigurante una danza macabra (a sinistra). Le pitture si devono al pittore clusonese Giacomo Borlone de Buschis, che le realizzò nel 1485. In basso una veduta dell’oratorio, edificio di origine medievale che sorse di fronte alla basilica di S.Maria Assunta, voluto dalla confraternita dei Disciplini come sede del proprio ordine.
i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Bergamo •CLUSONE: torre medievale con orologio astronomico cinquecentesco, palazzo del Comune (XIV sec.). •CORNELLO DEI TASSO (CAMERATA CORNELLO) (vedi box a p. 57). •FARA GERA D’ADDA: basilica Autarena del VI sec. •GROMO: rocche medievali, chiesa parrocchiale del XIV sec. •ROGNO: resti di mura medievali. Provincia di Brescia •SIRMIONE: rocca scaligera (XIII sec.). •TIGNALE: santuario della Madonna di Montecastello (XIII sec.). Provincia di Como •LASNIGO: chiesa romanica di S. Alessandro. Provincia di Cremona •PIZZIGHETTONE: resti di mura bastionate (XI sec.). •SONCINO (articolo alle pp. 54-61).
Provincia di Lecco •VARENNA: castello di Vezio (XI sec.) Provincia di Mantova •CASTELLARO LAGUSELLO (MONZAMBANO): rocca dell’XI sec. Provincia di Milano •CORNELIANO BERTARIO (TRUCCAZZANO): castello Borromeo (XIV sec.). •MORIMONDO: abbazia cistercense del XII sec. Provincia di Pavia •FORTUNAGO: chiesa parrocchiale medievale ricostruita nel Cinquecento. •VARZI: torre di Porta Sottana (XIII sec.). •VOGHERA: castello visconteo del XIV sec. •ZAVATTARELLO: rocca del X sec. Provincia di Varese •CASTELSEPRIO: parco archeologico. •CASTIGLIONE OLONA (vedi box a p. 60).
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soncino
tra l’acqua e i mattoni di Alberto Di Santo
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zzelino III da Romano, grande «signore del male» nell’Italia del Duecento, Leonardo da Vinci e Marianna de Leyva, in arte «suor Gertrude» (la Monaca di Monza), sono solo alcuni dei numerosi personaggi storici che, nell’arco di quasi mille anni, hanno percorso le strade medievali di Soncino, un borgo situato 35 km a nord di Cremona. Cir-
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condata da un oceano di campi che si perdono all’orizzonte, questa località attira da sempre il visitatore per il gran numero di testimonianze storiche e artistiche, suggestivamente intrecciate alle antiche leggende nate da quel reticolo di vie strette, di canali sotterranei, di gallerie buie e ancora inesplorate in cui gli antichi soncinesi trascorsero parte della loro esistenza.
In basso, sulle due pagine la Rocca Sforzesca, costruita per volere degli Sforza, signori di Milano, a partire dall’anno 1473, su progetto dell’architetto Bartolomeo Gadio, con funzione esclusivamente militare. Due sale delle torri gemelle sono oggi adibite a Museo Archeologico e Storico.
Il nostro racconto non può che cominciare dall’Oglio, il corso d’acqua che per secoli rappresentò il confine naturale tra città, feudi e signorie dell’Italia settentrionale. La parte antica di Soncino, edificata su una piattaforma argillosa a forma di mezzaluna a circa 80 m sul livello del mare, sorge infatti a poca distanza dalla sponda destra del fiume. Le prime testimonianze documentarie risalgono al X secolo, quando l’originario abitato fu trasformato in castrum nel tentativo di arginare l’azione offensiva degli Ungari. Forse proprio da quel momento, scoperta e riconosciuta la sua funzione di baluardo militare di altissimo valore strategico, Soncino divenne teatro di continui scontri campali, di assedi e battaglie sanguinose, terminate, si può dire, soltanto nel 1859, quando l’ultimo soldato austriaco abbandonò per sem-
pre il borgo. Il visitatore in procinto di giungere a Soncino viene accolto, alla stregua di un antico viaggiatore, dalla stupenda cerchia muraria realizzata interamente in laterizio, che si dispiega per 2 km circondando quasi completamente l’abitato. Rinforzata da alcuni torrioni semicircolari e, nel lato occidentale, dalla grandiosa Rocca Sforzesca, risale alla metà del XV secolo, ricalcando quasi sicuramente il tracciato delle mura di epoca precedente.
Un documento prezioso
Di esse abbiamo notizia da una cosiddetta «carta di franchigia», un documento datato al 1118 con il quale il Comune di Cremona trasformò Soncino in borgo franco dopo averlo riscattato dal controllo della potente famiglia dei Giselberti. Sulla base del prezioso contratto, che ha
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l'arca perduta Tra le leggende che aleggiano sul borgo di Soncino, una delle piú famose riguarda la scomparsa di Ezzelino III da Romano. In risposta a una politica assai spregiudicata, i suoi nemici, coadiuvati dal papa, bandirono contro di lui due crociate, riuscendo a sconfiggerlo nel 1259, presso Cassano d’Adda. Ferito alla gamba destra e poi alla testa, Ezzelino venne fatto prigioniero e condotto nel castello di Soncino. Dopo alcuni giorni di agonia moriva per le ferite riportate. La tradizione ha sempre insistito sulla sepoltura di Ezzelino in un’arca situata presso l’antico palazzo del Comune. Ai primi del Novecento, forti di questa suggestione, alcuni ragazzi del borgo si imbatterono in una galleria sotterranea che attraversava il borgo dalla rocca fino all’estremità opposta della cerchia muraria. Fortunosamente posti in salvo, pur non avendo ritrovato alcuna tomba, hanno dato l’avvio col loro atto a una sistematica ricerca nel sottosuolo soncinese, oggi sostenuta daIl’Associazione Castrum Soncini (www.castrumsoncini.com). Compito dei soci è quello di promuovere l’esplorazione e la pulizia sistematica delle strutture sotterranee, rendendole agibili al pubblico.
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In basso Cristofano dell’Altissimo, ritratto di Ezzelino III da Romano, eseguito tra il 1500 circa e prima del 1568. Firenze, Galleria degli Uffizi. Signore di Verona, Vicenza e Padova, Ezzelino assunse la fama di efferato tiranno, di cui vi è un’eco anche nel canto XII dell’Inferno dantesco. Una leggenda vuole che le spoglie fossero state sepolte in un’arca collocata nei pressi dell’antico palazzo del Comune di Soncino.
anche il merito di essere il piú antico documento italiano su questa tipologia di centri urbani, Cremona si impegnò a progettare la rifondazione dell’insediamento sull’Oglio, a sostenerne i lavori di fortificazione e ad affidarne la sovranità ad alcuni milites soncinesi, in cambio di obblighi che essi erano chiamati a rispettare, quali la difesa del borgo, il pagamento di un’imposta fissata una volta per tutte, la manutenzione delle fortificazioni e delle chiuse dei canali. Cremona stabilí cosí una testa di ponte lungo la Piana dell’Oglio in direzione nord verso le città di Milano e Brescia, ottenendo il controllo di un punto nevralgico del territorio lombardo. L’importanza strategica di Soncino aumentò nel XIV secolo, periodo in cui uno dei due passaggi obbligati per il transito di uomini e merci dallo Stato di Milano verso la Repubblica di Venezia si dispiegava proprio lungo queste sponde. L’atto insediativo promosso da Cremona è ancora oggi ravvisabile nella lettura del reticolo stradale, soprattutto nella presenza delle quattro porte urbiche disposte secondo gli assi cardinali, nel tracciato ortogonale delle due direttrici viarie piú importanti e, probabilmente, anche nello squadratissimo settore occidentale del borgo, segnali, tutti, di una volontà fondatrice ex novo.
Portici e case-torri
Provenendo dalla porta di Borgo Sotto, con l’Oglio alle spalle, si percorre l’importante Strada Granda, corrispondente all’odierna via IV Novembre, che permette al visitatore di penetrare nella suggestiva atmosfera del luogo. Lungo la strada si prospettano infatti le facciate di eleganti palazzi di epoca rinascimentale, impreziositi da suggestivi portici e contrappuntati dalla presenza di case-torri di epoca anteriore. Ovunque il mattone, data la natura geologica del territorio, domina come materiale da costruzione. Sul lato destro è situata la trecentesca chiesa di S. Giacomo, caratterizzata dal campanile pendente a pianta ottagonale e da un bellissimo Compianto sul Cristo morto, opera quattrocentesca in terracotta. Quasi adiacente, di fronte a una piazza che è poco piú di uno spazio di risulta, è situato il palazzo comunale, affiancato da una monumentale torre campanaria risalente al 1128, ma profondamente restaurata, come quasi ogni emergenza architettonica del borgo, nel corso del XVI secolo. La presenza dell’edificio, esattamente all’incrocio dei due principali assi viari di Soncino (via IV Novembre e via Matteotti) è anch’essa indicativa del periodo di rifondazione cremonese dell’abitato. Alle spalle si eleva la chiesa di S. Maria Assunta, conosciuta come la pieve piú antica della diocesi cremonese. La sua origine affonda in un’Italia da poco in-
cornello dei tasso A sinistra un tipico scorcio del borgo di Cornello dei Tasso. In basso l’edificio in cui, dal 1991, ha sede il Museo dei Tasso e della Storia Postale.
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a provincia di Bergamo nasconde uno dei borghi piú suggestivi e autenticamente medievali della Lombardia. Situato nella Val Brembana, Cornello dei Tasso merita una citazione non solo per il fascino delle sue antiche abitazioni. Erano originari di questa minuscola frazione di Camerata Cornello gli avi di Torquato Tasso, l’autore della Gerusalemme liberata (1581). Quella stessa famiglia aveva compiuto nel Medioevo un piccolo miracolo imprenditoriale: a partire dal XIII secolo organizzò un’efficiente azienda di spedizioni, la Compagnia dei Corrieri, che era alle dipendenze della Repubblica di Venezia. Si trattava di una delle prime forme di compiuto servizio postale in Italia. I Tasso furono stimatissimi in tutta Europa per la loro efficienza, tanto da vedersi assegnare incarichi di spedizione dai regni di Francia, di
Spagna e di Germania. All’inizio la loro attività si era sviluppata solo lungo l’asse Venezia-MilanoRoma, ma aveva in poco tempo inglobato anche il delicato smistamento della corrispondenza estera dello Stato pontificio. Nel Seicento il ramo tedesco della famiglia, i Thurn und Taxis, divenne ricchissimo e in Germania curò servizi aggiuntivi come il trasporto dei proventi delle imposte. Oltre alle spedizioni, le loro vetture potevano ospitare anche passeggeri. Tra gli storici c’è chi identifica in quella prestazione supplementare l’origine della parola «taxi», che deriverebbe dal nome del casato. Oggi nel paese di Cornello quell’epopea viene ricostruita nel locale Museo dei Tasso e della Storia Postale, che conserva molti documenti dell’attività postale della famiglia dei Tasso e, in generale, sulla storia dei servizi di posta.
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vasa dai Goti di Odoacre e, molto probabilmente, tra V e VI secolo la chiesa era officiata secondo il culto ariano. Piú volte distrutta e ricostruita, presenta una bella facciata, scandita da lesene e caratterizzata da un protiro sormontato da un rosone.
Stampe di prima qualità
Accanto ai monumenti del potere civile e religioso, Soncino offre la testimonianza di un passato meno noto, ma non meno importante. Nei pressi del palazzo comunale, all’interno di una restauratissima abitazione tre-quattrocentesca, è la sede della stamperia della famiglia ebraica dei Soncino, dalla quale sono usciti alcuni autentici capolavori come la Bibbia del 1488, primo testo completo in ebraico dell’Antico Testamento: in tre volumi, dotato di pregevoli decorazioni, testimonia le grandi doti tecniche e l’elevato livello culturale della famiglia. L’edificio ospita il Centro Studi Stampatori Soncino ed è sede di un piccolo museo: un’apprezzabile ricostruzione a scopo didattico dell’ambiente e dell’atmosfera dell’antica stamperia. Nel settore occidentale del borgo alcuni mulini ad acqua inseriti nel tessuto urbano confermano la funzione difensiva di Soncino, che obbligava gli abitanti e la guarnigione militare a
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In basso la Casa degli stampatori di Soncino, nella quale si può assaporare l’atmosfera di una stamperia ebraica del XV sec. Al piano terra sono riposti nelle cassettiere caratteri di diverso stile, in legno e in piombo e le lettere dell’alfabeto ebraico. Vi sono esposte macchine da stampa manuali della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento; e si può ammirare anche la fedele ricostruzione di un torchio ligneo del 1400. Al primo piano sono esposti alcuni originali e le copie di libri stampati dai Soncino, unitamente ad altre pubblicazioni specialistiche relative ai famosi stampatori.
mantenersi autosufficienti per lunghi periodi. La presenza dell’Oglio, d’altronde, forniva grande abbondanza di acqua che la capacità di alcuni costruttori duecenteschi riuscí a imbrigliare attraverso una rete capillare di canali sotterranei, in grado di fornire acqua pulita a tutte le case del borgo. Non è un caso perciò che nel Codice I di Parigi del 1497 Leonardo da Vinci, in margine a un foglio ricoperto da schizzi e rappresentante congegni idraulici, scrisse un appunto che oggi suona piú o meno cosí: «A Soncino, territorio di Cremona». A guardia dell’Oglio, inserita nella coeva cerchia muraria è la Rocca Sforzesca, completamente visitabile, un bellissimo esempio di architettura difensiva del Quattrocento nonostante i numerosi interventi di restauro compiuti verso la fine dell’Ottocento. Voluta da Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, e realizzata negli anni Settanta del XV secolo su disegno dell’architetto cremonese Bartolomeo Gadio, la rocca era circondata da un fossato colmo d’acqua. A pianta quadrata, è protetta da alte e massicce mura in laterizio con merlatura «ghibellina», a forma cioè di coda di rondine. Ai quattro angoli di questa compatta struttura si elevano altrettante torri coperte, di cui una sola a pianta circolare. Sul lato settentrionale la rocca è preceduta da un rivellino, una sorta di cortile circondato da mura. La sua funzione,
oltre a rinforzare la porta principale della rocca, era probabilmente quella di spazio doganale per le merci che attraversavano l’Oglio. Dopo Milanesi, Veneziani e Francesi, nel 1531 alla guida di Soncino subentrarono gli Spagnoli e il borgo, trasformato in marchesato, venne concesso in feudo dal re Carlo V alla famiglia milanese degli Stampa. Nel 1536 Massimiliano II Stampa divenne terzo marchese di Soncino. Il personaggio, un misto di follia e ossessioni, è ricordato per i suoi atti dispotici che sublimarono nella vocazione a missionario in Nord Africa in seguito a una terribile crisi depressiva. Nell’ambiente tetro e psicologicamente teso della sua corte visse la nipote Marianna de Leyva, destinata a entrare nella storia con il piú famoso appellativo di Monaca di Monza.
Un capolavoro del Rinascimento
Marianna, che era nata a Milano nel 1575, trascorse i primi anni della sua esistenza osservando la campagna soncinese dalle affidabili mura della rocca o in preghiera nella vicina chiesa di S. Maria delle Grazie, possesso privato degli Stampa, un bellissimo edificio eretto a partire dal 1501 poco fuori del lato sud-occidentale del borgo. A un’unica navata, con cinque cappelle per lato e abside ettagonale, la chiesa di S. Maria – definita dallo storico dell’arte Bernard Berenson uno tra gli edifici ecclesiastici piú interes-
In alto l’interno della pieve di S. Maria Assunta. Eretta in Collegiata nell’828, la chiesa fu riedificata nel 1150 e ristrutturata nel 1280. Vi furono quindi ulteriori rimaneggiamenti dapprima tra la fine del XVI e gli inizi del XVII sec. e poi negli anni Ottanta dell’Ottocento. L’interno si presenta in forme grandiose e solenni; la vistosa policromia risponde a criteri decorativi tipici della fine del secolo scorso e venne realizzata nel 1897 con un indirizzo allo stile neobizantino.
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astiglione Olona, in provincia di Varese, è nota come «l’angolo di Toscana» in Lombardia: il suo aspetto e i suoi monumenti, infatti, non stonerebbero sui colli della campagna fiorentina. Nel centro del paese, la cosiddetta «chiesa di Villa» spicca per le sue nitide forme brunelleschiane ed è affiancata dalla mole classicheggiante del palazzo Castiglioni e dalla non dissimile casa Castiglioni. A dominare l’abitato si ritrova invece la gotica collegiata che, assieme al contiguo battistero, racchiude uno dei capolavori della pittura del primo Rinascimento: i due cicli d’affreschi realizzati dal fiorentino Masolino da Panicale, amico e collaboratore di Masaccio. Dietro alla comparsa in Lombardia di opere d’arte di gusto cosí spiccatamente toscano vi fu una figura d’eccezione: il cardinale Branda Castiglioni. Nato intorno al 1360 e laureatosi in
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diritto presso l’università di Pavia, egli intraprese la carriera ecclesiastica, entrando presto al servizio della diplomazia pontificia. Fu anche uno degli uomini di cultura piú illustri del suo tempo e principale beneficiario del suo mecenatismo fu appunto Masolino, che da lui ricevette l’incarico per la decorazione ad affresco della cappella fatta costruire in S. Clemente, in Roma. Pochi anni dopo, Masolino fu di nuovo chiamato dal suo mecenate, questa volta per un progetto molto piú ambizioso: affrescare la chiesa collegiata e il battistero di Castiglione Olona, nell’ambito del rinnovamento del borgo secondo forme classiche e toscaneggianti. I dipinti avrebbero dovuto costituire il cuore artistico e ideale della trasformazione dall’intero paese in una sorta di monumento umanistico alle glorie di Branda e della sua parentela. Paolo Grillo
In alto due dei numerosi mulini ad acqua che si conservano a Soncino e nel suo territorio, testimoni della ricchezza idrica del luogo e dello sviluppo del commercio manifatturiero. Nella pagina accanto Castiglione Olona (Varese). Particolare del ciclo con scene della vita di san Giovanni Battista affrescato da Masolino da Panicale nel battistero della cittadina, su commissione del cardinale Branda Castiglioni. 1435. santi del Rinascimento – è affrescata in ogni sua superficie da maestri dei primi anni del Cinquecento, primo fra tutti il cremonese Giulio Campi. Una galleria sotterranea collega la chiesa alla rocca. Impossibile non pensare, almeno per un momento, alla nostra sfortunata Marianna mentre si accinge a percorrerla. Lei, costretta dal fato e da una volontà superiore a sposare un’idea che finirà per annientarla, rappresenta in un certo qual modo il destino della stessa Soncino che nel corso del XVI secolo, dopo l’apogeo della piena civiltà comunale, affrontò un declino economico e sociale dal quale non si sarebbe mai piú risollevata.
visite e appuntamenti MUSEO ETNOGRAFICO DEL FERRO, DELLE ARTI E TRADIZIONI POPOLARI Bienno (BS), via Artigiani, 13 Orario ma-do, 9,30-11,30 e 14,30-16,30 Info tel. 0364 40001; e-mail: proloco.bienno@tiscali.it MUSEO DELLA STAMPA Soncino (CR), via Lanfranco, 6/8 Orario invernale: ma-ve, 10,00-12,00; sa e festivi, 10,00-12,30 e 14,30-17,30; estivo: ma-ve, 10,00-12,00; sa e festivi: 10,00-12,30 e 15,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0374 83171; e-mail: info@museostampasoncino.it; www.museostampasoncino.it MUSEO DEI TASSO E DELLA STORIA POSTALE Camerata Cornello (BG),
via Cornello, 22 Orario da novembre a giugno: sa, 14,00-18,00; do, 10,00-12,00 e 14,00-18,00; luglio, agosto e settembre: ma-sa, 10,00-12,00 e 14,00-18,00; do, 10,00-18,00 Info tel. 0345 43479; e-mail: info@museodeitasso.com; www.museodeitasso.com TRECENTESCA Morimondo (MI) Periodo maggio Info tel. 02 94961919; e-mail: fondazione@abbaziamorimondo.it; www.abbaziamorimondo.it/ trecentesca PALIO DEI CASTELLI Castiglione Olona (VA) Periodo giugno Info tel. 0331 850084; e-mail: info@prolococastiglioneolona.it; www.prolococastiglioneolona.it
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l Trentino e l’Alto Adige hanno due storie parallele ma diverse fin dall’antichità. Il primo, colonizzato dai Reti nel 500 a.C., subí in modo piú evidente l’influsso della successiva dominazione romana, a differenza del secondo, che conservò un’anima prevalentemente germanica. Le strade si separarono anche nel primo Medioevo: il Trentino fu occupato da popolazioni barbariche poi latinizzate, mentre il Sud Tirolo subí in modo piú profondo la dominazione dei Bavaresi e dei Goti che imposero i loro costumi nordici. In quel periodo, nel VI-VII secolo, diversi borghi piú o meno celebri si erano già affacciati alle cronache della storia: in Alto Adige accanto a Bolzano risultava attiva una stazione militare, l’odierna Vipiteno, allora chiamata Vipitenum. In Trentino – oltre all’antica Trento – le prime notizie sui borghi risalgono al IX secolo e riguardano Ala, abbellita in seguito con bellissimi palazzi nobiliari, e Avio, dove sorse uno dei piú bei castelli d’Europa.
Quasi tutta la regione, comunque, andò incontro allo stesso destino dell’intero Nord Italia: dopo i Longobardi arrivarono i Franchi e, poi, la longa manus dell’impero germanico che prese possesso del territorio nel 962 assegnandone in seguito l’amministrazione al ducato di Carinzia. Alcune città mantennero, comunque, una certa indipendenza, come Trento e Bressanone, che nel 1207 divennero principati ecclesiastici in seguito alla divisione in feudi voluta dall’imperatore Corrado II. Presto, però, molte zone furono cedute ai signori locali, in particolare ai conti del Tirolo, che rafforzarono politicamente alcuni piccoli presidi strategici: nei documenti dell’epoca risaltano i nomi di Chiusa, importante stazione doganale; Glorenza, che ancora conserva intatte le sue mura risalenti all’Età di Mezzo; Brunico; Curon Venosta, balzato alle cronache in età contemporanea per il suo campanile medievale parzialmente sommerso dalle acque del lago di Resia, e Castelrotto. Con la morte dell’ultimo erede dei conti del Tirolo, nel XIV secolo, il territorio del Trentino-Alto Adige entrò nell’orbita politica della casata degli Asburgo, un assoggettamento destinato a durare fino alla prima guerra mondiale.
A sinistra il campanile romanico (XIV sec.) della chiesa di Curon Venosta (Bolzano). Il paese, situato a 1520 m slm, si trova sulla riva orientale del lago di Resia, realizzato per la produzione di energia idroelettrica. Nel 1950, all’apertura dell’invaso, il borgo fu sommerso, con l’eccezione della torre campanaria. In basso Castel Tirolo, fortezza avita degli omonimi conti, che diedero nome all’intera regione, il Tirolo appunto, che si costituí sotto la signoria di Mainardo II, nel XIII sec.
i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Bolzano •BRESSANONE: abbazia fortificata di Novacella (XII sec.). BRUNICO: maniero del XIII sec. •CASTELROTTO: Castelvecchio di Siusi, rocca romanica del X sec. •CASTEL TIROLO (TIROLO): rocca del XII sec. •CHIUSA (articolo alle pp. 64-71). •CURON VENOSTA: campanile medievale della chiesa di S. Anna.
•GLORENZA: cinta muraria medievale ricostruita nel XVI sec. •VIPITENO (articolo alle pp. 64-71). Provincia di Trento •ALA: chiesa di S. Maria Assunta. •ARCO: rocca dell’XI sec. •AVIO (vedi box a p. 70). •BLEGGIO SUPERIORE: chiesa di S. Croce (XII sec.). •STENICO: rocca del XIII sec.
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ITINERARI
Trentino-Alto Adige
chiusa e vipiteno la dogana e il gobbo di Maurizio Zuccari
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l sasso è ancora lassú, sospeso sul borgo come nel 1494. Quando Albrecht Dürer vi salí per disegnare Klausen, a fondale della sua Nemesis. Schiacciato tra l’Autobahn che corre al Brennero, silente come un tratturo, e la ferrovia che serpeggia a valle. E Chiusa è sempre là, non molto diversa dall’acquerello dipinto dall’artista su quel masso oltre cinque secoli fa. Troppo sotto ai piloni e ai binari per essere notato da pendolari e frettolosi gitanti. Solo i ponti sull’Isarco, altra concessione alla modernità, sono diversi da quelli attraversati dai viandanti del tempo. Per il resto, la quattrocentesca Wegmacher (casa cantoniera) fa ancora buona guardia all’ingresso della città alta, persino vezzosa nella sua facciata ocra rifatta di fresco, per chi entra dalla porta di Bressanone. E la strada che taglia a mezzo l’abitato resta un tuffo nel passato, coi suoi Erker (o bovindi, spazi per proiettare all’esterno di un edificio alcune finestre, tipici delle case diffuse nel territori di lingua tedesca, n.d.r.) ricolmi di gerani d’ogni sfumatura, le insegne di antichi ostelli, gli anziani a spasso col caratteristico grembiule blu. Un museo a cielo aperto, un sogno incastonato tra Alpi e Dolomiti, un saliscendi sull’Età di Mezzo.
La sentinella di pietra
Risalgono al tardo Medioevo i principali edifici che s’affacciano sulla via Alta e Bassa. La gotica chiesa degli Apostoli con la sua navata singola, il municipio, l’albergo del Leon d’oro trasformato in scuola elementare, coi murales sul rosa confetto dell’esterno e gli scolaretti all’interno che alla pausa tolgono le babbucce messe in classe e filano all’aperto dietro le maestre, in disciplinata fila indiana. E ancora, la dogana vescovile con la facciata affrescata dalle effigi dei dieci vescovi di Bressanone che contesero ai «colleghi» di Trento il controllo della cittadina; il dazio civico riattato nell’Ottocento come ristorante-albergo, col frontone merlato e l’affresco del massimo trovatore medievale tedesco da cui prende il nome, von der Vogelweide, sovrastante la terrazza sull’Isarco. Dopo pochi passi, superato l’ex albergo Zum Lamm (all’Agnello), la via sfocia in 64
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piazza Parrocchia, su cui s’affaccia la tardogotica chiesa di S. Andrea, col campanile incuneato nel cielo e il segno lasciato dalle acque nell’inondazione del 1921 che quasi spazzò via il borgo. Piú in là la torre del Sagrestano, la sola rimasta delle quattro un tempo esistenti, resta una delle immagini caratteristiche della città, sentinella di pietra. Dalla piazzetta, lasciati alle spalle l’arcobaleno di case
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a pianta alta e stretta in riva all’Isarco e la residenza Griesbruck oltre il fiume, si raggiunge la città bassa. Anche qui, lo sguardo incrocia le insegne degli antichi alberghi che si susseguono fin su piazza Tinne, alcuni ancora in funzione: L’Orso grigio, già menzionato nel 1335, La Croce bianca, il Posta, il biancoverde Cavallino, col suo tetto spiovente a riparare un tempo i carriaggi in sosta, e Il Cervo, col pergolato a incorniciare le partite a carte, proprio sulla piazza. Poco oltre scorre il fiumiciattolo che le dà il nome. Presso il ponticello, un cippo di marmo consunto dai secoli, incastonato al muro dell’ex convento dei Cappuccini, rivela l’importanza del modesto corso d’acqua. Fin dal VI secolo confine tra le diocesi di Bressanone e Trento, e dai primi del Mille fin quasi ai nostri giorni tra il territorio del vescovado e la contea del Tirolo. Il convento trasformato in museo civico, con l’imponente altare maggiore ligneo della cappella dei Cappuccini
dedicato a San Felice da Cantalice; la chiesa della Madonna di Loreto che un tempo custodiva l’omonimo tesoro dono dei reali di Spagna, oggi al museo, e la residenza Rechegg, col magnifico capitello del Cinquecento all’ingresso, sono ulteriori tappe obbligate d’un ideale percorso. Come pure una sosta alla birreria Gassl Bräu, dove viene servita la birra prodotta nel laboratorio attiguo e ai piedi scorrono, sotto vetro, le acque che ancora muovono macine e argani. O al Torgglkeller, dove si può gustare la cucina locale o una pizza dentro mastodontiche botti secolari.
Paesaggi del Romanticismo
Sfiziosità turistiche a parte, ovunque scorci e colori dal Medioevo rimandano alla città ritratta sul finire dell’Ottocento dagli artisti che qui elessero il loro domicilio, ripercorrendo le orme di von der Vogelweide. Se nel Castel Branzoll, rimaneggiato nell’Ottocento e di proprietà pri-
Veduta di Chiusa. Al centro si riconosce la chiesa parrocchiale di S. Andrea, la cui prima attestazione risale al 1208. Sullo sfondo è invece il Castel Branzoll, costruito nel 1250 dai signori di Sabiona. Dal 1465 fu sede del giudice vescovile, fino a quando, nel 1671, venne distrutto da un incendio. I lavori di ricostruzione iniziarono nel 1895 e mentre il mastio conserva ancora resti della struttura originaria, la parte abitabile è stata interamente ricostruita.
