Medioevo Dossier n. 4, 2013

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MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E Dossier

invasioni

barbariche alle origini dell’europa

invasioni barbariche

Bimestrale - My Way Media Srl

€ 6,90 N°4 2013



invasioni

barbariche alle origini dell’europa di Federico Marazzi

4 Presentazione La fine di un mondo Un volto nuovo

Clodoveo

6 Ha ancora senso chiamarli «barbari»?

80 La prima Francia

Roma al declino

I Visigoti

18 Paralisi di un sistema

94 Signori di Spagna

Il V secolo

Gli Ostrogoti

36 La grande crisi

104 I piú «romani» dei barbari

Gli Unni

I Longobardi

54 I diavoli della steppa

118 Una nuova Italia

I Franchi

I barbari, oggi

64 Un popolo in cerca di radici

132 Un’identità da ridefinire


barbari

Presentazione

La fine di

un mondo I

l crollo dell’impero romano, in particolare della sua metà occidentale, durante il V secolo d.C., non può essere paragonato a nulla di ciò che l’Occidente ha conosciuto prima o dopo. Si è trattato di un cataclisma profondo, che ha modificato non solo l’assetto politico di un’area compresa tra la Libia e la Scozia e tra i territori della regione balcanica e il Portogallo, ma che ha coinvolto ogni aspetto della vita sociale, economica, amministrativa e culturale. In meno di un secolo (all’incirca dal 410 al 480 d.C.), tutte queste regioni, che erano unite politicamente da almeno trecento anni, si trovano

spezzate in tante entità politiche diverse, dominate da genti entrate armi in pugno nelle terre dell’impero, dopo un lungo percorso di migrazioni fra Asia ed Europa dell’Est. Esse non avevano mai sperimentato prima la vita organizzata in modo stanziale, né edificato Stati simili a quello romano; non avevano neppure mai conosciuto la cultura scritta, né prodotto insediamenti di tipo urbano, quali quelli disseminati dai Romani all’interno dell’impero. Il mondo dei «barbari» comprendeva al proprio interno popoli diversi per lingua e religione, strutture familiari e tradizioni sociali.


Il loro arrivo all’interno dell’impero ha determinato, dunque, un cambiamento radicale di prospettive anche per le popolazioni che vi risiedevano e che furono sottomesse militarmente dai nuovi venuti, spinti da un dinamismo militare inarrestabile. Questi popoli, peraltro diversissimi anche fra loro e che i Romani accomunavano sotto la generica definizione di «barbari», cioè persone incapaci di esprimersi correttamente, ebbero tuttavia atteggiamenti diversi rispetto al mondo romano che andavano a conquistare. Alcuni di loro, per esempio, avevano vissuto ai margini dell’impero per diversi secoli e, in un certo modo, avevano raggiunto una forte familiarità con esso, grazie ai traffici commerciali o al fatto di aver «prestato» propri uomini alle armate imperiali che, dal III secolo in poi, se ne servirono sempre piú spesso. Molti di questi popoli divennero tali solo al momento dell’impatto con l’impero, quando dovettero allearsi tra loro per affrontare le armate romane, ben organizzate e capaci di tenere testa abbastanza facilmente a piccoli gruppi di invasori. La storia dell’agonia dell’impero è anche la storia dell’agonia delle antiche società tribali dei popoli invasori, costretti comunque a «fare i conti» con la complessa realtà del mondo romano che avevano conquistato. E la fine dell’impero non è

solo la storia dello scontro militare con i «barbari», ma è anche la storia delle profonde – e forse insanabili – contraddizioni di un enorme organismo politico, che per secoli si era alimentato di guerre e predazioni presso i popoli conquistati, ma che si rivelò incapace di produrre uno sviluppo economico basato su forze endogene sufficientemente solide e dinamiche. Tutti questi aspetti, nel loro insieme, compongono un mosaico storico affascinante, complesso e anche drammatico; la vicenda di un «cataclisma storico» rimasto nel DNA dell’Occidente sino ai giorni nostri e che si cela ancora tra le pieghe delle inquietudini di un’Europa ricca e intenta a disegnare il proprio problematico futuro di convivenza con un mondo circostante, certamente assai diverso dalla «barbaritas» dei tempi antichi, ma che ci guarda spesso, come dominatori invidiati, da un orizzonte di povertà e disperazione. Studiare questo passato, nei suoi aspetti drammatici, ma anche nell’incredibile vicenda di incontro e integrazione fra popoli tanto diversi tra loro, è perciò ancora oggi profondamente istruttivo e affascinante.

Battaglia tra Romani e barbari, olio su tela di Aniello Falcone (1600?-1656). Madrid, Museo del Prado.


un volto nuovo 6

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A sinistra fibbia di cintura in argento e pietre preziose. Oreficeria visigota, V sec. d.C. Barcellona, Museo Archeologico. A destra e nella pagina accanto un orecchino e una fibula in forma d’aquila, in oro almandine, perle naturali e vetro verde, dal tesoro di Domagnano (San Marino). Oreficeria gota del periodo di re Teodorico (493-526). Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

Ha ancora senso chiamarli «barbari»? Le popolazioni che fecero vacillare e poi cadere l’impero di Roma furono viste come una sorta di castigo di Dio e il loro irrompere sulla scena interpretato come il preludio alla fine del mondo. Eppure, già qualche voce isolata del tempo e poi, piú massicciamente, la storiografia moderna hanno notevolmente ridimensionato quei giudizi e propongono un’immagine nuova delle «gentes externae»

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barbari

Un volto nuovo

L’

immagine delle frontiere dell’impero romano, affacciate sull’ignoto di un mondo di cui non si arrivava a percepire i confini, abitato da popolazioni selvagge e potenzialmente minacciose per la civiltà, appare, già chiara e drammatica, nelle parole di un anonimo scrittore di cose militari, attivo nel IV secolo: «Bisogna innanzitutto rendersi conto che il furore di popoli che latrano tutt’intorno stringe in una morsa l’impero romano e che la barbarie infida, protetta dall’ambiente naturale,

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minaccia da ogni lato i nostri confini. Infatti, questi popoli si nascondono per lo piú nelle selve o s’inerpicano sui monti o sono difesi dai ghiacci; alcuni invece vagano e sono protetti dai deserti e dal sole cocente. Ci sono poi popolazioni difese dalle paludi e dai fiumi, che non è facile scovare e che tuttavia lacerano la pace e la quiete con improvvise incursioni. Genti come queste, che si difendono ricorrendo alla natura dei luoghi o alle mura delle città e delle fortezze, devono essere aggredite con varie e nuove

Il sarcofago romano detto «Grande Ludovisi», con scena di battaglia tra Romani e barbari. III sec. d.C., Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.


macchine militari» (Anonimo, De Rebus Bellicis, par. 6; traduzione Andrea Giardina).

Accenti apocalittici

Nella cultura romana, dal III secolo d.C., inizia a essere fortemente presente la sensazione che coloro che popolano il mondo al di fuori dei confini, regno del disordine e della violenza, possano prima o poi sopraffare le difese militari e irrompere in quelle terre che secoli di governo romano avevano reso ricche e pacifiche. (segue a p. 12)

Le genti Germaniche Appartenenti alla famiglia linguistica indoeuropea, i Germani sono attestati archeologicamente a partire dalla tarda età del Ferro (fra il V secolo a.C. e l’inizio della nostra era), quando costituirono numerosi gruppi culturali, nella Scandinavia meridionale e nel Nord della Germania. È solo a metà del I secolo a.C. che un autore appartenente al mondo greco-latino, Posidonio, ne descrive per la prima volta l’esistenza e ne percepisce la natura di grande raggruppamento etnico suddiviso in gruppi autonomi fra loro. Successivamente, Cesare (I secolo a.C.), Plinio il Vecchio e Tacito (seconda metà del I secolo d.C.), e quindi Tolomeo (II secolo d.C.), apportano delle informazioni preziose sulla ripartizione geografica dei gruppi che compongono il mondo germanico e sui loro costumi. A partire da questi autori i diversi popoli germanici sono stati suddivisi in tre gruppi principali: i Germani del Nord, insediati nella Scandinavia e nello Jutland; i Germani dell’Est, presenti al di là dell’Elba; i Germani dell’Ovest, che occupano le terre fra Reno, Weser ed Elba. Questa classificazione tradizionale non è stata pienamente rispecchiata dagli studi archeologici e dei linguisti. I primi identificano un gruppo continentale (composto da Franchi, Alamanni, Longobardi e Baiuvari), un gruppo del Mare del Nord (Frisoni e Anglo-Sassoni), un gruppo goto-scandinavo, e un gruppo dell’Elba. I secondi, invece, mettono in evidenza una serie di aree culturali: Mare del Nord; sud della Scandinavia; Reno-Weser; Elba-medio Danubio e basso Oder e Vistola. Studi degli ultimissimi decenni hanno tuttavia sollevato il problema che la coesione dei popoli barbari riposi meno sulla loro appartenenza linguistica e culturale, che sulla loro adesione a delle dinastie e a consorterie aristocratiche.

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barbari

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popoli in movimento Nella fase piú recente di avvicinamento all’impero, quando si mettono in moto i grandi movimenti migratori (III secolo d.C), i popoli germanici appaiono suddivisibili in due grandi insiemi: quello dei Germani Occidentali e quello dei Germani Orientali. I primi, a loro volta, possono essere ripartiti in tre sottogruppi: il primo, verso l’Elba, comprende i Semnoni, gli Ermonduri (da cui deriveranno i Turingi), i Marcomanni, i Quadi (da cui deriveranno gli Svevi) e i Longobardi. Il secondo gruppo, stanziato presso il Mare del Nord, riunisce i Batavi, i Frisoni, i Chaqui e i Sassoni. Il terzo, collocato fra Reno e Weser, comprende Ampsivari, Chamavi, Brutterii, Tubanti, Usipeti, Ceruschi, Chatti e Salii. Alcuni di questi popoli nel III secolo si riuniscono in leghe militari, dando luogo ai Franchi, nel basso Reno, e agli Alamanni, nel medio Reno. Il gruppo dei Germani Orientali si forma nei bacini della Vistola e dell’Oder, durante l’età romana. I piú conosciuti dei popoli che lo compongono sono i Goti, i Gepidi, i Vandali e

INVASIONI INVASIONI BARBARICHE BARBARICHE E REGNI E REGNI ROMANO ROMANO - PITTI SCOTI

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IMPERO D’OCCIDENTE

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Sardegna REGNO DEI VA N D A L I M E D I Ippona Numidia

i Burgundi. La migrazione dei Germani Orientali verso sud-est, nei territori dell’Ucraina, della Moldavia e della Romania attuali (Goti e Gepidi), verso sud, nella regione carpatica (Vandali), e verso ovest, nelle aree dell’odierna Germania sudorientale, si produce nel corso del II e del III secolo d.C. A partire dalla fine del IV secolo, sotto la spinta degli Unni, questi popoli si spostano verso le regioni controllate dall’impero romano d’Occidente. 10

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Cartagine

Africa


- GERMANICI GERMANICI(IV (IV- VII - VIIsecolo) secolo)

Principali migrazioni dei popoli barbari

Situazione politica all’anno 476 JUTI

Unni

AR M AR B A LT I C O

Scandia

Alani, Vandali e Suebi

DANESI

Ostrogoti Visigoti

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Alamanni Angli, Sassoni e Juti

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Aquileia

Impero Romano tempo romano alal tempo di Diocleziano (284-305) Divisione dell’Impero dell’impero da parte di Teodosio (395)

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Razzie e spedizioni di Vandali marittime dei Vandali

Sirmio Belgrado

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Teodosiopoli

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In alto e a destra oggetti del corredo funebre di un guerriero alamanno, scoperto casualmente a Gültlingen (BadenWürttemberg, Germania) nel 1901. 460-480 d.C. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum. Nella pagina accanto Roma. Particolare dell’arco di trionfo di Settimio Severo con figure di Parti prigionieri. 203 d.C.

Trebisonda

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Tarso Antiochia Palmira


Il corso dell’imperoDistruzione, olio su tela di Thomas Cole. 1838. New York, New York Historical Society. Il dipinto è probabilmente ispirato al saccheggio di Roma da parte dei Vandali di Genserico del 455. Ma già nel 410 l’Urbe aveva subito un saccheggio da parte dei Visigoti di Alarico, evento che da molti era stato interpretato come un preludio della fine del mondo.

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Queste idee vengono talora espresse con accenti apocalittici, come se lo sconvolgimento dell’ordine stabilito da Roma dovesse essere il preludio alla fine del mondo. All’indomani del saccheggio di Roma da parte della popolazione germanica dei Visigoti, nel 410, san Gerolamo scriveva: «La costernazione ha paralizzato tutte le mie facoltà (…) Quando la fiamma piú brillante di tutto il mondo è stata spenta o, piuttosto, quando l’impero romano è stato decapitato e (...) quando l’universo intero è perito con la perdita della sola Roma, allora ho preferito tacere» (Commentario al profeta Ezechiele, prefazione; traduzione dell’autore). Eppure, quegli stessi Visigoti che avevano osato compiere l’estremo oltraggio nei confronti dell’impero, saccheggiandone l’antica capitale e gettando san Gerolamo nella piú cupa disperazione, non apparivano solo come cieche furie devastatrici anche a coloro che furono contemporanei di quegli eventi. Qualche anno dopo, lo scrittore cristiano Paolo Orosio descriveva il re visigoto Ataulfo, stabilitosi in Gallia con il suo popolo, come un uomo che si poneva con chiarezza il problema di convivere con i Romani e le

loro istituzioni, cercando di preservare, in qualche modo, l’edificio organizzativo delle istituzioni imperiali: «Ataulfo, che dopo l’invasione dell’Urbe e la morte di Alarico si era presa in moglie Placidia, la sorella dell’imperatore, caduta prigioniera (…). Costui (…), partigiano convinto della pace, preferí militare fedelmente sotto l’imperatore Onorio e impegnare i Goti a difesa dello Stato romano (...). Ataulfo, convintosi per lunga esperienza che né i Goti potevano in alcun modo ubbidire alle leggi, a motivo della loro sfrenata barbarie, né era opportuno abrogare le leggi dello Stato, senza le quali lo Stato non è Stato, scelse di procacciarsi con le forze dei Goti almeno la gloria di restaurare nella sua integrità, anzi d’accrescere il nome romano, e d’esser stimato presso i posteri restauratore dell’impero di Roma» (Storie contro i pagani, VII, 43, traduzione di Gioachino Chiarini).

Attualità di un dibattito

Dunque, il problema dell’impatto delle popolazioni che, fra IV e V secolo d.C., sono entrate nell’impero romano, sino ad abbatterlo completamente nella metà occidentale, non può


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essere liquidato come uno scontro fra due campi rigidamente avversi e separati fra loro. La realtà è complessa e tale appariva, come si è appena visto, anche ai contemporanei di quegli eventi. La riflessione su questa fase storica ha appassionato ininterrottamente gli intellettuali dell’Occidente, poiché essa è stata sempre sentita come uno dei grandi punti di svolta della nostra storia. In Italia e in Europa, da qualche decennio, gli studiosi di storia, di archeologia, di storia dell’arte e di storia della letteratura ne discutono con rinnovata passione. Questo dibattito aveva conosciuto in precedenza altri momenti di grande fermento. Tra la fine del XVIII e la prima metà del XX secolo esso si era alimentato con le riflessioni, emerse tra le classi piú colte d’Oltremanica, sui successi, ma anche sulle possibilità di durata dell’immenso impero britannico. D’altro lato, la discussione fu alimentata anche dall’acquisita consapevolezza, da parte dei Tedeschi (dal 1870 uniti in un nuovo e aggressivo impero) del ruolo determinante riconquistato nello scacchiere politico europeo. Essi si consideravano, per lingua e razza, gli eredi degli antichi invasori germanici dell’impero romano, e vedevano nella potenza prussiana il miglior risultato del connubio fra l’energia e il valore di quegli invasori e la tradizione di uno Stato militarmente forte ed efficiente nel governare, propria dell’impero di Roma.

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duecento anni cruciali

313 Editto di Costantino

406 I Vandali intraprendono una massiccia invasione della Gallia 410 Roma saccheggiata dai Visigoti

395 Morte di Teodosio: l’impero romano si divide in due parti

I resti del forte romano di Vercovicium, oggi noto come Housesteads, costruito a ridosso del vallo di Adriano, edificato per «separare i Romani dai barbari» e trasformatosi nel confine piú settentrionale dell’impero.

407 I Romani si ritirano dalla Britannia

420 Sant’Agostino scrive il De Civitate Dei 434 Attila diventa re degli Unni

449 Gli AngloSassoni arrivano sulle coste sud-orientali della Britannia

Anche il successo dell’unificazione d’Italia, che trovava il suo primo cemento ideale nel ricordo della conquista romana della Penisola, dalle Alpi alla Sicilia, aveva suscitato, presso gli intellettuali di casa nostra, una viva riflessione sui perché quell’unità si fosse sgretolata sotto i colpi delle «invasioni barbariche». Il medesimo dibattito aveva interessato anche i nostri «cugini» d’Oltralpe, impegnati a far quadrare i conti fra la matrice «latina» di tratti determinanti della propria identità culturale (primo fra tutti quello rappresentato dalla lingua francese), e il marchio portato dal nome stesso della loro nazione, «Francia», che rimandava direttamen-


481-482 Clodoveo I succede a suo padre Childerico I come re dei Franchi 455 Roma saccheggiata dai Vandali

493 Teodorico, della tribú degli Ostrogoti, diventa re d’Italia

476 Caduta dell’impero romano d’Occidente, ridotto alla sola Italia e parte della Gallia

527 morte di Giustino I: suo nipote Giustiniano diventa imperatore di Bisanzio

511 Morte di Clodoveo I: il regno dei Franchi è spartito tra i suoi quattro figli

te al ricordo di una delle popolazioni che avevano invaso l’antica Gallia romana all’inizio del V secolo, i Franchi, che, nell’arco di cent’anni, avevano stabilito il proprio dominio sulla quasi totalità di essa. Dunque, nell’Europa moderna, il dibattito sullo scontro fra Romani e «barbari» trovava alimento nella spinta delle principali entità nazionali a ricercare solide radici alla propria identità, ed eventualmente anche a sostenere iniziative per l’ampliamento della propria sfera d’influenza geopolitica.

Una discussione piú pacata

537 A Costantinopoli viene completata la basilica di S. Sofia

Oggi, le ragioni per rendere di nuovo attuale, in Europa, la discussione sulle dinamiche d’incontro e scontro fra l’impero di Roma e le «gentes externae» sono intrise di richiami al presente quanto – e forse ancor piú – di allora. Tuttavia, i connotati di queste ragioni sono differenti e il richiamo al passato – a quel passato – è meno diretto ed esplicito, e la discussione si svolge in genere con toni piú riflessivi e non cosí accesi. In Germania, per esempio, nessuno immaginerebbe piú di esaltare con accenti nazionalistici il trionfo dei Germani sui Romani e in Italia, l’arrivo dei Longobardi nel VI secolo, che spezzò dopo lungo tempo l’unità augustea della Penisola, non è piú percepito come una ferita viva nel corpo di un’identità patria di matrice esclusivamente latina. Questo cambiamento di prospettiva è stato imposto da diversi fattori, dei quali vale la pena ricordare almeno i piú importanti: con la fine della seconda guerra mondiale, in Italia e in Germania si è rapidamente sbiadito il nazionalismo «a tinte forti» dei decenni precedenti e, contemporaneamente, nel campo avverso si è assistito alla dissoluzione degli imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna. Successivamente, la nascita del progetto dell’Unione Europea ha posto perfino in discussione (almeno in linea di principio) il con-

542 La peste bubbonica si diffonde a Costantinopoli, portata attraverso le rotte commerciali con l’Egitto

529 Giustiniano chiude la scuola di Atene. San Benedetto fonda il primo ordine monastico dell’Europa occidentale

Lastrina in bronzo dorato raffigurante un cavaliere: faceva parte della decorazione di uno scudo da parata longobardo ritrovato a Stabio (Canton Ticino, Svizzera). VII sec. Berna, Museo Storico. I Longobardi erano una popolazione germanica appartenente al gruppo dei Germani Occidentali, in particolare al sottogruppo stanziato verso l’Elba. Il loro arrivo in Italia spezzò l’unità augustea della Penisola.

570 Nascita di Maometto

597 Papa Gregorio I invia missionari in Britannia 588 I Longobardi guidati da Autari e Teodolinda si convertono al cristianesimo

cetto stesso delle sovranità nazionali e l’irrompere dei flussi migratori dall’interno e dall’esterno del Vecchio Continente sta portando a un rimescolamento profondo delle identità linguistiche, religiose e culturali che ne hanno caratterizzato la sua storia recente. Non a caso, quindi, storici e archeologi negli ultimi anni hanno iniziato sempre piú ad affrontare il problema della evoluzione e del declino dell’impero di Roma e del suo incontro/ scontro con le popolazioni che vivevano all’esterno dei suoi confini sotto prospettive diverse. Per esempio gli studi piú recenti sono stati caratterizzati da una riscoperta della presenza e della persistenza, nelle varie regioni dell’impero e anche in epoca piuttosto tarda (III-IV secolo d.C.), di tradizioni culturali, religiose e linguistiche native accanto a quelle imposte dai conquistatori romani. Lo stesso concetto di frontiera dell’impero ha mutato pelle, tramutandosi da barriera fra la civiltà e la barbarie in membrana osmo-


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tica fra mondi non sempre e non ovunque sul piede di guerra l’uno con l’altro, bensí connessi da un continuo e silenzioso processo di scambi di persone, cose e costumanze, che «contamina» l’identità tanto dei Romani quanto del multiforme universo «barbarico». Anche il processo di disintegrazione del dominio di Roma in Occidente, tradizionalmente definito di declino e caduta dell’impero, è stato reinterpretato come un complesso e ramificato percorso di «trasformazione» del mondo romano. Vengono cosí mettendosi in luce anche gli aspetti negoziali e non necessariamente traumatici del passaggio dal governo imperiale alle realtà dei cosiddetti Regni romano-germanici, che, alla fine del V secolo, avevano soppiantato completamente la «pars Occidentis» dell’impero romano.

Un impero «multietnico»

Infine, è stata revisionata profondamente la tradizionale interpretazione dello scontro fra Romani e «barbari» come di una contrapposizione fra compagini etnicamente compatte e consolidate. È stato piuttosto sottolineato da un lato il perdurare del carattere «multietnico» dell’impero romano, dall’altro il fatto che i gruppi che invadono in armi l’impero sono spesso costituiti da agglomerati assai eterogenei al proprio interno, e che anzi la formazione dell’identità e perfino del nome dei popoli che premono ai confini di Roma è frutto di una storia quasi sempre assai recente, stimolata in molti casi proprio dall’esigenza di organizzare la migrazione da una regione all’altra e lo scontro militare con l’impero. Questo processo, complesso e magmatico, di scomposizione e ricomposizione delle matrici culturali, antropologiche e politiche dei popoli invasori dell’impero è stato definito, in questi ultimi anni, con l’affascinante termine di «etnogenesi» (dal greco ethnos = popolo e ghénesis = formazione), che pone in rilievo la fisionomia tutt’altro che cristallizzata e impermeabile degli attori del colossale sconvolgimento della carta geopolitica dell’Europa che si verifica tra il V e il VI secolo della nostra era. Queste nuove chiavi di lettura del fenomeno storico delle cosiddette «invasioni barbariche» sono in qualche misura debitrici del clima culturale del nostro tempo. Oggi, l’Europa occidentale è avviata verso forme sempre piú intense di integrazione fra gli Stati e interessata da fenomeni massicci di immigrazione, anche da aree molto lontane geograficamente e culturalmente. Guardando al periodo compreso fra il III e il V secolo, ciò che affascina di piú è probabilmente, da un lato, il riuscito tentativo di tenere insieme popolazioni fra loro estremamente eterogenee, rendendole in varia misura partecipi del medesi16

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l’italia: una preda ai piedi dell’invasore Nel XIX secolo, la ricostruzione della vicenda delle invasioni barbariche e del dominio delle popolazioni germaniche sull’Italia si colora di forti motivazioni politiche, generate dal clima risorgimentale di desiderio di riscossa dal giogo della dominazione austriaca. L’opera di Cesare Balbo (1789-1853) Storia d’Italia sotto ai barbari, pubblicata per la prima volta a Torino nel 1830, è figlia di questo spirito, ma è allo stesso tempo una solida ricostruzione degli eventi, proposta con uno stile avvincente. Le idee patriottiche di Balbo balzano all’occhio nella pagina che narra l’entrata dei Longobardi in Italia nel 568, con cui si spezza l’unità politica della Penisola, costruita da Augusto: «Venendo ai confini, (il re Alboino) salí su un’alpe e vi stette a contemplare le nostre contrade soggiacenti. (…) Perché fra gli allettamenti della troppo vaga Italia è pur questo: che quasi per dovunque v’entrino gl’invasori, ei se la veggono come preda distesa ai loro piè: ondeché, dagli antichissimi capitani ai coetanei nostri che hanno varcate l’Alpi, s’è fatto come un costume e una tradizione fra essi fermarsi là su, e mostrare alle torme seguaci i dolci campi da inondare. Che se coloro i quali in questi giacevano avessero mirato all’incontro, egli avrebbono pur veduto in quell’Alpi le piú belle mura e i piú bei baluardi che abbia Iddio apparecchiati a niuna nazione mai. Ma non servono mura, baluardi o chiuse senza forti petti ad accorrervi; e gli Italiani erano scemati di numero dalla gran peste, ma di piú di cuore dalle variate servitú».

L’ingresso di Alboino a Pavia, xilografia tratta da un dipinto di Ludovico Pogliaghi del 1890. I Longobardi, guidati dal re Alboino, scesero in Italia dalla Pannonia nel 568 e iniziarono una rapida guerra di conquista conclusa nel 571, anno della conquista di Pavia. Alboino stabilí la sua corte a Verona, città in cui morirà nel 572, ucciso, secondo la leggenda, dalla moglie Rosmunda e dal di lei amante Elmichi, fratello di latte del sovrano stesso.

mo ideale di governo universale del mondo «civilizzato»; d’altro lato, l’idea di porre in evidenza gli aspetti non solo conflittuali della migrazione di nuovi popoli sulle terre già dell’impero romano o, comunque, relativizzare il concetto di «dissoluzione» del mondo romano, proponendone piuttosto una prospettiva di «trasformazione», aiuta forse non solo a conoscere meglio la complessità di ciò che avvenne in quel convulso periodo della storia d’Europa, ma anche a esorcizzare timori latenti nella società di oggi. In particolare, mi riferisco alle inquietudini che derivano dalla consapevolezza di vivere un presente in cui il ricco Occidente convive con mondi circostanti attanagliati da grande povertà e instabilità e s’interroga sul modo in cui riuscirà nel futuro (se vi riuscirà) a mantenere la propria posizione di privilegio e di dominio e come saprà gestire l’afflusso, al proprio interno, di masse di persone che, provenendo da quei mondi, cercano qui lavoro e integrazione e portano in dote diverse (e non sempre bene accette) tradizioni culturali, sociali e religiose.

Tempi durissimi

Gli eventi susseguiti all’«attacco all’Occidente» dell’11 settembre 2001 e l’irrompere della crisi che sta coinvolgendo in diversa misura le economie europee hanno prodotto qualche ripercussione, in sede storiografica, nella valutazione delle dinamiche che portarono alla fine dell’impero romano e al ruolo avuto in tal senso dalle popolazioni «barbariche». Per esempio, l’archeologo inglese Bryan Ward-Perkins, in un saggio dal significativo titolo La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, 2008) ha criticato radicalmente la posizione di quanti avevano optato per un’interpretazione soft della conclusione della parabola storica dell’impero romano. Dati alla mano, i secoli in cui si fronteggiarono barbari e Romani furono tempi durissimi, secondo Ward-Perkins, in cui l’integrazione fra genti e civiltà avvenne a prezzo di sconvolgimenti sociali ed economici radicali e in cui gli standard di vita delle popolazioni delle terre appartenute all’impero retrocessero a livelli preistorici, con conseguenze drammatiche sulla demografia del continente. Problemi e prospettive attuali possono effettivamente aver contribuito a stimolare un nuovo interesse verso la fine del mondo antico, e anche a sollecitare un approccio meno esclusivamente «catastrofista» a questo tema. Tutto ciò è stato reso possibile dagli eccezionali progressi della ricerca archeologica che hanno messo a disposizione nuovi dati sull’evoluzione dei commerci, dei modi di abitare, sulla cultura, sulle strutture socio-politiche, sui gusti artistici e sulle tecniche belliche di questi secoli. invasioni barbariche

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roma al declino 18

Paralisi di Le invasioni barbariche sono tradizionalmente viste come la causa prima del tramonto dell’impero romano. In realtà, lo sgretolamento del potere capitolino affonda le sue radici innanzitutto nell’incapacità di aggiornare i propri modelli di sviluppo Base della colonna onoraria di Antonino Pio con l’apoteosi dell’imperatore e della moglie Faustina, che ascendono al cielo sorretti da un genio alato, tra la dea Roma e la personificazione del Campo Marzio. 161 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. È opinione diffusa che l’età della dinastia antonina coincida con l’apogeo dell’impero romano.

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Roma al declino Roma. Statua di Dace prigioniero, particolare dell’Arco di Costantino, inaugurato il 25 luglio 315. Le 8 statue dei Daci, posizionate sui plinti sopra le colonne, sono di epoca traianea e provengono dal foro dell’imperatore Traiano stesso; le teste, tagliate da Lorenzino de’ Medici nel 1530, sono frutto di un restauro del XVIII sec.

N

onostante la grande quantità di nuovi studi prodotta in questi ultimi anni, rimangono comunque di grandissima complessità l’analisi e la scomposizione delle cause che portarono all’estinzione di un grande organismo politico quale era stato l’impero di Roma (in particolare la parte occidentale di esso), e che intersecarono i loro destini con il fenomeno della migrazione, dall’Asia e dall’Europa orientale, di grandi masse di esseri umani verso le regioni comprese fra l’Atlantico e il Mediterraneo. In estrema sintesi, il dibattito su questi problemi si sviluppa fra due diverse e quasi opposte polarità. Il successo delle «invasioni barbariche» può, infatti, essere letto sia come un portato innanzi tutto delle crisi interne – politiche, sociali, economiche – del sistema imperiale romano, sia come l’esito di un’oggettiva capacità dei popoli migratori di sviluppare strategie politico-militari vincenti nei confronti dell’impe ro. Il piú delle volte, però, gli storici individuano in un insieme di cause i perché dell’esito finale del confronto fra Romani e barbari, dipendenti da ambedue i fattori principali: ed è questa, forse, la posizione critica piú equilibrata.

Una macchina ancora temibile

Tuttavia, non bisogna dimenticare che, sulla carta, l’impero romano era immensamente piú potente, ricco e organizzato dei suoi antagonisti. Leggendo le pagine di uno storico del tardo IV secolo, Ammiano Marcellino, in cui si narrano le vicende delle campagne militari condotte dall’imperatore Giuliano in Gallia prima e in Siria poi intorno all’anno 360, la macchina bellica dell’impero appare ancora incredibilmente efficiente e temibile. Anche dopo la terribile disfatta subita nel 378 a opera dei Goti ad Adrianopoli – nell’odierna Turchia europea – le armate imperiali riescono a riorganizzarsi abbastanza rapidamente e a contenere efficacemente ulteriori movimenti di questo popolo invasore.

quasi un paradiso terrestre Edward Gibbon (1737-1796) ha scritto, fra il 1776 e il 1788, la prima opera sulla fine dell’impero romano (pubblicato in Italia con il titolo di Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, Einaudi, Torino 1967) che si possa considerare frutto di una ricerca basata su criteri storiografici scientifici. Figlio della cultura illuministica del suo tempo e osservatore della crescita della potenza britannica, Gibbon condusse una riflessione approfondita sulle cause del disfacimento della piú grande macchina bellica e amministrativa mai posta in essere nella storia dell’Occidente. Tutti gli storici che hanno affrontato lo studio dei secoli dal III al VI d.C.

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i principi dell’età d’oro Nel II secolo d.C., Roma è al culmine della sua potenza e prosperità e l’impero nelle mani di figure illustri 96-98 d.C.

138-161 d.C.

Marco Cocceio Nerva (30 circa-98 d.C.), di

Tito Aurelio Antonino (86-161

antonino pio

NERVA

estrazione senatoria, giurista e uomo di cultura, viene eletto dopo l’uccisione di Domiziano. Adotta Traiano, appartenente all’aristocrazia provinciale spagnola.

d.C.), assicura all’impero un periodo di pace, sposa Faustina e, morti i figli maschi, adotta come successori Marco Aurelio, marito della figlia Faustina Minore, e Lucio Vero, figlio Elio Vero (già scelto da Adriano come successore, ma morto prematuramente).

98-117 d.C.

traiano

Ulpio Traiano (Italica in Spagna, 53-117 d.C.), associato all’impero da Nerva nel 97, gli succede nel 98, sposa Plotina e adotta Adriano. Conquistata la Dacia, muore a Selinunte in Cilicia dopo una vittoriosa spedizione contro i Parti. Sotto di lui l’impero raggiunge la sua massima estensione.

161-180 d.C.

marco aurelio

Marco Elio Aurelio Vero (121117-138 d.C.

adriano

Publio Elio Adriano (Italica 76-138 d.C.), cugino di Traiano, gli succede nel 117 d.C. e ne sposa la nipote Vibia Sabina. Non avendo figli adotta Tito Aurelio Antonino per garantire la successione.

si sono dovuti in qualche modo misurare con la sua opera. Il paragrafo di apertura del primo libro, che qui si riporta, proietta il lettore nello scenario della grandezza di Roma, tratteggiato con efficacia quasi cinematografica: «Nel II secolo dell’era cristiana l’impero di Roma comprendeva la parte piú bella della Terra e la porzione piú civile del genere umano. Le frontiere di quell’immensa monarchia erano difese dall’antica fama, dal valore e dalla disciplina. Il dolce ma potente influsso delle leggi e dei costumi aveva cementato a poco a poco l’unione delle province, i cui pacifici abitanti godevano e abusavano dei vantaggi della ricchezza e del lusso. Si conservava col

180 d.C.), marito di Faustina, figlia di Antonino Pio, regna con il fratello adottivo Lucio Vero fino alla morte di lui (169), combatte contro i Parti in Oriente e i Quadi e i Marcomanni sul Danubio. Filosofo storico, scrive I ricordi.

conveniente rispetto il simbolo di una libera costituzione: il Senato romano sembrava possedesse l’autorità sovrana e affidasse agl’imperatori tutto il potere esecutivo. Per un felice periodo di ottant’anni (dal 96 al 180 d.C.) la pubblica amministrazione fu diretta dalla virtú e dall’abilità di Nerva, di Traiano, di Adriano e dei due Antonini. In questo e nei due successivi capitoli descriveremo le prospere condizioni del loro impero; poi, a partire dalla morte di Marc’Aurelio, esporremo le piú importanti circostanze del declino e della caduta dell’impero: una rivoluzione che sarà sempre ricordata e di cui risentono ancor oggi le nazioni della Terra» (traduzione di Piero Angarano).

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Com’è stato possibile, perciò, che appena trent’anni dopo, nel 407, la frontiera romana lungo il Reno abbia ceduto all’impatto di gruppi di popolazioni germaniche in movimento, senza che l’esercito fosse piú in grado di riuscire a ristabilire quel confine negli anni successivi, aprendo la strada allo smembramento della parte occidentale dell’impero? Probabilmente, le strutture politico-amministrative dello Stato romano erano corrose da cause diverse e la debolezza operativa mostrata in quella circostanza dal suo apparato militare fu piuttosto una conseguenza di tale stato di fatto, che non una causa in sé delle sconfitte subite sul campo. Forse, quindi, si deve partire da un luogo diverso dalla frontiera militare dell’impero, e in un tempo diverso dal momento del suo crollo, per cercare di comprendere perché i «barbari», alla fine, abbiano avuto partita vinta.

Una visione senza futuro

Nel saggio La storia spezzata (Laterza, 1996), lo storico di Roma antica Aldo Schiavone analizzava la società romana al suo apogeo, intorno alla metà del II secolo d.C., partendo da un elogio dell’impero pronunciato davanti all’imperatore Antonino Pio dall’oratore Elio Aristide, figlio di quella buona borghesia sparsa un po’ per tutte le province, che forniva il nerbo della classe intellettuale e amministrativa dell’impero. Nelle parole di questo giovane retore (siamo nel 142/143 d.C.) si trova la celebrazione di un mondo consapevole di aver raggiunto traguardi immani, geografici, politici, amministrativi. Dell’impero, esteso sino ai confini del mondo, si lodavano le possenti difese erette a proteggerne i limiti: l’ordine di Roma, con quelle opere, si mostrava all’ignoto, sfidandolo con l’esibizione della propria forza. Tuttavia, secondo Schiavone, nelle parole di Aristide alla celebrazione del presente non si associava la prospettiva di un futuro in cui si potessero immaginare, per Roma, ulteriori processi espansivi. «La prospettiva», afferma Schiavone, «era interamente schiacciata sul presente». Un presente di gloria, destinato però esclusivamente a perpetuare se stesso. Ma poteva ciò essere possibile? Secondo quanto racconta lo storico Polibio, quando Scipione – circa trecento anni prima – conquistò Cartagine, anziché gioire per aver definitivamente debellato il piú temibile nemico di Roma, fu colto da una profonda malinconia, pensando come, un giorno, la stessa trionfatrice di allora avrebbe 22

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In alto maschera di un elmo da parata della cavalleria romana, da Bad Cannstatt, presso Stoccarda. II-III sec. d.C. In basso elmo in ferro e bronzo di legionario. Età traianea, 98-117 d.C. Gerusalemme, Israel Museum.

