Medioevo Dossier n. 2 - 2014

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MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E Dossier

capitali del medioevo parte II europa meridionale e vicino oriente

N°2 2014

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venezia ♦ milano ♦ roma ♦ napoli cordova ♦ saragozza ♦ lisbona dubrovnik ♦ rodi ♦ costantinopoli gerusalemme ♦ damasco ♦ baghdad

Bimestrale - My Way Media Srl

capitali del medioevo parte II: europa meridionale e vicino oriente

€ 6,90



capitali

a cura di Francesco

Colotta

del medioevo

europa meridionale e vicino oriente testi di Patrick Boucheron, Leonardo Capezzone, Adele Cilento, Francesco Colotta, Marco Di Branco, Sonja Felici, Bruno Figliuolo, Franco Franceschi, Domenico Gambardella, Chiara Mercuri, Gherardo Ortalli, Ludovica Sebregondi e Andreas M. Steiner

Presentazione 4 Un mare di storia italia

penisola balcanica

8 Venezia La regina della Laguna

80 Dubrovnik La quinta repubblica marinara

24 Milano Da sempre metropoli

mediterraneo orientale

34 Roma Una storia da riscrivere 48 Napoli Prediletta dagli Angioini penisola iberica 56 Cordova Il gioiello dei califfi

94 Rodi L’isola dei cavalieri vicino oriente 106 Costantinopoli Gli splendori della Nuova Roma 120 Gerusalemme L’oro del tempio

64 Saragozza Conquiste e contaminazioni

130 Damasco Il cuore «morale» dell’Islam

70 Lisbona Come un’araba fenice

138 Baghdad Il cerchio del potere


capitali del medioevo

Presentazione

Cordova (Spagna). Un particolare della ricca decorazione interna della Mezquita, la Grande Moschea costruita nell’VIII sec., al tempo della dominazione araba, e poi trasformata nella chiesa dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima.

Un mare di storia T

utte le strade portano al Mediterraneo. Nell’Età di Mezzo quel mare affollato di merci rappresentava uno «spazio vitale» per i regni dell’Europa meridionale. La stessa vocazione animava gli Stati mediorientali, che per un periodo colonizzarono quelle acque a spese dell’Occidente. Nell’intricato triangolo di rapporti tra il Vecchio Continente, Bisanzio e l’Islam, il Mediterraneo si materializzò sempre come una sorta di convitato di pietra, come una delle principali cause di conflitti e trattati di pace, alla stessa stregua di un dogma religioso. Ecco perché «Medioevo», nella seconda parte del «Dossier» dedicato alle capitali, presenta ai lettori un itinerario che ripercorre la storia urbanistica di due continenti, l’Europa del Sud e l’area del Vicino Oriente, le cui ambizioni gravitavano sul medesimo scacchiere strategico. «Viviamo intorno a un mare come rane intorno a uno stagno», scriveva il filosofo greco Socrate, riferendosi al Mediterraneo. Il controllo di quel vasto specchio d’acqua garantiva prestigio, indipendentemente dalle epoche di splendore o di crisi globale dell’economia. Agli inizi del Medioevo, mentre l’impero romano crollava sotto i colpi delle invasioni barbariche, il traffico mercantile sul Mediterraneo continuava a essere florido, con nuovi attori protagonisti. Costantinopoli aveva scalzato Roma, e all’orizzonte si profilava l’ascesa delle dinastie musulmane. Le stesse genti germaniche, i Visigoti, gli Ostrogoti, i Burgundi e i Vandali, avevano cercato fortuna nel Meridione con l’obiettivo di conquistare uno sbocco marittimo. Lungo le correnti del Mediterraneo si determinò uno dei grandi eventi che stravolse gli equilibri politici del Medioevo. Nell’VIII e IX secolo le navi arabe attaccarono la penisola iberica, il Meridione d’Italia e la Grecia, dominando per anni su alcuni avamposti chiave dell’Occidente. Basta soffermarsi sulle splendide illustrazioni che appaiono nel «Dossier» per capire quanto gli islamici abbiano inciso, per esempio, nell’architettura medievale delle città andaluse e aragonesi. Anche Venezia, qualche secolo piú tardi, lasciò la sua impronta su alcuni importanti centri, conquistati grazie alla sua superiorità sulle onde. «In Europa ciò che conta è il rapporto con il mare», sottolineò in epoca contemporanea anche il pensatore Georg Wilhelm Friedrich Hegel. La posizio4

capitali del medioevo


ne felice sulla costa garantí lo status di capitale a molte città, tra le quali appunto Venezia, Genova, Napoli, Lisbona, Ragusa, Rodi e Costantinopoli. Tuttavia, in Medio Oriente, empori commerciali come Baghdad e Damasco si ritagliarono un ruolo di primo piano nei traffici del Mediterraneo, pur non disponendo di un accesso diretto a un porto. Altre città, invece, sfruttarono le acque dei fiumi per non essere escluse dal tavolo delle grandi potenze politiche e mercantili: Milano, per citare uno dei casi eclatanti, nonostante la sua lontananza dalla costa, poteva contare su una delle reti navigabili piú efficienti d’Europa, attraverso la quale intercettava parte del traffico commerciale transitante per Venezia. Allo stesso modo capitali spagnole come Saragozza e Cordova beneficiavano del vantaggio di essere bagnate da due lunghi corsi d’acqua della penisola iberica, l’Ebro e il Guadalquivir che, rapidamente, potevano condurre sul litorale. La contesa degli spazi sul Mediterraneo accentuò l’instabilità della sua vasta area di influenza. La Spagna e l’Italia risultavano irrimediabilmente frammentate in tanti, piccoli potentati, come del resto i regni della penisola balcanica. Ne conseguiva un frequente cambiamento dei confini geopolitici e delle relative realtà urbane dominanti, destinate a compiere repentine ascese e altrettante rapide uscite di scena. Eppure, nell’area del Mediterraneo europeo, la Chiesa aveva cercato di imprimere stabilità di ruoli all’universo cittadino continentale, fissando le proprie sedi circoscrizionali nei luoghi in cui sorgevano le antiche civitates romane. L’inesorabile marcia della storia aveva, però, imposto criteri diversi in ambito amministrativo. Nel tempo, comunque, il Mediterraneo favorí processi di integrazione che fecero da preludio alla nascita delle monarchie nazionali e, in seguito, dell’unità europea. Rileggendo la storia delle città, il Mare nostrum di romana memoria appare come un pomo della discordia che, nel tempo, produsse un miracoloso effetto contrario: l’incontro tra culture rivali che impararono a conoscersi e a diventare interdipendenti. Oggi quel sentiero di convergenza attraverso le onde può essere percorso nel complesso rapporto tra Europa e Medio Oriente, i cui prodromi di intesa si profilarono, seppur sporadicamente, proprio in alcune capitali del Medioevo. capitali del medioevo

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AUSTRIA

SVIZZERA

Pordenone

Aosta Monza Torino

FRANCIA

Pavia

SLOVENIA

SERBIA

Milano Verona Venezia Padova Mantova Bologna

Genova Imperia

UNGHERIA

Bolzano

Pisa

Firenze

Siena

CROAZIA BOSNIA ERZEGOVINA

Ravenna Forlí

ITALIA

Ancona

Spoleto

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Teramo

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Roma Campobasso Benevento Caserta Potenza Napoli Amalfi

italia

Olbia

Bari Brindisi Taranto

Mar Tirreno Crotone

Cagliari

Mar Mediterraneo

Trapani

Palermo

Agrigento

Pisa. Veduta della piazza del Duomo, detta «dei Miracoli» per la perfezione architettonica dei monumenti medievali che su di essa si affacciano. Si riconoscono, da sinistra: il battistero, il duomo e la celebre torre pendente, costruiti tra l’XI e il XII sec.

Messina

Mar Ionio

Reggio Calabria Catania Siracusa


I

l territorio italiano fu popolato in origine da genti di varia stirpe, i cui insediamenti hanno molto spesso costituito il nucleo piú antico di città tuttora abitate. Prima della nascita di Roma, i Fenici fondarono città nel Meridione e in Sardegna, tra cui Palermo, Trapani e Karalis (l’odierna Cagliari), e, tra l’VIII e il VII secolo a.C., anche i Greci impiantarono colonie importanti a Siracusa, Cuma, Reggio Calabria, Napoli, Messina, Taranto e Crotone. Secondo la coronologia tradizionale, nel 753 a.C. ebbe inizio l’era di Roma, che, nel periodo della repubblica, unificò di fatto la Penisola. Nel tempo, altre città fiorirono, sia dal punto di vista architettonico che politico: Aosta, Milano, Torino, Verona, solo per citarne alcune. La fondazione dell’impero romano d’Occidente, nel IV secolo d.C., vide emergere, invece, Ravenna, che rivestí il ruolo di guida politica della nuova entità statale universalista. La città romagnola conservò la propria funzione di sede del potere anche agli inizi del Medioevo, nel periodo delle invasioni barbariche: sia gli Eruli che gli Ostrogoti la elessero, infatti, loro capitale. La Guerra Gotica (535-553) segnò la prima fase dell’egemonia bizantina, destinata a consolidarsi con l’assedio di Roma e la battaglia di Tagina. Una parte dell’Italia divenne una circoscrizione imperiale di Costantinopoli e, ancora una volta, Ravenna assunse le redini del governo, affiancata dalle vicine Forlí e Forlimpopoli. Una fiscalità oppressiva e ripetute epidemie fecero da preludio alla conquista longobarda, che ridimensionò l’influenza bizantina sulla Penisola. Capitali del nuovo regno furono designate dapprima Pavia e, in seguito, Milano e Monza, mentre nel Meridione Spoleto e Benevento rivestivano la funzione di capoluoghi della cosiddetta Langobardia minor. Quest’ultima sopravvisse all’irruzione dei Franchi, che riuscirono a colonizzare il Settentrione e la Toscana, confermando Pavia come capitale. Con il crollo dell’impero carolingio si aprí l’era delle lotte feudali e la conseguenza di quella frammentazione fu il rafforzamento di molti presidi cittadini. Alle soglie dell’anno Mille cominciò l’epopea delle repubbliche marinare (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia), mentre nel XII secolo si affermarono i Comuni, specie nel Nord, molti dei quali aderirono alla Lega Lombarda per contrastare l’imperatore germanico Federico Barbarossa. Al Sud era nato il regno di Sicilia a guida normanna, anch’esso ostile alle politiche dei sovrani tedeschi, che ebbe come capitali Palermo, Napoli, Catania e Messina. Contemporaneamente all’affermazione dei Comuni scoppiò la guerra tra Guelfi, sostenitori del papato, e Ghibellini, fedeli agli imperatori: Firenze per i primi e Siena per i secondi rappresentarono i due luoghi simbolo delle fazioni in lotta. Un’altra faida si verificò per il controllo del regno di Sicilia tra i filoimperiali Svevi e i papisti Angioini. Questi ultimi prevalsero sul campo di battaglia, ma dovettero poi fronteggiare gli Aragonesi nella guerra dei Vespri, che si concluse con la pace di Caltabellotta del 1302. Da una costola del regno di Sicilia, nacque l’angioino regno di Napoli, che ebbe come capitale, oltre alla città omonima, Caserta.

Ravenna. Alcuni degli splendidi mosaici policromi della basilica di S. Vitale. VI sec. Nell’Alto Medioevo la città fu la capitale dell’impero bizantino e, in seguito, del regno longobardo.

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La regina della di Gherardo Ortalli

Laguna

Novella Afrodite, Venezia seppe fare dell’acqua la base delle sue fortune. Da ostacolo naturale, il mare si trasformò, infatti, nel teatro dei suoi successi, garantiti dalla spiccata vocazione commerciale degli abitanti della Serenissima

Veduta del Canal Grande, la principale arteria di Venezia. Sullo sfondo, la basilica di S. Maria della Salute (XVII sec.).


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Venezia

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ntorno al 537 Aurelio Magno Cassiodoro, un colto e raffinato romano che nel regno ostrogoto svolgeva l’altissima funzione di prefetto del pretorio, scriveva ai tribuni marittimi della Venetia, pubblici ufficiali a lui sottoposti, perché si impegnassero a favorire il rapido trasporto di derrate dall’Istria a Ravenna, sede della corte gota. Il testo non si presentava come un ordine dal freddo andamento burocratico, ma come un invito letterariamente molto curato, attento a non urtare le sensibilità dei destinatari. Ne scaturiva una descrizione attenta e curiosa dell’ambiente lagunare. Chi vive in quelle terre mescolate alle acque, scrive Cassiodoro, gode i vantaggi di un ambiente protetto e i suoi naviganti possono battere «spazi infiniti», passando tra canali, isole e paludi anche quando le tempeste impediscono il percorso sul mare. Le imbarcazioni avanzano tra sponde erbose e, non vedendosi l’alveo dei canali, sembrano scivolare sui prati; neppure l’assenza di vento le ferma perché, in quel caso, vengono trainate da terra con gomene, né sanno cosa sia fare naufragio, data la frequenza degli approdi. La popolazione vive sparsa, «alla maniera degli uccelli palustri», su un fragile terreno consolidato con fascine di flessibili vimini, in un paesaggio che muta al ritmo delle maree, in abitazioni alle cui pareti sono legate le barche, quasi fossero animali domestici. La povertà e la ricchezza convivono in pace e un unico cibo le nutre; un analogo tetto le ripara; l’invidia non trova alimento. Unica abbondanza: il pesce; grande risorsa: il sale.

costruire riciclando Venezia conserva il segno del suo peculiare processo genetico anche nelle mura degli edifici. Le genti che modificarono gli assetti insediativi della Laguna lo fecero portando con sé tanto i loro modelli formali quanto le tecniche costruttive, pur adattate alla specificità dei luoghi. Ma occorreva anche procurarsi quei materiali da costruzione, soprattutto lapidei, che tra sabbie, fanghi e paludi erano cosa preziosa. Le pietre e persino i ruderi erano dunque un capitale per la città in crescita. Una testimonianza splendida in questo senso viene dal testamento del doge Giustiniano Particiaco, steso nell’829. Il doge disponeva con cura a proposito di ampi possedimenti e di

Tra ammirazione e fastidio

La virtuosa uguaglianza degli uomini di laguna raccontataci da Cassiodoro è l’immagine di un passato ormai lontanissimo nei secoli X, XI e XII, quando matura piuttosto un atteggiamento in bilico tra ammirazione e fastidio nei confronti di quelle genti che, grazie ai commerci, vivo(segue a p. 15)

le date da ricordare 452 Invasione degli Unni di Attila.

751 Cade l’esarcato di Ravenna, da cui dipende la città lagunare.

568 Invasione longobarda a scapito del dominio bizantino.

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828 Giungono le reliquie di san Marco trafugate da Alessandria d’Egitto. Comincia l’edificazione della basilica, ricostruita nel secolo successivo. IX-X sec. Nascita della civitas Venetiarum a Rialto.

1104 Comincia la costruzione dell’Arsenale di Venezia.

XIII sec. Collocazione del leone sulla colonna di piazza San Marco.

1181 Un ponte in legno a Rialto sostituisce il precedente ponte di barche che collegava le due sponde.

1348 Venezia è devastata da un violento terremoto, e contemporaneamente è colpita dalla peste. 1204 IV crociata e conquista di Costantinopoli. Vengono portati via i cavalli di bronzo dorato che andranno a ornare la basilica di san Marco.


notevoli patrimoni, ma non dimenticava le «pietre»: quelle di sua proprietà in Equilo-Jesolo erano destinate al completamento degli edifici del monastero di S. Dario (alle foci del Brenta); quanto ne sarebbe rimasto, insieme al pietrame recuperabile dalla casa che era stata di Teofilatto di Torcello, avrebbe dovuto servire per la costruzione della basilica dedicata a San Marco, le cui reliquie erano da poco giunte a Venezia. Tragitti lunghi, spostamenti non semplici per un materiale edile prezioso, in una logica ancora ben visibile lí dove inserzioni di vecchi reperti romani, spesso con epigrafi o decori di qualità, compaiono sugli edifici della Venezia di oggi.

1454 Pace di Lodi tra Venezia e Milano.

1349 Collocazione dell’iconostasi all’interno della basilica di San Marco.

Secondo Cassiodoro, gli abitanti della Laguna vivevano sparsi, come gli «uccelli palustri»

In alto pianta a volo d’uccello di Venezia e della sua laguna, dipinta nella Galleria delle Carte Geografiche dei Musei Vaticani, opera di Antonio Danti con la consulenza del fratello Ignazio, realizzata tra il 1580-85 su commissione di papa Gregorio XIII. A destra isola di Torcello. La facciata principale della basilica di S. Maria Assunta e i resti del suo antistante battistero. capitali del medioevo

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Venezia

uno sguardo sul ponte Disegno ricostruttivo dell’area intorno al ponte di Rialto alla fine del XII sec., da sempre cuore economico di Venezia.

banchi e mestieri

Il campanile a vela della chiesa di S. Giacomo (detta di S. Giacometto, per le modeste dimensioni). Edificata nell’XI sec., la chiesa era la sede dei banchi di scrittura (le banche dell’epoca), e di molte Scuole di Mestiere ospitate presso i suoi altari.

mercanti in riva al canale I prodotti meno pregiati e/o piú ingombranti venivano

venduti sulle rive, come attestano anche alcuni toponimi sopravvissuti fino a oggi, come per esempio Riva del Vin o Riva dell’Ogio (olio), ecc.

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il primo ponte

Il ponte di legno edificato nel 1181 da Nicolò Barattieri, per assicurare il collegamento tra le coste del Rialto, in precedenza unite da un ponte di barche costruito nel 1172. La struttura era formata da due rampe inclinate, che si congiungevano in una sezione centrale mobile, detta appunto Ponte di Rialto.

pozzi per l’acqua

le fondamenta

Le strutture del ponte, cosí come quelle delle case, poggiavano su fondazioni costituite da pali infissi nel terreno lagunare, fino a raggiungere lo strato di argilla e sabbia (detto caranto) caratteristico del fondale.

Installazione per l’approvvigionamento dell’acqua potabile, costituita da un pozzo sormontato da una vera, collegato a una cisterna dalle pareti impermeabili, riempita d’acqua piovana attraverso due o quattro tombini (pilelle).

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la venezia del punjab Nella storia dell’urbanistica moderna, il progetto della modernissima Chandigarh, capitale del Punjab, dovuto a Le Corbusier coadiuvato da una équipe internazionale di architetti, ha segnato nel 1953 una svolta. Uno degli aspetti piú innovativi del progetto riguardava la viabilità multipla, con strade a livelli e colori diversi, ordinate in base alle funzioni dei centri da servire, dei mezzi consentiti e del tipo di traffico (veloce, lento, locale, pedonale). Per quel rivoluzionario sistema di comunicazioni urbane Le Corbusier si era ispirato dichiaratamente a Venezia, nata e cresciuta con due sistemi di viabilità autonome e insieme complementari: calli e campi, via terra, per le persone e, un tempo, per cavalli, ma non per carriaggi; canali e rii per i mezzi di trasporto. Ponti e traghetti sono i punti di sovrapposizione fra le due viabilità, sempre rispettate anche dagli interventi urbanistici piú pesanti, a partire dal primo di cui sia rimasta memoria: la bonifica dell’area di Dorsoduro (che dà ancora il nome a uno dei sestieri di Venezia). Si era al tempo di Orso I [Particiaco], doge dall’864-881, e, come ricorda la Cronaca di Giovanni Diacono: «Durante il suo dogado a Rialto [ossia nel nucleo urbano di Venezia] fu data licenza di bonificare paludi e costruire case verso Oriente; cosí l’isola che si chiama Dorsoduro fu sistemata per deliberazione sua». Si tratta della piú antica memoria di intervento urbanistico pianificato in Venezia, con una logica poi sempre mantenuta nei secoli.

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In alto il piano urbanistico della prima fase di realizzazione di Chandigarh, capitale del Punjab. Il progetto è opera di Le Corbusier che si ispirò a Venezia, città con due viabilità, via terra e via mare, autonome e complementari.

In basso il Ponte di Rialto, uno dei simboli di Venezia, cosí come si presenta oggi. Edificato tra il 1588 e il 1591 da Antonio del Ponte in collaborazione col nipote Antonio Contin, il ponte è interamente in pietra, lungo circa 28 m, ad arcata unica.


no in un’abbondanza sconosciuta quasi ovunque, nonostante «non arino, non seminino e non vendemmino», come notarono i funzionari del regno italico nella capitale Pavia: genti che per i loro affari non esitavano a fare mercato persino di schiavi cristiani, come si registrava con irritazione a Roma, in ambiente curiale, nel Liber pontificalis. Tutta la vicenda veneziana, dalle prime origini a oggi, si presta a proiezioni mitiche: tanto in senso positivo (a partire da Cassiodoro) quanto in senso negativo (nell’ottica assunta dai funzionari pavesi o dalla Curia romana). Ma, a prescindere dai giudizi di merito, nel tempo trascorso dagli anni della guerra greco-gotica a quelli del Liber pontificalis era maturato un cambiamento radicale che aveva visto le marginali aree di laguna proporsi come fulcro di un nuovo Stato, capace di pesare negli equilibri adriatici, pronto ad assumere la misura di potenza mediterranea, sede di una città destinata a divenire una delle piú ricche e importanti del Medioevo europeo. In sostanza, era nata Venezia: una città, uno Stato, un modo di vivere, una civiltà peculiare e per molti aspetti senza riscontro.

Un ambiente marginale

La lettera di Cassiodoro, va detto, risente fortemente di moduli letterari. In realtà le lagune altoadriatiche, erano ben inserite già nel sistema statale romano prima e goto poi. Non si trattava di lande deserte e, benché manchi il ricordo di centri abitati di speciale rilievo, i reperti archeologici indicano presenze anche socialmente articolate, con abitazioni e infrastrutture tanto di alta qualità quanto modeste o addirittura povere. In ogni caso un dato è certo: la sostanziale marginalità dell’ambiente lagunare rispetto alla terraferma. Si può dibattere su quanto questa marginalità fosse di alto o basso profilo economico; fu comunque indiscutibile rispetto a quei centri di terraferma, come Padova o Altino o Aquileia, nei quali si concentrava il potere politico, economico e militare. Peraltro, quando Cassiodoro scriveva, era ormai avviata la modifica degli equilibri esistenti. A dare rilevanza a quelle zone rimaste tanto a lungo marginali, intervennero soprattutto i trasferimenti delle popolazioni che ai tempi delle invasioni barbariche si portarono in Laguna, cercandovi una sicurezza che la terraferma non garantiva piú. Nel 452 gli Unni di Attila erano passati come una bufera e la caduta di Aquileia – per la prima volta finita in mano di barbari – aveva segnato la fine dell’epoca in cui la grande città era stata il baluardo difensivo dell’Italia romana. Si aprivano anni di incertezze, anche se gli sconvolgimenti attilani erano rientrati abbastanza

rapidamente, senza che il temporaneo riparo in Laguna dei profughi si trasformasse in effettivo spostamento di popolazioni. Le cose andarono diversamente a partire dal 568, quando sull’Italia, da poco tornata sotto il dominio dell’impero bizantino, si rovesciò l’invasione longobarda. In effetti, il progredire dell’occupazione longobarda induceva un duplice fenomeno. Innanzitutto i Bizantini, tornati signori delle terre del Nord-Est dopo la vittoriosa guerra contro i Goti (conclusasi nel 553554), erano gradualmente respinti dalla terraferma verso il mare; cosí l’amministrazione civile e militare della provincia, che aveva mantenuto il proprio centro in Oderzo fino alla caduta della città, nel 639 ripiegava su CittanovaEraclea al punto di giunzione tra terra e acque;

Dipinto del XVII sec. che mostra una pianta a «volo d’uccello» di Venezia. Si riconoscono in primo piano il Palazzo Ducale, la piazza e la basilica di S. Marco, con l’antistante campanile,e, sullo sfondo, il ponte di Rialto.

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NATA dalle acque, come venere Da sempre la storia di Venezia si intreccia con il mito e ne tennero ben conto i Veneziani, impegnandosi sempre nel dare di se stessi l’immagine piú utile. Alla loro abilità nel proporsi, l’opinione corrente rende tuttora un implicito omaggio quando pensa a Venezia come a una città e a uno Stato sorti dal nulla, dalle acque del mare, quasi come Venere. In sostanza, dalle lagune salmastre, in zone disabitate e ostili, appunto «selvagge», fiorí una città straordinaria, capitale di uno Stato ammirevole, costruita da uomini pronti a una grandiosa scommessa con un destino difficile, rappresentato dalle invasioni barbariche. Cosí spiegava già verso l’anno Mille il primo storico veneziano, Giovanni Diacono, vicinissimo ai centri del potere, impegnato nel racconto «ufficiale» delle origini. In realtà, ben prima delle invasioni barbariche, le lagune, pur nella loro marginalità, conoscevano insediamenti anche di alto livello; lo attestano gli autori tardoantichi e, oggi, i frequenti rinvenimenti archeologici. Peraltro, la favola della genesi dal nulla non era casuale. In tempi nei quali l’origine imprimeva un segno indelebile sulla qualità non soltanto delle persone, il valore politico della leggenda era evidente: se nessun potere si era mai esercitato lí dove nasceva Venezia, Venezia nasceva libera, senza nessuna subordinazione. Il mito sarebbe divenuto inutile una volta che la potenza veneziana avesse raggiunto livelli indiscutibili, ma tra il X e il XII secolo anche la favola era una buona carta: giocata cosí abilmente che ancora oggi rimane l’idea diffusa che Venezia sia nata dal nulla.

Il leone alato di san Marco, simbolo di Venezia, collocato sulla Torre dell’Orologio nella celeberrima piazza.

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verso il 742 da Cittanova si passò a Malamocco, sui lidi, in zona ormai pienamente marittimolagunare. Al processo di compressione in Laguna dell’antica provincia venetica si affiancava l’altro decisivo processo di trasferimento sulle isole di profughi che non sarebbero piú rientrati nei luoghi di partenza.

Migrazioni interne e nuovi equilibri

Cosí Grado e Caorle offrirono rifugio a chi fuggiva dal Friuli; a Cittanova ed Equilo-Jesolo si rifluí dal territorio di Oderzo. Rialto e Torcello accolsero genti venute dall’Altinate e dal Trevigiano. La zona di Chioggia fu il naturale sbocco per la bassa padovana; i lidi da Malamocco ad Albiola ospitarono Trevigiani e (forse) Padovani. Il residuo dominio venetico di Costantinopoli a questo punto era quasi interamente disperso fra le acque salmastre. E la migrazione non era stata una fuga disordinata di genti costrette poi a ripartire dal nulla, ma un passaggio di gruppi socialmente strutturati, con funzioni e ruoli. Basti pensare alle gerarchie ecclesiastiche, ai vescovi delle diocesi di terraferma che passavano in Laguna, fino al livello piú alto, con il vescovo di Aquileia, Paolo, passato a Grado portando con sé il tesoro della chiesa metropolitana; e proprio in Grado, destinata a subentrare quale sede patriarcale all’antica Aquileia, già nel 579 venne consacrata la nuova cattedrale di S. Eufemia,


simbolo di uno spostamento che non avrebbe avuto ritorno. In sostanza, dall’antica Venezia dei Romani, regione di terraferma, divenuta longobarda e poi legata al regno italico, era venuta enucleandosi una nuova Venezia marittima, bizantina, ormai irrimediabilmente distinta dai territori di cui aveva fatto parte. E in questa nuova regione crescevano nuclei tendenzialmente urbani. «Da Grado a Cavarzere», secondo la formula con la quale la Serenissima fino alla sua caduta nel 1797 indicò poi il territorio del dogado, l’insediamento sparso si riorganizzava intorno ad alcuni centri preminenti. Grado manteneva il ruolo di spicco in ambito ecclesiastico, Torcello si proponeva come il «grande emporio» della regione (Cosí lo ricordava ancora nel X secolo l’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito); prima Eraclea (la sola, fino al IX secolo, a essere chiamata civitas) e poi Malamocco svolgevano il ruolo di capitale, sede delle autorità costantinopolitane. In questa microgalassia di piccoli centri fra loro collegati e complementari cresceva il peso del gruppo di isole attorno a Rialto. A Olivolo, nei luoghi che tuttora si chiamano Castello (e che danno anche il nome a un sestiere di Venezia), un castrum bizantino fornisce il primo polo di ag-

La facciata della basilica di S. Marco (IX-XI sec.), il principale edificio religioso della città, con accanto la sagoma del palazzo Ducale. La chiesa presenta una suggestiva commistione di stili romanico-bizantino e gotico.

gregazione; nel 774-776 l’isola diviene sede vescovile, prima diocesi istituita in Laguna; intanto, la vicina Rialto scalza progressivamente Torcello nel ruolo di fulcro economico del dogado; dall’811 si trasferisce in quel sistema di isole anche la sede del governo: nelle case dei dogi di allora, i Particiaci, lí dove ancora oggi si trova Palazzo Ducale.

Una catena sul Canal Grande

Le funzioni militari, politiche, economiche, religiose, amministrative si stanno dunque concentrando in un nucleo sempre piú identificabile come città. Solo un elemento manca ancora perché agli occhi degli uomini del tempo il cammino possa ritenersi concluso: un dispositivo di difesa organico che comprenda l’intero sistema. Ed è al momento delle invasioni ungariche che il doge di allora, Pietro Tribuno, tra IX e X secolo, compie l’ultimo passo, provvedendo al potenziamento delle strutture difensive della capitale, con un sistema di mura completato dalla catena che, attraversando il Canal Grande, blocca l’accesso al bacino di S. Marco. A quel punto nulla manca perché la mentalità corrente riconosca a tutti gli effetti nelle isole attorno a Rialto una città. Lo sancisce la stessa (segue a p. 21) capitali del medioevo

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Venezia

I colleghi di shylock

L

e condizioni nelle quali durante l’Alto Medioevo presero forma lo Stato veneziano e la sua capitale favorirono il consolidarsi di forme di civiltà e di mentalità piuttosto particolari, in buona misura non assimilabili a quanto contemporaneamente maturava in terraferma. Lo stesso, speciale legame con Bisanzio, protrattosi a lungo nei termini di un graduale percorso verso l’indipendenza, aveva favorito l’assunzione di un ruolo destinato a caratterizzare Venezia quale punto di giunzione, quasi cerniera e snodo fra le grandi civiltà del tempo. I Veneziani (o meglio ancora, per usare il termine allora corrente e derivato dal greco di Bisanzio, i Venetici), spinti verso il mare dagli equilibri politici esistenti in terraferma, trovavano con una grande precocità (in parte condivisa forse soltanto dagli Amalfitani) il loro campo di sviluppo nei commerci a medio e poi a lungo respiro, proponendosi come elemento di raccordo tra l’Europa depressa e le civiltà bizantina e islamica. Tra quelle grandi aree culturali ed economiche Venezia si trovava dislocata in posizione, per cosí dire, periferica, e comunque non perfettamente identificabile (nonostante il suo permanente bizantinismo) con nessuna di esse, e questo agevolava l’assunzione di caratteri peculiari. pellicce e schiavi Rispetto all’Occidente dei feudi e dei castelli, la Venezia altomedievale risultava subito diversa per i caratteri della sua struttura economica che (pur senza enfatizzarla oltre misura) si proponeva con un vigore inusuale e precocemente mercantile. La documentazione è scarsa, ma il poco che ci rimane ricorda un complesso di elementi che, nel loro insieme, non ritroviamo altrove: le preziose pellicce e i velluti orientali portati verso il 780 sul mercato pavese per il gusto dei dignitari di Carlo Magno; i mercanti che nell’828 erano di casa ad Alessandria d’Egitto (da dove trafugarono le reliquie marciane); la lucrosa tratta degli schiavi, fiorente sin dai tempi di papa Zaccaria, alla metà dell’VIII secolo; la flotta commerciale che neIl’834-835, tornando da

Mercante di Venezia, incisione realizzata da Christoph Krieger per l’opera di Cesare Vecellio (1521-1601) De gli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo libri due. 1590. 18

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Benevento, incontrava i Saraceni; i mercanti tedeschi che nell’860 partivano dalla lontana Fulda per frequentare la piazza di Rialto; il servizio di posta, svolto collegando soprattutto il regno italico o la Baviera o la Sassonia con Bisanzio; il trasporto di persone, fatto sia per i messi saraceni di cui nell’813 papa Leone III scriveva a Carlo Magno, sia per gli emissari di Berengario Il o di Ottone I di Sassonia nel 948. Sono dati eloquenti. Sulle rotte commerciali, peraltro, non viaggiano soltanto merci e denari, ma anche idee, competenze, rapporti politici, notizie. Cosí si ricorderà la presenza a Venezia di Cirillo e Metodio, gli evangelizzatori degli Slavi; o il fatto che un Giovanni «prete veneziano» guidasse la missione di pace inviata dal principe moravo Svatopluk all’imperatore Lodovico Il nell’874 e che un altro venetico, Domenico, guidasse nel 967 l’ambasceria spedita a Bisanzio da Ottone I; oppure che, nell’826, per costruire un organo in Aquisgrana, l’imperatore chiamasse un prete Giorgio «de Venetia». E se nel 932 il re di Germania voleva informazioni sulla Palestina, poteva trasmettergliele il doge Pietro Il Candiano. collegamenti a largo raggio Le testimonianze, ripeto, sono senz’altro occasionali e sparse, ma bastano a delineare una situazione senza veri riscontri, mostrandoci una società impegnata in rapporti, attività, collegamenti a largo raggio del tutto inusitati per il tempo. Ma rilievo forse ancora maggiore ha il fatto che queste condizioni particolari favorissero attitudini e forme di mentalità altrettanto peculiari, coinvolgendo persino le fasce piú alte della società lagunare. Infatti, se per un grande signore di terraferma – la cui qualità era garantita in primo luogo dalla pratica delle armi e dal controllo sugli uomini – sarebbe stato degradante o addirittura impensabile mescolarsi in pratiche finanziarie e commerciali, in Venezia questo avveniva anche ai livelli piú alti. Ce lo dichiara a tutte lettere il testamento del doge Giustiniano Particiaco, nel quale, senza alcuna remora, si parla di un’ingente somma di «laboratorii solidi», ossia di capitali di rischio investiti per cavarne profitto in imprese commerciali d’oltremare. La piú tradizionale aristocrazia venetica, dunque, non disdegnava la pratica degli affari, ma perfino le alte gerarchie ecclesiastiche in Laguna sapevano ben regolare le proprie questioni, cosicché il vescovo di


lucro a fin di bene Per comprendere in che misura la civiltà veneziana fosse segnata fin dalle origini dalla logica mercantile, basterà pensare a come persino i dogi fossero disposti a impegnarsi in traffici e affari, ossia in attività che i grandi signori dell’Europa di tradizione feudale giudicavano indegne, incompatibili con il ruolo da loro ricoperto nella società. Che la massima aristocrazia lagunare ragionasse diversamente lo attesta bene il testamento del doge Giustiniano Particiaco, dell’829, in cui si ricordano gli ingenti capitali di rischio investiti in commerci oltremare. Nulla del genere troviamo tra gli aristocratici di terraferma, ma ancora piú straordinario per i tempi è il modo in cui, nel 1007, decise di fare beneficenza il doge Pietro II Orseolo. La pratica della beneficenza a favore dei bisognosi, quasi dovuta dai personaggi di alto rango, si concretizzava di norma in donazioni a enti ecclesiastici o pie istituzioni. Il doge, invece, stanziava a favore di «tutto il popolo di Venezia» e «per la pubblica utilità» una somma rilevantissima che non doveva essere intaccata in alcun modo, ma era invece vincolata a essere utilmente investita da persone pratiche di affari, sicché ogni anno se ne potesse cavare un «lucrum» utilizzabile per le opere benefiche. Mancando la rendita, non ci sarebbero stati benefici. Con straordinaria precocità si applicava la logica di tante moderne fondazioni. Tutto ciò in anni in cui un buon aristocratico, ammesso che si fosse preoccupato di questioni di lucro, avrebbe trovato la cosa quasi incomprensibile.

Olivolo, nell’853, era in grado di destinare al monastero di S. Ilario un sacco di pepe (preziosa spezia che giungeva dal Levante), e prima di lui nell’803 il patriarca di Grado si era preoccupato di ottenere da Carlo Magno esenzioni fiscali per quattro sue navi destinate ai traffici. In sostanza, maturavano abitudini, sensibilità e comportamenti fortemente influenzati dalla cultura mercantile con un processo destinato a concretizzarsi nell’attitudine veneziana per una forte empiria, per un senso pratico delle cose che operò su tutti i piani, a partire da quelli della politica e della gestione dello Stato. Riesce difficile pensare a un comportamento abile e spregiudicato, come quello tenuto per secoli da Venezia, in continua trattativa sul filo di difficili equilibri con potenze che, soprattutto nell’Alto Medioevo, erano tanto maggiori, e capace di conservare rapporti anche con i nemici del momento, prescindendo dal fatto che i Veneziani avevano una lunga pratica di trattative e mercanteggiamenti. Cosí

L’imperatrice bizantina Irene (752-803), particolare della Pala d’Oro, un’opera di alta oreficeria voluta per decorare l’altare maggiore della basilica marciana ed eseguita da orefici di Costantinopoli su commissione del doge Pietro Orseolo I. XII-XIV sec. si comprende meglio un realismo politico che spesso sembrò prescindere dai successi di prestigio o dalle troppo rigide «coerenze ideologiche», non sempre paganti sul piano della pura convenienza. Va detto, infine, che le condizioni in cui cresceva Venezia incidevano sulla sua struttura sociale, favorendo l’esistenza di ceti forniti di un grado d’indipendenza e iniziativa sufficiente a non farne l’anonima clientela di quell’aristocrazia di fatto che deteneva tutti i posti al vertice nella gerarchia civile ed ecclesiastica. Il populus di cui parlano i cronisti e i documenti per l’Alto Medioevo rimane sempre una parte esigua della popolazione, quella attiva politicamente, capace della pienezza dei diritti, ma nel complesso il riferimento reiterato a «mediocri» e a «minori» che «usque ad minimum», ossia fino al livello piú basso, affiancano il doge e i «maggiori» negli atti pubblici e in tanti momenti decisivi per la vita dello Stato, non soltanto trovano ben pochi riscontri nell’epoca, ma paiono avere in Venezia un peso o almeno una consistenza altrove sconosciuti. Siamo davanti alle premesse di quel senso dello Stato, di quell’idea di bene comune vantaggioso, per tutti, e di quella concordia nella società che – pur senza eccessiva enfasi e senza dimenticare i duri contrasti che in molte occasioni vi furono – rimane una delle basi piú solide del mito di Venezia nei secoli. capitali del medioevo

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campione della fede e dell’indipendenza San Marco, l’evangelista, è il simbolo dell’unità spirituale delle lagune e il suo culto è un elemento fondante dell’identità veneziana, anche sul piano politico. Sin dal suo decollo, infatti, il culto per Marco si lega a eventi in cui fede e politica si intrecciano fortemente. Nell’827, a Mantova, i vescovi del regnum italico, residenti in terraferma e legati a un potere antagonista rispetto a quello bizantino-venetico, affrontavano lo spinoso problema dell’eredità di Aquileia: legittimo successore degli antichi diritti aquileiesi era il patriarca residente a Grado, in terre veneziane, o quello che si trovava a Cividale-Aquileia, legato al regnum? L’esito del sinodo, scontatamente ostile per Grado, comportava per Venezia

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una subordinazione spirituale dalla terraferma che poteva preludere a una subordinazione politica. La risposta veneziana fu molto abile. Nell’828, a ridosso delle decisioni mantovane, giungevano in Laguna, trafugate da Alessandria d’Egitto, le reliquie di Marco, il grande fondatore della Chiesa aquileiese tante volte ricordato anche a Mantova; e la presenza di quelle preziose spoglie garantiva alla Chiesa veneziana un prestigio in grado di far fronte a qualsiasi delibera sinodale. Favorito dall’impegno ducale, il culto prendeva subito piede. Veniva subito iniziata la costruzione della basilica e san Marco diventava da allora il campione della fede ma anche dell’indipendenza di Venezia.


piú antica tradizione storiografica veneziana: «attorno a quegli anni – al passaggio del secolo – il doge Pietro insieme ai suoi cominciò a edificare una città nella zona di Rialto». Le parole della Cronaca di Giovanni Diacono all’inizio dell’XI secolo suonano come formale atto di nascita del nuovo centro urbano. Era la città che i documenti ufficiali veneziani avrebbero continuato a chiamare Rialto ancora nel Trecento, ma che per il resto del mondo era ormai, da secoli e una volta per tutte, Venezia.