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e la sera si cantava nei giardini... Sono in pochi, oggi, ad ammettere che Walther von der Vogelweide, il massimo trovatore medievale tedesco del Duecento, ebbe i suoi natali nel maso omonimo, nel lindo e pinto Vogelweiderhof incassato in un colle a mezza strada tra Ponte Gardena e Laion, indicato da un canonico quale casa natale del poeta, alla metà dell’Ottocento. Ma casali montani coevi non mancano nei dintorni di Chiusa – uno per tutti, il caratteristico Johannserhof, da cui si gode di una splendida vista sulla «montagna santa» di Sabiona e la Val d’Isarco –, dove ogni fine settimana d’autunno si può buttare giú un bicchiere di vino, una fetta di speck e pane di segale, lo sguardo alle guglie delle Dolomiti. E comunque tanto bastò perché la cittadina divenisse, dal terzo quarto del XIX secolo alla vigilia della prima guerra mondiale, una sorta di atelier all’aperto, con scultori e pittori parte integrante del «genius loci». Richiamati dal mito romantico del cantore, oltre 300 artisti tedeschi, austriaci e tirolesi tra Erker e angoli pittoreschi vissero – e con loro le locande – una belle époque in cui «si dipingeva, si beveva, si amoreggiava e la sera si cantava nei giardini». Per tutti, lo Zum Lamm era quasi una seconda casa. Oggi nessun artista traversa il loggiato con gli archi a volta e la sala Walther, al primo piano, non risuona piú di cori. Ma alle pareti dell’albergo trasformato in museo restano incisi i motteggi del «bel tempo andato», a fare da cornice alle opere di Valentin Gallmetzer, intagliatore e sindaco della città scomparso nel 1958. Connubio perfetto di fede, commerci e romanticismo, che fecero di Chiusa il gioiello incastonato nel Medioevo e della Kunstlerstadtchen, la «città degli artisti», quale ancora si presenta ai nostri occhi.
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vata, del complesso originale non resta che il torrione del Capitano, databile anch’esso agli inizi del Duecento, la «passeggiata» fino al sovrastante monastero di Sabiona sale lungo una Via Crucis che si snoda tra una necropoli arcaica, oggi coperta dai vigneti di Müller Thurgau. Nel monastero risorto nel Seicento sulle ceneri di quello distrutto da un incendio nel secolo precedente, a sua volta eretto su una chiesa romanica, solo il crocefisso brunito è sopravvissuto all’Età di Mezzo, e sull’enorme tela della soffittatura, trattenuta da catene, campeggia un anomalo Pilato in vesti turche. Licenza allo spirito dei tempi, al timore del Turco che s’appressava sotto le mura di Vienna. Ogni due anni, a fine maggio, una processione preclusa alle donne impiega due giorni a raggiungere la chiesa del convento. Ma da lassú, gettando l’occhio alla distesa di tetti incastrati tra la rupe e il fiume, si coglie appieno il nome di Chiusa, lo spirito del luogo. La stretta naturale che ha reso la cittadina una via di passo obbligata per il Brennero, facendone la barriera doganale ritratta sullo stemma municipale: una chiave d’argento su uno scudo rosso. L’ultimo sguardo a Klausen è per S. Sebastiano:
A destra la navata centrale della chiesa parrocchiale della Nostra Signora delle Paludi. La costruzione dell’edificio venne avviata agli inizi del XV sec., sotto la guida dell’architetto vipitenese Hans Feur. Nella pagina accanto, in alto il trovatore Walther von der Vogelweide, in un dipinto su tela di Albert Stolz conservato nel Museo Civico di Chiusa. Nella pagina accanto, in basso una veduta del complesso formato dal monastero di Sabiona (sulla sinistra), fondato dal parroco di Chiusa e signore del Duomo Matthias Jenner, e dalla chiesa della Nostra Signora (a destra).
A sinistra Vipiteno, chiesa di S. Spirito. Particolare dell’affresco raffigurante il Giudizio Universale, facente parte del ciclo realizzato da Giovanni da Brunico, principale rappresentante della scuola pittorica di Bressanone e della Val Pusteria. La chiesa fu realizzata nel 1399 insieme all’edificio adiacente, adibito originariamente a ospedale.
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la cappelletta circolare affossata in un campo di mele è quanto sopravvissuto alle inondazioni del ricovero per pellegrini sorto ai primi del Duecento. Infilata l’A22 nei pressi si supera Bressanone, con la Domplatz su cui s’affaccia il rinascimentale Palazzo vescovile e i portici del centro storico assediato dal moderno centro urbano, e dopo pochi chilometri appare l’altro gioiello medievale in Val d’Isarco.
Il pellegrino e l’aquila
Vipiteno, o Sterzing, s’annuncia coi 46 m della sua torre campanaria che svettano sul rettifilo di case rimasto pressoché immutato dalla fine dello stesso secolo. E al 1328 risale il simbolo della città: un ometto gobbo, con tanto di rosario e stampella, sul quale si staglia l’aquila rossa dei conti del Tirolo. È un pellegrino storpio, mendico e vagabondo, a essere eternato come emblema del borgo, scolpito anche sulla meridiana della torre delle Dodici, simbolo nel simbolo. È nel Landstorzer, viandante per fede o denaro, che si rintraccia l’essenza della cittadi68
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na risorta a una manciata di chilometri dal passo del Brennero sulle ceneri della romana Vipitenum. È Mainardo II del Tirolo a volere, sul finire del XIII secolo, la cinta muraria attorno a una città che – caso piú unico che raro – non accoglie chiese al suo interno, e grazie alla quale intende contrastare lo strapotere del vescovo di Bressanone e tenere un piede in Val d’Isarco. Delle mura, inglobate nelle case, resta poco. Le miniere di piombo e d’argento, da cui anche i Fugger estrassero la loro ricchezza, sono aperte solo per i turisti. Serrati pure i due ex ostelli destinati a dare rifugio e cure a pellegrini, commercianti, clerici vaganti e soldati che nell’arco dei secoli hanno percorso la principale via di passo tra la Germania e l’Italia. Resta la torre del 1469, eretta a celebrare un trovato rango, una ricchezza sull’orlo d’essere spazzata via dall’oro delle Americhe, con la sua cella carceraria al primo piano e tanto di pupazzo sul pagliericcio, a smezzare città vecchia e nuova. Resta il borgo, tutt’intorno, identico o quasi ad allora.
E la via s’illumina a festa
In alto Vipiteno, la torre delle Dodici, detta anche Civica (1328), e, nella pagina accanto in basso, il particolare del pellegrino sormontato dall’aquila rossa dei conti del Tirolo, simbolo della città, raffigurato nella meridiana.
La Reichstrasse, chiusa al traffico, dove s’intersecano lucenti negozi e le insegne degli alberghi raccontano la storia del Tirolo – l’aquila rossa della contea, la nera degli Asburgo, la bicipite del potere imperiale – tra le pareti di antiche botteghe artigiane e locande. Con le ricche case borghesi coronate di merli e bovindi dagli immancabili gerani, i frammenti di minerale incastonati sui portali a significare il rango degli inquilini e gli alti spioventi frangirogo a testimoniare come la minaccia maggiore fosse qui il fuoco, piú che le acque dell’Isarco, che scivola povero e placido a fianco. Ma piú delle residenze dei funzionari delle miniere, l’attrazione della via principale è il monumentale Palazzo comunale coevo alla torre, con l’Erker poligonale, i pilastri bassi e massicci del porticato con la testa di moro all’angolo, macabro ricordo di pietra d’un «infedele» decapitato, il cortile con la copia della lapide di Mitra, adorato dai legionari romani venuti da Oriente (l’originale è a Bolzano). E la sala municipale lignea, vera Stube gotica, dove simile a una polena prodiera pende la lumiera del 1520, raffigurante la romana Lucrezia stuprata dall’ultimo dei Tarquini, assisa su due corna di stambecco, che si dà la morte. Ad ammonire come il potere non possa mai affidarsi all’arbitrio. La via che a dicembre s’illumina a festa, trasformandosi in un lungo salone sfavillante, cornice del tradizionale mercatino di Natale, sfocia in piazza Città. Qui s’inizia la parte vecchia e termina quella nuova, distrutta da un incendio
alla metà del Quattrocento e s’affaccia, assieme alla torre, il municipale ostello medievale con l’annessa chiesa del S. Spirito. Sulla navata principale, il quattrocentesco Giudizio Universale di Giovanni da Brunico ancora evoca, benché malmesso, il timore dell’eterna dannazione.
Spettri nelle paludi
In fondo alla sala della trattoria Schwemme, dirimpetto, un altro affresco testimonia una leggenda sopravvissuta ai secoli, una diversa paura, piú terrena ma egualmente ancestrale. Un carrettiere atterrito sprona sulla passerella di legno, attraversando la palude che si estendeva a sud dell’abitato, bonificata alla fine dell’Ottocento. Mani adunche di zitelle morte s’ergono dalle acque stagnanti, tentano di trascinarlo con loro, affamate di calore umano. Racconti da osteria, sessuofobie pittate nella prima taverna in cui rinfrancarsi davanti al fuoco e a un bicchiere di grappa, dopo aver traversato stagni melmosi in cui la notte cala rapida e la nebbia sale presto. Là, nel regno delle donne morte alla perenne ricerca di carne viva, dove gracidavano rane e i carrettieri udivano voci, sorge la piú grande chiesa del Tirolo, esorcisticamente dedicata alla Signora delle Paludi. È eretta sui resti di un’antica chiesa romanica, a sua volta costruita su un cimitero romano di cui resta, incastonata nella parete nord della navata, la «lapide di Victorina». Al fianco, il cimitero attuale, con le pozzette in pietra o metallo dove si raccoglie l’acqua benedetta che i fedeli aspergono con un rametto di pino sulle tombe dei propri cari durante la visita, rimanda all’ancestralità dei riti celtici. E sulle lapidi le foto dei soldati del Reich morti «in Italia» ricordano i percorsi di questa terra nella storia, prima di finire nel calderone della nuova Europa assieme a una patria assai distante dall’Heimat, ovvero dalle origini delle sue valli alpine. Le sole a non aver conosciuto l’emigrazione e l’abbandono. Merito della caparbietà dei Bavaresi che le occuparono, fin dal VI secolo, e del buongoverno dei conti tirolesi, dicono qui. Poco resta, all’interno della parrocchiale pesantemente rimaneggiata dal Barocco, del capolavoro gotico eretto nel 1458 da Hans Multscher di Ulm, scultore ligneo tedesco tra i piú noti del tempo. L’altare a portelle alto 12 m, stupore dei contemporanei, donato da Mussolini all’amico Goering e restituito all’Italia alla fine degli anni Cinquanta non vi ha piú fatto ritorno. Le tavole sono oggi nel vicino Museo Multscher, nell’edificio che fu ospizio dei Cavalieri Teutonici a partire dal Duecento. Scomposte e incomplete, meravigliano ancora per il realismo dei dettagli, la ricerca del maestro di una narrazione sacrale il medioevo nascosto
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ITINERARI
Trentino-Alto Adige
castello di avio
C’
è una misteriosa rocca che spunta maestosa alla vista di chi percorre verso nord l’autostrada del Brennero, poco dopo aver varcato il confine tra Veneto e Trentino-Alto Adige. Il castello di Avio, con la sua caratteristica sagoma biancastra, affascina anche da lontano e attira sempre un gran numero di visitatori. Dall’alto della collina di Sabbionara domina su tutta la Vallagarina, una zona dotata di numerose coltivazioni e dall’elevata densità abitativa. La parte piú antica della costruzione, il mastio, risale all’XI secolo e fu affiancata da altre cinte fortificate nel corso del Quattrocento. Il primo documento che attesta l’esistenza del maniero riporta la data del 1053 e si riferisce a un luogo di nome Castellum Ava che, forse, apparteneva alla nobile famiglia trentina dei Castelbarco. Racconti leggendari affermano che la rocca, invece, esisteva già nell’Alto Medioevo e che nel VI secolo aveva ospitato personaggi celebri come la regina longobarda Teodolinda e il suo consorte Autari in viaggio per la loro luna di miele. Piú verosimilmente nelle sue stanze soggiornarono, invece, l’imperatore Carlo V e Massimiliano d’Asburgo. Alla fine dell’Età di Mezzo il castello cambiò proprietario e venne ceduto alla Repubblica di Venezia, che lo dotò di ulteriori fortificazioni. La costruzione, dopo successivi
ampliamenti, risultò composta da ben 5 torri e 3 cinte murarie, cosí come appare oggi. Nel Seicento la rocca tornò in possesso dei primi proprietari, i Castelbarco, che, qualche secolo dopo, con un atto di generosità la donarono al Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI). All’interno del mastio, all’ultimo piano, si trova la cosiddetta «stanza dell’amore», un luogo appartato, sulle cui pareti campeggiano alcuni suggestivi affreschi del Trecento: i piú celebri raffigurano un mostruoso dio Amore lanciato al galoppo che con le sue frecce sfiora una giovane donna e colpisce un cavaliere in pieno petto.
Qui sopra castello di Avio. Un particolare degli affreschi nella stanza d’Amore. In basso veduta del castello, oggi di proprietà del FAI.
immersa nel vissuto del tempo, nei gesti della quotidianità. Cosí Giuseppe, ancora non santificato, alla Natività si toglie le braghe come un qualunque mortale prima di mettersi a letto. Cosí nella Crocifissione alla pena di Maria si aggiungono gli sberleffi del popolino. E gli sgherri che Giuda introduce nell’Orto degli Ulivi hanno mazze e ghigni non dissimili dai bravacci di corte.
Memorie macabre
Poco distante, un breve tragitto sulla Statale per Bolzano porta ai castelli frontalieri di Sprechenstein e Reifenstein, quasi a un tiro di balestra l’uno dall’altro, proprio ai margini dell’antica palude. Da quest’ultimo, una via nel bosco costellata di coppelle runiche conduce alla dimenticata chiesa di S. Zeno, proprio sull’orlo dello sperone di roccia di rado baciato dal sole. Da lí, lo sguardo spazia invano alla ricerca del maso di Michael Gaismair. Del figlio di queste lande e di un imprenditore minerario che durante le rivolte contadine del 1525 pretese spazzare via classi e privilegi, la cui testa spiccata dal corpo venne inviata dai sicari degli Asburgo al principe di Innsbruck, nulla rimane nella memoria degli uomini. Restano, ai crocicchi d’ogni via, Cristi in croce a contrastare l’eresia montante di là dalle Alpi, emblema d’una fede permeata di dolore piú che di pietà, di sacrificio piú che di salvezza.
In alto una veduta di Castel Tasso, nei pressi di Vipiteno. Citato per la prima volta in documenti del 1100, nel 1405 divenne proprietà dei signori di Sabiona. Nel 1470 fu venduto all’Ordine Teutonico, a cui si deve gran parte del suo aspetto attuale, e, nel 1813, passò infine ai Thurn und Taxis.
Nella pagina accanto, in alto Castello di Avio. Particolare degli affreschi nella stanza d’Amore, dei quali si è conservato il «racconto» che dà il nome all’ambiente. Si vedono le frecce del dio che sfiorano una dama con cagnolino e colpiscono in pieno petto un cavaliere inginocchiato e disperato.
visite e appuntamenti MUSEO PROVINCIALE DEGLI USI E COSTUMI Teodone, Brunico (BZ), Via Duca Teodone 24 Orario dal lunedí di Pasqua al 31 ottobre: ma-sa, 10,00-17,00, do e festivi 14,00-18,00 lu chiuso; luglio e agosto: ma-sa, 10,00-18,00, do e festivi, 14,00-18,00; in agosto aperto anche lu Info tel. 0474 552087; e-mail: museo-etnografico@ museiprovinciali.it MUSEO DELLA FARMACIA Bressanone (BZ), via Ponte Aquila, 4 Orario ma-me, 14,00-18,00, sa, 11,00-16,00; luglio e agosto: lu-ve, 14,00-18,00,
sa, 11,00-16,00; 8 dicembre e tutte le domeniche nell’Avvento, 11,00-16,00 Info tel. 0472 209112; www.museofarmacia.it I CARNEVALI Arco (TN) Periodo prima domenica di Quaresima Info tel. 0464 532255; e-mail: info@grancarnevale.com, aptmanifestazioni@gardatrentino.it; www.carnevalarco.com RUSTICO MEDIOEVO Casale di Tenno, Tenno (TN) Periodo agosto Info tel. 0464-502022 e 0464 503220; www.rusticomedioevo.com
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AUSTRIA ALTO ADIGE Cortina d’Ampezzo
Bolzano
Pieve di Cadore
Sedico
Trento
Malcesine Valdagno
Vittorio Veneto
Conegliano Bassano del Grappa Oderzo Asolo Marostica Treviso Malo
Montecchio Maggiore
Verona Soave Villafranca di Verona
Mantova
GIULIA Trichiana
Feltre
Rovereto
Valeggio sul Mincio
VENEZIA
Belluno
TRENTINO
FRIULI
Cittadella
Castelfranco
Caorle
Vicenza Veneto Brendola
Padova
Mirano
Arquà Petrarca
Montagnana Este
Concordia Sagittaria
Piove di Sacco
Monselice
Torcello
Murano
Venezia MARE ADRIATICO Chioggia
Legnago
LOMBARDIA
EMILIA ROMAGNA
Rovigo
Adria
Ferrara
veneto
A
bitata fin dalla preistoria, la regione deve il suo nome alla popolazione dei Veneti. Venne poi colonizzata pacificamente dai Romani nel III secolo a.C. che preferirono allearsi in funzione anti-celtica con le comunità allora stanziate nella zona. In quel periodo molti borghi erano già sorti in vari territori della regione: Oderzo, che nel II secolo d.C. contava circa 50 000 abitanti, Concordia Sagittaria, l’antica Iulia Concordia, l’indipendente Este, Feltre, sviluppatasi grazie alla vicinanza con la via Claudia Augusta e Adria. In epoca romana assunse un ruolo significativo Asolo, provvista di terme, di un teatro e di un acquedotto. Anche il Veneto, dopo la caduta dell’impero romano, fu costretto a fronteggiare le invasioni barbariche: nel V e VI secolo irruppero gli Unni, gli Eruli, gli Ostrogoti e i Longobardi. Di questi ultimi resta ancora l’impronta nel toponimo del borgo di Valeggio (l’odierna Valeggio sul Mincio) che, secondo alcune ricostruzioni etimologiche, deriverebbe da un termine longobardo il cui significato era «luogo pianeggiante». Notevole risultò anche l’influenza bizantina rintracciabile nelle origini della cittadina fortificata di Monselice e nelle suggestive chiese dell’isola di Torcello. Per un periodo l’entroterra regionale risultò soggetto al controllo longobardo, mentre la parte costiera era saldamente in mano ai Bizantini. Spesso le incursioni dei barbari costrinsero le popolazioni a fuggire verso le zone costiere e fu in seguito a questa dinamica che un centro marino come Caorle si popolò nel V secolo, diventando sede vescovile.
Il X e l’XI secolo si manifestarono come un’epoca turbolenta, segnata dal dominio del Sacro Romano Impero e dal terrore per l’invasione da est degli Ungari: Montagnana, uno dei borghi medievali piú suggestivi, rappresentava in quegli anni il classico esempio di architettura studiata solo per la guerra, cosí come il castello di Soave. Nel frattempo era nata la Marca di Verona, struttura politica locale attraverso cui l’impero governava sulla regione grazie anche a potenti dinastie feudali di discendenza tedesca: centri come Marostica, oggi conosciuta per il rito della partita a scacchi con pedine umane, e Bassano del Grappa erano baluardi, per esempio, degli Ezzelini, i cui avi provenivano dalla Germania. Il grande sviluppo economico, iniziato nell’anno Mille, sfociò nel potenziamento politico-commerciale dei Comuni piú celebri e dei centri minori che, prima si ribellarono all’impero, e poi lottarono strenuamente fra loro. La splendida Cittadella fu fortificata dai Padovani per combattere contro feudi confinanti, mentre Castelfranco Veneto serví ai Trevigiani per controllare il confine con i possedimenti di Vicenza e Padova. La stessa Conegliano venne sfruttata da Treviso per la sua posizione strategica di confine con il Patriarcato di Aquileia. A partire dal XIV-XV secolo Venezia con la sua repubblica assunse il ruolo di guida sull’intera regione ed estese i domini anche nei Balcani e a Occidente, in Lombardia.
Nella pagina accanto Caorle (Venezia). Il campanile del duomo. XI sec. Di forma cilindrica e realizzata in cotto, la torre è espressione dello stile romanico di forme ravennati, con un loggiato a metà altezza e cuspide conica. In basso Valeggio sul Mincio (Verona), frazione di Borghetto. Il Ponte Visconteo, diga fortificata costruita nel 1393 per volere di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Lungo 650 m e largo circa 25, con il piano stradale che corre a 9 m sopra il livello del fiume, è comunemente chiamato «Ponte Lungo».
i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Belluno •FELTRE: basilica dell’XI sec., castelli dell’VIII e del X sec. •PIEVE DI CADORE: fortilizio di origine medievale, palazzo quattrocentesco della Magnifica Comunità. Provincia di Padova •ARQUÀ PETRARCA: chiesa arcipretale dell’XI sec. nella quale sono custodite le spoglie di Francesco Petrarca. •CITTADELLA: cinta muraria duecentesca. •ESTE: castello carrarese. •MONSELICE (articolo alle pp. 74-81). •MONTAGNANA (vedi box a p. 77). Provincia di Rovigo •ADRIA: resti romani, cattedrale dell’XI sec. Provincia di Treviso •ASOLO: fortezza del XII secolo, palazzi e chiese medievali. •CASTELFRANCO VENETO: cinta muraria con castello. •CONEGLIANO: rocca medievale,
casa del Re di Cipro (XV sec.). •ODERZO: resti romani, chiese gotico-romaniche. Provincia di Venezia •CAORLE: duomo dell’XI secolo e altre chiese medievali. •CONCORDIA SAGITTARIA: resti romani, cattedrale quattrocentesca. •TORCELLO (vedi box alle pp. 78-79). Provincia di Verona •MALCESINE: castello scaligero medievale. •SOAVE: rocca scaligera e santuario dell’XI sec. •VALEGGIO SUL MINCIO: castello scaligero duecentesco e ponte visconteo trecentesco. •VILLAFRANCA DI VERONA: chiese e oratori medievali. Provincia di Vicenza •BASSANO DEL GRAPPA: chiese medievali, Ponte Vecchio (XVI sec.). •BRENDOLA: rocca dei Vescovi (X sec.) e chiese medievali. •MAROSTICA: Castello Inferiore e Superiore del XIV sec. •MONTECCHIO MAGGIORE: castelli di Romeo e Giulietta.
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ITINERARI
Monselice (Padova). Una veduta del castello, detto «Ca’ Marcello». Si tratta di un complesso grandioso, in cui emergono parti del fortilizio eretto nel XIII sec., e i tre nuclei rispettivamente innalzati nei sec. XI-XII, alla metà del XIII (ampliato dai Carraresi) e dei sec. XV-XVI (ingrandito dai Marcello, che realizzarono anche la merlatura che unisce i diversi corpi di fabbrica).
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Veneto
monselice la fortezza di ezzelino di Dario Canzian
N
el giugno del 1256 Padova era stata sottratta al dominio di Ezzelino da Romano, prima vera avvisaglia che la parabola del signore della Marca volgeva ormai precipitosamente verso il basso. L’eco dell’impresa dei crociati antiezzeliniani giunse immediatamente nella vicina Monselice, dove, secondo il cronista Rolandino da Padova, cominciò a diffondersi grande fermento nella villa e nel borgo ai piedi del colle. La piazzaforte monselicense era governata da due ufficiali del da Romano. Il primo, Gerardo da Treviso, già presbitero e poi «apostata», controllava l’abitato alla base del colle; l’altro, un certo Profeta, aveva invece la responsabilità della rocca. Non appena si diffusero i rumori, Gerardo abbandonò la villa e riparò all’interno della cinta del castello, ma Profeta non gli permise di entrare nella fortezza, perché non si fidava di lui; per parte sua Profeta da lí, da quel torrione munitissimo costruito dagli ingegneri di Federico II, giorno e notte «bombardava» i tetti delle case del borgo sottostante con le sue artiglierie. Le paure di Profeta si rivelarono fondate. Tra la fine del 1256 e l’inizio del 1257 Gerardo scese a patti con il marchese d’Este, il comandante degli assedianti – e del resto gli rimaneva poca scelta. Quindi, temendo di essere abbandonato dai soldati vicentini con cui era asserragliato, dopo aver contrattato un lauto compenso, anche il capitano della rocca cedette le armi. Circa ottant’anni dopo a Monselice si riprodusAl centro, in alto recto della bolla d’oro di Federico II (1299). Recanati, Archivio Comunale. Agli ingegneri dell’imperatore svevo si deve il torrione del castello monselicense.
se una circostanza quasi identica. Nell’agosto del 1338 era ormai trascorso piú di un anno e mezzo da quando i borghi e il castello, questa volta in mano ai della Scala, erano stati posti sotto assedio. Gli assalitori, un esercito confederato veneziano-fiorentino cui si erano aggregati i padovani Marsilio e Uberto da Carrara con i loro sostenitori, avevano già tolto ai signori di Verona la città di Padova e si erano poi spinti alla conquista della via dell’Adige in direzione di Verona stessa.
Allo stremo delle forze
Ma Monselice, governata con polso fermo dal podestà Pietro Dal Verme, non si era piegata. Quella sacca di resistenza, concentrata in un punto altamente strategico del territorio padovano, poteva mettere a repentaglio le altre conquiste dei collegati. Non si erano dunque lesinati gli sforzi per avere la meglio sui difensori del centro euganeo, col risultato che la guerra aveva raggiunto livelli esasperati di ferocia: le esecuzioni sommarie di prigionieri a fini dimostrativi e di ritorsione erano pratica comune dell’una e dell’altra parte. La popolazione urbana, stremata, era disposta a correre il rischio dell’amputazione del naso o della pena capitale pur di riuscire a fuggire dalla città ormai alla fame. Infine, i Monselicensi si arresero; non prima però di aver contrattato punto per punto la consegna della città. Il 19 agosto, dunque, Pietro Dal Verme, ottenute le dovute garanzie, lasciò Monselice nelle mani di Ubertino da Carrara. Ma ancora qualcuno non si era rassegnato. In cima al colle, infatti, nella rocca, si era asserragliato il capitano scaligero Fiorino da Lucca, e da lí continuava a infierire sul sottostante borgo il medioevo nascosto
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ITINERARI
Veneto con lanci di proiettili e frecce. Ubertino dovette addirittura procurarsi presso i Veneziani una grande macchina da guerra per cercare di stroncare quest’ultimo, pervicace avversario, che venne comunque catturato (dopo tre mesi) solo corrompendo i suoi collaboratori, i custodi della torre. Consegnato ai Padovani, Fiorino venne immediatamente impiccato. I due episodi, tra i piú noti e pregnanti della storia di Monselice, rappresentano momenti focali della secolare vicenda di questo centro, vicenda per un verso segnata dal costante coinvolgimento dell’insediamento in clamorosi fatti d’arme a causa delle elevate valenze militari del suo complesso sistema di fortificazioni, per un altro connotata politicamente dal periodico tentativo di svincolarsi dall’abbraccio di Padova nello sforzo di proporre una propria, distinta identità. Per queste ragioni tanta era stata la tensione accumulatasi tra il capoluogo e l’inquieto castello del territorio che, dopo la vittoria del 1338, quasi a sancire una resa dei conti finale, i Padovani proclamarono la ricorrenza della presa di Monselice – il 19 agosto, San Luigi – festa «nazionale» della città, da celebrarsi con una apposita processione.
Il «comitato monselicense»
Di fronte a questi fatti viene da chiedersi su quali fondamenti storici potessero poggiare le velleità autonomistiche di Monselice nei confronti di Padova. La risposta va cercata nel rapporto privilegiato che aveva legato il centro La Torre di Ezzelino, compresa nel complesso del castello, noto anche come Ca’ Marcello. Possente struttura difensiva della prima metà del XIII sec., l’edificio mantiene il suo aspetto bellico anche nella suddivisione interna dei tre piani.
nel segno di federico L’impronta lasciata dal signore della Marca nel centro di Monselice, secondo la tradizione, è di quelle forti. In realtà, ciò che si può dire con certezza è che i due principali edifici medievali della cittadina, il palazzo detto appunto «di Ezzelino», alla base del colle, e la rocca sommitale furono edificati in età federiciana. Il palazzo di Ezzelino, un imponente parallelepipedo di tre piani completato alla fine del XIII secolo, fa parte di un piú vasto «quartiere medievale» nel quale si distinguono quattro corpi di fabbrica, di datazione compresa tra l’inizio del XIII secolo e il XV. Oggi il complesso edilizio, ampiamente restaurato dal conte Vittorio Cini negli anni 1935-1940, è noto come Ca’ Marcello, dal nome dei nobili veneziani che ne mantennero il possesso dal XV secolo fino al 1840.