A destra calco di un rilievo con legionari e ausiliari romani, particolare del fregio della Colonna Traianea, con scene delle guerre contro i Daci (101-102 e 105-106 d.C.). 113 d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.


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potuto subire il medesimo destino, soccombendo di fronte a nuovi, imprevedibili nemici. Nella cultura romana era diffusa da tempo una corrente di pensiero che considerava le vicende degli uomini – e le loro realizzazioni – sottoposte a regimi ciclici, in cui, a una fase di crescita e di espansione, seguiva inevitabilmente una d’invecchiamento e di decadenza. Alla metà del II secolo d.C., era maturata una sensibilità, nella società romana, che avvertiva l’esaurimento del grande slancio espansivo di Roma. Sebbene all’orizzonte non apparissero, allora, segni premonitori di problemi tali da poter minare la pace e la prosperità che regnavano su tutto l’orbis Romanus, la consapevolezza dei limiti raggiunti faceva probabilmente percepire che, come dice Schiavone, «nell’ammirevole prosperità dell’impero si nascondesse

teva contribuire significativamente a soddisfare la fame di terra sollecitata da una società che aveva un esubero di persone cui garantire terra da possedere e coltivare. Quando le guerre iniziarono a rivolgersi contro le ricche e popolose plaghe del Sud Italia e poi contro le potenze del Mediterraneo (fra il 250 e il 150 a.C.), apparve chiaro, in primo luogo alle famiglie dell’aristocrazia romana che comandavano gli eserciti, che le conquiste militari potevano produrre una disponibilità di beni eccezionale per quantità e qualità: terre, denaro e gioielli, miniere di metalli preziosi e cave di marmi rari, prigionieri da trasformare in schiavi e, infine, opere d’arte e di letteratura. Le imprese militari divennero un vero e pro-

un lato di estenuazione, di conclusione, di sterilità, prodromi di un’inevitabile decadenza». Un sostegno alle inquietudini che attraversavano la società romana dell’età degli Antonini proviene dalle conclusioni a cui sono giunte, oggi, le piú recenti analisi di storia economica e storia sociale, condotte sulla struttura dei meccanismi dell’espansione romana.

prio investimento, che garantiva all’aristocrazia di espandere a dismisura i propri patrimoni, che offriva occasioni di arricchimento agli outsider e che manteneva al lavoro migliaia di soldati professionisti. Le immani ricchezze guadagnate attraverso tante guerre vittoriose e la formazione dell’inedito scenario di un grande bacino di libero scambio, quale era diventato il Mediterraneo già intorno alla metà del I secolo a.C., non riuscirono però a innescare una trasformazione strutturale dell’economia romana. Il perdurare del mito della terra come unico vero indicatore della ricchezza individuale e la disponibilità apparentemente inesauribile di prede di guerra, tra cui la manodopera a basso costo rappresentata dagli schiavi, hanno fortemente inibito lo sviluppo della ricerca

La vocazione per le armi e la guerra

Il grande slancio che aveva condotto i Romani a divenire progressivamente i padroni del Mediterraneo e dell’Europa occidentale era stato generato da una fortissima vocazione militare delle classi aristocratiche, in primo luogo di quelle dell’Urbe e poi dell’Italia intera. Una porzione notevolissima dei maschi giovani prestava un lungo servizio militare. Nella mentalità dei Romani, la libertà dell’individuo era caratterizzata da due elementi: la proprietà della terra e la capacità di usare le armi. Le guerre di conquista condotte con successo in Italia centrale, sin dalla metà del III secolo a.C., dimostrarono che una politica militare vincente po24

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A sinistra calco di un rilievo della colonna di Marco Aurelio, raffigurante un legionario romano mentre afferra per i capelli e fa prigioniera una donna teutone che tenta la fuga con il figlioletto. Roma, Museo della CiviltĂ Romana. La colonna celebra le vittoriose campagne contro Teutoni e Sarmati del 171-173 e del 174-175 d.C. Nella pagina accanto rilievo funerario raffigurante una scena di riscossione delle tasse. II-III sec. d.C. Treviri, Reinisches Landesmuseum.

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un’impresa titanica per proteggere roma Alla fine degli anni Sessanta del III secolo, una violenta e improvvisa scorreria di Germani in Italia settentrionale fece materializzare il timore che, per la prima volta dopo molti secoli, Roma potesse essere raggiunta da orde barbariche, arrecando cosí il piú pesante oltraggio possibile all’onore dell’impero. Per questa ragione si decise di provvedere all’edificazione di un nuovo circuito di mura a difesa della capitale. Date le dimensioni della città, l’impresa apparve subito di proporzioni titaniche, ma fu portata a termine in un quinquennio: iniziata nel 271, al tempo di Aureliano, si concluse nel 276, quando regnava Probo. Le mura erano lunghe 19 km, larghe 3,5 m e alte mediamente 6. Vi erano 18 accessi principali, difesi ciascuno da due porte, e una serie di porte minori o posterulae. Lungo tutto il percorso vi era una torre ogni trenta metri circa. La fretta nell’esecuzione dell’opera determinò l’inglobamento nel recinto murario di una serie di costruzioni preesistenti, tra le quali il sepolcro monumentale di Caio Cestio (la cosiddetta «piramide»), l’anfiteatro Castrense, il tratto terminale dell’acquedotto dell’Anio Novus e le caserme del Castro Pretorio, nonché facciate di edifici di abitazione privati. Le mura furono restaurate e potenziate una prima volta da Massenzio (306-312), ma soprattutto all’inizio del V secolo, per volere del comandante supremo dell’esercito, Stilicone, che fece raddoppiare in altezza torri e spalti, rendendo le porte principali vere e proprie fortezze. Le mura resistettero validamente per due anni (408-410) all’assedio dei Visigoti, per un anno (536-537) a quello degli Ostrogoti e, nel 756, all’assalto del re longobardo Astolfo. La loro struttura, che oggi si conserva per lunghi tratti, è ancora quella pensata fra il III e il V secolo per proteggere dai barbari il caput mundi.

tecnologica per la produzione di qualsiasi strumento economico-finanziario, di tipo moderno, per la gestione dei capitali. Secondo alcuni storici, questo tipo di sviluppo (o, se si preferisce, di mancato sviluppo) è dipeso anche dal permanere di una scala di valori in cui l’esercizio del commercio e delle attività produttive è sempre stato considerato poco nobile, e quindi inadatto ai ceti piú elevati. Quanto di piú lontano, insomma, da ciò che è accaduto nelle società occidentali moderne in cui, dal XIX secolo in poi, si sono formate vere e proprie «aristocrazie capitalistiche», che hanno fondato il proprio prestigio proprio sull’aver creato grandi e lucrose attività produttive e finanziarie: basti pensare, per esempio, ai Krupp in Germania, ai Rotschild in Francia e Inghilterra e ai Pirelli e agli Agnelli in Italia.

Un’economia basata sulla terra

La società romana, quindi, nonostante i giganteschi volumi di ricchezza prodotti, il benessere diffuso – assolutamente inedito sino a quel momento nella storia dell’umanità – e i progressi compiuti in campi come l’idraulica e l’architettura, non sarebbe mai riuscita a compiere il salto verso l’industrializzazione e il reinvestimento produttivo dei capitali prodotti dall’agricoltura – in primo luogo – e dal commercio. In altre parole, il mondo romano è rimasto 26

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In basso busto in bronzo dorato dell’imperatore Lucio Domizio Aureliano (214-275 d.C.). III sec. d.C. Brescia, Museo di Santa Giulia.

dominato da un’economia sostanzialmente agraria, anche se è riuscito a svincolare dal lavoro della terra una fetta di popolazione mai raggiunta prima nella storia (fra il 20 e il 30% del totale). Questo era stato reso possibile grazie al fatto che le conquiste militari avevano creato una grande disponibilità di ricchezza e che la «globalizzazione» dei mercati, creata dal grande impero, consentiva alle merci di circolare – soprattutto per mare – con una facilità inedita in passato. Fu quindi possibile che una fitta rete di città prosperasse un po’ ovunque nell’impero, in particolare lungo le coste del Mediterraneo, e che essa fosse in grado di sostenere una popolazione non dedita in prima persona all’agricoltura. All’interno di questo sistema, alcuni agglomerati urbani (in primo luogo Roma, ove risiedeva il potere centrale, ma anche Ales-


sandria d’Egitto, Antiochia e Cartagine) riuscirono addirittura a trasformarsi in vere e proprie metropoli in grado di sfamare centinaia di migliaia di abitanti. Tuttavia, proprio nei decenni in cui Elio Aristide scriveva il suo panegirico per l’imperatore Adriano, il sistema imperiale romano iniziava a rivelare i suoi limiti strutturali. Tutti i Paesi circostanti il Mediterraneo erano ormai stati conquistati; l’espansione all’interno del continente europeo non appariva praticabile, sia perché le terre selvagge e boscose di là dal Reno e del Danubio erano difficili da percorrere per gli eserciti, ma sia anche – e, forse, soprattutto – perché non erano evidenti i vantaggi che si sarebbero potuti trarre dalla sottomissione di territori spopolati e freddi. La stessa cosa valeva per le lande desertiche su cui si affacciavano le province africane e, ancor piú, per i misteriosi orizzonti che si aprivano sulle sponde dell’Atlantico o al di là delle montagne dell’Anatolia: Roma non avrebbe annoverato fra i suoi sudditi un Cristoforo Colombo in

Roma. Particolare di Porta San Paolo (l’antica Porta Ostiense), uno degli accessi che si aprivano nelle Mura Aureliane, la cerchia eretta tra il 271 e il 276 con il fine di proteggere l’Urbe da possibili incursioni di genti nemiche.

grado di persuadere l’imperatore ad allestire una flotta per fare vela verso l’ignoto Estremo Occidente. L’impero, dunque, aveva riempito il carniere. Ma la mancanza di nuove prede faceva venire meno una delle principali fonti che avevano progressivamente accresciuto la prosperità romana nei tre secoli precedenti. L’ultimo grande bottino di schiavi e di tesori era stato raccolto da Traiano nelle sue imprese guerresche contro i Daci e i Persiani.

Le cause dello stallo

Lo stallo verso cui andava dirigendosi la parabola ascendente di Roma era cosí determinato dalla concomitanza di una debole capacità di rinnovamento strutturale dell’economia e delle tecnologie produttive e dal raggiungimento dei limiti espansivi che i mezzi e le infrastrutture a disposizione consentivano, assorbendo e sfruttando parassitariamente, attraverso i successi militari, il potenziale economico e umano dei popoli sottomessi. invasioni barbariche

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L’opinione pubblica allo stato puro I Libri della Historia Augusta sono composti da biografie di imperatori romani, compresi fra Adriano (118-137) e Carino (283-284), scritte da piú autori, nella prima metà del IV secolo. Considerata generalmente un’opera «minore», faziosa e pettegola, l’Historia Augusta ha trovato in Marguerite Yourcenar un’estimatrice inattesa, che ha risollevato l’interesse verso questi profili biografici, talora tra le poche fonti d’informazione superstiti sui fatti del III secolo. La scrittrice belga riteneva che «nessun libro ha mai rispecchiato piú fedelmente di quest’opera appassionante i giudizi dell’uomo della strada e dell’anticamera sulla storia. Vi troviamo l’opinione pubblica allo stato puro, cioè impuro». Le pagine sulle scorrerie barbariche degli anni Sessanta del III secolo sono di una vividezza notevolissima, soprattutto quando pongono in contrasto fra loro la drammaticità della situazione militare e la presunta ignavia dell’imperatore Gallieno di fronte al precipitare degli eventi: «La mala sorte imperversava: da una parte i terremoti, dall’altra le voragini che si aprivano nella terra, in diverse regioni la pestilenza, tutto ciò sconvolgeva l’impero romano. Valeriano era prigioniero, la Gallia si trovava per la piú parte cinta d’assedio, (…) e i Goti, invasa la Tracia, devastarono la Macedonia e assediarono Tessalonica, e da nessuna parte apparivano seppur modesti segni che la situazione si calmasse. Tutto ciò avveniva, come abbiamo piú volte ripetuto, in spregio a Gallieno, uomo quanto mai dissoluto e dispostissimo ad accettare qualsiasi situazione disonorevole pur di starsene tranquillo. Si combatté in Acaia, sotto il comando di Marciano, contro gli stessi Goti che, sconfitti dagli Achei, si ritirarono di là. Ma gli Sciti – che costituivano una parte degli stessi Goti – devastavano l’Asia. Fu spogliato e incendiato anche il tempio di Diana a Efeso, un’opera la cui fama era diffusa in tutto il mondo. Sento vergogna a riferire quanto Gallieno diceva in questo periodo, nel corso di questi avvenimenti – per sventura del genere umano –, come se trovasse da scherzarci sopra» (XXIII, 5-6, traduzione di Paolo Soverini).

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A sinistra Gallieno ferito a morte, incisione all’acquaforte di Giuseppe Mochetti (1814-1905) dal disegno di Bartolomeo Pinelli (1781-1835) facente parte del ciclo Istoria Romana (1818-19). L’imperatore morí nel 268 d.C. durante l’assedio a Milano, ucciso a tradimento da Cecropio, comandante della cavalleria dalmata, in seguito a una congiura di cui faceva parte anche il prefetto del pretorio Aurelio Eracliano. In basso l’Artemide di Efeso, come dea madre della fertilità. I sec. d.C. Efeso, Museo Archeologico. Il tempio efesino, considerato una delle Sette Meraviglie del mondo, fu saccheggiato e distrutto dagli Sciti nel 262 d.C.

Oggi possiamo dire che, fra il I e il II secolo d.C., Roma ha perduto la sfida con la modernità. I contemporanei, invece, che non sembra abbiano mai acquisito consapevolezza dei termini di tale sfida, ne riconoscevano tuttavia con chiarezza un’altra, e cioè quella della conservazione dei risultati raggiunti; e bisogna riconoscere che, con i mezzi concettuali e materiali a disposizione, il mondo romano ha lottato a lungo e gagliardamente per vincerla.

Tentativi di secessione

Nel corso del III secolo d.C., i problemi che covavano sotto la cenere esplosero quasi simultaneamente, producendo effetti pesantissimi sulla stabilità dell’impero. Le ricadute dello stallo economico iniziarono a rendersi evidenti soprattutto in quelle parti dell’impero, come l’Italia, che avevano vissuto per secoli sulle spalle delle province: città e campagne della Penisola non appaiono piú cosí floride. Nelle province si cerca di razionalizzare e accrescere il gettito delle tasse, ma spesso il risultato è quello di alimentare inquietudini e insofferenze, che si tramutano in alcuni casi – come in Siria e in Gallia – in aperti tentativi di secessione dal centro dell’impero. Contemporaneamente, la situazione alle frontiere dell’impero diviene piú instabile. Intorno alla metà del III secolo (con avvisaglie già alla


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Testatina fine del II), appaiono le prime avanguardie di un ampio movimento di popoli in migrazione, che si dipana lungo tutti i paralleli geografici che uniscono l’Europa all’Asia. I popoli germanici stanziati al di là delle frontiere, che erano rimasti relativamente tranquilli, fra il I e il II secolo d.C. iniziano a premere su di esse, spinti probabilmente da un piú vasto movimento delle popolazioni seminiomadi dell’Europa orientale e dell’Asia centrale. Per fare fronte a questa situazione, Roma deve mobilitare nuove risorse per pagare le truppe, le opere di fortificazione necessarie e per comprare con il denaro la pace con molte delle po-

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polazioni che premono ai confini. Ciò costringe un sistema già alle prese con i problemi di fondo che si ricordavano poc’anzi a subire ulteriori, pesanti pressioni, che aggravano ancora di piú le tensioni interne.

Corsa alle fortificazioni

Probabilmente proprio per queste ragioni, negli anni fra il 235 e il 270 si determinò un periodo di instabilità in cui quasi tutti gli imperatori morirono di morte violenta dopo pochi anni di regno e in cui si verificarono, un po’ ovunque, tentativi organizzati di secessione di intere province, fenomeni di rivolte dei contadini oppressi dalle


Atene, agorà romana. La Torre dei Venti, progettata dall’architetto Andronico di Cirro nel I sec. d.C. La città, simbolo della civilitas mediterranea, fu saccheggiata dagli Eruli nel 267 d.C.

tasse e dalle leve militari; ed è anche il periodo in cui iniziano a comparire segni di regresso nelle condizioni di vita materiale delle popolazioni urbane e rurali e nella manutenzione delle città e delle infrastrutture pubbliche. Sempre nel III secolo molti centri urbani furono costretti a dotarsi frettolosamente di fortificazioni, per scongiurare eventuali invasioni, come accadde a Piacenza, assalita dagli Alamanni nel 269. La costruzione di una nuova cerchia di mura intorno a Roma, fra il 271 e il 276, rappresenta forse il segno piú evidente del mutato clima politico e militare, dato che l’ultima volta in cui la città caput mundi aveva costruito mura a pro-

pria difesa era stata circa sette secoli prima. La frettolosa ricostruzione delle mura non era bastata a scongiurare, nell’anno 267, l’assalto e il saccheggio di Atene da parte degli Eruli, esponendo direttamente questa città-simbolo della civilitas mediterranea alla barbarie. Alla fine del III secolo, sotto la guida di sovrani caparbi e spietati, come Aureliano (270-275) e Diocleziano (284-305), nati nelle terre di confine dell’Illiria, il sistema imperiale compie un ulteriore sforzo per adeguare le proprie capacità di risposta alle pressioni interne ed esterne. La compagine statale romana esce profondamente modificata dalle riforme operate in questo perio-

atene e la piazza cancellata L’aggressione ad Atene da parte degli Eruli, nel 267, costituisce, come il sacco di Roma del 410, uno degli eventi-simbolo dell’aggressione barbarica alla civilitas greco-romana del Mediterraneo. In quella circostanza, tutti i monumenti dell’Agorà, con l’eccezione del tempio di Efesto, subirono danni. Ma, a segnare il drammatico cambiamento del clima psicologico determinatosi in seguito a quell’evento, stanno alcune impressionanti testimonianze riferibili ai momenti immediatamente successivi all’attacco. Il trauma prodotto dalle devastazioni consigliò di proteggere in fretta e furia l’Agorà con un recinto murario, che fu tirato su, evidentemente, smantellando diversi edifici della zona. Nella struttura del muro troviamo infatti pezzi di colonne, di cornici e di muri, affastellati alla rinfusa, evidentemente frutto di lavoro improvvisato, in condizioni di assoluta emergenza. In seguito a quest’evento, lo spazio interno dell’Agorà mutò completamente fisionomia, riempiendosi di baracche, piccole officine metallurgiche, impegnate nella fusione dei bronzi recuperati dagli edifici circostanti e torchi per la spremitura delle olive. Una piazza simbolo della storia della democrazia antica viene cosí cancellata per sempre, quando gli Ateniesi si trovano obbligati a convivere con nuovi pericoli.

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Roma al declino Giuliano contro i persiani I capitoli del libro XXXII delle Res Gestae di Ammiano Marcellino descrivono la campagna contro i Persiani, condotta nel 363 dall’imperatore Giuliano, che vi trovò infine la morte, trafitto da un giavellotto durante un combattimento ingaggiato con il nemico dalla retroguardia dell’esercito imperiale. Nel lungo racconto di Ammiano, che fu testimone oculare dei fatti di cui riferisce, avendo personalmente partecipato alla campagna, è descritta un’impresa di grande impegno, che si svolge lungo un itinerario di oltre 1000 km, parte dei quali percorsi in un ambiente particolarmente ostile come il deserto siriaco. La spedizione giunge sino alla capitale persiana, Ctesifonte, come duecentocinquant’anni prima aveva fatto Traiano. L’esercito romano riesce a mettere in difficoltà ripetutamente i Persiani, che però preferiscono scegliere una tattica attendista, senza scendere in battaglie campali vere e proprie. Probabilmente, una ragione per ciò poteva essere la loro debolezza di fronte all’immane potenziale militare messo in campo da Giuliano, costituito da circa 60 000 uomini. Tra questi, si annoveravano le truppe regolari, composte dalle legioni vere e proprie e dalle squadre di cavalleria leggera e pesante (i cosiddetti catafratti), e una serie di truppe di supporto, in alcuni casi composte da barbari, e quindi genieri, salmerie, macchine da guerra per attaccare (ed espugnare) le numerose fortezze incontrate lungo la via, accompagnate da cinquecento imbarcazioni da trasporto e cinquanta navi da guerra che scendevano l’Eufrate. Morto l’imperatore, l’esercito tornò in patria, sostanzialmente intatto. L’iniziativa di Giuliano mostra che esso era, in quegli anni, tutt’altro che una macchina in crisi.

A sinistra statua dell’imperatore Giuliano l’Apostata (331-363 d.C.). IV sec. d.C Parigi, Musée du Louvre.

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In basso Naqsh-e Rustam (Iran). Rilievo raffigurante Valeriano inginocchiato di fronte a Shapur I. L’imperatore fu sconfitto e ridotto in schiavitú dai Sassanidi a Edessa, nel 260 d.C.

do, tanto che la moderna critica storica lo considera come uno spartiacque fra l’antichità vera e propria e la cosiddetta «tarda antichità». Si compiono interventi significativi per razionalizzare e incrementare la raccolta delle imposte e viene riformato il sistema monetario. Si ristruttura la geografia delle province e si rafforzano, su basi permanenti, burocrazia ed esercito. Il potere imperiale, sempre piú assoluto, governa, servendosi di un gabinetto di ministri, direttamente attraverso le diramazioni locali della propria burocrazia, emarginando progressivamente gli organi di autogoverno delle

città, peraltro spesso già messi in crisi da decenni di recessione economica e di instabilità politica e militare. Cosí riconfigurata, la macchina imperiale è piú razionale di prima e, in linea di principio, probabilmente anche piú giusta: tutti i sudditi dell’impero pagano egualmente le tasse in relazione alla terra che possiedono e ricevono in cambio dallo Stato servizi importanti, primo fra tutti, la protezione militare. Ma quella che abbiamo di fronte è anche una macchina molto piú pesante, poiché per garantire la regolarità dei servizi serviva una burocrazia molto piú numerosa e, quindi, dispendiosa; e per evitare il ripetersi delle difficoltà militari del III secolo, era necessario mantenere in permanenza un esercito professionale di grandi dimensioni.

Un recupero effimero

Il sistema messo in piedi da Diocleziano e perfezionato da Costantino (306-337) restituisce all’impero una discreta stabilità e compattezza. Nella sua parte occidentale, tuttavia, la crisi si riaprí drammaticamente all’inizio del V secolo, non appena le popolazioni germaniche presenti lungo la frontiera renano-danubiana ripresero quasi simultaneamente la loro marcia verso Occidente. Sottoposto di nuovo a una pesante pressione militare, il sistema non riuscí evidentemente a trovare le risorse umane ed economiche sufficienti per fronteggiare la nuova emergenza. Sembra anche di poter comprendere, dalle fonti contemporanee, che l’esigenza di rastrellare continuamente denaro e persone (anche mercenari reclutati fra i cosiddetti «barbari») per sostenere l’esercito trovasse fortissime resistenze nella società. I proprietari terrieri che se lo potevano permettere, tentarono in tutti modi di corrompere l’amministrazione per evadere le tasse, mentre i contadini cercarono assai spesso, per lo stesso motivo, di porsi sotto la protezione di personaggi potenti. Nei casi piú drammatici, tra i contadini si generarono vere e proprie ribellioni armate contro lo Stato, che si tramutarono, soprattutto in alcune aree della Gallia e della Spagna, in forme endemiche di brigantaggio. L’Oriente dell’impero, piú ricco e meno esposto alle pressioni militari barbariche, reagí molto meglio all’impianto delle riforme istituzionali di Diocleziano e Costantino, e si può anzi affermare che il IV e il V secolo abbiano rappresentato, per molte province di quell’area, una fase storica se non di sviluppo, sicuramente di una certa prosperità. invasioni barbariche

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DIVINAZIONE

Astrologia

il tesoro del reno

I

l piú recente ritrovamento archeologico in grado di offrirci una testimonianza vivida delle vicende di cui la frontiera nord-occidentale dell’impero romano fu teatro nel III secolo d.C. è certamente quello avvenuto presso Neupotz, località sul Reno, a metà strada circa tra le città di Strasburgo (sede del campo legionario di Argentorate) e Magonza (la romana Mogontiacum). Qui, in un’ansa del fiume inattiva e adibita a cava, tra il 1967 e il 1997 fu portato in luce – in seguito a un primo ritrovamento

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invasioni barbariche

fortuito – il piú vasto insieme di reperti metallici di età romana mai scoperto in Europa. Si tratta di ben 1062 oggetti, per un peso complessivo di 700 kg, di cui 10 sono in argento, 203 in lega di rame e 513 in ferro. La maggior parte di essi è rappresentata da vasellame (tra cui quattro enormi calderoni bronzei, al cui interno vi erano numerosi altri recipienti), ma tra gli oggetti in ferro si contano anche pezzi di carro, finimenti, lucchetti e strumenti da lavoro.


Come si era formato questo straordinario insieme, è perché venne abbandonato, come sembra, in un luogo lontano da ogni centro abitato? Gli archeologi collocano le vicende del «tesoro di Neupotz» nell’ambito delle invasioni di popolazioni germaniche degli anni 259-260 d.C., che, in ultima istanza, portarono alla caduta del limes (rinvenimenti simili, ma di entità minore – come quelli di Hagenbach e di Otterstadt Angelhof –, rimandano allo stesso contesto storico-temporale). In quel biennio, ampia parte del limes venne varcato dai guerrieri germanici al fine di saccheggiare le terre retrostanti. La popolazione locale dovette fuggire e nascose denari e oggetti di valore,

Sulle due pagine alcuni dei 1062 reperti rinvenuti nell’alveo del Reno, presso Neupotz (Germania), e oggi conservati al Museo Storico del Palatinato di Spira (nella foto alla pagina accanto, la ricostruzione del contesto in cui i reperti furono ritrovati). Si tratta, verosimilmente, del bottino raccolto durante le scorrerie di popolazioni germaniche lungo il limes negli anni 259-260 d.C.

sotterrandoli. Numerosi ritrovamenti di simili «tesori» hanno permesso di ricostruire i percorsi usati dalle genti germaniche durante le loro scorrerie. Spesso, però, quando i razziatori tornarono con la loro preda (di cui facevano parte anche prigionieri) verso est, in direzione delle loro terre d’origine, vennero intercettati dalle truppe imperiali. E cosí, nel corso degli scontri lungo la frontiera del Reno, gli oggetti razziati cambiarono nuovamente proprietario: mentre appare certo che, nonostante tutto, buona parte di essi abbia continuato il suo viaggio verso le terre germaniche, altri oggetti caddero nelle mani dei legionari romani, altri ancora si persero nei tumulti degli scontri. Uno destino simile potrebbe essere accaduto ai reperti di Neupotz, oggi conservati al Museo Storico del Palatinato di Spira. Andreas M. Steiner

il medioevo nascosto

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Il v secolo

La fatidica data del 476 d.C. che, con la deposizione di Romolo Augustolo da parte del re barbarico Odoacre segna la fine dell’impero romano d’Occidente, non fu un «fulmine a ciel sereno». L’evento si inscrisse, infatti, nel piú generale e prolungato collasso del potere di Roma

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invasioni barbariche

La grande

crisi


In vista di Roma, olio su tela di Évariste-Vital Luminais (1822-96). 1870. Dunkerque, Musée des Beaux-Arts. Nel dipinto si immagina la marcia dei Galli Senoni di Brenno verso Roma, che si concluse con il sacco del 390 a.C., il primo mai avvenuto nella storia dell’Urbe e l’unico fino a quello compiuto dai Visigoti di Alarico nel 410 d.C.

invasioni barbariche

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BARBARI

Il V secolo

N

ell’inverno fra il 406 e il 407 si verificò la crisi destinata a far venire al pettine tutti i nodi che le riforme della macchina statale romana non avevano potuto sciogliere; una crisi che doveva cambiare profondamente il volto geopolitico della pars Occidentis dell’impero romano e imprimere una svolta epocale alla storia d’Europa. Il passaggio del Reno e l’invasione delle Gallie da parte dei Vandali, degli Alani, dei Burgundi e degli Svevi determinò per sempre la perdita dell’integrità territoriale delle province occidentali: ciò avvenne immediatamente per ciò che riguarda la Britannia mentre, per quanto concerne la Gallia e la penisola iberica il processo richiese diversi decenni e, nel 476, al momento della deposizione dell’ultimo imperatore, rimanevano ancora nelle mani dei Ro-

In basso missorio (o disco) di Teodosio I il Grande (imperatore dal 379 al 395 d.C.), raffigurato assiso in trono tra i suoi due co-imperatori Ascanio e Valentinano II (od Onorio), mentre consegna un codice a un funzionario. 388 d.C. circa, Madrid, Real Academia de la Historia.

mani parti dell’attuale Francia nord-occidentale e delle sue regioni mediterranee. Negli stessi anni, e precisamente nel quinquennio 405-411, si verificò una pesantissima crisi anche in Italia. Prima entrarono nella Penisola gli Ostrogoti di Radagaiso – sconfitti da Stilicone nel 406 – e poi, nel 407, i Visigoti di Alarico, il cui assalto a Roma fu solo un episodio – certamente il piú rilevante dal punto di vista politico e psicologico – all’interno di una lunga catena di sconvolgimenti apportati dalla loro presenza. La successiva migrazione dei Visigoti verso la Spagna (nel 414) e l’Aquitania (nel 418), determinò l’instaurarsi di un’enclave «barbarica» non piú eliminabile dal territorio romano, con la quale il governo imperiale dovette venire a patti. Nel 429 i Vandali mossero dalla Spagna per trasferirsi in Africa. Nel 435 il go-

divide et impera: una formula ancora di successo Il fenomeno era ben visibile già da tempo, ma dopo la disfatta di Adrianopoli (378) si accentuò in maniera significativa: nell’esercito romano, che doveva combattere i barbari, cresceva la percentuale di soldati reclutati fra coloro che, in teoria, erano i suoi primi avversari. Ma quale sicurezza e affidabilità potevano offrire un contingente di uomini o un comandante che provenivano dalle file del nemico? In realtà, la scelta di arruolare «barbari» nell’armée imperiale, seppur rischiosa, si basava su motivi abbastanza precisi. Innanzitutto, l’esercito aveva continuamente bisogno di nuovi coscritti e nelle terre dell’impero non se ne trovavano abbastanza. E i barbari, a loro volta, una volta concluse le operazioni militari, potevano essere insediati su terre imperiali come agricoltori, contribuendo cosí a rafforzare la base di contribuenti che concorreva a sostenere l’erario imperiale. Inoltre, i reparti formati da effettivi di tale provenienza permettevano all’esercito romano di disporre di truppe (in primo luogo quelle equestri) capaci di combattere il nemico con tecniche belliche piú idonee al suo contrasto. Dobbiamo infine tenere presente che il variegato mondo delle popolazioni «barbariche» era tutt’altro che compatto al proprio interno e certo

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invasioni barbariche

non vi è stato mai nessuno fra i loro capi (con l’eccezione, forse, di Attila) che abbia mai concepito l’idea di porsi alla testa di una «federazione» di gentes con l’obiettivo di scalzare il governo imperiale. I Romani, quindi, intendevano giocare con i barbari una partita all’insegna del classico divide et impera. Molti degli effettivi «barbari» fecero carriera, raggiungendo posizioni di rilievo. Oltre a Stilicone, possiamo ricordare il goto Gainas, suo contemporaneo, che aveva raggiunto il vertice delle armate orientali prima di venire ucciso, nel 401, nel corso di una

rivolta (fomentata dalla Chiesa) scoppiata a Costantinopoli contro le truppe barbare acquartierate in città. Da allora, nella pars Orientis, la rilevanza numerica di truppe reclutate fra popolazioni «esterne» ai confini dell’impero non fu del tutto eliminata, ma venne ridotta. E molti storici ritengono che ciò abbia contribuito a decidere la diversa sorte, nel V secolo, della parte orientale rispetto a quella occidentale.


stilicone, il generalissimo

F

lavio Stilicone fu il personaggio che concentrò nelle proprie mani il controllo politico e militare dell’impero d’Occidente dal 395 al 408, e cioè durante tutta la minorità e la giovinezza dell’imperatore Onorio, figlio di Teodosio I. Stilicone era un militare, di madre vandala, che aveva servito fedelmente nell’esercito romano, scalando tutta la gerarchia militare, sino a divenire uno dei piú stretti e fidati collaboratori di Teodosio. Quest’ultimo, sul letto di morte, gli aveva raccomandato di proteggere i suoi giovani figli, gli imperatori Onorio e Arcadio. Dalle parole dello storico inglese Arnold Hugh Martin Jones, autore, negli anni Sessanta del XX secolo, di una monumentale storia del tardo impero romano, si può ricostruire il perché l’autorità di Stilicone divenne enorme nell’impero d’Occidente: «In Occidente, gli uomini che di fatto reggevano l’impero erano quasi sempre generali. In Oriente i generali non avevano un ruolo preminente e le redini del potere erano di solito rette da ministri civili. (...) Il contrasto era dovuto in parte alle circostanze in cui era morto Teodosio I. Egli aveva appena vinto l’usurpatore Eugenio e il grosso degli eserciti campali era ancora in Occidente, sotto il comando supremo di Stilicone, il primo dei suoi magistri militum. Stilicone era per di piú un amico fidato del defunto imperatore, il quale gli aveva dato in sposa la nipote Serena e lo aveva incaricato sul letto di morte di proteggere gli interessi dei suoi eredi. L’autorità di Stilicone era quindi indiscussa ed egli naturalmente la usò per rendere permanente la concentrazione temporanea di potere militare che le circostanze gli avevano messo nelle mani. (…) Stilicone è sempre designato comes et magister utriusque militiae: egli riuní nella sua persona entrambi gli uffici di comandante della fanteria e della cavalleria. Stilicone perse improvvisamente il potere nel 408. Il principale autore della sua caduta fu Olimpio, il magister officiorum, il quale sparse la voce fra le truppe che il grande generale era un traditore e che progettava di usurpare il trono».

Valva del dittico in avorio di Stilicone, realizzato in onore del suo primo consolato, raffigurante il generale di origine barbara armato di lancia e scudo, su cui compaiono i ritratti degli imperatori Onorio e Arcadio. 400 d.C. circa. Monza, Tesoro del Duomo. invasioni barbariche

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BARBARI

Il V secolo

i barbari: numerosi, ma difficili da contare Quanto erano grandi le orde di cui gli eserciti romani non riuscivano ad avere ragione? Le cifre che forniscono gli autori antichi sono assai ardue da valutare perché in genere non appaiono fondate su dati sicuri. Secondo lo storico africano Vittore Vitense, il re vandalo Genserico trasmigrò in Africa dalla Spagna portando con sé 80 000 persone. Se questa cifra comprende tutto il popolo in marcia, quindi anche vecchi, donne e bambini, è da credere che i combattenti vandali raggiungessero, al massimo, circa 20-25.000 unità. Zosimo afferma che Alarico attaccò l’Italia con circa 40 000 uomini in armi. Questi non erano tutti Visigoti, poiché nella sua marcia il re aveva persuaso «pezzi» di altri popoli a unirsi a lui. Il problema dell’estrema fluidità dei raggruppamenti etnici rende problematico valutare le proporzioni numeriche di un singolo popolo. Nei confronti di gruppi di barbari in armi costituiti da qualche decina di migliaia di unità combattenti, l’esercito romano, all’inizio del V secolo, sulla carta, poteva contare su un certo vantaggio, poiché poteva basarsi, nel solo Occidente, su una forza che, sempre sulla carta, arrivava a 250 000 uomini. Tuttavia, nella realtà vi erano parecchi problemi per rendere effettivamente operativo questo

potenziale. Innanzitutto, la coscrizione non sempre forniva gli effettivi di cui vi era bisogno; in secondo luogo, non tutte le unità combattenti erano di pari efficienza ovvero predisposte per essere trasportabili, né, quelle che lo erano, potevano risultare tutte disponibili laddove si verificava l’emergenza, ammesso che il quadro interno dell’impero non fosse travagliato da sedizioni e rivolte. In conseguenza di tutto ciò, su ogni fronte potevano essere impegnati eserciti di dimensioni non troppo diverse da quelle delle orde barbariche, e i problemi si facevano particolarmente seri quando l’assalto alle frontiere avveniva su piú fronti, come effettivamente si verificò nel 407, con il contemporaneo assalto al limes renano e all’Italia. La ristrutturazione delle unità militari occidentali nel primo quarto del V secolo è probabilmente da spiegarsi con le perdite ingenti che l’esercito aveva subito in quegli anni per tenere testa ai barbari. Proprio in conseguenza di ciò, dal 410-420 in poi, il governo romano ricorse sempre piú frequentemente al sostegno di contingenti barbari, vuoi come mercenari sotto le insegne romane, vuoi come foederati, vale a dire truppe alleate sotto il governo dei propri capi.

verno imperiale ne riconobbe ufficialmente, tramite un trattato, il re Genserico, come federato dell’impero in Numidia e Mauretania prima e nella Proconsolare (442) poi. Dal 440 iniziarono scorrerie vandale nella Sicilia che si protrassero quasi senza soste sino al 468, quando, per otto anni, l’isola si trovò sotto l’effettivo controllo dei Vandali. Dal 433, inoltre, le regioni interne dell’Illirico furono occupate, con quasi ininterrotta stabilità, dagli Unni prima e dagli Ostrogoti poi.