Percorsi paralleli, ma distinti

I secoli occorsi perché prendesse definitivamente corpo la città di Venezia avevano contestualmente visto l’affermarsi di una nuova entità statuale, essa pure indicata come Venezia. Anzi, la Venezia/regione marittima (e poi Stato) era addirittura precedente rispetto alla Venezia/città, tanto che negli atti pubblici e nella documentazione ufficiale si usò a lungo il nome Venetia o Venetiae proprio per indicare

a un mondo che finiva, nel VI-VII secolo ci si andava incamminando su una strada dalle prospettive inaspettate. L’Occidente europeo dell’Alto Medioevo stava allora vivendo profondi fenomeni di ruralizzazione, con le città e i commerci in crisi, con le vie di comunicazione atrofizzate e gli scambi ridotti a un’ombra rispetto al passato romano, e mentre collegamenti e scambi erano ovunque in affannosa regressione, ecco lentamente presentarsi un piccolo mondo lagunare il cui destino si giocava sul mare, nei rapporti fra le diverse aree economiche. La proiezione marittima e commerciale, in effetti, è, prima che una vocazione, una necessità per genti che non hanno terre e che non possono fare a meno degli scambi. Se in controtendenza appare l’opzione per le attività del commercio in un’Europa che andava in tutt’altro senso, non meno in controtendenza sembra l’altra opzione: quella politico-istituzio-

Nella pagina accanto ancora un particolare della Pala d’Oro che raffigura la traslazione delle spoglie di san Marco nella basilica veneziana. XII-XIV sec. In basso trono e reliquiario del santo. VI sec. Venezia, Tesoro della basilica di S. Marco.

Prima che una vocazione, la proiezione marittima fu una necessità per genti che non avevano terre e non potevano fare a meno degli scambi lo Stato, mentre la sua città capitale continuò a essere chiamata Rialto o, al piú, civitas Venetiarum, la «città delle Venezie». Nondimeno il ruolo della capitale fu tanto rilevante da giustificare il fatto che potesse diventare presto Venezia tout court, per antonomasia. Ma il processo genetico della nuova realtà urbana non deve far dimenticare la contemporanea nascita dello Stato, e viceversa. I due percorsi rimangono distinti anche se paralleli. La costruzione politico-territoriale che prendeva corpo nelle lagune, non meno di quella urbana, aveva in effetti motivi di assoluta peculiarità, al limite del paradosso. Basti pensare a come la prospettiva di un futuro fortemente innovativo si aprisse guardando al passato, indietro piuttosto che avanti. Infatti la logica con cui nasceva la Venezia marittima destinata a rivoluzionare gli equilibri di tutta l’area era profondamente segnata dalla volontà di conservazione degli assetti antichi; era la logica di chi, nella prospettiva del ritorno nelle città di terraferma, si aggrappava con la mentalità del profugo a vecchie situazioni che stavano franando travolte dalla pressione del nuovo, rappresentato dai Longobardi. Cosí, con lo sguardo volto capitali del medioevo

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L’influenza bizantina si rivela fin dal titolo di «doge», derivato dal dux di costantinopolitana memoria Nella pagina accanto miniatura raffigurante il senato veneziano che concede udienza ad alcuni cittadini provenienti da Brescia, dal Libro dei privilegi. XV sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.

nale, che vede la provincia marittima veneziana decisa a rimanere nell’ambito del dominio imperiale bizantino, in tempi in cui i poteri locali si propongono rispetto alle autorità centrali – imperiali o regie – con sempre maggiore indipendenza, ai limiti del conflitto. I momenti di attrito con la capitale Bisanzio ovviamente ci furono: per esempio, quando dopo il 726-727 si inasprirono i contrasti fra Roma papale e Costantinopoli imperiale a proposito del culto delle immagini (per la cosiddetta «contesa iconoclastica»), le lagune si collocarono nello schieramento antimperiale, ma le tensioni vennero presto riassorbite.

Un lealismo anacronistico

In un alto Adriatico sempre meno controllato da Bisanzio, Venezia rimase cosí l’estrema provincia dell’impero, con un lealismo che assumeva forme al limite dell’anacronistico. Si pensi a come i documenti prodotti dalla cancelleria del doge continuassero fino all’XI secolo a essere datati con l’indicazione dell’anno d’impero di chi sedeva sul trono costantinopolitano; oppure a come il doge portasse regolarmente titoli aulici bizantini, fino a quello altissimo di protosebastos (dal 1082). E alla caduta della Serenissima, nel 1797, si rendeva ancora silenzioso omaggio alla lontana nascita nel segno di Bisanzio attraverso lo stesso titolo di «doge» che non era altro che il risultato della venezianizzazione del titolo di dux, proprio del rappresentante del potere costantinopolitano nella provincia venetica. Quella a Bisanzio fu, per la Venezia delle origini, una subordinazione destinata per gradi ad affievolirsi contestualmente al ridursi della capacità d’intervento bizantino nelle cose dell’Occidente e, in particolare, dell’Italia del Nord. Dunque, una subordinazione assai poco ingombrante, dagli evidenti vantaggi: economici e politici. Quanto all’economia, infatti, la permanenza nel «Commonwealth» bizantino garantiva i collegamenti con un’area decisamente ricca e avanzata rispetto a un’Europa in fase di profonda depressione. Quanto al piano politico, dipendere da un signore sempre piú lontano era un’ottima tutela rispetto al rischio di subordinazioni assai piú vicine e dunque potenzialmente molto piú pericolose. Lo si vide bene quando, all’inizio del

IX secolo, si affacciò per Venezia l’eventualità di un inglobamento nell’impero carolingio; in quell’occasione l’intervento della flotta bizantina, giunta nell’810 per l’ultima volta in Laguna, risultò decisivo nel bloccare i progetti di conquista di Carlo Magno che, se fossero andati in porto, avrebbero riassorbito in un Occidente feudale Venezia, spingendola su percorsi radicalmente diversi da quelli verso i quali si stava orientando: con una proiezione ormai chiara verso il mare, il Levante, gli scambi. Senza eccessive tensioni, fra il IX e il X secolo la bizantinità veneziana andò assumendo gradualmente i toni della larghissima autonomia e poi della piena indipendenza. Cosí se gli scrittori arabi non riuscivano nemmeno a distinguere la flotta venetica da quella bizantina nel IX secolo, ancora nel X per il geografo e viaggiatore iracheno Ibn Hawqal (che nel 972-973 soggiornava a Palermo) l’Adriatico appariva come il Giun al-Banadiqin: il Golfo dei Veneziani. Venezia era ormai una potenza regionale e al passaggio del millennio Pietro Il Orseolo si proclamò dux dei Dalmatici oltre che dei Venetici. Stavano maturando i tempi in cui l’antica suddita avrebbe preso il sopravvento sulla vecchia capitale, andando nelle terre dei Greci non da alleata o ospite piú o meno gradita, ma da dominante. La IV crociata, con la conquista di Costantinopoli, segnò nel 1204 il punto d’arrivo di una parabola che aveva visto l’ultima periferia di un impero passare da provincia sempre piú autonoma a Stato indipendente per salire poi a livello imperiale. Ma il decisivo salto di qualità era compiuto da secoli, da quando Venezia nel corso dell’Alto Medioevo era divenuta arbitra delle proprie scelte interne e internazionali.

Dove e quando Basilica di S. Marco Piazza San Marco, 1 Orario lu-sa, 9,45-17,00; do e festivi, 14,00-16,00 Info basilicasanmarco.it; museosanmarco.it Palazzo Ducale Piazza San Marco Orario 1° aprile-31 ottobre: 8,30-19,00; 1° novembre-31 marzo, 8,30-17.30; chiuso il 25 dicembre e 1 gennaio Info palazzoducale.visitmuve.it Arsenale di Venezia Fondamenta di Fronte-Castello Info per visite o informazioni, rivolgersi all’Istituto di Studi Militari Marittimi: tel. 041 2441362

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Milano. La magnifica facciata gotica del duomo, dedicato a Santa Maria Nascente, con le caratteristiche guglie. L’imponenza del monumento, voluto nel XIV sec. dal nobile Gian Galeazzo Visconti, testimonia la grandezza della città nel Medioevo, quando era capitale di un potente ducato.


Da sempre di Patrick Boucheron

metropoli Le notevoli capacità produttive e imprenditoriali assicurarono a Milano un ruolo di primo piano nell’economia medievale europea, corroborato dal prestigio politico dei Visconti e degli Sforza


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entre si aggirava desolato tra le rovine di Milano, nell’agosto del 1943, lo scrittore Alberto Savinio (1891-1952) nutriva tuttavia la ferma convinzione che da quelle macerie sarebbe risorta «una città piú forte, piú ricca, piú bella». Non sono i muri che fanno la città, si diceva nel Medioevo, ma coloro che la abitano. In un suo splendido libro del 1984, Ascolto il tuo cuore, città, Savinio esprimeva il suo amore per quell’intraprendenza, quell’inventiva, quell’energia dei Milanesi, che prima di lui avevano già profondamente colpito Stendhal e tanti altri viaggiatori. Il tema, di sicuro, non è nuovo: nel XV secolo, le descrizioni della città che ci sono giunte esaltano piú la varietà delle attività economiche che l’ordine monumentale, piú la ricchezza degli abitanti che la saggezza di chi governa. Di Milano si ammira la vitalità delle attività commerciali, ci si stupisce di fronte ai frenetici ritmi di lavoro degli artigiani dei sobborghi, ci si meraviglia davanti alla varietà di ciò che può produrre questa «grande fabbrica». Eppure, Milano era la capitale incontrastata di quello che era allora il piú potente Stato principesco territoriale d’Italia; i Visconti, e poi gli Sforza, avevano tentato di imporre alla città audaci trasformazioni urbanistiche.

una città «mostruosa» Nel 1288, Bonvesin de la Riva attribuisce a Milano circa 200 000 abitanti. Gli storici discutono oggi della validità di queste cifre, pur fondate su una conoscenza statistica abbastanza sicura del letterato milanese, soprattutto in materia di approvvigionamento. Una cosa, comunque, è certa: all’epoca, Milano è una delle metropoli piú popolate di tutto l’Occidente e lascia ben distanziate città come Brescia e Pavia, antica capitale del Regno d’Italia, con i loro 20 000

Capitale dell’abbondanza

Ciononostante, la metropoli lombarda era tale e quale a come l’aveva cantata il poeta Bonvesin de la Riva (1240 circa-1313/1315), nel 1288, nel suo De Magnalibus Mediolani: una capitale dell’abbondanza. E già nel IV secolo, all’epoca di sant’Ambrogio, certi predicatori fustigavano l’egoismo e lo spirito di lucro di una popolazione interamente consacrata allo sviluppo economico della sua città. Milano l’industriosa, Milano l’egoista, Milano che trascura le funzioni di capitale politica a favore del dominio economico su uno spazio che si allarga senza sosta. Le immagini della città hanno la vita lunga, ma esse riflettono – e spesso deformano – un divenire storico che è tutto, salvo che immutabile. Perché se Milano, nel Medioevo, fu di certo una metropoli economica, i suoi principi hanno ugualmente tentato di farne la piú potente delle capitali politiche. Metropolis: alla fine del XV secolo, il termine appare negli atti della cancelleria ducale per designare la capitale lombarda. Sono rare, in effetti, le città italiane che, nel Medioevo, assumono al pari di Milano la loro funzione metropolitana. Città di pianura, dallo sviluppo urbano perfettamente circolare, non limitata da alcun ostacolo naturale, Milano ordina la struttura complessiva dello spazio lombardo di cui essa è il centro e da cui la sua forma urbana 26

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le date da ricordare V sec. a.C. I Galli Insubri fondano l’insediamento che in seguito i Romani chiameranno Mediolanum. 292 d.C. Massimiano elegge Milano a capitale dell’impero d’Occidente.

V-IV sec. La città è soggetta a ripetute invasioni da parte di Ostrogoti, Burgundi e Franchi.

IV sec. Edificazione della basilica di S. Ambrogio.

569 Conquista longobarda.

535-553 Milano subisce le devastazioni della guerra gotica.

773-774 Vittoria dei Franchi. Carlo Magno assume il titolo di rex Langobardorum.


abitanti. Questo rapporto di forza demografica è determinante per comprendere la storia politica lombarda: a differenza di Firenze o di Venezia, Milano, nell’ambito della sua regione, non ha rivali. Su scala medievale, essa è un mostro urbano, che si impone sulle altre città per la sua massa demografica. La Peste Nera non fa che rafforzare questa posizione di preminenza: mentre la

maggior parte delle città toscane perde i due terzi della sua popolazione, i centri urbani della Lombardia, relativamente risparmiati dalla terribile epidemia, ritrovano il loro livello demografico del 1350 cento anni piú tardi. In ogni caso, non vi è dubbio che nel XVI secolo Milano abbia una popolazione pari a 100 000 abitanti e sia una delle città piú popolose dell’Occidente.

In alto la croce rossa, simbolo di Milano fin dal Medioevo, in un codice del XVII sec. A sinistra pianta di Milano tratta dal Civitates orbis terrarum, una raccolta di mappe delle città di tutto il mondo curata dai geografi tedeschi Franz Hogenberg e Georg Braun e pubblicata in sei volumi tra il 1572 e il 1616. A destra una delle statue facenti parte della decorazione esterna del duomo.

1158 Federico Barbarossa assedia Milano.

1176 La Lega Lombarda sconfigge Federico Barbarossa a Legnano. 1183 Pace di Costanza.

1161-62 La città è nuovamente sotto assedio. Distruzione delle mura.

1386 Comincia l’edificazione del duomo per volere di Gian Galeazzo Visconti. 1447 Muore Filippo Maria Visconti.

1454 Pace di Lodi. 1499 Caduta degli Sforza per opera di Luigi XII.

1450 Francesco Sforza prende il potere. Ricostruzione del castello di Porta Giovia.

1535 Muore Francesco II, l’ultimo Sforza. Milano è soggetta al dominio degli Asburgo.

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il dominio delle acque In etĂ medievale, a Milano, il reticolo dei canali e dei navigli (vedi pianta qui accanto) costituiva un elemento caratterizzante della forma urbana. Scavati con la doppia funzione di difesa e di irrigazione, i canali (A) che circondavano la cittĂ divennero,

con la costruzione dei navigli di collegamento (B. Nirone; C. Sevesotto; D. Acqualonga; E. Naviglietto di Porta Tosa; F. Vettabia-Naviglio Grande; G. Olona ai grandi fiumi), le principali vie di comunicazione per le merci in arrivo e in partenza.

La conca era un bacino in muratura che permetteva ai natanti di passare da un tronco del canale a un altro posto a una differente altitudine

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Le chiatte venivano trainate in genere da animali, ma non era raro vedere tirare questi battelli da uomini

Per controllare il deflusso delle acque, le porte della chiusa erano dotate di paratoie, che potevano essere alzate con un meccanismo fisso o semplicemente sganciate con un uncino

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A sinistra particolare della loggia degli Osii, nella piazza dei Mercanti, con le caratteristiche trifore ornate da statue. La prima fondazione dell’edificio risale al 1251, mentre il balcone sporgente da cui si dava pubblica lettura di bandi e sentenze fu aggiunto nel 1336, per iniziativa di Azzone Visconti.

A destra gli ampi portici del palazzo della Ragione, uno dei gioielli architettonici della piazza dei Mercati. L’edificio, detto nel Medioevo «Broletto Nuovo», sorse tra il 1228 e il 1233 per volere del podestà Oldrado Grassi da Tresseno e fu la sede del Comune fino al XVIII sec.

Le porte della chiusa venivano aperte per permettere alle chiatte di entrare nella chiusa stessa e attendere il travaso dell’acqua

riceve l’impronta. Era il suo stesso nome a prometterle questo destino: gli autori medievali, che si divertono a giocare con le etimologie, talvolta incerte ma sempre significanti, fanno derivare Mediolanum da Medio-amnium, sottolineando in tal modo la posizione mediana di Milano nella pianura del Po, circondata da due fiumi, il Ticino e l’Adda. Equilibrio e simmetria dominano la situazione della capitale lombarda, una situazione atipica dal momento che Milano è priva sia di un accesso al mare sia di un corso d’acqua naturale che ne

strutturi lo sviluppo. Eppure, nel XV secolo, la città dei Visconti si trova al centro di una delle piú potenti reti navigabili d’Europa e controlla – attraverso il dominio delle acque – l’economia regionale nel suo insieme.

Una rete idrografica vasta e capillare

Tutto ciò si deve a tre secoli di sforzi: in questo periodo, il potere comunale, ma anche le iniziative dei privati, hanno scavato canali, deviato il corso dei fiumi, collegato le linee d’acqua, integrato una vasta rete idrografica. Questo capitali del medioevo

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spazio economico dell’acqua domata prefigura e prepara la costruzione di uno spazio politico della dominazione milanese. Infatti, la gestione degli usi e della spartizione dell’acqua esige presto la messa a punto di un potere centralizzato, che garantisca gli arbitraggi e gli equilibri, poiché la circolazione regolare ed equa delle risorse idriche era, come afferma con forza Bonvesin de la Riva, la manifestazione piú evidente del buongoverno. «Materia politica», l’acqua è anche l’elemento vitale dell’economia milanese, e il suo uso ne determina i tratti salienti. La capitale deve parte della propria prosperità allo sviluppo agrario della pianura del Po, caratterizzata da paesaggi molto contrastati, modellati da un regime idrografico capriccioso: durante tutto l’Alto Medioevo, la cosiddetta Bassa era coperta di paludi e di foreste, mentre l’alta pianura, arida, non permetteva lo sviluppo di un’agricoltura pro30

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onti

Sulle due pagine l’albero genealogico dei Visconti. Il loro dominio su Milano ebbe inizio con Ottone (1207-1295) e la signoria raggiunse il suo massimo splendore con Gian Galeazzo, creato duca nel 1395.

duttiva. Ora, nel corso del XII secolo, la Lombardia è diventata un paese ricco, che beneficia dei rendimenti agricoli piú alti d’Italia. Le campagne lombarde offrono dunque il volto di una natura domata, umanizzata, interamente trasformata dall’artificializzazione della rete idrografica. Lo stesso processo vale per l’attività artigianale, che beneficia anch’essa della rete di canali, e, soprattutto, dell’abbondanza dei mulini, che costituiscono, giova ricordarlo, l’unica innovazione tecnologica di una qualche importanza in epoca medievale.

Armi e panni di lana

Esportando anche molto lontano le sue armi, la cui qualità è celebre in tutta l’Europa, Milano è un grande centro metallurgico, che approfitta della manodopera e delle competenze delle popolazioni bresciane e bergamasche. Città industriale, associa strettamente il suo contado alla produzione 31

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Una delle ali del Castello sforzesco, sopra la quale spicca il profilo della torre del Filarete. La fortezza venne costruita per iniziativa del duca milanese Francesco Sforza nel XV sec. sulle rovine di un’antecedente rocca viscontea.

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di panni di lana, un’attività in rapida espansione fino agli anni Cinquanta del XV secolo. I prestatori d’opera fanno lavorare le filande delle campagne e i folloni dei sobborghi, secondo un modello di fabbrica decentrata, posta sotto lo strettissimo controllo del potere signorile. Si sviluppa cosí, alle porte della città, una crescita suburbana che deborda dal corsetto eccessivamente attillato delle mura ereditate dal XII secolo. La sua funzione metropolitana fa di Milano una capitale aperta, dotata di un retroterra industriale che si sviluppa lungo le principali vie di comunicazione, sia terrestri che fluviali. All’interno dell’anello circolare verso il quale convergono i canali e la linea d’acqua avanzata del Redefosso, che venne fortificato solo al tempo della dominazione spagnola, si stendono dunque frange urbane mal definite, che offuscano l’immagine medievale di una città saggiamente circoscritta entro la cerchia delle sue mura. La discontinua trama urbana della capitale lombarda è, insomma, la traduzione al suolo della sua funzione metropolitana. Ecco perché i viaggiatori della fine del XV secolo, non distinguendo piú la cinta di età comunale, sommersa dallo sviluppo economi-

co, descrivono Milano come una città in movimento, progettata al di fuori di se stessa proprio da quello sviluppo economico. Da cui la sfida principesca: come imporre a questa capitale della ricchezza una scenografia del potere suscettibile di farne una capitale politica?

L’esaltazione del passato

Nel Medioevo, Milano è teatro di un’intensa politica monumentale, che deve essere compresa nella sua doppia dimensione: lavoro sullo spazio e lavoro sulla memoria. Difendere la preminenza di una città sulle sue rivali significa in primo luogo esaltarne la storia. Nel XV secolo, il cronista domenicano Galvano Fiamma (1283-1344), infaticabile propagandista dei Visconti, magnifica il passato romano della città, attraverso i suoi edifici e le sue leggende. Meglio, invece, passare sotto silenzio ciò che riporta Tito Livio, facendo dei Celti Insubri i fondatori di Milano: le «origini galliche» della città, infatti, conforterebbero troppo le mire della monarchia francese sulla Lombardia. Ma come dimenticare il fatto che, nel 292, Massimiano scelse Milano come capitale dell’impero d’Occidente? E come sottrarsi all’ombra protettrice


del santo patrono Ambrogio (339-397), vescovo di Milano e Padre della Chiesa, quando lo spazio monumentale della città è strutturato intorno alle grandi basiliche ambrosiane, le feste civiche esaltano senza sosta l’eroe della libertas e la Messa si canta secondo una liturgia (il rito ambrosiano) che nulla deve alla normalizzazione romana? Questo costante riferimento al passato di Milano come capitale imperiale, e per di piú capitale di un impero cristiano, è tanto piú utile in quanto permette di controbilanciare un ricordo ben piú imbarazzante: nel 572, i re longobardi scelgono Pavia come capitale del Regnum Italicum. Città di corte e di potere, celebre per la sua scuola giuridica e ricca di chiese e di palazzi prestigiosi, Pavia cozza molto presto con l’ascesa al potere di Milano e il suo ruolo politico in Lombardia decresce a mano a mano che si indeboliscono i ghibellini. Perché Milano deve anche potenza e prestigio al proprio passato comunale: prendendo il comando della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa, mobilitando le sue truppe dietro il carroccio, al fine di ottenere la vittoria di Legnano, nel 1176, Milano non ha fatto che affrettare quel processo di evoluzione politica che nel 1183 condusse, con la pace di Costanza, al riconoscimento dell’autonomia comunale.

Da città comunale a città principesca

Cinta muraria e palazzi civici, canali e palazzi patrizi: alla fine del XIII secolo, nel momento in cui Bonvesin de la Riva tenta di mobilitare il glorioso passato della città contro la «signorilizzazione» rampante delle sue istituzioni, Milano è certo il modello compiuto della città comunale. Questo è il paradosso: in che modo la capitale delle libertà comunali può diventare, sotto il dominio dei Visconti e poi degli Sforza, una città principesca? Certo, dal punto di vista politico, i nuovi padroni della città si guardano bene dall’attaccare il fronte delle istituzioni comunali, e si limitano a sovvertirle, introducendovi personale politico da far lavorare a proprio favore. Lo stesso si può dire dal punto di vista monumentale: la politica della magnificenza principesca, teorizzata in particolare da Galvano Fiamma al tempo della signoria di Azzone Visconti (1329-1339), mira meno a rompere con il passato comunale che a investire nei suoi luoghi importanti (la cinta, il Broletto e, in una certa misura, la cattedrale) per ricavarne prestigio e autorità. Questa logica mostra tuttavia dei limiti, a partire dal momento in cui, sotto Gian Galeazzo Visconti, il ducato di Milano diventa la grande potenza della Penisola italiana. Capitale di uno Stato principesco e territoriale, Milano si ammanta allora di monumenti che esaltano la potenza dei suoi padroni.

Potenza militare, espressa con brutalità dal castello di Porta Giovia che Francesco Sforza, condottiero divenuto capo di Stato, fa risorgere dalle sue rovine quando sale al potere, nel 1450. Potenza diplomatica, che lo stesso Sforza intende esaltare con la costruzione dell’Ospedale Maggiore, vetrina dell’arte fiorentina nella capitale lombarda, che rappresenta la metafora architettonica della pace di Lodi (1454), tanto rassicurante questa quanto il Castello poteva risultare minaccioso. Gli Sforza hanno dunque tentato di imprimere il loro marchio su un terreno urbano già saturo di storia. Ma una simile politica monumentale incontra numerosi ostacoli, dovuti alla resistenza della società a lasciarsi imporre una nuova concezione urbanistica. Milano non fu mai una città principesca; da qui la tentazione di Ludovico il Moro, alla fine del XV secolo, di fare di Vigevano, piccolo centro sulle rive del Ticino, quello che Milano, capitale economica, non poteva essere: una città interamente modellata dalla vita della corte. Milano fu, nel Medioevo, la residenza del potere. Ma fu una capitale politica? Se ne può discutere: nel XIV e XV secolo, le città lombarde sono sottoposte a una soggezione personale nei confronti dei duchi di Milano, e non a una dominazione politica della città di Milano. E quando il potere ducale si affievolisce, come avvenne dopo la morte del duca Filippo Maria Visconti nel 1447, è tutta la costruzione politica che si disgrega, e ogni città ritrova la propria autonomia. Se la caduta degli Sforza, nel 1499, fu cosí brutale, ciò è dovuto anche al fatto che nessuno o quasi, nell’ambito dell’oligarchia milanese, aveva interesse a difendere Ludovico il Moro contro gli assalitori francesi. Milano, capitale della ricchezza innanzitutto, poteva fare a meno dei suoi principi.

Dove e quando duomo di milano Piazza del Duomo, 16 Orario tutti i giorni, 7,00-19,00 Info tel 02 72022656; duomomilano.it Castello sforzesco Piazza Castello Orario tutti i giorni, 7,00-18,00 (invernale); tutti i giorni, 7,00-19,00 (estivo) Info tel. 02 88463700; milanocastello.it Basilica di S. Ambrogio Piazza S. Ambrogio, 15 Orario lu-sa, 10,00-12,00 e 14,30-18,00; do, 15,00-17,00 Info tel. 02 86450895; basilicasantambrogio.it

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Roma. La mole imponente di Castel Sant’Angelo, affacciato sul Tevere. Il celebre monumento, concepito in epoca romana come mausoleo, divenne nel Medioevo una fortezza a presidio dei luoghi santi della città.

Una storia da di Chiara Mercuri

riscrivere

Il crollo del suo impero, capace di dominare il mondo intero, sembrò segnare una crisi irreversibile per Roma. Eppure, nonostante la contrazione dell’area urbana e il decremento demografico, la città non divenne mai un piccolo borgo di provincia...


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Roma

L

a storia di Roma nell’età medievale ha dovuto fare i conti, nel corso dei secoli, con non pochi ostacoli e problemi. Una certa carenza di fonti antiche, innanzitutto. Ludovico Antonio Muratori fu il primo che, intorno alla metà del XVIII secolo – nell’alveo della grande rivoluzione intellettuale illuminista –, raccolse in volumi, i Rerum Italicarum Scriptores, le diverse cronache delle città italiane di età medievale (vedi box alla pagina seguente). Prima del suo sforzo, per Roma esistevano solo le biografie dei papi e i resoconti di viaggio dei monaci venuti in visita alla città. Mancavano le descrizioni dell’ambiente urbano rese dalle cronache e dai diari cittadini, che Muratori pubblicò rendendoli fruibili agli studiosi per i secoli a venire. Un forte pregiudizio gravava sull’interpretazione delle vicende della Roma medievale: cosa era stato della città nel corso di quei nove secoli? Cosa era divenuta Roma? Era rimasta una capitale internazionale o si era trasformata in una città impoverita e in disfacimento?

Città dai mille volti

La vita di Roma medievale, per segnare limiti cronologici a tutti comprensibili, va dalla caduta dell’impero romano (476) al ritorno dei papi da Avignone (1377). La fine del mondo antico fu avvertita dalla città a partire dalla metà del VI secolo in modo drammatico. Roma, infatti, fu coinvolta nella guerra greco-gotica (535-553), un conflitto che spopolò e impoverí l’intera Penisola e vide contrapposti gli Ostrogoti (impegnati a difendere il loro regno insediato in Italia con Teodorico) e i Bizantini (intenzionati, con Giustiniano, a recuperare la Penisola italica all’impero). Da quel momento Roma conobbe un incredibile alternarsi di vicende storiche, cambiando piú volte volto: centro provinciale dell’impero bizantino, città prestigiosa ma preda di fazioni feudali, obiettivo di saccheggi saraceni e normanni, libero Comune, sede del papato.

le date da ricordare 476 d.C. Deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augustolo. 535-553 Roma è soggetta alle devastazioni della guerra greco-gotica.

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609 il Pantheon di Adriano è il primo edificio a essere recuperato. Viene trasformato nella chiesa di S. Maria ad Martyres. VI-VIII sec. La città monumentale è in piena decadenza.

1143 Instaurazione del Comune. 1308 Trasferimento della sede papale ad Avignone.

VIII-IX sec. Sorgono orti, campi coltivati e stalle all’interno della cinta muraria. Nascono borghi fortificati, tra i quali San Lorenzo e San Paolo. Leone IV fa cingere il Vaticano di mura difensive, utilizzando come caposaldo il mausoleo di Adriano (in seguito denominato Castel Sant’Angelo).

1377 ritorno del papato a Roma. In seguito all’elezione dell’antipapa Clemente VII si verifica il grande scisma d’Occidente.

metà del XIV sec. La città attraversa la breve esperienza del tentativo di riforma di Cola di Rienzo.


il linguaggio «familiare» di un gigante della storiografia

1398 Termina il periodo comunale romano a seguito dell’acuirsi dello scontro tra le fazioni degli Orsini e dei Colonna. 1420 Papa Martino V (Colonna) intraprende il rinnovamento di Roma, che si avvia a diventare una città rinascimentale.

Pianta di Roma realizzata dal pittore e architetto Pirro Ligorio. 1570. Secondo recenti ricerche, la Città Eterna medievale, a differenza di quanto a lungo ritenuto, non visse una fase di totale decadenza dal punto di vista politico e architettonico.

Ludovico Antonio Muratori nacque nel 1672 a Vignola, nel ducato di Modena. Nel 1694 si laureò in diritto al Collegio dei Nobili di San Carlo della città emiliana, dove aveva coltivato anche studi eruditi, che costituivano i suoi interessi principali. Nel 1695, ordinato sacerdote, fu chiamato a Milano nel Collegio dei Dottori della Biblioteca Ambrosiana; frutto del suo lavoro milanese sono i primi due volumi degli Anecdota latina (1697-98) e la raccolta dei materiali per il Novus Thesaurus veterum inscriptionum (1739-43). Nel 1700 fu chiamato a Modena da Rinaldo I d’Este e nominato archivista e bibliotecario ducale, e storico della casa d’Este, incarico al quale, dal 1708 al 1720, si uní quello di difensore dei diritti estensi su Comacchio, rivendicati dalla Santa Sede. I primi interessi di Muratori dopo il ritorno a Modena furono rivolti soprattutto alla letteratura, con opere che segnano la sua transizione dal Barocco all’Arcadia: dai Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703) a Della perfetta poesia italiana (1706, ma scritto nel 1703), alle Riflessioni sopra il buon gusto nella scienza e nelle arti (1708-1715). La riflessione sulla storia divenne centro del suo lavoro anche sotto l’impulso della sua attività nella polemica giuridico-politica per Comacchio: nacquero cosí le Antichità Estensi (1717 e 1740), quasi un’anticipazione delle grandi opere che seguirono e una definitiva adesione ai metodi storiografici dei padri maurini, arricchiti dalla concezione (settecentesca) della storia civile, come connessione organica di eventi politici, fatti giuridici e fenomeni sociali. Dal 1723 al 1738 pubblicò i primi 27 volumi dei Rerum Italicarum Scriptores (il XXVIII, postumo: 1751), il maggior esempio della critica filologica settecentesca: con l’aiuto di vari collaboratori raccolse le fonti della storia medievale italiana (cronache, testi giuridici, epigrafici, letterari, dal VI al XVI secolo). Frutto di un tale lavoro critico sulle fonti sono anche le Antiquitates Italicae Medii Aevi (1738-1743, 6 voll.), di cui diede anche una traduzione in compendi (Dissertazioni sopra le antichità italiane, postumo, 1751-1755, 3 voll.), 75 studi su altrettanti aspetti della storia civile medievale. Infine, quasi a compendiare la sua attività di storico, gli Annali d’Italia dal principio dell’era volgare al 1749 (1744-1749, 12 voll.), uno dei punti piú alti della storiografia settecentesca per rigore critico e coerenza metodologica, e uno dei capolavori della nostra letteratura: con il loro linguaggio «familiare» rompono una tradizionale identificazione di opera storiografica e stile oratorio. (red.)

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Veduta quattrocentesca del Pantheon, uno dei templi del paganesimo romano, trasformato nel Medioevo in basilica cristiana. Disegno di Ludovico degli Uberti, pubblicato da Marteen van Heemskerck. Berlino, Museen Dahlem, Museum Europäischer Kulturen.

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Nel continuo svolgersi dei processi storici, una costante restava a fare da sfondo: l’antica metropoli imperiale era stata distrutta dalle guerre, dalla peste, dai terremoti, dall’abbandono, dalla crescita incontrollata di piante e arbusti. Le sue vestigia erano ormai quasi sepolte dall’interrarsi dei condotti fognari ostruiti, dalle frequenti inondazioni del Tevere, dall’incessante attività degli uomini impegnati a trarne materiali di reimpiego. Se Roma mantenne comunque un ruolo da protagonista, fu solo grazie alla presenza dei papi e al valore simbolico che, nonostante il trascorrere dei secoli, manteneva intatto a motivo della grandezza del suo passato imperiale. Nell’immaginario di chi arrivava a Roma nel Medioevo si aprivano infatti due magnifici scenari, dietro ai quali la città reale quasi spariva fisicamente: la Roma classica e la Roma cristiana. Eppure la città antica, con i suoi monumenti, con gli edifici pubblici, con gli im-

mensi caseggiati, con gli estesi circuiti murari, con la consistenza della sua popolazione (che all’apogeo della fase imperiale aveva superato il milione di abitanti), all’inizio del Medioevo si era ridotta a un insieme di quartieri dissestati dal Tevere, abitati da 30-40 000 persone.

Un prestigio effimero

Da centro del mondo, la città altomedievale si era trasformata in un piccolo centro urbano che tuttavia manteneva un valore simbolico tale da renderla preda ambita dei Bizantini, dei Carolingi, dei baroni laziali e infine degli imperatori del Sacro Romano Impero. Un ostaggio prezioso in quanto a prestigio, ma modesto per qualità e quantità: la città si era infatti rimpicciolita e impoverita, e anche quando assurse a centro comunale nel XII secolo, restò ininfluente dal punto di vista militare, al contrario di altri Comuni del Centro e Nord Italia.


da tempio di tutti gli dèi a basilica dei martiri Il Pantheon di Roma venne fatto costruire nel Campo Marzio da M. Vipsanio Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, nel 27 a.C., e completamente rifatto durante l’età di Adriano (117-138 d.C.). È formato da un pronao rettangolare con otto colonne di granito sulla fronte e da una grande aula circolare coperta da una cupola emisferica del diametro di 43,30 m, pari all’altezza interna dell’edificio. Il suo eccezionale stato di conservazione si deve al fatto che, nel 609, l’imperatore bizantino Foca donò il monumento a papa Bonifacio IV, il quale lo consacrò alla Vergine e a tutti i Martiri, conferendogli il nome di basilica di S. Maria ad Martyres. La consacrazione non ha solo risparmiato il Pantheon dalla completa spoliazione a cui sono stati sottoposti tutti gli altri monumenti antichi, ma ha anche garantito l’utilizzo ininterrotto dell’edificio, che lo rende un unicum nella storia millenaria di Roma. Nel 1632 papa Urbano VIII Barberini utilizzò i bronzi del pronao per realizzare il baldacchino nella basilica di S. Pietro e, piú tardi, tra il 1747 e il 1758, l’architetto Paolo Posi operò per il rifacimento della decorazione marmorea interna del tamburo. (red.)

Agli inizi del Medioevo la città antica, con i suoi monumenti e gli immensi caseggiati era ridotta a un insieme di quartieri dissestati dal Tevere, abitati da 30-40 000 persone

A destra i magnifici affreschi conservati all’interno della chiesa di S. Maria Antiqua, sul Palatino. Realizzati tra il VI e il IX sec., costituiscono una testimonianza unica dell’arte altomedievale e bizantina.

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Gli antichi edifici dei Mercati di Traiano, sulle pendici del colle Quirinale, tra i quali svetta la torre delle Milizie. Il complesso, che in epoca romana ospitava botteghe e uffici amministrativi pubblici, fu utilizzato nel Medioevo da papi e imperatori come quartier generale e presidio militare.

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La fine dell’età antica rappresentò per Roma un declino vertiginoso, e – in pochi secoli – una serie di mutamenti urbanistici la resero irriconoscibile. Dove sorgevano i Fori – con i tribunali, le biblioteche, gli archivi, i templi –, proliferarono case tirate su con materiale di riuso, stalle per animali, orti e coltivazioni di alberi da frutta. Piccoli cimiteri annessi a chiesuole comparvero all’interno delle mura, contravvenendo alla legge che – sin dal VII secolo a.C. – aveva stabilito che nessun corpo (con l’eccezione di qualche imperatore) fosse seppellito entro la cerchia urbana. Nessun edificio pubblico – circhi, stadi, teatri – mantenne la funzione originaria; piú spesso quelle strutture si trasformarono in cave, spiazzi e basi per fortilizi. La città dentro le mura si costellò di vigne e orti (vedi box alle pp. 42-43), di prati dove gli animali pascolavano e le piccole selve si radicavano. Per molti studiosi tale immagine è la fotografia di un’indiscutibile catastrofe. Essi vedono una netta cesura tra la Roma antica e la ben piú modesta Roma medievale, giungendo quasi a negare per essa il titolo di «città», in quanto – a

loro avviso – ridotta a un semplice agglomerato di nuclei abitati basculanti all’interno dell’immensa cerchia delle Mura Aureliane.

