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longobardi la vera storia di un’identità
le origini ♦ l’arte ♦ i luoghi
N°4 2014
longobardi La vera storia
di un’identità
longobardi Le origini, l’identità, i luoghi di Federico Marazzi
4 L’identikit di un popolo Un lungo cammino 28 L’arrivo in Italia Pesci fuor d’acqua 52 Le necropoli Morti che parlano 70 Le città e le case Polvere di stelle 82 La conversione Cristiani per caso? 114 Nel Meridione L’ultima spiaggia 126 Siti e musei Andiamo a trovarli 105 Bibliografia Per saperne di piú
Un lungo l’identikit
cammino
In Italia giunsero nel 568. Ma chi erano davvero e da dove venivano i Longobardi? Il tentativo di rispondere a questi interrogativi è il punto di partenza di una storia lunga e affascinante...
Dipinto di scuola francese in cui si immagina lo sbarco dell’esercito di una popolazione barbarica. 1850 circa. Nemours, Château-Musée. Una delle ipotesi sulle origini dei Longobardi vuole che si trattasse di genti originarie di una regione svedese, in seguito spostatesi al di là del Baltico, nei territori dell’odierna Germania nord-orientale.
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Identikit di un popolo
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elle regioni dell’Aquilone c’è un’isola detta Scadanan (…) dove abitano molte stirpi; tra di esse c’era una stirpe piccola che era chiamata dei Winnili. E c’era con loro una donna di nome Gambara che aveva due figli, Ibor e Aio (…) che avevano il comando sul popolo dei Winnili. Si mossero quindi i duchi dei Vandali con il loro esercito e dicevano ai Winnili: “Pagateci dei tributi o preparatevi alla battaglia e battetevi con noi”. Risposero allor Ibor e Aio con la loro madre Gambara: “Per noi è meglio prepararci alla battaglia, piuttosto che pagare dei tributi ai Vandali”. Allora i duchi dei Vandali pregarono Wotan perché concedesse loro la vittoria sui Winnili.
pertura di un breve testo noto come Origo Gentis Langobardorum (L’origine del popolo dei Longobardi), che la storiografia attuale tende a datare fra il 670 e il 680, vale a dire circa un secolo dopo che, nel 568, questo popolo aveva fatto il suo primo ingresso sul territorio italiano, sotto la guida del re Alboino.
Scoti
Sotto gli auspici degli dèi
In alcuni codici, tuttavia non piú antichi del X secolo, l’Origo è posta a prefazione del testo dell’Editto con cui, qualche decennio prima, il re longobardo Rotari (636-652) aveva dato per la prima volta forma scritta alle consuetudini
Britanni
Regno dei Suebi
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Wotan rispose dicendo: “A quelli che vedrò per primi al sorgere del sole, a costoro concederò la vittoria”. In quel tempo medesimo, Gambara con i suoi due figli (…) pregarono Frea, moglie di Wotan, perché fosse propizia ai Winnili. Allora Frea consigliò che i Winnili venissero al sorgere del sole e le loro mogli venissero con i loro mariti con i capelli sciolti intorno al volto, a somiglianza di una barba. Quando il sole nascente si levò, Frea (…) girò il letto su cui giaceva suo marito e fece sí che il suo viso fosse rivolto verso oriente e lo svegliò. E quello, guardando, vide i Winnili e le loro mogli con i capelli sciolti intorno al volto e disse: “Chi sono quelle ‘lunghebarbe’?”. E Frea disse a Wotan: “Come hai dato loro un nome, dai loro anche la vittoria”. Ed egli diede loro la vittoria, perché cosí come sembrava opportuno, si vendicassero e riportassero la vittoria. Da quel tempo i Winnili sono chiamati Longobardi» (Origo Gentis Langobardorum, cap. 1). Con questo breve racconto i Longobardi entrano nella storia. Esso costituisce il capitolo d’a6
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giuridiche del suo popolo. È difficile dire, quindi, se esso sia stato ufficialmente pensato come una sorta di prologo al testo delle leggi, quasi per dare loro maggiore dignità, attraverso il racconto di una storia della gente longobarda che si perdeva nella notte dei tempi ed era iniziata sotto i favorevoli auspici e per diretto intervento delle maggiori divinità dell’Olimpo dei popoli nordici. Come vedremo meglio piú avanti, colpisce che una storia di questo genere possa essere stata, se non concepita, almeno messa per iscritto nella seconda metà del VII secolo, quando i Longobardi si erano ormai molto avvicinati alla religione cristiana e il loro stesso re aveva probabilmente già abbracciato la fede praticata dalle popolazioni italiane che i suoi avi avevano sottomesso. Probabilmente, proprio perché, dopo un secolo, nella vita di tutti i giorni le distanze fra «Romani» e «Longobardi» andavano attenuandosi, doveva essere apparso importante proget-
In alto, sulle due pagine l’assetto geopolitico dell’Europa alla caduta dell’impero romano d’Occidente, nel 476. A sinistra Roma. Particolare del fregio della Colonna di Marco Aurelio, che celebra le vittorie dell’imperatore su Germani e Sarmati. 180-193 d.C. circa.
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L’EUROPA DEL 476 D.C. Pitti Juti
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Impero romano al tempo di Diocleziano (284-305)
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Dominio di Odoacre Impero d’Oriente Regno dei Vandali
In basso una delle sequenze iniziali del film Il Gladiatore di Ridley Scott, con lo scontro tra l’esercito romano e le truppe germaniche nei territori oggi
compresi tra l’Austria e l’Ungheria. Fra le popolazioni affrontate da Marco Aurelio, lungo il Danubio nel 166, sono ricordati anche i Longobardi.
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Identikit di un popolo tare la ricostruzione della memoria storica del popolo conquistatore. Chi scrisse o ordinò di scrivere il testo dell’Origo riteneva evidentemente opportuno richiamare il fatto che i Longobardi possedevano una propria identità, a prescindere da quanto era andato mutando nella lingua, nei costumi e nelle credenze religiose. Mano a mano che alle prime generazioni si sostituivano quelle nate in Italia, l’epopea della lunga migrazione che aveva portato il proprio popolo sino a raggiungere la Penisola, doveva apparire come un ricordo lontano e sbiadito. Era necessario rievocare le antiche leggende per non correre il rischio di dimenticare quanti pericoli e sacrifici fosse costato raggiungere la terra divenuta a tutti gli effetti la patria del popolo dei Winnili. Anche cento anni dopo il proprio arrivo, i Longobardi non controllavano ancora tutto il territorio italiano e la sorte avrebbe potuto riservare loro rovesci dai quali si sarebbero potuti cautelare solo con l’esercizio delle tradizionali virtú militari, della mutua solidarietà e del rispetto verso il re. Molto probabilmente, quindi, l’Origo Gentis Langobardorum è un testo fabbricato per uno scopo ben preciso e, soprattutto, redatto a molta distanza dalle storie che racconta. È difficile perciò fidarsi a occhi chiusi delle vicende narrate, ma, d’altra parte, non abbiamo molte altre fonti a cui rivolgerci per cercar di capire da dove giunse e chi fosse il popolo che, piú di ogni altra gente «barbarica», ha segnato in profondità la storia d’Italia, lasciando sul suolo del nostro Paese tracce diffuse e importanti.
Regioni misteriose
Tornando al testo dell’Origo, i tre capitoli che seguono l’epopea della lotta dei Winnili/Longobardi contro i Vandali, riportano che i primi a un certo punto si misero in marcia, abbandonando la loro sede primitiva e spostandosi via via attraverso regioni denominate Golaida, Anthaib e Burgundaib, per le quali è difficile trovare riscontri nella topografia europea attuale. Lo storico tedesco Jörg Jarnut, che ha approfonditamente studiato la questione, ritiene che la base di partenza potesse trovarsi nella Svezia meridionale e che la tappa successiva vada collocata nelle regioni immediatamente al di là del Baltico, nell’odierna Germania nord-orientale. Qui i Longobardi avrebbero soggiornato per un lungo periodo, tra il I secolo a.C. e il IV d.C. quando, come in una sorta di grande gioco dei quattro cantoni, approfittando delle migrazioni compiute da altre genti in direzione delle terre dell’impero romano, iniziarono a dirigersi verso sud-est, risalendo il corso dell’Elba e andandosi infine a fermare nella regione precedentemente occupata dai Rugi. 8
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Mare del Nord
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I sec. a.C.-IV sec. d.C.
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Questa notizia costituisce il primo ancoraggio alla topografia dell’Europa tardo-antica sul quale possiamo raccogliere notizie anche da fonti di diversa provenienza. Dei Rugi – una delle tante gentes stanziatesi entro l’impero nel corso del V secolo – si sa che occupavano l’area piú orientale dell’odierna Austria e che, nel 487, vennero attaccati e sconfitti dal re Odoacre, che dominava allora l’Italia e che, una decina di anni prima, aveva deposto l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo. I Longobardi ne approfittarono e s’insediarono sulle loro terre, per poi iniziare, nella prima metà del VI secolo, l’ultimo tratto della loro peregrinazione, compiendo brevi spostamenti nell’area compresa fra le odierne Austria e Ungheria e scontrandosi a piú riprese con Eruli e Gepidi, i popoli che si erano stabiliti in quella che un tempo era l’area della frontiera danubiana dell’impero. Sempre seguendo il racconto dell’Origo, i Longobardi si sarebbero infine trasferiti in Pannonia (antica provincia romana corrispondente alle attuali Ungheria occidentale e Slovenia), dove, sotto la guida prima del re Audoino e poi di suo figlio Alboino, avrebbero ancora vittoriosamente combattuto contro i Gepidi.
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V-VI sec.
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Contatti, alleanze e matrimoni
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In alto cartina che illustra le direttrici della migrazione dei Longobardi, fino al loro arrivo nell’Italia settentrionale. Nella pagina accanto miniatura da un manoscritto latino raffigurante il monaco e storico longobardo Paolo Diacono (720/24 circa-799) autore dell’Historia Langobardorum, testo che narra le gesta del suo popolo. XI sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.
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Mano a mano che il tempo avanza, il racconto di questi fatti antichi diviene sempre meno nebuloso e piú circostanziato. Colpisce soprattutto il fatto che in questa fase apparentemente caratterizzata soprattutto da aspri scontri militari e da lotte quasi senza quartiere fra popoli impegnati per garantire la propria sopravvivenza, trovino in realtà ampio spazio le relazioni diplomatiche. I capi longobardi, ai quali l’Origo conferisce sempre il titolo di rex, costruiscono intorno a sé una rete di contatti e di alleanze con gli altri popoli, soprattutto attraverso accorte strategie matrimoniali. Quando ancora erano stanziati nei territori fra Boemia e Austria, i re longobardi avrebbero preso in spose principesse delle stirpi dei Gepidi, dei Turingi e degli Eruli, dando a loro volta in spose proprie figlie ai re dei Franchi. Queste notizie, per quanto avvolte in una narrazione incerta, aiutano a comprendere che, tra i popoli che migrarono in direzione dei territori dell’impero romano, anche quelli che si trovavano in posizione piú periferica dovevano possedere una chiara visione geopolitica dello spazio in cui si erano stanziati e, quindi, una precisa percezione di quanto fosse importante istituire rapporti con i propri vicini, non basati solo sul conflitto armato. Come dicevamo, l’Origo Gentis Langobardorum è un testo tardo rispetto alle vicende narrate. Le principali fonti storiche risalenti fra il VI secolo e gli inizi del VII (da Procopio di Cesarea a Gre-
gorio di Tours, dal Liber Pontificalis della Chiesa di Roma al cosiddetto Fredegario, a Isidoro di Siviglia, Prospero di Aquitania e Mario di Avenches) parlano dei Longobardi solo a partire dal momento in cui essi si erano già stabiliti in Pannonia, per poi soffermarsi soprattutto sul loro ingresso in Italia e sulle vicende che ne seguirono. Per rintracciare la lunga epopea del popolo in marcia dalle lande dell’estremo Nord scandinavo sino alle rive del Mediterraneo occorrono quindi altri strumenti d’indagine, in primo luogo l’archeologia. Esiste un lungo dibattito fra gli archeologi sulla possibilità che i popoli «barbarici» possano essere seguiti, nelle tappe delle loro migrazioni attraverso l’Europa, sulla base di oggetti da considerarsi tipici di ciascuno di essi e che ne avrebbero in qualche modo contrassegnato l’identità di fronte agli altri popoli. Gli oggetti in longobardi
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questione sono soprattutto da ricercarsi nei complementi dell’abbigliamento, sia maschile sia femminile, come spille e fibule per fermare i lembi degli abiti, fibbie per tenere cinture e cinturoni e altri elementi, come orecchini, anelli e pendenti di collane. Questi reperti provengono in primo luogo dallo scavo delle aree cimiteriali, all’interno delle quali i corpi dei defunti venivano in genere sepolti dopo essere stati rivestiti con il miglior abbigliamento di cui avevano potuto disporre ed erano frequentemente accompagnati da altri oggetti che potevano ricordare quale fosse stato il loro ruolo sociale o la loro occupazione prevalente in vita.
Le «mappe» della migrazione
Abbiamo quindi a che fare con manufatti come armi, vasellame in ceramica o metallo, utensili pertinenti allo svolgimento di specifiche attività manuali e artigianali, ma anche oggetti per la cura della persona, gioielli e perfino pezzi di mobilio di piccole dimensioni, come sedie e sgabelli. Il riconoscimento di precise identità (o quanto meno di forti rassomiglianze) fra oggetti provenienti da necropoli individuate in aree diverse dell’Europa, e soprattutto delle sue regioni centro-orientali, ha permesso agli archeologi di tracciare i percorsi seguiti dai gruppi nei loro successivi spostamenti, sino alle soglie delle frontiere dell’impero. Nel caso dei Longobardi, questo procedimento avrebbe permesso di ricostruire gli stanziamenti quanto meno a partire dal momento in cui essi avrebbero abitato le aree comprese tra le attuali Polonia meridionale, Boemia, Moravia, Slovacchia, Ungheria occidentale e Austria orientale, in un arco di tempo compreso fra la metà del V e il primo quarto del VI secolo. Piú nebuloso e indistinguibile sembra invece, anche attraverso lo studio dei reperti rinvenuti nelle sepolture, il panorama
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In basso punta di lancia, pettine e altri manufatti in ferro e osso facenti parte del corredo di una tomba longobarda della necropoli di Asperdorf (Austria). Prima metà del VI sec. Sankt Pölten, Landesmuseum Niederösterreich.
delle aree abitate anteriormente a questo periodo e che le notizie riportate dall’Origo collocano fra la Scandinavia meridionale e le aree della Germania affacciate sul Baltico. Questo approccio conoscitivo si basa sul fatto che le caratteristiche tecniche, funzionali e formali di una serie di oggetti sarebbero rimaste identiche (o, quanto meno, poco modificate) entro periodi di tempo abbastanza lunghi, permettendo cosí il riconoscimento di specifiche e caratteristiche «culture», a ciascuna delle quali si potrebbe far corrispondere il nucleo di un popolo la cui identità si sarebbe preservata attraverso le successive generazioni. Per quanto riguarda in particolare i Longobardi, seguendo questo tipo d’impostazione metodologica, si possono trovare – entro certi limiti – riscontri abbastanza stringenti con le tappe della loro migrazione riportate dal testo dell’Origo Gentis Langobardorum e dall’opera storica principale che narra la vicenda di questo popolo, e cioè l’Historia Langobardorum, scritta dal monaco friulano Paolo Diacono nell’ultimo quarto dell’VIII secolo.
Ho lasciato sinora un po’ in disparte questo personaggio e il suo celeberrimo testo, proprio perché la data della sua composizione lo colloca nel tratto finale della vicenda del regno longobardo in Italia. Paolo sicuramente utilizzò il testo dell’Origo, ma lo arricchí di altre notizie relative proprio alle epoche piú remote, molte delle quali, però, egli non esita a bollare come «favole» della cui attendibilità era perciò il primo a dubitare.
Identità e contaminazioni
Le analisi storiche piú recenti, tuttavia, pongono un freno alla possibilità stessa che l’identità del popolo longobardo possa essersi conservata intatta attraverso i secoli. Secondo questa visione, racconti come quelli contenuti nell’apertura dell’Origo o nei paragrafi iniziali del I libro dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono – anche al netto di tutti i dettagli evidentemen-
L’Heidentor (Porta dei Pagani), interpretata come parte di un monumento trionfale innalzato dall’imperatore Costanzo II fra il 354 e il 361 d.C. nella colonia di Carnuntum (oggi presso Petronell, vicino a Vienna). L’abitato era un importante centro della Pannonia Superiore, posto a difesa del limes danubiano.
te immaginari – difficilmente possono ritrarre lo stesso popolo che vediamo affacciarsi ai confini dell’Italia nel 568. La composizione dei gruppi che hanno percorso i territori dell’Europa centro-orientale, al di fuori dei confini dell’impero romano, si sarebbe piuttosto modificata a piú riprese, attraverso scontri, incontri e «contaminazioni» delle quali forse non potremo mai cogliere per intero il dipanarsi. In particolare, secondo queste teorie storiografiche, la conformazione e la denominazione stessa dei popoli «barbarici», quale è stata consegnata ai libri di storia, dipese soprattutto dall’intensificarsi dei contatti e degli scontri che essi ebbero con l’impero. Ciò avrebbe comportato l’esigenza di meglio organizzarsi militarmente e quindi di compattarsi socialmente sotto la guida di capi carismatici, assumendo infine l’aspetto di vere e proprie gentes, secondo il termine utilizzato dalla storiografia di lingua longobardi
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latina. È anche a partire dalla memoria che di essi ha conservato tale storiografia (e, in genere, di tutta quella prodotta entro i confini dell’impero), che sarebbero quindi nate le identità dei popoli i cui nomi ci sono piú familiari, come i Goti, i Franchi, i Vandali, i Burgundi e tanti altri, cementate ulteriormente dalle imprese militari e dai trattati politici nei quali essi furono coinvolti mano a mano che s’intensificarono i rapporti con il mondo romano. Tuttavia, anche questa visione non è esente da qualche problema. E proprio la vicenda dei «nostri» Longobardi impone qualche ulteriore domanda. Nel paragrafo 40 del suo trattato sulla Germania, scritto alla metà del I secolo d.C., lo storico Cornelio Tacito parla infatti esplicitamente della loro esistenza, dicendo che «pur circondati da numerosi e valenti popoli, trovano la loro sicurezza non nella sottomissione, bensí nei rischi delle battaglie». Il testo dice anche che essi erano stanziati nel basso corso dell’Elba che, pur sfociando nel Mare del Nord, corre non lontano anche dalle coste del Baltico, un territorio nel quale, con riferimenti piú o meno riconoscibili, pongono la prima tappa della peregrinazione dei Longobardi sia l’Origo, sia Paolo Diacono. L’ultimo dettaglio che Tacito ci fornisce è quello relativo al numero esiguo di questo popolo, il che, ai suoi occhi, ne rendeva maggiormente ammirevoli le virtú militari poiché, nonostante questo handicap, essi riuscivano a tenere testa a tutte le genti circostanti.
La memoria del nome
Ancora, i Longobardi sono ricordati dalla Historia Augusta – una fonte storica del III secolo d.C. – fra i popoli contro cui dovette combattere Marco Aurelio lungo il Danubio nel 166. Parliamo dei territori in cui sono state ambientate le celebri sequenze iniziali del film Il gladiatore, di Ridley Scott, fra le odierne Austria e Ungheria; ciò indurrebbe a pensare che, dopo essere giunti sul continente all’inizio dell’era volgare, i Longobardi si sarebbero trovati molto piú a sud, già almeno verso la metà del II secolo. Essendo stati sconfitti dai Romani, dobbiamo ipotizzare che dovettero ripiegare allontanandosi dalla prossimità con la frontiera con l’impero, andando probabilmente a occupare quelle aree fra i Sudeti e i Carpazi dove i ritrovamenti archeologici – oltre che le vaghe notizie di Paolo Diacono e dell’Origo – li collocherebbero nella media e tarda età imperiale. Quali conclusioni trarre da queste riflessioni? Indubbiamente, la prima considerazione è che ci troviamo di fronte a un problema – quello delle origini e dell’evoluzione dei diversi popoli «barbarici» – per la cui risoluzione è quasi 12
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A destra retto di un solido aureo di Giustiniano I, con il busto elmato e corazzato dell’imperatore. Zecca di Costantinopoli, VI sec. Londra, British Museum. A sinistra decorazione in oro con inserti policromi a forma d’aquila, dalla necropoli principesca di Apahida (Romania), riferibile forse alla famiglia reale dei Gepidi, storici nemici dei Longobardi. V sec. d.C. Bucarest, Muzeul National de Istorie a Romaniei. In basso fibula pannonica in argento, oro e cornalina. II sec. d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
dai radar» per quasi tre secoli. Parliamo quindi di un popolo vissuto a lungo in aree dell’Europa lontane da quelle che le fonti scritte di ambito romano hanno scrutato con sempre maggiore attenzione a partire dal IV secolo, accendendo le proprie luci sul variegato mondo delle genti che vivevano al di là dei confini dell’impero e che tentavano di forzarne le frontiere. Questo dovrebbe significare, molto semplicemente, che l’identità del popolo longobardo è esistita e si è conservata a prescindere dalla percezione che di esso avevano gli osservatori attivi in territorio imperiale.
Aggregazioni e suddivisioni
impossibile proporre ricette che non abbiano qualche ingrediente fuori posto. Se però due fonti storiche del tutto indipendenti fra loro e, soprattutto, molto anteriori sia a Paolo Diacono sia all’Origo Gentis Langobardorum, attestano l’esistenza del popolo longobardo fra la seconda metà del I secolo (quando Tacito compose la Germania) e il tardo III secolo (quando fu scritta l’Historia Augusta), ciò obbliga a considerare con qualche attenzione il pur leggendario racconto delle due fonti altomedievali. Sia l’Origo, sia Paolo Diacono dovevano attingere a nozioni che, sebbene arricchite di fatti e personaggi di problematica attendibilità, contenevano tuttavia sedimenti di memoria non fallace. Soprattutto, appare assai interessante il fatto che il nome del popolo longobardo si ritrovi inalterato nelle fonti «romane» del VI e VII secolo, quando esso ricompare in prossimità delle aree mediterranee, dopo essere «sparito
Una simile constatazione pone qualche interrogativo nei confronti di coloro che vogliono sminuire del tutto il dato della continuità delle tradizioni interne e che prediligono piuttosto l’ipotesi che le gentes che si affacciarono alle frontiere dell’impero dal IV secolo in poi fossero popoli di origine recente, formatisi in seguito ad aggregazioni e suddivisioni continue, risultanti dai movimenti da essi compiuti nel tempo attraverso lo spazio geografico dell’Europa centro-orientale. Certamente sarebbe impossibile immaginare i popoli barbarici in marcia – e tra questi, i Longobardi – come testuggini catafratte e impenetrabili nei confronti di tutto ciò che le circondava, costituiti nei secoli dalle generazioni degli stessi lignaggi familiari. È chiaro, e lo dicono le stesse fonti scritte, che nel corso dei propri spostamenti ogni popolo dava vita a scontri e incontri con altre popolazioni che determinavano, a loro volta, modifiche della composizione di ciascuna compagine e, talora, l’assorbimento di un gruppo da parte di un altro. Nel caso dei Longobardi, tuttavia, dovette formarsi un’identità sufficientemente solida, tale da resistere al tempo e agli eventi, e veicolata da un nucleo di storie e tradizioni nelle quali i componenti di quel popolo (e coloro che via via entravano a farvi parte) potessero riconoscersi. Ma chi permise a queste memorie di mantenersi vive e operanti nel tempo? Furono lignaggi familiari che trasmisero nel corso delle generazioni i ricordi di un passato di cui si ritenevano i depositari, per avvalorare il proprio predominio sociale sul popolo nel suo insieme? Furono cantori che costruirono le saghe della propria gente in modo indipendente dai «capi» del loro popolo? Quanto il formarsi e il conservarsi delle longobardi
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tradizioni dipesero da una riconosciuta continuità di alcune stirpi dominanti – come affermano Paolo Diacono e l’Origo Gentis Langobardorum – e quanto tale processo si attuò invece attraverso meccanismi di partecipazione piú corale all’elaborazione della memoria? Altre domande sorgono poi spontanee. È davvero pensabile che alcuni oggetti di ornamento personale, sia maschile sia femminile, fortemente caratterizzati e riconoscibili dal punto di vista estetico, possano essere completamente avulsi dal processo di costruzione dell’identità di un popolo, al quale hanno contribuito le narrazioni che, nel caso dei Longobardi, trovarono trasposizione scritta solo molto tempo dopo il loro stabilirsi in Italia? È del tutto accettabile affermare che tali oggetti non abbiano veramente avuto nulla a che fare – agendo sotto il profilo visivo – con la formazione di quelli che gli antropologi chiamano i «nuclei di tradizione» di un popolo?
Lacune e zone d’ombra
È difficile trovare risposte per questi interrogativi; anche perché, se sono stati scoperti i siti di molte necropoli (che gli studi, pur con molte cautele, hanno attribuito all’insediamento ora di uno e ora di un altro popolo «migratore», tra cui – come abbiamo visto – gli stessi Longobardi), ciò che ci sfugge quasi completamente è la geografia degli insediamenti dei vivi e, quindi, la loro conformazione e gli oggetti di cui disponevano i loro abitanti. In concreto, ciò significa che sappiamo ancora veramente poco su come fossero organizzate e distinte al proprio interno le comunità che, per periodi piú o meno lunghi, hanno risieduto in determinati luoghi e quali oggetti possedessero i loro abitanti (e da chi e come fossero utilizzati). Inoltre, non sappiamo neppure se, nelle aree via via occupate, si fosse per esempio formata una gerarchia fra gli insediamenti, all’interno della quale avessero acquisito un qualche tipo di maggiore rilevanza materiale quelli occupati dai capi e, tra questi, quello in cui risiedeva colui che era stato scelto come re di tutto il «popolo». In ogni caso, è molto probabile che, qualunque fosse l’eventuale differenziazione creatasi fra i diversi insediamenti, il loro aspetto dovesse essere caratterizzato dalla predominanza di edifici costruiti in legno e con altri materiali deperibili; una caratteristica attestata presso tutte le popolazioni che abitavano al di fuori dei confini dell’impero o anche all’interno dei territori ex romani, all’indomani della migrazione dei popoli invasori. 14
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Rimanendo entro l’ambito dei ritrovamenti effettuati nelle aree funerarie, va considerato che, anche per quanto concerne i Longobardi, gli oggetti considerati in passato come «distintivi» della loro cultura materiale, sono stati in piú d’un caso rinvenuti presso cimiteri situati in territori distanti da quelli in cui questo popolo avrebbe abitato per periodi di tempo piú o meno estesi. Ciò significa, per esempio, che vi possono essere stati Longobardi che hanno vissuto presso altri popoli, mantenendo i costumi della propria gente di origine, oppure, come ritiene una visione maturata in questi ultimi anni, che gli oggetti detenuti dai singoli non hanno alcuna attinenza con la loro riconoscibilità in quanto membri di uno specifico «popolo»? Simili quesiti rimangono ancora in parte irrisolti. Pertanto, sebbene sia ormai da abbandonare l’idea che le migrazioni di gruppi piú o meno vasti di persone verso i territori dell’impero (ma anche fra aree tutte esterne a esso), siano state compiute da popoli che, nel corso del tempo, non abbiano subito mutazioni nella loro composizione e nella loro organizzazione interna, appare anche difficile accettare la posizione diametralmente opposta. Ovvero quella che vorrebbe circoscrivere la formazione delle identità etnico-culturali di ciascun popolo alla fase finale del
In quale misura i corredi funebri recuperati nelle tombe possono essere considerati lo specchio dell ’identità longobarda?
A sinistra fibula a staffa in argento dorato e granati, con piastra di testa semicircolare. Manifattura ostrogota, VI sec. Cleveland, Cleveland Museum of Art.
In alto lastrina in bronzo dorato raffigurante un cavaliere, parte della decorazione di uno scudo da parata longobardo, da Stabio (Svizzera). VII sec. Berna, Museo Storico.
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Identikit di un popolo alleati fedeli ai confini nord-orientali dell’Italia, concesse ai Longobardi di insediarsi in Pannonia, in modo da controbilanciare la presenza dei Gepidi, che avevano iniziato a creare problemi alle popolazioni romane. Tuttavia, gli stessi Longobardi non diedero prova di maggior affidabilità anche se, a vantaggio dei Bizantini, iniziarono a combattere con i Gepidi. La cosa interessante è che, al momento di muoversi reciprocamente guerra, i capi di ambedue i popoli inviarono ambasciatori a Costantinopoli per cercare di persuadere Giustiniano a parteggiare per gli uni o per gli altri. Il testo delle allocuzioni tenute dai due ambasciatori, riportato da Procopio, mostra come i Longobardi avessero perfetta conoscenza della storia delle relazioni dei Gepidi con l’impero, dei problemi che ciascun popolo aveva causato e delle infrazioni ai trattati che entrambi avevano commesso, nonché di tutti i sussidi in denaro ricevuti da Costantinopoli e che, ad avviso dei Longobardi, i Gepidi non avevano meritato in ragione del loro comportamento fedifrago.
Un resoconto poco attendibile processo migratorio, esclusivamente in rapporto alle sfide poste dal confronto con l’impero o, nella fase storica piú tarda, con gli altri popoli che avevano già organizzato il proprio insediamento nei territori che a esso erano precedentemente appartenuti. Come si è già visto in precedenza, mano a mano che, dalle epoche piú remote, si giunge a ridosso del momento in cui i Longobardi fecero il loro ingresso in Italia, si iniziano a comprendere meglio alcune caratteristiche della loro organizzazione sociale e militare, dell’azione politica dei loro leader e dei contatti con le popolazioni circostanti e con l’impero (ridotto alla sola parte orientale, dal momento che l’impero romano d’Occidente era cessato nel 476, con la deposizione di Romolo Augustolo).
Le prime notizie
Le menzioni della loro presenza che risalgono piú indietro nel tempo sono quelle che ci fornisce Procopio di Cesarea nella sua Storia delle guerre fra Goti e Bizantini, guerre che interessarono l’Italia fra il 535 e il 553. Il primo cenno che egli ne fa è relativo allo scontro da essi avuto con il popolo degli Eruli, dal quale i Longobardi uscirono vittoriosi e che permise loro di consolidare la propria posizione nei territori compresi fra le odierne Austria e Slovacchia. Al tempo in cui la guerra stava entrando nella sua fase conclusiva, e cioè verso la fine degli anni Quaranta del VI secolo, l’imperatore Giustiniano, per garantirsi 16
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Crocetta funeraria in lamina d’oro decorata con teste umane stilizzate. Manifattura longobarda, fine del VI-inizi del VII sec. L’uso di deporre simili oggetti d’oro sul corpo del defunto, solitamente cuciti al sudario o su un panno che copriva il viso, si diffuse poco dopo l’arrivo dei Longobardi in Italia.
Naturalmente è difficile dare pieno credito al testo attribuito all’ambasciatore dei Longobardi, che di certo Procopio ha ricostruito in modo del tutto fittizio. Il punto è capire se anche il suo contenuto sia stato inventato di sana pianta o possa essere considerato la traccia attendibile di un colloquio effettivamente avvenuto, e di cui lo storico bizantino era venuto, in qualche modo, a conoscenza. In quest’ultimo caso, ci troveremmo di nuovo di fronte all’evidenza di un popolo longobardo tutt’altro che sprovveduto nella gestione diplomatica dei rapporti con l’impero e incapace di affidarsi a mezzi diversi da quelli militari. La vicenda dei contrasti fra Gepidi e Longobardi caratterizza tutti gli anni precedenti all’in-
Consapevoli dell ’importanza del loro ruolo, gli Ostrogoti cercarono di allearsi con i Longobardi
gresso di questi ultimi in Italia. Sempre secondo Procopio, gli scontri militari erano affiancati da azioni diplomatiche condotte dai Longobardi nei confronti dell’impero e degli altri popoli vicini che portarono, a un certo punto, al matrimonio del loro re Auduino con una principessa di sangue reale ostrogoto. Costei doveva essere riparata a Costantinopoli insieme con suo fratello dopo lo scoppio della guerra, appartenendo evidentemente a quella parte dell’aristocrazia ostrogota che aveva rifiutato la radicalizzazione dello scontro con l’impero. Ma ciò che colpisce è che lo sposalizio di Auduino con la principessa gota faceva parte di un piú complesso gioco di do ut des fra Bizantini e Longobardi: all’interno di esso, questi ultimi erano riusciti, di fatto, a soppiantare i Gepidi come partner principali dell’impero nello scacchiere balcanico, ricevendo aiuto militare da Bisanzio e impegnandosi, a loro volta, a dare man forte alle truppe imperiali in Italia nelle ultime, concitate fasi della lunga guerra contro gli Ostrogoti.
In basso incisione da un acquerello di Fritz Roeber che raffigura gli Ostrogoti in ritirata dopo la sconfitta subita a opera delle truppe del generale bizantino Narsete nella battaglia del Vesuvio (553), durante la quale morí il re Tejas, successore di Totila, che segnò la fine della guerra gotica. 1890 circa. Negli ultimi anni dello scontro anche i Longobardi presero parte ai combattimenti, in veste di alleati dell’impero d’Oriente.
L’analisi di questi passi di Procopio potrebbe lasciar pensare che, all’inizio degli anni Cinquanta del VI secolo, presso i Longobardi non fosse neppure lontanamente presa in considerazione l’ipotesi di entrare in Italia e che la loro prospettiva in quel momento fosse piuttosto quella di consolidare la propria egemonia nelle aree dei Balcani settentrionali. L’importanza del loro ruolo era stata colta anche dagli Ostrogoti che, già al tempo in cui era re Vitige, ed esattamente fra il 538 e il 539, avevano cercato di farseli alleati, evidentemente con lo stesso scopo che aveva mosso nella medesima direzione i Bizantini, e cioè quello di «coprire» i confini nord-orientali della Penisola italiana.
Scambio di ostaggi
Tornando all’inizio degli anni Cinquanta del VI secolo, un altro dettaglio interessante riferito da Procopio riguarda i negoziati che, sempre in quegli anni, intercorsero fra Gepidi e Longobardi per lo scambio di importanti ostaggi. In quel momento, infatti, i due
longobardi
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Identikit di un popolo
l’armamento Come combattevano e come si presentavano sul campo di battaglia? I costumi militari dei Longobardi si conoscono soprattutto attraverso gli oggetti deposti nelle sepolture che, nel caso di individui di sesso maschile, contengono frequentemente armi e altri oggetti di supporto all’armamento. L’arma principale e maggiormente attestata è la spada (spatha), che troviamo presente in due versioni: una piú lunga e a doppio taglio (mediamente fra 75 e i 90 cm) e una piú corta (in media sui 40 cm) a taglio unico, detta scramasax. La prima aveva elsa e impugnatura particolarmente leggere rispetto alla parte terminale della lama, in modo da facilitarne l’uso anche nel combattimento a cavallo. Lo scramasax, invece, era piú idoneo al combattimento ravvicinato, anche se il suo uso doveva molto probabilmente estendersi alle molteplici necessità della vita quotidiana. La qualità della lavorazione delle lame era in genere molto alta e, per renderle piú resistenti, esse venivano forgiate con la tecnica della damaschinatura, che prevedeva l’intreccio di barre e lamine di ferro a diverso tenore di carbonio, che erano poi saldate fra loro e quindi martellate a freddo.
2. spatha
Spada lunga a doppio taglio, generalmente portata sul lato sinistro, di epoca longobarda. Erba (CO), Museo Civico Archeologico.
1
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1. Elmo
Riproduzione di un elmo costituito da lamelle assemblate, paraguance e nasale in metallo, e sormontato da un pennacchio, dalla necropoli di Niederstotzingen. VI sec. 18
longobardi
popoli erano comandati rispettivamente da Thurisin e Audoino, subentrati con la forza ai legittimi successori, figli dei «re» precedentemente in carica, i quali erano fuggiti andando a cercare rifugio presso i tradizionali nemici del loro popolo. Thurisin e Audoino, sebbene alla testa di due popoli che avevano avuto piú occasioni di scontro che d’incontro, di fronte a questo problema non esitarono a cercare un accordo per evitare che il loro potere venisse messo in discussione dalla presenza in vita di un pretendente piú «legittimo». Dopo lunghe trattative, la questione si risolse nel piú cupo e spietato dei modi. Lo scambio dei due ostaggi non ebbe mai luogo, ma ambedue vennero ugualmente uccisi da coloro che avrebbero dovuto proteggerli, poiché la loro scomparsa significava, sia per Auduino che per Thurisin, l’eliminazione di una possibile minaccia al proprio potere.
3. umbone
Umbone di scudo, forse da parata, in bronzo dorato e decorato con una scena di battaglia, dalla necropoli di Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.
Un’altra arma assai diffusa era la lancia, dalla punta dapprima assai rastremata e poi, nel VII secolo, piú frequentemente a forma di foglia d’alloro. Oltre a essere un’arma da combattimento, la lancia, aveva anche un valore simbolico, come segno del potere regio. Altrettanto ricco di significati simbolici era lo scudo, che veniva consegnato al giovane come segno della sua inclusione nel novero degli uomini adulti, liberi e atti al combattimento. Esso aveva forma rotonda o leggermente ellittica ed era fabbricato con liste di legno ricoperte di cuoio, raggiungendo un diametro di poco inferiore al metro, e al centro era rafforzato da un elemento metallico appuntito (l’umbone). Nelle tombe con corredo piú tarde (della prima metà del VII secolo) si trovano scudi la cui superficie esterna era abbellita da ornamenti in bronzo dorato e che si ritiene fossero utilizzati come oggetti da parata, riservati ai personaggi di rango piú elevato. Gli elmi, che si trovano assai di rado nelle sepolture, sono noti soprattutto attraverso le figurazioni su oggetti di oreficeria o sculture e grazie a rari ritrovamenti archeologici. Erano in ferro e in genere avevano forma conica e potevano essere abbelliti sulla cima da un pennacchio. Sui lati troviamo talora tracce della presenza di paraguance e, nella parte posteriore, vi poteva essere appesa una maglia in anelli di ferro per proteggere la nuca. Piú rara presso i Longobardi, ma comunque attestata, è la presenza della tipica ascia germanica, la francisca, utilizzata perlopiú come arma da lancio. A completare la dotazione dell’armamento individuale erano complementi indispensabili, come cinghie, foderi e cinture, che servivano a ricoprire e sostenere le spade e ad agganciare l’armamento al vestiario. Non molto diffuso era l’utilizzo delle armature di metallo, che comunque erano assai leggere e costituite da squame di metallo cucite su una veste pesante di stoffa e cuoio. Molto probabilmente i guerrieri di solito dovevano utilizzare soprattutto quest’ultima, e ciò spiega la difficoltà del suo ritrovamento a causa del decomporsi dei materiali con cui era fabbricata.
Un tutore per il giovane Waltari
Vista dalla prospettiva di Procopio, la figura di Auduino riveste ovviamente il ruolo dell’usurpatore che estromette il legittimo erede del re defunto e che poi briga per farlo eliminare fisicamente. Tuttavia, un’altra lettura di questo episodio è forse possibile e può essere trovata nell’innescarsi di un meccanismo che non mancò di scattare anche quando i Longobardi si erano già stabilmente trasferiti in Italia. Secondo Paolo Diacono e l’Origo Gentis Langobardorum, il predecessore di Audoino era stato Waltari, figlio del re Wacco che, a sua volta, sarebbe stato l’esponente di un lignaggio – quello dei Lithingi – che da qualche generazione deteneva la supremazia sui Longobardi. Benché di giovane età, Waltari aveva avuto due figli, Risulfo e Ildigiselo, il secondo dei quali è poi il protagonista della vicenda che abbiamo appena raccontato. Per motivi che Procopio non spiega bene – e su cui le altre fonti tacciono – Wacco decise di eliminare il primo figlio di Waltari e obbligò alla fuga il secondo che, portando con sé alcuni Longobardi, riparò prima presso gli Slavi e poi presso i Gepidi. Waltari però aveva bisogno di un tutore (forse piú che essere di giovane età, doveva avere altri tipi di problemi): ed ecco allora emergere Audoino, il quale era sicuramente dotato di carisma, visto che sotto di lui i Longobardi si trasferirono dal Norico alla Pannonia e che fu, poi, colui che condusse vittoriosamente gli scontri con i Gepidi e gestí con capacità le relazioni con Bisanzio. Ildigiselo, quindi, era l’ultimo esponente di una stirpe che aveva dominato sul popolo dei Longobardi per lungo tempo, ma il cui potere era stato probabilmente minato da lotte intestine che avevano infine portato all’imporsi di un longobardi
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longobardi Ravenna, basilica di S. Vitale. Particolare del mosaico parietale raffigurante Giustiniano I e la sua corte. VI sec. Le relazioni diplomatiche e l’alleanza tra l’imperatore bizantino e i Longobardi portarono al matrimonio tra re Auduino, padre di Alboino, e una principesa ostrogota riparata a Costantinopoli, oltre all’inquadramento di truppe longobarde nell’esercito imperiale durante la guerra gotica.
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longobardi
Identikit di un popolo
uomo nuovo, Audoino, appunto. Quest’ultimo, sostenuto da un seguito fattosi rapidamente piuttosto ampio, divenne il nuovo re dei Longobardi, una volta scomparso Waltari. Vista sotto questa luce, quindi, l’eliminazione di Ildigiselo da parte del re dei Gepidi – pur non perdendo nulla della sua ferocia – corrispondeva all’esigenza, evidentemente manifestata da Audoino, di non veder messa in discussione la supremazia conquistata, che egli era intenzionato a trasmettere al figlio Alboino, il protagonista dell’ultima migrazione dei Longobardi verso l’Italia.