Un generale come tutore

A tutti questi fatti, si aggiunge inoltre la realtà della divisione ormai compiuta dell’impero in due parti, ciascuna sotto l’egida di un proprio sovrano. Istituita nel 395 da Teodosio il Grande e in qualche misura consolidata, nel 408, dalla eliminazione di Stilicone – deputato da Teodosio alla sorveglianza dei suoi due figli, i principes pueri Onorio e Arcadio –, essa determinò non solo una separazione amministrativa fra le due partes imperii, ma anche una ricorrente conflittualità fra i loro governi, soprattutto nelle zone di confine, come per esempio nell’Illirico. La grande crisi dell’inizio del V secolo, e quelle che seguirono, non furono però subite passivamente dall’impero. Esisteva un orientamento politico ben preciso, che non considerava l’ingresso delle gentes nel territorio imperiale come 40

invasioni barbariche

Tavolette scrittorie in legno dal forte romano di Vindolanda, costruito a circa 2 Km dal vallo di Adriano, al confine con la Scozia. I-II sec. d.C. Londra, British Museum. Nel 409 d.C. le truppe romane stanziate in Britannia vennero richiamate sul continente per combattere in Gallia, abbandonando l’isola alle scorrerie dei Sassoni.

un male in assoluto, da sradicare, ma piuttosto come un fenomeno che, se adeguatamente gestito, avrebbe portato all’impero perfino vantaggi sotto il profilo militare e, indirettamente, sotto quello economico, garantendo la presenza di nuove forze lavoratrici e combattenti. Questa fu la linea politica di coloro che, dopo la disastrosa battaglia di Adrianopoli (378) e lo stabilirsi in permanenza dei Goti all’interno del territorio imperiale, avevano iniziato a concepire una strategia, elastica ma ferma, di contenimento dei movimenti e degli stanziamenti barbarici entro le frontiere: tale strategia fu seguita, per esempio, da Teodosio (morto nel 395), da Stilicone (morto nel 408), da Costanzo III (morto nel 421) e da Aezio (morto nel 454). La Gallia e la penisola iberica, insomma, non furono perdute dall’oggi al domani, e nemmeno per quanto riguardava la Britannia la partita


Flevo Lacus (Lago di IJsselmeer)

MARE FRISICUM (Mare del Nord)

IL LIMES DELLA GERMANIA INFERIORE Fortezze legionarie Città (colonie o municipi) Capitale di civitas

Flevum (Velsen)

Lugdunum Batavorum (Katwijk-Brittemburg)

Praetorium Agrippinae (Valkenburg)

Albaniana (Alphen aan den Rijn)

Forte ausiliario Forte della flotta Accampamento da marcia Confine delle province romane

Ermelo

Traiectum (Ulrecht)

Matilo (Leiden-Roomburg)

Carvo(ne) (Kesteren) Castra Herculis Mannaricium (Arnhem-Meinerswijk) (Maurik)

Nigrum Pullum (Alphen-Zwammerdam) Forum Hadriani

Laur(i)um (Woerden)

Helinio (Oosvoorne) GoedereedeOude Wereld

Fectium (Vechten) Levefanum (Rijswijk)

Grinnes Kessel (Maasdriel-Rossum)

DuivenLoowaard

Carvivum (Herwen-De Bijland)

Forti

ULPIA NOVIOMAGUS BATAVORUM (Nijmegen) Burginatium Ceuclum (Kalkar-Altkalcar) (Cuijk) Harenatium (Kleve-Rindern)

Germania

Limes germanico Strada romana Strada romana (presunta o collegamenti locali)

Holterhausen Haltern

Germania

CASTRA VETERA TRICENSIMAE (Xanten)

Ruhr

VETERA I e II

Walcheren De Roompot

Asciburgium (Moers-Asberg)

Inferiore

Gelduba (Krefeld-Gellep) Roermond

Oberraden

Lippe

Rheinhausen (Werthausen)

Magna

NOVAESIUM (Neuss)

Aardenberg

Schelde

Belgica

Aduatuca Tungrorum (Tongeren)

Traiectum (Maastricht) Aquae Granni (Aachen)

APUD ARAM UBIORUM Tiberiacum Jülich (Ziewerich) (Iuliacum) Tolbiacum (Zülpich) BONNA (Bonn)

Icorigoium (Jünkerath)

COLONIA CLAUDIA ARA AGRIPPINENSIUM (Colonia) (Köln-Deutz) Sieg

Rigomagus (Remagen)

Arras

Rheinbrohl

Antunacum (Andernach) Cambrai

Bagacum (Bavay)

Beda (Bitburg)

Heddesdorf Confluentes (Coblenza) Boudobriga (Boppard)

Niederbieber Bendorf Niederberg

hn

Tournai

Corivallum (Heerlen)

La

Maldegem

Arzbach Hunzel Ems Marienfels Holzhausen

In alto carta del limes dell’impero romano nella Germania Inferiore. A destra Parco archeologico di Xanten (Germania). La ricostruzione delle mura di cinta e di una torre della città romana di Colonia Ulpia Traiana, i cui resti sono stati individuati nei pressi dell’odierno centro abitato.

invasioni barbariche

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BARBARI

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Il V secolo

invasioni barbariche


A destra Reims. La Porta di Marte, arco di trionfo romano a tre fornici di epoca antoniniana, inglobato nella cinta muraria costruita nel III sec.d.C. dopo la distruzione della città per opera dei barbari. A sinistra particolare di un’incisione ottocentesca raffigurante Stilicone che tratta con i Goti.

le lacrime di san girolamo L’attraversamento del Reno, tra la fine del 406 e l’inizio del 407, da parte di gruppi barbari di etnia prevalentemente germanica, è considerato un po’ da tutti gli storici come il drammatico «giro di boa» del confronto militare fra impero e invasori, plasticamente rappresentato dal cedimento simultaneo e irreparabile dei suoi confini. La drammaticità della situazione fu percepita con chiarezza dai contemporanei, come si può comprendere da questo passo di una lettera di san Girolamo (347 circa-419), che peraltro non si trovava nelle zone direttamente coinvolte dall’avanzata dei barbari: «Non indugerò sulle calamità del momento. Essere nell’esiguo numero dei superstiti non è merito nostro, bensí misericordia del Signore. Popoli numerosissimi e feroci hanno occupato ogni angolo della Gallia. I Quadi, i Vandali, i Sarmati, gli Alani, i Gepidi, gli Eruli, i Sassoni, i Burgundi, gli Alemanni, le popolazioni ostili della Pannonia tengono tutte le regioni comprese fra le Alpi e i Pirenei, fra il Reno e l’Oceano e devastano ogni cosa si trovi in un impero sulle cui sorti non resta altro che piangere. (…) La nobilissima Magonza è stata messa a ferro e fuoco e dentro la sua chiesa migliaia di persone sono state trucidate. Gli abitanti di Reims, splendida città dei Remi, gli Ambiani, gli Atrebati, i Morini che si trovano piú oltre, gli abitanti di Tournai, quelli di Nîmes e quelli di Strasburgo, sono stati deportati in Germania. Eccetto poche città dell’Aquitania, i nove popoli della provincia lionese e quelli della narbonese sono completamente devastati; nelle città si muore di fame e all’esterno di spada. Piango a ricordare il destino di Tolosa, la cui rovina era stata sinora evitata grazie all’opera del suo santo vescovo Esuperio. Anche le province di Spagna, sull’orlo di essere travolte, tremano ogni giorno al ricordo dell’invasione dei Cimbri».

fu davvero considerata chiusa all’indomani dell’invasione della Gallia nel 407, dato che essa fu l’obiettivo di spedizioni militari romane sino agli anni Quaranta del V secolo.

Il sistema dell’hospitalitas

Il risultato di questa impostazione fu la creazione di strumenti giuridici atti a irreggimentare i nuclei «barbarici» presenti nel territorio imperiale, trasformandoli in insediamenti stabili e integrati. Tra di essi spicca il sistema dell’hospitalitas. Esso prevedeva che combattenti barbari che avessero servito in armi l’impero come popoli a esso alleati potessero essere compensati attraverso il loro acquartieramento in una certa regione, ricevendo un terzo delle terre di essa, ovvero – secondo una recente, ma discussa interpretazione – un terzo delle tasse riscosse dal governo in quella stessa regione. Rispetto al

vecchio regime della foederatio, attraverso il quale combattenti barbari venivano arruolati come semplici soldati nelle armate romane, il regime dell’hospitalitas prevedeva che i popoli mantenessero un’autonomia assai maggiore, potendo, per esempio, rimanere sotto il comando del proprio re. È vero che il sistema dell’hospitalitas garantiva all’impero un controllo effettivo assai attenuato delle regioni in cui intere popolazioni andavano a stabilirsi. E ciò soprattutto se l’insediamento avveniva in seguito a prove di forza da esse sostenute con esito vittorioso nei confronti dei Romani e se le singole gentes erano guidate da capi di grande spicco individuale – come fu Ataulfo per i Visigoti, Gundahar per i Burgundi o Genserico per i Vandali –, che godevano di un ascendente tale presso i propri popoli da annullare ogni effetti(segue a p. 47) invasioni barbariche

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BARBARI

Il V secolo

il sacco di roma

D

ella terribile circostanza del sacco di Roma per mano di Alarico (410) restano alcuni resoconti che testimoniano dell’alternanza di ferocia e quasi di timore reverenziale mostrato dai Visigoti al momento di penetrare nella città eterna e abbandonarsi al saccheggio. Lo storico pagano Zosimo accentua i toni dell’apprensione dei convulsi momenti antecedenti l’ingresso dei barbari in città: «Alarico stette ad ascoltare le parole degli ambasciatori inviati da Roma e quando sentí che il popolo maneggiava le armi ed era ormai pronto alla guerra disse: «L’erba folta si taglia meglio di quella rada», e pronunciando quella frase scoppiò in una grande risata all’indirizzo degli ambasciatori. Quando si misero a parlare della pace usò parole che andavano al di là di ogni arroganza tipica dei barbari; diceva infatti che non avrebbe rinunciato all’assedio se non avesse preso tutto l’oro e l’argento della città e inoltre tutte le suppellettili che trovava e gli schiavi barbari. A uno degli ambasciatori che gli faceva osservare: “Se tu prendessi tutto questo, che cosa rimarrebbe alla città?”, egli rispose: “Le vite umane”. Gli ambasciatori, ricevuta questa risposta, chiesero di

401-402 d.C. I invasione dei Visigoti Milano

Concordia

Marzo 402

Aquileia Verona

Pavia

Pollenzo 6 aprile 402

Emona

Estate 402

Bologna

Ravenna

Firenze

Roma

Le direttrici delle invasioni in Italia dei Visigoti di Alarico e degli Ostrogoti di Radagaiso.

401-102d.c. Prima invasione dei Visigoti di Alarico

406 d.C. Invasione degli Ostrogoti Aquileia

Milano Pavia

poter consultare i cittadini per decidere cosa si dovesse fare. (…) Disperando di tutte le risorse che danno forza agli uomini, si ricordarono degli aiuti che un tempo la città aveva ricevuto in situazioni critiche e dei quali erano stati privati dopo aver trascurato i riti tradizionali. (…) Pompeiano, prefetto della città, fu convinto dell’utilità delle cerimonie. Ma poiché credeva alla religione dominante e voleva fare con maggior sicurezza quello che desiderava, riferí ogni cosa a Innocenzo, vescovo della città. Costui, anteponendo la difesa di Roma alla propria fede, lasciò che celebrassero di nascosto le cerimonie che conoscevano». Compiuti i riti da parte di sacerdoti etruschi, si ripresero le trattative con i Goti e si giunse alla pattuizione di una somma da consegnare agli assedianti, pari a 5000 libbre d’oro, 30 000 d’argento, 4000 tuniche di seta, 3000 pelli scarlatte e 3000 libbre di pepe. Il problema fu trovare in Roma quanto richiesto da Alarico, poiché si sospettava con buone ragioni che molti fra i Romani piú ricchi avessero in realtà nascosto parte delle proprie ricchezze. Ciò significò che la pubblica amministrazione dovette umiliarsi a procedere alla fusione di alcune statue d’oro e d’argento che adornavano i monumenti. Alarico, che in realtà sembrava piuttosto riluttante al saccheggio, concesse ai Romani tre giorni di mercato per procedere a raggranellare le risorse per pagare il riscatto richiesto. Intanto continuarono a lungo le trattative anche con Ravenna, e fu solo dopo l’ennesimo insuccesso di un tentativo di composizione diplomatica della crisi che Alarico forzò la situazione, ordinando il sacco di Roma. La presenza dei barbari in città si limitò a tre giorni, perché Alarico temeva l’arrivo di truppe imperiali, e i danni materiali furono perciò relativamente limitati. La versione dei fatti di parte cristiana, dovuta soprattutto a Paolo Orosio, mette in risalto come le chiese, rispettate da Alarico, avessero svolto la funzione di veri e propri rifugi, di fronte all’imperversare dei saccheggiatori.

Verona

408-412 d.C. II invasione dei Visigoti Milano

Verona

Pavia

Bologna Ravenna Fiesole

Bologna Firenze

Concordia

Aquileia

Ravenna

3 agosto 406

Roma

Agosto 410

Roma

406d.c. 44

invasioni barbariche Invasione degli Ostrogoti

di Radagaiso

Emona

408-412d.c. Seconda invasione dei Visigoti di Alarico


Il sacco di Roma da parte dei barbari, di Joseph-Noel Sylvestre. 1890. Sète. Musée Paul Valéry. Nel 410 d.C. i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma per tre giorni e l’evento ebbe un’enorme risonanza emotiva.

il medioevo nascosto

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BARBARI

Il V secolo

roma lascia la britannia I fatti dell’inverno 406-407, con il crollo del limes renano, avevano posto la Britannia in una scomoda posizione di isolamento. Secondo lo storico Zosimo nel 409 apparve chiaro che, di fronte alle scorrerie dei Sassoni sulle coste britanniche, il governo romano non era in grado di offrire alcuna efficace protezione. Le truppe romane presenti nell’isola furono richiamate sul continente per fronteggiare la drammatica situazione della Gallia, lasciando le popolazioni locali indifese. In queste condizioni, esse avrebbero organizzato un’autonoma resistenza ai Sassoni che, nello stesso anno 409, sarebbe stata avallata dall’imperatore Onorio, con una lettera alle popolazioni britanniche nella quale si riconosceva l’incapacità di Roma a provvedere alla protezione dell’isola. Alcuni storici ritengono però che il distacco da Roma si sia consumato in tempi piú lunghi, giungendo all’epilogo definitivo solo alla metà del V secolo, quando si dissolse definitivamente il controllo imperiale sulla Gallia del Nord e si accentuò la pressione sulla Britannia dei Sassoni e degli Angli, che costrinse le locali popolazioni celtiche a ripiegare nelle regioni occidentali dell’isola.

In alto resti del forte romano di Portus Adurni, nei pressi dell’odierna Portchester (Hampshire, Inghilterra), costruito nel III sec. per prevenire possibili incursioni dei Sassoni. A destra dittico in avorio del senatore Flavio Anicio Petronio Probo con raffigurato Onorio, primo imperatore romano d’Occidente dal 395 al 423 d.C. 406 d.C. circa. Aosta, Museo del Tesoro della Cattedrale. 46

invasioni barbariche


va possibilità di influenza del governo imperiale. Tuttavia, l’hospitalitas aveva comunque il pregio di comporre, almeno momentaneamente, situazioni conflittuali che avrebbero potuto implicare ulteriori, pesanti dispendi di energie politiche e militari. Questa linea politica non fu però l’unica, né sempre la prevalente. Dal momento in cui il limes renano (e, parallelamente, quello danubiano) non fu piú al sicuro, il territorio italiano si trovò direttamente in prima linea di fronte agli invasori. Ciò provocò anche reazioni diverse da quelle adottate da generali come Aezio o Stilicone. Esisteva quella che potremmo definire una fazione avversa, rappresentata a tratti dalla famiglia imperiale e certamente radicata presso la burocrazia di corte e buona parte della classe senatoria italica, il cui atteggiamento oscillava tra un «antibarbarismo» estremo (che portava a tentare contro i barbari azioni di forza risolutive, e quasi sempre infelici nei risultati) e una «sindrome da assedio», che produsse il risultato clamoroso dello spostamento della residenza imperiale da Milano a Ravenna e, allo stesso tempo, una tendenza a guardare alla pars Orientis – dove la politica antibarbarica aveva prodotto ben altri successi – come centro generatore della difesa della romanitas. Tutti questi eventi ebbero l’effetto di produrre due tipi di risultati, inscindibilmente connessi tra loro: un dispendioso stato di guerra permanente e una progressiva erosione delle entrate fiscali, a causa delle perdite territoriali (temporanee e/o definitive) e dell’impossibilità, per gli effetti immediati delle vicende belliche, in cui talune province vennero a trovarsi per reperire le risorse sufficienti a effettuare i versamenti al governo centrale.

Una definizione vaga e inappropriata

Ma chi erano poi davvero i «barbari» all’inizio del V secolo? Questo termine, coniato dagli antichi Greci per indicare coloro che non sapevano parlare la loro lingua e che per questo motivo erano da considerare inferiori, è incredibilmente vago e inappropriato per definire il mosaico di popolazioni che, agli inizi del V secolo, si presentarono alle frontiere dell’impero romano. Culture, ceppi etnici, linguaggi, credenze, luoghi di provenienza possono differire immensamente tra gruppo e gruppo. Ma un elemento unisce questo mondo che, inquietante, brulicava al di là dei confini dell’impero, all’interno di estensioni geografiche di cui non dico il Romano medio, ma neppure l’imperatore in persona poteva minimamente immaginare la vastità: usando le parole dello scrittore Bruce Chatwin, potremmo definirlo come «l’alternativa nomade». invasioni barbariche

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BARBARI

Il V secolo

Rilievo raffigurante un cavaliere con una cornucopia, da Kaspican (Varna, Bulgaria). III sec. d.C. Sofia, Museo Archeologico Nazionale. Nel 376 i Goti ottennero da Roma il permesso di attraversare il Reno e di essere accolti nella provincia di Tracia. L’operazione fu però condotta con superficialità e arroganza tali da causare la reazione che sfociò nella battaglia combattuta ad Adrianopoli nel 378.


errori e pregiudizi: i perché di una disfatta I Romani, in genere, consideravano i popoli che premevano alle frontiere dell’impero come coacervi di esseri inferiori nei confronti dei quali la propria millenaria civiltà, per divina predestinazione, avrebbe dovuto immancabilmente trionfare. Un preconcetto che li portava ad agire verso di essi con durezza e distacco. Tale atteggiamento, però, finí talora per produrre analisi e decisioni errate. Fu questo il caso della situazione che si venne a creare lungo la frontiera del Basso Danubio fra il 376 e il 378. All’inizio di quel drammatico biennio, sulle rive del grande fiume apparvero i Goti che, spinti dall’avanzata degli Unni, da qualche tempo avevano abbandonato le loro sedi nelle pianure ucraine spostandosi verso sud-ovest. Terrorizzati dalla prospettiva di essere sottomessi da altri «barbari», i Goti chiesero al governo romano di accoglierli nella provincia della Tracia, garantendo che vi si sarebbero stabiliti in pace e, se richiesto, avrebbero collaborato anche alla difesa delle frontiere dell’impero. Per questi motivi, la presenza di un intero popolo, con famiglie, donne e bambini al seguito, fu considerata dall’amministrazione imperiale come un’opportunità piú che come un pericolo; ma, come ci riferisce soprattutto lo storico Ammiano Marcellino, l’operazione del trasbordo dei Goti da una riva all’altra del Danubio, fu gestita dai funzionari e dai militari romani con arroganza e dilettantismo. Anziché provvedere ad accoglierli e distribuirli ordinatamente sul territorio imperiale, i responsabili imperiali ammassarono i profughi in campi improvvisati, nei quali le condizioni di vita si fecero rapidamente insopportabili, anche per i maltrattamenti perpetrati sugli immigrati e le ruberie compiute dagli addetti ai vettovagliamenti a spese degli aiuti inviati per assisterli. Contemporaneamente, dopo poco tempo, le frontiere furono chiuse, lasciando dall’altra parte del fiume migliaia di persone esasperate e impaurite, che rapidamente s’ingegnarono con ogni mezzo per aggirare i controlli dell’esercito e penetrare «clandestinamente» in territorio romano. La situazione sfuggí via via di mano e, nei due anni seguenti, i Goti iniziarono a muoversi dal confine verso l’interno della provincia, compiendo a loro volta violenze e saccheggi. Le truppe presenti in zona non riuscirono piú a contenere questa moltitudine e, alla fine, lo stesso imperatore Valente dovette intervenire con il grosso dell’esercito d’Oriente. Vedendo i Goti muoversi lentamente nella pianura trace, attardati da famiglie e bestiame, Valente pensò di poterne avere rapidamente ragione, ma sbagliò i calcoli, forse sottovalutando la caparbia disperazione degli avversari. Cosí, quando la battaglia divampò, l’invincibile armada romana ebbe inaspettatamente la peggio.

Salvo pochi casi, come quello dell’impero persiano o del regno di Armenia, tutti i gruppi umani esterni alle frontiere romane – e in particolare a quelle occidentali – e con cui l’impero entrò in contatto, erano infatti dediti a un’esistenza permanentemente o periodicamente nomadica, la cui ricchezza si basava sull’allevamento, l’artigianato e il commercio. Di certo, al di là del limes – nome latino della frontiera dell’impero – non vi erano le città che, con i loro lussi e le loro attrattive, illuminavano i territori dei Romani; ma va anche ricordato che quanti, fra i «barbari», si erano stabiliti piú in prossimità della frontiera stessa vivevano da tempo in contatto assiduo con questo mondo. Alcuni studiosi si spingono sino a ipotizzare che siano stati proprio i Romani a indurre in questi gruppi trasformazioni istituzionali e culturali, cosí da renderli in qualche modo piú controllabili, per esempio promuovendone per quanto possibile la sedentarizzazione. Ciò avrebbe anche contribuito a far sí che, a partire dal IV secolo, si verificasse un sempre piú frequente reclutamento dei «barbari» all’interno delle armate imperiali. Questo fenomeno ebbe talora esiti di enorme rilevanza: Stilicone, il comandante in capo dell’esercito romano d’Occidente fra il 395 e il 408, era figlio di un ausiliario dell’esercito romano appartenente al popolo dei Vandali.

Dalle steppe dell’Asia centrale

Accanto a popolazioni piú abituate alla prossimità con l’impero – quelle che le fonti antiche individuano genericamente come Germani, e che via via formano agglomerati «etnici» piú definiti, come quelli dei Franchi e degli Alamanni –, a partire dalla fine del IV secolo apparvero sulla scena popoli di provenienza assai piú remota. Alcuni di essi, come gli Unni e gli Avari, giunsero in Europa dall’Asia centrale, dopo aver percorso distanze immani. Erano gruppi di ceppo turco o mongolo, che nei secoli avevano talora formato sfere di influenza e di predominio politico anche di grande estensione nelle regioni che oggi corrispondono all’Ucraina, al Kazakistan, all’Uzbekistan, al Kirghizistan, al Tien-Shan e alla Mongolia. I loro movimenti verso occidente sono stati causati in genere da sovrappopolazione, o da veri e propri intenti di conquista (come nel caso degli Unni), oppure dall’essere essi stessi a loro volta sospinti via dalle proprie sedi da altri agglomerati di nomadi, in una sorta di enorme gioco dei quattro cantoni le cui ripercussioni si possono seguire sino sugli spalti della Grande Muraglia cinese, l’altro grande limes dell’antichità. Queste orde di provenienza asiatica, nella loro marcia verso ovest, risucchiarono con sé o sospinsero in avanti altri gruppi, di ceppo linguistico invasioni barbariche

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BARBARI

Il V secolo

germanico, presentandosi con essi alle frontiere dell’impero od obbligandoli a premervi per sfuggire alla loro minaccia. Tra questi gruppi appaiono i Vandali, che abitavano nel IV secolo le aree intorno ai Carpazi, tra le odierne Slovacchia, Ucraina e Romania, o i Goti, che popolavano, nello stesso periodo, una fascia compresa fra la Crimea, l’Ucraina, la Moldavia e la Romania. I Romani non consideravano Goti e Vandali alla stregua degli altri Germani, poiché individuavano in loro tradizioni e atteggiamenti assimilabili a quelli dei popoli delle steppe, dato che, per esempio, combattevano a cavallo e non a piedi. Solo piú tardi, nel VI secolo, divenne chiaro ai Romani che i Goti parlavano una lingua sostanzialmente simile a quella di altri popoli, come i Franchi o i Burgundi. Vandali e Goti sono quindi una sorta di «testa d’ariete» lanciata contro le mura dell’impero da forze che manovravano partendo da molto piú lontano. Se la posizione dei Vandali nei primi anni del V secolo rende chiaro il fatto che il trentennio grosso modo compreso fra il 370 e il 400 deve essere stato un periodo di già consolidata prossimità di questi ultimi alle frontiere imperiali (come testimonia, proprio allora, la presenza di Stilicone ai piú alti livelli dell’esercito romano; vedi box a p. 39), la vicenda dei Goti è piú complessa, ma allo stesso tempo meglio ricostruibile per mezzo dei reperti archeologici. Già a partire dalla fine del III secolo d.C. è percepibile che il gruppo che i Romani avrebbero riconosciuto nel secolo successivo come «Goti» era suddiviso in due tronconi. Questo dato di fatto appare ormai consolidato e attestato dalle fonti scritte alla fine del IV secolo. La denominazione di Ostrogoti (ovvero Goti dell’Est) e Visigoti (ovvero Goti dell’Ovest) è

utilizzata per la prima volta da Cassiodoro (490 circa-580 circa) e si riferisce appunto alla posizione dei due gruppi all’interno delle terre che essi avevano rispettivamente occupato nel territorio che era stato dell’impero romano. Lo storico Jordanes, che scrive nella prima metà del VI secolo un’importante storia dei Goti, dichiara che i due popoli si erano formati seguendo due diversi clan egemoni: i Balti per i Visigoti e gli Amali per gli Ostrogoti. È comunque certo che, nel terzo quarto del IV secolo, esistessero due gruppi che si identificavano o venivano identificati come «Goti», uno – quello che poi diventerà il gruppo dei Visigoti –, che premeva sulle frontiere dell’impero d’Oriente, nel basso corso del Danubio, e l’altro – i futuri Ostrogoti – acquartierato fra l’Ucraina meridionale e la Crimea. Da lí questi ultimi mossero solo alla fine del IV secolo, aggregandosi al movimento verso occidente di Unni e Alani e andando a insediarsi lungo il medio corso del Danubio.

Teodorico in ostaggio

In alto fibbia con placca terminante a testa d’aquila. Oreficeria goto-alana, IV-IX sec. Simferopol (Ucraina, Repubblica autonoma di Crimea), Museo Storico.

Dopo aver tentato di invadere l’Italia nel 405, quando Stilicone li sconfisse a Fiesole, gli Ostrogoti ripiegarono andando a stabilirsi nell’area dell’odierna Ungheria, dove per circa ottant’anni continuarono a interagire con l’impero, ora amichevolmente e ora assai meno. In occasione di uno dei trattati stipulati con l’impero, nella seconda metà del V secolo, il loro principe di sangue reale e futuro re, Teodorico, fu inviato a Costantinopoli come ostaggio, dove avrebbe trascorso circa dieci anni. I Visigoti, invece, dopo aver inflitto nel 378 una delle piú sanguinose sconfitte all’esercito romano, ad Adrianopoli, furono fatti insediare in Tracia (odierna Bulgaria) per circa trent’anni, come

I Romani avevano dei Goti e dei Vandali una considerazione diversa da quella riservata ai Germani Bracciale in argento e corniola. Oreficeria goto-alana, III-IV sec. Bachcisaraj (Ucraina, Repubblica autonoma di Crimea), Parco Nazionale di Crimea.

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vivere al tempo dei goti Le abitazioni in uso presso molte genti barbare replicano, in larga misura, modelli sperimentati dall’uomo fin dalla preistoria: case semplici, costruite con travi di legno, frasche, paglia e argilla per gli intonaci

la capanna

Ricostruzione di una capanna del tipo di quelle in uso nel III sec. d.C. presso le popolazioni dei Goti e degli Alamanni.

il focolare

L’interno di una capanna a pianta rettangolare, al centro della quale trova spazio il focolare domestico.

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BARBARI

Il V secolo

La battaglia di Adrianopoli Della battaglia combattuta nel 378 fra Goti e Romani presso Adrianopoli (oggi Edirne, in Turchia, al confine con la Grecia), ci ha lasciato un resoconto dettagliato Ammiano Marcellino. Per la sua gravità, la disfatta subita quel giorno da Roma, che vide perire sul campo anche l’imperatore Valente (364-378), trovava paragoni solo con la sconfitta patita, cinquecento anni prima, contro Annibale a Canne. La rotta dell’esercito romano fu causata dall’assalto improvviso della cavalleria dei Goti, che trova

impreparata quella romana e lascia scoperta la fanteria: «Mentre da ogni parte cozzavano le armi e i dardi (…) i nostri, che si ritiravano, si arrestarono fra le grida di molti e la battaglia, crescendo a guisa di fiamma, terrorizzava gli animi dei soldati, alcuni dei quali erano stati colpiti da frecce e da proiettili lanciati da roteanti fionde. Il fianco sinistro si avvicinò ai carri (…) ma, abbandonato dalla cavalleria rimanente e incalzato da una moltitudine di nemici, fu sopraffatto e

Battaglia di Adrianopoli Fanteria romana Cavalleria romana Fanteria gotica Cavalleria gotica Carri

Fritigerno

distrutto come se una diga possente gli si fosse abbattuta sopra. I fanti restarono scoperti in gruppi cosí stipati gli uni sugli altri, che difficilmente potevano sguainare le spade o tirare indietro le braccia. Né, a causa della polvere che s’era levata, si poteva vedere il cielo, che risuonava di orrende urla (…) Quando i barbari, riversatisi in immense schiere, calpestarono cavalli e uomini, non era possibile in mezzo alla calca trovare spazio per ritirarsi e la ressa toglieva ogni possibilità di fuga. I nostri, dimostrando disprezzo della morte, pur nell’estremo pericolo, riprese le spade, fecero a pezzi quanti incontravano e con reciproci colpi di scure si spezzavano gli elmi e le loriche. Si poteva vedere un barbaro, superbo per la sua ferocia e con le gote contratte in un urlo di dolore, il

vicissitudini, i Visigoti si presentarono davanti alle mura di Roma, che attaccarono l’anno successivo, varcando le porte delle Mura Aureliane il 24 agosto del 410 e trattenendosi in città a saccheggiarla per tre giorni (vedi box a p. 44). Anche se la storiografia piú recente ritiene che l’impatto di questo evento sulla struttura materiale dell’Urbe sia stato meno profondo di quanto si è tradizionalmente creduto, la sua valenza simbolica fu enorme e pienamente avvertita dai contemporanei: nella prospettiva di chi abitava entro i confini dell’impero, Roma era l’essenza stessa della civiltà.

Una punizione divina

Valente

Dispiegamento e movimenti dell’esercito dell’imperatore romano Valente e delle truppe del re goto Fritigerno, durante la battaglia combattuta il 9 agosto 378 d.C. ad Adrianopoli.

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«ospiti» dell’impero: è questa la prima occasione in cui un accordo con un popolo barbaro viene raggiunto tramite la concessione di un «pezzo» del territorio imperiale. Nel 401, dopo l’uccisione del comandante delle truppe imperiali d’Oriente, il goto Gainas, il re dei Visigoti Alarico capí che la situazione in Oriente si andava facendo difficile e guidò il suo popolo verso l’Italia, in cerca di nuove terre ove insediarsi. Come abbiamo già visto, nel 409, dopo varie

La barbarie che bussava alle porte dell’Urbe non poteva essere che il segno di un sovvertimento profondo dell’ordine naturale delle cose, quali esse erano state per secoli. Cristiani come san Gerolamo e sant’Agostino, mescolano l’evocazione della punizione divina sui peccati di una Roma troppo a lungo pagana con il sincero smarrimento che nasce dalla constatazione che il suo annientamento è un prezzo troppo alto da pagare, anche per chi crede e spera in una palingenesi cristiana del mondo. L’immagine di Alarico dinanzi alle mura della città eterna è stata a lungo (e forse, nell’inconscio, lo è ancora) uno degli spauracchi piú potenti che hanno popolato gli incubi dell’Occidente post-antico, tornati prepotentemente alla ribalta dopo gli eventi dell’11 settembre 2001. Nel 2003, per esempio, il regista francocanadese Denys Arcand – che nel 1986 aveva


quale, amputata la destra da un colpo di spada o ferito a un fianco, volgeva minacciosamente gli occhi feroci, ormai prossimo alla morte. (…) Tutto era insozzato da nero sangue e, dovunque si volgesse lo sguardo, s’incontravano mucchi di uccisi e si calpestavano senz’alcun riguardo corpi privi di vita. (…) Cosí i barbari, spirando furore dagli occhi, inseguivano i nostri che erano storditi perché il calore del sangue veniva meno nelle vene. (…) A queste perdite, cui mai si sarebbe potuto rimediare e che costarono care allo Stato romano, pose fine la notte non illuminata dalla luna. (…) Al primo scendere delle tenebre, l’imperatore (Valente, n.d.r.) cadde fra i soldati colpito da una freccia e subito spirò» (Res Gestae, XXXI, 13; traduzione di Antonio Selem).

Medaglione in oro di Valente. 37578 d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Al dritto (in alto), l’effigie dell’imperatore; al rovescio (qui accanto), ancora Valente, a cavallo, di fronte al quale è una donna dalla corona turrita, prosternata, che sorregge una fiaccola (forse una personificazione dell’Oriente); in esergo, una figura distesa (forse una personificazione di Antiochia). L’imperatore trovò la morte nella battaglia di Adrianopoli, colpito da una freccia.

diretto Il declino dell’impero americano – nel presentare la sua nuova opera, intitolata non a caso Le invasioni barbariche, affermava (con una punta d’ironia) che, dopo l’assalto al World Trade Center di New York, il tema all’ordine del giorno della politica e della società americana sarebbe stato quello di non permettere piú alle orde che premevano ai suoi confini di penetrare nel cuore del nuovo impero dell’Occidente.

Un rispetto sorprendente

Paolo Orosio (attivo tra il IV e il V secolo), forse il piú «integralista» fra gli storici cristiani fioriti nell’epoca successiva alla «pace» di Costantino del 313, commenta il sacco di Alarico come la conseguenza delle «bestemmie che Roma aveva

accumulato nel corso dei secoli, senza averne mai fatto penitenza». Ma l’aspetto piú interessante del suo racconto sta nel fatto che egli descrive Alarico e i suoi come quasi riluttanti a infierire sulla città, perché capaci di comprendere che la sua grandezza risiedeva ormai nell’essere la sede degli Apostoli Pietro e Paolo, la cui presenza riscattava Roma dalle colpe che ne avevano fatto la nuova Sodoma. Anche i «barbari» erano in grado di riconoscere questa novità e, quindi, di trattare con relativo rispetto il luogo che erano venuti a saccheggiare. Proprio tenendo in conto considerazioni come quella formulata da Orosio, nella storiografia piú recente si è iniziato a considerare questo e altri eventi non solo come il segno di un crollo epocale che travolge una civiltà, ma anche come una tappa di un processo di trasformazione che, se coinvolse traumaticamente l’impero, agí altrettanto a fondo anche nelle società «barbariche», che non sarebbero state piú le stesse dopo l’impatto con il mondo romano. Se non a esorcizzare inquietanti fantasmi e a costruire una versione «buonista» dei drammatici eventi che portarono al crollo dell’impero romano d’Occidente, questa impostazione serve per lo meno a vedere con piú completezza il mondo europeo e mediterraneo fra IV e VI secolo. invasioni barbariche

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gli unni

I diavoli della

steppa

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Attila e i suoi uomini sono passati alla storia come uno dei peggiori incubi dell’Occidente. In realtà, il sovrano unno era assai meno rozzo di quanto sia stato spesso sostenuto, e aveva una visione politica piuttosto lucida e lungimirante Città del Vaticano, Stanza di Eliodoro. L’incontro tra Leone Magno e Attila, affresco di Raffaello, ultimato durante il papato di Leone X. 1513-1521. Secondo la leggenda, l’apparizione miracolosa di san Pietro e san Paolo armati di spada durante l’incontro tra il pontefice e il re unno fece desistere quest’ultimo dalla decisione di invadere l’Italia e marciare su Roma.

