da 101 no ca n st pe el rd l er i e
Dossier
CAVALIERI, AMORI E MISTERI
101 castelli d’italia DALLA VALLE D’AOSTA ALLA SICILIA, UN AVVENTUROSO VIAGGIO ALLA RISCOPERTA DEI LUOGHI SIMBOLO DELL’ ETÀ DI MEZZO
€ 6,90 N° 3 2014
Bimestrale - My Way Media Srl
MEDIOEVO DOSSIER 101 castelli d’italia
EDIO VO M E
101 castelli
d’italia a cura di Francesco
Colotta
testi di Patrick Boucheron, Francesco Colotta, Roberto Comunale, Flavio Conti, Paolo Galloni, Domenico Gambardella, Jean-Claude Maire Vigueur, Alberto Maisto, Chiara Parente, Luca Pesante, Stefania Romani, Enrica Salvatori, Maria Paola Zanoboni
I
castelli sono una presenza costante nel paesaggio italiano, uno dei tratti distintivi dell’identità territoriale del nostro Paese. Concepiti nell’età di Mezzo per fini di semplice difesa, assunsero in seguito forme aggraziate, acquisendo un fascino perlopiú estetico. Stilare un elenco ristretto di tali bellezze può rivelarsi una semplificazione arbitraria. Certo, i 101 castelli scelti da «Medioevo» per questo nuovo Dossier sono un numero esiguo, se messo a confronto con le migliaia di capolavori che l’architettura militare italiana può vantare. È vero, dunque, che l’inevitabile, ridotto margine di scelta ha comportato esclusioni anche sofferte. Confidiamo, però, nel fatto che una sintesi può risultare piú appagante di un corposo compendio. Questo nostro Dossier, dunque, non deve scontentare nessuno! E, anzi, vuole essere uno stimolo rivolto ai nostri lettori per scoprire quanto non appare in queste pagine e creare, cosí, un personale atlante dei «castelli nascosti»... Buona lettura!
sommario presentazione 6 Tra mura amiche valle d’aosta
liguria 34 Dolceacqua Il gigante del Nervia 38 Castelnuovo Magra, Sarzana, Lerici, La Spezia lombardia 40 Milano e Vigevano Costruire per intimidire 42 Pavia, Angera, Mantova, Sirmione veneto 48 Malcesine Sentinella del lago
18 Fénis La forza di una visione
52 Villafranca, Soave, Zumelle, Verona
22 Bard, Verrès, Sarriod de la Tour, Saint-Pierre
Trentino-Alto adige
piemonte 24 Manta I prodi, le eroine, l’arme e gli amori... 32 Fossano, Montalto Dora, Ivrea, Serralunga d’Alba, Gaglianico
54 Avio Amore fatale 58 Castel Roncolo, Appiano, Trento, Cles friuli-venezia giulia 60 Trieste Tra Venezia e gli Asburgo
64 Gorizia, Duino, Villalta Fagagna, Arcano Superiore
92 Narni, Gualdo Tadino, Castiglione del Lago, Assisi
Emilia-Romagna
lazio
66 Torrechiara Sublime armonia
94 Ostia Il bastione del papa
72 San Leo, Ferrara, ForlĂ, Fontanellato
99 Civita Castellana, Bracciano, Roma, Santa Severa
Toscana
abruzzo
76 Fosdinovo Bianca, il cane e il cinghiale
102 Roccascalegna Tra pietra e cielo
79 Radicofani, Poggio Imperiale, Volterra, Sansepolcro, Forte di Brolio marche 82 Gradara Nella rocca di Paolo e Francesca
105 Ortona, Pacentro, Celano, Balsorano Molise 108 Campobasso La fortezza del conte Nicola
puglia 118 Castel del Monte La corona di pietra 122 Otranto, Oria, Manfredonia, Bari basilicata 124 Lagopesole Un reale buen retiro 127 Venosa, Melfi, Miglionico Calabria 128 Santa Severina Il diavolo fa le travi... 132 Le Castella, San Marco Argentano, Reggio Calabria, Gerace sicilia 134 Erice Nel segno di Venere
111 Monteroduni, Cerro al Volturno, Venafro
137 Enna, Caccamo, Paternò, Adrano, Siracusa
campania
sardegna
umbria
112 Salerno Imprendibile!
140 Burgos Goceano senza pace
88 Spoleto Qui comanda la Chiesa
116 Napoli, Benevento, Castellammare di Stabia
143 Sanluri, Castelsardo, Bosa, Posada
86 Sassocorvaro, Mondavio, Senigallia, Caldarola
Tra mura di Luca Pesante
amiche I
l castello medievale appartiene al nostro paesaggio immaginario, ma rappresenta al contempo un elemento del paesaggio reale di oggi, sia esso in rovina, trasformato in un museo oppure sede di un’istituzione pubblica. Salvo rari casi, i castelli hanno subíto molti cambiamenti nel corso dei secoli, sia nella forma che nella funzione: basti pensare alle numerose prigioni che, fino a pochi anni fa, erano ospitate proprio all’interno di imponenti strutture fortificate medievali. Nell’accezione piú comune del termine, il castello è innanzitutto un luogo in cui si abita: la casa che un signore condivide con i suoi familiari e i suoi domestici, ma non si tratta di una semplice – seppure ricca – dimora. Esso rappresenta il simbolo del potere, della ricchezza e del prestigio di chi vi risiede. Nel Medioevo quasi tutto si esprimeva con simboli – è in questo periodo del resto che viene inventata l’araldica – ed è pertanto necessario approssimarsi alla scoperta dei castelli d’Italia anche attraverso questa chiave di lettura. Un esempio preciso: pen-
Castel del Monte (Andria, Puglia). Costruita per volere di Federico II, la fortezza richiama una corona e cosĂ lo stesso potere imperiale.
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Presentazione
siamo a Castel del Monte, che cosa può essere quella enorme corona ottagonale di pietra se non il piú evidente simbolo del potere imperiale? È la stessa corona che troviamo anche su oggetti in ceramica, avorio, bronzo, ma in questo caso di dimensioni tali da costituire una residenza per l’imperatore stesso e una straordinaria meraviglia, visibile a decine di chilometri di distanza. Non esiste, dunque, solo una ragione «funzionale» che spiega la forma, la posizione e le dimensioni dei castelli medievali, ma si deve considerare come determinante un gusto estetico particolare, tipico della cultura medievale. In quei secoli la bellezza era tale – ce lo ha ben spiegato Tommaso d’Aquino – soltanto nei casi in cui erano soddisfatte tre condizioni molto precise: la luminosità (claritas), la proporzione (proportio), e in ultimo l’integrità (integritas). E sarebbe un errore pensare che tale criterio fosse applicato soltanto all’arte pittorica, alla scultura o alla costruzione di chiese.
quasi una città in miniatura Disegno ricostruttivo raffigurante una motta. Sulla sommità di un rilievo artificiale (1), sorgeva la torre (2), usata per il controllo militare del territorio, come estremo rifugio in caso di attacco e, talvolta, anche come abitazione. Alla motta, a cui si accedeva per un ponte mobile (3), era unita una bassa corte (4), cinta da una palizzata e circondata da un fossato. Qui si trovavano edifici a uso abitativo (5) o, come l’aula (6), amministrativo, oltre a stalle (7), fienili (8), laboratori artigiani, quali forgia e armeria (9), e, a volte, una cappella (10).
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Uno strumento di difesa
Nell’età di Mezzo la sicurezza non è un privilegio per tutti, e anche se si era benestanti non era facile scampare alla violenza della guerra, della vita cittadina, nonché della vita domestica. Il castello, dunque, era innanzitutto una difesa, ma anche uno strumento fondamentale di offesa, poiché dal suo interno si poteva controllare un territorio: entro le sue mura risiedevano uomini armati, si amministrava la giustizia, si regolava per certi versi la vita delle terre circostanti. Il mondo tardo-antico aveva trasmesso al Medioevo numerose opere difensive che rispondevano a scelte di vario tipo: fortini posti lungo le frontiere (si pensi al Vallo di Adriano in Scozia), mura urbane che cingevano moltissime città dell’impero, ville padronali fortificate nelle campagne. In molte regioni d’Europa erano diffuse, sin dall’età preistorica, fortificazioni costituite in pianura da recinti di terra battuta e in altura da muri a sec-
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la motta, un’invenzione normanna La motta è un sistema di fortificazione importato dai Normanni nell’Italia meridionale costituito da un accumulo artificiale di terreno (o dal taglio di un piccolo rilievo naturale) circondato da un fossato e da palizzate e sbarrramenti lignei. La struttura abitativa era prevalentemente una torre in legno ed era disposta sulla sommità del terrapieno di forma tronco-conica (la motta vera e propria). La motta è una fortificazione tipica dei territori di pianura, diffusa soprattutto nell’XI secolo nell’Europa del Nord. La scarsa diffusione in Italia è dovuta alla geomorfologia stessa del paesaggio: la facilità con cui era possibile trovare una posizione naturalmente difesa (speroni circondati da ripide pareti di roccia, o impervie sommità collinari) contribuí a determinare la forma delle fortificazioni nella nostra Penisola. Nello sviluppo del potere feudale, le motte segnano un momento fondamentale, in quanto rappresentano il primo passo concreto del legame tra il potere e il territorio.
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Particolare del telo ricamato di Bayeux (comunemente detto «arazzo») raffigurante i cavalieri normanni di Guglielmo il Conquistatore che assaltano la motta di Dinan in Bretagna e ne incendiano le fortificazioni lignee. 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.
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quando si dice «castello» La parola «castello» (diminutivo di castrum) è in realtà molto piú antica del Medioevo, ma se in età romana definiva l’accampamento militare, nell’età di Mezzo indica un centro abitato fortificato (mentre con il termine rocca si indica un singolo edificio fortificato). Già agli inizi del Medioevo la Penisola è punteggiata di castra – ben descritti nelle lettere di papa Gregorio Magno (540-604) –, sorti sui punti di altura soprattutto lungo le aree di frontiera. Essi rappresentavano nuovi abitati fortificati nei quali confluirono e si accentrarono gli insediamenti sparsi delle campagne a difesa dell’onda distruttrice di Goti e Longobardi. Erano formati prevalentemente da strutture in legno disposte attorno a pochi edifici in muratura, pur essendo in molti casi anche sedi vescovili.
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Presentazione co. Ancora oggi, per esempio, è possibile osservare frammenti di mura etrusche inglobati nelle mura medievali delle nostre città. Già i Goti (V e VI secolo) promossero – secondo le disposizioni teodoriciane – una frenetica attività fortificatoria, spesso affiancati dai vescovi (in quel periodo vere guide politiche, militari e spirituali) interessati a proteggere le popolazioni loro affidate. Anche in questo caso l’abitato sparso delle campagne si accentrò all’interno dei castra che, oltre a ospitare capi militari goti o longobardi, erano anche sedi vescovili. Venivano cosí occupati soprattutto siti di sommità facilmente difendibili, scarsamente abitati in età romana, che nei secoli successivi divennero i piú importanti Comuni del Basso Medioevo.
La Penisola cambia volto
Il profilo delle campagne italiane iniziò a mutare sensibilmente intorno al X secolo. Le continue scorribande saracene, che dopo aver conquistato la Sicilia e saccheggiato Roma (846) ponevano sotto assedio senza sosta le coste del Mediterraneo, determinarono in parte il moltiplicarsi delle fortificazioni necessarie per scampare alla furia degli invasori. Quasi alla fine del millennio, al compiersi del lento dissolvimento delle antiche strutture amministrative tardoantiche, una forte accelerazione economica e politica aprí la strada alla novità del feudalesimo. Il monaco e cronista Rodolfo il Glabro (985 circa-1050) scrissse che, intorno
A sinistra Trento, Castello del Buonconsiglio di Trento, Torre Aquila. Nobili in campagna, particolare del mese di Maggio, dal ciclo dei Mesi del Maestro Venceslao. 1400 circa.
Nella pagina accanto disegno ricostruttivo di una rocca dell’XI sec. A destra Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. Particolare dell’affresco del mese di Gennaio, facente parte del ciclo dei Mesi, dipinto nel 1400 circa dal Maestro Venceslao, su commissione del principe vescovo Giorgio di Liechtenstein.
all’anno Mille, l’Italia era coperta da un «candido manto di chiese», di torri e di castelli. L’abitato sparso delle campagne si concentrò dunque attorno a pochi castelli per una serie di ragioni che possiamo facilmente riassumere cosí: fu la necessità di ordine e di pace, sebbene fragili, a spingere gli uomini a raggrupparsi sotto la dominazione di un signore, al riparo delle mura di un castello. Esistono molte varianti per cosí dire «regionali» delle fortificazioni degli anni intorno al Mille, come il caso della «motta», o «castello a motta»: un sistema difensivo importato dai Normanni nell’Italia meridionale, che non ebbe un grande successo nel corso degli anni (vedi box a p. 8).
Realtà diversificate
La diffusione dei castelli nella nostra Penisola in questo periodo sembra svilupparsi nella direzione da Nord a Sud: nell’Italia centro-settentrionale sorsero sin dagli ultimi decenni del IX secolo, nel Lazio, invece, la loro costruzione prese avvio non prima del 920, in Campania negli anni centrali dello stesso secolo, mentre nelle terre bizantine della Puglia e della Calabria il fenomeno appare via via ancora piú tardivo. Il procedere dell’incastellamento non dovette seguire in verità scansioni cosí regolari: molti il medioevo nascosto
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Presentazione
fattori – per esempio la presenza saracena in Liguria, la capacità offensiva dei militari, il potere politico ed economico – determinarono sviluppi particolari di volta in volta diversi e non sempre in risposta alle medesime necessità di difesa dal pericolo. Insomma, all’origine della scelta di costruire un castello non vi fu sempre la paura.
Una grande torre polifunzionale
Verso la fine dell’XI secolo le fortificazioni costruite in terra e legno lasciarono il posto a strutture in muratura realizzate con conci in pietra legati da malta. Si trattava perlopiú di un grande torrione a pianta quadrangolare, che doveva servire da magazzino per le derrate alimentari, struttura di difesa in grado di ospitare una guarnigione e, a volte, anche da residenza per il signore. Nel corso del XII secolo il mastio, o torrione, non era piú l’unico edificio del castello il quale, in quanto sede di una signoria, doveva ora comprendere una sala di rappresentanza, uno o piú edifici religiosi, gli alloggiamenti per i cavalieri al seguito del signore, i chierici e i domestici, nonché edifici di servizio come scuderie, cantine e cucine. Queste strutture erano circondate da un ampio circuito di mura che avrebbe dovuto proteggere gli abitanti delle campagne in caso di pericolo; tutta12
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Qui sopra misura dell’alzo di una bombarda con l’equilibra, da un manoscritto dell’Ex ludis rerum mathematicarum di Leon Battista Alberti. XV sec. Firenze, Biblioteca Riccardiana. L’avvento della polvere da sparo e il conseguente utilizzo delle palle di cannone resero spesso inefficaci i sistemi di difesa approntati nei castelli fino a tutto il XV sec.
via, con il tempo esso andò restringendosi di pari passo al fenomeno di accorpamento e concentrazione delle strutture una accanto all’altra. Generalmente la difesa è sempre stata uno strumento piú potente dell’attacco, nonostante la semplicità dei suoi mezzi. Alle rapide trasformazioni delle tecniche ossidionali, di contro, vennero sempre opposte nuove soluzioni come, per esempio, il raddoppiamento dei fossati e delle cerchie, la comparsa di ponti mobili azionati con catene, parapetti e cammini di ronda alla sommità delle cortine, mentre alla muratura a secco subentrarono paramenti murari realizzati con pietre squadrate regolari e legate con sottili ma solidi strati di malta. Tuttavia, soprattutto nei territori pianeggianti, restarono in uso anche i recinti di terra e di legno circondati da ampi fossati perennemente allagati, che ci si limitava di tanto in tanto a ripulire e ad approfondire. Anche nel vocabolario si riflette il nuovo sviluppo dell’architettura difensiva di questi secoli bassomedievali: entrarono nell’uso comune parole come «spalto», «terraglio», «barbacane», «cerchia»; oppure il termine «dongione» (dal francese donjon, a sua volta derivato dal latino dominus, signore, n.d.r.), attestato nei documenti dell’Italia settentrionale a partire dalla metà del XII secolo. Quest’ultimo, denominato «girone» o «cassero» nell’Italia centrale, nulla aveva a che fare con la struttura indicata con il francese donjon, ma designava il palazzo fortificato con mura e fos-
A sinistra Montagnana (Padova). Un tratto delle mura che cingono la città, innalzate in varie epoche, ma prevalentemente sotto Ezzelino da Romano e i Da Carrara (XIII-XIV sec.). In secondo piano è il castello di S. Zeno. A destra esempi di fortificazioni, illustrazioni di un manoscritto del Trattato di architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini, architetto e pittore senese. XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.
quando La polvere da sparo ridusse le mura in... polvere A partire dal 1430 fa la sua apparizione la palla di cannone. Di conseguenza, le mura di difesa dei castelli si abbassano e raddoppiano il loro spessore, le feritoie lasciano il posto alle bocche da fuoco circolari, dietro le quali vengono posizionate le bombarde. Il sistema di difesa dell’architettura militare medievale crolla repentinamente. Le mura alte e sottili, le merlature, perdono subito la loro funzione. In breve, si può dire che l’introduzione della polvere da sparo segna la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. E i progetti dei Sangallo e di Francesco di Giorgio Martini si sviluppano secondo queste necessità. Nel 1494, anno in cui Carlo VIII di Francia alla guida dell’esercito francese scese nella Penisola, gli Italiani poterono rendersi conto dei risultati di centocinquant’anni di esperimenti con l’artiglieria e la polvere da sparo. Diretta verso il regno di Napoli, l’avanzata del re fu fermata da una fortezza sul confine che sbarrava il cammino e opponeva resistenza (Monte San Giovanni, nel basso Lazio): in otto ore gli artiglieri francesi ridussero in polvere le sue mura, le stesse che pochi anni prima avevano fermato un assedio durato sette anni. Benché conosciuto già nel secolo precedente, soltanto nel XV secolo il cannone viene impiegato come arma principale negli assedi e nei campi di battaglia. Già nel 1453 era stata sperimentata la potenza straordinaria delle armi da fuoco nella presa di Costantinopoli da parte dei Turchi: le bombarde impiegate in quell’occasione erano cosí imponenti da essere fabbricate direttamente sul posto.
il medioevo nascosto
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castelli d’italia
Presentazione
La leggenda dell’olio bollente Una leggenda dura a morire è quella dell’olio bollente, che durante l’assedio di un castello si pensa venisse versato sulla testa di coloro che cercavano di scavalcarne le mura. Mai nessuno nel Medioevo pensò di sprecare tali quantità di olio per respingere al massimo un paio di assalitori: era un bene troppo prezioso, ed era ovviamente utilizzato esclusivamente per cucinare, per condire o per illuminare. Dalle caditoie venivano lanciate pietre e piú alte erano le mura e le torri, piú forte sarebbe stato il colpo.
sati posto all’interno di un’area castellana. Al suo ingresso vennero in seguito costruiti alti torrioni quadrangolari (prima del XIII secolo è rarissima la forma circolare) che, in molti casi, sostituirono la funzione della cinta muraria esterna (quest’ultima destinata a essere impiegata sempre meno alla fine del Medioevo, fino a scomparire dai sistemi di difesa piú utilizzati). La maggior parte dei castelli risalenti agli ultimi secoli medievali e giunti fino alla nostra età contemporanea ha questa forma. Esiste una precisa ragione che spiega il buono stato e l’integrità di tali strutture: con l’introduzione dell’artiglieria a polvere pirica, essi persero totalmente la loro importanza militare restando relativamente a margine delle contese di potere.
Una rivoluzione... esplosiva
Tutto, dunque, cambiò con l’avvento della polvere da sparo (il suo massiccio uso bellico iniziò nel XV secolo) che subito rese evidente lo straordinario potere di ridurre di colpo un abile e valoroso cavaliere al pari di un umile fante. Di fronte all’artiglieria le sottili e alte torri, le caditoie e le feritoie erano ormai divenute inutili. Si cominciarono pertanto a costruire torrioni bassi e larghi, muri rinforzati da terrapieni per contenere l’urto delle pesanti palle di cannone. In seguito la difesa fu perfezionata con la costruzione
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castelli d’italia
Lucera (Foggia). I resti della fortezza svevo-angioina con, in primo piano, la Torre della Regina. Situato sul Monte Albano, dove sorgeva l’antica acropoli romana, il castello, originariamente concepito come palatium imperiale sotto Federico II, venne inglobato in una cinta muraria in età angioina a opera degli architetti Pierre d’Agincourt e Riccardo da Foggia.
dei bastioni che permettevano di incrociare i colpi di difesa e colpire il nemico da piú punti. Il momento storico in cui si concentra la piú frenetica attività edificatoria di castelli in Italia coincide con il governo del piú grande imperatore del Medioevo italiano, Federico II (1220-1250). I castelli federiciani erano delineati secondo una rigorosa regolarità geometrica. Gli spazi si sviluppano intorno a un cortile centrale, di forma quadrangolare o rettangolare, sul quale si affacciano su ogni lato gli ambienti voltati a crociera, chiusi da possenti cortine murarie perimetrali rinforzate all’esterno da torri (circolari, quadrangolari o poligonali) poste agli angoli e lungo i lati. Esempi di questo tipo sono il castello di Augusta, il castello Ursino di Catania, il castello di Prato e, nella variante ottagona, lo straordinario e unico Castel del Monte in Puglia. Ancora nuove soluzioni vennero introdotte in questo ambito con la presenza angioina in Italia: la battaglia di Benevento (1266) segnò l’ascesa al potere di Carlo I d’Angiò ai danni del figlio di Federico, Manfredi di Sicilia. La cancelleria angioina promosse un’imponente attività edificatoria nei castelli pugliesi, a Lucera – una delle piú importanti residenze federiciane – l’antico palazzo fu inglobato entro un recinto fortificato per opera di Pierre d’Agincourt, un valoroso architetto (definito nei docu-
In alto, a destra pianta della città di Lucera, cinta da mura, da Il Regno di Napoli in prospettiva, parte III (Napoli, 1703). Foggia, Biblioteca Provinciale.
menti protomagister operum curie) di Beauvais per trent’anni al servizio dei sovrani angioini. Furono costruiti anche un acquedotto e una cappella, dal 1274, sotto la guida di Riccardo da Foggia. È interessante notare come i due architetti sperimentino nello stesso edificio soluzioni diverse, a volte estremamente originali: le due torri cilindriche con base a bugnato attribuite a Pierre d’Agincourt costituiscono una novità nel panorama dell’architettura militare in Italia, oppure la costruzione di caditoie, un elemento che compare soltanto dopo le crociate, funzionali al potenziamento della difesa verticale. Tra le torri circolari si dispongono invece le torri poligonali, di pianta pentagonale, realizzate da Riccardo da Foggia.
Maestranze specializzate
Negli stessi anni nell’Italia settentrionale lo sviluppo del potere signorile portò a un nuovo ordinamento politico e amministrativo fondato su un preciso ordine di strutture militari. Il signore di Vicenza, Verona e Padova, Ezzelino III da Romano (1194-1259), promosse a consolidamento del proprio potere la costruzione di fortificazioni e difese militari secondo modelli estremamente precisi che si ripetono regolarmente ogni volta, al punto da far pensare a delle maestranze specializzate in questo tipo di costruzioni: planimetrie con piú recinti di difesa, assenza di apparati per la difesa piombante, presenza della torre scudata per il tiro di fiancheggiamento e del rivellino a protezione delle porte (si pensi al complesso fortificato di Montagnana). Tali elementi hanno segnato la fisionomia dell’architettura militare del Veneto fin oltre il secolo successivo
creando uno «stile» regionale estremamente individuale e riconoscibile. Anche in Lombardia, già dalla fine del XIII secolo, si ebbe una prima regolarizzazione della planimetria e dell’alzato del castello visconteo, composto da piú edifici posti simmetricamente intorno a una corte centrale con portici e logge; all’esterno la struttura era fortificata con torri angolari a pianta quadrangolare. Il carattere ricorrente dell’architettura militare lombarda è il basamento scarpato, soprattutto se abbinato al fossato. È frequente la merlatura di torri e mura, mentre beccatelli e caditoie compaiono solo dalla metà del XIV secolo. L’Italia centrale fu teatro di una vera e propria radicale trasformazione architettonica, con l’intervento, alla metà del XIV secolo, del legato pontificio Egidio Albornoz (1310-1367). Incaricato dal pontefice Innocenzo VI nel 1353 di «riconquistare» lo Stato della Chiesa, ormai fuori controllo perché caduto in mano a piccoli signori locali, il cardinale castigliano riuscí a ristabilire l’autorità pontificia grazie a un sistema di fortificazioni, a controllo dei principali Comuni dello Stato, unito a una capacità tecnica militare straordinaria, in grado di scalzare le resistenze dei signori locali. Del sistema albornoziano ancora oggi esistono imponenti complessi fortificati a Narni, Spoleto, Assisi, Viterbo, Orvieto, Todi, solo per citare i piú noti. L’intervento dell’Albornoz può forse essere definito come l’ultimo grande momento di attività dell’architettura militare medievale; dopo di esso l’introduzione delle armi da fuoco segna l’avvento non solo di tecniche e forme diverse, ma di un’epoca totalmente nuova: l’età moderna. castelli d’italia
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Lucerna
castelli dell’ italia del nord
Berna
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25
2 4 1 3
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5 6 8 9 1014 11 7 12 13
19 23
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Casale Monferrato
Torino
16
15 1
22 20
31
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Valle d’aosta (1) Saint-Pierre (2) Sarriod de la Tour (3) Aymavilles (4) Aosta (5) Quart (6) Nus (7) Fénis (8) Saint-Denis (9) Châtillon (10) Montjovet (11) Issogne (12) Verrès
(13) Bard (14) Brusson piemonte (15) Manta (16) Exilles (17) Pavone Canavese (18) Ivrea A sinistra Manta (Cuneo). L’affresco con la Fontana della Giovinezza (vedi alle pp. 24-31).
Sono evidenziati in neretto i castelli descritti nel testo.
56 58 57 58 63
65 66
62
5 0 50
Bolzano
51
Bormio
Tolmezzo
53 64 59 61
Sondrio
Belluno 7 71
40
52
55 38
72
46 6 68
54 60
37
43
41
69
48
49
67
Bergamo 39
36
33
47
Venezia
45
44 42
75
Reggio Emilia
74
MARE ADRIATICO
73
Imola 77 3 30
2927 28
(19) (20) (21) (22) (23) (24) (25)
Candelo
F ossano Montalto Dora Serralunga d’Alba Gaglianico Cànnero Riviera Vogogna
liguria (26) Dolceacqua (27) Castelnuovo Magra (28) Sarzana (29) Lerici (30) La Spezia
Pesaro
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MAR LIGURE
Firenze
(31) Castelvecchio di Rocca Barbena (32) Finale Ligure lombardia (33) M ilano (34) A ngera (35) V igevano (36) S irmione (37) Bianzano (38) Breno (39) Brescia (40) Dervio (41) Monte Isola (42) P avia
veneto (43) Malcesine (44) Villafranca di Verona (45) Soave (46) Zumelle (47) Verona, Castelvecchio (48) Marostica trentino-alto adige (49) Avio (50) Castel Roncolo (51) Appiano (52) Trento
(53) (54) (55) (56) (57) (58) (59) (60) (61) (62)
les C esenello B Calavino Campo Tures Glorenza Monguelfo Nanno Rovereto Salorno Selva
(63) (64) (65) (66)
di Val Gardena Sluderno Tassullo Tirolo Castel Trostburg
friuli-venezia giulia (67) Trieste (68) Gorizia (69) Duino (70) Villalta Fagagna (71) Arcano Superiore (72) Colloredo di Monte Albano emilia-romagna (73) Torrechiara (74) Ferrara (75) Fontanellato (76) San Leo (77) Forlí castelli d’italia
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valle d’aosta
Fénis
La forza di una visione di Francesco Colotta
S
pesso la bellezza si sposa con il rischio. E il castello valdostano di Fénis, nell’ambito delle architetture militari è un caso emblematico di questo connubio. La splendida rocca, il cui profilo si manifesta come un’apparizione in un basso rilievo collinare, sorse nel XIII secolo su un territorio non proprio ideale dal punto di vista difensivo. Cir18
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condata da alture imponenti, occupava una sorta di conca, facilmente accessibile da chiunque avesse in animo di sferrare un attacco, vista l’assenza di ostacoli naturali. Forse la scarsa funzionalità bellica era dettata da ragioni geopolitiche, in quanto la zona non stimolava gli appetiti delle grandi potenze. La sola presenza di quel maniero bastava, in-
Sorto in una zona di fondovalle e perciò facilmente accessibile, il castello di Fénis fu tuttavia un baluardo quasi inespugnabile, capace di incutere timore con la sola imponenza della sua mole. Un colosso di pietra, che custodisce un mirabile e vivace ciclo affrescato
somma, per agire da deterrente nei riguardi delle piccole schermaglie politiche locali e per incutere rispetto agli abitanti dei villaggi circostanti. Tuttavia, espugnarlo si sarebbe ugualmente rivelata un’impresa ostica. A proteggere il suo nucleo interno provvedeva, per prima cosa, la struttura stessa della costruzione, progettata con il criterio del cosiddetto «diateichi-
sma», vale a dire con doppie mura a compartimenti stagni: le varie aree del castello erano comprese l’una nell’altra, in modo che l’eventuale distruzione delle parti piú esterne non coinvolgesse il nucleo interno. A rinforzare il sistema difensivo concorrevano i presunti influssi sovrannaturali dei volti di pietra fissati nella seconda cinta di mura
Il castello di Fénis, nella Val Clavalité (Aosta). Citato per la prima volta in un documento del XIII sec., il maniero conobbe il suo massimo splendore tra il XIV e il XV sec. castelli d’italia
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valle d’aosta
Fénis
della rocca, incaricati di tenere lontani gli spiriti maligni e i pericoli delle guerre. Queste figure apotropaiche, dall’espressione inquietante, appaiono piú numerose nelle sezioni del complesso maggiormente vulnerabili. Non si trattava di una curiosa singolarità: verso la fine dell’età di Mezzo, infatti, era pratica diffusa nei borghi e nelle fortificazioni mettere a punto formule rituali per fronteggiare forze occulte sfavorevoli. Le origini del castello sono incerte. Come per altri manieri della Valle d’Aosta, si ipotizza che nel sito sorgesse in età antica una villa rustica romana, della quale, però, non esistono prove archeologiche. Le prime notizie certe risalgono invece al XIII secolo, in particolare al 1242, quando in alcuni documenti comparve per la prima volta il nome del castrum Fenitii, che risultava di proprietà della famiglia dei visconti di Aosta. Nel XIV secolo il castello cominciò ad 20
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assumere una forma piú compiuta grazie ai nobili Challant, in particolare Aimone e il figlio Bonifacio I. La scarna struttura, composta da un muro di cortina e un grosso mastio sul lato sud, divenne gradualmente una fortezza vera e propria con una caratteristica forma pentagonale.
L’era dello splendore
L’assetto definitivo lo apportò Bonifacio I, adattando quella che era ormai la sua residenza alle esigenze di una piú animata vita di corte, in linea con le abitudini dell’aristocrazia dell’epoca. Il complesso fu dotato di un secondo piano, mentre il cortile interno cominciava ad assumere le sontuose forme che presenta tuttora. Nel vasto ambiente trapezoidale del cortile comparvero un’elegante scala in pietra e un ciclo di affreschi realizzati dal pittore gotico torinese Giacomo Jaquerio, tra i quali il celebre San Giorgio che uccide il drago, un tipico
Le logge e lo scalone in pietra del cortile interno, decorati con gli affreschi del XV sec. realizzati da Giacomo Jaquerio, tra cui San Giorgio che uccide il drago e libera la principessa (al centro). Sulle pareti del ballatoio sono rappresentate varie figure, ognuna delle quali regge una pergamena che riporta proverbi e massime morali in francese antico.
Dove e quando castello di fénis Orario mar e set: tutti i giorni, 10,00-18,00; apr-ago: tutti i giorni, 9,00-19,00; ott: tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il martedí; gen-feb e nov-dic: tutti i giorni, 10,00-16,00; chiuso il martedí Info tel. 0165 764263; web: lovevda.it
tema cavalleresco, molto diffuso nell’arte valdostana quattrocentesca. Attraverso due logge in legno si accedeva ai piani superiori, dove si potevano (e si possono) ammirare altri splendidi affreschi medievali di argomento pedagogico: figure munite di pergamene sulle quali sono riportati proverbi in lingua francese antica. «Se un uomo avesse sotto di sé / il cielo, la terra e il mare / e tutti gli uomini che Dio ha creato / non avrebbe niente se non avesse pace», recita una delle massime, lasciando quasi intendere che la destinazione d’uso della rocca non era segnatamente quella di avamposto militare. Altri notevoli affreschi di argomento religioso, attribuiti anch’essi a Jaquerio, sono ospitati in una delle sale piú affascinanti, la cappella, che occupa la sala piú grande del maniero, al primo piano. Nella stessa ala si trovano la sala di rappresentanza, la camera domini, la cucina e la sala di giustizia.
In alto un’altra immagine degli affreschi attribuiti a Giacomo Jaquerio.
Il XIV secolo rappresentò il periodo di maggior splendore per Fénis e il suo gioiello architettonico. I fasti proseguirono anche nel Quattrocento, almeno fino alla morte di Bonifacio I (1426), all’indomani della quale ebbe inizio il declino, generato dai problemi finanziari dei suoi eredi. Nel Rinascimento e in età moderna il castello fu adibito ad abitazione rurale e visse per lunghi periodi in stato d’abbandono.