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Ospita preziose collezioni d’armi, di mobili e suppellettili d’epoca. Quanto alla rocca, essa venne edificata a partire dal 1239 per iniziativa di Federico II, demolendo le strutture preesistenti, probabilmente risalenti alla tarda età bizantina, tra cui la pieve di S. Giustina, trasferita piú in basso. La rocca consiste in una cinta ellittica al centro della quale sorge un poderoso e tozzo mastio con base a tronco di piramide. Da questa struttura si dipartivano le cortine che abbracciavano l’abitato sottostante. La costruzione è stata fatta oggetto di un attento restauro che ha riportato i blocchi di trachite alla chiarezza loro propria e ha permesso di individuare anche le tracce degli edifici che precedettero l’edificazione della rocca.
euganeo al potere pubblico. È questo un dato rintracciabile fin dall’età longobarda, quando attorno a Monselice si costituí un distretto di cui ben poco si sa, ma che probabilmente forní lo scheletro territoriale per la costituzione nel periodo carolingio del meglio documentato «comitato monselicense». Entro i confini di questa circoscrizione forse era compresa la stessa Padova, come sembra di capire da una donazione – a dire il vero non proprio esplicita, su questo specifico punto – del vescovo padovano Rorio all’abate del monastero urbano di S. Giustina (874). Dell’esistenza del comitato di Monselice si hanno numerose menzioni fino alla metà circa del X secolo, tuttavia senza che mai si faccia il nome di un conte. Poi le cose cambiano. Dagli anni 969-970 si parla dell’esistenza di un comitato padovano. È a questo punto che si cominciano anche a rinvenire le tracce del declassamento di Monselice. Nel 970 abbiamo l’attestazione che il centro veniva considerato come capoluogo di una iudiciaria, ovvero di un distretto pubblico minore rispetto al comitato. Della iudiciaria si sa per certo che nel 1013 erano titolati i marchesi Azzo e Ugo, appartenenti al ramo degli Obertenghi da cui in futuro deriveranno gli Estensi, in quanto ufficiali pubblici. (segue a p. 80)
montagnana
I
l Medioevo autentico ha tra i suoi luoghi simbolo Montagnana, piccolo centro in provincia di Padova. La sua cinta muraria, ancora sorprendentemente intatta, risale al XIV secolo e permette di realizzare un compiuto viaggio a ritroso nel tempo. Questo prodigio architettonico viene considerato una delle perle europee nell’ambito delle costruzioni di tipo militare dell’Età di Mezzo. Il borgo, già vicus romano sull’itinerario della via Annia, subí numerose dominazioni nell’era delle invasioni barbariche e cominciò a popolarsi nell’XI secolo, quando era governato dai signori d’Este che provvidero a fortificarlo. Le difese vennero ulteriormente potenziate nel XIII secolo, nel periodo in cui spadroneggiava il
condottiero umbro Ezzelino da Romano. Per conquistare il borgo quest’ultimo aveva usato il fuoco, incendiando numerose abitazioni, ma subito dopo si era impegnato in un’intensa opera di ricostruzione. In quel periodo la rocca (Castel Zeno) fu ampliata e ammodernata. La città tornò poi estense e, nel 1275, ebbe la prima versione della sua cinta muraria che circondava, però, solo una parte dell’abitato. I successivi padroni di Montagnana, i Da Carrara, completarono l’opera nel 1362. I Da Carrara erano signori di Padova e, in quel territorio che confinava con i possedimenti della nemica Verona, avevano bisogno di erigere fortificazioni imponenti. La cinta muraria, come la si può ammirare oggi, misura circa 2 km e ha una forma rettangolare. È munita di numerose torri e di un fossato.
Montagnana (Padova). Un tratto della cinta muraria, innalzata in varie epoche, ma prevalentemente sotto Ezzelino da Romano e i Da Carrara (XIII-XIV sec.). Circondata da un fossato a prato, e costituita da cortine merlate rafforzate da 24 torri collegate da un cammino di ronda, si snoda attorno alla cittadina con un perimetro rettangolare di circa 2 km.
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ITINERARI
Veneto
Torcello
P
oche sponde della laguna veneta hanno la grazia dimessa, quasi sospesa, che distingue il minuscolo insediamento di Torcello. Venendo dall’acqua, l’isola mostra un profilo basso e avvolto dalla vegetazione, dal quale emerge appena la mole rosata del complesso episcopale: la cattedrale e S. Fosca, addossate all’alta torre campanaria che si disegna sull’azzurro trascolorante del cielo lagunare. Le linee piatte del paesaggio, i suoni ovattati e le rare abitazioni creano uno strano contrasto con il movimento perenne che anima Venezia. La calma palustre di Torcello non deve essere molto diversa da quella che l’arcipelago offriva, nel VI secolo, agli occhi dei suoi primi abitanti, artigiani, raccoglitori di sale, pescatori e barcaioli, che vivevano in «case povere e rustiche, come nidi di uccelli acquatici». Questo almeno è quanto riporta, in un rapporto indirizzato a Teodorico, Cassiodoro, uno dei piú grandi intellettuali della sua corte. A tale popolazione povera e dispersa si uní la folta comunità del
La chiesa di S. Fosca, risalenete al XII sec. e costruita probabilmente su un martyrion del VII sec.
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piú importante centro bizantino della regione veneta, Altino, che la conquista longobarda della terraferma agli inizi del VII secolo spinse bruscamente sulla laguna. L’arte medievale vive di immagini riflesse, edifici e oggetti dimenticati che la continuità vitale dei grandi centri lascia, come scorie, nei margini. Molto spesso, questi episodi minori conservano l’impronta di un passato trascorso, che le metamorfosi di un edificio fatalmente cancellano. Un legame di questo tipo unisce le due chiese medievali di Torcello alle fasi piú antiche della civiltà veneziana e al monumento che piú la rappresenta, S. Marco. Di quest’ultimo, e del suo lungo cantiere medievale, S. Maria Assunta e S. Fosca – entrambe ricostruite in epoca romanica – riverberano, in un’immagine curiosamente sdoppiata, le forme architettoniche e la piú antica decorazione musiva. E tuttavia l’impianto, gli edifici, i temi decorativi del complesso episcopale di Torcello rimandano anche piú indietro; in essi sopravvivono le radici stesse dell’arte
veneziana, riflessi di una cultura piú altomedievale che romanica, piú paleocristiana e ravennate che bizantina. Nell’isola lagunare, lontana dalle precarie fortune della terraferma, fu trapiantata l’intera capitale della provincia veneto-bizantina, con le sue istituzioni civili, i suoi costumi, le sue tenaci convinzioni religiose. Il primo segno d’identità dell’insediamento fu la costruzione della cattedrale, fondata nel 639 «per ordine di Isaac, esarca di Ravenna, regnante Eradio, imperatore di Bisanzio». La basilica fu intitolata alla Vergine, in aperta polemica con le credenze antimariane degli invasori longobardi. Di quest’origine greca e ortodossa, la chiesa conserva un’impronta chiara. L’edificio, ricostruito su se stesso tra XI e XII secolo, è una replica quasi perfetta di una basilica del VI secolo. Richiami piuttosto evidenti all’architettura ravennate si avvertono già nelle forme esterne della chiesa. La costruzione, innalzata in tempi diversi, mostra un’alta fronte a capanna venata da lesene sottili, quasi intagliate sul pallido rosa della cortina in mattoni. Sotto gli spioventi, una piccola lapide quadrangolare con la data del 1418 ricorda la conclusione dei restauri, promossi nel Quattrocento dal vescovo Pietro Nani. Alle linee volutamente spoglie dell’esterno, fanno contrasto gli
La facciata della cattedrale di S. Maria Assunta e, in basso, un particolare del mosaico con il Giudizio Universale.
spazi dilatati e la luce piena dell’aula. Allo stile e alla storia costruttiva della basilica di S. Marco – ma a una fase piú antica e meno definita – rimandano anche i mosaici dell’absidiola destra di Torcello. In questa zona della chiesa, si concentra la parte piú antica della decorazione, quella legata alla ricostruzione della chiesa voluta dal doge Pietro Il Orseolo (991-1009), padre di entrambi i vescovi che si succedono in questi anni sulla cattedra di Torcello. Il tema decorativo dell’absidiola conserva forti reminiscenze paleocristiane. Il brano piú noto dei mosaici di Torcello è la grande rappresentazione del Giudizio che occupa l’intera parete d’entrata della chiesa, dagli spioventi allo zoccolo del pavimento. Si tratta della piú antica rappresentazione del Giudizio Finale conservata in una chiesa dell’Occidente. L’immagine, dominata dalla Crocifissione annidata tra gli spioventi del tetto, è divisa in piú registri. Nelle diverse fasce della composizione si svolge un complesso programma dottrinale che dalla Resurrezione di Cristo – titolata alla greca, ANASTASIS – porta alla redenzione finale dei credenti. Alle oscure visioni della cattedrale si
Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.
contrappongono le pareti nude e la fragile luminescenza di S. Fosca. La chiesa, unita alla cattedrale dal lato sud del portico, ha un prospetto basso e quasi interamente racchiuso negli archi della galleria porticata che la circonda su tre lati. L’interno, a pianta centrale, ha sobrie pareti in cotto, profilate da minuti rilievi scolpiti che ne formano, insieme ai capitelli, la sola decorazione. I quattro bracci che formano il corpo della costruzione sono traforati da gallerie corte e strette, come raccolte attorno a una grande rotonda centrale. L’edificio ha un’origine abbastanza piú enigmatica di quella che caratterizza la
cattedrale. La sola notizia che lo riguardi è un documento del primo XI secolo che lo ricorda accanto alla basilica dell’Assunta. Quasi certamente, la piccola costruzione annessa alla cattedrale nacque per ospitare le reliquie di un corpo santo, quello di Santa Fosca, trafugato come quello di San Marco a Costantinopoli. Per questa ragione, la chiesa assunse la pianta a croce greca tipica dei martyria, gli edifici che custodivano in Oriente le spoglie dei santi. Meno chiari sono i passaggi successivi, che videro fiorire, sull’esterno, i complicati ricami delle decorazioni in cotto, proprie del romanico lagunare. Straordinaria e di grande suggestione è la visione della cupola che orna l’incrocio dei quattro bracci della chiesa. Il tamburo, movimentato da una doppia successione di nicchie, è concluso da un’originale copertura lignea a ombrello. La soluzione, derivata con buona probabilità da modelli di lontana tradizione ellenistica, avrebbe alle spalle ancora una volta un precedente veneziano: quell’antica e sfuggente fabbrica di S. Marco che sembra riverberarsi nelle solitarie chiese di Torcello, con mille raggi sconnessi. Lucinia Speciale il medioevo nascosto
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Veneto
In quell’anno, infatti, essi, insieme al conte di Padova Todello, sedettero a rendere giustizia in un placito che si tenne in una «magione pubblica», ubicata probabilmente in prossimità dell’antica chiesa di S. Paolo, importante centro religioso dell’abitato. Dopo il declassamento, dunque, pare che cominciasse a stendersi su Monselice l’ombra di Padova. Tuttavia, ancora per tutto il XII secolo, numerose sono le attestazioni relative alle proprietà demaniali dell’imperatore in quella terra. Quando poi al trono ascese Federico I Barbarossa, la sua azione volta al controllo delle città italiane si ripercosse immediatamente in una valorizzazione di Monselice come perno della politica militare italiana del sovrano: di fatto in questo contesto Monselice, sicuramente Comune a partire dal 1162, ridivenne distretto autonomo da Padova.
In assemblea con l’imperatore
Nel 1160, ad esempio, il conte Pagano, delegato imperiale, sedeva in giudizio nella «casa donicata» presso la chiesa di S. Paolo e nel 1161 presiedeva un placito contornato dai notabili locali e dai rappresentanti degli abitanti «maggiori» e dei «minori». Nel 1161 e nel 1184 a 80
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Monselice era presente l’imperatore in persona, che vi tenne assemblee giudiziarie. Solo nei decenni che fanno seguito alla pace di Costanza e alla morte di Federico I Monselice venne piú decisamente integrata nel distretto padovano, come è provato, tra l’altro, dall’escavazione del canale che unisce ancor oggi i due centri, l’attuale canale di Battaglia, intrapresa nel 1189 e completata in dodici anni di lavori. Tuttavia, nel 1237, quando si profilò per tutto il Padovano la minaccia, poi attuata, dell’occupazione da parte delle truppe di Ezzelino e di Federico II, i maggiorenti locali dichiararono immediatamente che Monselice era possesso diretto e patrimonio dell’impero. E in effetti subito vi venne accolto il nunzio dell’imperatore. Nel 1239 Federico II, visitando il centro, da lui considerato «camera speciale dell’impero» e «terra dell’impero», secondo i cronisti fondò il castrum che si trova sulla sommità, quello che poi diventerà la «Rocca». Come poi sia terminata l’esperienza federiciano-ezzeliniana, già si è visto. Ma la memoria delle antiche tradizioni ghibelline continuò a covare sotto la cenere e occasionalmente continuò a ripresentarsi fino a quando l’avvento
In alto l’Armeria del castello di Monselice. Allestita dal conte Vittorio Cini negli anni Trenta del Novecento, occupa il pianoterra della torre ezzeliniana del XIII sec. Nella pagina accanto la parte sommitale della torre civica, la cui costruzione risale probabilmente al 1244. L’attuale sagoma è frutto dei rimaneggiamenti operati nel XVI sec. Domina sui resti della piú esterna delle cinque cinte murarie della cittadina.
della dominazione veneziana, nel 1406, non pose davvero la parola fine sulla questione. Erede di una radicata tradizione di sede del potere pubblico, come si è visto, Monselice non godette mai della definizione di città se non in un documento del 1050, peraltro oggi molto discusso. D’altra parte il centro non fu mai sede vescovile, e questa era una clausola quasi certa di esclusione dal novero delle città propriamente dette. Tuttavia, le caratteristiche di questo centro, nelle fonti definito solitamente con il termine di «castello» o «terra», erano a tutti gli effetti urbane. A cominciare dal numero degli abitanti. Alla fine del Duecento vi si contavano 1093 fuochi familiari, per una stima approssimativa di piú di 5000 abitanti: un valore numerico vicino a quello di Torino o Trento.
Una realtà dinamica e fiorente
Nella seconda metà del Duecento Monselice è senza dubbio il piú importante tra i capoluoghi del distretto padovano. Il podestà che la città vi invia, non a caso, è il meglio pagato tra tutti quelli che erano chiamati a governare i vari poli del territorio di Padova. Peraltro, le strutture di governo locali appaiono articolate in un ventaglio di specializzazioni e competenze piuttosto diversificato: si va dai banditori ai responsabili della sorveglianza sulle coltivazioni, ai custodi del patrimonio animale, ai controllori dei pesi e delle misure. Monselice aveva inoltre conservato anche sotto il dominio padovano la consuetudine di ospitare nella pieve la pubblica assemblea, l’arengo: nel 1317 all’elezione di un procuratore comunale partecipano ben 664 aventi diritto. Vivace è anche il quadro delle imprese produttive, sulle quali spicca l’attività di estrazione di pietra da costruzione, la trachite dei Colli Euganei. Il centro ospitava anche numerose botteghe o stazioni di artigiani: il Comune ne possedeva tredici nelle vicinanze della chiesa di S. Paolo, ai piedi del colle, affittate a operatori di settori diversi. La ricchezza di Monselice aveva inoltre attirato in loco alla fine del Duecento una colonia di una quindicina di prestatori toscani, operanti sulla piazza locale e qui domiciliati. Ma molti altri erano gli immigrati a Monselice. Ne ricordiamo solo uno, particolarmente illustre, ovvero il poeta Guido Guinizzelli, che in questo centro giunse esule e vi morí. Il completamento della cerchia muraria piú esterna, i cui ampi lacerti sono ancora oggi visibili, operato dai Carraresi alla metà del Trecento, coronò, col contributo di un elemento strutturale dall’elevato contenuto simbolico, la promozione di Monselice a quella che, con espressione moderna, viene definita una «città murata».
visite e appuntamenti MUSEO CASA GIORGIONE Castelfranco Veneto (TV), piazza S. Liberale Orario estivo, da maggio a settembre: ma-sa, 10,00-13,00 e 15,30-18,30; do, 10,00-13,00 e 15,00-19,00; invernale, da ottobre ad aprile: ma-sa, 9,30-12,30 e 15,00-18,00, do 10,00-13,00 e 14,00-18,00; chiuso lu e nei giorni di Pasqua, Natale, 1° gennaio Info tel. 0423 735626; e-mail: info@museocasagiorgione.it; www.museocasagiorgione.it MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO ENO BELLIS Oderzo (TV), via Garibaldi, 63 Orario me-sa, 9,00-12,00 e 14,30-18,00; do, periodo invernale (ottobre-maggio): 15,00-18,00, e periodo estivo (giugno-settembre): 16,00-19,00
Info tel. 0422 713333; www.oderzocultura.it LA PARTITA A SCACCHI A PERSONAGGI VIVENTI Marostica (VI) Periodo settembre Info tel. 0424 72127 oppure 0424 470995; e-mail: info@ marosticascacchi.it; www.marosticascacchi.it PALIO DEI 10 COMUNI Montagnana (PD) Periodo agosto-settembre Info tel. 0429 800448; e-mail: info@ palio10comuni.it; www.palio10comuni.it DAMA CASTELLANA Conegliano (TV) Periodo metà giugno
Info 0438 455600; e-mail: dama@damacastellana.it; www.damacastellana.it
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friuli-venezia giulia
Villago
Forni Avoltri Tarvisio Ampezzo
Tolmezzo
Sella Nevea
Venzone Erto
SLOVENIA
Gemona del Friuli
Redona
Tarcento
Maniago
Pulfero
Faedis
Spilimbergo
Pordenone
Fagagna
Udine
Cividale del Friuli
Valvasone Codroipo
Gorizia
Clauiano Palmanova
Gradisca d’Isonzo
Sesto Al Reghena Oderzo
Portogruaro
Cervignano del Friuli Aquileia
Grado San Donà di Piave
L
Duino Aurisina
Trieste Muggia
iguri e Veneti erano stanziati in quello che oggi è il Friuli-Venezia Giulia prima dell’arrivo dei Carni, una popolazione celtica, nel V secolo a.C. Allora il territorio si estendeva oltre gli attuali confini orientali, nell’area culturale del cosiddetto Caput Adriae, che comprendeva anche l’Istria e l’alta valle dell’Isonzo. Furono i Romani a dare una prima solida impronta politica, culturale e architettonica al Friuli-Venezia Giulia: la rinomata colonia di Aquileia ricevette un’investitura quasi da capitale e divenne sede vescovile. Già in età antica, comunque, il confine odierno con Slovenia e Croazia era una zona turbolenta e per questo sorse un castrum nei pressi di Muggia come baluardo per i temuti attacchi da est degli Istri e degli Avari.
Con le invasioni barbariche gli equilibri politici della regione mutarono. Cividale del Friuli, fondata da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, divenne «capitale» della romana Regio X Venetia et Histria e, successivamente, del ducato dei Longobardi (dal V al VII secolo) che poteva contare su altre roccaforti, tra cui l’attuale Gemona del Friuli. In precedenza l’irruzione degli Unni di Attila – come era accaduto anche in Veneto – aveva costretto molti abitanti alla fuga verso le zone costiere, popolando piccoli centri abitati solo da pescatori, in particolare Grado. La conquista franca e le incursioni degli Slavi e degli Ungari rivoluzionarono nuovamente gli assetti della regione che entrò a far parte della grande Marca di Verona, poi annessa al ducato di Carinzia. Nel X secolo Aquileia, tornata a dettare legge, controllava un cospicuo numero di città, borghi e fortificazioni tra cui Udine, Venzone, nel cui territorio sono state scoperte alcune mummie, la zona di Trivignano Udinese, il castello di Fagagna, il villaggio agricolo di Gradisca d’Isonzo, Valvasone e Marano Lagunare.
A sinistra veduta aerea di Palmanova (Udine). La planimetria dell’abitato ha conservato l’impianto topografico cinquecentesco, caratterizzato da una compatta pianta a struttura radiale, tuttora racchiusa entro la cerchia delle mura, che disegnano una stella a nove punte. Nella pagina accanto Spilimbergo (Pordenone), il duomo. Di aspetto gotico, fu costruito tra il 1284 e il 1359; la facciata principale, quella a ovest, è caratterizzata da sette rosoni, particolare unico in Friuli. Sulla facciata settentrionale (a sinistra nella foto) si apre un magnifico portale romanico, opera di Zenone da Campione (1376).
Nel Basso Medioevo la regione ebbe uno sviluppo politico disarmonico: nell’entroterra prevalse il sistema feudale, amministrato dalle signorie, mentre sulla costa le città si organizzarono nella forma di liberi Comuni uniformandosi a quanto stava accadendo in gran parte del Nord Italia. Il decentramento politico provocò l’insorgere di lotte tra potentati locali, che resero piú vulnerabile il territorio agli attacchi esterni. Ne approfittarono i Veneziani che annetterono grandi porzioni del Friuli alla loro Repubblica, un’operazione che avrebbe in seguito rappresentato un valido ostacolo contro l’imperialismo asburgico. i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Trieste •DUINO AURISINA: rocca del XIV sec. •MUGGIA: parco archeologico, maniero del XIV sec. Provincia di Udine •CIVIDALE DEL FRIULI (vedi box a p. 90). •CLAUIANO (TRIVIGNANO UDINESE): borgo con originaria struttura medievale. •FAEDIS: castelli e ville medievali. •FAGAGNA: rocche risalenti al Basso Medioevo. •GEMONA DEL FRIULI: duomo trecentesco. •PALMANOVA: città fortificata rinascimentale.
•PULFERO: chiese medievali. •TARCENTO: parrocchiale del IV-V sec., rovine di antiche rocche. •VENZONE (articolo alle pp. 84-91). Provincia di Pordenone •SESTO AL REGHENA: abbazia dell’VIII sec. •SPILIMBERGO: torre occidentale (XIV sec.), castello (XI sec.) e duomo duecentesco. •VALVASONE: castello del XIII sec. e duomo quattrocentesco. Provincia di Gorizia •GRADISCA D’ISONZO: fortezza e duomo medievali. •GRADO: santuari e basiliche del VI sec.
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venzone
dove il medioevo è rinato di Maurizio Grattoni d’Arcano
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rmai in poche, pochissime città si avverte la sensazione di entrare in un luogo protetto, riparato, e quindi di rivivere il concetto di «grande» casa proprio dell’uomo medievale, che concepiva l’abitare come una sorta di scatole cinesi: il luogo «piú secreto» della camera da letto, ubicato all’interno dell’abitazione, e questa all’interno della città. Tale concezione è venuta meno soprattutto per via delle dissennate distruzioni di mura e torri-porta che hanno snaturato molti nostri centri storici. Cosí non è avvenuto a Venzone, piccola cittadina dell’alto Friuli, che si presenta al visitatore con gran parte del circuito murario: un duplice anello di pietra ulteriormente protetto da un largo fossato che racchiude un agglomerato urbano di grande suggestione, costituito da belle case antiche raccolte attorno al medievale palazzo comunale e all’imponente duomo trecentesco. Il tutto con il magnifico sfondo degli alti monti Plauris, Ledis e San Simeone. Eppure, poco meno di quarant’anni fa, nel maggio e nel settembre 1976, i due violenti terremoti che sconvolsero il Friuli avevano quasi annientato questo gioiello: cumuli di macerie ingombravano le belle stradine medievali e al dolore per le tante vittime si aggiungeva anche il rimpianto per aver perso uno fra i piú interessanti complessi della regione. Ora quasi tutto è stato ricostruito, in certi casi meglio di prima, essendo state rimosse non poche superfetazioni che ostacolavano la piena lettura di episodi architettonici e urbanistici davvero unici. Recenti ritrovamenti effettuati durante i restauri del duomo hanno consentito di provare la frequentazione romana del sito almeno dal IV secolo d.C. E ciò era prevedibile, considerato che nei pressi transitava la strada Iulia Augusta. Il ruolo di controllo commerciale e
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In basso una bifora del rinascimentale palazzo Radiussi. Nella pagina accanto il Palazzo Comunale, costruito tra il 1390 e il 1410 in stile gotico veneziano, e in seguito ampliato e modificato. La torretta dell’orologio è un’aggiunta cinquecentesca.
strategico, sulla via che ancora nelle epoche successive metterà in comunicazione il Friuli con i Paesi tedeschi e slavi, viene ribadito anche nella prima citazione documentaria di Venzone, una donazione di Berengario del 923, in cui si fa riferimento alle «Clausae de Abincione»: alle Chiuse, quindi, a riprova della funzione di sbarramento doganale che fin da allora il centro manteneva.
Dalla donazione all’autonomia
Donato nel 1001 alla Chiesa d’Aquileia da Ottone III, probabilmente alla fine del XII secolo il borgo fu infeudato a due casate friulane, i signori d’Arcano e i signori di Mels, ma già verso la metà del Duecento i primi cedettero ai secondi ogni diritto. E si deve proprio a Glizoio di Mels una serie di importanti iniziative, poste in essere in tempi assai ravvicinati nell’ambito di un preciso progetto di «lancio promozionale» del territorio: l’ampliamento del futuro duomo (1251), la concessione di un mercato settimanale (1252), fondamentale per lo sviluppo dell’abitato, e l’erezione dei circuiti muniti (1258). Cessata nel 1288 la signoria dei Mels, per buona parte del XIV secolo Venzone fu coinvolto in continui fatti d’arme, soprattutto contro la vicina comunità di Gemona – rivale per la gestione dei traffici commerciali – e contro lo stesso patriarca d’Aquileia; nel 1309, per esempio, ripreso dalle truppe patriarcali dopo una ribellione, vide le sue difese atterrate ma nell’anno stesso prontamente ricostruite. In origine, le mura trecentesche contavano sedici torri con tre porte; ne sopravvivono dodici con la porta di S. Genesio (anticamente Sanzenetto), torre scudata un tempo munita di ponte levatoio, conservata quasi interamente nelle forme medievali. Le merci erano costrette a transitare attraverso le porte «di sopra» e «di sotto», aperte sull’asse nord-sud – demolite, quella meridiona-
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un capolavoro firmato L’autore del portale settentrionale del duomo di Venzone, ben consapevole della bellezza dell’insieme, si «firma» con fierezza in una croce clipeata murata sull’arco e recante l’anno 1308: «Magister Iohannes fecit hoc opus». Si tratta di un lapicida (e quasi certamente anche architetto), esponente dell’importante scuola il cui manufatto datato piú antico risale al 1290. In Venzone e nella vicina Gemona lasciò la maggior parte della sua produzione conosciuta, frutto di mediazioni fra l’arte nordica, veneto-bizantina e padana, di radice senz’altro romanica ma con fusto e chioma gotici. Il ductus architettonico e scultoreo, soprattutto per quanto riguarda la risoluzione dei portali, trova assonanze con quanto presente nella chiesa abbaziale di S. Paolo di Lavanttal, nella Carniola superiore (Carinzia), eretta fra il 1180 e il 1220. L’aggancio stilistico è supportato anche da precisi riscontri storici: al monastero erano stati assegnati beni in Friuli fin dalla sua prima dotazione (1091), ottenuti dai fondatori, i conti di Spanheim. Enrico († 1124) diventerà duca di Carinzia ereditando dagli Eppenstein, a loro volta fondatori del monastero friulano di Rosazzo la cui avvocazia, assieme a quella di S. Paolo, sarà riunita nelle mani degli eredi. Con il 1286, il ducato carinziano giunge a Mainardo, conte di Tirolo e Gorizia, ed è proprio a questi che nel 1288 il patriarca Raimondo concederà in feudo Venzone. Non è improbabile, quindi, che il magister operante a Venzone e a Gemona sia entrato in contatto con l’ambiente di S. Paolo o addirittura provenga da questo. La scuola ebbe un raggio d’azione che andò oltre il ristretto ambito delle due cittadine friulane e – anche se con visibili sintomi di decadenza – continuò per altri decenni, realizzando opere caparbiamente ricollegabili ai modelli illustri della bottega che siglano la fine di un momento assai importante e caratterizzante per l’arte friulana medievale.
le parzialmente ricostruita nell’Ottocento – con conseguente pagamento di dazi. I notevoli gettiti, dovuti anche al soggiorno dei molti mercanti in transito e alle occasioni di scambi commerciali, vennero meno già con l’avvento della Repubblica veneta (1420) ma soprattutto a partire dal XVI secolo, e ciò portò alla «cristallizzazione» di quanto era stato edificato, impedendo grandi trasformazioni urbane. Fra il 1390 e il 1410 nella piazza principale viene costruito il palazzo pubblico, rappresentazione tangibile della riconosciuta autonomia 86
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In alto il portale settentrionale del duomo, ricostruito per anastilosi dopo il terremoto del 1976. Intitolato a sant’Andrea, il principale tempio venzonese fu iniziato nel 1300 e consacrato il 2 agosto 1338 dal patriarca Bertrando di San Geniès.
formalizzata pochi anni prima, nel 1391. Secondo il consueto schema per edifici del genere, al pianterreno si apre un ampio loggiato mentre un solenne scalone esterno conduce alla vasta sala ove si riuniva il Consiglio Maggiore o «dei Quaranta» al quale, assieme al Consiglio Minore o «dei Dodici» e all’Arengo, costituito da tutti i capifamiglia, era affidata la gestione della città, dotata di statuti propri e con diritto a sedere nel Parlamento friulano. Ma ancor di piú grande impatto visivo è l’imponente mole del duomo, di forme schiettamente gotiche, con accanto il battistero circolare. Consacrato dal patriarca Bertrando nel 1338 (all’interno, un affresco successivo di un cinquantennio tramanda l’immagine dell’avvenimento), era sorto ingrandendo l’antica
La porta di S. Genesio, detta anticamente Sanzenetto. Ăˆ una torre scudata, un tempo munita di ponte levatoio, conservata quasi interamente nelle sue forme medievali. Venzone venne fatta
fortificare nel 1258 da Glizoio di Mels, che dispose la realizzazione di una doppia cinta muraria, preceduta da un profondo fossato e nella quale si contavano sedici torri con tre porte. il medioevo nascosto
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Friuli-Venezia Giulia A sinistra l’orologio e il leone di San Marco sulla torre del Palazzo Comunale. Nella pagina accanto, nel box un momento della della Festa della zucca, in occasione della quale le strade di Venzone tornano ad animarsi di un’atmosfera medievale. Nella pagina accanto, a destra l’esterno del duomo di Venzone, che termina con un transetto a tre absidi, ai cui lati svettavano due torri: quella di sinistra (a destra nella foto) fu adibita a campanile e, rialzata dopo il sisma del 1976, è tornata ad assolvere alla sua funzione.
chiesa di S. Andrea, costruita da Glizoio di Mels nel 1251 ampliando a sua volta un precedente sacello probabilmente intitolato a san Mauro. Entrambe queste chiese suggeriscono una matrice feudale, ricollegandosi ai santi patroni delle due casate signore di Venzone: san Mauro per gli Arcano e, appunto, sant’Andrea per i Mels.