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Barbari

Gli Unni

I

n una data non facilmente precisabile, intorno al 370, le regioni settentrionali del Caucaso furono interessate dall’invasione di una popolazione che si può riconoscere in coloro che i Romani, due generazioni piú tardi, chiameranno Unni. Sulla loro origine esistono, fra gli studiosi, opinioni discordanti. Alcuni ritengono che si trattasse di una popolazione nomade prototurca, inizialmente stanziata al confine settentrionale della Cina, che aveva avviato una lenta ma progressiva migrazione verso Occidente, poco piú di duecento anni prima. Altri, invece, non sono convinti che questa parentela con il ceppo turco si possa affermare con sicurezza, né che fra i ritrova-

menti archeologici effettuati nelle steppe dell’Asia centrale si possano trovare tracce di una cultura materiale collegabile con precisione a quella degli Unni. Dalle Storie di Ammiano Marcellino, apprendiamo che, al tempo dell’imperatore Valente (364-378), gli Unni avevano sottomesso gli Alani (popolazione anch’essa nomade, ma di ceppo iranico, stanziata allora lungo il Don) e i Goti, che abitavano l’odierna Ucraina meridionale. Altri Goti, i cosiddetti Visigoti, furono costretti dalla pressione degli Unni a migrare dall’odierna Romania (l’antica Dacia), verso l’altra sponda del Danubio, nella Mesia (nell’odierna Bulgaria), venendo allo scontro

Qui sopra e in alto fibbie di cintura di produzione unna, ritrovate presso il villaggio di Chekarenko, in Crimea. IV-V sec. Kiev, Museo Nazionale di Storia dell’Ucraina. A sinistra particolare di un’incisione ottocentesca raffigurante Attila che mette a ferro e fuoco le città italiane.

i «piú barbari» tra i barbari Verso il 370-380 gli Unni non rivestivano ancora il carattere di pericolo imminente alle frontiere dell’impero, che si sarebbe materializzato una cinquantina di anni dopo. Tuttavia, essi erano stati già ben individuati dai Romani, come testimonia questo passo di Ammiano Marcellino: «Il popolo degli Unni, poco noto agli antichi storici, abita al di là delle paludi Meotiche, lungo l’oceano glaciale, e supera ogni limite di barbarie. 56

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con i Romani, ai quali inflissero la disastrosa sconfitta di Adrianopoli. Dalle aree fra Ucraina e Romania, gli stessi Unni si lanciarono spesso, alla fine del IV secolo, in spedizioni nelle province danubiane dell’impero romano, per compiervi saccheggi e razzie. Anche nelle nuove sedi europee gli Unni continuarono a serbare tradizioni sostanzialmente nomadiche, con attività produttive incentrate soprattutto sull’allevamento e sulle produzioni metallurgiche. I ritrovamenti archeologici di questo periodo, rappresentati soprattutto da sepolture con i loro corredi, rivelano che la cultura materiale unna era piuttosto variegata, segno questo sia della sua permeabilità agli influssi delle popolazioni circostanti, sia della condizione di sottomissione in cui molte di esse dovevano essersi venute a trovare.

Tra le due metà dell’impero

Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, le popolazioni unne si spostarono progressivamente verso occidente, giungendo sino alla Pannonia (l’attuale Ungheria), senza però perdere il controllo delle regioni di partenza e formando cosí una vasta area d’influenza politica che, dalle coste settentrionali del Mar Nero, lambiva tutta la frontiera danubiana dell’impero romano. Proprio l’ulteriore migrazione verso occidente degli Unni è uno dei fattori scatenanti dell’ondata migratoria che interessò le popolazioni germaniche e che si abbatté su Roma nei primissimi anni del V secolo. Nella loro posizione, a cavallo fra le aree di pertinenza delle due metà dell’impero, gli Unni giocarono per diversi decenni un’abile partita al fine di ottenere, da ambedue le amministrazioni, tributi in cambio della loro astensione dal compiere scorrerie. Questa politica fu resa piú facilmente perseguibile dal fatto che, agli inizi del V secolo, la galassia di gruppi tribali che compongono l’insieme degli Unni appare in grado di darsi una guida unitaria. Cosí, l’alternanza fra una strategia aggressiva e una affidata alla trattativa, a seconda delle cir-

costanze, divenne pienamente efficace. Ciò consentí, per esempio, di ottenere dai Romani il versamento di tributi sempre piú pesanti o di reclamare da essi il controllo di altri gruppi tribali stanziati nelle aree di frontiera dell’impero, in modo da ampliare la propria sfera d’influenza e accrescere il potenziale bellico. Nel 435 il comando degli Unni fu assunto da Attila, che si rivelò maestro nell’applicazione nei riguardi dei Romani della tattica appena descritta, riuscendo per esempio a far aumentare di sei volte, fra il 435 e il 443, l’entità del tributo che l’impero avrebbe dovuto versargli annualmente. Le sue pretese, se necessario, erano sostenute da una decisa azione militare, come accadde, per esempio, nel 442, quando gli Unni portarono sistematica distruzione nella fascia del medio Danubio, corrispondente al territorio dell’odierna Serbia. Nel 450 l’imperatore d’Oriente, Marciano, appena salito al trono, decise di interrompere il pagamento del tributo annuo agli Unni. La reazione di Attila, posta nella prospettiva delle azioni condotte negli anni precedenti, risulta apparentemente sorprendente. Il re unno, in-

Siccome hanno l’abitudine di solcare profondamente con un coltello le gote ai bambini appena nati, affinché il vigore della barba, quando spunta al momento debito, si indebolisca a causa delle rughe e delle cicatrici, invecchiano imberbi, senz’alcuna bellezza e simili a eunuchi. Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui parapetti dei ponti. Per quanto abbiano figura umana, sebbene deforme, sono cosí rozzi nel tenore di vita da non aver

In alto e in basso elementi decorativi in oro e cornaline di finimenti equini, rinvenuti in un tumulo presso Kalinin, Crimea. Produzione unna, IV-V sec. Kiev, Museo Nazionale di Storia dell’Ucraina.

bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale. (…) Neppure un tugurio con il tetto di paglia si può trovare presso di loro, ma vagano attraverso montagne e selve, abituati sin dalla nascita a sopportare gelo, fame e sete. (…) Stando a cavallo giorno e notte ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul collo corto del cavallo, si addormenta (…). Non sono retti secondo un severo principio monarchico, ma contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò che si oppone a loro» (Res gestae, XXXI, 2, traduzione di Antonio Selem). invasioni barbariche

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BARBARI

Gli Unni

quando gli avari inventarono

Q

uesto popolo migratore, dalla lunga storia di dinamismo e indipendenza, che si dipana fra le steppe russe e le pianure ungheresi, è schiacciato, nelle memorie delle invasioni, dalla preponderante fama degli Unni. Eppure, per oltre duecento anni, gli Avari dominarono la Pannonia (l’odierna Ungheria), costruendo il proprio successo attraverso un complesso gioco di alleanze con Franchi e Longobardi e affrontando con coraggio la sfida militare con Gepidi e Bizantini. Come gli Unni loro affini, gli Avari, provenivano dall’Asia centrale, e nella loro cultura artistica, formatasi nel corso dell’attraversamento del grande continente, recavano le tracce di contatti con Persiani e Cinesi. Non erano un’orda di nomadi pastori alla ricerca di nuovi pascoli, ma un vero e proprio popolo in marcia, con strutture di potere e militari ben organizzate, costretto ad abbandonare le proprie sedi sotto la pressione dei Turchi. Erano retti da re, che si fregiavano del titolo turcomongolo di khan. Una volta comparsi nelle steppe a nord del Caucaso (alla metà del VI secolo), condussero con sé, nella marcia verso ovest, altri popoli sottoposti, ma destinati a sopravvivere nella storia d’Europa, come Slavi e Bulgari. Fra il VII e l’VIII secolo tennero in piedi un vero e proprio Stato, nel territorio ungherese, che si sosteneva a spese dei vicini (Franchi, Longobardi, Bizantini) e dei popoli sottomessi (gruppi di Slavi e di Bulgari). Ciò era reso possibile dalla formidabile organizzazione militare, basata sulla potenza della cavalleria e, in particolare, degli arcieri a cavallo. A loro si deve l’invenzione della staffa in ferro che consentiva al cavaliere una grande stabilità sul cavallo, e quindi un’estrema efficacia di tiro. Un’unità di cavalleria avara poteva percorrere sino a 60 km al giorno, consentendo quindi di poter cogliere

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frequentemente i nemici di sorpresa. Nella loro permanenza in Pannonia, gli Avari si strutturarono intorno a un potere monarchico forte e circondato dallo sfarzo. La crisi della potenza avara si verificò all’inizio del IX secolo quando Carlo Magno, all’apogeo delle sue fortune, condusse una vittoriosa campagna contro di loro, approfittando dello stato di guerra

civile che si era determinato dopo la morte del khan. Fra l’800 e l’830 circa, la presenza avara indipendente si dissolse progressivamente, assorbita dai Bulgari a sud e dai Franchi a nord.

In alto fibbia in oro, da Ózora. Arte avara, fine del VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese.


la staffa fatti, non reagí, come ci si sarebbe potuti aspettare, attaccando le province balcaniche meridionali – che ricadevano sotto la giurisdizione di Costantinopoli –, ma decise di concentrare invece le proprie attenzioni verso la parte occidentale dell’impero. In quello stesso anno, infatti, egli aveva ricevuto una richiesta d’aiuto nientedimeno che da Onoria, la sorella dell’imperatore d’Occidente, Valentiniano III (425455), la quale, in rotta con l’augusto fratello, chiedeva ad Attila di prenderla sotto la sua protezione. Il re unno non solo accetta la richiesta, ma propone un suo coinvolgimento ancora piú profondo nella vicenda, chiedendo in sposa la stessa Onoria e avanzando pretese di sovranità sull’impero stesso.

Cosí divenne il flagellum dei A destra elemento decorativo zoomorfo in oro appartenente a una sella. Epoca altoavara. VI-VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese.

Alle richieste seguí l’azione, studiata evidentemente in maniera da colpire l’impero sul fronte che Attila valutava fosse il piú debole, cioè quello gallico. Nel 450-451 gli eserciti unni presero a devastare tutta la Gallia settentrionale, sino alla Loira, quando un esercito romano, comandato da Aezio, li affrontò, battendoli, ai Campi Catalaunici (presso Châlons-sur-Marne o presso Troyes, nell’odierna Champagne). Una seconda penetrazione nei territori imperiali avvenne nell’anno successivo, quando Attila comparve in Italia attraverso le Alpi Giulie. Le vicende legate alla presenza di Attila in Italia sono probabilmente quelle che hanno formato la pessima fama che del re unno è stata consegnata alla storia, riassunta dall’epiteto di «flagellum dei». Le sue truppe, infatti, assalirono città importanti come Aquileia, Milano e Pavia, e si diffuse il timore che Ravenna stessa avrebbe potuto essere attaccata, tanto che l’imperatore preferí trasferirsi a Roma. Attila rinunciò invece ad affondare le

Qui sopra e a destra coppia di armille (bracciali) in lamina d’argento. Arte avara, VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese. A sinistra fermatrecce in lamina d’oro, da Ózora. Arte avara, fine del VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese.

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BARBARI

Gli Unni

superbo nel procedere, ma basso di statura «Attila ebbe per padre Mundzuc, i cui fratelli Octar e Roas si ritiene abbiano regnato prima di lui sugli Unni, ma non sull’intero popolo. Alla loro morte, egli si trovò a dividere il trono con il fratello Bleta e non esitò, pur di raggiungere le condizioni necessarie ai suoi progetti, a farsi parricida anticipando con la morte dei parenti la rovina dell’intero genere umano. Dopo aver eliminato a tradimento il fratello Bleta che regnava su gran parte degli Unni, egli poté dirsi signore di tutto questo popolo; e, dopo aver ridotto in obbedienza un gran numero di altre genti, poté

aspirare a sottomettere i due dominatori dell’universo: Romani e Visigoti. Contando, si dice, su di un esercito di cinquecentomila uomini, questo essere, venuto al mondo per squassare il suo popolo facendo insieme tremare ogni terra, riusciva, non so per quale fatalità, a seminare dappertutto lo spavento solamente con la fama che da lui irradiava. Superbo nel procedere, saettando gli occhi ora da una parte ora dall’altra, rivelava l’orgoglio della sua potenza perfino nei movimenti del corpo. Amava le battaglie, ma era in grado di padroneggiarsi durante l’azione; eccelleva nelle decisioni; si lasciava piegare dalle suppliche; era benigno una volta che avesse accordato la sua protezione. Basso di statura, largo di petto, piuttosto grosso di testa, aveva occhi piccoli, barba non fitta, capelli grigi, naso camuso, una carnagione tetra: i segni caratteristici della sua razza. Sebbene già per temperamento presumesse molto di sé, tale attesa venne accentuata dalla scoperta della spada di Marte, sempre ritenuta sacra dai re sciti» (Jordanes, Historia Gothorum, XXXV, traduzione di Stefano Gasparri).

proprie azioni offensive nel cuore dell’Italia, probabilmente preferendo intavolare trattative con i Romani. In questa luce deve essere collocato l’incontro sul fiume Mincio fra Attila e il papa Leone I. Ulteriori sviluppi del progetto politico di Attila di portare a compimento la supremazia unna sull’impero romano furono stroncati dalla sua morte, avvenuta nel 453. Gli Unni non riuscirono a trovare una nuova guida di pari carisma e la loro potenza si dissolse rapidamente.

Un ritratto da correggere

La vicenda di Attila, osservata nel suo insieme, rivela con chiarezza che il luogo comune dell’efferata e cieca furia distruttiva del capo unno non è sostenibile. Attila può avere sopravvalutato le sue forze nell’attaccare i Romani in Gallia, non tenendo conto dell’eventualità che l’impero potesse riuscire a concertare una difesa comune con le popolazioni germaniche ormai stabilmente insediate in quella regione (i Visigoti, in primo luogo), cosa che rese possibile la vittoA sinistra medaglione con un ritratto di Attila, già nella collezione dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo. XVI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum. 60

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un rifiuto fatale

Medaglione in vetro dorato, di epoca tardo-romana inserito nella Croce di Desiderio (VIII-IX sec.). Brescia, Museo di Santa Giulia. Secondo la leggenda, vi sarebbe ritratta l’imperatrice Galla Placidia (al centro), con i figli Valentiniano (a sinistra) e Giusta Grata Onoria (a destra). Quest’ultima, nel 450, offrí la sua mano ad Attila, ma la corte di Ravenna si oppose alle nozze. Il re unno prese quel rifiuto a pretesto della decisione di invadere i territori dell’impero romano d’Occidente, seminandovi, con le sue orde, rovine e stragi efferate. Circa l’identità dei personaggi effigiati nel medaglione, appare piú probabile che si tratti della regina Ansa, fondatrice del monastero di Santa Giulia, con i figli Adelchi e Anselperga.

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Gli Unni

il capolavoro di aezio ai campi catalaunici Le vicende relative alla preparazione della battaglia dei Campi Catalaunici, raccontate dallo storico goto Jordanes, risultano del massimo interesse per due ragioni: mostrano la capacità di Attila di dialogare con le forze nemiche, cercando di separarle, per attaccarle singolarmente, e, d’altra parte, rivelano che l’esercito romano a quell’epoca era composto da un mosaico di genti che combattevano piuttosto con i Romani, che non agli ordini dei Romani. Il miracolo di Aezio, il comandante romano, fu proprio l’essere riuscito a tenere insieme, nel nome di Roma, gruppi etnici che agivano ormai in maniera molto indipendente da essa. «Attila manda (…) un’ambasceria in Italia all’imperatore Valentiniano, allo scopo, seminando discordia fra Romani e

Goti, d’indebolire dall’interno, mediante la rivalità e il sospetto, quelli di cui non avrebbe potuto avere ragione con le armi. (…) Aveva condito la lettera con le solite clausole di complimento e d’adulazione, studiandosi di dare alla menzogna l’apparenza della verità. Intanto un’altra lettera indirizzava a Teodorico, re dei Visigoti, esortandolo ad abbandonare l’alleanza con i Romani per ricordarsi invece della guerra che gli avevano mosso con tanto accanimento: quell’uomo scaltro, ancor prima che con le armi, sapeva infatti combattere d’astuzia». In realtà, Aezio riesce a evitare che i Visigoti, suoi principali alleati, cedano alle lusinghe di Attila e raccoglie il proprio esercito: «Da parte romana, poi, la preveggente attività del patrizio Aezio, su cui poggiava allora l’impero d’Occidente,

Incisione ottocentesca raffigurante Attila ai Campi Catalaunici, pianura della Gallia (nell’odierna Champagne), localizzata da alcuni storici presso Châlons-sur-Marne, da altri presso Troyes. Il re unno vi combatté nel 451 d.C. contro il generale romano Aezio, che ebbe la meglio, ridando respiro all’impero romano agonizzante.

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MARE DEL NORD

GLI UNNI E ATTILA

MAR BALTICO

Territorio direttamente sottoposto ad Attila Confine dell’impero romano sotto Diocleziano (284-305)

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Divisione dell’impero da parte di Teodosio (395)

FEDERATI DI ATTILA

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Residenza di Attila

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IMPERO D’ORIENTE

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In alto l’assetto geopolitico dell’area mediterranea e balcanica all’epoca in cui gli Unni si affacciarono ai confini dell’impero romano. fu tale da permettergli di marciare contro quella feroce e innumere turba di nemici con forze non inferiori, riunite da ogni parte. Infatti i Romani potevano contare su contingenti di Franchi, di Sarmati, di Armoricani, di Liziani, di Burgundi, di Sassoni, di Ripuari, di Ibrioni, un tempo soldati dell’impero, ma ora richiamati solo come ausiliari, e su truppe di altre stirpi celtiche o germaniche. Il concentramento ebbe luogo ai Campi Catalaunici, detti anche Mauriaci, che si estendono per cento leghe in lunghezza e settanta in larghezza: angolo di mondo divenuto arena d’innumerevoli genti. I due eserciti si fronteggiano, entrambi al massimo della tensione: rinunciando a ogni sotterfugio, la battaglia è campale». Attila ha ricevuto presagi negativi dagli indovini, ma decide comunque di accettare la sfida in campo aperto, spinto da una profonda avversione per Aezio, in passato ostaggio proprio presso gli Unni. La battaglia si svolge intorno a una collina, che ambedue gli schieramenti lottano per controllare. La presenza di Attila domina, magnetica, il campo di battaglia, ma la rapidità di Aezio e del re visigoto Teodorico nel raggiungere per primi la sommità della collina mette gli Unni in svantaggio, costringendoli a combattere sulla difensiva. La battaglia si protrae per tutto il giorno in una spaventosa macelleria di uomini e animali in cui cade anche il re visigoto e, alla fine, i Romani riescono a far sí che Attila non vinca, il che poteva ben considerarsi per loro una vittoria.

ria di Aezio ai Campi Catalaunici. Tuttavia, il disegno strategico che egli aveva in mente era chiaro, e discendeva da una sua conoscenza delle dinamiche politiche interne al mondo romano, frutto di anni di contatti diplomatici, nelle quali venne peraltro coinvolto da un rappresentante di primissimo piano della famiglia imperiale. Il piano di Attila è l’unico elaborato da un capo «barbaro» che abbia avuto come prospettiva quella di un’egemonia globale su una delle due parti dell’impero, laddove i sovrani delle varie popolazioni che entrarono, in vari momenti e in vari luoghi, a contatto con esso, dispiegarono in genere strategie limitate all’ambito geografico in cui s’insediarono o, al massimo, alle regioni ad esso piú prossime. Esso rappresenta anche un’inedita possibilità di connessione dell’Europa romana con il resto delle regioni continentali interne, sempre fortemente marginali nella visione geopolitica del mondo propria di Roma, che aveva inevitabilmente il Mediterraneo al proprio centro. Naturalmente non è possibile ragionare in termini storici relativamente a eventi che non si sono verificati, ma certamente, date le premesse appena ricordate, il successo eventuale dell’egemonia unna sull’Europa occidentale non avrebbe significato la sua riduzione sotto un dominio «barbaricamente» inconsapevole di cosa fosse stato l’impero di Roma. invasioni barbariche

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i franchi 64

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Base 42


Un popolo in cerca di radici Giunsero perfino a dirsi discendenti del re troiano Priamo... Ma chi erano davvero le genti che, nel corso del V secolo, acquisirono il controllo della Gallia?

Clodoveo con la moglie Clotilde (la futura santa), che lo ha convinto a convertirsi alla fede cristiana, schizzo di Antoine-Jean Gros per la decorazione della cupola della chiesa parigina della Sainte-Geneviève (l’odierno Pantheon). 1811 circa. Parigi, MusĂŠe du Petit Palais.

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I Franchi

«T

occa al re, per primo, di essere battezzato. Egli muove, novello Costantino, verso la vasca ove potrà guarire di una vecchia lebbra e mondarsi con acqua fresca dell’antica macchia, raggiunto, una volta immerso nel fonte, da queste parole a cui il Santo di Dio, Remigio vescovo di Reims, dà voce eloquente: “Piega con dolcezza il capo, e adora ciò che hai bruciato e brucia ciò che hai adorato”. Cosí dunque il re, confessato il Dio onnipotente nella sua Trinità, fu battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e unto del sacro crisma nel segno della croce del Cristo. Con lui, piú di tremila uomini del suo esercito ricevettero ugualmente il battesimo» (Gregorio di Tours, Historia Francorum, I, 31, traduzione di Elio Bartolini). Con queste parole, Gregorio di Tours, che scri-

In basso busto di Magnenzio, da Lugdunum (l’odierna Lione). IV sec. Vienne, Musée lapidaire de Sainte-Pierre. Di origine germanica, partecipò alla congiura in cui, nel 350, fu ucciso Costante, facendosi acclamare imperatore dai cospiratori, ma lo contrastò l’imperatore d’Oriente Costanzo II, che nel 351 lo vinse a Mursa, in Pannonia, costringendolo a fuggire in Italia; di qui riparò in Gallia dove si uccise.

ve alla fine del VI secolo, racconta la conversione al cattolicesimo del re dei Franchi Salii, Clodoveo (re dal 481 al 511), avvenuta nel 496, per opera del santo vescovo Remigio di Reims. A oltre millecinquecento anni di distanza, vi sono ragioni ancora ben vive per meditare su quell’evento, soprattutto tra i nostri cugini d’Oltralpe, poiché per molti esso ha simboleggiato l’atto di avvio di un percorso che avrebbe condotto verso la formazione della Francia medievale e moderna.

Gli effetti politici di una scelta di fede

Certo, è difficile immaginare relazioni cosí strette di causa ed effetto fra un singolo evento e il processo secolare di definizione dello Stato francese. Però, è probabile che la «scelta di campo» operata in ambito religioso da parte dei Franchi costituí un elemento di rilievo fra gli ingredienti che aprirono a questo popolo le porte del predominio politico su quello che era stato il territorio della Gallia romana. È difficile capire sino in fondo quali riflessioni

Comitatenses (armate di terra)

Dux (generale al comando di 2 o piú legioni)

Duces

Legates

Legatus (comandante di legione)

Legioni

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Auxilia

(truppe d’appoggio)

Comandante federato

Foederati (alleati)


imperatori soldati

Senato

(ruolo nominale)

A destra coppa in argento, nota anche come Missorio di Kerc, sulla quale compare l’immagine di Costanzo II a cavallo. IV sec. San Pietroburgo, Museo di Stato dell’Ermitage. Sulle due pagine la struttura di comando dell’esercito romano in età tardo-imperiale, con ruoli separati tra il magister equitum e il magister peditum, al posto del successivo ruolo complessivo di magister militum, per il comando delle truppe dell’impero romano d’Occidente.

Imperatore (in Occidente)

Cesare (in Occidente)

Magister militum (comandante generale delle truppe)

Magister peditum (comandante della fanteria)

Praefectus classis (Comandante della flotta)

Dux (generale al comando di 2 o piú legioni)

Duces

Legioni

(Istituto di gestione delle spese belliche)

Magister equitum (comandante della cavalleria) Limitanei (truppe preposte al controllo dei confini)

Legates

Erario militare

Legatus (Comandante di legione)

Auxilia

Flotta

(truppe d’appoggio)

abbiano portato Clodoveo a prendere la decisione di «farsi cattolico» cosí in anticipo rispetto ai sovrani di altri popoli migrati all’interno dell’impero. Probabilmente, un ruolo in tal senso deve averlo giocato il fatto che i popoli che le fonti romane indicano come appartenenti al piú vasto raggruppamento dei «Franchi» furono tra i primi a entrare stabilmente in contatto con l’impero, nel corso della seconda metà del III secolo, sia penetrando armi in pugno all’in-

terno delle sue frontiere sia, allo stesso tempo, fornendo truppe ausiliarie all’esercito. Ciò è confermato dal fatto che, nel IV secolo esponenti delle tribú franche appaiono tra coloro che per primi raggiunsero posizioni di rilievo nelle armate romane e, tra questi, si annovera la figura di Magnenzio. Secondo le fonti egli fu un laetus franco, e cioè un barbaro che arruolatosi tra le fila dell’esercito, oppure un «mezzosangue» romano, figlio di un britanno e invasioni barbariche

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I Franchi

di una donna franca. La sua carriera nella gerarchia militare fu fulminante, tanto che, nel 350, riuscí a farsi proclamare imperatore sfidando il figlio di Costantino, Costanzo II, e rimanendo al potere sino al 353. Fu sconfitto anche grazie alla defezione del suo piú importante generale, Silvano, che, a sua volta, era figlio di un franco e che, in conseguenza del suo cambio di fronte, fu promosso da Costanzo al rango di magister militum dell’esercito della Gallia, per poi essere deposto e ucciso a sua volta nel 355, a causa del fatto (sulla cui veridicità però rimane qualche dubbio) di essersi a sua volta fatto proclamare imperatore. Silvano era sicuramente cristiano, anche se ciò dipese certamente piú dal fatto di essere un immigrato «di seconda generazione», che non dalla particolare diffusione delle conversioni dei Franchi che ancora vivevano al di là delle frontiere.

Franchi illustri

Per tutto il IV secolo sono segnalate figure di Franchi divenuti personaggi di primissimo piano all’interno dei quadri superiori dell’esercito romano e pienamente coinvolti, al piú alto livello, nei giochi politici del tempo: Ricomero, magister militum per Orientem dal 388 al 393, era stato addirittura console nel 384. Suo nipote Arbogaste, ricoprí la stessa carica in Occidente e fu il «kingmaker» dell’elezione imperiale di Eugenio, il campione della sfortunata resistenza contro il

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somiglianze e contaminazioni Trovandoci in un immaginario scenario di frontiera, lungo il basso Reno, all’inizio del V secolo, in un luogo in cui truppe regolari romane prestassero servizio insieme a federati franchi, nell’osservare l’abbigliamento degli uni e degli altri, riscontreremmo assai piú somiglianze che differenze. Gli abiti sono composti, per tutti, da pezzi simili, consistenti in un paio di braghe – veri e propri pantaloni – lunghe sino alle caviglie e in un ampio camicione a maniche lunghe, discendente sino alle cosce. Le vesti dei soldati romani erano in genere di colore bianco o grigio, decorate sulle spalle e sugli orli da fasce con motivi di colori e disegni variabili a seconda dell’unità di appartenenza. Per i Romani è ben attestato, già dal III secolo, l’uso di un copricapo rotondo di pelliccia – una sorta di basso colbacco – per proteggersi dai rigori delle regioni settentrionali. Il gruppo statuario dei Tetrarchi, murato nell’angolo della facciata di S. Marco a Venezia, mostra come l’uso di questo copricapo

Nella pagina accanto Venezia, basilica di S. Marco. Il monumento ai Tetrarchi, gruppo statuario in porfido proveniente da Costantinopoli. III-IV sec. In basso litografia ottocentesca che propone una ricostruzione degli abiti tipici dei Franchi.

progetto di Teodosio di proclamare il cristianesimo come unica fede lecita nell’impero. Per un paradosso della storia, l’esercito inviato da Teodosio per reprimere la rivolta di Eugenio e Arbogaste era comandato proprio dallo zio di quest’ultimo, Ricomero, e i due non si scontrarono solo perché Ricomero morí prima della battaglia decisiva, avvenuta presso il fiume Frigidus (l’attuale Isonzo). Tra queste figure di «Franchi illustri» del IV secolo, vale la pena ricordare anche Merobaude. Egli fu magister militum per Illyricum – cioè comandante delle truppe romane


si fosse diffuso sin presso i gradi piú alti della gerarchia militare romana. In vita, sia il Romano che il Franco avrebbero portato una cintura in cuoio con fibbie, passanti e pendenti in argento sbalzato riccamente decorati. Ambedue avrebbero appeso alla cintura il fodero di una lunga spada a doppio taglio. Il passaggio dal gladio alla spada è uno dei tratti piú caratteristici di «contaminazione barbarica» della dotazione militare romana. Il barbaro, soprattutto se franco, avrebbe potuto dotarsi anche di un’ascia da combattimento e di una spada piú corta a unico taglio. Lo scudo è per ambedue rotondo, il legno rivestito di cuoio con rinforzi in bronzo, piú grande probabilmente quello del soldato romano.

I Tetrarchi indossano il colbacco di pelliccia tipico dei soldati romani

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nei Balcani – e autore dell’elevazione a imperatore di Valentiniano II, figlio del defunto imperatore Valentiniano I, morto nel 375. La sua fama è anche tristemente legata alla sconfitta che i Romani subirono ad Adrianopoli, nel 378, per opera dei Goti, poiché egli si rifiutò di intervenire, con le sue truppe, in aiuto dell’imperatore Valente, che morí in battaglia. Nel 358, l’imperatore Giuliano aveva concesso a una delle popolazioni «franche», quella dei Salii, il permesso d’installarsi in un territorio appena all’interno dei confini dell’impero, presso le foci del Reno. Frammenti di notizie riportati da diverse fonti storiche ci lasciano comprendere che il variegato mosaico di popoli che componeva la «galassia» dei Franchi nella prima metà del V secolo profittò del crollo della frontiera del Reno per penetrare nei territori imperiali, ma ci dicono anche che, in molti casi, fra essi si annoverarono coloro che lottarono piú a lungo per evitare il collasso definitivo del controllo romano sulle regioni galliche.

Unione mistica

Dal ceppo dei Salii deriverebbe proprio la famiglia di Clodoveo, e questo potrebbe aiutare a spiegare meglio il retroterra della decisione del re di convertirsi. Clodoveo, nel rito della conversione collettiva sua propria e di tutti i suoi guerrieri, avrebbe unito misticamente se stesso e le sue genti alle popolazioni gallo-romane che stava conquistando, tramutandosi da aggressore a difensore dei loro costumi e della loro fede. Dunque, la fede cattolica appare come il cemento soprannaturale per la costruzione di una nuova storia, di cui i Franchi sono araldi, e presuppone anche il superamento del contrasto etnico tra conquistatori e conquistati; disinnesca per sempre, per cosí dire, gli attriti tra due popoli destinati a vivere negli stessi spazi geografici. In relazione a diversi punti di vista, vi è chi interpreta questo evento come la ragione ideale profonda del precoce successo dell’unità nazionale francese, e chi, pur rifuggendo da una lettura troppo apertamente confessionale, riconosce comunque, all’atto di Clodoveo, la lungimiranza di aver effettivamente consentito ai Franchi maggiori possibilità di assimilarsi ai Gallo-Romani, senza però perdere la loro visibilità etnica e la loro supremazia politica. Nasce davvero qui la Francia, Paese di nome germanico e di lingua neolatina? In tempi come quelli attuali, in cui le guerre di religione, che spesso sono, allo stesso tempo, causa ed effetto di conflitti etnici sanguinosissimi, la riflessione su questo epi70

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In alto cromolitografia che illustra gli oggetti facenti del parte del corredo di Childerico I, la cui tomba fu scoperta a Tournai (Belgio) nel 1653. In basso replica dell’anello sigillo di Childerico I, recante l’immagine del re e la dicitura CHILDIRICI REGIS. Oxford, Ashmolean Museum.


il tesoro di childerico Il prezioso corredo del re merovingio fu scoperto il 27 maggio del 1653 nei pressi del cimitero della chiesa di Saint Brice, a Tournai

Alcuni degli oggetti preziosi che fanno parte del corredo funebre deposto nella tomba di Childerico I. Ante 481. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Evidenziato dalla cornice, è l’anello sigillo del sovrano, di cui, anche in questo caso, è esposta una replica, poiché l’originale è scomparso nel 1831.

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1

2

1. faramondo

2. meroveo

primo re dei Franchi e avrebbe regnato dal 420 al 428. Ma la sua figura appartiene piú alla leggenda che alla storia.

dal 448. Con Aezio, sconfisse Attila ai Campi Catalaunici, estendendo poi il suo potere alla Gallia settentrionale e meridionale.

Secondo la tradizione, fu il

(† 457 circa). Regnò sui Franchi

3

3. clotilde

(474 circa-545). Figlia di Chilperico, re dei Burgundi, ardente cattolica, sposò nel 492 Clodoveo, re dei Franchi, e lo indusse alla conversione.

Quali furono le motivazioni reali della scelta di Clodoveo di convertirsi alla religione cristiana? E quali risultati sperava di ottenere con tale mossa? 72

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sodio non è solo accademica, anche considerando l’attuale impatto, che la Francia stessa subisce, di onde di immigrati che recano con sé culture e fedi diverse. Ma come e perché il re dei Franchi giunse a compiere il gesto della conversione in maniera cosí plateale? Che cosa sperava di ottenere? Quale era la posizione politico-militare sua e del suo popolo nella Gallia della seconda metà del V secolo? Come abbiamo appena visto, la conversione del 496 appare certo come il punto di partenza di una nuova storia, ma è anche il punto di arrivo di un secolo turbolento per le province romane di Gallia, caratterizzato da vicende delle quali i Franchi non furono i soli protagonisti.

La leggenda delle origini

4

4. clodoveo

(465-511). Salí al trono nel 481 e, nel 496, dopo una decisiva vittoria sugli Alamanni a Tolpiacum, si convertí al cattolicesimo.

5

Abbiamo già individuato alcune tappe del cammino dei Franchi nel quadro della storia della tarda antichità, ma vale la pena ricapitolare anche qualche passaggio dell’idea del proprio passato, che essi consegnarono alla storia attraverso le parole del Chronicon di Fredegario, un autore franco-burgundo che scrisse nel VII secolo. Egli narra che i Franchi discendevano dai Troiani. Il re di Troia Priamo, lasciata la città conquistata e distrutta dai Greci, con il figlio Antenore avrebbe intrapreso una lunga pere-

5. childeberto I

(495-558). Succedette (511) al padre Clodoveo I nella quarta parte del regno e mantenne la capitale a Parigi. Favorí la Chiesa e costruí conventi e ospedali.

In alto, sulle due pagine i re merovingi, litografia. 1860 circa. A destra il re Meroveo, da Les augustes représentations de tous les rois de France, depuis Pharamond jusqu’à Louis XIV. Parigi, 1690.

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grinazione che li avrebbe portati, nel IV secolo d.C., nelle lande dell’attuale Ungheria dove, incontrato l’imperatore romano Valentiniano e il suo esercito, furono da questo sconfitti e costretti a migrare verso nord, nella valle del Reno, ove si stabilirono definitivamente. La leggenda ammanta di antica nobiltà un problema effettivo, per i Franchi: la difficile ricostruzione del proprio passato remoto. Prima del III secolo d.C., infatti, non vi è traccia di un popolo con questo nome e, probabilmente, esso emerge all’interno di un agglomerato di tribú germaniche note sin dal I secolo come «Chatti» o «Amsivarii», costituendo quella parte di essi che si dedicava, lungo le coste del Mare del Nord, ad attività di pirateria e di incursione, insieme ai Sassoni, lungo le coste della Britannia. Quando, nella notte dell’ultimo dell’anno del 406, il Reno ghiacciato permette a orde di Germani di attraversare la frontiera dell’impero, consentendo a questi popoli di vagare e insediarsi praticamente indisturbati nelle Gallie, i Franchi restano in certo senso in ombra, limitandosi a continuare ad abitare nelle terre a A destra, sulle due pagine una veduta del fiume Reno nel primo tratto in cui le sue acque segnano il confine tra Francia e Germania. Qui sotto particolare di un cammeo con l’immagine di Priamo, di cui il capo franco Chlodio si considerava discendente. Manifattura di Wedgwood (Inghilterra). XIX sec.

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Elmo in bronzo di produzione merovingia, ritrovato in una sepoltura principesca scoperta nel 1939 presso Planig, un sobborgo di Bad Kreuznach (Renania-Palatinato, Germania). 520 circa. Magonza, Landesmuseum.

Secondo la leggenda, il padre di Meroveo sarebbe stato il mostro Quinotaurus, emerso dalle acque del Mare del Nord invasioni barbariche

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le ultime legioni: signori «romani» a difesa dell’impero Secondo lo storico galiziano Idazio, morto intorno al 470, Egidio «era un uomo di gran fama, gradito a Dio per le sue grandi imprese». Aveva servito l’imperatore Maggioriano (461-465) – forse l’ultimo sovrano ad aver cercato di svolgere un’autonoma azione di governo nell’ormai evanescente impero d’Occidente – combattendo in Gallia contro i Burgundi e i Visigoti. Ucciso Maggioriano, Egidio non riconobbe l’autorità del nuovo imperatore Libio Severo, messo sul trono dal goto Ricimero, il capo dell’esercito d’Occidente ormai quasi interamente composto da «barbari», e promosse una politica di fatto autonoma da Roma, tenendo sotto il proprio controllo parti della Gallia nord-occidentale, di cui non riusciamo a valutare esattamente l’estensione. Pochi mesi dopo Maggioriano morí anche Egidio, forse non di morte naturale. Tuttavia, il figlio, Siagrio, ne ereditò il potere, stabilendo la sua dimora a Soissons, una città situata qualche decina di chilometri a nord-ovest di Parigi. Il suo nome era comune fra i Gallo-romani della zona di Lione e si è perciò pensato che la famiglia sua e di Egidio provenisse da quel territorio. Purtroppo, tutte le informazioni su Siagrio provengono da fonti posteriori di almeno un secolo, soprattutto dall’Historia Francorum di Gregorio di Tours. 76

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Proprio Gregorio si riferisce a lui con l’appellativo di rex, il che suggerirebbe che, sulle orme del padre, Siagrio avesse consumato definitivamente il proprio distacco da Roma, rinunciando a proclamarsi imperatore, come altri avevano fatto in Gallia nei secoli precedenti. Ma rex è anche il titolo che d’abitudine si attribuivano i sovrani dei regni che si sostituirono in Occidente al dominio imperiale, per cui è anche possibile che Gregorio lo abbia utilizzato in analogia a quello che vedeva intorno a sé, non riuscendo magari a comprendere esattamente chi fosse stato e come avesse governato Siagrio. L’altra principale fonte scritta sulla storia dei Franchi, il Chronicon di Fredegario, attribuisce a Siagrio il titolo di patricius. Fra rex e patricius c’era comunque una differenza considerevole. Quest’ultimo, infatti, fu per esempio il titolo assegnato a Odoacre dall’imperatore d’Oriente, Zenone, dopo la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo. Con quella titolatura, s’intendeva in sostanza che Odoacre era una sorta di «uomo di fiducia» dell’imperatore, che ne rappresentava il potere su territori che, comunque, rimanevano sotto la sua sovranità. Un rex, invece, esercitava una sovranità ben piú cospicua sui territori posti sotto il suo controllo,


cavallo del basso corso del Reno, senza avere un re unico che li guidi, il che è indice di una struttura sociale ancora non troppo compatta.