Un Medioevo «contraffatto»
La decadenza e l’oblio quasi totale furono interrotti dalle robuste ristrutturazioni del XIX e del XX secolo. In particolare, nel 1935, il maniero fu oggetto di un restyling che impresse alle mura e alle torri un aspetto ancor piú medievale, intaccandone le naturali stratificazioni architettoniche. Le aggiunte, nelle forme dell’età di Mezzo, contribuirono ad accentuare la bellezza astratta del monumento, che alcuni considerano come uno dei prototipi ideali di castello delle fiabe. La sua fisionomia rappresenta un unicum in Italia e trova una vaga corrispondenza solo nell’aspetto della rocca medievale francese di La Case in Linguadoca. I restauri, comunque, non hanno del tutto stravolto l’ambivalenza di una struttura che, fin dal Trecento, testimoniava il passaggio di un’epoca. Le fortificazioni tipiche dell’era feudale, erette esclusivamente per scopi di difesa bellica, stavano per lasciare il posto a castelli che rivestivano la funzione di fastosi palazzi nobiliari, con funzioni di rappresentanza. Un anticipo di Rinascimento, che impose l’ampliamento degli spazi residenziali. castelli d’italia
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Bard
A
chi percorra la grande arteria di fondovalle che, attraversando l’intera regione valdostana, collega Pont-Saint-Martin al traforo del Monte Bianco, il forte di Bard appare maestoso, imponente. Innalzato in uno dei punti piú stretti della valle scavata dalla Dora Baltea, sopra uno spuntone roccioso dalla sommità arrotondata, l’«inespugnabile
L’architettura della parte inferiore della rocca è detta Opera Ferdinando. Formata da due corpi di fabbrica, l’Opera Ferdinando Inferiore e l’Opera Ferdinando Superiore, è caratterizzata da una forma a tenaglia. Al centro si trova l’Opera Vittorio, mentre la cinta al culmine del rilievo racchiude l’Opera di Gola e l’Opera Carlo Alberto con il cortile quadrangolare della piazza d’armi. La lunga storia della roccaforte,
fortificazione viene ritenuta una delle due iniziali clusae, con cui i Romani in età tardo-imperiale avevano munito l’intero arco alpino. «Prima est Secusia, seconda Bardo» si legge nelle Honorantie Civitatis Papie, scritte però all’inizio dell’XI secolo quando, ormai, le vecchie barriere protettive romane erano divenute semplici posti di controllo ed esazione doganale, dislocati nelle aree di piú frequente transito.
dismessa nel 1975 dal demanio militare e acquistata dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta nel 1990, si perde nella notte dei tempi. A indicarne l’esistenza fu per primo Cassiodoro, che nelle Variae (II, 5) si sofferma sulla presenza di una struttura difensiva chiamata Clusurae Augustanae. Eretta in una profonda gola lungo la strada per il Passo del Gran San Bernardo, la
Il castello, nel 1034 proprietà di Boso, visconte di Aosta, venne espugnato nel 1242 da Amedeo IV di Savoia. Ampliata e potenziata nei secoli trascorsi sotto la dominazione sabauda, la fortezza fu rasa al suolo per ordine di Napoleone e ricostruita tra il 1830 e il 1838 dal sovrano Carlo Felice di Savoia. Il progetto di recupero fu affidato all’ingegnere militare Francesco Antonio Olivero, ufficiale del Corpo Reale del Genio, che realizzò uno dei migliori esempi di fortezza di sbarramento del primo Ottocento. Progressivamente abbandonato già nel corso del XIX secolo, il forte di Bard è stato restituito alla fruizione del pubblico. Chiara Parente
Bard
oppidum», com’è denominato nelle fonti antiche, per la collocazione a strapiombo su di un meandro dell’impetuoso fiume montano e per la grandiosità del complesso monumentale, non passa certo inosservato. Del forte colpisce innanzitutto la mole poderosa, costituita da tre principali corpi di fabbrica, posti a diversi livelli, compresi fra i 400 e i 467 m.
Il borgo lungo la via Serrato a ridosso del monte, il grazioso borgo medievale di Bard si è sviluppato ai piedi della fortezza, lungo l’antica via romana delle Gallie. Suggestiva cornice di varie manifestazioni organizzate durante tutto l’anno, il centro storico conta una trentina di edifici residenziali, costruiti fra il XV e il XVI secolo, caratterizzati da finestre a crociera, pareti affrescate, bifore e viret, ossia da scale a chiocciola in pietra, con gradini aperti a ventaglio attorno a un asse centrale.
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INFO tel. 0125 833811; www.fortedibard.it
Verrès
VERRÈS
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l castello di Verrès domina con la sua poderosa struttura l’imbocco della valle di Challant. Realizzato in un unico corpo, con pianta quadrata di 30 m di lato e mura perimetrali di 2,50 m di spessore, fu costruito nel 1390 da Ibleto di Challant, governatore del Piemonte dal 1379 al 1404, il quale volle una residenza degna del suo rango. Questi era divenuto l’unico proprietario del feudo dopo aver ottenuto sia la parte di proprietà del conte di Savoia, sia quelle di Giovanni e Teobaldo di Verrès, suoi parenti. Nel 1536, Renato di Challant apportò alcuni adeguamenti al castello con la costruzione di una cinta esterna adatta all’uso delle armi da fuoco. Poi il degrado e l’abbandono, sino a che Alfredo D’Andrade (1839-1915), architetto portoghese naturalizzato italiano con la passione per il Medioevo e i castelli, mise mano ai lavori di restauro. INFO tel. 0125 929067; www.lovevda.it
del complesso. All’interno, nel salone d’onore, il soffitto è decorato con circa 170 figure lignee grottesche e un po’ licenziose. La cappella del XIII secolo conserva resti di affreschi: un Giudizio Universale e un’Adorazione dei Magi. In migliori condizioni sono invece una Crocifissione e un San Cristoforo, realizzati attorno al 1478, nelle vicinanze dell’attuale ingresso. Il castello, che è appartenuto alla famiglia Sarriod, ramo dei de La Tour, fino al 1921, anno in cui morí l’ultima contessa, è oggi proprietà della Regione. INFO tel. 0165 904689; www.lovevda.it
SAINT-PIERRE
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l castello domina l’omonimo paese. L’esistenza di una fortificazione nella zona è attestata
già nel 1191. Nel 1321, Ugonetto di Sancto Petro vendette parte del suo feudo al conte di Savoia. Ma è nella seconda metà del secolo scorso che il castello assunse l’attuale aspetto, che potremmo definire disneiano, dovuto a un discutibilissimo «restauro» integrativo, condotto dal proprietario Emanuele Bollati e dall’architetto Camillo Boggio. Purtroppo nel secolo scorso la volontà di ridar vita agli antichi manieri, sviluppatasi sulla scia di un romantico recupero del Medioevo, fu, a volte, la causa di interventi troppo radicali che però ormai fanno anch’essi parte della
Saint-Pierre
plurisecolare storia castellana. L’edificio ospita il Museo regionale di Scienze Naturali. INFO tel. 0165 236627; www.lovevda.it
Sarriod de la Tour
SARRIOD DE LA TOUR
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l castello è frutto di ampliamenti succedutisi nel tempo. La parte piú antica è il robusto mastio quadrato, al quale, nei secoli, si sono addossati gli altri edifici, che via via accentuarono il carattere residenziale
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Manta
I prodi, le eroine, l’arme e gli amori... di Maria Paola Zanoboni
Il Castello della Manta è una presenza davvero illustre nel territorio piemontese. Fu proprietà dei marchesi di Saluzzo, per conto dei quali un maestro ancora ignoto realizzò un ciclo di affreschi di qualità straordinaria
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isalente al XII-XIII secolo, il castello della Manta, che sorge su un dosso collinare nelle vicinanze di Saluzzo, era inizialmente un semplice fortilizio destinato alla permanenza di truppe. Un documento del 1227 lo descrive come «castrum de Manta et villam et palacium et turrim», dal che si deduce la probabile presenza nell’insediamento militare di una
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struttura residenziale destinata ai signori del luogo. Il fortilizio era verosimilmente difeso da una doppia cerchia di mura, da un fossato e da un ponte levatoio poi scomparsi, ed era sormontato da torrette di guardia, di cui una circolare, ancora esistente, e da un mastio (donjon). L’attuale fisionomia del complesso è il risultato degli ampliamenti e rimaneggiamenti operati
nel corso dei secoli dai discendenti della potente dinastia dei Saluzzo della Manta, che ne mantenne la proprietà per oltre quattrocento anni. L’antica struttura venne probabilmente trasformata tra il Duecento e il Trecento in una vera e propria roccaforte. Nel corso del XV secolo la fortezza iniziò a subire un’importante svolta in senso residenziale,
in concomitanza con l’istituzione del feudo della Manta, lasciato in eredità da Tommaso III, marchese di Saluzzo, al figlio illegittimo Valerano, che divenne cosí capostipite del nuovo casato dei Saluzzo della Manta. Uomo colto e raffinato, Valerano intraprese da subito importanti opere di ampliamento, con l’intento di trasformare il complesso in una fastosa dimora
Castello della Manta (Cuneo). Fontana dell’Eterna Giovinezza, affresco della sala baronale, attribuito al Maestro della Manta. 1416-1420 circa.
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Manta
In basso Pilato si lava le mani per non essere colpevole della morte di Gesú, particolare degli affreschi raffiguranti la Passione di Cristo nella chiesa di S. Maria al Castello (chiesa castellana della Manta).
Nella pagina accanto, in alto il simbolo araldico della famiglia, con stemma dei marchesi Saluzzo e il motto «Leit», dipinto sulla cappa del camino nella sala baronale del castello.
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rivali dei savoia e amici della francia I marchesi di Saluzzo discendono dalla dinastia degli Aleramici (da Aleramo, signore di feudi nel territorio vercellese e acquese), che nel X secolo aveva ottenuto dall’imperatore Ottone I, con il titolo marchionale, funzioni di governo su una regione approssimativamente
compresa tra Acqui e Savona. I diversi rami della dinastia avevano in seguito costituito varie dominazioni, tra cui quella di Bonifacio del Vasto che controllava il Saluzzese, le Langhe e la zona a sud di Asti. Morto Bonifacio verso il 1125, i figli divisero l’eredità paterna:
Manfredo ereditò il Saluzzese e con lui ebbe inizio la dinastia dei marchesi di Saluzzo. Dagli anni Sessanta del XII secolo, dopo aver frequentato la corte del Barbarossa, i marchesi rinnovarono la propria azione politica, per trasformare la generica egemonia in un vero principato territoriale, un processo portato a compimento da Tommaso I (1244-96). In questa loro corsa dovettero confrontarsi con numerosi interlocutori politici: dalla potente aristocrazia locale ai grandi Comuni cittadini esterni al marchesato (Asti, Alba soprattutto, Alessandria e Genova) e ai Savoia Acaia, rivali anche per motivi di eredità. Nel Trecento i Saluzzo erano in uno stato di vera e propria dipendenza dai Savoia, dipendenza da cui cercarono di svincolarsi nella seconda metà del secolo, appoggiandosi alla Francia. Quest’ultimo legame li coinvolse
profondamente, trasformandone la mentalità, la cultura, la politica matrimoniale. In tale contesto si inseriscono i continui e prolungati viaggi in Francia di Tommaso III, che nel 1403 sposò la francese Margherita di Roussy. Valerano, figlio illegittimo di Tommaso, nacque verso il 1374 e assunse un ruolo centrale nel marchesato con la reggenza per il fratellastro Ludovico. Fu insignito dal re di Francia del collare della Ginestra, simbolo di alto valore onorifico. Nel testamento del 1416 Tommaso III lo nominò reggente: da questo momento e per alcuni anni fu il vero protagonista della politica del marchesato e della delicata gestione dei rapporti con i Savoia. Alla fine degli anni Venti Ludovico assunse personalmente il potere, ma Valerano rimase il
di famiglia, e commissionò i celebri affreschi che ornano le pareti della sala baronale, uno dei piú grandi e significativi cicli pittorici profani di epoca tardo-gotica.
Guardando a Raffaello
Alla metà del XVI secolo, il castello quattrocentesco fu oggetto di nuove trasformazioni. Un imponente corpo di fabbrica fu addossato alla parete occidentale del complesso già esistente. Alla sobrietà della facciata si contrapponeva la ricercata raffinatezza degli interni, tra i quali spicca il Salone delle Grottesche, caratterizzatodallo splendido soffitto decorato con dipinti e stucchi ispirati a quelli delle Logge Vaticane di Raffaello. Drastici interventi ottocenteschi distrussero gran parte di un successivo ampliamento, effettuato alla fine del Cinquecento sul lato nord, per volere di Valerio Saluzzo della Manta, cugino di Michele Antonio. In seguito all’estinzione, nel 1793, del ramo dei Saluzzo della Manta, il complesso – adibito per un certo periodo anche a ospedale militare – visse un periodo di abbandono. Un lungo lavoro di recupero ha interessato, negli scorsi decenni, anche la piccola chiesa, un tempo parte integrante della proprietà dei Saluzzo. Il piccolo gioiello, fatto edificare da Valerano, ospita nell’abside uno splendido ciclo di affreschi
In basso veduta del Castello della Manta. Costruito nel XII-XIII sec., l’edificio è stato oggetto di ripetuti ampliamenti e rimaneggiamenti fino al XIX sec.
suo uomo di fiducia per incarichi e missioni delicate. Il figlio illegittimo di Tommaso III morí all’inizio degli anni Quaranta del XV secolo.
quattrocenteschi raffiguranti la Passione di Cristo, coevi a quelli della sala baronale. Di grande valore artistico è anche la cinquecentesca cappella funeraria aperta per volere di Michele Antonio sulla parete sud e riccamente ornata da stucchi e affreschi. L’edificio attualmente appartiene al FAI, al quale è stato donato nel 1984 dalla contessa Elisabetta Rege Provana. Situata apparentemente al secondo piano dell’edificio (in realtà nell’ala quattrocentesca,
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Manta
collegata da uno scalone al sottostante piano nobile di fine Cinquecento), la sala baronale alla quale si accede attraverso un vestibolo abbellito da una tenerissima Madonna del latte, attribuita anch’essa al «Maestro della Manta», è un ambiente rettangolare, interamente affrescato, sulle cui pareti maggiori sono rappresentate, da un lato, la sequenza dei Prodi e delle Eroine, e, sul lato opposto, la Fontana della Giovinezza. Entrambe le scene si concludono, sulle due pareti minori, da un lato con una nicchia in cui è raffigurata una Crocifissione, e sul lato opposto con un camino recante sulla cappa il simbolo araldico della famiglia, con stemma dei Saluzzo e il motto «Leit». La scelta del soggetto degli affreschi della sala baronale si ispira al poema cavalleresco in lingua francese del marchese Tommaso III, Le chevalier errant, che narra le vicende di un eroico paladino approdato dopo mille avventure al Palazzo della Dea Fortuna, dove incontra nove 28
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In alto particolare della parete della sala baronale con affrescata una teoria di 18 personaggi, 9 uomini (i Prodi) e 9 donne (le Eroine) dell’antichità, presi da Le chevalier errant, poema cavalleresco scritto dal marchese Tommaso III. Opera del Maestro della Manta. 1416-1420 circa.
tre Eroine
Alasia di Monferrato, moglie di Manfredo II, compare nei panni di Sinope. Beatrice di Savoia, moglie di Tommaso I, è Ippolita, amazzone figlia di Ares e sposa di Teseo. Beatrice Visconti, moglie di Federico I, è invece ritratta come l’eroina Etiope.
Sinope
principi dell’antichità (Ettore di Troia – nelle cui sembianze, come testimoniato fin dai documenti coevi, è raffigurato lo stesso committente dell’opera, Valerano –, Alessandro il Grande, Giulio Cesare, Giosuè, re Davide, Giuda Maccabeo, re Artú, Carlo Magno, Goffredo di Buglione) e nove eroine (Delfile, Sinope, Ippolita, Semiramide, Melanippe, Lampeto, Tamiri, Teuca, Pentesilea). Da qui dunque lo spunto per la straordinaria sequenza dei diciotto personaggi che animano l’affresco (i Prodi e le Eroine, appunto), vestiti secondo la moda parigina del tempo e nei quali si riconoscono – in un gioco sottile ed erudito – i volti di altrettanti personaggi di casa Saluzzo della Manta.
Un maestro senza nome
L’esibizione straordinaria di fasto, costumi e acconciature dei Prodi e delle Eroine affrescati nel castello della Manta non ha un vero corrispettivo nell’area piemontese. Si sono fatti a piú riprese i nomi di vari artisti, e in tempi recenti soprattutto quello di Giacomo Jaquerio, uno dei principali esponenti della pittura gotica in Piemonte. Il nome del «Maestro della Manta» rimane in realtà tuttora ignoto. Gli studi che hanno affrontato l’argomento, attraverso il raffronto con le miniature medievali di area francese, concordano nel datare il ciclo di affreschi al primo quarto del XV secolo, approssimativamente al periodo compreso tra il 1416 e il 1420, e a ricondurne la matrice culturale alla corte di Carlo VI di Valois. A questo
Ippolita
Etiope castelli d’italia
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In alto e nella pagina accanto, in alto ancora due particolari dell’affresco della Fontana dell’Eterna Giovinezza, con due coppie che, riacquistati giovinezza e vigore, si allontanano abbandonadosi a scherzose scaramucce amorose ed effusioni. Nella scena in questa pagina le scritte riportano uno scambio di battute tra l’uomo e la donna, come in un moderno fumetto.
proposito si è rilevata l’analogia con Les très riches heures du duc de Berry (parente di Carlo VI), anche per la foggia dei copricapi e degli abiti dei personaggi che popolano la Fontana della Giovinezza. Si pensa che l’anonimo autore appartenesse alla scuola francese, dati gli stretti rapporti del Piemonte con il regno d’Oltralpe; e proprio alla Francia il marchesato di Saluzzo chiese spesso aiuto contro le mire dei Savoia. Tommaso III ebbe un’educazione francese e dimorò spesso alla corte raffinata di Carlo VI, al cui splendore il duca Giovanni di Berry, zio del re, e collezionista appassionato di libri e di oggetti di ogni genere, aveva dato un impulso straordinario. I legami di Tommaso III di Saluzzo col mondo francese si reggevano su un duplice presupposto: da un lato la ricerca di un appoggio per proteggere il marchesato dalle mire espansionistiche di Amedeo VIII di Savoia, dall’altro la politica di ingerenza del sovrano francese nelle vicende politiche italiane attraverso l’alleanza con i territori subalpini. Questa politica richiamò a piú riprese Tommaso III a Parigi, soprattutto tra il 1401 e il 1405; ne era tornato portando con sé oggetti raffinatissimi, tra cui libri e miniature. Arrivano a Saluzzo da Parigi anche le due redazioni miniate dello Chevalier errant dello stesso Tommaso III (1404 e 1405-8). In queste miniature sono appunto raffigurati i nove Prodi e le nove Eroine. E di tale romanzo cavalleresco fanno parte gli epigrammi posti
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sotto ciascun personaggio della sala baronale, per volontà del committente degli affreschi, Valerano, figlio di Tommaso. Attualmente si è propensi a credere che il soggetto degli affreschi della sala baronale possa avere come fonte anche gli arazzi fiamminghi appartenuti al duca di Berry e descritti nell’inventario di alcuni castelli, redatto nel 1498 dopo la morte del sovrano savoiardo Filippo II; oppure quelli portati in dote da Maria di Borgogna ad Amedeo VIII di Savoia, elencati in un inventario del 1440, eseguito a Basilea poco dopo l’elezione di Amedeo al soglio pontificio.
Seta, lana e filo d’oro
Il dilatarsi degli scambi commerciali e degli interessi culturali che caratterizzava in quest’epoca Francia, Borgogna, Fiandre, Lombardia e Savoia dava infatti origine a un’arte di corte dalle comuni strutture sociologiche e veramente internazionale. In seta, lana e filo d’oro di Arras, i numerosi arazzi, che l’elenco del 1498 menziona come molto antichi, raffiguravano appunto i nove Prodi e le nove Eroine, sormontati dalle armi del duca di Berry. L’oro e l’argento di cui erano intessuti risplendono al massimo grado nei drappi auroserici che ammantano gli eroi e le eroine, con una cura per i particolari e una varietà di fantasie, che solo un artista avvezzo a disegnare anche tessuti, o comunque proveniente dall’ambiente della produzione tessile, poteva realizzare.
È possibile, quindi, che l’anonimo autore degli affreschi fosse in qualche modo collegato alle manifatture tessili d’Oltralpe, magari come estensore di uno di quei taccuini di disegni e modelli per tessuti che tanta parte ebbero nella diffusione delle conoscenze nelle botteghe tardomedievali e rinascimentali. I Paesi fiamminghi (inclusi nel ducato di Borgogna, vassallo a sua volta della Corona francese) costituivano all’inizio del Quattrocento uno dei principali centri artistici dell’Europa occidentale. Già alla fine del secolo precedente queste stesse aree avevano fornito di pittori la corte di Francia e stimolato il clima culturale tedesco e quello dell’Italia settentrionale. Diverso è invece il modello iconografico per l’immagine della Fontana della Giovinezza, che domina il lato opposto della sala. Si tratta della riproduzione di una miniatura presente in un volume della ricca biblioteca di Tommaso III, una copia manoscritta del Roman de Fauvel, testo composto tra il secondo e il terzo decennio del XIV secolo. Il significato recondito che accomuna le due pareti è costituito dal desiderio di arrestare lo scorrere del tempo, per non conoscere la tristezza della vecchiaia e i rovesci della sorte subiti da alcuni prodi dello Chevalier errant. Il soggetto è antichissimo: già Pausania parlava di una fontana nella quale usava bagnarsi Giunone per rimanere bella. Nel Medioevo, soprattutto nei romanzi cavallereschi, la favola subí alcune modifiche: alla virtú di ringiovanire si aggiunse quella di rendere la vita. L’artista, comunque, elaborò il soggetto molto liberamente.
Un soggetto di successo
Si trattava in ogni caso di un soggetto ampiamente di moda nelle tappezzerie tanto care alla società aulica del Trecento, soprattutto in Francia, come emerge chiaramente dagli inventari e dai libri di conti dei signori feudali. Un tema spesso rappresentato anche negli affreschi, negli oggetti d’avorio, sulle ceramiche. Dal punto di vista tecnico gli affreschi della Fontana dell’Eterna Giovinezza presentano numerosi difetti: animali sproporzionati, figure umane piccole, angolose e contorte, o troppo esili, prive di muscoli e nervi, mani prive di falangi; colori stesi con monotonia e senza sfumature. L’artista si dimostra invece piú accurato nel rendere il drappeggio degli abiti e la preziosità delle acconciature, in cui raggiunge anzi sorprendenti effetti cromatici.
Qui sopra uno degli stucchi d’impronta manierista che ornano il soffitto del Salone delle Grottesche. 1563.
Alla seconda metà del Cinquecento risale invece il Salone delle Grottesche, fatto realizzare da Michele Antonio di Saluzzo al piano nobile dell’edificio, e collegato da una splendida galleria affrescata alla camera da letto del marchese. La decorazione del soffitto del salone è ispirata ai motivi (le «grottesche» appunto) riscoperti nelle antiche ville patrizie di Roma con gli scavi archeologici quattrocenteschi, e rielaborati dagli artisti cinquecenteschi. Vi si ispirò in particolare il Manierismo piemontese, col suo gusto per una cultura ispirata all’antico, intellettualistica e preziosa. La cornice a grottesche contorna lunette raffiguranti scene allegoriche e antiche rovine di sapore prettamente manierista. La volta della galleria che porta alla camera di Michele Antonio è ornata da una ricca decorazione ad affresco con personaggi mitologici e soggetti tratti da poemi cavallereschi. La stanza da letto conserva ancora il soffitto ligneo a cassettoni, e, soprattutto, il prezioso pavimento in stucco cinquecentesco rivestito di polvere di marmo.
Dove e quando castello della manta Manta, Via al Castello, 14 Orario mar-set: ma-do, 10,00-18,00; ott-nov e II metà feb: ma-do, 10,00-17,00; chiuso lunedí non festivi Info tel. 0175 87822; e-mail: faimanta@fondoambiente.it
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lavori del castello, uno dei pochi costruiti dai Savoia, iniziarono nel 1324, dieci anni dopo che il paese era passato in mano ai Savoia del ramo d’Acaia. Realizzato in un lasso di tempo ristretto (8 anni), per la sua perfetta simmetria rappresenta un esempio abbastanza raro nel panorama castellano piemontese. L’edificio ha pianta quadrata e torri angolari, anch’esse quadrate, ruotate di 45 gradi (un caso, questo, molto singolare, con pochi altri esempi in Italia), a due delle quali sono addossate, nella parte che dà sul cortile interno, due snelle e rotonde torri scalari, simili ad analoghe costruzioni in altri castelli piemontesi. Alla fine del XVI secolo, l’edificio, persa la sua funzione militare, fu adattato per alcuni anni a uso residenziale, per diventare poi carcere, caserma e scuola per veterinari. Grazie a un impegnativo restauro, condotto fra il 1956 e il 1973, il castello è stato liberato dai fabbricati che nel tempo si erano addossati alle sue mura e restituito al suo aspetto originario. INFO tel. 0172 61976; www.comune.fossano.cn.it
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ell’XI secolo a Montalto Dora esisteva già una fortificazione. La costruzione dell’attuale castello risale però probabilmente al XV secolo ed è opera dei De Jordano di Bard. È la piú famosa fortificazione del Canavese e la sua sagoma imponente si allunga su una collina che domina il corso della Dora Baltea. Montalto Dora è un tipico esempio di fortificazione medievale con ingresso a sinistra, mastio, palazzo baronale, cappella e scuderie. Nel Seicento il castello, a seguito di eventi bellici, subí ingenti
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oluto da Amedeo VI di Savoia, il castello venne costruito su progetto di Ambrogio Cognon tra il 1358 e il 1394. L’edificio domina la
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distruzioni degli edifici posti all’interno del circuito murario. L’architetto Alfredo D’Andrade ne curò il restauro limitando però, in questo caso, gli interventi al solo consolidamento delle mura. INFO tel. 0125 652771 (Ufficio Turistico del Comune); www.castellomontaltodora.com
città; il suo compito era quello di difenderla, ma soprattutto di controllarla. E che sia stato concepito solo per esigenze militari balza agli occhi vedendo il suo aspetto severo e privo di decorazioni. Nel 1676 l’esplosione di alcuni barili di polvere da sparo distrusse in parte la torre piú grande, causando anche la morte di una cinquantina di persone. Nel 1861 venne trasformato in carcere (destinazione conservata fino al 1970) e spogliato di tutti i suoi arredi. Quelli di Ivrea e di Fossano sono fra i pochi castelli costruiti dai Savoia; la loro rigorosa simmetria non divenne però un modello per altre realizzazioni similari nella regione. INFO tel. 0125 618131; www.comune.ivrea.to.it
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na torre sorgeva già sul luogo alla fine del XIII secolo, ma l’attuale aspetto del castello si deve ai lavori intrapresi da Pietrino Falletti e dal figlio Gioffredo tra il 1340 e il 1357. La semplice costruzione in mattoni dal forte sviluppo verticale, è difesa da due snelle torri, una rotonda e l’altra quadrata. Le decorazioni, con triplice ordine di archetti ciechi e le bifore, aperte ai piani piú alti dell’edificio, contribuiscono a rendere ancor piú elegante l’intero compresso, che si articola su tre piani. Nel sotterraneo una cisterna capace di
Serralunga d’Alba
Ivrea
L’attuale aspetto del castello, uno dei meglio conservati del Biellese, e la sua pianta evidenziano ancora come sia stato costruito in piú riprese nel corso dei secoli: una caratteristica questa comune a molti edifici analoghi della regione. All’interno, un cinquecentesco cortile con portici e loggiati, sale decorate e la cappella (con interessanti affreschi del XVI secolo deturpati da scritte di soldati francesi che occuparono il castello per tre anni dal 1555). INFO tel. 015 2546415 (URP Comune); www.comune.gaglianico.bi.it
contenere 360 mc d’acqua garantiva riserve anche per un lungo assedio. INFO e-mail: info@castellodiserralunga.it; www.castellodiserralunga.it
Gaglianico
gaglianico
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l castello fu costruito appena fuori Biella per controllare l’asse viario Torino-Vercelli. L’edificio, del quale si hanno notizie a partire dal X secolo, ebbe vari proprietari, fra cui, alla fine del XIV secolo, Ibleto di Challant; nel 1403 il condottiero Facino Cane; nel 1404 i Savoia e nel 1476 Sebastiano Ferrero. A quest’ultimo si devono i lavori di ristrutturazione dell’intero complesso. L’opera fu affidata a Carlo d’Amboise, che trasformò l’edificio in una residenza signorile.
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Dolceacqua
Il gigante del Nervia di Chiara Pesante
Seppur parzialmente in rovina, il castello Doria di Dolceacqua continua a dominare il borgo ligure. Memoria tangibile di un tempo in cui l’abitato fu un centro conteso fra le piú importanti casate della regione
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l nome di questa località ligure non è soltanto poeticamente evocativo, ma anche perfettamente rispondente alla realtà. In effetti, il paese è dolcemente e scenograficamente disteso lungo le sponde del torrente Nervia, le cui acque limpide dividono in due l’abitato. Quest’ultimo è di notevole interesse,
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perché ha in gran parte conservato il suo impianto medievale. Suddiviso tra il quartiere di Terra e quello di Borgo, è collegato fin dall’antichità dal bel ponte «a schiena d’asino», anch’esso d’epoca medievale. Acquisita tra il 1257 e il 1267 dall’importante famiglia genovese dei Doria, Dolceacqua fu nel
corso dei secoli teatro di numerose e a volte feroci contese, finché i Savoia non la occuparono nel 1643. Gli stessi Doria la ripresero pochi anni piú tardi e ne fecero un marchesato, ma si trattò dell’ultimo sprazzo di indipendenza per il borgo, che nel XVIII secolo passò definitivamente alla dinastia sabauda.
L’imponente castello ebbe come nucleo originario una modesta costruzione, addossatasi (con ogni probabilità nella seconda metà del Duecento) a una preesistente torre risalente forse al XII secolo. Nel Quattrocento l’edificio venne ingrandito e rafforzato grazie all’aggiunta, sul lato orientale,
Dolceacqua (Imperia). Il ponte medievale a schiena d’asino sul torrente Nervia e, in secondo piano, le rovine del castello Doria.
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Dolceacqua
In alto una caratteristica via gradinata di Dolceacqua. A sinistra uno scorcio della corte del Castello Doria, il cui nucleo originario venne fatto costruire dai conti di Ventimiglia nel XII sec. Ingrandito nel Quattrocento e trasformato in residenza signorile nel XVI sec., il fortilizio venne poi abbandonato dopo essere stato danneggiato durante la guerra di Successione austriaca.
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di un solido sperone e di due torri quadrate, che tuttora costituiscono l’elemento architettonicamente dominante del complesso.
Verso l’abbandono
Nel secolo successivo assunse gradatamente le caratteristiche di dimora signorile, sia pure fortificata. Stefano Doria ne fece una stabile residenza per la propria famiglia e in quell’occasione ne ampliò il lato a est, conferendogli le forme con cui si presenta oggi. L’operazione non salvò l’edificio dalla devastazione avvenuta nel corso della guerra di Successione austriaca, durante la quale (1745) fu parzialmente distrutto e subí gravi danni. La visita al castello non può prescindere da quella del paese. Dolceacqua, infatti, è un magnifico esempio di borgo medievale, ricco di
Il borgo di Dolceacqua in un’incisione su rame per il Theatrum Statuum Sabaudiae (opera con descrizioni e immagini dei possedimenti sabaudi), edito ad Amsterdam nel 1682 da Joan Blaeu.
monumenti, opere d’arte, storia e tradizioni che meritano di essere scoperti. Caratterizzato da uno sviluppo urbano che ha riguardato nei secoli le due sponde del Nervia, presenta due centri, entrambi molto interessanti: Terra e Borgo. La chiesa di S. Giorgio, il Ponte Vecchio, la chiesa di S. Filippo sono tra gli edifici piú notevoli ai quali dedicare una visita.