Quasi un incantesimo
Il tempio si presenta a croce latina, a navata unica e largo transetto con copertura a capriate; in fondo le tre absidi poligonali voltate a 88
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crociera affiancate dalle due robuste torri a pianta quadra (quella nord cuspidata), secondo un modello di chiara derivazione oltralpina. Quasi del tutto distrutto nel secondo terremoto del 1976, è stato ricostruito per anastilosi, ossia ricollocando ogni elemento lapideo nella posizione esatta che occupava prima del crollo, giovandosi di fotografie e, per ogni concio, analizzando materiale e lavorazione, stato di usura, resti di malte e cosí via. Furono recuperati quasi 8000 pezzi, piú del 90% degli originari. Ed era veramente impressionante vedere i depositi, sterminate distese coperte di
La festa della zucca Secondo la Leggenda della zucca d’oro, Venzone, dopo aver terminato le cinte murarie e il grandioso duomo, dette «cominciamento» alla torre campanaria. Ma le casse della comunità erano drammaticamente vuote e soltanto a forza di nuove tasse, pedaggi e soprattutto chiedendo ai cittadini giornate di lavoro senza retribuzione, il campanile fu terminato: tutto in pietra, alto e possente, vero orgoglio della città. Per coronare un’opera cosí grandiosa e realizzata con tanta fatica, si pensò di ornarne la guglia con una sfera dorata, e per questo fu chiamato un udinese. A lavoro ultimato, l’artigiano ebbe però una brutta sorpresa: a causa delle grandi spese, per la comunità sarebbe stato veramente pesante pagare per intero il compenso pattuito e quindi, volente o nolente, si sarebbe dovuto accontentare soltanto di un terzo della somma. L’uomo fece buon viso a cattivo gioco e incassò. Ma prima di lasciare la città – beffa per beffa –, nela notte si arrampicò sulla guglia e sostituí la sua bella palla con una zucca; da basso l’effetto era lo stesso. In breve la falsa sfera cominciò a mutare colore e forma, fino a quando cadde miseramente in pezzi. Solo allora i Venzonesi si accorsero della burla. Per ricordare tutto ciò, ogni anno a Venzone, la quarta domenica di ottobre, si celebra la Festa della zucca, una manifestazione particolarissima che vede rivivere il borgo medievale, con armigeri, borghigiani e rustici, musici e artigiani, giocolieri, mangiafuoco e tante, tante, tante zucche: semplicemente esposte nelle case e nelle strade ma anche «in lizza» per competizioni di grandezza e bellezza. Naturalmente anche utilizzate per offrire cibarie inconsuete, spesso confezionate secondo antichi ricettari.
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ividale del Friuli è un libro aperto su millenni di storia, fin dal Paleolitico. Storia di guerre, invasioni, splendori che fecero emergere la dote di resistenza alle minacce di perdere la propria identità. La stessa denominazione della cittadina trae origine da quella di civitas conferitole dal longobardo re Alboino quando la fondò nel 568 e ne fece la capitale del regno. Anche se poi devastata dagli Avari, nell’VIII secolo era ancora sede importante della terra longobarda. Era un territorio la cui geografia non poteva non esporlo al transito dei nuovi popoli. Dopo i Longobardi fu la volta dei Franchi. Destino volle che la decadenza di Cividale fosse provocata dalla vicina Repubblica di Venezia cui si era affidata per essere protetta dall’assedio degli Ungari. Soggiogata invece dalla Serenissima perse gradualmente prestigio e divenne dominio austriaco fino al 1866, quando fu annessa all’Italia, per poi ritrovarsi, con la prima guerra mondiale e la sconfitta di Caporetto, occupata dall’Austria ancora per un anno. Nel libro aperto di Cividale i segni lasciati nel suo corpo architettonico da queste vicende ne costituiscono il cuore altomedievale.
In basso una delle lastre a rilievo che compongono l’altare di Rachi, raffigurante l’Adorazione dei Magi. Il monumento viene datato tra il 737 e il 744, periodo in cui il nobile longobardo era duca del Friuli (in seguito fu anche eletto re, dopo la deposizione di Ildebrando). Cividale del Friuli, Museo Cristiano.
Vi spicca il «tempietto longobardo», ossia l’oratorio di S. Maria in Valle (VIII-IX secolo), e altre testimonianze sono raccolte nel Museo Cristiano. Del 1453 è il duomo di S. Maria Assunta con preziose opere d’arte. Per questi e altri monumenti la cittadina gode del patrocinio dell’UNESCO quale Patrimonio dell’Umanità. Fa storia a sé il Ponte del Diavolo posto sul fiume Natisone. Nel XIII secolo era ancora una precaria struttura in legno, finché dal 1442 fu iniziata la trasformazione in solido laterizio che si protrasse per cinque anni fra difficoltà di vario genere e terminò alla metà del Cinquecento. Dato il regime particolare 90
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pietre che gradatamente – come per un incantesimo – riprendevano il loro posto, dapprima nella ricomposizione a terra, poi nell’edificio: quasi un terremoto al contrario. Anche se non sempre si sono voluti riproporre i materiali e le tecniche tradizionali – purtroppo preferendo spesso il cemento nelle parti non a vista –, l’aspetto di Venzone riesce ancora a catturare il visitatore.
Il recupero delle tradizioni antiche
Molta attenzione è stata posta nel rifacimento degli intonaci, quasi da accarezzare, morbidamente «adagiati» sulle murature rispettandone – come un tempo – le irregolarità; oppure nel restauro dei particolari in pietra, lavorati a mano da moderni lapicidi, ma anche in questo caso ripercorrendo le vecchie pratiche artigiane; o, ancora, nella volontà di rispettare l’antico assetto urbanistico, con le piazze e le viuzze sulle quali si aprono botteghe e osterie. E poi ci sono piccole citazioni di vita quotidiana come, per esempio, i due ingressi carrai in alcuni edifici: per lo spazio angusto, un carro sarebbe potuto uscire dalla stessa apertura soltanto dopo lunghe manovre e quindi i Venzonesi spesso preferivano costruire sia il portone d’entrata che quello d’uscita. Una realtà preziosa, questa città, che l’uomo ha saputo costruire per ben due volte.
visite e appuntamenti MUSEO CIVICO DI GEMONA Gemona del Friuli (UD), via Bini, 9 Orario da ottobre a aprile: 10,00-12,30 e 14,30-18,00; da maggio a settembre: 10,00-13,00 e 15,30-19,00 Info tel. 0432 971399; www.gemonaweb.it
del fiume, sottoposto a frequenti piene, si succedettero gli interventi di restauro. Quando l’arco sembrava giunto alla fine della sua storia travagliata accadde l’irreparabile: nel culmine della battaglia di Caporetto, per privare le truppe austriache di una preziosa via di collegamento, il ponte fu minato dagli Italiani e fatto saltare il 27 ottobre 1917. Del tutto inutilmente dato che il nemico germanico aveva varcato altrove il Natisone. Tuttavia il Ponte del Diavolo poté risorgere a nuova vita proprio grazie a tecnici tedeschi che, col sussidio dei rilievi di un ingegnere di Cividale, ridiedero al manufatto la forma originaria.
In alto veduta di Cividale del Friuli. In primo piano è il Ponte del Diavolo, che con la sua doppia arcata permette l’attraversamento del Natisone. Sullo sfondo si riconosce invece il Duomo, che, nelle sue forme attuali, è frutto dei rimaneggiamenti operati tra la metà del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento.
MUSEO ARCHEOLOGICO MEDIEVALE DI ATTIMIS Attimis (UD), via Principale, 99 Orario da ottobre ad aprile: sa-do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; da maggio a settembre: sa-do, 10,00-13,00 e 16,00-19,00 Info tel. 0432 789700; e-mail: info@museoattimis.it; www.museoattimis.it MESSA DELLO SPADONE Cividale del Friuli (UD) Periodo Epifania Info tel 0432 710460 oppure 0432 710422; e-mail: turismo@cividale.net; www.cividale.net. RIEVOCAZIONE STORICA DELLA MACIA Spilimbergo (PN) Periodo agosto Info tel 0427 2274; e-mail: info@prospilimbergo.org
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Ronco Scrivia EMILIA-ROMAGNA
PIEMONTE
Sassello
Tan aro
Cuneo
Albisola Sup.
Savona
Vado Ligure
Noli Finale Ligure
Zuccarello Pieve di Teco Triora
Loano
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Monaco
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l territorio dell’odierna Liguria vanta antenati illustri: innanzitutto i Liguri, il popolo che le ha dato il nome, dopo i quali si avvicendarono Celti, Greci, Fenici e Cartaginesi. I Romani vi giunsero nel II secolo a.C. e la governarono unitamente al sud del Piemonte. A quell’epoca erano sorte le città di Genova, Savona, Vado Ligure – il cui nome antico (Vada Sabatia) è citato nelle lettere del politico Marco Giunio Bruto e dallo storico greco Strabone –, Ventimiglia – città che ricevette lo status di municipium da Giulio Cesare –, Lavagna e Moneglia, luogo strategico lungo la via Aurelia. Altri centri di rilievo erano Bajardo – con un passato celtico testimoniato dai suoi obelischi–, Porto Venere – la «perla» del Golfo dei Poeti –, Albenga – un tempo conosciuta come «città delle 100 torri» – e Luni, i cui resti romani sono tuttora visibili nella zona del Comune di Ortonovo. Eruli e Goti incutevano terrore nell’era delle invasioni barbariche, ma furono i Longobardi alla fine, nel V secolo, a dominare sulle terre ex romane. Alle soglie dell’anno Mille la regione, funestata dagli assalti via mare dei Saraceni e dei Normanni, venne divisa in tre principali aree: la Marca Arduinica (dal territorio piemontese a Ventimiglia), la Marca Aleramica (il Monferrato con Albenga e Savona) e la Marca Obertenga (una parte della Lombardia fino a Genova e Luni). Nell’elenco dei centri arduinici figuravano i suggestivi borghi di Triora, la «cittadina delle streghe» e Taggia. Roccaforti aleramiche, oltre a Savona e Albenga, erano invece Finale Ligure, che ebbe un proprio marchesato nel Basso Medioevo, e Millesimo, fondata secondo la leggenda da un soldato stanco di marciare in ultima fila nelle divisioni romane. Tra i centri amministrati dalla Marca Obertenga, infine, spiccavano i nomi di Moneglia, Lerici e Monterosso al Mare, tappa costiera delle Cinque Terre. Nel periodo dei Comuni molti piccoli centri si dotarono di propri statuti: uno dei primi a compiere l’ardito passo fu Apricale, nel 1267. Dal XII secolo la Liguria visse progressivamente sotto l’influenza di
Genova, divenuta potentissima Repubblica e in perenne lotta contro la rivale Venezia, che avrebbe in seguito sconfitto nella battaglia di Curzola del 1298 e nell’epilogo della guerra di Chioggia del 1381. L’espansione genovese coincise con la crisi dei Comuni, che in gran parte dovettero giurarle fedeltà. Mantennero piú a lungo la loro autonomia i borghi della Riviera di Ponente, come Savona, Ventimiglia, Albenga, Noli e Finale Ligure.
A sinistra Lerici (La Spezia). La cittadina è dominata dalla mole possente del castello: edificato nel XIII sec. dai Pisani, deve il suo aspetto attuale alle successive modifiche genovesi (XIV-XVI sec.). In basso una veduta di Porto Venere (La Spezia), dall’isola di Palmaria. Sulla sinistra è la chiesa di S. Pietro (XIII sec.), che ingloba i resti del tempio pagano di Venere e di una chiesetta paleocristiana.
i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Genova •CAMPO LIGURE: castello Spinola (XII sec.). •LAVAGNA: chiese medievali, ponte della Maddalena (XIII sec.). •MONEGLIA: fortezza di Villafranca (XII sec. ), chiese medievali. Provincia di La Spezia •BRUGNATO: cattedrale e adiacente palazzo vescovile del XII sec. •CASTELNUOVO MAGRA: rocca del XIII sec. •LERICI: castello del XII sec., chiese quattrocentesche. •MONTEROSSO AL MARE: chiese del XII e del XIII sec. •Porto Venere (vedi box a p. 100). •ORTONOVO: resti dell’antica Luni, rocche medievali. •VARESE LIGURE: “borgo rotondo” di impianto medievale, castello Fieschi (XV sec.). Provincia di Savona •ALBENGA: battistero paleocristiano
(IV-V sec.), cattedrale (XII sec.), torri medievali. •FINALE LIGURE (articolo alle pp. 94-101). •MILLESIMO: castello del XIII sec. •NOLI: rocca (XII sec.), torri cittadine (XIII sec.), palazzi quattrocenteschi. •VADO LIGURE: ruderi di una rocca medievale, ponte Filippo Maria Visconti (XV sec.). •ZUCCARELLO: porte medievali, chiesa duecentesca, resti di un antico maniero. Provincia di Imperia •APRICALE: borgo quasi interamente medievale. •BAJARDO: chiese medievali. •DOLCEACQUA: castello Doria del XII secolo, ponte romanico e chiese dell’Età di Mezzo. •LINGUEGLIETTA (CIPRESSA): vicoli di impianto medievale, chiesa-fortezza romanica. •PIEVE DI TECO: chiese e oratori medievali. •TAGGIA: chiesa del X sec., palazzi quattrocenteschi. •TRIORA (vedi box a p. 98).
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finale ligure
sentinella sul mare
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di Francesco Colotta
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l borgo di Finale Ligure è uno dei pochi luoghi in Italia che possa vantare la presenza di reperti risalenti al Paleolitico e nello stesso tempo una gloriosa storia medievale. Il suo territorio comunale custodisce tesori inestimabili, a partire dalla cavità delle Arene Candide, una delle piú importanti stazioni preistoriche dell’Europa mediterranea. Ricche sono anche le tracce che riportano al periodo romano e agli anni tormentati delle invasioni barbariche. L’epoca del massimo splendore per la città giunse, però, piú tardi, nel XII e nel XIII secolo, quando dal piccolo abitato di Finalborgo, oggi uno dei quartieri di Finale Ligure, ebbe inizio l’epopea di un grande marchesato, che fece tremare anche la potentissima Genova. Solo nel 1797 l’antico Stato venne ufficialmente sciolto in seguito alla fondazione della Repubblica Ligure per opera di Napoleone Bonaparte.
Una terra di confine
In epoca preistorica la zona di Finale era occupata dalla popolazione dei Liguri, che diedero vita a villaggi rurali, i «pagi». All’epoca della dominazione romana quell’insediamento divideva il territorio dei Liguri Sabazi (nel Savonese) e quello dei Liguri Ingauni (la zona di Ventimiglia e della Riviera di Ponente). La dominazione romana favorí la crescita politica ed economica dell’intero Finalese, nei cui pressi transitavano due grandi direttrici: la via Aurelia e la via Giulia Augusta. Le invasioni barbariche in queste terre non furono devastanti come in altre regioni d’Italia, anche se si manifestarono con una certa frequenza. I Visigoti di Teodorico invasero parte del territorio costiero, ma l’area dell’odierno comune rimase sotto il controllo bizantino fino al 641, quando nella zona fecero breccia i Longobardi di Rotari. Il castrum situato nella zona di Varigotti non fu in grado di bloccare l’invasione e venne distrutto come altre aree della città: per la Riviera di Ponente ligure, era solo Uno scorcio di Finalborgo (Finale Ligure, Savona). A destra è la Porta Reale, uno dei quattro accessi a questo nucleo della cittadina, mentre sulla sinistra si riconosce la basilica di S. Biagio. La chiesa si presenta oggi nelle forme barocche conferitele nel Seicento dall’architetto finalese Andrea Storace; della precedente fabbrica medievale (1261) si conservano unicamente l’abside e il campanile tardo-gotico a pianta ottagonale, leggermente pendente, ingentilito da bifore che si aprono su ogni lato e inserito su una torre difensiva della cerchia anteriore al 1452.
l’inizio delle tribolazioni. Dopo un breve periodo di tranquillità, che coincise con l’occupazione franca a cavallo tra l’VIII e il IX secolo, giunsero, in ripetute ondate, prima i Normanni e poi i Saraceni. I pericoli arrivavano soprattutto dalla costa e per questo alcuni abitanti si trasferirono sulle alture, nelle zone piú interne della regione. Finale, quindi, si spopolò, ma per poco. I borghi marini, infatti, decisero di attrezzarsi per opporre un valido argine agli attacchi costituendo le cosiddette «compagnie», organizzazioni autonome del tutto assimilabili ai Comuni, guidate dai consoli o un gastaldo. Per controllare meglio le coste nella zona di Varigotti, Capo San Donato e Caprazzoppa furono innalzate torri di avvistamento. La tradizione racconta che, alle soglie dell’anno Mille, Finale subí un fulmineo attacco via mare da parte dei Saraceni. Gli invasori, appena sbarcati, decisero di saccheggiare la prima abitazione che avessero trovato sul loro cammino: era il negozio di una fornaia, la quale respinse eroicamente gli aggressori, lanciandogli contro palate di tizzoni ardenti. In breve tempo un improvvisato esercito di cittadini si uní alla donna, costringendo i Saraceni a fuggire verso il mare aperto.
L’era delle marche
In quel secolo il territorio di Finale risultò citato per la prima volta in un documento: si nominava il castello di Orco (oggi nel comune di Orco Feligno), che l’imperatore Ottone I aveva regalato al nobile Aleramo del Monferrato. Nel frattempo, si era aperta una nuova epoca, dominata da famiglie potenti, che amministravano vaste aree della Liguria e del Piemonte. Il Finalese apparteneva a una delle tre marche fondate dal re d’Italia Berengario II per assicurare una migliore gestione politica della parte nord-occidentale della Penisola e per meglio contrastare, nel contempo, le incursioni saracene: la Marca Arduinica a occidente, la Marca Aleramica al centro, e la Marca Obertenga a oriente. Il progetto di Berengario venne però disatteso dai governanti, che frammentarono i loro poteri, dividendo i possedimenti tra i diversi figli. La questione saracena era stata in sostanza risolta, ma si profilava all’orizzonte uno scontro tra piccoli e grandi feudatari, anche tra coloro che risultavano strettamente apparentati. In particolare, l’autorità sulla Marca Aleramica, a cui apparteneva Finale, risultò spezzettata in vari domini dopo la morte del primo il medioevo nascosto
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In alto veduta di Finale Ligure, con, in primo piano, la falesia della Caprazoppa, sulla cui sommità si trova l’omonima torre, una delle strutture con funzioni di avvistamento realizzate per difendersi dalle incursioni saracene. Nella pagina accanto Porta Testa, un altro dei quattro ingressi al nucleo di Finalborgo, che, nelle forme attuali, risale al rifacimento del 1452.
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governante, Aleramo del Monferrato. I discendenti diedero forma al Marchesato di Savona che ebbe in Bonifacio del Vasto uno degli amministratori piú efficienti. A sua volta, Bonifacio lasciò in eredità i possedimenti ai suoi sette figli che contribuirono a un’ulteriore parcellizzazione di poteri. Al quintogenito Enrico, detto «il Guercio», spettò il territorio del Finalese, oltre che Savona, Noli, Cairo Montenotte e alcuni castelli.
Prodromi di grandezza
Capostipite della dinastia dei Del Carretto, Enrico era un uomo d’azione, un reduce della seconda crociata, durante la quale aveva perso un occhio in seguito a un corpo a corpo con un soldato islamico. Il giovane nobile poteva contare sull’amicizia dell’imperatore tedesco Federico Barbarossa che spesso lo invitava a corte affidandogli importanti missioni diplomatiche. Nel 1162 il monarca svevo lo investí ufficialmente del ruolo di guida della Marca di Savona, ma anche quel territorio, di lí a poco, sarebbe andato incontro a una disgregazione. Alcune città reclamavano una propria autonomia, prima fra tutte Savona, e risultava davvero arduo piegare la loro volontà in un periodo in cui si assisteva all’irresistibile ascesa dei Comuni. Per questo motivo il figlio del Guercio, Enrico II, scelse di limitare la sua giurisdizione su un territorio meno turbolento, nel quale non esistevano battagliere famiglie in grado di contrapporsi a un’autorità centrale. Caratteristiche che corrispondevano in pieno al profilo politico del Fina-
lese. La zona, tra l’altro, era ben difesa da tre rocche, Perti, Orco e Pia, e si trovava lungo una trafficata strada commerciale che dal mare portava in Piemonte. Nacque cosí il Marchesato di Finale. Alcuni storici ritengono fosse, invece, già virtualmente in funzione fin dal 1162, quando il capostipite dei Del Carretto aveva dovuto far presto i conti con l’ingovernabilità di Savona e Luni. Uno dei primi provvedimenti di Enrico II fu la fortificazione, nel 1188, dell’abitato di Finalborgo, uno degli odierni rioni di Finale Ligure, che fu dotato di mura di cinta e fossati. Fece edificare anche un maniero nel circondario, Castel Gavone, che scelse come residenza familiare. La linea politica dei Del Carretto mantenne sempre un profilo piuttosto coerente.
Finale sfida Genova
Schierati a fianco dell’impero, i nobili finalesi entrarono presto in conflitto con la guelfa Repubblica di Genova, che ambiva a controllare i concorrenti traffici marittimi nel Savonese. Enrico II aveva ereditato anche alcuni possedimenti piemontesi in Val Bormida e in quella regione decise di stabilire una seconda capitale del marchesato, a Millesimo. Alla sua morte, il figlio Giacomo assunse il controllo del piccolo Stato e si legò in modo ancora piú stretto agli imperatori germanici. Dopo aver firmato vantaggiosi accordi commerciali con Savona, sposò la figlia naturale di Federico II di Svevia, Caterina di Marano nel 1247. La fortuna di Giacomo seguí, pertanto, il destino dell’impero germanico. E quando Federico
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triora
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riora, la «Salem d’Italia» ha un aspetto tipicamente medievale, ma la sua storia evoca soprattutto il Rinascimento. Nel 1587, in questo borgo in provincia di Imperia, si svolse uno dei piú grandi processi italiani di stregoneria. Nel mirino dell’Inquisizione finirono alcune donne ritenute colpevoli di aver provocato il lungo periodo di carestia che il paese stava vivendo. In realtà l’iniziativa dell’accusa era partita dal parlamento locale e solo in seguito le autorità inquisitorie avevano assunto la competenza del caso applicando subito metodi di tortura nei riguardi delle imputate. Una di queste, Isotta Stella, morí per le ferite ricevute, mentre un’altra, sospettata, si suicidò in carcere. Il borgo era allora sotto la giurisdizione di Genova e il caso giunse alle orecchie dei vertici della Repubblica. Dopo una serie di indagini il governatore ricevette informazioni contraddittorie e, non convinto della situazione, decise di richiamare gli inquisitori, bloccando di fatto il processo. Triora, però, affascina soprattutto per il suo aspetto urbanistico. Posto a 780 m sul livello del mare, il borgo possiede pregevoli esempi di architettura religiosa medievale come le chiese della Madonna delle Grazie (XII secolo), S. Dalmazio (XIII secolo), S. Caterina di Alessandria (XIV secolo) e S. Bernardino (XV secolo).
I tesori di finale Trovare tracce di Medioevo a Finale Ligure è una sorta di caccia al tesoro, spesso resa difficile dalle stratificazioni intervenute nel corso dei secoli. Nell’antica zona di Finalborgo sopravvivono il convento di S. Caterina, che risale al 1359, e il Palazzo del Tribunale (XIV secolo), quartier generale amministrativo dell’antico marchesato. È dell’XI secolo, invece, una parte della chiesa di S. Eusebio, poi completata nel Duecento. Anche la chiesa di S. Antonino, nella frazione di Perti, presenta elementi medievali in stile romanico. Di notevole impatto visivo e di grande valore storico sono le testimonianze dell’architettura militare: il castrum Perticae (VI-VII secolo), i resti di Castel Gavone (XII secolo), che era la residenza dei marchesi, e il Castelfranco, fortezza concepita, al contrario, dai nemici della Repubblica di Genova nel 1365. Da menzionare, infine, la torre di Belenda del XIV secolo, situata nella frazione di San Bernardino.
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morí, Finale fu sconfitta dai Genovesi, che pretesero dal nemico il pagamento dei danni di guerra. Giacomo riuscí in parte a provvedere alla liquidazione delle somme vendendo il trono d’oro e altri oggetti preziosi appartenuti all’imperatore svevo. Con grande abilità politica, poi, contenne la crisi finanziaria ai suoi territori incrementando gli scambi commerciali con i marchesati vicini.
Quel lasciapassare a Carlo d’Angiò
Il declino di Finalborgo e delle cittadine apparentate, però, fu inevitabile e seguí alla morte di Giacomo. Il marchesato di Finale si divise in tre distinte amministrazioni con a capo i suoi figli: Finale e il circondario spettarono ad Antonio, che strinse un patto con Corradino di Svevia permettendo, con scarso fiuto politico, il suo imbarco dalle coste del Savonese verso il Sud Italia nel 1268. Il condottiero tedesco voleva riconquistare Napoli e il Regno di Sicilia passati nelle mani degli Angioini dopo la battaglia di Benevento del 1266. Per aver concesso questo lasciapassare, Antonio Del Carretto indispettí i potenti alleati di Carlo d’Angiò che lo costrinsero a giurare fedeltà al re di Napoli. Il marchese di Finale e i suoi fratelli erano ormai stretti tra due morse. Genova, nel frat-
In alto una veduta di Triora (Imperia), arroccata su uno sperone del monte Trono. Fu parte della Marca Arduinica fino all’XI sec. per poi passare ai conti di Ventimiglia (XII sec.) e, dal 1261, a Genova, che la mise a capo di una podesteria. L’abitato, noto soprattutto per il processo celebrato nel 1587 contro alcune donne accusate di stregoneria, conserva il tipico aspetto medievale. Nella pagina accanto Castel Gavone, la cui prima fondazione, su precedenti strutture difensive, viene attribuita a Enrico II Del Carretto, nel 1181. Dopo varie vicissitudini, nel 1715 venne in gran parte smantellato dai Genovesi.
tempo non mollava la presa e mirava a sottomettere i Del Carretto per impossessarsi dei loro fiorenti traffici mercantili. Antonio cedette e firmò un trattato che prevedeva lo scalo a Genova di tutte le navi di Finale. Nel 1358 piú della metà dei domini del vecchio marchesato vennero acquisiti dal governo della repubblica. Il XV secolo, invece, si aprí con alcune insperate affermazioni politico-militari grazie alla preziosa alleanza stipulata dai marchesi di Finale con le famiglie nobili lombarde dei Visconti e degli Sforza. Alla metà del Quattrocento, tuttavia, Genova sferrò un attacco fulmineo che vide i Finalesi soccombere con gravissime perdite: la capitale Finalborgo fu distrutta e la stessa sorte toccò al Castel Gavone. Nell’infinito gioco di offensive e contrattacchi, il vecchio stato di Finale sembrò risorgere dalle ceneri grazie all’intelligenza diplomatica di Giovanni I Del Carretto, il quale, stringendo accordi con il re di Francia Carlo VII e il marchese di Monferrato, riconquistò molti territori nell’inverno del 1450. Questa volta non si trattò di una vittoria di Pirro o di un’affermazione fugace, come era accaduto in precedenza. Alla fine del Medioevo, con una strategia lungimirante, i Del Carretto si accordarono con l’ammiraglio della Repubblica genoveil medioevo nascosto
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le isole di porto venere
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n’isola di forma triangolare presidia le acque del Golfo dei Poeti nella Baia di Porto Venere. Distante solo un centinaio di metri dalla terraferma, Palmaria sfoggia soprattutto bellezze naturalistiche. Abitata solo da una decina di famiglie, l’isola ha origini celto-liguri: il suo nome, infatti, deriverebbe dalla parola «balma» o «barma», che significa «grotta», un elemento ricorrente nella geografia del luogo. Palmaria, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1997, ha una storia molto antica che sarebbe testimoniata dalla presenza di alcuni monasteri altomedievali, dei quali oggi non rimane traccia. Fu il luogo natale di san Venerio (560-630) diventato in epoca contemporanea patrono del golfo della Spezia e protettore degli addetti al funzionamento dei fari sulle coste. Dell’Età di Mezzo restano, invece, segni piú tangibili nella vicina e piú piccola isola del Tino, dichiarata anch’essa Patrimonio dell’Umanità. San Venerio trascorse qui gran parte della sua esistenza e nel luogo dove morí sorse un santuario, trasformato poi in monastero benedettino nell’XI secolo. Qualche rudere di quell’edificio religioso è ancora visibile nella parte settentrionale dell’isola. Tino, essendo gestita dalla Marina Militare italiana, è aperta ai visitatori solo due giorni l’anno: il 13 settembre, per la ricorrenza di Venerio, e la domenica seguente alla festa religiosa. A sud, infine, si trova Tinetto. La sua superficie, brulla e priva di vegetazione, è pari ad appena 6000 mq, ma ospita le rovine di un oratorio del VI secolo e una chiesa dell’XI secolo. A differenza della vicina Tino, Tinetto è aperta al pubblico.