La trasmissione del potere
L’intricata vicenda narrata da Procopio – su cui né l’Origo Gentis Langobardorum, né Paolo Diacono fanno alcun cenno, forse per non macchiare la reputazione della stirpe del re che conquistò l’Italia – lascia capire che, già prima del loro ingresso nella Penisola, presso i Longobardi esisteva già una tradizione consolidata riguardo la sovranità regia e la sua trasmissione attraverso i membri di un medesimo lignaggio,
presso il quale essa era riconosciuta come legittima. Il sovvertimento di quest’ordine era possibile, ma non esente da rischi, e comunque poteva probabilmente attuarsi solo di fronte all’insorgere di gravi questioni politiche e militari. La tendenza doveva essere comunque quella di mantenere la trasmissione del potere nell’ambito della stessa stirpe, a meno che non lo impedissero fattori esterni, come poteva essere la mancanza di una discendenza o l’incapacità del lignaggio dominante a garantire un ordinato trapasso del potere. In questo caso, poteva essere accettabile l’emergere di personaggi di diversa origine che, nel caso di Audoino, sembrano però provenire sempre dall’entourage del sovrano e da questi personalmente scelto come tutore della sua discendenza. Purtroppo, il racconto di Procopio non rivela come Audoino sia infine riuscito a farsi proclamare re e a soppiantare la vecchia dinastia dei Lithingi. Di quale consenso egli ebbe bisogno e da parte di chi? Esisteva eventualmente un’istanza, all’interno del popolo longobardo, deputata a riconoscere e legittimare il passaggio
della suprema guida politica e militare da una stirpe a un’altra, quale per esempio l’assemblea dei capi dei clan familiari, ovvero quella degli uomini in armi? Sfortunatamente, per Procopio le vicende dei Longobardi costituiscono solo un aspetto collaterale della sua narrazione, tutta incentrata sulle questioni inerenti l’andamento della guerra in Italia. Ma il fatto che Audoino abbia potuto tranquillamente trasmettere il comando della sua gente al proprio figlio Alboino mostra che, una volta superato il momento di crisi, si era tornati a seguire il principio della trasmissione ereditaria del potere.
Storie di «buoni cristiani»
In tutte le menzioni presenti all’interno delle Storie di Procopio colpisce il fatto che i Longobardi appaiano sempre sotto una luce tutt’altro che negativa. Già in occasione della loro prima comparsa, relativa al momento in cui si narra del loro scontro con gli Eruli (siamo quindi alla fine del V secolo), si dice che sono cristiani e li si contrappone alla natura selvaggia, incostante e spietata dei loro nemici. Successivamente, come abbiamo visto piú volte, si sottolinea la loro capacità di intrattenere sempre buoni rapporti con il governo imperiale, con cui vengono stipulati trattati e rispetto al quale i Longobardi agiscono come fattore stabilizzante all’interno dell’incerto scenario balcanico dei decenni seguiti alla definitiva disgregazione dell’impero d’Occidente. Tanto ciò è vero, che essi furono coinvolti nelle operazioni militari relative all’ultimissima e cruciale fase della guerra condotta dai Bizantini in Italia contro gli Ostrogoti, culminata nel 552 con la battaglia di Gualdo Tadino, nella quale avrebbe trovato sconfitta e morte il re Totila. Questi era riuscito a tenere in scacco le truppe imperiali per diversi anni, obbligando a un inglorioso ritorno in patria il generale Belisario. Tuttavia, la comparsa delle truppe longobarde sul suolo italiano coincide con un sorprendente mutamento del punto di vista che Procopio esprime nei confronti di questo popolo. Inseriti nei ranghi delle truppe imperiali, i guerrieri longobardi sono tenuti sotto stretta sorveglianza per timore che, a causa della loro negligenza e codardia, possano abbandonare il campo di battaglia e darsi alla fuga. Concluse infine con successo le operazioni belliche, il comandante dell’esercito imperiale, Narsete, li avrebbe fatti ricondurre rapidamente al di fuori dell’Italia, a causa – dice sempre Procopio – dell’indegnità del loro comportamento che li portava, senza apparente motivo, a commettere violenze nei confronti delle donne e a danneggiare gli edifici, appiccandovi il fuoco. Come mai questo cambiamento di opinione? I
Inzialmente Procopio descrive i Longobardi sottolineandone la natura retta e l ’affidabilità Bizantini non avevano già avuto modo in precedenza di «saggiare» le attitudini dei Longobardi sullo scenario balcanico? L’improvviso mutamento potrebbe avere avuto anche altre cause, di natura piú squisitamente politica e strategica. All’inizio degli anni Cinquanta del VI secolo i rapporti tra i Franchi e i Longobardi erano divenuti particolarmente stretti e cordiali, tanto da portare a matrimoni combinati fra le famiglie regnanti dei due popoli. Clotario I, re dei Franchi, sposò la principessa longobarda Waldrada, già vedova del principe franco Teudeberto – nipote dello stesso Clotario. Poco dopo, Audoino combinò il matrimonio di suo figlio Alboino con una figlia di Clotario, Clodosvinta. Ambedue le nozze avrebbero avuto luogo nel 555 ed è quindi possibile che esse abbiano suggellato un’intesa fra i due popoli nella quale poteva non essere estranea una comune valutazione della situazione italiana, che potrebbe aver iniziato a prendere corpo già qualche anno avanti, quando era ancora in corso la guerra fra Goti e Bizantini.
L’attendismo dei Franchi
Subito dopo aver parlato del frettoloso allontanamento dei Longobardi dall’Italia, Procopio riporta infatti che truppe franche erano allora ben presenti sullo scacchiere della Pianura Padana – in particolare nell’area veneta – e che i Goti, nel tentativo di riorganizzare la resistenza dopo la sconfitta di Gualdo Tadino, avevano cercato di trovare con esse un accordo per contrastare i Bizantini. Ma – aggiunge ancora Procopio – i Franchi, in realtà, non avevano alcun motivo per parteggiare né per gli uni, né per gli altri e la loro tattica era piuttosto quella di lasciare che i due contendenti si dilaniassero fra loro, per poi approfittare della loro debolezza ed espandersi nell’Italia settentrionale. In questo scenario, non appare per nulla fuori luogo pensare che Narsete avesse considerato la possibilità di un’alleanza operativa tra Franchi e Longobardi, con l’obiettivo di mettere le mani sul territorio italiano (e soprattutto sulle sue aree piú settentrionali), controllato con sempre maggior fatica dalle truppe imperiali. Questo potrebbe spiegare perché il comandante bizantino fosse stato cosí sollecito nello sbarazzarsi dei Longobardi, la cui fedeltà, ai longobardi
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longobardi
Identikit di un popolo
i re longobardi Inizio regno
fine regno
re
note
540
547
547
560
560
572
572
574
574
584
Periodo dei duchi, detto dell’anarchia
584
590
Autari
dal 589 Teodolinda regina
591
616
Agilulfo
Teodolinda regina dal 604 Adaloaldo associato al trono
616
625
Adaloaldo
reggenza di Teodolinda
626
636
Arioaldo
Gundeperga regina 636: interregno di Gundeperga (dieci mesi)
636
652
Rotari
Gundeperga regina
652
653
Rodoaldo
653
661
Ariperto I
661
662
Pertarito e Godeperto
662
671
Grimoaldo
671
671
Garibaldo
671
668
Pertarito
dal 680 Cuniperto associato al trono
688
700
Cuniperto
Ermelinda regina 688-689: usurpazione di Alachis
700
701
Liutperto
reggenza di Ansprando
701
701
Ragimperto
Ariperto II associato al trono
701
702
Liutperto
702
712
Ariperto II
702: Rotarit antire
712
712
Ansprando
Liutprando associato al trono
712
744
Liutprando
dal 737 Ildebrando associato al trono
744
744
Ildebrando
744
749
Ratchis
749
756
Astolfo
756
757
Ratchis
trono conteso da Desiderio
756
774
Desiderio
Ansa regina dal 759 Adelchi associato al trono
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longobardi
Waltari
Reggenza di Audoino
Audoino Alboino Clefi
divisione del regno in due parti con capitali Pavia e Milano
Tassia regina
suoi occhi, poteva evidentemente venire meno in qualsiasi momento di fronte al consolidarsi del loro rapporto politico con i Franchi. Purtroppo, dopo aver descritto i fatti che, nel 553, portarono alla definitiva sconfitta dei Goti, la narrazione di Procopio di Cesarea si conclude, e, con essa, la fonte forse piú ricca di dettagli e piú avveduta, sotto il profilo dell’analisi politica, di tutto il VI secolo. Per quel che accadde negli anni successivi diviene quindi obbligatorio fare riferimento ad altri autori, tra i quali non può mancare anche Paolo Diacono, il cui testo, tuttavia, presenta il già ricordato problema di risalire a un’epoca assai posteriore.
Una spedizione ben ponderata
L’evento principale di cui dovremo occuparci è ovviamente quello dell’ingresso in Italia dei Longobardi, che ebbe luogo nel 568. Da quanto abbiamo sin qui visto, appare chiaro che lo spostamento dalla Pannonia in Italia non può piú essere considerato semplicemente come la migrazione incontrollata di un’orda di persone provenienti da un mondo alieno dalla realtà geopolitica che era andata determinandosi, nei decenni successivi alla dissoluzione dell’impero d’Occidente, fra l’Europa centrale e i Balcani. Nei cinquant’anni precedenti al 568 i Longobardi avevano avuto contatti crescenti con l’impero d’Oriente, di natura politica, diplomatica e militare, e avevano costruito relazioni intense con gli altri popoli che occupavano lo scacchiere nord-balcanico e alpino, come gli Eruli, i Gepidi e i Turingi. Molto probabilmente non erano mancati anche rapporti con gli Ostrogoti (sui quali non siamo però adeguatamente informati), mentre è certo che, almeno da un paio di generazioni prima di Alboino, i vertici della gens Langobardorum erano stati abbastanza accorti da entrare in contatto con i Franchi, che sin dall’inizio del VI secolo avevano assunto una posizione di decisa egemonia tra Gallia, Germania e Rezia (l’odierna area alpina svizzera). I Longobardi erano dunque in una posizione che doveva consentire loro di valutare in modo abbastanza preciso opportunità e rischi di una mossa come quella di penetrare in una regione da poco recuperata alla sovranità imperiale e che rappresentava comunque, pur in un contesto ormai molto mutato rispetto al secolo precedente, il cuore dell’antico impero di Roma. Perché, dunque, e sulla base di quali calcoli Alboino decise di muovere verso l’Italia e perché proprio in quel preciso momento? Oltre a Paolo Diacono, altre fonti piú o meno contemporanee agli eventi – dal Liber Pontificalis a Isidoro di Siviglia, al cosiddetto Fredegario (una compilazione storica redatta da piú autori,
a oggi non identificati, costituita da un primo blocco che giunge sino all’anno 641, accresciuto da aggiunte che danno conto degli eventi accaduti sino al 768) – narrano che il casus belli che forní ad Alboino, succeduto al padre Audoino già da qualche anno, l’occasione per entrare in Italia fu rappresentato da un invito rivoltogli nientemeno che da Narsete.
Le astuzie di un vecchio generale
Il vecchio generale era rimasto nella Penisola dopo la vittoriosa conclusione della guerra contro i Goti e si era adoperato per mettere definitivamente sotto il controllo imperiale i territori dell’Italia del nord, ancora abbastanza instabili. Il suo attivismo avrebbe però suscitato invidie e sospetti a Costantinopoli, al punto tale che (secondo Paolo Diacono) l’imperatore Giustino II si sarebbe risolto a inviare un nuovo comandante militare, nella persona del prefetto Longino. Narsete avrebbe identificato nella moglie dell’imperatore, Sofia, l’organizzatrice dell’azione nei suoi confronti e, dopo aver deciso di non rientrare a Costantinopoli per paura di essere ucciso, avrebbe consumato la sua vendetta rivolgendosi ad Alboino, che invitò a entrare in Italia per disfare l’opera che egli stesso aveva contribuito a realizzare. Narsete era una «vecchia volpe» della corte bizantina, avendovi prestato servizio per molti anni come addetto al cubicolo imperiale, di cui divenne primo responsabile grazie soprattutto al favore che si era guadagnato presso l’imperatrice Teodora, e svolgendo delicate
Piatto in argento con medaglione centrale decorato a sbalzo raffigurante una scena di combattimento, dal tesoretto di Isola Rizza (VR). Fine del VI-inizi del VII sec. Verona, Museo di Castelvecchio.
missioni diplomatiche su incarico di Giustiniano. Egli sapeva quindi ben comprendere come le chiacchiere sussurrate con abilità all’orecchio degli imperatori potessero innescare pericolosissimi meccanismi di sospetto, in grado di costare la vita a chi ne fosse divenuto l’oggetto. Molta parte della storiografia ritiene che il tradimento di Narsete sia in realtà nulla piú che un malevolo pettegolezzo, ma non dobbiamo dimenticare che anche in altre circostanze l’evoluzione della storia dell’impero bizantino fu determinata proprio da ribellioni di comandanti locali, che preferirono favorire il nemico e non piegarsi a ordini provenienti dal governo centrale. Caso emblematico fu in tal senso l’ammutinamento di un comandante delle truppe siciliane che, nell’827, aprí agli Arabi la strada per la conquista dell’isola. Tuttavia, anche se le dicerie sulla «chiamata» di Alboino da parte di Narsete fossero vere, l’intervento del vecchio comandante bizantino non avrebbe potuto, da solo, persuadere il re dei Longobardi a compiere un passo che avrebbe lanciato il suo popolo verso una sfida difficilissima e dagli esiti incerti. I fattori in campo dovettero quindi essere anche altri. Abbiamo visto che per molti decenni i Longobardi avevano saputo muoversi con energia e spregiudicatezza, ma anche con accortezza in uno scenario, come quello balcanico, in cui occorreva tenere presente sia quali fossero le forze e le intenzioni dei vicini piú prossimi, sia osservare quello che accadeva dalla Gallia a Bisanzio. E longobardi
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longobardi
Miniatura raffigurante la morte di Clotario I (561), da un manoscritto de Les Grandes Chroniques de France. 1460 circa. Parigi, Bibliothéque nationale de France. Alla scomparsa del sovrano, il regno fu diviso tra i suoi quattro figli, le cui rivalità portarono alla cessazione delle attività franche in Italia settentrionale, aprendo la strada all’invasione longobarda. 24
longobardi
Identikit di un popolo
non c’è alcun motivo di dubitare che, nell’imminenza della decisione di valicare le Alpi ed entrare in Italia, Alboino non abbia fatto proprio un calcolo di questo tipo.
Il tesoro dei Gepidi
Racconta Paolo Diacono (riprendendo anche in questo caso notizie che troviamo in altre fonti del VI secolo) che, pochi anni prima di muovere verso la Penisola, Alboino aveva sbaragliato in battaglia i Gepidi, uccidendone il re Cunimondo e incamerandone il tesoro. I tradizionali nemici dei Longobardi erano stati definitivamente messi fuori causa e il matrimonio con la figlia di Cunimondo, Rosmunda, e l’annessione
alla propria gente di buona parte dei Gepidi vinti, suggellò la vittoria conseguita sul campo. Queste azioni sono la conseguenza di un disegno mirante, innanzitutto, a stabilire l’egemonia longobarda sui territori nord-balcanici, concretizzato attraverso l’unione della stirpe regia longobarda con quella del popolo appena sconfitto. Alboino poté sposare Rosmunda poiché nel frattempo era morta la sua prima moglie, la principessa franca Clodosvinta, figlia del re Clotario I, a sua volta scomparso nel 561. Probabilmente, proprio la morte di Clotario e di sua figlia e la successiva evoluzione della situazione politica nel regno franco fornirono ad Alboino qualche motivazione di rilievo per orien-
Il regno dei Franchi nel 581 Colonia Tournai
Thérouanne
Liegi
Arras Amiens Rouen Bayeux Coutances
Noyon
Beauvais Senlis
Evreux
Vannes Nantes
Reims
Toul
Bourges
Nevers
Autun
Basilea Besançon
Chalon
Poitiers
Mâcon
Bordeaux Bazas
Dax
Agen
Aire Eauze Béarn
Oloron
Sion
Ginevra Belley
Lione
Clermont
Montieurs Velay
Périgeux
Strasburgo
Langres
Auxerre
Tours
Angoulême
Verdun
Sens
Orlèans
Limoges
Spira
Metz
Troyes
Le Mans Angers
Saintes
Treviri
Châlons
Chartres Rennes
Laon
Soissons
Parigi
Avranche Sées
Mayences Worms
Cambrai
St-Jean-de-Maurienne
Vienna Grenoble Le Puy Die Gap Valence Javols Viviers Embrun St-Paul Sisteron Cahors Rodez Digne Orange Glandeves Albi Apt Riez Nizza Vence Tolosa Arles Fréjus Aix
Comminges
Marsiglia
Regno d’Orléans
Regno di Soissons
Metropoli provinciale
Regno di Reims
Diocesi
Provincia ecclesiastica
tarsi in direzione della conquista dell’Italia. I quattro figli di Clotario erano infatti entrati rapidamente in conflitto tra loro e il regno fu a lungo dilaniato da guerre intestine che ebbero, fra gli altri, l’effetto di far cessare per qualche anno le azioni militari franche verso l’Italia settentrionale, che avevano caratterizzato gli ultimi anni della guerra fra Goti e Bizantini. In effetti, già Narsete, dopo la fine delle ostilità con gli Ostrogoti, fra il 554 e il 555 aveva provveduto a eliminare manu militari le armate franche presenti sul suolo italiano, che avevano stabilito una base particolarmente solida soprattutto nell’area veneta, ma che si erano anche prodotte in scorrerie lungo tutto il territorio
Tolone
Couserans
L’assetto geopolitico della Francia nel 581, divisa tra tre reami che prendono il nome dalle rispettive città capitali: d’Orléans (in verde), di Reims (in blu) e di Soissons (in arancione). Il regno franco fu poi riunito con Clotario II (584-629), che pose la capitale a Parigi.
della Penisola. Non è questa la sede per analizzare in profondità provenienza, composizione e obbiettivi delle truppe «franche» presenti in Italia e decidere se la loro azione fosse stata pensata (e da chi esattamente) come il prodromo di una vera e propria invasione dell’Italia. Fatto sta che lo scoppio delle ostilità fra gli eredi di Clotario ebbe certamente l’effetto di ridurre qualsiasi ambizione in tal senso. È probabile che Alboino sia stato quindi indotto a scegliere di tentare l’avventura piú rischiosa che il suo popolo avesse mai potuto immaginare dal combinarsi di molteplici fattori: la vittoria sui Gepidi e il deciso rafforzamento economico e militare che ne conseguí, il probalongobardi
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longobardi
Identikit di un popolo
CONQUISTE E RICONQUISTE DEI LONGOBARDI Conquiste iniziali (568-590)
Aquileia
Milano
Territori contesi fra Longobardi e Bizantini
644
Brescia
Venezia
Pavia
Torino
Conquiste del VII secolo (con data) (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)
Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)
502
603
Parma Genova
Bologna
643
Pisa
Conquiste al tempo di Astolfo (749-756)
Pe
Ravenna
nt
ap o
li
Firenze
Dominio bizantino nel 774
Rimini
Ducato di Spoleto
Confini attuali
Ancona Fermo 640 circa
Spoleto
605
650 circa
Roma
Ducato romano
662
Bari
Benevento Napoli Salerno
Ducato di Benevento
Potenza
645 circa
Cagliari
Cosenza
Palermo
Agrigento
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Reggio Calabria
Siracusa
Lecce
un potere lungo due secoli 568-574 Provenienti dai Balcani e guidati dal re Alboino, i Longobardi entrano in Italia e prendono Vicenza, Treviso, Milano, Verona, Pavia. Sotto il suo successore, Clefi, eliminano la classe dirigente senatoria e si impadroniscono di ampie ricchezze fondiarie.
590-626 Vengono prese Padova, Monselice, Cremona e Mantova; i Bizantini riconoscono lo status quo. Con Agilulfo e sua moglie Teodolinda, la monarchia longobarda assume una fisionomia cattolica. 626-653 Regno di Rotari e conquista della Liguria e del Veneto orientale (Oderzo). Editto di Rotari (643).
579-590 Per dieci anni senza re, i Longobardi vengono guidati dai duchi. Intanto, la conquista della Penisola fa progressi: si segnalano duchi longobardi a Spoleto e a Benevento.
653-712 Abolizione dell’arianesimo (653) e fine dello scisma dei «Tre Capitoli» (698): con i re della cosiddetta «dinastia bavarese» la fisionomia cattolica della monarchia longobarda si consolida e la fusione con la popolazione romanica è pressoché completata. Con Grimoaldo, i ducati di Spoleto e Benevento sono ricondotti sotto l’autorità del re.
bile indebolimento della posizione di Narsete e un avvicendamento non del tutto pacifico e condiviso del comando militare imperiale in Italia e, infine, l’eclissi del dinamismo franco verso la nostra Penisola.
Un’attenta valutazione politica
Nella pagina accanto l’assetto geopolitico della penisola italiana nei duecento anni in cui venne quasi interamente controllata dai Longobardi, che riuscirono a conquistare anche la Pentapoli (la provincia comprendente le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona), strappandola ai Bizantini.
744-757 Con Ratchis e Astolfo, si apre il periodo «friulano» della monarchia longobarda: è conquistata Ravenna; Roma è sottoposta a tributo. Leggi di Astolfo (750) per la mobilitazione contro la minaccia franca. Vittoria dei Franchi guidati dal re Pipino (754 e 756); cessione delle ultime conquiste longobarde ai papi, alleati dei Franchi.
Ancora una volta, se queste supposizioni sono corrette, saremmo di fronte a qualcosa di diametralmente opposto alla tradizionale immagine di un popolo i cui movimenti migratori erano dettati dal soddisfacimento di elementari bisogni di sopravvivenza e che, quindi, si producevano in modo tumultuoso e disordinato. Il quadro che sembra dischiudersi ai nostri occhi sembra piuttosto quello di un attento calcolo delle opportunità, effettuato sulla base di una valutazione lucida del contesto politico del momento. È difficile capire attraverso quali canali i Longobardi abbiano potuto acquisire le informazioni necessarie per prendere infine la decisione che avrebbe cambiato per sempre la storia loro e dell’Italia. E, parimenti, ci è preclusa la possibilità di decifrare chi abbia effettivamente contribuito, con Alboino, a compiere tale decisione, condividendone la responsabilità.
757-774 L’ultimo re longobardo indipendente, Desiderio, cerca di riprendere una politica aggressiva, approfittando delle difficoltà interne dei Franchi. Ma, nonostante la sua alleanza con i Bavari e con lo stesso Carlo Magno, figlio di Pipino, quando Carlo, scomparso il fratello Carlomanno, rimane unico re dei Franchi e non esita a invadere il Regno longobardo, Desiderio viene sconfitto. Carlo Magno si impadronisce del regno, assumendo egli stesso il titolo di rex Langobardorum. Il Regno longobardo continuerà la sua storia all’interno della dominazione franca che di lí a poco diventerà un impero.
Comunque siano andate le cose, il re organizzò con cura lo spostamento della propria gente. Stipulò accordi con il popolo asiatico degli Avari, che l’avevano aiutato nella vittoria contro i Gepidi e che si erano insediati nell’area del medio Danubio, in base ai quali i primi avrebbero acconsentito a lasciar tornare i Longobardi in Pannonia, qualora l’avventura italiana fosse fallita. Inoltre, avrebbe ottenuto l’aiuto di un contingente di 20 000 Sassoni, popolo che abitava l’area centro-tedesca, il cui apporto lascia intravvedere, di nuovo, la capacità dei Longobardi di tessere relazioni politiche ad ampio raggio. Ma le piú recenti indagini archeologiche sembrano indicare che alcuni cimiteri «longobardi» dell’area transalpina siano rimasti in uso anche dopo il periodo della migrazione verso l’Italia, il che ha spinto a credere che lo spostamento non abbia coinvolto la totalità del popolo di Alboino. Il sovrano, di conseguenza, potrebbe aver tenuto in conto l’eventualità di un rientro nelle sedi d’origine o, piuttosto, quella di mantenere anche il controllo su di esse, costituendo quindi un dominio esteso su entrambi i versanti delle Alpi Giulie. longobardi
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d’acqua?
Corre l’anno 568: guidati da Alboino, i Longobardi raggiungono la Penisola e acquisiscono il controllo di molti dei suoi territori. Prende forma un regno vasto e solido, che per due secoli si fa protagonista della storia italiana
L’Italia settentrionale cosà come fu rappresentata nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una carta del mondo abitabile (ecumene) conosciuto da Roma intorno al IV sec. XII-XIII sec. Vienna, Biblioteca Nazionale. Sulla sinistra, sono indicate, tra le altre, Ticinum (Pavia) e Mediolanum (Milano), che furono teatro di eventi chiave della presenza longobarda nella Penisola.
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I
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n uno dei passi piú celebri e letterariamente piú riusciti dell’Historia Langobardorum, Paolo Diacono racconta che «quando Alboino con tutto il suo esercito e la moltitudine del popolo misto arrivò agli estremi confini dell’Italia, salí sul monte che sovrasta la zona e da lí contemplò parte dell’Italia, quanto piú lontano poté arrivare con lo sguardo». In quei momenti – era la primavera del 568 – cercò forse di valutare quali ostacoli e quali pericoli si sarebbero potuti frapporre al suo cammino. Sempre seguendo la narrazione di Paolo Diacono sembra che, inizialmente, i Longobardi abbiano incontrato davvero pochi ostacoli. Nei primi mesi, l’invasione procedette lungo la direttrice pedemontana veneta e friulana. Il primo centro conquistato fu l’odierna Cividale del Friuli, il cui nome latino – Forum Iulii – ha lasciato le sue tracce nel nome dell’attuale regio-
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ne italiana. Successivamente, Alboino s’impossessò delle città di Vicenza e di Verona, mentre rimasero in mano bizantina Monselice, Padova e Mantova. Aquileia, che era stata per secoli il centro urbano piú importante dell’Italia nordorientale, si ritrovò in una sorta di terra di nessuno, abbandonata dal patriarca che si rifugiò nelle isole della laguna di Grado.
Un anno di pausa
Dopo questo primo slancio, l’espansione conobbe apparentemente una pausa di circa un anno, forse necessaria per organizzare il controllo delle aree appena conquistate e anche per iniziare il processo di stanziamento dei gruppi entrati in Italia al seguito di Alboino. Solo nella tarda estate del 570, infatti, Alboino entrò in quella che era allora denominata la provincia di Liguria e che, per la centralità poi
L’ingresso di Alboino a Pavia, xilografia da un dipinto di Ludovico Pogliaghi del 1890. Discesi in Italia nel 568, i Longobardi, guidati dal re Alboino, iniziarono una veloce conquista dell’area settentrionale, conclusasi con la presa di Pavia (Ticinum), unica città ad avere opposto resistenza. Il sovrano morí nel 572 a Verona, dove aveva stabilito la sua corte, vittima di una congiura di palazzo.
assunta nell’organizzazione dell’insediamento longobardo, divenne l’attuale Lombardia. La prima città a cadere nelle sue mani fu Milano, dalla quale, com’era avvenuto ad Aquileia, fuggí l’arcivescovo che andò a trovare rifugio a Genova. Resistette invece Pavia (allora chiamata Ticinum), che, secondo Paolo Diacono, fu cinta d’assedio per circa tre anni, cedendo infine solo nel 572. Paolo Diacono racconta inoltre che, mentre proseguiva l’assedio di Pavia, il re ampliò le sue conquiste «sino alla Tuscia», risparmiando solo Ravenna, Roma e «qualche fortezza posta sulla riva del mare». Le conquiste di Alboino, in effetti, avvengono senza spargimenti di sangue. Tranne che per l’episodio dell’assedio di Pavia (la cui lunga durata è peraltro messa in dubbio da una parte della storiografia), di nessuna delle città di cui s’impadroní si dice avesse opposto resistenza. Questo dato va probabilmente ascritto non solo a merito del re longobardo, ma anche a una consapevole strategia posta in atto dai Bizantini, dettata da ragioni molto concrete, che lo stesso Paolo Diacono cerca di spiegare. Negli anni immediatamente antecedenti al 568, l’Italia era stata colpita da una grave pestilenza, che ne aveva fortemente decimato la popolazione (e probabilmente anche le forze armate), seguita poi da una carestia alimentare. Per questi motivi – egli lascia intendere – sarebbe stato impossibile pensare di mantenere il controllo su tutto il territorio italiano e la scelta era stata evidentemente quella di ripiegare su capisaldi difendibili con il minimo sforzo. In effetti, se si disegnasse una mappa della situazione geopolitica dell’Italia appena cinque anni dopo la calata dei Longobardi, emergerebbe al suo interno una sorta di imbuto, i cui margini e il cui piede – corrispondenti alle aree costiere e alle estreme regioni meridionali – sarebbero uniformemente da colorare con la tinta assegnata all’impero bizantino; mentre la parte interna si dovrebbe quasi interamente campire con il colore attribuito al popolo di Alboino. La spiegazione di tutto ciò è presto detta: nella seconda metà del VI secolo i Bizantini traevano la propria forza soprattutto dal controllo militare e commerciale esercitato sulle rotte marittime del Mediterraneo, senza che la loro supremazia fosse minacciata da alcun reale competitore. Al contrario, i Longobardi non disponevano di capacità operative sul teatro marittimo e quindi le comunicazioni tra le guarnigioni bizantine (e fra ciascuna di esse e il centro dell’impero) erano per questo tramite chiaramente assai piú rapide ed efficaci di quanto non potessero esserlo per
via di terra. In realtà, a questo schema di partenza andrebbero aggiunti alcuni dettagli, che aiutano a capire meglio con quale prospettiva di lungo periodo i Bizantini avessero ritenuto piú giusto reagire all’invasione. Da brevi accenni offerti sempre da Paolo Diacono apprendiamo che, ancora nella seconda metà degli anni Settanta del VI secolo, un comandante bizantino teneva la strategica piazzaforte di Susa, attraverso la cui valle correva il principale itinerario di comunicazione fra l’Italia e il cuore del regno franco. Inoltre, addirittura alla fine degli anni Ottanta era ancora in mano imperiale il presidio di Isola Comacina (situato presso il vertice superiore del lago di Como), che controllava un altro importante percorso transalpino che, dalla Rezia, attraverso la Valtellina, conduceva in direzione della Lombardia. L’altro aspetto che si evidenzia nel racconto dei primi anni successivi al 568 è la strategicità che i Bizantini attribuivano al controllo del corso del Po e, piú in generale, del basso corso dei principali fiumi padani. Ciò spiega la resistenza organizzata a Mantova e a Pavia e, specularmente, l’abbandono senza colpo ferire di Milano nelle mani del nemico.
Il controllo delle vie d’acqua
Il disegno strategico complessivo era quello di presidiare, oltre alle coste e alle rotte marittime, anche la principale via d’acqua della Pianura Padana che, attraverso un ramo del delta del Po oggi non piú attivo (il cosiddetto Po di Volano/Primaro), consentiva di navigare direttamente fino a Ravenna. Questo schema spiega anche perché, lungo questo percorso, proprio i Bizantini, tra la fine del VI e gli esordi del VII secolo, fondarono le fortezze di Ferrara e di Argenta. Tale organizzazione permetteva di penetrare sin dentro al cuore della Pianura Padana, senza dover sottostare ai rischi connessi al suo attraversamento via terra. Altrettanto evidente è che il presidio dei maggiori itinerari transalpini era concepito in funzione
Due fibule a «S» (in alto) e una fibula a staffa in argento facenti parte del corredo funebre di una dama longobarda, dalla necropoli presso la chiesa di S. Giovanni in Xenodochio a Cividale del Friuli. VI sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.
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della prospettiva di recuperare il controllo – qualora se ne fosse offerta l’opportunità – sull’intero scacchiere dell’Italia settentrionale, sino alle frontiere con i regni che occupavano le aree al di là delle Alpi. La tattica dei Bizantini di fronte al dilagare dei Longobardi fu insomma quella del giunco che si piega di fronte alla piena del fiume, in attesa di rialzarsi dopo il suo passaggio e riprendere la sua originaria posizione. L’impero non riteneva evidentemente perduta la partita sull’Italia del Nord e, pur non potendo opporsi frontalmente all’ingresso degli invasori, sperava in qualche modo di riassorbirne l’impatto in un secondo momento. Come vedremo, la storia andò diversamente e, a conti fatti, volse sicuramente in favore dei Longobardi. Tuttavia, anche la strategia impostata dai Bizantini mostrò di avere ottime basi, dato che – sebbene obbligata a un lento, ma costante ripiegamento – riuscí a mantenere in vita la presenza imperiale sul suolo italiano per quasi due secoli, senza che i Longobardi riuscissero mai a sbarazzarsene totalmente.
«Barbari» vs «corrotti»
Ma quale impatto ebbe l’arrivo dei Longobardi sul territorio italiano? Prendendo spunto da alcuni passaggi dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, la storiografia (soprattutto quella italiana) ha tradizionalmente assunto la posizione di considerarlo come una calamità
per le popolazioni locali, con momenti di violenza cieca e profondi sconvolgimenti sociali. In questo senso hanno sicuramente pesato i giudizi degli storici dell’età risorgimentale, primo fra tutti il Manzoni, che videro nella discesa dei Longobardi in Italia il momento in cui si spezzò l’unità politica della Penisola e l’inizio di una storia di asservimento a popoli stranieri che sarebbe durata sino al XIX secolo. In realtà, come scriveva per esempio Cesare Balbo nel 1856, il giudizio era parimenti negativo nei confronti sia dei Bizantini, sia dei Longobardi, «quelli piú corrotti che mai, questi piú barbari che niuno». Entrambi erano giudicati come i protagonisti dell’atto finale del dramma della «discesa agli inferi» dell’Italia dagli splendori dell’antichità verso l’oscurità del Medioevo. Ma se riguardo ai Bizantini si poteva parlare degli epigoni corrotti e infiacchiti della grande civiltà di Roma, per descrivere i Longobardi non vi era altro attributo se non quello della mera barbarie. Questa caratteristica collocava anche il loro leader Alboino entro un rango senz’altro inferiore rispetto a quello degli altri capi che avevano guidato le precedenti invasioni dell’Italia nel tardo V secolo, come Odoacre e Teodorico. In particolare, Cesare Balbo rimproverava ad Alboino e alla (segue a p. 36)
Nella pagina accanto illustrazione raffigurante le fortificazioni tardo-romane ricordate come Tractus Italiae circa Alpes nella Notitia Dignitatum Occidentis (testo latino del V sec.). XV sec. Oxford, Bodleian Library.
In alto e a sinistra veduta frontale e posteriore di una coppia di orecchini d’oro a cestello, forma tipica della zona mediterranea, da Borgomasino (PV). VII sec. Pavia, Musei Civici. Qui accanto crocetta funeraria in lamina d’oro decorata con motivi zoomorfi. VII sec. Verona, Museo di Castelvecchio. longobardi
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«BEVI ROSMUNDA…»: l’assassinio di re alboino La vicenda dell’uccisione di Alboino per mano di un sicario armato da sua moglie Rosmunda costituisce uno dei feuilleton piú noti della storia dell’Alto Medioevo italiano, tanto da essere riportata – oltre che dal «solito» Paolo Diacono – anche da tutte le principali fonti del tempo, da Gregorio di Tours, a Mario di Avenches a Giovanni di Biclara, al continuatore di Prospero di Aquitania e al cosiddetto Fredegario. La fama di questo episodio è poi stata alimentata dalla trasposizione teatrale che ne fecero alcuni grandi autori, da Giovanni Rucellai, nel Cinquecento, fino a Vittorio Alfieri e, in tempi piú vicini, a Sem Benelli. Ma nel Novecento esso è stato reso popolare, soprattutto in Italia, ben oltre la stretta cerchia dei cultori di storia del Medioevo e degli amanti del teatro piú colto, dalla parodia fatta dal comico Achille Campanile, che l’ha immortalata attraverso la celebre frase: «Bevi, Rosmunda, nel teschio di tuo padre», con la quale si 34
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ricordava il momento in cui Alboino consumò l’offesa nei confronti di sua moglie, che avrebbe poi persuaso la regina a congiurare contro il consorte. Ma come andò l’episodio? Nel corso di un banchetto, la regina Rosmunda sarebbe stata obbligata da Alboino – a quanto pare nella circostanza piuttosto alticcio – a bere nella coppa che egli si era fatto fabbricare utilizzando il teschio del padre di lei, Cunimondo, vinto in battaglia poco prima che iniziasse la migrazione verso l’Italia. Alboino, per di piú, non mancò di canzonarla, dicendole che cosí avrebbe potuto brindare insieme a suo padre. La regina rimase sconvolta da quello che le era apparso come un oltraggio imperdonabile e, da quel momento, iniziò a tramare per eliminare il marito. Per mettere in atto il suo piano, Rosmunda coinvolse Elmichi, membro della guardia del re e probabilmente già suo amante. Questi, a sua volta, trascinò nel complotto un tale Peredeo «che era
Alboino e Rosmunda, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1615. Vienna, Kunsthistorisches Museum. L’artista immagina il fatale momento in cui il sovrano longobardo ordina alla moglie di bere nella coppa ricavata dal teschio di suo padre, il re dei Gepidi Cunimondo, ucciso dallo stesso Alboino.
un uomo di grandissima forza», al quale si pensava di commissionare l’esecuzione materiale dell’omicidio del re. Peredeo, tuttavia, era piuttosto riluttante a farsi coinvolgere; allora Rosmunda ed Elmichi, per obbligarlo ad accettare il compito, gli tesero un tranello degno dei migliori B-movies del cinema italiano. Approfittando del fatto che Peredeo se la intendeva con una cameriera della regina, quest’ultima una notte si sostituí a lei nel suo letto, cosicché l’uomo commise inconsapevolmente «commercio carnale» con colei che non avrebbe mai dovuto avvicinare. Compiuto il misfatto, la regina gli si rivelò, ammonendolo: se a quel punto egli non avesse acconsentito a compiere l’omicidio di Alboino, ella avrebbe rivelato al re quanto era successo quella notte, decretando quindi la sua condanna a morte. A quel punto, Peredeo non poté sottrarsi alla delittuosa missione che Rosmunda desiderava portare a compimento.
Cosí un giorno, mentre il re riposava, Rosmunda entrò nella camera da letto, fece sparire tutte le armi che vi si trovavano e legò la spada alla testata del letto, cosí che non si potesse piú staccare né sguainare. A quel punto, coup de theâtre: nella stanza del re non entrò Peredeo, bensí Elmichi. Alboino si svegliò di soprassalto e cercò invano di impadronirsi della spada: non riuscendo a sguainarla, abbozzò una patetica difesa, brandendo uno sgabello. Ovviamente Elmichi riuscí rapidamente ad avere ragione del re e cosí, annota Paolo Diacono, «un guerriero tanto valoroso fu ucciso come un imbelle e morí per le trame di una femmina colui che era cosí famoso in guerra per le innumerevoli stragi di nemici». Ma la tragedia non finí con la morte di Alboino. Elmichi cercò di farsi nominare re al suo posto, ma trovò un muro di ostilità nei Longobardi, che volevano piuttosto la sua morte. Fu ancora una volta Rosmunda a prendere in mano la situazione, rivolgendosi al prefetto Longino, che aveva sostituito Narsete al comando del governo bizantino in Italia, chiedendogli di inviare una nave da Ravenna per trarli in salvo. Longino non si fece pregare e mandò il vascello, sul quale montarono Elmichi e Rosmunda («ormai sua moglie», chiosa Paolo Diacono), insieme a Peredeo e ad Albisuinda, la figlia che Alboino aveva avuto dalla prima moglie e che, in tutta questa storia, appare davvero come la figura piú tragica. Secondo il piú collaudato dei cliché, nei penetracoli del palazzo bizantino di Ravenna si consumò l’ultimo atto della storia. Longino cercò di sedurre Rosmunda, promettendole di prenderla in moglie; ma ovviamente ciò presupponeva l’eliminazione di Elmichi, che la vedova di Alboino – «sognando di farsi signora dei Ravennati» – s’incaricò volentieri di organizzare. La regina agí quando Elmichi si lavava nel bagno: appena l’uomo uscí dall’acqua gli porse una coppa contenente veleno, dicendogli che si trattava di una tisana. Appena bevve, Elmichi si accorse di essere stato avvelenato; allora sguainò la spada e, presa Rosmunda, la obbligò a bere quanto vi era rimasto. «E cosí, per giudizio di Dio onnipotente, gli infami assassini morirono nello stesso momento». Il capolavoro di Longino si compí con l’invio a Costantinopoli del tesoro sottratto da Rosmunda al palazzo di Alboino, insieme alla povera Albisuinda e al gigante Peredeo, che nella capitale imperiale venne utilizzato come attrazione da circo, non prima di avere avuti cavati gli occhi, in modo da non essere pericoloso per gli altri. Paolo Diacono, forse temendo che una storia del genere potesse essere valutata, anche ai suoi tempi, come una sorta di romanzo d’appendice, tiene a precisare che quei fatti erano davvero accaduti, perché lui aveva visto con i propri occhi la macabra coppa usata da Alboino, che il principe Ratchis aveva un giorno mostrato in occasione di un banchetto. longobardi
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«pochezza» della sua gente, di aver rinunciato a portare a compimento sin da subito la conquista dell’Italia intera – Roma compresa – ponendo cosí le basi per le disgrazie della storia futura della Penisola. Alessandro Manzoni, nel suo Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica d’Italia, scritto nel 1822 in preparazione del testo teatrale dell’Adelchi, insisteva anche sulla durezza delle condizioni riservate alle popolazioni italiane da parte dei Longobardi, in certo senso diretta conseguenza dell’estrema lontananza culturale degli invasori rispetto ai conquistati. Su questo tema egli si adoperò minuziosamente per confutare le opinioni di due altri grandissimi intellettuali dei secoli precedenti, Nicolò Machiavelli e Ludovico Antonio Muratori, i quali, invece, ritenevano che l’impatto dei Longobardi sulla condizione delle popolazioni italiane non fosse stato particolarmente devastante e che, anzi, con il tempo i due popoli di fatto si fusero, andando a formare l’embrione da cui sarebbero discesi gli Italiani delle epoche successive.