Dove e quando Castello doria Dolceacqua Info Ufficio IAT (Informazione ed Accoglienza Turistica): tel. 0184 206 666; e-mail: iat@dolceacqua.it, turismo@dolceacqua.it; www.dolceacqua.it
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castelnuovo
magra
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Castelnuovo Magra, nello Spezzino, la costruzione di castelli fu, in un primo momento, un’iniziativa riservata alle alte sfere ecclesiastiche. Una fortilizio sorse in quel luogo contemporaneamente alla fondazione del borgo, nel XIII secolo, per volere del vescovo Gualtiero II. In seguito, sempre nel Duecento, un
Castelnuovo Magra altro porporato, Enrico Da Fucecchio, costruí una rocca nella quale stabilí la sede della diocesi di Luni. Nelle stanze del maniero venne firmata la storica pace di Castelnuovo tra i nobili Malaspina e il vescovo di Luni nel 1306. Le suggestive torri che oggi sono ben conservate, appartengono al periodo in cui la zona passò sotto il dominio dei fiorentini Medici (XV secolo) e della Repubblica di Genova (XVI secolo). In età moderna e contemporanea il castello perse la propria autorevolezza politica e andò in rovina. Alcune sue parti furono utilizzate per costruire le abitazioni del borgo. Il suo fascino, però, ha resistito all’oblio ed è ancora
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racchiuso nei resti della sua cinta muraria, nelle torri circolari e quadrangolari. INFO tel. 0187 693834 (Ufficio del Turismo); http://comune.castelnuovo magra.sp.it
sarzana
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lle 10 del mattino del 22 giugno 1487, Lorenzo de’ Medici, alla testa delle truppe fiorentine, entrava nella città di Sarzana. Aveva cosí termine la guerra con Genova iniziata nel 1484. I Fiorentini misero immediatamente mano alla ricostruzione delle difese semidistrutte dall’assedio a cui la città era stata sottoposta. I lavori furono affidati a un’équipe di architetti fra cui Domenico di Francesco, detto il Capitano, e Francesco di Giovanni, detto il Francione, che realizzarono, nell’angolo sud-est della città, la rocca di Firmafede. Nel 1493 al Francione e a Luca del Caprina furono affidati i lavori per la realizzazione, sul colle che domina la città, di un’altra rocca, quella di Sarzanello, che risulterà uno dei piú maturi esempi di questo tipo di
fortificazione, un vero gioiello dell’architettura militare del periodo di transito. Ciononostante, Sarzanello era già concettualmente superata da altre coeve realizzazioni, come per esempio Poggio Imperiale, opera di Giuliano da Sangallo. Il Francione, vecchio maestro dei Sangallo, non aveva saputo o voluto adeguarsi alle nuove idee. INFO tel. 0187 620419 (IAT, Ufficio Informazioni Turistiche); www.comunesarzana.gov.it
lerici
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a fortezza a base poligonale di Lerici si presenta come un colosso sul mare. Il suo nucleo originario risale al 1152 e in quell’anno, in base ad alcuni riscontri documentali, esisteva una torre a presidio del borgo, presumibilmente costruita per volere della famiglia Obertenghi. Nel XIII secolo sorse la rocca vera e propria, per iniziativa dei Pisani, preoccupati di proteggere quel tratto del Golfo della Spezia da possibili controffensive della Repubblica di Genova. Un ulteriore ampliamento alla struttura lo apportarono, poi, proprio i Genovesi nella porzione nord-ovest delle
Sarzana
Lerici mura, completando anche la preesistente cappella di S. Anastasia. Nel 1555, con la cosiddetta «terza fase», il castello venne completato, assumendo il profilo monumentale che oggi può sfoggiare. È sede di un Museo Paleontologico, sorto nel 1998, dopo il ritrovamento di orme di dinosauri e tecodonti nel territorio limitrofo. Una delle parti piú antiche del maniero, rimasta intatta, è la torre, le cui forme architettoniche fanno pensare a un’origine duecentesca. Mentre il corpo di fabbrica e buona parte della cinta muraria sono il frutto degli adeguamenti difensivi cinquecenteschi per fronteggiare la potenza delle nuove armi da fuoco. INFO tel. 0187 969042; www.castellodilerici.it
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oveva venire distrutto all’inizio del Novecento per far posto a un ospedale, poi, fortunatamente, i costi per la sua demolizione parvero troppo elevati. Fu cosí che si salvò il castello di San Giorgio, costruito piú di 600 anni fa su un’altura dominante l’allora piccolo borgo della Spezia. In tempi recenti è stato salvato una seconda volta dai restauri ultimati nel 1998, che gli hanno restituito l’antico splendore. Costruito in posizione eminente, a dominio della piana alluvionale in cui si è sviluppata la città moderna, il castello esisteva probabilmente già in epoca altomedievale. Distrutto nel 1273 dal genovese
Oberto Doria per contrastare i Fieschi, fu nuovamente danneggiato nel 1365 dalle milizie di Ambrogio Visconti. Le necessità di difesa, unite alla crescita demografica dell’allora borgo marinaro, portarono nel 1371 alla costruzione dell’attuale castello, poi ristrutturato e ampliato nel 1443 e nel 1554. Il restauro ha portato alla luce le murature originarie e ha creato spazi fruibili dalla collettività. I locali della fortezza ospitano oggi le collezioni archeologiche del Museo «Ubaldo Formentini», in cui spiccano per interesse le statue stele di Lunigiana e i reperti antichi e altomedievali della vicina Luni. Enrica Salvatori INFO tel. 0187 751142; http://museodelcastello.spezianet.it
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lombardia
Milano e Vigevano
Costruire di Patrick Boucheron
per intimidire D
ove risiede l’autorità? La domanda, beninteso, di primo acchito ha un significato politico. E ciò è tanto piú vero per i regimi signorili dell’Italia settentrionale che, alla fine del XIII secolo, devono imporre il loro potere a istituzioni comunali di cui si considerano gli eredi, e delle quali i palazzi civici erano l’espressione architettonica piú compiu-
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ta. La politica monumentale dei Visconti, a Milano, ha cercato di appropriarsi in primo luogo della memoria civica della capitale lombarda, investendo i palazzi comunali della loro presenza simbolica. La rappresentazione poteva anche essere figurata, come per il palacium maius di Brescia, dove il vescovo Berardo Maggi (1240/45-1308)
I Visconti e gli Sforza diedero forma al proprio potere anche attraverso la realizzazione di rocche e castelli. Fabbriche in cui le esigenze residenziali finirono spesso con l’armonizzarsi a quelle militari fa rappresentare la sottomissione del popolo radunato davanti al suo nuovo signore. Ma, piú spesso, l’urbanistica signorile si appropria dell’antica sede del potere comunale attraverso la pianificazione architettonica. È il caso di Milano, dove ogni nuovo signore si preoccupa di aggiungere un ulteriore edificio al Broletto Nuovo, ingombrando sempre piú quello che
doveva teoricamente essere lo spazio aperto della deliberazione civica. Ovunque, in Lombardia, i palazzi pubblici risultavano in tal modo accerchiati da edifici di prestigio (logge, portici) e da costruzioni destinate ad accogliere la nuova burocrazia. Cosí, facendo del centro civico il teatro della loro magnificenza, i signori lo onoravano e, al
Il Castello Sforzesco di Milano. Voluto da Galeazzo II Visconti nella seconda metà del Trecento, il complesso fu ricostruito dal 1450 da Francesco Sforza, donde la denominazione attuale. castelli d’italia
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«Un palazzo, un giardino e una cappella...» Nel 1361, Galeazzo II Visconti fondò il castello di Pavia, che, di lí a poco, divenne uno dei piú importanti luoghi dell’Umanesimo italiano, glorificato da Petrarca in una lettera indirizzata nel 1365 a Boccaccio. Costruito secondo i dettami razionali dell’architettura ad quadratum, il castello di Pavia si inscrive nella coerenza di una politica di pianificazioni urbane che comprende i cantieri della Strada Nuova, della nuova piazza pubblica e delle nuove fondazioni religiose, Gian Galeazzo Visconti eredita il castello di Pavia e prosegue i lavori per la sua sistemazione, come scrive un cronista del XVI secolo, per «avere un palazzo per sua abitazione, un giardino per suo diporto e una cappella per sua devozione». L’ampliamento del Parco Ducale, a nord del castello, forma allora una gigantesca tenuta di caccia, in mezzo alla quale si eleva il castello di Mirabello, residenza del «capitano del Parco» e luogo di sosta per il principe durante le sue battute venatorie. Ma il giardino principesco serve anche a collegare il castello con la Certosa di Pavia, fondata nel 1396. Questo dispositivo spaziale che congiunge il castello, il giardino e la Certosa si ritrova a Milano: il Parco Ducale, che si comincia a sistemare a nord del castello di Porta Giovia, collega la residenza del principe con la Certosa di Milano, S. Maria di Garegnano, fondata da Giovanni Visconti nel 1349, e arricchita in seguito grazie alle donazioni di Gian Galeazzo nel 1399.
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tempo stesso, lo neutralizzavano, trasformando un luogo nel quale si prendevano decisioni politiche in uno spazio di rappresentazione e di amministrazione. Azzone Visconti, signore di Milano dal 1329 al 1339, ebbe un ruolo decisivo nell’affermazione politica e dinastica della sua famiglia. Egli fu il primo della stirpe a far costruire una nuova residenza, non lontano dal palazzo comunale, che essa dominava con la sua mole e la sua magnificenza. Questo palazzo, oggi scomparso, ci è noto attraverso le descrizioni ammirate che ce ne hanno tramandato i contemporanei, in particolare il cronista milanese Galvano Fiamma, infaticabile propagandista della famiglia Visconti. Egli esalta il principe magnifico, che cerca in primo luogo di impressionare i suoi sudditi, facendo della propria residenza la metafora architettonica della sua presa di potere. Si riconoscono nella sua descrizione i due motivi che diventeranno costitutivi dello stile principesco. Il gusto per lo straordinario, prima di tutto: lo splendore della chiesa palatina di S. Gottardo in Corte abbaglia per la ricchezza dell’ornamentazione; quanto al campanile, esso domina con la sua altezza e con la sua influenza tutta
Veduta del Castello di Pavia, costruito per volere del duca Galeazzo II Visconti.
l’arte lombarda. Perché il principe cerca anche di farsi promotore dell’innovazione e dell’avanguardia: cosí, nel 1335, Azzone Visconti fa installare in cima al campanile un orologio meccanico che suona i suoi colpi a ore fisse, manifestando in tal modo il dominio principesco del tempo sul territorio. Il serraglio di Azzone partecipa della stessa logica: la presenza di leoni, scimmie, orsi e di altri animali selvaggi rende la residenza principesca un luogo stravagante, che sembra contenere tutti gli eccessi e le diversità del mondo.
Punti d’appoggio militari e politici
Parallelamente a questa politica di prestigio nelle loro capitali, i Visconti intraprendono un programma sistematico di costruzione di cittadelle nei centri urbani soggetti al loro potere. Ogni conquista era cosí accompagnata da una mossa architettonica che segnava simbolicamente l’annessione della città occupata a un’entità territoriale dominata da Milano. Da qui la lunga serie di fortezze cittadine che i Visconti fanno edificare negli anni 1340-50, sul modello del Broletto milanese, a Como, Crema, Lodi, Brescia, Bergamo, ma anche a Piacenza e a Bologna, e nella maggior parte delle città conquistate. Non si tratta di palazzi, né di residenze principesche, ma solamente di punti d’appoggio militari e politici per la dominazione signorile. E, infatti, come sarebbe stato possibile deliberare in pace sotto l’occhio degli uomini del signore nella sua fortezza? La fortezza cittadina è piú di un’espressione monumentale della presa di potere; essa è uno strumento, e per di piú terribilmente efficace. Questa rete di rocche serve anche da residenza occasionale per il signore di Milano, la cui corte, nel corso del XIV secolo, è ancora largamente itinerante. Il castello di Porta Giovia si ispira, in maniera ambigua, a due modelli: il palazzo urbano e la fortezza suburbana. Cavalcando le mura della città di cui rinchiudeva le difese, la cittadella era servita da rifugio a Galeazzo II Visconti in occasione della guerra civile che lo aveva visto opposto a suo fratello Bernabò nel 1358. Negli anni Ottanta del XIV secolo, Gian Galeazzo Visconti, il primo duca di Milano, affida all’ingegnere Giovanni Magatti i lavori di ampliamento e di abbellimento di quella che allora è ancora solo una cittadella. L’applicazione, a Milano, di questa urbanistica di intimidazione che i Visconti riservavano alle città loro soggette è senza dubbio vissuta come un’umiliazione. Eppure, all’inizio del XV secolo, il castello è diventato a tutti gli effetti un palazzo che, pur non dichiarandosi tale, prende chiaramente a modello quello di Pavia. Tutto indica che i Visconti lo utilizzano come residenza principale: è qui che Gian Gale-
azzo riceve, nel 1395, il titolo ducale ed è qui che nasce il suo erede, Filippo Maria.
Uno Stato ambizioso ma fragile
La figura di Filippo Maria ritirato nel castello di Porta Giovia ha nutrito tutta una letteratura politica che sviluppa a sazietà i temi del timore e della dissimulazione. Timori ossessivi di un principe che si crede assediato dai congiurati e moltiplica le misure di sicurezza che interdicono l’accesso al castello. Nella sua Vita Philippi Mariae, l’umanista Pier Candido Decembrio (1399-1477) ci ha lasciato evocazioni quasi allucinate di questi terrori notturni che turbavano i sogni del principe. Quando gli assedianti della Repubblica ambrosiana attaccano il castello di Porta Giovia, nel 1447, fanno della sua distruzione un vero rituale civico: le pietre sottratte al monumento della tirannia sono solennemente trasportate nel cuore della città, per alimentare il cantiere della cattedrale, come se ci fosse bisogno di mettere in scena una riconciliazione urbanistica sotto gli auspici delle virtú civiche. La fortezza, insomma, dice tutto dello Stato signorile, la sua ambizione smisurata e la sua fondamentale fragilità. Nel luglio 1450, qualche settimana dopo la sua presa di potere, Francesco Sforza rialza dalle sue rovine il castello dei Visconti, tradendo una promessa fatta ai Milanesi. I lavori, coordinati dal commissario generale Bartolomeo Gadio, antico compagno d’armi del condottiero, proseguono per tutto il XV secolo. Facendo da schermo tra la città e il castello, si estende, per oltre 200 m, una facciata imponente, al riparo della quale si svolgono la vita di corte e il teatro del potere; il giardino ducale dietro il castello si afferma con sussiego come lo spazio dei cortigiani. Questa estensione verso la pianura dell’area riservata alla corte volge le spalle alla città e ai suoi abitanti. Il palazzo del principe, città ideale tagliata fuori da quella reale, manifesta con boria questa «urbanistica intimidatoria», che il duca di Milano tenta di attenuare con una politica di magnificenza. L’arrivo nel cantiere del fiorentino Antonio Averlino, detto il Filarete, testimonia questa volontà ducale. L’architetto progetta di dare alla torre centrale, al di sopra della facciata nuda e rude, un decoro raffinato, come per sfumare attraverso l’ornamentazione quello che l’edificio può avere di aggressivo. Filarete dovette affrontare le peggiori difficoltà per imporre le sue scelte ai maestri lombardi, e la redazione del suo Trattato di Architettura deve essere vista come la rivincita ideologica alle frustrazioni da lui subite nel cantiere. Alla base di queste frustrazioni, tuttavia, vi sono cause strutturali: per tutta la seconda metà del XV secolo, il castello degli Sforza piú che castelli d’italia
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il castello di milano Concepito, nel XIII secolo, da Galeazzo II Visconti, con funzioni esclusivamente difensive, il castello di Porta Giovia fu ampliato in funzione residenziale da Gian Galeazzo Visconti verso la fine del Trecento, per diventare residenza ducale con Filippo Maria Visconti, al potere dal 1412 al 1447. Alla sua morte, il popolo milanese decretò la parziale demolizione dell’edificio, considerato il simbolo della tirannia viscontea. Con l’avvento degli Sforza, nel 1450, Milano tornò ad avere un signore e un castello, alla ricostruzione del quale partecipò, tra gli altri, Antonio Averlino detto il Filarete. Fu poi Ludovico il Moro a farne una delle piú splendide residenze rinascimentali della Penisola. Disegno del Castello Sforzesco nel suo assetto attuale: 1. Torre d’ingresso. La struttura originaria fu progettata dal Filarete e andò distrutta nel 1521 in seguito all’esplosione delle polveri da sparo che vi erano conservate; quella oggi visibile è la ricostruzione curata dall’architetto Luca Beltrami tra il 1901 e il 1905. 2. Piazza delle Armi, dove erano gli alloggi della guarnigione, del personale di servizio e le stalle. 3. Rocchetta: era la parte piú fortificata del castello; i tre lati porticati erano affrescati con un disegno a finto bugnato. 4. Torre Castellana o Maystra, oggi detta «del tesoro» perché il Moro vi teneva le sue ricchezze. 5. Corte ducale. 6. Torre ducale, al cui interno si trova la Sala delle Asse, affrescata da Leonardo. 6
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A sinistra ancora un’immagine del Castello Sforzesco di Milano. Ciò che oggi si può vedere corrisponde solo al nucleo principale del complesso costruito da Francesco Sforza e dai suoi successori sulle fondamenta del Castello Visconteo, demolito dai cittadini della Repubblica ambrosiana nel 1447. Nella pagina accanto, in alto retto della medaglia di Filippo Maria Visconti con il ritratto del duca di Milano, opera del Pisanello. 1441 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
ornare la città la difende. Le sue fortificazioni piú appariscenti (se non addirittura le piú efficaci dal punto di vista militare) guardano verso la città e non verso la campagna, il che manifesta la profonda ambiguità funzionale di questa cittadella che fatica a diventare un palazzo.
Un contrasto stridente
Certo, lo sviluppo della società di corte, soprattutto a partire dalla signoria di Galeazzo Maria Sforza (1466-1476), impone nuove sistemazioni interne. Pittori, umanisti e musicisti vengono a popolare questa società politica che deve il suo rango sociale al fatto di servire il principe e vive tagliata fuori dal mondo della città. Si fa sempre piú lampante, insomma, il contrasto tra la sontuosità degli spazi riservati (il Cortile della Rocchetta, le sistemazioni del Bramante per la Ponticella di Ludovico il Moro) e la rudezza
della fortificazione militare. Nello stesso periodo, i palazzi di Urbino o di Mantova realizzano il programma albertiano dell’«inurbamento» delle residenze principesche. Gli Sforza tentano di applicare questo modello urbanistico nella loro capitale, in primo luogo cercando – per la verità senza grande successo – di fare degli accessi al castello, davanti alla facciata che dà sulla città, una vera e propria piazza pubblica. Il progetto della statua equestre di Francesco Sforza, che doveva prendere posto sul rivellino del castello, si inscriveva già in questa prospettiva. Fra il 1483 e il 1485, il potere principesco conduce una prima campagna di acquisti immobiliari, attraverso la quale intende acquisire e distruggere le case private che ingombrano gli accessi al castello. L’impresa prende dimensioni ancora di maggiore ampiezza con il decreto del 22 castelli d’italia
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lombardia agosto 1492 che ordina l’espropriazione di queste abitazioni. Ma l’innesto non prende. Tutto avviene, in fondo, come se il tessuto urbano di Milano rigettasse il castello come una sorta di corpo estraneo.
Il modello di Vigevano
Gli Sforza tentarono altrove quello che non hanno potuto realizzare a Milano: è cosí che Ludovico il Moro fa della sua residenza estiva, a Vigevano, il modello del castello e del palazzo principesco del Rinascimento. A metà strada, tra Milano e Pavia, sul corso del Ticino, Vigevano fu in primo luogo un castrum fortificato da Luchino Visconti che vi fece costruire la sua cittadella negli anni Quaranta del XIV secolo. La politica di ornamentum urbis perseguita da Ludovico il Moro, negli anni Ottanta del secolo seguente, modificò radicalmente la struttura urbana di questa «quasi città» divenuta, per grazia del principe, città ideale. Non lontano si estende la Sforzesca, grande proprietà fondiaria che è al tempo stesso una fattoria pilota e una riserva di caccia. Soprattutto, il palazzo di Vigevano si integra con la città che lo circonda per mezzo di un sontuoso palazzo civico, cinto da colonnati, da portici e da archi di trionfo, secondo la maniera antica, che i documenti della fine del XV secolo non esitano a chiamare forum. Questo – ed è qui il suo successo architettonico e politico – si dà a vedere come l’espansione, nella città, del «cortile» principesco. Il palazzo pubblico, che assume tutte le funzioni urbane della centralità, è come l’anticamera della residenza del principe. In questo senso, si può ben dire che Vigevano sia il modello ideale della città principesca, vale a dire un centro urbano interamente strutturato in funzione della dimora del suo principe – quella che Baldesar Castiglione, a Urbino, riassume nella felicissima formula «una città in forma di palazzo».
Dove e quando castello sforzesco Milano, piazza Castello Orario tutti i giorni, 7,00-18,00 (invernale); 7,00-19,00 (estivo) Info tel. 02 88463700; www.milanocastello.it Castello sforzesco Vigevano, via Rocca Vecchia Orario invernale: lu-ve, 9,00-17,00; sa e festivi, 9,00-17,30; estivo: lu-ve, 9,00-18,00; sa e festivi, 9,00-18,30 Info tel. 0381 690269 (Ufficio Informazione e Accoglienza Turistica); www.comune.vigevano.pv.it
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Angera
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a Rocca Borromeo di Angera è divenuta un crocevia per gli amanti del Medioevo, grazie all’allestimento di una mostra permanente e alla risistemazione dello spazio esterno. Il risultato è un tuffo nel passato, nei secoli in cui il maniero, arroccato su uno sperone roccioso sulla costa lombarda del Lago Maggiore, era al centro dello scacchiere politico italiano. Basandosi sullo studio di codici, miniature e documenti d’archivio, tre ambienti dell’ala scaligera restituiscono altrettante tipologie di colture, con una scenografia che, attraverso suoni e immagini, gioca sulla suggestione, ricreando atmosfere e ambienti. Prima tappa è il Giardino dei Principi, destinato al castellano per gli svaghi, le feste, le conversazioni, tra i muri su cui si arrampicavano gelsomini e rose bianche o rosse. Seguono il Verziere, che accoglieva alberi da frutto collocati secondo una precisa sequenza attorno a una vasca centrale per i pesci, e il Giardino delle Erbe Piccole che, oltre alle specie medicinali coltivate nei monasteri, prevedeva fiori e piante ornamentali o profumate. La rassegna sottolinea il fitto intreccio tra i significati simbolici rivestiti dai diversi elementi, nell’ambito di un insieme teso a ricreare in terra «il Paradiso perduto» e a ricondurre a un’armonia ispirata a Dio. Se l’acqua era identificata con il principio della vita e i pesci alludevano alla fertilità, l’arancia
Qui sopra particolare degli affreschi che celebrano episodi della vita dell’arcivescovo Ottone Visconti nella Sala di Giustizia della Rocca Borromeo di Angera (Varese). Fine del XIII-inizi del XIV sec.
rimandava per esempio ad Afrodite. Ma nel percorso espositivo figurano anche i riferimenti ai giovani del Decameron, alle miniature del Roman de la Rose e della Cité des Dames, e ai lavori agricoli. Per collegare il verde rievocato all’interno con quello ripristinato attorno alla rocca, è stata allestita una sala dedicata all’arte culinaria. L’universo del gusto è rievocato da una tavola imbandita, ricette, utensili, dipinti di piccole dimensioni che riecheggiano il clima e le regole non scritte dei banchetti medievali, che piú e piú volte si sono tenuti di certo anche ad Angera. La Rocca Borromeo svetta infatti sul Lago Maggiore dalla fine del Millecento, quando, in una posizione strategica per il controllo dei traffici nel lago, viene costruita la torre principale, ancora leggibile, circondata da una cerchia muraria. Sono successive l’ala scaligera, un palazzo in pietra di piccole dimensioni, e quella viscontea, che, nella Sala Superiore o della Giustizia, custodisce uno straordinario ciclo pittorico: gli affreschi realizzati tra la fine del Due e l’inizio del Trecento celebrano la vittoria di Ottone Visconti sui Torriani di Napo della Torre, con un’iconografia articolata, complessa, che riflette il gusto della pittura lombarda dell’epoca. Piú tardi, attorno al 1350, viene eretta la torre dell’arcivescovo Giovanni Visconti, mentre le altre campagne edilizie sono posteriori al 1449, anno in cui la famiglia Borromeo diventa proprietaria della rocca. All’esterno, nell’area circostante la cappella rivivono piú tipi di giardino medievale, grazie ad arbusti, piante ornamentali,
Mantova specie medicinali, fiori che riportano dritti all’età di Mezzo. E collegano idealmente, in un unico itinerario che fa capo al casato dei Borromeo, la rocca di Angera all’Orto botanico dell’Isola Madre e al parco in stile rinascimentale dell’Isola Bella. Stefania Romani INFO tel. 0331 931300; www.isoleborromee.it
trasformarono gli interni in una delle piú sontuose residenze rinascimentali: basti ricordare la Camera degli Sposi affrescata dal Mantegna nella torre settentrionale. Oggi, con il palazzo ducale, il castello forma un complesso monumentale di grande interesse. INFO tel. 041 2411897; www.ducalemantova.org
sirmione
mantova
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l castello di S. Giorgio fu costruito sul finire del XIV secolo, per incarico di Francesco I Gonzaga, dall’architetto Bartolino da Novara. Inizialmente l’edificio ebbe soltanto un carattere militare; i Gonzaga, infatti, continuarono ad abitare nella vicina Corte Vecchia e solo nel 1459 Ludovico II avviò i lavori che
Sirmione
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n posizione naturalmente forte, su una penisola stretta e lunga, il castello di Sirmione, la cui struttura è stata realizzata in piú fasi fra il XIII e il XIV secolo, è completamente circondato dalle acque del lago del Garda. Vi si accedeva attraverso due rivellini (strutture fortificate, atte a rafforzare le difese), muniti di ponte levatoio, o dalla darsena fortificata, che caratterizza ancora oggi il complesso. La stessa, iniziata dopo il 1351, forse sotto Cansignorio, e terminata dall’ultimo degli Scaligeri, Antonio, permetteva di compiere rapidi e consistenti spostamenti di truppe con il naviglio, di portare o ricevere aiuti dagli altri castelli scaligeri che si affacciavano sul lago. Info tel. 030 916468; www.architettonicibrescia.beniculturali.it
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veneto
Malcesine
Sentinella del lago di Flavio Conti
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rendere famoso il castello di Malcesine fu Wolfgang Goethe, il quale, durante il suo altrettanto noto viaggio in Italia (compiuto tra il 1786 e il 1787), restò fortemente affascinato dal luogo. L’incanto fu tale che il celebre scrittore tedesco si fermò per schizzare il paesaggio sul suo blocco da disegno, e uno 48
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zelante gendarme della Serenissima lo arrestò: aveva frainteso il suo interesse di artista e aveva sospettato che Goethe fosse in realtà una spia dell’impero asburgico. Il castello di Malcesine è una costruzione di origine antichissima. La tradizione lo fa risalire all’epoca longobarda ed è quasi certo che
Il castello di Malcesine costò al poeta e viaggiatore tedesco Wolfgang Goethe l’arresto con l’accusa di spionaggio. Sorta sulle sponde del Garda forse per difendersi dalle incursioni degli Ungari, è una fortezza possente, che conobbe il suo massimo splendore sotto la dinastia scaligera
nell’Alto Medioevo sorgesse nello stesso luogo un qualche riparo – «ricetto», come si usa dire – eretto dalla popolazione locale per proteggersi dalle scorrerie degli Ungari. Questa ipotesi indurrebbe a mettere Malcesine in rapporto con le analoghe fortificazioni di Padenghe, Moniga, Bedizzole, sorte sulla spon-
da sud-occidentale dello stesso lago di Garda, allo sbocco della Valtenesi. Affrontare gli Ungari in campo aperto era, infatti, impossibile. Non restava che erigere una serie di fortezze, sperando che la natura nomade degli invasori li distogliesse dall’idea di un assedio, dal quale peraltro avrebbero ricavato un bottino ben ma-
Il castello di Malcesine (Verona), sul lago di Garda. Le forme attuali sono in larga parte quelle conferite dai Della Scala che ne furono proprietari dal 1277 al 1387. castelli d’italia
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veneto
Malcesine
l’Architettura scaligera Gli Scaligeri, ovvero i signori di Verona, furono grandi costruttori di castelli e soprattutto sul lago di Garda ne eressero parecchi, di notevole importanza. Tutti hanno caratteristiche simili, che fanno di quella scaligera forse la piú immediatamente e facilmente riconoscibile tra le «scuole» italiane di architettura militare: muratura in laterizio e in ciottoli e laterizio, torri alte e snelle, merlatura sempre bifida (quella impropriamente definita «ghibellina») e, soprattutto, un tipico motivo «a segaccio» agli angoli, creato dalle indentature di rinforzo degli spigoli che si incastrano nelle cortine con un ricorrente, inconfondibile andamento a triangoli.
gro. Oggi queste fortificazioni, nessuna delle quali di origine feudale ma tutte comunitarie, sono le piú antiche della zona. L’attuale complesso di Malcesine deve la sua veste agli Scaligeri e in special modo ad Alberto Della Scala (signore di Verona dal 1277 al 1301), che trasformò l’antica fortificazione comunitaria in un solido e persino «arrogante» castello signorile. Rimase sotto il casato veronese fino al 1387: una presenza da cui deriva l’attuale denominazione di Castello Scaligero.
A sinistra particolare di un ritratto di Wolfgang Goethe, opera di Wilhelm Tischbein. Fine del XVIII sec. Napoli, Museo Nazionale di San Martino. Durante il suo viaggio in Italia, lo scrittore tedesco visitò Malcesine e rimase affascinato dal suo castello. 50
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Furono quindi i Visconti di Milano a occuparlo e tenerlo fino al 1403. Due anni piú tardi il castello venne incorporato dalla Repubblica di Venezia, che, dopo alterne vicende, ne conservarono il controllo sino al 1797. Passò quindi ai Francesi, ai quali, nel 1798, subentrarono gli Austriaci, che eseguirono consistenti lavori di consolidamento e conservarono il controllo della fortezza fino al 1866. Da quell’anno Malcesine seguí le sorti del Veneto e il castello venne dichiarato Monumento Nazionale il 22 agosto del 1902.
Una veduta del borgo di Malcesine, dominato dal Castello Scaligero.
«Arrampicato» sulla viva roccia
Esso non è soltanto uno dei castelli veneti piú scenografici, ma anche un vero prototipo di maniero «gotico», con la sua accentuata verticalità, scandita dal giro di mura che si «arrampica» sulla viva roccia, e dalla snella, alta sagoma del mastio pentagonale. La posizione è spettacolare: un grande dirupo roccioso posto a dominio dell’abitato che sorge ai suoi piedi, con amplissima vista sul lago e sul territorio circostante. La costruzione deriva dalla stratificazione di vari edifici scalati lungo la roccia, a partire
dal piú basso, la cosiddetta «casermetta», fino al mastio, che ne segna il vertice. Le diverse strutture sono intervallate da cortili, collocati a quote sempre maggiori. Tutto l’insieme si adegua alla tormentata orografia del luogo ed è perciò sommamente irregolare, ma di grande interesse architettonico e ambientale. Dismesso come fortificazione con la fine della Repubblica di Venezia, il castello è ora utilizzato in gran parte come sede del Museo di Storia Naturale del Baldo e del Garda. La sua sagoma sovrasta con prepotenza tutto l’alto bacino del Garda, di cui costituisce uno degli scorci piú noti.
Dove e quando Castello Scaligero e Museo di Storia Naturale del Garda e del Baldo Malcesine Orario apr-ott: tutti i giorni, 9,30-19,00 nov-mar: solo giorni festivi e prefestivi, 11,00-16,00 Info tel. 045 6570333: e-mail: bibliotecacomunale@comunemalcesine.it; www.comunemalcesine.it
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veneto
villafranca
L’
attuale stato del castello è il risultato di ripetuti ampliamenti succedutisi nel tempo. La parte piú antica è la «rocchetta» con il suo mastio, le cui strutture risalgono probabilmente al 1202-1234, e controllano l’accesso dalla parte nord verso la città. La «rocchetta», residenza del castellano, poteva divenire una zona autonoma; per maggior sicurezza, era dotata di un doppio sistema di fossato e ponte levatoio anche all’interno della cerchia delle mura. A questo primo nucleo, nel 1345 venne aggiunto un recinto murario, una vera piazza d’armi. L’intero complesso arrivò cosí alle attuali ragguardevoli dimensioni, con una pianta quadrata di 140 metri di lato. La realizzazione del grande recinto murario è legata in modo particolare alla costruzione del Serraglio, un’imponente opera di fortificazione, voluta da Mastino II, che ne iniziò nel 1345 la costruzione, completata, dieci anni dopo, dal figlio Cangrande II. Nell’ambito di questa sorta di Grande Muraglia, Villafranca occupava una posizione centrale. Si trattava di una dislocazione ideale, dunque, per i reparti di cavalleria che, grazie alla loro mobilità, potevano assicurare un efficace e rapido intervento lungo una linea difensiva di vari chilometri. La tessitura muraria mista in pietra e laterizi, tipica di quest’area, era economica e
di rapida realizzazione. L’uso del mattone, sicuramente piú costoso, era limitato alle parti strutturali piú importanti (come gli angoli delle torri per imbrigliare la meno stabile muratura a ciottoli) e a quelle che necessitavano di una precisa sagomatura, come le feritoie. Anche le file orizzontali di mattoni, che si alternano nelle mura a parti piú estese realizzate in pietre o ciottoli di fiume, hanno questo scopo stabilizzante. Nel caso delle torri scudate del recinto castellare, queste erano aperte nella parte rivolta verso l’interno del castello. In questo modo, nell’eventualità che fosse caduta in mano al nemico, questi non poteva trovarvi neanche un momentaneo riparo dal tiro dei difensori. La torre era suddivisa in vari piani da solai di legno, andati ormai perduti. Nella muratura sono però ancora visibili sia
Villafranca
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gli incastri per l’appoggio delle travi sia le tipiche feritoie, bordate di mattoni, che caratterizzano le architetture militari scaligere. INFO www.comune.villafranca.vr.it
soave
A
nche per questo castello, come per molti altri dell’Italia settentrionale, il primo nucleo fortificato viene fatto risalire agli inizi del X secolo, quando le incursioni degli Ungari resero indispensabile l’edificazione di valide strutture difensive. Documenti risalenti al X secolo, nonché un diploma di Federico Barbarossa attestano che il fortilizio apparteneva alla famiglia veronese dei conti di Sanbonifacio. Nel 1237 il castello era nelle mani di un’altra illustre casata feudale della zona, quella dei Greppi, che, nel 1270, quando lasciarono il Veneto per trasferirsi in Lombardia, lo cedettero al Comune di Verona, che vi stabilí un capitano. Fu, però, sotto la dominazione scaligera che il castello di Soave conobbe il suo momento migliore. I Della Scala, infatti, apprezzandone la felice posizione strategica, sul monte Tenda, lo trasformarono in una vera fortezza militare. Nel 1338 Rolando de’ Rossi da Parma, generale al servizio dei Veneziani, conquistò il castello, che, però, fu presto ripreso da Mastino II Della Scala. Ma fu Cansignorio che,
Soave Zumelle
nel 1369, ristrutturò il castello e che, nel 1375, cinse l’abitato di mura alte dai 12 ai 18 m, con 24 torri scudate, collegandolo con il castello posto sulla collina. Anche qui, come a Verona e a Valeggio sul Mincio, l’interno è suddiviso in comparti: la corte delle milizie e quella signorile. Il cortile settentrionale, invece, venne costruito dai Veneziani nel 1413. Vi si trovano i resti di una chiesetta, forse del X secolo. INFO tel. 045 7680036; www.castellodisoave.it
zumelle
L
e origini dello splendido maniero di Zumelle, situato su un’altura nel Comune veneto di Mel, risalgono al periodo romano. Nel 46 d.C. nel sito dell’odierna rocca si ergeva una fortificazione che controllava tutta la Valbelluna e la relativa viabilità stradale. Sulle rovine di quel presidio militare, agli inizi del Medioevo, l’ostrogoto Genserico, segretario della regina Amalasunta, edificò un nuovo castello, destinato a divenire uno dei principali teatri delle lotte feudali. Di nuovo distrutto, in seguito alle guerre fra Trevigiani e Bellunesi, fu ricostruito nel Trecento per iniziativa del signore locale Rizzardo da Camino. La sua fisionomia attuale non è cambiata molto rispetto ai
tempi di quella radicale ristrutturazione, ma riporta anche le modifiche quattrocentesche, apportate nel periodo in cui la fortezza stava perdendo le proprie funzioni militari. Nel Cinquecento, con la pax veneziana, che impose lo smantellamento di molti fortilizi, il maniero divenne una residenza nobiliare e conservò questa destinazione d’uso fino alla cessione al Comune di Zumelle, avvenuta nel 1872. INFO www.comune.mel.bl.it
Verona,
castelvecchio
I
niziato nel 1354 da Cangrande II Della Scala per assicurarsi un
miglior controllo della città di Verona, Castelvecchio venne completato dal figlio Antonio nel 1376. Il ponte fortificato che lo collega all’altra sponda dell’Adige fu eretto invece in due soli anni, fra il 1354 e il 1356. Il castello si articola in tre parti: a est una corte per le milizie, al centro il passaggio di collegamento con il ponte sull’Adige e, infine, la corte, con la residenza signorile e il mastio. Nel tempo il complesso ha subito manomissioni e distruzioni: durante l’occupazione napoleonica e piú tardi, quando gli Austriaci ne fecero una caserma, fino ai bombardamenti dell’ultima guerra. Nel 1945 i Tedeschi ne distrussero il ponte sull’Adige (poi ricostruito nelle forme originali). Nonostante le varie sventure, Castelvecchio rimane una delle piú importanti realizzazioni scaligere. Dagli anni Venti del Novecento è sede del Civico Museo d’Arte, con un’importante raccolta che spazia dalla scultura di epoca romana ai dipinti fiamminghi, alle opere di Mantegna, Tintoretto, Veronese, Longhi fra i tanti. Nel museo è conservata anche la statua equestre di Cangrande I, una tra le piú notevoli del Trecento italiano. INFO tel. 045 8077774; e-mail: turismo@comune.verona.it: www.turismoverona.eu
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Avio
Amore di Francesco Colotta
fatale
Considerato un esempio «perfetto» di roccaforte medievale, il castello di Avio fu al centro di violente contese, per via della sua posizione strategica. E, nelle sue stanze, custodisce il racconto di un ben diverso conflitto: quello animato dalle passioni amorose...