Il terrificante Quinotaurus

Tutto cambia, improvvisamente, alla metà del V secolo, grazie all’intervento del Quinotaurus, un terrificante mostro marino. La moglie di Chlodio, uno dei capi franchi discendenti del re troiano Priamo, stava facendo il bagno nelle acque del Mare del Nord, quando il mostro apparve, si accoppiò con lei e generò un figlio, che ebbe nome Meroveo. Questi sarebbe stato il primo vero e proprio re dei Franchi. Ma le fonti non consentono di definirne il profilo reale, al di là della leggenda. Sembra però chiaro che, intorno alla metà del V secolo, la struttura socio-politica dei Franchi stava iniziando a mutare, dirigendosi verso una piú compatta forma monarchica e verso una piú dichiarata e corale volontà di integrazione con il mondo romano. A conferma di ciò, sappiamo che i Franchi presero parte, nel 451, a quell’armata «multietnica» di Germani e Romani, che, al comando del generale romano Aezio, sbaragliò gli Unni di Attila. Le due leggende della discendenza troiana della stirpe dei re e della sua commistione con mostruose creature soprannaturali indica che i Franchi vogliono dichiararsi «fratelli» dei Ro-

mani (Troia è la città da cui proviene Enea, progenitore di Romolo, fondatore di Roma), ma, allo stesso tempo, che intendono dimostrare di recare con sé una forza superiore, non umana, che li chiama a compiti speciali. Il figlio di Meroveo, Childerico, è il primo re franco per il quale i fatti leggendari si associno a notizie storiche piú precise. Ma le leggende prevalgono ancora. Era stato esiliato dai Franchi, ci racconta sempre Fredegario (III, 12), a causa delle sue intemperanze sessuali. Ma il suo fido Wiomad sobillò i Franchi contro il signore della guerra Egidio, un romano che controllava il Nord della Francia, e contemporaneamente fece sí che l’imperatore di Costantinopoli donasse a Childerico un grande tesoro, con il quale quest’ultimo potesse tornare tra i suoi e guidarli nella guerra contro Egidio.

Franchi Salii Novidunum (Soissons) Lutetia Parisiorum (Parigi)

ARMORICA Bretoni

Franchi Ripensi Durocotorum (Reims)

Aurelianum (Orléans)

Adecavus (Angers) Loira

Nella pagina accanto, in alto Treviri (Germania). La Porta Nigra, innalzata tra il 180 e il 200 d.C. Nella pagina accanto, in basso una siliqua (moneta romana d’argento coniata dall’età costantiniana) recante al dritto l’effigie di Flavio Eugenio, usurpatore dell’impero nel biennio 392-394, e, al rovescio, la personificazione di Roma. Zecca di Milano. 393-394.

Dolensus (Délons)

Burgundi

Avaricum anche se, formalmente, poteva essere (Bourges) considerato ancora sotto l’egida dell’imperatore, qualora il suo regno si estendesse su territori che Lugdunum erano già appartenuti allo Stato romano. (Lione) In ogni caso, Siagrio dovette riuscire a dominare Visigoti un’area che si estendeva dai confini della DOMINIO Bretagna sino, grosso modo, ai rilievi della Somme e delle Ardenne, costringendo i Franchi di DI SIAGRIO Childerico a ripiegare verso est. Il suo dominio, Anno 486 circa basato sempre sulla città di Soissons, perdurò Tolosa Narbo sino al 486, quando fu sconfitto ed eliminato dal (Narbona) figlio di Childerico, Clodoveo. Una parabola simile a quella di Egidio e Siagrio egli esercitava una qualche autorità sulla città e sul fu seguita da Arbogaste fra gli anni Settanta e Ottanta territorio in virtú del suo personale carisma e di forze che del V secolo. Questi era il nipote dell’omonimo generale rispondevano direttamente solo a lui. franco che era stato comandante degli eserciti romani al Non è chiaro come si sia conclusa la parabola politica di tempo di Teodosio, ma evidentemente gli abitanti Arbogaste: forse egli è la stessa persona che, nel 490, «romani» dell’Alsazia-Lorena e della città di Treviri, di cui troviamo vescovo della diocesi di Chartres. Come molti egli nel 477 era comes (termine che nel latino classico altri aristocratici gallo-romani del tempo, anche lui aveva indicava coloro che assistevano i magistrati nelle capito che la militanza nella Chiesa costituiva l’unico e province e, dall’età di Costantino, gli alti funzionari, n.d.r.), l’ultimo baluardo di resistenza di fronte alla presa del lo consideravano pienamente «uno di loro», tanto che in potere da parte dei Franchi. Il personaggio di Siagrio (ma un panegirico in suo onore Sidonio Apollinare diceva che potremmo dire altrettanto di Arbogaste) è stato talora il suo latino era squisito e fluente come quello di un accostato ad altri semileggendari caratteri di «autoctoni romano vero e che, in quella terra ai confini del mondo, resistenti» al dilagare delle genti germaniche nei territori grazie all’esistenza di persone come lui si poteva sperare dell’impero romano, come il re Artú delle saghe che l’eredità culturale di Roma non sarebbe morta. britanniche. Capi che non erano piú Romani nel senso Sidonio dice anche che la presenza di Arbogaste era vero e proprio del termine, ma che certamente si ancor piú preziosa nella città, poiché a Treviri la legge proponevano come custodi di un mondo che dei Romani romana era ormai «morta», e ciò potrebbe voler dire che si considerava diretto erede.

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BARBARI

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I Franchi

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Incisione settecentesca nella quale si immagina il momento dell’acclamazione di Meroveo a re dei Franchi Salii, nel 448.

La figlia del re dei Turingi, che alla fine riuscí a imbrigliare gli ardori di Childerico, facendosi da lui sposare, nella prima notte di nozze lo trasse fuori dalla tenda e gli mostrò una fila di animali miracolosamente apparsi, che simboleggiavano la discendenza del re: a un gruppo di leoni, unicorni e leopardi seguirono uno stuolo di lupi e orsi e, infine, un branco di cani. Di nuovo, le leggende possono costituire un’utile chiave di lettura per interpretare gli scarni dati storici. Childerico muore nel 481, dunque quando l’ultimo imperatore romano d’Occidente è stato ormai deposto (Romolo Augustolo, nel 476). La Gallia, abbandonata a se stessa, è spartita tra regni germanici (Visigoti, Alamanni e Burgundi), e domini di signori della guerra romani (quello di Egidio e suo figlio Siagrio) e di popolazioni celtiche (la Bretagna). Il re, che cerca di stabilire il predominio della sua progenie sul popolo dei Franchi (a questo probabilmente si riferisce l’esilio di Childerico causato dalla sua esuberanza sessuale), contemporaneamente tenta di ottenere riconoscimenti da parte dell’imperatore d’Oriente e lotta per affermare il controllo franco sulle terre delle ex province romane della Gallia Belgica (attuale Belgio e nord-est della Francia).

Un ordine nuovo

La posizione-chiave che i Franchi detengono a cavallo tra gli ex territori romani e le terre dell’antica Germania libera, lungo il basso corso del Reno e della Mosa, li rende protagonisti dei movimenti commerciali che si svolgono vivaci tra le regioni scandinave, la Germania interna, le isole Britanniche e la Gallia vera e propria. La scomparsa della frontiera romana riconnette un’area di scambio gravitante lungo le sponde del Mare del Nord, su cui avevano dominato i Celti, prima dell’arrivo dei Romani. I ritrovamenti archeologici (primo tra tutti il sepolcro dello stesso Childerico) mostrano che le terre dei Franchi, nella seconda metà del V secolo, sebbene sottoposte a un ordine nuovo rispetto a quello dell’età romana, sono tutt’altro che delle aree impoverite. Probabilmente, la tardiva formazione di un potere centralizzato, sotto il controllo di un unico re e il progressivo arricchimento che si verifica nel corso della seconda metà del V secolo, pone i Franchi nella condizione di presentarsi, sulla scena della Gallia, come una sorta di nuova forza in campo, che allo stesso tempo può vantare una consolidata familiarità con il mondo romano di quelle regioni, le sue regole, le sue tradizioni e comprendere la rilevanza dei rapporti con la metà dell’impero che ancora sopravvive a Costantinopoli: proprio quel che accade con il figlio e successore di Childerico, Clodoveo (481-511). invasioni barbariche

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La prima clodoveo

Francia

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La nascita del regno franco viene tradizionalmente considerata come frutto della decisione di Clodoveo I di convertirsi al cristianesimo. Ma fu davvero cosí? La scelta del sovrano ebbe certamente un peso determinante, ma è probabile che i tempi fossero comunque maturi per la creazione di una delle entità politiche piú importanti dell’Occidente europeo

Paray-le-Monial (Francia), basilica del Sacré-Coeur. Particolare di una vetrata con Clodoveo battezzato da san Remigio alla presenza della regina Clotilde. Il battesimo del re è considerato l’atto fondatore del regno dei Franchi.

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Clodoveo

I Franchi all’avvento di Clodoveo Regno di Siagrio (486)

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Territori degli Alamanni (496-97)

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Annessione dei Ripuari e di tutte le tribú dei Franchi

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CONQUISTE DI CLODOVEO

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Marsiglia

a miracolosa apparizione del corteo di animali di fronte alla tenda di Childerico, durante la sua prima notte di nozze (vedi, nel capitolo precedente, a p. 79), avrebbe simboleggiato che la discendenza del sovrano annoverava al principio personaggi eccezionali per forza, astuzia e nobiltà (il leone, il leopardo e l’unicorno), quindi individui feroci e forti (il lupo e l’orso) e infine persone assai piú ordinarie e tuttavia aggressive (i cani). Certamente, al momento di chiudere per sempre gli occhi, Childerico poteva immaginare, ripensando alla profezia, che almeno nell’immediato futuro ci sarebbe stata gloria per la sua gente. Il regno di suo figlio Clodoveo, infatti, appare come una sorta di crescendo rossiniano, che si conclude con i Franchi ormai padroni dei due terzi dell’antica Gallia e ancora dominatori delle terre al di là del Reno, nelle odierne Olanda e Germania centro-settentrionale, in cui erano acquartierati prima di varcare la frontiera dell’impero. Nel 486 Clodoveo distrugge il dominio del capo gallo-romano Siagrio; nel 496 sbaraglia gli Alamanni, che controllavano le attuali Alsazia-Lorena, Baden-Württemberg e Bassa Baviera e, nel 500, infligge una pesante sconfitta ai Burgundi, che dominavano le attuali Borgogna, Savoia, Svizzera e Provenza settentrionale. A questo punto, i Franchi sono padroni di tutto il Nord dell’attuale Francia e dell’intera valle del Reno.

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Regno dei Franchi alla morte di Clodoveo

Arles

Spartizione tra i suoi quattro figli CLOTARIO

In alto l’assetto geopolitico della regione francese all’avvento e durante il regno di Clodoveo. Sulle due pagine La battaglia di Tolbiac, olio su tela di Ary Scheffer (1795-1858). 1834. Versailles, châteaux de Versailles et de Trianon. Il dipinto raffigura lo scontro che si combatté nel 496 presso l’attuale Colonia e che vide il re dei Franchi Clodoveo I trionfare sugli Alamanni.


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Clodoveo

vivere al tempo dei merovingi È stata una scoperta casuale, avvenuta nel corso di lavori agricoli nei campi delle colline dell’Aisne (Francia nord-occidentale), a riportare alla luce il piccolo villaggio merovingio di Goudelancourt. Il ritrovamento è avvenuto nel 1981, e gli scavi sono proseguiti per tutti gli anni Ottanta e per parte degli anni Novanta, riportando alla luce il sito di un intero villaggio fiorito fra il VI e il VII secolo, la sua necropoli e, poco distante, quello di una fattoria isolata dello stesso periodo. Gli archeologi non si sono però limitati semplicemente a eseguire e poi a pubblicare lo scavo con grande professionalità. Già a partire dagli anni Novanta, essi hanno infatti iniziato ad accarezzare un’idea piú ambiziosa, e cioè quella di far letteralmente rivivere quel frammento di «mondo perduto» che avevano riportato alla luce. Con l’aiuto del Comune di Marle, nel cui territorio ricadevano i siti indagati, essi hanno ottenuto la disponibilità di un vecchio mulino in abbandono e quella di un ampio terreno retrostante. Nell’edificio sono stati esposti tutti i principali reperti rinvenuti, mentre nell’area all’aperto decine di volontari hanno collaborato con gli archeologi per ricostruire in ogni dettaglio tutti gli edifici, costruiti in legno, frasche e argilla, che popolavano il piccolo villaggio e che costituivano gli elementi della fattoria. Non solo le strutture degli edifici, ma anche il loro arredamento, gli oggetti domestici, gli attrezzi, le armi e le vesti degli abitanti sono stati replicati, sulla base delle tracce e dei reperti rinvenuti nello scavo, dal paziente e meticoloso lavoro di chi ha dato vita a questo piccolo ma prezioso presidio museale, che merita una visita. Durante l’anno vengono organizzate rievocazioni storiche (vedi foto qui sopra) che attraggono molti turisti, e che soprattutto affascinano i bambini, potenziali archeologi del domani! Info: www.museedestempsbarbares.com

Nel frattempo, il 496 aveva visto la conversione del re e di molti aristocratici al cattolicesimo (ma alcuni storici ritengono che questo evento abbia avuto luogo piú tardi, intorno al 508). Tuttavia, l’azione di Clodoveo, nel corso degli anni Novanta, era guidata dalla consapevolezza che un rapporto di esplicito sostegno alle Chiese cattoliche equivalesse a guadagnarsi il favore della popolazione romana e degli intellettuali. Questo orientamento di Clodoveo pone, come abbiamo già visto, la vicenda dei Franchi in una luce particolare. Proprio nella prospettiva aperta da questa politica religiosa si colloca la piú clamorosa impresa guerresca di Clodoveo: la conquista delle regioni della Gallia sud-occidentale, sin lí controllate dai Visigoti.

Lo scontro con i Visigoti

I Visigoti erano giunti in quelle aree dopo aver lasciato l’Italia nel 412 e si erano installati a cavallo dei Pirenei, controllando progressivamente tutta la Gallia sud-occidentale e gran parte della penisola iberica. Nella seconda metà del V secolo essi erano la principale potenza dominante nei territori della Gallia centro-meridionale e Tolosa, la loro capitale, era divenuta sede 84

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Testa di Clodoveo, dal rilievo raffigurante la scena del battesimo del re sul portale nord della cattedrale di Notre-Dame a Reims. 1220-1230. Reims, Palazzo del Tau.

di una corte ricca e raffinata. Quando i Franchi, intorno al 500, riuscirono a consolidare la propria egemonia sulla Gallia settentrionale, apparve chiaro che lo scontro tra i due popoli sarebbe stato inevitabile. Poiché i Visigoti erano sí cristiani, ma seguaci dell’eresia ariana, Clodoveo, secondo quanto narrano le fonti, motivò la sua volontà di attaccarli quasi come se stesse intraprendendo una guerra santa, sollecitando le gerarchie ecclesiastiche a sostenerlo. In realtà, fu una vera e propria guerra di conquista, poiché il re dei Visigoti, Alarico II, non meno di Clodoveo, si preoccupava di mantenere rapporti di rispetto e anche di protezione nei confronti delle chiese cattoliche. La battaglia decisiva si combatté presso Poitiers, a Vouillé, e sul campo cadde anche il re dei Visigoti, che dovettero abbandonare Tolosa e ripiegare verso sud. I Franchi controllavano a questo punto anche la Gallia sud-occidentale sino ai Pirenei, con l’eccezione di una piccola striscia di costa tra Montpellier e Perpignan. È l’apoteosi di Clodoveo. Il re franco, «poi, ricevette dall’imperatore Anastasio i codicilli del


consolato e, indossata nella basilica del Beato Martino [San Martino di Tours] la tunica di porpora e la clamide, si pose in capo il diadema. Salito, quindi, a cavallo, sparse di sua mano alla folla presente oro e argento per tutta la distanza che separa la porta dell’atrio della basilica dalla chiesa cattedrale della città. Egli distribuí con grande generosità e da quel giorno fu chiamato console o augusto. Uscito poi da Tours, si recò a Parigi e vi stabilí la sede del regno» (Gregorio di Tours, Historia Francorum, II, 38; traduzione di Massimo Oldoni). Questo passo è di grande importanza storica. Innanzitutto, è la prima testimonianza della elevazione di Parigi, la romana Lutetia Parisiorum, al rango di capitale dei re franchi. In secondo luogo, esso mette in luce la profonda trasformazione che Clodoveo ha impresso alla figura del sovrano «barbaro». Il re ambisce a rendersi visibile sullo scenario internazionale, chiedendo all’imperatore di Costantinopoli una titolatura ufficiale, cosí da divenire un partner diplomatico riconoscibile e, nella celebrazione

Miniature raffiguranti, dall’alto, in senso orario, la fuga da Troia e l’incoronazione di Francion, un personaggio leggendario, da alcune fonti indicato come il principe troiano che avrebbe dato origine alla monarchia franca; una battaglia tra Franchi e Romani; re Childerico e la regina Basina; il re Faramondo, altro personaggio quasi certamente leggendario, in trono, da un’edizione de Les Grandes Chronique de France (o de Saint Denis) realizzata a Parigi intorno al 1400. Chantilly, Musée Condé.

del suo successo, riproduce gesti e atti propri dei trionfatori romani. In quei giorni il re degli Ostrogoti, Teodorico, regnava sull’Italia, sulla Dalmazia e sulla Provenza e, da Costantinopoli, la sua potenza veniva vista con crescente sospetto. Il governo bizantino stabilí perciò rapporti amichevoli con il re franco, anche al fine di preparare una possibile minaccia alle spalle di Teodorico. Si gettano cosí le basi di un interesse dei Franchi verso l’Italia che avrà ripercussioni molto rilevanti con i secoli a venire.

Battaglie e congiure

Il trionfo di Clodoveo fu costruito non solo su eroiche campagne militari, ma anche su una sequenza ininterrotta di omicidi, agguati e congiure che consentirono, nell’arco di un paio di decenni, di eliminare tutta una serie di piccoli capi di stirpe franca e di altre origini etniche che, all’interno dei territori conquistati, detenevano signorie le quali, benché divenute sue tributarie, mantenevano margini di autonomia. Si trattava in sostanza di spazzare via tutti i invasioni barbariche

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Clodoveo

le alterne fortune della francia del nord Il territorio delle odierne Piccardia e Champagne è punteggiato di musei piccoli e grandi, che raccontano la storia di città fiorite in età romana, come Amiens, Senlis, Soissons, Reims e Laon. Oggi esse sono celebri soprattutto per le spettacolari cattedrali del tardo Medioevo, simbolo della riconquistata prosperità e del dinamismo sociale e commerciale. Ma le fortune dei secoli XIII e XIV si basavano sull’eredità delle generazioni che le avevano tenute in vita anche nell’Alto Medioevo, donando loro altri momenti di splendore, dei quali restano purtroppo poche tracce. Tuttavia, le collezioni museali di queste città raccolgono segni del cambiamento, anche piuttosto drastico, che si verificò nelle condizioni e negli stili di vita delle popolazioni durante il passaggio fra l’antichità e l’Alto Medioevo. Nella seconda metà del III secolo, queste città si trovarono «in prima linea», subendo l’impatto delle scorrerie determinate dalla prima ondata di migrazioni. Si trattò di una crisi profonda, ma passeggera, contenuta dall’azione dell’esercito imperiale, con la restaurazione e il potenziamento delle difese alle frontiere del Reno. Gli eventi di quel periodo iniziarono però a modificare la vita di tutti i giorni di comunità urbane che, per circa trecento anni, avevano vissuto in una condizione di pace quasi ininterrotta. Le sedi urbane furono rapidamente serrate da cinte murarie, che lasciavano però al di fuori della loro protezione aree spesso densamente abitate. La popolazione iniziò a contrarsi, ma ancora nel IV secolo diversi centri mostrano segni di forte vitalità economica, in molti casi stimolata dall’economia indotta dalle necessità dell’esercito e dell’amministrazione civile. Il crollo della frontiera avvenuto all’inizio del 407, rivelatosi

residui dell’anarchica polverizzazione del potere, seguita al collasso dell’ordine romano nelle Gallie, e di sostituirvi l’egemonia di una nuova stirpe di re, in cui non solo tutto il popolo dei Franchi potesse riconoscersi, ma che fosse anche punto di riferimento per tutti gli abitanti delle Gallie. Il potere enorme raggiunto da Clodoveo, tutto racchiuso nell’alveo della sua famiglia, conteneva però in sé i germi dei futuri problemi e dissidi che avrebbero incessantemente travagliato il regno dei Franchi per i secoli a venire. In ogni lite di famiglia di una qualche consistenza, l’eredità gioca sempre un 86

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poi definitivo, e il progressivo dissolvimento delle strutture amministrative imperiali segnarono però cambiamenti radicali, illustrati dai dati archeologici. Colpisce soprattutto il rapido deterioramento delle infrastrutture cittadine (con l’eccezione delle mura e, in diversi casi, delle chiese) e anche del tessuto abitativo privato. Nelle campagne, le grandi ville rustiche che avevano prosperato cadono in poco tempo in abbandono e, talora, vengono sostituite da villaggi di capanne. Questi ultimi non sono sempre necessariamente i luoghi abitati dagli invasori, ma sono in molti casi lo specchio delle nuove condizioni in cui era stato possibile, anche per le popolazioni «autoctone» riorganizzare le strutture residenziali, una volta interrottosi il ciclo produttivo che garantiva l’approvvigionamento dei materiali da costruzione piú legati alla tradizione romana. L’archeologia mostra in modo altrettanto evidente anche la mutazione che si verificò nella disponibilità di beni di consumo che, se non colpí in modo drastico le élite, incise però profondamente nell’esistenza delle persone «normali». Nel corso del V secolo si nota la rarefazione fortissima di oggetti importati (e soprattutto di quelli provenienti dalle aree mediterranee), segno della drastica contrazione dei mercati. Per molti aspetti, la vita quotidiana iniziò a basarsi soprattutto sulla disponibilità di prodotti locali e, spesso, prodotti dalle stesse comunità urbane o di villaggio che poi li avrebbero consumati. Ciò che colpisce l’occhio di qualsiasi osservatore è che questo cambiamento avvenne nell’arco temporale di una generazione: nella Francia del Nord del V secolo padri e figli sperimentarono condizioni di vita assai diverse, di fronte a uno scenario di grandi cambiamenti politici, economici e sociali.

In alto tavola raffigurante monili e oggetti d’ornamento provenienti da sepolture merovinge scavate ad Aguisy (Oise, Francia settentrionale), dall’Album Caranda di Frédéric Moreau, composto tra il 1877 e il 1893.

ruolo di primo piano. Anche questo è il nostro caso. Clodoveo aveva quattro figli: uno, Teodorico, un valente guerriero, nato da una concubina; gli altri tre, Clodomiro, Childeberto e Clotario, nati da sua moglie Clotilde, principessa dei Burgundi. Clotilde esigeva giustamente che i suoi tre figli partecipassero al potere alla morte del padre e cosí Clodoveo divise il regno in quattro parti, come fossero quattro porzioni di una proprietà privata. Questo sistema di gestione della successione al regno non solo stravolgeva ogni residua coerenza del sistema amministrativo romano di organizzazione del territorio, ma


Particolare del Mosaico d’Orfeo da Blanzy-les-Fismes, presso Laon (Aisne, Francia settentrionale) che coglie il cantore nell’atto di ammansire gli animali col suono della sua lira. IV sec. d.C. Laon, Musée Municipal. L’opera è una testimonianza palese della fioritura della città, che in epoca romana era nota come Laudunum (o Lugdunum Clavatum).

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introduceva un concetto che caratterizzerà profondamente tutta l’epoca medievale: la «concezione patrimoniale dello Stato».

Gli uomini del re

Il re è allo stesso tempo il rappresentante supremo del potere politico, ma è anche il «proprietario» dello Stato, che è frutto delle sue personali conquiste. In quest’ottica il sovrano, per governare i suoi possedimenti, si servirà sia di funzionari che avevano il compito di rappresentarlo sul territorio, ma si sarebbe anche affidato ai suoi comites, ovvero alla cerchia dei suoi piú fidati compagni d’arme. Questi personaggi, legati al sovrano da un rapporto di fedeltà individuale, venivano ricompensati, per i loro servi-

la storia di francia secondo Thierry Augustin Thierry (1795-1856), grande scrittore francese dell’età romantica, è stato autore, intorno al 1840, di un eccezionale «racconto storico» delle vicende della dominazione franca sulla Gallia durante il VI secolo. Egli prese per principale guida della sua narrazione la piú importante fonte dell’epoca, e cioè l’Historia Francorum del vescovo di Tours Gregorio e, nel fedele rispetto delle notizie che essa conteneva, produsse una ricostruzione degli eventi verificatisi fra il 561 e il 585, che avvince anche il lettore meno interessato di cose storiche. La molla che spinse Thierry a tentare quest’impresa fu l’esigenza di conoscere e far conoscere meglio ai Francesi del suo tempo attraverso quali meccanismi si fossero realizzate la convivenza e la progressiva fusione tra il popolo germanico invasore dei Franchi e la

A sinistra Parigi, basilica di Saint-Denis. Il monumento funebre di Clodoveo I, in origine collocato nella chiesa di Sainte-Geneviève (l’attuale Pantheon). Al momento della traslazione, nel 1816, la tomba fu trovata vuota ed è perciò possibile che si trattasse, in realtà, di un cenotafio del sovrano. A destra miniatura raffigurante la divisione del regno avvenuta, nel 561, alla morte di Clotario I tra i 4 figli: Cariberto, Sigeberto, Chilperico e Gontrano, da un’edizione illustrata de Les Grandes Chronique de France (o de Saint Denis). XIV sec. Castres (Francia), Bibliothèque Municipale.

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popolazione nativa dei Gallo-Romani, elementi che, a suo avviso, si collocavano a fondamento della storia e dell’identità della Nazione francese. Di questo Thierry parla nella prefazione al suo libro: «Lo sgomento seguito alla conquista e alla barbarie, i costumi di coloro che hanno distrutto l’impero Romano, il loro aspetto selvaggio e strano, sono scene spesso dipinte ai nostri tempi (…). Il suo carattere originale consiste in un antagonismo di razze non piú totale, evidente, aspro; ma in un raddolcimento dovuto a molte reciproche imitazioni, nate dall’abitare sullo stesso suolo. Queste modificazioni morali, che da ambedue le parti si presentano in numerose forme e a gradi diversi, moltiplicano, nel

divenire storico, i tipi generali e le fisionomie individuali. Franchi che in Gallia restano puri germanici, Gallo-Romani che il regno dei barbari disgusta e fa disperare, Franchi piú o meno conquistati dai costumi e dai modi della civiltà, Romani diventati suppergiú barbari di animo e di maniere: il contrasto può essere colto in tutte le sue gradazioni attraverso il VI secolo, sino alla metà del successivo. Piú tardi, l’impronta germanica e quella gallo-romana sembrano svanire entrambe e dissolversi in una semibarbarie ammantata di forme teocratiche» (traduzione di Emilio Renzi).

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L’educazione dei figli di Clodoveo, dipinto di Sir Lawrence Alma-Tadema. 1861. Collezione privata.

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gi in armi, con «pezzi» del territorio del regno, che il sovrano conferiva loro in godimento secondo la propria valutazione. Nel 614 un editto del re Clotario (613-629) riconosce questa evoluzione e la accelera. In esso si afferma che il re avrebbe dovuto scegliere i propri funzionari tra i principali aristocratici proprietari terrieri del territorio su cui governava. Questo modo di gestire lo Stato, di cui vediamo le prime anticipazioni in questa circostanza, maturerà, proprio nel regno dei Franchi, nel corso dei due secoli successivi, evolvendo in quello che gli storici chiamano «sistema feudale», il cui pilastro sarà costituito dal legame di fedeltà personale fra il sovrano e suoi «uomini» che lo rappresentano sul territorio. Al contempo, il sistema spartitorio del regno, che da Clodoveo in poi regolerà la successione tra una generazione e l’altra di re franchi, sarà anche all’origine di interminabili conflitti per la supremazia tra membri della famiglia regale. Per tutto il VI secolo, come narra Gregorio di Tours con profusione di particolari cruenti, la vita del vertice del regno franco fu caratterizzata da una sequenza ininterrotta di regolamenti di conti, congiure e complotti che raramente si risolveva in momenti di pacificazione.

Le tre parti del regno

Nonostante ripetuti tentativi di ricostituire l’unità, il regno rimase diviso in maniera piú o meno permanente in tre parti: la Neustria (la parte settentrionale, lungo la Manica e il Mare del Nord), l’Austrasia (la parte orientale, verso la valle del Reno) e la Borgogna (la parte centro-meridionale della Francia). La parte sudoccidentale, sotto il nome di Aquitania, rimase in una posizione piú indipendente, anche se di fatto incorporata all’organismo del regno e coIn basso particolare di una miniatura raffigurante la divisione del regno franco tra Teodorico, Clodomiro, Childeberto e Clotario, figli di Clodoveo I, da un’edizione de Les Grandes Chronique de France (o de Saint Denis). XIV sec. Tolosa, Bibiloteca.

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barbari

Clodoveo

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In alto e in basso due fibbie in oro con inserzioni di smalti, dalla Francia. V-VII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A destra, sulle due pagine miniature con la divisione del regno di Clodoveo tra i figli, da un’edizione delle Chroniques des Rois de France. XV sec. Chantilly, Musée Condé. I quattro regni sono simboleggiati dai sovrani in trono nelle rispettive città capitali: 1. Teodorico I (485-534) a Metz; 2. Clodomiro (495-524) a Orléans; 3. Clotario I (497-561) a Soissons; 4. Childeberto I (496-558) a Parigi.

2 munque sottoposta al dominio di uno dei membri della famiglia merovingia. È chiaro, considerando quanto appena detto, che lo Stato franco si sviluppò e si consolidò sulla base di prassi e principi che divergevano profondamente dal solco della continuità con il passato romano, nonostante il fatto che i sovrani ammantassero la propria figura di simboli e paludamenti imitanti quelli della regalità imperiale, ormai rappresentata solo dai monarchi di Costantinopoli. Ma questa strutturazione dei rapporti politico-istituzionali, apparentemente rudimentale se confrontata con la complessa macchina dello Stato romano, si rivelò in grado di produrre risultati di portata storica eccezionale. 92

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In basso spilla a forma di mosca in oro con inserzioni di smalto, dalla Francia. V-VII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

La generazione dei figli di Clodoveo riuscĂ­ infatti a portare a compimento l’opera, avviata dal padre, di riunire tutta la Gallia sotto il dominio dei Franchi. Nel 534, una profonda crisi interna alla dinastia regnante dei Burgundi offrĂ­ il pretesto a Childeberto e Clotario (che, attraverso la loro madre, vantavano sangue reale burgundo) di attaccare il re Godomar e impadronirsi del suo regno. Tre anni dopo, gli Ostrogoti, che in Italia dovevano fronteggiare i Bizantini venuti a riconquistare la Penisola, abbandonarono la Provenza ai Franchi. Nel 537 possiamo davvero dire che la trasformazione della Gallia in Francia, cioè nella terra dei Franchi, si era definitivamente compiuta. invasioni barbariche

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i visigoti

Tavola ottocentesca raffigurante l’ingresso di Alarico, re dei Visigoti, in Roma durante il sacco dell’agosto 410. Già nel 408 il sovrano era sceso in Italia e aveva assediato Roma, ma si era astenuto dal saccheggiarla dietro il pagamento di un forte compenso in oro.

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Signori di

Spagna

Ad Alarico è legata l’impresa che piú ha condizionato il giudizio sui Visigoti: nel 410 fu il re, infatti, a guidarli nel saccheggio di Roma. Ma questo popolo di origine germanica non fu soltanto dedito alle razzie, e nella penisola iberica diede vita a un regno fiorente e d’impronta fortemente «romana»

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I Visigoti

N

el 589, nella città di Toledo, si celebrò un concilio destinato a suggellare la ormai secolare convivenza tra Romano-Ispanici e Visigoti sul suolo della penisola iberica. Un re visigoto, Recaredo, e un vescovo di stirpe romana, Leandro di Siviglia, amico personale del grande papa Gregorio Magno, resero ufficiale e solenne la decisione della monarchia e di una vasta parte della nobiltà visigota, di abbracciare il cristianesimo nella sua versione romana (comunemente detta «cattolicesimo»), abbandonando la confessione cristiano-ariana che i Goti, come molte altre popolazioni germaniche, avevano adottato circa duecento anni prima. Il re Recaredo (586-601), com’era successo circa cento anni prima al sovrano dei Franchi, Clodoveo, aveva compreso che, per assicurare un futuro alla legittimità della dominazione della pro-

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pria gente su terre, come la penisola iberica, che per lungo tempo erano state parte dell’impero di Roma, doveva accettare, oltre alle leggi terrene ereditate da Roma, anche l’osservanza di una comune legge divina, cosa che era allora avvertita come il vero fattore unificante tra persone di etnia e tradizioni diverse. La fondamentale deliberazione del concilio stabiliva che, da quel moA destra corona votiva in oro e pietre preziose e con croce pendente, facente parte del Tesoro di Guarrazar, rinvenuto nel 1858 vicino a Toledo. Oreficeria visigota, VII sec. Parigi, Musée de Cluny. In basso moneta di Recaredo, sovrano visigoto del regno di Toledo (Spagna). VI sec. Madrid, Museo Archeologico.


REGNO DEI FRANCHI

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Un re in cerca di legittimazione

Il momento storico in cui il re dei Visigoti prendeva queste importanti decisioni era grave: le terre su cui egli dominava, che comprendevano le principali pianure e le principali città della penisola iberica, erano minacciate a nord dalle bellicose popolazioni montanare – scarsamente o per nulla romanizzate – dei Baschi, dei Galiziani e degli Asturiani, e a sud dai Bizantini che, dal 550 circa, si erano insediati nei territori della odierna Andalusia e nelle Baleari, e di lí cercavano di espandersi verso l’interno. Di fronte a questi pericoli, Recaredo intendeva a sua volta apparire non piú come il capo di un popolo di invasori, ma il legittimo sovrano di una terra alla quale sentiva di appartenere profondamente, come del resto ormai tutti quelli che discendevano da coloro che nella Spagna erano entrati da «conquistatori». Il processo che aveva posto le premesse per questa prospettiva d’integrazione tra Visigoti e Ispano-Romani era però stato lungo e tutt’altro che lineare. Il momento del primo ingresso dei popoli germanici nella penisola iberica risaliva addirittura al 414. I Visigoti erano appena reduci dall’impresa che piú li aveva resi celebri: la

ASTURI

Lugo

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mento, nei confronti del re, i Romani (la popolazione pienamente latinizzata) e gli Ispani (forse le popolazioni rurali che ancora parlavano prevalentemente idiomi di radice celtica) avrebbero avuto gli stessi diritti dei Goti. Dunque, la fusione religiosa tra conquistatori (i Visigoti) e conquistati (Romani e Ispanici) gettava le basi per la nascita di una nuova entità politica, che univa genti diverse nella ormai comune appartenenza a una stessa terra.

Cartagena

IL REGNO VISIGOTO ALLA FINE DEL VI SECOLO Il regno visigoto all'avvento di Leovigildo Conquiste di Leovigildo

Malaga

Territori ribelli durante il regno di Recaredo Domini bizantini

In alto l’assetto geopolitico della penisola iberica alla fine del VI sec. A destra e in basso esempi di oreficeria visigota: una fibula circolare e una placca rettangolare di fibbia di cintura, decorate con alveoli policromi, entrambe da Azuqueca (Spagna).

discesa in Italia (408) e il sacco di Roma (410), sotto la guida del re Alarico. La sua morte, pochi mesi dopo, aveva spinto i Visigoti a lasciare l’Italia e a riparare in Gallia, dove si erano insediati nelle aree sud-occidentali della regione, eleggendo Tolosa a propria capitale e raggiungendo un accordo con il governo imperiale. Al nuovo re Ataulfo, genero di Alarico, che poi aveva addirittura sposato la figlia dell’imperatore Teodosio, Galla Placidia, fu richiesto dai Romani un aiuto pressante per debellare i Vandali e gli Alani che occupavano il territorio iberico senza il consenso imperiale. Solo alla metà del V secolo, quando il dominio dell’impero romano d’Occidente è ormai in completa dissoluzione al di fuori dell’Italia, i

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I Visigoti

Visigoti iniziano però una vera e propria penetrazione sistematica nel territorio iberico, espandendosi lungo la valle dell’Ebro e le pianure della Castiglia, sino a raggiungere le valli dei fiumi atlantici (il Tago, il Duero, la Guadiana e il Guadalquivir) e la Lusitania. Nel terzo quarto del V secolo il regno visigoto, a cavallo tra Gallia e Hispania, era il piú grande e potente tra i cosiddetti regni romano-barbarici. Man mano che la pressione dei Franchi da nord, alla fine del V secolo, iniziava a erodere i territori dei Visigoti in Gallia, a ondate successive questi ultimi presero a trasferirsi in Spagna, in gruppi che agivano in maniera piú o meno autonoma dalla monarchia, e che cercavano, in sede locale, accordi con i RomanoIspanici che controllavano le principali città (Barcellona, Mérida, Saragozza, Siviglia, Toledo). Nel 507, il re dei Franchi vinse e uccise nella battaglia di Vouillé il re dei Visigoti, Alarico II, mettendo fine al regno di Tolosa e alla presenza visigota in Gallia. Da questo momento in poi la vicenda dei Visigoti si dipanò essenzialmente in territorio iberico.