Le ambiguità di Paolo Diacono
Una cosí radicale divergenza di opinioni riguardo alle modalità e alle finalità della conquista dell’Italia trovava in realtà il suo fondamento nell’ambiguità che lo stesso Paolo Diacono assume nel descrivere lo scenario prodottosi negli anni immediatamente successivi all’ingresso dei Longobardi sul suolo della Penisola. Da un lato egli parla della fuga impaurita dei vescovi di Milano e Aquileia di fronte agli invasori e, chiudendo il secondo libro della sua Historia, afferma che i Longobardi avevano «spogliato le chiese, ucciso i sacerdoti, rovinato le città e decimato le popolazioni» dell’Italia; dall’altro indugia nel descrivere l’atteggiamento equilibrato e benigno tenuto da Alboino verso gli abitanti di Pavia, ricambiato da questi ultimi con sollievo e con l’auspicio che, «dopo tante miserie», si potesse ricominciare a sperare «in un futuro migliore». Anche un’altra fonte, assolutamente non sospettabile di partigianerie in favore degli invasori, quale il Liber Pontificalis della Chiesa Romana, nel breve profilo biografico del papa Benedetto III (575-579) annota che, a causa della carestia che imperversava in Italia, «gli abitanti di molti castelli preferirono consegnarsi ai Longobardi affinché potesse essere loro alleviata l’inedia della fame». Il gesto estremo della resa al nemico senza condizioni non avviene per ragioni militari, ma per l’impossibilità dei Bizantini di vettovagliare tutti i presidi sotto il loro controllo (cosa che peraltro essi, come ricorda il biografo di Benedetto III, cercarono comunque di fare). Ciò però non avrebbe aperto la strada 36
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L’assassinio di Alboino, re dei Longobardi, olio su tela di Charles Landseer. 1856. Collezione privata. L’artista ritrae il sovrano mentre cerca inutilmente di difendersi con uno sgabello dai colpi di Elmichi. a vendette ed efferatezze da parte dei Longobardi, poiché dell’episodio viene ricordato piuttosto il sollievo provato da quanti si arresero per aver posto fine alle proprie sofferenze. In realtà, il giudizio sugli esiti della conquista viene reso piú complesso dalla repentina fine di Alboino, sopraggiunta nel 572: l’evento, infatti, non permette di comprendere appieno quale fosse la sua prospettiva in merito agli obiettivi strategici che la conquista avrebbe dovuto realizzare e quali idee egli avesse maturato rispetto alla natura del proprio potere. Gli indizi che le fonti forniscono a questo proposito sono veramente scarni, ma alcuni dettagli possono aiutarci a formulare qualche interessante supposizione. Innanzitutto, in due circostanze emerge dalle parole di Paolo Diacono che probabilmente, al contrario di quanto hanno affermato i suoi detrattori ottocenteschi, Alboino aveva qualche idea non proprio primitiva sul come rappresentare il proprio dominio sull’Italia. Colpiscono infatti, in tal senso, i nessi che sembrano istituirsi fra la sua persona e la figura del re goto Teodorico, che, piú di chiunque, aveva incarnato il prototipo del sovrano «barbaro» capace di raccogliere e adattare a nuovi tempi l’eredità del mondo romano. Paolo Diacono annota che il re, una volta conquistata Pavia, si era insediato nel «palazzo che il re Teodorico aveva un tempo costruito»; ma soprattutto – essendo Ravenna rimasta saldamente in mano bizantina –, desta interesse la scelta di Verona, città profondamente cara al re goto, come sua residenza abituale. Qui, infatti, egli dimorava quando fu ucciso e in questa città venne infine sepolto. Verona fu quindi la sua vera capitale, poiché al governo di Pavia (in seguito sede dei re longobardi) era stato preposto un duca.
Una parabola breve
Alla visione strategica di Teodorico (e all’ipotesi che Alboino ne abbia in qualche modo tenuto conto) possono essere messi in relazione altri aspetti, a considerare i quali ci spingono, oltre che Paolo Diacono, alcune fonti coeve, come Gregorio di Tours, il continuatore di Prospero di Aquitania e il Fredegario. Dopo la morte di Alboino, l’assemblea dei capi militari longobardi elesse re Clefi, che però fu a sua volta ucciso un anno e mezzo dopo da un uomo della sua guardia personale. Successivamente, per dieci anni – dal 574 al 584 – i Longobardi «rimasero senza re e stettero sotto il comando dei duchi». Secondo Paolo, sul territorio controllato dai
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Longobardi erano presenti trentacinque duchi, ciascuno incardinato in una città, i piú importanti dei quali erano quelli di Brescia, Pavia, Trento, Bergamo e Cividale. È un vero peccato non sapere esattamente dove ognuno di quei nobili si fosse insediato (presumibilmente non senza qualche accordo con Alboino), ma è comunque chiaro che le sedi piú importanti si trovassero lungo il percorso seguito dalla marcia dei Longobardi fra il 578 e il 582. Fra i duchi di cui Paolo menziona nome e sede, troviamo i protagonisti di un intenso dinamismo militare che caratterizzò il decennio suc-
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cessivo alla morte di Alboino. Per diversi anni, infatti, si verificarono spedizioni al di là dei confini del regno dei Franchi, che si spinsero molto in profondità nel territorio della Provenza, giungendo a toccare Riez, Embrun, Grenoble, Arles e Valence.
Mire espansionistiche
L’intensità, la ripetitività e la coralità di queste incursioni lascia ipotizzare che esse non fossero semplici iniziative predatorie, ma che – profittando della situazione di debolezza in cui si trovava allora il regno dei Franchi – potessero
rappresentare il tentativo di estendere l’influenza longobarda nel territorio provenzale. Gregorio di Tours colloca la notizia dell’inizio di queste campagne in rapporto all’elezione di Clefi al trono. Questi era stato scelto in opposizione al tentativo di usurpazione attuato da Elmichi e Rosmunda, ma non è fuori luogo immaginare che, pur interrompendosi la successione all’interno della famiglia di Alboino, il nuovo eletto dovesse comunque annoverarsi come colui che, in qualche misura, avrebbe garantito la continuità della In alto pezzo in oro da tre solidi con il ritratto di Teodorico, re dei Goti. Emissione della zecca di Roma, 493 (?). Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo, Medagliere. A sinistra la veduta a volo d’uccello della città di Verona nel X sec. nota come Iconografia Rateriana, perché attribuita al vescovo Raterio, che, in realtà, ne fu solo il possessore. L’immagine fu realizzata presumibilmente tra il 915 e il 920-922 e fu conservata fino al 1793 nel monastero belga di Lobbes. In seguito alla soppressione degli ordini religiosi, andò dispersa, ma la Biblioteca Capitolare di Verona ne conserva la copia fatta realizzare nel 1739 da Scipione Maffei.
linea politica portata avanti dal sovrano defunto. È perciò lecito supporre che l’avvio delle incursioni nel territorio franco fosse in qualche modo ancora un legato della strategia attuata nei primi momenti dell’invasione dell’Italia che, non dimentichiamo, era stata quasi certamente concepita e attuata tenendo conto della scarsa reattività che, di fronte a essa, i Franchi sarebbero stati in grado di mostrare. Non va peraltro dimenticato che, negli anni successivi alla fine della guerra gotica, era stato proprio il contrasto verso la presenza franca al di qua delle Alpi ad avere mobilitato le iniziative militari dei Bizantini. Ed è altrettanto chiaro che, come abbiamo visto, di fronte alla discesa dei Longobardi, i Bizantini avevano adottato una tattica di ripiegamento strategico, evitando con loro ogni confronto armato (tranne che nel caso dell’assedio di Pavia). Anche dopo gli assassinii di Alboino e di Clefi, non si registrò alcun immediato tentativo imperiale di approfittare di una situazione fattasi difficile per i Longobardi: il generale Longino non si mosse mai da Ravenna, né alcun ordine giunse da Costantinopoli per indurlo ad approfittare del probabile parziale svuotamento del campo longobardo, i cui guerrieri erano impegnati in numero significativo nel territorio franco.
Contatti rapidi ed efficaci
Questo andamento delle cose non deve essere stato casuale e induce a trarre valutazioni sulla disposizione delle forze in campo nel decennio successivo all’entrata in Italia dei Longobardi. È evidente che i Bizantini subirono l’evento, ma non è del tutto corretto immaginare che – per quanto esso avesse sicuramente destabilizzato gli equilibri politici italiani – l’evoluzione della situazione sul campo fu solo l’effetto del caos generato dai nuovi invasori. Come mostrano i fatti successivi alla morte di Alboino, se necessario, i contatti fra il quartier generale longobardo e quello bizantino potevano non solo essere assai rapidi ed efficaci, ma anche in qualche modo gestiti di comune accordo fra le parti. Come si spiega altrimenti che una nave, per ordine di Longino, possa essere tranquillamente stata spedita (sino a Verona o a Mantova?) a prendere Rosmunda ed Elmichi, senza che nessuno si sia mosso per impedirlo? Molto probabilmente doveva esistere un qualche tipo di accordo, verosimilmente ispirato dall’imminente impegno militare longobardo contro i Franchi: un’evenienza che, in quel momento, agli imperiali doveva andare benissimo. Ed è altrettanto plausibile che la colpa, attribuita ad Alboino dalla storiografia ottocentesca, di non aver colto subito l’opportunità di attaccare longobardi
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il cuore dei possedimenti bizantini in Italia vada piuttosto letta alla luce di una linea strategica ben precisa: ai Longobardi – analogamente a quanto era già avvenuto al tempo di Teodorico – era apparso (o stato fatto apparire) piú opportuno tentare di espandersi in Provenza, a spese dei Franchi, che in Italia a quelle dell’impero. L’ipotesi accarezzata a Bisanzio poteva essere sia quella di veder infine transitare i Longobardi fuori dell’Italia, sia di delimitarne la presenza – magari attraverso un accordo – alle sole aree subalpine. Certamente ci muoviamo nel campo delle ipotesi; ma proprio il drastico cambiamento che si registra sullo scenario italiano a partire dal 580 circa lascia credere di non essere lontani dalla verità. Dopo lunghi anni di demenza, nel 578 era morto a Bisanzio l’imperatore Giustino II e gli era succeduto Tiberio II, già associato al po-
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tere nel 573 e posto a capo delle operazioni militari bizantine sul fronte dei Balcani. Fra il 574 e il 575, le campagne condotte Oltralpe dai Longobardi si erano risolte in modo abbastanza deludente, con sconfitte patite sia in Provenza, sia nella Rezia, dove pure essi avevano cercato di sfondare il confine franco.
La controffensiva dei Franchi...
Poco dopo, i Franchi passarono al contrattacco e organizzarono a loro volta una spedizione in Italia, che ebbe però la caratteristica di essere condotta attraverso la valle dell’Adige, obbligando quindi le truppe a valicare i territori nei quali si era stanziata un’altra popolazione germanica, quella dei Baiuvari. Questo aspetto, che è apparentemente solo un dettaglio, rivelò in seguito tutta la sua importanza. È molto probabile che i Franchi, sia quando inseguirono in
direzione della val di Susa i Longobardi in ripiegamento dalla Provenza, sia quando cercarono di penetrare in Italia da nord, avessero agito in qualche modo d’accordo con l’impero. Dai racconti di Paolo Diacono e di Gregorio di Tours s’intuisce infatti che le piazzeforti alpine ancora in mano bizantina si sarebbero consegnate nelle loro mani. La spedizione franca fu fermata dal duca di Trento, Ewin, del quale subito dopo si dice che convolò a nozze con la figlia del duca dei Baiuvari. Evidentemente, era necessario iniziare a curare con maggiore attenzione le relazioni con chi abitava al di là del versante settentrionale dell’arco alpino, per evitare che di lí potessero giungere ancora visite sgradite. Ma poco dopo l’intesa tra Bizantini e Franchi divenne ufficiale, anche se essa aveva coinvolto solo uno dei tre sovrani che a quel tempo si dividevano il regno,
e cioè Chilperico, figlio di Clotario, che ne dominava la parte piú occidentale. Non è chiaro se fra i termini dell’alleanza rientrasse anche l’aiuto franco nelle guerre in Italia. Ma poco dopo, un secondo accordo che coinvolse il re di Austrasia, Childeberto II, fu esplicitamente definito con tale scopo e portò a una spedizione militare franca in Italia settentrionale. Barricati nelle città, i Longobardi evitarono però lo scontro in campo aperto e riuscirono infine a raggiungere un accordo con i Franchi che, dietro il pagamento di un tributo, si ritrarono.
...e l’aggressione bizantina
Nel frattempo, probabilmente proprio nel 576, i Bizantini avevano tentato di aggredire i Longobardi, muovendo da Ravenna un esercito di cospicue dimensioni comandato da Baduario, genero dell’imperatore Giustino II. In esso mi-
Verona. Il Ponte Pietra, che ingloba i resti di una piú antica struttura romana del I sec. a.C (le due arcate in pietra bianca in primo piano). Quella oggi visibile è comunque una ricostruzione, realizzata tra il 1957 e il 1959, assemblando i blocchi recuperati nell’Adige, dopo che il monumento era andato distrutto nel 1945.
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Ritratto di Chilperico I, figlio di Clotario I e sovrano di Soissons. Olio su tela di Atala Varcollier, 1837. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et de Trianon. Tra il 574 e il 575 i Longobardi avevano condotto una serie di fallimentari campagne militari tra la Provenza e la Rezia, che portarono all’alleanza tra Chilperico I e i Bizantini, che in seguito si allearono anche con Chideberto II, e a una spedizione franca nel Nord Italia.
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litavano anche contingenti di guerrieri longobardi che, secondo alcuni autori, provenivano addirittura dalla Siria e potevano essere almeno in parte composti da fuoriusciti che, al momento dell’assassinio di Alboino, dovevano aver parteggiato per Rosmunda ed Elmichi. La spedizione, su cui stranamente Paolo Diacono tace, si sarebbe conclusa con la sconfitta dell’esercito bizantino. Indubbiamente, l’essere riusciti a respingere in poco tempo due tentativi importanti che miravano ad annichilirli dovette produrre nei Longobardi, e soprattutto nei loro capi militari, una riflessione piú approfondita sul proprio futuro.
«Flavio», come gli imperatori
A questo punto – e siamo ormai agli inizi degli anni Ottanta – la prospettiva strategica cambiò perciò radicalmente: l’orizzonte transalpino era ormai chiuso e la lotta doveva essere combattuta in Italia. Per questo motivo, dopo un lungo interregno, i duchi longobardi decisero di nominare nuovamente un re, nella persona di Autari, figlio del defunto Clefi. La scelta fu indirizzata probabilmente anche dalla preoccupazione di conferire alla nomina una legittimazione piú forte, che chiarisse la continuità con il passato. Paolo Diacono riporta che al nuovo re fu attribuito l’appellativo di «Flavio», adottato da molti imperatori romani, tra cui Costantino, ma che era stato assunto anche dai due re «barbari» che avevano governato l’Italia dopo la fine dell’impero d’Occidente: Odoacre e Teodorico. Molta parte della storiografia vede in questo dettaglio il segno di un profondo cambiamento nella natura stessa dell’istituzione regia presso i Longobardi e nel loro rapporto con la terra nella quale avevano fatto il loro ingresso una quindicina di anni prima. In altre parole, il fatto che il re iniziasse a fregiarsi di titolature che lo ponevano nel solco della tradizione romana è stato interpretato come un primo momento di distacco dall’originaria natura del suo potere, in quanto capo esclusivamente della sua gens, per accentuarne invece il carattere di dominio sul territorio – quello italiano – di cui i Longobardi avevano intrapreso la conquista. Insomma, secondo questo punto di vista, si tratterebbe di un iniziale passo del processo d’inclusione, sotto l’ombrello dell’autorità regia, di tutti coloro che vivevano in Italia, compresa la popolazione locale vinta.
Fibule a disco di manifattura franca, in oro con inserzioni di smalti, a formare anche disegni ornitomorfi (in basso). V-VII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
Questa idea contiene sicuramente elementi di verità, e, per rafforzarla, Paolo Diacono sottolinea come, a quel tempo, all’interno del regno dei Longobardi dominassero la pace e, soprattutto, la fiducia e il rispetto reciproco, con conseguente assenza di crimini e di delinquenza. Tuttavia, non va dimenticato che, con altrettanta chiarezza, Paolo ricorda che le popolazioni locali erano tenute in una condizione di totale sottomissione da parte dei Longobardi «ospiti», i quali se le erano spartite a seconda delle loro convenienze. L’elezione di Autari portò i Longobardi a riprendere l’iniziativa militare in Italia. Si apriva allora, verso il 585, un periodo di confronto armato fra Longobardi e Bizantini, che si protrasse fino ai primi anni del VII secolo. Sotto il regno di Autari l’episodio piú rilevante fu la conquista della fortezza di Brescello, lungo il tratto del Po compreso fra le attuali province di Parma e Reggio Emilia, che obbligò a un significativo arretramento la linea di difesa bizantina imperniata sul corso del fiume. Evidentemente, Autari riteneva indispensabile mettere sotto pressione l’impero e possiamo immaginare che fosse al corrente delle difficoltà crescenti che i Bizantini dovevano affrontare sullo scacchiere balcanico, all’interno del quale aumentava il dinamismo degli Avari e iniziava la penetrazione delle popolazioni slave. Popolazioni che – a quanto pare – l’impero cercava di assorbire con modalità non dissimili da quelle adottate nei confronti dei Longobardi subito dopo il loro ingresso in Italia, e cioè ripiegando verso le aree costiere e i capisaldi meglio difendibili.
Manovra a tenaglia
Tuttavia, l’iniziativa di Autari non poté dispiegarsi con l’efficacia voluta, perché i Bizantini rilanciarono l’alleanza con i Franchi e obbligarono i Longobardi a doversi difendere ancora una volta anche da quel versante. Nel 589-590, si allestí una spedizione, la cui imponenza richiamava quella organizzata dieci anni prima da Baduario. Questa volta, però, la manovra era stata organizzata a tenaglia, con il contemporaneo movimento di truppe bizantine da Ravenna, comandate dal generale Romano, e di contingenti franchi, provenienti da nord e da ovest. Lo scarso coordinamento dei due eserciti salvò i Longobardi dalla disfatta totale, ma gli impelongobardi
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riali riuscirono comunque a recuperare quasi tutto il terreno perduto nella Pianura Padana, riprendendo Mantova, Modena, Reggio, Parma e Piacenza (e quindi presumibilmente anche Brescello) e, in Veneto, ad ampliare significativamente, a partire dalla costa, la fascia di terre nelle loro mani.
La conquista di Classe
È però interessante osservare che, intorno al 580, compaiono per la prima volta sulla scena anche gruppi di Longobardi distinti da quelli che si muovevano nell’area padana e che erano in diretto collegamento con il re. Si tratta di nuclei stanziati nella città umbra di Spoleto e in quella campana di Benevento. I primi vengono menzionati in quanto, al comando del «duca» Faroaldo, sarebbero stati autori di un’azione militare di assoluto rilievo condotta nel cuore dei territori bizantini, che portò alla conquista di Classe, il porto di Ravenna. Questo evento dovrebbe essersi verificato intorno al 582, quando sul trono bizantino salí Maurizio, dopo la morte di Tiberio II. Ho messo tra virgolette il titolo ducale di Faroaldo, poiché è oggetto di discussione se egli sia da considerarsi appartenente alla cerchia dei duchi che gravitavano direttamente intorno al re, ovvero se fosse il capo di un gruppo di Longobardi che (forse anche entrati in Italia al se44
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Sulle due pagine l’interno (in alto) e una veduta esterna del Tempietto del Clitunno. Detto anche Tempietto di S. Salvatore, l’edificio è un sacello in forma di tempio corinzio, costruito, tra il VII e l’VIII sec., con materiali di recupero romani, presso una delle sorgenti del fiume, nel Comune di Campello sul Clitunno (PG). Dal 2011 fa parte del Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO.
guito di Alboino) avevano però agito in modo autonomo, magari ponendosi al servizio dei Bizantini. La cosa è tutt’altro che impossibile, poiché Paolo Diacono menziona contemporaneamente l’esistenza di un altro «duca», di nome Droctulf, che aveva abbandonato i Longobardi e aveva combattuto al servizio dell’impero (forse già durante la spedizione di Baduario) e al quale si dovrebbe, tra l’altro, la riconquista di Classe, intorno al 585. Altre considerazioni spingono a ritenere molto probabile che le cose possano essere andate effettivamente cosí. Innanzitutto, sembra poco verosimile che un attacco alle porte di Ravenna possa essere stato mosso senza che il re vi fosse in qualche modo direttamente coinvolto. In secondo luogo, Paolo Diacono, riportando il testo dell’epitaffio di Droctulf, che fu sepolto nella basilica di S. Vitale a Ravenna, ricorda che in esso si affermava che Classe era stata presa da Faroaldo «con l’inganno». Ciò potrebbe far presupporre che le sue truppe si trovassero in quella zona, magari insieme ad altri contingenti bizantini e che, ammutinatesi per qualche ragione rimasta sconosciuta, fossero riuscite a impadronirsi del porto di Ravenna. Piú o meno nello stesso periodo il Liber Pontificalis racconta che i Longobardi avrebbero posto per la prima volta l’assedio a Roma. Se, come si è detto per l’assalto a Classe, un’azione del
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genere avesse coinvolto direttamente l’esercito del re, Paolo non avrebbe mancato di parlarne. Ma è da credere che, anche in questo caso, si possa essere trattato di un’iniziativa presa da gruppi (forse gli stessi Spoletini?) che agivano in modo indipendente, ma ancora entro il quadro di rapporti di subordinazione con il governo imperiale, facendo pressione su di esso per ottenere trattamenti economici piú favorevoli.
Una lancia per segnare i confini
Il mistero della natura di queste incursioni può essere chiarito attraverso le parole di Paolo Diacono. Poco dopo aver riferito dell’assalto a Classe, egli riporta la notizia di una spedizione condotta da Autari nel Centro-Sud dell’Italia. È improbabile che essa sia effettivamente avvenuta, ma quel che incuriosisce sono gli obbiettivi che avrebbe avuto: la «conquista» di Benevento, effettuata passando attraverso Spoleto e il raggiungimento nientemeno che dello Stretto di Messina, dove il re avrebbe piantato la sua lancia, dichiarando che sin lí sarebbero giunti «i confini dei Longobardi». L’impressione che si trae da questo passo è che Paolo abbia in realtà voluto alludere alla presenza di nuclei di Longobardi stanziati lungo la Penisola che sfuggivano all’autorità del re, probabilmente perché inquadrati come mercenari nell’esercito bizantino. Gruppi nei confronti dei quali il sovrano dovette intervenire in qualche modo per guadagnarli al proprio campo, magari riconoscendoli come «duchi» alla pari di quelli che, al seguito diretto di Alboino, si erano spartiti buona parte della Pianura Padana e, forse, anche della Tuscia. Siamo nel campo delle ipotesi, ma d’altronde appare assai meno plausibile immaginare che, mentre esaltava il successo della presa di Brescello, Paolo omettesse di attribuire alla capacità del re il merito di aver quasi messo sotto scacco Ravenna e di aver cinto per la prima volta Roma d’assedio. Il dato di fatto è che la situazione sul campo era per molti versi ancora piuttosto fluida. Sebbene i Longobardi avessero cercato di dare una legittimazione alla ricostituita autorità del re, per i Bizantini essi non erano altro che «clandestini», entrati senza permesso sul territorio imperiale. Uomini da utilizzare di volta in volta come cuscinetto in direzione del regno dei Franchi, oppure come ausiliari per il pattugliamento di specifiche aree della Penisola, o, ancora, da tentare di eliminare con mezzi propri o con l’aiuto degli stessi Franchi, quando se ne fosse presentata l’occasione (come era avvenuto nei confronti dei Goti durante le fasi finali della guerra terminata una trentina d’anni prima). D’altra parte, la compagine dei Longobardi mostrava talora qual46
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che crepa, sia perché contava al proprio interno anche elementi provenienti da altri popoli, sia perché poteva capitare che qualcuno dei capi militari accettasse di mettersi al servizio dell’impero, che era spesso in grado a tal fine di fare offerte economiche assai allettanti. In ogni caso, il superamento della situazione di emergenza che caratterizzò tutti gli anni di Autari produsse risultati importanti. Innanzitutto, restituí vigore alla diplomazia che era stata una delle armi piú efficaci utilizzate al tempo della permanenza in Pannonia. Tale azione permise di ricondurre nell’alveo della normalità i rapporti con i Franchi ma, soprattutto, di rinsaldare i rapporti con i Baiuvari, cosa che condusse, infine, al matrimonio di Autari con Teodolinda, figlia del re Garibaldo.
Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare di uno dei mosaici raffigurante alcune navi a Classe. VI sec. Intorno al 582, Classe, porto di Ravenna e strategico possedimento bizantino, fu conquistata dai Longobardi guidati da Faroaldo «duca» di Spoleto, ma venne ripresa nel 585 da Droctulf, altro «duca» longobardo al servizio dei Bizantini.
importanti su come si fosse organizzato l’insediamento dei Longobardi e quali fossero le loro strategie per il dominio del territorio italiano. Strano a dirsi, per un popolo tradizionalmente considerato del tutto privo di familiarità con la complessità delle infrastrutture ereditate dal mondo antico, l’occupazione del territorio italiano si caratterizzò immediatamente per il sistematico controllo sui centri urbani, che divennero le sedi di residenza dei duchi. In piú occasioni, per difendersi sia dai Franchi sia dai Bizantini, la carta vincente fu quella dell’asserragliarsi nelle città, evitando in genere di accettare sfide in campo aperto. Sul piano pratico, ciò significa, per esempio, che i Longobardi fossero in grado di gestire la complessa manutenzione delle strutture difensive, come fortilizi, mura, torri e porte, e di organizzare efficacemente il loro presidio e la loro sorveglianza. Questo dato dovrebbe far riflettere sulla possibilità che tali conoscenze fossero state acquisite già nel periodo precedente la migrazione in Italia. Inoltre, soprattutto relativamente alla fascia alpina, è ripetuto piú volte che al suo interno esistevano diversi piccoli centri fortificati, dislocati in punti strategici per il controllo dei percorsi viari e che vediamo passare di mano tra Bizantini, Franchi e Longobardi nelle convulse circostanze degli scontri verificatisi fra gli anni Settanta e Ottanta del VI secolo.
Il rapporto con la Chiesa
La rilevanza di questo rapporto, unita al carisma personale mostrato dalla regina negli anni trascorsi in Italia, fece sí che, al momento della morte del re, nel 590, i maggiorenti longobardi lasciassero a lei la scelta del successore, individuato nel duca di Torino, Agilulfo. Il regno di quest’ultimo, che durò per oltre un quarto di secolo (si spense nel 616), rappresentò un punto di svolta decisivo per il consolidamento della presenza longobarda in Italia e permise, grazie anche alla rilevanza dell’azione condotta da Teodolinda, l’affermazione del principio dinastico di successione al trono garantendo che, sino al 712, l’autorità regia rimanesse nelle mani del medesimo lignaggio familiare. Le pagine di Paolo Diacono e di Gregorio di Tours ci permettono di comprendere dettagli
Gli archeologi sono convinti che, sia nel caso delle città, sia in quello delle fortificazioni extraurbane, si trattasse sempre di strutture difensive risalenti al periodo tardo-romano, costruite quando era divenuto impellente munire i confini della Penisola sempre piú spesso minacciati dagli sconfinamenti dei barbari all’interno del limes. Probabilmente questa rete di presidi fu rafforzata con qualche aggiunta dovuta a Ostrogoti e Bizantini. Il dato della sistematica occupazione delle città aiuta forse a spiegare meglio un luogo comune che la storiografia tramanda sul comportamento tenuto dai Longobardi in Italia, e cioè quello della loro ostilità nei confronti della Chiesa cattolica e dei suoi vescovi in particolare. È bene ricordare, infatti, che, nel periodo tardo-antico e ancor di piú durante il VI secolo, l’autorevolezza (e quindi il potere effettivo) dei vescovi all’interno delle città aveva conosciuto un accrescimento significativo. Un potere ulteriormente incrementato dalle disposizioni di Giustiniano che avevano assegnato ai prelati precise competenze amministrative, portandoli di fatto ad affiancare le tradizionali istituzioni municipali nel governo delle città. longobardi
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L’arrivo in Italia Monza, Duomo, Cappella di Teodolinda (o degli Zavattari). Teodolinda e Autari arrivano a Verona dopo il loro matrimonio, celebrato nel 589 (a sinistra), e Autari conquista Reggio Calabria (a destra). Due particolari del ciclo di affreschi della Leggenda di Teodolinda, 45 scene che narrano la storia della regina dei Longobardi, ispirate agli scritti di di Paolo Diacono, autore della Historia Langobardorum, e di Bonincontro Morigia, autore del Chronicon Modoetiense. Gli affreschi sono opera di vari membri della famiglia Zavattari (forse Francesco, Giovanni, Gregorio e Ambrogio), che li hanno eseguiti tra il 1441-44 e il 1444-46.
È perciò molto probabile che la supposta ostilità dei Longobardi verso i vescovi e il clero in genere non fosse (o non principalmente) la conseguenza di un furore ideologico-religioso nutrito da un popolo presso il quale il cristianesimo di obbedienza romana non aveva attecchito. Essa sarebbe piuttosto il portato della scelta strategica – forse inevitabile in una terra densamente urbanizzata com’era l’Italia – che aveva individuato nel controllo delle città il perno della sopravvivenza militare – e quindi politica – dell’avventura italiana. All’interno dei centri urbani, i vescovi e l’organizzazione del clero che da loro dipendeva erano sia competitori rilevanti e potenzialmente pericolosi sul piano sociale, sia i detentori di risorse finanziarie importanti, alle quali per i Longobardi doveva essere difficile rinunciare. Infine, per le ragioni spiegate poc’anzi, la Chiesa in Italia (come in ogni altra provincia imperiale) era un’istituzione profondamente incardinata all’interno dell’apparato dello Stato. Tutti i vescovi che i Longobardi trovarono in 48
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carica al momento del loro ingresso in Italia erano stati nominati per volontà delle autorità imperiali o, quanto meno, con il loro consenso: ciò significava che ogni vescovo poteva potenzialmente costituire una «quinta colonna» all’interno delle città via via conquistate, capace di orientare l’atteggiamento delle popolazioni urbane nei confronti dei nuovi venuti, se non addirittura a tramare contro di loro, in accordo con l’impero. Questo spiega anche perché i vescovi piú importanti – quelli di Aquileia e Milano – fossero immediatamente fuggiti di fronte all’avanzare di Alboino e perché, nei confronti di quelli rimasti, l’atteggiamento non dovesse essere privo di sospetti e cautele.
Il timore di un contropotere
Tali fattori possono spiegare abbastanza bene perché i Longobardi abbiano avuto un atteggiamento di ostilità nei confronti del clero cattolico, salvo mutarlo in modo mirato nei casi in cui i suoi esponenti entravano in conflitto con l’amministrazione imperiale, come accadde per
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LUIGI MALERBA E LA LINGUA DEI LONGOBARDI Lo scrittore Luigi Malerba (1927-2008), ci ha lasciato una divertente sintesi dell’opinione maturata sui Longobardi (Diario delle delusioni, Mondadori, Milano 2009). Da ottimo conoscitore della lingua italiana, la cosa che piú lo incuriosiva era sapere come essi parlassero. Malerba giustamente evidenziava come i popoli che non hanno prodotto memorie scritte sulla loro storia siano piú facilmente destinati a essere dimenticati. I Longobardi, secondo lui, sono andati molto vicini a subire questo destino, poiché hanno sí avuto in Paolo Diacono l’autore che ne ha raccontato l’epopea, ma che, per farlo, utilizzò il latino, trasformando le parole originariamente espresse nell’idioma proprio di quel popolo in qualcosa di assai diverso, e privandoci quindi della possibilità di cogliere sino in fondo sfumature e sentimenti propri della sua «anima». Tuttavia, Malerba notava che, a cercare bene, nella nostra lingua sopravvivono molte parole riconosciute come «relitti» della variante dell’antico germanico parlata in origine dai Longobardi e che dovette rimanere in uso per un tempo sufficiente a imprimere la sua impronta nel tessuto del tardo-latino usato dagli Italiani di allora (di cui, peraltro, non sappiamo quasi nulla). Tra queste, ve ne sono alcune ancora oggi di uso comune, come (in ordine alfabetico) astio, balcone, banda, bandiera, barone, faida, gora, graffio, landa, maresciallo, russare, sguattero, spaccare, stamberga, tanfo, tregua, zanna, nonché uno degli insulti piú diffusi nell’italiano attuale, «stronzo».
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esempio alla fine degli anni Ottanta del VI secolo quando i vescovi del Nord-Est italiano si ribellarono al papa per questioni dogmatiche. Ciò che evidentemente ai Longobardi interessava non era tanto avversare in toto la Chiesa per motivi prettamente ideologici (sebbene un atteggiamento del genere possa talora essersi manifestato), quanto piuttosto evitare di trovarsi a coabitare con un’istituzione che poteva agire nei loro confronti, all’interno delle città, come un vero e proprio contropotere, ricco e ben organizzato. Nell’antica Gallia, i Franchi si erano comportati verso la Chiesa con molta maggiore prudenza e circospezione. Ciò aveva prodotto il risultato della curiosa «coabitazione», per tutto il VI secolo, dell’elemento germanico con l’aristocrazia locale, costituita da famiglie di origine romana (o gallo-romana, come preferiscono dire i Francesi), che già nel corso del V secolo avevano egemonizzato le principali sedi vescovili della regione, soprattutto quelle della sua porzione centro-meridionale. I Franchi, tuttavia, erano in una posizione molto diversa da quella dei Longobardi. L’impero d’Oriente, infatti, non poteva avere alcuna reale possibilità di riprendere il controllo sull’antica Gallia, e i re franchi avevano ufficialmente aderito al Cattolicesimo sin dalla fine del V secolo, disinnescando quindi il problema del potenziale conflitto con l’autorità della Chiesa.
Alboino a Pavia
Un’altra scena del ciclo affrescato nel Duomo di Monza, raffigurante Teodolinda che viene confermata regina dei Longobardi e ottiene di scegliere il secondo marito. Dopo la morte di Autari, avvenuta il 15 settembre del 590 forse per avvelenamento, alla regina fu permesso di scegliersi un nuovo marito, che sarebbe diventato re dei Longobardi.
Tornando all’Italia e alle sue città, un altro dettaglio di un certo interesse è quello relativo all’insediamento di Alboino a Pavia nel «palazzo di Teodorico». Ho già accennato al fatto che è probabile che il re avesse una certa conoscenza del disegno politico del re ostrogoto, benché fosse altrettanto consapevole del diverso contesto in cui si trovava a operare. La presa di possesso del palatium costituisce certamente un atto simbolicamente rilevante in questo senso, tuttavia a questo gesto non seguí l’immediata trasformazione di Pavia in «capitale» del regno, poiché Alboino continuò a vivere prevalentemente a Verona. L’occupazione sistematica delle città e l’attenzione alla loro difesa impone di affrontare con prudenza la lettura dell’impatto dei Longobardi sul tessuto insediativo dell’Italia e sui suoi abitanti solo in termini distruttivi. Sicuramente, le emergenze belliche e la necessità di proteggersi da possibili nemici interni non mancarono di portare sconvolgimenti pesanti a quanto restava della società dell’Italia tardoantica. Ma attribuire ai Longobardi un atteggiamento di esclusiva e permanente ostilità verso la popolazione locale e, soprattutto, di
ignorante disattenzione verso le infrastrutture – soprattutto quelle militari – offerte dal territorio, porterebbe a conclusioni errate e superficiali che, molto semplicemente, impedirebbero di capire come questo popolo sia stato capace di sopravvivere alla complessità e alla pericolosità delle sfide che l’invasione dell’Italia aveva sollevato. Molte delle tracce del degrado materiale delle città italiane, che l’archeologia ha posto in evidenza, erano l’effetto cumulativo di un processo di lunga durata, di cui erano stati fattori determinanti prima la lunga crisi politica ed economica dell’impero d’Occidente e poi il prolungato stato di guerra che la Penisola aveva conosciuto nei decenni centrali del VI secolo. Gli ulteriori sconvolgimenti causati dalla calata di Alboino e dei suoi nel 568 erano stati solo gli ultimi anelli di una catena di eventi che avevano determinato un progressivo e generale arretramento delle condizioni di vita nel nostro Paese; ma la differenza di quest’ultimo episodio rispetto a quelli che lo avevano preceduto stava nel fatto che, consolidandosi la prospettiva di una loro permanenza sul territorio italiano, ai Longobardi doveva certamente interessare conservare piú che distruggere quanto essi vi avevano trovato. Affermare ciò non significa edulcorare la durezza di tempi nei quali pochi di noi avrebbero voluto vivere o attribuire ai Longobardi generiche attitudini di tolleranza e benevolenza, bensí solo esaminare lo scenario dell’epoca alla luce della logica. Il quadro offerto dall’analisi delle vicende riferibili alla prima fase della presenza longobarda in Italia trasmette senza dubbio la sensazione di un momento storico caratterizzato da un quadro geopolitico in continua evoluzione, in cui però, a momenti di forte tensione militare, se ne alternavano altri grazie ai quali, giorno dopo giorno, i nuovi venuti poterono assestarsi nel territorio conquistato. Se l’impatto fu certamente duro per le popolazioni locali (soprattutto dell’Italia settentrionale), reduci da decenni di instabilità e guerre, per i conquistatori non dovette essere meno complessa la sfida dell’adattamento alla nuova realtà. Si deve però dire che essi affrontarono questo processo con determinazione: mettendo a frutto, probabilmente, anche le esperienze politiche e belliche accumulate nei decenni precedenti, i Longobardi riuscirono ad affermarsi con successo. Abbiamo visto che già prima della sua discesa in Italia questo popolo aveva mostrato di essere tutt’altro che un «pesce fuor d’acqua» all’interno del complesso contesto dell’Europa tardo-antica. Le vicende posteriori al 568 confermano senza dubbio questa impressione. longobardi
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le necropoli
Morti che
parlano Molto di quel che oggi sappiamo sui Longobardi si deve all’archeologia e, in particolare, allo scavo delle aree cimiteriali: i corredi funebri, infatti, riflettono l’identità e il rango dei defunti e rivelano informazioni preziose per ricostruire il modus vivendi del popolo «dalle lunghe barbe» In questa pagina gioielli e complementi del vestiario, tra cui una fibula ad arco in argento dorato e pietre dure, da una tomba femminile della necropoli gota di Frascaro (AL). VI sec. Torino, Museo di Antichità. Nella pagina accanto il corredo funebre recuperato nella tomba 53 della necropoli longobarda di Collegno (TO), appartenente a un cavaliere e comprendente armi in ferro con elementi dorati, una crocetta in lamina d’oro, uno sperone, guarnizioni da cintura ageminate e altri reperti in metallo e osso. 610-630 circa. Torino, Museo di Antichità.
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Le necropoli
I
segni dell’insediamento dei Longobardi sul territorio italiano si colgono soprattutto attraverso le loro necropoli. Alcune sono direttamente collegate alle città via via occupate, come Cividale del Friuli, Verona, Brescia o Benevento. Ma la maggior parte di esse è stata rinvenuta in aree rurali (talora anche presso centri fortificati di piccole dimensioni), soprattutto nella Pianura Padana, con qualche piú sporadico – ma in alcuni casi importantissimo – ritrovamento avvenuto nelle regioni dell’Italia centrale, fra la Toscana, l’Umbria, le Marche e il Molise. Solo in pochi casi (come quelli piemontesi di Collegno, vicino Torino, e di Frascaro e Mombello, vicino Alessandria), si è potuto comprendere a quali insediamenti le necropoli fossero riferibili. Si trattava di villaggi di capanne lignee posti a poca distanza dall’area funeraria, che dovevano apparire in tutto simili alla maggioranza degli abitati rurali che caratterizzano il territorio italiano nell’Alto Medioevo. I due esempi piemontesi erano agglomerati di piccole dimensioni, abitati da pochi nuclei familiari, dei quali è difficile dire se fossero protetti da apparati difensivi, come per esempio una palizzata in legno. Come narra Paolo Diacono all’inizio del II libro dell’Historia Langobardorum, Alboino insediò a Cividale del Friuli suo nipote Gisulfo, il quale chiese al re che, insieme alla città gli venisse concesso di disporre di un certo numero di «fare» che lo affiancassero nel presidio della città e del territorio. Paolo spiega che il termine fara designava «i gruppi o le discendenze familiari» che evidentemente avevano seguito il re e i suoi piú vicini collaboratori nel cammino dalla Pannonia in Italia. Successivamente, quando ricorda il momento dell’elezione a re di Autari, egli annota che tutti i duchi, per garantire al sovrano e al suo seguito i mezzi necessari all’espletamento delle proprie mansioni, cedettero
alla corona la metà delle loro terre. Possedimenti sui quali vivevano sicuramente gli abitanti nativi dell’Italia, ma dove dobbiamo presumere si fossero stanziate anche le fare dei Longobardi capeggiate dagli uomini liberi – tali perché in grado di combattere – che, attraverso le terre concesse dai duchi e poi dai re, garantivano la sussistenza propria e delle loro famiglie.
Qualche problema... fiscale
La diretta disponibilità di terre nelle mani del re e dei duchi rivestiva un ruolo cruciale per la sopravvivenza delle strutture politico-istituzionali del regno. Una delle conseguenze piú rilevanti del passaggio di vaste aree dell’Italia dai Bizantini ai Longobardi fu, infatti, l’incapacità dei secondi di mantenere in vita il sistema di riscossione dei tributi fiscali organizzato dall’amministrazione imperiale. Questo cambiamento è uno dei fenomeni piú caratterizzanti del passaggio dal mondo antico a quello medievale, poiché muta in profondità la natura stessa delle compagini statali e i rapporti fra i vertici del potere e le popolazioni. Le risorse per il mantenimento del personale – militare e non – al servizio diretto di re e du-
In questa pagina materiali provenienti da tombe longobarde scavate nel territorio di Fiesole. Una fibbia di cintura in argento ageminato (in alto) e alcuni calici in vetro soffiato. VII sec. Fiesole, Museo Civico Archeologico.
Ricostruzione della tomba longobarda detta del «maestro d’ascia», rinvenuta nella necropoli dell’Area Garibaldi, a Fiesole, e ricostruita nel locale Museo Civico Archeologico.
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Miniatura raffigurante il re longobardo Rotari che emana il suo editto (643), dal Codex legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni (SA), Biblioteca dell’Abbazia della SS. Trinità. 56
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chi e delle (poche) infrastrutture la cui sopravvivenza era ritenuta ancora essenziale – come le loro stesse residenze, le fortificazioni e alcuni assi stradali – dovevano perciò provenire dallo sfruttamento delle terre appartenenti ai demani costituiti nelle aree conquistate. I demani appartenenti ai duchi si estendevano nel territorio di pertinenza di ciascuno di essi, mentre quello
regio – essendo stato formato dalle cessioni operate da ogni duca in favore del sovrano – si distribuiva in tutto il territorio del regno e aveva quindi un’estensione e un’articolazione molto piú vaste e complesse. Fu dunque creata una categoria ad hoc di funzionari alle dirette dipendenze del re, i gastaldi, incaricati di amministrare le terre regie presen-
ti nei diversi comprensori territoriali. Poiché finirono per risiedere nei medesimi centri in cui erano acquartierati anche i duchi, i gastaldi costituirono in molti casi la longa manus attraverso la quale i re controllavano l’attività di questi ultimi e, soprattutto, la loro lealtà nei propri confronti. A Cividale del Friuli, per esempio, nel ristretto spazio racchiuso dalle mura della città, sorgevano – quasi fianco a fianco – la corte del duca e la residenza del gastaldo.