U
na rocca spunta maestosa alla vista di chi percorra verso nord l’autostrada del Brennero, poco dopo aver varcato il confine tra Veneto e Trentino-Alto Adige: è il castello di Avio, con la sua caratteristica sagoma biancastra. Dall’alto della collina di Sabbionara domina su tutta la Vallagarina, una zona intensamente coltivata e abitata. La parte
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piú antica della costruzione, il mastio, risale all’XI secolo e fu affiancata da altre cinte fortificate nel corso del Quattrocento. Il primo documento che attesta l’esistenza del maniero riporta la data del 1053 e si riferisce a un luogo di nome Castellum Ava. Racconti leggendari affermano che la rocca, invece, esisteva già nell’Alto Medioevo e che
nel VI secolo aveva ospitato personaggi celebri come la regina longobarda Teodolinda e il suo consorte Autari durante il loro viaggio di nozze. Piú verosimilmente nelle sue stanze soggiornarono l’imperatore Carlo V e Massimiliano d’Asburgo. Nel Duecento la fortezza risultava essere uno dei principali feudi della famiglia nobile dei Castelbarco e, per la sua
posizione di cerniera tra i possedimenti veronesi e il Trentino, subí frequenti assedi. Uno dei piú violenti fu sferrato dagli Scaligeri e provocò molti danni alla struttura, poi riparati da Guglielmo II il Grande. Alla fine dell’età di Mezzo il castello cambiò proprietario e venne ceduto alla Repubblica di Venezia, che lo dotò di ulteriori fortifica-
Il castello di Avio (Trento). Fu costruito a partire dall’XI sec. in cima a uno sperone che domina la frazione di Sabbionara e si affaccia sulla Vallagarina solcata dal fiume Adige. castelli d’italia
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Avio Uno scorcio dei passaggi che uniscono le diverse strutture comprese nel complesso di Avio: sulla sinistra svetta il mastio, un’imponente torre a pianta esagonale che risale ai secoli XI e XII ed è la costruzione piú antica del castello; sulla destra, invece si vedono tratti delle murature riferibili al Palazzo Baronale. zioni. Fu un periodo d’oro per il maniero e per tutta l’area sulla quale dominava. I Veneziani diedero lustro a quel presidio, assegnandogli un ruolo centrale tra i possedimenti trentini. Per garantirgli maggiore spazio politico fecero abbattere varie rocche «concorrenti» che sorgevano nelle vicinanze, tra cui quelle di Và, Serravalle e Chizzola. La costruzione, dopo successivi ampliamenti, risultò composta da ben 5 torri e 3 cinte murarie, cosí come appare attualmente. Perso da Venezia durante la guerra contro la lega di Cambrai (1508-1516), il castello passò sotto il controllo dei vescovi di Trento e, nel Seicento, tornò in possesso dei primi proprietari, i Castelbarco, i quali, qualche secolo dopo, con un atto di generosità lo donarono al Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI).
Affreschi trecenteschi
Il castello di Avio visse il suo momento di massimo splendore alla fine del Medioevo, dopo essere stato acquisito dalla Repubblica di Venezia 56
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Oggi la fortezza ha recuperato in toto il suo antico splendore, anche all’interno. Nel mastio, all’ultimo piano, si trova la cosiddetta «Camera di Amore», un luogo appartato sulle cui pareti campeggiano alcuni suggestivi affreschi del Trecento: i piú celebri, attribuiti a un maestro di provenienza emiliana o veneta, raffigurano un mostruoso dio Amore lanciato al galoppo che con le sue frecce sfiora una giovane donna e colpisce un cavaliere in pieno petto. Affreschi di pregio sono contenuti anche nella Casa delle Guardie, situata in uno spazio antistante al castello, e presentano temi piú strettamente militari, con immagini di fanti e cavalieri. Accanto all’edificio del mastio si erge il duecentesco Palazzo Baronale, che, in epoca successiva, fu adibito a residenza per i nobili Castelbarco. Il corpo principale del palazzo ha una pianta a «L», si eleva nella parte piú antica del castello e occupa lo spazio a ridosso della cinta meridionale interna del primo nucleo fortificato. Nelle vicinanze, in una cappella, si possono ammirare altri affreschi medievali, di epoca presumibilmente quattrocentesca. Lungo il percorso delle mura merlate spicca l’imponente struttura della Torre Picadora, un tempo teatro di esecuzioni e torture. Sulla sua cima, infatti, venivano impiccati i criminali e i loro cadaveri venivano lasciati appesi per giorni alle pareti esterne in segno di ammonimento nei riguardi della popolazione del circondario.
Secondo una leggenda, ai condannati a morte era concessa la possibilità di scampare all’esecuzione attraverso un gioco dalle modalità simili a quelle di un paroliere: condotti nella Stanza della Scacchiera della Casa delle Guardie, dovevano, da bendati, comporre una frase compiuta, selezionando alcune lettere gotiche che campeggiavano nelle pitture.
Caccia al tesoro
Quelle lettere misteriose, in base a un’altra tradizione, nascondevano una formula segreta che poteva condurre alla stanza in cui era custodito un tesoro. Si trattava dei beni piú preziosi del castello, da preservare a ogni costo in caso di assalti nemici. La tradizione è circolata per secoli nel territorio di Avio e dintorni, tanto da spingere piú di un «cacciatore» a perlustrare i sotterranei del complesso fortificato. Nel corso di queste ricognizioni, alcuni muri di pregevole valore storico sarebbero stati abbattuti. La fisionomia del maniero, che non ha eguali in Italia, appare una riuscita sintesi tra l’architettura militare di stile veronese del XIII-XIV secolo e il tipico stile dei manieri tirolesi. Piú d’uno studioso sostiene che Avio rappresenti uno dei piú riusciti esemplari di castello medievale. In virtú, sicuramente, della sua posizione di guardia sulle pendici di un’altura, ma anche per l’evoluzione architettonica che ha subito nel corso degli anni, testimoniata dalla sua struttura «a strati» posti a protezione del mastio.
A destra particolare degli affreschi nella Camera di Amore raffigurante un cavaliere che si congeda dall’amata prima di intraprendere un lungo viaggio. In basso particolare degli affreschi nella Casa delle Guardie raffigurante due uomini in lotta.
Dove e quando Castello di Avio Avio (Trento), via al Castello Orario mar-set: 10,00-18,00; ott-ultima domenica di nov: 10,00-17,00; aperto tutti i giorni, tranne i lunedí e i martedí non festivi; in agosto aperto anche il martedí Info tel. 0464 684453; e-mail: faiavio@fondoambiente.it; www.visitfai.it
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castel roncolo
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astel Roncolo (Schloss Runkelstein), a meno di 2,5 km dal centro di Bolzano, fu costruito per concessione vescovile da Federico e Beraldo Vanga, esponenti di una tra le famiglie maggiormente avverse a un’altra potente e ambiziosa casata della regione, i Tirolo, con i quali ebbero frequenti scontri. Nel 1277, Castel Roncolo fu assalito e saccheggiato da Mainardo di Tirolo. Nel 1385, i Vintler divennero i nuovi proprietari e i lavori intrapresi nel palazzo d’estate e in quello occidentale trasformarono il castello in una comoda ed elegante residenza. Alla fine dell’Ottocento l’imperatore Francesco Giuseppe lo fece restaurare. Nelle sale del castello sono conservati interessanti esempi di pittura profana medievale: i cavalieri Parsifal, Gavino, Ivino, i condottieri Artú, Carlo Magno, Goffredo di Buglione, gli eroi Ettore, Alessandro, Cesare, gli innamorati Tristano e Isotta, Guglielmo e Aquilea,
Castel Roncolo
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Appiano Guglielmo d’Orleans e Amelia, le spade di Sigfrido, di Teodorico e di Amedeo di Stiria. Nella sala del torneo si trova il relativo affresco con cavalieri duellanti e scene di danza, caccia e pesca. INFO tel. 0471 329808; e-mail: roncolo@roncolo.info; www.roncolo.info
appiano
A
una decina di chilometri da Bolzano, in una posizione particolarmente favorevole dalla quale si possono intravedere altri 36 castelli della Val d’Adige, troviamo castel Appiano (Hocheppan). Venne costruito dai
conti omonimi probabilmente prima del 1131, anno in cui fu consacrata la cappella. Divenne uno dei capisaldi della famiglia nelle lotte contro Federico Barbarossa e i Tirolo. Da sottolineare l’importanza degli affreschi conservati nella cappella, tra cui la Parabola delle vergini sagge e di quelle stolte, una Madonna in trono e una serie di episodi della vita del Salvatore. INFO tel. 0471 636081; www.hocheppan.com
trento
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ostruito a partire dal XIII secolo, il castello del Buonconsiglio ha subito nel tempo ampliamenti e trasformazioni. Il complesso può essere suddiviso in tre parti distinte: il Castelvecchio, il Magno Palazzo e la Giunta Albertiana. Il nucleo iniziale, il Castelvecchio fu costruito dal podestà di Trento, al tempo in cui la regione era dominata da Ezzelino da Romano. Dalla metà del XIII secolo divenne residenza dei vescovi tridentini, funzione che mantenne sino alla fine del principato vescovile di Trento, decretata da Napoleone. Negli anni Novanta del XIII secolo, i Tirolo, avvocati del vescovo, ingrandirono il castello verso sud, ma solo sotto l’episcopato di Giorgio di Hack (1446-1465) vennero
Trento
Cles intrapresi i primi lavori per trasformarlo in una comoda residenza. In tal senso, fra il 1528 e il 1536, operò anche il cardinale Bernardo Clesio, importante e illuminato personaggio della storia trentina, che, con la costruzione del Magno Palazzo, trasformò il castello in un principesco edificio a uso abitativo. Egli aggiunse al complesso anche una nuova cinta muraria con basse torri rotonde, piú adeguate all’uso delle armi da fuoco. Nel XVII secolo, infine, con la Giunta Albertiana, fatta erigere dal vescovo Francesco Alberti Poia, il Castelvecchio venne unito al Magno Palazzo. Il castello ha una rilevante importanza dal punto di vista artistico: conserva, infatti, affreschi, tra l’altro, dei fratelli Dossi e del
Romanino, oltre al ciclo dei mesi (XV secolo), attribuito a Venceslao Boemo, nella Torre dell’Aquila. INFO tel. 0461 233770; www.buonconsiglio.it
cles
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l castello di Cles, in Val di Non, è posto su una collina ai margini del lago artificiale di Santa Giustina, che ha oggi sommerso un importante punto viario sul fiume Noce, per il cui controllo, probabilmente, l’edificio era stato costruito. Le prime notizie del castello risalgono all’inizio del XII secolo, ma il suo aspetto attuale è dovuto ai lavori intrapresi dal cardinale Bernardo Clesio, o di Cles, nel 1535, dopo che la costruzione era stata incendiata nel corso di una rivolta contadina. Il cardinale, artefice del ripristino di molti castelli del Trentino, volle fare di questo complesso una residenza sontuosa. A testimoniare le sue originarie funzioni militari restano due torri quadrate e la strada d’accesso, che corre protetta fra due mura e sbarrata da ben quattro portoni. INFO tel. 0463 830133 (ApT Val di Non); e-mail: info@visitvaldinon.it
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Friuli-venezia giulia
Trieste
Tra Venezia e gli di Francesco Colotta
Asburgo Quella del triestino castello di San Giusto è una storia che si dipana nel segno dell’altalenante rapporto tra la Serenissima e l’impero austriaco. Una vicenda di cui è tuttora testimone la complessa articolazione architettonica del monumento
L
a memoria piú antica di Trieste si trova sulla cima del colle che domina il capoluogo giuliano. Su quell’altura, fin dall’età del Bronzo, sorgeva un castelliere (denominazione attribuita a insediamenti preistorici sistemati di norma su alture di accesso difficile, alle quali vennero aggiunte opere di difesa con mura a secco e fossati, n.d.r.), un 60
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piccolo insediamento che costituí il nucleo primigenio della città. Nel II secolo a.C. l’abitato divenne un’importante colonia romana, nel centro della quale, in breve tempo, furono realizzate grandi opere pubbliche: un tempio dedicato alle tre divinità capitoline (Giove, Giunone e Minerva), i propilei, il foro e una basilica. Parte di queste
sontuose architetture è sopravvissuta accanto al principale monumento che oggi occupa l’area, una rocca imponente costruita nel 1468 dagli Austriaci, dopo la «spontanea dedizione» della città agli Asburgo. All’epoca, non riuscendo a sottomettere tutta la popolazione, gli imperatori avevano collocato una fortezza nel punto piú alto, per consentire ai
loro luogotenenti un migliore controllo su quel turbolento borgo. La decisione di fortificare la collina era stata presa in seguito a una rivolta dei nobili locali, preludio della battaglia di Ponziana (1469), che aveva visto trionfare i filo-imperiali sugli indipendentisti triestini, guidati da Cristoforo Cancellieri. Le cronache riportano che parte della bella città medievale era stata distrutta dai
Veduta aerea del castello di San Giusto, frutto degli interventi operati tra il 1468 e il 1636 dagli Ausburgo e dai Veneziani, che si alternarono al governo della città. castelli d’italia
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Friuli-venezia giulia
Qui sopra, a sinistra uno scorcio della stanza quattrocentesca. Qui sopra, a destra il terzo camminamento dell’Armeria, con armi della collezione del Museo Civico. 62
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Trieste
vincitori in segno di ammonimento nei riguardi degli oppositori politici. Non si trattava del primo castello sorto su quell’altura. In precedenza, intorno alla metà del XIII secolo, sullo stesso sito si trovava un palazzo munito di torri, di proprietà di un certo conte-vescovo Volrico. Nel 1375 i Veneziani, dopo aver espugnato e messo a ferro e fuoco la
città, costruirono in quel punto una fortezza, della quale oggi restano soltanto alcune rovine nei pressi del bastione circolare. Quando le flotte della Serenissima subirono una cocente sconfitta a Chioggia contro Genova (1379), i Triestini, prese le armi, riuscirono a cacciare gli occupanti. Ne fece le spese anche il neonato maniero che, insieme ad altri simboli della ti-
Già nel XIII secolo, nel sito del castello, era sorto un palazzo, munito di torri, che le fonti assegnano a un conte-vescovo triestino di nome Volrico rannia dei dogi, venne raso al suolo. Qualche anno dopo arrivarono gli imperatori austriaci e la definitiva fortificazione trovò posto sul colle, eretta a tempo di record contemporaneamente a una cappella dedicata a san Giorgio. La fortezza, voluta da Federico III d’Asburgo, comprendeva un edificio rettangolare a due piani, chiamato «casa del capitano», con accanto una torre di forma quadrata. Al primo livello erano collocati gli uffici e i servizi, mentre al secondo piano si trovava la residenza del capitano, l’uomo di fiducia degli imperatori austriaci in città. La morte dell’imperatore Federico III comportò un cambio radicale della linea politica austriaca, nell’ambito delle alleanze con gli stati e le città. Il successore, Massimiliano I, entrò in rotta di collisione con i Veneziani, rompendo il sodalizio stretto dal precedente sovrano. E, nel 1508, dichiarò guerra alla Repubblica lagunare. L’esercito della Serenissima si scontrò con gli Asburgo a Pieve di Cadore ed ebbe il sopravvento in una delle battaglie piú celebri degli inizi del Rinascimento. Trieste, di conseguenza, subí gli attacchi delle truppe dei dogi e capitolò.
Nella pagina accanto i due grandi automi batti-ore ottocenteschi, noti in città come Michez e Jachez, provenienti dall’orologio del palazzo municipale di Trieste, oggi collocati nel vestibolo del castello di San Giusto.
La minaccia turca
Eppure, per ironia della sorte, proprio gli abitanti avevano chiesto agli Austriaci di rafforzare la struttura della rocca, per il timore di un’invasione turca che avrebbe potuto irrompere dai Balcani. I cittadini, pur non amando molto il castello, in quanto emblema del potere repressivo asburgico, ne riconoscevano la grande utilità in previsione di dominazioni ancora piú feroci. Il terzo vertice del triangolo, a sud ovest, fu completato nel 1636 con il bastone «Fiorito» o «Pomis». Nonostante la sagoma imponente, che si stagliava sopra la collina, e l’intensa opera di ristrutturazione a cui fu sottoposto, il maniero di San Giusto non sembrava un perfetto esempio di architettura militare. Una relazione stilata dall’ingegnere filo-austriaco Giovanni Pieroni, proprio all’indomani dell’inaugurazione del terzo bastione, osservava la scarsa funzionalità difensiva del complesso che avrebbe potuto essere espugnato da qualsiasi esercito dotato di un’intelligente tecnica di assedio. Fino al XVIII secolo la rocca restò la sede dei capitani di nomina austriaca. In seguito fu adibito a caserma e a prigione, oltre a rivestire il ruolo di principale fortificazione della città. Con il passaggio di Trieste all’Italia, dopo la fine della prima guerra mondiale, il maniero ospitò gli uffici del distretto militare, prima di essere acquisito dal Comune. In epoca fascista l’intera struttura fu sottoposta a profondi lavori di restauro, che le fecero acquisire la fisionomia attuale. Oggi ospita il Museo Civico, che espone una ricca collezione di armi d’epoca.
Nuove fortificazioni
Uno dei luoghi del potere veneziano divenne il castello di San Giusto, ritenuto, però, non troppo sicuro dai nuovi padroni della città. Per questa ragione i rappresentanti dei dogi provvidero a fortificarlo ulteriormente. Intorno alla torre che presidiava la casa del capitano furono costruiti un bastione circolare e alcune mura nella sezione est della struttura. Nelle intenzioni dei Veneziani c’era la trasformazione delle linee perimetrali della rocca che, con le ristrutturazioni cinquecentesche, avrebbero dovuto assumere una forma triangolare. Il progetto andò in porto a tappe. Nel frattempo, gli amministratori della Repubblica lagunare e i governanti austriaci si alternavano alla guida del Comune, in conseguenza di offensive e rivincite militari di una guerra che sembrava non finire mai. Nel 1545, con gli Asburgo di nuovo al comando, sorse il massiccio bastione poligonale del lato sud-est, chiamato anche «Hoyos», con il nome del capitano imperiale insediatosi in quel periodo. Si trattava di un nuovo atto di sfida nei riguardi di quella consistente parte della cittadinanza che non voleva piegarsi alla dominazione austriaca. Il castello risultava ben
protetto dagli eventuali attacchi via mare e da quelli che potevano provenire dall’abitato, mentre era scoperto sul lato ovest, dove iniziava la campagna. Non si trattò di un’imprudenza, ma di un meditato calcolo strategico degli imperiali che temevano soprattutto le rivolte dei Triestini.
Dove e quando Castello di San Giusto Trieste, piazza della Cattedrale 3 Orario lunedí: aperti solo gli spazi esterni (Museo chiuso), 9,00-18,00; martedí-domenica: aperti il Museo e gli spazi esterni, 10,00-18,00 Info tel. 040 309362; e-mail: cmsa@comune.trieste.it; www.castellodisangiustotrieste.it
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Gorizia
gorizia
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l cuore piú antico di Gorizia è il suo castello sulla collina. Della struttura originaria, eretta nell’XI secolo sulle rovine di fortificazioni anteriori, restano solo alcuni frammenti nel mastio, tuttora visibili nel cortile dei Lanzi. Nel XIII secolo la rocca venne dotata di un palazzo signorile a due piani e di un piccolo abitato prospiciente, che garantiva la presenza di un nucleo di uomini sempre pronti a difendere l’altura con le armi. Fino al XV secolo il maniero appartenne ai conti di Gorizia, mentre agli inizi del Cinquecento risultava compreso fra i domini del sovrano Massimiliano I d’Asburgo, insieme a tutto il feudo cittadino. Rimase in mani austriache per pochi anni e, nel 1508, fu conquistato dai Veneziani, che lo fortificarono. A partire dal Settecento la rocca non fu piú utilizzata come baluardo militare, ma come prigione e, in seguito, come caserma. Subí gravi danni nel corso della prima guerra mondiale, a causa dei ripetuti bombardamenti e, qualche anno piú tardi, venne restaurata, tornando a mostrare l’aspetto che aveva nel Medioevo. Oggi è sede del Museo del Medioevo Goriziano: vi è esposta una collezione di fedeli riproduzioni di armi bianche (1271-1500) che mostrano l’evoluzione del modo di combattere. INFO tel. 0481 535146; www3.comune.gorizia.it
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castelli d’italia
Duino
duino
È
uno dei castelli piú suggestivi e celebrati dell’intero Nord Italia. Sorto nel XIV secolo, occupa la sommità di una roccia a picco sul Golfo di Trieste, nel Comune giuliano di Duino-Aurisina. Ha una rocca «gemella» di origine altomedievale accanto, a poche centinaia di metri di distanza, ma ormai in rovina. La fortezza trecentesca fu concepita dal capitano di Trieste Ugo da Duino, che volle piazzare un presidio inespugnabile in un luogo ancor piú impervio rispetto alla vecchia struttura. Nel Quattrocento il maniero poteva dirsi completato e, un secolo piú tardi, divenne parte dei domini degli Asburgo. In età moderna la proprietà
Duino
arcano superiore
U
passò, alla famiglia dei Della Torre e Tasso (Turn und Taxis). Molti illustri personaggi hanno soggiornato nei locali della rocca: l’arciduca Francesco Ferdinando, la principessa Sissi e alcuni tra i grandi protagonisti della storia della musica e della letteratura come Franz Liszt, Gabriele D’Annunzio, Johann Strauss, Rainer Maria Rilke, Eugene Ionesco e Hugo Von Hoffmannsthal. Della struttura medievale trecentesca sono oggi visibili la parte inferiore dalla torre rettangolare e numerosi affreschi in essa contenuti. Nel mastio, invece, si trovano le fondamenta di antiche fortificazioni romane. INFO tel. 040 208120; e-mail: visite@castellodiduino.it http://castellodiduino.it
villalta fagagna
U
na delle perle architettoniche del Friuli, sopravvissuta al devastante terremoto del 1976, sfoggia ancora le sue forme medievali grazie a un lungo e paziente restauro. Il castello di Villalta, piccola frazione del comune di Fagagna, svetta a 176 m di altezza. L’origine della fortezza risale al X-XI secolo, ma compare in un documento ufficiale soltanto nel 1158. Apparteneva alla famiglia dei Villalta che, nel Quattrocento, si trovò impegnata in continui scontri armati per difendere la propria ambita
Villalta Fagagna
n viaggio nel tempo, in uno dei castelli meglio conservati del Friuli-Venezia Giulia. Nella frazione di Arcano Superiore, una suggestiva rocca riunisce le storie di antecedenti fortificazioni appartenute alla famiglia medievale dei Tricano. Sorgeva in origine nei pressi della chiesetta di S. Mauro, sulle rive del Corno. Poi, per motivi difensivi e strategici, venne ricostruito nel luogo in cui
residenza. Il castello resistette agli assalti del terribile Ezzelino III da Romano, ma venne espugnato dai conti di Gorizia, cadendo in rovina. Tornato di nuovo in possesso dei Villalta, il maniero subí ripetuti danni, ma ebbe la fortuna di trovare sempre abili restauratori. Lo stesso accadde nel Rinascimento, dopo la rivolta contadina del Crudele Giovedí Grasso (1511): la rocca distrutta tornò in vita grazie a interventi successivi. INFO tel. 0432 800171; e-mail: info@castellodivillalta.it www.castellodivillalta.it
tutt’oggi si trova e seguí il destino dei suoi antichi proprietari, legati al patriarcato di Aquileia. Alla fine del Medioevo i Veneziani lo espugnarono e, nel Cinquecento, subí un assalto durante la rivolta del Crudele Giovedí Grasso. Oggi il maniero, compreso nel Comune di Rive d’Arcano, conserva strutture di epoca diversa, dal Due al Seicento: di notevole interesse sono le mura merlate, il passo di ronda, il mastio e la torre di vedetta. INFO tel. 0432 288588; e-mail: visite@consorziocastelli.it; www.consorziocastelli.it
Arcano Superiore
castelli d’italia
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emilia-romagna
Torrechiara
di Paolo Galloni
Sublime
armonia Il castello di Torrechiara si presenta come una costruzione connotata da un equilibrio mirabile: forse, è stato ipotizzato, per le proporzioni aritmetiche, di tipo pitagorico, nascoste tra le sue mura e torri?
S
e è vero che il paesaggio è il frutto di un progetto congiunto della natura e della cultura umana, non c’è miglior luogo per comprenderlo della contemplazione di una rocca medievale posta all’imbocco di una vallata, con il fiume in basso e magari vigneti tutt’intorno. Ogni edificazione di un castello è pensata in rapporto al paesaggio preesistente,
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castelli d’italia
che ne esce però modificato per sempre, fino al punto che le mura del maniero appaiono quasi come il prolungamento naturale della roccia sulla quale si appoggiano. Per questo motivo, probabilmente, la vista dei castelli medievali suscita ancora oggi un impatto estetico ed emozionale difficile da eguagliare. È certamente il caso del castello di Torrechiara,
che, quando si alzano le prime colline presto destinate a diventare Appennino, appare alla vista dei viaggiatori sul lato destro della Strada Statale che da Parma va verso Langhirano, costeggiando il letto del torrente dal quale prende il nome il capoluogo (il monumento è posto quindi alla sponda sinistra del fiume rispetto alla foce). La sensazione che si avverte
è, prima di tutto, quella di un’armonia straordinaria tra manufatto umano e paesaggio, un’integrazione tanto ben riuscita da sembrare naturale; in realtà, dopo la sorpresa, uno sguardo piú attento rivela che questa armonia mette insieme elementi apparentemente opposti: le morbide ondulazioni delle colline e le linee geometriche del castello.
Torrechiara, Camera d’Oro. Affresco con Pier Maria Rossi che dichiara il suo amore a Bianca Pellegrini porgendole la spada, quale simbolo di sottomissione e fedeltà. 1463-1464 circa. castelli d’italia
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Torrechiara Eppure, come osservò uno studioso della fine dell’Ottocento, «le due cinta di mura, le cortine piantate sopra un esatto quadrato e le quattro torri disegnano insieme come una piramide ciclopica graditissima all’occhio e di fatto elegantissima». Piú di recente è stato osservato che tra l’altezza della cinta muraria originaria, del 1460, e quella delle torri sussiste una proporzione aritmetica di tipo pitagorico.
Nel sito di un antico torchio
L’esito è che le principali masse dell’edificio vengono percepite dall’occhio come elementi in armonia tra loro. Questo capolavoro, tra i meglio conservati, dell’architettura europea tardo-medievale, fu edificato tra il 1448 e il 1460 per iniziativa del signore locale Pier Maria Rossi nel sito che i documenti chiamano Torclaria (da torculus, «torchio», lo strumento utilizzato per la spremitura di uva e olive), dove in precedenza sorgeva una casa fortificata menzionata in fonti del Duecento. L’ascesa della famiglia Rossi nel territorio parmense inizia nella seconda metà del XII secolo grazie all’amministrazione di beni ecclesiastici, parte dei quali vengono acquistati o, talvolta, di fatto usurpati. Il culmine del legame dei Rossi con la Chiesa si raggiunge alla metà del Duecento, quando Bernardo sposa Maddalena Fieschi, sorella di Sinibaldo, che di lí a poco divenne papa Innocenzo IV. All’inizio del XV secolo i Rossi controllano una fetta significativa delle terre intorno a Parma, esercitando una forte influenza anche sulla città. In particolare, oltre a un’estesa area nei pressi del Po – tra cui il borgo di San Secondo, cuore del casato –, essi dominano i territori collinari e appenninici tra il Taro e l’Enza, inclusi tratti viari importantissimi, come il segmento parmense della via Francigena e altre strade che mettevano in comunicazione Parma con l’Appennino. Nei luoghi strategici dei suoi possedimenti Pier Maria Rossi (1413-1482) disseminò oratori, chiese,
Dida da scrivere Aquisgrana (Germania). La splendida cattedrale di S. Maria costruita nell’VIII sec. per volere di Carlo Magno, che ne fece uno dei simboli del suo impero. Fin dall’Alto Medioevo venne utilizzata come sede della cerimonia di incoronazione dei re tedeschi. Il nucleo piú antico dell’edificio, la rinomata Cappella i voleri (disattesi) di pier maria Palatina, conserva Allainbase delparte castello ancora buona la di Torrechiara sorge il piccolo borgo omonimo, che conserva intatta la struttura medievale di case inoriginaria. sasso che si affacciano su stretti selciati. A circa un 1 km, infine, presso il greto del torrente Parma, si trova fisionomia
l’abbazia benedettina di S. Maria della Neve, del XV secolo, sorta su iniziativa dell’attivissimo Pier Maria Rossi, che ottenne da papa Sisto IV l’unione «in perpetuo» con la congregazione benedettina. Il signore del luogo ottenne anche, per iscritto, che il monastero non potesse mai essere privato del titolo di S. Maria della Neve, del rango abbaziale e della piena autonomia da altri monasteri. Nei fatti le cose andarono diversamente, e, alla morte di Pier Maria, il capitolo generale dei Benedettini deliberò l’aggregazione dell’abbazia di Torrechiara a S. Giovanni Evangelista di Parma, mantenendovi però alcuni monaci e, soprattutto, il titolo abbaziale. L’abbazia è tuttora attiva, con la presenza di un abate e di alcune monache, e ha conservato la sua struttura originaria, con un bel chiostro ed eleganti sale, finemente affrescate da pittori emiliani del Rinascimento, tra i quali Cesare Baglione; tra le aggiunte posteriori si segnala un delizioso belvedere con vista sulla vallata del torrente Parma.
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castelli d’italia
In alto un’altra scena degli affreschi della Camera d’Oro: Bianca Pellegrini cinge d’alloro il capo di Pier Maria Rossi, in segno di accettazione del suo amore. Nella pagina accanto veduta del borgo di Torrechiara. Sulle case in pietra del piccolo centro medievale spicca l’imponente mole del castello, cinto da una doppia cerchia muraria, con torri angolari a pianta quadrata. A destra la volta a crociera della Camera d’Oro. Nelle quattro vele, Bianca (con vesti e bastone da pellegrina, in riferimento al cognome) percorre le terre del contado alla ricerca dell’amato Pier Maria.
castelli in italia
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Torrechiara
conventi e, soprattutto, alcuni castelli, che ricoprivano la duplice funzione di piazzeforti difensive e residenze aristocratiche. Nato nel borgo appenninico di Berceto, Pier Maria si forma culturalmente a Milano presso i Visconti, dei quali i Rossi erano tradizionalmente alleati. Come molti nobili del suo tempo, Pier Maria Rossi è uomo di cultura e di armi: in gioventú presta servizio come capitano di ventura, prima per i Visconti e poi per gli Sforza, e, intorno ai quarant’anni, torna a vivere stabilmente nei suoi castelli. Nel 1428, appena quindicenne, aveva sposato Antonia Torelli di Montechiarugolo, nel piú classico dei matrimoni combinati, al fine di consolidare un’alleanza tra casati nobiliari; la sua biografia sentimentale, tuttavia, è segnata dalla lunga e profonda relazione con Bianca Pellegrini, conosciuta alla corte viscontea. Pur essendo anche lei già sposata (con Melchiorre d’Arluno), Bianca finí per 70
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In alto Ercole e il leone Nemeo (a sinistra) e donna con catini che si affaccia da una porta (a destra), particolari degli affreschi della Sala degli Acrobati, cosí chiamata dal gruppo di figure di giocolieri nudi in equilibrio su quattro leoni, che eseguono un complicato esercizio con i cerchi. Realizzate con motivi a grottesca, le decorazioni della sala sono attribuite a Cesare Baglione (1550-1615).
seguire Pier Maria nell’Appennino parmense. La relazione è ben piú di una simpatica curiosità, dal momento che rappresenta uno stimolo decisivo per la committenza artistica del Rossi.
La Camera d’Oro
Gli affreschi di un’intera sala del castello di Torrechiara, infatti, celebrano la passione dei due amanti. La Camera d’Oro, cosí battezzata dal castellano stesso, è stata dipinta seguendo le istruzioni del committente da un pittore appartenente alla famiglia Bembo, anche se gli studiosi non hanno trovato l’accordo su quale, Bonifacio, Benedetto o Gerolamo, abbia dato il contributo decisivo. Le pareti della stanza sono ricoperte di formelle araldiche a tinta dorata, mentre il soffitto riassume in forma di affresco la storia d’amore di Bianca e Pier Maria, ambientandola nei possedimenti rossiani: dietro ai protagonisti sono ben riconoscibili i diversi ca-
stelli di proprietà dei Rossi attraverso i quali si muove Bianca Pellegrini, appunto come una nobile pellegrina. Se la Camera d’Oro colpisce per originalità, tematica e motivazione, gran parte delle rimanenti sale del castello è invece affrescata con motivi a «grottesca» risalenti alla fine del Cinquecento. Il lavoro, di notevole impatto visivo, è attribuito a Cesare Baglione (1550-1615). Di lui si diceva che fosse dotato di una tecnica esecutiva contraddistinta dalla rapidità del tratto; soprattutto, pare fosse bravissimo a «graffire alla prima con un chiodo sulla calce senza tanti schizzi e disegni». Il motivo pittorico della grottesca consiste nel raffigurare, preferibilmente su soffitti e volte, ma anche sulle pareti, figure vegetali di fantasia intrecciate a forme umane, animali, maschere, armi. La moda si diffuse nell’Italia rinascimentale (prima di dilagare in tutta la cristianità e addirittura nel Nuovo Mondo, dove, curiosamente, per un certo periodo divenne lo stile preferito dai pittori indigeni convertiti al cristianesimo) dopo la scoperta della Domus Aurea dell’imperatore Nerone, sepolta sotto le rovine delle terme di Tito e Traiano; le sue stanze vennero esplorate dai giovani artisti del tempo come grotte, da cui il nome del genere che ispirarono, che ne studiarono le decorazioni alla luce delle torce.
Paesaggi immaginari
Di particolare splendore, a Torrechiara, è la Sala degli Acrobati, dalla quale si accede alla Camera d’Oro. Al primo piano del castello, il piano nobile, si trovano anche tre stanze che ospitano affreschi, si pensa sempre opera del Baglione, non a grottesca, ma raffiguranti scene di caccia e pesca ambientate in paesaggi immaginari di grande fascino evocativo: boschi, fiumi, laghi, mari sovrastati da scogliere velate dalla nebbia dalla quale emergono rovine classicheggianti. Ognuno di questi ultimi locali è ispirato a un momento della giornata, come chiariscono i loro nomi: Sala dell’Aurora, Sala del Meriggio, Sala del Vespro. In seguito, il castello segue le sorti della famiglia Rossi, il cui declino comincia di fatto proprio con la morte di Pier Maria, dei cui beni si appropria Ludovico il Moro, signore di Milano. Nel corso del XVI secolo gli eredi Troilo e Pier Maria III riuscirono a recuperare parte dei possedimenti familiari, ma non a rinverdirne i fasti ormai tramontati. La loro autonomia politica è definitivamente condizionata dall’ascesa del ducato di Parma, passato ai potenti Farnese. Quelli che erano stati, pur se in ambito locale, potenti e influenti feudatari si ridurranno al ruolo di cortigiani. Il casato dei Rossi si estingue nel 1802 con Scipione II, morto senza eredi a Venezia.