«Catastrofisti» e «continuisti»

Solo in tempi recenti tale visione ha subito una rivisitazione. Contro tale lettura, detta «catastrofista», vi è oggi una letteratura scientifica che propone un’interpretazione opposta, che potremmo definire «continuista». Secondo i sostenitori di tale tesi, infatti, sono molti gli elementi di continuità tra la Roma antica e la Roma medievale. Per esempio, per ciò che concerne le cariche cittadine, il senato di Roma continuò a esistere anche dopo la fine dell’impero, come pure i curatores (funzionari urbani). Inoltre, le fonti, scritte e archeologiche, segnalano l’abbondanza dei restauri effettuati, in età altomedievale, su edifici antichi, acquedotti e argini: interventi talvolta imponenti. Alcuni fenomeni poi, da sempre addotti a prova della decadenza della Roma medievale, sono stati rivalutati. La presenza dei cimiteri all’interno del tessuto cittadino, per esempio, o negli


spazi un tempo pubblici, ritenuta il riflesso di un abbandono generalizzato, viene oggi vista come segno di vitalità: in quei secoli si seppelliva dove si viveva. Lo stesso vale per le stalle, per gli orti e i campi coltivati, sorti – tra l’VIII e il IX secolo – un po’ ovunque nel tessuto intramurario della città. Tale fenomeno, considerato appunto «catastrofico» dagli archeologi classici, è invece la testimonianza di una continuità residenziale da parte di individui che, come nel resto d’Europa, si erano ormai – nella quasi totalità dei casi – trasformati in agricoltori. Anche il declino demografico, cosí come il fenomeno della «ruralizzazione delle aree urbane», non fu prerogativa della sola città di Roma. E non fu neppure un fenomeno solo italiano, ma tipico di tutta l’area mediterranea a partire da prima della caduta dell’impero. Certo, a Roma la scomparsa della città antica fu particolarmente evidente. La stessa complessità e la magnificenza della città si tramutarono in difficoltà aggiuntive, dal momento che i suoi abitanti – ridimensionati nel numero e nella ricchezza – non furono piú in grado di curarne

la manutenzione. In un paio di secoli, tra il VI e l’VIII, la città monumentale, nonostante le sue istituzioni fossero ancora funzionanti, era già in disfacimento. Il processo si accelerò quando alcune strutture – biblioteche, tribunali, acquedotti – vennero dismesse. Strutture piú piccole e gestibili furono preposte a svolgere le medesime attività, in ragione dei ridotti bisogni. La città medievale salvò solo gli organismi piú imponenti, spesso insediandovi chiese, monasteri, edifici pubblici e strutture militari.

Una corona di nuovi borghi

Il Pantheon di Adriano fu il primo edificio recuperato, attraverso la trasformazione nella chiesa di S. Maria ad Martyres (609; vedi box a p. 39). Si cercò anche di mantenere la funzionalità di parte del sistema fognario, di alcuni ponti, degli argini del Tevere e di almeno un acquedotto. Le strade rimasero le medesime di età romana, seppur compromesse dall’impossibilità di manutenerle. Accanto a tali interventi di recupero si sviluppò anche un piano di nuovi (segue a p. 44) capitali del medioevo

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il foro di cesare nell’età di mezzo Questo è l’aspetto che dobbiamo immaginare per l’area del Foro di Cesare intorno al X sec.: la grande piazza (che in origine misurava 100 x 45 m) è occupata da piccole case, orti e vigne (disegno di R. Meneghini/R. Santangeli Valenzani/Inklink).

orti e vigne

Come in tutta l’area dei Fori imperiali, anche in quello di Cesare furono impiantati orti e vigne. In alcuni casi, come nel vicino Foro della Pace, realizzati con la creazione di terrazzamenti e il trasporto di migliaia di metri cubi di terra coltivabile.

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curia

Presso l’angolo meridionale del Foro si riconosce la mole della Curia Giulia, edificio che ospitava le assemblee del Senato capitolino, trasformata in chiesa e dedicata a sant’Adriano. L’intervento fu voluto nel 630 da papa Onorio I.

portici

Cesare aveva voluto che la piazza del suo Foro fosse, su tre lati, fiancheggiata da sontuosi portici, formati da doppie file di colonne in marmo bianco di Luni. Già nel Medioevo, gran parte dei colonnati risultano smantellati.

case

La piazza è occupata da piccole case, allineate lungo un tracciato stradale che attraversa l’intero Foro. Avevano di solito un unico ambiente, costruito con materiale di recupero e in argilla cruda; il pavimento era in terra battuta e il tetto in legno o paglia.

dalla politica agli orti urbani I sette mesi del tribunato di Cola di Rienzo precedettero di poco l’epidemia di peste che, negli anni 1348-49, sterminò da un quarto a un terzo dell’intera popolazione occidentale. Prima di questa catastrofe demografica, Roma contava non meno di 50 000 abitanti ed era quindi paragonabile per numero di abitanti a una città delle dimensioni di Bologna. A differenza degli altri centri italiani, i Romani però non occupavano che una piccola parte dello spazio compreso tra le mura cittadine. I 20 km della cinta muraria voluta nel III secolo dall’imperatore Aureliano e i 3 delle Mura leonine, erette nel IX secolo da papa Leone IV, racchiudevano una superficie di almeno 1400 ettari, per la maggior parte adibiti a orti e a vigne, che ricoprivano, per esempio, tutta la zona a nord e a est dell’attuale via Cavour e anche l’area al di là del Colosseo e del Palatino in direzione di S. Giovanni e della Piramide. Le abitazioni erano raggruppate soprattutto nei rioni collocati nell’ansa del Tevere (Ripa, S. Angelo, Regola, Campitelli, Parione, Ponte, S. Eustachio, Pigna); Campo Marzio, Colonna e Trevi erano di piú recente urbanizzazione e Monti risultava in parte disabitato. Molti Romani vivevano d’agricoltura, coltivando le parcelle di coltura intensiva situate all’interno delle mura e all’esterno, in un raggio di uno o due chilometri dalla cinta urbana, oppure lavorando sui terreni dei casali, quelle grandi aziende agrarie di cui erano proprietarie chiese e famiglie della nobiltà cittadina, ma che erano gestite da un gruppo piú ristretto di dinamici imprenditori agricoli, i bovattieri, presso i quali Cola di Rienzo trovò i suoi primi sostenitori.

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lavori. Borghi nacquero a ridosso delle principali chiese sorte fuori le mura cittadine: è il caso di San Lorenzo, di San Pietro in Vaticano, di San Paolo e di Sant’Agnese. In alcuni casi, tali borghi, in particolare San Lorenzo e San Paolo, divennero, nel corso dell’VIII e del IX secolo, vere e proprie piccole città fortificate, sviluppatesi nelle strutture di accoglienza per i pellegrini. Lo stesso processo investí il Vaticano, dotato, a metà dell’VIII secolo, da Leone IV, di mura difensive che sfruttavano come caposaldo il mausoleo dell’imperatore Adriano, l’odierno Castel Sant’Angelo.

Comune e Chiesa: poteri antagonisti

Per i motivi che si è cercato di elencare, la Roma altomedievale ha conosciuto una robusta sfortuna storiografica, ma non è andata meglio nella fase successiva, quella bassomedievale. Dopo il Mille, Roma conobbe una stagione di scontri e sviluppi civici che portarono, nel 1143, all’instaurazione del Comune. La fase comuna44

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le fu caratterizzata da contrasti – alternati al dialogo – con il grande potere antagonista della città: l’autorità pontificia. In questa fase tuttavia la vita della città fu espressione di una politica autonoma, slegata dagli interessi della corte pontificia. Quando poi, nel 1308, i re francesi imposero il trasferimento del papa ad Avignone (dove rimase fino al 1377), la Roma comunale conobbe una sua autentica indipendenza con Cola di Rienzo, il quale alla metà del XIV secolo riuscí a imporre un potere personale su base popolare (o demagogica, a seconda dei punti di vista). Con il ritorno a Roma della corte papale, il potere comunale declinò, divenendo un vacuo ricettacolo di cariche onorifiche concesse dai papi alla nobiltà locale. Solo allora, con il primo Rinascimento, Roma finí davvero per coincidere politicamente con il Vaticano, quartiere fino ad allora periferico. La città medievale – con le sue chiese in mattoni e le sue cupe torri fortificate – lasciò il posto alla ricca corte dei papi che

In alto veduta del Foro Romano con una buona parte dei monumenti antichi in rovina o sepolti. Acquaforte di Giovanni Battista Piranesi. 1775.


la trasformò in una sfavillante città rinascimentale prima e barocca poi. Non si può dunque affermare che la capitale dell’impero romano fosse scaduta, nella sua fase medievale, al rango di città arretrata e ininfluente, e che solo alle soglie dell’età moderna tornasse a essere centrale grazie all’affermazione del Rinascimento prima e del Barocco poi. Tale percezione è alimentata da un’osservazione sommaria del panorama urbanistico che, ancora oggi, celebra come indubbi protagonisti gli scenari classici, rinascimentali e barocchi. L’allure dell’attuale città ha contribuito, in profondità, a determinare l’immagine di una Roma medievale a dir poco angusta.

Ultima sacca del potere feudale

In basso l’antichissimo ponte Fabricio (62 a.C.) sull’isola Tiberina, uno dei monumenti di epoca romana meglio conservati della Città Eterna. È chiamato anche «Pons Judaeorum» per la sua vicinanza al quartiere ebraico del Ghetto.

Al contrario, la progressiva emarginazione degli ideali comunali, con il ritorno dei papi da Avignone, fece coincidere il destino della città con quello di capitale dello Stato pontificio. Uno Stato che, nel suo ultimo secolo di vita – il XIX – fu animato dal caparbio tentativo di preservare il proprio potere temporale, rallentando il movimento risorgimentale teso all’unificazione della nazione. In tale contesto la Roma papale fu identificata come residuato di un potere feudale che si considerava di matrice medievale. Per tale ragione i Piemontesi, arrivati dopo il 1870, vollero cancellare le superfetazioni di età medievale, cresciute come licheni sulle rovine classiche. Ciò che restava della Roma medievale fu cosí distrutto anche dagli stessi archeologi, paladini della Roma imperiale e nemici della

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contro la mondanità della Chiesa Nato forse a Brescia, Arnaldo da Brescia fu, dal 1115, allievo di Abelardo a Parigi. Tornato in Italia, si scagliò contro la mondanità della Chiesa. Affermava che la confessione doveva essere fatta non a un sacerdote, ma tra i fedeli stessi; che i sacramenti amministrati da un sacerdote in stato di peccato erano privi di valore; che gli ecclesiastici non dovevano possedere ricchezze, né essere investiti di autorità politica. Avendo guidato l’opposizione contro il vescovo Manfredo di Brescia, fu chiamato da Innocenzo II a Roma e condannato all’esilio nel 1139. Tornò in Francia, dove, nel 1141, fu condannato, con Abelardo, dal Concilio di Sens; venne quindi espulso, per ordine di Luigi VII su richiesta di Bernardo di Chiaravalle, si recò prima a Zurigo e poi in Boemia. Frattanto, nel 1143, era scoppiata a Roma una rivoluzione tendente a eliminare il potere temporale dei papi e a instaurare la repubblica. Nel 1145 Arnaldo da Brescia raggiunse Roma e appoggiò decisamente la repubblica; fu perciò scomunicato da Eugenio III il 15 luglio 1148. Catturato da Federico I Barbarossa, che perseguiva in quel momento una politica di pace con il papato e si era accordato con Adriano IV, fu consegnato al prefetto dell’Urbe, che lo fece condannare a morte: impiccato e arso, le sue ceneri furono disperse nel Tevere (19 giugno 1155). La sua opera fu continuata dai seguaci, detti «arnaldisti». (red.)

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del tutto autonoma dalla politica pontificia. Al contrario, la stessa istituzione del Comune di Roma fu etichettata come fenomeno determinato da spinte esogene e comunque limitata nel significato e nel tempo.

Dove e quando CASTEL SANT’ANGELO Lungotevere Castello, 50 Orario ma-do, 9,00-19,30; chiuso lu, 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 06 6819111 (centralino) e 06 32810 (prenotazioni); castelsantangelo.com fatiscente città medievale: le torri, le case, le chiese romaniche, gli edifici pontifici, i bastioni che avevano custodito la città per millecinquecento anni furono presi d’attacco.

Una sottovalutazione sistematica

Educati alla venerazione del mondo classico (e alla sua idealizzazione: il Rinascimento), architetti, archeologi e storici dell’arte giudicarono le vestigia medievali come brutte copie di quelle antiche. I prodotti artistici della Roma medievale furono considerati numericamente poco rilevanti e legati a una committenza papale che da sempre prediligeva maestranze forestiere. Non furono compresi – e quindi salvati – neppure i reperti dell’esperienza comunale, che era stata

Qui sopra Porta S. Paolo e l’area della Piramide Cestia in un dipinto di Ettore Roesler Franz. 1880 circa. Roma. Museo di Roma. Nel Medioevo si credeva che la piramide custodisse le spoglie di Romolo o di Remo. In alto, a destra la torre dei Conti, eretta nel IX sec. sui resti del Foro della Pace e ricostruita nel 1238 da papa Innocenzo III.

Museo di Roma Piazza Navona, 2 o piazza San Pantaleo, 10 Orario ma-do, 10,00-20,00; chiuso lu, 25 dicembre, 1° gennaio e 1° maggio Info e prenotazioni tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); museodiroma.it Museo Nazionale Romano-Crypta Balbi Via delle Botteghe Oscure, 31 Orario ma-do, 9,00-19,45; chiuso lu, 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 06 6977671 (centralino) e 06 39967700 (prenotazioni); archeoroma.beniculturali.it

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Prediletta dagli di Bruno Figliuolo

Angioini Napoli. La massiccia struttura del Castel dell’Ovo sorveglia, fin dall’età antica, il golfo della città campana. Nel Medioevo la fortezza, oltre a essere un presidio militare, fu utilizzata come reggia, prigione, tribunale e sede dell’erario.


Dapprima confinata in una posizione di subalternità rispetto a Palermo, Napoli visse un vero e proprio riscatto con l’ascesa al potere di Carlo d’Angiò. Iniziava cosí una stagione nuova, che vide la città inserirsi da protagonista nel contesto economico e mercantile e affermarsi anche come importante polo culturale e artistico


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ittà di origini greche, Napoli conservò a lungo le sue caratteristiche di centro religioso, commerciale e residenziale di medie dimensioni. Se è vero, infatti, che neppure il traumatico passaggio dall’età romana a quella medievale pare abbia segnato per la città un momento di crisi significativa, è pur vero che, nei secoli dell’Alto e del pieno Medioevo (dal VI alla metà del XIII secolo, per intenderci), essa, nel ricco e articolato panorama cittadino dell’Italia meridionale, non si distingue come realtà urbana di particolare rilievo. Aversa, Capua, Salerno, Benevento, Bari non sembrano esserle da meno, e la Palermo araba, normanna e sveva la surclassò quanto a crescita demografica, splendore architettonico, sviluppo urbanistico e prestigio politico e culturale. Non a caso, nel XII secolo, i mercanti genovesi praticarono a malapena lo scalo napoletano, quanto quelli di Gaeta o di Salerno, e nella misura di un decimo rispetto a quello palermitano. Qualche segnale di inversione di rotta si ebbe soltanto negli anni immediatamente successivi al 1190, allorché, dopo la morte senza eredi maschi del re normanno Guglielmo II, il successore nazionale, Tancredi conte di Lecce, cominciò a temere l’invasione da parte del legittimo pretendente, Enrico VI di Svevia. In quel

periodo convulso la città partenopea, posta com’era quasi sul confine del regno, assunse di fatto il ruolo di seconda capitale, ospitando la corte e il grosso dell’esercito normanno. Chiaro segno dell’importanza rivestita da Napoli in quegli anni, è la forza d’attrazione esercitata nei confronti degli attenti operatori genovesi.

Un nuovo polo universitario

Ben presto, però, i nuovi dinasti svevi riportarono la capitale a Palermo, e Napoli tornò a ricoprire un ruolo di secondo piano nello scacchiere regnicolo. Un ruolo certo prestigioso, soprattutto quando Federico II, nel 1224, stabilí di fondarvi l’Università, ma non indiscusso. Nel 1252, infatti, il successore Corrado stabilí di chiudere lo Studio di Napoli, città rea di essersi macchiata di tradimento nei suoi confronti, e di trasferirlo a Salerno. Due anni dopo, però, Corrado morí, e il suo progetto rimase senza seguito. Anzi, un poco piú tardi, con l’avvento al trono di Carlo I d’Angiò (1266), venne sancito il trasferimento definitivo della capitale da Palermo a Napoli, città meno intrisa delle memorie di Federico di Svevia e, soprattutto, piú prossima al cuore geografico degli interessi politici angioini. Napoli, in tal modo, divenne uno dei principa-

Nella pagina accanto pianta a volo d’uccello di Napoli disegnata per il Civitates orbis terrarum (1572-1616), una raccolta di mappe delle città di tutto il mondo curata dai geografi tedeschi Franz Hogenberg e Georg Braun. In basso, sulle due pagine il porto della città alla fine del Medioevo, raffigurato nell’anonima Tavola Strozzi. 1472-73. Napoli, Certosa e Museo di San Martino.

le date da ricordare VI sec. d.C. La città è sotto il controllo di Bisanzio.

1128 Sorge la prima fortificazione alla base di Castel dell’Ovo, in seguito trasformato da Ruggero il Normanno nella propria residenza. XII sec. Sopraggiunge la conquista normanna.

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1190 Morte di Guglielmo II. Tancredi conte di Lecce tenta di opporsi alla successione di Enrico VI di Svevia.

1266 Sale al trono Carlo I d’Angiò. Durante il dominio angioino avviene il trasferimento definitivo della capitale da Palermo a Napoli. Risale a questo periodo la costruzione di Castel Nuovo, e di molti edifici di stampo gotico, in seguito rimaneggiati e trasformati. 1224 Federico II fonda l’Università. 1194 Occupazione di Napoli da parte di Enrico VI di Svevia e demolizione delle mura.


1289 Avvio della costruzione della chiesa di S. Domenico. Pochi anni piú tardi viene realizzato il Duomo.

1310-24 Edificazione del monastero di S. Chiara.

XIV sec. Napoli conta circa 60 000 abitanti.

1494 Discesa di Carlo VIII di Francia, che l’anno successivo entra in Napoli.

1442 Si inaugura l’età della dominazione aragonese.

come un’unica contrada... Nel 1444, poco dopo l’avvento al trono di Napoli di Alfonso d’Aragona, un anonimo ambasciatore estense ci conduce per mano lungo le strade della città, alla scoperta dei nuovi quartieri e della loro strategica dislocazione. «La contrada principale di Napoli – egli scrive – dove si trova la nobiltà dei mercanti, come sarebbe a Venezia la via tra Rialto e San Marco. Cosí a Napoli si entra dalla porta del Mercato, e si entra nella contrada di Sant’Eligio e di San Giovanni, dove sono i merciai; poi si trova la contrada “de li bambaxi”, dove si vendono coltri, tele, cotoni; poi la contrada della dogana e quella dei Fiorentini, la contrada dei Genovesi, la contrada dei banchieri e argentieri; poi la contrada degli armaioli (…); la contrada della Scalesia, dove si vendono i drappi; poi si trova la Sellaria, dove sono maestri che fabbricano belle selle (…). Sicché tutte le predette contrade di mercanti sono contigue l’una all’altra, tanto che sembra, aggirandosi attraverso di esse, di camminare lungo un’unica contrada».

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li centri del trionfante guelfismo europeo: vale a dire di quell’alleanza ideologico-politicomilitare che legava su un territorio continuo il Regno di Francia, la Provenza, ampie aree piemontesi, Firenze e la Santa Sede. Si ponevano cosí le basi delle fortune bisecolari della città, che, pur tra alti e bassi, durarono lungo tutta l’età angioina (1266-1442) e aragonese (1442-1494), sino alla discesa di Carlo VIII di Francia. Napoli, però, doveva ora assumere anche l’aspetto, il carattere di una capitale.

Echi d’Oriente

L’impegno profuso dalla nuova dinastia regnante per migliorare l’immagine monumentale della città e adeguarla ai propri gusti fu in effetti notevole. All’epoca, Napoli sembrava mantenere ancora l’immagine che aveva nei secoli altomedievali, allorché si presentava agli occhi dei visitatori simile a Palermo o a una città africana piuttosto che a una metropoli occidentale. Il gusto estetico che vi prevaleva, ancora particolarmente evidente nelle opere scultoree superstiti del X, XI e XII secolo, sembrava guardare ai fantastici intrecci e ai motivi zoomorfi e fitomorfi delle stoffe persiane o alessandrine, oppure ai policromi motivi geometrici della ceramica maghrebina: prodotti che i mercanti arabi ed ebrei attivi in città non dovevano certo far mancare sulla piazza. Con l’avvento degli Angioini, il quadro di fondo muta radicalmente con estrema rapidità. Dalla costruzione della nuova reggia-

sul modello del gotico francese Numerosi e assai significativi sono gli edifici religiosi eretti in età angioina in tutta l’area urbana di Napoli, e che tuttora caratterizzano il panorama cittadino: i complessi conventuali e monastici di S. Chiara (francescano), S. Domenico (domenicano), S. Martino (certosino), S. Pietro a Maiella (celestino), le splendide chiese di S. Maria Donnaregina, S. Maria Incoronata o S. Giovanni a Carbonara, dove vennero chiamati ad affrescare le superfici alcuni dei piú bei nomi della pittura italiana del periodo. Se si volesse trovare un minimo comun denominatore di carattere stilistico tra queste diverse costruzioni, esso andrebbe certamente individuato nel modello di riferimento, che è quello gotico francese o, in subordine, quello toscano. Assieme a quella di S. Francesco di Bologna, la chiesa napoletana di S. Domenico è forse l’unico esempio di pressoché perfetta imitazione del gusto architettonico d’Oltralpe in Italia, contrassegnata com’è dagli archi rampanti che ne sostengono l’abside all’esterno e dal giro completo del deambulatorio.

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fortezza, detta appunto Castel Nuovo, a quella di un piú ampio e capace arsenale, ai tanti edifici sacri, cantieri si aprono un po’ ovunque, allo scopo di plasmare il volto monumentale della nuova capitale. Tuttavia, la situazione di sostanziale novità in cui si trova a vivere e operare la città partenopea a cavallo tra il XIII e il XIV secolo si coglie soprattutto sul piano urbanistico. Sino a quell’epoca essa era rimasta chiusa nel circuito murario antico, caratterizzato dall’impianto ortogonale ippodameo del suo tessuto urbano, con le strade che si intersecano ad angolo retto a formare quelle «insulae» rettangolari cosí caratteristiche dell’urbanistica classica e cosí ben leggibili ancor oggi nella pianta della città. La promozione a capitale, con il trasferimento in essa della corte, di uffici e di funzionari, e il conseguente aumento della domanda e quindi dei traffici, portò a un brusco aumento della popolazione e a un rapido sviluppo edilizio, che rispose però a canoni urbanistici affatto nuovi. In questi anni sorgono interi rioni a valle delle precedenti mura e tutt’attorno all’area portuale. Sono i quartieri del commercio e dell’artigianato, nei quali si stanziano le minoranze etniche straniere, attirate dalle opportunità offerte dallo sviluppo della nuova capitale. Piú della topografia, rivoluzionata circa un secolo fa da imponenti lavori di sventramento e poi, piú di recente, dalla rapida e poco accurata ricostruzione postbellica, è la toponomastica cittadina a


In alto il presbiterio della basilica gotica di S. Chiara, con, al centro, il sepolcro di Roberto d’Angiò, uno dei piú grandi monumenti funebri del Medioevo. 1343-1345. Nella pagina accanto, in alto particolare dell’arco trionfale del Castel Nuovo, aggiunto all’ingresso della fortezza nel XV sec., per celebrare la conquista del Regno di Napoli da parte di Alfonso d’Aragona. Nella pagina accanto, in basso uno dei capolavori custoditi nella duecentesca chiesa di S. Domenico Maggiore: l’Assunzione di San Giovanni Evangelista, affresco di Pietro Cavallini. XIV sec.

conservare chiara e suggestiva traccia di questo fenomeno: la Scalesia, la rua Francesa, la rua Catalana, la rua Toscana, la via dei Genovesi, il quartiere degli orefici ecc., testimoniano ancor oggi dell’esatta posizione logistica e dello splendore degli insediamenti mercantili stranieri nella Napoli angioina e aragonese.

Una metropoli «moderna»

Estremamente significativo è il fatto che l’ampliamento urbano avviene secondo le scelte urbanistiche e monumentali importate nel Mezzogiorno dagli Angioini. A guardare le vecchie mappe della città, infatti (quelle, per intenderci, anteriori ai lavori di risanamento urbanistico della fine dell’Ottocento), balza agli occhi come, accanto e a valle della vecchia città di origini classiche, sia sorta, verso la fine del XIII secolo, una metropoli nuova, di impianto affatto differente e dalle caratteristiche inequivocabilmente medievali: irregolare, piena di viuzze che si intersecano tra loro, secondo un ordito vagamente a ventaglio. La città angioina, nettamente giustapposta a quella classica, si differenzia da essa per la sua destinazione d’uso e per la sua urbanistica «moderna». Anche in questo campo, insomma, come in quello del gusto artistico, le scelte dei nuovi sovrani denunciano la volontà che Napoli venga staccata dall’emisfero mediterraneo dominato dal modello arabo-bizantino, nella cui orbita la città aveva sino a poco tempo prima gravitato, e passi nell’emisfero occidentale, per diventare in tutto simile alle altre città europee contemporanee: nasce cosí la Napoli attraente

e vivace, ma anche malfamata e maleodorante, immortalata da Boccaccio nella celebre novella di Andreuccio da Perugia. È una città destinata a durare nei secoli, certo ingrandendosi molto, ma restando sostanzialmente tale addirittura sino alla fine dell’Ottocento. Gli Aragonesi, per parte loro, pur senza sconvolgere le linee del quadro, operarono su questo tessuto efficacissimi interventi mirati. Intervennero secondo progetti rispondenti a esigenze di razionalizzazione e di bonifica, ampliando strade, creando piazze e diradando l’eccessiva presenza di costruzioni nei nuovi quartieri angioini, oltre che inaugurando, su aree demolite, altri importanti cantieri di edilizia monumentale sia sacra che civile, pubblica e privata. Interventi tanto riusciti e opportuni che a piú riprese gli osservatori stranieri contemporanei, favorevolmente colpiti, descrissero l’ordine, la bellezza e la pulizia della capitale aragonese. Non senza meraviglia, cosí si legge oggi nella notazione del celebre umanista senese Enea Silvio Piccolomini, non ancora papa Pio II, il quale, proprio per il suo nitore, arrivava a paragonare la Napoli della metà del XV secolo, forse unica in Italia, alle linde città tedesche e boeme da lui appena visitate.

Dove e quando Castel Nuovo (Museo Civico) Piazza Municipio Info tel. 081 7957713 oppure 7957721 Orario lu-sa, 9,00-19,00 Info comune.napoli.it

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Pravia Santiago de Compostela

Oviedo

penisola iberica

Braga Guimarães Oporto Salamanca

Burgos Saragozza

Barcellona Tarragona

Madrid

SPAGNA

Faro

Tolosa

Pamplona

Valladolid

Coimbra

Mérida

Siviglia

Pau

San Martín del Rey Aurelio

León

PORTOGALLO Lisbona

FRANCIA

Cangas de Onìs

Toledo

Cuenca Valencia Albacete

Cordova Cabra Écija Guadix Cartagena Granada Málaga

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elti, Iberi e altre popolazioni indigene occuparono il territorio dell’odierna Spagna prima dell’arrivo dei Fenici. Nel VII secolo a.C. i Greci si stabilirono nella zona dell’attuale Catalogna, in particolare nell’antica Empúries (oggi L’Escala). I Cartaginesi, nel III secolo a.C., progettarono la conquista in toto della penisola iberica partendo dalla loro roccaforte di Cartagena, ma non riuscirono nell’impresa. A impedirlo provvidero i Romani che, dopo l’affermazione nelle due guerre puniche, presero il controllo di quella vasta regione. Sorsero alcune colonie, (Valencia e Saragozza le piú importanti), ma le capitali che Roma designò in quel versante del Mediterraneo furono Cartagena, Tarragona, Cordova, Siviglia e Mérida. Anche la Spagna, agli inizi del Medioevo, subí l’ondata delle invasioni barbariche. Svevi, Alani e, infine, Visigoti approfittarono del crollo dell’impero romano d’Occidente per riversarsi sul territorio. I Visigoti, poi, presero il sopravvento fondando nella regione un regno che ebbe Barcellona (l’antica Barcino) e Toledo come capitali. Alla

A sinistra Granada (Spagna). Il Patio de los Leones, compreso nella celebre fortezza medievale dell’Alhambra, ornato con le colonne di marmo bianco in stile moresco.


metà del VI secolo Bisanzio annetté ai suoi domini la parte meridionale della penisola iberica, colonizzando Cordova, Écija, Guadix e Cabra. Nel 711 gli Arabi invasero la Spagna e stabilirono la loro sede di governo prima a Siviglia e in seguito a Cordova, che diede il nome a un potentissimo califfato. Tuttavia la penisola, che venne ribattezzata in arabo al-Andalus, non divenne completamente musulmana. Resisteva, a nord, nelle Asturie, un regno cristiano le cui sedi del potere erano localizzate a Cangas de Onís, San Martín del Rey Aurelio, Pravia e Oviedo. Presto, però, tra il IX e il X secolo, sorsero nuovi Stati anti-islamici in Castiglia, León, Aragona e Navarra con roccaforti rispettivamente a Burgos, León, Saragozza e Pamplona. A questi baluardi dell’Occidente cristiano si affiancarono anche la contea di Barcellona e il Portogallo nella lunga battaglia (detta Reconquista) per strappare il possesso della penisola dalle mani degli Arabi, che si concluse con l’affermazione dei cristiani nel 1212 nel celebre scontro di Las Navas de Tolosa. Non tutta la Spagna, però, fu liberata. Alcuni capisaldi a meridione, con in testa Granada e Malaga, restarono musulmani fino alla fine dell’Età di Mezzo. Il Portogallo, il cui nome deriva da un antico insediamento sul fiume Duero, chiamato Portus Cale (l’odierna Oporto), visse vicende simili a quelle della Spagna nell’Alto Medioevo. Galizi, Lusitani e Celti abitavano l’area prima dell’invasione romana, nel 218 a.C. La parte settentrionale del territorio portoghese fu inglobata nella provincia della Gallaecia, con capitale Braga. Con le invasioni barbariche, il Portogallo seguí lo stesso destino della Spagna, arrendendosi ai Visigoti. In seguito, all’inizio dell’VIII secolo, subí la dominazione musulmana dalla quale riuscí in parte a liberarsi nell’868 la piccola contea di Portucale, che ebbe come roccaforte anche Coimbra. Un primo regno portoghese indipendente si costituí a partire dalla fine dell’XI secolo, dopo la separazione dalla Galizia, ma il primo sovrano fu incoronato solo nel 1139. Capitale del Portogallo diventò Guimarães, ma presto fu spostata a Coimbra e, infine, a Lisbona nel 1256. Nel XV secolo il piccolo regno assunse dimensioni sterminate e divenne il primo impero coloniale della storia.

Toledo (Spagna). Veduta del monastero gotico di San Juan de los Reyes (XV sec.) e dell’adiacente ponte di San Martin sul fiume Tago, il piú lungo della penisola iberica.

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Il gioiello dei califfi di Marco Di Branco

Cordova è la testimonianza piú felice della presenza araba in terra di Spagna. Padroni tutt’altro che gretti, i moriscos ne fecero infatti una città magnifica, nella quale diedero un saggio eloquente delle loro straordinarie doti di architetti e artisti

Cordova. L’interno della Mezquita, la grande moschea costruita nell’VIII sec., fiore all’occhiello della capitale di uno dei califfati piú potenti del Medioevo. Oggi è una cattedrale cattolica dedicata all’Immacolata Concezione di Maria Santissima.



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el 929, Abd al-Rahman III stabilí di divenire ‘amir (capo, emiro) non piú solo degli Andalusi, ma di tutti i credenti: cosí, egli assunse l’epiteto onorifico di al-Nàsir li-din Allàh («il vincitore per la religione di Dio») e il titolo di califfo, denunciando esplicitamente l’usurpazione abbaside e l’«eresia» sciita dei Fatimidi. Tre anni piú tardi il novello califfo conquistò Toledo, ma successivamente prese a occuparsi soprattutto dell’ampliamento e abbellimento della sua capitale, Cordova, e della costruzione, a nord-est di essa, di una sontuosa «residenza estiva», Madina al-Zahra’, la «città di al-Zahra’», dal nome della sua concubina prediletta. Fondata dai Romani tra il 156 e il 152 a.C. sul fiume Betis (il Guadalquivir degli Spagnoli, dall’arabo al-wadi al-kabir, «il grande fiume»), la città di Cordova, in epoca imperiale, fu ricca e fiorente e anche in età tardo-antica si caratterizzò come un centro in espansione. Una crescita che continuò, intensificandosi, con l’avvento degli Arabi.

Le chiese trasformate in moschee

Dopo la conquista, la città divenne capitale di al-Andalus: nel primo periodo del dominio islamico furono riutilizzati gli edifici pubblici già esistenti e si restaurarono le infrastrutture degradate, allo scopo di creare i servizi fondamentali per la vita di un grande centro amministrativo. Abd al-Ralhman I restaurò le mura e la cittadella, facendone il centro del potere politico, e costruí il primo impianto della grande moschea; Abd al-Rahman II fondò la zecca, la fabbrica dei tessuti di lusso (tiraz) e alcuni bagni pubblici (hammam); inoltre, ampliò la grande moschea e realizzò un acquedotto che portava in città l’acqua della Sierra Morena. Nella capitale dell’emirato si svolse poi il processo di trasformazione di molte delle antiche chiese intramuranee in moschee, come nel caso di S. Juan de los Caballeros e della stessa grande moschea. Un autore arabo medievale, al-Maqqari, parla dell’esistenza a Cordova di 3877 moschee.

La proclamazione del califfato determinò la crescita esponenziale della città, che fu tuttavia attentamente pianificata. Abd al-Rahman III promosse notevoli interventi pubblici: la nuova zecca, il mercato (suq), l’ulteriore ampliamento della grande moschea e l’importante complesso residenziale noto come «Casa della Noria». I suoi successori – in particolare i califfi al-Hakam II e al-Mansur – ingrandirono ancora la moschea principale, ristrutturarono il cosiddetto alcazar civil, risalente all’epoca visigota (dall’arabo al-qasr, «cittadella»), costruirono nuovi complessi termali – che raggiunsero la ragguardevole cifra di 600 –, restaurarono il ponte sul Guadalquivir e riorganizzarono, ampliandola, la rete viaria cittadina. In meno di tre secoli Cordova, con il suo milione di abitanti sparso su un’area di circa 5000 ettari, divenne la città piú grande d’Europa e, nel mondo islamico, seconda alla sola Baghdad.

In alto la città di Cordova in un’incisione del Civitates Orbis Terrarum. 1572-1616. Nella pagina accanto illustrazione ottocentesca in cui si immagina il califfo di Cordova Abd-al-Rahman II (788-852) mentre riceve un gruppo di ambasciatori baschi.

le date da ricordare 572 Conquista della penisola da parte dei Visigoti.

756 Cordova diviene centro del califfato indipendente fondato da Abd al-Rahman I.

711 Gli Arabi invadono la Spagna. Dopo Siviglia, è Cordova ad essere eletta sede di governo.

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X sec. Cordova raggiunge l’apice dello sviluppo architettonico e culturale.

785 L’emiro Abd al-Rahman I avvia la costruzione della grande moschea.

1212 La battaglia di Las Navas de Tolosa segna la fine del dominio islamico nella penisola iberica.

936-940 Abd al-Rahman III intraprende la fondazione della nuova città come residenza personale.

1236 Cordova è riconquistata da Ferdinando III di Castiglia.


un grande pacificatore Ibn al-Khatib, storico e visir di Abd al-Rahman III, ci ha lasciato un sintetico e suggestivo profilo del primo califfo di al-Andalus: «Si dice che quando Abd al-Rahman prese le redini del governo, al-Andalus fosse un carbone ardente, un fuoco crepitante, con ribellioni aperte e nascoste che ribollivano fra i suoi confini. Per mezzo della sua mano fortunata e il suo forte potere Dio ha pacificato il Paese. Cosí il popolo paragona il terzo Abd al-Rahman con il primo: egli ha sottomesso i ribelli; egli ha costruito castelli, ha piantato colture e reso immortale il suo nome. Egli ha annientato gli infedeli, e ora in al-Andalus non v’è piú un nemico e nessun rivale innalza i suoi vessilli. I popoli si sono sottomessi alla sua legge e hanno accettato la sua pace».

1486 A Cordova Cristoforo Colombo è ricevuto dai Re Cattolici.

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Cordova La grande moschea di Cordova, uno dei piú splendidi monumenti dell’arte islamica di tutti i tempi, fu iniziata nel 785 dall’emiro Abd al-Rahman I e modificata e ampliata da Abd al-Rahman II, Abd al-Rahman III, al-Hakam II e al-Mansur. Oggi l’edificio – il cui interno, dopo la Reconquista, fu in buona parte riadattato per ospitare la cattedrale cristiana – misura 23 400 mq e conserva 856 delle 1013 colonne originarie, che formano una incredibile «foresta» marmorea, giustamente celebrata dagli antichi e dai moderni. Alla moschea si accede da un ampio cortile, in epoca islamica adibito alle abluzioni rituali, che i cristiani trasformarono nel famoso «patio degli aranci»; di qui, entrando nell’edificio attraverso la «porta delle palme», si ha la meravigliosa visione dell’immensa sala colonnata sulla quale poggia una serie di doppie arcate che ricordano quelle degli acquedotti romani; i colori che prevalgono sono il rosso dei mattoni e il giallo chiaro della pietra calcarea, ai quali si aggiungono il bianco degli stucchi e l’oro dei mosaici del mihrab (la nicchia che indica la direzione della Mecca, n.d.r.), realizzati da artisti bizantini. L’ambiente, originariamente inondato di luce che ne illuminava l’impressionante bellezza, è oggi immerso nella semioscurità, perché le trentatré cappelle cristiane del XVII secolo, costruite riutilizzando i muri interni della moschea, impediscono ai raggi del sole di penetrare all’interno del tempio.

Un nuovo nucleo urbano

La costruzione di una nuova città come residenza personale del califfo e sede degli organi amministrativi dello Stato fu senza dubbio il progetto piú ambizioso portato a compimento da Abd al-Rahman III. Con tale impresa, iniziata tra il 936 e il 940, il sovrano fece propria una consuetudine tipica del mondo islamico orientale: quella della fondazione califfale di un nuovo nucleo urbano, adeguato al suo status e alla sua dignità, come parte di un programma di ostentazione e autorappresentazione. La città, di forma rettangolare, lunga 1500 m e larga 750, per una superficie di circa 112 ettari, venne disegnata ai piedi delle estreme propaggini della Sierra Morena, in un luogo di notevole attrattiva paesaggistica; l’adattamento all’orografia della zona determinò la disposizione a terrazze dei suoi edifici: le piattaforme superiori ospitano l’alcazar, cioè il palazzo, in una posizione preminente sopra la terrazza inferiore, occupata da caseggiati e dalla moschea principale: con le sue splendide sale riccamente decorate e i suoi meravigliosi giardini, esso costituiva il vero e proprio nucleo simbolico del nuovo complesso. 60

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In alto veduta aerea di Cordova nella quale sono ben visibili il ponte romano (I sec. d.C.) sul fiume Guadalquivir e, sulla sinistra, l’imponente complesso della grande moschea, la Mezquita. Nella pagina accanto il soffitto decorato della cupola della Mezquita.