In alto la chiesa di S. Eusebio, nella frazione di Perti (Finale Ligure). Fondato forse tra il X e l’XI sec., è uno dei piú antichi luoghi di culto della Liguria. In basso l’isolotto di Tino. Con le vicine Palmaria e Tinetto, chiude a ovest il golfo della Spezia.
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se, Andrea Doria, dal quale ottennero piena autonomia per i loro borghi. L’indipendenza durò almeno fino alla metà del XVI secolo, quando una grave crisi economica rese necessario un ritorno di Finale sotto l’ala protettrice di Genova.
Lo scontro finale
Un altro nemico si profilò minaccioso all’orizzonte. Era il regno di Spagna che ambiva a conquistare porti sul Mediterraneo per dare filo da torcere ai concorrenti commerciali di Genova. Proprio agli Spagnoli, nel 1598, furono alienati tutti i diritti sui feudi del Finalese, che perse in autonomia ma guadagnò in benessere. Gli Iberici investirono molto sulle loro conquiste liguri e promossero l’imprenditoria mercantile sulle coste del Savonese. Risalgono a questo periodo molti ammodernamenti e ristrutturazioni dei palazzi di Finale, che visse la sua rinascimentale era di splendore architettonico. Il dominio spagnolo si protrasse fino all’inizio del XVIII secolo. Genova tornò di nuovo a ristabilire la sua autorità sul territorio e la mantenne con qualche difficoltà per le rivolte popolari che spesso dovette sedare. Di generazione in generazione i Finalesi si erano tramandati un senso di ostilità nei riguardi dei Genovesi, che per molti
secoli avevano frustrato il desiderio di indipendenza della loro città. L’invasione napoleonica sancí la fine del marchesato e nello stesso tempo della grande Repubblica genovese. I due acerrimi nemici capitolarono insieme, questa volta per sempre.
visite e appuntamenti MUSEO DIOCESANO DI ALBENGA
Albenga (SV), via Episcopio, 5 Orario estivo, dal 16 giugno al 14 settembre: ma-sa, 10,30-12,30 e 17,00-19,00; do, 17,30-19,30; orario invernale, dal 15 settembre al 15 giugno: ma-gio, 10,00-12,00 e 15,00-17,00; ve-sa 10,00-12,30 e 14,30-18,00; lu chiuso Info tel. 347 8085811; e-mail: museodiocesano@albengaimperia. chiesacattolica.it; www.diocesidialbengaimperia.it MUSEO DI TRIORA ETNOGRAFICO E DELLA STREGONERIA
Triora (IM), corso Italia, 1 Orario dal 1° novembre al 31 marzo: 14,30 -18,00; sa, do e festivi,
10,30-12,00; dal 1° aprile al 31 ottobre: 15,00-18,30; sa e do, nei mesi di agosto e settembre, anche al mattino: 10,30-12,00 Info tel. 0184 94477; www.museotriora.it VIAGGIO NEL MEDIOEVO
Finalborgo, Finale Ligure (SV) Periodo agosto Info tel. 019 692313; e-mail: info@centrostoricofinale.it; www.centrostoricofinale.it TORTA DEI FIESCHI DI LAVAGNA
Lavagna (GE) Periodo agosto Info tel. 0185 3671; www.tortadeifieschi.it
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Mantova Po
d’Arda
Rovigo
Secchia
Piacenza Fiorenzuola
Copparo Soragna Mesola Mirandola Fontanellato Castell’arquato Ferrara Parma Correggio Carpi Bobbio S. Giovanni Reggio Modena in PersicetoPortomaggiore Torrechiara nellEmilia nell’Emilia o Scandiano Tar Budrio Conselice Canossa Sassuolo
Agazzano
Bologna
Berceto
emilia-Romagna
Foci del Po
Vignola Casalecchio Ravenna A Serramazzoni Monteveglio di Reno Imola p p Dozza en Faenza Riolo Terme Vergato ni no Forlimpopoli Brisighella T
La Spezia
osco- E mili
Massa Lucca Pisa
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Pistoia Prato
Firenze
Forlí
Cesena
Bertinoro Rimini Verucchio San Leo Montefiore Conca Montegridolfo
truschi, Umbri e Galli si avvicendarono nel territorio emiliano prima della conquista romana, portata a termine nel II secolo a.C. Nei primi anni dopo la nascita di Cristo esistevano già Bologna, Modena, Rimini e Ravenna. Crescevano inoltre centri come Forlimpopoli – che si arricchí con la produzione di anfore per il vino –, Faenza – la storica città della ceramica –, Bobbio – che divenne uno dei luoghi religiosi piú importanti dell’Alto Medioevo – e Fiorenzuola d’Arda. Ravenna fu capitale dell’impero d’Occidente nel 402, ma pochi anni
dopo cadde, per mano di Odoacre. La regione subí l’invasione longobarda e alcuni borghi «alti» nacquero proprio come rifugio dalle ripetute incursioni: Bertinoro, il cui antico abitato venne trasferito sul piú protetto monte Cesubeo, e Montefiore Conca, sorta anch’essa su una collina. Altri centri fiorirono, invece, proprio grazie ai Longobardi, come, per esempio, l’odierna San Giovanni in Persiceto, che fu ducato, e Soragna, che risulta citata in un documento del re Liutprando. Nell’Alto Medioevo la parte orientale della regione fu conquistata dai Bizantini che lasciarono molte tracce della loro presenza soprattutto nel Ravennate. La resistenza delle truppe di Costantinopoli al tentativo di espansione longobarda comportò una cesura di fatto tra due zone: il nord-ovest assunse un’identità culturale germanica, mentre il Ravennate (chiamato «Romandiola») conservò, per volere bizantino, le tradizioni romane. La Romagna e gran parte dell’Emilia, in seguito, passarono nelle mani dello Stato pontificio, per concessione dei nuovi padroni dell’area, i Franchi. La divisione, però, continuava, seppur sotto forme diverse: a Occidente prevaleva la casa nobiliare di Canossa, a Oriente l’arcivescovado di Ravenna. Negli anni del dominio dell’impero germanico, San Leo, una delle capitali del regno italico di Berengario II, e Vignola furono luoghi militarmente caldi. Nel borgo di Canossa si consumò uno dei piú importanti capitoli della lotta tra papato e impero: la sottomissione dell’imperatore Enrico IV a papa Gregorio VII nel 1077. Monteveglio, nelle vicinanze, rappresentò un importante difesa contro le truppe del monarca germanico, deciso a vendicarsi dopo l’umiliazione subita da Gregorio. L’era dei Comuni vide il proliferare di centri potenti, governati da signori locali, nella maggior parte dei casi schierati con il pontefice e, pertanto, contro i sovrani germanici. Emersero Mirandola, uno dei borghi piú danneggiati dal terremoto del 2012, Carpi, Correggio, Scandiano, Fontanellato e Verucchio, cittadina storicamente fedele ai Malatesta.
Fontanellato (Parma), la Rocca Sanvitale. Primo nucleo dell’edificio fu una torre, eretta nel 1124 a scopo difensivo. Fu trasformato in sontuosa dimora da Galeazzo Sanvitale agli inizi del Cinquecento.
i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Bologna •DOZZA: Rocca Sforzesca. •MONTEVEGLIO: pieve di origine romanica. •SAN GIOVANNI IN PERSICETO: impianto urbanistico medievale, torre muraria. Provincia di Forlí-Cesena •BERTINORO: rocca (XI sec.), palazzo comunale trecentesco. •FORLIMPOPOLI: Rocca Albornoziana (XIV sec.), santuario trecentesco. Provincia di Parma •FONTANELLATO: Rocca Sanvitale (XII sec.). •SORAGNA: castello trecentesco. •TORRECHIARA (LANGHIRANO): rocca e badia benedettina del XV sec. Provincia di Piacenza •AGAZZANO: castelli del XIII sec. •BOBBIO (articolo alle pp. 104-111). •CASTELL’ARQUATO: Palazzo del Podestà duecentesco, Rocca Viscontea del XIV sec. •FIORENZUOLA D’ARDA: parrocchiale del XIII sec.
Provincia di Modena •CARPI: Palazzo dei Pio (XIV-XVII sec.). •MIRANDOLA: chiesa di S. Francesco (XIII sec.), palazzo comunale quattrocentesco. •VIGNOLA (vedi box alle pp. 108-109). Provincia di Ravenna •BRISIGHELLA: maniero duecentesco, pieve dell’VIII sec. •FAENZA: duomo e altri edifici medievali nella centrale piazza del Popolo. •RIOLO TERME: castello trecentesco. Provincia di Reggio Emilia •CANOSSA: scavi archeologici a Luceria, rocca del X sec. •CORREGGIO: chiesa di S. Francesco (XV sec.). •SCANDIANO: Rocca dei Boiardo (XII sec.), torre civica (XV sec.). Provincia di Rimini •MONTEFIORE CONCA: castello (XI-XIV sec.). •MONTEGRIDOLFO: rocca duecentesca. •SAN LEO (vedi box a p. 107). •VERUCCHIO: Rocca Malatestiana (XII sec.).
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Emilia-Romagna
bobbio
i santi e i diavoli di Chiara Parente
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ppennino ligure-emiliano, provincia di Piacenza. In un’incantevole conca valliva della media Val Trebbia la cittadina di Bobbio, dominata dal monte Penice e circondata da verdeggianti pascoli e fitti boschi, è il centro principale della vallata. Situata lungo rotte militari romane provenienti dalla costa ligure attraverso l’utilizzo del sistema fluviale Trebbia-Aveto e dall’Appennino tosco-emiliano, per la sua peculiare posizione geografica nel VII secolo Bobbio fu scelta quale sede di un’esperienza monastica su terra regia. La località ospitò infatti uno dei piú famosi edifici sacri della cristianità altomedievale, l’abbazia di S. Colombano. Eretta nel 612 sulle macerie di una preesistente chiesa dedicata a san Pietro, la sua fondazione è il risultato di un proficuo accordo fra due prestigiose figure del panorama religioso e politico dell’Alto Medioevo: il monaco irlandese Colombano e il sovrano longobardo Agilulfo. Mosso da una fervida fede cristiana il primo, spinto da un abile calcolo politico il secondo. Desideroso di concludere la propria esistenza dando vita al suo ultimo monastero in una terra paganeggiante Colombano, timidamente aperto in direzione della tradizione religiosa italica e alla ricerca di un punto d’appoggio discreto, stabile e fedele ubicato a ridosso delle linee bizantine Agilulfo. L’intesa, vantaggiosa per entrambe le parti, si rivelò particolarmente favorevole nel promuovere il rapido sviluppo del cenobio che, protetto dalla monarchia pavese, permise a quest’ultima il controllo completo su tutto l’Appennino settentrionale. Raccordato con i monasteri di Berceto, Nonantola, S. Caprasio ad Aulla e S. Giovanni a Pontremoli, il monastero di Bobbio costituí un vero e proprio presidio del sistema di strutture fortificate edificate sulla «rotta per S. Co-
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A destra il cosiddetto Ponte Gobbo, che con le sue 11 arcate irregolari scavalca il fiume Trebbia. La leggenda ne attribuisce la costruzione al diavolo, ma il manufatto, in realtà, è frutto di ripetuti interventi di ristrutturazione della primitiva struttura di epoca romana. In basso il campanile della basilica di S. Colombano. XI sec.
lombano di Bobbio», la via interappenninica che, attraverso il passo del Borgallo, portava alla terra di Tuscia e a Roma.
Pellegrini alla tomba del santo
Il periodo di maggior splendore dell’abbazia si colloca tra il IX e il XII secolo. Considerata la Montecassino del Nord per la presenza di un celebre scriptorium e custode delle reliquie del monaco irlandese, nel primo Medioevo il complesso religioso divenne un’ambita meta devozionale al pari dell’italico S. Michele sul Monte Gargano in Puglia e del francese St.-Gilles. Si contavano a centinaia i devoti che, diretti all’Urbe, sostavano in pellegrinaggio alla tomba del santo. Tanta e tale divenne la fama dell’abbazia bobbiense, che l’imperatore Enrico II e il papa Benedetto VIII, informati nel 1013 dall’abate Pietroaldo sulle continue minacce subite da parte delle diocesi vicine, dovettero elevare l’antica chiesa monastica a cattedrale, affidandone il
potere vescovile allo stesso Pietroaldo, primo vescovo-abate di Bobbio. Poi, alla metà dell’XI secolo, si diede avvio alla costruzione di una nuova cattedrale che, situata a un centinaio di metri dalla basilica, venne ultimata nel 1075, data incisa su una trave del sottotetto della zona presbiteriale dell’attuale duomo. Il lento e irreversibile declino del cenobio ebbe inizio agli albori del XIII secolo, con la perdita di autonomia della comunità religiosa, sottomessa al vescovo nel 1208, e si concluse con la soppressione del monastero nel 1801.
Il museo nello scriptorium
Ancora oggi però, passeggiando per le vie dell’abitato, sviluppatosi a ridosso dell’abbazia, si avvertono, evidenti, i segni della passata magnificenza. La basilica, ristrutturata dai monaci benedettini (1456-1522) in stile rinascimentale lombardo, conserva tuttora nella cripta, decorata da uno splendido mosaico pavimentale del XII secolo, il sarcofago di San Colombano, realizzato da Giovanni dei Patriarchi di Milano nel 1480. L’antico scriptorium è divenuto sede del Museo dell’Abbazia di S. Colombano, mentre il monumentale salone del refettorio, la cucina e la cantina, recentemente restaurati, ospitano il
sulle orme degli abati Località di villeggiatura estiva, nota per le salutari proprietà delle sue acque termali sulfureo-salse, Bobbio è un ottimo punto di partenza per escursioni a piedi, a cavallo o in mountain bike. Prima fra tutte quella dedicata alla «Via degli Abati». Un itinerario storico che, articolandosi lungo il tratto Bobbio-Boccolo dei Tassi-Bardi, si inserisce nella «Via dei Monasteri regi» per proseguire verso Gravago-Borgotaro-Borgallo e Pontremoli. Tra il VII e l’XI secolo questo percorso era seguito dagli abati della comunità religiosa bobbiense per recarsi a Roma dal papa a chiedere conferma dei loro privilegi. Conosciuto dai numerosi pellegrini di provenienza internazionale che, attratti dal fascino religioso e politico del nome di Colombano e della potenza del monastero sulla società del tempo, includevano una sosta a Bobbio, era anche utilizzato dai monaci delle celle dipendenti dall’abbazia per il trasporto dei prodotti ricavati nei numerosi possedimenti del monastero in Val Taro e in Toscana. Successivamente, però, la Via degli Abati perse importanza, a vantaggio della Strada per Monte Bardone, destinata a divenire il tragitto piú frequentato per i passaggi dalla Pianura Padana all’appendice oltreappenninica del Regnum Langobardorum. Ancora oggi però, a distanza di oltre un millennio, gli antichi sentieri lastricati che collegano Bobbio a Pontremoli portano a torri di guardia, fontane, resti di strutture altomedievali e hospitales, presenze materiali e testimonianze concrete di una strada dal grande passato.
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Emilia-Romagna Colombano scrive a bonifacio Solo uno dei testi superstiti di Colombano può essere ricondotto alla sua permanenza in Italia. È una lunga lettera a papa Bonifacio VI, ipoteticamente databile al suo ultimo anno di vita (615). La missiva tratta dello scisma dei Tre Capitoli e sprona il papa a porre fine alla tragedia che divide la Chiesa. Lo scisma era stato promosso da Giustiniano I, il quale, per conciliarsi i monofisiti d’Egitto e di Siria, su pressioni di Askídas, vescovo di Cesarea e di Cappadocia, aveva condannato nel 543-544 d.C. gli scritti (Capitoli) di tre teologi orientali (Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro, Iba di Edessa) come sospetti di nestorianesimo. Bene accolta in Oriente, l’iniziativa incontrò opposizione in Occidente, perché ritenuta lesiva dell’autorità del pontefice romano. Come lo stesso Colombano si premura di precisare in ben quattro passaggi, la lettera fu scritta su iniziativa della famiglia reale longobarda. Il vecchio, ma sempre combattivo abate di Bobbio accusa il papa di tollerare, per non dire accettare, le opinioni eretiche; si scusa per intromettersi nella faccenda, lui che è uno straniero, e poi aggiunge di venire dai confini del mondo, dove i cristiani non sono mai stati scismatici o eretici, e non per ignoranza delle tesi eterodosse, bensí per la fermezza dei maestri. Dice di sentirsi libero di parlare apertamente, perché in Irlanda ha imparato che a contare è la qualità delle persone, non la loro posizione, e ribadisce che lui e i suoi compagni irlandesi rispettano e ammirano Roma, ma quella dei santi Pietro e Paolo. Si augura che papa Bonifacio faccia tutto il necessario per correggere la situazione e ripristinare l’unità della Chiesa.
Museo della Città e del Territorio di Bobbio. Il cinquecentesco loggiato, attraverso i giardini di piazza S. Fara, un tempo orto del convento, conduce invece alla seicentesca chiesa di S. Lorenzo, ricostruita sulle fondamenta di un precedente luogo di culto risalente al XII secolo e al duomo, ampliato nel Quattrocento e rimaneggiato nel Seicento. Ma il manufatto che maggiormente caratterizza la cittadina è il Ponte Gobbo. Secondo la leggenda, Colombano, rattristato poiché non (segue a p. 111) 106
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A destra una veduta della fortezza di San Leo (Rimini), posta alla sommità di un poderoso rilievo di natura calcarea. Il sito, già fortificato in età romana, fu piú volte ristrutturato e, nel XV sec., Federico da Montefeltro affidò all’architetto e ingegnere Francesco di Giorgio Martini il compito di ridisegnare la fortezza e approntarla alle nuove esigenze di guerra, conferendole l’aspetto che tuttora conserva. Nella pagina accanto Bobbio, cripta della basilica di S. Colombano. Affresco raffigurante la Madonna con il Bambino.
san leo
A
ntica capitale del Montefeltro, una vasta zona nella quale sono oggi comprese porzioni dell’Emilia-Romagna, delle Marche, dell’Umbria e della Repubblica di San Marino, San Leo conserva il suo fascino di borgo medievale con la rocca posta all’apice del suo abitato: «Il piú bello e piú grande arnese da guerra della regione», lo definí Pietro Bembo, scrittore e cardinale vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Il maniero sorge sulla cima di un colle alto 639 m, che anticamente si chiamava Mons
Feretrius, toponimo dal quale derivò Montefeltro, nome con cui anche la cittadina fu nota fino al XII secolo. Con la sua antica denominazione, San Leo divenne, nel X secolo, anche la capitale del regno italico di Berengario II. Il sovrano vi trovò rifugio dopo la sconfitta nella battaglia di Pavia del 961 contro l’imperatore germanico Ottone I. All’epoca era un luogo ideale in cui asserragliarsi, vista la difficoltà di accesso. E anche ora si giunge a San Leo solo attraverso una strada impervia che taglia la roccia.
La città subí molte dominazioni: Goti, Bizantini, Longobardi, Franchi, prima di divenire una libera repubblica nel 1284. L’autonomia, però, finí presto e sul paese governarono i Malatesta. Nel periodo del suo massimo splendore, durante l’Età di Mezzo, molti personaggi illustri soggiornarono a San Leo: Dante Alighieri, san Francesco d’Assisi e Felice Orsini. Nel Settecento, all’interno del castello, fu rinchiuso l’esoterista Cagliostro per scontare la condanna per eresia.
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ITINERARI
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vignola
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uole la tradizione che il primo nucleo della rocca di Vignola si debba far risalire all’VIII secolo, quando Sant’Anselmo, vescovo di Nonantola, mise questo avamposto a protezione delle terre della sua abbazia. Tuttavia, tale ipotesi non pare sufficientemente suffragata dalla lettura dei documenti storici, che la retrodaterebbero di circa un secolo come caposaldo romano contro le invasioni longobarde. Quali che siano le origini della rocca, appare però chiara e indiscussa la sua posizione strategica, a guardia del fiume Panaro e di un territorio che fu a lungo di confine o di prima retrovia. Alla fine del Trecento, la rocca conservava ancora le sembianze di un piccolo avamposto fortificato, una sorta di quadrato di mura dotato di un’unica torre. A cambiarne i connotati in modo radicale fu Uguccione Contrari, che la ricevette in dono nel gennaio del 1401 da Niccolò d’Este, marchese di Ferrara. Uguccione, braccio destro di Niccolò, suo ministro e uomo d’arme, era ben consapevole che Vignola costituiva uno dei punti chiave del sistema militare estense, fondamentale soprattutto per il controllo di tutte le operazioni belliche che in quegli anni si susseguivano senza sosta nel Modenese, nel Bolognese, nel Reggiano e nel Parmense. Del resto, Uguccione stesso operava in zona, nelle sue vesti di condottiero, politico e diplomatico. Sono
quindi attestati già dal 1402 i primi interventi di rafforzamento e consolidamento delle strutture difensive (realizzazione di una nuova cinta muraria, edificazione di altre due torri e di un rivellino, ecc.), lavori che avevano lo scopo di rendere la rocca piú sicura e in grado di ospitare un maggior numero di soldati. A partire dal 1409, con la definitiva affermazione della signoria estense, cambiò anche il ruolo di Vignola e della sua rocca che, nel ventennio seguente, Uguccione provvide a trasformare da fortilizio inespugnabile a splendida residenza nobiliare. L’imponente costruzione si sviluppa su cinque piani, di cui uno interrato, che aveva un tempo la funzione principale di dispensa e che, durante l’ultima guerra, svolse assai bene anche quella di rifugio antiaereo. Oggi i sotterranei ospitano due sale, dette «dei Grassoni» (proprietari della rocca prima di Uguccione) e «dei Contrari», entrambe adibite a spazio culturale. Le sale del piano terra erano dedicate alla vita pubblica che aveva luogo nella rocca; qui erano anche le cucine e le prigioni. Al secondo piano erano alloggiate le truppe di stanza nella fortezza. Il livello piú alto era quello degli spalti o camminamenti di ronda, che girano tutt’attorno la rocca e collegano tra loro le tre torri – la già citata torre di Nonantola, quella delle Donne e quella del Pennello. Oggi i camminamenti sono coperti e prendono
luce da piccole finestre; all’epoca di Uguccione sfoggiavano invece una possente merlatura ghibellina. Al primo piano, ovvero il piano nobile, dove si trovavano gli alloggi privati del signore del castello e della sua famiglia, vi è anche una piccola, meravigliosa cappella affrescata. Destinata al raccoglimento e alla preghiera di un personaggio d’alto rango, è di piccole dimensioni ma di grande interesse per l’originalità degli affreschi, che ne decorano unicamente la parte superiore, mentre quella inferiore doveva essere in origine rivestita con tappezzeria lignea. Le lunette ogivali presentano quattro momenti della vita di Cristo dopo la morte, ossia la Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste e infine l’Assunzione della Vergine, che è qui raffigurata in modo assai particolare, anziana e molto provata. Nelle vele della volta a crociera sono ritratti i quattro Evangelisti impegnati nella scrittura, ciascuno dei quali è riconoscibile non attraverso il simbolo consueto ma da alcuni passi dei relativi Vangeli. Cosí abbiamo Marco accostato al Cristo risorto, Luca all’Agnello mistico, Giovanni all’albero con la Trinità e, infine, Matteo al piccolo Gesú nella mangiatoia. L’analisi dell’apparato iconografico (che risulta peraltro non compiuto e anzi bruscamente interrotto) è stata messa in ombra dall’annoso dibattito sulla paternità del ciclo di affreschi e sulla possibile datazione. Ma è importante ricordare almeno alcune parole di uno studioso, Andrea Barbieri, che nell’interpretare il ciclo vi ha letto «una sorta di “trattato teologico cattolico”, incentrato sulla figura di Maria, protagonista sul piano di salvezza e mediatrice di grazia». Nicoletta Zullino
A sinistra una delle lunette affrescate nella cappella della Rocca di Vignola.
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La rocca di Vignola (Modena). Complesso fortificato di origine medievale, assunse l’aspetto attuale tra il XIV e il XV sec. Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.
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La facciata della basilica intitolata al patrono di Bobbio, san Colombano. La chiesa fu costruita tra il 1456 ed il 1522, sui resti della chiesa conventuale, la cui fondazione è anteriore al 1000. Nella pagina accanto la navata centrale della basilica di S. Colombano, ristrutturata in stile rinascimentale dai Benedettini.
poteva attraversare la Trebbia in piena e cosí evangelizzare gli abitanti della zona, fu visitato da Satana, che gli offrí la costruzione di un ponte in cambio dell’anima di chi per primo l’avesse attraversato. Il santo accettò: in una sola notte il ponte fu costruito con l’aiuto di undici demoni che sostenevano le arcate, ma, poiché essi erano di diversa statura, l’opera risultò, e risulta, tuttora «gobba». A Colombano il ponte piacque ugualmente e con l’inganno mantenne fede all’accordo: vi fece, infatti, passare sopra il proprio fedele orso. La struttura, che misura 273 m, è in realtà frutto dei rimaneggiamenti di una primitiva fabbrica d’età romana. È una costruzione decisamente bizzarra, che i Bobbiesi chiamano anche Ponte Vecchio, Ponte del Diavolo o, naturalmente, Ponte di San Colombano. Nel centro storico di Bobbio, in parte cinto da poderose mura, il Medioevo delle chiese e dei castelli ha lasciato a guardia di strette viuzze e di antichi palazzi nobiliari un’architettura fortificata. Edificata nel 1304 da Corradino Malaspina e ampliata nel 1440 dai nobili Dal Verme, nel Cinquecento la fortezza è stata trasformata in residenza signorile. Del castello medievale, costruito a dominio e protezione dell’abitato sottostante, è rimasto soltanto un massiccio torrione in pietra dalla pianta quadrata che, adagiato alla sommità di un colle, veglia pacatamente su di un tranquillo borgo che ci racconta di monaci e pellegrini, di santi e di diavoli.
visite e appuntamenti MUSEO NAZIONALE DI CANOSSA
Canossa (RE), via dei Castelli 20 Orario dal 1 ottobre al 31 marzo: me-do, 9,00-13,00 e 13,30-16,30, chiuso lu e ma, se non festivi; dal 1° aprile al 30 settembre: ma-do, 9,00-12,30 e 15,00-19,00, chiuso lu, se non festivo, fatto salvo il mese di agosto; da giugno a settembre: sa, do e festivi: 9,00-13,00 e 14,30-20,00 Info tel. 0522 877104; e-mail: info@ castellodicanossa.it; www.castellodicanossa.it MUSEO DELLA CITTA’ DI BOBBIO
Bobbio (PC), piazza Santa Fara 5 Orario da novembre a marzo: sa, 15,00-17,00, do 10,30-12,30 e 15,00-17,00; aprile, maggio, giugno, settembre, ottobre: sa, 16,30-18,30, do 10,30-12,30 e 16,30-18,30; luglio e agosto: me-sa, 16,30-18,30; do, 10,30-12,30 e 16,30-18,30 Info e-mail: info@cooltour.it; www.cooltour.it MUSEO DEL PARMIGIANO REGGIANO
Soragna (PR), via Volta 5
Orario dal 1° marzo all’8 dicembre: sa, do e festivi, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; lu-ve: su prenotazione per gruppi; da dicembre a febbraio: chiuso, aperto su prenotazione, solo per gruppi Info tel. 0524 596129; e-mail: prenotazioni.parmigiano@ museidelcibo.it. LA NOTTE DELLE STREGHE
San Giovanni in Marignano (RN) Periodo giugno Info 0541 828165; e-mail: cultura@marignano.net CORTEO STORICO MATILDICO
Quattro Castella (RE) Periodo maggio Info tel. 0522 249211 ; e-mail: c.bonazzi@comune.quattro-castella. re.it RIVIVI IL MEDIOEVO
Castell’Arquato (PC) Periodo settembre Info tel.0523 803283 oppure 347 8250724; e-mail: proloco.carquato@libero.it; www.riviviilmedioevo.it/ RiviviMedioevo/Home.html
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EMILIA-ROMAGNA
Pontremoli LIGURIA
Fosdinovo
La Spezia Carrara Massa
Firenzuola
Pistoia
Lucca
Calci
Pisa
Ravenna Forlí
Castiglione di Garfagnana
Pescia Prato Viareggio Altopascio
MAR
Bologna
Fiesole
Signa
Vicopisano
Scarperia
Firenze
Greve in Chianti
Loro Ciuffenna Sansepolcro Certaldo Radda Lari Peccioli Anghiari Bucine Colle in Chianti Arezzo di Val d’Elsa Castelnuovo Castiglion Monteriggioni Berardenga Fiorentino Siena Lucignano Bibbona Isola Sinalunga Lago Murlo di Capraia Trasimeno Sassetta Suvereto Perugia Castiglione Roccastrada d’Orcia Massa Marittima Radicofani Piombino UMBRIA Arcidosso Arcipelago Follonica Roselle Piancastagnaio Isola d’Elba Castiglione Scansano della Pescaia Grosseto Sovana Toscano Manciano Pitigliano
LIGURE
Cascina
Livorno
MAR TIRRENO
toscana
Isola del Giglio
Viterbo LAZIO
L
a Toscana è una regione dalle radici etrusche, di cui si trova traccia, per esempio, a Chiusi e Volterra, o a Vetulonia (nell’odierno Comune di Castiglione della Pescaia), Murlo e Piombino. L’espansione romana, nel III secolo a.C., favorí l’emergere di borghi importanti, come Fiesole, l’antica Faesulae, e Cosa, presso Orbetello. Nel VI secolo gli invasori longobardi fondarono il ducato di Tuscia, fissando la capitale a nord, a Lucca. La città della Garfagnana mantenne un ruolo autorevole anche nel periodo della dominazione franca, durante il quale sorse un marchesato che portava il suo nome. Negli stessi anni gruppi di famiglie nobiliari fortificarono i loro borghi con splendidi castelli. Gli esempi sono numerosi: Monteriggioni – oggi una delle piú suggestive città murate d’Italia –, Lucignano – uno dei gioielli della Val di Chiana –, Radicofani e Fosdinovo. Delicate funzioni difensive ebbero anche molti altri insediamenti posti a sud della regione: Bucine; Piancastagnaio, roccaforte aldobrandesca; Arcidosso, centro dai misteriosi monumenti esoterici; Manciano e Scansano. Nell’XI secolo gran parte dei territori furono trasferiti alla Chiesa. Il passaggio di proprietà divenne oggetto di contestazione da parte degli imperatori germanici, sfociando nell’epocale scontro tra guelfi e ghibellini. Nel Basso Medioevo la repubblica marinara di Pisa estese i suoi domini sull’intera costa della regione e anche su Sardegna e Corsica. Alcuni suoi piccoli, ma utili alleati erano Calci – che riforniva
In alto la sagoma inconfondibile di Monteriggioni (Siena), che conserva la cinta muraria medievale, scandita da 14 torri a pianta quadrata. Nella pagina accanto Pitigliano (Grosseto). Nel Medioevo la città appartenne agli Aldobrandeschi, ai conti di Sovana e, dal 1293, agli Orsini, per poi passare nell’orbita fiorentina nel XVI sec. e nel 1604 al granducato di Toscana.