Dove e quando castello di torrechiara Torrechiara di Langhirano (PR), strada del Castello Orario nov-feb: ma-ve, 9,00-16,30; sa-do e festivi, 10,00-17,00; lu chiuso; mar-ott: me-sa, 8,30-19,30; ma, do e festivi, 10,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0521 355255; e-mail: sbap-pr@beniculturali.it; www.sbap-pr.beniculturali.it; www.facebook.com/SBAP.CastelloDiTorrechiara
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Emilia-romagna San Leo
san leo
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ntica capitale del Montefeltro, una zona che oggi comprende porzioni dell’Emilia-Romagna, delle Marche, dell’Umbria e della Repubblica di San Marino, San Leo conserva il suo fascino di borgo medievale con la rocca posta all’apice del suo abitato: «Il piú bello e piú grande arnese da guerra della regione», lo definí Pietro Bembo, scrittore e cardinale vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Nelle sue forme attuali, il castello conserva in larga parte le forme disegnate nel XV secolo dall’architetto e ingegnere senese Francesco di Giorgio Martini, incaricato da Federico di Montefeltro di riprogettare il fortilizio. Il maniero sorge sulla cima di un colle alto 639 m, che anticamente si chiamava Mons Feretrius, toponimo dal quale derivò Montefeltro, nome con cui anche la cittadina fu nota fino al XII secolo. Con la sua antica denominazione, San Leo divenne, nel
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castelli d’italia
X secolo, anche la capitale del regno italico di Berengario II. Il sovrano vi trovò rifugio dopo la sconfitta nella battaglia di Pavia del 961 contro l’imperatore germanico Ottone I. All’epoca era un luogo ideale in cui asserragliarsi, vista la difficoltà di accesso. E anche ora si giunge a San Leo solo attraverso una strada impervia che taglia la roccia. La città subí molte dominazioni: Goti, Bizantini, Longobardi, Franchi, prima di divenire una libera repubblica nel 1284. L’autonomia, però, finí presto e sul paese governarono i Malatesta. Nel periodo del suo massimo splendore, durante l’età di Mezzo, molti personaggi illustri soggiornarono a San Leo: Dante Alighieri, san Francesco d’Assisi e Felice Orsini. Nel Settecento, all’interno del castello, fu rinchiuso l’esoterista Cagliostro per scontare la condanna per eresia. INFO IAT, Ufficio Turistico San Leo: tel. 0541 916306; e-mail: info@sanleo2000.it; www.san-leo.it
ferrara
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retto dall’architetto Bartolino Ploti da Novara nel 1385, per volere di Nicolò II d’Este, il castello, posto a cavallo delle mura nella parte settentrionale della città, doveva servire da monito a possibili rivolte popolari. Aveva caratteristiche spiccatamente militari, con un ampio fossato, poderose torri angolari quadrate, apparato a sporgere esteso a tutto il perimetro dell’edificio e rivellini a protezione delle porte d’accesso. Dopo l’incendio che lo danneggiò, nel 1554, il restauro, affidato a Girolamo da Carpi, non ripristinò la merlatura originaria, che venne sostituita da una balaustrata di marmo. Nel 1570 l’aspetto del castello venne ingentilito con l’aggiunta di sovraccorpi alle torri che snelliscono la mole dell’edificio. Nel 1598 gli Estensi dovettero abbandonare Ferrara per la mancanza di un erede legittimo riconosciuto dalla Chiesa
Ferrara
fortilizio. I lavori furono poi proseguiti da Girolamo Riario e dalla moglie Caterina Sforza. Qui, nel 1498, nacque Giovanni dalle Bande Nere. INFO tel. 0543 712.606-609; e-mail: musei@comune.forli.fc.it; www.turismoforlivese.it
fontanellato
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a presenza di un castello è qui documentata sin dal XII secolo. Era proprietà di Oberto Pallavicino che la cedette al Comune di Parma. Nel 1404 i Visconti, signori di Milano, investirono del feudo di Fontanellato i Sanvitale. I lavori che potesse prendere in mano il governo. Cosí dopo la devoluzione della città allo Stato Pontificio arrivarono i cardinali legati che occuparono il castello fino al 1859. Infine, nel 1874, l’antica dimora estense fu comprata all’asta dall’Amministrazione Provinciale. Gli interni sono riccamente decorati, come si addice alla residenza di una delle piú importanti casate del nostro Rinascimento. INFO tel. 0532 299233; e-mail: castello.estense@provincia.fe.it; www.castelloestense.it
Fontanellato
forlí
N
el gennaio del 1500 la rocca di Forlí, detta di Ravaldino, fu teatro del fatto d’armi piú importante della sua storia. Vi si era asserragliata, per un’ultima disperata difesa, Caterina Sforza. La donna tenne testa per giorni alle preponderanti truppe di Cesare Borgia e, solo al termine di un sanguinoso assalto, il 12 gennaio la rocca fu espugnata e Caterina fatta prigioniera. Il Machiavelli, commentando quell’episodio ne L’arte della guerra, evidenzia come «la perdita della rocca di Furlí» fosse da attribuire al fatto che era divisa in vari «ridotti» nei quali l’assediato poteva gradualmente ritirarsi.
Secondo il Segretario fiorentino questo avrebbe avuto un effetto psicologico negativo sui difensori «perché la speranza che gli uomini hanno, abbandonando un luogo, fa che egli si perde, e quello perduto fa perdere tutta la rocca». Il complesso forlivese, come l’aveva conosciuto Machiavelli, era il risultato di una serie di lavori, eseguiti in piú riprese dai vari proprietari a partire da Pino Odelaffi che, nel 1472, incaricò Giorgio Fiorentino di adeguare a criteri piú moderni un vecchio
che portarono all’attuale aspetto dell’edificio furono probabilmente intrapresi già in quegli anni da Gilberto Sanvitale, ma vennero ultimati dai suoi successori. Interventi compiuti nel XVI e XVII secolo fecero del castello una residenza confortevole, arricchendolo, fra l’altro, di pregevoli affreschi, fra cui la leggenda di Diana e Atteone del Parmigianino (1503-1540). INFO Ufficio Turistico: tel. 0521 823220; e-mail: ufficio.turistico@comune. fontanellato.pr.it
castelli d’italia
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castelli dell’italia centrale
toscana (1) Fosdinovo (2) Radicofani (3) Poggio Imperiale (4) Sansepolcro (5) Forte di Brolio (6) Poppi (7) Fiesole (8) Montalcino marche (9) Gradara (10) Sassocorvaro (11) Mondavio (12) Senigallia (13) Caldarola (14) Corinaldo (15) Urbisaglia (16) Tolentino
1
Viareggio
Livorno
umbria (17) Spoleto Sono evidenziati in neretto i castelli descritti nel testo. Portoferraio
Particolare di un dipinto ottocentesco ispirato all’incontro immaginato da Dante con Paolo e Francesca, la cui vicenda si sarebbe svolta nella Rocca Malatestiana di Gradara (vedi alle pp. 82-86).
Ravenna
Imola
ForlĂŹ
9
Prato 7
6 10
3
14 11
12
Ancona
4
MAR ADRIATICO
5
15 16
Siena
20 19
23 22
13 21
8
San Benedetto del Tronto
2
17
18
Orbetello
Rieti 34
38 25
41 40
26 36
28
MAR TIRRENO
35
33
39
27 30 31
24
37
Frosinone 29
Isernia
Latina 32 Itri
(18) N arni (19) Castiglione del Lago (20) Gualdo Tadino (21) A ssisi (22) Corciano
(23) M agione lazio (24) Ostia (25) Civita Castellana
(26) (27) (28) (29) (30) (31)
Bracciano Roma Santa Severa Nettuno Marino Fumone
(32) I tri abruzzo (33) Roccascalegna (34) Ortona (35) Pacentro
(36) (37) (38) (39) (40) (41)
Celano Balsorano Calascio Vasto Lanciano Crecchio castelli d’italia
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toscana
Fosdinovo
Bianca, il cane di Francesco Colotta
e il cinghiale
I
ncantesimi e leggende sono da sempre legati al castello Malaspina, posto a guardia di Fosdinovo (Massa e Carrara), borgo della Lunigiana dalla tipica fisionomia medievale, la cui origine si lega al controllo di un nuovo valico tra la zona costiera e le valli interne (da cui l’antico toponimo dell’abitato, Faucenova, che significa appunto «nuovo pas76
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so»). Quasi miracolosa appare la posizione della fortezza, che sembra intagliata nell’imponente roccia arenaria su cui sorge. Tra le mura di questo gioiello dell’architettura militare, a oltre 500 m di altezza, riecheggia da secoli la macabra leggenda di Bianca Maria Aloisia, figlia di Giacomo Malaspina, torturata e uccisa dal padre a causa della sua relazione
Il borgo di Fosdinovo vive all’ombra del poderoso castello dei Malaspina. Una fortezza considerata tra le piú riuscite espressioni dell’architettura militare del Rinascimento. E nella quale si aggira il fantasma inconsolabile di una bellissima e sventurata nobildonna...
amorosa con un umile stalliere. La tradizione colloca il fatto di sangue nel Duecento, due secoli dopo l’atto di nascita del castello. Già nel 1084, in un documento di Lucca, veniva citato un certo Castrum Fosdinovense, senza riferimenti precisi. Tuttavia, la rocca risulta essere attiva nel 1124, comparendo nelle cronache come subfeudo dei vescovi di
Luni, amministrato da nobili del posto. Il potere della Chiesa sul vasto territorio della Lunigiana poteva definirsi assoluto fino all’arrivo dei potenti Malaspina, una famiglia di origine longobarda che nel XIII secolo assunse il controllo politico della regione. Nel Trecento il signore della zona era Spinetta Malaspina, detto il Grande, che, dalla vicina
Il borgo medievale di Fosnidovo (Massa Carrara), dominato dal castello Malaspina.
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Fosdinovo
A destra la Sala Grande, adibita ai ricevimenti, del castello, decorata nel 1882 da Gaetano Bianchi con affreschi che rimpiazzarono quelli rinascimentali, cancellati sotto il dominio estense. In basso Dante sottoscrive la pace tra il vescovo di Luni e i Malaspina, particolare degli affreschi della Sala Grande, che celebrano gli avvenimenti piú significativi nella storia della famiglia e l’amicizia col sommo poeta.
nente, ben difesa, ma non resistette all’urto delle truppe del ghibellino lucchese Castruccio Castracani. Il condottiero, con un esercito composto da 6000 fanti e 1000 cavalieri, la espugnò senza subire grandi perdite.
I Malaspina rinforzano le difese
Fivizzano, aveva trasferito a Fosdinovo la sede del suo marchesato. In quel periodo la struttura era costituita da un edificio di forma quadrangolare, affiancato da alcune fortificazioni. La rocca appariva impo78
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Riusciti in brevissimo tempo a tornarne in possesso, i Malaspina compresero che occorreva rendere piú sicura la loro residenza e la rinforzarono apponendo alla struttura torrioni cilindrici e una lunga merlatura dietro la quale furono piazzate micidiali armi da fuoco. Alle soglie del XV secolo, come stava accadendo per molte altre fortezze disseminate sul territorio italiano, le forme del castello si ingentilirono per poter ospitare un’elegante vita di corte. Nel Cinquecento, gli ampliamenti voluti da Gabriele e Lorenzo Malaspina, in aggiunta agli affreschi interni, fecero di Fosdinovo un elegante palazzo nobiliare. Nel XVII secolo, in seguito ad altri interventi che ne estesero ulteriormente il perimetro, il maniero acquisí i suoi lineamenti definitivi. Fin dal suo completamento, nel XVII secolo, il castello era considerato una delle fortificazioni piú difficili da conquistare. Una solidità a prova anche dei terremoti che, nel Novecento, colpirono la Lunigiana, ma senza provocare alcun danno al suo suggestivo baluardo. Oggi il castello attira i visitatori per il suo fascino storico ancora integro, per le forme imponenti della sua struttura quadrangolare, per le quattro torri rotonde e il bastione semicir-
colare. Non sono pochi, però, i curiosi che ci cercano qualche traccia della leggenda della bellissima Bianca Maria Aloisia Malaspina. La tradizione racconta che la giovane nobile, nel XIII secolo, si innamorò perdutamente dello stalliere della rocca di Fosdinovo, con il quale era solita fare lunghe escursioni a cavallo nella campagna circostante. Il suo sogno d’amore, però, si rivelò inconciliabile con gli interessi politici del padre, Giacomo Malaspina, risoluto a dare la figlia in sposa al figlio di un nobile della zona. Bianca non accettò l’imposizione, pagando a caro prezzo il suo rifiuto: per disposizione del padre fu rinchiusa in un vicino convento con la prospettiva di trascorrere un’intera vita nella quiete monastica.
Un’onta da lavare col sangue
Nonostante la clausura, la ragazza continuò a incontrare clandestinamente il suo spasimante e un giorno rimase incinta. Il padre, allora, fece ricorso a metodi piú radicali per far cessare quella relazione che aveva gettato disonore sul nome dei Malaspina. Ordinò di uccidere lo stalliere e dispose che Bianca fosse sottoposta a ogni genere di tortura. Non pago per le terribili sofferenze arrecate alla figlia, decise di murarla viva nei sotterranei della rocca, insieme a due animali, che rivestivano un evidente valore simbolico: un cinghiale, che rappresentava la trasgressione alle regole, e un cane, raffigurazione del sentimento fedele della giovane nei riguardi di un sottoposto. La leggenda ha molto in comune con altre storie di amori infelici, tramandati dalla tradizione orale fin dal Medioevo. Nel caso di Fosdinovo, però, c’è anche un epilogo a sorpresa che aggiunge un elemento di ulteriore inquietudine alla vicenda. In epoca recente, proprio in uno dei sotterranei della fortezza, sono state rinvenute le ossa appartenenti a una giovane donna, con accanto i resti di due animali. L’associazione con l’assassinio di Bianca Maria Aloisia Malaspina si rivelò fin troppo scontata.
radicofani
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adicofani si trova in una posizione centrale rispetto a vecchie e nuove vie di comunicazione: posta all’incrocio di Toscana, Lazio e Umbria, si staglia con il suo inconfondibile profilo sulla linea dell’orizzonte per chi osserva da Orvieto o da alcune rocche dell’alto Lazio. Con la sua rocca e grazie alla via Francigena, Radicofani è al centro anche di quel paesaggio definito «lunare» che caratterizza i comuni meridionali della provincia di Siena. Da secoli è non solo luogo di passaggio, ma soprattutto di sosta, specialmente da quando i Senesi, nel XV secolo, spostarono la strada dal fondovalle sul crinale, perché fosse meglio controllata dalla rocca. E infatti quasi ogni viaggiatore diretto a Roma, nel proprio diario non manca di annotare la sua sosta o il passaggio sul colle di Radicofani. La strada che saliva non entrava nel borgo, ma passava davanti l’Osteria Grossa: luogo di ristoro, di ricovero per i cavalli e per i viaggiatori, ampliata dai Medici alla fine del XVI secolo. Era l’ultima sosta prima di entrare – se diretti verso Roma – nello Stato pontificio (il confine era presso Centeno).
Rocca di Radicofani (Siena), su cui svetta la Torre Penna del Cassero. Posta a controllo dell’antica via Francigena, la fortezza fu oggetto di contese tra le principali famiglie della Tuscia meridionale e l’abbazia di S. Salvatore, per poi passare sotto il controllo dello Stato Pontificio e di Siena.
Dove e quando castello malaspina Fosdinovo, via Papiriana 2 Orario mag-set: tutti i giorni, escluso il martedí, visite guidate alle ore 11,00, 12,00, 15,30, 16,30, 17,30 e 18,30 ott-apr: sabato, visite guidate alle ore 15,00, 16,00 e 17,00; domenica, visite guidate alle ore 11,00, 12,00, 15,00, 16,00 e 17,00 Info tel. 0187 680013; e-mail: info@ castellodifosdinovo.it; www.castellodifosdinovo.it
Radicofani
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toscana
Poggio imperiale
L’importanza di Radicofani nasce dalla via Francigena, cioè da quando, al tempo dei Longobardi, il percorso della via Cassia era ormai in gran parte impraticabile e il sempre maggiore flusso di pellegrini e viandanti diretti a Roma dal CentroNord Europa si spostò verso l’interno. A ciò si lega la fondazione della potentissima abbazia di S. Salvatore, sul Monte Amiata (attribuita a tale Erfone, vicino ai re longobardi Rachi e Astolfo), che deteneva un controllo senza pari su terre e uomini da Chiusi all’alto Lazio, in specie sulla val di Paglia, il fiume che scorre ai piedi di Radicofani. La prima menzione del castello risale al 973: doveva trattarsi, probabilmente, di una sola torre in muratura, con alcune strutture in legno attorno, ed è quasi fin dalle origini al centro della contesa tra i principali signori della Tuscia meridionale, gli
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In alto disegno ricostruttivo della fortezza di Poggio Imperiale. Aldobrandeschi, e l’abate di S. Salvatore. Tuttavia, un secolo piú tardi, Radicofani finí nelle mani dei Manenti-Firidolfi, conti di Chiusi, che proiettarono il castello verso l’ambito dei territori della val di Chiana e, infine, verso la grande potenza nascente della Toscana meridionale, Siena. Rientrata in possesso dell’abbazia di S. Salvatore, Radicofani fu oggetto di interventi di fortificazione da parte di papa Adriano IV e di Innocenzo III che nel 1198 ne sopraelevò le mura difensive. Nel 1201 il Barbarossa riconobbe Radicofani come avamposto settentrionale delle proprietà pontificie nella Tuscia. Luca Pesante INFO www.comune.radicofani.siena.it, www.turismo.intoscana.it
poggio imperiale
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osta in posizione strategica per controllare Siena e la strada per Roma, Poggio Imperiale domina, nascosta da una fitta vegetazione, Poggibonsi. Lorenzo de’ Medici voleva una città interamente nuova quando, nel 1488, affidò l’incarico della progettazione e della costruzione a Giuliano da Sangallo. Alla morte del Magnifico, l’opera era ben lontana dall’esser completata e, anzi, le mutate condizioni politiche fecero abbandonare l’ambizioso progetto. Il Vasari scrisse che il fondatore l’aveva voluta «per utilità pubblica e ornamento dello Stato, e per lasciar fama e memoria». Ma il vero scopo era soprattutto militare. Infatti, della città, l’unica parte che venne completata, agli inizi del XVI secolo, fu quella che avrebbe dovuto essere la cittadella e una parte delle mura
urbiche. La fortezza di Poggio Imperiale rappresenta un tassello decisivo nell’evoluzione dei sistemi difensivi, un primo passo verso un’efficace difesa dalla violenza distruttiva delle nuove armi da fuoco. INFO www.comune.poggibonsi.si.it
volterra
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a rocca occupa il lungo crinale che sovrasta la città. Realizzata per volere di Lorenzo de’ Medici, dopo la conquista fiorentina di Volterra, avvenuta nel 1472, è attribuita a Francesco di Giovanni di Matteo, detto il Francione. Il complesso è formato di due parti unite da lunghe cortine murarie. La «rocca nuova», a ovest, ha pianta quadrata e grosse torre angolari rotonde. Dalla parte opposta è la costruzione piú antica, eretta, alla metà del XIV secolo, da Gualtieri duca d’Atene. L’imponente complesso è da tempo adibito a carcere. INFO www.comune.volterra.pi.it
sansepolcro
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on Arezzo, Civita Castellana e Nettuno è uno dei primi esempi di fortezza bastionata, la piú soddisfacente soluzione che l’architettura militare riuscí a trovare alla prorompente potenza delle bocche da fuoco. Nel novembre del 1500, per ordine della Signoria fiorentina, Giuliano da Sangallo venne inviato a Sansepolcro per aggiornare le difese del Borgo ritenute troppo deboli. L’architetto progettò le opere
Sansepolcro da realizzare, ma la stagione avanzata ne impedí l’esecuzione. Il nuovo forte (la cui costruzione, assieme a quella di Arezzo, fu seguita dal Sangallo) inglobò preesistenti difese trecentesche e una torre quadrata di epoca romana. Con i suoi quattro bastioni ben profilati balisticamente, Sansepolcro anticipa quel modello difensivo che, sia pure con differenti proporzioni, mantenne la sua efficacia fino all’Ottocento. INFO www.comune.sansepolcro.ar.it
forte di brolio
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ra i vigneti della zona, a breve distanza dall’abitato di Gaiole in Chianti, sorge il forte di Brolio. Questo
lembo di Toscana, nel cuore della zona del Chianti, è legato, si può dire da sempre, alla famiglia Ricasoli. Agli inizi dell’XI secolo vi esisteva un castello di proprietà del monastero di S. Maria in Firenze. Ma già alla metà del secolo successivo la proprietà era passata ai Firidolfi, di cui i Ricasoli sono un ramo. Posto in una zona strategicamente importante, fu uno dei punti nevralgici nelle lotte che per secoli videro contrapposte Firenze e Siena. Per questo subí varie distruzioni e riedificazioni che hanno però cancellato le tracce delle opere piú antiche. Gli interventi piú importanti, secondo alcuni studiosi, furono eseguiti da Giuliano da Sangallo a partire dal 1484: lavori di aggiornamento tanto radicali che il
Forte di Brolio
Volterra
forte di Brolio è oggi considerato uno dei primi esempi, seppur imperfetti, di fortificazione bastionata. Nell’Ottocento Bettino Ricasoli fece costruire l’imponente palazzo in stile gotico. Del complesso, tuttora di proprietà dei Ricasoli, si possono visitare la parte esterna al palazzo e la cappella di S. Jacopo (1348). INFO www.comune.gaiole.si.it
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marche
Gradara
Nella rocca di Paolo e Francesca di Francesco Colotta
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he fosse un avamposto strategico formidabile lo avevano intuito già i Romani, tra i primi a stanziarsi nel sito dove ancora oggi si staglia la rocca di Gradara. Arroccata su un promontorio, a circa 150 m di altezza, la fortezza presidia il confine tra le Marche e l’Emilia-Romagna, snodo viario molto conteso fin dall’età antica. Il castello
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prese compiutamente forma nel corso del XII secolo, per volere di Pietro e Ridolfo de Griffo, esponenti di una famiglia all’epoca molto influente nel Pesarese. La struttura iniziale comprendeva solo un mastio, dal quale si poteva controllare un territorio vastissimo compreso tra il monte Carpegna e la costa dell’Adriatico. I successivi proprietari, i po-
Legata all’epilogo di uno degli amori piú celebri della storia, la rocca di Gradara denota, con la sua mole massiccia, l’importanza strategica della sua posizione, a controllo di un nodo cruciale nella rete viaria dell’Italia centro-settentrionale
tentissimi Malatesta da Verucchio, decisero di proteggere la fortezza erigendo ben due cinte di mura, in un’epoca funestata da scontri durissimi tra dinastie nobiliari. Con il passare degli anni il maniero fu completato, fino ad assumere le sembianze che tuttora conserva: un edificio a forma di quadrilatero, munito di imponenti torri angolari.
Tra i Malatesta piú celebri ad abitare nella rocca vi fu «Antico» o «Guastafamiglia», il quale nelle prigioni del maniero fece uccidere i cugini perché ostacolavano i suoi piani egemonici sulla vicina città di Rimini. Di tutt’altro spirito si dimostrò, invece, il figlio, Pandolfo II, che assicurò a Gradara un periodo di grande fervore culturale, ospitando artisti
La rocca malatestiana di Gradara (Pesaro Urbino) circondata da due cinte murarie e dalle case del borgo medievale.
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Gradara
Porta Firau, sotto la Torre dell’Orologio, il principale ingresso al borgo di Gradara, che si apre tra le mura esterne del XIV sec., sulle quali si sviluppano i camminamenti di ronda.
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come Gentile da Fabriano e Jacopo da Imola. Era l’inizio del XV secolo, epoca alla quale risalgono gli splendidi affreschi visibili all’interno del castello, che da allora cominciava ad assumere anche i lineamenti di elegante palazzo signorile. Dall’esterno la rocca appariva come una solida fortezza, difficilmente espugnabile, ma non si rivelò tale nel 1463, quando il condottiero Fe-
derico da Montefeltro l’assalí. La battaglia durò circa quaranta giorni e si concluse con la resa degli assediati. La proprietà, quindi, passò ancora di mano, questa volta su imposizione del papa, e venne assegnata a una delle famiglie piú fedeli alla Chiesa di Roma, gli Sforza di Pesaro. Anche i nuovi padroni furono insidiati da casate rivali a cui faceva gola la posizione strategica di Gradara: prima i Della Rovere, poi i Borgia e i Medici si impadronirono del borgo e della sua fortezza dopo furiosi scontri sul campo. Alla fine del Medioevo nel castello risiedette Lucrezia Borgia, nella veste di consorte di Giovanni Sforza, nel periodo in cui il nobile dominava sulla zona. E oggi una stanza della rocca porta il nome della tenebrosa figlia di Alessandro VI.
Un amore infelice
Una tragica vicenda passionale, sospesa tra leggenda e realtà storica, è legata al castello: si tratta dell’epilogo della relazione amorosa tra Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, descritta da Dante Alighieri nel celebre canto V dell’Inferno. Secondo alcune tesi, infatti, l’as-
sassinio dei due spasimanti sarebbe stato compiuto nella rocca di Gradara. A sostenere l’ipotesi contribuiscono le ricerche compiute da studiosi come Luigi Tonini (1807-1874), che datano il presunto fatto di sangue tra il 1285 e il 1289, anni in cui i Malatesta erano stati banditi da Rimini e avevano perso gran parte dei loro domini, tranne Gradara. Quell’omicidio si verificò veramente o fu solo frutto di una fantasia popolare? La cronaca storica riporta con certezza solo l’esistenza dei protagonisti del presunto fatto di sangue, i quali appartenevano a due potenti famiglie. Il resto della vicenda, invece, trae ispirazione dall’unica fonte disponibile, la versione letteraria di Dante, la cui attendibilità troverebbe una vaga conferma nei probabili contatti intercorsi tra il poeta e Paolo Malatesta. Il giovane nobile, infatti, rivestí la carica di capitano del popolo a Firenze, dal 1282 al 1283, e proprio nella città del giglio i versi del V canto subirono una rielaborazione pseudo-storica da parte dei commentatori danteschi del Trecento, giungendo fino a Boccaccio. Quei liberi riadattamenti della Divina Com-
Qui sopra la cosiddetta Camera da letto di Francesca, in cui, secondo la leggenda, si consumò la tragedia che vide protagonisti i due infelici amanti Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, trucidati da Gianciotto, fratello di Paolo e marito tradito di Francesca. A destra Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca, olio su tela di Giuseppe Frascheri ispirato al V canto dell’Inferno dantesco in cui si narra l’incontro del Sommo Poeta con gli sventurati amanti. 1846. Genova, Civica Galleria d’Arte Moderna.
media si fusero, poi, con le tradizioni orali e le risultanze sui luoghi d’origine dei protagonisti della vicenda, tutti nati e cresciuti nelle zone di Rimini, Ravenna e Pesaro. Fu cosí che la limitrofa Gradara venne scelta come «palcoscenico ideale» della vendetta consumata dal consorte tradito, Gianciotto. È tuttavia doveroso ricordare che piú d’uno ha negato e nega questa ambientazione, propendendo per altri scenari marchigiano-romagnoli, come Rimini, Sant’Arcangelo di Romagna, Verucchio, Meldola e Pesaro.
Matrimonio d’interesse
Secondo la tradizione, tutto iniziò alla fine del Duecento a Ravenna, città in cui Francesca era nata e dove trascorse il periodo antecedente alle nozze. La giovane doveva sposare Giovanni Lo Zoppo, detto Gianciotto, per esaudire la volontà del padre al quale il matrimonio serviva per motivi strettamente politici. Il promesso consorte, infatti, era il secondogenito del potente Malatesta di Verucchio, con il quale il padre di Francesca intendeva siglare una pace dopo anni di contrasti. castelli d’italia
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Sassocorvaro
sassocorvaro
I
La chiave della vicenda, ovvero lo scambio di persona tra Gianciotto «lo Zoppo» e suo fratello Paolo «il bello», organizzato dai genitori dei due sposi per paura di un rifiuto della sposa, potrebbe essersi svolta a Ravenna. Francesca, accortasi di aver contratto un matrimonio per procura con il «brutto» della famiglia Malatesta, si gettò fra le braccia di Paolo, consumando il suo adulterio nel castello dove si trovava rinchiusa. Gianciotto sorprese gli amanti in una stanza della rocca e immobilizzò il fratello Paolo, puntandogli la spada sul petto. Francesca tentò di frapporsi tra l’arma e il suo amante, e venne uccisa. Subito dopo Gianciotto trucidò anche Paolo, servendosi di uno degli strumenti di tortura del castello.
Qui sopra la Pala Robbiana, terracotta invetriata attribuita ad Andrea Della Robbia e murata dietro l’altare della Cappella della rocca, con raffigurati la Madonna col Bambino attorniati da S. Maria Maddalena e S. Girolamo a destra, e da S. Caterina d’Alessandria e S. Ludovico da Tolosa a sinistra. 1480 circa.
Dove e quando rocca malatestiana Gradara Orario ma-do, 8,30-18,30; lu, 8,30-13,00; chiuso 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 0541 964115 oppure 340 1436396; e-mail: info@gradara.org; www.gradara.org
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l Castrum Saxi Corvari ha un passato turbolento: infatti passò piú volte di mano, conquistato e perso ripetutamente dalla Santa Sede, da signorotti locali e dai membri della famiglia dei Montefeltro in lotta fra loro. Alla metà del XV secolo Ottavio Ubaldini vi fece erigere una rocca sui resti di quella precedente, danneggiata dai burrascosi trascorsi, affidandone forse il progetto a Francesco di Giorgio Martini. Posta sulla spina dorsale del borgo, lo difende nella direzione di attacco piú probabile, quella nord-orientale. Architettonicamente si tratta di un esempio unico, data la forma rotondeggiante e compatta. Appartiene a un periodo particolare della teoria e pratica delle fortificazioni, in cui la superficie convessa era preferita a quella piana. La rocca è oggi sede del Museo «Arca dell’arte», allestimento didattico realizzato per ricordare il salvataggio di migliaia di capolavori dell’arte italiana compiuto dall’allora soprintendente di Urbino durante la seconda guerra mondiale. INFO tel. 0722.76177; e-mail: a.ugolini@comune.sassocorvaro.pu.it; www.comune.sassocorvaro.pu.it
mondavio
L
a rocca è una vera e propria curiosità architettonica, perché la forma stretta e allungata e il profilo dei torrioni non solo non corrispondono al progetto originale, ma rappresentano anche un unicum nel panorama dell’architettura militare dell’epoca. Fatta costruire
a partire dal 1488 da Giovanni della Rovere, prefetto di Roma e signore di Senigallia, sorge su un rilievo collinare tra il Metauro e il Cesano. Francesco di Giorgio Martini, autore del progetto, lasciò l’opera incompiuta alla sua morte (1501). È composta di due soli torrioni uniti da un corpo allungato: quello occidentale, a quota inferiore, segue la curva collinare, mentre l’orientale, elevato e di dimensioni maggiori, ha forme prismatiche, energiche, con caditoie e scarpe molto rilevate. Si tratta di una forma che non solo non trova corrispondenza in altre rocche toscane della fine del Quattrocento, ma che non
secolo dopo il papa la cedette a Sigismondo Malatesta, che la ricostruí e la fortificò. Attorno alla precedente rocca dell’Albornoz sorsero cosí altre strutture difensive. Nel 1474, Giovanni della Rovere dotò la città di nuove mura e di una rocca a pianta quadrata con torri circolari agli angoli, forse opera di Baccio Pontelli. Quest’ultima, a pianta quadrata con torrioni angolari cilindrici, è una rocca tipica dell’architettura militare del tardo Quattrocento, di scopo piú celebrativo che prettamente difensivo, anche se si colloca a guardia della costa e quindi in funzione antibarbaresca. Dal punto vista architettonico, Senigallia è particolarmente
Senigallia
risponde nemmeno alle regole generali dettate dallo stesso Francesco di Giorgio Martini nel suo trattato di architettura civile e militare, dove suggerisce per le torri la forma rotonda, piú resistente ai colpi delle bombarde. INFO tel. 0721 977758; www.mondavioturismo.it.
interessante per i diversi progetti del recinto cinquecentesco, che doveva ampliare il centro medievale. INFO tel. 071.63258; e-mail: beni.culturali@comune.senigallia.an.it; www.comune.senigallia.an.it
caldarola
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ul Colle del Cuculo, nel Comune di Caldarola, il castello dei nobili Pallotta fu conteso da papi e sovrani. Quando venne costruito, nell’anno Mille, apparteneva all’impero, ma subito dopo, nel 1077, fu donato alla Chiesa da Matilde da Canossa. In seguito fece parte dei possedimenti di Federico II, e, nel XIV secolo, cadde in rovina. Il maniero visse la sue epoca di maggior splendore grazie a papa Eugenio IV (1431-1447), che ne patrocinò la ristrutturazione conferendogli l’aspetto di una sontuosa residenza rinascimentale. Tra i numerosi personaggi storici che vi soggiornarono spicca il nome della regina Cristina di Svezia. All’esterno le mura, la merlatura guelfa e il ponte levatoio appaiono ancora intatti, mentre l’interno è ornato da eleganti arredi del XVI e del XVII secolo. INFO tel. 0733 905467; e-mail: info@castellopallotta.com; www.castellopallotta.com
Caldarola
senigallia
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a città entrò nei domini pontifici per opera del cardinale Egidio di Albornoz nel 1357, ma poco piú di un
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umbria
Spoleto
Qui comanda la Chiesa di Francesco Colotta
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ieci soldi per ogni abitante di età superiore ai 7 anni: cosí venne finanziata la costruzione della rocca di Spoleto, una delle componenti piú solide del sistema di fortificazioni che nel Medioevo presidiavano il territorio dello Stato Pontificio, e oggi monumento simbolo della città umbra. Voluta nel 1359 dal cardinale Egidio Albor-
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noz, rappresentava il principale avamposto militare della Chiesa in una regione, l’Umbria, spesso funestata dalle faide tra signori locali. La posizione del castello, in cima al colle di Sant’Elia, consentí ai papi di tenere sotto controllo un tratto chiave della via Flaminia, in un periodo delicato per la cristianità occidentale, quello della «cattività avignone-
La rocca che domina Spoleto è una delle molte volute dal cardinale spagnolo Egidio Albornoz. Un infaticabile «tutore» del potere pontificio, per i cui rappresentanti realizzò una fortezza poderosa e al tempo stesso accogliente
se» (1309-1377), che aveva comportato la perdita per i pontefici di una serie di domini nell’Italia centrale. Concepita, «politicamente», dal cardinale spagnolo, la rocca fu progettata dall’architetto di Gubbio Matteo di Giovannello di Matteo – meglio noto con il soprannome di Gattapone –, il quale impresse all’originaria
struttura il tipico aspetto della fortificazione, utilizzando in gran parte i resti di un antico anfiteatro romano. Di forma rettangolare allungata, il maniero venne diviso in due settori autonomi tra loro e collegato alle mura di cinta della città, cosí da risultare ulteriormente protetto. Ben sei torri sorsero nel corso degli anni a completamento della costruzio-
La Rocca albornoziana di Spoleto (Perugia), edificata sul colle di Sant’Elia a controllo della città e della via Flaminia.