L’Editto di Rotari
Sulle terre demaniali, quindi, risiedevano sia gruppi di persone di stato libero alle quali re e duchi avevano concesso appezzamenti di terreno come compenso per il servizio in armi che da essi si aspettavano di ricevere in caso di guerra, sia contadini (in genere di origine romana) di stato servile o semilibero, dal cui lavoro nei campi provenivano le rendite destinate al sostentamento dei loro signori. Dobbiamo immaginare che duchi e gastaldi disponessero di personale al proprio servizio, il cui compito era quello di seguire la gestione e l’amministrazione delle terre di loro proprietà, in modo che ne fosse stabilmente assicurata la redditività. Le fonti non offrono molti altri appigli e termini di confronto con i dati archeologici per quanto riguarda la natura e l’aspetto degli insediamenti longobardi sul territorio. Qualche prezioso indizio viene però dalle norme giuridiche inserite nel cosiddetto «Editto di Rotari», il codice di leggi emanate dall’omonimo sovrano intorno alla metà del VII secolo. In questo testo il mondo rurale la fa da padrone, con moltissimi dei suoi capitoli che trattano temi quali la protezione del bestiame, degli alberi, delle coltivazioni e degli attrezzi da lavoro; una riprova della centralità dell’economia agropastorale nella vita dei Longobardi e del fatto che la maggior parte di essi, con i loro servi e collaboratori, erano direttamente impegnati nelle attività a essa collegate. In alcuni casi troviamo anche accenni alle caratteristiche delle abitazioni che (in conformità con i dati archeologici) indicano come l’uso del legno per la loro costruzione e rifinitura fosse estremamente diffuso. Le case dovevano abitualmente disporre di corti e aie ed essere attorniate da orti e l’area residenziale nel suo complesso poteva essere delimitata da siepi e palizzate. La costruzione di questi edifici, benché richiedesse una manualità tutt’altro che trascurabile, era però per la massima parte possibile con l’impiego di mezzi, strumenti e materiali alla portata di tutti. Essa risultava perciò perfettamente idonea a un contesto in cui era in buona parte venuto meno il sistema di approvvigionamento di materiali da co-
struzione «pesanti» (come pietra, laterizi e calce) tipici dell’età romana. Tuttavia, in alcuni casi si è sollevato il dubbio che la prevalenza di questo genere di edilizia potesse derivare anche da fattori diversi da quelli prettamente logistici. Nella necropoli di Trezzo sull’Adda, non lontano da Milano, l’insediamento dell’area funeraria longobarda avviene, alla fine del VI secolo, entro i resti di una villa romana. Dato che, anche in questo caso, è lecito supporre che l’abitato in cui risiedeva la popolazione che utilizzava il cimitero non dovesse trovarsi a molta distanza, si può immaginare che la trasformazione della villa in area di sepoltura fosse l’esito della dismissione intenzionale degli edifici. Ma questa scelta fu causata, ancora una volta, dai problemi derivanti dalla gestione di strutture complesse e difficili da mantenere in efficienza o non, piuttosto, da fattori piú prettamente «culturali», e cioè dalla volontà di abitare entro edifici, come le capanne lignee, piú direttamente legati alle consuetudini tradizionali dei Longobardi? Il dibattito su questo problema rimane aperto, cosí come lo è ancora quello su come le necropoli possano aiutare a comprendere l’organizzazione e i costumi della società longobarda.
Le prime esplorazioni
Alla fine dell’Ottocento si ebbero i primi ritrovamenti di aree funerarie con sepolture nelle quali i defunti erano accompagnati da oggetti le cui caratteristiche estetiche li avevano fatti interpretare come ornamenti distintivi della cultura longobarda. In altre parole, chi li avesse posseduti e indossati si sarebbe qualificato come appartenente al popolo dei Longobardi. Si tratta in genere di oggetti di ornamento personale, come fibbie per cinture, fibule per trattenere gli abiti, ma anche tipi specifici di armi, come lo scramasax, una spada di media lunghezza a un solo taglio, o gli «scudi da parata», di forma circolare e decorati con elementi metallici raffiguranti animali o altri simboli. L’attribuzione di questi cimiteri ai Longobardi derivava dal fatto che nelle sepolture sono stati di frequente rinvenuti oggetti facilmente databili (come le monete), che quindi permettevano di collocarle cronologicamente al periodo successivo all’invasione dell’Italia. Ma un fattore decisivo per la loro interpretazione è stato anche quello dell’identità che tali manufatti presentavano con oggetti rivenuti entro necropoli situate nelle aree occupate dai Longobardi prima del loro ingresso in Italia, nonché quello delle affinità stilistiche con oggetti analoghi, scoperti in sepolcreti attribuiti ad altre popolazioni germaniche penetrate nei territori dell’impero (come i Goti e i Franchi). longobardi
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La conclusione tratta da queste testimonianze è che la presenza di sepolture (sia maschili che femminili) contenenti oggetti di questo tipo riveli la presenza di defunti di etnia longobarda. Essi venivano abbigliati al momento della deposizione con il costume tipico della loro gente, abbellito con gli oggetti di ornamento piú preziosi e caratteristici, affinché il transito nell’aldilà fosse garantito nella maniera piú dignitosa e coloro che partecipavano al funerale potessero senza incertezze riconoscerne – anche a beneficio dei familiari rimasti in vita – l’appartenenza al proprio popolo e il rango.
Un’identità sfuggente
L’attitudine a deporre oggetti di corredo nelle sepolture, e anche ad abbigliare i defunti con i distintivi ornamenti appena descritti inizia a rarefarsi nel corso della seconda metà del VII secolo, per poi scomparire del tutto tra la fine di questo secolo e l’inizio del successivo. Torneremo piú avanti ad affrontare questo problema. Rimanendo però nell’ambito della fase piú antica dell’insediamento longobardo, è bene ricordare che gli studi piú recenti hanno condotto riflessioni assai approfondite sul significato dei corredi tombali e sulla possibilità che gli oggetti che li compongono possano effettivamente essere rivelatori dell’identità etnica dei defunti. In particolare, si è posto in evidenza come nei cimiteri «longobardi» le tombe dotate di corredo – e in particolare di quelli composti da oggetti numerosi e preziosi o comprendenti armi – costituiscano in genere una minoranza rispetto all’insieme delle sepolture presenti. Inoltre, si è potuto constatare come spesso l’impianto di aree funerarie nelle quali s’installano anche tombe contenenti corredi «longobardi» risalga a periodi anteriori alla discesa in Italia di questo popolo. Ancora, è stato rilevato che gli oggetti di corredo considerati tipicamente «longobardi» sono quasi sempre affiancati da altri (come monete, gioielli, vasellame ceramico o metallico) di provenienza sicuramente bizantina e che, addirittura, alcuni manufatti di ornamento personale ritenuti fra i piú tipici della cultura longobarda (come alcuni tipi di fibbie), potrebbero essere stati prodotti da officine situate in territorio bizantino. Queste considerazioni hanno portato ad attenuare la validità di alcune posizioni sostenute dai primi esploratori dei cimiteri longobardi e, soprattutto, quelle che volevano questo popolo ermeticamente chiuso ai contatti con la realtà locale, serrato in una conservazione dei propri costumi e impermeabile agli influssi esterni. In realtà, le due polarità di questa discussione non sono affatto incompatibili fra loro. In particolare, il quadro che sembrano rappresentare 58
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le aree funerarie a oggi indagate e ascrivibili a questo periodo riflette la complessità di una situazione in cui le modalità d’interazione fra i conquistatori e la popolazione locale dovevano essere molto diversificate. Il fatto che solo in alcune delle sepolture siano solitamente presenti oggetti stilisticamente riferibili a culture di ambito germanico in senso lato – eventualmente associati (per gli individui di sesso maschile) ad armi –, e che la ricchezza e l’articolazione di questi corredi non sia uniforme neppure all’interno della medesima necropoli costituisce, molto semplicemente, un duplice indizio: da un lato è la prova della differenziazione di rango tra i componenti della popolazione longobarda, dall’altro dimostra che la coabitazione con le genti locali era piú stretta di quanto inizialmente immaginato. Tuttavia, ciò non significa che le differenze non esistessero e che non fosse ben chiaro chi, in vario modo, appartenesse alla compagine dei conquistatori (e quale ruolo vi rivestisse) e chi alla categoria dei conquistati. È stato, per esempio, evidenziato come la disposizione delle tombe nelle necropoli suggerisca che le sepolture fossero divise in comparti, ciascuno riferibile a gruppi ben precisi di persone, presumibilmente legate da vincoli di sangue e da rapporti gerarchici (magari comprendenti anche quelli fra «padroni» longobardi e «servi» reclutati fra la popolazione autoctona). E ciò potrebbe indicare che, pur nella prossimità fisica, le differenze di status e di ruolo non sfuggissero alle persone che avevano i loro cari sepolti all’interno dello stesso cimitero, magari a poca distanza gli uni dagli altri.
Frammenti e ricostruzione grafica dello scudo da parata longobardo rinvenuto in una sepoltura a Stabio (Svizzera), con la collocazione delle borchie (1), comprese quelle dell’umbone (2), piú piccole e con croce incisa al centro, e delle laminette figurate in bronzo dorato punzonato, facenti parte della decorazione. VII sec. Berna, Museo Storico. Le lamine rappresentano un cavaliere armato di lancia, un animale (forse un cane), un kantharos (coppa a due manici), tre elementi lanceolati (3) e un elemento vegetale, interpretato come albero della vita.
Oggetti «etnicamente» connotati
È stato anche sottolineato che lo stesso concetto dell’«essere longobardo» doveva basarsi su elementi assai piú fluidi e complessi dell’appartenenza «etnica». Potevano infatti esserci Romani che erano riusciti a farsi riconoscere e includere fra i Longobardi come membri del proprio popolo e nessuno ci assicura che, fra i defunti i cui corpi sono circondati di oggetti «etnicamente» connotati, non rientrassero anche persone la cui vita avesse conosciuto un destino di questo tipo. La migrazione dei Longobardi portò con sé anche gruppi che appartenevano ad altri popoli e di cui non è nota la posizione sociale all’indomani della conquista: una volta insediati sul territorio italiano, costoro furono inquadrati in una posizione simile a quella dei Longobardi? E, fra i «non autoctoni», quale ruolo fu assegnato ai Goti eventualmente sopravvissuti alle guerre combattute in Italia sino a pochi anni prima? Furono trattati come i (segue a p. 62)
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lo scudo di stabio 3
Manufatto certamente destinato a un personaggio di rango elevato, questo celebre scudo da parata associa elementi decorativi antropomorfi e zoomorfi a motivi simbolici e geometrici
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A destra rilievo della tomba femminile n. 17 della necropoli longobarda di Nocera Umbra (PG), con la posizione degli elementi di corredo. Tutti i reperti provenienti dal sepolcreto sono conservati a Roma, presso il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.
In questa pagina collana in oro e grani di pasta vitrea, con monete utilizzate come pendenti (in alto) e coppia di bicchieri in vetro in forma di corni potori (al centro), dalla tomba n. 17 di Nocera Umbra. VI sec. A destra fibula ad arco in argento, proveniente dalla tomba n. 162 di Nocera Umbra. VII sec. 60
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Qui sotto rilievo delle tombe maschili nn. 111 (a sinistra) e 32 della necropoli longobarda di Nocera Umbra (PG), con la posizione degli elementi di corredo. A destra vasi in ceramica con decorazione impressa a stampiglia, uno dei quali proveniente dalla tomba 32. VI sec.
In basso particolare di una spada in ferro damaschinato, con impugnatura a lamine d’oro decorate con cerchietti e intrecci in filigrana, dalla tomba 32. VI sec.
I corredi di Nocera Umbra costituiscono un tesoro tra i piĂş ricchi e spettacolari a oggi mai rinvenuti longobardi
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Romani? O furono invece oggetto di una considerazione diversa, in nome di una comune appartenenza alle stirpi germaniche? Queste riflessioni hanno indotto a superare l’idea che le necropoli «longobarde» siano lo specchio di una società divisa in compartimenti stagni. Resta però il fatto che la presenza degli oggetti deposti nelle tombe e la loro diversità quantitativa e qualitativa non possono che rimandare a una caratterizzazione di ruolo e di status del defunto e di chi, a diverso titolo, vi era in relazione. E la peculiarità di alcuni di questi oggetti, legati strettamente al modo in cui la persona veniva abbigliata al momento della sepoltura, rimanda alla volontà che essa apparisse ben distinguibile per la sua ricchezza e, limitatamente agli individui di sesso maschile, per la sua capacità di portare liberamente le armi. È difficile pensare che queste caratteristiche, all’interno di un contesto storico delineato con chiarezza dalle fonti scritte, non siano da connettere con l’appartenenza del defunto al popolo che stava via via assumendo il controllo di buona parte dell’Italia.
A destra ornamento da sella in lamine d’oro decorate a sbalzo con elementi zoomorfi e intrecci, dalla tomba n. 119 della necropoli longobarda di Castel Trosino (AP). Fine del VI-inizi del VII sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Al centro sono rappresentati due leoni affrontati e, sotto di essi, due grifi, ai lati due draghi con le fauci aperte.
Oggetti da esibire e fare propri
È comunque interessante rilevare come, alla costruzione dell’identità dei vincitori, contribuisse anche l’esibizione di oggetti di pregio prodotti in campo nemico. Nei casi in cui essi sono attestati, è impossibile ricostruirne la provenienza, ovvero se fossero stati acquisiti come prede di guerra, attraverso il commercio o per altre vie. Il dato che s’impone è comunque quello dell’interesse che essi rivestivano e che, anche nel caso di monete con le effigi degli imperatori d’Oriente (magari riutilizzate come parti di monili), non ne impediva l’uso come oggetti da esibire e quindi, in un certo senso, da fare propri. Anche per questo fenomeno sono state fornite spiegazioni diverse: che essi potessero simbolicamente apparire come trofei strappati al nemico, ovvero che, al contra-
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rio, costituissero il segno di un senso d’ammirazione verso la civiltà dei Romani; oppure, ancora, che venissero semplicemente apprezzati per le proprie qualità estetiche, senza che fosse conferito loro un significato particolare, e che quindi siano solo rivelatori del desiderio di ostentare la capacità di possedere oggetti preziosi. Tutto sommato, ognuna di queste spiegazioni può convivere con le altre. Ma ciò che merita di essere rilevato è che sia questi oggetti, come anche quelli che potremmo sbrigativamente definire «di foggia longobarda», erano destinati a essere sottratti alla vita e all’uso nel momento in cui venivano chiusi in una tomba insieme al defunto. Anche per questo comportamento sono state fornite diverse spiegazioni, tra cui quella – generalmente condivisa dagli archeologi – che interpreta questo rituale come l’espressione di uno «spreco funzionale». S’intende con ciò che il congelamento in eterno di questi oggetti preziosi, oltre a celebrare la personalità del defunto e quindi, indirettamente, dei suoi familiari, costituiva un’esibizione di ricchezza: la possibilità di privarsi di beni costosi era il segno del fatto che di essi non si aveva bisogno, poiché i discendenti se ne sarebbero potuti procurare
In basso fibula in oro con decorazione a sbalzo, di manifattura longobarda. Udine, Castello, Civici Musei e Galleria d’Arte Antica, Museo Archeologico. Nella pagina accanto, in basso fibula in argento a forma di cavallo, dalla tomba n. 121 di Castel Trosino. VII sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.
facilmente di altrettanto splendidi e dispendiosi. Tale teoria è sicuramente plausibile, anche se lascia un po’ ai margini la componente religiosa della visione del dopo-morte, all’interno della quale doveva rivestire un ruolo non secondario il bisogno di avviare il defunto in una cornice di massima dignità verso il suo viaggio nell’oltretomba. L’analisi del rapporto fra aspetto materiale e oggetti contenuti nella sepoltura, memoria del defunto e visione religiosa dell’aldilà ha un ruolo importantissimo anche per quanto concerne il tema dell’avvicinamento dei Longobardi al cristianesimo. È stato oggetto di lungo dibattito il livello di diffusione della religione cristiana nelle fila di questo popolo al momento della sua entrata in Italia.
Cristiani o pagani?
Sappiamo dalle fonti scritte che, almeno dalla fine del V secolo, la religione cristiana aveva iniziato a trovare adepti al suo interno. È, però, davvero impossibile stabilire in che misura si fosse diffusa e se, similmente a quanto vediamo accadere presso altri popoli protagonisti delle migrazioni dell’età
tardo-antica, i sovrani abbiano giocato un qualche ruolo nel promuovere o nello scoraggiare l’avvicinamento a essa. Abbiamo visto che, ancora nella seconda metà del VII secolo, l’Origo Gentis Langobardorum conferisce un notevole rilievo alle tradizioni religiose non cristiane. Esse sono qui proposte come elemento di coesione identitaria del popolo longobardo. Nel mostrare il rapporto intrattenuto dai sovrani con le antiche divinità «pagane», il testo intende chiaramente rafforzarne l’autorevolezza nei confronti dei loro sudditi. Tuttavia, almeno sino a tutta la prima metà del VII secolo, la posizione dei re longobardi in ambito religioso resta sostanzialmente sfumata. E non è semplice comprendere, per esempio, se essi vedessero nella diffusione presso la propria gente della religione cattolica, seguita dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, una minaccia piú che un’opportunità. È invece certo che, sul fronte opposto, alla fine del VI secolo, la Chiesa di Roma, stando alle parole di papa Gregorio Magno (590-604), aveva iniziato ad assumere nei conlongobardi
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IL CONCETTO DI ETNOGENESI E LA FORMAZIONE DEI POPOLI «BARBARI» Nei decenni a noi piú vicini si è molto discusso sulla natura e sulla composizione dei popoli e dei gruppi che entrarono nell’impero romano, sostituendosi poi a esso nella sua parte occidentale. Il dibattito è complesso e non privo di ambiguità, in parte insite nella natura stessa dei materiali (fonti scritte e archeologiche) di cui disponiamo. Un tempo si credeva che ogni popolo fosse costituito da compagini ben definite, in grado di distinguersi per la comune appartenenza di costumi e di discendenze familiari sedimentatesi nel tempo, che avrebbero coinvolto paritariamente tutti i loro componenti, permettendo cosí che si mantenessero ben distinti gli uni dagli altri. Piú recentemente, si è invece fatta strada la convinzione che gli agglomerati dei popoli «barbari» siano il risultato di fattori diversi, tra i quali avrebbe rivestito particolare importanza la capacità di gruppi dominanti di costruire (in genere dopo il loro arrivo sul suolo romano)
un nucleo di tradizioni, in grado di giustificare e legittimare il loro diritto a esistere e comandare, che veniva fatto risalire a epoche di venerabile antichità e che era funzionale al consolidamento di un’identità capace di competere con quella del mondo romano. In quest’ottica, la composizione dei «popoli barbarici» sarebbe sempre stata caratterizzata da una natura «aperta», in grado di assorbire elementi esterni e cederne di propri, all’interno di un continuo processo di rimodellamento della propria base demica, regolato al vertice dalla capacità dei gruppi dominanti di costruire rapporti di fedeltà personale e militare. Secondo questa interpretazione, anche l’incontro fra «Romani» e «barbari» sarebbe perciò stato caratterizzato da dinamiche di integrazione e di scambio assai fluide, all’interno delle quali gli scontri sarebbero stati determinati da interessi ed equilibri politici prodottisi volta per volta, piú che da contrapposizioni radicali e profonde,
fronti dei Longobardi atteggiamenti fortemente negativi, proprio per la loro estraneità alla vera fede, che li rendeva paragonabili a una forza demoniaca.
Gli anatemi di papa Gregorio
Gregorio aveva piú volte esposto questa sua visione nelle lettere indirizzate agli imperatori di Bisanzio e ai loro rappresentanti italiani, con lo scopo di vincerne le esitazioni nell’organizzare adeguate risposte alla minaccia militare che Roma stava subendo, agli inizi degli anni Novanta del VI secolo, soprattutto da parte dei Longobardi di Spoleto. Per questo motivo, una parte della critica storica ha ritenuto che gli anatemi del pontefice avessero soprattutto la funzione «tattica» di sollecitare il governo imperiale a un maggiore impegno per la salvaguardia dell’Urbe e non corrispondessero a un effettivo sentimento antilongobardo, né a una vera ostilità ideologico-religiosa. In ogni caso, il papa aveva espresso gli stessi concetti anche in omelie recitate nelle chiese di Roma. È quindi verosimile che egli vedesse veramente nei Longobardi un elemento di sovversione dell’ordine legittimo, rappresentato dall’impero, e considerasse con orrore l’idea di finire nelle loro mani, insieme a tutta la città di Roma. 64
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magari alimentate dalla consapevolezza di differenze di tipo «razziale». Ne sarebbero prova l’assorbimento da parte dei Romani (soprattutto nelle aree di frontiera) di modi e stili di vita delle popolazioni «esterne» (per esempio gli abiti e le tecniche di combattimento) e, da parte di queste ultime, di ideologie del potere e credenze religiose proprie dell’impero. Da ciò è discesa la posizione che nega il concetto stesso di conflitto fra Romani e popoli migratori e parla piuttosto di progressiva trasformazione del mondo romano e che, alla dizione di «regni romanobarbarici», preferisce quella di «Kingdoms of the Empire» e cioè di regni che si sostituirono al sistema imperiale attraverso processi affidati piú alla mediazione che allo scontro. Il risultato sarebbe quindi stato quello della costruzione ex post delle identità e delle denominazioni stesse dei singoli popoli, spesso influenzato anche dalla visione che di essi aveva elaborato il mondo romano,
all’interno di un processo definito di «etnogenesi». Questa interpretazione generale ha avuto il pregio di porre in evidenza la complessità dei fenomeni di interazione verificatisi nel mutevole e complesso scenario europeo e mediterraneo nel corso del lungo periodo in cui si svolsero le migrazioni in direzione delle terre dell’impero. Essa ha quindi condotto ad accantonare per sempre vecchi modelli che finivano per ridurre queste intricate vicende alla stregua di un confronto fra cowboy e indiani, cosí come le avrebbe narrate un western degli anni Trenta. Tuttavia, tale sistema interpretativo non ha mancato di generare anche reazioni critiche. In particolare, esse hanno rilevato che non è possibile ridurre a meri fattori contingenti o di calcolo politico il verificarsi degli scontri fra «Romani» e «barbari» o fra gruppi diversi di «barbari», ma che essi erano anche il risultato del riconoscersi reciprocamente diversi – e quindi molto spesso ostili – gli uni rispetto agli altri, e ciò in base
Nella pagina accanto Serralunga di Crea (AL), basilica di S. Maria Assunta. Gregorio Magno in un particolare dell’affresco della cappella di S. Margherita d’Antiochia. Opera del Maestro di Crea, 1474-1479. Nonostante gli stretti rapporti con la regina Teodolinda, fervente cattolica, il pontefice vedeva nei Longobardi un elemento di sovversione all’ordine, in quanto estranei alla vera fede e, soprattutto, non rispettosi della libertà e del prestigio della Chiesa.
all’esistenza di un’autocoscienza collettiva e condivisa che non poteva derivare esclusivamente da elaborazioni costruite dalle élite. In tal senso si è sottolineata sia la continuità nel tempo della presenza di manufatti riconoscibili come «propri» di specifici gruppi (e quindi distintivi dei medesimi rispetto ad altri), sia il fatto che di molte gentes barbariche (inclusi gli stessi Longobardi) la storiografia romana ha tracciato l’esistenza per tempi e spazi troppo estesi perché si possa accettare senza riserve il modello di una continua decostruzione e ricostruzione dell’identità dei singoli popoli. Altrettanto, sono stati mossi rilievi a una ricostruzione dell’impatto dei popoli entrati all’interno dell’impero troppo sbilanciata sui concetti di «mediazione» e «accoglienza», sottovalutando i traumi e le cesure anche drastiche che esso ha prodotto nelle condizioni di vita degli «invasori» e degli «invasi». Di conseguenza, è stata anche
Nel determinare questa visione delle cose, i fattori politici e quelli prettamente religiosi agivano senza dubbio in modo concorrente e intrecciato. Per comprendere meglio questo aspetto, basti pensare che nei confronti degli Ostrogoti – che pur essendo cristiani erano seguaci dell’eresia ariana – i papi non espressero mai atteggiamenti assimilabili a quelli riservati da Gregorio Magno ai Longobardi. Ciò dipendeva dal fatto che Teodorico era entrato in Italia attraverso un accordo con il governo imperiale e aveva evitato di assumere atteggiamenti ostili nei confronti della Chiesa. Agli occhi del papa, quindi, il problema principale non era di per sé l’estraneità dei Longobardi alla comunione con la Chiesa cattolica. Destava preoccupazione piuttosto il fatto che l’ingresso di questo popolo sul suolo italiano fosse avvenuto in modo tale da mettere a repentaglio la stabilità di un quadro istituzionale e di relazioni politiche, emersi sin dall’età dell’imperatore Costantino, attraverso cui la Chiesa di Roma aveva potuto imporre la propria centralità all’interno dell’antico mondo romano. Questo sgomento giustificava gli accenti apocalittici che traspaiono dalle parole di papa Gregorio e che contribuivano a formare un giudizio sui Longobardi che andava ben al di là
contestata l’idea che la fine dello Stato romano in Occidente possa essere descritta semplicemente come una «trasformazione», in qualche modo minimizzando sia gli shock culturali che avrebbero caratterizzato la fine del mondo antico, sia le conseguenze epocali sugli standard dell’economia, della demografia e dell’organizzazione sociale rilevate chiaramente dall’indagine archeologica nel corso dei due secoli (il V e il VI) in cui tale processo si è verificato. Quella del passaggio fra l’antichità e il Medioevo è indubbiamente una materia fra le piú complesse con cui la storiografia deve tuttora misurarsi e costituisce un «oggetto» sul quale si proiettano anche suggestioni e paure proprie dell’Occidente contemporaneo. La persistenza di interpretazioni assai differenziate è il segno di quanto sia difficile – ma allo stesso tempo affascinante – tentare di proporre modelli che la possano descrivere in modo pienamente soddisfacente.
della mera valutazione degli aspetti di natura dogmatica e religiosa. Il pontefice doveva avere ben chiari i problemi – di cui abbiamo già parlato – affrontati dai vescovi residenti nelle aree occupate dai Longobardi ed essi gli dovevano apparire come la conseguenza un intollerabile atteggiamento di sopraffazione del prestigio e della libertà della Chiesa, oltre che della sua stessa integrità economica. Nella realtà quotidiana, tuttavia, il rapporto fra i Longobardi e il cattolicesimo (e, piú in generale, la fede cristiana) si faceva piú intenso e complesso, mano a mano che alla prima generazione che aveva partecipato all’invasione si sostituivano quelle di chi era ormai nato sul suolo italiano.
L’enigma delle crocette
In diverse sepolture, soprattutto fra quelle il cui corredo è piú ricco, sono state trovate crocette in oro che venivano in genere deposte sulla fronte o sul petto del defunto, cucite sul velo che in origine ne celava il volto e il corpo. Si tratta di oggetti di difficile interpretazione, poiché i riferimenti cristiani che la loro forma richiama si associano a decorazioni di carattere geometrico e zoomorfo tipiche dell’oreficeria dei popoli germanici, tra cui anche manufatti, longobardi
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come spille e fibule, attestate anche nei cimiteri di ambito longobardo. Recentemente, tra le posizioni di studiosi che accettano o, al contrario, negano recisamente il significato cristiano di questi oggetti, sembra farsi strada una terza chiave di lettura. Senza negare il valore religioso che una croce può assumere – soprattutto se deposta sul corpo di un defunto –, essa ne considera la presenza come l’espressione di una fase iniziale di penetrazione del cristianesimo fra i Longobardi. Delle croci si sarebbe apprezzato il valore di elemento protettivo contro le forze del male, ma senza negare la possibilità che esso fosse evocato insieme a riferimenti a consuetudini religiose riferibili alle tradizioni pre-cristiane dei Longobardi. Come è stato ben evidenziato da piú d’uno studioso, la religiosità longobarda si sarebbe infatti espressa per lungo tempo piú come una sommatoria di pratiche cultuali di origine diversa, che in termini di rigide contrapposizioni fra adesione e rigetto del cristianesimo.
Un’adesione capillare
In ogni caso lo scorrere delle generazioni, se non condusse al completo oblio delle pratiche religiose piú antiche, spinse comunque verso l’adesione sempre piú capillare alla religione cristiana di osservanza romana. Nonostante le molte cautele con cui gli archeologi oggi analizzano il significato della presenza o meno di corredi nelle sepolture, rimane abbastanza accettata l’idea che il rarefarsi della deposizione di oggetti e, soprattutto, dei manufatti considerati piú distintivi della sensibilità artistica e del costume tradizionale dei Longobardi, derivi dall’assorbimento di rituali funerari di tipo cristiano. Questo aspetto è segnalato anche dall’inserimento di cappelle cristiane all’interno delle aree cimiteriali, sebbene non sia sempre facile datarne con sicurezza il momento d’impianto. Tuttavia, solo quando i re decidono di dichiararsi ufficialmente seguaci del cattolicesimo romano i segni della sua accettazione da parte dei Longobardi si moltiplicano e iniziano a essere esibite forme di commemorazione dei defunti che mostrano perfetta aderenza con le consuetudini diffuse presso le popolazioni romane già nella tarda antichità. Il processo di avvicinamento della monarchia all’osservanza romana si era sviluppato attraverso accelerazioni e arretramenti sin dalla fine del VI secolo, quando era salita al trono Teodolinda, che proveniva da una famiglia cattolica. Fu lei il primo personaggio espresso dal vertice della società longobarda a 66
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In alto la croce in oro e pietre dure, parte del corredo della cosiddetta «Tomba di Gisulfo», primo duca longobardo del Friuli. VII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.
volere l’edificazione di edifici di culto cristiani, seguita in ciò da sua figlia Gundeperga, sorella del re Adaloaldo (604-626), moglie (come la madre) di ben due sovrani (Arioaldo [626-636] e Rotari [636-652]) e infine madre di Rodoaldo, salito al trono per pochi mesi nel 652. Le due regine erano infatti state promotrici della costruzione di chiese a Monza e a Pavia. Il primo sovrano apertamente cattolico fu Adaloaldo, anch’egli figlio di Teodolinda. Ma si deve superare la metà del VII secolo, quando sale al trono il re Ariperto I (653-661), figlio di un fratelQui sopra la crocetta lo di Teodolinda, perché tale orientamento reliin lamina d’oro detta gioso potesse essere esibito senza trovare aperte «del cervo», dalla tomba resistenze e ostilità nell’aristocrazia del regno. maschile n. 11 della Fu però suo figlio Pertarito (671-688) a conclunecropoli longobarda di dere il lungo percorso che portò all’adozione del Santo Stefano in Pertica a cattolicesimo come religione ufficiale del regno Cividale del Friuli (UD). longobardo. Il passaggio avvenne sulla base di VII sec. Cividale del Friuli, presupposti prettamente politici e cioè in seguiMuseo Archeologico to alla conclusione, nel 680, di un trattato di Nazionale. pace fra l’impero e il regno, in ragione del quale
A destra Pace del Duca Orso (forse il duca di Ceneda), probabile copertura di un evangelario, con scena di Crocifissione. VIII-IX sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. i Bizantini riconoscevano per la prima volta formalmente (dopo oltre cento anni!) l’esistenza di un’entità politica longobarda in Italia e, viceversa, i Longobardi cessavano le ostilità nei confronti dei territori bizantini. Contestualmente, la Chiesa romana assentiva a chiudere antichi dissidi dogmatici con le diocesi del Nord-Est italiano, pacificando i propri rapporti con l’episcopato residente all’interno dei confini del regno.
Nuove chiese e monasteri
Come già accennato parlando di Gregorio Magno, l’ostilità del papato nei confronti dei Longobardi era stata alimentata, piú che per ragioni ricollegabili al credo religioso dei suoi re, dal timore di avere a che fare con un nemico intenzionato a sconvolgere l’assetto istituzionale in cui la Chiesa da secoli si trovava a operare. Da questo momento, con le diocesi del regno tornate in piena comunione con Roma (fatto suggellato anche dalla ricomparsa a Milano di un vescovo residente, dopo la fuga a Genova di quello in carica al momento dell’invasione), nei territori longobardi si assiste al fiorire di iniziative volte alla fondazione di chiese e monasteri: ne sono protagonisti re e duchi in primo luogo, ma esse coinvolgono anche personaggi che non appartenevano ai vertici della società longobarda e che erano di condizione sia laica, sia ecclesiastica. I promotori di queste fondazioni, attraverso
In basso reliquiario in argento sbalzato e dorato, pietre dure, pasta vitrea e cammei. Manifattura longobarda, VIII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.
tali atti di pietà cristiana, agivano spesso allo scopo di guadagnarsi il favore di Dio e di garantire la salvezza all’anima propria e dei loro familiari. L’obiettivo poteva essere esplicitato mediante la redazione di atti testamentari, ma la commemorazione del legame del defunto (di solito, in questi casi, persona di rango sociale elevato) con l’istituzione religiosa di cui era stato promotore, veniva talvolta affidata anche a iscrizioni commemorative. Queste ultime venivano sistemate presso la sua sepoltura, normalmente posta all’interno o nei pressi della chiesa che il defunto aveva fatto edificare, o che aveva contribuito ad abbellire o sostenere economicamente. Cosí, nel giro di pochi decenni, ricompare in Italia una produzione di epigrafi – quasi tutte di natura funeraria – il cui stile grafico e i cui elementi decorativi mostrano sovente un livello esecutivo assai alto e ricco di riferimenti alla tradizione della tarda antichità. Altrettanto può dirsi per l’architettura ecclesiastica, che riprende e sviluppa, talora con spunti originali, i modelli tardo-romani. L’emanazione, intorno al 730, di norme giuridiche indirizzate a regolare l’attività dei mastri che operavano cum machinis, e cioè con le attrezzature necessarie all’edificazione di strutture in muratura, «alla maniera in cui costruivano i Romani», è molto probabilmente il riflesso del moltiplicarsi di tali attività edilizie. longobardi
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Le necropoli
l’abito fa il longobardo «Si scoprivano la fronte radendosi tutt’intorno fino alla nuca e i capelli erano divisi da una scriminatura in due bande che cadevano ai lati fino alla bocca. I loro vestiti erano piuttosto ampi, fatti per la piú parte di lino, come sono soliti portarli gli anglosassoni, e ornati di balze piú larghe e intessuti di vari colori. Portavano inoltre calzari aperti fino alla punta del pollice e fermati da lacci di cuoio intrecciati. In seguito cominciarono a portare le uose, sulle quali, andando a cavallo, mettevano gambali rossastri di lana: usanza questa che avevano derivato dai Romani». L’abbigliamento longobardo, come testimonia Paolo Diacono e come conferma l’iconografia che compare su monete, bassorilievi e anelli sigillo, era tipico di popoli abituati a passare gran parte del tempo all’aperto, spesso in condizioni climatiche difficili, e quindi improntato alla comodità. Il capo «base» era la casacca di lino lunga fino al ginocchio, sormontata da un’altra casacca piú corta con le maniche, la base e l’apertura lungo il collo decorate con passamanerie a motivi geometrici, spesso di colori vivaci e realizzate con la tessitura a tavolette. Per personaggi eminenti tali bordure potevano essere anche in oro. Per proteggersi dal freddo, portavano gilet di pelle o pelliccia senza maniche, oppure ampi mantelli fermati da fibule. Le gambe erano coperte da brache di lino e fasce di tessuto avvolte intorno agli arti, oppure ghette in feltro o lana grezza, il tutto fermato da lacci di cuoio. Ai piedi gli arimanni calzavano stivaletti di cuoio alti fino alle caviglie assicurati per mezzo di lacci e stringhe, mentre i meno abbienti si accontentavano di semplici zoccoli di legno o calzari bassi in cuoio, a volte aperti sul davanti lasciando scoperte le dita dei piedi. Appesa alla cintura, una bisaccia conteneva l’acciarino, la pietra focaia e funghi essiccati che fungevano da esca per accendere il fuoco. L’abbigliamento femminile aveva come base un’ampia tunica lunga alla caviglia, sormontata da una mantellina aperta sul davanti e fermata sul petto da fibule di vari tipi e dimensioni: dalle classiche a S a quelle a disco, mutuate dall’uso bizantino e con vivaci decorazioni smaltate cloisonné. La vita era stretta da una cintura di cuoio alla quale erano appesi un pettine d’osso, un coltellino, le chiavi, una scarsella di cuoio per piccoli oggetti d’uso quotidiano e una o piú fibule ad arco, veri e propri capolavori di oreficeria anche di grandi dimensioni. Gli ornamenti tipici, che variavano per foggia e lusso a seconda della ricchezza, erano orecchini, spilloni per capelli, bracciali e collane di pasta vitrea. La testa delle donne sposate era coperta da un velo di lino, mentre le nubili viaggiavano a capo scoperto e con i capelli lunghi: pare venissero ritualmente tagliati quando la giovane era data in sposa.
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orecchini
Orecchini «a cestello» di classica fattura longobarda, decorati con globetti lavorati a filigrane e inseriti in anelli. Trento, Castello del Buonconsiglio.
fibula a disco
Fibula a disco di derivazione bizantina, con al centro una gemma incastonata, dalla necropoli di Castel Tosino. VI-VII sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.
guarnizioni
Guarnizioni in metallo ageminato, decorate con motivi zoomorfi e geometrici, che ornavano le cinture a cui erano sospese le armi. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.
fibule
Fibule a S in oro, con inserti di pietre dure e pasta vitrea, dalla tomba n. 10 di Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.
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Polvere di
stelle
Monza, Duomo, Cappella di Teodolinda (o degli Zavattari). Teodolinda e Agilulfo partono per la caccia (sulla sinistra) e il sogno della regina, scene del ciclo di affreschi della Leggenda di Teodolinda, dipinti dai fratelli Zavattari tra il 1441 e il 1446. Secondo la leggenda, alla regina apparve lo Spirito Santo, indicandole un luogo in cui erigere una chiesa: l’artista immagina quindi la partenza alla ricerca del sito piú adatto.
Che cosa resta, oggi, delle città simbolo del potere longobardo? Un’eredità impalpabile, che va attentamente ricercata, seguendo le tracce dell’attività edilizia promossa, innanzitutto, da personaggi illustri, come Agilulfo e Teodolinda
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A
Le città e le case
vevamo lasciato il racconto delle vicende del regno longobardo al momento in cui era salito al trono Agilulfo, sposando la vedova di Autari, Teodolinda. Il suo lungo regno, oltre un quarto di secolo (591616), traghettò i Longobardi da una condizione di permanente lotta per la sopravvivenza a quella di una realtà consolidata e per certi versi dominante sul suolo italiano. Il re operò su due piani: soprattutto nel corso del primo decennio, si dedicò alla sistematica affermazione del potere regio nei confronti dei duchi, intervenendo manu militari ovunque qualcuno di essi – per autonoma decisione o perché istigato dai Bizantini – mostrasse segni di infedeltà e di ribellione. Contemporaneamente, Agilulfo attese al rafforzamento delle prerogative politiche e istituzionali dell’autorità regia, enfatiz-
Disegno ricostruttivo di un tratto della cinta muraria massimianea e di una delle due torri poligonali che chiudevano il lato rettilineo breve del circo di Milano. Costruito alla fine del III sec. dall’imperatore Massimiano Erculeo, il circo, nel 604, fu teatro della cerimonia con cui il re longobardo Agilulfo associò al potere il figlio Adaloaldo.
Per l ’associazione al trono del figlio Adaloaldo, Agilulfo organizzò una cerimonia grandiosa nel circo di Milano 72
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zandone la derivazione del potere da Dio e chiarendo come fosse l’Italia intera, e non il solo popolo dei Longobardi, a costituire il campo su esso sarebbe stato esercitato. Molti storici ritengono che questo passaggio, forse già presente nella prospettiva politica di Autari, rappresenti un punto di svolta: ovvero il passaggio da una monarchia di carattere «etnico», basata sulla solidarietà fra gli appartenenti alla stessa gente, a una di carattere tendenzialmente piú «statuale», in cui il sovrano si pone al vertice della piramide istituzionale e fa derivare la propria autorità dal controllo del territorio piú che dal consenso dei suoi compagni di stirpe. Sicuramente è indizio di questa impostazione concettuale il gesto plateale rappresentato dalla cerimonia con cui egli fece riconoscere suo figlio Adaloaldo, ancora bambino, come associato al potere regio e, quindi, suo potenziale successore. L’evento si svolse nel circo di Milano, con il re che si presentò sulla tribuna insieme all’infante, facendo acclamare se stesso e il bimbo dalla
folla, alla presenza degli ambasciatori del re dei Franchi: un cerimoniale allestito a imitazione dei modelli romano-bizantini. Un altro indizio di questa impostazione concettuale è l’iscrizione fatta incidere su una corona che il re aveva donato alla moglie Teodolinda, in cui egli si presentava come «Agilulfo, uomo glorioso, re di tutta Italia per la grazia di Dio». La titolatura di «uomo glorioso» richiamava a sua volta il lessico delle espressioni onorifiche attribuite nel VI secolo ai dignitari bizantini di rango piú alto, mentre l’espressione «re di tutta Italia», costituirebbe il riferimento alla volontà prima ricordata di ancorare l’autorità regia al suolo piú che alla gens. In relazione a tutto ciò è stato anche posto l’attivismo che il re sviluppò nelle relazioni con la Chiesa, da un lato trattando con il papa – con il decisivo tramite della regina Teodolinda – per attenuarne l’ostilità, e dall’altro operando per ricostruire all’interno del regno una gerarchia ecclesiastica che fosse da lui piú direttamente controllabile.
Una trasformazione ben pianificata?
Nel valutare l’azione politica di Agilulfo è difficile stabilire se il potenziamento dell’autorità regia da lui perseguito sia stato l’effetto di una reazione alle minacce che, già al tempo di Autari, avevano portato a un soffio dalla dissoluzione del regno; o se invece egli avesse intenzionalmente e sin da principio elaborato a tavolino un disegno di trasformazione del regno verso esiti simili a quelli osservabili negli unici due Stati sopravvissuti alle vicende del secolo successivo alla fine dell’impero romano in Occidente, quello dei Franchi e quello dei Visigoti. Da Paolo Diacono apprendiamo che il re aveva formato intorno a sé l’embrione di una «corte» La Croce di Agilulfo (in alto), in oro, perle e pietre preziose (inizi del VII sec.) e la corona votiva in oro, gemme e madreperla, detta «di Teodolinda» (a sinistra; fine del VI-inizi del VII sec.), splendidi esempi di oreficeria longobarda facenti parte del Tesoro del Duomo di Monza.