L’impianto di Madina al-Zahra’ comportò la creazione di complesse infrastrutture viarie e idrauliche e l’organizzazione di un sistema integrato per il trasporto delle materie prime (ancora oggi percepibile nei resti di strade, ponti, acquedotti e cave che circondano la città): il risultato fu un centro assolutamente autonomo, nel suo funzionamento, rispetto alla metropoli di Cordova. Le fonti letterarie ci trasmettono lo stupore e l’ammirazione che Madina al-Zahra’ suscitava in quelli che ebbero la fortuna di contemplarla nella sua epoca di splendore. Tuttavia, la sua esistenza fu molto breve. All’intensa attività costruttiva dispiegata sotto Abd al-Rahman III e al-Hakam II fece seguito una decadenza quasi immediata durante il regno di Hisham II, quando, a causa delle lotte interne che provocarono la caduta del califfato, cominciò la distruzione della città: dal 1010 essa fu infatti sottoposta a uno spoglio sistematico dei suoi materiali, che si prolungò per tutto il Medioevo e l’epoca moderna.

I primi recuperi

Col passare del tempo, della «Versailles dei califfi» si perse quasi del tutto la memoria, e ai suoi resti fu dato il nome di «Cordova la Vieja». Solo nel 1911 l’architetto Velasquez Bosco iniziò, con scavi sistematici, il recupero di questo tesoro archeologico senza precedenti. La parte attualmente scavata costituisce solo un decimo dell’estensione totale della città: essa corrisponde al settore centrale dell’alcazar, che risulta a sua volta diviso in due grandi settori:

il patio, cuore della vita domestica Le case andaluse erano generalmente a due piani. Le piú ricche avevano un portone di entrata, sempre chiuso, che immetteva in un androne, attraverso il quale si raggiungeva un patio a pianta rettangolare, con portici a colonne su tre lati, una cisterna al centro per rinfrescare l’ambiente e un piccolo giardino; in un angolo c’era una stretta scala che portava al piano superiore, riservato alle donne. Intorno al patio – che costituiva il vero e proprio centro della vita familiare – erano disposte delle sale che fungevano anche da camere da letto. Le case povere erano molto piú piccole, ma imitavano la struttura delle abitazioni piú prestigiose.

uno pubblico e amministrativo a est, dove si trovano gli edifici di governo e di rappresentanza, e uno privato o residenziale a ovest, dove sono collocate le abitazioni del califfo e dei notabili della corte omayyade. Abd al-Rahman III, il primo califfo di al-Andalus, morí nel 961. Gli subentrò il figlio, Hakam II, che fu un degno erede di suo padre. Nei suoi quindici anni di governo l’espansione islamica in Spagna continuò, mentre il Paese registrò un notevolissimo incremento demografico, una congiuntura economica fortemente positiva e un eccezionale sviluppo scientifico, tecnologico capitali del medioevo

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Cordova

la rivisitazione islamica della tradizione La natura dell’architettura islamica antica, sorta dal contatto fra una nuova fede e molte tradizioni preesistenti, ha affascinato e sconcertato generazioni di storici dell’arte. Secondo uno dei massimi studiosi della produzione artistica musulmana, Oleg Grabar, l’originalità dell’arte e dell’architettura di epoca omayyade deriverebbe dalla nuova forza significante acquisita dal suo linguaggio formale: utilizzando vecchie forme (ellenistico-romane, ma anche persiane) in maniera ambigua e flessibile, gli Arabi elusero il potente simbolismo delle tradizioni che volevano sostituire (e in particolare del cristianesimo), costruendo un contesto favorevole all’affermazione dei valori veicolati dall’Islam.

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La facciata ovest della Mezquita, che riecheggia l’aspetto di una vera e propria fortificazione. Gli architetti omayyadi rielaborarono le antiche forme ellenistico-romane e persiane, dando vita a stili piú vivaci e dinamici.

e culturale. Non c’è cronista o geografo medievale che non esalti le abbondanti risorse dell’Andalusia e la capacità dei suoi abitanti di utilizzarle nel migliore dei modi. Gli abilissimi agronomi arabi introdussero in Spagna le piú raffinate tecniche agricole, diversificando le coltivazioni e importando nuove specie di piante dall’Oriente: tra queste ci fu anche la prima palma spagnola, piantata da Abd al-Rahman I nei giardini di Cordova per attenuare la nostalgia della sua terra d’origine. Tra i provvedimenti piú importanti adottati dagli Omayyadi in agricoltura vi furono il restauro e il perfezionamento degli acquedotti e dei sistemi di irrigazione d’età romana; la creazione di numerosi pozzi artesiani e la costruzione delle cosiddette «norie», macchine idrauliche di grandi dimensioni utilizzate per irrigare orti e giardini. La tecnologia idraulica – che gli Arabi conoscevano grazie ai testi greci di Archi-


relax ed esotismo Gli Ispano-musulmani amavano i giardini e i califfi ne fecero costruire di pubblici (come quelli di al-Zayyali, a Cordova) e di privati (famosi quelli dell’alcazar di Cordova, di Arruzafa, a nord della capitale, e di Madina al-Zahra’), importando in Spagna numerose piante esotiche dall’Oriente. I giardini andalusi erano ben ordinati, con strade simmetriche ad angolo retto che conducevano a padiglioni destinati al riposo e alla ricreazione fisica e spirituale. L’acqua vi abbondava sempre, zampillando da fontane o da vasche che riflettevano l’architettura dei padiglioni in pietra dorata. Un tardo e meraviglioso esempio di questo tipo di strutture sono i celeberrimi giardini del Generalife di Granada.

mede ed Erone di Alessandria – fu applicata anche nella costruzione di orologi ad acqua, mole e mulini. Un’altra fonte di ricchezza era costituita dai commerci: quello piú produttivo era la tratta degli schiavi, alla quale ogni città andalusa riservava un apposito mercato.

Una biblioteca ricchissima

La prosperità economica favorí non solo gli studi scientifici – in particolare chimica, medicina (i primi ospedali in terra di Spagna furono fondati nell’XI secolo), matematica e astronomia –, ma anche le discipline umanistiche, sostenute soprattutto dal califfo «bibliofilo» al-Hakam II, la cui corte ospitava un famoso circolo di poeti e letterati. Nell’alcazar di Cordova il sovrano possedeva una biblioteca di non meno di 400 000 volumi (fra le piú ricche del mondo islamico), con un minuziosissimo catalogo costituito da 44 registri di 50 fogli ciascuno, e i suoi emissari percorrevano in lungo e in largo l’Europa e l’Oriente alla ricerca di nuovi manoscritti. La costituzione di una biblioteca cosí imponente – che pure dovette subire, sotto il califfo al-Mansur, una serie di interventi finalizzati a eliminare i testi ritenuti in contrasto con le rigorose dottrine religiose allora in voga, e che fu gravemente danneggiata al momento della caduta del califfato – fece grande impressione sui contemporanei di al-Hakam, stimolando il mecenatismo e incoraggiando la formazione di nuove raccolte librarie, ovviamente meno ampie, ma assai importanti per la diffusione capillare nel Paese di antichi e nuovi saperi. Anche grazie alla straordinaria impresa libraria del «bibliofilo» alHakam l’Andalusia, nei secoli seguenti, divenne un vero e proprio laboratorio culturale, nel segno della conoscenza e della tolleranza.

Le piscine e la fitta vegetazione dei giardini attigui alla Mezquita. I califfi apprezzavano il verde e dotarono la loro capitale di grandi spazi nei quali raccogliersi in meditazione a contatto con la natura.

Dove e quando la mezquita (grande moscheacattedrale dell’Immacolata Concezione) Calle Cardenal Herrero 1 Orario mar-ott: lu-sa, 10,00-19,00; do e festivi, 8,30-11,30 e 15,00-19,00; nov-feb: lu-sa, 10,00-18,00; do e festivi, 8,3011,30 e 15,00-18,00 Info catedraldecordoba.es (info anche in inglese); spain.info/it Alcázar de los Reyes Cristianos Calle Caballerizas Reales Orario 16 set-15 giu: ma-ve, 8,30-20,45; sa, 8,00-16,30; do e festivi: 9,30-14,30; lu chiuso; 16 giu-15 set: ma-do, 8,30-14,30; lu chiuso Info alcazardelosreyescristianos.cordoba.es (info anche in inglese); spain.info/it Madina al-zahra’ Carretera de Palma del Río Km. 5,5 Orario 10,00-18,30; do e festivi, 10,00-17,00; lu chiuso Info museosdeandalucia.es/culturaydeporte/ museos/CAMA (solo in spagnolo); spain.info/it

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Conquiste di Domenico Gambardella

e contaminazioni


Saragozza. Il castello dell’Aljafería, simbolo della potenza della città d’Aragona nel Medioevo, nel periodo della dominazione araba. Costruito nell’XI sec., divenne luogo di ritrovo «ecumenico» per filosofi e scienziati di diversa estrazione religiosa.

Alfonso I d’Aragona, il Battagliero, sottrasse Saragozza agli Arabi nel 1118. All’indomani della conquista, però, con una scelta saggia e lungimirante, non attuò rappresaglie, ma, anzi, coinvolse le maestranze islamiche in un piano di rinnovamento e abbellimento della città di cui si possono ancora oggi ammirare gli esiti magnifici


penisola iberica In basso l’imponente statua di Alfonso I, il sovrano che sottrasse Saragozza agli Arabi nel 1118, eleggendola capitale del regno d’Aragona. Il monumento domina il parco Primo de Rivera, vero polmone verde della città con i suoi 40 ettari di estensione.

Saragozza

A

ll’inizio della primavera soffia spesso un vento freddo a Saragozza, a volte tagliente. Quell’aria pungente spirava anche in un giorno di marzo del 1118, un anno fondamentale per l’allora piccolo regno musulmano conosciuto come Taifa de Saraqusta e costituitosi nel 1031 dopo la caduta della dinastia omayyade di Cordova. Ma di quel vento Alfonso I, «il Battagliero», sovrano del regno d’Aragona, non si curò piú di tanto. Mentre guardava le mura merlate della città nella sua mente circolavano altri pensieri: da piú di cinque anni Saraqusta resisteva ai suoi assalti, ora sembrava tutto pronto per la conquista. Era impaziente. Riconsegnare ai cristiani Saragozza per il Battagliero significava rafforzare il suo prestigio nella lotta di liberazione dai moriscos. Ma vi era dell’altro. Saragozza era una città ricca, vitale, lí era il piú importante emporio commerciale aragonese e massimo nodo di comunicazione della Marca Estrema. Per i cristiani Saragozza meritava anche rispetto, visto Nella pagina accanto, in alto la complessa decorazione degli archi che ornano il patio di S. Elisabetta, uno dei piú suggestivi tesori architettonici compresi nel castello dell’Aljafería. Nella pagina accanto, in basso lo stemma d’Aragona.

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che fu tra le prime città spagnole a convertirsi secoli dopo essere stata fondata da Augusto nel 15 a.C. con il nome di Caesaraugusta. Da allora era cresciuta: al tempo del geografo Al Udri (XI secolo) è descritta come un centro famoso per la concia delle pelli, per la lavorazione della lana, del cotone e del lino; le sue mura racchiudevano anche il maggiore centro di cultura della regione, una città nella quale era facile incontrare matematici, filosofi, poeti che provenivano da Cordova, ma anche abili artigiani e architetti, gente capace di realizzare capolavori come il Palazzo dell’Aljafería, massimo esempio di architettura islamica in terra d’Aragona. Sí, per Alfonso I tutto sembrava pronto. E cosí fu: dopo nove mesi di assedio, il 18 dicembre del 1118, Saragozza fu strappata ai seguaci di Maometto.

Sconfitti, ma integrati

La presa della Taifa de Saraqusta può sembrare uno dei tanti eventi nella lunga storia della Reconquista spagnola, ma cosí non è. Tra le pieghe dell’episodio, infatti, si cela una storia che va oltre l’impresa militare: quella dei contatti culturali tra cristiani e musulmani. Se sui campi di battaglia i moriscos erano solo nemici da sterminare, al termine della conquista le cose cambiavano e ci si affidava spesso a loro, ai musulmani vinti, per ripopolare i territori. Per rimanere sotto il dominio cristiano era sufficiente pagare un tributo, dopodiché agli islamici era consentito di conservare la religione musulmana, la lingua araba e una propria organizzazione giuridica. Sullo scenario sociale apparvero cosí i Mudejar, gli Arabi autorizzati a restare nella Spagna cristiana, coloro che in ambito artistico diedero vita allo stile omonimo, naturale risultato della confluenza di due tradizioni, quella cristiana e quella islamica. Saragozza oggi appare «investita» da questa fusione raffinata di stili e non poteva essere altrimenti. Al tempo della Reconquista la città, abitata da 16 000 persone, era il centro creativo e propulsore dell’arte mudejar aragonese. Il primo edificio a beneficiare di questo stile fu l’Aljafería, un palazzo islamico dell’XI secolo, che dopo la conquista della città fu trasformato in alcázar dei re d’Aragona. Un percorso mudejar a Saragozza non può che partire da lí, dal palazzo-castello voluto dalla dinastia islamica degli Hudidi nell’XI secolo e situato nella parte ovest della città, poco fuori dal centro storico. Per i contemporanei dell’arabo Abu Ya Far, il monarca che volle la sua costruzione tra il 1046 e il 1081, l’Aljafería era il Qasr al Surur, il Palazzo dell’Allegria, un luogo in cui faceva capolino una brillante corte di artisti, scienziati, filosofi e intellettuali, tanto arabi quanto ebrei. Oggi di quel palazzo è rimasto


una cerimonia rigidamente scandita Era un giorno di festa quando nella capitale del regno aragonese si assisteva all’incoronazione. Dallo scritto di Jeronimo de Blancas, Coronación de los reyes de Aragón (1583), sappiamo che nel 1285 fu Alfonso III a definire un preciso protocollo che per secoli rimase immutato. La sfilata reale aveva inizio al tramonto, alla vigilia dell’incoronazione. I ceti diversi dei regni della Corona, convocati dal re e secondo un ferreo ordine gerarchico, accompagnavano il regnante dall’Aljafería fino alla cattedrale del Salvatore. Il re cavalcava per ultimo e una volta giunto nella cattedrale trascorreva lí la notte vegliando le proprie armi. Il mattino seguente all’altare maggiore aveva luogo la cerimonia principale: il sovrano veniva unto dall’arcivescovo e subito dopo riponeva la spada nel balteo. Terminata la cerimonia liturgica, il corteo rientrava all’Aljafería seguendo lo stesso ordine, ma ora il re sfilava con la corona e reggendo le altre insegne reali. Nel palazzo reale si allestivano banchetti. Il monarca occupava un posto isolato e separato, piú in alto rispetto agli altri commensali. I nobili piú importanti della corte svolgevano le antiche mansioni quali maggiordomo, camerlengo, coppiere, cantiniere, ecc. Per diversi giorni il monarca teneva bandita la tavola per il popolo e davanti al Palazzo dell’Aljafería, in un campo recintato e con molta musica, correvano i tori colpiti con la picca dai toreri.

tanto: parte delle sue mura originali, un portico, un grande salone rettangolare – il «Salone dell’oro» –, due camere laterali, che ebbero probabilmente una funzione di alcova, e una moschea a pianta ottagonale riccamente decorata con i tipici motivi atarique, splendido esempio dell’abilità artigianale araba.

«Dilectissima Aliaferia»

Alfonso I conosceva la ricchezza e la bellezza di quel palazzo. Per anni ai suoi generali confidò: «Un giorno entrerò lí, ma da conquistatore». Quando accadde, il 18 dicembre 1118, prese immediatamente possesso dell’Aljafería, trasformandolo nel palazzo reale cristiano. Nei secoli successivi, per i re d’Aragona, Qasr al Surur divenne «Dilectissima Aliaferia», termine che ritroviamo nei documenti

le date da ricordare 15 a.C. Augusto fonda Caesaraugusta.

1031 Nascita del regno di Taifa de Saraqusta.

1046-1081 Costruzione dell’Aljafería.

1121 Consacrazione della cattedrale di S. Salvador (Seo), impiantata sulla moschea maggiore della città.

1118 Termina il dominio musulmano sulla città, dopo nove mesi di assedio da parte di Alfonso I d’Aragona.

1284 Prima fase di costruzione della chiesa di S. Paolo, ampliata nel secolo successivo.

XIV sec. Pietro IV avvia ricostruzioni e ampliamenti del palazzo dell’Aljafería.

1374-1379 Edificazione della chiesa di S. Michele.

XV sec. Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia edificano un nuovo palazzo reale.

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penisola iberica

Saragozza

prodotti dalla cancelleria regia e che probabilmente serviva a rimarcare il fascino estetico esercitato da questo palazzo, con arcate incrociate in stucco intagliato e slanciati capitelli d’alabastro. Per questa sua forza artistica fu usato spesso come residenza reale.

Ristrutturazioni e ampliamenti

I nuovi interventi mudejar furono per oltre due secoli il frutto della cura che i re aragonesi mostrarono nella conservazione del palazzo, e per questo scopo furono designate maestranze arabe. Il primo a intervenire fu Pietro IV (133687). Già nei primi due anni di regno dedicò cure e attenzioni a quella che da piú di un secolo era diventata la capitale della Corona d’Aragona. All’Aljafería, Pietro ricostruí le torri principali della cinta islamica, realizzò ex novo le cappelle mudejar di S. Martin e decorò alcuni ambienti dell’antico palazzo islamico. Fu il preludio a quello che accadde dal 1354 in poi, quando per dieci anni si lavorò alla costruzione di un nuovo palazzo con l’aggiunta di ampi saloni e ambienti nei piani superiori. I re cattolici Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia sul finire del Quattrocento non vollero essere da meno. Costruirono un nuovo palazzo con un insieme di sale che culminavano nel gran salone del trono con lo splendido soffitIn alto la torre barocca della cattedrale di S. Salvador. XII sec.

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l’altra, con la rampa delle scale tra le due e la torre interna suddivisa in vani sovrapposti, fino a raggiungere la cella campanaria.

Un maestro mudejar per il papa

In alto veduta aerea di Saragozza. Si riconoscono il Puente de Piedra sull’Ebro e i campanili di S. Salvador e di Nostra Signora del Pilar. A sinistra, sulle due pagine i campanili della basilica di Nostra Signora del Pilar, che, secondo la tradizione, fu fondata dall’apostolo Giacomo di Zebedeo nel 40 d.C.

to a cassettoni, anch’esso realizzato da maestri arabi. Il cronista aragonese Jeronimo de Blancas, nella Coronación de los reyes de Aragón (1583), scrive che ogni nuovo re al trono d’Aragona prima di essere incoronato trascorreva la notte nell’Aljafería (vedi box a p. 67). Da lí, il mattino seguente attraversava il quartiere di S. Paolo e arrivava fino alla cattedrale del Salvatore. Oggi l’itinerario mudejar a Saragozza può seguire lo stesso tragitto di quei celebri cortei o alzare gli occhi e puntare i campanili delle chiese di S. Paolo, S. Maria Maddalena o S. Miguel de los Navarros. La chiesa di S. Paolo è il cuore del quartiere che dalla basilica prende il nome. Un’area popolosa, come lo era quando nacque, tra il XII e XIII secolo. L’edificio religioso fu costruito quasi un secolo dopo la conquista di Alfonso I, in due fasi: la prima nel 1284 e la seconda nel 1389. L’iniziale chiesa era a navata unica coperta da volta a crociera, con abside poligonale. Per l’aumento demografico del quartiere, ben presto la chiesa fu insufficiente, e fu quindi ampliata, portandola a tre navate. L’elemento che piú colpisce è la torre campanaria costruita nel Trecento. Per gli studiosi la sua forma a prisma ottagonale sembra emulare le torri gotiche della Corona d’Aragona, ma la particolarità è nella disposizione interna, simile ai minareti almohadi: due torri, una che ingloba

Fuori S. Paolo, dopo aver superato il mercato e proseguito lungo il decumanus della città romana, si arriva davanti al luogo in cui i re aragonesi venivano incoronati: la Seo o cattedrale del Salvatore, un tempo area del foro romano e dove sorgeva la moschea dell’antica città islamica. Il carattere peculiare della cattedrale, posta a pochi passi dal simbolo religioso della città aragonese, la basilica del Pilar, è la mescolanza di stili artistici differenti, dal romanico al gotico e al mudejar, per finire col barocco. Mahoma Rami, considerato uno dei piú grandi maestri mudejar di tutti i tempi, lavorò qui. Fu il pontefice Benedetto XIII (1394-1422) a chiamarlo, nel 1403, affinché realizzasse un’opera fondamentale: sopraelevare le tre absidi romaniche per contrastare la spinta della torre campanaria appena crollata. In quattro anni le absidi vennero innalzate sulla base romanica, raggiungendo un’altezza cospicua; in piú, si rivelò un sistema efficace costruire le volte con la tecnica degli archi intrecciati, tipica della tradizione ispano-musulmana. Il forte impatto con l’arte mudejar si ha però a occidente delle absidi, all’esterno della cattedrale, dove risalta un muro decorato con mattoni e ceramica invetriata. È S. Michele, costruita tra il 1374 e il 1379 dai sivigliani Garci e Lope Sanchez, per l’arcivescovo De Luna. Il 18 dicembre 1118 fu dunque una data storica per Saragozza. Quel giorno non solo la città fu riconsegnata ai cristiani, ma accadde anche qualcosa d’importante nell’arte medievale spagnola. Gli abitanti stessi lo sanno e basta recarsi nel parco piú importante della città, il Primo de Rivera, dove su una collina si staglia la statua colossale di un uomo che pare ancora dominare Saragozza: Alfonso I il Battagliero.

Dove e quando Palazzo della Aljafería Calle de los Diputados Orario apr-ott: tutti i giorni, 10,00-14,00 e 16,30-20,00; nov-mar: tutti i giorni, 10,00-13,30 e 16,00-18,00 Info zaragoza.es/turismo (solo in lingua spagnola); spain.info/it Basilica di Nuestra Señora del Pilar Plaza del Pilar Orario tutti i giorni, 6,45+20,30 Info basilicadelpilar.es (solo in lingua spagnola); spain.info/it

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Come un’araba di Sonja Felici

fenice

Piú volte distrutta da terremoti devastanti, Lisbona seppe sempre trovare la forza di risollevarsi. Né le calamità naturali le impedirono di esercitare al meglio il suo ruolo di capitale, prima del regno lusitano e poi di un impero che sembrò non avere confini

di Sonja Felici


Lisbona. La cinquecentesca Torre di BelÊm che si affaccia sulla foce del fiume Tago. Eretta nel Cinquecento, rievoca il ruolo egemone del regno portoghese nell’era delle grandi esplorazioni.


penisola iberica

L

Lisbona

a collocazione di Lisbona è una delle prime caratteristiche che colpiscono il visitatore: disposta ad anfiteatro lungo la sponda destra dell’estuario del Tago, a poca distanza dall’Atlantico, la città è adagiata su terrazze che sembrano pensate per esporne ogni angolo alla luce, una luce bianca e intensa che ne rende inconfondibili gli scorci. E lí Lisbona è rimasta per secoli, resistendo a terremoti, maremoti e incendi, sempre risorgendo dalle sue macerie. Forse per il carattere dei suoi abitanti, che dietro l’apparenza pacata, riflessiva, all’orlo della melanconia (espressa mirabilmente dal fado), nascondono un’indole volitiva, la stessa che fra il XV e il XVI secolo fece di questa piccola nazione una superpotenza dei commerci marittimi. Lisbona, Lisboa in porto-

ghese, è documentata la prima volta come Olisipo, città fenicio-iberica scelta come base per le operazioni militari contro i Lusitani (138 a.C.) dai Romani, che ne fecero, dopo la propria affermazione, Felicitas Iulia, capitale della Lusitania fino alla fondazione di Emerita Augusta (l’attuale Mérida, in Spagna) nel 25 a.C. Nel 457 fu conquistata dagli Svevi, poi dai Visigoti, e, nel 711, dagli Arabi, che la tennero fino al 1147, quando Alfonso Henriques, primo re di Portogallo, riuscí a occuparla, grazie all’intervento delle truppe crociate.

Lisbona diventa capitale

Nel 1256, Olissibona o Lisabona, per decisione di Alfonso III divenne capitale del Portogallo e, nel 1288, vi fu istituita l’Università per iniziativa di re Dionigi. Nel 1578 l’estinzione della casata degli Aviz creò le condizioni per la conquista, due anni dopo, del Portogallo da parte del sovrano spagnolo Filippo II. Solo nel 1640 un’in-

le date da ricordare 138 a.C. I Romani scelgono come base militare nella guerra contro i Lusitani la città fenicio-iberica di Olisipo. Nasce Felicitas Iulia, capitale della Lusitania. V sec. d.C. La città è occupata dai Visigoti. Viene eretto il castello di São Jorge.

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711 Invasione da parte degli Arabi.

1256 Olissibona (o Lisabona) è capitale del Portogallo.

1147 Alfonso Henriques, primo re del Portogallo, occupa Lisbona grazie all’appoggio di truppe crociate. Viene promossa l’edificazione della cattedrale.


Un capolavoro su ordinazione Giovanni V (1689-1750) era legato a Roma da un intenso rapporto culturale: fu membro dell’Accademia dell’Arcadia, a cui donò i terreni sul Gianicolo che ne ospitavano la sede, e ne amava profondamente l’arte, a tal punto da commissionare nella capitale un’intera cappella per la chiesa di São Roque. Dedicata a San Giovanni Battista, fu costruita in tutte le sue parti (arredi sacri compresi) a Roma, nel 1742, su progetto di Luigi Vanvitelli e Nicola Salvi, consacrata da papa Benedetto XIV e quindi smontata e spedita a Lisbona. Oggi spicca per la sua ricchezza decorativa all’interno della spoglia chiesa di São Roque (i preziosi arredi sono conservati nell’annesso museo). Il sovrano non era nuovo a imprese di questo genere: pochi anni prima aveva fatto realizzare a Roma l’intero corredo scultoreo del grande monastero da lui voluto a Mafra (a una cinquantina di chilometri da Lisbona) per celebrare la nascita del suo primogenito. Le decine di statue, alcune eseguite dai maggiori maestri del tardo barocco romano, costituirono il punto di partenza per l’istituzione di una scuola di scultura nella cittadina portoghese.

surrezione pose fine a tale dominio e portò all’insediamento sul trono di Giovanni IV dei duchi di Braganza. Eventi cardine della storia cittadina furono però i terremoti, che la colpirono nel 1531, nel 1551, nel 1595 e nel 1755. Quest’ultimo, oltre a provocare 40 000 vittime, causò la distruzione quasi totale del centro cittadino per via dell’onda di maremoto che ne scaturí. La ricostruzione fu condotta all’insegna di un totale rinnovamento: vie ortogonali, piazze e spazi regolari ispirati alle idee illuministiche e massoniche sostituirono il groviglio di vicoli del centro per volontà del marchese di Pombal. Un altro catastrofico evento ha colpito la città nel 1988, quando un incendio ha distrutto il quartiere del Chiado. Nonostante le ricostruzioni subite succedutesi nei secoli, Lisbona conserva vestigia importanti del suo passato, da scoprire attraversando vicoli e viali e risalendo ripidi pendii. La piú imponente è il castello di São Jorge, costruito dai

1288 Viene istituita l’Università. 1389 Costruzione della chiesa do Carmo.

XVI sec. Lisbona è scossa da una serie di violenti terremoti.

1502 Manuel I fa erigere il Mosteiro dos Jerónimos per celebrare la scoperta della via delle Indie da parte di Vasco da Gama. 1520 Viene completata la Torre di Belém alla foce del Tago.

Qui accanto le rovine del convento do Carmo. XIV sec. A sinistra, in alto, sulle due pagine la città di Lisbona in un’incisione dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg. 1572-1616. Nella pagina accanto, a sinistra particolare del Padrão dos Descobrimentos, monumento realizzato nel 1960 per celebrare l’era delle grandi scoperte.

1755 Un terremoto devastante provoca la distruzione di gran parte del centro della città. Molti monumenti saranno ricostruiti, tra i quali la cattedrale. 1640 Termina il dominio spagnolo. Sale al trono Giovanni IV duca di Braganza. 1580 Il Portogallo cade sotto il dominio di Filippo II di Spagna.

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Lisbona tesori da collezione Il convento della Madre de Deus (fondato nel XVI secolo, rifatto nel XVIII) ospita il Museo dell’Azulejo, le tipiche maioliche decorative da parete a figure blu prodotte in Portogallo, di cui sono esposti esemplari che datano dal XV secolo a oggi, tra cui il pannello lungo quasi 40 m che rappresenta Lisbona prima del terremoto del 1755. Il Museo Nazionale di Arte Antica espone dipinti, sculture, e altre opere d’arte prodotte dal XII al XIX secolo, tra cui il Polittico di San Vincenzo

A sinistra ritratto di Enrico il Navigatore (la figura sulla destra, in abito scuro, in atteggiamento di preghiera), protagonista del periodo delle scoperte portoghesi. Polittico di S. Vincenzo, Nuño Gonçalves, XV sec. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga. In basso, sulle due pagine il chiostro del Mosteiro dos Jerónimos.

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di Nuño Gonçalves, il piú celebrato tra i pittori portoghesi che trasse ispirazione dalla scuola fiamminga, e le Tentazioni di Sant’Antonio, vero e proprio rompicapo figurativo dipinto da Hieronymus Bosch nel 1505-1506. La collezione del Museo Calouste Gulbenkian raccolta dall’omonimo petroliere e mecenate armeno nel secolo scorso, infine, conta 6000 opere che documentano l’arte greca e romana, e tutte le principali epoche di quella occidentale e orientale.

Visigoti, nel V secolo, su un’altura in cui sono stati rinvenuti resti della città romana, pertinenti al proscenio di un teatro (I secolo). Trasformato in fortezza dai Mori nel IX secolo, fu, tra il XIV e il XVI secolo, residenza dei sovrani portoghesi; oggi costituisce lo scenario delle passeggiate domenicali dei Lusitani. Composto da due cerchie murarie (la prima cinge i giardini pubblici, la seconda l’area dell’antica citta-

della), conserva al suo interno una fortezza quadrangolare protetta da dieci torri. Sul versante opposto della collina è la chiesa di S. Vicente de Fora, fatta costruire da don Alfonso Henriquez (1147) e piú tardi, nel 1582, completamente rifatta dagli architetti Juan Herrera e Filipe Terzi. La visita al convento comprende le cisterne romaniche e il chiostro cinquecentesco, voluto da Giovanni III. In un ambiente al pianterreno, nel

In alto il sepolcro di Luis Vaz de Camões (1524-1580), uno dei maggiori poeti portoghesi della storia, nella chiesa di S. Maria.

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Lisbona XIX secolo, fu allestito il pantheon della casa di Braganza, per volere del re Fernando II, che vi fece trasferire le sepolture dei suoi avi, fino ad allora sparse in altri luoghi della città.

un’impresa epica A Lisbona tutto sembra portare il suo nome, persino il prodigioso ponte sul Tago (18 km, di cui 10 sospesi sull’acqua) e la torre simbolo dell’iper-moderno quartiere sorto per ospitare l’Esposizione universale nel 1998, ma chi era Vasco da Gama? Nato da nobile famiglia nel 1469, guidò la spedizione che doveva scoprire la via per giungere alle Indie circumnavigando l’Africa: partito il 25 marzo del 1497 da Belém, giunse il 18 maggio 1498 a Calicut, ma fu ben presto costretto a fare ritorno in patria dai mercanti arabi che non vedevano di buon occhio la presenza della concorrenza portoghese. Il rientro in Portogallo fu comunque carico di onori per il navigatore, che tornò a Conchin per fronteggiare disordini anti-portoghesi nel 1502 e poi nel 1524(da questa seconda missione non fece ritorno).

Una decorazione sovrabbondante

In alto ritratto del grande navigatore portoghese Vasco da Gama. XVI sec. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga.

La scoperta della Via delle Indie fu celebrata anche con la costruzione del Mosteiro dos Jerónimos 76

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Scendendo per i ripidi vicoli rivolti verso il Tago si giunge alla cattedrale, Sé in portoghese, risalente al XII secolo, ma ricostruita in maniera radicale dopo il sisma del 1755. Sulla facciata due massicce torri inquadrano un profondo portale, da cui si accede all’interno, che ha mantenuto il severo aspetto romanico originario, mentre il chiostro trecentesco dell’annesso convento ha forme gotico-borgognone. Proseguendo verso il fiume, si giunge alla chiesa della Conceiçao Velha, che conserva un bel portale in stile manuelino – caratterizzato da una decorazione sovrabbondante, la cui fioritura si colloca tra gotico e rinascimento –, e poi alla praça do Comércio, fino al 1755 affaccio sul Tago del Paço da Ribeira, il grande palazzo voluto da Manuel I, che, dopo il terremoto, si decise di non riedificare per lasciare spazio a una piazza, troppo ampia perché divenisse un salotto cittadino. Tuffandosi nelle ampie strade pombaline, ordinatamente dispiegate alle spalle della piazza, si arriva all’elevador di Santa Justa, ascensore che porta la firma di un allievo di Gustave Eiffel, Raoul de Mesnier de Ponsard. In pochi minuti si raggiunge la sommità, potendo godere di un ampio panorama della città e arrivare alla chiesa do Carmo. Costruita nel 1389 per iniziativa del conestabile Nuño Álvares Pereira, si presenta oggi cosí come è stata ridotta dal terremoto del 1755: una facciata dà accesso alle navate, scandite da alti archi acuti a cielo aperto. Un luogo davvero suggestivo, al cui interno è stato allestito un museo archeologico che espone frammenti architettonici e sarcofagi medievali provenienti da diversi edifici. Spostandosi verso occidente lungo il Tago, a bordo di treni carichi in estate di bagnanti diretti alle spiagge cittadine, si raggiunge il quartiere di Belém (Betlemme), uno dei piú antichi di Lisbona, i cui monumenti ne sono il simbolo universale, scampato miracolosamente al terremoto del 1755. Qui si possono ammirare due capolavori dello stile manuelino, classificati dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale dell’Umanità: il


Mosteiro dos Jerónimos e la Torre di Belém. Il primo fu voluto da re Manuel I nel 1502 per celebrare la scoperta della Via delle Indie a opera di Vasco da Gama, e costruito su progetto di Diogo Boytac. Ultimato alla fine del secolo, ha ospitato i monaci dell’Ordine di S. Girolamo fino al 1833, quando, all’indomani del suo scioglimento, fu adibito a scuola e orfanotrofio. L’edificio rivolge verso l’ampio piazzale che dà sul fiume la fronte laterale, un lunghissimo prospetto candido su cui si apre lo splendido portale della chiesa di S. Maria, capolavoro di Boytac. All’interno oltre alle tombe di Vasco da Gama e di Luís de Camões, ci sono quelle dello stesso Manuel I e di Giovanni III e delle rispettive consorti. Della navata centrale stupisce l’altezza dei pilastri e delle volte, animate da una fitta rete di nervature. Altro capolavoro è il chiostro, quadrato e con due ordini di bifore, le cui partiture architettoniche sono decorate con motivi vegetali, animali e mostruosi. Uno spazio di un candore abbagliante e di grande serenità, nel quale ha trovato sepoltura anche Fernando Pessoa. È visitabile solo su appuntamento, infine, la cappella di São Jeronimo, costruita nei possedimenti del monastero da Boytac e portata a termine da Rodrigues Afonso nel 1514. In netta contrapposizione al resto del complesso, questa piccola cappella edificata su un’altura si presenta come un compatto blocco quadrangolare, animato da pochissimi elementi decorativi, come l’arco trionfale lobato e le membrature delle volte.

Verso terre lontane

Nei pressi del monastero, su un isolotto nel fiume Tago, il sovrano fece erigere la Torre di Belém, su progetto di Francisco de Arruda. Le dimensioni ridotte e la sagoma che ricorda quella di una nave non fanno onore alla sua importante funzione di punto d’avvistamento nella foce del fiume prima, e di prigione poi. A un interno piuttosto scabro fa da contraltare la ricchezza decorativa dei paramenti esterni, in cui lo stile manuelino ha lasciato una delle sue testimonianze maggiori, distribuendo ovunque simboli cari al sovrano, come le sfere armillari e le croci dell’Ordine militare di Cristo. Da notare, nel baluardo rivolto a ovest, una testa di rinoceronte, segno dei contatti che i Portoghesi avevano con terre molto lontane. Poco lontano, l’epopea portoghese sui mari ha avuto una massiccia celebrazione nel Padrão dos Descobrimentos (Monumento agli scopritori) del 1960: la prua di una caravella stilizzata è fiancheggiata da Portoghesi illustri, come Enrico il Navigatore, Vasco da Gama, il poeta Camões e molti altri, che hanno portato nel mondo il nome di questo estremo lembo d’Europa.

In alto uno scorcio del chiostro del Mosteiro dos Jerónimos, costruito all’inizio del Cinquecento per celebrare l’impresa di Vasco da Gama, che aveva scoperto la via marittima per l’India. Nella pagina accanto, in basso mappa navale del cartografo João Texeira Albernaz. XVII sec. Lisbona, Archivio Nazionale.