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umbria
Spoleto
ne che comprendeva anche spazi di tipo residenziale. I due corpi dell’edificio centrale avevano diverse destinazioni d’uso: in una metà si trovava il settore riservato alle truppe, mentre nell’altra vennero allestiti i locali per i governanti e le sale per i ricevimenti. A ridosso dei rispettivi edifici furono ricavati il Cortile delle Armi e quello d’Onore. Fin dagli anni della fondazione la storia del maniero si incrociò con quella del ducato di Spoleto, l’ex Stato longobardo che, a partire dal XII secolo, era divenuto il cuore politico dello Stato Pontificio. I rettori del ducato, per esempio, scelti dai pontefici o dagli alti prelati tra i loro parenti, avevano gli uffici proprio all’interno della rocca: nella lista dei primi governatori insediatisi nel castello figuravano i nipoti del cardinale Albornoz, Gomez e Alvaro.
La guerra degli antipapi
Verso la fine del Quattrocento la fortezza venne piú volte assediata e, altrettanto spesso, cambiò padrone. Nel 1383 divenne la roccaforte di Rinaldo Orsini, braccio armato dell’antipapa Clemente VII, mal tollerato dagli Spoletini, i quali lo costrinsero alla fuga dopo pochi anni di dominio. Tornato nelle mani della Chiesa ufficiale, il castello ospitò per un periodo Bonifacio IX, il quale, con un atto di grande generosità, concesse l’indulgenza plenaria a chi aveva preso le parti di Clemente VII. Nel XV secolo il castello passò, di nuovo, sotto il dominio dei sostenitori di un antipapa, Giovanni XXIII, e dei suoi sostenitori, capeggiati dal governatore Mario Crossa. A conferma della solidità della fortezza, i ribelli riuscirono a resistere agli attacchi del celebre condottiero Braccio Fortebracci da Montone e del suo ben equipaggiato esercito. Spoleto fu occupata, ma il suo bastione, in mano ai fedelissimi dell’antipapa, rimase inviolato. Dopo un periodo di relativa tranquillità, durante il quale un altro papa, Niccolò V, aveva scelto il castello spoletino come propria residenza, le tensioni esplosero di nuovo sulla collina di Sant’Elia. Il nuovo governatore della città, Pirro di Roberto detto il Tartaro, nipote di Bonifacio IX, regnò in modo dispotico e fu invitato, dal pontefice in carica, Eugenio IV, a dimettersi. Pirro ignorò la richiesta e non ebbe paura di dichiarare guerra al papa. Per costringerlo alla resa e all’abbandono della rocca, Eugenio IV inviò un’armata di 11 000 uomini, guidati da uno dei suoi cardinali piú fidati, Giovanni Vitelleschi. Ma, ancora una volta, il ma90
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In alto un’altra immagine della rocca spoletina, una delle fortificazioni fatte erigere dal cardinale spagnolo Egidio Albornoz nello Stato della Chiesa per volere di papa Innocenzo VI, al fine di ristabilire l’autorità del pontefice sul territorio. A sinistra il cardinale Albornoz in un’incisione del 1682 di Nicolas de Larmessin.
A destra uno scorcio della Camera Pinta, decorata con un ciclo affrescato di storie cavalleresche tra i piú notevoli dell’Italia centrale e raffigurazioni di allegorie. Le pitture sono databili tra il XIV e il XV sec. In basso il Cortile d’Onore, riservato agli amministratori e ai governatori, affrescato con raffigurazioni di stemmi tra le arcate. niero si rivelò di fatto inespugnabile, e cadde nelle mani dei soldati del pontefice solo a causa della mancanza di sufficienti riserve di cibo nelle sue dispense. Alla fine del Medioevo a Spoleto governarono i Borgia. Nel 1499, al vertice del governatorato della città, papa Alessandro VI nominò la figlia Lucrezia Borgia, che aveva appena compiuto 19 anni. Ma la permanenza nel castello della giovane fu breve, solo tre mesi, e nella città lasciò poche tracce del suo passaggio.
Da carcere a museo
Dal XVII secolo il castello di Albornoz non rivestí piú un ruolo preminente nella vita politica, religiosa e sociale di Spoleto: si preferí utilizzarlo come luogo di ricevimenti e, soprattutto, come carcere militare. Nell’Ottocento la prigione divenne tristemente nota per la sua durezza e per gli spazi angusti nei quali erano costretti a soggiornare i detenuti, cosí camminamento. L’ala piú elegante del maniero, nella parte del Cortile d’Onore, è costituita da un portico a due piani all’interno del quale si trova la splendida Camera Pinta, decorata da opere del XV secolo. Di notevole interesse è, infine, l’area a nord della rocca, detta Malborghetto, nella quale spiccano alcuni ritrovamenti archeologici di età altomedievale, i secoli d’oro del Ducato di Spoleto. Alla storia di quest’ultimo è dedicato il Museo Nazionale inaugurato nel 2007 nei locali della rocca. L’allestimento si propone come documento di conoscenza del territorio spoletino dal IV al XV secolo e illustra, tramite pannelli, la bellezza degli ambienti affrescati in cui le opere sono esposte. Articolato in due spazi attorno al cortile d’Onore, uno al pianterreno e l’altro al primo piano, si suddivide in quindici sale. come in epoca fascista. La fortezza svolse le funzioni di carcere fino al 1982. Dopo un lungo intervento di restauro il castello ha recuperato l’antico splendore e molte sono le testimonianze che rendono viva l’atmosfera medievale del castello. La cinta muraria, per esempio, si fonde, in alcuni punti, con le fortificazioni di epoca romana. Mentre le splendide torri sono collegate tra loro da un
Dove e quando rocca albornoziana Spoleto, piazza Campello Orario ma-do, 9,00-17,30; lu chiuso Info tel. 0743 224952 oppure 340 5510813; e-mail: spoleto@sistemamuseo.it; www.comunespoleto.gov.it
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umbria
dove era la residenza signorile. La maggiore delle quattro torri è identificata nel maschio, con il lato di ben 20 bracci e un’altezza di quattro piani, piú il seminterrato. INFO tel. 0744 423047 (Ufficio Informazioni e Accoglienza Turistica del Comprensorio Ternano); e-mail: info@iat.terni.it www.itinerari.regioneumbria.eu
gualdo tadino
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Narni
narni
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u il cardinale Egidio Albornoz a prospettare la costruzione di una rocca su un colle di 322 m, che domina la valle del fiume Nera, nello stesso luogo in cui sorgeva una fortezza concepita da Federico Barbarossa. Sono molti i castelli dell’Italia centrale che il porporato spagnolo patrocinò, allo scopo di difendere lo Stato Pontificio. E la rocca di Narni fu uno dei piú sontuosi. Sorta nel 1367, ospitò papi, alti ecclesiastici e condottieri. Nel 1527 resistette all’attacco dei Lanzichenecchi, di ritorno dal sacco di Roma. Oggi il castello conserva un aspetto medievale e in parte rinascimentale. La roccaforte ha una pianta quadrangolare con gli spigoli fortificati da quattro torri giustapposte ed è circondata da un fossato e una seconda cinta muraria. Le mura e le torri, coronate da beccatelli, racchiudono un cortile al quale si accede attraverso due eleganti portali: la corte, anch’essa quadrata, è contornata da due corpi di fabbrica e piacevoli scale consentono l’accesso al primo piano,
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Gualdo Tadino
plendore e decadenza si alternarono nel destino della Rocca Flea di Gualdo Tadino, uno dei gioielli architettonici dell’Umbria. Appartenuta a Federico Barbarossa, ai papi e alla potente Perugia, fu eretta nel XII secolo. Nel Duecento si rese necessaria una profonda
ristrutturazione e provvide a promuoverla un altro imperatore germanico, Federico II. Il segno del successivo dominio di Perugia rimase scolpito nella parte interna del cassero, sulla quale venne impresso il grifo, simbolo del capoluogo umbro. Come il castello di Spoleto, anche la Rocca Flea fu adibita a carcere. Oggi, invece, ospita il locale Museo Civico nel quale sono esposti reperti dell’età antica e dell’Alto Medioevo. INFO tel. 075 9142445; e-mail: info@roccaflea.com; www.roccaflea.com
castiglione
del lago
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na delle piú spettacolari cinte murarie merlate guelfe si trova a Castiglione del Lago, nella provincia di Perugia, e cinge la locale rocca del Leone. Alcuni ipotizzano l’esistenza di un maniero, in loco, fin dalla caduta dell’Impero romano. La storia medievale della fortezza è segnata da un lungo periodo di distruzioni e rifacimenti che si susseguirono nell’XI e nel XII secolo. Nel Duecento Federico II affidò la costruzione di
Assisi una nuova struttura a frate Elia Coppi da Cortona e all’architetto senese Lorenzo Maitani. La rocca, di forma pentagonale, ha un mastio triangolare alto circa 30 m, quattro torri e tre porte. Dai camminamenti delle torri si gode di un magnifico panorama sul Lago Trasimeno. Nell’età di Mezzo fu una delle fortificazioni piú importanti dell’Umbria. INFO www.comunes.castiglione-dellago.pg.it
Assisi
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o sperone del monte Subasio su cui sorge Assisi domina la pianura dei fiumi Chiasco e Topino, guarda la confluenza di quest’ultimo con il Tevere e controlla quindi tutta la pianura fluviale a sud di Perugia: una posizione strategica che non sfuggí ai Longobardi, né agli Svevi e men che meno all’Albornoz, che ottenne il giuramento di fedeltà degli abitanti nel 1362, lo stesso anno in cui diede inizio alla costruzione della rocca. Terminata solo nel 1365, fu rafforzata e consolidata nei secoli seguenti in particolare nel mastio e nella torre dodecagona. Cosí come appare oggi, la fortezza è frutto di sovrapposizioni e aggiustamenti continui, evidenti per esempio nel torrione cinquecentesco dalla tipica forma tondeggiante, in palese contrasto con le linee verticali e squadrate del corpo principale. Rimane comunque incerto il nome del primo architetto che affiancò il cardinale Albornoz nei lavori di costruzione: alcuni studiosi indicano il conte Ugolino di Montemarte, mentre altri propendono per Matteo Gattapone. INFO www.visit-assisi.it
Castiglione del Lago
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Ostia
Il bastione del papa di Francesco Colotta
N
ei pressi del litorale romano, a pochi passi dall’area archeologica di Ostia Antica, si erge uno dei castelli meglio conservati del Centro Italia, un bastione imponente che presidia la zona in cui, nell’Alto Medioevo, sorgeva l’abitato di Gregoriopoli. Quel borgo, situato lungo il corso del Tevere e nelle vicinanze delle saline, venne presto munito di una robusta cinta muraria e di altre fortificazioni. Tuttavia, per fermare le ripetute invasioni 94
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saracene, quei capisaldi a ridosso del Tirreno non furono sufficienti, ma si dovette dare vita a un’alleanza tra lo Stato Pontificio e una lega di città campane. E proprio a Ostia, nell’estate dell’849, l’esercito cattolico sconfisse gli Arabi in una battaglia epica, che nel 1514 Raffaello Sanzio immortalò in uno dei suoi affreschi piú celebri, oggi esposto nei Musei Vaticani. Solo nel Quattrocento inoltrato, su quel sito, vennero poste le basi per la nascita di una
Ostia, già porto della Roma imperiale, fu un presidio importante anche nel Medioevo. Per questo Martino V e poi Giulio II vollero dotarla di un castello tra i piú poderosi dell’Italia centrale
grande rocca, con la costruzione, per iniziativa di papa Martino V, di una torre circolare. In seguito, tra il 1483 e il 1486, la struttura difensiva venne ultimata dal potente cardinale, Giuliano della Rovere (che, qualche anno piú tardi, salí al soglio di Pietro con il nome di Giulio II). Il futuro «papa guerriero» non poteva che dotarsi di un massiccio baluardo militare per difendere il suo vescovato, quello di Ostia, nel quale si era trasferito dopo un periodo di go-
verno ecclesiastico sulla Sabina. Il suo nuovo territorio, occupato da numerosi feudi delle vecchie famiglie romane degli Orsini, dei Colonna e dei Savelli, rivestiva un’enorme importanza strategica non solo per la difesa di Roma dagli attacchi via mare – vista la vicinanza alla foce del Tevere –, ma anche per il controllo dell’approvvigionamento della Città Eterna. Per realizzare la rocca si affidò piú verosimilmente all’architetto fiorentino Baccio Pontelli e non a
Il castello di Ostia (Roma), posto a guardia dell’antica foce del Tevere, costruito per volere del cardinale Giuliano della Rovere, il futuro papa Giulio II, tra il 1483 e il 1486.
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Ostia A sinistra uno scorcio del borgo medievale di Ostia Antica, originariamente Gregoriopoli, e, sullo sfondo, il castello di Giulio II. Nella pagina accanto, in alto Ercole contro i centauri, riquadro facente parte degli affreschi che ornano lo scalone monumentale dell’appartamento papale. La figura di Ercole viene simbolicamente associata al profilo del «papa guerriero». Nella pagina accanto, in basso lo scalone monumentale, interamente affrescato, dell’appartamento papale nel castello di Ostia, costruito sul lato occidentale del cortile sotto il pontificato di Giulio II (1503-1513). Gli affeschi, opera di vari artisti di fiducia del pontefice, tra cui Baldassare Peruzzi e Cesare da Sesto, raffigurano motivi a grottesca, riquadri con scene di Ercole, temi allegorici e ritratti di imperatori.
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Giuliano da Sangallo (come ritenuto in passato da alcuni storici), il quale, qualche anno prima, aveva provveduto a fortificare il monastero di Grottaferrata, sempre su incarico del cardinale.
La riscossione delle gabelle
Fin da subito, il maniero rivestí l’autorevole funzione di dogana pontificia, incassando gabelle per il transito delle merci. La struttura, comprendente il mastio cilindrico di Martino V, aveva una forma triangolare, con due rondelle e un puntone pentagonale (un protobastione) ai rispettivi vertici. Le torri, tondeggianti, non superavano il livello delle mura, cosí da consentire un cammino di ronda piú agevole. In questo modo i soldati potevano spostarsi rapidamente da un settore all’altro della fortificazione, colpendo di sorpresa gli eventuali assedianti. Innovativo risultò il sistema delle cortine a scarpa (parete inclinata posta sulla base delle torri e della cinta muraria della rocca), una soluzione architettonica studiata per rendere piú resistenti le fondamenta del castello e per tenere, nel contempo, a maggiore distanza dal perimetro della fortezza le macchine d’assedio nemiche. Ulteriori efficaci espedienti difensivi erano alcune fessure nelle mura, poste poco al di sopra il livello del terreno, dalle quali l’artiglieria poteva sparare colpi radenti. Gli assedianti, pertanto, si trovavano esposti a un micidiale fuoco incrociato. Alla fine del Medioevo del maniero furono ristrutturati anche gli ambienti destinati agli appartamenti papali. castelli d’italia
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Ostia
Nonostante le soluzioni belliche d’avanguardia adottate nella costruzione, il castello subí alcuni assedi e capitolò piú volte, esponendo Roma a insidiose incursioni per via fluviale. Uno degli attacchi piú celebri e infausti fu sferrato nel 1556 dagli Spagnoli, guidati dal duca D’Alba. In quell’anno si stava combattendo una guerra, che contrapponeva l’allora papa Paolo IV agli iberici Asburgo, padroni del Regno di Napoli e del Meridione d’Italia. Una delle micce che aveva acceso lo scontro era stata l’imposizione di una tassa pontificia molto onerosa sul traffico di sale proveniente dalla Sicilia. Il conflitto, che stava volgendo a favore degli Spagnoli, fu poi interrotto dall’accordo di pace siglato a Cave del 1557. Nello stesso anno lo straripamento del Tevere minò ulteriormente le già deteriorate mura del-
In basso Milano, Duomo. Statua di Martino V Colonna, il papa al quale si deve la fondazione del primo complesso fortificato di Ostia, sul quale si sviluppò in seguito il castello di Giulio II. Opera di Jacopino da Tradate 1424.
la fortezza. I danni maggiori, però, si rivelarono «politici», in quanto l’esondazione aveva provocato uno spostamento del corso del fiume, allontanandolo dal perimetro della rocca. L’inevitabile conseguenza fu la perdita del ruolo strategico della fortificazione. La dogana pontificia, infatti, venne presto trasferita a Tor Boacciana, verso Fiumicino, ma si trattò di una soluzione temporanea. Nel 1568 la sede fu spostata nella Tor San Michele, progettata da Michelangelo Buonarroti, presso l’idroscalo di Ostia.
Restauri provvidenziali
La perdita della centralità politica comportò la caduta nell’oblio del castello che, dal Settecento, risultava utilizzato solo come fienile e, un secolo dopo, come carcere. La struttura, comunque, non cadde in rovina, grazie ai restauri effettuati durante i pontificati di Pio VI (1717-1799), Pio VII (1742-1823) e Pio IX (1792-1878). Proprio in virtú di quegli interventi la rocca di Ostia conserva intatto il suo profilo tardo-medievale integrato dagli ammodernamenti rinascimentali. All’interno, lungo lo scalone monumentale che collega i vari piani della fabbrica cinquecentesca, sono visibili affreschi risalenti allo stesso periodo, opera di artisti di fiducia di papa Giulio II. Tra i nomi di maggior spicco che ornarono quegli ambienti, secondo le testimonianze del Vasari avvalorate da recenti studi, figuravano il senese Baldassarre Peruzzi e il lombardo Cesare da Sesto. Le pregevoli pitture, parzialmente restaurate, rappresentano temi allegorici, per esempio le virtú teologali, ma anche figure di imperatori dell’antichità. Il riferimento ai sovrani, forse, poteva trovare una giustificazione nel culto della personalità che animava Giulio II, capo e condottiero armato della Chiesa di Roma. Anche gli affreschi in cui compare la figura di Ercole possono essere associati, in senso simbolico, al profilo guerriero del pontefice. Il castello ospita, inoltre, un interessante museo che espone ceramiche di origine medievale e rinascimentale nei locali del primo piano dell’edificio un tempo sede degli appartamenti papali. I reperti furono recuperati nel Novecento in seguito a un’intensa attività di scavo svolta nelle vicinanze e all’interno del maniero.
Dove e quando Castello di Giulio II Ostia, piazza della Rocca Orario il castello è aperto il giovedí e la domenica: primo ingresso ore 11,00, secondo ingresso ore 12,00 (solo la domenica) Info tel. 06 56350215; http://archeoroma.beniculturali.it
Civita castellana
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radizionalmente sottoposta al controllo papale salvo che per brevi periodi, Civita Castellana fu fortificata da Bonifacio VIII e rafforzata da Niccolò V. La fortezza, collocata in posizione dominante all’estremità occidentale della cittadina medievale, fu invece iniziata nel 1494 per ordine di Alessandro VI (Rodrigo Borgia), ma la struttura assorbí i resti della rocca precedente. I lavori continuarono nel 1500-1501 sotto la direzione di Antonio da Sangallo il Vecchio, autore del progetto insieme a Cola di Caprarola, Pierino da Caravaggio e altri architetti diligentemente annotati nei documenti dell’epoca. La struttura a cinque lati, munita ai vertici di bastioni di forma diversa, testimonia dei nuovi sistemi di difesa rinascimentali adatti a fronteggiare un’artiglieria sempre piú penetrante e precisa. Qui si sperimentarono per la prima volta i baluardi a spigoli arrotondati che furono cari ad Antonio e Giuliano da Sangallo. La rocca venne rafforzata alla metà del Cinquecento con tre ulteriori baluardi in terra, collocati sul fianco esterno. Di funzione anche residenziale, conserva un notevole cortile
Bracciano porticato con stucchi dedicati ai Borgia. Dopo un lungo e capillare intervento di risanamento e restauro, il forte Sangallo è divenuto sede del Museo Archeologico dell’Agro Falisco. INFO tel. 0761 513735; www.etruriameridionale.beniculturali.it
bracciano
I
l castello di Bracciano ha sempre avuto una doppia anima. Fortino e palazzo di gala, appartenne, all’epoca della sua inaugurazione (il XV secolo). alla famiglia Orsini, per poi passare agli Odescalchi.
Civita Castellana
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Roma La sua costruzione iniziò nel 1470 su commissione di Napoleone Orsini e fu portata a termine dal figlio Gentil Virginio nel 1485. Di forma pentagonale, presenta cinque possenti torri agli angoli del perimetro. Fu eretto su un sito, dove, in precedenza, si ergeva un’antica rocca di proprietà dei nobili Di Vico, i cui resti sono ancora visibili in una torre in rovina dell’attuale struttura. Nel 1496 papa Alessandro VI, in guerra con gli Orsini, espropriò il maniero. Tornato in possesso della famiglia romana, il castello fu arricchito da decorazioni e rifiniture tipiche dei palazzi dell’aristocrazia rinascimentale. Alla fine del Quattrocento risalgono, infatti, gli
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splendidi affreschi interni realizzati da alcuni artisti della scuola di Antoniazzo Romano. Tra le stanze piú celebri della rocca vi sono la Sala Papalina e quella dei Cesari. Di notevole interesse è anche la Sala del Trittico, che conserva una collezione di dipinti del XV secolo. INFO tel 06 99802379; e-mail: castello@odescalchi.it; www.odescalchi.it
Roma, castel
sant’angelo
I
l mausoleo dell’imperatore Adriano (117-138 d.C.) assunse nel Medioevo la funzione di fortezza a
presidio dei luoghi santi dell’Urbe, trasformandosi in uno dei piú spettacolari esempi di riuso dell’antico oggi visibili a Roma. Inglobato nelle Mura Aureliane nel corso della Guerra Gotica, prese il nome di Castel Sant’Angelo in onore dell’arcangelo Michele. Nel XIII secolo, sotto il pontificato di Niccolò III, venne ufficialmente investito del ruolo di fortilizio dei papi. In seguito, alla struttura preesistente furono aggiunti tre torrioni cilindrici per poter meglio fronteggiare gli attacchi con le armi da fuoco. Le modifiche piú rilevanti furono apportate nel Rinascimento, con la demolizione di alcuni corpi di fabbrica limitrofi, l’innalzamento di un torrione
A destra Roma, Castel Sant’Angelo. La ricostruzione di una catapulta medievale nel cortile di Alessandro VI.
abbandonare la sua residenza abituale per rifugiarsi nella fortezza sul Tevere), il castello cambiò ulteriormente aspetto nel Cinquecento, nel corso dei pontificati di Pio IV e Urbano VIII. Una cinta pentagonale bastionata circondò il monumento, mentre all’interno furono ricavate alcune piccole caserme. INFO tel. 06 6819111; e-mail: sspsaerm.castelsantangelo@beniculturali.it; http://castelsantangelo.beniculturali.it
circolare e di altre quattro fortificazioni poligonali. Collegato al Vaticano attraverso il percorso del Passetto di Borgo (il camminamento che, in caso di pericolo, poteva consentire al pontefice di
santa severa
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l castello di Santa Severa sorse nel Medioevo sul sito di Pyrgi, uno dei porti della città etrusca di Caere (l’odierna Cerveteri). Divenuto un
castrum in epoca romana, assunse le sembianze di un vero e proprio borgo in epoca altomedievale, che era dotato di un fortilizio. Nel periodo normanno le notizie sull’esistenza di un maniero si fecero piú precise. La rocca risultava di proprietà del conte Gerardo di Galeria, il quale, successivamente, lo cedette all’abbazia di Farfa. Acquisito dalle famiglie aristocratiche di Roma, subí rilevanti modifiche nel Trecento e alla fine del Medioevo appartenne all’Ordine del Santo Spirito, che ne conservò il possesso fino al 1980. La proprietà è stata recentemente rilevata dalla Regione Lazio e affidata in gestione al Comune di Santa Marinella. Oggi ospita il Museo del Mare e della Navigazione Antica. INFO www.santamarinella.com
Santa Severa
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A
Roccascalegna, in uno degli angoli piú suggestivi d’Abruzzo, lo splendido castello medievale sembra voler sfidare le leggi della fisica con la sua sagoma che appare quasi sospesa nel vuoto alla vista di chi lo osservi dal basso. Arroccato su un gigantesco masso di arenaria, alle pendici della Majella, ha una storia molto antica che risale all’Alto Medioevo, 102
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quando nel sito della rocca sorgeva una torretta d’avvistamento. In seguito, con ogni probabilità nel XII secolo, su quell’altura fu costruita una vera fortezza, destinata a un futuro prestigioso. Testimonianze piú precise sull’esistenza del maniero si registrano a partire dal Trecento: in un documento il borgo adiacente veniva descritto come un luogo «cum castellione».
abruzzo
Roccascalegna
Tra pietra e cielo di Francesco Colotta
Arroccato sulla cima di uno sperone roccioso, sembra quasi il nido di un rapace: è il castello di Roccascalegna, una fortezza poderosa e imprendibile, nata per difendersi dalle incursioni portate con il micidiale fuoco greco
Ben prima, intorno al V secolo, Roccascalegna era controllata dai Longobardi. La breve distanza dal mare impose ai dominatori di fortificare le regioni dell’entroterra, nel timore di un attacco bizantino. Per questo motivo, nel maniero è oggi esposta la replica di un lanciafiamme in uso tra i soldati di Costantinopoli, un’arma in grado di produrre il rinomato e micidiale «fuoco
greco». Il primo nucleo del castello venne edificato nel periodo svevo-normanno, nell’XI-XII secolo. Si presume che all’epoca la struttura fosse composta di una muratura rettilinea con merlature, di cui oggi è rimasta solo qualche traccia, e di torri quadrate. Nella successiva età angioina fu apportata qualche modifica, in particolare alle torri di Sentinella e del Forno.
Il castello di Roccascalegna (Chieti), arroccato su uno sperone roccioso, sulla cui ultima propaggine si innalza l’imponente chiesa di S. Pietro (a destra).
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abruzzo
Roccascalegna
Roccascalegna, oggi paese di appena 1300 abitanti, era fin dall’età di Mezzo sinonimo di castello, tanto che nel simbolo stesso del Comune compare da sempre il disegno di una torre. Inoltre, la maggior parte delle ipotesi sull’origine del nome del borgo si riferiscono alla presenza di una fortificazione su un’altura. Nel 1379, nel Catalogus Baronum, si trovava citato il nome di «Roccascarengia», come feudo del conte di Manoppello. Il termine «scarengia» sarebbe per alcuni da intendersi nel significato di «dirupo», proprio in riferimento alla posizione del castello. Altri, invece, fanno derivare il nome della cittadina dall’espressione «Rocca scale di legna», ossia dalla scala a pioli che dall’abitato sottostante conduceva al maniero.
Il borgo in rivolta
Nel Quattrocento l’avvento delle armi da fuoco impose la trasformazione del complesso, in particolare delle torri, che acquisirono una forma arrotondata e un’altezza maggiore, mentre le mura furono ispessite. All’inizio del Cinquecento si ebbe una ulteriore e piú radicale ristrutturazione, alla quale sovrintese il nobile locale Giovanni Maria Annechino. In seguito, nel periodo della baronia dei Carafa, tra il 1531 e il 1600, sorse la torre del Carcere e le mura furono di nuovo rafforzate. Secondo le cronache, un Carafa, Orazio, governò sul borgo in modo dispotico, tanto da scatenare la
Un’altra veduta del castello, posto a dominio del sottostante borgo. Nel punto piú elevato svetta la Torretta Normanna, l’unica di forma quadrata dell’intera fortezza.
rivolta dei cittadini, che si concluse con l’uccisione del tiranno. Nel XVIII secolo, secondo una leggenda, nella rocca si stabilí un esponente della famiglia De Corvis, che aveva conquistato vasti domini in Abruzzo. Appena insediatosi, il feudatario avrebbe imposto la pratica dello ius primae noctis, esercitandolo nei locali del castello. I sudditi non accettarono l’odiosa disposizione e si ribellarono. Uno dei piú scaltri tra i ribelli si travestí da donna e, appartatosi con l’aristocratico, lo uccise. Altre versioni, invece, affermano che sia stata una ragazza a commettere l’omicidio. La tradizione narra che il nobile, prima di morire, lasciò un’impronta insanguinata su un muro della torre d’ingresso, un segno che risultò, poi, impossibile cancellare. Al di là delle leggende, anche nell’era dei De Corvis la rocca fu in parte rinnovata, con l’aggiunta di una garitta d’accesso al posto del ponte levatoio e il puntellamento di una sezione della mura. In seguito la fortezza di Roccascalegna perse prestigio e rischiò di trasformarsi in un cumulo di macerie. Una serie di crolli si susseguí nel tempo, il piú rovinoso dei quali, nel 1940, danneggiò gravemente la torre del Cuore. Nel 1985, i Croce Nanni, proprietari del castello, decisero di donarlo al Comune. Si provvide, quindi, al restauro, che ha riportato l’edificio allo splendore originario. In cima allo sperone si giunge percorrendo una ripida scala. All’ingresso del castello sono conservate alcune parti del ponte levatoio medievale. La torre della Sentinella è la prima visibile, sulla destra, mentre sul lato opposto si trovano i resti di quella del Cuore, crollata, come già detto, nel 1940 e nella quale, secondo la leggenda, appariva spesso la macchia di sangue del feudatario ucciso. Proseguendo per il cortile, spazio adibito anche a ospitare eventi culturali, si oltrepassano la torre aragonese del Carcere, un tempo luogo di detenzione, e quella Angioina, poste entrambe sulla sinistra. A destra, invece, si staglia la Torretta Normanna, l’unica di forma quadrata, che rappresenta anche il punto piú elevato dell’intero castello.
Dove e quando Castello Medievale Roccascalegna Orario mar-giu e set-ott: sa-do e festivi, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; lug: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-19,00; ago: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-20,00; nov: chiuso tutto il mese, tranne il 1° dic-gen: solo festivi Info www.castelloroccascalegna.it
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del Museo d’Arte Sacra della Marsica. Nel maggio 2003 è stata inaugurata la Sezione archeologica che ospita la prestigiosa Collezione Torlonia di antichità del Fucino. INFO tel. 0863 792922; www.comune.celano.aq.it
Ortona
ORTONA
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l castello di Ortona è chiamato aragonese, ma non si esclude che la sua origine fosse, in realtà, angioina. Sorse nel Quattrocento, per difendere la città dagli attacchi via mare, che in quel secolo si manifestavano con frequenza. Fu costruito all’interno della cinta muraria del borgo e assunse nel corso degli anni sembianze rinascimentali, con i quattro torrioni cilindrici e le mura che ne eguagliano, quasi, l’altezza. Nel Cinquecento la titolarità della rocca fu acquisita da Margherita d’Austria, duchessa di Parma, la quale si impegnò in opere di modernizzazione della città piú che del suo monumento simbolo. Poi, in seguito allo spostamento del porto verso sud, la rocca perse il suo peso strategico e visse un lungo periodo di decadenza. Restauri recenti hanno restituito lustro alla struttura, danneggiata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. All’interno del corpo di fabbrica sono sopravvissute due torri di forma quadrangolare, che potrebbero risalire all’epoca della dominazione angioina. INFO tel. 085 9063764 (Municipio); www.regione.abruzzo.it
PACENTRO
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a storia del castello Caldora di Pacentro, considerato uno dei gioielli architettonici d’Abruzzo, affonda le sue radici nell’XI secolo. Presumibilmente in quel periodo una fortificazione,
Pacentro
di pianta trapezoidale, fu posta a guardia della Valle Peligna, sul monte Morrone. Al XIII secolo, invece, risale una delle torri quadrangolari che tuttora svettano sul sito del castello. Oggi il maniero ha conservato intatta la fisionomia medievale, percepibile dalla conformazione della sua cinta muraria interna e dai resti dei torrioni cilindrici. Appartenne a diverse famiglie nobiliari: i Caldora, i Cantelmo, gli Orsini, i Colonna e i Barberini. Dal 1957 è proprietà comunale. INFO tel. 0864 41114 (Municipio); www.regione.abruzzo.it
CELANO
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urono lunghi i lavori preparatori della rocca di Celano, che doveva vigilare sulla Piana del Fucino, nell’Aquilano. Il primo nucleo della struttura, iniziata nel Trecento, comprendeva le mura di cinta, con torrette rettangolari, e il primo piano dell’edificio. Nel 1463 la fortezza fu completata grazie all’iniziativa del nobile Antonio Todeschini Piccolomini, nipote di papa Pio II, che diede il nome alla rocca. Agli angoli vennero poste due torri e gli edifici raggiunsero l’altezza che presentano attualmente. Come altri suggestivi castelli dell’Italia centrale, il maniero di Celano conserva un equilibrio tra l’imponenza dell’architettura militare e l’eleganza del palazzo signorile. Le mura di cinta, puntellate nel corso dei secoli, presentano ben 11 torri a scudo e 2 rotonde. Oggi il monumento è sede
BALSORANO
S
ulla riva sinistra del fiume Liri si staglia un’altura, nei pressi della Valle Roveto. Sopra il rilievo, in un incantevole angolo paesaggistico del comune di Balsorano, si trova un’altra pregevole fortezza che porta il nome della famiglia Piccolomini, di forme simili al maniero celanese. Di origine quattrocentesca, presenta una massiccia struttura in pietra e una pianta pentagonale, nel cui perimetro si stagliano quattro torri circolari. INFO www.comune.balsorano.aq.it
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castelli dell’italia del sud e delle isole
Olbia 46
50 44 47
Oristano
45
49
molise (1) Campobasso (2) Monteroduni (3) Cerro al Volturno (4) Venafro (5) Gambatesa Capolettera miniato con Federico II. L’imperatore svevo promosse, fra gli altri, la costruzione del magnifico Castel del Monte (vedi alle pp. 118-121).