di legna l’industria navale pisana –, Cascina – con la sua rocca che vigilava sul confine fiorentino –, Peccioli, e Lari, una sorta di capitale amministrativa. Pisa controllava fasce di territorio del Livornese, in particolare le cittadine di Bibbona, che riuscí a conquistare una parziale autonomia, Sassetta, dominata dai nobili Orlandi, e Suvereto. Con la sconfitta di Pisa nella battaglia della Meloria contro Genova (1284), Firenze prese il sopravvento grazie alla politica espansionista dei Medici. Molti borghi storici conservano ancora l’impronta dell’antica dipendenza dalla potente Repubblica: Loro Ciuffenna; Anghiari, dove i Fiorentini sconfissero i nemici del ducato di Milano nel 1440; Scarperia, sede del vicario di Firenze; Radda in Chianti, capoluogo della Lega del Chianti; Sansepolcro. Anche Siena godette di un periodo di splendore e rafforzò i piccoli centri del suo circondario per difendersi dai rivali: possiamo in questo caso ricordare Castiglione d’Orcia; Colle Val d’Elsa, teatro di uno scontro tra Siena e Firenze nel 1269; Castelnuovo Berardenga, dalla quale si potevano controllare i movimenti dei Fiorentini al confine dei loro possedimenti; e Montefollonico. i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Arezzo •ANGHIARI: badia S. Bartolomeo (XII sec.), Palazzo Pretorio (XIV sec.). •BUCINE: resti del castello di Cennina (XII sec.), badia a Ruoti (XI sec.). •CASTIGLION FIORENTINO: Palazzo Comunale e torre del Cassero (XIV sec.). •LORO CIUFFENNA: antico mulino dell’XI sec., ponte medievale. •LUCIGNANO: chiesa di S. Biagio (XI sec.), chiesa di S. Francesco (XIII sec.). •SANSEPOLCRO (articolo alle pp. 114-123). Provincia di Firenze •CERTALDO: la zona alta dell’abitato conserva una struttura medievale autentica. •FIESOLE: duomo romanico (XI sec.).•GREVE IN CHIANTI: pieve di S. Donato a Mugnana (XII sec.). •SCARPERIA: chiesa di S. Maria a Fagna (XI sec.), palazzo trecentesco dei Vicari. Provincia di Grosseto •ARCIDOSSO: mura medievali, Rocca Aldobrandesca (X sec.). •CASTIGLIONE DELLA PESCAIA: rovine di Vetulonia, Palazzo Pretorio medievale. •MANCIANO: chiesa trecentesca di S. Leonardo. •PITIGLIANO: chiese medievali. •ROSELLE (GROSSETO): area archeologica, fortificazione medievale Tino di Moscona. •SCANSANO: cinta muraria, castello di Montepò (XI sec.). •SOVANA (SORANO): borgo medievale e rinascimentale ben conservato. Provincia di Livorno •BIBBONA: pieve del XII sec. •PIOMBINO: complesso
architettonico della “Cittadella” (XV sec.), chiese medievali. •SASSETTA: resti del castello degli Orlandi. •SUVERETO: Rocca Aldobrandesca, antiche porte cittadine. Provincia di Lucca •ALTOPASCIO (vedi box a p. 120). •CASTIGLIONE DI GARFAGNANA: mura, rocca e ponte medievale. Provincia di Massa-Carrara •FOSDINOVO: castello Malaspina (XIV sec.). Provincia di Pisa •CALCI: pieve dell’XI sec. •CASCINA: numerose chiese medievali. •LARI: chiesa di S. Niccolò (XIII sec.). •PECCIOLI: chiesa di S. Maria Assunta (X sec.). •VICOPISANO: 12 torri (XI-XV sec.), palazzi e rocca medievali. Provincia di Pistoia •PESCIA: Palazzo del Vicario e duomo del XIII sec. Comune di Siena •CASTELNUOVO BERARDENGA: castello di Montalto in Chianti (X sec.), monastero longobardo di S. Salvatore (VII sec.) •CASTIGLIONE D’ORCIA: rocca di Tentennano (IX sec.). •COLLE DI VAL D’ELSA: casa torre di Arnolfo di Cambio (XIII sec.), palazzo Pretorio (XIV sec.). •MONTERIGGIONI: cinta muraria medievale. •MURLO: sito archeologico di Poggio Civitate. •PIANCASTAGNAIO: Rocca Aldobrandesca. •RADDA IN CHIANTI: mura, palazzo del Podestà (XV sec.). •RADICOFANI (vedi box a p. 116).
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itinerari
Toscana
sansepolcro borgo incantato
di Maria Paola Zanoboni
«P
roveresti un gran piacere a riguardare questa regione dall’alto dei colli: ti parrebbe infatti di scorgere non un territorio, ma un quadro dipinto con incredibile maestria». Cosí Plinio il Giovane descriveva l’alta Val Tiberina, la terra in cui l’inverno freddo e asciutto tollera, rigoglioso, l’alloro, e l’estate, meravigliosamente mite, è rallegrata da continue brezze; in cui i monti boscosi abbondano di selvaggina e i colli sono carichi di messi e di vigneti senza fine; in cui la vita umana resiste rigogliosa al pari dell’alloro, come se il
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tempo non la logorasse. E cosí, milletrecento anni piú tardi, dipinse la sua terra Piero Della Francesca (1420-1492), il pittore che a Sansepolcro era nato e dove trascorse gli ultimi anni della vita, cieco, guidato per le strade da un fanciullo che lo teneva per mano. Sansepolcro (Borgo San Sepolcro nel Medioevo) costituiva il luogo di transito dei traffici che univano i porti dell’Adriatico centrale (da Rimini ad Ancona) ai grandi mercati e ai centri di produzione delle città del bacino dell’Arno. Sorto nel X secolo intorno a un’abbazia che
nell’XI secolo ottenne privilegi da papi e imperatori, il centro fu sottoposto nel 1022 all’autorità dell’abate Roderico, in virtú di un privilegio feudale concessogli da Enrico IV. Nel 1163 Federico Barbarossa diede il borgo in feudo al monastero, fatto che non impedí agli abitanti del centro di nominare propri consoli nel 1174.
Richiamo all’ordine
Da questo momento in poi, e per oltre un secolo, i conflitti tra l’abate del monastero camaldolese e la popolazione di Sansepolcro dominarono la storia del borgo, e si acuirono nel 1229, quando il podestà e i consoli vennero eletti senza il consenso dell’abate. In quell’occasione prese parte alla lite anche papa Gregorio IX, che incaricò il vescovo di Arezzo di richiamare all’ordine le autorità laiche del centro. Nel 1251 la popolazione cercò nuovamente di eleggere i propri magistrati senza il consenso dell’abate, e questa volta vi riuscí. La lotta ebbe termine nel 1301, quando il borgo acquistò dall’abate con regolare contratto ogni suo diritto e giurisdizione. Subentrarono però immediatamente nuovi dissapori col vescovo e con il Comune di Città di Castello, che tentarono piú volte di sottomettere Sansepolcro. Il secolo fu inoltre caratterizzato da pestilenze e terremoti. Nel 1370 subentrò il dominio malatestiano, e, nel 1441, quello fiorentino. Nel susseguirsi delle dominazioni politiche, ottimo per la situazione economica fu il perio-
do malatestiano, che durò circa sessant’anni: dal 1373, quando Galeotto Malatesta acquistò il borgo per 17 000 ducati, al 28 marzo 1430, quando tornò alla Chiesa per volere di Martino V. Come detto, Sansepolcro controllava importanti vie di comunicazione in un luogo di transito obbligatorio per le merci toscane verso e da Fano. Già dalla fine del Trecento, infatti, la cittadina marchigiana era molto attiva nei traffici soprattutto con la costa dalmata, come risulta evidente dalla gabella del 1386, che tra le merci elenca anche panni di Borgo San Sepolcro. A Sansepolcro, dunque, dove nei secoli XIV e XV confinavano e si scontravano piú signorie, non potevano non convergere le spinte economiche e le linee di espansione di due grandi aree politiche, ugualmente interessate a valicare la montagna e a costituire basi di espansione oltre lo spartiacque appenninico. Sia i Malatesta di Fano, sia i Montefeltro, volgevano perciò lo sguardo alla Val Tiberina, mentre Firenze, Resurrezione di Cristo. Affresco di Piero della Francesca. 1460 circa. Sansepolcro, Museo Civico. L’opera allude alla leggenda della nascita della città, secondo la quale Sansepolcro fu fondata dai pellegrini Arcano ed Egidio di ritorno dalla Terra Santa con le reliquie del Santo Sepolcro.
A sinistra, in alto una veduta di Sansepolcro (Arezzo), nell’alta Val Tiberina. In primo piano è la chiesa di S. Francesco. Nel Medioevo, la zona costituiva un punto di passaggio obbligato per i traffici che univano i porti dell’Adriatico centrale ai grandi centri del bacino dell’Arno. il medioevo nascosto
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itinerari
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Toscana
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interessatissima ai traffici anconitano-balcanici, mirava all’Adriatico. La dominazione malatestiana, in particolare, favorí il passaggio dalle contese a una fase di stabilità e di rinnovate relazioni commerciali, ponendo le premesse per la trasformazione del centro da «borgo» a «quasi città». In questo periodo, infatti, crebbe il suo potenziale economico e commerciale, nonché il prestigio imprenditoriale; e si definí meglio la sua identità culturale, che si manifestò in seguito con grandi figure di artisti come Piero della Francesca.
Un insediamento nevralgico
Per i Malatesta, d’altra parte, il possesso di Sansepolcro significava la garanzia di un maggior controllo e di una maggiore protezione dei territori già conquistati, e la possibilità di una ulteriore espansione nel Montefeltro, nonché la creazione di un insediamento forte e ben difeso nella Valle del Tevere. Grazie a questa sua funzione, Sansepolcro ottenne anche numerosi benefici, tra cui il rifacimento e l’allargamento della cinta muraria; la costruzione di una rocca con una torre a difesa di ciascuna delle quattro porte, e di un palazzo per la residenza dei vicari; il controllo dei valichi che dai domini malatestiani romagnoli e marchigiani immettevano nella valle del Tevere; il legame tra i nuovi signori e alcune famiglie locali; la promozione dell’economia tramite il riassetto delle attività artigianali e l’agevolazione dei traffici commerciali tra le città soggette. Si intensificarono perciò gli scambi con i mercanti di Città di Castello, Firenze, Pisa, Siena, Cortona, attratti dalle esenzioni da dazi e pedaggi. I Malatesta favorirono anche la partecipazione di questi mercanti e di quelli di Sansepolcro alle fiere di Cesena. Altro effetto positivo della signoria malatestiana fu l’attenuazione dei contrasti con il vescovo di Città di Castello. Nel 1430, quando i Malatesta cedettero il borgo a papa Martino V, si concluse un periodo di stabilità e fioritura economica. Seguí un’epoca politicamente complessa, durante la quale Sansepolcro passò di mano in mano piú volte: ceduta dal papa Eugenio IV a Niccolò Fortebraccio da Montone, passò poi a Francesco Battifolle e ancora, nel 1437, sempre per volontà papale, a Giovanni Vitelleschi. Fu infine assegnata alla Repubblica fiorentina, in attesa che si definissero i contrasti tra i successori di Fortebraccio e la Chiesa. Nel giugno del 1438 se ne impossessò con un colpo di mano il Piccinino. Dopo la battaglia di Anghiari (29 giugno 1440), la città tornò al papa, che la lasciò in pegno (in realtà la vendette) a Firenze in cambio di un cospicuo prestito. Il 28 febbraio 1441 il commissario fiorentino il medioevo nascosto
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sotto il manto della misericordia Il nome che piú di ogni altro ha segnato la fama artistica di Sansepolcro è quello di Piero della Francesca, che nel borgo toscano è nato tra 1415 e il 1420. Dopo essersi formato nel corso di un prolungato soggiorno fiorentino (sul quale peraltro non si hanno notizie precise), l’artista ha lavorato per lunghi periodi nella sua città, che amava tanto da firmare spesso le proprie opere con il semplice nome di Piero dal Borgo. Il Museo Civico conserva oggi alcuni dei suoi capolavori. Fra di essi si annovera l’opera qui riprodotta, il Polittico della Misericordia, una tempera e olio su tavola che il maestro dipinse, con aiuti, tra il 1445 e il 1462. Il polittico fu commissionato al pittore dalla Confraternita della Misericordia per l’altare della loro chiesa. L’opera, che fa dunque parte della produzione giovanile di Piero, si compone di cinque pannelli maggiori, una predella e undici tavole piú piccole. Al centro, la Madonna
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della Misericordia accoglie i fedeli sotto il mantello, in alto, la Crocifissione, mentre i pannelli ai lati raffigurano san Sebastiano e san Giovanni Battista (a sinistra nella foto), e san Bernardino da Siena e san Giovanni Evangelista sul lato opposto.
Niccolò Valori ne prese possesso e vi dettò gli Statuti, dai quali emerge che nel borgo poterono realizzarsi i principali interessi di Firenze, soddisfacendo al tempo stesso le esigenze di stabilità politica tanto turbata dopo la fine del periodo malatestiano. In realtà, Sansepolcro rappresentò poi per Firenze soltanto un’acquisizione territoriale, da utilizzare per le sue risorse economiche e strategiche, inserendola in un sistema compatto e ben strutturato, da controllare sempre piú strettamente attraverso organismi giurisdizionali, economici e amministrativi. Gli Statuti non fanno cenno a questioni militari o difensive, dal momento che sotto questo punto di vista Sansepolcro era inserita in un preciso disegno difensivo di Firenze. Tra gli obblighi imposti alla città c’era quello di inviare soldati in varie località per difendere gli interessi della dominante.
Mercanti e imprenditori qualificati
Firenze trovò a Sansepolcro un ceto mercantile e imprenditoriale qualificato, capace di partecipare a una politica nuova, ma anche disorientato nel vedere le proprie capacità e interessi volti a soddisfare le esigenze di un disegno politico imposto da altri. Una condizione di sudditanza che mal si adattava alla lunga tradizione di libertà imprenditoriale e mercantile del borgo, che gli aveva consentito di aprirsi gli orizzonti di mercati lontani. Questo ceto, in ogni caso, si distinse anche durante il dominio fiorentino, e alle attività imprenditoriali e mercantili si dedicarono le famiglie piú in vista, conseguendo risultati prestigiosi. L’autonomia e la vivacità della vita economica del borgo gli resero ancora piú gravoso il peso della sottomissione. Ciononostante, i vantaggi sarebbero stati reciproci: per Firenze, soprattutto sotto l’aspetto politico, strategico e militare; per Sansepolcro, il ritrovato clima di stabilità di cui aveva goduto in epoca malatestiana, permise di orientarsi verso nuove mete politiche e imprenditoriali. Se il primo libro degli Statuti fiorentini riguardava l’abolizione dell’antica magistratura locale dei Ventiquattro, buona parte del rimanente dettato statutario concerneva il commercio e le manifatture. Il secondo libro, infatti, regolava le attività commerciali e artigianali, il loro corretto svolgimento, le gabelle e il nuovo sistema fiscale, la normativa sui rapporti mezzadrili, la tutela della proprietà e dei diritti dei creditori, il rapporto tra proprietari e lavoratori. Si trattava di una legislazione tesa a imporsi per la tutela del prestigio del governo centrale attraverso il controllo del corretto svolgimento di ogni tipo di atti-
vità. Il terzo libro affermava la supremazia del potere di Firenze nel garantire l’ordine pubblico, la correttezza nei rapporti commerciali, la condanna dei delitti contro persone, cose e istituzioni, le norme sanitarie, professionali e commerciali. Il quarto e ultimo libro conteneva disposizioni sulla tutela dell’abbazia camaldolese, sulla determinazione dei confini territoriali della comunità, sull’estimo comunale, su varie immunità, e sulle certificazioni di vita e di morte. In sintesi, gli Statuti del 1441 non furono per Sansepolcro soltanto il sigillo giuridico della sua sottomissione a Firenze, ma anche il segnale del suo ingresso in un circuito assai piú ampio di interessi commerciali, diplomatici, politici e militari, che ben presto conferirono al borgo la funzione di baluardo verso sud-est della repubblica fiorentina. Al tempo stesso, attraverso l’invio nel distretto di ufficiali della dominante, si realizzava quell’integrazione centro/ periferia caratteristica fondamentale dello Stato regionale gravitante intorno a Firenze. Tra le misure adottate fu imposto anche il monopolio, a favore dell’Arte della Lana fiorentina, sulla produzione e commercializzazione del guado.
Una «quasi città»
Nei secoli tra il XIII e il XVI il centro può essere annoverato tra quelli definiti dalla storiografia recente come «quasi città», presentandone appieno tutte le caratteristiche: centri, cioè, che pur non essendo sede di diocesi, avevano peculiarità e funzioni spiccatamente urbane. Il termine «borgo», con cui si usava designare un insediamento non fortificato, è in realtà applicabile soltanto al primo nucleo insediativo, sviluppatosi intorno all’oratorio di S. Leonardo (fondato, secondo la leggenda, da due pellegrini di ritorno dalla Terra Santa), e poi accanto all’abbazia camaldolese di S. Giovanni Evangelista. Le case vennero presto cinte da mura, ampliate in fasi successive, al punto che, già all’inizio del XII secolo, la badia (divenuta poi cattedrale) si trovava al centro di un ampio quadrilatero fortificato. Il termine perse quindi quasi subito il significato originario per assumere quello di toponimo. Nel 1351 Matteo Villani, poco dopo la Peste Nera e subito prima del disastroso terremoto del 1353, definí Sansepolcro «terra forte e piena di popolo e di ricchi cittadini e fornita copiosamente d’ogni bene da vivere»: colpisce, in particolare, il fatto che il cronista chiami «cittadini» gli abitanti del centro. Quasi contemporaneamente il cronista lombardo Pietro Azario, narrando le imprese dell’esercito visconteo nell’Alta Val Tiberina, sottolineava l’aspetto urbano del borgo. E, nel Cinquecento, Leandro Alberti il medioevo nascosto
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altopascio
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ioneo, il giovane piú burlesco della brigata del Decamerone, descrivendo Guccio Imbratta, servitore di Fra’ Cipolla, dice che il suo cappuccio aveva sopra «tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio». Per finire in proverbio, questo calderone doveva proprio essere enorme e, ancora nel Trecento, doveva sfamare un buon numero di pellegrini accolti nel famoso Ospedale, appunto, di Altopascio. La storia di questo particolare ricovero, che diede il nome a un Ordine religioso-cavalleresco, comincia con un torrentello e si sviluppa grazie a un fiume. Intorno al 1056 i signori del castello di Porcari regalano appezzamenti di terreno ad alcuni preti e laici che intendono fondare un punto di accoglienza per i pellegrini. I terreni si trovano presso il torrente Teupascio, ma, soprattutto, presso il percorso della via Romea (o Francigena, dipende da dove si è diretti). Siamo ai margini di una grande palude e dei boschi delle Cerbaie, in una zona in cui mancava proprio un ricovero, per questo la fondazione ha successo e riceve donazioni. Come d’uso, vi si accoglievano soprattutto viandanti e pellegrini, ma anche poveri, vedove e orfani; data la sua destinazione principale, tuttavia, la chiesa viene intitolata a san Jacopo, il santo dei pellegrini. Lo sviluppo dell’Ospedale fa sí che alla confraternita che lo dirige vengano affidate, dal 1135, la proprietà e la gestione del ponte di Fucecchio, costruito per agevolare il passaggio dell’Arno. Il controllo di questo ponte strategico portò ancor piú donazioni e rendite, nonché protezione in alto loco: Federico Barbarossa, suo figlio Enrico VI e il nipote Federico II ribadiscono il possesso del ponte; nel giro di tre secoli vari papi bandiscono campagne di indulgenze straordinarie per aiutare i frati dell’ospizio (che da «ad Teupascium» ha preso il nome di Altopascio) a mantenere il ponte e il loro servizio di ospitalità. Arricchendosi, la confraternita cambia
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pelle: nel 1239 il rettore Alberto Gallicone chiede e ottiene da papa Gregorio IX di adottare la Regola dell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme (gli Ospedalieri per eccellenza) e cosí anche i frati laici e religiosi di Altopascio divengono ospedalieri e cavalieri. Intanto, mentre da un lato si assorbono altre fondazioni assistenziali, dall’altro si fondano «case» dell’Ordine di Altopascio in centri toscani (Volterra, Prato, Pistoia, Pisa, Firenze), italiani (Napoli, Roma, Sicilia, Sardegna) ed europei (in Germania, nelle Fiandre, in Borgogna, a Londra, a Parigi, dove una dipendenza era già stata fissata
intorno al 1186), e soprattutto sul percorso verso Santiago di Compostella. Attorno al complesso ospedaliero si sviluppa un borgo che ospita personale di servizio, lavoratori, artigiani, commercianti. Poi, dalla metà del Trecento, ha inizio la decadenza: il servizio di ospitalità perde d’importanza a scapito dell’assistenza a poveri e malati della zona, i legami con le sedi esterne si perdono, lasciti e donazioni sono un ricordo. Nel Quattrocento il controllo sull’Ordine diviene una prebenda concessa dalla Chiesa, monopolizzata da alcune famiglie fiorentine, finché giunge ai Medici. Dopo aver fondato, nel 1562, l’Ordine militare di Santo Stefano, per la lotta contro i Turchi, Cosimo I chiede e ottiene dal papa lo
scioglimento dell’Ordine di Altopascio e il passaggio dei beni rimasti ai nuovi cavalieri. Ancora oggi il caratteristico campanile della Magione degli Ospitalieri, costruito nel 1280, merlato sulla sommità, con finestre piú ampie a salire (monofora, bifora, trifora, quadrifora), si staglia sul paesaggio e consente di riconoscere Altopascio da chilometri di distanza, e di andare con la mente a ben altri viandanti quando dall’autostrada lí vicino gli diamo un’occhiata andando verso il mare. La sua famosa campana, fusa nel 1325 e chiamata la «smarrita», suonando tutte le sere a distesa consentiva ai pellegrini di individuare l’Ospedale anche se era buio o si erano persi nei boschi o nelle nebbie che salivano dalla palude. Ai piedi del campanile si raggruppavano, distribuiti intorno a tre grandi chiostri, gli edifici dell’Ospedale che, insieme a magazzini vari, case di lavoratori, stalle erano poi racchiusi da un circuito murario che faceva di tutto il complesso una sorta di cittadella fortificata. Nonostante le mutazioni avvenute negli ultimi tre secoli, qualcosa si è conservato del complesso: nella piazza Ospitalieri, con loggiati due e trecenteschi e un pozzo ottagonale, si affacciano gli edifici che un tempo costituirono la mansio, cioè l’amministrazione e il magazzino dell’Ospedale, e la domus dei fraticavalieri. Altri cortili ed edifici, loggiati, porte e torri consentono quindi di leggere in tutto il centro storico del paese l’impronta dell’Ospedale (piazza Ricasoli, via della Dispensa, Porta dei Mariani, piazza della Torre, Piazza Garibaldi, Porta Ospitalieri), la cui antica chiesa è stata inglobata come transetto della parrocchiale del 1827. Ci è però rimasta la sua pregevole facciata romanica di tipo lucchese in cui è inserita una figura in altorilievo di san Jacopo, opera del maestro romanico Biduino. Marco Bicchierai
piccolo, ma non molto inferiore per estensione a quello di Colle o di San Gimignano. Probabilmente la sua fragilità politica e militare e la presenza a valle di una sede di diocesi come Città di Castello, e a monte di un centro importante come Anghiari, contennero l’espansione di Sansepolcro entro limiti modesti.