Dove e quando castello di São Jorge Rua de Santa Cruz (ingresso) Orario mar-ott, 9,00-21,00; nov-feb, 9,00-18,00 Info castelodesaojorge.pt (info anche in italiano) Mosteiro dos JerÓnimos Praça do Imperío Orario ott-mag: ma-do, 10,00-17,30; mag-set: ma-do, 10,00-18,30; chiuso lunedí e 1° gennaio, Domenica di Pasqua, 1° maggio e 25 dicembre Info mosteirojeronimos.pt (info anche in inglese) torre di belém Praça do Imperío Orario ott-mag: ma-do, 10,00-17,30; mag-set: ma-do, 10,00-18,30; chiuso lunedí e 1° gennaio, Domenica di Pasqua, 1° maggio e 25 dicembre Info torrebelem.pt (info anche in inglese)

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UNGHERIA Kranj Lubiana SLOVENIA

Turda Timisoara

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ROMANIA

CROAZIA

Penisola balcanica

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Preslav Novi Pazar Stagno Trebinje Veliko Tarnovo KOSOVO Sofia Dubrovnik Podgorica Cattaro BULGARIA Cettigne Skopje Croia MACEDONIA Durazzo Prilep Bitola Ocrida GRECIA ALBANIA

ll’inizio del Medioevo l’arrivo degli Slavi nella regione balcanica coincise con la nascita dei regni di Serbia, Croazia, Bosnia e Bulgaria, che, in seguito, monopolizzarono il destino politico di una penisola soggetta in gran parte all’influenza bizantina. La Serbia ebbe un ruolo preponderante negli equilibri strategici fin da quando era costituita da ben sei distretti tribali. In quel periodo le sedi del potere si trovavano a Stari Ras (nei pressi dell’odierna Novi Pazar), Podgorica (oggi in Montenegro), Trebinje, Stagno e Cattaro (queste ultime due divenute poi croate). Ma a costituire il futuro grande Stato furono i distretti di Zeta e Rascia, che, con le armi, si contesero il dominio sul primo regno serbo, oscillando tra la fedeltà alla Chiesa di Roma e l’adesione al cristianesimo di rito orientale. Divenuti ortodossi anche per opporsi al vicino e minaccioso regno cattolico di Bulgaria, i Serbi, si legarono per naturale contiguità politico-religiosa all’impero bizantino. Nel XII secolo, però, con l’ascesa al trono di Stefano Nemanja, la giovane monarchia riuscí a conquistare una sostanziale indipendenza da Costantinopoli e dalle sue autorità spirituali. Nel Trecento la Serbia assunse le proporzioni di un impero e la sua capitale risultava essere Skopje (in seguito annessa dalla Macedonia). Le difese del vasto territorio non furono, tuttavia, in grado di arginare gli Ottomani, i qua-


li, trionfando nella battaglia della Piana dei Merli (1389), dilagarono nei Balcani. Sopravvisse a nord solo un piccolo Stato serbo, con capitale Smederevo, ma, alla fine del Medioevo cadde anch’esso sotto il dominio turco. Il Montenegro, annesso nel XII secolo al grande regno serbo, subí la dominazione veneziana e fu uno degli ultimi territori balcanici ad arrendersi agli Ottomani. Cettigne, prima dell’odierna capitale Podgorica, rappresentò per molti anni il centro del governo montenegrino. Occupata dagli Ostrogoti agli inizi dell’Età di Mezzo, la Croazia venne successivamente inglobata nell’impero bizantino. Nel VII secolo un gruppo di Slavi si stanziò nelle regioni della Dalmazia e della Lika, stabilendo i propri centri di potere a Nona e Tenin. Nel IX secolo il territorio dell’odierna repubblica fu diviso in due ducati: la Croazia pannonica (con capitale Sisak), sotto la dominazione franca, e quella dalmata (con centro politico a Nin e nell’antica Clissa). L’influenza franca risultò piú profonda di quella bizantina e indusse la popolazione ad abbracciare la fede cattolica. Nel 925 nacque il primo regno unitario per opera del sovrano Tomislav I, sotto il quale la Croazia divenne il piú potente Stato dei Balcani. Ebbe come capitali Salona, Tenin e Zaravecchia e visse il suo declino solo alla fine dell’XI secolo, in seguito a violente faide interne. Ne trassero vantaggio i sovrani ungheresi che si impossessarono del vicino regno, separando la Dalmazia dalla piú interna Slavonia. Nel Basso Medioevo furono capitali economiche della Croazia Ragusa (l’odierna Dubrovnik) e Zara, che, grazie anche al «protettorato» della Repubblica di Venezia, dettarono legge sull’Adriatico. Contesa da Croati, Serbi e Ungheresi, la Bosnia nel XII secolo divenne un banato (piccola entità statale indipendente), ma la sua autonomia fu di breve durata. In seguito i sovrani d’Ungheria la annetterono ai propri possedimenti, mentre nella regione andava diffondendosi l’eresia dei bogomili. La Bosnia ebbe un suo regno nel XIV secolo, con il potente sovrano Tvrtko I, e allargò i propri domini a scapito di un impero serbo ormai in declino. Kraljeva Sutjeska (oggi nel comune di Kakanj) e Bobovac (nei pressi di Vareš) erano le sedi del potere amministrativo. Nel XIV secolo, di fronte alla minaccia turca, i Bosniaci si allearono con i Serbi, combattendo nella Piana dei Merli. I vincitori ottomani collocarono la propria roccaforte prima a Vrhbosna (l’odierna Sarajevo), poi a Banja Luka e, infine, a Travnik. In quegli anni molti Bosniaci cristiani, privati dei loro diritti, si convertirono all’islamismo nella speranza di ottenere piena cittadinanza nella loro terra. La Slovenia ha una storia diversa rispetto alle contigue Serbia, Croazia e Bosnia. Dominio franco, il territorio divenne nell’VIII secolo un margraviato indipendente, con capitale Kranj. Successivamente la regione entrò nell’orbita del casato austriaco dei Babenberg che stabilirono una delle loro residenze a Lubiana. La Bulgaria incise profondamente nella storia medievale dei Balcani. Il suo primo impero, le cui roccaforti erano Preslav e Pliska (nei pressi del comune di Plískov), divenne cosí potente da minacciare Costantinopoli. Nell’XI secolo, però, i Bulgari, sconfitti dalla Rus’ di Kiev e da Bisanzio, persero momentaneamente la loro autonomia. La recuperarono un secolo piú tardi, dando vita al secondo impero la cui capitale si trovava a Veliko Tarnovo. In seguito alla pressione ottomana sui confini, si formarono tre Stati con sedi a Vidin, Veliko Tarnovo e Karvuna. Solo durante la dominazione turca Sofia assunse di fatto il ruolo di città guida della Bulgaria. Gli Slavi stanziati nella zona dell’odierna Repubblica di Macedonia erano chiamati sklavini da Bisanzio, e con grandi difficoltà Costantinopoli riuscí ad assoggettarli alla propria giurisdizione. Nel X secolo il territorio fu occupato dai sovrani bulgari che si stabilirono a Ocrida. Nel XIV secolo la Macedonia fece parte del grande impero serbo e in seguito fu preda di governatori indipendenti, i Mrnjavcevic, che elessero Prilep loro centro politico. Nel periodo dell’invasione ottomana, invece, fu Bitola, insieme a Skopje, a rivestire il ruolo di capitale della provincia turca. I luoghi del potere del principato medievale di Albania, invece, furono Durazzo e Croia.

In alto icona che raffigura il Cristo Pantocratore ortodosso. Jovan Mitropolit, 1384-93. Skopje (Macedonia), Museo d’Arte. Nella pagina accanto veduta di Travnik (Bosnia-Erzegovina), che, alla fine del Medioevo divenne una delle capitali ottomane nella penisola balcanica.

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Ragusa-Dubrovnik (Croazia). Veduta del porto e della cinta muraria. Nel Medioevo la città era la capitale economica dei Balcani e veniva considerata come una sorta di «quinta repubblica marinara», dopo Genova, Venezia, Amalfi e Pisa.

La quinta repubblica marinara di Francesco Colotta

Definita «Atene dell’Adriatico» da Niccolò Machiavelli, Ragusa, l’odierna Dubrovnik, seppe giostrarsi nel delicato scenario politico balcanico e sfruttare al meglio le potenzialità economiche assicurate dalla sua felice posizione geografica e dal traffico dell’argento



penisola balcanica

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Dubrovnik

a libertà non si vende per tutto l’oro del mondo» si legge sul forte Lovrijenac che svetta su uno sperone alto 37 m a presidio delle mura di cinta di Dubrovnik (nome croato di Ragusa). La bella e facoltosa «Atene dell’Adriatico», come amava definirla Machiavelli, combatté contro molti invasori e poté spesso avvalersi di protezioni miracolose. Secondo la leggenda, nell’VIII secolo, fu difesa da Orlando, l’eroe della Chanson, che sconfisse e uccise l’invasore saraceno Spucente considerato invincibile. Qualche anno dopo si prodigarono in prima persona l’imperatore bizantino Michele III e l’ammiraglio di punta di Costantinopoli, Niceta Orifa, per salvarla da una nuova invasione islamica. La tradizione narra, poi, che nel 971 l’anima del martire armeno san Biagio vegliò sul borgo nell’imminenza di un’incursione veneziana, bloccandola. Da quel momento l’immagine del religioso, eletto patrono, venne impressa un po’ ovunque, nelle fortezze, nelle porte d’accesso all’abitato e nella bandiera comunale, come del resto ancora oggi. Anche in epoca recente, Dubrovnik riuscí a sopravvivere a furiosi attacchi militari. Scampata a due guerre mondiali, fu investita in pieno dal conflitto dell’ex Jugoslavia per la sua posizione strategica sulla linea del fronte: nel 1991 migliaia di granate e missili teleguidati serbo-montenegrini piovvero sul capoluogo dalmata, ma non lo fecero capitolare malgrado il pesante bilancio dei danni.

In fuga dagli Avari

Non appare un caso che il destino abbia spesso ruotato intorno a successi difensivi contro gli assedianti. Secondo le cronache locali, infatti, la città fu concepita proprio come luogo fortificato

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architetti italiani per la difesa della città Nell’Età di Mezzo Ragusa si dotò di un sistema di difesa molto efficace. La sua cinta muraria copre ancora oggi un perimetro di ben 2 km ed è sormontata da torri circolari, quadrangolari e da alcune fortezze, opere in gran parte concepite da architetti italiani. Nell’entroterra le mura sono piú spesse e comprendono anche alcune sezioni oblique, perché nel Medioevo i Ragusei temevano gli attacchi dalla Serbia e dalla Bosnia piú di quelli via mare.

Qui sotto particolare di uno dei pannelli del Trittico di Nikola Božidarevic (1460-1517), che raffigura il protettore della città, san Biagio (a sinistra), affiancato da san Paolo Apostolo. 1485. Dubrovnik, Museo dei Domenicani.

In basso un tratto delle possenti mura dell’antica Ragusa, tra le quali si erge il profilo della torre Minceta, punto piú elevato dell’intero sistema di fortificazioni.


Pianta della città di Dubrovnik con l’indicazione di alcuni dei suoi monumenti piú importanti. 7

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1. Torre Minceta Di forma circolare, è il punto piú alto delle fortificazioni. XIV-XV sec. 2. Porta Pile È la porta principale della città murata e risale al XVI sec. Vi si accede attraverso un ponte quattrocentesco. 3. Forte Bokar Posto a guardia della città sul lato sud-ovest riporta sulla sua struttura le iniziali di Cristo. Al suo interno, un museo espone armi antiche. XV sec. 4. Forte Lovrijenac Posto al di fuori della cinta muraria, sul versante occidentale, era chiamato la «Gibilterra di Dubrovnik». Sede della guardia della Repubblica di Ragusa, resistette piú volte all’assedio dei Veneziani. XIV sec. 5. Forte di S. Giovanni Proteggeva l’accesso al vecchio porto di Ragusa e nel Medioevo fu decisivo per respingere gli attacchi dei pirati via mare. La parte piú antica del forte risale al XIV sec. 6. Forte Revelin Concepito sul versante orientale al tempo delle invasioni ottomane,

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divenne presto la fortezza piú salda della città. Sede amministrativa della Repubblica, fu costruito nel XV sec. 7. Porta Ploce È l’ingresso orientale. Nel Medioevo era l’accesso piú importante in quanto regolava il traffico di merci provenienti da est. XVI sec. 8. Fontana di Onofrio Di forma poligonale, venne progettata dall’architetto campano Onofrio della Cava, al quale si deve anche la realizzazione dell’acquedotto. 9. Colonna di Orlando Dedicata all’eroe che secondo la leggenda difese Ragusa dai Saraceni, è il simbolo della città. 10. Palazzo dei Rettori Disegnato anch’esso da Onofrio della Cava, è stato piú volte rimaneggiato e nel suo aspetto attuale presenta linee barocche e rococò. 11. Cattedrale dell’Assunzione Fondata nel XII sec., fu ricostruita in forme barocche nel XVII sec. 12. Convento dei Francescani Ospita una delle piú antiche biblioteche della Croazia.

per fornire riparo ad alcune popolazioni in fuga dalle ex roccaforti romane di Epidaurum (l’odierna Cavtat) e Salona, prese di mira dagli Avari. Il nucleo originario, che assunse il toponimo di Ragusa, si sviluppò su un’isola raggiungibile dalla costa attraverso un breve canale. In seguito anche sulla terraferma si popolò un insediamento chiamato, invece, Dubrovnik, che traeva il suo nome dal termine du5 brava, ossia «macchia delle querce», in riferimento agli alberi piú ricorrenti nella vegetazione del luogo. Già nel IX secolo il giovane borgo sull’isola poteva essere considerato, nei fatti, uno dei capoluoghi della Dalmazia e si piegò solo alla sovranità dell’impero bizantino, che aveva intuito la potenzialità commerciale di quell’avamposto immerso nell’Adriatico. All’inizio del Basso Medioevo i due abitati si unirono grazie a un’ingegnosa opera di interramento del piccolo canale che li divideva e oggi sopra quel lembo paludoso di costa transita la via principale del centro storico cittadino, lo Stradun.

Un groviglio di domini

Con il tempo, l’etnia slava prese il sopravvento sull’originaria componente latino-illirica degli abitanti in seguito alla breve influenza serbomontenegrina e alla ben piú profonda impronta della Croazia, che aveva esteso i propri domini su gran parte della regione dalmata. La zona di Ragusa si trovava al confine tra i principati di Zahumlje e Travunia, appartenuti in un primo momento alla Rascia (nucleo centrale della futura Grande Serbia), poi al duca croato Tomislao. Nell’XI secolo la città e i principati, a causa della mancanza di eredi diretti, passarono in dote all’alleata corona d’Ungheria. I nuovi governanti, tuttavia, concessero una sostanziale autodeterminazione ai Croati, con i quali vissero in stretto connubio fino alla prima guerra mondiale. C’era, però, un terzo incomodo: Costantinopoli, ancora influente nei destini della penisola balcanica. Seppur inserita nell’orbita politica di Bisanzio e dei monarchi magiari, Ragusa costruí da sola le sue fortune, soprattutto sul piano mercantile, stringendo alleanze proficue con potenziali concorrenti sul mare. Firmò un accordo con Molfetta nel 1148 e in un secondo momento con le ben piú potenti Ancona, Pisa e Napoli riuscendo a competere con lo strapotere veneziano sull’Adriatico. capitali del medioevo

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Dubrovnik

assistenza capillare e gratuita Ragusa vantava un sistema sanitario pubblico di grande efficienza. Le cure erano garantite a tutti gratuitamente e per migliorare la qualità del servizio venivano ingaggiati medici anche dall’estero. Se un dottore avesse preteso un pagamento per le sue prestazioni sarebbe stato privato dello stipendio. In città, inoltre, era attivo anche un orfanotrofio, tra i primi costruiti in Europa.

La stretta familiarità affaristica con le terre che sorgevano sulla sponda opposta del Mar Adriatico, le valse il soprannome postumo di «quinta repubblica marinara», dopo Genova, Amalfi, Pisa e Venezia. Il porto della città croata rappresentava uno scalo ideale per le rotte mercantili e anche un importante luogo di stoccaggio per preziose materie prime ricavate dai territori balcanici. Allo stesso modo merci provenienti

le date da ricordare Mappa di RagusaDubrovnik nel periodo rinascimentale, prima del terribile terremoto del 1667 che devastò gran parte della città. Si noti la similitudine dell’antica cinta muraria con quella odierna.

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VII sec. Fondazione della città, sotto l’influenza bizantina. Viene costruita la cattedrale, ricostruita in stile barocco dopo il terremoto del 1667. 1148 Ragusa sigla un accordo con Molfetta e, in seguito, con Ancona, Pisa e Napoli, rivaleggiando con Venezia per il controllo dell’Adriatico.

1202 Conquista di Zara da parte dei crociati. Negli anni seguenti Ragusa è dominata da Venezia. 1346 Incoronazione dell’imperatore serbo Stefano Uroš IV Dušan. 1272 Viene promulgato il Liber statutorum civitatis Ragusii, raccolta di leggi di ispirazione romana, bizantina e slava.

1358 Venezia rinuncia a gran parte dei suoi possedimenti in Dalmazia in seguito al Trattato di Zara stipulato con il Regno d’Ungheria.


dal Meridione d’Italia e dal Medio Oriente transitavano per il suo porto prima di procedere verso altre destinazioni. Nel XII secolo, con il declino di Bisanzio, sulla città si concentrarono di nuovo le mire dei Serbi di Rascia e del loro potente principe Stefano Nemanja che coltivava l’ambizione di riunire in un solo grande stato le numerose etnie slave dei Balcani. Ragusa si mostrò abile in diplomazia firmando un trattato con i turbolenti vicini ai quali serviva uno sbocco sul mare per i loro commerci. Tuttavia altri, piú insidiosi invasori si materializzarono: i Veneziani, che, all’inizio del XIII secolo, cinsero d’assedio Ragusa con una possente flotta. Attaccarono una città indebolita e spaccata dalla guerra civile tra i fedelissimi del facoltoso governatore Damian Juda, rimasto in carica nonostante la scadenza del mandato, e i suoi oppositori che lo accusavano di tirannia. Erano stati proprio i dissidenti, secondo alcune cronache, a rivolgersi alla Repubblica lagunare chiedendo un sostegno per la loro battaglia di libertà. Al despota Juda fu, poi, tesa una trappola: invitato a bordo di una galea dal patriarca veneziano di Costantinopoli, venne accerchiato e fatto prigioniero.

La fontana d’Onofrio situata in una piazza del centro storico cittadino, opera del costruttore campano Onofrio della Cava. XV sec.

modello veneziano, assunse in seguito il ruolo di guida amministrativa con ampi poteri legislativi. All’interno di queste istituzioni sedevano molti esponenti del patriziato raguseo i quali garantivano al proprio borgo natale una sostanziale autodeterminazione politica. Erano mercanti ricchissimi, ascesi al rango di aristocratici grazie alle fortune accumulate con le loro attività e costituivano di fatto un’oligarchia di tipo corporativo. La città trasse beneficio dallo strapotere commerciale dei Veneziani, come del resto la non lontana Zara, conquistata dai dogi con l’aiuto dei Crociati nel 1202. Questo ulteriore salto di qualità mercantile ebbe una notevole ricaduta anche

Venezia, la tollerante

La Serenissima non intendeva sottomettere con metodi autoritari Ragusa e inviò nella città dalmata un conte con la sua cerchia, ma senza uno stuolo di truppe armate. I Ragusei, dal canto loro, dovevano solo giurargli fedeltà e pagare un tributo ai dogi, conservando una certa libertà di azione in ambito commerciale. Con il passare degli anni il conte concesse sempre piú privilegi alla popolazione e, dalla metà del Duecento, non rappresentava piú la maggiore autorità cittadina. Accanto alla sua leadership, quasi simbolica, emersero organi di governo collegiali come il Minor Consiglio, composto da membri rigorosamente nobili, il Senato e il Maggior Consiglio che, su imitazione del

1389 Battaglia della Piana dei Merli tra esercito serbo e Ottomani. XV sec. Ragusa è all’apice dello splendore. Edificazione del Palazzo dei Rettori sulle rovine di una preesistente fortezza. É innalzata la colonna di Orlando.

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i gioielli del centro La colonna di orlando

La colonna, ovvero la statua dedicata all’eroe della Chanson de Roland, rievoca il racconto sulla miracolosa vittoria ragusea contro i Saraceni nel X secolo, ottenuta, secondo la leggenda, grazie all’intervento di Orlando. Nel Basso Medioevo il monumento divenne il simbolo dell’indipendenza della città e sopra di esso sventolava la bandiera della Repubblica. La statua di Orlando era rivolta verso levante in modo che potesse proteggere il borgo dal pericolo ottomano. In età moderna, a causa di una forte raffica di vento, la colonna cadde e venne, in seguito, rimessa in piedi in una posizione diversa. La statua di Orlando proteggeva anche i commerci cittadini e per questo la lunghezza del suo braccio venne utilizzata come unità di misura nelle attività mercantili (il «braccio raguseo», che misurava 51,2 cm).

La cattedrale palazzo dei rettori

Nel Medioevo ospitava il Minor Consiglio e alcuni uffici dell’amministrazione cittadina. Fu usato anche come arsenale. La sua ricostruzione, sulle rovine di una preesistente fortezza, risale al XV secolo e si deve all’architetto italiano Onofrio della Cava, che mise anche a punto il sistema idrico di Ragusa. Di stile tardo-gotico veneziano, nel 1463 il palazzo fu gravemente danneggiato da un’esplosione. Restaurato nel Rinascimento assunse una fisionomia barocca e rococò. Nella foto in alto ne vediamo un particolare della decorazione.

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Secondo una leggenda, nel XII secolo, il re inglese Riccardo Cuor di Leone contribuí in modo sostanzioso alla ricostruzione della cattedrale romanica di Ragusa, dopo essere scampato a un naufragio proprio di fronte alle coste della città dalmata. In precedenza la grande chiesa dedicata all’Assunzione della Vergine aveva uno stile bizantino e la sua originaria edificazione viene datata comunemente intorno al VII secolo. Dopo un devastante terremoto verificatosi nel 1667, la cattedrale venne ricostruita in forme barocche. Al suo interno sono conservate le reliquie del patrono della città, san Biagio.


sul piano costituzionale con il varo del Liber statutorum civitatis Ragusii del 1272, una raccolta di leggi promulgata proprio su iniziativa veneziana che integrava le consuetudini di derivazione romana, bizantina e slava con le norme ricavate dalla tradizione giuridica italiana. I rapporti con gli eterni rivali serbi migliorarono nel periodo della loro massima espansione, ossia nel corso dell’epoca di Stefano Uroš IV Dušan, incoronato imperatore nel 1346. L’accordo con il potentissimo monarca dimostrava che la città era in grado di gestire da sola, senza l’ombrello protettivo di Venezia, le delicate relazioni con chi poteva insidiarla. Quello con i Serbi non si profilava come un rapporto di buon vicinato ma come un vero e proprio accordo di partnership economica dal quale entrambi i contraenti avrebbero ricavato grandi profitti.

L’affare delle miniere

Secondo i cronisti medievali, Ragusa era divenuta cosí ricca da vanificare ogni possibile rivolta sociale

Nel XIV secolo, con l’esaurirsi dell’argento nelle miniere europee, la Serbia, insieme alla Bosnia, si ritrovò a detenerne il monopolio. Ragusa, che da tempo aveva fiutato l’affare, procedeva a commercializzare le risorse estrattive dei vicini attraverso il suo porto. Il conseguente arricchimento della città attirò immigrati da ogni parte d’Europa decisi a stabilirsi in un avamposto che spadroneggiava sull’Adriatico. A Ragusa, sostengono alcuni storici, circolava all’epoca talmente tanto danaro da rendere quasi impossibile una qualsivoglia rivolta sociale. I piú poveri, infatti, si accontentavano dei dignitosi compensi percepiti, mentre i nobili non creavano barriere di classe accettando di vivere a poca distanza dai luoghi frequentati dai meno abbienti. Nel 1358, dopo la firma del trattato di Zara, in Dalmazia tornarono a dettare legge gli Ungheresi, a scapito di Venezia. La separazione tra la Serenissima e Ragusa avvenne in modo pacifico e i luogotenenti dei dogi furono invitati a lasciare le coste dalmate, senza subire violenze. Anche la dominazione magiara, come nel caso del «protettorato» veneziano, non oppresse la città. I nuovi padroni, non potendo contare sull’appoggio di un loro partito in seno al patriziato raguseo, si limitavano a controllare la situazione da lontano. I sovrani ungheresi si riservarono il potere di avallare l’elezione del conte ma, dopo qualche anno, rinunciarono anche a questo diritto di veto. Si accontentarono, pertanto, soltanto di incassare qualche tributo pretendendo un aiuto militare in caso di particolari impegni bellici. In quel periodo Ragusa divenne una repubblica pienamente autonoma, con una struttura istituzionale simile a quella dei Comuni italiani. E la totale autogestione politica impose il consocapitali del medioevo

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penisola balcanica

Dubrovnik non seppe opporre una degna resistenza. I rettori, tuttavia, non si arresero e chiamarono i cittadini alla mobilitazione, promettendo una taglia di ben 15 000 ducati d’oro per la testa di Vukcic. Ancora una volta, però, i Ragusei giocarono d’astuzia, alleandosi con un gruppo di ribelli bosniaci, che accusavano il loro condottiero di comportamento morale indegno. L’herceg, infatti, era stato sorpreso insieme alla giovane fidanzata senese del figlio Vladislao e il fatto aveva suscitato enorme scandalo. Le ostilità, alla fine, cessarono solo in coincidenza della stipula di un trattato di pace ad alto livello, rispetto al quale i contendenti locali non avevano avuto la minima voce in capitolo: ad accordarsi furono gli Ottomani e gli Ungheresi, costringendo Vukcic a restituire i territori conquistati.

lidamento delle difese militari intorno all’abitato e, in particolare, nel porto. La maturazione politica della repubblica poté dirsi veramente compiuta con il varo di normative volte a scongiurare i rischi di dispotismo. Il nuovo assetto di governo prevedeva al vertice non piú la sola figura del conte, ma quella di tre rettori coadiuvati dal Minor e dal Maggior Consiglio. Altre disposizioni limitavano i poteri dell’arcivescovo, che doveva tassativamente essere scelto tra i non residenti, ossia tra chi non aveva radicati interessi in città. Ragusa visse il suo periodo di maggior splendore nel XV secolo e riuscí per un periodo a fronteggiare con successo il ciclone ottomano che andava abbattendosi sull’intera penisola balcanica. I Serbi avevano capitolato nella battaglia della Piana dei Merli, nel 1389, e anche i Bosniaci avevano dovuto piegare la testa. La capitale dalmata, invece, era riuscita ancora una volta a neutralizzare potenziali insidie militari con abili mosse diplomatiche. I Turchi pretesero il pagamento di un tributo troppo esoso in cambio della pace. I Ragusei, pertanto, per evitare di essere taglieggiati, puntarono a stipulare un accordo piú stretto, quasi un patto di amicizia, con i musulmani, un’eventualità che l’Occidente cristiano non avrebbe certo gradito. Dopo lunghe trattative, la città, riuscí a ottenere un accordo che, tuttavia, si rivelò conveniente per entrambe le parti. Per gli Ottomani, che avevano bisogno di un polo mercantile sull’Adriatico nella loro guerra contro Venezia, e per Ragusa, che necessitava di una protezione politico-militare per i suoi fiorenti affari di esportazione.

Un equilibrio difficile

Ragusa riuscí a mantenersi in equilibrio tra la necessità di non indispettire gli Ottomani e la tendenza a favorire movimenti di liberazione contro i Turchi. Anche con l’ascesa del durissimo Maometto II la città della Dalmazia conservò una sostanziale autonomia di governo al prezzo di soli 1 500 ducati l’anno, ma nello stesso tempo diede ospitalità al protagonista della resistenza albanese contro gli islamici, Giorgio Castriota Scanderbeg. Le fortune commerciali continuavano a tenere Ragusa in una posizione privilegiata rispetto alle altre città balcaniche. Alcuni suoi mercanti detenevano la piena proprietà delle miniere serbe, nelle quali alcuni esperti tedeschi provenienti dall’Ungheria avevano impiantato nuove e piú efficienti tecniche di estrazione. L’argento rappresentava ancora il fiore all’occhiello della produzione, ma l’inasprimento delle misure di controllo sui traffici mercantili da parte degli Ottomani e la scoperta di giacimenti nel Nuovo Mondo esplorato da Colombo comportarono un decremento del fatturato per le miniere balcaniche all’inizio del Rinascimento. E per Ragusa fu l’inizio del declino.

Le lotte con l’herceg

Gli Ottomani, come del resto i Veneziani qualche secolo prima, lasciarono ai Ragusei la libera gestione dei commerci nelle zone di Bosnia e Serbia. La situazione nell’entroterra balcanico, però, appariva molto piú complessa rispetto al passato. A creare problemi alla repubblica dalmata non erano piú i Serbi, ma il duca bosniaco (herceg) Stjepan Vukcic Kosaca che nutriva l’ambizione di conquistare il monopolio nel traffico di sale, fino ad allora detenuto proprio da Ragusa. Per attuare questo proposito, il nobile impose ai propri sudditi di attingere direttamente alle saline del centro di Herceg Novi, in Bosnia, dove si potevano trovare in abbondanza anche altri prodotti di prima necessità come l’olio, il vino, il grano e il ferro. Vukcic, poi, dichiarò guerra su tutti i fronti a Ragusa, forte di uno stretto rapporto di vassallaggio con gli Ottomani, dei quali si riteneva interlocutore privilegiato. Il capo bosniaco attaccò la repubblica che, presa alla sprovvista, 88

capitali del medioevo

Dove e quando circuito delle mura Gunduliceva poljana, 6 Orario apr-mag: 8,00-18,30; giu-lug: 8,00-19,30; ago-set: 8,00-18,30; ott: 8,00-17,30; nov-mar: 9,00-15,00 Info visit.dubrovnik.hr (info anche in lingua inglese) palazzo dei rettori Pred dvorom 3 Orario invernale: tutti i giorni, 9,00-13,00; estivo: tutti i giorni, 9,00-13,00 e 16,00-17,00 Info visit.dubrovnik.hr (info anche in lingua inglese)


una «terza roma» per il secondo impero bulgaro di Francesco Colotta

«Q

uando guardo questa città inverosimile, impossibile, ho la sensazione di una visione che inganna gli occhi»: cosí il poeta Ivan Vazov (1850-1921) descriveva Veliko Tarnovo, la capitale del secondo impero bulgaro, che nel XIII secolo raggiunse l’apice della sua parabola politica. Era soprannominata «la regina», non solo per il suo patrimonio architettonico, ma anche per l’incantevole scenografia naturale nella quale si trovava immersa. Sorto in prossimità del punto in cui un’affluente del Danubio – il fiume Jantra – compie ben sette meandri, il borgo, si sviluppò sulle attigue colline. Su una di quelle alture, la Tsarevets, svettano ancora i resti del palazzo reale, simbolo dell’autorità degli imperatori medievali nel tempo in cui i domini della Bulgaria si estendevano su gran parte dei Balcani. Quella strategica posizione apparve propizia fin dalla preistoria. Sulla collina di Tsarevets si stanziarono tribú trace che presero possesso anche della vicina altura di Trapezitsa. Nel VI secolo d.C. il sito divenne una vera e propria cittadella per opera degli imperatori bizantini che allora detenevano il controllo di gran parte del territorio bulgaro. Per la futura grande capitale il Medioevo fu una stagione sontuosa e spesso turbolenta, nel segno della guerra contro Bisanzio, che aveva fatto da preludio alla nascita del primo impero bulgaro. Nel IX e X secolo questa nuova entità statale risultava molto estesa, rivaleggiando, in quanto a dimensione geografica, con i piú potenti Stati balcanici. La città di Preslav ne rappresentava il cuore pulsante. All’inizio dell’XI secolo Costantinopoli era riuscita a sottomettere nuovamente le regioni dei Bulgari, ma gli oppressi, dopo circa sessant’anni, si ribellarono. Prologo della guerra di liberazione fu la missione diplomatica a Bisanzio di due fratelli di origine cumana, Teodoro e Asen, proprietari di diversi territori nella zona dell’odierna

Veliko Tarnovo (Bulgaria). La collina di Tsarevets, con i resti delle fortificazioni e la cattedrale dell’Ascensione di Dio, memorie della grandezza della città nell’Età di Mezzo, quando era la capitale del secondo impero bulgaro (XII-XIV sec.). Tarnovo. Nel 1185 i visitatori chiesero al basileus Isacco II Angelo la concessione della sovranità sui loro possedimenti, offrendo come contropartita la fornitura di un certo numero di armati. Il monarca rifiutò la proposta e, in seguito, impose tasse molto gravose alle popolazioni locali. Inevitabilmente, all’interno del distretto occupato dai fratelli, scoppiò una rivolta e alla protesta si unirono numerosi allevatori valacchi. Per incitare gli abitanti della zona alla lotta, Teodoro e Asen costruirono una chiesa nei pressi di Tarnovo e la dedicarono a san Demetrio di Salonicco, rivelando che il martire greco condivideva la loro ribellione. un’autonomia virtuale A capo dell’insurrezione si pose Teodoro, il quale, proclamato in seguito re dai suoi seguaci, stabilí a Tarnovo la sua residenza ufficiale, proprio mentre le truppe di Isacco II Angelo occupavano le aree in mano ai rivoltosi. La superiorità militare bizantina risultò, alla fine, schiacciante e il leader della sommossa fu costretto a scendere a patti con il nemico accettando il mero ruolo di governatore. Asen, al contrario, non accettò le condizioni imposte dalla tregua e decise di proseguire da solo la rivolta. Anch’egli, tuttavia, si trovò obbligato a siglare un accordo con l’imperatore bizantino ottenendo in dote la Mesia superiore, che comprendeva Tarnovo. Si trattava, anche in questo caso, di un autonomia soltanto virtuale. L’occasione di conquistare una piena indipendenza giunse durante la quarta crociata (1202-1204) che stava impegnando a fondo i soldati di Bisanzio. Kalojan, ereditato il ruolo di condottiero, capeggiò una nuova rivolta e sconfisse le truppe di Costantinopoli, con la

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penisola balcanica

Tarnovo

tre colori per una reggia Tre entrate consecutive, ciascuna delle quali difesa da una torre e da un ponte levatoio, guidavano al cuore della struttura. Al centro della collina, i resti archeologici hanno permesso una restituzione del Palazzo Reale vero e proprio, ricostruito nel disegno. Concepito come castello feudale, col tempo diventò il cuore di un piú grande complesso fortificato trasformandosi in sontuosa residenza reale. Al XIII secolo, sotto Ivan II Asen, data l’assetto definitivo di questo insieme fortificato, le cui costruzioni erano poste su tre differenti piani. Le costruzioni palaziali risentivano della tecnica costruttiva dei coevi palazzi costantinopolitani di epoca paleologa, con i blocchi di calcare alternati a mattoni, a formare la tipica decorazione bianco-giallo-rossa di impronta romano-orientale.

collaborazione dei cavalieri cumani. Il vincitore si sentiva ormai a tutti gli effetti il nuovo zar della Bulgaria e scrisse a papa Innocenzo III chiedendo il riconoscimento ufficiale della Chiesa. Per evitare ritorsioni, il pontefice provvide all’investitura solo dopo il passaggio di Costantinopoli in mano latina, nel 1204. cattolici in guerra Tuttavia, il matrimonio tra Roma e Tarnovo non salvò la giovane capitale dall’attacco dei crociati, i quali rivendicavano gli antichi domini di Costantinopoli. La guerra civile tra cattolici premiò Kalojan che con le sue truppe prese possesso della Tracia e di una cospicua porzione del territorio macedone. Nel 1205, ad Adrianopoli, lo zar sconfisse definitivamente l’esercito della Bisanzio latina, guidato da re Baldovino, e diresse il suo espansionismo verso l’Ungheria e la Serbia.

sala del trono

Nell’angolo sud del complesso era situata la grande sala del trono (18 x 32 m).

edifici di rappresentanza Sul secondo livello,

si elevavano gli edifici di rappresentanza, la cappella di palazzo e la chiesa della S. Parasceve.

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messe e incoronazioni La piú grande chiesa della Bulgaria medievale

Didasorge da scrivere sulla collina di Carevec, risale al XIII secolo Aquisgrana (Germania). ed è dedicata all’Ascensione di Cristo. Distrutta dagli Ottomani, fu ricostruita nel 1980. Un altro La splendida cattedrale religioso simbolo dell’impero di S.monumento Maria costruita bulgaro è lavolere chiesa di S. Demetrio di Salonicco nell’VIII sec. per (XII secolo; nellanefoto qui accanto), dove nel di Carlo Magno, che venivano incoronati gli zar. La chiesa feceMedioevo uno dei simboli del dei suo Quaranta impero. FinMartiri, infine, fu edificata nel 1230 per celebrare dall’Alto Medioevo una vittoria militare del sovrano Ivan Asen IIcome contro il despotato d’Epiro. Al suo venne utilizzata interno, nel 1908, sede della cerimonia fu proclamata l’indipendenza della Bulgaria dopo secoli di dominio turco. di incoronazione dei re tedeschi. Il nucleo piú antico dell’edificio, la rinomata Cappella Palatina, conserva ancora in buona parte la fisionomia originaria.

ingresso

L’entrata principale era situata a nord, affiancata dai quartieri delle truppe e delle guardie e dalle cisterne dell’acqua.

Il massimo splendore del secondo impero bulgaro e della sua capitale si registrò con l’avvento sul trono di Ivan Asen II. Il sovrano, che si trovava in esilio, tornò in patria nel 1218 e prese il potere con un colpo di Stato. La sua linea politica si rivelò in genere pacifica puntando su alleanze strategiche, soprattutto con il regno d’Ungheria e con i vecchi nemici bizantini che avevano trovato rifugio a Nicea. Quando, poi, ricorse alle armi, compí un capolavoro di tattica militare, sconfiggendo nel 1230 a Klokotnica l’esercito del despotato d’Epiro, malgrado l’inferiorità numerica. In quel periodo la Bulgaria raggiunse l’apice del potere politico e la sua egemonia fu impressa nei sontuosi monumenti di Tarnovo. Nella collina di Trapezitsa si stabilí gran parte del ceto nobiliare e sorsero decine di chiese, i cui resti sono in gran parte tornati alla luce insieme alle strutture di numerose abitazioni limitrofe. «bella, grande e difesa da mura» La morte di Ivan Asen II e la rinascita di Bisanzio intaccarono la stabilità dell’impero bulgaro, minato anche da problemi interni. Nel 1277, nella capitale, i contadini organizzarono una rivolta e, guidati dal «porcaro» Ivajlo, uccisero il nuovo re Costantino Asen, impadronendosi della città. Furono, poi, i Mongoli a prendere il controllo del territorio. Era il tramonto di un’epoca? Secondo il chierico slavo Gregorio Tsamblak, Tarnovo, nel XIV secolo, pur se in parabola discendente, appariva sempre «bella, grande e difesa da mura, con una popolazione tra i 12 000 e i 15 000 abitanti», quasi una «terza Roma». Un’altra invasione, quella ottomana del luglio 1393, ne sancí il tramonto definitivo. Tutti i cittadini illustri e i boiardi furono giustiziati dai vincitori, tranne il capo della difesa cittadina, il patriarca Eutimio. Nonostante la resa, il prestigio di Tarnovo sopravvisse nel tempo anche grazie all’opera culturale del suo patriarca, oggi santo ortodosso, che aveva fondato un’importante scuola di studi teologici e letterari. Un’altra scuola si costituí di fatto anche in campo artistico-architettonico e infuse uno stile caratteristico ad alcune chiese. capitali del medioevo

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mediterraneo orientale

FYROM Napoli

Bari

ITALIA

ALBANIA

Istanbul

Salonicco

Ankara

Lecce Catanzaro

GRECIA Patra

Palermo

Corinto Siracusa

Mdina La Valletta MALTA

TURCHIA

Tebe

Smirne

Atene

Mistrà

Fethiye Rodi

Creta

Candia

Nicosia Cipro Limassol

D

opo la dominazione romana, la penisola ellenica divenne parte del nuovo impero d’Oriente come provincia di Acaia, ma il suo antico splendore rimaneva solo un ricordo. Alcune città avevano mantenuto in parte il loro prestigio, in particolar modo Atene, Tessalonica (l’odierna Salonicco), Tebe e Corinto. Le ultime due divennero le capitali rispettivamente dei temi bizantini dell’Ellade e del Peloponneso. La presenza di Costantinopoli divenne ancora piú opprimente nell’VIII secolo, quando la Grecia si schierò contro le tesi iconoclaste. Poi nella penisola dilagarono le popolazioni barbariche e gli Arabi, ma, alla fine del IX secolo, l’intera regione tornò sotto l’egida di Bisanzio e visse una fase di ripresa politica e culturale. Nel 1204 i crociati, con la collaborazione dei Veneziani e dei Franchi, conquistarono Costantinopoli e anche il territorio greco. Nacquero numerosi piccoli Stati, ma nel XIV secolo i Bizantini riuscirono a riprendersi il Peloponneso che allora aveva la forma costituzionale di despotato, con capitale Mistrà. Proprio il Peloponneso fu l’ultima regione a cadere nelle mani degli Ottomani nel XV secolo, quando l’intera penisola aveva capitolato di fronte ai nuovi invasori.