Roma 3
Latina
4
5
12
Caserta
16
19
1
2
Foggia 8
11
7 10
17
13
23
22
21 9
6 24
26 15
Taranto
25
Lecce
20 14 18
34 29
Cosenza 27 33
Catanzaro
28
43
32
Carini 41
35
Palermo
30
37
Alcamo
42
Caltanissetta
38 39
36
Gela Ragusa
campania (6) Salerno (7) Napoli (8) Benevento (9) Castellammare di Stabia (10) Ischia (11) Ariano Irpino (12) Faicchio puglia (13) Castel del Monte
31
(14) (15) (16) (17) (18) (19) (20)
tranto O Oria Manfredonia Bari Andrano Lucera Vernole
basilicata (21) Lagopesole (22) Venosa (23) Melfi (24) Miglionico
Catania
40
(25) Bernalda (26) Matera
(33) B elcastro (34) Castrovillari
(42) M ussomeli (43) Lipari
calabria (27) Santa Severina (28) Le Castella (29) San Marco Argentano (30) Reggio Calabria (31) Gerace (32) Scilla
sicilia (35) Erice (36) Enna (37) Caccamo (38) Adrano (39) Paternò (40) Siracusa (41) Carini
sardegna (44) Burgos (45) Sanluri (46) Castelsardo (47) Bosa (48) Posada (49) Cagliari (50) Alghero
Sono evidenziati in neretto i castelli descritti nel testo. castelli d’italia
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molise
I
Monforte
l castello Monforte, principale monumento di Campobasso, si eleva a quasi 800 m sul livello del mare con la sua stazza a pianta rettangolare. Si ipotizza che sia sorto nel XII secolo, in piena epoca normanna, sui resti di una torre lignea longobarda, grazie all’iniziativa del conte Ugo II di Molise (1128-1160). Tuttavia, la prima testimonianza certa risale al 108
castelli d’italia
1375 e informazioni maggiori provengono dal Quattrocento, in particolare dal periodo in cui la zona fu duramente colpita da un terremoto. Era il dicembre del 1456, e il sisma, che aveva avuto come epicentro il Beneventano, provocò circa 30 000 morti nel Meridione d’Italia. Proprio per riparare ai danni subiti dalla fortezza, il conte Nicola II Monforte provvide a restaurarla
La fortezza del conte di Francesco Colotta
Nicola Lunga e travagliata è la storia del castello Monforte di Campobasso, chiamato a sfidare la violenza delle armi e quella, ancor piú distruttiva, dei terremoti
nel 1456, poco prima che la guerra tra Angioini e Aragonesi per la conquista del regno di Napoli coinvolgesse in pieno il Molise, premiando gli Iberici. Schierato all’inizio con i Francesi, l’aristocratico passò dalla parte dei loro nemici fino al 1460, anno in cui gli Angioini cercarono di riconquistare i territori perduti. E Nicola preferí tornare
con i vecchi alleati. Nella zona di Campobasso e dintorni, le truppe filo-francesi comandate dal feudatario vinsero diverse battaglie, ma non si mostrarono intenzionate a proseguire l’impegno militare. Erano insoddisfatte del compenso percepito, nonostante ricevessero ingenti somme provenienti dalla zecca di Campobasso, che si trovava proprio nei locali del castello.
Il cortile e il mastio del castello Monforte. Costruita forse nel XII sec., la fortezza fu completamente restaurata nel 1456 dal feudatario Nicola II Monforte. castelli d’italia
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molise
Monforte
Quelle monete, sulle quali compariva la figura della rocca, valevano nei possedimenti dei Monforte, ma fuori da quei confini non venivano mai accettate come mezzo di pagamento. La questione valutaria contribuí a rallentare la campagna angioina in quella regione e gli Aragonesi presero il sopravvento. Nicola fu costretto a rinchiudersi nel suo maniero, in attesa di tempi migliori. Trovatosi in difficoltà economiche, decise di fuggire in direzione di Termoli. E dalla costa molisana partí per la Francia, dopo aver fatto tappa a Rimini. In terra transalpina fece il soldato di ventura, al servizio degli amici angioini.
Una città fortificata
La rocca che Nicola aveva, in sostanza, ricostruito occupava una posizione di notevole rilievo strategico. Per questo, al momento di iniziare i lavori di ristrutturazione, ritenne piú funzionale, per scopi difensivi, abbattere tutte le abitazioni che si trovavano sulla collina, lasciando solo i santuari ad affiancare il castello. Prese cosí forma una sorta di cittadella fortificata sull’altura, mentre il borgo ebbe il suo sviluppo urbanistico nel territorio sottostante. Il complesso della rocca venne, quindi, collegato ad altre fortificazioni vicine attraverso un camminamento, lungo il quale i soldati effettuavano continue ronde. I torrioni, posti ai quattro angoli della struttura, assunsero una forma cilindrica. Agli inizi del Rinascimento, con l’uscita di scena della famiglia Monforte, il castello subí un lento e inevitabile declino: dal 1573 venne 110
castelli d’italia
Il castello Monforte in una stampa della fine del XIX sec.
utilizzato come carcere, ma piú frequentemente rimase disabitato e cadde in rovina. Il degrado si interruppe nel 1861, all’indomani della nascita del regno d’Italia, quando il Comune acquistò l’edificio per 460 ducati. Oggi nella rocca si accede dalla vecchia porta secondaria, situata sul piazzale dei Monti, mentre l’ingresso principale, che era dotato di ponte levatoio, risulta murato fin dai tempi della fuga del conte Nicola. La struttura presenta quattro torrioni e un mastio di forma rettangolare, nel quale è oggi collocata una stazione meteorologica dell’Aeronautica. L’interno della fortezza, molto scabro ed essenzialmente scoperto, presenta un grande spazio vuoto lungo i cui muri sono visibili le divisioni in piani e le tracce delle scale. Nel cortile, una rampa dà accesso alla parte superiore della fortezza, dove si trova un terrazzo dal quale è possibile ammirare una splendida vista sulla città e su tutta la valle. Nel panorama, a una distanza di 2 km, si nota la verdissima collina di San Giovannello, collegata alla rocca, secondo una credenza, da un lunghissimo percorso sotterraneo.
Dove e quando Castello Monforte Campobasso, viale della Rimembranza Orario tutti i giorni, 9,30-12,30 e 15,30-18, lu chiuso Info tel. 338 7474373; http://turismo.provincia.campobasso.it
venafro
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ntorno a un mastio quadrato longobardo, risalente al X secolo, sorse il castello Pandone di Venafro, in una zona di notevole importanza strategica, al confine del Molise con il Lazio e la Campania. Tra il XIV e il XV secolo l’edificio originario fu provvisto di tre possenti torri circolari e di un fossato. E, alla fine del Medioevo il complesso subí un nuovo e piú radicale rimaneggiamento. Nel Cinquecento sorsero il loggiato, il giardino e vennero realizzati dipinti che
Monteroduni
monteroduni
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na fortezza longobarda presidiava la valle del Volturno nell’Alto Medioevo, fornendo un luogo di rifugio per la popolazione durante le invasioni saracene. Ma la frequentazione del sito è ben piú antica: un primo nucleo insediativo, nei luoghi dove oggi sorge l’attuale castello Pignatelli, si fa infatti risalire all’epoca sannita. La prima struttura difensiva, situata nella zona dell’odierna Monteroduni, non garantiva, però, una sufficienze protezione dagli assalti e, di conseguenza, fu ampliata nel corso degli anni della dominazione normanna, con l’apposizione di mura di cinta. Distrutta dai soldati dell’imperatore Enrico IV, nel XII secolo, fu ricostruita piú volte, anche a causa degli eventi sismici che avevano ripetutamente colpito la zona. L’aspetto attuale del castello è il frutto di un rifacimento angioino realizzato tra il 1350 e il 1366. Nel Seicento, con il passaggio di proprietà alla famiglia Pignatelli, il maniero fu trasformato in residenza nobiliare. Di forma trapezoidale, la rocca attuale ha conservato alcuni elementi dell’epoca medievale, tra i quali la cisterna, le feritoie, i canali di raccolta delle acque e alcune sezioni delle mura di cinta. INFO www.comune.monteroduni.is.it
Cerro al Volturno
cerro
al volturno
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a rocca di Cerro al Volturno, nella provincia di Isernia, sorge su uno sperone che sembra appartenere alla struttura stessa della fortezza. Ha origini molto antiche (X secolo), ma fu totalmente ricostruita nel Quattrocento, grazie all’impegno della famiglia Pandone, che curò l’innalzamento della cinta muraria e delle tre torri cilindriche, poi rafforzate in epoca rinascimentale. Si ipotizza che un recinto quadrangolare, presente nell’odierno complesso fortificato, risalga all’Alto Medioevo, in particolare al periodo della dominazione longobarda. INFO www.comune.cerroalvolturno.is.it
raffiguravano i migliori cavalli dei nobili Pandone. Oggi ospita il Museo Nazionale del Molise, diviso in due sezioni: il castello, «museo di se stesso», e l’esposizione di opere d’arte – dal Medioevo al Barocco – che documentano i diversi orientamenti culturali di committenti e artisti in Molise. INFO tel. 0865 904698; www.castellopandone.beniculturali.it
Venafro
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campania
Salerno
Imprendibile! di Roberto Comunale
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lle pendici del monte Bonadies, che sovrasta la città di Salerno, si erge il castello detto «di Arechi», dal duca longobardo che, nell’VIII secolo, si insediò in questo territorio, governandolo con abilità politica e capacità diplomatiche tali da permetterne un florido sviluppo economico e culturale. Arechi ha lasciato nelle fonti il ricordo di un
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grande costruttore, fondatore di chiese, come quella di S. Sofia a Benevento, ma anche di palazzi degni di un principe che si presentava come il depositario della tradizione longobarda. Dotò Salerno di fortificazioni grandiose e ne fece la seconda città del ducato e una delle sue residenze favorite. Il suo operato favorí anche il perdurare in quei luoghi della domina-
Lo stesso Arechi II, che ne promosse la costruzione, definí cosí il castello di Salerno. Una fortezza possente, voluta come parte integrante del borgo, che il duca longobardo trasformò in una vera e propria cittadella fortificata
zione longobarda, che si protrasse fino all’XI secolo in gran parte del Mezzogiorno d’Italia. Indagini storiche, che sembrano confermate da numerosi rinvenimenti archeologici, avrebbero accertato una frequentazione del sito già in epoca romana, in qualità di presidio utilizzato per difendersi dagli abitanti dei vicini monti Picentini. Alcune fonti fanno ritenere che, du-
rante la guerra greco-gotica (535-553), il generale bizantino Narsete vi abbia eretto una sorta di castrum, al fine di controllare il porto sottostante e le vie che conducevano all’entroterra collinare. Su questa precedente fortificazione Arechi II fece erigere un castello che egli stesso definí «per natura e per arte imprendibile, non essendo in Italia una rocca piú munita di essa». La
Il castello di Salerno, che prende il nome dal suo fondatore, Arechi II duca e poi principe di Benevento, il quale lo fece erigere su una precedente fortificazione bizantina. castelli d’italia
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campania
Salerno
fortezza, la cui Turris maior ingloba murature del castrum bizantino, andava a inserirsi in un sistema difensivo di forma triangolare, quale vertice settentrionale, coincidente con i pendii del monte Bonadies. Le realizzazioni di Salerno – talune fonti riferiscono l’assenza di una fisionomia cittadina prima dell’intervento di Arechi, che si ritiene l’abbia fondata – evidenziano quanto per il 114
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Qui sopra, a sinistra uno scorcio della corte del castello, che volge verso la Costiera Amalfitana.
principe fosse indispensabile l’unione di residenza e città: come a Benevento il rapporto tra la popolazione longobarda e il suo signore si era manifestato nel santuario comune di S. Sofia, cosí a Salerno esso si realizzava nell’inscindibilità del castello dall’abitato, difeso dalle stesse mura che difendevano il principe. Detto sistema, molto articolato, comprendeva la fortificazione dell’intero borgo, chiuso all’in-
terno di mura merlate, ancora oggi visibili. Il castello di Arechi sembra aver funzionato piú da luogo di difesa che di offesa: nel 1046 vi si arroccò Gisulfo II, ultimo principe longobardo di Salerno ormai in procinto di cedere all’assedio di Roberto il Guiscardo. Successivamente, i Normanni innalzarono a nord-ovest, sullo sperone roccioso piú elevato, una torre di guardia denominata «la Bastiglia», da cui controllare i punti non visibili dal castello. Nel 1269, gli Angioini, conquistato il Sud della Penisola, provvidero alla riparazione e alla manutenzione del maniero, che svolgerà ancora funzioni difensive contro gli Aragonesi.
Sulla cresta del colle
Salendo al castello, per una stradina lastricata in pietra, fiancheggiata dalla fitta vegetazione di una pineta, si rivela allo sguardo lo splendido panorama del golfo e della città di Salerno. Oggi la fortificazione, realizzata in blocchi di pietra scura locale, si presenta come un complesso di apprestamenti difensivi distesi lungo la cresta del colle che, a partire dalla poderosa torre principale, si diramano in una serie di propugnacoli posti alle quote inferiori. Si accede al cortile, e di qui ai vari spazi interni, per mezzo di un ponte, un tempo levatoio, costruito per superare il recinto difensivo tra la prima e la seconda cinta muraria. Dopo un lungo abbandono, il fortilizio è stato oggetto di restauri, che ne hanno riattivato la fruibilità. I lavori hanno interessato il fossato, di
In questa pagina il viale di accesso e la porta che immette nella rocca (a sinistra) e l’ingresso fortificato (a destra). Nella pagina accanto, a destra, in alto e in basso miniature raffiguranti l’insurrezione dei Salernitani contro l’imperatrice Costanza, dal Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, dedicato all’imperatore Enrico VI di Svevia. Fine del XII sec. Berna, Burgerbibliotek.
cui è stata restituita e completata la pavimentazione; le mura adiacenti, con la messa in luce e il ripristino delle fuciliere e dei vani per le cannoniere; la terrazza antistante la Turris maior, con il consolidamento delle mura di sostegno, la messa in evidenza dei sistemi di canalizzazione e raccolta delle acque, il restauro dei reperti rinvenuti, e anche di un’acquasantiera medievale. Nella zona restaurata sono stati ricavati un primo nucleo espositivo dei materiali del castello (perlopiú ceramiche medievali e monete), una sala per mostre e un salone per conferenze e congressi.
Dove e quando Castello di Arechi Salerno, via Benedetto Croce Orario tutti i giorni, 9,00-14,00 e dalle 16,00 a un’ora prima del tramonto; chiuso il lunedí Info tel. 089481014; www.comune.salerno.it
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campania Napoli
Napoli,
maschio angioino
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l Castel Nuovo di Napoli, noto come Maschio Angioino, ebbe compiti a un tempo di difesa del porto e di reggia. Fu infatti scelto come residenza stabile da Carlo I d’Angiò; vi fu ospitato il papa Celestino V (l’eremita Pietro da Morrone) fino all’abdicazione, e vi si tenne il conclave di elezione del suo successore, Bonifacio VIII. In seguito accolse tra le sue mura Petrarca e Boccaccio. Costruito tra il 1279 e il 1282, sotto la direzione degli architetti Pierre de Chaule e Pierre d’Angicourt, divenne in breve tempo il centro direzionale dell’intera città, al punto che Roberto d’Angiò vi fece costruire una cappella decorata poi da Giotto Benevento (1332). Dopo la
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conquista aragonese fu ricostruito dal catalano Guillén Sagrera e poi modificato ulteriormente nei secoli seguenti. Nel periodo vicereale (1503-1734), le strutture difensive del castello, adibito a un uso militare, vennero ulteriormente modificate. Il complesso è oggi destinato a un uso culturale ed è, tra l’altro, la sede del Museo Civico di Castel Nuovo, il cui percorso espositivo si articola tra
la Sala dell’Armeria, la Cappella Palatina o di Santa Barbara, il primo e il secondo piano della cortina meridionale. INFO tel. 081 79557722; www.comune.napoli.it
benevento
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ensava in grande papa Giovanni XXII, quando, nel Trecento, progettò la costruzione di un castello nel punto piú alto della città di Benevento. Voleva una fortezza simile a quelle di Avignone e Carcassonne, che presidiavano il cuore religioso della Francia. Il pontefice dispose di farla collocare su un versante del borgo campano nel quale sorgevano le rovine di un maniero di epoca longobarda. La nuova struttura, che prese poi il nome di Rocca dei Rettori, era costituita da un torrione angolare (nel cui corpo
sopravvivevano i resti dell’antica fortificazione dei Longobardi) e di un palazzo detto «dei Governatori Pontifici». Nel tempo, il castello è stato piú volte rimaneggiato e oggi si presenta come un massiccio edificio a tre piani, di forma rettangolare, munito di un ampio cortile interno. La rocca è chiamata anche il castello di Manfredi, ma il condottiero svevo non ha alcuna attinenza con la storia della fortificazione beneventana. Le cronache raccontano, invece, che vi dimorarono altri personaggi illustri dell’età di Mezzo. Il capitano di ventura Giacomo Attendolo (1369-1424) e il sovrano del Regno di Napoli Alfonso V d’Aragona (1394-1458) vi trascorsero un periodo di prigionia, mentre nel 1385 il pontefice Urbano vi trovò rifugio dopo essere fuggito dall’assediata Nocera. Nel Trecento la rocca fu al centro anche di eventi di sangue, il piú noto dei quali ebbe come protagonista Carlo d’Artus, conte di
Montederisi. Il suo cadavere venne nascosto in un sacco di cuoio all’interno della fortezza per volere di Giovanna I regina di Napoli. Il nobile era stato ucciso perché ritenuto responsabile dell’assassinio di Andrea d’Ungheria, primo marito della sovrana. Recentemente restaurata, è sede della Provincia di Benevento. Al suo interno è allestita la Mostra permanente «Uomini eccellenti. Tracce del Risorgimento beneventano». INFO tel. 0824 774111; www.provincia.benevento.it
castellammare
di stabia
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ncastonata ai piedi del monte Faito, la rocca medievale di Castellammare di Stabia era, nel X secolo, uno dei baluardi difensivi del ducato di Sorrento. Fu ricostruita nel Duecento per volere dell’imperatore
Federico II e, in seguito, anche gli Angioini la rinnovarono. Nel Quattrocento gli occupanti aragonesi aggiunsero ulteriori fortificazioni, tra cui la torre Alfonsina. Caduto in rovina nel XVIII secolo, il castello riacquistò l’antica magnificenza grazie all’impegno della famiglia De Martino, che lo aveva acquistato, e della Sovrintendenza dell’Arte Medievale e Moderna della Campania: nel 1931, i nuovi proprietari e l’ente di tutela progettarono la ristrutturazione della rocca con criteri rispettosi dell’originaria fisionomia. Di pianta trapezoidale, il maniero è costituito oggi da un torrione di forma circolare, due torri e un camminamento sulle mura di cinta. Gli interni sono stati ricostruiti in stile cinquecentesco. In quanto proprietà privata, il castello è visitabile solo dall’esterno. INFO www.comune.castellammare-distabia.napoli.it
Castellammare di Stabia
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puglia
Castel del Monte
La corona di pietra di Jean-Claude Maire Vigueur
Capolavoro dell’architettura federiciana, Castel del Monte è, ancora oggi, un magnifico enigma: fu davvero concepito come una fortezza? Oppure come palazzo? O doveva costituire la potente e imperitura evocazione della stessa autorità imperiale?
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a costruzione mirabile, concepita come un prisma ottagono con torri anch’esse ottagonali angolari, troneggia su una collina delle Murge, nella campagna tra Andria e Corato, dominando un vastissimo orizzonte. Capolavoro assoluto nella fitta produzione edilizia federiciana, Castel del Monte si pone come sintesi della cultura dell’imperato118
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re: vi si rispecchiano, infatti, l’interesse per il mondo classico, il rapporto con l’ambito cistercense e con il gotico franco-renano, la familiarità con le conoscenze tecniche e i prodotti della civiltà islamica. La lettera del gennaio 1240 con cui Federico Il sollecitava Gubbio Riccardo di Montefuscoro, giustiziere di Capitanata, ad apprestare i ma-
teriali (actractum) necessari per la costruzione del castello «apud sanctam Mariam de Monte», viene generalmente intesa come l’avvio del grande cantiere. Piú verosimilmente, essa segna la fase conclusiva dei lavori, come in pari tempo accadeva per Capua, dove si andava provvedendo alla fornitura dei marmi per completare il rivestimento del castello. In un
momento di crisi, che vede l’imperatore costretto a chiudere numerosi cantieri della Sicilia (lettera del 17 novembre 1239 a Riccardo da Lentini), mal si collocherebbe, infatti, l’inizio di un’impresa tanto onerosa. L’edificio, alto due piani, racchiude un cortile ottagono nel quale, sino all’Ottocento, era visibile una vasca marmorea, anch’essa otta-
Il cielo inquadrato dall’ottagono del cortile di Castel del Monte (Andria), il piú famoso dei castelli di Federico II, che una tradizione tenace vuole progettato dallo stesso imperatore. castelli d’italia
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Castel del Monte
Il portale monumentale del castello, di taglio classicheggiante.
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gonale. Intorno al cortile, su ciascun piano, girano otto sale trapezie con volte a crociera costo lonata. Tre delle torri sono scalari, la sommità delle altre è occupata da cisterne pensili. L’approvvigionamento idrico era inoltre assicurato da due vaste cisterne, l’una ricavata sotto il cortile, l’altra situata all’esterno dell’edificio, in prossimità dell’ingresso. Il portale, perfettamente orientato, di taglio classicheggiante, accoglieva nella cornice del timpano tre busti celebrativi.
Federico scelse con cura gli operatori, cercandoli tra i piú esperti e aggiornati costruttori, ingegneri, scultori, intarsiatori. È riconoscibile la presenza dei cistercensi nell’adozione della tecnica costruttiva «modulare», nella scansione delle pareti, nell’organizzazione ad quadratum dello spazio. Alla plastica di Reims e della Sainte-Chapelle conducono le piante ispirate al vero di natura che adornano chiavi di volta e capitelli. La lezione altissima del gotico francorenano si coglie nelle sculture figurate, non
stingue, Castel del Monte fonde mirabilmente le caratteristiche del palatium e del castrum. Le diverse interpretazioni che sono state date dell’edificio – costruzione militare, casa di caccia, osservatorio astronomico, astrazione simbolica, sintesi del sapere scientifico – si rivelano tutte inadeguate e parziali, ove le si consideri separatamente. Anche Castel del Monte doveva essere munito di una cerchia difensiva; tuttavia, rispetto alla funzione militare, appare prevalere quella residenziale e ostentatoria: Federico II, infatti, concepí l’edificio come manifesto del potere imperiale e come specchio della cultura del suo tempo. Qui raccolse rilievi antichi e volle glorificare la sua effigie, esponendola accanto a modelli provenienti dal mondo classico, onde ristabilire la continuità simbolica tra i fasti del passato e l’eredità del presente. soltanto nelle chiavi di volta e nelle teste-mensola, ma anche nel frammento di testa laureata ora nella Pinacoteca Provinciale di Bari.
Giochi cromatici
Un ruolo importante giocava nel castello il colore, affidato per un verso all’accostamento di materiali diversi (l’arenaria, la breccia corallina, il marmo bianco), per l’altro ai rivestimenti in mosaico. Singolare per la concezione strutturale e per il particolare fasto che lo di-
In alto veduta aerea di Castel del Monte: appare evidente la singolarità della pianta, un perfetto ottagono con torri angolari, anch’esse ottagonali. Qui sopra una delle sale del castello.
Dove e quando Castel del Monte Andria Orario apr-set: 10,15-19,45; ott-mar: 9,00-18,30; chiuso 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 0883 569997; e-mail: casteldelmonte@beniculturali.it; www.casteldelmonte.beniculturali.it
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puglia
Otranto
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Angioini vanno ascritte le torri cilindriche del Salto e del Cavaliere, poste sul lato meridionale del castello. Conservano la loro altezza originaria e la serie dei beccatelli, a sostegno di ballatoi oggi scomparsi. INFO www.castellodioria.org
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tranto fu conquistata dai Turchi di Maometto II nel 1480. E sebbene gli Aragonesi l’avessero ripresa l’anno successivo, il ricordo dell’attacco e della successiva strage spinse Ferdinando I a costruire il castello, probabilmente su una precedente fortificazione sveva. Alle fine del XV secolo, quando la città venne data in pegno ai Veneziani, la fortezza fu ulteriormente potenziata, con l’aggiunta di artiglierie e bombarde. L’aspetto attuale del castello si deve, tuttavia, al governo vicereale spagnolo, che a lungo resse Otranto. La struttura pentagonale è dotata di tre torrioni cilindrici angolari e di uno spuntone a lancia sul lato a mare. Su quest’ultimo si possono vedere gli stemmi di Antonio de Mendoza, viceré di Terra d’Otranto al tempo di Filippo II, e di Pedro da Toledo, mentre sulla porta d’ingresso c’è il grande stemma di Carlo V. Il Castello Aragonese, in larga parte visitabile – di particolare interesse sono le torri Alfonsina, Duchessa e Ippolita, il bastione detto Punta di Diamante e la Sala Triangolare – è oggi sede di manifestazioni culturali. INFO www.castelloaragoneseotranto.it
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uesto castello, grandioso, domina dall’alto l’antica città messapica, collocato in una forte posizione difensiva. Costruito da Federico II nel 1227-1233 sull’altura dell’acropoli, fu ingrandito nel XIV secolo, forse per mano di Pierre d’Angicourt. Sono probabilmente di età sveva la torre quadrata e il mastio, mentre agli
ono molte le epoche leggibili nelle murature del castello di Manfredonia. Il primitivo edificio svevo, a pianta quadrilatera con torri angolari e cortile interno, fu infatti restaurato da Carlo I d’Angiò, mentre nelle epoche successive ci misero mano gli Aragonesi e gli Spagnoli. Della struttura originale, fondata da Manfredi nel 1256, rimane solo una delle torri angolari, quella quadrata, mentre le altre tre, rotonde, sono d’età angioina. Al periodo aragonese risale invece la cortina esterna, anch’essa quadrilatera con torri angolari rotonde. Una di queste, quella di nord-ovest, fu distrutta nel 1528 e sostituita da un bastione pentagonale molto allungato, piú adatto a sostenere i colpi dell’artiglieria. Il castello è oggi sede del Museo Nazionale Archeologico di Manfredonia.
INFO tel. 0884 587838; e-mail: museoarch.manfredonia@beniculturali.it; www.archeopuglia.beniculturali.it
Bari
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a storia del castello di Bari è molto complessa: in epoca bizantina, sull’area occupata oggi dall’edificio, doveva sorgere un nucleo urbano. Al periodo normanno, invece, dovrebbero risalire i primi interventi fortificatori voluti da Ruggero il Normanno, nel 1131-32, sui resti dell’antico abitato. Il castello seguí le travagliate vicende baresi della prima metà del XII secolo fino a quando, nel 1156, Guglielmo il Malo lo distrusse con il resto della città.
Manfredonia
Da quel momento le fonti tacciono fino a che Federico II, nell’arco di tempo che va dal 1233 al 1240, ne intraprese la ricostruzione riutilizzando in parte il vecchio impianto normanno. Al periodo svevo risalgono senz’altro il bel portale d’ingresso sul lato occidentale e l’androne verso il cortile interno. Nel periodo angioino, fra il 1276 e il 1280, vennero eseguiti lavori di ripristino dell’ala nord e dei fossati. Da allora e fino agli inizi del XVI secolo il castello mantenne piú o meno inalterato il suo aspetto. All’inizio del nuovo secolo l’evoluzione tecnica, dovuta all’avvento di armi da fuoco sempre piú potenti e pericolose, spinse gli Aragonesi, nuovi proprietari, a un radicale adeguamento delle difese, trasformando il vecchio castello normanno-svevo, dalle alte torri, in una moderna fortezza con l’aggiunta sulla parte esterna di bassi e profilati bastioni. Al suo interno ha sede la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia. INFO tel. 080 5286261; e-mail: castellodibari@beniculturali.it; www.sbap-ba.beniculturali.it
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ostruito su un’altura del Vulture, tra le valli del Bradano e del Basento, il castello domina la strada che da Melfi conduce a Potenza. Il massiccio parallelepipedo allungato (96 x 58 m) trasmette ancora oggi un messaggio di forza e di potere, qualificando estesamente il paesaggio. Ma il contesto naturale è mutato, scomparsi 124
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come sono le distese di foreste e il lago pescoso. Chiuso all’esterno da una compatta cortina a bugne con rinforzi angolari a guisa di torri, all’interno è suddiviso in due cortili di diverse dimensioni: a nord quello maggiore, occupato su tre lati da costruzioni a due piani con funzione residenziale; a sud la corte minore, nella quale si erge il nitido volume del donjon qua-
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Lagopesole
Un reale buen retiro di Jean-Claude Maire Vigueur
Teatro di eventi storici decisivi, il castello di Lagopesole fu molto apprezzato dai sovrani svevi e angioini, che qui amavano soggiornare per l’amenità dei luoghi e la ricchezza della selvaggina
drangolare. L’ingresso, enfatizzato da due avancorpi simmetrici, si apre a ovest. In asse con l’androne d’accesso è il portale della cappella, bordato da un lieve motivo a zig zag. Qui, tra la chiesa e l’ingresso, corre la parete che divide i due cortili. Testimonianze storiche indiscutibili parlano di un insediamento pre-svevo: sappiamo che
Ruggero Il vi si rifugiò nel 1128 e nel 1129. Doveva tuttavia trattarsi di una costruzione con funzione eminentemente difensiva – una cinta e scarsi ambienti idonei ad abitazione all’interno – se nel 1137, in occasione dell’incontro tra l’imperatore Lotario III e Innocenzo II, i convenuti furono alloggiati in tende. Nell’elevato il castello conserva in gran parte
Il castello di Lagopesole, la cui mole poderosa è caratterizzata dalla cortina a bugne e dai rinforzi angolari in forma di torri.
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In alto uno dei doccioni di cui era provvisto il mastio del castello. In basso un’altra veduta del castello di Lagopesole.
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l’aspetto svevo, al quale si sovrapposero, senza apportare modifiche sostanziali, gli interventi angioini.
Una residenza fresca e accogliente
Il cantiere federiciano si può pensare avviato nel 1242, quando Lagopesole entrò nel demanio. Il castello si trasformò in una fastosa residenza estiva (le carte sveve e angioine lo citeranno come domus e palatium). Saba Malaspina, nella sua Rerum sicularum historia (12501285), parla di Manfredi che era solito recarsi in estate a Lagopesole per godere dell’amena frescura delle sorgenti e della bellezza dei boschi, ricchi di selvaggina. Anche Carlo I apprezzava l’amenità del luogo: riaprí l’appartamento reale e vi risiedette numerose estati fino al 1280. Intanto procedeva all’esecuzione di coperture a tetto nelle sale del palatium (in luogo dei previsti archi-diaframma
in muratura), promuoveva lavori per un acquedotto e le scuderie, faceva trasportare entro barili e gettare nel lago diecimila anguille pescate nei laghi di Versentino e di Salpi. Al mondo della caccia e alla natura del luogo fanno riferimento alcune mensole scolpite nei saloni della residenza: cerri frondosi con orsi e cinghiali, piante cariche di frutti (gelsi, fichi, viti), uccelli beccanti fra i rami. Vi scorre la stessa freschezza naturale che si avverte nelle chiavi di volta e nei capitelli di Castel del Monte, o sulle pagine del De arte venandi cum avibus dello stesso Federico. Ancora svevo è il donjon, il cui unico accesso, a 8 m di quota, introduce a un elegante vano voltato a crociera, collocato sopra una cisterna. Il severo volume della torre reca all’esterno come unico ornamento due mensole figurate: una testa maschile, con orecchie faunesche e corona, e una femminile di straordinaria bellezza. Secondo una recente proposta, la particolare struttura della cappella rispecchia soluzioni adottate sulla fine del XII secolo in ambito crociato (nel Krak dei Cavalieri o a Marqab). Il castello, oggi proprietà demaniale e sede del Corpo Forestale dello Stato, ospita numerose attività culturali e dal 2000 accoglie l’Antiquarium realizzato con i materiali medievali rinvenuti durante le campagne di scavo effettuate nel cortile minore alla fine degli anni Novanta.
Dove e quando Castello di Lagopesole Avigliano, via Castello Orario estivo: tutti i giorni, 9,30-13,00 e 16,00-19,00 invernale: 9,30-13,00-15,00-17,00 Info tel. 0971 86083; www.comune.avigliano.pz.it, www.aptbasilicata.it
venosa
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l castello, a pianta quadrata con torri cilindriche agli angoli, è attribuito al periodo aragonese. Fu costruito, infatti, nel 1470 per volontà del duca Pirro del Balzo Orsini, che probabilmente promosse la radicale trasformazione di una fortezza precedente. La struttura, infatti, conserva ancora alcune caratteristiche delle fortificazioni angioine, in particolar modo nelle torri, una delle quali è contornata alla base da una controtorre scarpata tipica del primo Quattrocento. Molte sono le affinità morfologiche con il Castel Nuovo di Napoli. Le fabbriche che si affacciano sul grande cortile interno appartengono invece ai secoli XVII-XVIII. Nelle torri alcuni ambienti erano utilizzati come segrete: sulle loro pareti rimangono ancora i graffiti incisi nel passato dai prigionieri. INFO tel. 0972 36095; www.comune.venosa.pz.it, www.aptbasilicata.it
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elfi era nel Medioevo una delle capitali del Meridione d’Italia e disponeva di una rocca inespugnabile. Nella fortezza, sorta nell’XI secolo su un’altura, furono
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Melfi sottoscritti trattati di pace e, soprattutto, si tennero concili che stabilivano concessioni da parte del pontefice ai sovrani normanni. Nei locali del maniero, nel settembre del 1089, Urbano II indisse la prima crociata. Con l’arrivo degli Svevi, il castello continuò a rivestire una funzione centrale dal punto di vista politico: Federico II lo restaurò, ampliandone la struttura, e nei suoi locali fece promulgare le Costituzioni di Melfi, che dotavano il regno di Sicilia di un ordinamento normativo, documento base per le formulazioni teoriche dello Stato moderno. In epoca angioina il castello rimase in un certo senso residenza di potere, ospitando la moglie di Carlo II d’Angiò, Maria d’Ungheria. La sua fisionomia cambiò nel Cinquecento,
con l’avvento degli Aragonesi, ma non perse mai le forme squadrate tipiche dell’era normanno-sveva. Oggi l’imponente monumento presenta ben dieci torri (pentagonali e rettangolari) e ospita il Museo Archeologico Nazionale del Melfese «Massimo Pallottino». info tel. 0972 238726; e-mail: sba-bas.melfimuseo@beniculturali.it; www.basilicata.beniculturali.it
miglionico
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osto su una collina che domina la valle del Bradano, il castello medievale del Malconsiglio di Miglionico, nel Materese, fu il teatro della Congiura dei Baroni del 1485, movimento di nobili che si opponeva alla politica centralista degli Aragonesi nel regno di Napoli. La rivolta, poi, venne sedata nel sangue. La fondazione della rocca, tuttavia, risulta piú antica e risale all’VIII-IX secolo. Nel XII secolo il conte Alessandro di Andria avviò pesanti ristrutturazioni e, in età rinascimentale, la signoria dei Revertera trasformò la rocca in grande palazzo baronale. Le modifiche, comunque, non intaccarono il profilo medievale dell’edificio, tuttora evidente. INFO tel. 0835 559005; www.miglionico.gov.it
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Il diavolo fa le travi... di Francesco Colotta
U
n altopiano dai versanti scoscesi, un sito elevato, in poche parole, il luogo ideale per un castello fortificato. E Santa Severina, nel Crotonese, va giustamente orgogliosa della sua rocca, che fu teatro di eventi storici decisivi per l’assetto politico di questo lembo della Calabria. Gli studiosi divergono sulla nascita e lo sviluppo dell’edificio, che fu prima acropoli della città antica, con muraglie di sbarramen-
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to, poi presidio bizantino, capace di resistere all’occupazione degli Arabi, i quali, infine, vi installarono il comando militare e amministrativo. La fondazione viene in ogni caso attribuita a Roberto il Guiscardo, in epoca normanna (come attesta una moneta rinvenuta nel castello stesso), il quale, secondo altri studiosi, cinse d’assedio la roccaforte e dovette desistere per il tradimento di un tal Ruggero. A lungo, comunque, la fortezza fu
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Santa Severina
Santa Severina, nel Crotonese,è dominata dalla possente fortezza che la tradizione attribuisce al normanno Roberto il Guiscardo. Un castello che, poco prima dell’abbandono, avrebbe fatto registrare sinistre presenze demoniache...
considerata inespugnabile, ed era certamente di costruzione normanna il torrione centrale con una base dello spessore di 3 m. Nel periodo angioino furono invece aggiunti torrioni cilindrici agli angoli del mastio. A quell’epoca Santa Severina godette di privilegi concessi dai sovrani Carlo I e II, ed ebbe capitani e castellani di scelta regia. Ma le successive vicende belliche provocarono danni profondi alla struttura fortificata.