L’età d’oro dei Malatesta
In alto Altopascio (Lucca). La torre campanaria della Magione degli Ospitalieri, addossata alla chiesa di S. Jacopo Maggiore, che, nel XIX sec., ha incorporato la pieve romanica. Nella pagina accanto l’immagine di un pellegrino scolpita in una formella della pieve dei SS. Giovanni e Felicita a Pietrasanta (Lucca).
nella Descrittione di tutta Italia, indicò il centro come «nobile castello», cioè come una realtà semiurbana, cinta da mura e di notevole consistenza demica. D’altra parte, come scriveva già Bartolo da Sassoferrato, la definizione di «città» spettava soltanto ai centri sede di diocesi. Le caratteristiche che qualificavano Sansepolcro come centro semiurbano, ovvero «quasi città», si possono individuare in primo luogo nella sua dimensione demica, che lo avvicinava a molte sedi di diocesi: nel terzo-quarto decennio del Quattrocento contava 4397 bocche, una popolazione cioè pari a quella di Arezzo e Pistoia e superiore a quella di Prato, Volterra e Cortona. Nel 1551 arrivava a 6211 abitanti: piú di Urbino, Cesena, Todi, Volterra, e pari a città di antica tradizione (Asti, Arezzo, Ravenna, Pistoia, Viterbo). La seconda e fondamentale caratteristica che qualifica Sansepolcro come «quasi città» è costituita dalla sua capacità di organizzare il territorio circostante, e di avere quindi un contado,
Fra il XIII e il XV secolo nel borgo si susseguirono le dominazioni dei Faggiolani, dei Tarlati, dei Visconti, di Città di Castello (1358-1370) e dei Malatesta (1372-1430). Come già detto, quest’ultima fece prosperare il centro tiberino: vennero facilitati i rapporti commerciali con la Romagna e con le Marche, i valichi montani divennero piú sicuri. La stabilità del regime (frutto anche di un’accorta politica di favori verso le famiglie borghigiane influenti) assicurò condizioni di pace, ponendo le basi per un ulteriore sviluppo economico. Sebbene siano molte, e le fonti inedite conservate presso l’archivio di Sansepolcro non manchino, le attività economiche del borgo, a parte la produzione del guado (una sostanza tintoria, ricavata dalle foglie e dai fusti della pianta erbacea Isatis tinctoria, da cui si otteneva il blu, assai utilizzata per i pannilana, n.d.r.), sono ancora poco studiate. Soltanto tre sono gli statuti corporativi rimasti: quelli dei calzolai (1378 e 1454), quelli degli orafi (1515) e quelli dei macellai (1459), anche se le arti esistenti dovevano essere molto piú numerose: nel 1571, infatti, se ne contavano almeno 16. Gli statuti inediti di Sansepolcro contengono in effetti norme su molte altre attività, tra cui pellicciai, conciatori, lanaioli e gualchierai. Sia la lavorazione della lana che quella delle pelli, dunque, dovevano essere molto sviluppate, e la prima in particolare, perché il borgo costituiva il punto di transito delle greggi transumanti verso la Maremma. Le gravi carenze nella documentazione sono probabilmente dovute al terremoto del 1353, che abbattè il campanile della cattedrale, nel quale dovevano conservarsi in buona parte gli atti riguardanti il borgo. Comune di antica data, dotato di propri magistrati almeno dal XII secolo, verso il 1350 Sansepolcro era già assai popolato, e, con Città di Castello, costituiva il centro principale della Val Tiberina, fatto che lascia supporre la presenza di corporazioni già in quest’epoca. Nel Quattrocento l’organizzazione corporativa si estese anche ai mestieri prima esercitati liberamente, forse per impulso di Firenze, signora del borgo dal 1441. Non c’è traccia di intervento delle arti nel governo del Comune di Sansepolcro, anzi quest’ultimo manteneva ogni autorità su di loil medioevo nascosto
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radicofani
R
adicofani si trova in una posizione centrale rispetto a vecchie e nuove vie di comunicazione: posta all’incrocio di Toscana, Lazio e Umbria, si staglia con il suo inconfondibile profilo sulla linea dell’orizzonte per chi osserva fin da Orvieto o da alcune rocche dell’alto Lazio. Con la sua Rocca e grazie alla via Francigena, Radicofani è al centro anche di quel paesaggio definito «lunare» che caratterizza i comuni meridionali della provincia di Siena. Da secoli è non solo luogo di passaggio, ma soprattutto di sosta, specialmente da quando i Senesi, nel XV secolo, spostarono la strada dal fondovalle sul crinale, perché fosse meglio controllata dalla Rocca. E infatti quasi ogni viaggiatore diretto a Roma, nel proprio diario non manca di annotare la sua sosta o il passaggio sul colle di Radicofani. La strada che saliva non entrava nel borgo ma passava davanti l’Osteria Grossa: luogo di ristoro, di ricovero per i cavalli e per i viaggiatori, ampliata dai Medici alla fine del XVI secolo. Era l’ultima sosta prima di entrare – se diretti verso Roma –
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nello Stato pontificio (il confine era presso Centeno). L’importanza di Radicofani nasce dalla via Francigena, cioè da quando, al tempo dei Longobardi, il percorso della via Cassia era ormai in gran parte impraticabile e il sempre maggiore flusso di pellegrini e viandanti diretti a Roma dal CentroNord Europa si sposta piú verso l’interno. A ciò si lega la fondazione della potentissima abbazia di S. Salvatore, sul Monte Amiata (attribuita a tale Erfone, vicino ai re longobardi Rachi e Astolfo), che deteneva un controllo senza pari su terre e uomini da Chiusi all’alto Lazio, in specie sulla val di Paglia, il fiume che scorre ai piedi di Radicofani. La prima menzione del castello risale al 973: doveva trattarsi, probabilmente, di una sola torre in muratura, con alcune strutture in legno attorno, ed è quasi fin dalle origini al centro della contesa tra i principali signori della Tuscia meridionale, gli Aldobrandeschi, e l’abate di S. Salvatore. Tuttavia, un secolo piú tardi, Radicofani finí nelle mani dei
Manenti-Firidolfi, conti di Chiusi, che proiettarono il castello verso l’ambito dei territori della val di Chiana e, infine, verso la grande potenza nascente della Toscana meridionale, Siena. Rientrata in possesso dell’abbazia di S. Salvatore, Radicofani fu oggetto di interventi di fortificazione da parte di papa Adriano IV e di Innocenzo III che nel 1198 ne sopraelevò le mura difensive. Nel 1201 il Barbarossa riconobbe Radicofani come avamposto settentrionale delle proprietà pontificie nella Tuscia. Luca Pesante
Radicofani (Siena). La cittadina è dominata dalla rocca, la cui struttura originaria, databile al XIII sec., fu distrutta nel Settecento. Quel che si vede oggi è fruttto dei restauri effettuati nel 1929. Il mastio, oggetto di una completa ricostruzione, è oggi sede del Museo del Cassero, che custodisce reperti archeologici e documenti che illustrano la storia della fortezza e del suo restauro.
visite e appuntamenti Pellegrinaggio della Compagnia del Crocifisso a Loreto, durante la peste del 1523. Olio su tavola di Giovanni del Leone. XVI sec. Sansepolcro, Museo Civico. In primo piano sono i confratelli della compagnia che trasportano un malato. Sullo sfondo, la città di Sansepolcro cinta dalle fortificazioni medicee di Giuliano da Sangallo. ro, e gli statuti corporativi erano soggetti all’approvazione del magistrato comunale, come prescriveva esplicitamente lo statuto municipale del 1571. Gli statuti corporativi appaiono quasi integrazioni a quanto prescritto da quelli comunali. Le arti, insomma, erano completamente sottoposte al Comune e non avevano alcun peso nella vita politica del borgo. Quello di Borgo San Sepolcro era dunque un mondo particolarmente vivace, aperto a est verso l’Adriatico e a ovest verso la Toscana, e che, fino al Quattrocento inoltrato, mantenne i suoi caratteri di spazio unitario. Con la conquista fiorentina di tutte le valli aretine, la funzione di raccordo con l’Adriatico fu volta a vantaggio della città dominante; e quelle sottomesse persero almeno parte della loro vitalità, per divenire soprattutto centri agrari di primaria importanza. Da quel momento in poi le valli aretine costituirono la zona cerealicola piú importante della Toscana. Le istituzioni formatesi nel tardo Medioevo, però, continuarono a svolgere un’attività estremamente positiva.
MUSEO CIVICO E DIOCESANO D’ARTE SACRA
Colle di Val d’Elsa (SI), via del Castello, 33 Orario ma-do, 11,30-17,00, lu chiuso; dal 1° novembre alla settimana di Pasqua: sa, do e festivi: 11,30-17,00; aperture straordinarie: 2 novembre, 11,30-17,00; dal 22 dicembre al 6 gennaio, 11,30-17,00, 1° gennaio, 15,30-18,30; chiuso il 25 dicembre e il 2 gennaio. Info tel. 0577 923888; e-mail: museo.civico@comune. collevaldelsa.it CASA MUSEO DI GIOVANNI BOCCACCIO Certaldo (FI), via Boccaccio, 18 Orario da aprile a ottobre: tutti i giorni 9,30-13,30 e 14,30-19,00; da novembre a marzo: tutti i giorni, 9,30-13,30 e 14,3016,30; ma chiuso Info tel. 0571 661265; e-mail: info@sistemamusealecertaldo.it; www.casaboccaccio.it MUSEO E CAMMINAMENTI DELLE MURA DI MONTERIGGIONI
Monteriggioni (SI), piazza Roma, 23, Orario dal 16 febbraio al 31 marzo:
10,00-13,30 e 14,00-16,00, ma chiuso; dal 1° aprile al 15 settembre: 9,30-13,30 e 14,00-19,30; dal 16 settembre al 31 ottobre: 09,30-13,30 e 14,00-18,00; dal 1° novembre al 15 gennaio: 10,00-13,30 e 14,00-16,00; ma chiuso; chiuso il 25 dicembre Info tel. 0577 304834 oppure 0577 573213; e-mail: info@monteriggioniturismo.it; www.monteriggioniturismo.it MEDIOEVO A CASTELLO
Pontremoli (MS) Periodo agosto Info tel. 339 8437269; e-mail: info@medioevoacastello.com; www.medioevoacastello.com FESTA DEL BARBAROSSA San Quirico d’Orcia (SI)
Periodo giugno Info e-mail: segreteria@comune. sanquiricodorcia.si.it; www.festadelbarbarossa.it FESTA MEDIEVALE
Fosdinovo (MS) Periodo luglio Info e-mail info@fosdinovomedievale.it; www.fosdinovomedievale.it
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EMILIA ROMAGNA
Gradara G rad rad ra darra da
Pesaro Pes saro ar
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Carrto Cartoceto toc occetto o Fossombrone Mondavio Corinaldo Serra San’Abbondio Arcevia Sassoferrato
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ABRUZZO
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e Marche sono state, fin dalla preistoria, un’area di interazione culturale tra genti del Nord, del Sud e dell’Oriente, in virtú della posizione strategicamente centrale sull’Adriatico. In principio la regione era abitata dai Piceni, poi arrivarono i Galli e i Greci di Siracusa, che fondarono Ancona. Oltre a quest’ultima e all’antica Ascoli erano sorti da tempo altri centri abitati: Novilara, oggi frazione di Pesaro, Cupra Marittima e Belmonte Piceno. Nel 295 a.C., nei pressi dell’odierna Sassoferrato, anticamente chiamata Sentino, i Romani e i Piceni sconfissero un’alleanza composta da Galli, Etruschi e Sanniti, prendendo il controllo della regione. Fermo – che poteva battere moneta –, Jesi, Osimo – dotata di mura ciclopiche –, Camerino e Porto Recanati furono le colonie romane piú importanti, insieme a Pesaro. Intorno sorsero altri centri: Tolentino, citata da Plinio il Vecchio; Matelica, nel cui territorio sono state rinvenute numerose testimonianze d’età romana; Suasa, che all’epoca possedeva un grande foro e un anfiteatro; Fossombrone, centro strategico sulla via Flaminia; e Acquasanta, con le sue terme decantate da Tito Livio. Altre due potenti città romane, Treia e Civitanova Marche, si svilupparono su un precedente insediamento etrusco.
Nella pagina accanto la rocca di Gradara (PesaroUrbino). La fortezza ebbe come primo nucleo il mastio poligonale (1150), attorno al quale si sviluppò il complesso oggi visibile, frutto degli interventi promossi dai Malatesta nel XIV sec. e da Alessandro Sforza nel secolo successivo. A destra Cingoli (Macerata), chiesa di S. Domenico. La Madonna del Rosario, nota come Pala di Cingoli, dipinta da Lorenzo Lotto. 1539.
Goti, Bizantini e Longobardi vissero anche qui il loro periodo di gloria dopo la caduta dell’impero romano. Fin dai primi anni del Medioevo la particolare conformazione della regione, con numerose alture e valli, favorí la nascita di borghi fortificati con velleità autonomiste. È il caso del presidio militare di Arcevia, dell’antica Cartoceto, di Force, centro di produzione del rame, della «bella del Conero», Sirolo, di Acquaviva Picena e di Serra di Sant’Abbondio. Nella guerra tra l’impero germanico e la Chiesa, quando l’Alto Medioevo volgeva al termine, prevalse il potere di Roma e le Marche, insieme al Lazio, rappresentarono la roccaforte piú antica dello Stato pontificio. Nel periodo dei Comuni molte cittadine combatterono armi in pugno per la propria indipendenza, potendo spesso contare sull’aiuto dei papi. Ancona, per esempio, non si piegò di fronte alla prepotenza di Venezia e di Federico Barbarossa. L’incantevole Visso riuscí anch’essa a difendere le proprie mura, come del resto l’inespugnabile Ripatransone. Le signorie divisero il territorio, già ampiamente frammentato, in diversi piccoli Stati: Fano e Pesaro, nel XIV secolo, presero il sopravvento, guidate dai Malatesta, mentre altri centri di potere si formarono intorno alle figure dei Montefeltro, dei Della Rovere e dei Da Varano. Molti borghi si trovarono assoggettati prima all’uno e poi all’altro nobile di turno: Corinaldo passò dal dominio dei Malatesta a quello dei Della Rovere, Gradara, luogo in cui la tradizione ambienta la vicenda di Paolo e Francesca, finí invece nelle mani dei Montefeltro dopo anni di governo malatestiano, e la stessa sorte toccò a Mondavio. i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Ancona •ARCEVIA: mura e castelli medievali. •CORINALDO: cinta muraria. •OFFAGNA: rocca quattrocentesca. •OSIMO: chiesa di S. Leopardo (VII-XIII sec). •SASSOFERRATO: abbazia medievale di S. Croce. •SIROLO: rocca dell’XI sec. Provincia di Ascoli Piceno •ACQUASANTA TERME: Castel di Luco (XIV sec.), chiesa di S. Giovanni (XIII sec.). •ACQUAVIVA PICENA: rocca trecentesca. •CUPRA MARITTIMA: resti della rocca di Sant’Andrea (XI sec.). •FORCE: torre campanaria duecentesca. •OFFIDA: chiesa gotica di S. Maria della Rocca (XIV sec.). •RIPATRANSONE (vedi box alle pp. 130-131). Provincia di Macerata •CALDAROLA: castello Pallotta (IX sec.). •CAMERINO: Palazzo Ducale (XV sec.). •Cingoli: chiesa di S. Domenico. •CIVITANOVA MARCHE: cinta muraria quattrocentesca. •MATELICA: cattedrale quattrocentesca, Palazzo Ottoni (XV sec.). •MONTECASSIANO:
borgo medievale. •PORTO RECANATI: castello svevo del XIII sec., abbazia di S. Maria in Potenza (XI sec.). •TOLENTINO (articolo alle pp. 126-133). •TREIA: porte medievali, chiesa trecentesca di S. Francesco. •VISSO: collegiata di S. Maria e Palazzo dei Governatori del XIII sec. Provincia di Fermo •BELMONTE PICENO: resti della cinta muraria fortificata (XV sec.). •FERMO: duomo (XIII sec.), chiesa del Carmine (XIV sec.). •MORESCO: rocca del XII sec. Provincia di Pesaro-Urbino •CANTIANO: chiesa duecentesca di S. Agostino, pieve di S. Crescentino (XI sec.). •CARTOCETO: abitato in stile medievale. •FOSSOMBRONE: Palazzo vescovile (XV sec.) e altri edifici quattrocenteschi. •GRADARA: Rocca Malatestiana (XII sec.). •MONDAVIO: Rocca Roveresca (XV sec.). •NOVILARA: necropoli. •URBANIA: duomo del IX sec., Palazzo Ducale. •SERRA SANT’ABBONDIO (vedi box a p. 133).
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itinerari
Marche
tolentino
i miracoli di frate nicola di Francesco Pirani
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er trovare annoverato il nome della città di Tolentino nei manuali di storia occorre sfogliarne a lungo le pagine, fino ad arrivare all’età napoleonica. Si leggerà allora che, con il trattato di Tolentino, firmato nel febbraio 1797, papa Pio VI, dopo i fulminanti successi del generale Bonaparte nella campagna d’Italia, fu costretto a cedere alla Francia le regioni settentrionali dello Stato della Chiesa, nonché numerosi manoscritti e opere d’arte. Una pagina della grande storia, questa, in cui è iscritto anche il nome della cittadina marchigiana posta lungo la vallata del fiume Chienti. Ma se si torna indietro nei secoli il nome di Tolentino è destinato a scomparire dai libri. Occorre allora accantonanare la storia dei grandi avvenimenti per volgersi a quelle dei numerosi centri minori che costituirono, negli ultimi secoli del Medioevo, il tessuto connettivo dell’Italia comunale. E in questo la Tolentino medievale sa mostrare tanto allo 126
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In alto raffigurazione del miracolo della nave compiuto da Nicola da Tolentino, uno degli affreschi realizzati nel Cappellone intitolato al santo nella basilica a lui dedicata. Il ciclo pittorico fu realizzato nel luogo in cui era originariamente collocata la tomba del santo, nei primi anni del Trecento. Secondo le proposte critiche piú recenti, andrebbe attribuito a maestranze riminesi, capeggiate dal pittore Pietro da Rimini. Nella pagina accanto il chiostro trecentesco della basilica di S. Nicola.
studioso appassionato quanto al visitatore attento una ricchezza di memorie, di monumenti e di forme d’arte tale da rendere unica e affascinante la sua storia.
Una cinta muraria poderosa
Tolentino conosce la sua fase di massima espansione e anche la sua fioritura artistica tra la fine del Duecento e il primo Trecento. Un piccolo Comune di castello era sorto soltanto sullo scorcio del XII secolo, ma nel corso del Duecento si era reso promotore di una forte crescita politica, economica e demografica, tanto da fare di Tolentino un vero e proprio centro cittadino. Lo dimostrano l’assetto urbanistico e l’imponente cinta muraria che ancora oggi caratterizza l’abitato. Appena fuori delle mura si innalza il duecentesco ponte del Diavolo, con ampie arcate sorrette da possenti piloni e affiancate da una torre quadrangolare merlata. A chi percorre la superstrada che collega Roma
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Marche
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In alto Cristo fra i dottori, un’altra delle scene comprese nel ciclo affrescato del Cappellone di S. Nicola. Primi decenni del XIV sec. Nella pagina accanto il ponte del Diavolo, eretto nel 1268 su disegno di Mastro Bentivegna.
alla costa adriatica attraverso la valle del Chienti, il ponte del Diavolo e, appena piú oltre, il profilo tipicamente medievale delle mura e delle chiese si impongono alla vista, invitando a una sosta alla scoperta della cittadina.
Famiglie in conflitto
Nel primo Trecento vivevano entro la cerchia delle mura all’incirca 4000 abitanti, molti dei quali immigrati nel corso del secolo precedente dai vicini castelli d’altura. Tolentino costitutiva allora un centro di media grandezza entro i confini della Marca d’Ancona, nello Stato della Chiesa, vivacemente animato dai conflitti fra famiglie per l’egemonia sulla città. Diversamente dai vicini Da Varano di Camerino, che seppero instaurare una duratura dominazione signorile e dar vita a una fiorente corte rinascimentale, gli Accorrimboni, imparentati con i Da Varano, non riuscirono nella stessa impresa a Tolentino. A dire il vero Accorrimbono, il fondatore della dinastia, era stato capace di imporre nel primo Trecento la propria autorità signorile sulla sua terra, al termine di una brillante carriera di funzionario guelfo che lo aveva visto podestà nelle piú importanti città dell’Italia centrale,
quali Firenze e Siena. Ma soltanto una trentina d’anni piú tardi Accorrimbono II, suo figlio, inviso ai Tolentinati, venne trucidato nel corso di un’insurrezione popolare e la città ritornò sotto il domino diretto dello Stato della Chiesa. Se dunque il nome degli Accorrimboni non risuona piú nelle vie e nelle piazze della città marchigiana, quello di un santo frate vissuto negli stessi anni è invece largamente conosciuto in tutta Europa.
Un umile frate agostiniano
Sí, perché poche città hanno legato cosí indissolubilmente il loro nome a un santo come Tolentino a quello di san Nicola, un umile frate agostiniano vissuto nella seconda metà del Duecento e morto in odore di santità nei primi anni del secolo successivo. Il culto per il frate agostiniano si diffuse molto presto: appena una ventina di anni dopo la sua morte, precisamente nel 1325, papa Giovanni XXII inviò a Tolentino alcuni vescovi legati per istruire un’inchiesta sulla vita e i miracoli di Nicola, in vista della sua canonizzazione. Disponiamo ancora dei verbali di quell’inchiesta, che costituisce una fonte storica di eccezionale valore, poiché le 366 persone che furoil medioevo nascosto
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Marche
ripatransone
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ipatransone è uno dei borghi piú antichi delle Marche, contende ad Ascoli Piceno la palma di centro storico piú esteso della provincia e possiede il vicolo piú stretto d’Italia. Una delle sue stradine è larga appena 43 cm, che in un tratto si restringono fino a 38. Un primato contestato dalla molisana Termoli, che reclama il record, in quanto un vicolo del suo centro storico è largo in alcuni punti appena 33-34 cm. Guerra dei vicoli a parte, Ripatransone vanta una grande ricchezza di storia e di monumenti dell’Età di Mezzo. Il sito della città era abitato fin dalla preistoria e la sua posizione collinare, naturalmente protetta, ne favorí lo sviluppo nel periodo piceno. Per lo stesso motivo, all’epoca delle invasioni barbariche, l’abitato si popolò per accogliere chi fuggiva dai propri borghi. Il nome odierno della città apparve solo a partire dal 1198, dopo che l’unificazione dei castelli di Capo di Monte, Roflano, Monte Antico e Agello aveva generato una rocca piú grande chiamata, appunto, Ripatransone. Subito dopo fu distrutta, ma in breve dalle sue ceneri sorse un nuovo centro, Ripa. Nel XIII secolo il borgo combatté per ottenere un’autonomia comunale, liberandosi dal dominio di Fermo, e nel 1205 la ottenne, anche se il nuovo status fu solo transitorio. La cittadina fu ghibellina, alleata di Federico II e anche di Ascoli Piceno. Negli anni meritò l’appellativo di propugnaculum Piceni, poiché si era rivelata una delle città fortificate piú difficili da espugnare dell’intera regione. Tra i monumenti religiosi e civili di origine medievale, spiccano la chiesa di S. Niccolò con resti del IX secolo, quelle di S. Maria Magna (XIII secolo) e S. Michele Arcangelo (XIV secolo), la cinta muraria e un cospicuo numero di abitazioni del Quattrocento, oltre al palazzo del Podestà, costruito nel 1307.
In alto Tolentino. Il portale della basilica di S. Nicola, opera di Nanni di Bartolo (1432-35). A destra, sulle due pagine veduta di Ripatransone (Ascoli Piceno). Intorno al Mille, il territorio fu concesso in feudo dal vescovo di Fermo alla famiglia dei Dransone (o Transone), che riuní i castelli di Monte Antico, Capo di Monte, Roflano e Agello: nacque cosí il nome che il borgo ancora oggi conserva. no interrogate (quasi la metà erano donne) ci informano su molti aspetti della società, della mentalità e della vita quotidiana dell’epoca. Molti degli intervenuti si dichiarano miracolati dal frate agostiniano e attestano che la fama di santità si era rapidamente diffusa non solo nelle Marche e nell’Umbria, ma anche nel regno di Napoli. È quanto afferma, per esempio, il notaio Berardo Appilliaterra, uno dei personaggi della Tolentino medievale che meglio conosciamo attraverso le fonti. Berardo apparteneva all’alta borghesia locale e il suo nome risulta iscritto fra i cento cittadini «di maggiore apprezzo», cioè quelli con piú beni dichiarati al fisco. Svolse la sua professione di notaio anche fuori delle Marche: in Romagna, Toscana, e anche in varie città pugliesi, per conto di re Roberto d’Angiò. Tutta la famiglia di Berardo era parti130
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colarmente devota a frate Nicola: Margherita, moglie del notaio, preparava per il religioso pane fresco nei periodi di digiuno e piatti leggeri a base di verdura quando era malato. Subito dopo il trapasso del sant’uomo, la donna lavò i piedi e le mani del cadavere e mise da parte l’acqua, che a distanza di anni conservava ancora virtú taumaturgiche. A Nicola si rivolsero pure le figlie di Berardo, miracolosamente guarite da varie malattie. Anche il genero Antonio fu salvato grazie a un provvidenziale intervento del santo, che lo strappò dal mare in tempesta nell’Adriatico. Come risulta da altre testimonianze rese all’inchiesta, per i soccorsi in mare san Nicola da Tolentino ci sapeva fare almeno quanto il piú «collaudato» omonimo santo di Bari.
Sulla tomba del santo
Per appassionarsi alle numerose scene di vita quotidiana rappresentate nei miracoli di san Nicola non occorre leggere in biblioteca gli atti dell’inchiesta del 1325, redatti in latino. Molto piú piacevole una gita a Tolentino per ammirare gli splendidi affreschi trecenteschi del Cappellone di S. Nicola, l’elemento senza dubbio di maggior valore artistico della basilica dedicata al santo. Il ciclo pittorico fu realizzato nel luogo dove in origine era collocata la tomba del santo, In alto il vicolo nel centro storico di Ripatransone che rivendica il primato di strada piú stretta d’Italia.
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Marche non soltanto abiti e oggetti personali in segno di riconoscenza, ma anche ex voto dipinti per conto di chi era impossibilitato a intraprendere il pellegrinaggio. È questa, a detta di importanti studiosi di storia religiosa, la prima sicura menzione di ex voto dipinti che si conosca. Il Cappellone è senz’altro la punta di diamante, a livello storico e artistico, del vasto complesso della basilica di S. Nicola, che emerge discretamente sull’armonioso tessuto urbanistico di Tolentino. Uno sguardo attento merita la facciata della chiesa, rivestita in travertino e decorata da un bel portale marmoreo, ricco di sculture – espressione del gusto gotico fiorito – e, nella parte superiore, da un gran sole raggiante, simbolo di san Nicola. Il convento agostiniano, che affianca la chiesa, racchiude un monumentale chiostro, costruito nella seconda metà del Trecento da maestranze locali. Da notare le colonne, ognuna diversa dall’altra, costruite in cotto, di quel tipico colore brunito di cui si accendono tutte le cittadine marchigiane. Ad arricchire la basilica è il Museo del Santuario, che ospita, tra l’altro, una preziosa raccolta di ex voto, testimoniati dal XV secolo in poi, a dimostrazione della secolare devozione verso il santo.
I luoghi della devozione
attorno al 1320, da un esponente della scuola riminese, sulla cui precisa identità gli studiosi dell’arte hanno avanzato varie ipotesi. Le rappresentazioni della vita di Cristo, della Madonna e naturalmente di san Nicola sono tese tutte a esaltare la spiritualità dell’Ordine Agostiniano. Nella fascia che illustra la vita e i miracoli del frate alcune scene sono di taglio narrativo, come quella che ritrae Nicola fanciullo in atteggiamento da scolaro diligente, pronto a far propri gli insegnamenti religiosi. Altre scene testimoniano invece l’intervento del soprannaturale: in una il frate risuscita una giovane donna, in un’altra risana post mortem i malati accorsi numerosi sulla sua tomba; fra questi si individuano alcune indemoniate che vomitano diavoli dalla bocca.
I primi ex voto dipinti
Gli affreschi, che si impongono allo sguardo del visitatore per la loro straordinaria bellezza e cura formale, costituiscono anche una prova della rapida e ampia diffusione della fama sanctitatis di Nicola. Secondo le testimonianze raccolte nell’inchiesta del 1325, i pellegrini che si recavano sulla tomba del santo lasciavano qui 132
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In alto il castello della Rancia sorto nel XIV sec. nella pianura del fiume Chienti, a pochi chilometri da Tolentino, sulle strutture di una preesistente grancia cistercense. Nella pagina accanto l’abbazia di Fonte Avellana, la cui costruzione fu avviata, sotto il monte Catria, forse da san Romualdo (977 o 979) e completata da san Pier Damiani con un chiostro e una biblioteca.
La storia religiosa di Tolentino è rimasta impressa anche in altri edifici. Inoltrandosi nelle viuzze della cittadina si scoprirà la chiesa di S. Francesco, che non poteva certo mancare in una terra serafica come le Marche. Dell’edificio duecentesco si possono ancora ammirare l’abside poligonale, finemente decorata, e all’interno pregevoli affreschi di scuola riminese. All’ingresso del centro storico è posto invece il duomo di S. Catervo, patrono della città, che presenta eleganti forme neoclassiche; nel Medioevo era una chiesa benedettina, di cui sopravvive il portale romanico posto sul fianco. Il sarcofago di san Catervo, del IV secolo, vede raffigurato nei bassorilievi che lo adornano il protomartire di Tolentino, e testimonia gli splendori della città in età tardoantica. All’epoca di san Nicola la festa di san Catervo radunava a Tolentino, fra il 9 e il 10 settembre di ogni anno, una folla di fedeli, viaggiatori e mercanti. In quei giorni veniva organizzata una grande fiera, che si protraeva per altri quindici giorni. Il Comune si impegnava a retribuire i giullari venuti per l’occasione e nominava un comitato di cinquanta uomini per i festeggiamenti. Ancora oggi, attraversando le vie cittadine, si può respirare la stessa atmosfera e avvertire l’eco di quello spirito civico che attraverso i secoli ha animato, qui come altrove, la vita dei centri minori della nostra Penisola.
fonte avellana
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ulle pendici del monte Catria, a 700 m di altezza, si staglia uno dei piú bei complessi monastici italiani in stile romanico: l’abbazia di Fonte Avellana, compresa nel comune di Serra Sant’Abbondio, all’interno della provincia di PesaroUrbino. Lo splendido monastero sorse alla fine del X secolo e in seguito divenne uno dei centri spirituali di riferimento della congregazione dei Camaldolesi,
fondata da san Romualdo. A edificarlo, forse, fu proprio Romualdo che nel X e nell’XI secolo operò in zone limitrofe: Sitria, il monte Petrano e San Vincenzo al Furlo. Nel XII secolo l’eremo fu frequentato da Pier Damiani, anch’egli destinato a diventare santo, che a Fonte Avellana assunse l’abito talare e poi fu nominato priore. Nel XIV secolo il monastero visse un periodo di grande floridezza economica, nonché
di celebrità letteraria: il suo nome, infatti, comparve nella Divina Commedia di Dante Alighieri nel canto XXI del Paradiso. In quel periodo Fonte Avellana divenne abbazia e i religiosi optarono per uno statuto di congregazione che univa principi della Regola benedettina con alcuni elementi tratti dal monachesimo orientale. Alla fine del Cinquecento rientrò nell’orbita camaldolese.
visite e appuntamenti MUSEO DI RIEVOCAZIONE STORICA Mondavio (PU), piazza della Rovere Orario estivo: 9,00-12,00 e 15,00-19,00; invernale: 15,00-18,00 Info tel. 0721 97102 o 977331; e-mail: vivereilmuseo@gmail.it; www.mondavioturismo.it
dal 1° ottobre al 14 marzo: aperto solo festivi e prefestivi, 10,30-13,00 e 14,30-18,00 Info tel. 0541 969586 oppure 338 1034043; e-mail: museo@museostoricogradara.com; www.museostoricogradara.com
www.pozzodellapolenta.it
MUSEO STORICO DI GRADARA Gradara (PU), piazza 5 novembre, 8/9 Orario dal 15 marzo al 30 settembre: tutti i giorni, 10,30-13,00 e 14,30-18,00; dal 15 giugno al 15 settembre: apertura anche serale, 20,30-23,00;
CONTESA DEL POZZO DELLA POLENTA Corinaldo (AN) Periodo luglio Info tel. 071 679043 oppure 339 5856116; e-mail: staff@pozzodellapolenta.it;
CORSA ALLA SPADA E PALIO Camerino (MC) Periodo maggio Info tel. 0737 630512; e-mail: corsaspada@camerino.sinp.net; www.corsaspada.camerino.sinp.net
SPONSALIA Acquaviva Picena (AP) Periodo agosto Info tel. 0735 764115; e-mail: info@sponsalia.com; www.sponsalia.com
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Sansepolcro
Tevere
Città di Castello
Arezzo TOSCANA
Cortona Lago Trasimeno
Pietralunga
Montone
MARCHE
Gubbio
Fabriano
Umbertide
Tolentino
Gualdo Tadino Corciano
Perugia
Castiglione del Lago Panicale
Bettona
Nocera Umbra
Assisi
Deruta
Spello Cannara Foligno Bevagna Gualdo Cattaneo ra Trevi Ne Montefalco Campello sul Clitunno Massa Martana
Città della Pieve
Todi Orvieto Lago di Bolsena
Avigliano Umbro
Alviano Lugnano Amelia in Teverina
Viterbo
umbria
Lago di Vico
Spoleto
Montecastrilli
Ferentillo
Terni
LAZIO
Monteleone di Spoleto
Cascata delle Marmore
Narni Otricoli
Norcia
Cascia
Rieti
ABRUZZO
Orte
Acquasparta
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li Umbri furono gli abitanti originari del «cuore verde» dell’Italia prima dell’arrivo degli Etruschi e si insediarono nei luoghi delle odierne città di Bettona, Otricoli, Trevi, Pietralunga, Assisi, Gubbio, Città di Castello, Perugia, Terni e Spoleto. Con l’arrivo degli Etruschi si aprí un periodo di conflitti che fece da preludio all’invasione romana del 259 a.C, dopo la vittoria nella battaglia di Sentino. Molti borghi preesistenti si espansero e altri vennero fondati ex novo: Bevagna, nota oggi per l’annuale mercato delle Gaite, Massa Martana e Cascia, la futura città di Santa Rita. Nel 552 gli Ostrogoti furono sconfitti dai Bizantini a Gualdo Tadino, ma riuscirono a penetrare in seguito in territorio umbro. Con l’arrivo dei Longobardi, nel 575, si creò anche a quelle latitudini una netta separazione tra aree. Una zona, sotto la guida del ducato di Spoleto, era in mano longobarda, mentre il cosiddetto «corridoio bizantino» permetteva a Costantinopoli di mantenere il controllo su alcuni centri ben fortificati come Amelia – che era stata una potente città romana –, Narni, Todi, Perugia, Orvieto e Gubbio. I centri piú importanti del ducato spoletino erano, oltre a Spoleto, Spello – importante sede vescovile –, Nocera Umbra – nella delicata posizione di confine con i possedimenti bizantini –, Norcia,
Assisi e Terni. Altri borghi rivestivano un ruolo fondamentale per la difesa del territorio, in particolare Scheggino, Monteleone di Spoleto, sorta intorno a una rocca che dominava la Valnerina, Ferentillo e Arrone.