Decenni di lotte intestine

Per oltre mezzo secolo, la monarchia visigota faticò a recuperare la posizione di prestigio e di predominio di cui aveva goduto sino al tempo di Alarico II, quando il re era riuscito a promulgare un codice legislativo (la Lex Romana Visigothorum) che adattava la giurisprudenza romana alle esigenze del nuovo regno, ed era anche arrivato a organizzare il primo grande concilio di vescovi cattolici, presieduto da un re germanico, per di piú ariano (concilio di Agde, nel 502). I primi decenni di vita del regno spagnolo furono perciò caratterizzati da una continua lotta tra i re e le tendenze autonomistiche dei nobili, tanto di quelli visigoti quanto dei Romani che presidiavano le città.

i «santi padri di mérida» La Colonia Augusta Emerita era stata fondata nell’anno 25 a.C. per premiare i veterani che avevano combattuto la guerra contro le bellicose popolazioni della Cantabria e delle Asturie e per fungere da capitale della nuova provincia di Lusitania. La città raggiunse il suo apogeo al tempo degli imperatori antonini, nel corso del II secolo d.C., ma visse apparentemente una lunga «estate di san Martino» al tempo della dominazione visigota, quando era ormai da tempo profondamente cristianizzata, stretta intorno al culto della propria martire Eulalia, la cui morte sarebbe avvenuta durante la persecuzione di Diocleziano, nel 304. La Vita dei Santi Padri di Mérida, un’opera scritta alla metà del VII secolo da un diacono della chiesa locale, di nome Paolo, contiene le biografie dei vescovi che occuparono la cattedra cittadina fra il VI e gli inizi del VII secolo. Le gesta di questi personaggi occupano ovviamente gran parte della narrazione, descrivendoci un contesto nel quale la Chiesa di fatto aveva le redini del governo cittadino. Ma, tra le pieghe della narrazione, apprendiamo anche numerosi particolari sulla vita economica e sociale della città. Tra la sua popolazione esisteva una categoria di persone – prevalentemente di origine romana – che detenevano ancora notevoli ricchezze e patrimoni fondiari, dei quali veniamo a conoscenza nelle occasioni in cui decidevano di fare donazioni e altri atti di beneficienza in favore della Chiesa la quale, a sua volta, costituiva una realtà solidamente organizzata dal punto di vista economico. A essa facevano capo le principali istituzioni «pubbliche» della città, come per esempio quelle che si occupavano dell’assistenza sanitaria della popolazione. Le campagne producevano a sufficienza per sfamare la città, nella quale operavano anche diversi artigiani. L’ultimo vescovo di cui il testo ci narra la biografia, di nome Masona (in carica dal

A sinistra Emerita Augusta (Mérida). Il teatro romano, costruito nel 16-15 a.C. per volere di Marco Vipsanio Agrippa.

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Mosaico con scena di caccia al leopardo, dalla villa romana di Las Tiendas (Mérida). IV sec. d.C. Mérida, Museo Nazionale d’arte romana.

571 al 605), è un personaggio che suscita particolare interesse. Di famiglia gota, aveva però abbracciato con convinzione la fede cattolica e si era fortemente adoperato perché l’azione del re Recaredo in direzione della conversione ufficiale del regno in tal senso fosse coronata da successo. Il testo della Vita dei Santi Padri di Mérida costituisce chiaramente un’operazione di propaganda in favore del clero locale, ma è anche

una fonte preziosa per decifrare le dinamiche della «transizione» post-romana in quest’angolo della Spagna: una transizione che avvenne certamente in modo meno brusco rispetto a quanto accadde nelle aree piú settentrionali dell’ex Occidente romano. Vaste componenti della società locale furono in grado di mantenere a lungo non solo un’evidente rilevanza sociale, ma anche di conservare stili di vita piú direttamente collegati al passato tardo-antico.

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recopolis, la capitale del re cattolico Uno dei siti archeologici indubbiamente piú rilevanti di tutta l’Europa altomedievale è rappresentato dalla città di Recopolis, situata non lontano dall’odierno centro urbano di Guadalajara, non molti chilometri a nord di Madrid. Di questo centro disponiamo della data esatta di fondazione, l’anno 578, per opera del re Leovigildo, che la denominò in onore di suo figlio Recaredo che gli sarebbe di lí a poco succeduto sul trono. Recaredo la elesse a propria residenza. Non è chiaro se anche altri sovrani visigoti l’abbiano utilizzata successivamente, in luogo della capitale Toledo. La città, tuttavia, era certamente ancora in vita quando gli Arabi conquistarono la penisola iberica e continuò a esistere in età islamica, anche se in condizioni assai meno floride che in precedenza, come

I resti della chiesa a pianta basilicale della città di Recopolis, fondata nel 578 dal re visigoto Leovigildo e da questi intitolata al figlio Recaredo.

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attestano bene sia le fonti scritte che i dati archeologici. Il sito fu apparentemente del tutto abbandonato solo nel X secolo. Indagini archeologiche, avviate nel 1956 da archeologi tedeschi, hanno riportato alla luce vaste porzioni dell’insediamento, cresciuto su una collina affacciata sul fiume Tago, dalla sommità piatta e articolata su due grandi terrazzamenti, che hanno permesso un’agevole edificazione delle opere architettoniche. Una cinta muraria fu eretta a protezione di tutta l’area abitata, che fu suddivisa in un’area «palaziale», occupante la parte piú alta della collina, e una zona residenziale (tuttavia indagata solo in minima parte) che si sviluppò sul terrazzamento piú basso. La zona sommitale è caratterizzata soprattutto dalla presenza di un grande plesso

architettonico a forma di «L», costituito da due corpi di fabbrica a pianta rettangolare, stretti e lunghi, che affacciavano su uno spazio aperto, ai lati opposti del quale si trovavano una chiesa a pianta basilicale e un gruppo di edifici, interpretati dagli archeologi come un’area a destinazione artigianale e commerciale. Questo grande edificio, il cui corpo principale raggiunge la lunghezza di oltre 130 m, è diviso all’interno in due navate da una lunga fila di pilastri posti al centro dei singoli vani ed era sicuramente articolato su due piani. È stato posto in dubbio che la sua funzione fosse interamente di carattere residenziale e che esso sia servito, almeno in parte, come magazzino per lo stoccaggio di prodotti agricoli che dovevano provenire dal territorio circostante. Tuttavia, la qualità del materiale scultoreo rinvenuto negli scavi sembra indicare che a esso dovessero fare capo anche funzioni di rappresentanza. Ciò che colpisce principalmente dell’abitato di Recopolis e dei suoi edifici è la nitida capacità di


È difficile capire quale sia stato il livello di integrazione effettiva tra le due componenti etniche. Per tutto il VI secolo, i ritrovamenti archeologici, soprattutto quelli di ambito funerario, mostrano che i Visigoti (150/200 000, su una popolazione totale stimata per la penisola iberica di 5/7 milioni di abitanti) conservarono tradizioni e orientamenti estetici assai caratterizzati. Allo stesso tempo, però, molti studiosi ritengono che essi, già allora, non parlassero piú la loro lingua originaria e avessero ormai mutuato l’uso del latino e di altri idiomi locali. È comunque certo che le loro forme d’insediamento, sia in città che in campagna, coincidevano pienamente con quelle della popolazione locale: si viveva insomma fianco a fianco negli stessi spazi.

L’alleanza con la Chiesa

In alto Recopolis. I resti del «palazzo», con struttura a L, diviso all’interno in due navate, di cui si vedono le basi di colonne che sostenevano il piano superiore. Le strutture dell’antica città sono tornate alla luce grazie agli scavi condotti a partire dal 1956. pianificazione che presiedette alla sua realizzazione e la persistenza delle capacità tecnologiche tipiche del mondo romano. Ciò dimostra ancora una volta la particolare «declinazione» della transizione al Medioevo propria del regno visigoto, certamente assai ricca d’interazioni con l’eredità antica. Oggi Recopolis è uno splendido parco archeologico che si offre alla visita di chi vuole conoscere quest’epoca affascinante della storia di Spagna.

La ripresa della monarchia che si verifica sotto il padre di Recaredo, Leovigildo (569-586), e proseguita sotto quest’ultimo, resuscitò tutto il potenziale ideologico-politico accumulato negli ultimi tempi del regno di Tolosa. Questi due sovrani si proposero di costruire uno Stato fortemente centralizzato e in cui il re esercitasse un potere di tipo assolutistico, sul modello dell’impero romano del IV-V secolo, rilanciato dalla grande espansione avvenuta sotto Giustiniano che aveva portato la propria minaccia sino al cuore della Spagna visigota. L’alleanza appena stabilita con la Chiesa cattolica, cosí come la permanente residenza del re in Toledo, divenuta la vera capitale del regno e sede dell’amministrazione centrale, rafforzavano questo progetto, che identificava nel sovrano il vertice della società. La stagione di Leovigildo e Recaredo vide anche una forte ripresa dell’iniziativa militare contro le popolazioni del Nord (Paesi Baschi, Asturie, Galizia) che, se non del tutto sottomesse, furono però almeno poste in condizione di non nuocere. Sino ai regni di Chindasvinto (642-653) e di suo figlio Recesvinto (653-672), la monarchia riuscí a mantenere saldamente l’iniziativa politica. Tuttavia, anche il regno visigoto mostrò progressivamente i segni di un processo tipico di tutti gli organismi politici dell’Europa occidentale del tempo. Nonostante il desiderio di imitare lo Stato romano, la vita urbana regrediva, le strutture statali divenivano sempre piú rudimentali e il potere centrale riusciva a controllare il territorio solo attraverso la mediazione e la fedeltà personale delle famiglie – tanto romane quanto visigote – di grandi proprietari terrieri, radicate nelle varie realtà locali sulle quali dominavano in condizioni di forte autonomia. Gli stessi re, in quanto proinvasioni barbariche

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Particolare del vessillo di Baeza, detto anche di sant’Isidoro. XIV sec. León, Collegiata di San Isidoro. Sulla stoffa ricamata si vede il vescovo di Siviglia in atteggiamento guerresco e la scena allude alla tradizione leggendaria secondo la quale il presule sarebbe miracolosamente intervenuto nella battaglia combattuta nel 1147 ad Almeria da Alfonso VII contro gli Arabi.

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prietari terrieri, finirono per comportarsi allo stesso modo nei propri possedimenti.

Dall’Hispania all’Al-Andalus

Nel 710, l’irrompere degli Arabi sulla scena iberica mise fine all’esistenza del regno visigoto che aveva conosciuto, nell’ultimo quarantennio di vita, una forte instabilità politica. In quell’anno furono eletti contemporaneamente due re. Una delle due fazioni in lotta chiese allora l’aiuto degli Arabi, che, conquistata tutta l’Africa settentrionale, entrarono in Spagna attraversando le Colonne d’Ercole. Proprio da allora, questo braccio di mare sarebbe stato chiamato Stretto di Gibilterra, dal nome del condottiero Tariq, che guidava le schiere musulmane (Gibilterra è la trasposizione di «Gebel al Tariq», che significa «montagna di Tariq», il luogo in cui gli Arabi erano per la prima volta sbarcati in terra di Spagna).

Miniatura raffigurante Roderico, ultimo re visigoto di Spagna, e Tariq, generale islamico. XI sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. I due personaggi guidavano gli eserciti che si affrontarono nel luglio del 711 nella battaglia del Guadalete (Andalusia), che vide la vittoria degli Arabi, e gettò le basi della loro conquista della penisola iberica.

Nonostante le divisioni interne che avrebbero potuto favorire una resistenza piú articolata, il regno visigoto crollò di schianto sotto l’urto arabo. Paradossalmente, proprio le aree meno romanizzate e «visigotizzate» della Spagna, quelle del Nord asturiano e galiziano, preservando la propria indipendenza, raccolsero l’eredità della monarchia visigota e della sua profonda commistione con la tradizione romana e cristiana. Il primo re delle Asturie, Pelagio, portava un nome romano e si dichiarava di etnia gota. Tra queste genti della «periferia» iberica, la memoria dei due secoli di predominio visigoto e cattolico su quasi tutta la penisola costituí la motivazione ideale piú valida e duratura per sostenere la resistenza e poi la riscossa contro gli «infedeli», che avevano trasformato l’Hispania romana nell’Al-Andalus, lo splendido regno dei califfi di Cordova. invasioni barbariche

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gli ostrogoti 104

I piĂş ÂŤromaniÂť dei barbari

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I «Goti dell’Est» giunsero in Italia guidati da Teodorico, a cui Zenone, imperatore di Bisanzio, aveva chiesto di sottrarre la Penisola al controllo di Odoacre. Compiuta l’impresa, ebbe inizio il loro regno, che volle a piú riprese evocare i fasti dell’antico impero di Roma

Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico raffigurante il palazzo di Teodorico, sovrano d’Italia dal 493 al 526. Nella composizione doveva comparire il re ostrogoto con la sua corte, ma le figure furono cancellate in seguito agli interventi condotti in età giustinianea tra il 556 e il 565.

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Gli Ostrogoti

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a presenza degli Ostrogoti in Italia è stata un evento di breve durata, poiché copre un arco di poco piú di cinquant’anni, ma è stata illuminata dalla figura del re Teodorico (489-526), un personaggio di statura politica assolutamente eccezionale. L’arrivo degli Ostrogoti nella Penisola si colloca perfettamente nel contesto di grande confusione e incertezza istituzionale che caratterizza la Penisola nella seconda metà del V secolo. Cerchiamo di ricostruirne brevemente l’evoluzione. Senza interruzione, dalla morte di Valentiniano III in poi (455), il controllo della carica imperiale era stato disputato, in un complesso intrecciarsi di alleanze, fra le famiglie dell’aristocrazia senatoria da un lato e i comandanti in capo dell’esercito, in generale personaggi di estrazione non romana, come Ricimero, che riuscí a mantenere la sua posizione fra il 456 e il 472. Dopo il 455, i reggimenti regolari dell’esercito romano dovevano esistere ormai solo sulla carta e nei fatti il governo si serviva solo di mercenari germanici. Nel 475 essi erano composti principalmente da gruppi di barbari variamente assortiti, dai nomi suggestivi, quali quelli degli Eruli, Sciri, Turcilingi e Rugi. Con ogni probabilità, erano pagati in modo irregolare, perché le risorse del governo erano limitate. La destituzione dell’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, avvenne proprio perché il capo delle milizie barbariche in Italia si era rivoltato, dato che il governo non aveva corrisposto gli arretrati delle paghe alle truppe barbariche stanziate nella Penisola. Dopo di lui, nel 476, salí alla ribalta Odoacre, che decise di prendere direttamente il controllo della situazione italiana senza piú sentire il bisogno di nominare un imperatore in Occidente.

In alto il Medaglione d’oro di Morro d’Alba, moneta da tre solidi di re Teodorico rinvenuta nel 1894 in una tomba presso Senigallia. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. A destra Teodorico a cavallo in un rilievo del protiro della cattedrale veronese di S. Zeno, opera del Maestro Niccolò. 1138. L’iscrizione latina recita «o re stolto, chiede un dono infernale. Tosto gli appare un cavallo mandato dal perfido demonio. Esce nudo dall’acqua, precipita nell’inferno senza ritorno», evocando il racconto mitico ripreso anche da Giosuè Carducci nel poemetto La leggenda di Teodorico, incluso nelle Rime Nuove (1887)

In missione per conto di Zenone

Per Odoacre, l’Italia restava parte dell’impero, sottoposta all’unico imperatore, che risiedeva a Costantinopoli. In questa posizione, non priva di ambiguità politiche e giuridiche, Odoacre resistette per circa tredici anni, quando l’imperatore di Bisanzio, Zenone, per liberarsi dell’ingombrante presenza degli Ostrogoti insediati nei Balcani e del loro intraprendente re Teodo-

Seppur di breve durata, la parabola ostrogota in Italia rappresenta un momento di grande importanza, soprattutto perché si dipana nel segno di un grande sovrano, Teodorico 106

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Gli Ostrogoti A sinistra fibbia di cintura in oro con inserti policromi e teste di rapace. Milano, Castello Sforzesco, Civiche raccolte Archeologiche e Numismatiche. Il gusto per l’oreficeria con inserti multicolori, realizzati con le tecniche del cloisonné e dello champlévé, si formò nel IV e V sec. fra i Goti e gli Unni, per poi diffondersi soprattutto anche tra i Franchi e i Longobardi.

A sinistra fibula a staffa in oro con inserti policromi e teste di uccelli rapaci sulla piastra di testa. Torino, Museo Civico. A destra fibbia di cintura in argento dorato con inserti di pasta vitrea colorata. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

fantasie colorate Gli archeologi ritengono che, fra il IV e il V secolo, all’interno delle culture dei Goti e degli Unni stanziate lungo il bacino del Danubio, si formi il caratteristico gusto per un’oreficeria caratterizzata dalla forte presenza di inserti multicolori. A questo gusto si collegano in particolare due tipi di tecnologie orafe, quella del cloisonné e quella dello champlévé. La prima consiste nell’inserimento di pietre o paste vitree colorate all’interno di un alveare di fili d’oro saldati su placchette auree, a formare reticoli geometrici serrati e fantasiosi. La seconda tecnica prevede invece l’inserimento ancora una volta di pietre o paste vitree colorate all’interno di alveoli in oro, isolati tra loro, in rilievo sulla placca dorata e disposti a formare decori complessi. Le tipologie di monili e gioielli realizzati con queste tecnologie (soprattutto fibule, elementi di cinture e impugnature di spade) si diffondono fra tutte le popolazioni barbariche e raggiungono risultati particolarmente rilevanti fra i Goti, i Franchi e, piú tardi, i Longobardi.

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In alto l’assetto geopolitico dell’Europa alla morte di Teodorico. Il sovrano ostrogoto aveva costruito il suo solido dominio anche grazie ad abili alleanze e a un’altrettanto accorta politica matrimoniale con altri re barbari.

Danesi

In basso la situazione all’indomani dei successi riportati da Giustiniano contro i Vandali (533-534) e nella guerra greco-gotica (535-553). A queste due campagne fece seguito la conquista della Spagna meridionale, strappata ai Visigoti. L'EUROPA NEL 565

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Questa è, né piú e né meno, la titolatura che troveremmo usata per un imperatore, con la sola mancanza del titolo imperiale vero e proprio, al quale, però, allude evidentemente il termine «Augusto». Ma non a caso quello è l’elemento mancante, perché il patto con l’impero prevedeva che Teodorico, «dopo aver vinto Odoacre, come compenso per la fatica che si era assunto, avrebbe regnato [in Italia] in luogo dell’imperatore, finché questi fosse venuto là». Teodorico, cioè, regnava sull’Italia in attesa che un giorno l’imperatore fosse tornato a riprendere possesso di ciò che gli apparteneva. Anche se, formalmente, Teodorico governava l’Italia per «conto terzi», non rinunciò affatto a perseguire una sua autonoma politica di egemonia nell’Occidente. La strategica posizione dell’Italia, in bilico tra Oriente e Occidente, poteva offrire, da questo punto di vista, vantaggi e benefici. Teodorico ne approfittò con grnade determinazione e visione strategica, portando a termine una serie di conquiste militari, che permisero all’Italia di recuperare

Dopo la morte di Teodorico, Giustiniano rivolge le sue mire all’Italia: scoppia la guerra greco-gotica che termina poco prima della conquista longobarda

LI DA AN IV DE

Governo per procura

nuovi scenari

NO REG

rico, inviò questi ultimi in Italia a riconquistarla in nome dell’impero. Teodorico portò a compimento la missione e nel 493 controllava l’Italia intera, dopo aver eliminato Odoacre. Gli Ostrogoti rappresentano perciò un esempio di insediamento nell’impero diverso sia da quello dei Visigoti che da quello dei Vandali. I primi, infatti, avevano invaso la Gallia autonomamente, ma si erano infine insediati prima nel Sud-Ovest di quella regione e poi in Spagna, mediante un trattato con l’impero; i secondi, invece, entrarono nell’impero come i Visigoti, ma la loro destinazione finale all’interno del suo territorio venne raggiunta senza nessun consenso da parte dei Romani, che avrebbero riconosciuto la loro occupazione dell’Africa solo a posteriori e con molta riluttanza. Gli Ostrogoti, invece, vengono addirittura inviati in Italia dalle autorità imperiali di Costantinopoli per compiervi operazioni belliche in loro nome. Teodorico, però, nutriva ambizioni maggiori di quelle di Odoacre. Era già riconosciuto re dal suo popolo, a cui portava ora in dote una nuova terra su cui insediarsi. Come i suoi predecessori barbari in Italia, assunse il titolo di patrizio e di comandante in capo dell’esercito imperiale, ma non rinunciò per questo a ostentare, in maniera assai esplicita, simboli di vera e propria regalità, che implicavano la rivendicazione di una profonda autonomia di fatto da Costantinopoli. In una iscrizione lo troviamo acclamato come «Gloriosissimo e illustre re Teodorico, vincitore e trionfatore e sempre Augusto».

I M P E R O

Sicilia Cartagine

O A N R O M Creta

Cipro

P re f. d e l l ' O r i e n t e

Alessandria

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Gli Ostrogoti

Come si legge in Cassiodoro, Tedorico voleva provare che la macchina dello Stato, anche nelle mani dei nuovi padroni, poteva continuare a funzionare come prima

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la sovranità sulle regioni transalpine orientali corrispondenti alle odierne Slovenia, Austria e Ungheria (nel 504), sulla Provenza (nel 508) e sul Delfinato (nel 523). Ma l’aspetto forse piú interessante della politica «estera» di Teodorico è quello delle strategie matrimoniali che egli pose in atto. Il re ostrogoto disegnò alleanze sullo scacchiere euromediterraneo organizzando matrimoni «tattici» con le famiglie degli altri re barbari; scriveva cosí al re dei Vandali nel 511: «Solleci-


tati da diversi re a consolidare le alleanze, o abbiamo dato loro in moglie delle nipoti, oppure, con l’aiuto di Dio, abbiamo promosso le nozze con le nostre figlie». Due sue figlie furono infatti maritate rispettivamente con il re dei Visigoti, Alarico II, e con il re dei Burgundi, Sigismondo; una sorella venne fatta sposare al re dei Vandali, Transamondo, e una nipote al re dei Turingi, Ermenefrido. Egli stesso aveva sposato una principessa della famiglia reale franca, Audefreda, dalla quale nacque Amala-

Ravenna. Il cosiddetto «palazzo di Teodorico». Potrebbe in realtà trattarsi della caserma di un corpo di guardia a sorveglianza del palazzo nell’epoca degli esarchi (VII-VIII sec.) o dell’atrioporticato antistante la scomparsa chiesa di S. Salvatore ai Calchi.

sunta, alla quale fu affidato il compito di continuare la stirpe reale gota. Ma la collaborazione non fu promossa solo fra «barbari». Anche sul piano interno, fra Romani e Goti, il re invocò e promosse una sorta di patto per l’amministrazione dell’Italia. Fermo restando che l’uso delle armi sembra sia stato prerogativa esclusiva dei Goti, la gestione di quanto attiene alla sfera civile viene invece lasciata in mano ai Romani, ai quali sono riservate tutte le cariche. A testimonianza di questa esplicita intenzione del re di continuare la tradizione amministrativa dello Stato romano, resta la selezione dell’epistolario ufficiale teodoriciano, raccolta sotto il nome di Variae dal calabrese Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, ministro del re.

Una testimonianza preziosa

Le Variae sono un monumento al conservatorismo piú integrale, soprattutto sotto il profilo della forma e della prassi amministrativa. Il linguaggio di queste lettere, che trattano dei piú svariati argomenti della ordinaria amministrazione, ostenta un purismo e un’artificiosità che sono stati oggetto di commenti non benevoli da parte dei critici letterari dei nostri tempi. Esse sono, però, oltre che una miniera di informazioni di valore inestimabile, lo specchio piú fedele della volontà di mostrare come la macchina dello Stato, anche nelle mani dei nuovi padroni, potesse continuare a funzionare esattamente come prima. In particolare, i proclami del re per la tutela dell’eredità monumentale delle città d’Italia e di Roma in primo luogo, intendevano rassicurare l’opinione pubblica – in particolare le classi ricche e colte dell’aristocrazia italiana – che i simboli della loro tradizione sarebbero rimasti vivi e operanti. Secondo quanto ha scritto la studiosa Cristina La Rocca, il re indossava una «prudente maschera antiqua», mostrando la sua convinta sollecitudine verso tutti i simboli della romanità, come per esempio il patrimonio monumentale di Roma, per la cui salvaguardia furono emanate leggi e investite risorse. I Goti, a loro volta, almeno quelli di estrazione piú elevata, diventarono in diversi casi grandi proprietari terrieri ostentando atteggiamenti in cui la tradizione marziale gota era associata al gusto per una residenza rurale dignitosa e adornata dei simboli di un’eccellenza sociale ben riconoscibili anche dai Romani. Cosí è apparso, per esempio, nello scavo della residenza-fortezza di Monte Barro, sopra Lecco, dove la stanza di soggiorno e udienza del signore goto che vi abitava è stata riconosciuta per il ritrovamento di una (segue a p. 114) invasioni barbariche

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barbari

Gli Ostrogoti

il mausoleo di teodorico: un

A

ll’interno dell’antico Campo Coriandro, nel suburbio nord-orientale di Ravenna, dove si trovava il cimitero della popolazione ostrogota che abitava in città, sorge il grande monumento funerario di Teodorico, spentosi nel 526 a circa settant’anni di età. Basta un rapido sguardo a questo singolare edificio per riuscire a percepire, piú che attraverso qualsiasi narrazione della sua biografia, la complessità della personalità del sovrano ostrogoto. Nelle culture dei popoli migratori vi sono esempi di sepolture privilegiate attribuibili ai loro leader, spesso caratterizzate non solo dalla presenza al loro interno di oggetti di valore, ma anche da elementi (come i tumuli) che li rendessero visibili nel paesaggio circostante. Ma il mausoleo di Teodorico si ricollega piuttosto alla tradizione romana di eternare la memoria dei propri regnanti in edifici funerari costruiti con materiali imperituri, come la pietra, il calcestruzzo e i mattoni. Fra le sepolture del Campo Coriandro, il mausoleo doveva perciò spiccare per dimensioni e aspetto, sottolineando che Teodorico era stato il sovrano che, dopo l’epopea della migrazione, si era impossessato del potere nella terra dei Romani, lo aveva gestito a lungo e ne aveva assunto i simboli che lo contraddistinguevano, tra i quali quello di farsi inumare in un sarcofago di porfido, marmo il cui uso era riservato agli imperatori in virtú del suo colore che ricordava quello della porpora usata per colorarne le vesti. Ma l’aspetto di questo edificio mostra che il «messaggio» che da esso promanava non poteva essere racchiuso solo in una mera imitatio dei costumi romani. Esso, infatti, costituisce un unicum assoluto non solo all’interno del panorama edilizio della Ravenna tardo-antica, ma anche in quello di tutta l’architettura funeraria del tempo.

Innanzitutto, la struttura: interamente costruita con blocchi di pietra bianca d’Istria, ha pianta decagonale, una larghezza massima di circa 12 m, e un’altezza di circa 15,5. È suddivisa in due livelli, di cui quello terreno movimentato, su ciascun lato, da un’arcata cieca a pieno centro, a eccezione di una rivolta a occidente, forata da una porta che consente di immettersi in un vano praticabile, a pianta cruciforme. Il piano superiore è piú stretto, tanto da lasciare spazio a una sorta di stretto ballatoio che ne percorre il profilo. Ciascuna delle dieci facce del poligono è movimentata in questo caso da una coppia di finestre cieche rettangolari sormontate da lunette, sempre con l’eccezione della faccia rivolta a ovest, in cui si apre una porta d’accesso al vano interno che ha forma circolare. Sin qui la struttura, per quanto abbastanza inconsueta nella pianta, non si discosta troppo dai canoni dell’architettura di tradizione romana. Ma i dettagli piú singolari riguardano senza dubbio la sua parte sommitale. Al di sopra del livello del primo piano, la forma dell’edificio diviene circolare, raccordata visivamente alla parte sottostante da una cornice piana aggettante.

le sepolture: specchio della fusione dei costumi Nonostante la disposizione reale, registrata nelle Variae di Cassiodoro, che imponeva ai Goti di adeguarsi agli usi funerari romani, si sono trovate in Italia (soprattutto nella Pianura Padana, dove i Goti dovevano essere piú numerosi) sepolture che contengono oggetti in materiale prezioso (in primo luogo fibule per trattenere i lembi del mantello del defunto), che gli archeologi considerano di tradizione gota. Ma si conoscono anche numerose sepolture che non contengono alcun oggetto distintivo al loro interno, accompagnate però

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da iscrizioni recanti nomi che rivelano che il defunto era senza ombra di dubbio di etnia gota. Ciò indica, insieme al fatto che queste tombe si trovano in cimiteri «misti», dove venivano sepolti sia Romani sia Goti, che in molte circostanze si doveva essere verificata una profonda fusione di costumi e comportamenti. Proprio la sepoltura di Teodorico in Ravenna può essere presa a simbolo di questo tentativo di fondere in uno stesso monumento tradizioni assai diverse fra loro. Nella sua monumentalità e per il

fatto di custodire, al suo interno, il corpo del re in una vasca di porfido – il colore degli imperatori –, essa può a buon diritto essere inserita nella piú alta tradizione dei mausolei funerari romani. Tuttavia, anche un occhio non esperto vi riconoscerà uno stile architettonico completamente diverso da quello di tutti gli altri edifici di Ravenna, e decorazioni che presentano somiglianze stilistiche proprio con quelle fibule che sono considerate come gli oggetti piú tipici – piú «etnici», potremmo dire – della tradizione gota.


capolavoro atipico Essa è sormontata da una superficie liscia alta circa 1 m, nella quale si aprono feritoie che danno luce all’ambiente del primo piano. Questa sorta di tamburo circolare è coronato da una seconda cornice, decorata con un fitto motivo, definito «a tenaglia». È un motivo assolutamente unico e caratteristico di questo edificio, certamente del tutto alieno ai canoni estetici dell’architettura romana classica e tardo-antica, e ha perciò da sempre sollevato la curiosità e le discussioni degli studiosi: molti vi hanno voluto vedere riferimenti a motivi decorativi dell’oreficeria tipici delle produzioni del mondo «barbarico». Il tutto è sormontato dall’elemento che piú di ogni altro suscita stupore e curiosità: un monolite sagomato a forma di cupola ribassata, che funge da copertura dell’edificio, del diametro di quasi 11 m e dello spessore di 1 m circa, il cui peso è stato stimato fra le 250 e le 300 t. Sulla sua superficie esterna appaiono dodici modiglioni, che recano i nomi dei quattro Evangelisti e di otto Apostoli. La funzione di questi elementi è stata variamente interpretata e, per un certo periodo, si è ritenuto che potessero essere punti di aggancio per le funi con le quali il monolito fu movimentato e infine posto in opera. Oggi questa ipotesi è ritenuta poco verosimile e si pensa piuttosto che la copertura fu elevata sino alla quota della sommità del

mausoleo e infine adagiata nel suo alloggiamento facendola muovere, rotolandola lentamente su tronchi, lungo un piano inclinato addossato al mausoleo, venendo sospinta mediante un sistema di pistoni idraulici. La faccia interna della cupola, che copre l’ambiente del primo piano in cui fu deposto il sarcofago, presenta ancora le tracce evidenti di una decorazione recante una grande croce gemmata iscritta entro un cerchio. L’interpretazione stilistica e simbolica del mausoleo e dei singoli elementi è tuttora piuttosto controversa, ma è difficile non pensare all’ipotesi che la sua particolarità derivi da scelte espresse dallo stesso Teodorico, il quale, attraverso questo monumento, potrebbe aver voluto rievocare la complessa identità del suo percorso individuale e politico. Con la riconquista bizantina di Ravenna, avvenuta nel 540, il sepolcro del re fu molto probabilmente profanato e il suo corpo rimosso. Di certo, il mausoleo fu convertito al culto cattolico e a esso furono addossati un edificio di culto e un monastero la cui denominazione, non sorprendentemente, fu quella di S. Maria Rotonda o della Rotonda, sopravvissuta almeno fino al XVIII secolo. A quel tempo, la parte basamentale del mausoleo era interrata e ne rimaneva visibile solo il livello superiore; il monumento è stato riportato alla luce solo a partire dal 1750 circa.

In questa pagina il Mausoleo di Teodorico a Ravenna. Nella pagina precedente la grande vasca (labrum) in porfido rosso collocata nella cella superiore del mausoleo stesso, adibita a sarcofago del sovrano ostrogoto.

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corona che era sospesa sopra il seggio sul quale egli prendeva posto. Il re goto legiferò con questo spirito anche nella regolamentazione degli usi funebri (il testo di questa disposizione è riportato in una delle Variae di Cassiodoro), ordinando, nel 507-511, che i Goti dovessero seguire l’uso funerario romano, che non prevedeva l’inserimento di oggetti di corredo nelle tombe, anche perché – afferma sempre il re – «monete, oro e argento non sono di nessuna utilità per il morto». Piuttosto, i Goti avrebbero dovuto innalzare mausolei come i Romani, e adornarli con marmi e colonne.

Compiti rigidamente separati

Durante la gran parte del regno di Teodorico (493-526) la parola d’ordine, al fine di evitare tensioni e conflitti, fu quella di mantenere rigi-

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le chiese «gote»

M

olti anni prima che Teodorico celebrasse il suo trionfo, nel 493, eliminando Odoacre e diventando il padrone dell’Italia, altri Goti avevano già signoreggiato sulla Penisola e sulla stessa Roma, lasciando tracce della loro ormai consolidata capacità di agire in pubblico come dei Romani, senza tuttavia rinunciare a rimanere distinti da essi. Proprio nell’antica Urbs, nel rione Esquilino, restano memorie tangibili del loro

passaggio. In quest’area si trovavano alcune delle case aristocratiche piú prestigiose della città, fra le quali la domus di Giunio Basso, console nel 331, al tempo di Costantino, esponente di una famiglia potente, che nel IV secolo piazzò diversi altri suoi membri in posti di rilievo dell’amministrazione imperiale. Ma nel frattempo la situazione era mutata: della sfarzosa dimora era entrato in possesso nientemeno che il comandante in capo dell’esercito


di roma d’Occidente fra il 472 e il 476, Flavio Teodosio Valila, un goto dal nome romanizzato, che fece dono della grande aula di ricevimento presente al suo interno al papa Simplicio (468-483), che la convertí in chiesa, dedicandola al culto di sant’Andrea. Nell’VIII secolo alla chiesa fu annesso il monastero detto «di Barbara», per cui nel Medioevo il nome con cui l’edificio era comunemente denominato fu quello di «S. Andrea in Catabarbara», e cioè S. Andrea «presso» (katà, in greco) il monastero di

Barbara. Ciò che rimaneva della chiesa, in abbandono dal XV secolo, fu purtroppo sciaguratamente demolito nel 1932, ma rimangono informazioni sulla sua struttura e la sua decorazione. L’edificio consisteva di un’aula absidata a navata unica, abbondantemente illuminata da una fitta sequenza di grandi finestre aperte sui due lati. Della domus di età costantiniana era rimasta intatta la decorazione parietale in marmo, i cui resti, attualmente esposti al Museo Nazionale Romano, rappresentano

alcuni fra gli esempi piú belli dell’arte figurativa tardo-antica. Tutti i pannelli superstiti presentano soggetti profani e addirittura mitologici, che furono lasciati convivere senza problemi con la nuova destinazione al culto cristiano. Solo il mosaico absidale fu sostituito con uno di soggetto cristiano che alcuni disegni e descrizioni di età rinascimentale tramandano caratterizzato da una composizione che vedeva al centro il Cristo in piedi sulla montagna del paradiso attorniato dai santi Pietro e Paolo e da altri quattro Apostoli, tra cui ovviamente Andrea. Poco distante, intorno al 470, un altro generale goto, Flavio Ricimero, lasciò traccia della sua pietà religiosa. Nipote per parte di madre del re visigoto Vallia, era stato il predecessore di Flavio Valila come comandante in capo dell’esercito dell’impero d’Occidente e fu il kingmaker di molti degli ultimi imperatori che ne occuparono il trono. Egli volle edificare una chiesa dedicata ai fedeli del credo ariano, che si raccoglievano soprattutto fra i Goti presenti in città. Era una piccola basilica a tre navate, lunga circa 30 m e larga 16, divisa all’interno da due file di sette colonne e dotata di un’unica abside, decorata con un mosaico che ritraeva il Cristo in atto di consegnare a Pietro le chiavi della Chiesa. L’edificio, benché profondamente modificato nel corso dei secoli esiste ancora e molte sue parti, inclusi i volumi

Pannello in opus sectile dalla «basilica di Giunio Basso», un’aula di rappresentanza dell’edificio eretto sull’Esquilino, poi chiesa di S. Andrea. Prima metà del IV sec. Roma, Museo Nazionale Romano. Vi compare una pompa circensis con, al centro del circo, il patrono dei giochi (forse lo stesso Giunio Basso). invasioni barbariche

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Gli Ostrogoti esterni, serbano ancora la struttura originaria. Alla fine del VI secolo, papa Gregorio Magno la fece riconvertire al culto cattolico; una leggenda racconta che egli dovette faticare non poco per estirpare il demonio che si annidava nell’edificio, lascito dell’eresia ariana. Come un soldato giapponese nascosto nella foresta dopo la fine della guerra, il diavolo era forse «l’ultimo dei Goti» che presidiava la memoria di un popolo che la storia aveva voluto dalla parte dei perdenti.