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al cui interno agivano, come suoi consiglieri e collaboratori, elementi di origine locale, che potrebbero aver contribuito a ispirarne l’azione. Ma sarebbe errato pensare che Agilulfo agisse per stemperare la natura «longobarda» del suo regno o che immaginasse di costruire uno Stato basato su sostegni diversi da quelli che potevano fornirgli gli uomini in armi appartenenti alla sua gente, organizzati per buona parte sotto il comando dei duchi. Piuttosto, come già era avvenuto anche in momenti anteriori alla discesa in Italia, ciò che doveva apparirgli necessario era l’istituzione di un coordinamento piú efficiente fra sé e i vari capi militari, che non poteva ottenersi altro che con l’irrobustimento di una catena di comando diretta dal re. L’assunzione di titoli e l’adozione di cerimoniali di ascendenza romano-bizantina, come pure l’accento sulla natura «territoriale» del potere regio erano corollari necessari al perseguimento di questo scopo, teso al potenziamento di un’immagine della regalità piú idonea al governo stabile di uno spazio geografico vasto, nel quale ormai i Longobardi si erano stabiliti da due generazioni. E, oltre ai modelli che potevano provenire dalla tradizione romana, non è che al momento ve ne fossero molti altri ai quali fare riferimento. Che nella mente della coppia reale non vi fosse
omaggio al re palatium
vittoria alata
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di certo l’intento di «diluire» in alcun modo il primato dell’identità longobarda, ma che essa potesse essere espressa attraverso nuove strategie di comunicazione, ci possono aiutare a capirlo due celebri testimonianze, l’una riportata da Paolo Diacono e l’altra affidata a un oggetto tanto celebre quanto controverso.
Un palazzo per la regina A sinistra testa della cosidetta Teodolinda, una statuetta di provenienza ignota, tradizionalmente identificata come ritratto della regina dei Longobardi. VII sec. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte di Arte Antica. 74
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Nel IV libro dell’Historia Langobardorum, Paolo narra che Teodolinda aveva fatto costruire a Monza un palazzo che si trovava nello stesso luogo in cui, cento anni prima, anche il re dei Goti Teodorico aveva edificato il proprio, attratto dalla bellezza del posto e dalla salubrità del clima. Aveva anche ordinato che le pareti delle sale di questo palazzo fossero decorate con pitture celebranti le gesta del popolo longobardo, i cui componenti erano ritratti nei loro costumi tradizionali che lo storico descrive con cura, specificando però come alcuni dettagli
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personaggio genuflesso
personaggio con tiara
armigero
dell’abbigliamento usato per andare a cavallo fossero stati mutuati dai Romani. Gli elementi del canovaccio narrativo di questo breve passo sono molti. Innanzitutto, la regina ordina la costruzione di una residenza idonea al proprio rango: un palatium, termine identico a quello che designava la dimora degli imperatori e che si posiziona sulle orme delle memorie tracciate da Teodorico, il sovrano «barbaro» che piú di ogni altro aveva saputo raccogliere l’eredità politica e ideale dell’impero, chiamando intorno a sé i migliori fra i Romani, ma senza per questo perdere nulla della sua identità di leader del popolo goto. Il racconto rimbalza quindi su tre sponde: la residenza della sovrana longobarda si modella su quella degli imperatori romani, ma lo fa mediante il ricordo di un’analoga impresa compiuta nello stesso luogo scelto da Teodorico; ciò evidentemente valida ulteriormente l’azione intrapresa da Teodolinda, poiché la inquadra
entro una tradizione già sperimentata da un monarca non romano. L’interno della residenza monzese, inoltre, raccontava le imprese del popolo dei Longobardi, facendo quindi assurgere il luogo a tempio delle sue memorie, delle quali la regina (ed evidentemente anche il suo consorte) si ergeva perciò a custode e tramite verso le future generazioni. Memorie che Teodolinda e Agilulfo avrebbero orgogliosamente ostentato verso chiunque fosse stato ricevuto nelle sale del palatium monzese.
Alla maniera dei Romani
I guerrieri longobardi – la storia di quel popolo era fatta innanzitutto di guerre vittoriose – vi erano ritratti nelle loro uniformi e acconciature tradizionali, che li rendevano chiaramente riconoscibili come tali. Tuttavia, come già ricordato, alcuni elementi degli abiti usati per cavalcare risultavano mutuati dai Romani, perché evidentemente considerati tecnica-
La Lamina di Agilulfo, manufatto in bronzo dorato in cui si fondono elementi «barbarici» con elementi tipici della cultura romano-bizantina. Firenze, Museo Nazionale di Bargello. Identificato da un’iscrizione come Agilulfo, il sovrano siede in trono, circondato da armati, da due Vittorie alate e da personaggi abbigliati in costume germanico, ma che recano tiare sormontate da croci e si inginocchiano di fronte a lui come se fosse l’imperatore.
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mente piú adatti a un’attività faticosa, quale quella di montare un cavallo e affrontarvi un combattimento rimanendo in sella. Il palazzo, quindi, rappresentava la sede di un potere regio che si era evoluto in forme nuove rispetto a quelle proprie del periodo antecedente alla conquista dell’Italia, mutuate dalle tradizioni del paese sottomesso. Tradizioni alle quali si era attinto anche per la scelta del mezzo – la pittura figurativa monumentale, che certamente non doveva essere stata un’arte particolarmente coltivata presso i Longobardi – con cui raccontare la storia e quindi l’identità «nazionale» dei Longobardi stessi che, attraverso quelle pitture, apparivano perfettamente riconoscibili come tali, nonostante l’abbigliamento comprendesse qualche dettaglio «romano». Anche il particolare delle decorazioni interne del palatium monzese, insomma, racconta come si potesse raggiungere lo scopo di rimanere perfettamente longobardi, pur ricorrendo a mezzi di rappresentazione del potere del re e delle origini del suo popolo certamente alieni rispetto alle usanze e ai mezzi di espressione propri del periodo anteriore all’ingresso in Italia.
Dalle terre di confine
Troviamo un’analoga commistione di linguaggi e di piani semantici in un reperto eccezionale, rinvenuto all’inizio del Novecento nella Toscana settentrionale, in un’area che in età longobarda era prossima al confine con le terre bizantine della Romagna. La scoperta, purtroppo, è avvenuta in circostanze non chiare dal punto di vista archeologico (cosa che ha gettato dubbi sulla sua autenticità, peraltro non accolti dalla maggior parte degli studiosi). Si tratta della 76
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cosiddetta «Lamina di Agilulfo», un manufatto in bronzo dorato di forma trapezoidale, di 19 x 7 cm circa, sul quale figurano personaggi che, dalle due estremità, convergono verso il centro (vedi foto alle pp. 74-75). Qui è ritratto – seduto su un trono – un uomo paludato, dallo sguardo fisso di fronte a sé, il cui volto è incorniciato da una capigliatura spartita al centro da una scriminatura e da una barba fluente. Un’iscrizione lo identifica proprio come il re sposo di Teodolinda e lo mostra affiancato da una coppia di armigeri. Accanto a ciascuno di costoro è ritratta una figura togata e alata, che tiene nella mano destra un labaro, su cui è punzonata la dicitura «Victuria», e nella sinistra una cornucopia; queste ultime precedono, su ambo i lati, altri due personaggi, dei quali quelli piú vicini al re atteggiati in atto di genuflessione, mentre i due piú distanti recano ciascuno in mano una sorta di tiara sormontata da una croce. La scena è conclusa dalla raffigurazione stilizzata di due edifici circolari sormontati da un pinnacolo, che potrebbero tanto costituire l’allusione ad altrettante città dalle quali la doppia processione prende le mosse, quanto rappresentare una sorta di limite spaziale entro cui la scena è ambientata, cosa che potrebbe far pensare a un eventuale riferimento al palatium del re e, in particolare, alla sala in cui questi riceveva l’omaggio delle persone ammesse a conferire con lui. Questo curioso – e purtroppo unico – oggetto è stato interpretato come il frontale di un elmo da cerimonia o, in alternativa, come elemento di una capsa destinata a contenere oggetti preziosi. Al di là della sua effettiva funzione, nella scena che in esso si rappresenta è difficilissimo
In alto frammento di ambone decorato con motivi zoomorfi (uccelli stilizzati) e geometrici a treccia di probabile manifattura longobarda, conservato nella chiesa di S. Agata ad Arfoli, a Reggello (FI). VIII sec. Nella pagina accanto lapide sepolcrale con iscrizione in latino del duca Audoaldo, proveniente dalla chiesa di S. Maria delle Pertiche a Pavia. VIII sec. Pavia, Musei Civici Castello Visconteo.
separare ciò che è «longobardo» da ciò che è «romano». La cifra stilistica della composizione si allontana nel suo insieme dai canoni del naturalismo tardo-ellenistico proprio dell’arte costantinopolitana del VI secolo, il che ha fatto in un primo tempo giudicare il manufatto come prodotto di un gusto estetico tipicamente «barbarico». Ma è ormai ampiamente dimostratoche l’arte tardo-antica, anche quella prodotta e commissionata da ambienti estranei alle popolazioni che invasero l’impero, esprimeva una pluralità di orientamenti stilistici che andava ben oltre la mera riproposizione dei canoni figurativi della tradizione classica. Altrettanto vivace è il dibattito scaturito dall’analisi di ogni singola figura che compare sulla scena. In realtà, la questione appare molto piú chiara se si considera il senso generale della rappresentazione: un sovrano, il cui abbigliamento è molto diverso da quello di un imperatore bizantino contemporaneo, fiancheggiato da due uomini d’arme, a loro volta parati in un’uniforme ben differente da quella delle guardie del palazzo di Costantinopoli, riceve però l’omaggio di persone che si prosternano di fronte alla sua persona, proprio come sarebbe stato richiesto in presenza dell’imperatore. Gli oggetti branditi dalle due Vittorie alate – labaro e cornucopia – e la croce che sormonta la tiara recata in mano dai personaggi posti alle estremità della scena, corrispondono anch’essi a quelli che avrebbero costituito i paraphernalia simboleggianti l’autorità di un imperatore della stessa epoca: comando militare, abbondanza nella pace, carisma religioso. In sostanza, quindi, la lamina di Agilulfo esprime la rappresentazione di un monarca «altro» rispetto all’imperatore dei Romani, che detiene un potere in tutto e per tutto assimilabile a quello di quest’ultimo e lo esibisce in modo tale che chiunque possa riconoscervi tanto la sua specifica identità, quanto la sua adeguatezza a confrontarsi con il modello «romano».
Una coincidenza singolare
In ogni caso, è interessante ricordare che la coppia regale formata da Agilulfo e Teodolinda, di cui abbiamo visto l’impegno nel trasformare aspetti rilevanti dell’assetto istituzionale e dell’azione politica del regno longobardo, aveva la caratteristica di essere costituita da individui ambedue non di «sangue» longobardo: la regina, infatti, era figlia del re dei Baiuvari, mentre Agilulfo proveniva dalla stirpe degli Anawas, originaria della Turingia, nella Germania centrale. È difficile dire se sia stato proprio questo dato di partenza ad averli orientati nelle loro scelte politiche e ad aver fomentato nei primi anni del regno di Agilullongobardi
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fo, l’ostilità di alcuni duchi nei suoi confronti. Sicuramente, esso testimonia al massimo livello possibile come l’appartenenza al popolo longobardo dipendesse, oltre che da fattori di carattere genealogico, anche da processi d’inclusione che potevano attuarsi, per esempio, attraverso legami matrimoniali o con il riconoscimento di particolari qualità individuali, come quelle di natura militare. L’identità etnica, insomma, sebbene fortemente caratterizzata ed evocata attraverso segni e comportamenti distintivi, non era una paratia ermetica, bensí una membrana osmotica, capace di assorbire apporti esterni, quando ciò fosse stato reputato accettabile e conveniente.
poggibonsi: un
L’eredità cittadina
L’evocazione di palazzi e cerimoniali di corte ci mostra ancora una volta come fosse divenuto assai profondo il legame dei Longobardi con le città ereditate dal mondo antico, di cui era stata da essi immediatamente percepita la centralità strategica per il controllo militare del territorio. Come abbiamo già visto, tutti i duchi s’installarono all’interno di una città e si è perciò autorizzati a ritenere che, sin da subito, la loro presenza produsse quanto meno interventi di manutenzione alle mura urbane e per la sistemazione di aree destinate ad accogliere la residenza di ciascuno di essi con il proprio seguito. Anche se in alcune città – come Cividale, Milano, Brescia, Spoleto e Benevento – si è riusciti a individuare l’area della corte ducale, non disponiamo ancora di dati sufficienti per permettere una lettura della realtà materiale di questi complessi. In altre parole, è impossibile capire se – e in quale misura – essi abbiano riutilizzato edifici già esistenti. O, anche, come si sia eventualmente investito, nel corso del tempo, per il loro adattamento e ampliamento architettonico, sulla scorta di quanto per esempio narra Paolo Diacono relativamente alla costruzione del palazzo di Monza, che sembra aver costituito un’impresa di notevole impegno. Un aspetto ancora poco studiato è invece quello del ritardo con cui i sovrani longobardi stabilizzarono la loro residenza in un’unica sede. Abbiamo visto che, almeno sino al tempo di Agilulfo e Teodolinda (e quindi quattro/cinque decenni dopo l’ingresso in Italia) le residenze regie si spostano fra Verona, Pavia, Milano e Monza. Solo con il figlio di Agilulfo, Adaloaldo, Pavia diventa per la prima volta la sede stabile di un monarca, inaugurando una preferenza per questa città che sostanzialmente perdurò sino alla fine del regno, nel 774. Nel 661, alla morte del re Ariperto, i suoi due figli Godeperto e Pertarito, che per qualche mese condivisero la dignità regia, risiedettero l’uno a Milano e 78
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l’altro a Pavia, restituendo quindi per breve tempo alla metropoli lombarda la dignità di capitale. Successivamente, Milano rimase in secondo piano, pur non rinunciando – soprattutto attraverso i suoi vescovi – a richiamare il prestigio del proprio passato. Pur tra le molte domande ancora inevase rispetto alla forma e al paesaggio delle città italiane in età longobarda, l’archeologia ha fornito in proposito risposte assai importanti. Abbiamo già accennato, per esempio, al fatto che non fu certo a causa dell’invasione longobarda che i centri urbani della Penisola avevano via via cambiato pelle rispetto all’età classica. Non si può però escludere che, almeno in un primo momento, l’arrivo dei Longobardi abbia potuto radicalizzare ancor di piú la disgregazione materiale delle città. Possiamo infatti immaginare che la definitiva eclissi delle fortune politiche ed economiche dei gruppi e delle famiglie di notabili di origine romana abbia avuto ripercussioni sul tessuto edilizio urbano, in seguito
villaggio medievale la fase longobarda
I disegni ricostruiscono il villaggio medievale di Poggibonsi (Siena), cosí come doveva apparire tra l’VIII e gli inizi del IX sec. Alle capanne circolari dotate di recinti, steccati e annessi, costruite a partire dalla fine del VI sec., si affianca (sulla sinistra) un raggruppamento di sei edifici intorno a una piccola corte, in parte cinta da una bassa palizzata e costeggiata da sentieri in terra battuta, indice di una gerarchizzazione sociale.
la fase carolingia
Nel IX-X sec. l’abitato si è trasformato in una curtis, un grande villaggio-azienda rurale. Nei disegni in basso, assonometrie ricostruttive della residenza padronale, intorno alla quale si organizzava l’intero insediamento.
all’abbandono delle loro dimore e alla cessazione delle loro attività. Nei contesti urbani indagati, databili al tardo VI e ai primordi del VII secolo, sono stati frequentemente riscontrati fenomeni come l’abbandono dell’edilizia in pietra e la diffusione di quella in legno, la rarefazione dell’abitato e il formarsi di ampie aree aperte, fra edifici sovente già in rovina, con la destinazione di parti di esse a uso agricolo.
Tombe nelle aree urbane
Un altro dato caratteristico è la diffusione delle sepolture nelle aree urbane, talora organizzate in piccole necropoli. Ciò poteva derivare sia dalla pura e semplice accresciuta disponibilità di spazi in abbandono, sia dal temporaneo affievolimento della capacità di controllo della Chiesa sulle pratiche funerarie (talvolta posto in relazione alla possibile estraneità dei Longobardi ai culti cattolici o, longobardi
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L’ARTE DEI «MAGISTRI COMMACINI» Probabilmente nel corso dei primi decenni dell’VIII secolo – e quindi in corrispondenza con la grande fioritura di cantieri per la costruzione di palazzi, chiese e monasteri – al corpus delle leggi dei Longobardi fu aggiunta una «rubrica», che trattava dei compensi da corrispondere ai maestri che erano ancora in possesso delle competenze necessarie per edificare costruzioni alla maniera dei Romani antichi. Essi erano cioè coloro che costruivano usando pietre, mattoni e calce, ma che possedevano anche raffinate nozioni di carpenteria, necessarie per coprire gli edifici con solai e tetti. Questo breve testo, in tutto di una decina di paragrafi, descrive minutamente tutte le operazioni che costoro erano in grado di compiere e il costo che ciascuna di esse comportava per il committente. Ci troviamo quindi di fronte a informazioni preziosissime, che testimoniano la continuità di saperi sopravvissuti ai cambiamenti economici e sociali avvenuti dopo la fine del mondo antico. Apprendiamo cosí che i maestri «commacini» erano in grado di erigere pareti in muratura, intonacarle, squadrare le travi in legno, metterle in opera, costruire ponteggi, mettere in opera le tegole, allestire gli infissi, realizzare i camini, lavorare il marmo per farne lastre da pavimento o da rivestimento e tornire delle colonne. Essi erano anche in grado di produrre in proprio i laterizi, allestendo le fornaci necessarie alla loro preparazione. Nella loro paga era previsto che il committente includesse anche il vitto, che comprendeva segale, lardo, vino, legumi e sale. In questo caso, il testo specifica che la paga era «vestita», e cioè costituita da denaro sonante e cibarie, che variavano a seconda della complessità e della durata del lavoro eseguito.
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piú in generale, alle costumanze religiose cristiane). Cosí, come si è già visto, la proliferazione anche in città dell’edilizia in legno è stata di volta in volta interpretata come una necessaria reazione al collasso del sistema produttivo romano, ovvero come l’imporsi di nuovi modi di abitare, importati in Italia dalle popolazioni immigrate. In realtà, tutti questi mutamenti si riscontrano in modo pressoché analogo e contemporaneo sia nelle città cadute nelle mani dei Longobardi, sia in quelle rimaste in mano bizantina. Ciò suggerirebbe una loro lettura soprattutto alla luce della radicale semplificazione del sistema economico-produttivo che aveva interessato l’Italia nel suo insieme e che impose scelte di sopravvivenza legate a quanto ciascuno era in grado di procurarsi da sé e di costruire con le proprie mani.
Spoliazione e reimpiego
Le tipologie architettoniche legate alla tradizione edilizia romana non erano però del tutto scomparse, ma sembra siano state accessibili prevalentemente ai vertici della società del tempo, che potevano disporre dell’organizzazione e delle risorse necessarie all’allestimento di cantieri complessi e costosi. Tuttavia, tanto nelle città quanto nelle aree rurali, l’opera di spoliazione a danno di molti degli edifici in totale o parziale abbandono ereditati dall’età antica e tardo-antica testimonia che, anche nei momenti di maggiore crisi, proseguirono attività edilizie legate all’uso dei materiali piú rappresentativi della tradizione costruttiva romana (come il mattone e la pietra). La fatica e il rischio connessi all’estrazione di materiali edili da un edificio in disuso si possono comprendere, infatti, solo in rapporto all’intenzione di farne un nuovo uso. Questo poteva consistere nel loro reimpiego diretto all’interno di un’altra costruzione o nel loro riutilizzo come materia prima per produrre la calce (possibile, per esempio, con determinati tipi di pietra, quale il calcare o alcune qualità di marmi). All’interno delle città, le attività di smantellamento degli edifici sono talora anche funzionali a ottenere la conversione di un’area a uso agricolo. Proprio per questo motivo, sempre in ambiente urbano, dopo gli interventi di spoliazione delle strutture architettoniche, si assiste in diversi casi al riporto di terreno idoneo alle attività agrarie. Gli archeologi hanno imparato a riconoscere questo tipo di terreno, grazie alla forte matrice organica che lo caratterizza e che gli conferisce un tipico colore marrone molto scuro: sono i cosiddetti «dark
In alto Tolentino (Macerata), cattedrale di S. Catervo. Particolare della lunetta del presbiterio raffigurante Gesú benedicente tra gli arcangeli Gabriele e Michele, identificati dalle iscrizioni. Manifattura longobarda, VI-VIII sec. Nella pagina accanto Venezia, basilica di S. Marco. Due costruttori al lavoro, particolare della scena della Torre di Babele, facente parte dei mosaici con le storie del Vecchio Testamento che ornano i cupolini e le lunette dell’atrio della chiesa. XIII sec.
earth» (suoli scuri), cosí definiti dagli studiosi britannici che li hanno individuati per primi nelle aree delle città romane d’Oltremanica. Tutti questi fenomeni (demolizioni degli antichi edifici e riutilizzo dei loro materiali, insieme alla riconversione agricola dei suoli, ma anche l’impianto di sepolture all’interno delle aree dismesse) sono l’indizio di un processo di radicale trasformazione del paesaggio urbano delle città italiane. Le cause del fenomeno vanno individuate nel disinteresse e nell’impossibilità a garantire la manutenzione di buona parte delle strutture della città antica, nel forte calo della popolazione determinato dalla pesante regressione demografica che colpí l’Italia durante il VI secolo e nella crescita di un’economia di autosussistenza, che imponeva, per quanto possibile, di procurarsi sul posto il cibo necessario per sopravvivere.
La vita continua
Tuttavia, essi sono indirettamente il segno che, seppur in condizioni molto diverse dal passato e indubbiamente non facili, la vita anche nelle città doveva in qualche modo continuare. In nessuna di esse si verificarono fenomeni di spopolamento totale, né si rinunciò, pur tra mille difficoltà, a cercare di riorganizzare la vita quotidiana sfruttando le
opportunità che la situazione consentiva. Possiamo certamente immaginare che le differenze con il passato dovessero apparire piú evidenti in città, come Milano e Aquileia, che in età tardo-antica si erano sviluppate in modo significativo. In casi come questi, i vuoti creati dal decremento demografico e dall’abbandono degli edifici dovevano creare uno scenario davvero particolare, con un abitato che all’interno delle vecchie cinte murarie si era riorganizzato «a isole», e cioè in nuclei di popolamento intervallati fra loro da aree libere, coltivate o semplicemente disabitate. Verosimilmente, in centri che già in antico avevano dimensioni piú limitate, quali per esempio Cividale del Friuli, Lucca o Asti, queste trasformazioni produssero effetti in proporzione meno macroscopici. Inoltre, anche in ragione dello stabilirsi in città dei duchi longobardi e del permanere dei vescovadi, sopravvissero o si ricostituirono nuclei architettonici di una certa consistenza, in grado di occupare porzioni rilevanti dell’area all’interno delle mura. Sicuramente, dal momento in cui prese avvio l’interesse di re e aristocratici per la fondazione di chiese e monasteri, si fecero piú evidenti i segni di una ripresa dell’attività edilizia condotta secondo le regole e le tradizioni di origine romana. longobardi
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Cristiani per caso?
Additati come pagani e perfino come portatori di credenze demoniache, i Longobardi si avvicinarono alla religione cristiana con interesse crescente, fino ad abbracciarla con convinzione e a farsi promotori della fondazione di chiese e monasteri
Incontro di Ratchis e di Papa Zaccaria, olio su tela di Francesco Solimena. 1701-1705 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. L’episodio ebbe luogo nel 749 a Perugia, quando il pontefice convinse il re longobardo a rinunciare alla spedizione avviata dopo aver rotto i precedenti accordi di pace.
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l progressivo e sempre piú generale avvicinamento dei Longobardi al cattolicesimo, attuatosi nel corso del VII secolo, produsse effetti rilevanti anche sul piano della «rinascita» delle antiche tradizioni edilizie e architettoniche. Le fonti scritte testimoniano del crescente impegno dei re, degli aristocratici e del clero nella fondazione di nuove chiese e monasteri, e possiamo immaginare che per ciascuna di queste iniziative sia stato attivato un cantiere che richiedeva maestranze dotate di sufficienti competenze di muratura e carpenteria. I ritmi della ripresa furono abbastanza significativi, e interessarono tanto le città quanto le aree rurali. Per esempio, fra la seconda metà del VII secolo e il 774, all’interno del regno longobardo (compresi i ducati di Spoleto e Benevento) le fonti scritte attestano la nascita di almeno un centinaio di fondazioni monastiche, perlopiú al di fuori dei centri urbani. Numerosissime sono anche le menzioni relative alla costruzione di nuove chiese non monastiche che, al contrario, risultano attestate piú frequentemente nelle città o nei loro suburbi. Questo processo s’intensificò significativamente nell’ultimo sessantennio di vita del regno, compreso fra l’ascesa al trono di Liutprando (712) e la sconfitta del re Desiderio per opera di Carlo Magno (774), e proprio a tale periodo risale la maggior parte dei pochi edifici di cui ci restano anche tracce materiali riconoscibili. Un esempio emblematico è quello di Pavia: nell’arco di un secolo (fra il 640 e il 740 circa) l’area entro le mura e l’immediato suburbio si popolarono di oltre una quindicina fra chiese e
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monasteri. Alcuni di questi complessi furono realizzati attuando soluzioni architettoniche di grande originalità e qualità. È il caso della chiesa cimiteriale di S. Maria in Pertica, fondata nel 672 dalla regina Rodelinda – moglie del re Pertarito –, che era un edificio a pianta centrale, dotato di un deambulatorio separato da colonne che delimitava un vano centrale, probabilmente cupolato. La chiesa venne purtroppo abbattuta all’inizio del XIX secolo, ma ci restano planimetrie e disegni settecenteschi sufficientemente esatti per poterne comprendere le caratteristiche principali. Oltre a riprendere un modello ben attestato nell’architettura civile del medio e tardo impero, la struttura imitava da vicino famosi esempi di chiese e mausolei cristiani del IV-V secolo, come per esempio S. Costanza e S. Stefano Rotondo di Roma. Ci troviamo quindi di fronte a una costruzione di evidente complessità progettuale e realizzativa, che presuppone l’apporto di maestranze specializzate, e la circostanza è particolarmente interessante, se si considera che era trascorso un secolo dall’entrata dei Longobardi in Italia.
Un’intensa attività edilizia
Edifici sicuramente databili al periodo intermedio non si sono conservati e, come abbiamo visto, anche le fonti scritte tramandano poche menzioni di nuove costruzioni, come per esempio quella del palazzo di Monza, voluta dalla regina Teodolinda, o della fondazione del monastero di Bobbio, avvenuta poco prima del 615. Diviene quindi difficile comprendere come
Sulle due pagine le lastre in marmo note come Plutei di Teodote, provenienti dall’oratorio di S. Michele alla Pusterla. Prima metà dell’VIII sec. Pavia, Musei Civici.
In alto due pavoni si abbeverano a un calice a due anse, sormontato da una croce. In basso l’albero della vita tra due mostri marini alati dalla testa leonina.
possano essere sopravvissute le conoscenze necessarie all’allestimento di cantieri come quelli che, dal terzo quarto del VII secolo, prendono avvio, piú o meno contemporaneamente, in tutte le principali città dei territori longobardi. Lo si può capire solo presupponendo che, anche all’indomani della conquista, le attività edilizie siano state piú diffuse di quanto oggi non risulti, contribuendo cosí a garantire la continuità operativa di mastri muratori e carpentieri capaci di padroneggiare le tecniche ereditate dall’età romana. Probabilmente, ciò avvenne soprattutto grazie alla necessità di mantenere in efficienza le strutture a difesa delle aree urbane, che – come abbiamo già visto – si rivelarono essenziali per la sopravvivenza del regno nei primi decenni di vita. Oltre all’indiscutibile rilevanza dei cambiamenti culturali prodottisi all’interno del regno, tra i quali primeggia l’accettazione definitiva del cristianesimo da parte dei vertici della società longobarda, la fioritura delle fondazioni ecclesiastiche a cui si assiste a partire dallo scorcio finale del VII secolo dovette trovare anche sostegno nelle migliorate condizioni economiche generali. Le ostilità tra Longobardi e Bizantini, protrattesi sino a tutto il primo decennio del VII secolo, furono seguite da un periodo di sostanziale tranquillità che si estese per i successivi trent’anni. Gli scontri ripresero però poco dopo il 640 e questa volta i Longobardi condussero nei confronti dei Bizantini una vera e propria guerra di aggressione e conquista, di cui fu protagonista il re Rotari. Il so-
vrano non scelse a caso il momento d’inizio delle attività belliche – l’estate del 643 –, poiché esso corrispondeva con l’acuirsi di una profonda crisi politica e militare bizantina. Nel 641 era morto l’imperatore Eraclio e la sua successione era stata quanto mai tormentata. Nel frattempo, gli Arabi, nel 642, si erano impossessati dell’Egitto e l’anno dopo avevano dilagato in Libia, iniziando a minacciare i territori piú prossimi a Cartagine.
Le conquiste di Rotari
La scarsa possibilità, quindi, che i Bizantini potessero allestire in Italia una reazione adeguata a un attacco ben concertato doveva essere stata attentamente calcolata da Rotari. Egli, infatti, si impadroní senza problemi della Liguria mentre, nonostante la netta vittoria conseguita sul fiume Panaro, non riuscí a sfondare verso Ravenna. Il re longobardo, comunque, ampliò ulteriormente i propri domini in Veneto, con la presa di Oderzo, e sottomise quanto rimaneva dei possedimenti bizantini in territorio emiliano, conquistando Modena. Ma in questo periodo il fronte si mosse anche nei territori dell’Italia centrale, dove caddero nelle mani dei Longobardi di Spoleto e di Benevento tutte le piazzeforti che i Bizantini conservavano lungo il litorale adriatico fra le Marche meridionali e il Molise. Di queste ultime conquiste le fonti scritte non parlano, ma esse sono state rivelate da importanti scoperte archeologiche succedutesi negli ultimi vent’anni, che hanno rivelato come questa fascia costiera longobardi
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fosse rimasta saldamente in mano bizantina per molti decenni. Viene cosí confermato e reso piú chiaro il dispiegarsi della strategia imperiale di controllo dell’Italia imperniata sulle vie marittime, descritta in precedenza. Nei primi anni Sessanta del VII secolo, l’imperatore bizantino Costante II condusse personalmente una campagna militare nel Meridione d’Italia, con l’intento di rafforzarvi il controllo imperiale, morendo poi a Siracusa nel 668. L’aver ignorato Ravenna, che era pur sempre la capitale amministrativa dei domini italiani, sembra suggerire che, di fronte all’indebolirsi della tradizionale supremazia marittima dell’impero – determinato della sempre crescente pressione navale araba sul Mediterraneo centrale, sullo Ionio e sull’Egeo –, la preoccupazione maggiore fosse divenuta quella di garantire il controllo degli stretti che separavano i Balcani dall’Italia e la Sicilia dall’Africa settentrionale. L’assalto ai Longobardi di Benevento non ottenne però gli effetti sperati e anzi, dopo la morte di Costante, il duca Romualdo estese ulteriormente i propri domini in direzione della Puglia. È probabile che questi eventi abbiano 86
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prodotto, oltre al rafforzamento politico del regno, anche positivi contraccolpi sul piano economico, grazie al fatto che, con il diretto controllo di ampi tratti di costa, l’accesso alle reti mediterranee di scambio commerciale non doveva piú essere necessariamente mediato attraverso i territori bizantini.
Nel segno della rielaborazione
In passato sono stati proposti molti casi di influssi di matrice orientale-bizantina sull’architettura delle chiese di età longobarda e sulle loro decorazioni. Basterà a questo proposito ricordare le decorazioni pittoriche e a stucco del cosiddetto «Tempietto longobardo» di Cividale del Friuli, le pitture e la stessa forma architettonica della chiesa di S. Maria Foris Portas di Castelseprio, la chiesa del Salvatore a Spoleto e il Tempietto del Clitunno, presso questa città e, infine, la chiesa di S. Sofia di Benevento. Attualmente la critica è piú prudente nell’accettare queste interpretazioni e, senza escludere la possibilità che linguaggi formali di origine orientale possano aver influenzato la creatività di pittori, scultori e architetti locali, si propende piuttosto a leggere la fioritura artistica che con-
In alto Cividale del Friuli. Il presbiterio del Tempietto Longobardo (oggi Oratorio di S. Maria in Valle), decorato con l’affresco di Cristo Logos tra gli Arcangeli Michele e Gabriele (nella lunetta) e la teoria di sei sante in stucco, lavorate ad altorilievo (nella pagina accanto il particolare di una santa). VIII sec. Opera di maestranze di altissimo livello, tali decorazioni si inseriscono nel processo che portò, nel tardo periodo longobardo, all’elaborazione di un’arte originale, promossa dalle piú alte sfere del regno.
Le statue di sante del Tempietto Longobardo di Cividale sono un esempio rarissimo di scultura ad altorilievo dei primi secoli del Medioevo longobardi
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In alto Brescia. L’interno della basilica di S. Salvatore, compresa nel complesso monastico di S. Salvatore-S. Giulia (oggi sede del Museo della Città). Voluta da Desiderio intorno al 750 la chiesa riutilizzava colonne e capitelli di età romana, ma presentava arredi scultorei realizzati ex novo secondo il gusto dell’epoca.
trassegna la fase piú tarda del regno longobardo come una stagione caratterizzata soprattutto dalla rielaborazione originale della ricca e complessa tradizione italiana tardo-antica. Abbiamo già visto che la legislazione prodotta dai re longobardi per regolamentare l’attività delle maestranze che operavano in architettura «secondo il costume dei Romani» (more romano), e cioè avvalendosi di attrezzature e tecniche atte a erigere edifici in muratura e a decorarli (di cui erano detentori i magistri cum machinis o «commacini»), postula la persistenza in Italia di competenze di questo tipo. E dobbiamo anche immaginare che, dato questo pre-
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supposto, l’enorme quantità di edifici di età antica ancora visibili e la disponibilità di materiali recuperabili da quelli in disuso fornisse elementi d’ispirazione sufficienti per la creazione di nuove opere. Indubbiamente – e ciò è soprattutto vero nell’ambito dell’architettura e della pittura – le opere che sopravvivono denunciano molti piú elementi di continuità che di differenziazione con i secoli immediatamente precedenti. Ciò è evidente soprattutto quando la committenza è di piú alto livello sociale e, quindi, apparentemente disposta a riconoscere nei modelli e nel linguaggio dell’arte «dei Romani» un elemento Decorazioni architettoniche provenienti dalla basilica bresciana di S. Salvatore: un frammento di archetto con decorazione geometrica, visto dai due lati (a sinistra) e un frammento di cornice in cotto con elementi vegetali. VIII sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.
di prestigio atto a enfatizzare il proprio rango. Appare quindi fuorviante – soprattutto quando ci si riferisce a edifici ecclesiastici – parlare di «architettura longobarda». E si dovrebbe piuttosto preferire la locuzione «architettura del periodo longobardo», poiché, analizzando questi manufatti dal punto di vista formale (ma anche del loro uso e significato), non vi si troverebbe nulla di specificamente riconducibile a elementi «originari» della cultura di questo popolo.
Un nuovo linguaggio formale
Un caso in parte diverso, che ha suscitato maggiore dibattito, è quello della scultura prodotta ex novo per l’arredo interno delle chiese. Mi riferisco alle recinzioni delle aree presbiteriali, alle decorazioni di amboni e tribune e, solo secondariamente, alla scultura di natura piú prettamente architettonica, come capitelli e pulvini, nel cui ambito è però anche presente, in modo massiccio, il fenomeno del reimpiego dei materiali antichi. Analizzando questi manufatti, si coglie l’emergere di un linguaggio formale nuovo e diverso rispetto a quello dei loro antecedenti del V e VI secolo. Emergono in particolare alcune tendenze: il gusto per il riempimento decorativo delle superfici disponibili, la tendenza alla resa fortemente grafica e stilizzata degli elementi figurativi (umani e animali) e vegetali e lo sviluppo di stilemi geometrici spesso assai complessi, caratterizzati dall’interesse per motivi lineari e a intreccio. Queste peculiarità sono state talora interpretate come frutto dell’influsso sui canoni formali della tradizione scultorea tardo-antica di elementi riconducibili al gusto estetico che si ritrova nelle decorazioni dei prodotti di oreficeria rinvenuti nelle sepolture «longobarde» del tardo VI secolo e della prima metà del VII. In basso lastra in marmo bianco di ambone con figura di pavone e un frammento del suo pendant, da S. Salvatore. VIII sec. Brescia, Museo di Santa Giulia. In alto pluteo con una croce scolpita tra elementi vegetali di riempimento, dalla basilica di S. Salvatore. VIII sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.
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La questione è in realtà piú complessa. Infatti, se per alcuni motivi, per esempio quelli a intreccio, si possono talora trovare parentele anche stringenti fra il modo in cui essi vengono sviluppati su ambedue le due categorie di oggetti, è però vero che non mancano differenze ed elementi di originalità in ciascuna di esse. Come ulteriore elemento di raffronto fra oreficeria e scultura, e stata anche evocata la propensione al riempimento con elementi decorativi di tutti gli spazi disponibili, il cosiddetto horror vacui (letteralmente, paura del vuoto). Anche questa suggestione non difetta di buone ragioni, ma va accolta in termini di impostazione estetica e compositiva delle superfici degli oggetti, piú che di diretta e puntuale riproposizione di moduli e partiti decorativi tra manufatti appartenenti alle due categorie. Infine, un terzo piano di confronto è quello del gusto per il trattamento fortemente grafico e bidimensionale delle superfici decorate che, soprattutto quando applicato a motivi figurativi o vegetali, tende a stilizzarne i connotati e ad annullarne ogni sembianza naturalistica. Un altro dato da considerare è che queste tendenze estetiche della scultura dei territori longobardi sono in realtà comuni – pur con differenze e peculiarità regionali anche rilevanti – a
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tutta l’Europa occidentale altomedievale e, per restare in Italia, coinvolgono progressivamente anche le aree rimaste sotto i Bizantini, come per esempio quelle romana e ravennate.
Tra innovazione e conservazione
È dunque difficile esprimere un giudizio definitivo su questo argomento, che d’altra parte ha fatto versare fiumi d’inchiostro. Ciò non impedisce di constatare l’indiscutibile mutamento del gusto decorativo nella scultura, che prende forma proprio fra il VII e l’VIII secolo e che si caratterizza soprattutto per gli aspetti poc’anzi enumerati. Nulla vieta quindi di pensare che, pur senza postulare rapporti di dipendenza troppo stretti, canoni estetici penetrati nei territori già romani attraverso il medium dell’oreficeria prodotta «presso» i «barbari» o «per» i barbari (che, a sua volta, presenta elementi di forte affinità estetica nelle sue diverse declinazioni regionali) possano essere stati accolti e quindi essersi diffusi fra coloro che realizzavano scultura in pietra o in altri materiali, come per esempio lo stucco. Queste nuove tendenze stilistiche hanno in ogni caso convissuto con il sostanziale conservatorismo della progettazione architettonica degli edifici di culto e con il frequente, massic-
In alto ricostruzione ipotetica dell’abitato di Castelseprio (VA), cosí come doveva presentarsi prima d’essere distrutto nel 1287, per ordine di Ottone Visconti, arcivescovo di Milano. Mai menzionato nell’Historia di Paolo Diacono, il sito è citato nell’Anomino Ravennate (VII sec.), come uno dei centri tra Como e Novara. Nella pagina accanto Castelseprio. I resti della cosiddetta chiesa di S. Paolo, un edificio a pianta esagonale provvisto di abside costruito probabilmente tra l’XI e il XII sec., forse su una precedente struttura templare di età tardo-romana.
cio impiego al loro interno di pezzi scultorei di origine antica e tardo-antica. Un caso emblematico è quello della chiesa monastica bresciana dedicata al Salvatore, fatta costruire intorno al 750 dal duca della città, Desiderio, che nel 757 divenne l’ultimo re dei Longobardi. La chiesa faceva parte di un monastero femminile, che Desiderio – come molti altri aristocratici longobardi del suo tempo – aveva concepito come fondazione «di famiglia»: sua figlia vi divenne badessa e il duca e sua moglie l’avevano scelta come luogo per la propria sepoltura. La costruzione del monastero costituí un’impresa di vera e propria ristrutturazione urbanistica di buona parte del quarto nord-orientale dell’area racchiusa dalle mura di età antica. Venne smantellato un intero quartiere abitativo, sviluppatosi dopo l’arrivo dei Longobardi, popolato di capanne in legno, e furono definitivamente rasi al suolo i resti delle domus romane che ancora sopravvivevano in mezzo agli edifici successivi, nonché una chiesa precedente, che gli ultimi studi datano al VII secolo. L’impianto del monastero fu allineato fra uno dei cardines e il
decumano superiore del reticolo viario antico. I corpi di fabbrica del monastero – ripartiti in blocchi disposti ad ala intorno a delle corti interne – schermavano alla vista il suo gioiello piú prezioso, costituito dalla basilica, che fu collocata nella parete piú interna del complesso, forse raggiungibile da un ingresso che si apriva lungo il percorso del cardine.
Una decorazione sfarzosa
La chiesa costituiva una replica davvero squisita ed elegante delle basiliche cristiane a tre navate di tradizione tardo-antica, ciascuna delle quali conclusa da un’abside, di cui la centrale piú ampia e ariosa delle laterali. All’interno non si badò a spese per l’abbellimento: le pareti furono interamente dipinte e gli archi tra le colonne vennero impreziositi con decorazioni in stucco. Per le stesse colonne furono scelti con cura fusti di spoglio di origine classica, sormontati da capitelli anch’essi in massima parte di recupero, tra cui alcuni rari esemplari di capitelli «a cestello» dell’età di Giustiniano, probabilmente provenienti da Ravenna. L’antica capitale dell’impero d’Occidente, poi divenuta centro longobardi
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Castelseprio, chiesa di S. Maria foris Portas. Il Viaggio a Betlemme, affresco facente parte del ciclo pittorico con scene dell’infanzia di Cristo ispirate ai Vangeli apocrifi e databile probabilmente tra la seconda metà dell’VIII e i primi anni del IX sec.
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dell’amministrazione bizantina, era stata proprio in quegli anni conquistata dal re Astolfo, ed è quindi probabile che questi pezzi possano esservi stati acquisiti (forse anche come preda di guerra?) nel momento in cui i Longobardi vi ebbero libero accesso. Al di sotto del presbiterio fu ricavata una cripta, costituita da un vano che replicava, in proporzioni assai piú ridotte, la forma basilicale della chiesa superiore. L’arredo scultoreo della chiesa (i plutei, le recinzioni, il ciborio) fu però realizzato secondo il gusto piú contemporaneo, e cioè impiegando pezzi prodotti ex novo che, sebbene di fattura assai accurata, erano caratterizzati dall’impostazione stilistica ricordata in precedenza e che sicuramente possedevano tratti di marcata diversità rispetto all’impianto classicheggiante dell’edificio. La convivenza di queste diverse caratteristiche, ancora rintracciabili nella basilica bresciana del Salvatore grazie alla sopravvivenza di numerosi pezzi dell’arredo originario, costituisce uno dei tratti distintivi dell’architettura ecclesiastica dell’epoca longobarda e, piú in generale, di quella italiana dell’Alto Medioevo. E appare emblematica per capire come l’interesse per la tradi-
zione formale ereditata dalla tarda antichità non avesse impedito l’elaborazione di linguaggi estetici del tutto nuovi. Un’analoga giustapposizione fra imitazione dei canoni dell’età classica e tardo-antica e creazione di elementi originali e innovativi caratterizza la realizzazione di libri e iscrizioni. Infatti, anche in questi manufatti – con declinazioni diverse a seconda dei centri di produzione – si riscontra una rilevante capacità di rielaborazione della tradizione, all’interno della quale è difficile stabilire cosa sia genuinamente «nuovo» e cosa sia stato recuperato in modo puntuale dagli esempi del passato.