Alla metà del Quattrocento, divenuto feudo del marchese di Crotone, che si opponeva ad Alfonso d’Aragona, subí l’assalto del re, deciso a sgominare il ribelle, del quale conquistò tutti i possedimenti. La città si arrese, ma ottenne alcune concessioni: una era appunto quella di non far gravare sulla popolazione le spese per il restauro del castello. Il re nominò governatore a vita Pietro Boccadefaro, il quale assumeva per sé le cariche di capitano e
Veduta della rocca di Santa Severina (Crotone). Il castello occupò lo stesso sito che, in epoca antica, aveva ospitato l’acropoli della città e poi un presidio dei Bizantini.
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Santa Severina
responsabile del maniero, incorporato nei feudi di Antonio Centelles, catalano, elevato a principe di Santa Severina.
Un secolo in chiaroscuro
Nel 1466 il monarca restituí la libertà alla città-castello e ai suoi casali, impegnandosi a non concederli piú in feudo. Ma la fortezza e la zona circostante persero importanza a causa del ruolo maggiore conferito a Crotone, e, con l’introduzione delle armi da fuoco, quelle fortificazioni erano ormai obsolete. La città, intanto, perdeva lo status di demanio: venduta ad Andrea Carafa, contro la volontà degli abitanti, con l’arrivo degli Spagnoli non ebbe piú un castellano di nomina regia. Subentrò quello voluto dal conte di Capaccio, luogotenente del viceré Raimondo de Cardona. Ripresero assedi, devastazioni e gli abitanti subirono pesanti vessazioni: chi non perse la vita o non riuscí a fuggire fu privato di tutti i suoi averi. Unico aspetto positivo fu che il castello ebbe nuovi rifacimenti e venne potenziato. Nel Cinquecento Andrea Carafa progettò la ristrutturazione della rocca, con costruzioni difensive, muri, fossati, bastioni per bombar130
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de. Su ciò che restava del castello bizantino i Normanni avevano eretto il nuovo nucleo centrale, e poi, ancora sotto il segno di Carafa, vi fu la ricostruzione che andava a coprire la parte di marca normanna. All’epoca di Federico II di Svevia, il castrum di Santa Severina era stato residenza imperiale, e gli alti funzionari – magistri, provisores – ne curavano la sorveglianza.
Un palazzo ricco e confortevole
Nel XVII secolo la nuova svolta nell’utilizzazione della struttura fu legata al costume civile dei nobili, alla loro abitudine di fare di Napoli la propria dimora e non i castelli periferici di loro proprietà. Ormai, per il cessare di attacchi pirati dalla costa, non era piú impellente l’esigenza di munirsi di un baluardo militare. Furono i Grutter a introdurre l’idea di un maniero isolato come dimora lussuosa per la nobiltà. Gli innovatori procedettero perciò a una nuova sistemazione degli spazi, ricavando sale e saloni ornati da preziose decorazioni pittoriche e un arredamento degno di tanto lignaggio. Al suo interno però, nei sotterranei, in secoli
Sulle due pagine tre immagini del castello di Santa Severina. La fondazione della fortezza viene attribuita a Roberto il Guiscardo, ma l’aspetto attuale è in larga parte frutto degli interventi avviati nel Cinquecento dai Carafa.
di dilagante esoterismo, vitalissimo fu invece il cumulo di storie fantastiche, dicerie demoniache e misteri alimentati dalle credenze popolari, secondo le quali il diavolo in persona si era impadronito del castello e vi svolgeva la sua canonica attività di compravendita di anime, in opposizione al potere del vescovo. Tutto ciò, si narra, avvenne in una notte, mentre il terrore s’era impadronito degli abitanti. Per molte notti risuonarono rumori di falegnameria: come di seghe, pialle e asce in piena attività. La spiegazione fu che il demonio lavorava a un tronco enorme, trasportato dalla Sila, con cui voleva superare per dimensioni e bellezza il palazzo vescovile. E, in passato, si raccontava che nelle scuderie del castello si potesse ancora vedere una trave lunga ben 18 m, che presentava segni di piallatura, senza ferri, né giunture...
Dove e quando Castello normanno Santa Severina (Crotone) Info www.comune.santaseverina.kr.it
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le castella (isola
di capo rizzuto)
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n tempo era altamente strategica, oggi la posizione di questo castello situato presso Capo Rizzuto è solo scenografica. La struttura faceva parte di un apparato difensivo che ebbe un ruolo fondamentale durante l’invasione turca in Calabria, costituito da un sistema di fortificazioni: da qui il nome Le Castella. La costruzione attuale è opera degli Aragona che, sul finire del XV secolo, realizzarono e potenziarono il sistema difensivo del Regno di Napoli per difenderlo dalle incursioni provenienti dal mare. Federico d’Aragona la cedette nel 1496 ad Andrea Carafa, il quale, tra il 1510 ed il 1526, fece edificare bastioni quadrangolari speronati. Quelle degli Angioni e degli Aragonesi sono le modifiche piú importanti del monumento, oggi ben visibili grazie ai restauri. Nel 1536 la fortezza fu assalita e saccheggiata dal corsaro algerino noto come il Barbarossa e, ancora, alla metà del secolo, dall’altrettanto famoso pirata turco Dragut. INFO info www.comune.crotone.it, http://atlante.beniculturalicalabria.it
Le Castella
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san marco
argentano
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a motta è una collinetta di terra naturale o artificiale con una fortificazione in legno sul vertice (vedi, nell’introduzione, alle pp. 8-9): cosí è raffigurata nel telo ricamato di Bayeux e cosí, forse, fu in origine anche quella di San Marco Argentano quando il normanno Roberto il Guiscardo la costruí (altri autori l’attribuiscono ai fratelli Guglielmo e Ungado Drogone). Poi la conquista si stabilizzò e non mancò il tempo per sostituire le troppo fragili strutture in legno con opere murarie sulle quali, nel Trecento, sarebbe stata ricostruita l’attuale grande torre rotonda.
Al periodo aragonese, invece, risalirebbero la torre quadrata posta all’ingresso e l’anello murario basso. INFO www.comune. sanmarcoargentano.cs.it
reggio calabria
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onsiderato, insieme ai Bronzi di Riace, il principale monumento della città, il castello aragonese di Reggio Calabria ha un’anima che affonda le radici addirittura nell’antichità. La collina su cui sorge, infatti, era un avamposto chiave per la difesa del territorio fin dai tempi della
gerace
Reggio Calabria dominazione greca. Investirono quel sito della stessa importanza strategica, poi, i Bizantini e i Normanni che costruirono alcune fortificazioni. La prima testimonianza documentale sull’esistenza della rocca risale al VI secolo, ma le tracce piú visibili riportano al XII secolo, all’epoca sveva. Lo fa presumere il profilo del maniero calabrese, un massiccio edificio a pianta quadrata, con torri angolari della stessa forma. Gli Angioini aggiunsero alla struttura un cammino di ronda, mentre gli Aragonesi la dotarono di due torri circolari e di un rivellino. Nel XIX secolo il castello andò in rovina e la sua ristrutturazione è storia recente. info http://turismo.reggiocal.it
Rifugiarsi in siti imprendibili, ecco la storia tra l’VIII e il X secolo di gran parte dei paesi calabresi che dall’alto ammirano il blu del mare. Gerace non sfugge a questa regola, tanto che «l’imprendibilità» è la prima sensazione che prova il visitatore quando posa gli occhi su questo borgo. Fu cosí anche mezzo secolo prima dell’anno Mille. A quel tempo i conquistatori combattevano sotto la bandiera dell’Islam e Gerace era uno degli ultimi capisaldi bizantini in Calabria. «È impenetrabile!» si confidavano tra di loro i soldati, demoralizzati quanto i loro generali. La resistenza dei Geracesi fu energica a tal punto che i codici arabi del X secolo definirono Gerace «la piú fiera che si sia conosciuta». Due eserciti, due poderosissimi eserciti, uno nel 951, un altro nel 986, furono
Gli Arabi la ebbero solo per breve tempo, pochi anni, e tornò bizantina. All’arrivo dei Normanni le cose cambiarono, in meglio, non solo per Gerace, ma per tutta la Calabria. Nel 1059 il borgo fu conquistato con poca resistenza dalle truppe di Roberto il Guiscardo (1015-85), ma raggiunse l’apice con il conte di Sicilia e di Calabria Ruggero II (1105-54), tanto che il biografo del re, l’arabo al-Idrisi, definí Gerace «città bella grande e illustre». L’impegno dei nuovi conquistatori fu immediato. Col favore della corte, il borgo iniziò la sua crescita: decine di chiese, monasteri e conventi, nel XII secolo tutto fece di Gerace una cittadina viva. Oggi le vie del borgo sembrano deserte e si può ripercorrere l’antico tessuto urbanistico medievale in assoluto silenzio. Il castello si trova nella parte piú alta del paese e ci si arriva dopo una salita leggera ma costante.
Gerace
necessari alla sua conquista. Quell’accanimento arabo aveva le sue ragioni. Gerace non era ricca, non era un bottino da conquistare a tutti i costi, ma la sua importanza le derivava dalla posizione: si trovava, infatti, su una delle rotte di collegamento tra la Puglia e la Sicilia. Ma non solo, era la capitale amministrativa, militare e religiosa dell’intera regione. Quegli sforzi non furono premiati.
Fu Ruggero II a volerlo e oggi porta, piú che ogni altro monumento, le cicatrici del tempo. Le cronache raccontano che era inespugnabile ed era qui che la gente accorreva nei momenti difficili, durante gli assedi. Ristrutturato varie volte, fu il terremoto del 1783 a infliggergli il colpo mortale. Domenico Gambardella INFO www.comune.gerace.rc.it
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sicilia
Erice
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l castello di Erice è adagiato sopra un mito: l’incantevole promontorio su cui si erge rievoca la figura di Venere e del suo santuario siciliano, nel quale accorrevano visitatori da tutto il Mediterraneo. Secondo la tradizione, il tempio era sorto per volere del figlio della dea Afrodite (la Venere dei Romani), Erix, il pugnace re greco che osò sfidare Eracle, pagando con la vita il prezzo della propria sfrontatezza. Anche le cronache meno leggendarie sulla sto134
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ria della città risultano suggestive e narrano la vicenda di un gruppo di esuli troiani in fuga, che trovarono su quell’altura un luogo ideale in cui stabilirsi. Dal loro incontro con le popolazioni locali ebbe origine la popolazione degli Elimi, i quali costruirono un santuario in onore della dea della fecondità Ericina, identificata dai Fenici con Astarte, dai Greci con Afrodite e dai Romani appunto con Venere. Questi ultimi, nel 244 a.C, conquistarono l’insediamento.
Nel segno di di Francesco Colotta
Venere Arroccato in uno splendido isolamento, il castello di Erice tradisce, fin dal nome, la straordinaria continuità d’uso del sito in cui fu innalzato
Nei secoli successivi, la diffusione del cristianesimo segnò l’inizio della decadenza per Erice. Si hanno, infatti, poche notizie della città riguardo al periodo iniziale del Medioevo, quando sulla Sicilia occidentale dominavano i Bizantini. Con l’arrivo dei Normanni, invece, l’ex capitale degli Elimi recuperò parte dell’antico prestigio politico e religioso Furono testimoni di questa rapida ripresa due noti geografi e viaggiatori arabi: al-Idrisi (1100-1166),
autore del trattato di geografia chiamato Il libro di Ruggero, e Ibn-Giubair (1145-1217). Entrambi citarono espressamente il Gebel Hamid, ossia l’altura di Erice, e il suo possente castello, che aveva preso il posto del celebre santuario di Venere. La presenza di quella massiccia fortezza documentava il rinnovato sviluppo del borgo, avviato dal nobile normanno Ruggero I d’Altavilla (1031-1101). L’aristocratico ribattezzò la città
Il Castello di Erice, detto «di Venere», perché sorto nello stesso sito in cui, in età antica, era stato innalzato un tempio dedicato alla dea.
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Erice
Monte San Giuliano, in omaggio al santo cristiano che gli era apparso in sogno salvando i suoi domini da un’incursione saracena. La rocca, quindi, divenne il monumento principale e fu, molto spesso, teatro delle successive guerre tra feudatari e monarchia sveva. I fasti e le leggende legati al vecchio tempio, a ogni modo, non caddero del tutto in oblio e sopravvivevano, per prima cosa, nel nome che la tradizione storica aveva assegnato allo splendido maniero: il «castello di Venere». Anche chi venne dopo i Normanni considerò la fortezza un presidio di fondamentale importanza per tenere sotto controllo un vasto territorio. Lo dimostrava il fatto che nel Cinquecento, in piena era aragonese, Erice avesse la stessa importanza strategica di grandi centri come Siracusa, Messina e Agrigento all’interno dei confini del regno spagnolo di Sicilia.
La resurrezione delle torri
Oggi la facciata del castello, che si affaccia verso nord-ovest, presenta ancora le merlature bifide, comunemente note come «ghibelline». Nel Medioevo, il complesso era collegato alle sottostanti torri del Balio, attraverso un ponte levatoio, mentre ora a unirle provvede un viadotto, una cordonata a larghi gradoni. Le torri, nel corso dell’età di Mezzo, erano la sede del bajulo, il luogotenente a cui il sovrano di turno delegava incarichi di rilievo nella zona, come per esempio l’istruzione di processi civili e le attività 136
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Un’altra veduta del castello di Venere, la cui costruzione si deve ai regnanti normanni.
di riscossione delle imposte. La sopravvivenza di buona parte delle costruzioni medievali si deve anche alla meritoria iniziativa del conte Agostino Pepoli, il quale, nell’Ottocento, si accollò l’onere della restaurazione della cortina merlata e delle torri, una delle quali era ridotta a un cumulo di macerie. Inoltre, dagli spazi circostanti, il nobile ricavò un grande giardino all’inglese, realizzando un vero e proprio monumento naturale che, oggi, rappresenta una delle principali attrazioni della città. Dai numerosi belvedere del piccolo parco si possono ammirare viste spettacolari su Trapani, le isole Egadi, la costa di Marsala, il monte Cofano e Ustica.
Dove e quando Castello di Venere Erice Orario gen-ultima dom mar: feriali su prenotazione, sa e festivi, 10,00-16,00; dal giorno successivo all’ultima domenica di mar-mag: tutti i giorni, 10,00-18,00; giu-14 lug: tutti i giorni, 10,00-19,00; 14 lug-14 set: tutti i giorni, 10,00-20,00; 15 set-ultima dom ott: tutti i giorni, 10,00-19,00; dal giorno successivo all’ ultima domenica di ott-dic: feriali su prenotazione, sa e festivi, 10,00-16,00 Info www.comune.erice.tp.it
Enna
enna
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robabilmente per la sua posizione strategica, al centro della Sicilia, Enna divenne la piazzaforte piú importante ed estesa dell’isola durante il periodo svevo. Già in precedenza era stata però una roccaforte bizantina, araba e normanna. La città è dominata dal castello di Lombardia, che deve il suo nome forse alla presenza di una numerosa colonia lombarda. Il castello, per la sua estensione, era capace di ospitare una numerosa guarnigione e in questo può essere paragonato al castello di Lucera in Puglia. È internamente diviso in tre cortili: quello degli «Armati» o di «S. Nicola», quello della «Maddalena» e quello di «S. Martino», il ridotto del castello, l’unica parte che con qualche certezza possa essere riferibile al periodo svevo. Infatti, pur comparendo nell’elenco di quelli imperiali già dal 1239, il castello, ha subito distruzioni e ricostruzioni che ne rendono
particolarmente complessa la lettura. Alla morte di Federico II venne devastato dalla popolazione locale. Ricostruito, fu utilizzato dagli Angioini e dagli Aragonesi, poi perse gradualmente importanza tanto da essere trasformato, nel XVI secolo, in carcere, destinazione d’uso che ha mantenuto fino agli inizi del secolo scorso. Da segnalare, su una collina a ovest della città, anche la cosiddetta «torre di Federico», un edificio probabilmente con carattere residenziale a pianta ottagonale, alto 24 m e circondato da una cortina muraria della stessa forma. Anche in questo caso, per mancanza di fonti certe, le attribuzioni sono controverse; una delle piú accreditate sembra quella che fa riferimento proprio a Federico II. INFO www.comune.enna.it
Caccamo
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l castello di Caccamo domina dall’alto di una scoscesa rupe
calcarea l’omonimo paese. La sua posizione e la vicinanza a Palermo lo hanno reso per secoli un punto strategicamente molto importante. Le prime notizie risalgono al 1094, quando il castello era di proprietà di Goffredo de Sageyo. Poi passò ai Bonello ed è proprio qui che si rifugiò Matteo Bonello con gli altri congiurati dopo il fallimento della rivolta che per un breve periodo (nel 1161) aveva ridotto in prigionia Guglielmo I il Malo, re di Sicilia. Poi il castello passò ai Chiaramonte, ai Prades, agli Henriquez, agli Amato. Dal 1963 è proprietà della Regione. Il suo aspetto attuale è il risultato di secolari lavori di ampliamento e ristrutturazione che hanno inglobato, forse distrutto, ma senz’altro reso irriconoscibile, l’originario nucleo normanno. La parte piú antica del complesso sembra essere la torre che fiancheggia, assieme a una cappella, il secondo ingresso. INFO tel. 091 8103207 (Ufficio del Turismo); www.comune.caccamo.pa.it
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sicilia
Siracusa
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castelli d’italia
all’estremità del promontorio di Ortigia, è naturalmente difeso su tre lati dal mare. Ha, come Castel Ursino a Catania, pianta quadrata con torri angolari rotonde. Rispetto a quest’ultimo rivela, però, una maggior accuratezza costruttiva dei conci delle mura esterne. All’interno il pianterreno aveva 24-25 campate voltate con crociere costolonate, tipiche dell’architettura sveva, sorrette da colonne e capitelli di notevole pregio. Purtroppo, il disastroso terremoto del 1693 prima e l’esplosione della polveriera nel 1704, oltre a un lungo periodo di
Adrano
paternò
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isura alla base 18 m per 24,30, ha un’altezza di 34 m, mura spesse da 2,60 a 3 m: è il dongione piú grande della Sicilia. Il grosso parallelepipedo, di lava nera bordato di calcare bianco, venne probabilmente eretto pochi anni dopo l’inizio dell’invasione normanna (intorno al 1073) da Ruggero il Gran Conte. La torre, pur essendo la dimora del signore, ha l’aspetto difensivo particolarmente curato; l’accesso, per esempio, è stretto e rialzato rispetto al piano circostante e la scala, oggi in muratura, originariamente doveva essere in legno per facilitarne la rimozione in caso di pericolo. L’interno è diviso in tre piani: dal primo piano, dove si trova la cappella, si raggiungevano quelli superiori attraverso una scala ricavata nello spessore murario. Le due grandi bifore dell’ultimo piano sembra siano state aperte da Federico II che qui soggiornò piú volte. INFO www.comune.paterno.ct-egov.it
adrano
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ome a Paternò, siamo anche qui in presenza del classico dongione normanno, una grossa torre contemporaneamente dimora signorile e presidio militare.
Per dimensioni il dongione di Adrano si avvicina molto a quello di Paternò, 20 m per 16,70 di base con un’altezza di 33,70, in pietra lavica. La costruzione del torrione risale all’XI secolo e viene attribuita a Ruggero il Gran Conte. La base è stata incamiciata in epoca successiva, forse nel XV secolo, con quattro torrioncini angolari la cui elegante scarpatura ricorda quella di Castel Nuovo a Napoli. L’interno era ripartito su quattro piani: alcuni voltati a botte o a crociera e altri con solai lignei. L’ingresso originario era probabilmente la porta ogivale oggi raggiungibile dal piano della incamiciatura. Fino a non molti anni fa era utilizzato come carcere, mentre oggi vi è sistemato il Museo Regionale di Adrano, che espone materiali archeologici che raccontano 5000 anni di storia del territorio. INFO tel. 095 7692660; www.comune.adrano.ct.it
siracusa
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l castello, pur avendo il nome del generale bizantino Giorgio Maniace che, nel 1308, lo conquistò per un breve periodo, nulla deve a questo personaggio; l’opera, infatti, fu realizzata dall’imperatore Federico II verso la fine degli anni Trenta del XIII secolo. Costruito sulla viva roccia,
Paternò
abbandono, hanno fatto sí che della copertura originaria sia rimasta solo la parte sud-orientale. Fino al 1860 fu una prigione, poi una caserma. Le fortificazioni che lo circondano, volute da Carlo V, risalgono agli anni Trenta del XVI secolo. Nel 1838 Ferdinando II di Borbone rinforzò la punta estrema del promontorio con una casamatta. INFO tel. 0931 464420; www.regione.sicilia.it/beniculturali
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Burgos
Goceano di Francesco Colotta
senza pace
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l castello di Burgos, nel Sassarese, fu uno dei molti edificati da Pisani, Genovesi, Doria, Malaspina e dai Giudici (i sovrani locali). Spiccava alla sommità di un colle roccioso e trasse il proprio nome dal borgo sottostante. La costruzione, nel territorio del Goceano (zona della Sardegna centro-settentrionale), si fa risalire al XII secolo ed è attribuita a Gonario II di 140
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Torres, che aveva sconfitto la potente famiglia degli Arzeni. In posizione elevata e rupestre, quindi di difficile accesso, il castello era racchiuso in una triplice cinta di mura (di cui ben poco è rimasto), con una corte al centro e una torre massiccia rivestita con lastre di granito. Una struttura, insomma, che assicurava il predominio della regione a chi lo possedesse. Cosí
Il castello del Goceano di Burgos è oggi il muto testimone di importanti episodi storici e numerose efferatezze. Queste ultime, in particolare, non hanno mancato di dare adito a molte leggende, di cui sono protagonisti condottieri spietati e regine bellissime...
lo considerò nel 1194 il giudice Costantino di Torres, rivale del giudice di Cagliari, Guglielmo di Massa, tanto da farvi rifugiare la propria moglie Prunisenda con pochi armati. Ma l’avversario assaltò il castello e violentò la regina dopo averla incarcerata e trascinata altrove. La sovrana morí di dolore per l’oltraggio subito. Lo sconfitto Costantino chiese aiuto alla Re-
pubblica di Pisa, ma, soprattutto grazie all’intervento del legato pontificio, fu raggiunta la pace, accompagnata da varie concessioni, fra cui proprio il castello di Goceano, assegnato a Guglielmo. Pisa, però, fece valere il suo peso politico appropriandosene con la forza. Costantino, a sua volta, non si diede per vinto e, poco piú tardi, riconquistò la fortezza.
Il Castello del Goceano di Burgos, i cui resti dominano ancora oggi il borgo del Sassarese.
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Burgos
Nel 1233 fra le mura di Burgos si consumò un altro delitto. A quel tempo apparteneva al giudice Barisone di Torres, inviso a Ubaldo Visconti, che mirava ad avere la fortezza per sé. Quest’ultimo fece assassinare il giudice da alcuni sicari, ma, poco dopo, morí anch’egli e la vedova, la bellissima regina Adelasia, convolò a nozze con Enzo, figlio dell’imperatore Federico II. Enzo ricevette il titolo di re di Sardegna e Adelasia entrò nella leggenda. Era credenza popolare, infatti, che nelle notti di luna piena la sovrana vagasse nel castello, evocando i giorni in cui con l’amato Ubaldo cavalcava su un bianco destriero per cacciare la selvaggina.
Le ambizioni del giudice d’Arborea
Oltre i Pisani anche i Genovesi si inserirono nelle lotte fra nobili sardi e cosí il castello di Goceano divenne preda dei potentissimi Doria. Nell’isola, a ogni modo, andava rafforzandosi il ruolo del giudice d’Arborea, il quale intendeva fare del suo regno uno Stato egemone. Riuscí a conquistare la fortezza e, in seguito, la potenziò al punto da neutralizzare un assedio dei Pisani, i quali, dopo aver subito altre sconfitte, abbandonarono per sempre la Sardegna. La storia di Burgos vide altri interventi di potentati esterni. Nel 1338 il sovrano Alfonso d’Aragona, insediatosi da dieci anni sul trono, concesse a Mariano d’Arborea il possesso del castello e poi lo insigní del titolo di conte del Goceano. Ma l’armonia tra i due non doveva durare molto: Mariano dichiarò guerra a Pietro IV d’Aragona, detto il Cerimonioso, e lo sconfisse. E malgrado le successive vicissitudini, il castello restò saldamente nelle mani
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castelli in italia
In basso un’altra veduta del castello di Burgos, la cui costruzione viene attribuita a Gonario II di Torres, nel XII sec.
del giudicato di Arborea. All’inizio del Quattrocento nella rocca s’installò il bandito Bartolo Manno. Alla testa di altri criminali seminò il terrore, ma il marchese d’Oristano riuscí a bloccarlo nel castello e lo fece uccidere dai suoi stessi complici. Nel corso del XV secolo il castello fu abbandonato e cadde in rovina. I titoli feudali di marchese di Oristano e conte di Goceano passarono al re di Sardegna. Al riscatto dei feudi, nel 1838, il titolo fu assunto dal capo della casa reale di Savoia. Le leggende sul castello, in compenso, continuarono a essere tramandate e le ritroviamo anche nei romanzi di Grazia Deledda. Una in particolare diventò un classico: narrava che nel sotterraneo della fortezza si trovavano due botti identiche, una colma d’oro e gemme e l’altra di mosche velenose. In molti penetravano nel sotterraneo per impossessarsi del tesoro, ma non sapendo quale botte contenesse i preziosi, evitavano di rischiare. Sbagliando, avrebbero consentito alle mosche di invadere le colture circostanti e di distruggerle. Nel dubbio, allora, gli incursori uscivano sconsolati dal castello, poveri come prima.
Dove e quando Castello del Goceano Burgos Orario estivo: tutti i giorni, 8,30-13,00 e 15,30-18,30 (chiuso il lunedí, se non festivo); invernale: tutti i giorni, 8,30-12,00 e 13,30-17,30/18,00 Info tel. 079 793505; www.comuneburgos.gov.it, www.sardegnaturismo.it
conseguenza dell’epilogo dello scontro, il castello divenne, per molti anni, una delle residenze dell’aristocrazia spagnola. Di forma quadrata, presenta in buona parte i suoi antichi lineamenti trecenteschi e oggi ospita il Museo del Duca D’Aosta e il Museo delle ceroplastiche (400 opere circa comprese fra il XVI e il XIX secolo). È inoltre possibile visitare lo studio del generale Nino Villa Santa (appartenente alla famiglia che detiene la proprietà dell’edificio) con la sua corrispondenza con Gabriele D’Annunzio, i ricordi legati alla famiglia di Napoleone, le stanze da letto arredate con mobilio del XVII, XVIII e XIX secolo, la sala Gondi, la Stanza della caccia e la stanza delle regine. INFO www.sardegnacultura.it, www.castellodisanluri.it
CASTELsardo
Sanluri
sanluri
L
a rocca di Sanluri, nella provincia sarda del Medio Campidano, rievoca un periodo turbolento della storia medievale dell’isola. Fatta costruire dagli
In alto Madonna con Bambino, San Giovannino e angeli, olio su tela attribuito ad Agnolo Bronzino (1503-1572). Sanluri, Castello di Eleonora d’Arborea.
Aragonesi nel 1355, su una precedente struttura del XII secolo, subí l’assedio delle truppe del Giudicato di Arborea nel corso della celebre battaglia di Sanluri del 1409, che si concluse con il trionfo degli Iberici. In
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ll’inizio si chiamò Castel Genovese, quindi Castel Aragonese e infine Castelsardo: passa attraverso queste tre denominazioni, succedutesi nell’arco di diversi secoli, la storia di un piccolo e grazioso borgo situato
Castelsardo
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sulla costa settentrionale della Sardegna. Sulle origini di Castelsardo, e soprattutto sulla data di fondazione, regna l’incertezza: qualche studioso locale ha parlato dell’anno 1102 (nel 2002 la cittadina ha ritenuto di celebrare ufficialmente il novecentesimo anniversario con manifestazioni, mostre e convegni), ma occorre precisare che non esiste alcuna prova certa di questa data. Almeno su un punto, però, gli storici concordano: la prima denominazione – Castel Genovese – è da attribuire senza dubbio alla famiglia genovese Doria. Qusti ultimi ebbero una parte rilevante nella storia della Sardegna. Da Genova, loro patria di origine, partirono alla ricerca di nuovi territori nei quali poter esercitare la loro attività di mercanti, approdarono ben presto sull’isola e vi dimorarono per circa trecento anni, lasciando profonde impronte presenti ancora oggi: basti pensare, per esempio, agli attuali toponimi di Valledoria, Castel Doria e Monteleone Rocca Doria. Castel Genovese nacque come primo insediamento sulla rocca di Bellavista, uno sperone di roccia di trachite rossa alto 114 m sul mare, e potrebbe avere avuto, almeno inizialmente, finalità militari, o comunque legate al controllo dei traffici marittimi: dalla sommità di quella rocca, infatti, è possibile controllare un tratto di mare vastissimo e, nelle giornate piú limpide, lo sguardo può spaziare dall’isola dell’Asinara, da una parte, fino alle Bocche di Bonifacio e alle vette innevate della Corsica dall’altra. Fu edificato un castello, utilizzando esclusivamente la pietra locale, un castello che ancora oggi, pur essendo di dimensioni ridotte, ostenta una certa imponenza, soprattutto dalla parte del mare, con le sue mura alte e possenti, a picco sulla scogliera. Dopo la fortificazione della rocca di Bellavista, iniziò a prendere corpo attorno al castello un piccolo villaggio abitato da soldati, pescatori,
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lavoratori della terra, artigiani e piccoli commercianti. Anche il villaggio venne fortificato con un’ulteriore cinta di mura che prevedeva due soli accessi, uno verso il mare e un altro verso l’entroterra: divenne in pratica una città-fortezza che aumentò di dimensioni e di importanza. I Doria (o almeno uno dei rami sardi in cui la famiglia si era divisa) decisero di dimorare stabilmente nel castello e Castel Genovese divenne in breve uno dei centri piú importanti della Sardegna. L’impianto urbanistico ricalca le tipiche architetture dei villaggi medievali, in particolare di quelli liguri, e rappresenta l’unico esempio del genere rimasto in Sardegna: stradine strette e talvolta molto ripide (i cosiddetti «carrugi»), pavimentate con lastroni di pietra, disposte a gradoni e collegate tra di loro da un labirinto di scalinate e archivolti. I Doria dimorarono per circa tre secoli a Castel Genovese, salvo una breve parentesi, intorno alla metà del Duecento, quando la rocca fu venduta a un’altra famiglia nobile proveniente da Oltremare, i marchesi Malaspina di Mulazzo nella Lunigiana, già presenti in altri villaggi della Sardegna. Fu infine Branca Doria, che Dante collocò nel girone dei traditori dell’Inferno per essersi reso colpevole dell’uccisione del suocero Michele Zanche, a riacquistare Castel Genovese nel 1282. Da allora (e da questo momento i documenti diventano ufficiali) lo stendardo della famiglia genovese ha continuato a sventolare ininterrottamente sul torrione piú alto del castello fino al 1448 quando, dopo un assedio durissimo durato oltre dieci anni, gli Aragonesi riuscirono a conquistare la rocca. Probabilmente la fame, o forse il tradimento di alcuni ufficiali, determinarono la caduta di Castel Genovese, poiché nessun esercito, a detta di tutti, avrebbe mai potuto espugnarlo. Niccolò Doria, ultimo esponente della famiglia, si arrese alle armate spagnole e da allora la
Bosa rocca, in ossequio ai nuovi padroni, prese il nome di Castel Aragonese. Lo sviluppo del villaggio non conobbe sosta, divenne sede vescovile e ottenne l’ambito titolo di «città regia»: solo Cagliari, Sassari, Villa di Chiesa (l’attuale Iglesias), Alghero, Oristano e Bosa poterono fregiarsi di questo appellativo, che veniva concesso direttamente dal sovrano e che determinava una certa autonomia amministrativa, con la possibilità di inviare propri rappresentanti alle Cortés di Madrid. Il dominio spagnolo a Castel Aragonese, e in tutta la Sardegna, ebbe termine nel 1720, quando l’isola fu ceduta alla dinastia sabauda. Ma solo nel 1769 Castel Aragonese cambiò nome ancora una volta: il re di Sardegna Carlo Emanuele III di Savoia, acconsentendo a una richiesta della popolazione locale, decise di darle ufficialmente il nome di Castelsardo, che è diventato definitivo e che sembra, senza ombra di dubbio, il piú appropriato e il piú legittimo. Da segnalare che il castello ospita il Museo dell’Intreccio Mediterraneo , uno dei piú importanti musei della Sardegna, dedicato alla locale tradizione dell’intreccio dei cestini e altri utensili della vita quotidiana. Alberto Maisto INFO tel. 079 471380; www.castelsardoturismo.it
bosa
Posada
S
ette torri poligonali e quadrate svettano sopra la collina che sovrasta l’abitato di Bosa, nell’Oristanese. Il castello, edificato dai marchesi Malaspina nel XII secolo, rivoluzionò l’assetto urbanistico del borgo che si sviluppò a ridosso della fortezza e non piú nella zona di Bosa Vetus, a sud-est. La costruzione del mastio risale al Trecento, mentre le torri poligonali furono aggiunte nel Quattrocento, insieme alla chiesa di Nostra Signora de sos Regnos Altos. Nel Rinascimento appartenne agli Aragonesi e in età moderna fu in parte smantellato. INFO www.comune.bosa.or.it
posada
N
el Medioevo, Posada, nel Nuorese, fu terra di confine tra il regno di Gallura e quello d’Arborea. Nel suo distretto sorse nel XII-XIII secolo, per opera dei governanti del Giudicato di Gallura, un castello chiamato «della Fava». Il curioso nome è legato a una leggenda che rievoca un attacco turco alla città, sferrato nel Trecento. Gli abitanti fecero mangiare a un piccione tutte le fave di cui disponevano e poi lo
ferirono, in modo che potesse cadere nell’accampamento nemico. I Turchi, notando la pancia piena del volatile, dedussero che a Posada ci fossero grandi riserve di cibo per poter resistere a un lungo assedio e, quindi, si ritirarono. Tornando alla storia, il maniero alla fine del XIII
secolo venne conquistato dai Pisani che lo cedettero agli Aragonesi e, infine, appartenne al regno di Arborea fino al XV secolo. L’attuale struttura è costituita da una torre a pianta quadrata e dai resti della cinta muraria di forma quadrangolare. INFO www.comune.posada.nu.it
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