A sinistra Roma. L’interno di S. Agata dei Goti, piccola basilica ariana eretta intorno al 470 dal goto Flavio Ricimero e poi riconvertita al culto cattolico. In basso un altro pannello in opus sectile proveniente dalla basilica di Giunio Basso con il rapimento di Hylas da parte delle ninfe della fonte. Prima metà del IV sec. Roma, Museo Nazionale Romano Palazzo Massimo.

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damente separati i compiti dei Goti, ai quali spettavano la direzione politica e la difesa armata dell’Italia, e dei Romani, incaricati di tutti i compiti dell’amministrazione civile. Questa separazione si rifletteva sul piano religioso, con i Goti ariani da un lato e i Romani cattolici dall’altro. Quando l’impero romano d’Oriente, con Giustiniano, iniziò, negli anni Trenta del VI secolo, una politica aggressiva verso l’Italia, al fine di strapparla ai Goti (la guerra, detta «greco-gotica», si sarebbe protratta dal 535 sino al 553), apparve però chiaro che questi ultimi non erano nel frattempo riusciti ad attrarre dalla loro parte consensi diffusi e, soprattutto, non quelli delle classi elevate romane. L’arianesimo dei Goti fu a quel punto un ele-

Mosaico della cupola del Battistero degli Ariani a Ravenna con scena centrale del battesimo di Gesú nel Giordano. L’edificio, oggi chiesa dello Spirito Santo, fu costruito durante il regno di Teodorico e riconsacrato al cattolicesimo al tempo dell’arcivesco Agnello (557-566/69), come oratorio dedicato alla Vergine Maria.

mento presente nella propaganda a essi contraria e fattore importante per ricacciarli nel limbo della «barbarie», nonostante il regno di Teodorico fosse stato molto piú ligio di quello di qualunque altro sovrano «barbaro» nel garantire la continuità delle istituzioni romane e nell’integrarsi al loro interno. La dialettica paganesimo-arianesimo-cattolicesimo fu anche tra quelle piú presenti nella problematica vicenda dell’integrazione tra popolazioni italiane e l’ultima popolazione germanica che sia penetrata nel territorio dell’ex impero d’Occidente: i Longobardi, che invasero la Penisola nel 568. L’Italia in cui essi si affacciarono era profondamente diversa da quella in cui era entrato Teodorico circa ottant’anni prima. invasioni barbariche

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i longobardi

Una nuova

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Italia

Cividale del Friuli (UD), Tempietto Longobardo. Particolare del fregio al livello superiore. Seconda metà dell’VIII sec. Si vedono 4 delle 6 figure femminilli in stucco, costituenti una teoria di sante e martiri che richiama analoghe composizioni, tipiche del mondo bizantino, ma se ne differenzia per un cenno di realismo e per la verticalità .

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Sul finire del V secolo, Alboino conduce le sue genti dalla Pannonia alla Pianura Padana: è l’inizio di una lunga dominazione, che finisce con il comprendere quasi l’intero territorio della Penisola. Secondo piú d’uno storico, il fatto può essere visto come una sorta di tentativo embrionale di unificazione nazionale

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barbari

I Longobardi

I

venti anni di guerra tra Goti e Bizantini avevano seriamente disarticolato la società italiana, soprattutto nelle sue classi medio-alte, ma avevano messo in evidenza anche mutamenti piú profondi, in atto da tempo. Lo scollamento del secolare legame dell’Italia con le regioni dell’Occidente europeo, determinatosi in seguito al collasso, nel V secolo, di questa parte dell’impero, aveva determinato un mutamento nella prospettiva degli interessi politici delle categorie sociali italiane piú rilevanti (e quindi piú forti economicamente), ivi comprese le grandi Chiese di Roma e Ravenna. Negli ultimi decenni di vita dell’impero d’Occidente, la sua stessa corte imperiale fu a piú riprese progressivamente attratta, in una posizione quasi di subordine politico, verso quella metà orientale del Mediterraneo in cui la romanitas sembrava essere immune dalla minaccia della capitolazione di fronte ai barbari. L’archeologia ha infatti dimostrato che, già nel corso del V secolo, accanto a una fascia costiera e mediterranea dell’Italia (con propaggini all’interno della Pianura Padana e lungo i corsi dei fiumi principali) ancora reattiva e vivace da un punto di vista sociale, produttivo e commerciale, si era delineata una crisi profonda delle zone piú interne (che comprendevano soprattutto gli Appennini, la parte piú occidentale della Pianu-

ra Padana e le aree alpine). Molte delle città presenti in queste aree sembrano impoverirsi e soccombere prima e piú decisamente di altre. In seguito alla riconquista bizantina questo squilibrio non poté che aggravarsi, poiché, ancor piú che in passato, furono le zone costiere quelle che piú direttamente beneficiarono dei contatti con l’Oriente. La rapida conquista, da parte dei Longobardi, proprio delle zone piú interne della Penisola potrebbe essere considerata come una sorta di «reagente chimico» particolarmente brillante, che ha evidenziato questa che potremmo definire come una fenditura nascosta nella struttura geopolitica ed economica dell’Italia tardoromana.

Alboino entra a Milano

L’invasione di Alboino (il re che condusse i Longobardi dalla Pannonia in Italia), nella sua fase iniziale, procedette secondo un itinerario regolare che da Savogna sull’Isonzo, per Forum Iulii (Cividale), s’inoltrò lungo la via Postumia sino a raggiungere Verona; da qui, per la via Gallica, raggiuse Milano, dove il re entrò il 3 settembre 569, proseguendo verso ovest, verso il Piemonte settentrionale. Le città poste su queste strade – Ceneda, Treviso, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano stessa – furono In alto fibula longobarda a staffa, con piastra di testa semicircolare seguita da 9 fuseruole. Fine del VI sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra piatto in argento con medaglione centrale decorato a sbalzo, raffigurante una scena di combattimento in cui un cavaliere infilza con l’asta un guerriero, dal tesoretto di Isola Rizza (VR), un insieme di oggetti in oro e argento databili tra la fine del VI e l’inizio del VII sec. Verona, Museo di Castelvecchio.

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occupate senza incontrare resistenza. Agli inizi del 570, tutta la regione padana compresa tra le Alpi e il Po era conquistata. La prima resistenza dei Bizantini si verificò, tra il 570 e il 572, a Pavia (che Alboino scelse come propria residenza) e si coagulò quindi, sino al 590 circa, intorno alle città del medio Po, soprattutto Brescello e Mantova. Forse non a caso questa zona di resistenza aveva coinciso, fra il tardo V secolo e gli inizi del VI, con quella di maggior penetrazione delle merci d’importazione mediterranea all’interno della Pianura Padana. Se le recenti ipotesi sono corrette, la formazione dei primi nuclei longobardi autonomi nell’Italia centro-meridionale sarebbe dovuta allo stanziamento, per opera dei Bizantini, di gruppi di guerrieri che avrebbero inizialmente agito di concerto con il governo imperiale, all’indomani dell’eliminazione del re Clefi nel 572. La perdita del controllo su di essi da parte degli imperiali, corrisponderebbe alla fase in cui, con gli ultimi tempi del regno di Autari (584-590) e, ancora di piú, con quello di Agilulfo (590-616), la monarchia longobarda avrebbe acquisito una piú forte capacità di azione coordinante dei diversi gruppi stanziati in Italia. È però importante sottolineare che, tra queste entità autonome longobarde, non tutte ebbero successo: Perugia (sull’asse di collegamento tra Ravenna e Roma) e Classe (il porto di Ravenna), per esempio, brevemente occupate allo scorcio del VI secolo, rientrarono rapidamente sotto il controllo bizantino. Diversi furono invece i destini di Spoleto e Benevento e dei presidi longobardi stanziatisi nella Toscana interna, dalla Lucchesia, al Casentino, al Mugello e alla Val di Chiana, che acquisirono progressivamente un dinamismo espansivo proprio.

Un controllo sempre meno efficace

In sostanza, i successi della prima espansione territoriale sul suolo italiano, verificatisi nel corso del primo ventennio di permanenza nella Penisola, sembrano essere stati indirizzati, oltre che dall’attivismo militare dei Longobardi stessi, anche dalla cedevolezza di alcuni settori ben precisi dell’Italia «romana», che era il segno di vuoti strutturali nel controllo del territorio. Una cedevolezza che, tuttavia, si manifestò con modalità diverse all’interno dei singoli scacchieri territoriali. Nella parte settentrionale della Pianura Padana, ciò dipese probabilmente dal fatto che la riorganizzazione del controllo del territorio da parte dei Romani non si era mai pienamente ricostituita dopo la guerra con i Goti o non era ancora stato possibile allestire veri e propri fronti di resistenza. Curiosamente, però, alla periferia di quest’area, i Bizantini erano riusciti a rimettere in efficienza

una serie di presidi a guardia dei valichi alpini che, come quello dell’Isola Comacina, nella zona piú settentrionale del lago di Como, i Longobardi riuscirono a espugnare solo intorno al 590. Nelle aree appenniniche del Centro-Sud, isolate rispetto alla fascia di centri costieri nei quali si stava ricompattando la resistenza bizantina, i Longobardi riuscirono probabilmente ad approfittare – come si è già visto – dell’indebolimento dell’organizzazione amministrativa territoriale, già incipiente prima del loro arrivo. La carta politica dell’Italia intorno all’anno 600 somiglia perciò a una pelle di leopardo. Le zone costiere, salvo, forse, alcuni tratti della costa toscana settentrionale, di porzioni di quella marchigiana meridionale e di quella molisana, erano rimaste in mano ai Bizantini che, faticosamente, riuscivano anche a tenere sotto il proprio controllo un corridoio che, attraverso Narni, Todi, Perugia, Gubbio, Cagli e Urbino, collegava Ravenna a Roma. Le aree interne, compresa la

L’interno del Tempietto longobardo di Cividale del Friuli. Con il complesso monastico di S. Salvatore e S. Giulia a Brescia, il castrum di Castelseprio (VA), il Tempietto del Clitunno sul Campello (PG), la basilica di S. Salvatore a Spoleto (PG), la chiesa di S. Sofia a Benevento e il santuario garganico di S. Michele a Monte Sant’Angelo (FG), fa parte della rete dell’Italia Langobardorum, dal 2011 Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

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Barbari

I Longobardi

maggior parte della Pianura Padana, con l’eccezione dell’odierna Romagna, erano invece già tutte nelle mani dei Longobardi. La rottura dell’unità politica e amministrativa dell’Italia, che risaliva al tempo di Augusto, si verificò in questo momento. Per questo motivo, nel XIX secolo, prima e durante le guerre che portarono alla riunificazione dell’Italia, si accese un animato dibattito sul ruolo avuto dai Longobardi nella vicenda politica italiana e, in particolare, se si fosse dovuto attribuire a essi piú un ruolo di «distruttori finali» dell’eredità romana o se, invece, non li si fosse dovuti piuttosto considerare come coloro che, dopo la durezza del primo impatto della loro conquista, avrebbero potuto contribuire a costruire un nuovo destino di indipendenza nazionale. Ciò in considerazione del fatto che i «Romani», che avevano riconquistato la Penisola alla metà del VI secolo, erano in realtà i rappresentanti di un potere imperiale ormai definitivamente sbilanciato verso oriente, che considerava l’Italia e Roma stessa niente piú che una remota provincia. La storia dei centocinquanta anni successivi al 568 fu quella di una progressiva, inesorabile erosione dei territori bizantini, che alla fine si ridussero alle aree intorno a Ravenna, al Lazio, a Napoli e dintorni, al Salento, alla Calabria meridionale e alla Sicilia, nonché alla sottile striscia di terre emerse e lagune comprese tra gli attuali abitati di Venezia e Grado.

Uomini in marcia

I Longobardi si distribuirono sul territorio italiano in gruppi che le fonti definiscono con il termine di «fare». Questa situazione in parte rifletteva la loro tradizionale organizzazione e in parte era forse il risultato di una selezione che, all’interno della casta dei guerrieri, doveva essere avvenuta in tempi piú recenti, probabilmente quando essi avevano iniziato a combattere per l’impero. Le fare erano, a quanto sembrerebbe, le «associazioni in marcia» (stessa radice del verbo tedesco «fahren», che significa marciare, andare) in cui si era suddiviso il popolo nomade dei Longobardi nel corso dei suoi spostamenti, che comprendeva gruppi di guerrieri, con le loro donne, i figli e coloro che, alle loro dipendenze, svolgevano mansioni diverse da quelle del combattimento, e infine gli schiavi e gli animali. Questi gruppi si insediarono in Italia, con modalità che è difficile ricostruire nel dettaglio, in centri abitati già esistenti o creando nuovi nuclei, tenendo sotto controllo militare aree geografiche determinate e imponendo ai Romani tributi in beni e, probabilmente, anche prestazioni di servizi. 122

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In alto placchetta in rame dal frontale dell’elmo del Trionfo del re Agilulfo. Firenze, Museo del Bargello. Le principali unità amministrative territoriali in cui il regno fu suddiviso furono invece i ducati, che costituivano circoscrizioni piú ampie, in genere – ma non sempre – aventi per capoluogo una città. I duchi che su di esse esercitavo il comando erano i rappresentanti delle principali stirpi guerriere o comunque personaggi che godevano di particolare considerazione presso il re e che erano stati perciò ricompensati con la concessione di «pezzi» del territorio conquistato. Il ducato longobardo, nella sua estensione territoriale, rievocava in qualche modo la funzione rivestita dalle province nell’ordinamento dello Stato tardo-romano, e cioè quella di strumento principale di controllo amministrativo e militare di specifici ambiti territoriali. Nella realtà le differenze furono però moltissime rispetto al modello di riferimento. Innanzitutto, non è chiaro quanto i duchi si siano impossessati delle terre motu proprio o nel quadro di un accordo generale definitosi fra tutti loro e il re, dato che, almeno all’inizio, molti duchi palesarono spesso un atteggiamento insofferente, se non apertamente ribelle, verso il potere regio. Inoltre, è abbastanza chiaro che, dopo l’arrivo


dei Longobardi, si verificò un vero e proprio collasso delle strutture amministrative romanobizantine presenti sul territorio. Alcuni ducati periferici, come quelli di Spoleto e di Benevento (e, in parte, anche quello del Friuli), riconobbero solo in maniera intermittente l’autorità regia e, di fatto, furono a lungo indipendenti.

Sotto il comando dei duchi

Un episodio narrato dalla principale fonte scritta di cui disponiamo per ricostruire la storia italiana dei Longobardi – l’Historia Langobardorum scritta da Paolo Diacono alla fine dell’VIII secolo –, ci lascia però intuire che, all’inizio degli anni Ottanta del VI secolo, i duchi longobardi avvertirono con urgenza il bisogno di istituire fra loro un coordinamento politicomilitare piú stabile. Dopo la morte del re Clefi, nel 574, i Longobardi non elessero un successore e, come dice sempre Paolo Diacono, «stettero sotto il comando dei duchi». Questa situazione, se sulle prime non impedí che molti di essi riuscissero ad ampliare le conquiste territoriali avviate da Alboino e Clefi, accrebbe però il rischio che i Bizantini potessero stringere accordi separati con alcuni di loro, con l’intento (tipico da secoli nella strategia dell’impero nei

Nella pagina accanto, in basso fibbia in argento. VII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

Qui sopra guarnizioni di sella di manifattura longobarda. VII sec. Roma, Museo dell’Alto Medioevo. invasioni barbariche

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I Longobardi

confronti dei capi «barbari») di portarne alcuni dalla propria parte e cercare cosí di riguadagnare almeno in parte il terreno perduto. Cosí, nel 584, i duchi si riunirono e offrirono la corona al figlio di Clefi, Autari, compiendo contemporaneamente un atto che dimostra l’esistenza, all’interno di questa inziale «classe dirigente» del regno longobardo, di una visione assai lucida sul come garantire al sovrano gli strumenti atti all’esercizio di un potere effettivo. Come riferisce ancora una volta Paolo Diacono, al momento dell’elezione di Autari, i duchi decisero di comune accordo di concedergli «per gli usi regi la metà di tutti i propri beni, per costituire un patrimonio con cui il re, il suo seguito e coloro che si dedicavano al suo servizio nelle diverse funzioni potessero mantenersi» (traduzione di Lidia Capo). In questo modo si formò il fisco regio che, nei documenti riferibili alla fase finale del regno e datanti quindi all’VIII secolo, appare ancora come una realtà capillarmente diffusa su tutto il territorio italiano controllato dai Longobardi. Non è del tutto chiaro il modo in cui il potere del sovrano si diramasse concretamente dal centro alla periferia, al di là della «rete» costituita dai duchi distribuiti sul territorio, con i quali però, come abbiamo visto, il sovrano intratteneva un rapporto di sodalitas militare – profondamente segnata dal legame personale esistente con ciascuno di essi – piú che di vero predomonio gerarchico. Come ha puntualizzato lo storico tedesco Jörg Jarnut, «chi occupava quella carica [di duca, n.d.r.] lo faceva grazie al concorso di diverse componenti: volontà del re, volontà delle fare e qualità personali si combinavano in maniera differente a seconda dei casi e una componente poteva prevalere sulle altre». In realtà, nel corso del tempo, i sovrani tesero sempre piú ad accentuare le caratteristiche autocratiche del proprio potere nei confronti dei duchi, ma a ciò non sempre corrispose una loro reale e costante sottomissione.

Gastaldi e sculdasci

Le fonti menzionano anche la presenza di altri funzionari, i piú rilevanti dei quali sono i gastaldi e gli sculdasci; la natura dei loro compiti è rivelatrice dei tratti fondamentali dell’organizzazione politica longobarda. I primi, che spesso la storiografia frettolosamente definisce come rappresentanti del re in sede locale, agivano in 124

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Nella pagina accanto, in alto guarnizione di un reliquiario in lamina d’oro e smalti, dal corredo della tomba detta «di Gisulfo» (anche se non si hanno prove certe di tale identificazione). Metà del VII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. In basso umbone di scudo in bronzo con guarnizioni in lamina d’oro. VII sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.

realtà come responsabili del fisco, cioè dei patrimoni fondiari del sovrano. Tuttavia questa posizione, data la rilevanza dei patrimoni regi e il fatto che su di essi vivessero persone legate al re da un rapporto di fedeltà diretta, faceva sí che i gastaldi, che spesso vivevano nelle stesse città in cui risiedevano anche i duchi, agissero in qualche modo come una sorta di contrappeso politico al potere di questi ultimi. Gli sculdasci, invece, erano in genere ufficiali che amministravano la giustizia, in nome del re, presso le comunità locali. Si profila dunque una situazione in cui il potere si caratterizza per tratti molto militarizzati e per legami fortemente dipendenti dalla fedeltà individuale, e le possibilità di controllo diretto del potere centrale sovrano in ambito locale sono altrettanto fortemente dipendenti dalla presenza, nei singoli contesti, degli interessi privati del sovrano stesso. A partire dagli anni Novanta del VI secolo, quando il fallimento di alcune iniziative offensive delle truppe imperiali, rese chiaro ai Bizantini che i Longobardi non sarebbero stati facilmente fagocitati dall’impero o cacciati dall’Italia, nell’ambito della corte longobarda iniziarono a maturare orientamenti piú complessi, che non fossero quelli della mera conquista manu militari del territorio, riguardo il rapporto tra Longobardi e popolazione italiana.

Rapporti con il papato

Nella pagina accanto, al centro la croce di Agilulfo in oro e pietre preziose, splendido esempio di oreficeria longobarda degli inizi del VII sec. Monza, Tesoro del Duomo. La politica di Agilulfo fu notevolmente influenzata dalla moglie Teodolinda, che avviò rapporti con il papato e contribuí alla conversione dei Longobardi al cattolicesimo.

Ancora una volta il terreno religioso risultò il piú fertile per far sbocciare nuove possibilità di relazioni. La cattolica regina Teodolinda, moglie di due re (Autari e Agilulfo) e madre di un terzo (Adaloaldo, 614-626), avviò rapporti con il papato e sembra che avesse creato intorno a sé una sorta di «consiglio della corona» all’interno del quale erano stati cooptati anche alcuni Romani che, dal puto di vista anagrafico, erano gli eredi della generazione che aveva conosciuto l’invasione e che ancora poteva evidentemente disporre di un’istruzione di buon livello. Contemporaneamente, la dignità regia iniziò a rivestirsi di attributi nuovi, non piú derivanti solo dal retroterra «nazionale» longobardo. A partire da Autari, i sovrani iniziarono la costumanza di far precedere al proprio nome il prenome Flavius, che era stato quello scelto dalla


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I Longobardi

colombano e il monachesimo longobardo in italia La fondazione di Bobbio, nel 612, non fu solo il primo grande atto di sostegno di una fondazione monastica da parte della monarchia longobarda, ma fu anche il viatico per l’impianto in Italia di una nuova tradizione di disciplina cristiana di altissimo livello spirituale e culturale, nata al di fuori dell’ambiente geografico dell’impero romano. In Francia l’opera di Colombano, che aveva fondato i cenobi di Luxeuil, Annegray e Fontenay (sostenuti dai re franchi), aveva aperto una crepa nel predominio sui centri monastici delle famiglie gallo-romane di antica nobiltà senatoria, all’interno dei quali si formava la crème dell’intellettualità cristiana, che andava spesso poi a occupare le cattedre vescovili di maggior prestigio. Alla scuola dei monasteri di Colombano iniziò quindi a formarsi un’intellettualità franca che, intorno alla metà del VII secolo, aveva ormai soppiantato quella di origine romana, peraltro facendo propria tutta l’eredità culturale di quest’ultima, per esempio rilanciando la pratica e la diffusione della Regola di Benedetto.

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dinastia di Costantino. Pochi anni dopo, nel 604, Agilulfo fece acclamare re suo figlio Adaloaldo nel circo di Milano, seguendo quindi un rituale analogo a quello degli imperatori bizantini. Dunque, i re sembrano cercare una legittimazione del proprio potere che non derivasse piú solo dal fatto di essere i capi della gens in armi dei Longobardi, ma che facesse anche riferimento a una sovranità derivante dal dominio che essi esercitavano piú in generale sul territorio italiano. Sono probabilmente prodotti di questa stagione due fatti importanti: la fondazione, sotto gli auspici regi, del monastero di Bobbio (612) per opera del monaco irlandese Colombano, e l’emanazione, sotto Rotari (636-652), della prima codificazione scritta di leggi longobarde, il celebre «Editto di Rotari». Questo corpus di leggi, i cui presupposti giuridici appaiono totalmente alieni dalla cultura giuridica romana e che era destinato a regolamentare esclusivamente i rapporti tra Longobardi, sembrerebbe la negazione del processo di integrazione avviato tramite le iniziative precedentemente descritte. In realtà, esso costituisce la prima importante espressione del potere legiferante e moderatore del re, condotta secondo un mezzo di espressione, quello della codificazione scritta, che certo era patrimonio della tradizione romana.

Nella pagina accanto Bobbio, cripta dell’abbazia di S. Colombano. Particolare del sarcofago di Colombano, con il santo in veste di fondatore dell’abbazia. Opera di Giovanni de Patriarcis, 1489. In basso particolare dei rilievi di un pluteo longobardo. VIII sec. Vittorio Veneto, Museo del Cenedese.

che in questa fase il dominio longobardo in Italia si consolidò definitivamente, con il conseguimento di una serie di successi militari. Il piú importante di tutti fu forse quello riportato dai Longobardi di Benevento sull’imperatore Costante II (641-668), che nel 663 aveva lanciato un deciso tentativo di rafforzare la presenza bizantina nell’Italia meridionale, divenuta nel frattempo un caposaldo importante nella lotta contro gli Arabi all’interno dello scacchiere centro-mediterraneo. L’armistizio concluso nel 680 tra il re longobardo Perctarit (671-688) e l’imperatore Costantino IV (668-685) fu il primo riconoscimento formale, da parte bizantina, della esistenza di un Regno longobardo in Italia. Stranamente, nonostante il re Alboino e i suoi successori non avessero certo chiesto il permesso a Costantinopoli al momento di entrare in Italia e di stabilirvisi, questa legittimazione portò, tra le sue conseguenze, una piú piena affermazione di sé del potere regio longobardo, che si espresse per

Quarant’anni di «buio»

La fase storica compresa tra il 640 e il 680 circa è un periodo tra i meno documentati in assoluto della storia d’Italia. Tuttavia, si può affermare

In Italia, nella prima metà del VII secolo, non si poteva parlare della presenza di un’intellettualità romana da sostituire, come accadeva in Francia, ma certamente la nascita di centri come Bobbio, che potessero formare un’intellettualità longobarda cristianizzata, non mancò di fornire un impulso importante al processo di integrazione culturale dei Longobardi ormai stabilmente insediati nella Penisola. Dopo il definitivo pronunciamento della monarchia longobarda in favore del cattolicesimo romano, nel corso dell’ultimo quarto del VII secolo, anche in Italia si verifica un’intensa fioritura di nuove fondazioni monastiche, di cui sono promotori innanzitutto re e duchi, ma che spesso vede attivamente impegnati anche esponenti del ceto degli «ufficiali pubblici», come gastaldi e sculdasci, possessori fondiari e chierici. Significativa è anche la presenza di comunità monastiche femminili, per la cui istituzione si mobilitano direttamente regine e duchesse. Proprio a monasteri femminili appartenevano tre fra gli edifici di culto cristiano dell’età

longobarda giunti sino a noi in condizioni di maggiore integrità e che illustrano in modo esemplare le ambizioni della committenza esercitata dai massimi livelli della società longobarda. S. Giulia di Brescia, il cosiddetto «Tempietto longobardo» di Cividale del Friuli e S. Sofia di Benevento sono variazioni fantasiose e raffinate sul tema dell’architettura cristiana, che richiamano modelli di matrice tardo-antica, ma v’innestano novità significative. Oggi, questi tre edifici, insieme ad altri disseminati su tutto il territorio italiano, dalla Lombardia alla Puglia, sono stati inseriti nella rete denominata «Italia Langobardorum» che nel 2011 ha ottenuto l’iscrizione alla lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità protetto dall’UNESCO.

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Monza, Duomo. Gli ambasciatori longobardi ai piedi di Teodolinda, affresco degli Zavattari del ciclo delle Storie della Regina Teodolinda. XV sec. Figlia di Garibaldo duca di Baviera, Teodolinda sposò Autari nel 589 e poi, alla morte di quest’ultimo, il suo successore Agilulfo. Cattolica, fece molte donazioni alla Chiesa, e la stessa basilica monzese fu eretta per suo volere. esempio nel fatto che, proprio a partire da questo periodo, i re iniziarono a battere moneta a nome proprio. Ma è da ricordare che da allora inizia anche un forte attivismo dei re a sostegno delle chiese vescovili e dei monasteri e si va dispiegando un disegno piú chiaro ed esplicito di estendere l’egemonia sull’intero scacchiere italiano, che si andrà configurando pienamente nel secolo VIII. I re di Pavia agiscono ora definitivamente non piú come sovrani di una gens di invasori, bensí come domini di un territorio sottoposto alla propria autorità, anche se, ancora nell’VIII secolo, è sempre solo la condizione di «longobardo» a essere sinonimo di persona nel pieno dei propri diritti individuali. In questa prospettiva, secondo il giudizio di molti storici, il non aver ottenuto subito il controllo di Roma sarebbe stato fatale ai Longobardi. Nel VI secolo i papi consideravano molto importante, per il compimento della loro missione apostolica universale, rimanere sudditi dell’impero di Bisanzio, che era la piú grande potenza cristiana di allora. Essi temevano come la peggiore delle disgrazie l’idea di finire tra gli artigli di un popolo come i Longobardi, superficialmente cristianizzato, e che sembrava mostrare poco riguardo per i poteri costituiti.

Gregorio contro Liutprando

Nei centocinquant’anni successivi all’invasione, mentre i Longobardi aderivano in massa al cristianesimo, i papi acquisirono sempre maggiore autonomia da Bisanzio, che con fatica controllava le sue province italiane. Si può ben dire che, intorno al 720-730, i papi fossero divenuti di fatto l’autorità dominante a Roma e dintorni, avviando al contempo un processo di distacco da Bisanzio che si sarebbe compiuto definitivamente un cinquantennio piú tardi. Ciononostante, papato e monarchia longobarda non giunsero mai a condividere una visione comune sul futuro dell’Italia. Anzi, quando il re longobardo Liutprando, fervente cattolico, intorno al 730 riprese l’iniziativa militare e cercò di impossessarsi degli ultimi domini bizantini d’Italia (Roma compresa) e di unificare la Penisola sotto il suo dominio, il papa di allora, Gregorio II, gli si oppose vigorosamente. E cosí fecero anche i suoi successori nel corso dei quarant’anni seguenti, avviando un’intesa con i Franchi, con la motivazione che essi sarebbero 128

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stati protettori piú leali dell’autonomia e del prestigio del papato. In realtà, i papi volevano sí avere degli alleati su cui contare, ma preferivano averli a una certa distanza da Roma, in modo da evitare di essere da essi troppo direttamente condizionati. L’opposizione dei pontefici alla fine costò ai Longobardi l’indipendenza. Nel 774, infatti, Carlo Magno scese in Italia su invito del papa Adriano I e, sconfitto il re Desiderio, annesse il regno di Pavia ai propri domini.

Visioni divergenti

Vista nella prospettiva della spinosa questione dell’unità politica e dell’identità culturale dell’Italia, la critica storica, soprattutto nel XIX secolo, si è animatamente divisa sulla valenza della presenza longobarda. Essa è stata vista alternativamente come la forza riaggregatrice o definitivamente distruttrice dell’unità della Penisola. Specularmente, il papato è stato considerato tanto la forza che, per propri calcoli di potere, ha agito come l’ostacolo per il raggiungimento di questa nuova unità, sotto l’egida di una monarchia longobarda cristianizzata e ormai integrata alla realtà italiana, quanto come l’unico vero usbergo contro la totale sottomissione dell’Italia a una gente il cui trionfo avrebbe definitivamente sommerso l’eredità culturale e spirituale del mondo antico. Questa polemica non è in realtà del tutto sopita, ma si ripresenta sotto diverse spoglie. È infatti l’impatto dell’elemento «esterno ed estraneo» al mondo romano sulle strutture sociali, politiche e amministrative di quest’ultimo (e in una prospettiva che non riguarda solo l’Italia, ma tutte le aree dell’Europa occidentale) a essere oggi preso in esame. E si registra una forte tendenza, soprattutto negli ultimi anni, a teorizzare una «transizione morbida» tra il governo «romano» e gli assetti istituzionali postromani, sottolineando soprattutto gli aspetti di continuità che questi ultimi presentano rispetto al primo con lo scopo, sovente espresso in maniera esplicita, di relativizzare fortemente la tradizionale categoria di «barbarie». Cosí, da un lato, è stato asserito che la civiltà romana del periodo tardo-antico appare già essa stessa assai piú «contaminata» da scambi e sovrapposizioni culturali con le civiltà «esterne» alla frontiera del limes e, dall’altro, che le popolazioni penetrate all’interno dei territori romani (il discorso vale soprattutto per Visigoti e Franchi, ma riguarda anche i Longobardi) sono state capaci, in buona misura, di sovrapporsi alla realtà romana senza provocare traumi irreparabili. È evidente che questa lettura storica non è meno condizionata da fatti contingenti (il confronto dell’Europa di oggi con le masse in movimento provenienti dall’ex secondo e dal terzo 130

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«presenze» Longobarde nei musei italiani I ritrovamenti archeologici riferibili agli stanziamenti dei Longobardi in Italia sono iniziati sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, anche se a quei tempi l’archeologia medievale in genere e in particolare quella relativa alle tracce dei popoli che invasero la Penisola alla fine dell’antichità non riscuoteva eccessivo interesse. In quella fase storica, infatti, la tutela e la valorizzazione dei beni archeologici era rivolta primariamente alle testimonianze di epoca romana, considerate come elemento essenziale per la costruzione dell’identità nazionale italiana, che traeva il proprio principale riferimento nell’unificazione amministrativa della Penisola attuata al tempo di Augusto. Ciononostante, la rilevanza dei ritrovamenti effettuati, soprattutto all’interno delle aree funerarie, ha permesso la formazione di collezioni importanti che hanno mano a mano trovato posto in numerosi musei nazionali e locali, andandone talora a costituire il nucleo espositivo principale. È questo il caso, per esempio, del Museo Nazionale di Cividale del Friuli e del Museo dell’Alto Medioevo di Roma, che espongono le collezioni forse piú belle e ricche di reperti del primissimo periodo della permanenza longobarda in Italia. Gli oggetti esposti provengono nel primo caso dalle necropoli scoperte negli immediati

dintorni della capitale del ducato friulano, il primo a essersi costituito dopo l’entrata in Italia nel 568, mentre nel secondo caso appartengono a quelle di Nocera Umbra e di Castel Trosino (al confine tra le Marche e l’Abruzzo), scoperte e scavate quasi contemporaneamente alla fine dell’Ottocento. Piú a sud, a Benevento, capitale del ducato che dominò l’Italia meridionale, nel Museo Provinciale del Sannio è stato recentemente rinnovato l’allestimento delle sale che espongono sia i reperti provenienti da alcuni dei cimiteri in uso nella prima età longobarda, sia iscrizioni di epoca piú tarda, che offrono preziose testimonianze del periodo in cui l’aristocrazia cittadina, ormai cristianizzata, amava lasciare memoria di sé attraverso la parola scritta. Analoghi affascinanti «passaggi» fra l’età della conquista e


In questa pagina collana in pasta vitrea con pendenti costituiti da monete d’oro bizantine e corno potorio in vetro azzurro, dalla necropoli longobarda di Castel Trosino (AP). VII sec. Roma, Museo dell’Alto Medioevo. Nella pagina precedente disco aureo raffigurante un cavaliere longobardo con barbetta a punta, un elmo in testa e armato di lancia e scudo, dalla necropoli di Cella (UD). Inizi del VII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

quella del consolidamento del regno si possono cogliere nelle collezioni longobarde dei Musei del Castello Visconteo di Pavia e di Santa Giulia a Brescia; cosí come, tornando per un momento a Cividale, il Museo Diocesano espone alcuni pezzi, tra i piú significativi in Italia, della scultura di arredo liturgico delle maggiori chiese cittadine risalenti all’VIII secolo. Ma la presenza longobarda e la cultura materiale e artistica del periodo del Regno sono testimoniate anche in altri musei, alcuni dei quali di recente istituzione, come il Museo Nazionale del Ducato di Spoleto, nella Rocca Albornoz, che raccoglie importante materiale archeologico proveniente sia dalla capitale del ducato, sia da numerosi siti dei dintorni, o in realtà piú piccole, ma non meno interessanti, quali il Museo del Castello di Monselice, presso Padova, e il Museo Provinciale Sannitico di Campobasso, dove sono esposti solo alcuni degli eccezionali reperti rivenuti nello scavo di due necropoli situate nel territorio di Boiano. E l’elenco potrebbe proseguire con i ritrovamenti delle necropoli rivenute nel territorio di Torino (come quelle di Collegno e di Testona), esposti nel locale Museo di Antichità e quelli avvenuti a Fiesole, presso Firenze, che hanno uno spazio significativo nel locale Museo Civico Archeologico. Per concludere, tornando a sud, non si può tralasciare di ricordare il Museo Provinciale Campano di Capua, che conserva reperti di eccezionale valore, testimoni dell’arte fiorita nella città che, nel X secolo, fu la vera capitale artistica e culturale della Longobardia Meridionale. Questo excursus non esaurisce l’elenco dei musei nei quali si possono ammirare reperti il cui recupero è frutto dell’intensa attività di ricerca e studio che l’archeologia medievale italiana ha condotto: ricerche e studi che, soprattutto negli ultimi decenni, hanno sviluppato un volume di conoscenze cosí approfondito, da rendere ormai chiaro il ruolo decisivo dei Longobardi nel trasformare la storia d’Italia, elaborando originalmente l’eredità del mondo antico con l’apporto della propria peculiare tradizione culturale.

mondo) di quanto non lo fossero quelle che in passato esasperavano – in una direzione o in un’altra – il confronto tra germanesimo e romanità, cercando di trovarvi ragioni di embrionali definizioni di autocoscienze nazionali.

Un riferimento imprescindibile

Di certo, l’indubbio progresso conosciuto dagli studi sulla tarda antichità nel corso degli ultimi decenni ha consentito di meglio valutare la complessità e le caratteristiche dello Stato tardo-romano, e quindi di focalizzare con maggior precisione l’interazione politico-istituzionale avvenuta tra le strutture di esso e i nuovi dominatori, e di appurare che il mito dello Stato tardo-romano come modello di potere ha costituito un riferimento praticamente imprescindibile per le esperienze istituzionali avviate dalle popolazioni germaniche. La Renovatio Imperii di Carlo Magno, attuatasi alla fine dell’VIII secolo, con i suoi simboli e il suo apparato ideologico tutti protesi alla ricostituzione fra l’Europa di allora e il passato di Roma, non fu insomma un resuscitare ex abrupto un modello politico defunto e sepolto dalla storia, ma il rilancio di un progetto di dominio universale cristiano, che era quello in cui le popolazioni germaniche si erano imbattute al momento della penetrazione nel territorio dell’impero romano e che avevano tutte in certa misura contribuito a tenere in vita. L’indipendenza dei Longobardi, spentasi nel Nord e nel Centro dell’Italia, continuò a vivere nel Meridione, sotto le insegne dei duchi di Benevento che, al momento della conquista franca di Pavia, mutarono il loro titolo in quello di «principi della gente longobarda». L’unità del principato di Benevento si sarebbe spezzata alla metà del IX secolo, con la secessione di Salerno e poi con la nascita di un terzo polo autonomo incentrato sulla città di Capua. Nonostante questa forte frammentazione politica, per altri tre secoli in questa parte della Penisola sarebbero esistiti Stati che avrebbero perpetuato l’eredità longobarda, anche se entro un contesto storico ormai profondamente diverso rispetto a quello dei giorni eroici della conquista della «nuova patria» italiana. invasioni barbariche

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Un’identità da ridefinire Cosa possiamo dire, in definitiva, delle popolazioni che la tradizione ha etichettato come «barbariche»? La risposta è difficile e necessita di studi ulteriori. È, però, certo che l’incontro/scontro fra l’agonizzante impero di Roma e le gentes externae fu un fenomeno complesso e dalle mille sfaccettature Rilievo dell’Ara del duca Rachis in pietra d’Istria raffigurante una Maiestas Domini (Maestà Divina), con il Cristo in una mandorla insieme a due cherubini, sorretto da quattro angeli. 737-744 d.C. Cividale del Friuli, Museo Cristiano.