A sinistra Salonicco (Grecia). La Torre Bianca domina le acque della città, che nel Medioevo era una delle maggiori potenze elleniche. Nella pagina accanto particolare di una miniatura raffigurante il re di Francia Luigi IX che assiste ai preparativi delle truppe in partenza da Limassol (Cipro) per la sesta crociata. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso armatura seicentesca appartenente al gran maestro dei Cavalieri Ospitalieri di Rodi, Alof de Wignancourt.

Molto vivace si rivelò la vita politica medievale delle isole elleniche, a partire da Creta, che nel XIII secolo, dopo essere stata dominio bizantino e rifugio per i profughi islamici in fuga dalla Spagna, divenne uno dei principali avamposti di Venezia nel Mediterraneo. La sua capitale, Candia, fu ristrutturata a immagine e somiglianza della città della laguna e in breve conquistò un posto di assoluto rilievo nei commerci marittimi. Creta poteva essere considerata una delle maggiori colonie della Serenissima e, grazie alla protezione della Repubblica, si salvò dal dominio turco, almeno fino al XVII secolo. Tra le altre isole, Rodi, con la sua omonima e bellissima capitale, fu contesa tra Arabi e Bizantini nell’Alto Medioevo ed esercitò anch’essa una grande influenza sul bacino del Mediterraneo. Nel XIII secolo rinverdí i fasti dell’età antica grazie all’ordine religioso militare dei Cavalieri Ospitalieri che ne fecero la propria sede. In quegli anni Rodi si dotò di splendide mura difensive e di numerose altre imponenti opere architettoniche tuttora ben conservate. Alla fine dell’Età di Mezzo non cadde, come Creta, in mano musulmana e respinse piú volte gli attacchi ottomani. Solo nel 1522 dovette arrendersi alle truppe di Solimano il Magnifico. Tra le isole del Mediterraneo non appartenenti alla galassia greca, Cipro si distinse per il suo curioso ruolo politico. Nel 688, nel suo territorio, fu siglato un accordo inconsueto: Arabi e Bizantini, che volevano espugnarla, decisero di governare insieme. Limassol era una delle città di punta e nel suo porto, nel XII secolo, sbarcò Riccardo Cuor di Leone. Il sovrano cacciò i Bizantini che avevano nel frattempo liquidato gli alleati islamici. L’isola passò quindi sotto il controllo dei Templari e subito dopo fu occupata dai Franchi, che vi stabilirono un proprio dominio scegliendo come sede di governo Nicosia. La sua felice posizione, come scalo commerciale, faceva gola alle potenze marinare, in particolare a Genova e Venezia: la prima conquistò Cipro nel XIV secolo, mentre la seconda la occupò alla fine del Medioevo. A Malta Bizantini e Arabi non governarono insieme, ma si alternarono nel dominio dell’isola. Nel Basso Medioevo alcune potenti dinastie ne assunsero il controllo: in ordine di tempo i Normanni, gli Angioini e poi gli Aragonesi. Capitale storica dell’isola fu l’antica città di Mdina che conservò la propria egemonia fino al Rinascimento quando, con l’avvento dei Cavalieri di Rodi, politicamente si affermò La Valletta. capitali del medioevo

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L’isola dei di Ludovica Sebregondi

cavalieri

Naturale crocevia strategico, Rodi fu a lungo la sede di uno dei piú importanti ordini religiosi e militari del Medioevo. A esso si devono imponenti architetture civili e religiose, nonché uno dei primi ospedali «moderni» della storia


Rodi (Grecia). Il celebre palazzo trecentesco dei Gran Maestri dei Cavalieri di Rodi, costruito nel periodo di massimo splendore della città , quando era la capitale dell’Ordine monastico militare degli Ospitalieri.


mediterraneo orientale

V

uole la leggenda che Rodi, capitale dell’omonima isola greca, sia nata dal «matrimonio» tra il dio del sole, Helios, e una ninfa del mare. Al di là del mito, la città, fondata nel 408 a.C., sorse dalla fusione tra gli abitati di Lindo, Ialiso e Camiro, che decisero di unire le forze per combattere lo strapotere politico-economico di Atene e Sparta. L’operazione garantí al nuovo borgo il monopolio sul commercio del grano con l’Egitto e, in un secondo momento, il dominio sui mercati della Grecia. L’isola cambiò piú volte padrone: conquistata dai Persiani nel 340 a.C., divvenne poi uno dei domini di Alessandro Magno. La successiva alleanza con la dinastia tolemaica di Alessandria permise a Rodi di conservare il suo primato commerciale sull’Egeo e di moltiplicare gli scambi di merci con altri regni del Mediterraneo. Nel 305 a.C. il generale macedone Demetrio I Poliorcete tentò di espugnare l’isola servendosi di catapulte e di una gigantesca macchina d’assedio, ma con poca fortuna. Una tempesta e alcuni stratagemmi difensivi fermarono gli invasori, e i cittadini, in segno di ringraziamento agli dèi, costruirono una statua

Rodi

ancor piú grande della torre d’assalto nemica. Alto presumibilmente piú di 30 m, quel monumento passò alla storia con il nome di Colosso di Rodi, ma non sopravvisse al tempo. Dopo un periodo di dipendenza da Roma e, agli inizi del Medioevo, da Bisanzio, l’isola si arrese nel VII secolo agli Arabi. La loro dominazione si protrasse fino al 1099, anno in cui i crociati riconquistarono la Terra Santa. Rodi tornò nell’orbita bizantina, parte attiva nella missione promossa da papa Urbano II, ma perse l’egemonia, soprattutto economica, che aveva conservato fino all’inizio dell’Età di Mezzo. Ai primi del Trecento, però, tornò a giocare un ruolo di primo piano, quando sull’isola sbarcarono i cavalieri dell’Ordine degli Ospitalieri, decisi a stabilire in quello strategico avamposto del Mediterraneo la loro nuova sede.

In basso un tratto delle fortificazioni di Rodi (XIV sec.) sul lato dell’Arsenale, lungo il quale è visibile la torre di S. Paolo. Le mura medievali della città furono edificate dai Cavalieri Ospitalieri sui resti di preesistenti costruzioni bizantine.

Un punto di passaggio obbligato

Sulla scelta di Rodi da parte dell’Ordine influirono il riparo offerto dai due porti, le isole del Dodecaneso, poste a difesa naturale, e, soprattutto, la sua posizione strategica. Rodi, infatti, dista poche miglia dalla costa dell’Asia Minore, ed è dunque una delle piú orientali isole dell’E-

le date da ricordare 408 a.C. Fondazione della capitale dell’isola. 340 a.C. Conquista persiana.

VII sec. d.C. 305 a.C. Conquista araba. Innalzamento del leggendario Colosso.

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capitali del medioevo

1099 Rodi torna sotto l’influenza dei Bizantini in seguito alla riconquista della Terra Santa da parte dei crociati.

1437-1478 Costruzione dell’Ospedale Nuovo.

1309 L’Ordine degli Ospitalieri si insedia a Rodi, dopo averla strappata al dominio bizantino.

1440 L’isola resiste all’attacco dei Mamelucchi d’Egitto. 1453 Caduta di Costantinopoli.


l’assistenza innanzitutto L’Ordine dei Cavalieri dell’Ospedale di S. Giovanni, piú noti come Ordine Ospitaliero o Gerosolimitano o di Malta, fu fondato a Gerusalemme nel 1050 per iniziativa di alcuni facoltosi mercanti della Repubblica marinara di Amalfi. Inizialmente concepito come ordine esclusivamente religioso, per l’assistenza dei pellegrini, assunse dopo un secolo compiti perlopiú militari per difendere la Terra Santa dagli assalti dei musulmani. Quando Gerusalemme cadde di nuovo nelle mani delle truppe islamiche, la sede dell’ordine venne trasferita a San Giovanni d’Acri e successivamente a Cipro. I cavalieri, oltre che di un esercito, disponevano anche di un’efficiente flotta. Fondarono sedi distaccate in molti porti del Mediterraneo e potevano contare su ben sette fortezze nella zona della Terra Santa. Nella nuova sede di Rodi, a partire dal 1309, i Cavalieri Ospitalieri vissero un’epoca di affermazioni politiche e mercantili interrotte, ancora una volta, dalle incursioni islamiche. Nel 1522 l’isola greca si arrese agli Ottomani e l’ordine cambiò di nuovo capitale, stabilendosi nella non lontana Malta, dove rimase fino al XVIII secolo. Cacciati dai Francesi, gli Ospitalieri stabilirono, infine, il loro quartier generale a Roma nel 1834. Oggi l’Ordine è tornato a rivestire un carattere preminentemente assistenziale.

In alto, a destra l’attacco delle navi islamiche a Rodi nel 1408 in una miniatura tratta dalla cronaca Obsidionis Rhodiœ urbis descriptio di Guillaume Caoursin. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra Siena, Duomo, Cappella di S. Giovanni Battista. Il tradizionale abito dell’Ordine degli Ospitalieri in un ritratto del cavaliere Alberto Aringhieri dipinto dal Pinturicchio. 1504-05.

1522 Solimano il Magnifico assedia Rodi, che cede dopo una lunga resistenza. L’Ordine gerosolimitano abbandona l’isola. 1480 Il sultano Maometto II occupa Otranto e assedia Rodi, che riesce a resistere e a respingere gli assalitori.

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Uno scorcio dei portici del Palazzo del Gran Maestro di Rodi. All’interno della struttura sono custoditi numerosi reperti storici provenienti dalle isole greche.

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Rodi

geo, nei cui pressi passavano le rotte mercantili del mondo musulmano che si voleva colpire. I Gerosolimitani impiegarono anni per conquistare Rodi, che allora apparteneva nominalmente all’imperatore bizantino: dal 1307 – data del primo sbarco sull’isola – al 15 agosto 1309 quando i Rodioti, Greci di fede ortodossa, si arresero, aprendo le porte della città. A Rodi l’Ordine governò in effettiva indipendenza creando un Ordensstaat di carattere isolano. L’isola divenne fulcro del commercio occidentale in Oriente, un rifugio per la navigazione cristiana, un luogo di sosta importante per i pellegrini diretti a Gerusalemme, e, spesso, l’unica forza su cui il papa poteva contare contro i musulmani. Nella città la residenza dei cavalieri fu riunita in un unico quartiere detto Collachium (dal latino colligere, cioè radunare, a indicare l’insieme degli edifici che costituivano il «Convento») situato su una collina che scendeva al mare. Coincideva con la vecchia cittadella bizantina e vi erano riuniti il palazzo del Gran Maestro (nel punto piú alto della città, ultimo rifugio dei difensori), la cattedrale conventuale di S. Giovanni, la loggia di S. Giovanni, l’Ospedale, gli Alberghi delle Lingue e le abitazioni dei cavalieri.

Gli Ospitalieri ebbero i primi contatti con la marineria quando ancora risiedevano in Terra Santa dove, occupando solo una stretta striscia costiera, potevano essere approvvigionati di merci e uomini solo via mare. Solo con la perdita dei possedimenti sulla terraferma e con il trasferimento a Cipro, fu loro necessario creare una Marina da guerra. Nel 1300 è citata una flotta gerosolimitana, di cui però non si conosce la consistenza, mentre anni dopo, quando l’Ordine iniziò l’occupazione di Rodi, del naviglio facevano già parte un galeone, due galere, una galeotta e due barche minori. Nell’isola egea l’armata fu potenziata, grazie ai Rodioti, che avevano fama di abili marinai, grandi navigatori e costruttori esperti.

Il chiodo d’argento

La struttura organizzativa dell’Ordine assegnava per tradizione alla Lingua d’Italia (le Lingue erano le aree geografiche nelle quali i Cavalieri erano stanziati e in cui si usava lo stesso idioma, n.d.r.), la principale carica della flotta, quella di Ammiraglio, subordinata direttamente al Gran Maestro: 316 ammiragli si successero dal 1298 al 1798. E proprio all’Ammiraglio spettava il privilegio di presiedere alla commovente e


il medioevo ricostruito Dopo la caduta della città in mano ai Turchi il complesso del Collachium venne prima utilizzato con poche trasformazioni (la cattedrale di S. Giovanni divenne moschea), poi, dal Settecento, fu abbandonato a causa dei danni causati da ripetuti terremoti. Nei primi anni dell’Ottocento la torre della cattedrale era semidiroccata e da essa si innalzava un minareto. Già le incisioni dell’artista francese Eugène Flandin (1853) mostrano uno stato di grande abbandono ma, nel 1856, l’esplosione di una polveriera ubicata sotto la cattedrale causò la perdita irreparabile e completa della chiesa e altri danni notevolissimi, mentre il palazzo del Gran Maestro era stato trasformato dai Turchi in prigione militare. Questa era la situazione trovata dal corpo di spedizione italiano sbarcato a Rodi nel 1912, che continuò a usare l’edificio come caserma fino al 1934. Il ripristino del Palazzo magistrale nacque dalla volontà del Governatore del Dodecaneso Italiano, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, al quale non interessava una ricostruzione filologicamente corretta, ma che l’edificio fosse adatto a funzioni di rappresentanza e per accogliere l’ufficio del Governatore. La mancanza di documentazione

iconografica antica avrebbe in ogni caso impedito una ricostruzione di carattere scientifico: i lavori, affidati a Vittorio Mesturino, architetto della Soprintendenza piemontese, si protrassero dal 1937 al 1940 e furono portati a termine poco prima della seconda guerra mondiale. L’aggiunta di un piano superiore conferí all’edificio uno sviluppo in altezza maggiore di quello avuto al tempo dei cavalieri ma, per quanto ricreato dal nulla, riproponeva elementi, murature e tipologie spaziali del piano sottostante. A vari pittori italiani furono commissionati affreschi, e pregevoli manufatti antichi furono accostati a mobili in stile. Vennero anche utilizzati reperti archeologici, in particolare mosaici pavimentali, provenienti dagli scavi dell’isola di Coo. Un pensiero politico preciso sottintendeva all’operazione: al nuovo edificio si chiedeva di somigliare a quello dei Gran Maestri ma, insieme, di essere piú imponente e splendido a dimostrazione dei nuovi tempi. Oggi, passati sessant’anni, questo intervento rivela il gusto di un’epoca e insieme la perizia tecnica del progettista e delle maestranze che hanno saputo ricreare il Palazzo Magistrale in una sorta di attardato neomedievismo.

A destra una delle sale interne del Palazzo del Gran Maestro, impreziosita da mosaici paleocristiani. Il monumento, gravemente danneggiato da un’esplosione, fu in gran parte ricostruito nel 1940 dagli Italiani, durante l’occupazione della Grecia.

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mediterraneo orientale significativa cerimonia che aveva luogo all’entrata in servizio di una galera, nel corso della quale un chiodo d’argento veniva conficcato a prora e uno dorato a poppa. Nonostante l’importanza che venne assumendo nei secoli l’organizzazione della Marina dell’Ordine, la componente assistenziale fu sempre di primario rilievo. Gli Statuti dedicano infatti ampio spazio alla gestione e alle attrezzature della «Sacra Infermeria», cioè degli ospedali costruiti nelle varie sedi. A Gerusalemme il grande blocco di edifici presso il Santo Sepolcro comprendeva un enorme ospedale per i poveri e gli ammalati che poteva ospitare moltissimi letti, con sale riservate alle donne. Anche a Rodi venne costruito un Ospedale Nuovo tra il 1437 e il 1478, la cui sala principale era lunga 51 m e larga 12, ma che aveva anche camere isolate. Gli Statuti prevedevano che i pellegrini sani fossero divisi dai malati, che i letti fossero individuali e sufficientemente larghi per poter riposare; che le lenzuola venissero

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Rodi

cambiate tre volte la settimana; che – per motivi igienici – i piatti utilizzati per i malati fossero d’argento; che ogni letto avesse a disposizione una coperta e, infine, che il malato fosse visitato due volte al giorno dai medici, accompagnato dagli infermieri e dai cavalieri di turno: i Gerosolimitani furono forse i primi a concepire un ospedale in termini moderni, anche perché era prevista l’esistenza di una farmacia, per i cui preparati ci si rifaceva alle conoscenze della medicina araba. L’Ordine creò anche nosocomi in tutti gli altri possedimenti: a Corinto, a Negroponte, a Civitavecchia e, soprattutto, il piú grande e funzionale, a Malta.

La minaccia ottomana

A Rodi i cavalieri si resero subito conto della necessità di potenziare le fortificazioni, perché le loro attività marinare avrebbero provocato una reazione musulmana. E infatti l’isola venne attaccata dai Mamelucchi d’Egitto nel 1440 e nuovamente quattro anni

Nella pagina accanto l’ampio cortile interno del Palazzo del Gran Maestro, sul cui lato nord sono visibili alcune statue rinvenute nel sito archeologico dell’isola di Coo. In basso rovine della chiesa medievale della Vergine del Borgo.


dieudonné contro il... coccodrillo Si narra che a sud di Rodi, presso il monte Stefano, vivesse un drago che – come da tradizione – terrorizzava e assaliva la popolazione contadina: tutti i cavalieri che avevano cercato di ucciderlo erano morti e dunque il Gran Maestro vietò di provare ad ammazzarlo. Ma il coraggioso cavaliere provenzale Dieudonné de Gozon, desiderando liberare l’isola da questa minaccia, si fece descrivere il mostro e cominciò ad addestrare alcuni cani al fine di tenere impegnato il drago mentre lo colpiva. Il cavaliere riuscí a stanare l’animale e ad abbatterlo, ma il suo gesto eroico fu interpretato come atto di disubbidienza dal Gran Maestro, che lo allontanò dall’Ordine. La protesta dei Rodioti, liberati per il coraggio del cavaliere dalla letale presenza, fu però tale che Dieudonné dovette essere reintegrato nel suo grado. Il racconto, a cominciare dal nome del protagonista, sembra solo una bella leggenda, ma l’esistenza del cavaliere non può essere messa in dubbio, poiché nei documenti è citato come l’«uccisore del drago» e nel 1346 venne eletto Gran Maestro, probabilmente anche grazie alla popolarità acquisita. Forse, invece di un drago, si trattava di un grande serpente o di un coccodrillo del Nilo arrivato per caso a Rodi, senza poter immaginare la presenza di un cavaliere valoroso e temerario al pari di san Giorgio.

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mediterraneo orientale

Rodi A sinistra miniatura raffigurante le truppe ottomane che preparano l’assedio alla città di Rodi, da un’edizione dell’Obsidionis Rhodiœ urbis descriptio di Guillaume Caoursin. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto ancora una miniatura tratta dall’opera di Caoursin raffigurante i Turchi che tolgono l’assedio a Rodi. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Gli islamici riuscirono a conquistare l’isola e la sua capitale soltanto nel 1522.

cavalieri girovaghi Obbligato ad abbandonare Rodi, l’Ordine riparò a Civitavecchia, quindi a Viterbo, Villafranca, Nizza e Siracusa, finché, nel 1530, ottenne ufficialmente dall’imperatore Carlo V (nella sua qualità di re di Sicilia) il feudo dell’isola di Malta con Gozo e Comino e il possesso di Tripoli d’Africa, in cambio del tributo simbolico annuale di un falcone maltese. L’impresa dell’espugnazione di Rodi fu ritentata da Solimano, ormai vecchio, che nel 1565 pose a Malta l’assedio che passò poi alla storia come il «Grande Assedio», ma i cavalieri riuscirono a resistere (anche perché, contrariamente a quanto era accaduto a

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capitali del medioevo

Rodi, ottennero soccorso dai principi cristiani) e nel 1571 parteciparono alla gloriosa battaglia di Lepanto che eliminò i Turchi dal Mediterraneo. Da quel momento la flotta melitense mantenne soprattutto un servizio di salvaguardia contro i pirati barbareschi ma, quando sorsero sull’Atlantico i grandi imperi marittimi, neppure l’Ordine si sottrasse alla lenta decadenza che colpí gli Stati mediterranei. Il 12 giugno 1789 Napoleone entrò a La Valletta e impose al Gran Maestro von Hompesch l’abbandono di Malta: cessata la sovranità sull’isola, l’insegna venne ammainata


dopo, ma riuscí a resistere. Caduta Costantinopoli nel 1453, furono gli Ottomani a mettere in pericolo i Gerosolimitani, che dal 1476 erano guidati dal Gran Maestro alverniate Fra Pierre d’Aubusson, il quale, in vista dell’attacco, aveva realizzato importanti opere difensive. Nel 1480 il sultano Maometto II, per ottenere il controllo sull’Egeo e basso Adriatico, assediò e prese Otranto e attaccò Rodi. L’assedio si svolse da maggio a luglio e i Turchi fecero grande uso dell’artiglieria, già sperimentata a Costantinopoli e in seguito perfezionata. Gli assalitori cercarono di impadronirsi del porto, accanendosi contro la torre di S. Nicola che ne dominava l’ingresso, ma la tenace resistenza opposta dai cavalieri riuscí a respingere gli attacchi; sebbene il Gran Maestro fosse gravemente ferito, gli assalitori vennero respinti e massacrati. I cavalieri riuscirono dunque a rigettare l’attacco e a confermare per un quarantennio all’isola la sua reputazione di baluardo contro la potenza ottomana.

Meglio la morte della resa

Ma dopo questo periodo di relativa tranquillità, nel luglio 1522 fu Solimano il Magnifico a porre l’assedio a Rodi, che rappresentava un pericolo per il consolidamento del suo impero, da poco allargato con la conquista di Belgrado: 400 vele nemiche sbarcarono 200 000 uomini, secondo l’affermazione dello storico Giacomo Bosio, che ritiene che l’Ordine annoverasse 600 cavalieri, coadiuvati da abitanti di Candia, da Rodioti e dai marinai fatti sbarcare dalle navi: in tutto 7500 combattenti. In questi casi le cifre vanno prese con beneficio d’inventario, ma si trattava certamente di

dalle navi e la Marina scomparve per sempre. Anche nella maggior parte d’Europa, con l’arrivo dei Francesi, i Gerosolimitani vennero soppressi e fu posta fine alla loro opera, con l’acquisizione dei loro possedimenti e lo scioglimento dell’organizzazione. L’Ordine fu costretto a lunghe peregrinazioni; il Gran Maestro, accusato di indecisione e pusillanimità, venne deposto e una parte dei cavalieri elesse in sua vece lo zar Paolo I. A lungo l’Ordine gerosolimitano, percorso da gravi crisi e retto spesso da luogotenenti, vagò da Trieste a Catania e a Ferrara (1826), ma dal 1834 si è stabilmente trasferito a Roma, dove ha ripristinato, sviluppandolo, l’originario ruolo caritativo, e ha sede nella Casa dei Cavalieri di Rodi, presso i Fori Imperiali.

forze immense messe in campo contro una piccola isola e pochi difensori. Nonostante la sproporzione numerica, Rodi resistette fino a dicembre, grazie anche al veneziano Gabriele Tadini, priore di Barletta, uno dei piú capaci ingegneri militari dell’epoca, che riuscí a sventare molti attacchi che gli zappatori e i genieri turchi preparavano scavando cunicoli sotto le torri di difesa per sistemarvi cariche esplosive. Nonostante gli atti di eroismo dei cavalieri, privi però di aiuti dal mondo cristiano, la situazione volse al peggio, ma anche i Turchi – con l’arrivo dell’inverno – non erano in condizioni migliori. Per questo motivo in dicembre offrirono trattative di resa favorevoli: i Rodioti erano propensi ad accettare, mentre il Gran Maestro Villiers de l’Isle Adam avrebbe preferito morire piuttosto che arrendersi. Ma alla fine vinse il partito favorevole e il 26 dicembre il Gran Maestro si recò da Solimano per procedere alla resa ufficiale. La sera del 1° gennaio 1523 i cavalieri, seguiti da molti abitanti di Rodi, lasciarono l’isola che per 213 anni era stata la loro patria, con l’onore delle armi, imbarcati sulla flotta che era incredibilmente rimasta intatta durante l’offensiva nemica. Portavano al seguito gli archivi dell’Ordine, importanti reliquie riunite nei secoli e la venerata icona della Madonna di Fileremo. Il Gran Maestro era a bordo della galera Santa Maria «con un solo stendardo issato a mezz’asta sul quale era dipinta l’immagine della gloriosa Vergine Maria».

Dove e quando Palazzo del Gran Maestro (Museo bizantino) Via dei Cavalieri Orario apr-ott: ma-do, 8,00-19,40; lu, 9,0015,40 (solo nei mesi estivi); nov-mar: ma-do, 8,30-15,00; lu chiuso Info rhodes.gr (info anche in inglese) museo archeologico (ex ospedale dei cavalieri) Megalou Alexandrou Square Orario nov-mar: ma-do, 8,00-15,00; lu chiuso; apr-ott: lu, 9,00-16,00; ma-ve, 8,00-20,00; sa-do e festivi, 8,00-15,00; lu chiuso Info odysseus.culture.gr (info anche in inglese)

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vicino oriente

ITALIA Mar Tirreno

BOSNIA ROMANIA SERBIA BULGARIA KOSOVO FYROM ALBANIA

Arta

Mar Nero

Edirne

Mahdia Mar Mediterraneo

TrebisondaARMENIA

TURCHIA

GRECIA

CIPRO

CRETA

Acri

LIBIA

Mar Caspio

GEORGIA

Istanbul Iznik Bursa Söğüt

Tabriz Rey

Aleppo Hama Damasco

Nishapur

IRAN

Baghdad

Gerusalemme IRAQ

Esfahan Shiraz

Il Cairo

ARABIA SAUDITA EGITTO

TURKMENISTAN

Mar Rosso

Medina Mecca

Golfo Persico


I

l Vicino Oriente tardo-antico e altomedievale fu la patria dell’impero bizantino. Sebbene stretto nella morsa dei regni balcanici, di quelli crociati e degli Stati musulmani, esso dettò legge nell’area mediterranea per oltre dieci secoli. La sua capitale, Costantinopoli (l’odierna Istanbul) costituí il simbolo del potere centralizzato che, dalla figura sacrale dell’imperatore (basileus), si irradiava su tutti i possedimenti. Tra il IX e l’XI secolo Bisanzio visse il suo periodo d’oro che durò a lungo, malgrado la separazione dalla Chiesa di Roma. L’impero cominciò a indebolirsi nel XIII secolo e fu smembrato dopo la presa di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204. Sopravvissero solo tre piccoli Stati bizantini con capitali a Nicea (l’odierna Iznik), Trebisonda e Arta (oggi in Grecia). Nel VII secolo una rivoluzione religiosa stravolse gli equilibri della regione. L’Islam ebbe una rapida diffusione sul territorio caratterizzandosi, soprattutto, come nuovo soggetto politico. In quegli anni la dinastia araba degli Omayyadi fondò un impero che abbracciava l’intero quadrante meridionale del Mediterraneo e che nutriva ambizioni espansioniste. La casata, originaria della Mecca, scelse la siriana Damasco come luogo simbolo della propria autorità, preferendola alla vecchia capitale islamica di Medina (oggi in Arabia Saudita). Nella fase di declino della dinastia araba e con l’ascesa dei califfi abbasidi (VIII-XII secolo), la sede del potere politico-religioso venne trasferita nell’irachena Baghdad e nell’antica e vicina Samarra. Il nuovo corso del potere musulmano nel Vicino Oriente si rivelò prevalentemente assolutista e privo di quei caratteri patriarcali che, invece, avevano caratterizzato il dominio omayyade. Dissidi interni e l’ascesa della classe militare turca intaccarono la stabilità del potente Stato abbaside, che già da tempo aveva perso molti territori per mano della dinastia dei Fatimidi (X-XII secolo), le cui roccaforti si trovavano a Mahdia, nell’odierna Tunisia, e in Egitto, a Il Cairo. Da est, intanto, premevano i Turchi Selgiuchidi, anch’essi titolari di un impero (XI-XII secolo), che aveva come città guida le iraniane Esfahan, Nishapur e Rey. La leadership mediorientale venne, in seguito, assunta dalla stirpe curdo-musulmana degli Ayyubidi (XII-XIV secolo), fondata dal sultano Saladino, che dominò soprattutto la regione della Siria e dell’Egitto. Le capitali del nuovo sultanato furono quattro: Il Cairo e le siriane Damasco, Aleppo e Hama. Il Cairo restò residenza di governo anche nel periodo del sultanato mamelucco dal XIII al XVI secolo. Alla fine del Medioevo si affermò un altro grande regno islamico nel Vicino Oriente: sulle ceneri del sultanato dei Selgiuchidi, ormai diviso in tanti piccoli Stati, nacque l’impero ottomano, che ebbe quattro capitali, tutte turche: Sögüt, Bursa, Edirne e, a partire dal 1453, Costantinopoli. L’espansione dell’Islam interessò, naturalmente, anche la città di Gerusalemme, a partire dalla conquista omayyade fino a quella selgiuchide. Nel 1099 la città fu espugnata dai Crociati e ricevette l’investitura a nuova capitale del regno cristiano, ruolo poi assunto da San Giovanni d’Acri. Alla fine del XII secolo Gerusalemme e i territori limitrofi furono riconquistati dagli Ayyubidi e restarono in mano islamica fino alla prima guerra mondiale.

A sinistra, sulle due pagine Aleppo (Siria). La splendida porta d’accesso alla cittadella (al-Qal‘a), quartiere che racchiude le memorie piú antiche della città, un tempo capitale del sultanato degli Ayyubidi. In basso miniatura raffigurante il profeta Maometto davanti alla Pietra Nera de La Mecca. XVI sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi Sarayi.

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Gli splendori della nuova di Adele Cilento

Roma

Città di origini antichissime, Bisanzio fu elevata al rango di capitale da Costantino il Grande, che nel suo nome la ribattezzò. Ebbe inizio una lunga stagione di glorie, che la vide affermarsi come metropoli ricca e cosmopolita


Istanbul. La basilica di S. Sofia che domina sul centro cittadino con la sua gigantesca cupola in stile bizantino. La chiesa, costruita nel VI sec. dall’imperatore Giustiniano, fu per secoli il simbolo della cristianitĂ orientale, prima di divenire un edificio di culto islamico. Oggi è un museo.


vicino oriente

Costantinopoli

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vvicinandosi al Bosforo dal Mar di Marmara, i navigatori del XII secolo potevano scorgere le possenti mura della città di Costantinopoli, oltre le quali spiccavano il complesso monastico di Studio, i palazzi della famiglia Angelo e il monastero degli Aristeni. Piú avanti essi avrebbero potuto ammirare la casa di Andronico Comneno e il monastero di S. Demetrio, di proprietà dei Paleologhi, altra nobilissima famiglia di Bisanzio. Lasciandosi il Gran Palazzo alle spalle ed entrando cosí nel Bosforo, i navigatori avrebbero costeggiato l’agglomerato di edifici della Mangana e dell’Orfanotrofio; infine, aggirando il promontorio e risalendo il Corno d’Oro, essi avrebbero visto i magnifici palazzi sorti grazie alla magnanimità dei Comneni, inclusa la residenza imperiale delle Blacherne (vedi box a p. 115). Cosí si presentava ai viaggiatori medievali la capitale dell’impero bizantino, fondata nel IV secolo da Costantino il Grande sul modello di Roma, e resa splendida dai successivi imperatori, primo fra tutti Giustiniano. Attraverso i numerosi interventi giustinianei, infatti, nel VI secolo la città aveva assunto un aspetto ben definito e caratterizzato da edifici pubblici e di culto assai imponenti per l’epoca. Tale aspetto, riconducibile a un modello urbanistico di stampo tardo-antico, Costantinopoli l’aveva poi mantenuto a lungo, nonostante l’azione del tempo e l’incuria, che tuttavia non erano riusciti a modificarne l’impianto originario.

Sette colli sul Bosforo

La Costantinopoli dei secoli XI e XII, infatti, era ancora riconoscibile come la città che aveva preso forma nella tarda antichità e che, per estensione e per tipologia di monumenti, doveva presentarsi quale duplicato, rivale e infine erede dell’antica Roma. La città sul Bosforo, circondata anch’essa significativamente da sette colli, era stata dotata già in epoca costantiniana di due senati e un Campidoglio, strutture alle quali erano stati poi aggiunti un grande acquedotto – fatto costruire dall’imperatore Valente (364-378) – e straordinarie fortificazioni massive, le famose mura teodosiane. L’ingresso piú rappresentativo della città, la Porta d’Oro, era costituito da un arco trionfale interamente ornato di statue antiche. Da questo ingresso partiva la strada principale, la Mese, costeggiata di portici per tutta la sua lunghezza, che conduceva al centro cittadino passando attraverso una serie di fori imperiali. Larga circa 5 m, la Mese era diventata nei secoli centrali del Medioevo il cuore della vita commerciale cittadina: in questa strada infatti si trovavano negozi e bancarelle dove abi108

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In alto l’interno della basilica di S. Sofia. Nella pagina accanto mappa della Costantinopoli medievale. Le possenti mura cittadine che circondavano l’abitato furono in buona parte smantellate nel XIX sec., quando la moderna Istanbul cominciava a diventare una metropoli. Manoscritto del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

le date da ricordare VII sec. a.C. Viene fondata la colonia megarese di Bisanzio sul Bosforo. 330 d.C. Inaugurazione di Costantinopoli per volere di Costantino il Grande. Edificazione della basilica dei SS. Apostoli. V sec. Teodosio II ridefinisce l’antico assetto urbanistico della città. Sorge la nuova cinta muraria, con la Porta d’Oro. Viene innalzata la chiesa della Theotokos Chalkoprateia.


VI sec. Costruzione del primo nucleo del complesso delle Blacherne. IX sec. Basilio I promuove l’edificazione della Nea Ekklesia, che diventerà fonte d’ispirazione per gran parte dell’architettura della città nei secoli successivi. 532-537 Realizzazione della basilica di S. Sofia per volere di Giustiniano.

975 La città subisce danni conseguenti a un terremoto. Altre due scosse si verificano nel 1032 e nel 1033.

1204 I crociati, guidati dalla flotta veneziana, assediano e occupano la città. Nasce l’impero latino d’Oriente.

1082 Costantinopoli concede alla Repubblica di Venezia l’esercizio libero del commercio in tutto l’impero in cambio di appoggio militare.

1453 Costantinopoli cade sotto l’attacco ottomano. È la fine dell’impero bizantino. Dal 1465 è capitale dell’impero ottomano.

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vicino oriente

Costantinopoli

aprile 1204: la crociata della vergogna Città per secoli inespugnata, Costantinopoli fu messa a ferro e fuoco nell’aprile del 1204 dai crociati, la cui missione, nelle intenzioni iniziali, era quella di raggiungere la Terra Santa. Che cosa portò a quel cambio repentino di programma? Tutto era iniziato nel 1198, anno in cui papa Innocenzo III aveva indetto la quarta crociata con l’ambizione di liberare Gerusalemme

con i capi cristiani per la fabbricazione delle navi. Ricevuta solo metà della cifra, il doge Enrico Dandolo propose ai crociati di sdebitarsi, partecipando a una missione della Serenissima contro la ribelle Zara, che si concluse con successo. Era il 1202. Subito dopo la vittoria in Dalmazia, furono i comandanti della crociata a proporre un nuovo cambiamento dei

dagli islamici. Per realizzare l’impresa, i capi cristiani si erano rivolti a Venezia, commissionando alla Repubblica l’allestimento di una flotta. Nei tempi stabiliti i crociati si radunarono, quindi, sulla Laguna, pronti a salpare per il Vicino Oriente. La partenza, però, non avvenne, a causa delle proteste dei Veneziani, che reclamavano i compensi pattuiti

piani: invece di attaccare Gerusalemme, invocarono una «guerra umanitaria» contro l’imperatore bizantino Alessio III, che aveva deposto con un colpo di Stato il fratello Isacco II Angelo. A chiedere l’intervento dell’Occidente era stato il figlio di Isacco, anch’egli di nome Alessio, offrendo un compenso da capogiro

In alto L’assalto di Costantinopoli, dipinto di Palma il Giovane (al secolo Jacopo Negretti; 1544-1628). 1587 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

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tanti e forestieri accorrevano per lo shopping quotidiano. La sede del governo, il Gran Palazzo, consisteva in un vasto complesso di edifici che includevano l’originale palazzo di Costantino. Come a Roma, il palazzo comunicava direttamente con il palco imperiale del Circo (o Ippodromo), fatto erigere già da Settimio Severo, ma ingrandito poi da Costantino come deliberato e tangibile ricordo

a chi avesse risposto all’appello, oltre alla riunione tra le due Chiese cristiane. I crociati, insieme ai Veneziani, accettarono e diressero le vele verso Costantinopoli, giungendovi nell’estate del 1203. L’attacco ebbe come effetto immediato il ritorno sul trono di Isacco II, con la coreggenza del figlio, il quale, tuttavia, si trovò nell’impossibilità di pagare i danari promessi agli alleati. Tentò di racimolare risorse in extremis, con una gravosa imposizione fiscale, ma si rese impopolare e venne ucciso in un’imboscata. Il padre, arrestato dagli oppositori, morí in carcere. Ormai la miccia era esplosa e i nuovi sovrani di Bisanzio obbligarono i Latini ad abbandonare la città. La reazione fu immediata. Il 9 aprile del 1204 i crociati attaccarono le mura della capitale, ma senza successo. Ci riprovarono il 12 aprile con uno stratagemma: fissarono piattaforme sugli alberi delle navi, cosí da saltare sopra le fortificazioni. Penetrati in città, gli invasori aprirono le porte e diedero inizio a un terribile massacro, accanendosi anche sui monumenti con violenza indicibile. Ciò che non fu distrutto venne saccheggiato, anche se presentava simboli cristiani. «Dalla creazione del mondo – notò lo scrittore crociato Goffredo di Villehardouin, che aveva preso parte all’attacco – non è mai stato fatto un tale bottino in una città». Mentre il cronista coevo bizantino Niceta Coniata denunciò che le peggiori atrocità e scelleratezze «furono di comune accordo perpetrate da tutti». Con questo feroce prologo nasceva l’impero latino di Costantinopoli, che durò fino al 1261. Francesco Colotta

della presenza di Roma sul Bosforo. Ancora nel XII secolo si tenevano in presenza dell’imperatore le corse di quadrighe. Tuttavia, a contraddistinguere la città in questo secolo era il gran numero di chiese e di monasteri. Centinaia di edifici di culto presenti dentro e oltre le mura cittadine dovevano ricordare ai Bizantini che la loro nuova Roma era anche la Nuova Gerusalemme. Si


trattava di chiese antiche e monumentali, famose fin dall’epoca dei concili, ma anche di chiese piú recenti, rese note dal possesso di illustri reliquie. E cosí, accanto al mausoleo imperiale dei SS. Apostoli e alle chiese dei martiri locali Mozio e Agatone, si ergevano le chiese delle Blacherne e della Chalkoprateia, che custodivano le piú importanti reliquie della Vergine Maria. Su tutte spiccava la grande chiesa di S. Sofia, ricostruita da Giustiniano su una scala senza precedenti e rimasta insuperata durante tutto il Medioevo. Questo vasto insieme di architettura tardo-antica e paleocristiana creava un ambiente urbano quasi senza paralleli nel mondo cristiano del XII secolo. L’unica altra città con un paesaggio simile, di monumenti antichi e di chiese storiche, era Roma stessa! Ma Roma aveva sofferto i danni delle guerre civili, era stata saccheggiata piú volte e, soprattutto, non era piú città imperiale neanche dopo la restaurazione dell’impero d’Occidente. Costantinopoli, invece, manteneva il suo ruolo di capitale politica dell’impero erede dei Romani, essendo inoltre la sede del piú importante patriarcato orientale. Grande costruttore di edifici religiosi era stato il capostipite della dinastia macedone, Basilio I (867-886). Il suo ambizioso programma di politica edilizia non prevedeva alcun edificio

In basso uno dei piú celebri mosaici della basilica di S. Sofia: la vergine Maria tiene in grembo Gesú bambino, affiancata dall’imperatore Giovanni II Comneno (a sinistra) e dalla moglie Irene (a destra). XII sec.

pubblico – come fori, statue o colonne trionfali –, ma era rivolto quasi esclusivamente alla costruzione e alla ricostruzione di chiese cadute in rovina. Un biografo imperiale enumera non meno di quattordici chiese restaurate da Basilio I, citando tra le opere di nuova costruzione la Nea Ekklesia (= Nuova Chiesa), una struttura innovativa che sarebbe stata fonte di ispirazione per parecchie generazioni di architetti bizantini. Insieme a un’altra chiesa piú piccola ma altrettanto famosa, la chiesa di S. Maria del Faro, la Nea Ekklesia diede l’impronta a gran parte dell’edilizia cittadina dei secoli X e XI.