Scrivere alla maniera dei Romani
Esempi particolarmente eloquenti sono alcune epigrafi funerarie di re e regine dei Longobardi, come quelle di Cuniperto (morto nel 700) e di Ragintruda, nelle quali si percepiscono in modo netto il rispetto dei canoni piú classici dell’impaginazione dello scritto sulla superficie della pietra e il pieno recupero dello stile delle lettere capitali di derivazione romana antica. Al contempo, risalta però la capacità di rinnovare questa tradizione grafica, adottando per lo
scritto proporzioni peculiari e rielaborando i dettagli delle singole lettere in modo tale che non è difficile, anche per gli osservatori meno esperti, comprendere che ci si trova di fronte al risultato di uno stile del tutto originale. Purtroppo, la comprensione del linguaggio dell’architettura ecclesiastica fiorita nell’ultimo secolo di vita del regno longobardo è affidata, in massima parte, a frammenti di edifici, nel tempo profondamente modificati, se non addirittura a reperti erratici provenienti da costruzioni oggi scomparse ed esposti in musei e collezioni, e quindi in contesti avulsi da quelli originari. Di conseguenza, data la difficoltà di istituire confronti puntuali fra le caratteristiche stilistiche di ciascuno di essi, anche i monumenti che, oltre alla chiesa bresciana del Salvatore, si sono conservati in condizioni di relativa integrità sono stati spesso l’oggetto di animate discussioni fra gli studiosi in merito alla loro datazione. Ciò è apparso evidente soprattutto nei casi in cui, in assenza di dati provenienti da indagini archeologiche o di riferimenti cronologici offerti dalle fonti scritte, gli studi si sono concentrati inevitabilmente sull’analisi delle forme architettoniche e, quando presenti, dei decori scultorei e pittorici. Il caso piú celebre è quello della chiesetta di S. Maria foris Portas di Castelseprio, in provincia di Varese. L’abitato non è mai nominato nell’Historia di Paolo Diacono, ma è ricordato in una celebre opera geografica di età bizantina risalente
al VII secolo, il cosiddetto Anonimo Ravennate, come uno dei centri situati sull’itinerario che collegava Como a Novara. Le sue rovine furono già individuate nel corso di scavi condotti nel XIX secolo e lentamente, sulla base di notizie derivanti da fonti del tardo Medioevo, maturò la convinzione che la sua fondazione si dovesse attribuire ai Longobardi. In particolare, fu ipotizzato che esso costituisse uno dei presidi militari creati per proteggere il cuore dei territori dei regno in direzione dei valichi alpini. Castelseprio sorge infatti su un’altura dalla sommità piatta, interamente cinta di mura, che domina la valle dell’Olona e controlla quindi uno degli itinerari che, attraverso il lago di Lugano, scendevano dalle Alpi verso la Pianura Padana.
Prima dell’arrivo dei Longobardi Una veduta della chiesetta di S. Maria foris portas. Innalzato appena fuori dall’abitato di Castelseprio a partire dal V sec., l’edificio di culto, sopravvissuto alla distruzione della città, fu abbandonato nel XVII sec. e riscoperto da Gian Piero Bognetti nel 1944.
Quando però, nei primi anni Sessanta del XX secolo, presero avvio scavi sistematici – continuati poi a piú riprese sino ai nostri giorni – ci si rese ben presto conto che le origini dell’insediamento precedevano l’arrivo dei Longobardi e datavano alla tarda antichità. Come poi hanno confermato ricerche condotte in tutta l’area prealpina, fra il lago Verbano e il Lario, i Romani avevano disseminato di fortilizi tutte le vie di transito fra le Alpi e la pianura a partire dal IV secolo, quando l’accrescersi della pressione esercitata dalle popolazioni barbariche sulle frontiere dell’impero rendeva chiaro che l’Italia non era piú al sicuro da incursioni ostili.
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Cosí, anche la chiesa principale del villaggio, dedicata a san Giovanni, è stata riconosciuta come un edificio del VI secolo, anteriore perciò al momento dell’occupazione da parte dei Longobardi. Questi ultimi, come abbiamo già visto in precedenza, riutilizzarono le strutture già approntate dai loro predecessori, riuscendo a mantenerle perfettamente in efficienza. Nel periodo longobardo, però, non ci si limitò solo a conservare quanto già esistente, ma vennero aggiunti anche edifici nuovi. Il piú celebre è proprio la chiesa dedicata alla Vergine, definita foris Portas, perché situata un paio di centinaia di metri all’esterno della porta ovest della cinta muraria. È un piccolo edificio a navata unica, di 20 x 8 m circa, concluso da un’ampia abside e preceduto da un nartece. Sui due lati si aprono altrettante esedre, della stessa ampiezza dell’abside principale, che conferiscono all’edificio una pianta trilobata. Costruzioni con planimetrie simili non erano ignote nell’architettura tardoantica e furono adottate – prima ancora che nell’edilizia cristiana – per ambienti di rappresentanza in edifici civili o di privata abitazione, come sale di ricevimento e triclini. Nell’architettura cristiana le troviamo soprattutto (ma non esclusivamente) in edifici di carattere memoriale e funerario e tale finalità è presente anche nel nostro caso: intorno alla chiesa, infatti, è presente un numero significativo di sepolture, alcune delle quali occupano l’area del nartece, mentre una, di fattura piú accurata, venne ricavata al centro dell’abside principale. All’inizio del XX secolo l’edificio sopravviveva in condizioni piuttosto precarie e solo nel 1944, in piena guerra, uno degli studiosi a cui A
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piú è legata la tradizione degli studi sui Longobardi, Gian Pietro Bognetti (1902-1963), si accorse che le pareti del presbiterio e dell’abside maggiore della chiesa erano ricoperte da pitture di cui intuí subito la notevole antichità. In seguito alle campagne di restauro condotte nel dopoguerra, si comprese che le pitture componevano un ciclo imperniato sulla figura del Cristo.
Pitture «impressioniste»
Le pitture sono state eseguite da maestri capaci di ritrarre con sicurezza e naturalismo la figura umana e i suoi movimenti nello spazio e quindi gli espedienti per riprodurne la profondità e l’articolazione in piani ottici differenziati. I tratti sono veloci e quasi impressionistici, ma nulla tolgono all’espressività delle figure e alla capacità di cogliere e descrivere dettagli dell’ambiente che le circonda. In poche parole, sin dal momento della riscoperta delle pitture, apparve chiaro che gli artisti che decorarono la chiesetta di Castelseprio erano ancora pienamente padroni di tecniche e modi espressivi propri della pittura antica. Risulta altresí evidente che il ciclo da loro realizzato e miracolosamente giunto sino a noi costituiva un tassello davvero eccezionale nel mosaico delle conoscenze sull’arte altomedievale. L’aver ritrovato un ciclo di pitture con queste caratteristiche formali e dal complesso retroterra culturale (alcune scene, per esempio, traggono spunto dai Vangeli apocrifi) in un luogo «marginale» come Castelseprio ha costituito un vero rompicapo per gli studiosi, che negli ultimi sessant’anni si sono divisi in scuole di pensiero che hanno proposto interpretazioni e datazioni B
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Sulle due pagine, in basso altre scene affrescate nella chiesa di S. Maria foris Portas a Castelseprio. A. Annunciazione e Visitazione: l’Arcangelo Gabriele appare a Maria, mentre una donna osserva la scena; segue l’abbraccio tra Maria ed Elisabetta (molto lacunoso), fuori dalla casa di Zaccaria. B. Prova dell’acqua amara: il Sommo Sacerdote porge alla Vergine il vaso contenente l’acqua mischiata alla polvere presa dal pavimento del Tabernacolo, utilizzata per provare l’infedeltà delle donne che, se effettivamente colpevoli, sarebbero divenute sterili e deformi. C. Il sogno di Giuseppe: l’Angelo appare a Giuseppe per informarlo che il concepimento di Maria è opera dello Spirito Santo. D. Adorazione dei Magi, colti nell’atto di offrire i loro doni su vassoi d’argento.
le storie dipinte Condotti all’indomani della riscoperta, avvenuta nel 1944, i restauri delle pitture della chiesa di S. Maria foris Portas hanno rivelato un magnifico ciclo di affreschi imperniato sulla figura del Cristo, con scene in alcuni casi ispirate ai Vangeli apocrifi 1
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Schema della disposizione delle scene che compongono il ciclo affrescato nella chiesa di S. Maria foris Portas: 1. Trono celestiale; 2. Annunciazione e Visitazione; 3. Prova dell’acqua amara; 4. Cristo; 5. Sogno di Giuseppe; 6. Viaggio a Betlemme; 7. Fuga in Egitto; 8. Strage degli innocenti; 9. Presentazione al tempio; 10. Natività e annuncio ai pastori; 11. I Magi portano doni; 12. Sogno dei Magi.
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molto diverse fra loro. Le ipotesi sulla cronologia di esecuzione delle pitture hanno oscillato fra il VI secolo e l’XI e altrettanto discordanti sono le idee sulla provenienza dei loro esecutori, che alcuni vogliono strettamente legati al mondo bizantino, mentre altri ritengono invece espressione di una sopravvivenza locale di modi e tradizioni autoctone italiane. Un altro riferimento spesso citato è quello della possibile influenza esercitata sullo stile dei pittori dalle maniere in voga a Roma nei primi due secoli del Medioevo. Una tesi postulata soprattutto sulla base dei confronti istituiti con le pitture sopravvissute nella chiesa di S. Maria Antiqua, nel Foro Romano, e in particolare alle fasi databili nella prima metà dell’VIII secolo. Alla fine, anche in seguito ad analisi condotte con moderni metodi diagnostici sulle strutture dell’edificio, ha preso quota l’ipotesi che la fase pittorica attualmente visibile (e che si sovrappone a una piú antica) possa datarsi tra la seconda metà dell’VIII e i primi anni del IX secolo. Se questa lettura sarà definitivamente accettata, ne discenderà che le pitture di Castelseprio sono da attribuire ai decenni finali del regno longobardo o già al momento in cui l’Italia centro-settentrionale era stata conquistata dai Franchi.
Le otto sorelle di Torba
Se è ancora controverso il momento di costruzione della chiesa, rimane soprattutto apertissima la discussione su chi, oltre ad averne materialmente eseguito la decorazione oggi visibile, possa essere stato il committente di un’opera cosí particolare e culturalmente complessa. Vale la pena, a questo proposito, condurre un rapido confronto con un altro importante monumento dell’area urbana di Castelseprio. Al suo limite orientale, in un tratto in cui la cinta muraria scende lungo il fianco della collina sino a lambire la valle dell’Olona, si trovano i resti di un monastero installatosi nell’Alto Medioevo in quest’area appartata dello spazio urbano, riutilizzando anche una delle torri del suo recinto fortificato. È il cosiddetto complesso monastico di Torba, del quale si conservano diversi elementi, tra cui una piccola chiesa dedicata alla Vergine. Gli ambienti interni alla torre, suddivisi su due piani, avevano le pareti interamente decorate con pitture che purtroppo sopravvivono solo parzialmente. Tra le immagini che si sono conservate spicca soprattutto un corteo di otto monache, vestite del tipico abito nero. La qualità esecutiva delle pitture di Torba è notevole e la loro datazione è concordemente fissata alla seconda metà dell’VIII secolo, sia 96
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per ragioni formali, sia in base alla paleografia delle iscrizioni che le accompagnano. Tuttavia, esse non hanno nulla in comune con quelle di S. Maria foris Portas. Se quindi i due cicli sono da considerarsi effettivamente piú o meno contemporanei, ne discende la conclusione che i loro committenti si sono rivolti ad artisti dalla formazione totalmente diversa. Il che, considerando ancora una volta che ci troviamo in un centro di piccole dimensioni e in apparenza non direttamente interessato da committenze regie o aristocratiche del piú alto livello, costituisce un altro elemento in grado di confermare le riflessioni già fatte sulla ricchezza dell’humus culturale sviluppatosi nelle regioni longobarde dell’Italia nella fase piú matura di vita del regno. In effetti, soprattutto nel corso del lungo regno di Liutprando (712-744), crebbe la tendenza verso l’assorbimento sempre piú profondo, soprattutto sul piano religioso, delle tradizioni italiane. Nell’intestazione dell’editto con cui promulgò i capitoli di legge che si andavano ad aggiungere all’Editto di Rotari, il re si proclamava catholicus e simili atteggiamenti si rilevano anche nei suoi due successori, Ratchis (744749) e Astolfo (749-756). E nei testi dei capitoli che essi aggiunsero a piú riprese al corpus rotariano i riferimenti alla religione cristiana sono, si può dire, onnipresenti. Fra i molti esempi di «infiltrazioni» della religione cristiana all’interno delle leggi emanate dai re dell’VIII secolo, basti ricordare i numerosi rimandi ai suoi testi sacri, che i re utilizzano come motivazioni morali per gli orientamenti giurisprudenziali adottati su materie che, stricto sensu, non presentano alcuna connessione con temi religiosi. Altrettanto significativa, è la presenza di disposizioni relative ad aspetti specifici della vita degli ecclesiastici presenti all’interno del regno, come quelle sullo status delle donne che avevano preso l’abito monastico e quelle concernenti le cause giudiziarie che contrapponevano monaci e laici. Queste differenze suggeriscono che, come abbiamo visto, nei decenni trascorsi fra il momento della stesura dell’Editto e poi dell’Origo Gentis Langobardorum e quello in cui furono emanate le leggi di Liutprando e dei suoi successori, i connotati della monarchia longobarda erano profondamente mutati. Cosí come le norme destinate a regolare la vita del popolo che essa governava.
Il Dio dei cristiani vigila sul re
Intorno al 665 l’Editto di Rotari costituiva un corpus di leggi ancora immodificato, che si riteneva però appropriato collegare a una ricostruzione degli antefatti della storia dei Longobardi, in cui le divinità dell’antico pantheon
Castelseprio. A destra particolare dell’affresco sulla parete ovest del secondo piano della torre di Torba, adibita a oratorio, con raffigurate otto monache in processione. Seconda metà dell’VIII sec. Le pitture del complesso di Torba sono sicuramente opera di di un artista di formazione differente rispetto al maestro della chiesa di S. Maria foris Portas, elemento che testimonia la grande ricchezza dell’humus culturale e artistico dei territori italiani nella fase finale del regno longobardo.
germanico rivestivano il ruolo di protettori delle fortune dei loro re e guerrieri. Tale corpus considerava questo popolo come un’entità separata dal resto della popolazione italiana, dalla sua cultura e dalla sua religione. Dopo il 700, invece, i riferimenti alla religiosità «pagana» sembrano totalmente svaniti, mentre è il Dio dei cristiani a proteggere l’autorità del re, a consigliarlo nelle sue azioni di governo e fare sí che il monarca possa prendere le decisioni migliori per salvaguardare l’armonia del popolo longobardo. In un capitolo di legge emanato da Liutprando, riguardante il tema della regolazione del matrimonio tra affini, il sovrano decide la posizione da assumere addirittura dopo aver ricevuto consiglio dal papa di Roma «che, in tutto il mondo, è il capo della Chiesa di Dio e dei sacerdoti». Questi aspetti rilevabili nel lessico e nei riferimenti concettuali palesati dai testi delle leggi emanate lungo l’VIII secolo, lasciano intendere due cose importanti: che l’identità del popolo longobardo è ora inscindibile dalla sua adesione al cristianesimo; che il sovrano lo governa non tanto in virtú di un riconoscimento che gli proviene dall’essere il legittimo successore dei re del passato, ma perché è Dio – il Dio dei cristiani – ad avergli affidato que-
sto compito. La salus dei Longobardi nel loro insieme deriva quindi dall’efficacia della protezione divina che il monarca incarna e incanala in atti guidati dalla provvidenza di quest’ultima. La simbiosi fra il potere regio e la religione cristiana rende le istituzioni ecclesiastiche non piú aliene rispetto al corpo sociale dei Longobardi e, in qualche modo, attenua anche la distanza fra chi a esso appartiene e chi costituisce la componente «romana» della popolazione, della cui protezione il re è chiamato da Dio a farsi carico.
Le nuove prospettive della monarchia
I germi di questa trasformazione erano già rintracciabili in alcuni aspetti dell’azione politica dei sovrani, come Agilulfo, in carica tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo. La «sindrome dell’assedio», che attanagliava la società longobarda di quell’epoca, impediva però di procedere oltre sulla strada dell’assimilazione dei costumi e della cultura della terra conquistata. Ma un secolo e piú dopo, la partita per la sopravvivenza del regno era ormai vinta e il fatto che, nel rappresentare pubblicamente la propria autorità, i re accentuassero connotati decisamente riferibili alla tradizione religiosa locale indicava che essi si longobardi
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sentivano a loro volta profondamente partecipi dei valori che essa incarnava. Questo mutamento era però anche il segno di un’evoluzione della prospettiva politica della monarchia longobarda. A partire dall’inizio dell’VIII secolo, nei territori bizantini iniziarono a evidenziarsi fermenti di una sempre maggiore volontà di autonomia delle popolazioni locali nei confronti del governo centrale di Costantinopoli. A metà degli anni Venti, la decisione dell’imperatore Leone III di proibire il culto delle immagini sacre rese ancora piú evidenti gli elementi di contrasto con le province italiane e soprattutto con la Chiesa, che rifiutò fermamente di accettare le disposizioni emanate in tal senso.
In preghiera sulla tomba di Pietro
Profittando di questa situazione, Liutprando pensò che fosse giunto il momento propizio per sbarazzarsi dei rappresentanti del potere bizantino e attaccò l’Emilia e le Marche settentrionali: non riuscí a occupare Ravenna, ma la ridusse di fatto a un avamposto isolato, ormai privo di un territorio circostante. Poco dopo, si recò a Roma e – primo monarca longobardo della storia – poté presentarsi da trionfatore e da sovrano cattolico dinnanzi alla basilica di S. Pietro, presso la quale fu ricevuto da papa Gregorio II (715-731) e dove entrò per pregare presso la tomba dell’Apostolo, sulla quale depose le proprie insegne regali.
In basso Bologna, complesso monumentale della basilica di S. Stefano. Il cosiddetto Catino di Pilato, un vaso in marmo con scolpita un’iscrizione che riporta i nomi dei re longobardi Liutprando e Ildeprando e del vescovo Barbato. VIII sec. Nel 728 (o 727?) Liutprando attaccò l’Emilia e le Marche settentrionali riuscendo a conquistare buona parte dei possedimenti bizantini, tra cui la città di Bologna, ma non arrivò a occupare Ravenna. Contemporaneamente, il re era riuscito a debellare le velleità autonomistiche dei duchi di Spoleto e Benevento, che si videro obbligati a riconoscere la sua piena autorità. Nel 729 Liutprando era quindi a un passo dal concretizzare un’egemonia totale su quasi tutta l’Italia. Ma aveva sottovalutato un ostacolo che, alla lunga, si rivelò fatale per le sorti di tutto il regno dei Longobardi. Gregorio II, infatti, intuí che l’obiettivo finale di Liutprando era la sottomissione di Roma (oltre che del resto dell’Italia) alla propria autorità. Una prospettiva del genere, nonostante la diversa fisionomia che il potere longobardo aveva progressivamente assunto, appariva inaccettabile al secondo Gregorio quanto lo era stata per il primo papa di questo nome, alla fine del VI secolo. I pontefici romani, nel tempo, si erano abituati a rapportarsi con un’autorità, quale quella imperiale, tanto «universale» nelle sue prerogative quanto lontana nella realtà, ed erano perciò riusciti a ritagliarsi ampi spazi di autonomia politica e di libertà d’azione nei confronti delle Chiese dell’Occidente. Spazi che avrebbero potuto essere fortemente limitati, se non addirittura compromessi del
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tutto, nell’ipotesi di una soggezione a un re «vicino», che per di piú si proclamava pienamente cattolico e rivendicava apertamente la derivazione divina del proprio potere e il suo diritto a occuparsi di materie religiose.
Le ambizioni di Liutprando
Gregorio si preoccupava, dunque, del fatto che un sovrano della caratura e della personalità di Liutprando, una volta insignoritosi definitivamente di Roma, avrebbe posto il papato sotto la sua tutela. Iniziò allora a svilupparsi, negli ambienti pontifici, un orientamento in base al quale il papa poteva porsi di fronte al sovrano longobardo non tanto e non solo quanto vescovo della piú importante sede episcopale dell’Occidente cristiano. Piuttosto, con l’ormai evidente dissolvimento dell’autorità bizantina, anche come depositario di prerogative istituzionali che a quest’ultima sarebbero dovute spettare. Per essere piú chiari, tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta dell’VIII secolo, i papi iniziarono a vagheggiare l’idea di poter detenere, su Roma e dintorni, poteri di carattere temporale oltre che spirituale. L’ostacolo che Liutprando si trovava di fronte
per attuare pienamente il suo disegno egemonico sull’Italia era quindi di natura assai piú ardua di quanto l’apparenza potesse suggerire. Un papato pregiudizialmente ostile ai suoi piani non sarebbe stato di per sé difficile da piegare con la forza, ma la sua posizione di re cristiano gli impediva di procedere in tal senso. Dal canto suo, il pontefice dimostrava non solo di godere di una certa autorità a Roma e dintorni, ma di essere anche in grado di aggregare intorno a sé un consenso che andava al di là delle frontiere del territorio romano, sino a coinvolgere alcuni fra i duchi piú importanti del regno. Le campagne militari del 728-729 si erano comunque chiuse con un bilancio tutto sommato positivo per il sovrano, che era riuscito a imporre la sua autorità su tutti i territori del regno e a indebolire notevolmente la presenza bizantina nel Centro-Nord d’Italia. Nonostante la resistenza offerta da Gregorio II, Liutprando probabilmente riteneva che i conti con il papato si sarebbero prima o poi potuti chiudere a suo vantaggio. Ma nel 739 le spinte autonomistiche dei ducati periferici si riaccesero pericolosamente e apparve chiaro, ancora una volta, che il papato
In alto Roma. Un tratto delle Mura Aureliane. Nel 729 Liutprando si recò nell’Urbe e si presentò come monarca cattolico alla basilica di S. Pietro, presso la quale fu ricevuto da papa Gregorio II. In realtà, il sovrano longobardo mirava a estendere il proprio dominio anche sulla capitale della cristianità e ciò indusse il pontefice ad avviare una strategia politica in cui la Chiesa si sarebbe affermata anche come potere temporale, subentrando all’autorità bizantina, ormai in dissolvimento.
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In alto frontale dell’Ara del duca (re dal 744) Ratchis, con raffigurata un Maestà Divina: Cristo benedicente racchiuso in una mandorla insieme a due cherubini e sorretto da quattro angeli. 737-744. Cividale del Friuli, Museo Cristiano e del Tesoro del Duomo. Nella pagina accanto re Ratchis in una miniatura dal manoscritto del Codex Matritensis leges Langobardorum. XI sec. Madrid, Biblioteca Nacional de España. Durante il suo regno, Ratchis aggiunse quattordici capitoli all’editto dei re longobardi.
(a quel tempo rappresentato da Gregorio III [731-741]) non era certo schierato dalla parte del re. Il duca di Spoleto Trasmondo II, infatti, che si era ribellato a Liutprando, costretto a fuggire dall’arrivo in città dell’esercito regio, si rifugiò a Roma, dove Gregorio III si rifiutò di consegnarlo al sovrano. Il gesto del papa scatenò una nuova offensiva di Liutprando contro il Lazio, che condusse l’esercito longobardo sino alle porte di Roma e si concluse con l’occupazione di quattro castelli di confine – Orte, Amelia, Bomarzo e Blera – che gli avrebbero permesso di tenere sotto controllo gli accessi a Roma e, soprattutto, di tagliare la strada fra quest’ultima e Ravenna.
Una curiosa ingiunzione
Nella circostanza avvenne un fatto curioso, di cui ci fornisce notizia una glossa apposta alla biografia di Gregorio III inserita nel Liber Pontificalis. Mentre assediava Roma (evento che si ripeteva per la prima volta dopo il 593, al tempo di Agilulfo), avendo posto l’accampamento al Campo di Nerone presso il Vaticano, l’esercito di Liutprando riuscí a catturare alcuni nobili romani, ai quali fu imposto di rasarsi e vestirsi more Langobardorum. L’episodio dimostra che, ancora in questo periodo cosí lontano dai giorni dell’invasione, i Longobardi erano riconoscibili per alcune precise caratteristiche delle loro acconciature e dei loro abiti e che, nel momento della
contrapposizione frontale con il papato, essi sottolinearono questi loro tratti distintivi, imponendoli ai nemici romani come un segno della loro determinazione a sottometterli. Dall’altro lato della barricata, le fonti papali rispondono rispolverando il vecchio armamentario lessicale, già utilizzato da Gregorio Magno alla fine del VI secolo, attraverso il quale i Longobardi sono descritti come individui nefandi e spinti alle azioni ostili che compivano contro Roma dalla loro natura intrinsecamente demoniaca e sacrilega. Benché simili atteggiamenti siano inquadrabili nel clima di contrapposizione politica e militare di quegli anni, essi sono tuttavia rivelatori del fatto che, nonostante la condivisione della medesima confessione religiosa, era ancora possibile da ambo le parti in conflitto soffiare sul fuoco delle differenze fra «Longobardi» e «Romani». Si rievocavano in questo modo atteggiamenti e paure che potevano aver avuto una loro aderenza alla realtà centocinquanta anni addietro, ma che evidentemente, quasi alla metà dell’VIII secolo, riuscivano ancora efficaci sul piano propagandistico. Fra il 739 e il 742, Gregorio III e il suo successore Zaccaria, in carica dal 741, si riconfermano pienamente capaci di dispiegare il ventaglio di iniziative politiche e di capacità operative messe in campo da Gregorio II: brigano per distaccare i duchi di Spoleto e Benevento longobardi
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Nonantola (MO), abbazia di S. Silvestro. Formella del portale realizzato da Wiligelmo raffigurante Astolfo, re dei Longobardi, che dona le terre di Nonantola all’abate Anselmo, già duca del Friuli e suo cognato, XII sec. Succeduto al fratello Ratchis, Astolfo tentò di sancire la sua supremazia sull’intera Penisola con la forza delle armi, arrivando a impadronirsi definitivamente di Ravenna nel 751.
dalla fedeltà al re, intervengono – con successo – presso quest’ultimo per recuperare il controllo delle piazzeforti del Lazio settentrionale occupate nel 739, e conducono in prima persona e con risorse della Chiesa il restauro delle mura di Roma.
Vicari del potere bizantino
Insomma, di fronte al dissolvimento del potere bizantino, i pontefici ne esercitano sempre piú estesamente le veci, probabilmente gestendo in modo ormai autonomo prerogative che, all’inizio, dovevano essere state loro da esso delegate, entro un contesto istituzionale controllato dal governo di Ravenna e dai fun102
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zionari che lo rappresentavano nell’antica capitale imperiale. Il cammino terreno di Liutprando si concluse nel gennaio del 744. Il re longobardo era infine riuscito nell’intento di riportare entro l’orbita della monarchia pavese i ducati di Spoleto e Benevento, ma non aveva risolto il problema della resistenza pontificia e anzi, nel 743, per assicurarsi di non avere problemi su quel versante, aveva accettato di «restituire» a papa Zaccaria i castelli di Amelia, Bomarzo, Orte e Blera. La restituzione avvenne in quanto le quattro località erano di pertinenza del ducatus Romanus, ma chi rappresentava questa entità territoriale era in tutto
e per tutto il papa, il quale, rientrato a Roma, celebrò l’evento come un vero e proprio trionfo personale, tenendo perfino una pubblica concione alla popolazione, come avrebbe fatto un imperatore di ritorno da una vittoriosa campagna militare. L’unificazione dell’Italia sotto le insegne del re longobardo era per ora da rimandarsi ad altra occasione. Ma l’azione che questi aveva condotto nei confronti dei ducati di Spoleto e di Benevento prova che, al contrario dei Bizantini, dimostratisi non piú in grado di presidiare efficacemente i loro domini nell’Italia centro-settentrionale – e che, forse già da qualche decennio, consideravano veramente strategici solo quelli delle sue propaggini piú meridionali –, Liutprando aveva un’idea diversa sul futuro geopolitico della Penisola. Con lui, infatti, apparve chiaro che i monarchi di Pavia ragionavano ormai in base a un disegno d’impronta quasi «romana» (nel senso che anche un re «barbaro» come Teodorico avrebbe potuto dare a questo termine): essi vedevano l’Italia come uno spazio unitario e ritenevano loro dovere e diritto ambire al dominio dell’intera Penisola.
Il breve regno di Ratchis
La fine del lungo regno di Liutprando fu seguita, dopo pochi mesi, da quella del suo nipote e successore Ildeprando, rovesciato da una congiura che portò sul trono il duca del Friuli, Ratchis, il quale, a sua volta, vi rimase per poco piú di un quadriennio. Sotto questo sovrano riemersero tensioni latenti nella società del regno, che il dinamismo e il carisma personale di Liutprando avevano sopito e che, d’altra parte, forse l’esito non conclusivo delle sue campagne militari aveva finito per rinfocolare. Ratchis ritenne opportuno pervenire a un accordo di pace con papa Zaccaria (che trattò quindi con il re come detentore di un potere riconosciuto de facto su Roma e dintorni) e l’idea che egli perseguiva era probabilmente quella di raggiungere per vie non belligeranti l’obiettivo di vedersi riconosciuta da quest’ultimo la supremazia politica sull’Italia, puntando piuttosto sulla sottolineatura del ruolo del re come monarca cattolico e quindi autorità di riferimento per tutte le popolazioni italiane. L’avere sposato una donna non longobarda potrebbe forse aver influito nell’orientamento della sua linea politica, cosí come su quella di Agilulfo avevano certamente pesato le origini e le inclinazioni religiose di Teodolinda. È stato osservato, a questo proposito, che egli avrebbe per questo motivo adottato, nei capitoli di legge che aggiunse al corpus di Rotari, la semplice titolatura di rex, senza aggiunger-
Ancora una formella del portale dell’abbazia di S. Silvestro a Nonantola raffigurante papa Stefano II che benedice l’abate Anselmo. XII sec. Nel 752 Astolfo si recò a Roma, dove pretese il riconoscimento della sua autorità e un tributo da parte del pontefice. Tale richiesta comportò però l’alleanza del papa con Pipino il Breve, maestro di palazzo e futuro sovrano dei Franchi, che portò ai successivi interventi franchi in Italia nel 754 e 756.
vi l’attributivo Langobardorum, nonché quella di princeps, in modo da «depurare» l’immagine della propria autorità da qualifiche troppo esplicitamente connotate in senso etnico. Questo indirizzo non avrebbe però trovato consenso presso la maggioranza dell’aristocrazia longobarda, che desiderava piuttosto riprendere la linea piú aggressiva seguita da Liutprando. In seguito a queste pressioni, nel 749 Ratchis decise di rompere gli accordi con il papa e di organizzare una spedizione militare contro il corridoio che collegava – attraverso Perugia – Roma con quanto rimaneva dei territori bizantini intorno a Ravenna. Il papa però lo persuase e desistere dai suoi intenti e allora il re, vista forse irrimediabilmente minata la sua credibilità di condottiero del popolo longobardo, decise di abdicare e di farsi monaco a Montecassino.
La parola alle armi
Lo sostituí sul trono il fratello Astolfo che, come Ratchis, riteneva che la monarchia dovesse essere sia l’istituzione che incarnava l’identità del popolo longobardo, sia un potere accettabile anche per le popolazioni sino ad longobardi
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la dinastia carolingia Carlo Martello (689 circa-741)
[1] Carlomanno (715-755) Maggiordomo d’Austrasia dal 741 al 747
Drogone
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[1] Pipino il Breve (715-768) Maggiordomo di Neustria dal 741 e d’Austrasia dal 747, re dei Franchi dal 752 al 768. Sposa Berta o Bertrada (†783)
Altri figli la cui sorte è sconosciuta
Carlomanno (751-771) Re di Borgogna, Provenza, Settimania e Aquitania orientale dal 768 al 771. Sposa nel 770 Gerberga figlia di Desiderio re dei Longobardi
[1] Chiltrude (†754) sposa nel 741 Odilone (†748), duca di Baviera
Carlo Magno
[2] Grifone (†753) Duca di Baviera dal 749 al 753
(742-814) Re di Austrasia e di Neustria dal 768, di tutto il regno dal 771, re dei Longobardi dal 774. Imperatore dall’800. Dopo un rapporto di concubinaggio con [1] Imiltrude (†?), sposa: [2] nel 770 Ermengarda (o Desiderata) figlia di Desiderio re dei Longobardi, ripudiata nel 771; [3] nel 771 Ildegarda (758-783); [4] nel 783 Fastrada (†794); [5] post 796 Liutgarda (†800)
Gisella (757-811) Suora
In alto la consacrazione di Pipino il Breve in una incisione di Jean-Michel Moreau, detto Moreau il Giovane. XVIII sec. Pipino venne unto e consacrato re dei Franchi, con i figli Carlo e Carlomanno, da papa Stefano II il 28 luglio 754, nella basilica di Saint-Denis. Nella pagina accanto ancora un’incisione di Moreau il Giovane raffigurante l’abdicazione di Carlomanno in favore del fratello, Pipino il Breve.
allora rimaste sotto il dominio bizantino. A differenza del suo predecessore, Astolfo decise però che dovesse essere la forza delle armi a sancirne il predominio sull’Italia. Dopo un anno trascorso a riorganizzare la compagine militare del regno, Astolfo lanciò nel 750 una campagna che lo portò, un anno dopo, a impadronirsi definitivamente di Ravenna. Fedele ai principi appena ricordati, il re garantí all’ex capitale dell’esarcato la conservazione di un regime amministrativo separato da quello degli altri territori del regno, mantenendo la funzionalità del suo palazzo e avviandovi una coniazione di monete a proprio nome, distinta da quella emessa dalla zecca di Pavia. Dopo aver ristabilito il controllo su Spoleto e Benevento, nel 752 si recò a Roma ove chiese al nuovo papa, Stefano II (752-757), di riconoscere la sua autorità e di conferirgli il pagamento di un tributo di entità corrispondente al numero di abitanti presenti in città e nel suo territorio. Nonostante le fonti pontificie dipingano Astolfo come la reincarnazione dell’Anticristo e ne descrivano il carattere con tratti belluini, associando all’esecrazione della sua persona quella di tutti i Longobardi, in realtà il re, di fronte alla prospettiva di assalire Roma a mano armata,
manifestò le stesse esitazioni che qualche anno prima avevano fatto impantanare i progetti di Liutprando. Ma il conto che avrebbe dovuto pagare per non aver agito tempestivamente nei confronti del papa fu molto piú salato di quello imposto dalla storia al suo predecessore.
Un’ambasceria per Pipino
Il papa, infatti, approfittò della situazione di stallo per inviare un’ambasceria presso i Franchi, indirizzandola precisamente al maestro di palazzo Pipino detto «il Breve», che da qualche anno era ormai l’uomo forte del regno transalpino. In essa Stefano illustrava la drammatica situazione in cui si trovava la città del principe degli Apostoli e il rischio che essa cadesse nelle mani di un re empio. Il magister palatii franco si trovava allora all’apice del suo potere e desiderava, una volta per tutte, definire la propria posizione istituzionale, liberandosi dell’ultimo monarca della stirpe merovingia che ancora sedeva sul trono dei Franchi – seppur privo di qualsiasi autorità effettiva – e prenderne il posto. Il papa avrebbe potuto essere la persona giusta per suggellare, con il carisma del successore di san Pietro e di vescovo dell’antica capitale imperiale, le pretese di Pipino. longobardi
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Tuttavia, sulle prime, l’appello del papa al futuro re dei Franchi costituí probabilmente piú che altro un ballon d’essai nei confronti di Astolfo, per verificare sino a che punto egli intendesse spingere le sue mire ostili nei confronti di Roma. Nell’autunno del 753, infatti, il papa si recò a Pavia per parlamentare con il sovrano (anche a nome dell’imperatore bizantino!), ma questi – che nel frattempo aveva tolto l’assedio a Roma – non si dimostrò disposto a recedere dall’intento di sottoporre tutta l’Italia al proprio dominio e di mantenere le conquiste effettuate. Nonostante Stefano e Astolfo avessero concluso i loro colloqui rimanendo su posizioni molto distanti, il re longobardo non se la sentí di impedire al papa di proseguire il suo viaggio verso il regno dei Franchi, poiché vi era stato invitato personalmente da Pipino tramite un’ambasceria «di ritorno», che questi aveva inviato a Roma nell’estate di quello stesso anno per approfondire i contatti con il pontefice. Bloccare l’itinerario del papa al di là delle Alpi sarebbe stato uno sgarbo esplicito al potente padrone del regno franco, che avrebbe potuto causare seri problemi diplomatici fra i due Stati. D’altra parte, vista con il senno del poi, la decisione di aver lasciato partire il papa per la Francia, fu causa di conseguenze molto piú gravi, poiché permise a Stefano e a Pipino di avere il tempo per instaurare un rapporto personale – oltre che politico – molto profondo, le cui ricadute ebbero effetti esiziali sulla parabola di Astolfo e di tutto il regno dei Longobardi.
Gli accordi del papato con i Franchi
La permanenza del papa in Francia nei primi mesi del 754, infatti, oltre a far guadagnare a Pipino e ai suoi figli la conferma dell’unzione regia conferitagli qualche tempo prima da san Bonifacio (che corroborava il loro riconoscimento in questa carica già concesso dall’assemblea dei nobili franchi), serví anche a pianificare l’assetto politico che Stefano II e il nuovo re già immaginavano per un’Italia «liberata» dalla monarchia longobarda, dando evidentemente per scontata una imminente spedizione militare franca nella Penisola. Gli accordi raggiunti in questa circostanza prevedevano che buona parte dell’Italia padana sarebbe finita sotto la potestà del re franco, mentre alla sovranità del papa sarebbero state trasferite tutte le Carlo Magno valica le Alpi, 773, olio su tela di Eugène Roger. XIX sec. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et de Trianon. L’artista immagina un momento della spedizione decisa dal re franco per combattere Desiderio, che ebbe come esito la definitiva sconfitta dei Longobardi nel 774. 106
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Miniatura raffigurante Arechi II, duca e poi principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della SS. Trinità. Genero di Desiderio, Arechi II riuscì a far sopravvivere il ducato alla conquista franca e successivamente a elevarlo a principato, anche se sotto la tutela di Carlo Magno.
terre a sud di una linea che congiungeva idealmente il litorale veneto all’altezza di Padova, con quello tirrenico al confine fra le odierne Liguria e Toscana. Il quadro degli accordi fra Stefano II e il nuovo re franco dimostra che, ormai, da parte del papato era venuta meno qualsiasi esitazione riguardo l’idea di proporsi come legittimo erede della potestà imperiale su parte dell’Italia. Nonostante la palese ambiguità (a dir poco) dei presupposti giuridici alla base delle rivendicazioni territoriali avanzate dal pontefice, esse furono prese per buone dal sovrano franco, che doveva aver trovato sufficienti contropartite negli accordi stipulati con Stefano. Forse, Pipino era anche stato irretito dal prestigio della Chiesa di Roma, alla quale guardava una parte importante del clero franco a lui piú vicino – nelle sue componenti sia secolari che monastiche – come fonte d’ispirazione per la riorganizzazione culturale, liturgica e spirituale delle istituzioni ecclesiastiche d’Oltralpe e delle missioni indirizzate alla cristianizzazione delle terre dell’Est germanico.
La disfatta della val di Susa
L’occasione per regolare i conti con il re longobardo – sulla base degli accordi stipulati con il papa – si presentò a Pipino nell’estate del 754. Il sovrano franco si era infatti fortemente indispettito per i tentativi di Astolfo di minacciare l’unità del proprio regno, spingendo suo fratello Carlomanno che, come Ratchis, s’era ritirato a vista ascetica a Montecassino, a tornare in patria per reclamare i diritti sulla corona per sé e per i propri figli. Carlomanno fu presto tolto di mezzo, e la circostanza giocò alla fine anche a favore di Pipino, che ottenne di farsi ungere dal papa nuovo re, insieme ai suoi due figli. Astolfo, invece, sicuramente non trasse un gran beneficio dall’appoggio dato a Carlomanno, poiché Pipino, proprio per questo motivo, alla fine dell’estate del 754 si decise a muovere guerra contro i Longobardi. Lo scontro si risolse con la netta vittoria dei Franchi nella val di Susa e Astolfo fu obbligato ad accettare un accordo di pace che rimetteva in discussione tutte le conquiste degli anni precedenti. Il re longobardo pensò allora che fosse giunto il momento di giocarsi il tutto per tutto, mettendo Pipino di fronte al fatto compiuto della capitolazione di Roma, che fu di nuovo messa sotto assedio all’inizio del 756. Ma non aveva fatto i conti con la serietà degli accordi presi fra Stefano II e il re dei Franchi, che allora riprese di nuovo il cammino dell’Italia con il suo esercito, battendo ancora una volta l’esercito longobardo nello stesso luogo in cui lo aveva affrontato due anni prima. Assediato a Pavia, Astolfo do-
vette infine chiedere la pace, imposta questa volta a condizioni molto piú onerose, che comprendevano il pagamento di un tributo annuale ai Franchi, nonché la cessione di un terzo del tesoro regio. Soprattutto, però, il re longobardo fu obbligato a trasferire al papa la sovranità sulle terre ravennati, nonostante le proteste degli inviati dell’imperatore bizantino Costantino V (741-775) che, certamente con piú diritti di Stefano II, ne reclamava il possesso. Astolfo morí alla fine del 756 a seguito di un incidente di caccia. Non è chiaro se la sua fine sia stata accidentale ma, in ogni caso, la sua permanenza sul trono, minata dalla doppia e umiliante sconfitta patita contro i Franchi, non sarebbe probabilmente stata né facile per lui, né piú utile per il suo popolo. La sua successione non fu semplice, perché trovò contrapposti un partito «legittimista», rappresentato dall’ex re Ratchis, che tentò di tornare sul trono abbandonando il ritiro monastico, e uno che potremmo definire «innovatore», con a capo il bresciano Desiderio, il duca che Astolfo aveva inviato a governare la Tuscia. Seppure iniziati sotto i foschi auspici della rotta di Astolfo, gli anni di regno di Desiderio non rappresentarono semplicemente il prologo alla definitiva sconfitta dei Longobardi, maturata nel 774 per opera del figlio di Pipino, Carlo Magno (768-814). Il nuovo re, infatti, seppe lentamente recuperare margini per un rilancio della propria iniziativa politica. Quasi subito dopo la sua ascesa al trono, riuscí a insediare come duca di Benevento il genero Arechi II (758-787), personaggio di grande spessore e abilità, che incontreremo ancora piú avanti. Analogamente, sostituí con un proprio candidato il duca Alboino che, con l’appoggio del papa, si era impadronito di Spoleto dopo la morte di Astolfo.