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I barbari, oggi

L’

evidenza della forte connessione con il passato romano nei regni barbarici, che vediamo emergere nell’assunzione della corona imperiale da parte di un re franco, quale fu Carlo Magno, acquista ulteriore senso se ci si sofferma a riconsiderare brevemente, in retrospettiva e nel suo insieme, il problema del rapporto fra i «barbari», le leggi e i segni del potere. I sistemi di governo e amministrazione, che vediamo operanti nella maggior parte dei territori già appartenuti alla parte occidentale dell’impero romano, recano segni di evidente rottura, ma anche elementi di continuità con il recente passato. Se escludiamo i casi di regioni come il Norico (piú o meno corrispondente all’attuale Austria) la Pannonia e la Britannia, in cui la disarticolazione delle strutture amministrative e territoriali appare da subito piú decisa, aree come la Gallia, la Spagna e l’Africa (che peraltro è già riconquistata dai Bizantini negli anni Trenta del VI secolo) mostrano, fra il V secolo e il VI secolo, una permanenza del ruolo delle città come elemento ordinatore delle realtà territoriali locali e, al loro interno, una persistente rilevanza delle famiglie di origine romana. I sovrani barbari cercarono quasi sempre di mantenere in vita, almeno in linea di principio, l’impalcatura organizzativa dello Stato romano, anche se con risultati assai diversi da regione a regione. Per esempio, essi tentarono in piú casi di non smantellare il sistema fiscale imperiale, sebbene sia abbastanza evidente che, in genere, la complessa macchina posta in essere dall’amministrazione tardo-romana per garantire le risorse necessarie al funzionamento di infrastrutture e servizi s’inceppò e si disarticolò ben presto un po’ ovunque. La crisi della tassazione è forse il segno piú tangibile della fine di un mondo e del progressivo formarsi di compagini statali il cui funzionamento era basato su regole e principi assai diversi.

Monete «alla romana»

Tuttavia, il prestigio dei modelli ereditati dal passato perdurò ostinatamente, soprattutto per quel che riguardava i simboli che «rappresentavano» l’autorità sovrana e il suo potere. Acquista notevole rilevanza, in questo senso, il fatto che in quasi tutti i regni «barbarici» che occupano i territori occidentali ex romani, i sistemi monetari in vigore continuarono a rimanere 134

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Moneta aurea (tremisse) di Cuniperto, sovrano dei Longobardi dal 688 al 700. Milano, Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche. Al dritto, il busto del re con l’appellativo di rex; al verso l’immagine di san Michele.

incardinati sui parametri di valori ponderali e numerali propri dell’impero, riflettendo talora anche le variazioni che intervennero nell’impero d’Oriente dopo il 476. Sino al 570-580, tutti i re «barbari» batterono addirittura moneta non a proprio nome, bensí a nome degli imperatori (mi riferisco principalmente alla moneta aurea; per quella argentea e bronzea la situazione è di valutazione piú complessa). Solo in questo periodo – si badi bene, cento anni dopo la fine dell’impero in Occidente – i re dei Visigoti e dei Franchi, piú o meno contemporaneamente, iniziarono a coniare moneta aurea a nome proprio, rimanendo però ancora sostanzialmente nell’alveo del sistema ponderale romano-bizantino. I Goti e Vandali, invece, non avrebbero mai coniato oro a proprio nome. Nonostante l’apparenza di una conquista che avrebbe fatto tabula rasa delle istituzioni romane, persino i Longobardi, nei primi cento anni della loro presenza in Italia, produssero una coniazione monetale a imitazione di quella degli imperatori di Costantinopoli, contro i quali furono permanentemente in guerra per oltre cinquant’anni.

I primi codici giuridici

Anche quanto conosciamo sui sistemi legislativi in vigore nei territori degli stessi regni mostra, analogamente, connotati di «continuità» con il sistema tardo-romano. Già nel V secolo, alcune delle gentes «barbariche» che piú rapidamente avevano raggiunto una forte autonomia da Roma (in pratica una indipendenza di fatto), promulgarono raccolte di leggi che risentivano in maniera forte ed evidente della codificazione imperiale della prima metà del V secolo (il Codex Theodosianus). Ciò accadde in particolare con i Visigoti che, in seguito alla rottura, avvenuta nel 459, del patto di foederatio con l’impero, videro i propri sovrani rivendicare il pieno diritto a una legiferazione autonoma. Il re Teodorico II pubblicò, tra il 460 e il 461, l’Edictum Theoderici regis nel quale si dichiarava che, per una serie di fattispecie giuridiche, Romani e Goti erano ambedue sottoposti alla disciplina del diritto romano. Pochi anni dopo, tra il 466 e il 480, re Eurico emanò un codex che portava il suo nome, cui seguí la Lex Romana Visigothorum (detta an-


regole scritte

Particolare di un mosaico raffigurante uno scriba, da una tomba scoperta a Tabarka (Tunisia). Arte paleocristiana, IV-V sec. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo. Già nella seconda metà del V sec., alcuni re barbari iniziarono a promulgare raccolte di leggi che risentivano dell’eredità del Codex Theodosianus, codificazione imperiale della prima metà dello stesso secolo.

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che Breviarium Alaricianum), promulgata da Alarico II nel 506, che rimane uno dei testi fondamentali per la trasmissione in Occidente, durante tutto l’Alto Medioevo, della cultura giuridica romana. Anche i Burgundi sono noti per la loro attività legislativa; il re Gundobado (467-516) intorno alla fine del V secolo promulgò la Lex Romana Burgundiorum, che si caratterizza per la forte somiglianza con le compilazioni visigote, anche se per una maggiore semplicità rispetto a esse. Esiste tuttora un vivo dibattito tra gli studiosi circa il fatto se queste compilazioni legislative siano state frutto di una concezione territoriale o personale del diritto, vale a dire se contenessero norme applicabili a tutti gli abitanti del territorio sottoposto al re che aveva emanato queste stesse leggi, ovvero se esse riguardassero solo la stirpe dei conquistatori, mentre gli autoctoni (i Romani) rimanevano sottoposti alle loro proprie leggi, venendosi però di fatto a trovare in una posizione di discriminazione e sottomissione rispetto ai loro dominatori. Attualmente, la critica sembra propendere per la prima soluzione, anche se fra gli storici del diritto la questione resta ancora oggetto di dibattito. La posizione assunta dagli Ostrogoti in Italia è per certi versi ancora piú strettamente connessa al retroterra tardo-romano. Teodorico, sebbene fosse in primo luogo il re della sua «gente», fu però riconosciuto come proprio rappresentante dall’imperatore d’Oriente, che lo aveva inviato nella Penisola, e lo aveva insignito del titolo onorifico di patricius e della carica militare di magister militum praesentalis. Non essendo quindi a pieno diritto sovrano dell’Italia, egli non poteva legiferare alla maniera che era stata propria dei sovrani visigoti. Questo determinò la conseguenza che in Italia i Goti continuarono a vivere esplicitamente secondo proprie costumanze, mentre i Romani seguitavano a osservare le leggi imperiali e i loro successivi aggiornamenti, ma comportò anche che Teodorico era tenuto a sua volta a difendere e a far rispettare le leggi romane.

Tribunali misti e diritto romano

Sappiamo inoltre che, nel caso di liti tra Romani e Goti, venivano formati tribunali misti ed è da credere, stando alla documentazione superstite, che tutti i problemi concernenti la gestione della proprietà fossero regolati per tutti secondo i dettami del diritto romano. Infine, come è ben testimoniato dalle Variae di Cassiodoro, vediamo che, al di là dei difformi giudizi sulla loro qualità stilistica, in esse si manifesta chiaramente la volontà del governo goto di Ravenna di mantenere in vita, nell’amministrazione centrale e periferica dello Stato, modi e principi operativi della tradi136

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la legge salica Promulgata probabilmente nel 510 dal re franco Clodoveo, la Lex Salica fissava per iscritto norme giuridiche preesistenti ma tramandate solo oralmente. Le pene non prevedevano quasi mai la morte e variavano a seconda dell’identità del danneggiato, che fosse un franco o un romano


In alto vignette raffiguranti la dettatura della Lex Ripuaria (a sinistra) e della Lex Salica, da un codice del X sec. Modena, Biblioteca Capitolare. A destra pagina di un codice della Lex Salica, dal Codice Wandalgarius. 792. San Gallo, Stiftsbibliothek. Nella pagina accanto pagina di un’altra edizione della Lex Salica. VIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Pagina della Bibbia visigota nota come La Cava. IX sec. Cava dei Tirreni, Biblioteca dell’Abbazia della SS. Trinità. I Visigoti furono convertiti dall’arianesimo al cattolicesimo da san Isidoro, vescovo di Siviglia (560 circa-636).

La scelta di abbracciare la religione cristiana facilitò l’integrazione tra i nuovi venuti e le comunità autoctone 138

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dal mattone al legno L’impatto delle popolazioni germaniche sul territorio dell’impero si rende particolarmente evidente quando si prende in considerazione il cambiamento di stile di vita che si riscontra, per esempio, nei modi dell’abitare. In tutta l’Europa romana, Italia compresa, si diffonde l’abitudine di utilizzare il legno per edificare sia le case d’abitazione, sia edifici di uso agricolo, come stalle e magazzini, sia installazioni produttive come laboratori e officine artigianali. Le indagini archeologiche mostrano che in molti casi, alla comparsa di insediamenti dominati da questo tipo di edifici, corrisponde l’abbandono totale e consapevole delle costruzioni romane (ville e fattorie), ovvero la loro sistematica demolizione, come se di esse si avvertisse un vero e proprio rifiuto. Possibili atteggiamenti culturali, derivanti da tradizioni e stili di vita di diversa origine, possono forse essere associati alla consapevolezza che il mantenimento del patrimonio edilizio romano era divenuto troppo complesso e costoso. Parallelamente al cambiamento delle tipologie edilizie si verifica, un po’ ovunque in Europa, una mutazione della struttura delle città di origine romana. Di esse si perde quasi sempre la compattezza dell’impianto architettonico e urbanistico del passato e si diffondono (anche a causa della diminuzione della popolazione) spazi vuoti, interessati da attività agricole.

zione romana. Il principio della convivenza era rappresentato dalla metafora secondo cui ai Goti, mediante l’esercizio delle armi, era affidata la custodia civilitatis, mentre ai Romani era affidato il templum civilitatis, che, nella visione di Cassiodoro, era quell’insieme di valori e comportamenti tramite i quali i Goti stessi potevano dirsi parte della storia, uscendo dalla barbarie del proprio passato. È diversa, in questo senso, la posizione dei Franchi. Le due leges prodotte da questo popolo, ovvero la Lex Salica (di cui è ipotizzata una redazione intorno al 510, e cioè negli ultimi

In alto modellino ricostruttivo della fattoria di epoca merovingia di Larina, nell’Isère. Hières-sur-Amby, Maison du Patrimoine. In basso tesoretto di epoca franca, che include solidi di età tardo-romana. Dortmund, Museum für Kunst und Kulturgeschichte der Stadt.

anni del regno di Clodoveo) e la Lex Ripuaria (una cui primitiva redazione risalirebbe alla prima metà del VI secolo), mostrano una piú marcata estraneità al mondo concettuale della cultura giuridica romana, come per esempio per ciò che concerne la responsabilità penale dell’individuo di fronte ai delitti commessi, che viene regolata, nella sfera privata, mediante composizioni pecuniarie corrisposte dall’offensore nei riguardi dell’offeso e della sua famiglia. Dunque, apparentemente, si registra tra i Franchi un irrompere piú esplicito di costumanze germaniche nella regolamentazione dei rapporti interpersonali. Tuttavia, a controbilanciare questa constatazione, non va dimenticato che recenti ricerche hanno per esempio individuato nei territori dominati dai Franchi alcune tra le aree ove i sistemi fiscali tardo-romani si sarebbero preservati con maggiore integrità, dal che conseguirebbe che almeno le regole alla base della denuncia del possesso dei beni e quindi, forse, del diritto di proprietà, non sarebbero mutate troppo profondamente.

Il potere ai guerrieri in armi

Riassumendo, la situazione delle regioni che avevano fatto parte dell’impero d’Occidente mostra due piani di leggibilità, che possono condurre a valutazioni estremamente diverse tra loro. Da un lato, abbiamo il collasso del sistema politico romano, nel corso del V secolo, che avviene in seguito a una concatenazione di eventi spesso traumatici e distruttivi e implica dei mutamenti rilevanti, come la scomparsa di una capacità autonoma dei Romani (intendendo con ciò le popolazioni già presenti all’interinvasioni barbariche

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no dei vecchi confini dell’impero, quale che fosse l’effettiva identità etnica di ciascuna di esse) di provvedere alla propria difesa e quindi di poter tutelare la propria libertà. Questo fatto si collegava alla concezione vigente presso le popolazioni germaniche, che vedeva la piena libertà individuale e la sovranità riposare presso la categoria dei guerrieri in armi, all’interno della quale era scelto il re. Dall’altro lato, una serie di «indicatori strutturali» delle forme del vivere sociale (sistemi giuridici, amministrativi, monetari, fiscali) non sembra aver subito mutamenti troppo radicali (o, comunque, non tutti insieme cambiano nello stesso momento e con la medesima intensità), e il trapasso dalla potestà romana a quella «barbarica» delle regioni italiche, galliche, iberiche e africane potrebbe quasi apparire impercettibile. Anzi, recenti indirizzi di ricerca hanno enfatizzato di proposito gli elementi di continuità, quasi a negare l’esistenza di ogni ragione di contrapposizione tra «romanità» e «germanesimo». L’acquisizione, da parte dei sovrani germanici, di titoli e di forme di rappresentazione del proprio potere mutuate dalla tradizione romana sembrerebbe rafforzare questa immagine «gattopardesca» della transizione dei poteri dallo Stato romano ai regna romano-germanici. Tuttavia, si perderebbe un importante parametro di valutazione se si dimenticasse che tutte le strutture appena ricordate subirono, in queste regioni e in questo arco di tempo, un processo di semplificazione e – perché no – di involuzione funzionale, che è indice rilevante dell’uscita da un sistema (e, potremmo dire, da un’epoca storica) e dell’ingresso in un mondo diverso. Ciò appare chiaro soprattutto se si operano confronti diretti con il mondo mediterraneo orientale, in cui sopravviveva – e anzi attraversava un momento di importante fioritura – la metà dell’impero romano che si suole comunemente definire «impero bizantino». E il confronto è fortemente indicativo soprattutto quando si passi a comparare i livelli di articolazione e attività delle infrastrutture e dei servizi, nonché degli organismi amministrativi atti a fornire ai servizi le risorse necessarie per funzionare. 140

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Le fonti scritte, per l’età compresa tra Teodosio II (408-450) ed Eraclio (610-641), attestano che, nell’impero bizantino, era ancora sostanzialmente funzionante il circuito che, a partire da una regolare riscossione delle tasse, consentiva allo Stato di provvedere al sostentamento dell’esercito e all’approntamento delle opere di fortificazione e di altre infrastrutture fondamentali come acquedotti, strade, ponti e cosí via. Questo stato di fatto è confermato dall’osservazione archeologica, che pone in evidenza la capacità del governo imperiale di realizzare grandi opere in tutti questi campi e in maniera geograficamente diffusa all’interno del territorio dell’impero, con un picco di attività evidente soprattutto nel periodo di Giustiniano. Per i regni romano-barbarici, invece (con l’eccezione, forse, del regno ostrogoto d’Italia sotto Teodorico), le fonti non ci consentono di affermare che i sistemi di riscossione dei tributi funzionassero con altrettanta regolarità e che i re fossero in grado di approntare e realizzare progetti di nuove e importanti opere pubbliche o di mantenere in vita e in efficienza l’esistente. Mentre i Romani erano, in linea di principio, obbligati a pagare le tasse allo Stato, ora incarnato dai nuovi re germanici, le popolazioni conquistatrici difficilmente pagavano tributi sulla propria persona o sulle terre ricevute come prede di conquista. Potevano eventualmente pagare tasse fondiarie se acquistavano terre possedute da Romani, ma solo se il re era in condizione di far rispettare questo obbligo. Se, cioè, era stato in grado di mantenere in funzione, durante le fasi tumultuose della conquista, le strutture amministrative ereditate dai Romani (non sempre efficienti), cosa su cui è legittimo nutrire piú di un dubbio.

A sinistra placca in avorio intagliata di produzione longobarda, con il busto di san Matteo. Ravenna, Museo Nazionale. La conversione ufficiale e definitiva dei Longobardi al cattolicesimo, inizata per opera della regina Teodolinda e di san Gregorio Magno, avvenne alla fine del VII sec.

Vescovi esattori

In questo quadro, il re sosteneva se stesso e la propria corte soprattutto mediante le terre della corona, cioè con il proprio patrimonio, ma non aveva – se non limitatamente e saltuariamente – fondi per opere pubbliche. Nelle città (per esempio nel regno dei Visigoti e in area franca) spesso i vescovi furono delegati a esigere dazi e altri tributi indiretti, ma difficilmente si trovarono in condizione di esigere alcunché sui beni immobili, all’infuori di ciò che ottenevano

A destra pendente a croce in oro incastonata con pietre preziose. Oreficeria visigota, VII sec. Barcellona, Museo Catalano di Archeologia.


sotto forma di rendite e di canoni di locazione dai propri patrimoni privati. La contribuzione fiscale finí cosí per identificarsi sempre meno con una tassa su beni e persone in cambio di servizi e andò sempre piú a «diluirsi» all’interno dei rapporti personali e diretti tra individui. Talora questi rapporti reali potevano sovrapporsi o intrecciarsi sul piano giuridico, ma la dissoluzione o la privatizzazione dell’imposizione fiscale indiretta erano il segno di una semplificazione dei poteri statali e di un forte indebolimento della loro capacità di controllare il territorio. Tali fenomeni, inoltre, erano la spia di una tendenza che si sarebbe ulteriormente diffusa nei secoli a venire, per cui lo Stato si identificava fondamentalmente come patrimonio personale del sovrano e della sua famiglia. All’interno di tale quadro generale si possono meglio interpretare alcune fenomenologie che caratterizzano le dinamiche della lotta per il potere nei regna germanici fra il VI e il VII secolo. In questa luce si possono considerare l’estrema rissosità che nel regno visigoto e in quello longobardo la grande aristocrazia mostra nei confronti dell’autorità regia e, nel regno franco, l’abitudine dei sovrani di dividere il regno tra i figli come una sorta di eredità di famiglia, determinando partizioni geografiche complesse e instabili, generatrici di interminabili conflitti intestini. Considerando, inoltre, che non era proprio della tradizione aristocratica germanica proiettare in uno scenario urbano le manifestazioni del proprio predominio sociale, quindi investire – come avevano fatto per secoli i notabili romani – le proprie ricchezze in opere pubbliche o in altri atti di mecenatismo, ci si renderà conto di quali modifiche strutturali si fossero in realtà prodotte in seguito all’avvicendamento delle élite dominanti determinatosi con la fine dell’impero.

Una società ruralizzata

Lo stato di oggettivo diffuso regresso materiale e di profonda metamorfosi funzionale della maggior parte delle città dell’Europa occidentale tra il V e il VII secolo, nonché di tutte le infrastrutture di servizi ereditate dall’età romana, che l’archeologia testimonia senza ombra di dubbio, è un dato incontrovertibile a conferma del radicale spostamento dei flussi di concentrazione e investimento delle ricchezze. La società di questo periodo si era profondamente ruralizzata, non solo e non tanto perché la disgregazione politica aveva invasioni barbariche

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portato a una riduzione della produzione su vasta scala e degli scambi a lungo raggio e quindi aveva tolto alle città importanza in quanto luoghi di mercato e di concentrazione delle attività manifatturiere, ma soprattutto perché, per le nuove élite dominanti, la città era proporzionalmente meno rilevante come palcoscenico sociale e perché la semplificazione delle strutture statali ne aveva anche fortemente ridotto le funzioni. Molti studiosi ritengono con validi argomenti che questi processi di cambiamento fossero già in atto all’interno della società tardo-romana; ma è comunque un dato di fatto che la situazione post-romana non costituí un momento di inversione, ma casomai di accentuazione di questa tendenza. Un tema altrettanto importante all’interno della dinamica di confronto tra conquistatori e popolazioni conquistate, nel quale ci si è ripetutamente imbattuti, è quello dell’integrazione o meno delle confessioni religiose praticate dagli uni e dagli altri. Le popolazioni germaniche, al loro ingresso nell’impero, erano pagane (come per esempio gli Angli, i Sassoni, i Franchi e buona parte dei Longobardi), oppure seguivano il cristianesimo nella sua variante ariana (Ostrogoti, Visigoti, Vandali). La difformità delle credenze religiose non fu di per sé ragione di scontro senza quartiere tra Romani e Germani. Sappiamo infatti che nell’impero stesso, tra il V e il VI secolo, le contrapposizioni tra seguaci di diverse interpretazioni del cristia-

Corona votiva detta «di Teodolinda», in oro lavorato a sbalzo con incastonate pietre preziose e madreperla. VI-VII sec. Monza, Museo del Duomo. La chiesa della città lombarda sorse appunto per volontà di Teodolinda, figlia del duca di Baviera e moglie prima del re Autari e poi di Agilulfo (successore di Autari). Regina dei Longobardi, si adoperò, da fervente cattolica qual era, per la loro conversione, con l’appoggio di papa Gregorio Magno.

nesimo erano parte della normalità e che i culti pagani erano lungi dall’essere stati debellati. Tuttavia è vero che la decisione presa da alcuni re germanici, per sé e per la propria gente, di adottare lo stesso credo religioso dei Romani (il cristianesimo nella sua versione cattolica romana), determinò situazioni di piú decisa integrazione fra elementi autoctoni e alloctoni.

L’egemonia franca

Fu questo il caso dei Visigoti nella penisola iberica (in seguito alla conversione del re Recaredo nel 589), ma soprattutto quello dei Franchi in Gallia, con l’adesione al cattolicesimo da parte del re Clodoveo, alla fine del V secolo. Nel 506 il re franco aveva ormai assicurato alla propria gente il dominio di tutta la Gallia del Nord: nel 486 aveva annesso i dominii del capo gallo-romano Siagrio; nel 496 aveva sbaragliato gli Alamanni, che controllavano le attuali regioni dell’Alsazia-Lorena, del Baden-Württemberg e della Bassa Baviera; nel 500, infine, inflisse una pesante sconfitta ai Burgundi, che dominavano le attuali Borgogna, Savoia, Svizzera e Provenza settentrionale. La conversione del re è stata giudicata dagli storici come una delle ragioni che, attraverso una piú profonda integrazione tra Franchi e Gallo-Romani, resero stabili queste conquiste; ovvero, volendo semplificare, come una delle chiavi che aprirono la porta della trasformazione della «Gallia» in «Francia». Indubbiamente,

Nel sostituirsi all’impero, i poteri «barbarici» mutarono profondamente gli assetti sociali e amministrativi

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il fatto che Clodoveo si presentasse come un re cattolico gli valse un consenso fortissimo, che fu politicamente rilevante soprattutto in quelle regioni della Gallia meridionale che, agli inizi del VI secolo, non erano ancora sotto il controllo dei Franchi e vedevano, allo stesso tempo, ancora in posizioni socialmente ed economicamente rilevanti le famiglie dell’aristocrazia di origine gallo-romana, i cui esponenti occupavano tutte le piú importanti sedi vescovili. Clodoveo, con la sua scelta, poteva apparire appieno come il restitutore dell’ordine perduto in seguito al crollo di Roma. Tra il 507 (vittoria di Vouillé contro i Visigoti, che occupavano la Gallia sud-occidentale) e il 537 (conquista definitiva della Burgundia nel 534 e, nel 537, occupazione della Provenza, sino allora in mano agli Ostrogoti), i Franchi si assicurarono il controllo di tutta quella regione geografica che ancora oggi chiamiamo Francia.

Una realtà complessa

I fatti storici che in queste pagine sono stati ricordati mostrano una realtà complessa d’interazione fra popolazioni dell’impero e nuovi popoli invasori, nonché tra istituzioni e tradizioni degli uni e degli altri. Ogni regione dell’impero ha prodotto risultati diversi, in termini di equilibri politico-istituzionali. Laddove, come in Gran Bretagna, la scomparsa del dominio romano è stata piú precoce, la cancellazione delle sue tracce è avvenuta in maniera piú radicale. Regioni profondamente romanizzate, come la Provenza e la Spagna centrale e occidentale, che hanno sperimentato, nel corso del V secolo, una dissoluzione del controllo politico imperiale piú lenta, con fasi di vero e proprio autogoverno da parte delle comunità locali, hanno mostrato una capacità notevolissima di conservare aspetti di cultura, arte e istituzioni del passato anche quando sul loro territorio è subentrato un dominio politico «barbarico». In Italia, lo sgretolamento dell’impero e quindi l’avvicendamento di diverse dominazioni germaniche, sino alla fine del VI secolo, è stato segnato sempre da guerre durissime e sanguinose. Fenomeni di trasformazione si sono comunque verificati piú o meno in tutte le regioni dell’Occidente romano, nel momento in cui il sistema imperiale si è estinto e poteri «barbarici» vi si sono sostituiti. Il piú importante, come si è già ricordato, è probabilmente quello del crollo del sistema della tassazione diretta, che ha portato con sé cambiamenti radicali nella struttura della società. Tra questi, vanno ricordati la scomparsa di eserciti basati sulla leva, la semplificazione estrema degli apparati amministrativi (quando non la loro quasi completa estinzione), la cessazione di ogni tipo di sistema

Copertina in avorio di un Sacramentario Gregoriano, termine che designa i libri che, fino al IX sec., contenevano le parti della Messa riservate al solo celebrante. IX sec. Trento, Castello del Buonconsiglio.

d’istruzione pubblica, l’interruzione degli investimenti statali in opere di pubblica utilità e, infine, la fortissima riduzione della massa monetaria circolante. Tutti questi fattori, insieme alla frammentazione politica, portarono a uno stato di pesantissima stagnazione economica, che si sarebbe protratta per molti secoli. Oggi è difficile leggere la fine dell’impero romano e le invasioni dei popoli cosiddetti «barbarici» alla luce di interpretazioni troppo radicali, ma è indubbio che le mutazioni conosciute dalle società dell’Occidente durante i secoli V e VI sono state profonde e drammatiche. Probabilmente, come abbiamo visto, le loro cause profonde affondavano le proprie origini molto lontano, dentro le insufficienze del modello di sviluppo sociale ed economico del mondo romano. Tuttavia, è indubbio che lo scenario entro cui si consuma la crisi finale dell’impero è quello determinato dall’assalto che a esso hanno dato, piú o invasioni barbariche

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per saperne di piú Sugli argomenti trattati in questo «Dossier» la bibliografia è sterminata e arricchita di titoli apparsi negli ultimi anni. Fra questi ne indicherò alcuni di piú facile reperimento e di lettura non troppo gravosa. Per la conoscenza dell’impero romano fra i secoli III-V, è essenziale fare riferimento ai volumi III/1 e III/2 della Storia di Roma a cura di Arnaldo Momigliano e Aldo Schiavone, editi da Einaudi, e pubblicati nel 1993. Negli anni Settanta era apparsa in italiano l’opera dello storico inglese Arnold Hugh Martin Jones, dal titolo Il tardo impero romano (284/602 d.C.), edita da Il Saggiatore, in tre volumi, di lettura affascinante e incredibilmente scorrevole, nonostante sia il frutto di una delle piú minuziose ricerche mai effettuate su questa epoca storica. Per una riflessione sui limiti e le crisi strutturali dell’economia romana, i volumi cui piú volte ho fatto riferimento sono La storia spezzata. Storia antica e Occidente moderno, di Aldo Schiavone, pubblicato nel 1996 da Laterza e La caduta di Roma e la fine della civiltà, di Bryan Ward-Perkins, tradotto in italiano e pubblicato nel 2008 da Laterza. A essi si può aggiungere l’opera di Ramsey Macmullen, La corruzione e il declino di Roma, tradotto in italiano e pubblicato da Il Mulino nel 1991.

Altre utili e piú agili sintesi sulla fine del mondo antico sono quelle «classiche» di Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, pubblicata nel 1988 da Rizzoli, e quella di Peter Brown, Il mondo tardoantico, fatto tradurre e pubblicato da Einaudi nel 1974. In tempi piú recenti sono apparsi i lavori di Averil Cameron, Il tardo impero romano, fatto tradurre e pubblicato da Il Mulino nel 1995; La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, di Peter Heather, tradotto in italiano e pubblicato da Garzanti nel 2006; La caduta dell’impero romano, di Giorgio Ravegnani, pubblicato da Il Mulino nel 2012. Sul mondo barbarico, prima e durante le invasioni, disponiamo di molte belle e agili sintesi, pubblicate di recente: Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni fra Antichità e Medioevo, di Stefano Gasparri, pubblicato da Carocci Editore nel 1997; Le invasioni barbariche, di Claudio Azzara, edito

meno simultaneamente, le popolazioni che premevano alle sue frontiere. Nella maggior parte dei casi, questi popoli volevano probabilmente controllare piú che distruggere il sistema romano, di cui riconoscevano il fascino e ammiravano la capacità di generare opulenza. Il gioco riuscí però solo parzialmente poiché quel sistema, nato per sostenere – ed essere sostenuto da – una dominazione universale, non poteva «girare» a servizio di poteri piú localizzati e controllati da classi dirigenti che non avevano mai sperimentato prima d’allora la gestione di macchine amministrative complesse. La fine dell’impero di Roma in Occidente e la sua sostituzione con le nuove «nazioni barbariche» iniziò a delineare un diverso spazio geopolitico europeo. La scomparsa del limes renano a danubiano pose le premesse per un’integrazione piú agevole fra le aree che si trovavano al di qua e al di là dei due grandi fiumi; per esempio, si determinò un progressivo maggior 144

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da Il Mulino nel 1999. Qualche anno prima (1984) era apparso in Italia, presso Einaudi, il volume I nuovi mondi, 350-950, a cura di Robert Fossier, che esaminava in una prospettiva cronologica di lunga durata il riassetto dell’Europa fra il crollo dell’impero e la formazione di una nuova identità continentale nella commistione fra Latini e Germani. A essi si sono aggiunti recentemente il volume di Stefano Gasparri e Cristina La Rocca, Tempi barbarici. L’Europa occidentale tra antichità e medioevo (300-900), pubblicato da Carocci Editore nel 2012, quello di Edward James, I barbari, tradotto in italiano e pubblicato da Il Mulino nel 2009, e quello di Peter S. Wells, Barbari. L’alba del nuovo mondo, edito da Lindau nel 2008. Sui «barbari» in Italia, nel 1984 era apparso il bellissimo volume a piú voci Magistra barbaritas. I barbari in Italia, pubblicato da Garzanti-Scheiwiller. Sull’impatto delle migrazioni nei


confronti della struttura politica, sociale e amministrativa dell’impero romano, una delle trattazioni piú affascinanti è quella di Alessandro Barbero, dal titolo Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, edita da Laterza nel 2006, cui si può aggiungere anche il bel volume di Massimo Guidetti Vivere tra i barbari, vivere con i Romani. Germani e Arabi nella società tardoantica, pubblicato da Jaca Book nel 2007. Sullo specifico aspetto della presenza ostrogota in Italia, si segnala l’opera di Pierfrancesco Porena, L’insediamento degli Ostrogoti in Italia, pubblicato da «L’Erma» di Bretschneider nel 2012, mentre sull’insediamento dei popoli barbarici nelle aree mediterranee si rimanda al volume curato da Paolo Delogu, Le invasioni barbariche nel meridione dell’impero: Visigoti, Vandali, Ostrogoti, pubblicato da Rubbettino nel 2001 e a quello intitolato Visigoti e Longobardi, a cura di Javier Arce e Paolo Delogu, pubblicato da All’Insegna del Giglio sempre nel 2001. Sul dibattitto prodottosi nella storiografia italiana del XX secolo in merito al ruolo avuto dall’invasione della Penisola da parte dei Longobardi si può leggere il libro di Francesco Mores, Invasioni d’Italia. La prima età longobarda nella storia e

Stele raffigurante un cavaliere cristiano con lancia e scudo rotondo, forse facente parte della recinzione presbiterale di una chiesa, da Hornhausen, in Turingia (Germania). VIII sec. Halle, Landesmuseum für Vorgeschichte.

nella storiografia, Edizioni della Normale, 2011. Piú in generale, sulla «percezione» del Medioevo e delle cause del suo inizio nel dibattito storiografico italiano ed europeo è molto stimolante la lettura del libro di Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con Barbari e Crociati, edito da Einaudi nel 2011. Sul dibattito acceso dalla «teoria di Pirenne» relativa al ruolo avuto dagli Arabi nella dissoluzione finale del mondo antico, si leggano le osservazioni di Paolo Delogu in Le origini del medioevo. Studi sul settimo secolo, edito da Jouvence nel 2010. Negli ultimi anni si sono inoltre tenute in Italia alcune importanti mostre sui popoli «barbari» e le loro testimonianze archeologiche. Nel 2000, a Brescia, si tenne quella intitolata Il futuro dei Longobardi, e di essa è stato pubblicato un ponderoso catalogo, edito da Skira e curato da Carlo Bertelli e Gian Pietro Brogiolo, mentre nel 2007 si è avuta a Torino quella dal titolo I Longobardi. Dalla caduta dell’impero all’alba dell’Europa, a cura di Gian Pietro Brogiolo e Alexandra Chavarria Arnau, il cui catalogo è stato pubblicato da Silvana Editoriale. Nel 1994 si era tenuta a Milano una mostra dal titolo I Goti, anch’essa accompagnata da un importante catalogo, edito da

coinvolgimento negli scenari dell’Occidente continentale di aree geografiche, come l’Irlanda e la Scandinavia, che sino a quel momento vi avevano ricoperto un ruolo assai marginale, ma che nei secoli a venire avrebbero invece svolto una funzione economica, culturale e spirituale di primissimo piano.

L’inizio del Medioevo

Secondo la celebre teoria formulata negli anni Venti del XX secolo dallo storico belga Henri Pirenne (1862-1935), l’irrompere sulla scena degli Arabi nel VII secolo e la loro rapida conquista delle sponde orientali e meridionali del Mediterraneo avrebbe comportato lo spostamento del baricentro del continente europeo proprio verso le aree che si affacciavano sul Mare del Nord. Ciò avrebbe posto le basi per il protagonismo che esse avrebbero esercitato nell’età di Carlo Magno, inaugurando la stagione storica del Medioevo, che si sarebbe dipana-

Electa e curato da Ermanno Arslan, in cui si ritrovano sia gli Ostrogoti che i Visigoti fra Spagna e Francia. Sui Franchi, purtroppo, scarseggia la bibliografia in italiano, ma è possibile trovare copia del catalogo della mostra tenutasi a Parigi nel 1997, dal titolo Les Francs, précurseurs de l’Europe, edita da Paris Museés. Infine, due belle mostre hanno portato in Italia le testimonianze delle grandi civiltà nomadi delle steppe. La prima, intitolata Dal Mille al Mille. Tesori e popoli del Mar Nero, con catalogo edito da Electa nel 1995, racconta degli incroci di popoli che si sono verificati in quell’area geografica, con particolare attenzione alla presenza degli Unni e dei Goti. La seconda, intitolata Gli Avari, era focalizzata sulle vicende di questo popolo dominatore dell’Europa centrale fra il VI e l’VIII secolo (catalogo edito da Arti Grafiche Friulane nel 1995). Uno sguardo ampio, che spazia nel tempo dal III secolo all’età di Carlo Magno e prende in considerazione la vicenda dei principali popoli migratori, nel loro impatto con l’impero, è quello proposto dalla grande mostra tenutasi a Venezia nel 2008, curata da Umberto Roberto e Yann Rivière, dal titolo Roma e i Barbari. La nascita di un nuovo mondo, il cui sontuoso catalogo è pubblicato da Skira.

ta all’insegna del predominio dello scacchiere franco-tedesco. Oggi l’idea che l’arrivo degli Arabi abbia separato in modo cosí netto i destini delle due rive del Mediterraneo non è piú ritenuta totalmente condivisibile, poiché vi sono molte prove del fatto che contatti e commerci si siano mantenuti nel tempo, soprattutto grazie alla funzione di «ponte» esercitata in tal senso soprattutto dall’Italia meridionale e dalla penisola iberica, entrata a sua volta a far parte del mondo islamico all’inizio dell’VIII secolo. Tuttavia, è ben evidente che la fine dell’unità politica del Mediterraneo, costruita e mantenuta in vita dall’impero romano per quasi sette secoli, modificò in maniera radicale l’interazione delle diverse regioni bagnate dalle sue acque. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia, che si proietta ormai ben oltre la stagione che aveva conosciuto l’impatto delle genti migrate da Oriente sulle terre dell’impero romano. invasioni barbariche

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