Monasteri «privati»

Il numero di edifici religiosi di Costantinopoli doveva peraltro essere veramente elevato, tanto da conferire alla città un’atmosfera del tutto particolare, capace di impressionare fortemente i visitatori stranieri: ancora nel 1403 il viaggiatore spagnolo Ruy de Clavjo, nel suo vivido resoconto di viaggio a Bisanzio, riportava l’affermazione – evidentemente esagerata –, secondo cui entro le mura della città vi sarebbero state «3000 chiese, grandi e piccole». Tra i grandi edifici religiosi sorti a Costantinopoli tra l’XI e il XII secolo erano compresi an(segue a p. 114)

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vicino oriente

Costantinopoli A sinistra miniatura raffigurante l’imperatore bizantino Teofilo (813-842), insieme alla sua guardia personale variaga, davanti alla chiesa di S. Maria delle Blacherne, dalla Sinossi della storia del bizantino Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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una città nella città Il Gran Palazzo fu per otto secoli la residenza imperiale di Costantinopoli. Complesso architettonico di grandi dimensioni e composto da edifici diversi per funzione, stile ed epoca, il Palazzo era circondato da una cinta muraria sicché, pur sorgendo in un punto centrale dell’area urbana, rimaneva escluso da ogni contatto diretto con gli spazi e con la vita della città. In migliaia di metri quadrati di superficie, esso racchiudeva caserme, cortili con fontane, sale da pranzo e da ricevimento e una ventina tra chiese e oratori. Il vestibolo, fatto costruire da Giustiniano, era costituito da un edificio a cupola dotato di porte di bronzo, la Chalké, zona in cui si

concentravano i vari uffici amministrativi e che traeva il nome da una delle raffigurazioni che vi si trovavano, una statua della ninfa Dafne. Le grandi sale di rappresentanza erano costituite dalla Magnaura, una ambiente basilicale a tre navate di grande sfarzo, e dal Chrysotriklinos, la sala del trono, totalmente ricostruita e resa piú sontuosa da Giustiniano alla metà del VI secolo. Di forma ottagonale, questa magnifica stanza era tutta adorna di tappeti, arazzi e candelabri d’oro. Vi erano poi gli appartamenti privati dell’imperatore, tra cui avevano particolare importanza il Vestiarios, cioè lo spogliatoio, e la stanza del tesoro (Phylax).

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Sulle due pagine disegno ricostruttivo del Gran Palazzo di Costantinopoli, con l’indicazione di alcuni degli edifici piú importanti che ne facevano parte: 1. Palazzo di Giustiniano; 2. Circo (o Ippodromo); 3. Chrysotriklinos (sala del trono); 4. chiesa di S. Stefano; 5. Nea Ekklesia (Chiesa Nuova); 6. Stadio del polo; 7. Palazzo della Magnaura; 8. Terme di Zeusippo; 9. S. Sofia.


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Costantinopoli

In alto uno scorcio dei mosaici della chiesa altomedievale di S. Salvatore in Chora a Istanbul, considerati una delle piú notevoli espressioni dell’arte bizantina. XIV sec. A sinistra il mosaico bizantino di S. Salvatore in Chora che ritrae san Pietro.

che gli istituti monastici e quelli a carattere filantropico. Particolarmente prodigo in questo senso fu l’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118), il quale, unitamente alla sua famiglia, fondò e sostenne monasteri «privati», destinati cioè a servire come monumenti personali della dinastia. L’attitudine di raccomandare l’anima della propria famiglia a santi monaci, e di tradurre tale venerazione in un sostegno finanziario ai monasteri, era del resto divenuta in quei secoli una pratica molto diffusa in tutto l’impero e condivisa tanto dai nobili quanto dai poveri.

Per i bisognosi di ogni età

Il piú ambizioso progetto di Alessio I fu la ricostruzione dell’Orfanotrofio (Orphanotropheion), una delle piú antiche e grandi fondazioni cittadine a scopo filantropico. Tale istituto, patrocinato dagli imperatori fin dai tempi di Giustino II (565-578) e destinato ad accogliere orfani e bisognosi di ogni età, fu ingrandito da Alessio I e dotato di una serie di strutture quali un palazzo, un monastero, una scuola per orfani, un lebbrosario, vari ostelli e ospizi. Tutte le persone che trovavano ospitalità all’interno della struttura diventavano poi clienti e protetti dell’imperatore, per sempre devoti e fedeli a lui e alla famiglia imperiale. Quando i Latini, durante la quarta crociata, giunsero nel Bosforo, furono colpiti dal gran (segue a p. 119) 114

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la nuova residenza imperiale Il primo nucleo del complesso delle Blacherne, costituito da una chiesa e da un palazzo, era stato costruito già nel VI secolo: dall’opera dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (945-959), il De Cerimoniis, sappiamo che nel palazzo erano lussuose stanze dai nomi evocatori, quali Oceano e Danubio, e che la chiesa custodiva un’icona miracolosa della Vergine. Fu tuttavia Alessio I Comneno a far rinascere il complesso dotandolo di nuovi ambienti di

grande splendore, tra cui la grande sala del trono (triklinos), che rappresentò il primo passo per lo sviluppo delle Blacherne come residenza imperiale principale. Anche se il Gran Palazzo non fu abbandonato quale sede del governo, da quel momento le Blacherne assunsero una precisa funzione di rappresentanza: l’imperatore Manuele I vi risiedette a lungo insieme alla sua sposa, Berta di Sulzbach, e vi ricevette re occidentali e sultani. L’affermazione del palazzo in quanto residenza imperiale potrà dirsi definitivamente compiuta solo nel 1166, quando ospiterà le sessioni piú importanti del Concilio di Costantinopoli.

Disegno ricostruttivo del Palazzo delle Blacherne nell’epoca del massimo splendore dell’impero bizantino. Della struttura si conservano oggi scarsi resti.

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Costantinopoli

maggio 1453: fine di un sogno

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erso le tre del mattino del 29 maggio 1453, il sultano turco Maometto II ordinò alle sue truppe di scatenare l’assalto finale contro Costantinopoli. La delicata situazione in cui era venuta a trovarsi la capitale dell’impero bizantino rappresentava l’epilogo di nove estenuanti mesi durante i quali gli aggressori avevano spiato, bombardato, attaccato con sortite rapide dell’esercito e della flotta le postazioni della città sul Bosforo.

Ma era anche l’esito dell’isolamento bizantino, dovuto al crescente disinteresse degli Stati occidentali, nonché alle difficoltà del dialogo fra il papa e la Chiesa orientale, da tempo divisa tra i sostenitori dell’unione con Roma, che confidavano in un intervento degli eserciti delle potenze europee, e i fautori dell’ortodossia indipendente, che speravano quasi in un miracolo.

In una prospettiva piú ampia la giornata del 29 maggio può essere considerata il punto terminale di un processo secolare che aveva portato al progressivo declino della potenza militare ed economica dell’antico impero d’Oriente e all’incontenibile espansione dei Turchi ottomani. La fase decisiva del confronto era cominciata alla fine del luglio 1452, quando Maometto Il, dalIa sua base europea di Adrianopoli, aveva inviato a Costantinopoli la dichiarazione di

Tekfur saraji (palazzo imperiale; XII sec.)

S. Salvatore in Chora (fine dell’XI sec.)

Torre di Galata

Acquedotto di Valente

Porta di S. Romano

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Porta di Paghè

Mura terrestri o di Teodosio II e loro sezione ricostruttiva

Mura di Costantino Forum Bovis

Forum Theodosii o Tauris

Forum Arcadii Forum Constantini

2 S. Giovanni Battista di Stoudion (V sec.)

Mura marittime SS.Sergio e Bacco (VI sec.)

Porta Aurea

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guerra. La prima azione militare fu condotta all’inizio di settembre: il sultano, con 50 000 uomini, stazionò per tre giorni presso le mura della capitale bizantina per saggiarne le difese, mentre la flotta, di stanza a Gallipoli (dell’Egeo), incrociava nelle acque del Bosforo. Poche settimane dopo arrivava ad Adrianopoli uno specialista nella fusione dei cannoni, l’ungherese Urban, già al servizio dei Bizantini, il quale, dietro una cospicua offerta di denaro, cominciò a lavorare

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Catena e sbarramento con navi

S.Giorgio dei Mangani

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al progetto di una bombarda giudicata capace di abbattere le inespugnabili difese di Costantinopoli. La nuova arma fu collaudata con successo all’inizio del gennaio 1453 e quindi faticosamente trasportata fino a una distanza di 5 miglia dalla città. le contromisure degli assediati Anche nel campo avversario, intanto, si intensificava l’organizzazione della resistenza. Mentre l’imperatore Costantino XII reiterava al papa, ai governi italiani e ai principi dell’Europa occidentale pressanti richieste di aiuti, cominciarono i lavori di rafforzamento delle strutture murarie e di approfondimento del fossato che le circondava. In seguito, si procedette all’assegnazione dei comandi delle mura di terra e di mare; da Genova giunsero due navi con centinaia di mercenari al comando di Giovanni Giustiniani Longo, subito nominato comandante generale della difesa terrestre. L’imperatore non trascurò neppure la strada della diplomazia, inviando un’ambasceria a Maometto con la proposta di pace in cambio del pagamento di un tributo, ma il sultano rispose che avrebbe accettato soltanto la resa. Il 7 aprile l’esercito turco dette inizio all’assedio. Il 12 dello stesso mese vennero in appoggio anche le navi, che si ancorarono a Diplokionion, nel Bosforo, a 3 km dalla città, pronte a intercettare ogni imbarcazione che tentasse di portare rifornimenti e aiuti militari a Costantinopoli. Malgrado le divergenti valutazioni fornite da numerosi testimoni e cronisti, si può stimare che le forze

della Mezzaluna ammontassero ad almeno 150 000 uomini tra cavalieri e fanti, compresi 6-10 000 giannizzeri (truppe a piedi, nerbo dell’esercito ottomano); quanto alla flotta, le valutazioni piú realistiche parlano di circa 150 navi di vario tonnellaggio. Si trattava, per i tempi, di una forza d’urto spaventosa. Per contro i difensori, ovvero i Bizantini piú un piccolo gruppo di Occidentali (perlopiú Genovesi e Veneziani), non superavano – secondo i calcoli piú ottimistici – le 10-15 000 unità, e le loro navi erano al massimo una quarantina. Ma l’elemento che rendeva ancora piú netta la superiorità dei Turchi era la disponibilità di armi da fuoco: la grande bombarda fusa da Urban aveva una canna di 4,5 m, un calibro di 80-90 cm e poteva sparare proiettili del peso di almeno 4 q: le si affiancavano poi da 25 a 50 bombarde di medio calibro e forse centinaia di piccole. E tutte cominciarono a martellare le mura di Costantinopoli. Che cosa potevano le loro frecce, le lance, le catapulte, i cannoni di piccolo calibro ormai a corto di proiettili, contro simili strumenti? Una resistenza inaspettata Sul mare i Turchi incontrarono invece una imprevista resistenza: l’enorme catena che il veneziano Bartolomeo da Soligo aveva teso all’imboccatura del Corno d’Oro, fra la torre di Sant’Eugenio e un’altra situata sulla riva opposta, presso la fortezza di Galata, si presentava come un ostacolo difficilmente superabile. Il genio strategico del sultano partorí

sotto assedio

Il disegno presenta la mappa di Costantinopoli al tempo dell’assedio turco e ne ricostruisce alcuni dei momenti salienti: 1. all’alba del 29 maggio 1453 i giannizzeri entrano in città attraverso una breccia nella Porta di S. Romano; 2. tra le chiavi del successo di Maometto II vi fu l’uso di artiglierie di grande potenza; 3. le navi turche furono trasferite dal Bosforo al Corno d’Oro facendole scivolare su tronchi di legno; 4. il comandante delle forze terrestri bizantine, Giovanni Giustiniani, gravemente ferito (morí poco dopo a Chio) viene trasportato verso le navi pronte a evacuare le milizie occidentali.

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vicino oriente

Costantinopoli

saccheggi e abusi Cosí lo scrittore turco Tursun Beg (XV secolo) descrisse il saccheggio di Costantinopoli: «Quando (...) la fortezza fu espugnata, il nemico perdette ogni forza e divenne incapace di reagire, il popolo fedele non incontrò piú ostacoli e pose mano al saccheggio in piena sicurezza. Si potrebbe dire che la vista della possibilità di far bottino di ragazzi e di belle donne devastasse i loro cuori e i loro animi. Trassero fuori da tutti i palazzi, (...) trassero nelle strade, strappandole dai letti d’oro, dalle tende tempestate di pietre preziose, le beltà greche, franche, russe, ungheresi, cinesi, khotanesi (...) Trassero poi dal palazzo del principe infedele e da quelli dei ricchi e opulenti miscredenti suppellettili e vasi d’oro e d’argento, pietre preziose, gioielli e stoffe di ogni genere» (da Storia del signore della conquista, il sultano Maometto).

però un astutissimo stratagemma. Impiegando migliaia di uomini, fece costruire in terraferma, fra il Bosforo e il Corno d’Oro, un passaggio lungo 4,5 km, attraverso il quale riuscí a far passare, trascinandole su fusti di legno ingrassati, 72 biremi. Con terrore e meraviglia gli abitanti della città videro le imbarcazioni scivolare sui declivi delle colline di Galata «come se navigassero sul mare», con gli equipaggi e le vele spiegate per sfruttare anche la forza del vento, e poi riscendere all’acqua ed entrare nel golfo. Quando ormai la penuria di viveri in città si faceva sentire, Maometto mandò un’ambasciata a raccogliere la resa di Costantinopoli, ma la richiesta fu sdegnosamente respinta: «Non è in mio potere né in quello dei cittadini che vi abitano – avrebbe risposto Costantino XII secondo lo storico contemporaneo Ducas – consegnarti la città, perché di comune proposito abbiamo liberamente deciso di morire e di non risparmiare la nostra vita». l’ora della battaglia II 28 maggio 1453 Maometto fece proclamare dagli araldi che avrebbe scatenato la battaglia. La sera, mentre nelle chiese di Costantinopoli si pregava, il campo turco, illuminato dalla luce di grandi falò, veniva percorso da religiosi musulmani che incitavano i soldati; poi, predisposto un gran numero di scale, ogni reparto raggiunse le posizioni assegnate. Il comandante della flotta rimasta a Diplokionion ricevette le istruzioni direttamente dal sultano,

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che raggiunse a cavallo la vicina località insieme a diecimila armati. L’attacco decisivo fu sferrato quando ancora era buio. L’azione si svolse in tre ondate successive, nell’ultima delle quali fu messa in campo la guardia scelta dei giannizzeri: attraverso il varco di Kerkoporta questi riuscirono a penetrare in città e a prendere alle spalle i difensori, che si battevano disperatamente davanti alla porta di S. Romano, ormai abbattuta dalla violenza dell’artiglieria. Il comandante Giustiniani fu ferito piuttosto gravemente e abbandonò la sua postazione, aumentando lo sbandamento delle truppe; lo stesso Costantino XII, che aveva spiegato in un’estrema affermazione di orgoglio e dedizione le insegne imperiali, venne sopraffatto e ucciso. Poco dopo un altro vessillo, quello ottomano, sventolava sulle mura. I Turchi dilagavano intanto verso il centro della città e verso la chiesa di S. Sofia, facendo prigionieri tutti coloro che vi si erano rifugiati e uccidendo chi tentava ancora di opporsi con le armi. A mezzogiorno il sultano, acclamato dalle truppe, fece il suo ingresso in città. Il saccheggio, che si protrasse per tre giorni e tre notti, vide omicidi, stupri, spoliazioni di chiese e di palazzi. I morti furono almeno 4000, i prigionieri, trasportati legati a due a due nel campo turco, 20-25 000, molti dei quali vennero poi venduti come schiavi. «Cosí tutta la città fu svuotata e spopolata – annotò il cronista Michele Critobulo – e venne ridotta a nulla, come se fosse stata

distrutta da un incendio, a tal punto che pareva incredibile che un tempo vi fosse stato un luogo abitato da uomini, un luogo pieno di ricchezze, di abbondanza, di opere d’arte di ogni genere (...). Rimasero solo le case deserte, che con la loro solitudine incutevano paura a chi le guardava». il pianto dell’occidente La notizia della caduta di Costantinopoli si diffuse rapidamente in tutto il mondo allora conosciuto, provocando sgomento e preoccupazione. Scriveva Enea Silvio Piccolomini (il futuro papa Pio Il): «Ma che dire della notizia terribile or ora giunta su Costantinopoli? La mia mano, mentre scrivo, trema, l’animo mio inorridisce; lo sdegno non mi permette di tacere, il dolore non mi concede di parlare. Povera cristianità! lo mi vergogno di vivere: almeno fossi io morto per mia fortuna prima che ciò accadesse!». In tutto il mondo cristiano, in effetti, la conquista di Costantinopoli venne avvertita come un avvenimento di inaudità gravità: quella che si piangeva non era soltanto la scomparsa dell’erede legittima dell’impero romano, della depositaria di una grande civiltà e di un’altrettanto notevole tradizione culturale, della sede riconosciuta di un importante patriarcato ecumenico; ma anche la fine di un impero millenario, la perdita definitiva della piú importante base militare ed economica dell’Oriente, l’affermazione di una nuova potenza musulmana che condizionò a lungo i destini dell’intera Europa orientale e minacciato da vicino l’Occidente. In buona parte del mondo conosciuto – dalla Francia alle isole dell’Egeo, dall’Italia alla lontana Armenia – le cronache, le memorie, i diari, le lettere si mescolarono presto a veri e propri Lamenti, Pianti, Compianti sulla caduta della «Nuova Roma»: opere colte e composizioni popolari nelle quali si rispecchiava la sincera partecipazione alla tragedia della capitale bizantina e al tempo stesso la cattiva coscienza di coloro che sentirono di non aver fatto tutto il possibile per scongiurarla. Franco Franceschi


italiani sul bosforo Numerosi erano i mercanti occidentali che risiedevano a Costantinopoli per tutto o per una parte dell’anno. Tra i piú assidui e piú abili vi furono i Veneziani, che occuparono una vasta area densa di magazzini e di negozi. Nel 1082 la loro posizione si fece particolarmente privilegiata grazie a una concessione imperiale che – in cambio di aiuto militare a Bisanzio – li autorizzava a esercitare il commercio in tutto l’impero senza pagare tasse e senza dover subire alcuna ispezione doganale. Nel XIII secolo i Genovesi fondarono un’importante colonia nel quartiere di Galata, nel settore nord del Corno d’Oro, dove istituirono un governo retto da un podestà, nominato direttamente da Genova.

di una serie di eventi naturali, primo fra tutti i terremoti. Altra calamità frequente nella città erano gli incendi, che divampavano rapidi e inarrestabili. Ma soprattutto le intemperie e l’incuria contribuirono a trasformare via via l’aspetto trionfale della capitale tardo-antica in quello della tipica città medievale, dove i sontuosi palazzi ormai in stato di abbandono si alternavano alle baracche dei poveri ammassate attorno alle chiese di quartiere, e dove i numerosi vicoli, bui e pericolosi per via della criminalità, si intrecciavano con le strade principali divenute ormai un pantano di fango. Costantinopoli appariva, soprattutto agli occhi dei contemporanei occidentali, come la città medievale per eccellenza: cosí la vedeva l’abate latino Odone di Deuil quando, nella metà del XII secolo, scriveva che essa «come sorpassava le altre città in ricchezza, cosí le sorpassava nei vizi». numero di palazzi di Costantinopoli. Ciò che li impressionò maggiormente furono «le alte mura e le torri altere» e soprattutto «i ricchi palazzi e le chiese imponenti», come scrive nel 1208 lo storico Goffredo di Villehardouin. Oltre agli antichi monumenti come il Gran Palazzo, gli edifici civili piú imponenti visibili in quegli anni avevano acquisito il loro aspetto tra i secoli XI e XII: lo skyline della città era infatti perlopiú dominato dai palazzi costruiti in epoca comnena per ospitare gli alti funzionari della corte, che spesso erano anche nipoti e parenti dell’imperatore. Nel corso dei secoli l’aspetto di Costantinopoli si era notevolmente modificato a causa

La torre di Galata, che svetta nel distretto nord della città. Nel Trecento, quando fu costruita da architetti genovesi, era l’edificio piú alto della città.

Dove e quando Basilica di Santa Sofia (Ayasofya Müzesi) Ayasofya Meydani Orario 15 apr-1° ott: ma-do, 9,00-19,00; lu chiuso; 1° ott-15 apr: ma-do, 9,00-17,00; lu chiuso Info ayasofyamuzesi.gov.tr (info anche in inglese) Palazzo topkapi Sultanahmet, Fatih Orario 1° nov-15 apr: tutti i giorni, 9,00-16,45; 15 apr-1° nov: tutti i giorni, 9,00-18,45 Info topkapisarayi.gov.tr (info anche in inglese)

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L’oro del di Andreas M. Steiner

tempio


Nell’anno 70 d.C., truppe romane comandate da Tito rasero al suolo il grande santuario di Gerusalemme. Le costruzioni che gli succedettero ebbero vita effimera e l’area cadde in abbandono. Fino a quando, con la conquista islamica, sul luogo piú sacro agli Ebrei sorse un nuovo, meraviglioso edificio, destinato a sfidare il tempo… Gerusalemme. Una veduta della città dal Monte degli Ulivi con, in primo piano, la Cupola della Roccia. Sulla sinistra si intravede la cupola (grigia) della chiesa del Santo Sepolcro.


vicino oriente

Gerusalemme

N

essun’altra città dell’antico mondo mediterraneo e vicino-orientale può vantare una storia di conquiste, distruzioni, massacri pari a quella di Gerusalemme. Un poco invidiabile primato riassunto in un brano del Talmud nel quale si legge come Dio abbia «consegnato nove parti di bellezza e splendore a Gerusalemme, riservando una sola parte al resto del mondo» e, al contempo, abbia «suddiviso in dieci parti il dolore e il lutto. Di essi, il Creatore ha datato nove parti a Gerusalemme e solo una al resto del mondo» (Kiddushin 49b). Eppure, nonostante la lunga lista di atrocità che ha dovuto subire nel corso dei millenni, la città sulle colline della Giudea emana un fascino irripetibile. E non è un caso che tra le architetture piú celebri di Gerusalemme figurino due monumenti che formano quasi una cornice cronologica entro la quale si svolsero i movimentati secoli della sua storia medievale: la Cupola della Roccia, costruita tra il 685 e il 692 dal califfo Abd al-Malik intorno a una sacra pietra che affiora dal terreno e a cui è legata la memoria di Abramo, Isacco, Giacobbe, e le splendide mura che circondano la Città Vecchia, volute da Solimano il Magnifico tra il 1537 e il 1541. Ora, né la prima né le seconde sono medievali nel senso stretto del termine. La Cupola della Roccia, costruita da maestranze bizantine, riprende il modello delle architetture ottagonali tardo-antiche (tra cui la stessa chiesa del Santo Sepolcro, ma si pensi anche a S. Vitale a Ravenna), mentre le mura (e le porte che vi si aprono), pur presentandosi con un aspetto tipicamente «medievale», sono, appunto, cinquecentesche e, per giunta, non dovettero mai subire attacchi o assedi da parte di eserciti stranieri.

Dalla tarda antichità al Medioevo

Durante i secoli del dominio bizantino (324640 d.C.), la Palestina divenne la Terra Santa e Gerusalemme una città cristiana. Il passaggio dalla tarda antichità al Medioevo ebbe luogo, a differenza di quanto accadde nell’Europa latina, senza particolari eventi traumatici, fino all’avvento dei Persiani sasanidi che, nel 614, conquistarono la città, saccheggiando le chiese, trafugando la reliquia della Vera Croce e massacrando la popolazione cristiana. Seguirono anni di conflitto, ma nel 628 l’imperatore bizantino Eraclio riuscí a costringere i Per122

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Nella pagina accanto particolare della decorazione in ceramica della Cupola della Roccia.

siani alla pace e riportò la Vera Croce a Gerusalemme. Lo stesso Eraclio, però, una decina d’anni dopo sarà costretto ad assistere alla presa di Gerusalemme da parte di un nuovo nemico, l’Islam. Maometto era morto nel 632, ma la sua dottrina si era ormai diffusa in tutta l’Arabia. Il ruolo del Profeta venne assunto da quattro suoi «rappresentanti» (in arabo kalif) i quali, nel volgere di pochi anni, estesero il dominio dell’Islam in tutto il Vicino Oriente. Secondo la tradizione fu Sofronio, patriarca di Gerusalemme, ad arrendersi e consegnare la città nelle mani del califfo Omar, che vi mise piede nel 638. Si narra che, dopo essersi rifiutato di pregare nella chiesa del Santo Sepolcro, il califfo abbia chiesto al patriarca di accompagnarlo sul sacro Monte del Tempio: arrivati sul luogo del Santo dei Santi, il califfo si sarebbe subito messo, con le proprie mani, a ripulire la sacra roccia dai detriti. Su quel luogo Omar fece costruire una prima moschea, i cui resti furono ancora visti da un pellegrino, il vescovo Arculfo, intorno al 670.

La fine del divieto

In alto mappa della città di Gerusalemme al tempo delle crociate, da un manoscritto miniato del XIII sec. Uppsala, Biblioteca dell’Università.

Quando gli Arabi conquistarono la città la chiamarono Ilya, da Aelia Capitolina, il nome romano imposto a Gerusalemme dall’imperatore Adriano dopo la repressione della seconda rivolta giudaica, nel 134 d.C. E Beit al-Maqdis di Ilya (la casa della santità di Aelia) divenne il nome del terzo luogo santo dell’Islam, dopo le moschee di Medina e Mecca. I nuovi dominatori della Palestina si appropriarono delle strutture amministrative bizantine e consentirono

le date da ricordare 70 d.C. Gerusalemme viene occupata e distrutta dai Romani. É raso al suolo anche il Tempio.

614 La città è conquistata dai Persiani. 638 Conquista araba.

IV sec. In seguito al Concilio di Nicea, Costantino il Grande fa innalzare la Basilica del Santo Sepolcro. 135 Adriano ricostruisce la città e la nomina Aelia Capitolina.

1009 Il califfo al-Hakim ordina la distruzione del Santo Sepolcro e delle altre chiese della città.

705-715 Edificazione della moschea di al-Aqsa. 685-691/2 Viene ultimata la Cupola della Roccia.


un bacile d’oro pieno di scorpioni Scrive il geografo arabo El-Muqaddasi, nato a Gerusalemme intorno al 947, dopo aver lungamente elogiato i pregi della sua città: «Ma Gerusalemme ha anche molti difetti. Si dice che nella Torah sia scritto: Gerusalemme è un bacile d’oro pieno di scorpioni. In effetti, non esistono bagni piú sporchi e scomodi (...) vi sono pochi sapienti e molti Cristiani che nel pubblico commercio sono scortesi. Il nobile è preoccupato, il ricco invidiato, lo studioso del diritto è abbandonato, lo scienziato non è ricercato (...) Cristiani ed Ebrei hanno il sopravvento, nelle moschee non si celebrano riunioni religiose o di studio».

alle popolazioni delle città sottomesse la libertà di culto. Agli Ebrei fu permesso di tornare a Gerusalemme, ponendo fine, cosí, a un divieto durato cinquecento anni. Nel 661, in seguito a conflitti di potere interni al califfato, emerge la figura di Muawija, il fondatore della dinastia degli Omayyadi, il quale trasferisce la sua capitale a Damasco (vedi l’articolo alle pp. 130-137). Nel 685 il suo successore, il califfo Abd al-Malik, inizia a costruire, sulle orme di Omar, la Cupola della Roccia (in arabo Qubbat al-Sakhra) che verrà completata nel 691/92. La bellezza dell’edificio – una risposta della potente dinastia omayyade alle numerose chiese bizantine sparse nella città – è difficile da descrivere: i suoi colori, l’oro della cupola e la policromia (dominata dal blu) delle maioliche che rivestono la fabbrica ottagonale, risaltano sullo sfondo della calda pietra di Gerusalemme, elemento unificante di tutti gli altri (segue a p. 126)

1099 Dopo un mese d’assedio i crociati occupano Gerusalemme.

1229 Gerusalemme è occupata da Federico II, in seguito al trattato stipulato con il sultano al-Malik al-Kamil.

1187 Battaglia dei Corni di Hattin. Saladino sconfigge i Latini e prende Gerusalemme.

1517 I Turchi Ottomani conquistano la città. 1250 La città diventa dominio dei Mamelucchi.

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Gerusalemme

Da monte del tempio a «nobile santuario» IL MURO OCCIDENTALE

Dopo la costruzione dei santuari musulmani, agli Ebrei fu negato l’accesso al Monte del Tempio. Cosí, una porzione delle mura di sostruzione della grande spianata erodiana (il cosiddetto Muro Occidentale o Muro del Pianto) divenne la loro principale meta di pellegrinaggio. Dipinto di Gustav Bauernfeind (1848-1904).

I QUATTRO MINARETI

Il minareto di al-Fakhariyya è il primo dei quattro minareti di epoca mamelucca eretti sul Nobile Santuario.

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LA CUPOLA DELLA ROCCIA

Voluta dal califfo omayyade Abd al-Malik, l’edifico è uno dei piú straordinari esempi dell’architettura islamica. Nel Cinquecento, il sultano Solimano il Magnifico sostituí l’originaria decorazione a mosaico con le ceramiche policrome che oggi rivestono l’esterno del santuario.

LA CUPOLA DELLA CATENA

La graziosa costruzione, anch’essa costruita sotto Abd al-Malik, fungeva da casa di preghiera e figura, insieme alla Cupola della Roccia, tra i piú antichi edifici dell’Haram.

LA MOSCHEA DI AL-AQSA

Posto sul versante meridionale dell’Haram, la moschea di Al-Aqsa («la piú lontana») è il principale luogo di culto islamico di Gerusalemme. Costruita nel 715, venne notevolmente ampliata in periodo abbaside. Nel XII secolo fu trasformato in quartiere generale dei cavalieri templari.

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Gerusalemme

edifici della città, antichi e moderni. Il santuario, come già ricordato, viene eretto sopra una roccia sacra all’ebraismo e all’Islam: siamo al centro del Monte del Tempio, il luogo in cui era posta l’Arca dell’Alleanza e che aveva ospitato il grande tempio erodiano e, prima ancora, quello leggendario voluto da Salomone. È il Monte Moriah dove, secondo la tradizione giudaica, dalla polvere raccolta da Dio fu creato il primo uomo, Adamo e dove il Signore ordinò ad Abramo di recarsi per offrirgli in sacrificio il figlio Isacco. La scelta di costruire in questo luogo il terzo piú importante santuario dell’Islam non era, dunque, affatto casuale. L’ampia spianata, di circa 500 metri per 280, fatta erigere da Erode per accogliere il suo grandioso tempio, sin dalla sua distruzione da parte delle truppe di Tito, nel 70 d.C., giaceva in abbandono. Ora, invece, proprio dal centro di quello che gli

Nella pagina accanto, in alto l’ingresso principale al Santo Sepolcro, di epoca crociata (XII sec.), posto in corrispondenza del transetto meridionale della basilica. In basso la chiesa di S. Anna, uno splendido esempio di architettura crociata, si trova nel quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme.

un gioiello crociato La chiesa di S. Anna è forse il piú bell’esempio dell’architettura sacra di età crociata a Gerusalemme. L’edificio sorge nella parte nord-orientale della Città Vecchia, nell’odierno quartiere musulmano, sui resti di una precedente chiesa bizantina della metà del V secolo. Il luogo è tradizionalmente associato all’abitazione dei genitori della madre di Gesú, Anna e Gioacchino. Dopo la conquista di Saladino, nel 1187, la chiesa fu trasformata in scuola coranica, come testimonia l’iscrizione posta sopra l’ingresso principale, datata al 1192. La basilica attraversò un lungo periodo di abbandono fino a quando, nel 1856, fu donata dal sultano ottomano Abd al-Majid I a Napoleone III, come gesto di riconoscenza per l’aiuto ricevuto dai Francesi durante la guerra di Crimea. In seguito fu sottoposta a un profondo restauro che ha restituito al monumento il suo originario splendore.

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Arabi chiameranno Haram as-Sharif («il nobile santuario»), la Cupola afferma, con lo splendore della sua luce aurea, la vera continuità che legava la nuova fede alle antiche rivelazione bibliche, a discapito (e discredito) dei cristiani che, a distanza di poche centinaia di metri, avevano il loro principale luogo santo, la chiesa del Santo Sepolcro. L’Islam, insomma, si sostituisce al cristianesimo. Lo affermano anche le iscrizioni che ricoprono le pareti della Cupola della Roccia: in esse viene contestata la divinità di Cristo e ribadita la figura di Maometto come l’ultimo e definitivo profeta di Allah. L’islamizzazione di Gerusalemme, il cui nome ora è al-Quds (la Santa), viene inoltre suggellata dall’ «invenzione» di una nuova tradizione, secondo la quale il Profeta sarebbe asceso al cielo a cavallo del suo destriero al-Buraq partendo proprio da quella leggendaria roccia al centro dell’antico recinto.

Lontana dalla Mecca

Sul lato meridionale dell’Haram, invece, laddove era sorta la prima moschea (quella descritta dal vescovo Arculfo), negli anni tra il 705 e il 715 circa, il califfo al-Walid (figlio e sucessore di di al-Malik) costruisce la grande Moschea di al-Aqsa («la remota» o «la piú lontana»), cosí denominata in riferimento a un passo del Corano in cui si legge che «sia Gloria a Colui Che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea [quella della Mecca, n.d.r.] alla Moschea remota, di cui benedicemmo i dintorni» (Sura 17:1). La Cupola della Roccia, la moschea di al-Aqsa e gli altri edifici sulla Spianata del Tempio sopravviveranno miracolosamente alle conquiste successive (tra cui il regno crociato) e alle guerre dell’età moderna (ricorda Teddy Kollek, lo storico sindaco di Gerusalemme, che nel giugno del 1967, dopo la conquista della città a conclusione della guerra dei Sei Giorni, il Monte del Tempio sarebbe potuto tornare al popolo ebraico. Ma «in segno di rispetto per i templi di un’altra fede che vi si era insediata […] si decise non solo di non toccare le moschee, ma anche di lasciare l’amministrazione dei luoghi sacri nelle mani delle autorità religiose musulmane»). Con gli Omayyadi, Gerusalemme aveva acquisito potere e importanza sul piano religioso (diventando la terza città santa dell’Islam) ma il suo potere politico era in declino. Quando, nel 750, la dinastia degli Abbasidi si sostituí agli Omayyadi nella guida del califfato, la capitale della provincia Filistin (la Palestina) era già stata spostata nella vicina Ramla. La situazione peggiorò quando gli Abbasidi si trasferirono


nella loro nuova capitale, la lontana Baghdad (vedi l’articolo alle pp. 138-145): molte chiese bizantine di Gerusalemme (tra cui la celebre Nea, voluta dall’imperatore Giustiniano sul luogo del Pretorio) vennero distrutte e, negli anni tra il 939 e il 966, è la stessa chiesa del Santo Sepolcro a subire incendi dolosi e devastazioni.

Conversioni forzate

Della lontananza e della debolezza degli Abbasidi approfitta la dinastia sciita dei Fatimidi (dal nome della figlia del Profeta) che aveva insediato un proprio califfato in Egitto. Nel 969, questi conquistano la Palestina e anche Gerusalemme cade nelle loro mani (nell’assedio verrà massacrata non solo la popolazione ebraica e cristiana, ma anche gli appartenenti sunniti del califfato abbaside). Nel 1009 il fatimide al Hakim fa radere al suolo il Santo Sepolcro, ordina la distruzione di tutte le chiese e sinagoghe e dispone la conversione forzata all’Islam di tutta la popolazione. Nel dicembre del 1033, anno in cui si celebrava il millenario della morte di Gesú e che nella città aveva fatto affluire, incuranti dell’ostile clima politico e religioso, migliaia di pellegrini, un terremoto devasta quanto ancora era rimasto in piedi del Santo Sepolcro (solo in seguito a faticose trattative tra l’imperatore di Bisanzio e i Fatimidi la chiesa viene, in parte, ricostruita). Nel 1055, Baghdad è conquistata dai Turchi Selgiuchidi e anche Gerusalemme si prepara al peggio, con l’imperatore bizantino che contribuisce alla ricostruzione delle mura cittadine. Dopo la vittoria sull’esercito bizantino a Mandzikert (Anatolia orientale), nel 1071, i Selgiuchidi conquistano Gerusalemme, dando luogo all’ennesimo massacro. La lotta difensiva dei Bizantini contro la minaccia selgiuchide fa da sfondo alla richiesta di aiuto che i primi rivolgono all’Occidente, spianando la via all’epopea delle Crociate e ai quasi duecento anni di regno latino a Gerusalemme. La battaglia «inaugurale» del dominio crociato inizia il 14 giugno 1099, dopo che la popolazione cristiana aveva abbandonato la città. Le cronache dell’evento superano, per violenza e efferatezza, ogni altra descrizione dei disastri subiti dalla Città Santa nella sua lunga e sofferta esistenza (un testimone dell’e-

al tempo dei crociati

La sezione del Santo Sepolcro, cosí come doveva presentarsi nel XII sec., dopo la conquista crociata di Gerusalemme. La chiesa fu ricostruita nello stesso luogo che aveva ospitato quella di Costantino e fu consacrata nel 1149. 1. Rotonda: ricostruita dall’imperatore bizantino Costantino IX Monomaco nel 1048; 2. fin dai primi tempi il sepolcro di Cristo fu protetto da un’edicola; 3. ambulacro a volta: fatto realizzare anch’esso da Costantino Monomaco intorno alla Rotonda; 4. la torre campanaria sorse sulla piú settentrionale delle cappelle; nel 1545 fu parzialmente distrutta da un terrmeoto; 5. Catholicon: costruito sul sito del Giardino Sacro da Costantino; 6. al tempo dei crociati entrambi gli ingressi nel transetto erano ancora aperti; 7. il coro è attualmente separato dal resto della chiesa dall’iconostasi del Catholicon; 8. l’abside è preceduta da alcuni ripidi scalini; 9. un ambulacro corre intorno all’abisde; 10. la cappella di S. Elena commemora la madre di Costantino e il ritrovamento della Vera Croce; 11. sul sito della chiesa costantiniana fu edificato un grande chiostro.