Rompere l’isolamento
Tali atti rientravano in una piú vasta strategia, volta a eludere l’attuazione delle «restituzioni» al papa delle terre incluse negli accordi stipulati con Pipino. Di fatto, egli si limitò in tal senso a fare lo stretto indispensabile per evitare che a Roma si trovassero motivi sufficienti per ricominciare a protestare e a invocare l’aiuto del re dei Franchi. Trasferí quindi sotto la sovranità pontificia buona parte delle terre dell’ex esarcato (cioè Romagna e Marche settentrionali); una sovranità che, peraltro, l’arcivescovo di Ravenna era tutt’altro che disposto ad accettare supinamente, reclamando su quei territori diritti di subentro al potere bizantino che, in fondo, si basavano su presupposti non molto diversi da quelli costruiti in vitro nelle cancellerie pontificie. Nel frattempo, dando in longobardi
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sposa al duca di Baviera Tassilo una propria figlia, iniziò anche a tessere una tela di relazioni diplomatiche che doveva servirgli a rompere l’isolamento in cui il regno era finito dopo le sconfitte subite da Astolfo. Il momento migliore del regno di Desiderio fu il triennio compreso fra il 768 e il 771. Pipino III era morto e il regno dei Franchi si trovava diviso tra i suoi due figli, Carlo (Magno) e Carlomanno. Il re longobardo riuscí a far sposare un’altra sua figlia proprio con Carlo, pensando, in questo modo, di rompere l’intesa fra il papato e il regno franco. Ciò fu anche reso possibile dalla grave crisi scoppiata all’interno della Sede romana alla morte di papa Paolo I (757-767), fratello e successore di Stefano II. I due pontefici, che occuparono il soglio per un quindicennio, erano esponenti di una famiglia potente in città. E probabilmente, alla morte di Paolo, nell’impossibilità che la carica vescovile si trasformasse in un appannaggio della sua dinastia, il vuoto di potere che seguí creò le premesse per lotte intestine nella società romana, di cui la dignità papale costituiva sempre piú il vertice politico. Per un momento i Longobardi arrivarono a imporre addirittura un proprio candidato (il prete Filippo) il quale, pur non riuscendo a ottenere la conferma in carica, fu però sostituito da un personaggio particolarmente debole – Stefano III (768-772) – che, nel 771, arrivò perfino a chiedere l’aiuto dello stesso Desiderio per far fronte a dissidi che avevano causato
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a Roma scontri armati tra fazioni rivali. Una di esse era favorevole a un rapporto piú diretto fra Roma e i Longobardi e, probabilmente, preferiva questa prospettiva a quella di un nuovo e radicale intervento dei Franchi nelle faccende politiche italiane. La partita che il re stava giocando per garantire l’indipendenza dei Longobardi e il recupero di una posizione in Europa pari a quella avuta al tempo di Liutprando era tutt’altro che facile. Tuttavia, data anche l’eclissi della presenza bizantina nell’Italia del centro-nord, avrebbe avuto forse buone chance di successo, se queste non fossero state bruciate anzitempo dal destino, che cambiò nel volgere di pochi mesi identità e posizioni dei protagonisti in campo. Fra il dicembre del 771 e il gennaio del 772, infatti, morirono prima Carlomanno e poi il papa Stefano III.
Le rivendicazioni di Adriano I
Il fratello di Carlomanno, Carlo, rimase il solo re di tutto l’immenso dominio che i Franchi detenevano a nord elle Alpi. Poco prima, nell’estate del 771, egli aveva ripudiato la moglie longobarda che aveva sposato solo pochi anni prima, forse per marcare la diversità di opinioni, rispetto a Carlomanno e alla madre Bertrada, sui progressi compiuti da Desiderio in quegli ultimi anni in Italia. D’altra parte, il successore di Stefano III (Adriano I, in carica dal 772 al 795), era, rispetto a questi, persona di carattere ben piú intraprendente. Ma, soprattutto, apparteneva alla corrente di pensiero che,
Nella pagina accanto l’incipit del IV libro dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono. VIII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. In basso l’altare maggiore dell’abbazia di S. Pietro in Valle (Ferentillo, Umbria), con la lastra marmorea realizzata nell’VIII sec. su commissione del duca Ilderico dal maestro Orso.
UNA FAMIGLIA LONGOBARDA: PAOLO DIACONO E I SUOI ANTENATI Cosa non frequente nella letteratura storica dell’Alto Medioevo, Paolo Diacono dedica quasi un intero capitolo del libro IV dell’Historia Langobardorum alla ricostruzione della genealogia della sua famiglia. Come egli non manca di sottolineare, essa era di pura «stirpe longobarda», una circostanza ai suoi occhi particolarmente rilevante, considerando che il luogo nel quale avevano vissuto i suoi antenati – Cividale del Friuli – dopo essere stato la prima base di approdo in Italia all’indomani della migrazione, divenne anche un posto di frontiera assai esposto alle scorrerie degli Avari, il popolo di origine asiatica che aveva sostituito i Longobardi nelle regioni pannoniche. Proprio nel corso di una scorreria che gli Avari avevano compiuto in Friuli, il bisnonno di Paolo,
Lopichis, insieme ai suoi fratelli era stato rapito e portato in schiavitú al di là delle Alpi, da dove riuscí a evadere mettendo in atto una fuga degna di Papillon. Avendo a disposizione poco cibo e solo un arco e le frecce per difendersi, s’inoltrò di soppiatto tra le foreste della Slovenia dove incontrò un lupo che, invece di aggredirlo, lo scortò tra i boschi come una guida. Una volta finito il cibo, Lopichis, mostrando poca generosità nei suoi confronti, cercò di uccidere l’animale per sfamarsi con le sue carni. Il lupo, però, sfuggito alle frecce di Lopichis, si limitò ad abbandonarlo lasciandolo nel mezzo del nulla, senza che egli sapesse come proseguire. Quando ormai disperava per la propria vita, il bisnonno di Paolo s’imbatté per caso in una capanna abitata da una
famiglia di Slavi, ove una vecchia donna, di nascosto dagli altri che avrebbero voluto ucciderlo, lo sfamò, consentendogli di riprendere le forze e rimettersi in cammino. Tornato infine in patria, Lopichis trovò però la sua casa ormai in abbandono e le sue terre usurpate da altri, poiché ormai nessuno immaginava che egli o altri membri della sua famiglia potessero essere sopravvissuti. Come era d’uso a quel tempo, l’uomo provvide con le sue mani a riedificare la propria casa e, con l’aiuto dei parenti e degli amici, recuperò il necessario per vivere. La leggenda della sua fuga fu tramandata alle successive generazioni e rimase scolpita nella mente del giovane Paolo, che la inserí nel suo racconto come parte integrante delle vicende del ducato del Friuli, che egli riporta nei minimi particolari.
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Miniatura raffigurante Adelchi, principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della SS. Trinità. Adelchi salí al trono nell’853, dopo il distacco del principato di Salerno e del gastaldato di Capua dal principato originario, la cui rottura lasciò il territorio in una situazione di costante debolezza, che portò alla conquista normanna nell’XI sec.
a Roma, vedeva con minor favore il protagonismo che il re dei Longobardi era riuscito a recuperare negli ultimi anni e riteneva che gli accordi di pace del 755 andassero applicati integralmente, con la conseguente attuazione di tutte le «restituzioni» territoriali alla sovranità papale in essi previste, comprese quindi le terre ancora controllate da Desiderio. Desiderio comprese che Adriano non era disponibile a trattare un accomodamento sulla questione. Di conseguenza, lo spettro di una riattivazione dell’intesa tra il papa e il re dei Franchi, che aveva portato all’invasione del 754-755, si sarebbe potuto materializzare di nuovo. La sua reazione alla minaccia che andava profilandosi prese la stessa direzione intrapresa quasi vent’anni prima da Astolfo: il sovrano accettò di dare asilo in Italia alla vedova e ai figli di Carlomanno e chiese al papa di conferire loro l’unzione regia. Contemporaneamente, nella primavera del 772, riprese le armi e organizzò una spedizione contro il Ravennate, che poi proseguí in direzione delle Marche e approdò sotto le mura di Roma. Desiderio voleva cosí aumentare la pressione sul papa, affinché riconoscesse i due figli di Carlomanno come legittimi sovrani franchi, indebolendo la posizione di assoluto predominio che Carlo aveva assunto Oltralpe. Ma, come era accaduto ad Astolfo, il risultato fu invece quello di indurre Adriano a rivolgersi a Carlo per convincerlo a scendere in Italia.
Errore di valutazione
È difficile dire se Desiderio avrebbe ottenuto risultati migliori perseguendo altre strade. Sicuramente, il re non aveva valutato a sufficienza il dissenso che covava nel suo regno di fronte al rischio di una radicalizzazione dello scontro con il papa e con i Franchi. Un pericolo che portò a diverse e piú o meno evidenti defezioni fra i duchi chiamati a sostenere insieme a lui l’urto delle armate franche non appena, all’inizio del 773, si diffusero voci che Carlo stava organizzando l’esercito per la campagna in Italia. Il risultato fu una nuova rotta dell’esercito longobardo alle chiuse della Val di Susa e il dilagare delle truppe di Carlo nella Val Padana. Il re organizzò la resistenza nella capitale, che fu messa sotto assedio dai Franchi, mentre suo figlio Adelchi si trincerò a Verona con la vedova e i figli di Carlomanno. La loro resistenza durò sino al giugno del 774, quando Carlo riuscí a espugnare ambedue le città e a prendere prigionieri Desiderio e la moglie, nonché la vedova di Carlomanno con i due figli, che furono inviati in Francia a finire i loro giorni. Adelchi, invece, riuscí a fuggire a Costantinopoli, da dove cercò piú volte, anche se inutil-
mente, di rientrare in gioco per riaffermare le sue pretese sul regno perduto. Con queste vicende, la parabola del regno longobardo giunse al suo termine anche se, da un punto di vista prettamente formale, la sua esistenza proseguí in quanto Carlo riuní nella sua persona i titoli di re dei Franchi e dei Longobardi. Si è molto discusso su cosa sia rimasto in vita di quel regno nel territorio italiano. Sicuramente, come vedremo piú avanti, il ducato di Benevento – trasformato in principato da Arechi II – sopravvisse in una condizione d’indipendenza, sia pure sotto tutela dei Franchi. Ma che cosa accadde nelle regioni conquistate da Carlo? Solo progressivamente, in seguito ad alcuni tentativi di ribellione condotti da esponenti della nobiltà longobarda, tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, si assiste all’impiantarsi in Italia di lignaggi aristocratici di origine franca, che lentamente presero sotto il proprio controllo la gestione delle terre e le leve del potere amministrativo.
Una potenza «globale»
L’ingresso dell’Italia nell’orbita franca produsse ricadute importanti sul piano sociale. La grande aristocrazia laica, i monasteri piú importanti e i principali vescovati, che costituivano la base d’appoggio del potere dei re, guadagnarono una posizione egemonica superiore al passato. Ciò determinò il notevole aumento delle disparità economiche e politiche fra loro e il resto della popolazione e incrementò sistemi assai piú stringenti e coercitivi nello sfruttamento della terra e della manodopera contadina che vi lavorava, con l’obiettivo di migliorarne la resa economica e produttiva. L’impero creato da Carlo era, nella prospettiva europea del tempo, una potenza «globale» che agiva su orizzonti assai piú ampi del regno longobardo. Il sistematico esercizio della guerra e gli investimenti nella realizzazione di monumenti – profani e religiosi – a sostegno e celebrazione della gloria del nuovo ordine cattolico e imperiale dell’Europa richiedevano di essere sostenuti adeguatamente. Il tempo dei guerrieri longobardi in marcia con le loro famiglie, che avevano fornito la spinta alla conquista dell’Italia e che erano riusciti, sotto la guida di capi coraggiosi, a ricavarsi uno spazio nel turbolento scenario dell’Europa post-romana era ormai un lontano ricordo. E i loro eredi, sebbene assai piú vicini alla cultura dei popoli conquistati, non erano stati in grado di sopravvivere all’emergere e all’affermarsi della visione imperialistica costruita da papi e sovrani franchi, che prevedeva l’instaurarsi di un unico ordine a governo della cristianità. longobardi
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San Vincenzo al Volturno (Isernia). Il monastero visto attraverso un arco del portico antistante, del XV sec. Fondato all’inizio dell’VIII sec., dopo la conquista franca continuò a far parte del ducato longobardo di Benevento, sebbene dal 787 fosse posto sotto la protezione diretta di Carlo Magno.
Il ducato di Benevento ebbe un peso decisivo negli equilibri politici della Penisola. E fu qui che, dopo momenti di grande vivacitĂ culturale e artistica, la parabola storica della Langobardia meridionale giunse al suo atto finale
L’ultima
spiaggia
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Nel Meridione
I
ntorno all’anno 700, i duchi di Benevento erano padroni dei tre quarti di tutti i territori dell’Italia meridionale. Forse anche per questo motivo le loro coniazioni monetali assumono ora una maggiore visibilità rispetto a quelle bizantine e a quelle del regno, riportando l’iniziale del duca in carica. Cosí, similmente, nei diplomi di questo periodo i duchi esibiscono la titolatura di «summus dux gentis Langobardorum»: un chiaro indizio della volontà di conferire alla propria carica un’aura di maestà che assume quasi il tono della sfida nei confronti dell’autorità regia. Dal 730 alla caduta del regno longobardo (774) le vicende politiche del ducato sono caratterizzate dal confronto con la rinnovata volontà dei re (in particolare di Liutprando) di condurre tutti i territori della Langobardia (e, piú in generale, dell’Italia nel suo insieme) sotto la propria autorità. Benevento fu ripetutamente l’obiettivo di spedizioni militari che portarono all’abbattimento della dinastia locale al potere, almeno fin dal secondo quarto del VII secolo e all’insediamento di duchi piú disposti a inchinarsi alla supremazia del re. Fra il 730 e il 745, si assiste a una frenetica alternanza al potere di personaggi imposti dal re e di duchi nominati da forze locali, ostili all’intromissione del so-
DUCATO DI SPOLETO
Ortona Pavia
MARE
DUCATO ROMANO Venafro
Ravenna DUCATO
DI SPOLETO ADRIATICO
Larino
Roma
DUCATO Benevento DI Napoli BENEVENTO
Canne
Alife Capua
Spoleto
Siponto Lucera
Bojano
Bari
BENEVENTO
Territori longobardi Territori bizantini Capitale del regno longobardo
Consa Potenza
Salerno
Palermo
MARE TIRRENO
IL DUCATO DI BENEVENTO
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Velia
Buxentum
DUCATO DI CALABRIA
MARE IONIO
Reggio
Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario anello in oro con un cammeo romano come castone; fibula a disco in lamina aurea lavorata a sbalzo; anello in oro con castone quadrangolare in pasta vitrea visto dall’alto e di profilo. Noti come «Ori di Senise», i gioielli furono rinvenuti nel 1916 in alcune tombe longobarde a Senise (Potenza), in località Salsa. Inizi del VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso l’estensione del ducato di Benevento e, nel riquadro, la sua posizione nell’Italia del VII-VIII sec.
vrano pavese. Uno di questi ultimi, Godescalco (738-742), fu perfino protagonista di un tentativo di alleanza con i Bizantini, il papa, il duca di Spoleto e i Franchi, allo scopo di ostacolare il disegno egemone di re Liutprando. Alla fine, tuttavia, il ducato fu ripreso sotto il controllo del re e tutti i personaggi successivamente acceduti alla carica ducale condussero una politica meno spiccatamente autonomistica. In particolare, all’avvento di Desiderio al trono di Pavia (757) segui subito dopo (758) l’imposizione, alla testa del ducato beneventano, del genero di questi, il friulano Arechi II (758-787). L’operazione fu probabilmente condotta con il preventivo accordo dei Bizantini, ai quali venne concesso di rientrare in possesso del preziosissimo presidio di Otranto, fondamentale per il controllo navale dell’accesso al mare Adriatico.
A piú riprese, i duchi di Benevento cercarono di affrancarsi dal potere del re
Uno spartiacque decisivo
È impossibile dire quale sarebbe stato il futuro del ducato beneventano se Carlo Magno non fosse sceso in Italia nel 774 e non si fosse impadronito della corona longobarda. Infatti, rispetto a quanto avevano fatto i re di Pavia da Liutprando in poi, il re franco ripensò radicalmente la strategia da tenersi nei confronti del Sud italiano, producendo uno spartiacque decisivo nella storia della Penisola. Carlo rilongobardi
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Nel Meridione
i duchi di benevento 571-590? 591-641 641-642 642-647 647-662 662/663-687 687-687 689-706 706-731 731-732 732 732-739 739-742 742-751 751-758 758-774
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Zottone Arechi I Aione I Radoaldo Grimoaldo I Romualdo I Grimoaldo II Gisulfo I Romualdo II Gisulfo II Audelais Gregorio Godescalco Gisulfo II Liutprando Arechi II
In basso Benevento, chiesa di S. Sofia. Zaccaria muto davanti al popolo, particolare dell’affresco facente parte del ciclo delle Storie di Cristo, opera di maestranze bizantine. VIII-IX sec. La chiesa venne fondata intorno al 758 (e ultimata nel 768) per volere di Arechi II, duca di Benevento.
nunciò a qualsiasi seria iniziativa militare volta a estendere il proprio diretto controllo sulle terre beneventane. Trascorsero ben tredici anni, infatti, prima che Carlo si decidesse, nella primavera del 787, a compiere una sortita all’interno dei loro confini, fermandosi però a Capua (e quindi evitando di addentrarsi nel cuore di quei territori). In quella circostanza, il sovrano franco ottenne la formale sottomissione di Arechi II alla propria autorità, gli impose la consegna del proprio figlio Grimoaldo in ostaggio e, soprattutto, dichiarò sottoposti al suo mundiburdium (protezione) i due monasteri di San Vincenzo al Volturno e Montecassino, collocati nella fascia di confine fra i territori beneventani e quelli del ducato di Spoleto. Su quest’ultimo, invece, egli aveva operato con decisione per ridurlo sotto il suo completo controllo.
Capua. Capitello longobardo del IX sec., decorato con motivi geometrici e floreali, riutilizzato nel porticato del cortile del Palazzo Fieramosca.
Arechi, quindi, fu salvo e conservò di fatto la libertà per i propri domini. Quando, pochi mesi piú tardi, la sua esistenza terrena giunse al termine, Carlo concesse al figlio Grimoaldo di tornare a Benevento per succedere al padre (sempre a condizione di riconoscere l’alta autorità di Carlo medesimo), ma sostanzialmente optando per una soluzione tale da garantire continuità allo status quo ante. Perché Carlo avrebbe agito in questo modo? Non bisogna dimenticare che Arechi lo aveva apertamente sfidato, attribuendosi, all’indomani della caduta di Pavia, il titolo di «excellentissimus princeps gentis Langobardorum», con ciò dichiarando di assumere su di sé la legittimità a rappresentare la continuità con il potere sovrano dello spodestato re Desiderio.
La prudenza di Arechi
Le ipotesi in campo sono molte per tentare di decifrare l’atteggiamento del monarca franco, e sono tutte da ricercarsi su un terreno squisitamente politico. In effetti, al di là delle prese di posizione sul piano simbolico, la condotta di Arechi negli anni seguenti la caduta di Pavia era stata molto prudente. Nel 775, quando parte della nobiltà longobarda del Nord Italia si era ribellata contro i Franchi, egli non prese parte attiva ai moti, evitando quindi a Carlo l’apertura di un doppio fronte bellico. Carlo, d’altra parte, si trovava a dover fronteggiare le richieste di papa Adriano I che, secondo le promissiones del 774 (e forse già a partire da quelle di suo padre Pipino, negli anni Cinquanta), avrebbe dovuto vedersi consegnare longobardi
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ULTIMI LONGOBARDI: DESIDERIO, ALFANO E SICHELGAITA Il crepuscolo degli Stati longobardi del Meridione d’Italia fu illuminato dalla parabola di tre personaggi che rappresentano, quasi simbolicamente, il «passaggio delle consegne» del potere laico ed ecclesiastico nelle mani dei nuovi conquistatori, i Normanni. Desiderio era nato intorno al 1027 dalla famiglia dei principi longobardi di Benevento. Malgrado l’opposizione dei familiari, decise d’intraprendere la vita monastica e peregrinò per una decina d’anni fra diversi importanti monasteri del Sud, per approdare infine a Montecassino intorno al 1055, dove ebbe l’incarico di occuparsi del monastero che i Cassinesi detenevano nella città di Capua. Nel 1057, quando l’abate Federico venne eletto al soglio pontificio, fu scelto da quest’ultimo come proprio successore ed entrò in carica alla sua morte, nel 1058. Desiderio mostrò grandi doti di mediazione politica, agendo come legato pontificio nell’Italia meridionale e gestendo con realismo e successo il delicato processo di avvicinamento del papato ai Normanni, che ormai di quelle terre si avviavano a divenire i dominatori. Il suo quasi trentennale abbaziato fu condotto all’insegna del mecenatismo artistico e culturale, culminato nella ricostruzione della chiesa maggiore di Montecassino alla cui
Sant’Angelo in Formis (Caserta), basilica di S. Michele Arcangelo. L’abate Desiderio offre la chiesa a Cristo, particolare degli affreschi dell’abside. Seconda metà dell’XI sec. Fondato forse dai Longobardi nel VI sec., l’edificio sacro fu donato dal normanno Riccardo I Drengot a Montecassino e al suo abate Desiderio, membro della famiglia dei principi longobardi di Benevento, che lo rece ricostruire tra il 1072 e il 1087.
inaugurazione partecipò tutto il gotha politico e religioso dell’Italia del tempo. Concluse il suo percorso terreno salendo nel 1087 al soglio pontificio con il nome di Vittore III e succedendo al grande Gregorio VII. Entrato a Montecassino contemporaneamente a Desiderio, al contrario di quest’ultimo Alfano proveniva dall’altra capitale del Meridione «longobardo», Salerno. Analogamente a Desiderio, però, la sua carriera fu rapidissima, poiché già nel 1058 il principe di Salerno, Gisulfo II, lo richiamò in patria per conferirgli la cattedra arcivescovile della città. Alfano sostenne con vigore il tentativo di Gisulfo di imbrigliare l’espansionismo dei Normanni e di ricondurlo sotto la sovranità del principato longobardo. Ma quando le fortune del principe volsero al tramonto, non esitò a schierarsi con il duca normanno di Puglia, Roberto il Guiscardo, gestendo nel modo meno traumatico possibile la transizione dal vecchio al nuovo ordine politico. Il suo capolavoro, in questo senso, fu la realizzazione, proprio con il sostegno del Guiscardo, della nuova cattedrale di Salerno, che fece realizzare a imitazione della nuova basilica cassinese edificata da Desiderio. Aveva una profonda preparazione letteraria e scientifica e fu soprattutto un esponente
dal re franco la sovranità, oltre che su altre zone d’Italia, anche sul ducato di Benevento. Inoltre, va considerato il fatto che buona parte dei territori a esso appartenenti costituiva il frutto di conquiste effettuate in tempi relativamente recenti ai danni dell’impero bizantino. Infine, non si deve dimenticare che i territori beneventani confinavano ancora con quanto restava dei possedimenti di Bisanzio nella Penisola.
Preservare gli equilibri politici
In considerazione di tutto ciò, Carlo preferí molto probabilmente mantenere in vita uno Stato longobardo nel Sud, in qualche modo a lui sottomesso e comunque posto in condizione di non nuocere agli equilibri delle aree centro-settentrionali dell’Italia, assai piú rilevanti per i propri interessi. Una soluzione verosimil-
importante della cosiddetta «scuola medica» di Salerno, componendo egli stesso trattati di medicina e promuovendo l’opera del grande medico Leone l’Africano. A Salerno, nel 1036, ebbe i natali anche Sichelgaita, figlia del principe Guaimario IV e sorella di Gisulfo II. Poco piú che ventenne, fu data in moglie a Roberto il Guiscardo, nel tentativo di assorbirne la minaccia e condurlo entro l’alveo di un’alleanza con i Salernitani. Nonostante Roberto avesse infine coronato il suo progetto di conquista del principato di Salerno, Sichelgaita gli rimase fedele, assumendo anzi, sin da subito, un ruolo da protagonista nell’attività diplomatica per il consolidamento della posizione del marito sullo scenario politico dell’Italia meridionale. Nel 1081 accompagnò Roberto nella campagna militare contro i Bizantini, scendendo personalmente in campo alla testa dell’esercito normanno. Le sue doti politiche si espressero anche nel momento della difficile successione a Roberto, morto nel 1085, quando riuscí a garantire al figlio Ruggero Borsa il titolo di duca di Puglia. Sichelgaita ebbe parte attiva anche nel vivace ambiente culturale della Salerno dell’epoca, dispiegando una notevole preparazione in ambito medico e farmaceutico.
mente dettata dalla volontà di non intraprendere impegnative campagne militari in un’area lontana, con il rischio di attivare anche pericolose frizioni con l’impero bizantino, nonché di riaccendere le richieste di ampliamento territoriale avanzate dai pontefici. Questo stato di cose permise ai Longobardi di Benevento di sopravvivere come un’entità politica autonoma e, soprattutto nel secondo e terzo decennio del IX secolo, di consentire ai principi che si succedettero sul trono di replicare, su scala locale, il disegno egemonico adottato dai re longobardi dell’VIII secolo. Essi, inoltre, tentarono a piú riprese di impadronirsi di Napoli e dei territori a essa circostanti che, seppur solo formalmente, erano ancora sotto il dominio bizantino. Ma nell’839, alla morte del principe Sicardo, la longobardi
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successione fu disputata fra due pretendenti, cosa che condusse a un decennio di guerra intestina, il cui risultato fu la suddivisione del principato in due tronconi autonomi: uno che mantenne Benevento come propria capitale e l’altro che stabilí il suo centro nella città di Salerno, che già Arechi II aveva eletto a sua seconda residenza. La rottura dell’unità politica del principato di Benevento, mai piú ricostituitasi, lasciò il Sud dell’Italia in una perenne posizione di debolezza politica rispetto alle potenze che ne circondavano il territorio (impero franco, impero bizantino ed emirato arabo di Sicilia), anche se, quasi miracolosamente, nel corso dei due secoli successivi nessuna di esse riuscí mai a porlo stabilmente sotto il proprio controllo. Anzi, tutti i tentativi piú decisamente condotti in tal senso, come quelli dell’imperatore franco Ludovico II nella seconda metà del IX secolo, dell’imperatore sassone Ottone II cento anni dopo e dei Bizantini a piú riprese fra il tardo IX e gli inizi dell’XI secolo, si conclusero sempre con clamorosi insuccessi. Fatte le debite differenze, il Meridione d’Italia sembra aver prodotto sui grandi apparati militari dell’Alto Medioevo europeo gli stessi risultati sperimentati di recente in Afghanistan dagli eserciti delle superpotenze contemporanee. La sostanziale instabilità e frammentazione politica del Sud longobardo tra il IX e la prima metà dell’XI secolo non ha però impedito che in queste terre si verificassero momenti di rilevante vivacità culturale e artistica. Questi contrassegnarono soprattutto la città di Capua – che per buona parte del X secolo si sostituí a Benevento come centro egemone del principato –, e Salerno durante i decenni centrali dell’XI secolo, appena prima che la parabola storica della Langobardia meridionale giungesse al suo atto finale.
L’avvento dei Normanni
I protagonisti del definitivo tramonto delle signorie longobarde furono i Normanni, che riuscirono – fra il 1060 e il 1080 – a sottomettere in rapida successione Gaeta, Amalfi, Capua, Benevento e Salerno, con l’unica eccezione del ducato di Napoli, conquistato solo nel 1137; le élite che da secoli governavano tutti questi piccoli Stati non solo non seppero opporre alcuna seria resistenza militare ai nuovi conquistatori, ma vennero in breve tempo da questi estromesse da qualsiasi posizione di rilievo politico e sociale. Il veloce disfacimento del vecchio assetto sociopolitico del Mezzogiorno si spiega in ragione del fatto che i Normanni attuarono la propria espansione sul territorio in un modo affatto originale, soprattutto se confrontato con i tentativi di con122
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San Vincenzo al Volturno, cripta di Epifanio. L’Arcangelo Gabriele, particolare dell’Annunciazione, facente parte del ciclo affrescato nel IX sec. Secondo il Chronicon Vulturnense, codice miniato redatto intorno al 1130, l’abbazia venne fondata dai tre nobili longobardi beneventani Paldo, Taso e Tato, monaci nell’abbazia di Farfa.
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Nel Meridione
In alto Il castello di Salerno, che prende il nome dal suo fondatore, Arechi II, duca e poi principe di Benevento, il quale lo fece erigere su una precedente fortificazione bizantina. Nella pagina accanto S. Vincenzo al Volturno, cripta di Epifanio. Ancora un particolare degli affreschi, raffigurante Cristo benedicente. IX sec.
quista posti in essere, nei secoli precedenti, dagli imperi d’Oriente e d’Occidente e dalle stesse forze dell’Islam siciliano e africano. I primi gruppi di guerrieri normanni erano comparsi nelle regioni del Sud italiano all’inizio del secondo decennio dell’XI secolo e, per circa vent’anni, agirono esclusivamente come truppe mercenarie al soldo di alcuni dei principali protagonisti delle lotte che, piú o meno endemicamente, contrapponevano fra loro i principati longobardi, i ducati campani e le province italiane dell’impero bizantino. Fra il 1030 e il 1040, le due consorterie familiari che avevano assunto la posizione di maggior rilievo rispettivamente in Puglia (gli Hauteville, a Melfi) e in Campania (i Drengot, ad Aversa), ottennero una prima base territoriale su cui insediarsi in modo permanente e divenendo cosí parte integrante del mosaico di potentati locali in cui il Mezzogiorno era suddiviso.
Hauteville e Drengot, i nuovi padroni
A partire da questo momento, i Normanni non si limitarono piú solo a fornire truppe mercenarie ai Bizantini e ai signori longobardi e campani in conflitto fra loro, ma iniziarono anche a perseguire una propria azione di radicamento sul territorio, che si sviluppò a partire dalle aree piú periferiche dei domini dei committenti al soldo dei quali avevano combattuto. All’atto pratico, ciò significava che i gruppi dei guerrieri normanni s’impadronivano di spicchi di territorio, spesso senza chiedere il permesso o ottenerne la concessione da nessuno di coloro
che ne detenevano legittimamente la sovranità, edificandovi insediamenti fortificati nei quali poi si stabilivano in maniera permanente. Il risultato fu che le province bizantine d’Italia, i principati longobardi e, in misura minore, anche i ducati campani, videro progressivamente erodersi le aree sottoposte all’effettivo controllo delle proprie capitali, mentre i territori perduti si popolavano di fortezze sulle quali essi non riuscivano piú a esercitare alcuna autorità. I legami di parentela esistenti fra molti dei capi delle bande normanne e i forti rapporti di fedeltà che essi avevano istituito nei confronti dei rappresentanti delle due famiglie degli Hauteville e dei Drengot, che avevano assunto una posizione dominante, resero in breve tempo la loro presenza una realtà di cui non era piú possibile sbarazzarsi, né manovrare politicamente con facilità. Dopo uno sfortunato tentativo di sconfiggerli militarmente sul campo, nel 1059, al sinodo di Melfi, gli Hauteville vennero riconosciuti dal papa nel ruolo di duchi di Puglia e Calabria e fu conferito loro il mandato di rivendicare alla cristianità anche le terre siciliane; ai Drengot di Aversa fu invece attribuita la signoria di Capua, conquistata l’anno prima, e con essa il titolo principesco sin allora appannaggio dei dinasti longobardi. Da quel momento in poi, quanto rimaneva dei vecchi Stati longobardi e dei domini bizantini fu rapidamente travolto e, con la metà degli anni Settanta dell’XI secolo, l’intera Italia continentale era ormai nelle mani dei Normanni. longobardi
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musei siti e
Andiamo a trovarli
La legatura in oro, gemme e perle dell’Evangeliario di Teodolinda. Fine del VI-inizi del VII sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo di Monza. L’iscrizione attesta che si tratta di un dono della regina per la basilica.
L’Italia offre molteplici opportunità per «incontrare» i Longobardi. Ecco dunque una rassegna dei monumenti e dei musei che meglio contribuiscono a definire un ritratto a tutto tondo di questo «popolo migratore»...
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L’
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ombra del dibattito ottocentesco sul ruolo dei Longobardi nella rottura dell’unità politica dell’Italia e la costruzione della stessa sulla base dell’eredità di Roma hanno a lungo influenzato – e in senso negativo – l’interesse a mostrare le tracce materiali della presenza di questo popolo sul suolo del nostro Paese. A ciò si aggiungano i pregiudizi, anch’essi di antica origine e di lunga durata, sulla qualità delle manifestazioni artistiche dell’Alto Medioevo, viste come declinanti e corrotte rispetto all’arte dell’età antica e, non di rado, come grottesche imitazioni dei suoi canoni estetici. I reperti riferibili alla cultura longobarda non hanno perciò ricevuto particolare attenzione nei musei archeologici italiani, che a lungo sono rimasti prevalentemente incentrati sull’arte dell’età classica. Oggi le cose sono cambiate. Lo sviluppo impetuoso dell’archeologia medievale, l’abbandono degli aspetti piú retorici inerenti il «mito» della romanità e il diffondersi dell’interesse per le vicende della propria storia manifestato da molte comunità locali, hanno fatto crescere in modo significativo la visibilità del patrimonio archeologico e artistico dell’età longobarda, sia attraverso la valorizzazione di reperti e monumenti rinvenuti o conosciuti da tempo, sia grazie a una cospicua messe di nuove scoperte. Il fenomeno ha interessato trasversalmente tutto il territorio italiano e la «consacrazione» della sua rilevanza come elemento dell’identità
i magnifici sette
Castelseprio
Il Tempietto Cividale del Friuli Torba Longobardo a Brescia Cividale del Friuli LANGOBARDIA (Ud), il complesso MAIOR monastico di Campello San Salvatore-Santa sul Clitunno Monte Giulia a Brescia, Spoleto Sant’Angelo il castrum di Benevento Castelseprio-Torba (Va), il Tempietto del LANGOBARDIA Clitunno a Campello MINOR (Pg), la basilica di S. Salvatore a Spoleto (Pg), la chiesa di S. Sofia a Benevento e il Santuario Garganico di S. Michele a Monte Sant’Angelo (Fg): sono questi i «magnifici sette» complessi che, a seguito della decisione della 35a sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale riunita a Parigi dal 19 al 29 giugno 2011, sono entrati nella lista ufficiale del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.
storica e culturale italiana, ma anche come attrattore di flussi turistici, si è avuta nel 2011, quando la rete di siti e musei denominata «Italia Langobardorum» – che comprende alcune delle piú importanti testimonianze artistiche e archeologiche riferibili all’epoca compresa fra il
cividale, museo cristiano A sinistra una sala del Museo Cristiano e del Tesoro del Duomo di Cividale del Friuli. In primo piano, l’Ara del duca Ratchis, con il fronte raffigurante un Maestà Divina. 737-744. In secondo piano (e nella pagina accanto) il fonte battesimale detto del patriarca Callisto (737-756), composto da una vasca ottagonale, otto colonnine con capitelli in stile composito e il tegurio, decorato con immagini simboliche figurate (zoomorfe e vegetali) e geometriche. VIII sec. 128
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benevento, s. sofia A sinistra l’Arcangelo Gabriele, particolare del ciclo pittorico affrescato con Storie di Cristo, nella chiesa di S. Sofia a Benevento. VIII-IX sec.
Sopra planimetria della chiesa, a pianta centrale: tre sporgenze laterali sui lati conferiscono alla pianta una forma «stellare» davvero unica. VII e l’VIII secolo – è stata inclusa dall’UNESCO nella lista dei monumenti considerati Patrimonio dell’Umanità. Le località incluse nella lista UNESCO sono sette: tre nell’Italia settentrionale (Cividale del Friuli, Brescia e Castelseprio con Torba), due in quella centrale (Spoleto e Campello sul Clitunno) e altrettante nel Meridione (Benevento e Monte Sant’Angelo). La creazione di questa rete è stata possibile grazie al fatto che nelle località in essa comprese esistevano già da tempo musei e monumenti adeguatamente valorizzati. Certamente, però, il lancio della candidatura UNESCO e la sua approvazione hanno contribuito al potenziamento della loro interfaccia con il pubblico e in alcuni casi hanno offerto un importante impulso a migliorare le loro condizioni di conservazione.
Tutte le fasi della storia longobarda
Partendo da Cividale del Friuli, si può veramente dire che è difficile trovare altrove, in uno spazio cosí contenuto, una densità paragonabile di musei e monumenti «longobardi» altrettanto rilevante e che coprono tutto l’arco e le diverse fasi della vita del regno. Nel locale Museo Archeologico sono infatti esposti i reperti rivenuti nelle necropoli sviluppatesi nel suburbio della città e che recano testimonianza dei costumi funerari, dei contatti culturali e dei rapporti con la popolazione locale propri delle prime generazioni successive all’ingresso in Italia del 568. Nel 130
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vicino Museo Diocesano, invece, troviamo alcuni capolavori assoluti della scultura d’arredo sacro della fase finale di vita del regno, provenienti soprattutto dalla cattedrale cittadina – oggi completamente trasformata –, come il cosiddetto «tegurio» di Callisto, che ne ornava il battistero, e l’altare-reliquiario commissionato dal re Ratchis, insieme ad altri pezzi meno famosi, ma non di minore qualità. A poca distanza sorge poi l’oratorio di S. Maria in Valle, meglio noto come «Tempietto Longobardo», che era probabilmente la cappella del palazzo del gastaldo, anche se non se ne può del tutto escludere la pertinenza a un adiacente monastero femminile. Il «Tempietto» è una piccola aula di culto, all’interno della quale rivestono grande importanza i resti delle decorazioni a stucco, tra cui risaltano le sei statue di sante disposte nella parte alta della parete orientale, che costituiscono un esempio rarissimo di scultura ad altorilievo di età altomedievale. Ma a colpire sono l’insieme della volumetria dell’edificio, raccolta, ma proporzionata ed elegantissima, e il complesso dell’apparato decorativo che, oltre agli stucchi comprende anche pitture e materiale scultoreo di grande qualità. Di Brescia e Castelseprio si è già detto, mentre qualche parola in piú meritano Spoleto e la vicina Campello sul Clitunno. A Spoleto, il monumento piú rilevante è rappresentato dalla basilica di S. Salvatore, esterna alle mura cit-
tadine e sorta apparentemente presso un’area funeraria suburbana. L’edificio, al pari della chiesa di Castelseprio, ha rappresentato una fonte d’interminabili discussioni fra gli storici dell’arte. È una grande basilica a tre navate, con un’unica abside affiancata da due ambienti di servizio, all’interno della quale fu impiegata un’incredibile quantità di pezzi scultorei recuperati da edifici romani che, soprattutto nell’area del presbiterio, conferiscono allo spazio una monumentalità quasi barocca. Altrettanto elaborata è la decorazione della facciata, impreziosita da tre portali e da un pari numero di finestre, anch’essi incorniciati da abbondante materiale di spoglio, che in alcuni casi presenta però evidenti segni di rilavorazione.
L’interno della chiesa di S. Sofia a Benevento, con in primo piano due delle colonne utilizzate per spartire e sostenere l’ambulacro piú interno. Sia i fusti che i capitelli delle colonne sono materiali di reimpiego di età romana, di alta qualità.
Il rilancio dell’architettura cristiana
In ragione di alcune caratteristiche planimetriche dell’edificio (come per esempio l’abside non sporgente e la presenza dei due vani a essa adiacenti), ma soprattutto per lo stile compositivo delle incorniciature delle finestre e delle porte e per il sovraccarico decorativismo dell’insieme, molti studiosi hanno proposto confronti con l’architettura della Siria protobizantina e lo hanno datato fra il V e il VI secolo, anteriormente, quindi, all’arrivo dei Longobardi. Piú di recente si è affermata invece una linea interpretativa che attribuisce (del tutto o in parte) l’erezione dell’edificio nel corso della prima metà dell’VIII secolo e lo inscrive nel quadro del clilongobardi
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monte sant’angelo, A sinistra la cosiddetta Galleria Longobarda nel santuario di S. Michele a Monte Sant’Angelo (FG), voluta dai duchi longobardi Grimoaldo I e Romualdo I, affinché i pellegrini potessero ripararsi dalle interperie. Nella struttura è oggi esposta la collezione lapidaria della Basilica. In basso e nella pagina accanto iscrizioni che riportano nomi di tradizione longobarda incise dai pellegrini sui muri, sulle pareti rocciose e sui pilastri degli ambienti che conducevano alla grotta. Si possono leggere, tra gli altri, i nomi di Afridus (in basso, a sinistra), Rumildi (in basso, a destra), Gaiderissi, Radcausu, Ratemundus, Vualteo e Sabilo (nella pagina accanto).
I Longobardi vedevano in san Michele un omologo del proprio dio guerriero, Odino-Wotan 132
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santuario micaelico
ma di rilancio dell’architettura cristiana seguito alla conversione al cattolicesimo delle aristocrazie longobarde, che avrebbe attinto a piene mani ai modelli di età tardoantica. Analoghi problemi interpretativi ha sollevato il cosiddetto «Tempietto» del Clitunno, situato qualche chilometro a nord di Spoleto, nel territorio comunale di Campello. L’edificio è una piccola cappella a nave unica, preceduta da un portico colonnato sormontato da un timpano, che riprende alla lettera la tipologia del tempio in antis di epoca romana. Il vano interno è concluso da una piccola abside enfatizzata da un’edicola a timpano e decorata all’interno dalle figure dei santi Pietro e Paolo e da quello del Cristo, posto all’interno della calotta. La decorazione dei due timpani (esterno e interno) presenta numerose assonanze stilistiche con quelle presenti nella chiesa del Salvatore, mentre le colonne e i capitelli del portico esterno sono costituiti da pezzi di spoglio classici di altissima qualità. Altrettanto puntuale è l’imita-
zione dei canoni classici nell’iscrizione che percorre tutta la cornice inferiore del timpano nella quale si esplicita la dedica dell’edificio al culto dell’Angelo. La costruzione poggia su un’alta base in pietra ed è accessibile tramite due rampe che si sviluppano sui lati.