A sinistra Spello (Perugia), S. Maria Maggiore, Cappella Baglioni.Conosciuto anche come Cappella Bella, l’ambiente fu affrescato dal Pinturicchio tra la fine dell’estate del 1500 e la primavera del 1501. Tra le scene del ciclo, nella parete centrale, vi è la Natività qui illustrata. Nella pagina accanto piatto decorato con angelo annunciante. Manifattura di Deruta, XVI sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
Le spinte autonomiste delle città umbre trovarono sfogo nel periodo immediatamente successivo al crollo dell’impero di Carlo Magno. Molti territori appartenenti ai Franchi passarono allo Stato pontificio. Nel X secolo alcune zone, sotto l’influenza dell’imperatore germanico Ottone I, furono inglobate in una struttura autonoma, le terre Arnolfe, di cui facevano parte Montecastrilli, Acquasparta, Avagliano Umbro e Sangemini. Nel periodo dei Comuni si rafforzarono i poteri amministrativi delle singole città che continuarono a essere contese tra l’impero germanico e la Chiesa. I papi prevalsero e, nel 1198, riuscirono a impossessarsi dell’intera Umbria. Una delle conseguenze della svolta politico-religiosa della regione fu il proliferare di movimenti spirituali e il moltiplicarsi di santuari. Con lo scisma avignonese la Chiesa perse influenza temporale nei suoi territori italiani, favorendo il sorgere di potenti signorie che si mostrarono, talvolta, molto rispettose della volontà di autodeterminazione delle cittadine sottomesse. Panicale, assoggettata ai nobili di Perugia, ebbe un suo statuto. Nel XV secolo il signore Braccio da Montone conquistò per un breve periodo una cospicua fetta di territorio umbro mostrandosi, invece, piú dispotico. Alcuni borghi combatterono con valore per non essere espugnati: Corciano, per esempio, che riuscí a respingere gli attacchi del celebre condottiero. i luoghi scelti da «medioevo» Provincia di Perugia •BETTONA: cinta muraria con resti etruschi. •BEVAGNA: (articolo alle pp. 136-145). •CAMPELLO SUL CLITUNNO: castello medievale di Campello Alto, eremo francescano. •CANNARA: chiesa duecentesca di S. Biagio. •CASCIA: monastero di S. Rita, chiesa di S. Antonio Abate (XIV sec.). •CASTIGLIONE DEL LAGO: fortezza duecentesca. •CORCIANO: cinta muraria medievale. •DERUTA: porta medievale, ospedale quattrocentesco. •GUALDO CATTANEO: castello di Simigni (XII sec.). •GUALDO TADINO: Rocca Flea (XII sec.), chiesa monumentale di S. Francesco (XIV sec.). •MASSA MARTANA: porta di accesso medievale, chiesa di S. Maria della Pace in stile rinascimentale. •MONTEFALCO: cinta muraria, chiesa trecentesca di S. Agostino. •MONTELEONE DI SPOLETO (vedi box alle pp. 144-145). •MONTONE: rocca di Braccio, chiese medievali.
•NOCERA UMBRA: torrione Campanaccio risalente all’XI sec. •PANICALE (vedi box alle pp. 142-143). •PIETRALUNGA: pieve di S. Maria (VIII-X sec.), rocca longobarda. •SPELLO: mura romane, chiesa duecentesca di S. Maria Maggiore. •TREVI: centro storico dalla struttura concentrica d’origine medievale. Provincia di Terni •ACQUASPARTA: Palazzo Cesi, di origine rinascimentale. •ALVIANO: castello medievale Doria Pamphili (XV sec.). •AMELIA: duomo del IX sec. •FERENTILLO: borgo di assetto medievale. •LUGNANO IN TEVERINA: chiesa romanica di S. Maria Assunta (XII sec.). •MONTECASTRILLI: chiesa romanica di S. Lorenzo in Nifili (XI sec.). •OTRICOLI: resti di epoca romana. •NARNI: borgo in gran parte medievale; palazzo del Podestà (XIII sec.), cattedrale (XI sec.), rocca trecentesca.
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itinerari
Umbria
bevagna
un giorno nell’età di mezzo di Andrea Barlucchi
È
ormai consuetudine, nel periodo estivo, che la Penisola tutta venga percorsa dal fremito di migliaia di persone che ardono dal desiderio di mettersi in costume medievale e fare festa. In gran parte dei casi l’ambientazione lascia molto spazio alla fantasia, ma in un quadro fatto spesso di improvvisazione, brillano alcune significative eccezioni. Prima fra tutte, il Mercato delle Gaite di Bevagna, appuntamento annuale che si ripete dal 1982 e che ha ormai raggiunto fama internazionale grazie all’accuratezza delle sue ricostruzioni. Questa è la storia di come il Medioevo, la sua
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cultura materiale, se affrontato seriamente e con intelligenza, possa trasformarsi in uno straordinario strumento di crescita a tutti i livelli, non solamente economico. Negli anni Settanta Bevagna altro non era che una sonnacchiosa cittadina della provincia di Perugia: emarginata dal grande circuito turistico umbro, entrate in crisi irreversibile certe attività tradizionali come la manifattura della canapa, essa produceva essenzialmente emigrazione. Per il forestiero non esisteva nemmeno la possibilità di pernottare, perché non vi era alcun albergo o pensione. Il confronto con la si-
tuazione odierna è impressionante: la ricettività bevanate conta oggi centinaia di posti letto, suddivisi tra alberghi di varie categorie, agriturismo e affittacamere, e per prenotare una camera per i giorni del mercato occorre muoversi con mesi di anticipo.
Un successo lungo un anno
La manifestazione ha raggiunto un successo che poi si protrae lungo tutto l’arco dell’anno, per cui si può dire che Bevagna è divenuta, a pieno titolo, meta obbligata per il turista diretto in Umbria. Ma come è stato possibile realizzare
questo autentico miracolo, come si fa in pochi anni a trasformare un’area depressa in un polo produttivo di prim’ordine e in un luogo di residenza invidiabile? Bevagna era sede di una rinomata sagra della porchetta, prima che alla Pro Loco qualcuno cominciasse a riflettere sulle opportunità rappresentate dalle sue vestigia architettoniche, romane e medievali, che (come del resto in ogni parte d’Italia) rappresentano la maggior ricchezza tramandata dal passato. Come utilizzarle? Qualcuno scovò nell’archivio comunale un polveroso tomo dal titolo esotico
Un tratto delle mura medievali di Bevagna, che si sovrappongono in gran parte a quelle romane e hanno un circuito completo di circa 1,7 km.
IL MEDIOEVO NASCOSTO
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Umbria di Liber Statutorum antique terre Mevaniae, che avrebbe potuto fornire spunti e ispirazione. Man mano che l’opera di lettura e traduzione dal latino progrediva, si tratteggiava una realtà sconosciuta e quasi incredibile, fatta di attività artigianali diversificate e di scambi commerciali ben regolamentati. Con grande meraviglia, ci si rese conto che Bevagna, un tempo, doveva essere stata centro di discrete dimensioni, animato da traffici quotidiani e da una grande fiera annuale, e che l’organizzazione e la regolamentazione di tali attività aveva richiesto la stesura di leggi precise, che nulla lasciavano al caso: inoltre, la normativa cosí puntuale forniva una miriade di vividi particolari, utilissimi a ricreare l’ambiente dell’epoca.
La riscoperta delle proprie radici
In alto e in basso due immagini del Mercato delle Gaite, la rievocazione che si svolge ogni anno a Bevagna, e in occasione della quale viene riproposta, su basi filologicamente assai accurate, la vita quotidiana nel Medioevo, con una particolare attenzione per le arti e i mestieri.
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Ma un altro significativo particolare colpí quei lettori – i primi dopo secoli di oblio – degli Statuti bevanati: la città, in epoca medievale, appariva suddivisa in quattro circoscrizioni dotate di particolari competenze, chiamate Gaite, individuate ognuna dal nome di una chiesa presente nel suo ambito territoriale. È bene precisare che si era perso completamente il ricordo di queste cose, per cui la rilettura dello Statu-
La Porta Cannara (detta anche Perugina o di S. Giovanni, XIII sec.). Ha la struttura di un torrione ed è la meglio conservata di quelle che scandiscono il circuito delle mura medievali che tuttora cingono Bevagna. Nella parete esterna sono visibili feritoie, stemmi e una nicchia centrale, che doveva verosimilmente contenere un affresco. to può essere considerata, senza esagerare, come il primo passo di un processo di riscoperta e riappropriazione delle radici storicoculturali, processo di fondamentale importanza per qualsiasi comunità umana, su cui è superfluo spendere parole. L’osservazione della vita economica e dell’assetto istituzionale della Bevagna del passato, quale appariva dagli antichi Statuti, suggerí la realizzazione di una manifestazione di livello culturale superiore rispetto a quanto si aveva in precedenza, nella quale potesse prendere corpo tutta la vitalità di una fiera medievale. La formula individuata fu quella della gara fra i quattro quartieri («Gaite», secondo la terminologia dello Statuto), per l’allestimento di un mercato che fosse per quanto possibile filologicamente corretto e scenograficamente realistico. La gara doveva essere arbitrata da esperti della materia, cioè da giudici scelti fra i docenti di storia medievale delle varie università italiane. In un primo momento, la manifestazione si svolgeva in un solo giorno e le quattro Gaite erano impersonate da altrettante associazioni locali (la Banda Musicale, l’Azione Cattolica, gli Scout, la Legambiente). In seguito si decise di tentare di ricreare la vita e lo spirito del quartiere medievale tracciando sul terreno, sulla base delle indicazioni statutarie, i confini fra le antiche Gaite: la scelta si è rivelata indovinata, perché col tempo essa ha creato uno spirito di corpo e insieme una sana competitività fra la popolazione simili a quelli delle contrade di Siena, pur senza riprodurre gli eccessi incomprensibili del Palio.
Tra sport e gastronomia
Altre gare poi si sono venute ad aggiungere alla ricostruzione del mercato: il tiro alla fionda, poi sostituito da quello con l’arco, e la gara gastronomica, nella quale ogni Gaita propone alla giuria un piatto della cucina medievale. La pratica del tiro con l’arco ha fatto nascere un gruppo locale di sportivi che, oltre a partecipare a varie rievocazioni storiche, ha cominciato da qualche anno a gareggiare nei campionati italiani ed europei con ottimi risultati. La competizione per il miglior piatto medievale ha affinato il palato dei Bevanati e ha spinto diversi ristoratori locali a IL MEDIOEVO NASCOSTO
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itinerari
Umbria
La chiesa di S. Michele Arcangelo, edificata tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. dai maestri Binello e Rodolfo, i cui nomi compaiono in una iscrizione alla sinistra del portale. Sulla destra svetta il campanile, frutto di una costruzione posteriore. La fontana in stile medievaleggiante che si vede in primo piano è un’opera moderna, realizzata nel 1896.
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Una storia plurisecolare L’età romana ha lasciato significative testimonianze in Bevagna: il teatro, su cui sono state in seguito costruite abitazioni, ma del quale rimane un suggestivo ambulacro; un tempio trasformato in chiesa cristiana, nelle cui mura perimetrali sono inglobate le colonne originali; le terme, di cui possiamo ammirare l’ambiente del frigidarium, formato da nicchie decorate a mosaico. Collocata sulla via Flaminia, essa conobbe le devastazioni dell’epoca longobarda, prima di entrare a far parte stabilmente del ducato di Spoleto. In seguito si dice sia stata addirittura saccheggiata nell’830 dai Saraceni, i quali avrebbero risalito il Tevere su barche. In età comunale Bevagna avrebbe parteggiato alternativamente per l’impero e per la Chiesa, finendo poi per essere inglobata nel dominio dei Trinci di Foligno.
sperimentare in quella direzione, fino a inserire nei loro menu quotidiani ricette assolutamente introvabili altrove. Infine, la rievocazione della vita medievale ha suscitato una passione per la musica di quel periodo sfociata nella formazione di un gruppo musicale che si esibisce ormai a livello nazionale.
I mestieri in gara
Ma la gara di successo crescente è senz’altro quella dei mestieri, nata inizialmente come ricostruzione di «angoli caratteristici», che vede le Gaite cimentarsi nella riproduzione di alcune antiche professioni. Essa ha raggiunto un’importanza paragonabile a quella del mercato. Le Gaite poi sembrano orientarsi verso una certa specializzazione, per cui ciascuna persegue alcuni «filoni», se cosí si può dire, nei quali raggiunge risultati di assoluta eccellenza. Cosí, per esempio, la Gaita Santa Maria si è specializzata nei mestieri legati alla lavorazione dei tessuti, ricollegandosi a una tradizione locale che, saldamente attestata già negli Statuti, è rimasta in vigore fino al XX secolo nella forma della coltivazione e tessitura della canapa. Il visitatore può quindi assistere alle varie fasi del processo produttivo: dalla stigliatura e pettinatura della canapa essiccata alla sua filatura e quindi alla tessitura. L’esperienza accumulata ha indotto successivamente i dirigenti della Gaita a tentare la ricostruzione dell’arte della seta nel suo intero ciclo produttivo, a partire dall’allevamento del baco. La realizzazione del progetto ha richiesto una
lunga fase preparatoria, fatta di studio e di documentazione sulle tecniche impiegate: il risultato, però, ha largamente ricompensato gli sforzi effettuati. I bachi sono alimentati con foglie di gelso finché, terminata la crescita, vengono posti su ramaglie secche dove costruiscono il bozzolo nel quale racchiudersi. A questo punto avviene la cosiddetta «sbozzolatura»: i bozzoli sono immersi in acqua calda, al fine di sciogliere la sostanza che lega fra loro i filamenti, quindi, una volta individuato il capofilo, si comincia a dipanare i fili come se si trattasse di un gomitolo. Il bozzolo infatti altro non è se non un filamento continuo che può raggiungere anche i 2000 metri di lunghezza. Le filatrici, poi, uniscono fra loro filamenti provenienti da diversi bozzoli per formare un unico, resistentissimo, filo di seta, che va ad avvolgersi su un aspo rotante. Segue quindi l’operazione dell’«incannatura», nella quale il filo passa dalle matasse ai rocchetti per essere trasferito al «torcitoio». Quest’ultimo è uno strumento ideato nel Medioevo che, torcendo i fili di seta, ne migliora grandemente la qualità aumentandone resistenza, coesione e voluminosità. L’operazione di torcitura in origine veniva effettuata a mano e dava risultati mediocri, oltre a essere estremamente dispendiosa in termini economici. Ma, verso la fine del XIII secolo, comparve una macchina assolutamente innovativa, il torcitoio circolare da seta che effettuava l’operazione in maniera ottimale: sulla base di documentazione rarissima, la Gaita Santa Maria è riuscita a ricostruire e far funzionare una di queste macchine, che è composta essenzialmente da due strutture concentriche, di 3 m di diametro per 2 di altezza, che ruotando fra di loro ritorcono su se stesse centinaia di fili di seta. Complessivamente la macchina consta di oltre 2000 pezzi, tutti in legno.
Antiche ricette per inchiostri e colori
Ma le altre Gaite non sono state da meno quanto a inventiva, dedizione allo studio e a capacità realizzativa. La Gaita San Pietro, per esempio, ha allestito una bottega di speziale del XIV secolo sulla base di documentazione inedita e di trattati medievali di alchimia. Oltre a questa, la cereria, dove si producono candele e doppieri da cerimonia. Ma la realizzazione piú recente è quella dello scriptorium di un monastero, dove si può assistere a tutte le fasi di lavorazione di un codice in pergamena: dalla produzione della cartapecora alla preparazione della pagina, alla scrittura e miniatura, infine alla rilegatura. È ovvio che inchiostri e colori per le miniature (segue a p. 145) IL MEDIOEVO NASCOSTO
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Umbria
panicale
P
anicale, centro in provincia di Perugia, ha la caratteristica di irretire non solo per le sue mura medievali e per la struttura cittadina a cerchi concentrici, ma anche per l’origine controversa del suo nome. Panicale potrebbe infatti derivare da «pan kalòn», «luogo in cui tutto è bello», «pani calet», «luogo dove ardono le are del dio Pan» o «panis collis» «colle sacro al dio Pan». Arrampicato sul monte Petrasvella, il borgo ha un aspetto tipicamente medievale anche osservandolo a distanza, dalla valle. Si scorgono le mura, le piccole abitazioni compatte e allineate e la torre del palazzo del podestà, come se il tempo fosse sospeso. Oltre alle mura, il paese è ancora munito di un fossato e di due porte di accesso. La sua storia si incrocia con quella di Perugia, potente vicina che utilizzò Panicale come avamposto militare verso ovest. Nonostante la dipendenza dal capoluogo umbro, il borgo seppe conquistare spazi di autonomia, dotandosi di un proprio statuto nel 1316. Un secolo dopo quel testo sarebbe stato tradotto in volgare per renderlo piú comprensibile alla popolazione. I monumenti piú antichi della città sono la collegiata di S. Michele Arcangelo (X-XI secolo), il Palazzo del podestà (XIII secolo), la Porta fiorentina (XIII secolo), il Palazzo pretorio (XIV secolo) e Palazzo Landi (XV secolo).
Panicale (Perugia). Il Martirio di San Sebastiano affrescato dal Perugino nella chiesa intitolata al santo. L’opera fu ultimata nel 1505 e sullo sfondo della composizione si riconosce il paesaggio che si può effettivamente ammirare appena fuori l’edificio, caratterizzato dalla presenza quieta del lago Trasimeno. 142
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In alto veduta di Cividale del Friuli. In primo piano è il Ponte del Diavolo, che con la sua doppia arcata permette l’attraversamento del Natisone. Sillo sfondo si riconosce invece il Duomo, che, nelle sue forme attuali, è frutto dei rimaneggiamenti operati tra la metà del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. IL MEDIOEVO NASCOSTO
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itinerari
Umbria
monteleone di spoleto
«A
dhuc vivit», «ancora resiste», recita un motto latino datato al 1517, inciso sull’architrave di una delle finestre di palazzo Pantalei in uno sperduto borgo dell’Umbria. Fa molto piacere, dopo cinque secoli, poterlo ancora leggere, nonostante i numerosi eventi sismici che hanno tristemente segnato la storia di questi luoghi, a cui il motto sembra alludere. Parliamo di Monteleone di Spoleto, le cui imponenti architetture risalenti al Medioevo ci narrano di un passato ricco di storia. Situato nell’Appennino centrale umbro, dominato dalla maestosità del monte Terminillo, in un’area di confine con la provincia reatina, a pochi chilometri da Leonessa, Cascia e Spoleto, la storia di questo luogo ha inizio con l’epoca in cui queste terre erano abitate da popolazioni proto-italiche. Lo attestano i ritrovamenti effettuati
presso la necropoli protovillanoviana di Colle del Capitano, una località in cui, agli inizi del XX secolo, furono peraltro recuperati i resti di una biga lignea ricoperta in bronzo (databile al VI secolo a.C.), che oggi sono uno dei vanti della collezione di antichità del Metropolitan Museum of Art di New York. Passata nel III secolo a.C. sotto la dominazione romana e, successivamente, inglobata nel ducato longobardo di Spoleto, è nel V secolo che si inizia a parlare piú concretamente di Monteleone, anzi di Brufa, come fu denominata la rocca sorta nella parte piú alta dell’attuale paese, e di cui sono ancora visibili alcuni resti. A partire dai secoli X-XI e soprattutto in seguito alle scorrerie saracene, il borgo fu dotato di una prima cinta muraria, con torri oggi in parte dirute a causa appunto dei sismi. Oggi, a contraddistinguere il piccolo
Monteleone di Spoleto (Perugia). Sullo sfondo è la torre dell’Orologio, che, aperta da un arco ogivale, dà accesso alla fiancata della chiesa di S. Francesco (XIV sec.).
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borgo di Monteleone, rispetto ad altri paesi limitrofi, è proprio l’imponenza di queste mura che, a causa di continui scontri con i vicini Comuni, vennero ampliate a piú riprese con altre due cerchie murarie, tanto da creare, agli occhi del moderno visitatore, un effetto di straniamento dovuto al contrasto tra le ridotte dimensioni dell’abitato rispetto al possente apparato difensivo. Attraverso le tre porte della seconda cinta di mura, risalente alla seconda metà del XIII secolo, si accede al nucleo piú antico del borgo, che si sviluppa in un dedalo di viuzze secondo un impianto urbanistico medievale. In corrispondenza della Torre dell’Orologio che domina il paese, si trovano la graziosa piazzetta del mercato, anticamente fulcro della vita
cittadina, e il convento trecentesco di S. Francesco, senza dubbio la piú interessante architettura sacra del luogo. La chiesa superiore, caratterizzata da un ricco portale gotico, è impreziosita da affreschi tre-quattrocenteschi. Tra un orpello barocco e l’altro, si distinguono quelli raffiguranti la Morte della Vergine, San Giorgio a cavallo, Madonna con Bambino e Santi. Nella chiesa inferiore, al piano sottostante, oltre a due edicole del Trecento – ma una sola ben visibile – raffiguranti Madonna con Bambino e Santi, troviamo un’abside interamente affrescata (tardo XIV secolo) con tanto di bestiario, e una moltitudine di santi e sante da costituire una variegata iconografia agiografica. Con l’acquisizione della propria autonomia, Monteleone continuò, nei suoi alti e bassi, a scontrarsi in un rapporto di amore-odio con Spoleto, sino al 1560, quando papa Paolo IV riafferma la totale autonomia del Comune sotto il controllo della legazione pontificia di Perugia. Grazie al ritrovato equilibrio, Monteleone conosce una crescita demografica con la conseguente costruzione di una terza cerchia di mura con sei torri a difesa del nuovo spazio urbano. E agli ampliamenti urbanistici corrisponde inevitabilmente l’introduzione di nuovi stili
architettonici. Accanto ai numerosi edifici tardo-medievali, ecco sorgere nuovi palazzi dove le ogive lasciano gradualmente spazio alle finestre architravate e a portali bugnati, di squisito sapore rinascimentale. Dal XVI secolo, un’altra singolare abitudine da parte dei Monteleonesi fu quella di far incidere motti latini sui portali dei palazzi. Queste facciate «parlanti» costituiscono una vera curiosità a Monteleone, e la loro presenza è un altro sintomo della mutata sensibilità verso il panorama culturale affermatosi con l’Umanesimo. Sebbene i disastrosi terremoti del passato abbiano infierito su queste terre, lasciando ampie ferite sul patrimonio artistico e architettonico, del borgo antico sopravvive incorrotto, ancora oggi, tutto l’incanto delle stradine, delle case arroccate, delle ampie cinte murarie, grazie anche a una premurosa politica di recupero e salvaguardia che ha permesso di preservarne tutta l’antica bellezza… Come d’altronde leggiamo in un altro motto latino inciso sul portale di palazzo Barnabò, «Enitendum ad virtutem», «occorre impegnarsi per raggiungere la virtú»: ed è proprio quello che le autorità locali hanno dimostrato di saper fare nel caso di Monteleone di Spoleto. Franco Bruni
sono ottenuti secondo le antiche ricette. L’interesse della Gaita San Giovanni invece si è indirizzato essenzialmente verso quei mestieri che impiegavano grandi macchinari mossi da energia idraulica, in particolare il mugnaio e il maestro cartaio. È soprattutto quest’ultimo a impressionare il visitatore, grazie alla grande «pila a magli multipli» mossa dall’energia idraulica, che macina incessantemente gli stracci. Si tratta, anche in questo caso, di un’invenzione tutta medievale, attestata a partire dalla fine del Duecento: gli stracci necessari alla confezione della carta, disposti in tre vasche di legno contigue, vengono martellati automaticamente a ritmo costante da tre diversi magli di legno mossi da un albero a camme azionato da una ruota idraulica.
Stracci ridotti in poltiglia
In precedenza questa operazione, necessaria a ridurre in poltiglia gli stracci, era effettuata a mano nei mortai, con un dispendio di energia enorme e lunghissimi tempi di lavorazione: l’invenzione della pila a magli multipli è stata quindi definita come una vera e propria rivoluzione nel processo produttivo della carta. Infine la Gaita San Giorgio si è specializzata nei mestieri legati all’utilizzo del fuoco. Inizialmente fu realizzata una fabbrica di laterizi, il cui elemento di maggior pregio e spettacolarità era costituito dalla fornace per cuocere i mattoni: anche in questo caso ci si riallacciava a una tradizione locale, attestata negli Statuti e rimasta viva fin quasi ai nostri giorni. Seguirono poi la fonderia, sulla base delle descrizioni contenute nel trattato De la Pirotechnia di Vannoccio Biringuccio, quindi la bottega dello spadaio; la realizzazione piú recente, in questo settore, è stata quella della Zecca per la produzione di monete. Negli ultimi tempi la Gaita ha anche allestito, in collaborazione con alcuni artigiani locali, una bottega di liutaio dove si producono strumenti musicali a corda.
visite e appuntamenti MUSEO DELLE MUMMIE Località Precetto, Ferentillo (TR), Via della Rocca Orario da ottobre a marzo: 9,30-12,30 e 14,30-18,00; da aprile a settembre: 9,00-12,30 e 14,30-19,30; da novembre a febbraio: 10,00-12,30 e 14,30-17,00 Info tel. 335 6543008; e-mail: mummie@libero.it MUSEO CIVICO DI SAN FRANCESCO Montefalco (PG), via Ringhiera Umbra, 6
Orario marzo, maggio, settembre, ottobre: 10,30-13,00 e 14,00-18,00; giugno, luglio: 10,30-13,00 e 15,00-19,00; agosto: 10,30-13,00 e 15,00-19,30; novembre e febbraio: 10,30-13,00 e 14,30-17,00 Info tel. 0742 379598; www.promontefalco.com/museo-chiese/ PALIO DEI COLOMBI Amelia (TR) Periodo luglio-agosto Info tel. 0744 981189 oppure 347 7330903;
e-mail: epc.amelia@libero.it www.ameliapalio.it DONAZIONE DELLA SANTA SPINA Montone (PG) Periodo agosto-aprile Info tel. 075 9307019; e-mail: proloco@montone.info; www. montone.info GIOCHI DE LE PORTE Gualdo Tadino (PG) Periodo settembre Info www.giochideleporte.it
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