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Gerusalemme

La descrizione di un viaggiatore ebreo Nel 1172, l’esploratore e geografo ebreo spagnolo Beniamino di Tudela visita la Gerusalemme crociata e ne riporta una descrizione vivace: «Gerusalemme è una piccola città, fortificata da tre mura. È piena di persone che i musulmani chiamano Giacobiti, Armeni, Greci, Georgiani e Franchi e di genti di ogni lingua (...). Vi sono circa duecento Ebrei che vivano nei pressi della Torre di David, in un angolo della città (...) Nella città vi sono altri due edifici. Da uno di essi, l’ospizio, provengono quattrocento cavalieri. Al suo interno vengono accolti e accuditi tutti i malati, anche se moribondi. L’altro edificio è denominato Templum Salomonis; è il palazzo costruito da Salomone, re di Israele. Vi alloggiano trecento cavalieri (...) A Gerusalemme si trova anche la grande chiesa chiamata del Santo Sepolcro; qui è la sepoltura di Gesú, alla quale i Cristiani si recano in pellegrinaggio»

L’angolo sud-orientale del Haram as-Sharif (il «nobile santuario») visto dal Monte degli Ulivi, in una fotografia della fine dell’Ottocento.

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poca parla dei «vicoli della città dove il sangue giungeva fino alle caviglie»). Durante il regno franco il quadro cittadino si trasforma: al posto delle ampie vie del centro, eredi dell’urbanistica romana e tardo-antica, nascono i mercati coperti, nella forma dei «suq» che ancora oggi si incontrano a Gerusalemme e nelle altre città del Levante. Sul Monte del Tempio, i crociati si impossessano degli edifici islamici, riconvertendoli e rinominandoli: la moschea di al-Aqsa, ritenuta il palazzo di Salomone, diventa il Templum Salomonis, la Cupola della Roccia trasformata in chiesa, il Templum Domini. Nel primo si insedierà un gruppo di cavalieri i quali, riunitisi in «ordine» ne propagheranno il nome, i «Templari». Nella vicina chiesa di S. Giovanni, invece, un ospizio per malati e pellegrini è gestito da un ordine dei cavalieri ospitalieri, i futuri Cavalieri di Rodi e di Malta. Centro religioso della città rimane, però, la chiesa del Santo Sepolcro. Distrutta nel 1009,

viene ora completamente ricostruita secondo dettami architettonici occidentali. Nascono, inoltre, numerose altre chiese: l’esempio piú bello è, oggi, rappresentato dalla chiesa di S. Anna, situata a nord della Spianata del Tempio. Il Regno latino di Gerusalemme finirà ufficialmente con la resa di San Giovanni d’Acri nel 1291. Ma già un secolo prima Gerusalemme viene conquistata da Salah ed-Din, o «il Saladino», come i cristiani chiamano il fondatore della nuova dinastia islamica degli Ayyubidi. La città capitola il 2 ottobre del 1187, quattro mesi dopo la disfatta crociata ai Corni di Hattin, presso il lago di Tiberiade. Sotto gli Ayyubidi al-Quds vive una nuova fioritura, anche se di breve durata. Saldino fa ripulire il «nobile santuario» liberandolo dai simboli cristiani, e i lavori di ripristino della facciata di al-Aqsa risulteranno nel miglior esempio (che ancora oggi possiamo ammirare) della fusione tra stile crociato e architettura islamica. La città è definitivamente suddivisa in una metà cristiana, a ovest, e l’altra musulmana, a est.

L’imperatore nel Santo Sepolcro

Nel 1219, la minaccia di una quinta crociata fa sí che il successore di Saladino, el-Kamil, disponga la parziale distruzione delle mura per non dover regalarle all’eventuale nuovo conquistatore. Ma il temuto evento non si verifica. Dovrà trascorrere un altro decennio prima che Federico II (di cui si dice che parlasse meglio l’arabo che il latino) ottenga da el-Kamil la restituzione di Gerusalemme (insieme a Betlemme e Nazaret). Nel 1228, l’imperatore si reca nel Santo Sepolcro e si autoincorona. Nel 1244, però, i territori cristiani tornano in mano ayyubide. Con l’avvento, nel 1250, dei Mamelucchi (le ex


1566), il novello Salomone (Suleiman, infatti, è la versione turco-araba del nome), la città vive il suo ultimo periodo di gloria prima di cadere in un lungo sonno che durerà fino agli inizi del Novecento. Al grande sultano si devono due interventi che, ancora oggi, caratterizzano la fisionomia della Città Santa: la sostituzione dell’antico rivestimento a mosaico della Cupola della Roccia con splendide ceramiche policrome (forse importate direttamente dalla Persia) e la ricostruzione, in perfetto stile «storicista», delle mura cittadine, con le sue magnifiche porte, tra cui quella «di Damasco» aperta sul lato nord. La tradizione vuole che sia stata costruita da Sinan, architetto di corte di Solimano e progettista della Moschea Blu di Istanbul. guardie del corpo degli Ayyubidi) per Gerusalemme inizia una nuova, lenta ripresa che, con alterne fortune, si prolungherà fino al dominio ottomano e, con esso, fin oltre la soglia dell’età moderna. L’aspetto odierno della Città Vecchia di Gerusalemme deve molto agli interventi urbanistici dei Mamelucchi, che cosparsero la città di numerose madrase (una combinazione di scuole teologiche e giuridiche), serragli, conventi, biblioteche e ospedali. Di epoca mamelucca sono anche i quattro minareti che ancora oggi svettano agli angoli della Spianata delle Moschee, insieme a diversi altri arredi architettonici della piazza (spesso realizzati riutilizzando le costruzioni crociate), tra cui la splendida fontana monumentale voluta dal sultano Qait Bey nel 1482.

La città di Solimano

Nel 1517 i Turchi Ottomani, dopo aver annientato l’Impero bizantino e sconfitto i Mamelucchi, diventano i nuovi padroni di Gerusalemme. Durante il regno di Solimano il Magnifico (1520-

Qui sopra una veduta aerea di Gerusalemme in cui si riconosce, distintamente, il circuito delle mura cittadine costruite da Solimano il Magnifico. In alto la Porta di Damasco in una fotografia della fine dell’Ottocento. Aperta sulle mura di Solimano in direzione nord, è la piú bella delle otto porte d’accesso alla Città Vecchia.

Dove e quando Monte del Tempio-Spianata delle Moschee Orario estivo: do-gio, 8,30-11,30 e 13,30-14,30; invernale: do-gio, 7,30-10,30 e 12,30-13,30; ve-sa chiuso; l’apertura è soggetta a variazioni e l’accesso può essere vietato senza preavviso Chiesa del Santo Sepolcro Piazzale del Santo Sepolcro Orario indicativo estivo (apr-set): tutti i giorni, 5,00-21,00; indicativo invernale (ott-mar): tutti i giorni, 4,00-19,00 Info santosepolcro.custodia.org Museo della Torre di Davide (Cittadella) Porta di Giaffa Orario do-gio, 9,00-16,00 (lug-ago, 9,00-17,00); ve, 9,00-14,00; sa, 9,00-14-00 (lug-ago, 9,00-17,00) Info towerofdavid.org.il (info anche in italiano); goisrael.it

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Il cuore «morale» dell’Islam di Leonardo Capezzone

Considerata dallo stesso Maometto come un paradiso in terra, Damasco fu uno dei centri piú importanti del mondo musulmano. E, all’indomani della sua proclamazione a capitale dell’impero arabo-islamico, si arricchí di splendidi monumenti


Damasco. La grande moschea degli Omayyadi, principale luogo di culto del Paese. Edificata nell’VIII sec., inglobò parte di una preesistente chiesa cristiana che era sorta in omaggio a san Giovanni Battista.


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Damasco

A

chi chiedeva a Maometto perché non si recasse a Damasco, il profeta dell’Islam rispondeva che non si può andare in paradiso due volte. La piú importante città della Siria, fin dall’antichità, doveva davvero apparire paradisiaca: nei resoconti dei viaggiatori arabi medievali che la raggiungevano dal deserto è quasi un luogo comune la descrizione di Damasco vista da lontano, immersa nella grande oasi della Ghuta (oggi, in realtà, meno lussureggiante di un tempo), i minareti delle oltre duecento moschee svettanti al di sopra della cinta dei palmeti, e, sullo sfondo, i quartieri alti dolcemente poggiati sul fianco del monte Qasiun. Che Damasco sorgesse in un luogo particolarmente ameno, ma anche rilevante dal punto di vista strategico ed economico, era un dato di fatto noto almeno dal II millennio a.C., epoca a cui risalgono le prime, frammentarie attestazioni di una presenza umana stabile nella città siriana. Fra le piú antiche metropoli dell’Asia anteriore, Damasco è menzionata nella Genesi; Davide compí contro di essa una spedizione, e la uní per un certo periodo al Regno d’Israele. La città cadde poi sotto il dominio degli Assiri (732-625 a.C.) e dei Babilonesi (625-538 a.C.), ai quali subentrarono i Persiani (538-332 a.C.). Alla morte di Alessandro Magno, la provincia siriana fu governata dai Seleucidi, sotto i quali entrò nell’orbita della cultura ellenistica. Terra privilegiata per la diffusione del cristianesimo – proprio sulla via di Damasco Paolo si convertí e iniziò la sua predicazione –, la Siria conservò a lungo quel carattere interreligioso che vide fianco a fianco gli ultimi esiti del paganesimo e le diverse correnti cristiane. Quello di Siria è un ellenismo di frontiera, che pensa in greco ma parla, e scrive, in siriaco; nell’età tardo-antica, questa lingua semitica, fortemente ellenizzata nel lessico, rappresentò un veicolo preziosissimo, che portò, in un’epoca di crisi a Bisanzio e nella latinità, alla riscoperta del sapere greco nel mondo arabo.

Lotta al paganesimo

Il cristianesimo diventa a Damasco l’espressione religiosa maggioritaria da quando, nel 395, la città è integrata all’impero romano. È un cristianesimo non sempre in linea con l’ortodossia sancita a Bisanzio: sede di un vescovado dipendente da Costantinopoli, Damasco registra tuttavia una forte presenza di giacobiti monofisiti, la cui ostilità contro la chiesa melchita avrà un certo peso nella conquista araba. Dopo il tentativo anticristiano di Giuliano l’Apostata – che ad Antiochia, rinnovava la religiosità sincretistica tipica dell’età tardoantica iniziandosi ai culti di Mitra – la lotta al 132

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paganesimo a Damasco acquista un carattere di grande visibilità monumentale: il mastodontico tempio di Giove Damasceno viene sconsacrato, la piazza antistante è occupata da un grande mercato, e l’interno dell’edificio viene trasformato nella cattedrale di S. Giovanni Battista; nella cripta è riposta la reliquia della testa del santo, grazie alla quale i pellegrinaggi cristiani sostituiscono quelli pagani al tempio di Giove. Nel 634, un monaco autore di un’anonima cronaca siriaca crede di scorgere i segni inequivocabili dell’Apocalisse: orde di barbari provenienti dall’Arabia cingono d’assedio Damasco e, dopo una brevissima resistenza, si impossessano della città. Di tutt’altro avviso doveva essere la maggioranza della popolazione damascena – cristiana anch’essa, ma giacobita e profondamente avversa ai Bizantini – che, guidata da un gruppo di notabili stretto intorno al logoteta (da logos, nel senso di «conto», e tithemi, «porre, considerare», era l’alto funzionario che in origine verificava i conti di cassa dello Stato, e in seguito occupò un posto di rilievo nella gerarchia imperiale, n.d.r.) Mansûr ibn

In alto la cappella della moschea che custodisce la testa di Giovanni Battista. Nella pagina accanto dipinto che raffigura l’entrata principale della grande moschea degli Omayyadi. Olio su tela di Gustav Bauernfeind, 1890. Collezione privata.


una ricca raccolta di manoscritti e le prime traduzioni La Damasco omayyade vede nascere, oltre alla prima produzione teologica islamica legata allo spinoso (anche da quelle parti) problema del libero arbitrio, anche altri caratteri peculiari della città islamica; fra tutti, forse il piú importante per la storia della cultura e dei passaggi di sapere, è la biblioteca palatina voluta da Mu‘âwiya II († 683). Il malinconico principe cadetto Khâlid ibn Yazîd, estromesso dalla successione, si consolò ereditando e arricchendo questo fondo di manoscritti; la leggenda secondo la quale il dotto principe commissionò ad alcuni monaci greci la traduzione araba di testi medici e d’alchimia contiene forse qualche elemento di verità; è altamente probabile, anzi, che a Damasco si sia inaugurata – ma senza lasciare tracce dirette – l’opera di traduzione in arabo di testi neoplatonici e di medicina.


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Damasco

Sargiûs (padre del piú famoso Giovanni Damasceno), collabora attivamente con le truppe musulmane favorendone l’arrivo e impedendo alle milizie inviate in fretta e furia dal Nord di soccorrere la guarnigione bizantina stanziata nella città. Tanta simpatia nei confronti dell’invasore era dovuta essenzialmente alla pesantezza del giogo bizantino, specialmente in materia fiscale; e il malcontento assumeva il fattore religioso a elemento centrale delle proprie rivendicazioni.

La conquista araba

Non è un caso, del resto, che ad aprire le porte della città all’esercito arabo furono non solo i rappresentanti delle classi piú abbienti, ma il vescovo giacobita in persona. Impadronitisi della città, gli Arabi garantirono agli abitanti il possesso delle terre, dei beni e delle chiese, imponendo una tassa annuale. Nel 636, un inutile tentativo bizantino di riconquista fallisce secondo modalità analoghe; da quella data, la città entrerà per sempre nell’orbita storica e culturale dell’Islam. Per i primi decenni, la conquista araba di Damasco e della provincia siriana mantenne il carattere di un protettorato piú che di una occupazione. Inoltre, accanto a una arabizzazione lenta, che per molto tempo non alterò le istituzioni bizantine della pubblica amministrazione, si verificò, da parte dei conquistatori, una condivisione ben piú rapida dello stile di vita e delle abitudini culturali della città. Anche se gli Arabi, prima dell’Islam, non furono mai del tutto tagliati fuori dalla cultura ellenistica, fu l’atmosfera damascena a indurre in maniera piú incisiva la nascente aristocrazia araba a fare propria l’eredità del mondo greco, che proprio nelle periferie dei grandi imperi (la Siria, come anche l’Egitto, per Bisanzio, l’Armenia per la Persia) veniva ancora custodita e trasmessa. Nel 661, anno in cui il governatore della Siria,

Mu‘âwiya, viene eletto califfo, Damasco diventa la capitale del giovane impero arabo-islamico. Quella del primo califfo omayyade è una corte cosmopolita, specchio di una città che si presenta come una sorta di esperimento multietnico e, soprattutto, interreligioso, di ciò che sarà in seguito una costante delle grandi capitali dell’ecumene musulmana. I nuovi signori della Siria, portatori di una fede che non costringe alla conversione (un versetto coranico proibisce la costrizione nella fede), hanno l’appoggio, qui come altrove lungo il flusso delle conquiste, di tutte quelle

le date da ricordare 395 La città è parte dell’impero romano.

661 Primo califfato omayyade. Damasco è eletta capitale. Edificazione della prima Grande Moschea e del palazzo di al-Khadra.

634 Avvento della conquista araba.

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750 Sottratto il potere alla dinastia omayyade, gli Abbasidi trasferiscono la capitale a Baghdad.

VIII sec. Il califfo al-Walid I realizza la nuova Grande Moschea, un’opera imponente che si sostituisce alla cattedrale di S. Giovanni Battista, di cui conserva l’impianto basilicale.

1400 La città è saccheggiata dall’esercito di Tamerlano.

XII-XVI sec. Damasco rifiorisce sotto la dominazione degli Ayyubiti e dei Mamelucchi.

1516 L’impero ottomano si impadronisce della provincia siriana.


A sinistra, sulle due pagine particolare degli interni dell’edificio religioso ornati da preziosi mosaici. A destra la moschea degli Omayyadi riprodotta dal miniaturista ottomano Nakkas Osman. 1582. In basso disegno ricostruttivo di Damasco, cosí come doveva presentarsi nell’VIII sec.

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Damasco

pratica del culto e dibattito politico Il califfo omayyade Mu‘âwiya I (661-680) non interviene in maniera decisiva sull’assetto urbano di Damasco; sceglie come sede califfale quella che era stata la residenza dei governatori bizantini, alle spalle della cattedrale cristiana, rimaneggiandola senza mutarne la fisionomia, costituita da un insieme di edifici amministrativi. A fianco del palazzo, ordina la costruzione della Dâr al-khayl, la residenza degli ambasciatori. La moschea califfale, inizialmente modesta, venne realizzata entro l’ampia area dell’ex tempio dedicato a Giove Damasceno, lasciando intatta la cattedrale di S. Giovanni Battista, al cui interno cristiani e musulmani venerano la reliquia della testa del santo. Fu Walîd I (705-715) a realizzare il

primo capolavoro dell’arte islamica a Damasco, la Grande Moschea omayyade. Dietro pagamento di un gradito indennizzo che placa in parte l’irritazione della comunità cristiana damascena, la moschea rimpiazza la cattedrale, ne conserva la pianta a basilica, ingloba il porticato prospiciente l’entrata e lo arricchisce degli splendidi mosaici – opera di artisti locali –, in cui si celebra la bellezza di Damasco secondo quei temi paesaggistici che l’avevano resa famosa fra gli Arabi del deserto: i palmeti e i giardini, resi possibili dall’abbondanza delle acque del fiume Barada e dei suoi canali. La rappresentazione della città sembra essere un punto di raccordo fra la tendenza artistica di matrice greca del tempo – spazi

A sinistra ritratto del teologo siriano Giovanni Damasceno (676-749), venerato come santo sia dai cattolici che dagli ortodossi. Incisione di André Thevet. XVI sec. Nella pagina accanto il minareto principale della moschea degli Omayyadi (detto di Qayt Bey).

assolutamente privi di qualsiasi segno della presenza umana – e quell’assenza di figure umane che divenne il carattere peculiare dell’arte religiosa islamica. Ma con questa realizzazione lo spazio pubblico che fu dell’agorà nella città greca e del foro in quella romana viene ripensato nella visione urbanistica islamica, inglobato e rielaborato nella funzione municipale e laica della moschea, che già nel suo modello piú antico – la moschea del Profeta a Medina – ospitava oltre alle pratiche del culto anche i dibattiti della vita politica della comunità musulmana. A Damasco, il modello antico viene superato in un’ottica di monumentalità, che pone la moschea-cattedrale a ridosso del palazzo califfale.

minoranze cristiane – i monofisiti in Siria, i copti in Egitto, i nestoriani in Iran – che Bisanzio perseguita in patria come eretiche, ma che nei confini dell’impero islamico si vedono garantito, in cambio di una tassa, il diritto di mantenere i proprio culti e la propria amministrazione giuridica.

Convivenza pacifica

Alla corte omayyade, dove la grecità comincia pian piano a parlare arabo, di fatto i cristiani dominano, occupando i posti chiave dell’apparato burocratico. Il poeta al-Akhtal († 710), uno dei maggiori dell’età omayyade, gira a palazzo indisturbato con la croce d’oro al collo e il cordone di San Sergio. Giovanni Damasceno († 749), figlio del logoteta che favorí l’ingresso degli Arabi a Damasco, prima di diventare monaco a Gerusalemme (e, da morto, uno dei santi piú cari al cristianesimo orientale), è consigliere del califfo, e scrive in greco la sua disputa fra un cristiano e un saraceno dove, al di là del tono confutativo – peraltro tipico del tempo, e placidamente ricambiato dalla nascente teologia islamica che proprio a Damasco comincia ad affinare, a suon di logica aristotelica, la propria tecnica argomentativa –, emerge una vicinanza tale fra le due religioni da far percepire l’Islam, agli occhi dei contemporanei cristiani orientali (del resto abituati a piccoli e grandi scismi per questioni dogmatiche), come l’ennesima variante «eterodossa» del cristianesimo. 136

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l’architettura come rappresentazione del potere L’architettura monumentale arabo-islamica, a Damasco, rappresenta in maniera straordinaria la sintesi raggiunta nell’VIII secolo fra l’arte ellenistica e la concezione della sovranità della dinastia omayyade. Una concezione che nell’arco di un secolo, a partire dal tradizionale ideale democratico delle tribú arabe, dove il capo era eletto da un collegio di anziani di pari dignità, è andata assumendo un carattere sempre piú in linea con i modelli regali offerti da Bisanzio e dalla Persia. La corte damascena degli Omayyadi non raggiunse mai quel livello di complessità del cerimoniale palatino che avrebbe caratterizzato la successiva dinastia degli Abbasidi; tuttavia, proprio con la dinastia omayyade avviene una trasformazione della concezione del potere califfale: rispetto alla semplicità dei primi successori del Profeta, essa sfociò in una sovranità assoluta che, al pari dell’analoga visione bizantina, cerca nella religione un argomento legittimante. Il palazzo califfale e la moschea-cattedrale, elementi essenziali della città islamica medievale, a Damasco seguono in parallelo, nel loro sviluppo, quello della rappresentazione e della visibilità pubblica della sovranità omayyade.

Damasco capitale durò circa un secolo. Nel 750 la dinastia omayyade fu rovesciata dagli Abbasidi, che trasferirono il centro dell’impero a Baghdad. Tuttavia, la città non diventò mai periferia, ma seppe conservare la sua aura di prestigio. Continuò a essere uno dei maggiori centri religiosi e intellettuali del mondo araboislamico, e assunse di nuovo un ruolo di primaria importanza all’epoca delle crociate. Con Norandino († 1174) e poi con Saladino († 1193), Damasco tornò a essere il polo, insieme al Cairo, di una vasta entità politica che comprendeva la provincia siriana (corrispondente all’attuale Siria, al Libano e alla Palestina) e l’Egitto. Dal XII secolo, epoca in cui all’unità nominale del califfato di Baghdad fa riscontro di fatto una divisione del mondo musulmano in diversi blocchi, una simile centralità entro l’area del Vicino Oriente arabo non fu piú messa in discussione. Damasco perse la sua supremazia politica, ma non certo il prestigio e il rilievo strategico, con la conquista della provincia siriana da parte dell’impero ottomano, nel 1516; anche in epoca ottomana la città vide confermato il suo destino di capitale «morale» dell’Islam.

Dove e quando Al momento della preparazione e della stampa di questo «Dossier» la situazione politica della Siria è, purtroppo, ancora fortemente compromessa. Non possiamo perciò fare altro che riportare il testo dell’avviso diramato il 30 gennaio 2014 dal sito viaggiaresicuri.it, che opera sulla base delle informazioni fornite dal Ministero degli Affari Esteri: «In considerazione dell’attuale situazione di elevato rischio e di grave pericolosità, si sconsiglia di recarsi in Siria».

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Il cerchio del potere di Leonardo Capezzone

Battezzata in vario modo, da Città della Pace a Città Storta, Baghdad fu, soprattutto, la Città Rotonda: un assetto urbanistico voluto dal califfo al-Mansûr, che coniugava esigenze pratiche e forti messaggi simbolici

Baghdad. Le caratteristiche arcate con volte a muqarnas del Palazzo Abbaside, uno degli edifici storici piú antichi della capitale. XIII sec.


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L

Baghdad

a presa del potere da parte della dinastia abbaside, che regnerà dal 750 al 1242, sposta il baricentro della storia araboislamica verso Est. Eliminati gli Omayyadi di Damasco – l’ultimo dei quali, ‘Abd al-Rahmân (756-788), fu accolto dalla colonia siriana d’Andalusia, dove proseguirono le vicende della dinastia (vedi alle pp. 55-63) – gli Abbasidi, volgendosi verso quelle regioni iraniche del resto già da circa un secolo sotto il dominio arabo, sembrano infatti farsi interpreti di una propensione quasi innata della civiltà islamica verso Oriente. Se si guarda alla storia islamica dei primi secoli, privilegiando come chiave di lettura la sua peculiare disposizione nei confronti

dell’eredità culturale delle società che essa ha via via inglobato, e quella sua particolare capacità di produrre «rinascimenti» là dove arriva, la fondazione di Baghdad sembra costituirne la sintesi esemplare. Se, infatti, Damasco ha rappresentato l’integrazione dell’ellenismo nella civiltà arabo-islamica, facendone una sua componente inalienabile (vedi alle pp. 130-137), Baghdad ne è senz’altro la prosecuzione, in quanto ingloba nella sua orbita il versante ellenistico della Persia e delle sue province; in piú, la nuova capitale dell’impero abbaside incarna perfettamente l’ampliamento degli orizzonti storico-culturali dell’Islam, facendo dell’eredità iranica l’altra sua grande componente.

In basso la fontana e il cortile interno del Palazzo abbaside. L’edificio, che si affaccia sulla riva sinistra del fiume Tigri, fu costruito, presumibilmente, nel periodo del califfato di Al-Nasir li-Din Allah (1179-1225).

le date da ricordare 750 Avvento al potere della dinastia Abbaside, che dopo aver cacciato gli Omayyadi toglie a Damasco il ruolo centrale nella società arabo-islamica.

762 Il califfo al-Mansûr progetta la Città Rotonda.

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797 Giunge a Baghdad la prima legazione inviata da Carlo Magno: è l’inizio di una serie di incontri tra le due corti e generosi scambi di doni.


il bambino che rubava i dolci... un’infiammazione agli occhi. Saputo che il califfo desiderava costruire una città, il medico informò il cortigiano di una profezia contenuta in uno dei suoi libri antichi. Stando alla profezia, un uomo chiamato Miqlâs avrebbe fondato una città chiamata al-Zawrâ’ («la Storta», uno dei nomi di Baghdad), fra il Tigri e le rovine di un palazzo reale (Ctesifonte); a costruzione ultimata, però, si sarebbe accorto di una breccia nella cinta muraria rivolta verso l’Arabia; riparata la breccia, si sarebbe poi accorto di una seconda breccia, ben piú minacciosa, nella cinta muraria verso Bassora. Quando al-Mansûr ascoltò questa strana storia, si ricordò che da bambino, per aver rubato alcuni dolci, fu soprannominato col nome di un famoso ladro, appunto Miqlâs. Immediatamente, il califfo capí di essere l’uomo della profezia, e quale dovesse essere il luogo in cui fondare la capitale della sua dinastia; impiegò senz’altro piú tempo a capire che la prima breccia alludeva a una rivolta antiabbaside scoppiata a Medina, e facilmente sedata, mentre la seconda indicava una ripercussione della stessa rivolta, ma ben piú virulenta, a Bassora.

Nelle leggende arabo-islamiche relative alla fondazione di città nei territori conquistati, compare sempre un elemento chiave, grazie al cui valore simbolico emerge quell’ideologia dell’eredità storica dei popoli e delle culture che l’Islam accoglie e arricchisce, elaborata da questa civiltà nei primi secoli intorno alla storia della sua espansione: è la figura di un cristiano, dunque un rappresentante delle Genti del Libro, come l’Islam definisce – riconoscendole come piú precedenti autorevoli del messaggio coranico – le religioni detentrici di un testo sacro rivelato. È dunque un cristiano (spesso un eremita), a indicare al futuro fondatore una traccia del passato – un oggetto, un elemento architettonico, ma soprattutto un antico libro – che segna il luogo destinato ad accogliere una città. Al-Tabarî († 923), autore di una cronaca universale scritta su commissione abbaside, riporta una leggenda secondo la quale, mentre al-Mansûr e il suo seguito erano in cerca di un luogo in cui erigere una nuova città, un cortigiano dovette fermarsi presso le rovine di Ctesifonte per farsi curare da un medico – cristiano per antonomasia –

A destra il cuore politico della capitale irachena si trovava nella «cittadella rotonda» (Madinat al-Mansûr), la cui costruzione iniziò nel 767 e si concluse quattro anni piú tardi. Qui ne vediamo una rappresentazione schematica: 1. palazzo e moschea del califfo; 2. corpo di guardia; 3. disposti all’interno di una doppia circonferenza intorno alla residenza califfale si trovavano i palazzi dell’amministrazione pubblica e le residenze di ufficiali e funzionari; 4. porta; 5. nell’area suburbana a nord si trovavano gli acquartieramenti dei militari; 6. l’area a sud della cittadella ospitava il grande mercato; 7. sezione ricostruttiva di una porta; 8. fiume Tigri.

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IX sec. Fondazione del Bayt al-Hikma, la biblioteca del califfo Harun al-Rashid, destinata a diventare il massimo polo culturale della civiltà islamica. Il califfo al-Ma’mûn dà vita all’Accademia. 1092 Nasce la prima università di studi giuridici sotto il dominio dei sultani selgiuchidi.

1258 Baghdad è devastata dai Mongoli.

Una delle piú famose leggende sulla fondazione di Baghdad ha per protagonista un ladro di nome Miqlâs capitali del medioevo

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Baghdad

Nel 762, al-Mansûr, secondo califfo della dinastia († 775), progetta personalmente la sua capitale: una città rotonda nell’Iraq persiano, di fronte alle rovine di Ctesifonte, la residenza estiva dei Sasanidi. Gli storiografi di Baghdad riportarono, come esige la regola per tutte le grandi capitali, una nutrita serie di leggende, di profezie e di segni premonitori che avrebbero indicato nel califfo, peraltro affetto da un’avarizia proverbiale, il fondatore della piú importante metropoli dell’Alto Medioevo, la città dai molti nomi – la Città della Pace, la Città Rotonda (o, nella variante scaramantica, la Città Storta), o semplicemente la Città di al-Mansûr.

Il valore simbolico della fondazione

Le fonti arabe medievali sulla fondazione di Baghdad, consapevoli della sua importanza, tendono quasi sempre a caricare questo atto della volontà califfale di valori simbolici, spesso difficili da decifrare. Le tematiche che esaltano la portata storica e simbolica della decisione del sovrano sono riconducibili a due grandi filoni: il primo riflette i vantaggi geografici e climatici del sito, racchiuso fra il corso del Tigri e dei suoi Il mausoleo dello sceicco e mistico musulmano Omar al-Sahrawardi, vissuto a cavallo fra il XII e il XIII sec., in una incisione di Maxime E. Flandin tratta da Le Tour du monde (1860).

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affluenti; il secondo pone una certa enfasi sulla città come monumento legittimante il potere e l’autorità del califfo e della sua dinastia. Al-Mansûr è un sovrano illuminato, che traduce in un progetto urbanistico la somma delle conoscenze del tempo: gli studiosi hanno spesso inquadrato in quest’ottica l’analisi del reale valore simbolico della fondazione di Baghdad, la Città Rotonda. Prevale il simbolismo miticoreligioso del centro, di origine indo-iranica, a sottolineare il legame ideale con la sovranità di tipo sasanide – contro l’ispirazione piú spiccatamente bizantina dell’immagine califfale omayyade – o è un nuovo sistema di relazioni e di simboli che si va stabilendo? Nelle intenzioni di al-Mansûr, Baghdad doveva accogliere esclusivamente il palazzo califfale e l’apparato burocratico e amministrativo dell’impero. Sebbene non rimanga piú nulla della Città Rotonda, distrutta dai Mongoli nel 1258, restano numerose descrizioni letterarie di questa sorta di città-celebrazione della dinastia abbaside: i simboli piú evidenti del potere temporale e religioso – il palazzo e la moschea – erano posti al centro di una doppia circonferenza che accoglieva, entro


sotto l’auspicio di giove

In alto la moschea dedicata ad Omar al-Sahrawardi, una delle piú antiche della città irachena. XIII sec. A destra miniatura del geografo, scrittore e medico Zakariya al-Qazwini (1200-1283) raffigurante un astrologo arabo di corte.

Nelle cronache sulla fondazione di Baghdad, il sapere dei topografi e degli architetti sembra in parte oscurato da quello, prioritario, degli astronomi e degli astrologi, in cui l’ordine matematico decifra il giudizio degli astri, le profezie oracolari e i segni rivelatori del luogo adatto. L’oroscopo della città, posta sotto l’auspicio di Giove, viene redatto da un membro dei Nawbakht, famiglia di origine persiana, convertita all’Islam da poco, e che diede alla città una schiera di filosofi e di scienziati; fra i saggi che elaborano insieme all’astrologo la mappa celeste al momento della fondazione c’è Hajjâj ibn Yûsuf, già famoso al tempo per le sue traduzioni scientifiche dal greco. Al loro fianco, operano l’ebreo Mâshâllâh al-Basrî, primo astrologo personale del califfo e autore di opere di tecnica e strumentazione agrimensorie; al-Fâzârî, esperto progettista di astrolabi; Abû Hafs al-Tabarî, commentatore del Quadripartitum di Tolomeo e traduttore dal persiano.

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vicino ORIENTE La moschea di Kazimayn, nota per la sua splendente cupola dorata. XIV-XVI sec.

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Baghdad


comodità mai viste Nei suoi circa cinquecento anni di vita come capitale del califfato, Baghdad è stata probabilmente la città medievale col piú alto livello di qualità della vita. Città cosmopolita quante altre mai, garantiva ai suoi abitanti comodità che a quei tempi stupivano il viaggiatore occidentale, dall’illuminazione notturna nelle grandi arterie alle terme e ai bagni pubblici. Al riguardo, mancano, purtroppo, notizie desumibili dalle fonti: è comprensibile che i cronisti e i viaggiatori musulmani medievali non ritenessero necessario registrare ciò che, ai loro occhi, doveva essere ovvio. Abbonda, invece, la documentazione sulla vita intellettuale di Baghdad, non a caso anche capitale, dal IX secolo, di quel vasto movimento di riscoperta e di traduzione del sapere greco, decisivo per la storia mondiale delle conoscenze, che aveva come centro l’Accademia fondata dal califfo filosofo al-Ma’mûn (813-833). Nel X secolo, la capitale ospita il maggiore ospedale del tempo; innumerevoli sono le librerie, ma stimate a 300, fra piccole e grandi; private, semipubbliche e pubbliche, le biblioteche. Alla fine dell’XI secolo, il visir Nizâm al-Mulk († 1092) fonda nella capitale, ormai dominio dei sultani selgiuchidi, la prima università di studi giuridici; in un secolo, Baghdad divenne la città col piú alto numero di istituzioni accademiche del mondo medievale. I cronisti ci dicono che al-Musta’sim, l’ultimo califfo abbaside, prima di morire pugnalato nel 1258 da un soldato mongolo, riuscí a vedere l’acqua del Tigri divenuta nera dell’inchiostro disciolto dalle pagine delle migliaia e migliaia di manoscritti gettati nel fiume dalle orde di Gengis Khan, dopo aver passato a ferro e fuoco la città.

le mura circondate da un fossato, gli uffici dell’amministrazione, le residenze dei funzionari di corte e le caserme della guardia personale del califfo. A sottolineare l’ordine simmetrico, quattro porte monumentali si aprivano lungo le mura, a 90 gradi l’una rispetto all’altra, verso le grandi regioni dell’impero: la Persia, la Siria, le città di Kufa e di Bassora (vedi piantina a p. 141). Le descrizioni lasciano pensare a molteplici tradizioni artistiche che si incontrano, esprimendo attraverso le forme architettoniche e i motivi decorativi numerosi simboli dell’autorità. Tuttavia non è chiaro, negli autori che la descrivono, fino a che punto determinati modelli architettonici fossero il riflesso dei gusti personali di al-Mansûr – la pianta generale della città, per esempio – e in che misura le soluzioni architettoniche ed estetiche fossero in funzione di un esplicito simbolismo politico. Baghdad, nei resoconti di viaggio o nelle cronache, viene evocata sempre in termini di immediatezza e di meraviglia, che non lasciano spazio a vere e proprie valutazioni estetiche al di là del fatto che essa è una città unica al mondo. In realtà, Baghdad non è stata l’unica sede regale in cui è possibile rintracciare l’immagine cosmica di una città rotonda, che per alcuni studiosi è peculiare del Vicino Oriente antico; tuttavia, rispetto al simbolismo concentrico che

caratterizzava, per esempio, l’immagine del potere sasanide, il quale includeva anche una concezione della sovranità per cosí dire assiale, di raccordo fra centro del mondo e centro del cielo, sembra certo che la forma rotonda scelta da al-Mansûr si attenesse a un ordine simbolico molto piú in linea con l’ideologia religiosa dell’Islam, che non concede affatto una dimensione di per sé sacra al ruolo del califfo.

Equidistanza tra centro e province

In realtà, il cerchio, piú del quadrato, rispondeva a una ricerca simbolica di simmetria dominata piuttosto dall’equidistanza orizzontale fra il centro, occupato dal palazzo e dalla moschea, l’apparato burocratico, e, al di là delle mura, i territori dell’impero. Se di una volontà di rappresentazione simbolica del potere e della legittimità del califfo si trattava, infatti, doveva necessariamente esprimersi in una maniera comprensibile alla società cui essa era rivolta. Questa concezione della centralità, focalizzata nel palazzo, era accentuata dalla Cupola Verde, visibile al di sopra delle mura circolari, sormontata da un automa di bronzo. L’associazione fra la Cupola Verde e l’autorità abbaside veniva ancora ricordata nell’XI secolo, dallo storico di Baghdad al-Khatîb al-Baghdadî, in un periodo in cui ormai la centralità abbaside era stata messa in discussione e i califfi rivestivano un’autorità solo formale e rappresentativa: «La Cupola era davvero la corona di Baghdad, un punto di riferimento visibile a grande distanza, una delle cose piú memorabili fra quelle connesse alla fama degli Abbasidi. La notte di martedí, settimo giorno del mese di Jumadâ II dell’anno 329 [22 aprile 974], la cima della Cupola Verde si sgretolò come argilla, dopo ore di pioggia torrenziale, tuoni spaventosi, e fulmini terrificanti». In quel tempo, la città artificiale progettata da al-Mansûr era ormai la metropoli piú popolata dell’impero; da circa un secolo, ormai, gli Abbasidi se ne erano allontanati, trasferendo quell’unità architettonico-governativa formata dalla residenza califfale e dagli uffici della cancelleria in una nuova città regale: Samarrâ, forma contratta del detto «Felice chi la vede».

Dove e quando Al momento della preparazione e della stampa di questo «Dossier» le condizioni di sicurezza all’interno dell’Iraq risultano contraddistinte da forte instabilità. Riportiamo quindi uno stralcio dell’avviso diramato il 5 febbraio 2014 dal sito viaggiaresicuri.it, che opera sulla base delle informazioni fornite dal Ministero degli Affari Esteri: «La capitale Baghdad, cosí come molte altre Province della fascia centrale dell’Iraq, hanno subíto una ripresa delle attività terroristiche su grande scala. L’Iraq non può pertanto essere considerata una meta per il turismo».

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