Un periodo di grandi mutamenti
Anche in questo caso la critica, dopo un’iniziale predilezione per una datazione dell’edificio all’età tardo-antica, converge oggi su una cronologia compresa fra il VII e la prima metà dell’VIII secolo, sulla base della quale si rafforza l’idea che in questo periodo si fosse sviluppato un interesse verso l’architettura antica davvero molto spiccato. Certo, l’oscillare della data dell’edificio nell’arco di un secolo pone tuttora problemi piuttosto seri, poiché – come abbiamo visto – in questo periodo il contesto politico e culturale del regno longobardo cambiò profondamente. Purtroppo, nuoce fortemente alla piena comprensione di ambedue gli edifici l’impossibilità longobardi
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di capire con esattezza chi ne siano stati i committenti. In tutti e due i casi, infatti, appaiono non innegabili rimandi riconducibili al retroterra dell’architettura tardo-antica, ma – come si è visto – anche specifiche citazioni di elementi propri di quella di alcune regioni dell’Oriente mediterraneo, come in particolare l’area siriaca. Per spiegare questo aspetto è stata evocata la presenza nel territorio di Spoleto di comunità monastiche di origine orientale, ma la questione rimane ancora aperta.
Una chiesa e poi un monastero
Procedendo verso sud, il monumento che incontreremo per primo è la chiesa di S. Sofia di Benevento. In questo caso, a differenza degli edifici spoletini, la data di fondazione e la committenza sono del tutto certi. L’edificio fu fondato dal duca Arechi II nel 758 e, una quindicina di anni dopo, a esso fu aggiunto un monastero femminile, posto alle dipendenze di Montecassino. Si è ipotizzato che chiesa e monastero
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In alto collana in oro e ametiste da una sepoltura longobarda di Nocera Umbra (PG). VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Sulle due pagine Malles (Val Venosta, BZ), chiesa di S. Benedetto. Particolari degli affreschi: una scena di martirio (in basso) e un sacerdote (nella pagina accanto) che offre la cappella, probabilmente uno dei due committenti del ciclo pittorico. Le pitture vengono datate ai primi anni del IX sec.
fossero in diretta connessione con l’area del palazzo ducale, che avrebbe occupato l’estremità orientale dell’area cinta dalle mura cittadine. Ma, in assenza di precisi riscontri archeologici, questa proposta, sebbene plausibile, non può ancora essere accolta in modo definitivo. L’edificio di culto è a pianta centrale, con un vano mediano coperto da un tiburio cupolato, affiancato da due ambulacri concentrici, spartiti da un giro di colonne (in quello piú interno) e pilastri (in quello piú esterno). In asse con l’ingresso, sul lato opposto, fu allestita un’area presbiteriale resa piú monumentale dalla presenza di tre absidi affiancate. Ciò che però rende l’assetto della chiesa davvero unico è la forma del perimetro, che presenta su ogni lato tre sporgenze triangolari tali da conferire alla planimetria un’inedita forma stellare. Le colonne e i capitelli, utilizzati come sostegni per l’ambulacro piú interno e per la coppia di sostegni posti di fronte all’ingresso, sono pezzi di età romana di alta qualità.
L’intitolazione scelta per la chiesa ha condotto a istituire paralleli con il celebre edificio omonimo fatto costruire da Giustiniano a Costantinopoli nella prima metà del VI secolo. In realtà, i due edifici sono architettonicamente abbastanza diversi e il nostro s’iscrive piuttosto in una tradizione di chiese a pianta centrale che aveva avuto grande fortuna già nell’Italia tardo-antica e che, come abbiamo visto in precedenza, aveva già avuto molto probabilmente un antecedente nella S. Maria in Pertica di Pavia, fatta costruire dalla regina Rodelinda poco dopo il 670. La planimetria della chiesa beneventana è stata anche giustificata nella sua possibile funzione di cappella palatina, prendendo a tal proposito i paralleli del S. Vitale di Ravenna e della chiesa che, qualche decennio dopo, Carlo Magno edificò ad Aquisgrana all’interno del suo palatium. In ogni caso, ci troviamo di fronte a un edificio progettato ed eseguito con grande accuratezza, come dimostra – oltre alla scelta dei materiali di spoglio – anche la qualità delle murature, davvero rara per l’Alto Medioevo meridionale. La stessa impressione suggeriscono i pochi resti dell’apparto pittorico, sopravvissuti nella zona del presbiterio, opera di maestri in grado di realizzare figurazioni a carattere quasi monumentale e di solida fisicità, che a loro volta rimandano, per esempio, allo stile della mosaicistica ravennate del VI secolo.
Una grotta per l’Arcangelo
Di tutt’altro genere è l’ultimo sito inserito nella lista di Italia Langobardorum, e cioè il santuario dedicato all’Arcangelo Michele, a Monte Sant’Angelo sul Gargano. La creazione di questo luogo di culto, realizzato all’interno di una vasta grotta, precede molto probabilmente il momento della nascita del ducato longobardo di Benevento. Essa si lega allo sviluppo per la venerazione dell’Arcangelo diffusasi in area bizantina, e a sua volta sovrappostasi a precedenti devozioni pagane di divinità legate alla purificazione e alla cura del corpo. Ma il suo sviluppo monumentale si lega all’intervento del duca Romualdo I, che v’intervenne per celebrare la figura celeste che rappresentava il piú clamoroso esempio di fusione fra il cristianesimo e i culti tradizionali dei Longobardi. San Michele, infatti, recuperava in chiave cristiana una serie di attributi propri del dio Odino-Wotan (che abbiamo visto all’opera in apertura della saga narrata dall’Origo Gentis Langobardorum), quale quello della scorta delle anime dei defunti verso l’aldilà, del controllo dei fenomeni metereologici e della repressione delle forze malvagie originarie degli inferi. Come Odino, Michele era inoltre un’entità guerriera, eterno combattente per il bene contro il male. longobardi
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Il luogo meraviglioso in cui sorse il santuario, e cioè una grotta posta in cima alla ripida parete rocciosa che dal golfo di Manfredonia sale verso l’altopiano garganico, si prestava perfettamente a unire le qualità di forza operante nei cieli e nelle profondità della terra che erano attribuite all’Arcangelo. La sistemazione del luogo voluta da Grimoaldo è ricordato da un’epigrafe graffita su un muro del santuario, cosí come un ulteriore intervento operato dal suo successore Romualdo II, agli inizi dell’VIII secolo. Ma tutti i muri e le pareti rocciose dei corridoi che conducono alla grotta – allestita come aula di culto – nella quale si celebravano i servizi liturgici in onore di san Michele, sono pieni di graffiti di pellegrini e devoti, alcuni dei quali vergati in caratteri runici da fedeli anglosassoni giunti in visita al santuario tra la fine del VII e la metà dell’VIII secolo. I siti riuniti nella rete di Italia Langobardorum rappresentano dunque un ventaglio ampio e significativo delle diverse «anime» della cultura e della società longobarda, dai primordi della sua presenza in Italia, sino alla caduta del regno nel 774 e oltre. Ma non sono sicuramente gli unici luoghi nei quali possiamo incontrare e conoscere le memorie di questo popolo e della sua convivenza con le genti italiane.
Armi e gioielli dalle necropoli
Proprio i materiali di alcune necropoli longobarde hanno costituito il cuore delle esposizioni allestite nel primo museo italiano dedicato all’archeologia longobarda, e cioè il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo di Roma: si tratta dei reperti rinvenuti alla fine dell’Ottocento nei cimiteri di Nocera Umbra (PG) e di Castel Trosino (AP), che nel 1967 si decise di recuperare nei magazzini dell’allora Soprintendenza archeologica di Roma e proporre all’attenzione del pubblico. Le due necropoli, che ricadevano nel territorio del ducato di Spoleto, hanno offerto infinita materia di studio, sia per quanto riguarda i manufatti – soprattutto armi e gioielli di abbellimento personale – considerati piú «distintivi» della cultura e dei costumi longobardi, sia rispetto al tema dei rapporti fra i Longobardi stessi e le popolazioni locali. Una visita al museo romano permette veramente di farsi un’idea precisa sulla complessità di tutti questi aspetti, ma esso è solo uno dei musei in Italia in cui sia possibile ammirare i reperti rivenuti negli scavi di una necropoli in cui abbiano trovato ricetto le spoglie mortali di uomini e donne appartenuti al popolo longobardo. Ho già ricordato i reperti esposti al 136
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Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli, ma non vanno dimenticati quelli presenti nel Museo di Santa Giulia, a Brescia, allestito nel complesso monastico di cui è parte la chiesa del Salvatore; l’esposizione dei materiali della necropoli di Trezzo sull’Adda, recentemente organizzata presso i Civici Musei Archeologici di Milano e quella della necropoli di Collegno, sistemata nel Museo di Torino. Scendendo piú a sud, reperti di analoga natura sono visibili nel Museo di Fiesole (FI), in quello archeologico di Chiusi (SI) e nel Museo del Sannio di Benevento, realizzato negli spazi del chiostro medievale retrostante la chiesa di S. Sofia. A Campobasso, infine, all’interno del Museo Provinciale Sannitico, sono esposti alcuni reperti rinvenuti a Campochiaro di Vicenne, presso Boiano, dove una ventina d’anni fa fu scavata un’importantissima necropoli nella quale sarebbero stati sepolti i componenti di un gruppo di Bulgari fatti stabilire in quell’area dal duca di Benevento, Romualdo I, negli anni Sessanta del VII secolo. La notizia di questo insediamento è riportata da Paolo Diacono e alcuni elementi riscontrati in occasione degli scavi, quali la presenza delle sepolture dei cavalli accanto alle tombe degli individui adulti di sesso maschile e alcune caratteristiche antropologiche degli inumati, hanno spinto gli archeologi a ritenere effettivamente plausibile l’identificazione fra questo cimitero (e un altro rinvenuto non lontano, in
In basso il reliquiario del dente di san Giovanni, dono del re Berengario I. IX-X sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo di Monza. Realizzato in oro, il manufatto ha il fronte ricoperto da un’esuberante decorazione di gemme e perle, che si irradiano da un granato centrale a formare una stella a otto raggi.
A destra umbone di scudo in ferro decorato con laminette in bronzo dorato raffiguranti ippocampi, dalla necropoli longobarda di Boffalora d’Adda (LO). VII sec. Milano, Civico Museo Archeologico. In basso il gruppo della chioccia con sette pulcini in argento dorato e gemme per gli occhi, rinvenuto nella tomba di Teodolinda. IV sec. (la chioccia), VII sec. (i pulcini). Monza, Museo e Tesoro del Duomo di Monza.
I manufatti legati alla memoria di Agilulfo e Teodolinda sono capolavori assoluti dell ’oreficeria altomedievale
località Morrione) e il nucleo di guerrieri bulgari. Purtroppo, gli affascinanti reperti delle due necropoli molisane ancora non godono di un’adeguata visibilità museale, ostacolando il pieno apprezzamento dell’importanza del loro ritrovamento, che costituisce un episodio eccezionale per la comprensione della complessità culturale del regno longobardo.
Una prospettiva di lungo periodo
I musei fin qui ricordati narrano gli esordi della presenza longobarda in Italia, mentre molti edifici religiosi e aree archeologiche propongono un quadro articolato e affascinante sulla prospettiva di lungo periodo dell’insediamento e dei processi di trasformazione della società italiana fra il VII e l’VIII secolo e, limitatamente alle aree del Meridione, sino all’XI secolo, quando gli ultimi Stati longobardi furono cancellati dalla conquista normanna. Nel territorio italiano si conservano piú edifici di quanto non s’immagini, risalenti ai primi secoli dell’Alto Medioevo. Nella Val Venosta, per esempio, nell’estremo margine nord-occidentale della provincia di Bolzano, sopravvive un gruppo di chiese riferibili a questo periodo, la piú celebre delle quali è sicuramente S. Benedetto a Malles. Si tratta di un piccolo edificio a navata unica datato fra la seconda metà dell’VIII secolo e la prima metà del successivo, longobardi
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Siti e musei
Seppannibale (Fasano, BR). Un gruppo di figure (a destra) e un presbitero martire (in basso), particolari del ciclo di affreschi parzialmente conservato nel cosiddetto Tempietto della Masseria, un piccolo edificio religioso di cui non si conosce l’intitolazione. Fine dell’VIII sec. I temi dei dipinti, inconsueti e di una certa complessità, tra cui soggetti tratti dall’Apocalisse di San Giovanni, sono indice di una committenza di buon livello culturale.
Seppannibale
la cui parete di fondo, articolata da tre nicchie, conserva pitture di eccezionale interesse, fra cui troviamo i ritratti di due personaggi probabilmente identificabili con i committenti del ciclo decorativo. Uno di essi è un ecclesiastico, che offre a Cristo il modello della chiesa, e l’altro è invece un laico, rappresentato a figura piena, che stringe fra le mani una grande spada da combattimento. Quest’ultima è un’immagine assolutamente inconsueta nella pittura monumentale e, nella sua rarità, ci offre però un preziosissimo squarcio di luce sul coinvolgimento dei laici nel patronato degli edifici di culto cristiano, di cui molto parlano le fonti scritte.
Un castello sul Tagliamento
Proprio il cenno che ne fa Paolo Diacono ha permesso di rintracciare il sito del castello di Ibligo – l’odierno Invillino – nella valle del Tagliamento. Egli lo elenca tra le fortezze con cui i Longobardi avrebbero presidiato le vie d’accesso all’Italia attraverso le Alpi orientali e si è perciò a lungo pensato che esso fosse stato occupato e munito dopo il loro ingresso nel territorio della Penisola. Gli importanti scavi archeologici che vi sono stati svolti negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo hanno però rivelato che la sua storia è del tutto simile a 138
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In basso il complesso santuariale della grotta di San Michele a Olevano sul Tusciano (SA), conosciuta anche come Grotta dell’Angelo, un monastero e santuario rupestre composto da sette cappelle realizzate nel IX-X sec. all’interno di una cavità carsica, che conservano numerosi affreschi dei cicli cristologico e petriano.
quella di Castelseprio, e cioè che anche in questo caso si trattava di un sito fortificato in età tardo-romana che i Longobardi mantennero in efficienza. I resti riportati alla luce possono essere visitati, poiché il sito è oggi parte del Parco intercomunale delle Colline Carniche. Assai rilevante è il nucleo di chiese sopravvissuto nel territorio compreso fra Verona e il lago di Garda. Spiccano, in particolare, quelle del Salvatore e di S. Pietro in Mavinas a Sirmione, esempi fra i piú importanti di un tipo di chiesa – a navata unica e tre absidi – affermatosi probabilmente in rapporto all’esigenza di dotare gli spazi di culto, anche se di piccole di dimensioni, di punti di devozione adeguati all’accoglienza di culti diversificati. Tornando a Pavia, nella capitale del regno sopravvive purtroppo ben poco delle numerose chiese erette dai re longobardi e da altri personaggi in vista fra il VII e l’VIII secolo. Le cripte di due di esse, quelle di S. Eusebio e di S. Felice, conservatesi in parte nello stato originario, offrono solo un’idea pallidissima della qualità architettonica degli edifici del periodo. Per averne un’impressione piú precisa, è forse piú utile visitare i Musei del Castello Visconteo, che custodiscono reperti scultorei ed epigrafi di altissima qualità, recuperati proprio dagli edifici di culto scomparsi (i cui siti sono stati in alcuni casi interessati da indagini archeologiche). Peraltro, il museo pavese conserva anche una collezione di oggetti rinvenuti in necropoli si-
curamente utilizzate nell’età longobarda poste nei dintorni della città, sebbene ancora manchino indagini sistematiche su di esse. La stessa sorte avversa agli edifici di età longobarda ha afflitto Milano, dove però, come per Pavia, si può fare affidamento sulla collezione di reperti esposti al Museo Civico del Castello Sforzesco, nel quale sono stati radunati molti dei materiali recuperati nelle chiese e nei monasteri attestati in età longobarda e poi trasformati o scomparsi nel corso dei secoli. A poca distanza da Milano, merita sicuramente una visita il Museo del Duomo di Monza, il cui tesoro comprende oggetti legati alla memoria della regina Teodolinda e di suo marito Agilulfo e che possono aiutarci a capire a quale livello di raffinatezza si esprimesse, a pochi decenni dall’ingresso in Italia, la committenza artistica di piú alto livello nella società longobarda. Manufatti come la celeberrima «Chioccia di Teodolinda», le croci di Teodolinda e di Agilulfo e l’evangeliario donato da papa Gregorio Magno alla regina, sono capolavori assoluti dell’oreficeria altomedievale, dai quali si evince anche l’intensità dei rapporti con la Chiesa di Roma. Altrettanto rilevante è l’insieme di ampolle-reliquiario in vetro e metallo che contenevano l’olio che ardeva presso le tombe dei martiri di Roma e nei santuari della Terra Santa, che molto lasciano intuire sulla penetrazione della devozione cristiana nell’ambiente di corte già all’inizio del VII secolo.
Datazioni controverse
L’assenza di chiese interamente conservate a Pavia è parzialmente compensata dalla presenza, a non molta distanza dal capoluogo, del pregevole battistero di Lomello. L’edificio ripete una tipologia architettonica a pianta centrale, con il perimetro movimentato da esedre e vani quadrangolari, che riprende quasi alla lettera modelli dell’età tardo-antica. Per questo motivo, anche la datazione del battistero di Lomello è stata a lungo controversa, benché oggi si tenda piú o meno concordemente a datarlo tra la seconda metà del VII secolo e la prima metà dell’VIII. Scendendo a sud, nel territorio di Anghiari, in provincia di Arezzo, si conserva un edificio molto interessante, anche se ancora assai poco studiato: è la pieve di S. Stefano, che si presenta oggi con pianta quadrilatera, il cui ingresso è preceduto da un portico e i cui fianchi sono movimentati da altrettante absidi. L’esterno del corpo centrale è movimentato da grandi arconi, che (come nel caso del battistero di Lomello) presentano confronti di età tardo-antica. La planimetria richiama invece quella della S. Maria foris Portas di Castelseprio, e l’edificio è stato longobardi
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Siti e musei
perciò datato fra il VII e il IX secolo. Non lontano da Anghiari, nella già ricordata cittadina di Chiusi, accanto al Museo Archeologico, si trova il Museo Diocesano, che ospita una piccola ma interessantissima raccolta di epigrafi e di pezzi scultorei di età longobarda, provenienti dalle chiese della città; di particolare importanza è l’iscrizione che commemora i restauri condotti presso la chiesa di S. Mustiola, eseguiti al tempo di Liutprando, ricordato nel testo come catholicus rex. Ancora in territorio toscano, due siti indagati nella provincia di Siena – Miranduolo e Poggibonsi – hanno offerto informazioni di importanza incalcolabile sulla conformazione dei villaggi rurali di età longobarda, proponendo un quadro assai preciso dell’edilizia (prevalentemente realizzata in legno), l’organizzazione della vita familiare e sociale, l’economia e la produzione e i consumi propri di una piccola comunità che, quotidianamente, doveva confrontarsi con condizioni di vita ardue e faticose.
MARCO SALVADOR, un CANTORE DELL’EPOPEA LONGOBARDA
La stele funeraria di Niederdollendorf raffigurante il defunto nell’atto di pettinarsi i capelli, con in mano il suo scramasax, una fiasca ai piedi e circondato da serpenti, motivo associato al mondo dei morti nella tradizione germanica. VII sec. Bonn, Rheinisches Landesmuseum.
Nel 2004 è apparso il primo volume di una tetralogia che, per la prima volta, ha elevato le vicende dei Longobardi agli onori di un genere letterario che da qualche anno è tornato prepotentemente in voga: quello del romanzo storico. Il libro era intitolato, molto semplicemente, Il Longobardo e raccontava la storia di un personaggio (immaginario) vissuto nella prima metà del VII secolo e approdato, dopo varie vicissitudini, al servizio del re Rotari. Dopo questa prima fatica il suo autore, il friulano Marco Salvador, ha prodotto altri due volumi (La vendetta del Longobardo, del 2005, e L’ultimo Longobardo, del 2006) rispettivamente ambientati al momento della discesa di Carlo Magno in Italia e alla fine del IX secolo, quando ormai di longobardo rimanevano solo gli Stati dell’Italia meridionale. A questi tre titoli si è recentemente aggiunto (2013) un quarto romanzo – Il trono d’oro – incentrato sulla figura del principe Pandolfo Capodiferro che, nella seconda metà del X secolo, sedette sul trono di Benevento e Capua e per qualche anno riuscí a riunire sotto il proprio potere anche Salerno. Il grande valore dei romanzi di Salvador sta, oltre che nella loro coinvolgente forza narrativa, nella capacità di aver ambientato le proprie trame in scenari ricostruiti con minuzia ed esattezza quasi «archeologiche», riuscendo quindi a comporre una perfetta alchimia tra finzione letteraria e verosimiglianza storica. Alcune sue pagine dedicate, per esempio, alle descrizioni dei villaggi longobardi del VII secolo o al palazzo dei principi di Benevento del tardo VIII secolo o alle cerimonie e alle consuetudini della corte papale alla fine del IX valgono davvero quasi come la lettura di un libro di storia vero e proprio, senza però nulla togliere alla godibilità di un romanzo.
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Nel cassero della fortezza di Poggibonsi si può oggi fruire di un centro di visita che aiuta a comprendere i risultati dello scavo. A Spoleto, oltre che nella chiesa del Salvatore, memorie longobarde si possono ammirare nel Museo Nazionale del Ducato, allestito nella Rocca Albornoz: la raccolta comprende reperti provenienti da chiese e aree funerarie della città e del territorio. Analogo carattere presenta il Museo dell’Alto Medioevo di Ascoli Piceno, allestito nel 2014 nel Polo Museale di Forte Malatesta. Vi sono esposte alcune tombe della necropoli di Castel Trosino e materiali d’età altomedievale restituiti da scavi urbani.
Sotto l’egida di Carlo Magno
Nel Lazio settentrionale rimangono ancora molto rilevanti i resti di epoca altomedievale presenti nell’abbazia di Farfa (RI). Sorta e sviluppatasi nell’VIII secolo sotto la protezione dei duchi di Spoleto, l’abbazia ricevette protezione e attenzioni al tempo di Carlo Magno, quando
furono anche effettuati numerosi interventi di potenziamento delle sue strutture materiali. Di questi interventi si leggono ancora tracce evidenti, soprattutto nelle parti absidali della chiesa maggiore, di cui si conserva la cripta anulare con resti di decorazioni pittoriche. All’esterno di quest’ultima, le aree interessate da scavi archeologici negli anni Ottanta del XX secolo hanno permesso di verificare le fasi d’impianto del monastero sui resti di un preesistente insediamento di età romana. Analoga alla vicenda del monastero laziale è quella di S. Vincenzo al Volturno, fondato all’inizio dell’VIII secolo da monaci beneventani lí inviati proprio dall’abate di Farfa. Sebbene il momento del suo maggior sviluppo si dati al periodo successivo al 774, esso tuttavia, anche dopo le conquiste di Carlo Magno, continuava a ricadere nei territori «longobardi» di Benevento. Gli scavi condotti negli ultimi trent’anni ne hanno fatto l’area archeologica altomedievale piú importante d’Europa e mostrano come l’ambizione di un monastero entrato nel 787 nel novero di quelli direttamente protetti dal re dei Franchi si esprimesse con un linguaggio architettonico e artistico alimentato, per massima parte, dal retroterra culturale della tarda età longobarda. Nel Museo Archeologico Nazionale di Venafro sono esposti da un paio d’anni i reperti piú importanti rinvenuti a S. Vincenzo al Volturno, che costituiscono uno degli insiemi piú ricchi e diversificati attraverso cui conoscere l’arte e la tecnologia dell’Italia fra l’VIII e il IX secolo.
Le «capitali» della Langobardia meridionale
Di Benevento si è detto parlando di S. Sofia e dell’adiacente Museo del Sannio, ma giova ricordare che nella città sannita vi è, quasi a ogni angolo, traccia di interventi architettonici attribuibili alla lunga stagione in cui essa fu capitale di uno stato «longobardo», che comprendono per esempio le mura di cinta della città, la fase altomedievale della Cattedrale e la chiesa di S. Ilario a Porta Aurea. Altrettanto ricco è l’orizzonte delle altre due «capitali» della Langobardia meridionale, e cioè Salerno e Capua. Nella prima si segnalano soprattutto i resti attribuibili al palazzo fatto costruire in città dal principe Arechi II, e in particolare l’edificio del S. Pietro a Corte, interpretato come cappella palatina o come sala di udienze; ma non va dimenticato anche il castello che sovrasta la città, attribuito tradizionalmente allo stesso Arechi, ma in realtà di origine bizantina e poi ampliato e potenziato nei secoli della dominazione longobarda. Capua invece custodisce al proprio interno una notevole quantità di chiese databili fra il X e l’XI
Spoleto. La facciata della basilica di S. Salvatore, fondata nel VI-VII sec.
secolo, quando la città raggiunse il suo massimo splendore politico e culturale. Reperti epigrafici e scultorei di grande importanza – anche se ancora non adeguatamente valorizzati – sono visibili nel Museo Provinciale Campano. Sempre in Campania, non si può tralasciare la menzione di almeno due luoghi di culto sviluppatisi in ambiente rupestre: la chiesa dell’Annunziata a Prata di Principato Ultra (AV) e l’incredibile complesso della Grotta di San Michele a Olevano sul Tusciano. La prima, datata al tardo VIII secolo, è una basilica parzialmente ricavata entro una cavità tufacea, con l’area absidale (in cui si conservano ancora pregevoli resti di pitture) traforata da archetti che mettono in comunicazione con un ambulacro retrostante dal quale si accede alla grotta vera e propria. Il secondo è un complesso santuariale realizzato all’interno di una vasta cavità carsica. Qui, nel corso del IX-X secolo, sorse un gruppo di cappelle (sette in tutto), che costituivano probabilmente i diversi luoghi della devozione praticata dai monaci residenti nella struttura e, soprattutto, dai pellegrini che, a costo di notevoli fatiche, salivano sul fianco della montagna in cui si apriva la grande cavità in cui sorse il santuario. È abbastanza evidente come anche questo luogo di culto, davvero fra i piú sorprendenti e suggestivi che si possano immaginare, rappresenti l’ambiente piú adatto alla devozione per l’Arcangelo Michele, come già abbiamo visto parlando del santuario del Gargano. longobardi
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Il complesso dell’abbazia benedettina di Farfa, presso Rieti.
Proprio in Puglia, non molto tempo fa è stato scoperto un altro gioiello di architettura e pittura risalente all’VIII secolo, situato nelle campagne dell’entroterra brindisino: è la chiesa situata in località Seppannibale, nel territorio di Fasano. Si tratta di un piccolo edificio a pianta quasi quadrata di meno di 10 m di lato, diviso in tre navate, di cui la centrale è coperta da due corpi cupolati. Considerando che per molto tempo è stato utilizzato come fabbricato rurale, sorprende che all’interno se ne sia conservata quasi intatta la decorazione pittorica. La chiesa sorse alla fine dell’VIII secolo, probabilmente all’interno dell’area occupata da un villaggio che però, al momento della sua ricostruzione nelle forme in cui oggi la vediamo, doveva essere già abbandonato. Si è perciò pensato che il piccolo edificio abbia potuto fungere da luogo di culto a servizio di una popolazione sparsa che abitava nei dintorni. In ogni caso, la sua ricostruzione in questo periodo dovette essere promossa da un committente di un livello culturale abbastanza alto, poiché le pitture che lo adornano trattano temi di una certa complessità, come per esempio soggetti tratti dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni. Si è ipotizzata per questo la possibilità di un intervento diretto del vescovo che aveva competenza sul territorio, allora residente nella città di Oria.
Nell’altopiano delle Murge
Il nostro itinerario si conclude nei dintorni di Matera dove, lungo una delle gravine che solcano le colline circostanti la città, si apre la grotta detta del Peccato Originale. È questo uno dei piú antichi esempi dell’intenso utilizzo che, per tutto il Medioevo, l’uomo ha compiuto delle cavità naturali e artificiali dell’altopiano delle Murge, a cavallo fra Puglia e Basilicata. Le pareti e le volte della grotta sono interamente 142
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coperte di pitture che trattano temi dell’Antico Testamento, ma che comprendono anche immagini di santi e della Vergine, rappresentata con attributi regali, e anche dei tre Arcangeli, Michele, Gabriele e Raffaele. Fu riscoperta negli anni Sessanta del Novecento, dopo essere stata a lungo utilizzata come ricovero di pastori. Le decorazioni, datate fra l’VIII e il IX secolo, presentano affinità stilistiche strette con gli altri principali cicli pittorici della Langobardia meridionale, a riprova del fatto che il fenomeno dell’occupazione e della conversione al culto cristiano delle grotte in questi territori non ha necessariamente origini orientali. Questo breve itinerario alla scoperta dei luoghi che serbano memoria della cultura, dell’arte e della vita quotidiana dei tempi in cui l’Italia fu «longobarda» non pretende di essere esaustivo. Esso vuole piuttosto offrire uno spunto per comprendere come le tracce riferibili alle vicende del popolo che entrò in Italia nel 568 sono davvero diffuse a tutte le latitudini del nostro Paese e mostrano la profondità del suo radicamento all’interno dei processi storici che lo hanno caratterizzato. Parafrasando il nome con cui l’UNESCO ha riconosciuto valore universale a queste testimonianze, si può davvero dire che esiste un’Italia dei Longobardi; ma è arduo e sarebbe forse quasi inutile pensare a questo popolo come a una presenza distinta dal corpo vivo della storia italiana e in qualche modo a esso estranea. Siamo tutti davvero figli anche di quei secoli in cui l’eredità di Roma si mescolò e si fuse con un popolo apparentemente assai lontano. Ma che in realtà, come abbiamo visto, era cosciente dell’importanza della Penisola già prima di entrarvi, almeno quanto lo era delle proprie tradizioni, sedimentatesi nei lunghi secoli delle migrazioni attraverso l’Europa.
Dove e quando Museo Archeologico Nazionale Cividale del Friuli, piazza del Duomo 13 Info tel. 0432/700700; e-mail: museoarcheocividale@beniculturali.it www.museoarcheologicocividale.beniculturali.it
Museo nazionale del ducato Spoleto, piazza Campello 1 Info tel. 0743 223055; e-mail: sbsae-umb@beniculturali.it
Museo Cristiano e Tesoro del Duomo Cividale del Friuli, via Candotti 1 Info tel. 0432 730403; e-mail: info@mucris.it www.webdiocesi.chiesacattolica.it
Museo Archeologico Nazionale Chiusi, Via Porsenna, 93 Info tel. 0578 20177; e-mail: sba-tos.museochiusi@beniculturali.it; www.archeotoscana.beniculturali.it
tempietto longobardo (oratorio di s. maria in valle) Cividale del Friuli, piazzetta San Biagio Info www.tempiettolongobardo.it basilica del salvatore Spoleto, via della Basilica S. Salvatore Info tel. 0743 223833 Tempietto del clitunno Campello sul Clitunno Info www.tempiettodelclitunno.com Chiesa di s. sofia Benevento, piazza S. Sofia Info tel. 0824 21206; e-mail: info@santasofiabenevento.it santuario s. michele arcangelo Monte Sant’Angelo (FG) Info tel. 0884 561150; e-mail: info@santuariosanmichele.it; www.santuariosanmichele.it Museo Nazionale dell’Alto Medioevo Roma, viale Lincoln 3 Info tel. 06 54228199; http://archeoroma.beniculturali.it Santa Giulia, Museo della città Brescia, via Musei 81/b Info tel. 030 2977833-834; e-mail: santagiulia@bresciamusei.com; www.bresciamusei.com Civico Museo Archeologico Milano, corso Magenta 15 Info tel. 02 88445208; e-mail: c.museoarcheologico@comune.milano.it www.comune.milano.it/museoarcheologico Museo di Antichità Torino, via XX settembre 88 Info tel. 011 5212251; e-mail: sba-pie.museoantichita@beniculturali.it; www.museoarcheologicotorino.beniculturali.it Museo civico archeologico Fiesole, via Portigiani 1 Info tel. 055 5961293; e-mail: infomusei@comune.fiesole.fi.it; www.museidifiesole.it Museo Alto Medioevo Ascoli Piceno, Forte Malatesta Info tel. 0736 262833 oppure 298213
Museo del sannio Benevento, piazza S. Sofia Info tel. 0824 774763 Museo Sannitico Campobasso, Via Chiarizia 10 Info Tel. 0874 412265; http://archeologicamolise.beniculturali.it Musei Civici-Cripta di s. eusebio Pavia, Castello Visconteo, viale XI Febbraio Info tel. 0382 33853; e-mail: museicivici@comune.pv.it www.museicivici.pavia.it musei del castello sforzesco Milano, piazza Castello Info tel. 02 88463700; www.milanocastello.it Museo e tesoro del Duomo di Monza Monza, piazza Duomo Info tel. 039 326383; e-mail: info@museoduomomonza.it; www.museoduomomonza.it Battistero di S. Giovanni ad Fontes Lomello (Pavia), via Castrovecchio Info tel. 0384 85022 Museo della Cattedrale Chiusi, piazza Duomo 7 Info tel. 0578 226490; e-mail: museocattchiusi@alice.it Abbazia Benedettina di Santa Maria di Farfa Fara in Sabina (Rieti), via del Monastero 1 Info tel. 0765 277065; www.abbaziadifarfa.it Museo archeologico nazionale di Venafro Venafro, via Garibaldi 8 Info tel. 0865 900742; http://archeologicamolise.beniculturali.it abbazia di San Vincenzo al Volturno San Vincenzo al Volturno (Isernia) Info http://archeologicamolise.beniculturali.it; www.sanvincenzoalvolturno.it Museo Provinciale Campano Capua, via Roma 68 Info tel. 0823 620076; e-mail: museocampano@provincia.caserta.it; www.provincia.caserta.it/museocampano
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Bibliografia
per saperne di piÚ La letteratura scientifica sui Longobardi in Italia è a dir poco sterminata e in continuo aggiornamento. Qui si possono trovare alcuni riferimenti alle opere piú utili in circolazione e anche ad altre che, seppur di meno facile reperibilità, sono però assolutamente rilevanti per chi voglia farsi un’idea precisa sull’argomento. Le opere di piú recente pubblicazione sono quelle di Stefano Gasparri, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato (Laterza, 2013) e di Tommaso Indelli, Langobardía. I Longobardi in Italia (con prefazione di Claudio Azzara, Edizioni di Ar, 2013). La prima è piú utile per l’inquadramento generale dei problemi inerenti la natura e l’organizzazione della presenza longobarda e la sua collocazione all’interno dello scenario europeo del tempo, mentre la seconda offre un resoconto dettagliato sugli eventi, sulla struttura istituzionale e sociale della società longobarda e tratta anche il periodo successivo alla caduta di Pavia del 774, tutto incentrato sulle vicende degli Stati sopravvissuti nel Meridione d’Italia. Un’altra sintesi molto godibile è L’Italia dei barbari (Il Mulino, 2002) di Claudio Azzara, che, come annuncia il titolo, tratta anche delle altre presenze «barbariche» nel nostro Paese, ma dedica comunque uno spazio di primo piano ai Longobardi. Piú vecchia di qualche anno, ma sempre molto valida, è l’opera di Jörg Jarnut Storia dei Longobardi (Einaudi, 1995), che ha il pregio di riservare un’ampia sezione iniziale alle vicende anteriori al 568. Andando indietro nel tempo, non si può prescindere dalla lettura del Medioevo barbarico d’Italia di Gabriele Pepe (Einaudi, 1945, ma in seguito ristampato molte volte) e dai quattro volumi, intitolati L’età longobarda (Giuffrè, 1968), in cui sono stati riuniti tutti gli studi condotti da Gian Piero Bognetti, che può essere considerato il vero «padre» della storiografia moderna sui Longobardi in Italia. A un altro maestro degli studi su questo popolo, Paolo
Delogu, si devono l’esemplare affresco sulla storia del Regno longobardo apparso nel 1980 all’interno del I volume della Storia d’Italia della UTET, nonché una serie di saggi successivi, alcuni dei quali sono stati riuniti nel volume Le origini del Medioevo. Studi sul settimo secolo (Jouvence, 2010). Ma il suo lavoro forse piú singolare e suggestivo resta il saggio Mito di una città meridionale. Salerno (secoli VIII-XI), edito da Liguori nel 1980 (con successive ristampe), che compone l’esemplare ritratto di una città «longobarda» del Sud e della sua società. Sia Bognetti, sia – successivamente – Delogu hanno
In alto il mosaico di Euterio, da una doums ecclesiae dell’area patavina. IV sec. Padova, Musei Civici. I Longobardi si avvicinarono gradualmente al cristianesimo, fino a optare per la conversione. A sinistra cassetta per le reliquie del martire Felicianus. IV sec. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto anello con sigillo di Alarico II, una delle rare immagini di un sovrano barbarico. 484-507. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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molto contribuito allo sviluppo del dialogo fra studi sulle fonti storiche e archeologiche riguardanti il periodo longobardo. Nel 1990 è apparso un bellissimo volume, a cura di Stefano Gasparri e Paolo Cammarosano, dal titolo Langobardia (Casamassima Editore) nel quale, a suggello del primo trentennio di studi archeologici sui Longobardi, si trovano a confronto saggi sulle fonti scritte e materiali, redatti da rilevanti esponenti della medievistica italiana e internazionale come, oltre ai curatori e al già ricordato Paolo Delogu, Wolker Bierbrauer, Giovanni Tabacco, Lidia Capo e Paolo Peduto. Due anni prima, Alessandra Melucco Vaccaro aveva dato alle stampe la prima sintesi di carattere prettamente archeologico, dal titolo I Longobardi in Italia. Materiali e problemi, che, insieme al catalogo della mostra I Longobardi e la Lombardia, curata da Ottone d’Assia, Ermanno Arslan e Cate Calderini (Comune di Milano, 1978), ha costituito il punto di partenza di una serie di iniziative volte a far conoscere l’immenso e allora ai piú molto spesso sconosciuto patrimonio artistico e archeologico longobardo. La prima di queste è stata la grande mostra friulana del 1990, intitolata semplicemente I Longobardi, curata da Gian Carlo Menis (catalogo pubblicato da Electa), seguita un decennio dopo da quella allestita a Brescia e intitolata Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno, curata da Carlo Bertelli e Gian Pietro Brogiolo (catalogo Skira). Nel 2007 Torino ha poi ospitato I Longobardi. Dalla caduta dell’Impero all’alba dell’Italia, a cura di Gian Pietro Brogiolo e Alexandra Chavarria Arnau (catalogo Silvana Editoriale). Ultima, in ordine di tempo, è la rassegna Petala aurea, allestita a Chianciano Terme nel 2014, che espone splendide oreficerie longobarde provenienti dalla collezione Rovati. Il catalogo (Johan & Levi editore) è a cura di Marco Sannazaro e Caterina Giostra. Negli oltre sessant’anni della sua attività, il Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto ha dedicato numerose pubblicazioni e convegni al tema della presenza longobarda in Italia. I piú recenti sono quello tenutosi nel 1999 su Paolo Diacono e il Friuli altomedievale (edito nel 2001) e quello del 2002 su I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento (edito nel 2003). Sull’archeologia longobarda delle regioni centro-settentrionali si è invece concentrato il volume L’Italia centro-settentrionale in età longobarda (All’Insegna del Giglio, 1997), curato da Lidia Paroli, che è stata a lungo direttrice del Museo dell’Alto Medioevo di Roma. La storia militare dei Longobardi trova ampia trattazione nel libro, a cura di Pierandrea Moro, I Longobardi e la guerra. Da Alboino alla battaglia della Livenza (secc. VI-VIII), edito da Viella nel 2012, da accompagnarsi al volume L’esercito longobardo, 568/774,
a cura di Marco Balbi (Editrice Militare Italiana, 1991). Le principali fonti scritte sulla storia dei Longobardi sono ora tutte disponibili in traduzione italiana. La Storia dei Longobardi di Paolo Diacono è stata pubblicata, a cura di Lidia Capo, nella collana degli scrittori greci e latini della Fondazione Lorenzo Valla (Mondadori, 1992) e il corpus delle leggi, compreso il testo dell’Origo Gentis Langobardorum è interamente disponibile nel volume Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di Claudio Azzara e Stefano Gasparri (Viella, 2005). Da collegare a queste due opere è il volume di Francesco Lo Monaco e Francesco Mores, I Longobardi e la storia. Un percorso attraverso le fonti (Viella, 2012), nel quale alcuni saggi non solo ricostruiscono aspetti importanti della composizione dell’opera di Paolo Diacono, ma forniscono anche un quadro d’insieme sulla presenza dei Longobardi nelle fonti europee del VI-VII secolo. Infine, sul tema dell’etnogenesi e sul recente dibattito sulla fine del mondo antico e l’impatto delle migrazioni su di esso, sono da tenere presenti i volumi Tempi barbarici. L’Europa occidentale tra antichità e medioevo (300900), di Stefano Gasparri e Cristina La Rocca (Carocci, 2012), Le origini etniche dell’Europa. Barbari e Romani tra antichità e medioevo, di Walter Pohl (Viella, 2000) e La caduta di Roma e la fine della civiltà, di Bryan Ward Perkins (Laterza 2010). Da qualche tempo a questa parte sono finalmente disponibili on line risorse valide per la conoscenza dell’archeologia e della storia longobarda. Per iniziare l’esplorazione si possono utilizzare le piattaforme offerte dai siti di Reti Medievali (http://www.rm.unina.it/) e di Academia (www. academia.edu), nelle quali confluiscono in sempre maggior numero le ricerche di studiosi italiani e stranieri. Informazioni sul progetto Italia Langobardorum e sui monumenti che ne costituiscono i riferimenti sul territorio si possono consultare nei siti http://www.sitiunesco.it/ il-potere-longobardo-in-italia.html e http:// longobardinitalia.it/index.php/it/. Non sono molti invece i siti dedicati al patrimonio diffuso sul territorio: tra i migliori, si segnalano: http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/ storia/?unita=01.01, sul patrimonio artistico e architettonico della Lombardia, e http://www. bresciamusei.com/santagiulia.asp, sul complesso museale di Santa Giulia di Brescia. Per il Friuli, http:// www.tempiettolongobardo.it/_it/index.asp offre informazioni di buon livello sul Tempietto longobardo di Cividale, mentre per il Veneto si può fare riferimento a: http://www.archeoveneto.it/portale/?page_id=486
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